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Italian Pages 272 [270] Year 1997
LA LETIERA AGLI EBREI
Nel Nuovo Testamento la lettera agli Ebrei occupa un posto particolare per la lingua e la riflessione sulla verità di Cristo. L'ignoto dotto autore è uno dei grandi testimoni e predicatori del cristianesimo delle origini. Egli ha reso credibile il nuovo annuncio servendosi dei mezzi più affinati della prospettiva giudeo-ellenistica: la comunità dev'essere incoraggiata a dare prova nel proprio mondo della formazione cristiana e di come si possa giungere a essere cristiani. A questo appello sempre valido il commento di August Strobel dedica particolare attenzione. Nel vortice del tempo il sacrificio di Cristo risuona per la comunità come chiamata e promessa.
ISBN 88 394 0556 9
Nuovo Testamento Seconda serie a
cura di Peter Stuhlmacher e Hans Weder
9/2 La lettera agli Ebrei
Paideia Editrice
La lettera agli Ebrei August Strobel
Paideia Editrice
Titolo originale deli, opera:
f?.er Brief an die Hebriier Ubersetz und erktirt von
August Strobel
Traduzione italiana di Paola Florioli Revisione di Franco Ronchi
© Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen © Paideia Editrice, Brescia 1997
I 99 I
ISBN 88.394.0556.9
Indice del volume
9 13 13 13 14 15 16
Elenco delle abbreviazioni
14 15
Introduzione 1. La forma letteraria 2. Il tema dell'omelia 3· La lingua 4· La forma dell'omelia 5. La struttura 6. I destinatari 7· La datazione 8. L'autore 9· Il luogo di composizione 10. Lo sfondo storico - religioso e storico-tradizionale I 1. Filone I2. Testimonianza di un cristianesimo giudaico
27
Esordio e tema dell'omelia «Il Signore disse» (Sal IIo,I)
31
Parte prima «Siedi alla mia destra» (Sal. 110,1) (1,4-4,13)
74
Parte seconda «Tu sei sacerdote» (Sal. IIo,4) (4,I4-6,2o)
17
18 19 20 21
I07
I 74
Parte terza «In eterno secondo l'ordine di Melchisedec» (Sal. I I0,4) (7, I - I O, I 8) Parte quarta «Il Signore manderà lo scettro potente da Sion ... nel giorno dell'ira ... giudicherà» (Sal. I10,2.5 s.) ( I O, I9-12,29)
240
Parte quinta (appendice) Indicazioni per la vita dei singoli cristiani e della comunità, epilogo, notizie personali e saluti (13,1-25)
157
Bibliografia
8
Indice del volume
263
Glossario
26 5
Indice analitico
82 96 1I2 I 92 1 94
Excursus Un inno in 5,7 ss.? Il problema del secondo ravvedimento Elementi gnostici in 7,3? L'interpretazione del cap. 1 I Il concetto di fede della lettera agli Ebrei
Elenco delle abbreviazioni
Scritti biblici
Ab. Abacuc. Abd. Abdia. Agg. Aggeo. Am. Amos. Apoc. Apocalisse. Atti Atti degli Apostoli. Bar. Baruc. Cant. Cantico dei cantici. Col. Lettera ai Colossesi. I, 1. Cor. Prima, seconda lettera ai Corinti. I, 1. Cron. Primo, secondo libro delle Cronache. Dan. Daniele. Deut. Deu teronomio. Ebr. Lettera agli Ebrei. Ecci. Ecclesiaste. Ef. Lettera agli Efesini. Es. Esodo. Esd. Esdra. Est. Ester. Ez. Ezechiele. Fil. Lette ra ai Filippesi. Film. Lettera a Filemone. Gal. Lettera ai Galati. Gd. Lettera di Giuda. Gdt. Giuditta. Gen. Genesi. Ger. Geremia. Giac. Lettera di Giacomo. Giob. Giobbe. Gion. Giona. Gios. Giosuè. Giud. Giudici. Gl. Gioele. Gv. Vangelo di Giovanni. I, 1., 3 Gv. Prima, se conda, terza lettera di Giovanni. Is. Isaia. Lam. Lamentazioni. Le. Vangelo di Luca. Lev. Levitico. I, 1. Macc. Primo, secondo libro dei Maccabei. Mal. Malachia. Mc. Vangelo di Marco. Mich. Michea. Mt. Vangelo di Matteo. Naum Naum. Neem. Neemia. Num. Numeri. Os. Osea. 1, 1. Pt. Prima, seconda lettera di Pietro. Prov. Proverbi. I, 1. Re Primo, secondo libro dei Re. I, 1., J, 4 Regn. Primo, secondo, terzo, quarto libro dei Regni (LXX). Rom. Lettera ai Romani. Rut Rut. Sal. Salmi. I, 1. Sam. Primo, secondo libro di Samuele. Sap. Sapienza di Sa lomone. Sir. Siracide (Ecclesiastico). Sof. Sofonia. I, 1. Tess. Prima, seconda lettera ai Tessalonicesi. 1, .1 Tim. Prima, seconda lettera a Timo teo. Tit. Tito. Toh. Tobia. Zacc. Zaccaria. Scritti giudaici del 1/f/ sec. a. C.
Asc. Ies. Ascensione di Isaia (cf. Ebr. I I ,37). Hen. aeth. Libro etiopico di Enoc. Iub. Libro dei Giubilei. LXX Septuaginta {traduzione greca del l'A.T.). Ps. Sal. Salmi di Salomone (farisaici, LXX). Test. XII Testamenti
dei dodici Patriarchi (n sec. a.C., con interpolazioni cristiane; ad es. Testa mento di Giuda, di Levi, di Ruben, di Simeone).
Scritti giudaici del /f/1 sec. d.C.
Bar. syr. Apocalisse siriaca di Baruc. 4 Esd. Apocalisse di Esdra. Ps. Filo ne Liber Antiquitatum Biblicarum (1 sec. d.C., probabilmente posteriore
lO
Elenco delle abbreviazioni
al 7o ). Giuseppe Flavio Giuseppe (storico giudaico, ca. 40-Ioo d.C.): Ant. Antiquitates Iudaicae; Beli. Bellum Iudaicum; Ap. Contra Apionem (scrit to apologetico); Vita Vita Iosephi. 4 Macc. Quarto libro dei Maccabei (I sec. a.C./ I sec. d.C.). Test. Abr. Testamento di Abramo. Scritti di Qumran
CD Documento di Damasco. 1QS Regola della Comunità. 1QSa Appen dice alla Regola della Comunità. IQpHab Commento ad Abacuc. I QpPs Commento ai Salmi. zQz4 Frammenti dalla grotta 2. 4QFior Florilegium (grotta 4). 1oQPsa Scritto dalla grotta ro. I 1QMelch Scritto su Melchise
dec dalla grotta 1 1
•
Scritti giudaici della prima e della tarda età talmudica
Abot R.N. Abot de-Rabbi Natan, ampliamento dei Pirqe Abot (Talmud babilonese, «Sentenze dei padri») d'età tardo- e post-talmudica. bJeb. Tal mud babilonese, trattato Jebamot ( «Levirato» ) . bJoma Talmud babilone se, trattato Joma («Il giorno delle espiazioni»). bSanh. Talmud babilo nese, trattato Sanhedrin ( «Sinedrio» ). bTa 'an. Talmud babilonese, tratta to Ta'anit («Giorni di digiuno e di lutto»). Midr. Pesiq. R. Midrash Pe siqta Rabbati («Grande Pesiqta», raccolta di midrashim omiletici). mJoma Mishna, trattato J orna («Grande giorno dell'espiazione»). mPara (Mish na, trattato Para («La vacca rossa»). Syn. Zohar Sin ossi di Zohar; opera esegetica altomedievale della Cabala. Tanh. Bemidbar, tarda interpreta zione rabbinica del libro dei Numeri (v/vi sec. d.C.). Targ. Onq. Targum
Onqelos del Pentateuco, presumibilmente tardo I sec. d.C. e prima metà del n sec. d.C. Targ. Ps. Jon. Targum Pseudo-Jonatan del Pentateuco (tar da età talmudica). tB.B. Tosefta, trattato Baba batra («La prima porta»), sui rapporti giuridici nella vita comunitaria. Scritti cristiani della prima e della tarda epoca patristica (II/V sec. d.C.)
Acta Pauli Atti di Paolo (n metà del n sec. d.C.). Afraate , Sulla fede Afraate, vescovo siriaco del IV sec. d.C., Omelia sulla fede. Barn. Lettera di Barnaba (scritto giudeocristiano, metà del II sec. d.C.). Clem. , lac. Let
tera pseudoclementina indirizzata a Giacomo il Minore, premessa alle Omi pseudoclementine (GCS 195 3). I Clem. Prima lettera di Clemente (96 d.C. ca., Roma). Const. Ap. Costituzioni apostoliche (raccolta giuridica della chiesa primitiva, IV sec. d.C.). Epiph. , Pan. Epifanio di Salamina, scrit to sulle eresie (Iv sec. d.C.). Ev. Eb. Vangelo degli Ebioniti (opera giudeo cristiana dei primi anni del II sec. d.C.). Herm. Pastore di Erma (n sec. d.C., Roma): Sim. Similitudini (apocalisse, prima metà del 11 sec.); Vis. Viliae
Elenco delle abbreviazioni
II
sioni. Hipp. Ippolito di Roma (circa 160-235 d.C.): in Dan. commento al libro di Daniele; Ref.omn.haer.Confutazione di tutte le eresie. Ign.Igna zio di Antiochia (vescovo, I Io d.C. ca.): Magn.Epistola ai Magnesi; Smyrn. Epistola alla chiesa di Smirne. Iren., Haer. Ireneo (vescovo di Lione, t 102 d.C. ca.), Adversus haereses. lust. Giustino Martire (t 165 d.C. ca.): Apol. Apologia; Dial. Dialogo con l'ebreo Trifone. Mel., Pass. Melitone di Sardi, Omelia sulla pasqua (vescovo, omelia del 160 d.C. ca.). Grotta del Tesoro opera siriaca della scuola di sant'Efrem (Iv sec. d.C. ca.). Tert.Ter tulliano (apologeta cartaginese, t 220 d.C. ca.): Pat. La pazienza; Praescr. La prescrizione degli eretici; Scorp. Contro il morso dello scorpione ( ope ra an ti gnostica, 203 d.C. ca.). Ps.-Tertulliano appendice al De praescrip tione haereticorum (editio Gangneia}, III sec. d.C. ca. Letteratura profana greca e romana Cic., Verr. � Cicerone, Seconda orazione contro V erre (oratore e politico della tarda repubblica di Roma, Io6-43 d.C.). Epict., Diss. Epitteto, Dis sertazioni (ca. 50- I 30 d.C., seguace della stoa più recente}. Luciano , Mort. Per. Luciano di Samosata, La morte di Peregrino (raffinato scrittore greco
del II sec. d.C.).
Opere di Filone di Alessandria (ca. 10 a.C.-
so d.C.,
fondatore di una scuola esegetica veterotestamentaria giudeo-alessandrina)
Abr. De Abrahamo. Aet. De aeternitate mundi. Agric. De agricultura. Cher. De cherubim. Conf. De confusione linguarum. Congr. De con gressu eruditionis gratia. Dee.De decalogo. Deter. Quod deterius poti o ri insidiari soleat. Deus Quod Deus sit immutabilis. Ebr. De ebrietate. Flacc. In Flaccum. Fug. De fuga et inventione. Gig. De gigantibus. los. De Iosepho. Leg.ali.Legum allegoriae. Legat.Legatio ad Gaium. Migr. De migratione Abrahami. Mos. De vita Mosis. Mut. De mutatione no minum. Omn.prob.Quod omnis probus liber sit. Op. De opificio mun di. Plant.De plantatione. Poster.De posteritate Caini. Praem.De prae mis et poenis. Pro v. De Providentia. Quaest. Ex. Quaestiones in Exo dum. Quaest. Gen. Quaestiones in Genesim. Rer. Qui d rerum divina rum heres sit. Sacr. De sacrificiis Abelis et Caini. Sobr. De sobrietate. Somn. De somniis. Spec.leg. De specialibus legibus. Virt. De virtutibus.
I testi giudaici rabbinici possono essere reperiti in Str.-Bill. =H. Strack - P. Billerbeck, Kommentar aus Talmud und Midrasch III, 1926,671 ss. Le ope re di Filone di Alessandria sono disponibili in traduzione italiana nell' edi zione a cura di G. Reale e R. Radice (Milano 1994 ss.).
Introduzione
Se si confronta la lettera «agli Ebrei» con le lettere di Paolo conside rate autentiche, salta immediatamente all'occhio la sua struttura pecu liare. Per quanto attiene alla forma letteraria, manca il consueto pream bolo: il cosiddetto prescritto, completo di mittente, indicazione dei de stinatari, saluto e ringraziamento. Essa inizia immediatamente con una serie di importanti asserzioni, alle quali fanno seguito ampie pericopi che si susseguono l'una all'altra coerentemente, sviluppando in ogni a spetto il tema cristologico accennato nell'introduzione ( I , I -3 ). La lette ra esordisce come se si trattasse di uno scritto omiletico, ma si conclu de ( 1 3 ,22-2 5 ) come un'epistola (E. Gdisser). Dal punto di vista forma le ciò le conferisce un particolare carattere letterario. Il concetto cen trale riguarda l'esaltazione di Cristo «alla destra della maestà nei cieli» e fin dall'inizio riprende in modo programmatico il Sal. I I O. In tutte le affermazioni successive questo stesso salmo fornisce apertamente o in maniera implicita il fondamento biblico dal quale si erge la testimo nianza teologica dello scritto, unica e in un certo senso anche origina le ( 1 , 1 3; J , I ; 5,6; 6,20; 7,J . 1 . 1 5 . 1 7.2 1 .24.28; 8, 1 .1 2.20; I O, I J ; I 2,2). 1.
2. La lettera agli Ebrei si differenzia dalle epistole paoline sia per il lineare sviluppo del pensiero omiletico principale, al quale si unisce un interesse prettamente pratico, sia per il vivace avvicendarsi di proposi zioni di carattere esortativo e didattico. I testi esortativi hanno lo sco po di rafforzare la comunità interpellata nella fede nel Cristo innalza to, quelli didattici illustrano il motivo della maestà del Signore celeste: il suo sacrificio c il suo ministero di sommo sacerdote. L'osservatore moderno potrebbe essere incline a vedere in Ebr. l'opera speculativa teologica di un importante personaggio della chiesa delle origini esper to nelle Scritture. Probabilmente in questo modo verrebbe gravemen te frainteso il reale intento della lettera, che per originalità linguistica e argomentativa non ha pari nel N uovo Testamento. Nello scritto, che in 1 3,22 si definisce appropriatamente «parola di esortazione», ogni
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Introduzione
discorso mira alla perseveranza e alla speranza, alla fede e alla confes sione, non trascurando tuttavia di mettere sempre in luce anche il fondamento posto da Dio per raccomandare la necessità di tale atteg giamento. «L'esortazione che mira a fornire certezze non ha mai suc cesso se non ha una motivazione di base» (Herbert Braun). Ed è vero. L'autore sa che non si dà una salda decisione della volontà senza una più profonda comprensione di ciò che Dio ha compiuto in Cristo. Inoltre occorre sottolineare che a tale comprensione si deve giungere attraverso passi logici ed ermeneutici che paiono piuttosto singolari al cristiano di oggi. Ciononostante chi legge la Bibbia cercherà di com prendere quegli argomenti che mantengono certamente inalterato nel tempo il loro valore, anzitutto perché per Ebr. fede e vita del cristiano procedono necessariamente di pari passo, inoltre perché la testimo nianza del Cristo innalzato non ha base più solida dell'obbedienza del la sua fede, la miseria della sua sofferenza, l'enormità della sua morte e quindi la grandezza del suo sacrificio. In un certo senso questo scritto rappresenta un documento unico nel suo genere, perché se ogni con fessione di Cristo da parte del singolo e della comunità vuole essere qualcosa più che vuota declamazione, allora necessita della riflessione teologica della croce. Perciò non è certo un caso se qui la risurrezione non ha peso argomentativo fondamentale (v. soltanto IJ,2o), mentre è trattato a fondo il rapporto tra croce ed esaltazione di Cristo. Per il lettore moderno potrebbe risultare particolarmente difficoltoso riusci re a seguire passo passo lo sviluppo di pensiero della lettera partendo dalle sue stesse basi: l'ambiente, la religiosità, l'orizzonte di compren sione filosofico ermeneutico senz'altro singolare. Si tratta del mondo della fede filosofica ellenistica, nel quale la concettualità platonica ren de concrete ed esprimibili le realtà immateriali ultraterrene. A essa si affianca una religiosità di stampo prevalentemente rituale, che in ogni rapporto dell'uomo con Dio ritiene indispensabile il sacrificio. Non da ultimo, si tratta di un orizzonte di pensiero tipico degli scribi d'Israe le che - strettamente orientato al testo biblico - intende documentare e dimostrare partendo dalla sacra Scrittura dell'Antico Testamento il carattere nuovo e inaudito dell'evento di Cristo. 3·
La lingua tradisce uno spirito coltissimo. Eccone le caratteristi
che: vasto patrimonio lessicale, formazione delle parole piuttosto ri cercata e discorso sorprendentemente spigliato. Lo stile si distingue per
La forma omiletica
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i periodi elegantemente costruiti e per l'evidente volontà di esporre per argomentazioni. Interrogativi, giochi di parole, immagini, esempi, non ché l'impiego della Scrittura rendono la lettera un'opera d'arte retori ca che nel N.T. è senza pari; tuttavia non si è semplicemente di fronte a un trattato teologico, né tantomeno a una cosiddetta lettera artificia le. Redatta evidentemente per essere letta davanti a una certa comuni tà, le si adatta il carattere di progetto omiletico pensato per fare il mag gior effetto linguistico possibile. Tutto lo splendore del linguaggio at ticista e dell'elevata capacità retorica non sono fini a se stessi né pura ambizione letteraria, ma servono ad evidenziare che il discorso attuale è funzione e proseguimento della grande parola che da tempo imme morabile viene pronunciata ( I, I) e che nel Figlio ha preso forma unica ( x I,J). Quanto allo stile, si può a ragione ricordare che nell'esposizio ne l'uso frequente del comunicativo «noi», il personalissimo «voi» e l' «io» individuale non provengono affatto solo da uno stile retorico dell'autore, ma rappresentano un autentico elemento omiletico: «Qui è un predicatore che parla alla sua comunità» (H. Thyen). 4· La costruzione degli enunciati si attiene alla forma dell'omelia, co sì come era d'uso nella sinagoga della diaspora giudaica, ma sicuramen te anche nel culto cristiano primitivo delle comunità ellenistiche, am messo che riuscisse a mantenere un livello culturale tanto elevato. Dopo un preludio solenne, che lancia il tema biblico ricorrente con riguardo al Sal. I 1 o - l'esaltazione di Cristo, il Figlio ed erede promesso da tempi immemorabili -, seguono varie pericopi che danno fondamento al tema, approfondendolo e attualizzandolo. Noi ipotizziamo che al meno nelle espressioni più spiccatamente dottrinali emerga in maniera molto coerente il contenuto essenziale di questo salmo, che fin dall'i nizio rivestì indubbiamente un'importanza grandissima nella comuni tà primitiva. Il Sal. I IO è un testo fondamentale in immediata prossi mità del cosiddetto hallel (= Sal. I I J-I I 8), che anche durante la litur gia (pasquale) della chiesa antica dovette avere grande rilievo. Già la co munità giudaica lo aveva cantato durante il tempo pasquale, ma so prattutto nella notte solenne, cosicché si poteva affermare che in tale notte l' hallel spaccava i tetti della città santa. Ad ogni modo sono pos sibili alcune illazioni sull'immediato Sitz im Le ben liturgico. A una co munità variamente provata, forse anche disorientata e frustrata, biso gnava riuscire a infondere nuova certezza, risolutezza e speranza.
Introduzione
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Sull'esempio dell'omelia sinagogale il tema viene ampiamente spie gato con il ricorso a testi biblici, personaggi tipologicamente significa tivi e idee allegoriche ausiliarie. Continui raffronti con le verità fonda mentali dell'antica alleanza assicurano il carattere peculiare dell'even to di Cristo, mentre un ruolo rilevante spetta al modo di procedere per gradazione ascendente, «dal minore al maggiore». Un metodo dimo strativo non meno ricorrente è l'analogismo, grazie al quale nei con cetti che c'interessano è possibile procedere deduttivamente in modo non strettamente logico dal significato di una cosa o di una persona al significato superiore di analoga grandezza per la comprensione biblica. In complesso è l'allegoria il metodo che deve portare alla conoscenza di Dio e al discernimento delle più profonde verità divine (per Filone essa deve invece condurre alla visione di Dio). Questo presupposto spiega infine anche il procedimento della cosiddetta diairesis (divisione dei concetti), a volte riconoscibile all'inizio, per cui concetti generici forniscono il punto di partenza per una definizione particolare. Inoltre vi possono essere derivazioni etimologiche al servizio dell'interpreta zione simbolica (cf. 7, 1 -3). Stile declamatorio, procedimento metodico e tecnica interpretativa pongono senz'altro Ebr. molto vicino agli scritti di Filone d' Alessan dria (v. intr. 1 0). La ricerca più recente riconosce anzi in modo sempre maggiore il debito che la lettera ha nei suoi confronti, e il passo che porta a questioni di principio relative all'interpretazione dell'epistola è molto breve (v. H. Braun, Wie man uber Gott nicht denken soli, Tii bingen 1 97 1 ). Sembra che ultimamente si sia riusciti a chiarire abbastanza la com plessa struttura a più strati della lettera (A. Vanhoye ). Stando alle nuo ve indicazioni, bisogna tener conto non solo del collegamento tra pa role cardinali, com'è ormai tradizione, ma anche del criterio della ri presa del tema (la cosiddetta indicatio ). Inoltre è evidente che le singo le pericopi sono strettamente legate le une alle altre (la cosiddetta con catenatio ). Si è poi scoperto che l'autore ha evidenziato i confini delle trattazioni tematiche riprendendo determinati concetti all'inizio e alla fine (la cosiddetta inclusio) . N on da ultimo vi sono certe espressioni che sono tipiche delle singole unità (i cosiddetti termini caratteristici). Tutto lo scritto denota così nella disposizione un grandissimo impe gno intellettuale come pure la chiara volontà di giungere a una simme5.
l destinatari della lettera
I7
tria omiletica. L'evidente splendida padronanza dello strumento della retorica ellenistica sinagogale fa di Ebr. un documento del cristianesi mo primitivo unico nel suo genere, per cui si può parlare a buon dirit to di sermone messo per iscritto e inviato a una comunità. La struttu ra che qui proponiamo poggia sulla convinzione ulteriore che alla sua base vi sia il Sal. 1 1 0, fondamentale per il genere messianico (cf. Mc. 14,62 parr.; Atti 2,3 3 ss.; 5,3 I; 7, 5 5 s.; Rom. 8,34; 1 Cor. I 5,25 ecc.). Nel N.T. non vi è un altro passo veterotestamentario a cui si faccia così so vente riferimento (v. Str.-Bill. IV, I , 4 5 2-46 5 ). Gesù stesso davanti al tri bunale aveva delineato la propria futura posizione di potere ricorren do a tale salmo. Il lettore o ascoltatore viene immediatamente coinvol to in un processo di pensiero e di apprendimento pedagogico-omileti co, chiaramente caratterizzato da tappe elementari nell'interpretazio ne: I, 1-3, «Il Signore parla»; 1 ,4-4,13 , «Siedi alla mia destra>>; 4, 1 4-6,2o, «Tu sei sacerdote»; 7, I -1o, 1 8, «In eterno secondo l'ordine di Melchi sedec»; 10, 1 9-1 2,29, «Il Signore stende lo scettro potente da Sion ... nel giorno dell'ira giudicherà». Contenuto teologico determinante dell'e sposizione è una teologia del sacrificio come applicazione immediata e pratica di un'escatologia della croce. 6. I problemi re_lativi alla composizione sono molteplici. Chi sono i
destinatari? Apparentemente la lettera è diretta a una comunità giudeo cristiana ellenistica che ben conosce il culto giudaico e dalla quale ci si può quindi ben aspettare che si pieghi all'autorità dell'Antico Testa mento come testimonianza vincolante riguardante Cristo. Un'ulterio re dimostrazione può essere fornita dalla menzione dei «padri » ( 1 , 1 ) e dal fatto che alla parola della Scrittura sia riconosciuto senz'altra spie gazione il carattere di promessa, mentre il tema della chiamata dei gen tili non viene neppure sfiorato. Il cristiano che crede può essere certo della sua immediata appartenenza al nugolo dei testimoni. La figura di Abramo, ovviamente, interessa solo per quanto attiene significato ed esemplarità messianici (6,13 ss.; 7,4 ss.; 1 1 , 1 7 ss.), non per la sua im portanza ai fini della missione ai gentili. Questa circostanza è fin trop po evidente per non essere stata presa in considerazione al momento di fissare il canone (alla fine del n secolo) con la scelta del titolo «agli Ebrei». Da qui tuttavia emerge al tempo stesso anche l'imbarazzo del la chiesa posteriore, che indubbiamente non aveva più l'esatta cono scenza delle circostanze relative alla redazione. La nostra supposizio-
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Introduzione
ne è che difficilmente la lettera è stata scritta a cristiani della madre p a tria giudaica. Piuttosto bisogna pensare a una comunità della diaspora, per cui sorge l'interrogativo su dove trovare un gruppo giudeocristia no tanto chiuso in se stesso come quello qui supposto. Non volendo pensare a Roma (cf. I 3,24), che sia da ricercare magari nella parte o rientale dell'impero romano ? Vi sono vari particolari dello scritto che giustificano tale supposizione, ma sicuramente non è possibile propor re una spiegazione univoca (v. anche E. Gdisser). Per quanto vi siano avvertimenti a non abbandonare il cammino intrapreso e a non per dersi d'animo nella lotta della fede, la possibilità di un'apostasia a fa vore del paganesimo non viene trattata né presa esplicitamente in con siderazione in alcun punto. Considerato poi che non si fa alcun cenno a un pericolo giudaizzante incombente, ma solamente al timore di la sciarsi sfuggire la salvezza e di perdere la speranza, la lettera può esse re solo espressione della preoccupazione di un predicatore giudeocri stiano riguardo a una comunità giudeocristiana ( 2, 1 . 3; 6,6; 4, 1 ; I 0,3 8; 1 0,3 5 ; 3 , 1 8). In 3 , 1 2 inoltre l'apostasia dal Dio vivente viene interpre tata come «indurimento» del cuore, per cui neanche tale passo costitui sce un'eccezione. Inoltre 6, 1 ss. risulta particolarmente istruttivo, poi ché il pericolo che minaccia il lettore non è visto propriamente come apostasia, bensì come ricaduta nel tempo precedente della conoscenza imperfetta, della triste penitenza e delle opere morte. Oltre a ciò è si gnificativo il timore espresso riguardo al rischio di crocifiggere nuo vamente il Figlio di Dio esponendolo all'infamia (6,6). 7. La datazione può essere forse stabilita con più precisione. Dalle ultime osservazioni si può dedurre che la conversione al cristianesimo è avvenuta da tempo. E ancora, che già una volta, durante una perse cuzione che aveva richiesto sacrifici materiali, vi era stata una prova da superare ( I O,J 2 ss.). Tuttavia anche al momento attuale si è nel bel mezzo di una controversia per la quale è richiesta la massima vigilanza ( 1 2, 1 ss .). Ricordare le prove precedenti può tornare utile. Allo stesso modo anche ripensare all' «esito» dei maestri, che ne sta ad indicare non tanto il martirio quanto la morte esemplare, deve fornire ai lettori un utile criterio di comportamento retto ( 1 3,7). Le indicazioni che compaiono qua e là danno la certezza che la lette ra non dev'essere situata in epoca troppo precoce. Tenuto conto del l'accenno a Timoteo in I J ,2J, è esclusa una datazione antecedente al
L!tautore
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cosiddetto terzo viaggio missionario di Paolo intorno all'anno 5 315 5 d. (�. D'altra parte, poiché il culto giudaico del tempio, visto come istitu zione centrale di quell'epoca, è continuamente oggetto dell'argomen tazione teologica, non è possibile spostare la datazione a dopo la di struzione del tempio, avvenuta nel 70 d.C. Solitamente si suppone che Ebr. non possa aver avuto origine dopo la prima lettera di Clemente (attorno al 95 d.C.), che cita già lo scritto (36,2- 5). Ma che non si fac cia parola della svolta catastrofica dell 'anno 70 d.C., né la si prenda in considerazione in altro modo, consente a nostro parere di ipotizzare solo una datazione precedente a tale anno. Poiché è evidente che è ormai trascorso un certo periodo di tempo dalla fondazione della co munità (2,3; 5 , 1 2; 1 0,3 2; 1 2,4; 1 3 ,7), sarà opportuno datare la compo sizione attorno all'anno 6o d.C. Infine, 6, 1 0 sembra alludere alla gran de opera misericordiosa della colletta a favore di Gerusalemme, perse guita con impegno ed energia soprattutto a partire dal terzo viaggio missionario (2 Cor. 8,4; 9, 1 . 1 2 ; Rom. 1 2, 1 3 ; 1 5 ,26- 3 1 ), iniziativa che tuttavia risale già ad alcuni anni addietro. Tutte queste circostanze con corrono univocamente a sfavore di argomentazioni vaghe come quella secondo la quale 2,3 fisserebbe il luogo cronologico dell'autore e dei lettori nella seconda generazione cristiana, mentre il timore di nuove sofferenze alluderebbe certo all'epoca di Domiziano. Alcune indicazioni della lettera risultano ulteriormente chiarificatri ci, poiché sfruttano l'idea del periodo di attesa e penitenza del popolo di Dio nel deserto, durato quarant'anni (4,3 .7; al riguardo cf. Es. 23, 30 ), per applicarla alla situazione attuale della comunità di Cristo non ché per risalire implicitamente alla data della morte di Gesù e della sua esaltazione (cioè 30 d.C.). L'evidente schema di base di tale orienta mento storico-salvifico ed escatologico induce fortemente a situare in linea di principio l'autore anteriormente al 70 d.C. 8. L'autore stesso si sente strettamente legato alla comunità; forse in un primo tempo ha addirittura insegnato in essa, poiché solo così si spiegherebbe il desiderio espresso alla fine di esserle presto «restitui to)) (rJ , 1 9). Non soltanto l'incontestabile menzione di Timoteo, di scepolo di Paolo, ma anche determinati contatti con temi teologici dell'apostolo stesso (ad es. 6,8 ss. l 2 Cor. 6,2; 5, 1 2 l 2 Cor. J,I ss.; 6,13 ss. l Rom. 4,1 ss.; 1 0,3 7 ss. l Rom. 1 , 1 7 l Gal. J , I I ; r 1 , 1 ss. /Rom. 3 / Gal. 3 ) fanno pensare a una personalità che forse aveva contatti con questa
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Introduzione
grande figura. Tuttavia l'autore dev'essere stato un pensatore indipen dente di grande statura teologica. Assolutamente irreale è l'argomentazione relativa a un'affinità spiri tuale con Luca e Atti, che ogni tanto riaffiora. A titolo di esempio, i contatti linguistici che si ritrovano sono dovuti esclusivamente a un'a naloga formazione filosofica ellenistica, che però nel caso di Ebr. va piuttosto nella direzione di Alessandria (Filone). L'indovinello vero e proprio a nostro parere riguarda l'identità del l'autore. Considerando il livello dell'importanza teologica della lette ra, inizialmente il quesito è del tutto irrilevante. Esso tuttavia s'impo ne in modo affatto naturale quando si va a guardare la grandezza e l'eleganza dello scritto. Consideriamo l'abbondanza di nomi proposti (Luca, Clemente Romano, Sila, Apollo, Barnaba, Aquila e Priscilla, Timoteo, Giuda, ecc.): il puro e semplice esame dimostra che in fondo solo il riferimento ad Apollo è degno di nota. Grazie agli Atti e ad al cune indicazioni sparse nel corpus paolino, siamo abbastanza infor mati per quanto concerne la personalità di questa fi gura e la sua opera missionaria (v. I o). Alcune circostanze rafforzano forse tale supposi zione, formulata per la prima volta da Lutero ( 1 5 22 e I 5 37): ad esem pio che durante il cosiddetto terzo viaggio missionario Apollo prese contatti con Paolo e Timoteo, a quanto pare lavorando addirittura in sieme a loro pur restando comunque autonomo ( r Cor. I 6, 1 2). Vedia mo inoltre che anche altrove ha rapporti con la cerchia dei discepoli di Paolo (Tit. J, I 3), e che evidentemente gode di ottima fama come pre dicatore itinerante e missionario ( 1 Cor. 1 , 1 2; 3,4 s.6). È possibile che il suo campo d'azione coincidesse in tutto e per tutto con quello della missione paolina, ma non si sa praticamente nulla di come visse poi all'incirca negli anni sessanta - né del suo successivo operato a Roma. Se si vuole tener buona l'ipotesi della coppia missionaria Timoteo Apollo, allora è ovvio che anche la proposta relativa ai destinatari (comunità di Corinto o Efeso) risulterebbe particolarmente plausibile. A Corinto vi erano seguaci di Apollo (Atti 1 8,27), e d'altra parte Efe so (Atti I 8,24 ss.) rivestiva per entrambi il ruolo di comunità madre. Purtroppo però, vista la carenza di documentazione, non si può anda re al di là di supposizioni e probabilità. 9· Riguardo al luogo di composizione, una certa forza espressiva e merge soprattutto nella frase conclusiva: «Vi salutano quelli dell'Ita-
Lo sfondo storico-religioso e storico-tradizionale
2I
lia» . Da un punto di vista puramente formale sarebbe possibile appli care la frase sia a un gruppo che saluta dall'Italia, sia a un gruppo che si trova lontano e manda i suoi saluti ai connazionali in Italia. Effetti vamente vi erano comunità del genere, come testimonia la chiesa do n1cstica raccolta attorno ad Aquila e Priscilla (Atti 1 8,2; 1 Cor. 1 6, 1 9). Che la frase discussa segni la fine della lettera, e che inoltre sia formu lata in modo piuttosto generico e vago, interviene comunque a favore dell'ipotesi che lo scritto provenga dall'Italia. I destinatari vanno per ciò ricercati nella parte orientale dell'impero, ma non certo ad Alessan dria, della cui prima comunità cristiana non si sa nulla. N on si tratta neppure della chiesa gerosolimitana, dato che vi è l'accenno alla collet ta. Come suggeriscono le indicazioni restanti, è preferibile pensare a una comunità nell'ambito dell'azione missionaria di Paolo durante il suo terzo viaggio, composta in prevalenza da giudeocristiani. Poiché anche Timoteo, definito «nostro fratello», immediatamente dopo la li berazione - dalla prigionia, a quanto pare - intende recarvisi senza in dugio insieme all'autore, certo perché vi si sente di casa, si può pro porre con una certa riserva Efeso o Corinto, o comunque una chiesa di una certa importanza in territorio greco o dell'Asia Minore. Da qui si giungerebbe anche a una spiegazione abbastanza plausibile del co me e del perché questo scritto poté essere inserito in una delle prime raccolte delle epistole paoline, dal momento che tali raccolte, come sug gerisce il patrimonio epistolare esistente, devono essere accettate dalle chiese suddette. 1 o. Il problema dello sfondo storico-religioso e storico-tradizionale della lettera è ulteriormente gravato da una questione: lo scritto neo testamentario, che apparentemente ha basi in prevalenza veterotesta mentario-giudaiche, davvero è al tempo stesso anche uno scritto fon damentalmente ellenistico (così E. Gdisser) ? Prima di prendere posi zione a favore o contro tale ipotesi, occorre chiarire alcune circostan ze. Anzitutto è da riconoscere che il giudizio richiesto può essere e messo soltanto se, con il miglior senso critico, si distinque tra presup posti spirituali e discorso testuale, oltreché tra strutture dirette e indi rette di un enunciato. In secondo luogo i concetti «gnostico», «esse no», «ellenistico» o «apocalittico» devono risultare talmente univoci da impedire qualsiasi analisi poco chiara in cui alla fin fine un'etichet ta possa venire scambiata con un'altra- come se un'affermazione apo-
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Introduzione
calittica potesse essere considerata anche gnostica perché in fondo l'a pocalittica in quanto fenomeno del mondo giudaico ellenistico è già anche «gnosi». Simili giochetti mentali non possono certo essere di al cun aiuto. Le considerazioni che seguono partono dal presupposto che gnosi e apocalittica sono fondamentalmente diverse nella sostanza. Ci rifiu tiamo perciò di trattare la teologia di Ebr. inserendola nella categoria di una « gnosi apocalittica>> - categoria discutibile secondo la prospet tiva della storia delle religioni - (come fa invece H. Koster). Inoltre non ce la sentiamo di vedere nella lettera una testimonianza della lotta per lo «sviluppo dell'eredità paolina», il che costringerebbe a colloca re la lettera negli ultimi due decenni del 1 sec. In tale tendenza non vi è nulla di cui tener conto. L'autore di Ebr. , a nostro parere, va inserito piuttosto nell'ambito dell'opera missionaria paolina posteriore {attor no al 6o d.C.), dalla quale però va chiaramente distinto come persona lità teologica indipendente (v. paragrafo 8). Emerge che la testimonianza di Ebr. nasce da un ambiente spiritua le affine in ogni sua parte essenziale al mondo ideativo teosofico di un Filone di Alessandria. Tutt'al più nella sezione (neoplatonica) inizia le si possono individuare determinati collegamenti con quel movimen to tardo che definiamo gnosi e che, come è noto, soltanto nel II secolo si presenta in una certa forma compiuta. Tuttavia sarebbe sicuramente errato voler individuare in Ebr. elementi gnostici già inequivocabili oppure una critica mirata contro di essi, per giudicare con il loro aiuto il carattere singolare dello scritto. Le frasi sulla preesistenza del reden tore si adattano senza problemi a un linguaggio filosofico e a un mon do di pensiero strettamente affini a Filone (v. sopra, I e 3). L'idea tipi ca di una «discesa del redentore attraverso i mondi celesti» non è asso lutamente ripresa in 9, I I s.24 s., ove si parla dell'ingresso nel santua rio celeste. Parimenti, i presupposti del pensiero alessandrino filonia no emergono in 7, I-3 con tanta forza da confutare l'opinione che qui vi sia un'allusione alla «incarnazione di un uomo primordiale» in sen so·specificamente gnostico. Anche il concetto gnostico dell'origine co mune (di esistenza) di redentore e redenti è totalmente estranea al no stro autore. Secondo 2, I I , i cristiani affermano di derivare da Dio non a motivo della natura celeste, ma perché vivono con lui un rapporto di dipendenza creaturale. Infine, sia per Ebr. sia per Filone, è tipica l'idea del viaggio di ritorno alla patria celeste, tanto più che alla sua base vi è
Lo sfondo storico-religioso e storico-tradizionale
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la tematica biblica dell'esodo, non la concezione specifica di un'ascesa a livelli di esistenza sempre più elevati . Ebr. presenta un quadro del mondo sostanzialmente più semplice. Il vero mondo è quello celeste; esso è l'esistenza eterna. Il mondo terreno con le sue effimere istituzioni non è altro che una «copia» del la più alta realtà di Dio. In Ebr. , questa distinzione caratteristica viene operata principalmente in considerazione delle istituzioni cultuali del giudaismo. Mentre il sacrificio di Cristo, unico cd eterno, è stato offer to nel santuario celeste, alla fine dei tempi, il culto sacrificate cultuale del popolo giudaico è stato compiuto fino a questo momento intera mente nella provvisorietà effimera del vecchio tempo. Questo modo di veder le cose ovviamente non è una dimostrazione né dell'impron ta gnostica della lettera agli Ebrei, né di una forma precoce di gnosi; piuttosto è analogo alla visione alessandrina filoniana, corrisponden te in tutto alla concezione (neo )platonica e stoica secondo la quale la realtà celeste supera radicalmente il mondo terreno corruttibile (cf. in particolare Str.-Bill. III, 702 ss. su Ebr. 8,5). In tal modo alla testimo nianza dell'Antico Testamento su sommo sacerdozio, culto e sacrifi cio viene strappato un ultimo più profondo significato. La lettera agli Ebrei si trova indiscutibilmente su questo piano di pensiero dell'in terpretazione alessandrina filoniana della Scrittura e del mondo, tut tavia l'autore compie un altro importante passo avanti mettendo in re lazione, con rigore tipologico, tutto l'evento cultuale sacerdotale con l'adempimento in Cristo. Riflette dappertutto le premesse veterote stamentarie del culto giudaico, con le sue istituzioni e figure, la perso na e opera del messia Gesù (cioè nel senso di una tipologesi stretta mente riferita a Cristo). In questo modo si pone un limite ben preciso alla sconcertante molteplicità d'interpretazioni allegoriche (al riguar do v. Sh. Nomoto) . A ciò, oltre alla concezione del mondo neoplato nica filoniana che fa una netta distinzione tra valori terreni e celesti, si aggiunge la grandezza veramente preminente di un'attesa escatologica che va dritta al suo scopo. Essa dà proseguimento alla speranza uni versale del giudaismo rabbinico e apocalittico, ancorché nella novella forma dell'escatologia del cristianesimo primitivo in genere. L'esalta zione del Crocifisso qui diviene l'atto escatologico per eccellenza, per mezzo del quale alla comunità si schiude l'accesso prossimo e definiti vo al santuario celeste (xo,19 ss.32 ss .). Tale atto di perfezionamento diventerà presto realtà se la comunità s'impegnerà con tenacia resisten-
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Introduzione
do fino alla morte nelle avversità di persecuzioni dall'esterno; nel frat tempo bisogna cominciare a guardarsi bene dal «rifiutare colui che parla! » ( I 2,2 5 ). Il cap. I2 si inserisce perfettamente nel consenso gene rale riguardo a un'attesa escatologica universale della comunità cristia na delle origini (6, I s.). La speranza in un «regno incrollabile» prepa rato da Dio per la sua comunità è senza cedimenti (I 2,28). La nostra interpretazione terrà nella debita considerazione l' estre ma vicinanza agli scritti di Filone (cf. sopra, p. 1 I, la raccolta delle sue opere). Anche la dipendenza letteraria da essi non va affatto esclusa (diversamente R. Williamson), tanto più che si riscontrano continui contatti (cf. a 6,I6.19; 7, I - 3.25; 8,5; 9,1 5 . I 9; 1 1 ,2 ecc.). Tutt'al più pos sono essere riprese indirettamente certe tradizioni essene, ragion per cui nel commento non verranno sempre approfondite. Sotto un certo aspetto, l'escatologia universale di Ebr. va vista come criterio per una adeguata collocazione storico-religiosa della lettera. Per determinare la posizione dell'autore non si cercherà, pensando al successivo pensiero protocattolico, di dare una risposta alla questio ne se e in che misura lo scritto introduca uno sviluppo che prende le mosse dalla concreta attesa della seconda venuta. Piuttosto bisogna stabilire che cosa la lettera stessa reputi necessario di fronte alla senti ta problematica del ritardo della parusia. Si evidenzia così che - pro prio come il più antico cristianesimo (Paolo e i sinottici) - essa non dà un'interpretazione diversa, ma reagisce vivacemente proponendo una attesa immediata e raccomandando alla comunità interpellata la neces sità della perseveranza. Alquanto discutibile, sebbene spesso sostenu ta dalla ricerca, è quella «certa trasformazione della tradizionale esca tologia (orizzontale) in verticale», che viene spesso effettuata, anche se non senza tensioni, con l'aiuto di contenuti concettuali alessandrini (così E. Grasser). Laddove la lettera approfondisce maggiormente la speranza dei cristiani, pensa sempre in modo concreto-temporale, an che quando in altri temi (come quello del santuario celeste) a chiedere la parola sono segnatamente i concetti filosofici di una spazialità tra scendente. 1 I. Ma chi era dunque Filone, dal quale andò a scuola il nostro au tore per trarre vantaggio, lui cristiano, dalla sua arte di interpretare la Scrittura ? Filone nacque intorno al 20 a.C. ad Alessandria. Cresciuto in una tradizione di formazione giudeo-ellenistica, si dedicò a deter-
Testimonianza di un cristianesimo giudeocristiano
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minare il permanente contenuto di verità dell'Antico Testamento ser vendosi dell'interpretazione allegorica, metodo ermeneutico corrente. Come autore Filone fu insolitamente produttivo e influente. Rivestì inoltre cariche direttive nell'importante comunità giudaica di Ales sandria. Relazioni di parentela gli schiusero l'accesso alla corte impe riale di Roma, tanto che nel 40 d.C., in qualità di capo di una delega zione, poté difendere interessi giudaici basilari nella protesta contro un culto imperiale problematico. Dagli scritti di Filone si può dedurre molto bene come doveva svolgersi l'omelia sinagogale giudeo-elleni stica ad Alessandria. L'allegorica profondità di pensiero di una fervida interpretazione degli scritti veterotestamentari, in particolare del Pen tateuco, fa pensare all'esistenza di una cerchia piuttosto ampia di di scepoli di Filone, con la quale va messo in relazione l'autore della let tera agli Ebrei. Quando questi conobbe la fede cristiana gli si schiuse ro nuovi orizzonti di comprensione e certezza. La storia dell'efficacia di questa lettera - che, come riteniamo, un tempo era profondamente inserita nell'ambito della predicazione cristiana più antica e della ri flessione teologica della prima chiesa - naturalmente si svolse sempre nella tensione tra rifiuto e riconoscimento (al riguardo v. specialmente E. Grasser). 12. Riassumendo, ricordiamo che Ebr. va intesa come testimonianza di un cristianesimo primitivo giudeocristiano, che ha sì espresso in chiave
ellenistica l'evento di Cristo, ma intendendo lo in modo assolutamente apocalittico. Sarà compito del commento trasformare ermeneutica mente tale importante conoscenza così che la struttura rivelatoria del l' evento renda possibile la comprensione odierna di quell'evento. In altre parole, il mistero divino e salvifico della croce va espresso nel linguaggio di oggi come «escatologia della croce)) eternamente valida. Con questa espressione intendiamo il duraturo significato temporale cd escatologico della croce, e questo in modo tale che su questa terra la vita dell'uomo acquisti senso eterno e futuro durevole solo attra verso il sacrificio. Il criterio ultimo di misura per tutto questo è dato dal sacrificio di Cristo. In conclusione si può affermare con H. Hegermann (p. 2 5) che il fondamento della fede e l'intento omiletico centrale dell 'anonimo au tore cristiano possono essere espressi con un'unica frase: non c'è altra certezza al di fuori di quella proveniente dalla parola stessa. Il giura-
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Introduzione
mento divino (Sal. 1 1 0,4) è l'estrema possibilità di cogliere Dio in questa parola, e proprio in virtù di questa la promessa salvifìca deve diventare per il credente certezza incrollabile. La fede nella misericor diosa rivelazione escatologica e definitiva di Dio nell'evento di Cristo sostiene e sprona la vita dell'uomo. Tutta la profondità della riflessio ne sul sacrificio di Cristo sfocia così in ultimo nell'esortazione al di scepolo alla donazione e al sacrificio di sé.
Esordio e tema dell'omelia: «Il Signore disse» (Sal. I 1 o, I)
L'esaltazione del Figlio è la conclusione escatologica di un evento della parola del tempo primordiale (I, I -J ) Dopo aver parlato ai padri nel tempo passato più volte e in molte manie per mezzo dei profeti, 2 Dio ha parlato a noi nel tempo ultimo, ai nostri giorni, per mezzo del Figlio, che costituì erede dcii'universo e mediante il quale creò anche i mondi. 3 Egli, che è lo splendore della sua gloria e im magine perfetta della sua sostanza e che con la potenza della sua parola so stiene l'universo, «ha preso posto alla destra» della maestà nei cieli, avendo compiuto (per mezzo di sé) una purificazione dei peccati. 1
re
3 Sal. 110, I.
1 -3. L'esordio, di tono piuttosto solenne, affronta immediatamente il tema del discorso omiletico: la costituzione del Figlio a dominatore escatologico secondo il Sal. I I O. Il periodo, elaborato con la massima cura in ogni singolo particolare, presenta con parole concise e pre gnanti l'importanza globale del Cristo esaltato. La mancanza di un'introduzione vera e propria (il cosiddetto pre scritto) suscita tutta una serie di questioni. Forse che l'inizio origina rio è stato sostituito in epoca precedente al canone da questo esordio, abilmente costruito sotto l'aspetto e linguistico e stilistico, allo scopo di sottolineare la validità universale dello scritto ? Invece del solito for mulario epistolare greco ne è stato adottato un altro ? Che a un certo momento l'usuale introduzione sia stata eliminata, per caso o inten zionalmente ? Che addirittura non si tratti neppure di una lettera, ben sì di un trattato redatto occasionalmente ? La nostra ipotesi è che ci troviamo davanti a una predica (omelia) sul Sal. I IO riportata in forma epistolare, di fatto destinata a una precisa comunità cristiana a cui fa cenno il cap. 13. Come per tutte le lettere, l'indirizzo esterno è andato perduto. L'indirizzo interno, probabilmente brevissimo, potrebbe es sere caduto in disuso con Vutilizzo frequente dello scritto. In modo ancora più accentuato che in alcune epistole paoline, in E br. è eviden-
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Ebr.
I,I-J.
L'esaltazione del Figlio come conclusione escatologica
te che forma e contenuto erano strettamente funzionali alla lettura da vanti a una determinata comunità. L'esordio costituisce un capolavoro stilistico che la traduzione può rendere in modo solo approssimativo (v. le cinque allitterazioni nel pri mo versetto). Il testo originario evidenzia inoltre uno stile con un cer to ritmo che nel quadro della celebrazione liturgica trasforma immedia tamente l'omelia in evento solenne. Questo esordio linguistico è infi ne una chiara prova che Ebr. , con le sue «figure di linguaggio» accom pagnate dalle «figure di pensiero», manifesta una certa tendenza lin guistica alla «prosa artistica attica», una prosa che appartiene al com pleto bagaglio stilistico di un cristiano erudito del mondo giudeo-elle nistico (cf. Filone, So mn. 1 ,22 I; Flacc. 46; Cber. I I 2 ). 1. Le riflessioni prendono le mosse dall'unico Dio della fede biblica, autore di tutte le cose e mistero primo del mondo, certamente non pu ra e semplice causa o principio onnicomprensivo bensì persona onni potente orientata a una rivelazione verbale. Quando si sottolinea che tale rivelazione è avvenuta «più volte» e «in molte)) maniere, ci si sof ferma sul suo carattere qualitativo e quantitativo, ossia sulla sua pie nezza infinita e le sue mille possibilità; infatti vario come la storia del l'umanità è anche l'agire di Dio nei confronti dell'uomo, creato me diante chiamata. Ma la parola di Dio non si trasfigura addentrandosi in profondità mistiche né si espande panteisticamente nelle vastità del l'universo. Essa interroga sempre direttamente, ed è sempre la singola persona a essere interpellata. Perciò vi è una storia della rivelazione e un movimento della parola nel corso delle epoche sin «dai tempi anti chi))' cioè dalla preistoria. Così, per l'uomo che pensa in termini bibli ci, la storia della salvezza che può essere tratta dall'Antico Testamento va vista necessariamente alla luce della riflessione e della memoria. È la storia dei «padri» chiamati, che vengono visti tutti come oggetto della chiamata di Dio (cap. I I). Probabilmente non si pensa a singoli patriarchi come Abramo, !sacco o Giacobbe, bensì, in senso lato, ai cre denti del popolo di Dio veterotestamentario, in quanto si distinguono dai «profeti)) ai quali spettava l'elaborazione della parola specifica. Lo sguardo sembra appuntarsi in particolare su personaggi profetici co me Samuele, Elia, Isai a e Geremia, dunque su messaggeri della parola di D io che, singolarmente e in solitudine, hanno sofferto per il loro popolo e ad esso hanno parlato (v. anche I 1 ,32 ss.). L'autore vede la storia della parola di Dio anche come storia dei suoi testimoni, traden-
Ebr.
I,I-J. L'esaltazione del Figlio come conclusione escatologica
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do così la propria appartenenza al popolo giudaico. Egli considera con cluso il tempo della testimonianza profetica della parola di Dio, così come nella sinagoga si pensava che con Malachia il tempo della rivela zione dello Spirito di Dio fosse giunto a temporanea conclusione. Per l'autore della lettera tale epoca in sostanza è remotissima. Si trattava di un tempo in cui Dio aveva parlato solo in modo incompleto e mol to frammentario, forse addirittura in modo alquanto oscuro. Solo in età più recente la storia della diretta rivelazione di un tempo è giunta al suo fine e compimento, superando ogni evento passato: «Dio parlò a noi nel tempo ultimo, ai nostri giorni» . Chi ascolta o legge la lettera può considerarsi chiamato e interpellato . .1. Ecco la novità: ora la parola è diffusa illimitatamente, ma soprat tutto l'evento di rivelazione si è concluso alla fine del tempo nell'uni co figlio (cf. Sal. I I o, I a). Alla storia della parola di Dio di prima se ne è affiancata un'altra più completa che non può più essere superata. È stata presa un'ultima decisione in favore dell'uomo. Il «Figlio» viene presentato come ultimo depositario della rivelazione nella catena sto rico-salvifica dei testimoni profetici d'Israele. Idealmente le riflessioni ci portano vicino all'immagine sin ottica di Mc. 1 2, I ss. («figlio», «ere de», citazione: Sal. I 1 8). Il concetto di «erede» è tratto per lo più da Sal. 2, 8. Colui che Dio ha previsto dall'inizio dei tempi come erede, quando per suo mezzo creava i «mondi» (= eoni), è anche scopo e fine di tutte le cose e dunque contenuto vero e proprio del mistero di Dio in questo mondo e al di là di esso (v. anche Col. 1 , 1 6). L'essenza della fine non è altro che l'essenza dell'inizio e viceversa. Qui sembra rie cheggiare una tradizione confessi Ònale liturgica del primo cristiane simo, insieme a un tema tipico soprattutto dei discepoli di Paolo, ma che nell'apostolo incontriamo solo occasionalmente ( 1 Cor. 8,6). Co lui che ha messo in moto i tempi eterni ne è al tempo stesso anche il compimento. Dalla serie di affermazioni che seguono possiamo de durre con quanta insolita forza si potesse percepire il paradosso delle idee abbozzate. 3· Il Figlio, che irradia la gloria di Dio e ne chiarisce la sostanza, che addirittura sostiene l'universo con la forza della sua parola, ha reso possibile la purificazione dei peccati mediante il sacrificio di sé. I sin goli particolari verranno esposti in un secondo tempo, ma la verità decisiva risuona già. Si noterà che la figliolanza di Cristo è considerata celeste per sostanza e origine. Si presenta come «splendore» della glo-
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Ebr.
1,1-3.
L'esaltazione del Figlio come conclusione escatologica
ria divina (v. le traduzioni di Sal. I I o,J b), non certamente solo come suo «riflesso» più debole. Racchiude inoltre la riproduzione della sua sostanza come se si trattasse di un'impronta stampata. L'evidente con cettualità, che presenta una certa vicinanza alla descrizione alessandri na filoniana del rapporto tra anima umana e logos divino (cf. ad es. Filone, Plant. 1 8. 5o; anche Sap. 1 6,2 1), non intende affermare che nel Figlio Dio sia palese solo approssimativamente, bensì che proprio in lui è visibile pienamente e secondo la sua sostanza. In questo passo il linguaggio della lettera si avvicina moltissimo alla speculazione con temporanea su ragione e sapienza (v. Filone, Somn. I ,23 3 ). Infine ci è detto che il Figlio sostiene l' «universo» con la potenza della sua paro la. L'idea che Dio sostenga e custodisca il mondo in questo modo non è estranea né alla letteratura rabbinica (Str.-Bill. 111, 673 ) né a Filone (Rer. 3 6). Ciò che caratterizza la nostra testimonianza è l'esclusiva ap plicazione del concetto a Gesù, nel quale davvero la parola primordia le di Dio ha preso forma definitiva. L'idea del «sostenere» indica che per Dio il mondo costituisce un peso ed è ricolmo di tensioni, per cui il pericolo .e la dissoluzione incombono. Però il Figlio lo mantiene uni to per la sua salvezza grazie alla potente parola di Dio e ne assicura la stabilità. La convinzione che qui affiora è estremamente salda: solo per mezzo della parola di Dio e su Dio, così come può essere pronun ciata in modo adeguato unicamente con Cristo, questo mondo avrà un futuro. Aggiungeremo anche che ciò è reso possibile solo col sacrifi cio che egli ha compiuto per ottenere una «purificazione dei peccati»: il dono di se stesso. La storia di Dio con il mondo mira quindi alla croce di Cristo, luogo della sua passione e morte. Dove apparente mente solo la follia e la morte hanno trionfato, in verità è stato depo sto un ultimo segreto. Esso verrà illustrato in tutti i suoi aspetti in ciò che segue, sulla base della testimonianza biblica del Sal. 1 1 0. Dato che il sacrificio del Figlio si è compiuto volontariamente e nell' obbedien za, egli - detto nello stile liturgico confessionale - ha preso posto «alla destra della maestà nei cieli». L'accenno alla maestà celeste sostituisce il nome di Dio (cf. 8, 1 ). Lo stereotipo di questa espressione lascia in tendere che ci troviamo di fronte a una formula, dal tono molto so lenne.
J>arte prima
«Siedi alla mia destra» (Sal. ( I ,4-4, 1 3 )
I I o, I
)
l..a maestà del Figlio innalzato è superiore alla gloria degli angeli ( l ,4- 1 4) Diventò tanto più potente degli angeli, quanto è più alto di loro il nome ha ereditato. 5 Infatti a quale degli angeli ha mai detto: «Tu sei mio fi gl io, oggi ti ho generato>>, e ancora: «Gli sarò padre ed egli sarà per me fi glio» ? 6 Ma quando introduce (ha introdotto) di nuovo il primogenito nel mondo, dice: «E tutti gli angeli di Dio devono adorarlo>> . 7 E un'altra vol ta riguardo agli angeli dice: «Rende i suoi angeli come venti, e i suoi servi tori come fiamme di fuoco»; 8 ma riguardo al Figlio: «Il tuo trono, o Dio, sta in eterno>>, e ancora: «Uno scettro di rettitudine è lo scettro del suo re gno»; «Tu hai amato la giustizia e odiato l'iniquità». 9 «Perciò, o Dio, il tuo Dio ti ha unto con olio di esultanza a preferenza dei tuoi compagni>>. Io Inol tre: «Tu, o Signore, al principio hai fondato saldamente la terra, e opera delle tue mani sono i cieli; I I essi periranno, ma tu rimani; e tutti invec chieranno come un vestito, 1 2 e tu li arrotolerai come un mantello», come una veste «saranno anzi cambiati. Ma tu sei lo stesso e i tuoi anni non a vranno fine». I J A quale degli angeli ha mai detto: «Siedi alla mia destra, fin ché non abbia reso i tuoi nemici uno sgabello ai tuoi piedi» ? 14 Non sono essi tutti spiriti mi nistranti, inviati per prestare un servizio a coloro che devono ereditare la salvezza ? 4
che
s Sal. 2,7; l 1 0, 1 .
2
Sam. 7, 14. 6 Deut. 32,43 · 7 Sal. 104,4· 8 s. Sal. � u ,7 s.
1 o- 1 1
Sal. 1 02,26
s.
13 Sal.
4- 14. Conformemente alla struttura dell'omelia sinagogale, segue immediatamente una pericope che illustra il tema dell'esaltazione del Figlio alla destra del Padre partendo dalla Scrittura. Per l'argomenta zione si ricorre a una scelta di passi scritturistici, formanti una cosid detta «catena», che danno fondamento alle enunciazioni sostanziali del tema. Il modo di procedere è studiato, come dimostra la scelta dei testi che, per la riflessione cristologica della comunità primitiva, dove vano effettivamente avere un significato basilare. Il v. 1 3 riprende si gnificativamente la domanda introduttiva del v. 5 , cosicché alla fine
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Ebr.
1,4- 1 4.
La maestà del Figlio secondo Sal.
1 10
viene ripresentato intenzionalmente quel passo della Scrittura che ca ratterizza nel modo più completo l'esposizione omiletica. Il collage di citazioni è introdotto da Sal. 2,7, un testo la cui particolare afferma zione poteva anch'essa suscitare grande interesse. Tanto più che co munque con il tema della «generazione» del Figlio all'interprete della Scrittura veniva fornita una notevole omogeneità (cf. Sal. 1 I O, J C e Sal. 2,7c), che poteva indurre a fare considerazioni cristologiche. Il filo conduttore delle citazioni bibliche è costituito dall'affermazione del v. 4, secondo il quale Cristo ha ereditato un «nome» che supera di gran lunga quello degli angeli. Il concetto di «nome» indica complessi vamente la nuova dignità di Cristo perché, a differenza del pensiero moderno, il nome racchiude al tempo stesso anche l'essenza della co sa nominata, in questo caso dignità e ministero. Certo, per prima co sa è inteso il nome di Figlio, ma non solo. La funzione è chiarita inol tre dai titoli «Signore», «primogenito» e «Dio». Il confronto con gli angeli ha permesso l'elaborazione ideale della dignità di dominatore del Figlio, unica nel suo genere, rispetto alla quale essi sono stati chia ramente posti in posizione subalterna come «spiriti ministranti)) . Se si considera che questa prima serie di concetti ( 1 ,4- I 4) si aggancia diret tamente al v. J, e dunque che non si parla tanto di una maggior supe riorità di Gesù quanto della sua esaltazione e della sua intronizzazio ne alla destra di Dio, allora è probabile che il contenuto fosse anticipa to dal tema principale generale, e che quindi il Sal. I Io ne costituisca il fondamento omiletico. È evidente che viene ulteriormente sviluppato un ragionamento ben preciso. Nulla fa pensare a una specifica disputa sugli angeli, suscitata dalla situazione generale o particolare della co munità. È più plausibile che l'interpretazione di Sal. r r o, J , se lo si ri ferisce all'intronizzazione del Signore escatologico, sia applicata alla corte celeste che entrerà in azione nel giorno del giudizio. La comuni tà primitiva ha sempre compreso l'esaltazione di Cristo in maniera fun zionale come insediamento nell'ufficio di giudice alla fine dei tempi. E questa concezione è presente anche in 1 ,6 ss. Che nella chiesa delle origini l'interpretazione di Sal. 1 r o, J vertesse sul potere di Gesù, mag giore di quello degli angeli, emerge anche da Ef 3,20 ss. e da 1 Pt. 3 ,22. Tale interpretazione sorgeva senz'altro laddove non solo venivano esi bite delle citazioni, ma se ne prendevano in considerazione anche il contesto e il nesso logico spirituale. Ragion per cui vanno sottolineati anche gli stretti contatti sostanziali con il cosiddetto inno cristologico
Ebr.
1 ,4- 1 4.
La maestà del Figlio secondo Sal. 1 Io
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di Fil. 2, 5 ss. L'affinità con Paolo è indiscutibilmente stretta. Se si pen sa che era in gioco l'importanza teologica della morte in croce di Ge sù, che urgeva sviluppare in modo attendibile, allora si spiega in modo del tutto ovvio l'alto interesse omiletico per il Sal. I I o, interesse qui evidente. D'altro canto questo salmo, probabilmente già nel giudai smo dell'epoca, aveva assunto una certa importanza kerygmatica nella fondazione e, in particolare, nella formulazione dell'attesa messianica (v. Str.-Bill. IV, I , 4 5 2 ss.), alla quale poteva ora agganciarsi la comunità primitiva; né è escluso che lo stesso Gesù non vi sia ricorso per giusti ficare biblicamente la singolare comprensione di sé come Figlio del l'uomo (Mc. I 2, J 5 ss.; I4,62). Il fatto sorprendente che l'antica sinago ga dei primi tre secoli d.C. non abbia lasciato alcun documento relati vo all'interpretazione messianica del salmo, prima sicuramente diffu sissima, si spiega allora con una ferma opposizione a questa dimostra zione biblica, fondamentale per la fede cristiana delle origini. N ella lo gica del periodare il v. 4 fa ancora parte dell'esordio, ma da un pun to di vista sostanziale e concettuale punta già verso una direzione nuo va. Sulla base del Sal. I ro, l'intento dell'esposizione mira ora natural mente a descrivere il Cristo esaltato. La riflessione si sposta dalla men zionata maestà di Dio alle potenze celesti. In quanto esseri intermedi tra la regione terrena e quella celeste, era loro attribuita grande impor tanza nella concezione dualistica del mondo propria del giudaismo ellenistico e palestinese di allora. L'abbondanza d'idee era inoltre ter reno fertile per speculazioni selvagge. Nello stile preferito di Ebr. , il periodo inizia subito con un confronto. Abbiamo accennato al singo lare modo dell'autore di pensare per confronti e proporzioni. Il «Fi glio» è superiore, o meglio più potente degli angeli, quanto maggiore è la dignità (= «nome») attribuitagli. L'affermazione mira al momento dell'intronizzazione. Previsto fin dal principio come erede e costituito tale per testamento (v. 2) , con il proprio docile sacrificio, che ha reso possibile una purificazione totale dei peccati, egli ha dunque ottenuto definitivamente il possesso della sua «eredità» alla fine dei tempi, ere dità che sta ora difendendo dali' opposizione dei nemici grazie alla propria posizione (v. I 3). Gli enunciati lasciano trasparire una notevo le posizione di tipo adozionista, nonostante si conosca e si ribadisca la prcesistenza del Figlio. Proprio come in Fil. 2,9 o in Rom. I ,4, questa riflessione non prevede un processo salvifico in cui quanto era stato p revisto si è compiuto automaticamente, secondo una pianificazione
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eterna, ma si sforza di riflettere sul vero motivo dell'esaltazione che è, prima di qualsiasi altra cosa, la verità storica del Crocifisso. La predi cazione apostolica non ha mai semplicemente affermato apodittica mente o declamato qualcosa, ma ha sempre interpretato e argomenta to. Lo stesso avviene in questo testo, in primo luogo con ampie cita zioni bibliche. 5· Come prima serie abbiamo Sal. 2,7 collegato a 2 Sam. 7 , 1 4. In entrambi i casi il concetto di fi g lio è al centro di un discorso e di una promessa straordinari di Dio. f. probabile che attraverso Sal. I x o,3 : «generato prima dell'aurora», messo in relazione con Sal. 2 : «oggi ti ho generato», per motivi di combinazione giustificati dalla tecnica in terpretativa, dalla citazione emerga la certezza del significato messia nico dell'affermazione, che prima di allora, ovviamente, era applicata, secondo una visione comune a tutto l'Oriente, all'insediamento sul tro no del re israelita, il quale sapeva di essere «figlio)) del suo Dio. Già in epoca precristiana il pensiero biblico metteva in relazione il salmo con l'atteso re messia e salvatore (cf. Ps. Sal. 1 7,2 1 ss.). Di conseguenza an che il cristianesimo delle origini si richiamò decisamente a questo fondamentale testo cristologico per vedervi preannunciato il battesi mo (A tti 4,2 5 ss.; Le. 3 ,22D) o la risurrezione (Atti I 3,3 3), non tanto la nascita di Cristo (cf. anche Apoc. I 2, 5; Iust., Dial. 8 8,3 . 8; IOJ ,6; Ev. Eh. ecc.), che in un primo tempo non destò alcun interesse teologico. Accanto alla possibilità di un'allusione all'esaltazione pasquale si po trebbe prendere in considerazione l'ipotesi che Ebr. pensi a una « ge nerazione» pretemporale (cf. Sal. 1 x o,J), perché in ciò che segue si fa cenno al «primogenito)). L' «oggi>> sarebbe allora riferito all'inserimento del Preesistente nel mondo. In Ebr. tutta l'enfasi è posta sull'espressione «tu sei mio figlio)) . Il seguito della frase non è affatto esibito per pura forza dell'abitudine. Da esso infatti si poteva ricavare qualcosa di più preciso riguardo al rapporto del Figlio con il Padre. Perciò la frase «og gi ti ho generato)) veniva indubbiamente riferita a un particolare atto di elezione (v. anche a 5,6). L' «io)) sottolinea, nell'ascolto della chiesa delle origini, la volontà assoluta di Dio di rivelarsi in questo Cristo. Se l'autore presuppone una tradizione più antica, come accade per la tradizione sinottica del battesimo di Gesù, allora l' «oggi)) mira pro babilmente, come in 3,7 e 4,7, al tempo della salvezza inaugurato con Gesù. Questo offrirebbe al tempo stesso una spiegazione del perché nel v. 6 all' «introduzione» più antica ne venga affiancata una «secon-
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da» con il ritorno escatologico del Figlio. Segue la citazione ulteriore di 2 Sam. 7, 14. La profezia di Natan poteva essere applicata senza difficoltà al promesso re davidico degli ultimi tempi, come dimostra anche la setta essena di Qumran (4QFlor). In questa seconda citazio ne complementare l'accento è posto sulla conclusione, «Egli mi sarà figlio». In questo modo si ottiene esattamente la figura retorica giu daica del parallelismo antitetico. Essa sottolinea l'argomentazione se condo la quale a nessuno degli angeli è stato mai rivolto tale titolo e tale promessa. Anche se l'Antico Testamento più volte presenta gli an geli come «figli di Dio» (Gen. 6,2.4; Sal. 5 8,1 LXX; 8 9,7; Giob. 1 ,6; 2, 1 ; 3 8,7), tuttavia il pensiero dei traduttori successivi, soprattutto dei LXX, ai quali Ebr. si aggancia, non ha potuto ammettere tale fatto per fedeltà a uno spiccato monoteismo. Si avevano allora tentativi d'inter pretazione diversa, oppure si sceglievano nuove formulazioni. Come afferma giustamente la domanda introduttiva, a nessuno degli angeli è stato mai concesso un rapporto con Dio così unico nel suo genere. 6. Nel seguito viene illustrata, a partire dalla Scrittura, non la rela zione tra Padre e Figlio, bensì quella tra il Figlio e gli angeli; il ragio namento si sviluppa partendo dal primo per passare poi ai secondi. Deut. 3 2,43 (nella versione sintetica dei LXX) serve a dimostrare che il Figlio, messo in risalto come «primogenito» probabilmente per la sua elezione pretemporale, quando è «nuovamente introdotto» nel mon do viene adorato da tutti gli angeli. Della prima «entrata» nel mondo tratta significativamente anche 1 o, 5 . Il testo presente si raffigura la comparsa del Figlio nel momento dell'imminente seconda venuta che, come era convinzione generale nei primi tempi del cristianesimo, av verrà nella gloria delle schiere angeliche celesti (cf. Mc. 1 3 ,26; Mt. 24, 30; Le. 2 1 ,27; 2 Tess. 1 ,7 ecc.; cf. anche Hen. aeth. 1,4). Ci si può chie dere in che misura essa sia considerata già avvenuta con l'esaltazione, in quanto nella formulazione alcuni punti restano oscuri. Ad ogni modo essa ha luogo nel mondo su cui il Cristo esaltato regnerà dopo aver preso possesso della propria eredità (al riguardo v. Sal. 9 8,7.9) . È pos sibile che la definizione «primogenito» sia giustificata con Sal. 89, 2 8 , importante per l e frasi riferite a Davide. Deut. 3 2 descrive l'ultima ri velazione di Dio nel giudizio, e sotto questo aspetto anche da un pun to di vista materiale e concettuale si presenta in particolare come pro va scritturistica. N el complesso è chiaro che quanto esposto, in modo più accentuato rispetto a quanto lasciano intendere le citazioni, presen-
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ta una gran quantità di riferimenti alla Scrittura che mettono alla pro va l'erudizione dell'autore.
7· Il v. 7 prosegue nella descrizione delle funzioni celesti subordina te degli angeli; si ha la citazione di Sal. 1 04,4, il grande inno della crea zione, che esordisce illustrando la maestà celeste di Dio. La congiun zione «e» posta all'inizio del versetto, insieme al «ma» che segue al v. 8, intende accentuare il contrasto tra la posizione del Figlio e quella degli angeli, che sono semplicemente spiriti ministranti della creazio ne. L 'immagine che paragona gli angeli ai «venti» e alle «fiamme di fuoco » non ha certo intenzione di equipararli alle forze della natura, di cui parla il testo ebraico originale, ma indica che il loro compito consiste in una solerte operosità, e che la loro sostanza dipende inte ramente dalla decisione di Dio. 8. Tutt'altro la posizione e la funzione del Figlio (v. 8: «ma»)! Il suo trono, quindi il suo compito di dominatore, durerà in eterno, come prova Sal. 4 5 ,7 s ., che è riportato tanto diffusamente soprattutto per ché l'invocazione «O Dio» si adattava in modo particolare a un'inter pretazione applicata alla posizione unica di Cristo. Il Sal. 4 5, compo sto come inno di nozze per un re israelita, in un secondo tempo era stato probabilmente compreso in senso messianico, interpretazione a cui poteva dar luogo il v. 8b. I versetti potevano essere compresi come se si stesse parlando del trono di Davide, benedetto da Dio e che re sterà in eterno perché su di esso infine sederà il messia. A tale concet to ben si adattava anche il seguito, «il Signore, il tuo Dio, ti ha consa crato» . Come nel caso di Sal. 2,7 e 1 ro, r , anche Ebr. pensa a un dialo go tra il Padre e il Figlio, qui elevato da Dio al suo stesso livello. Per l'autore della lettera, a questo punto la Scrittura mostra l'atto della consegna del regno. Dio stesso assegna a Cristo la signoria eterna sul l'universo, e definisce il suo scettro uno scettro che incarna la giustizia incorruttibile, una «verga di rettitudine» (cf. al riguardo «verga di po tere », Sal. I r o,2a). La sua grandezza di giudice presuppone una dimo strazione personale: egli ha amato la giustizia e odiato l'iniquità. 9· Il v. 9 spiega meglio questo concetto. Proprio per questo motivo Dio lo ha consacrato con l' «olio dell'esultanza di salvezza». Cristo si è distinto nell'operato terreno, perciò ha potuto essere innalzato e al tempo stesso ricevere l'acclamazione giubilante dei «compagni» ce lesti, ossia degli angeli. Certamente essi sono spiriti ministranti, ma oltre a ciò il loro compito è anche quello di glorificare Dio in eterno.
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1 ,4- 14.
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10. Come ulteriore testimonianza sul Figlio segue immediatamente la citazione di Sal. 1 02,26 s., in assoluto la più estesa di tutta la raccol
ta. Anch'essa viene intesa come se si trattasse di parola rivolta a Cri sto, in cui stavolta compare l'appellativo «o Signore»; nella compren sione di Ebr. essa conferma il ruolo creatore primordiale del Figlio (cf. I,2), il quale ha fondato il mondo (cf. Gen. I,7) e del quale i cieli sono l'opera. 1 1 s. Ma mentre tutto il creato passa, egli, l'Eterno, resta, non sfio rato dalla caducità e dalla fugacità del tempo. Colui che esiste dal prin cipio può essere compreso soltanto come colui che è in eterno. Ciò che nel salmo originariamente valeva per la lode alla maestà sovrana del Dio che ha fatto il mondo, ma lo può anche usare e gettare come un vestito vecchio e logoro, è ora visto come parola divina rivolta al Fi glio. La lieve variante della versione dei LXX può essere fatta risalire all'influsso di /s. 34,4. La menzione del «principio» (così i LXX) ri porta alla memoria Gen. 1 , 1 . L'impiego in Ebr. mostra quanto il pen siero cristiano delle origini potesse dedurre in modo diretto e imme diato il ruolo creatore universale del Cristo preesistente. E in questo ovviamente l'impiego dei passi scritturistici non è avvenuto secondo una selezione casuale, bensì interamente secondo principi ben precisi. 1 3 . La scelta delle citazioni scritturistiche, per quanto ogni volta ini zino significativamente con un predicato riferito a Cristo, passa coe rentemente per gli appellativi di Figlio, Dio e Signore, per giungere sino a Sal. I I o, 1 così da citare per ultimo proprio questo passo bibli co, a dimostrazione di una posizione assolutamente unica della digni tà del Figlio. La spiegazione del salmo costituisce il compito omiletico vero e proprio della lettera. Le idee ritornano in ogni forma al fonda mento omiletico. Di fatto è vero che Cristo, il Figlio ed erede, ha as sunto una posizione unica presso Dio. Al tempo stesso si prepara un altro evento immane: la sottomissione finale dei nemici di Cristo, per la quale Dio è all'opera in favore del Figlio ( I o, I 2 ss.), così come in tale occasione addirittura lo «introduce>> (v. 6). Non si può evitare di cogliere già in questa citazione un tono ammonitore. Più oltre se ne parlerà più diffusamente. 14. Nel dipanarsi del ragionamento segue dapprima un temporaneo riassunto: «Non sono dunque tutti gli angeli spiriti ministranti ?» (per tale espressione cf. Filone, Virt. 7 4). A dire il vero si dovrebbe poi pro seguire così: e non è forse il Figlio più potente di tutti loro ? Ma poi-
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ché questo è già stato chiarito, viene inserita un'aggiunta il cui tema consente di passare a un nuovo pensiero. Mediante la parola «eredita re», improvvisamente è la comunità a porsi in primo piano; infatti il mondo celeste non esiste perché Dio si trasfiguri, ma per servire l'uo mo che ha bisogno della salvezza e che può esserne reso degno. Come Cristo ha offerto un proprio sacrificio corporeo, così anche gli spiriti celesti sono chiamati a un servizio e a un impegno di sacrificio. Come il Padre è venuto in aiuto a Cristo nel suo compito ultimo, così anche gli angeli sono destinati a un servizio di aiuto. Coloro che erediteran no la salvezza sono gli stessi che la «devono» ereditare. La grandezza dell'evento impone dedizione estrema alla parola udita (2, 1 -4) 1 Perc i ò è nec ess ari o prestare un'attenzione del tutto parti colare a ciò che abbiamo udito per non sbaglia re la rotta. 2 Infatti, se (già) la parola pro nunciata per mezzo degli angeli aveva un valore tanto assoluto che ogni tra sgressione e disobbedienza ricevette la pu nizion e (= ricompensa) adeguata, 3 com e potremo scamparvi noi se trascuriamo una salvezza così grande ? Essa ebbe inizio nella predicazione del Signore e venne confermata qui, in mezzo a no i , da coloro che l'avevano udita, 4 ment re Dio al tempo stesso testimoniava (d el la sua verità) con segni e p rodi gi e miracoli d'ogni genere, e � oni dello Spirito santo, elargiti secondo la sua (lib era) volontà.
1 -4.
Ebr. trae energicamente le conseguenze pratiche necessarie, poi
ché ritiene fermamente che la fede cristiana determini in modo decisi vo la condotta da tenere volta per volta. L'intento che si celava dietro le riflessioni di 1 , 5 - 1 4 trova ora per la prima volta espressione ed è, in ultima analisi, identico allo scopo dell'omelia (cf. I 0, 1 9- 1 2, 29) . Dal punto di vista formale, a un'unica frase di energica esortazione (2, 1 ) si aggancia una motivazione relativamente ampia (2,2-4). Sotto l'aspetto contenutistico e concettuale risuona nuovamente, con più ri gorosa concentrazione, quanto già affermato in precedenza. Se 1 , 1 4 trattava degli angeli che vengono inviati per coloro che devono eredita re la «salvezza», la pericope attuale chiarisce che o ccorre mettere ogni impegno e cura per non rischiare di giocarsi sconsideratamente tale «salvezza» (2,3 a). Idealmente si procede in modo da mettere a con fronto l'antica alleanza con la verità neotestamentaria (v. anche 1 2, 1 8 ss.). D al punto di vista tematico, la riflessione si inserisce nell'alveo
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2., 1 -4.
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comune soprattutto perché vengono ancora menzionati gli angeli. Inoltre, l'impiego del «noi» comunicativo mette l'accento su un modo di procedere che deve essere necessariamente comune. L'oratore, per pura sensibilità pastorale, si associa alla comunità perché evidente mente nella situazione contingente di prova gli preme non tanto im porsi con determinatezza, quanto dichiararsi solidale con la chiesa a lui legata. È probabile che abbia in mente una comunità liturgica piut tosto grande, e a favore di tale ipotesi c'è l'esortazione ad applicarsi con più impegno alle «cose udite» . Se abbiamo visto giusto, allora l'af fermazione non si riferisce a una conoscenza catechetica precedente, ma alla sezione omiletica della lettera appena esposta, collegata alla re l ativa lettura della Seri ttura. 1. Se Dio invia addirittura le potenze celesti per aiutare gli uomini a conseguire la salvezza eterna, questi, dal canto loro, non devono certo persistere in un atteggiamento passivo. Se si è mosso il cielo, allora devono esserne afferrati e determinati coloro che sono a conoscenza della maestà di Dio grazie alla grandezza della sua azione salvifica. È accaduto qualcosa di unico e irripctibile, fuori dell'ordinario, e quindi i cristiani sono vivamente esortati ad applicarsi con maggior impegno alla verità loro affidata. Si può «mancare» lo scopo passando oltre senza accorgersene, come una nave che per sbadataggine dell'equipaggio ol trepassa il porto sicuro e riparato. Probabilmente, con il tipico concet to del «passar oltre» è rievocata un'immagine spesso impiegata nella riflessione filosofica di un certo livello (cf. Filone a 6, I 9 ), anche suc cessivamente nella predicazione della chiesa, immagine che paragona l'esistenza dell'uomo alla vita su un mare in tempesta, e la meta a un porto di riparo, mentre più volte si parla del «porto di quiete» (ad es. Clem., lac. 1 3 ss.; Const. Ap. 2 ,5 7,2 ss.; Giuseppe, 4 Macc. 7; 4 Esd. 1 2, 42). Anche Filone (Sacr. 89) può esprimersi in modo simile, pur para gonando il «porto di quiete» che deve essere raggiunto nell'infuriare della tempesta alla «salda posizione» della conoscenza religiosa e della virtù morale. 2. In Ebr. la meta si identifica con la salvezza eterna, vista come un qualcosa del prossimo futuro. Chi la perde si espone a un giudizio la cui inesorabilità è sottolineata con una conclusione a minori ad maius (dal minore al maggiore). La rivelazione della «parola» annunciata sul Sinai non è attribuita direttamente a Dio, bensì agli angeli (cf. già D eut 3 3,2; Targ. Onq. Deut. 33,2; Giuseppe, Ant. 1 5 ,5,3 ; Atti 7,3 8 . 5 3 ; Gal. .
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2, 1 -4.
Consegu enze p ratiche
), 1 9). Anche il pensiero rabbinico si è ampiamente occupato delle cir costanze della rivelazione sul Sinai ( Es. 1 9,90 ss.; 20, 1 8; cf. al riguardo Filone, Dee. 32 ss.). A differenza di Paolo, Ebr. si esprime in termini neutrali riguardo al valore della parola di rivelazione promulgata in tale occasione, allo scopo di evidenziarne la validità assoluta. L'immagine della «solidità» della parola di Dio emergerà poi più volte nel corso della lettera (cf. 3,6. 1 4; 6, 1 9; 9, 1 7; 1 3 ,9), essendo un tema ricorrente del la tradizione biblicamente orientata (Rom. 4, 1 6; 2 Pt. 1 , 1 9; Filone, Mos. 2, 1 4). La solidità della parola di Dio e la santità assoluta della volontà che in essa si esprime si condizionano fortemente a vicenda. Perciò in seguito verrà sottolineato l'assoluto carattere punitivo della conclusio ne dell'alleanza: infatti ogni «trasgressione» e «disobbedienza» - com messe dal popolo dell'esodo - ha ricevuto la giusta punizione (cf. Es. 1 7,7; Num. 20,2- 5 ; inoltre Ebr. 3,7 ss.; 4, 1 1 ; 1 2, 2 5 ). «Trasgressione» e «disobbedienza» contraddistinguono il comportamento dell'ebreo che disprezza la legge. 3· Ma finirà molto peggio per ·c oloro che per indifferenza o sbada taggine trascurano l'offerta della salvezza eterna. Con la massima in sistenza qui, come in 1 Cor. 1 0,6 ss., si ricorda che la vicenda dell' eso do costituisce per «noi» cristiani un esempio ammonitore. L'autore di E br. , insieme alla sua comunità, è cosciente di essere alla fine di un'e poca cruciale, nella quale l'alternativa tra giudizio o salvezza si pone in modo inesorabile e definitivo. È inconcepibile che davanti a tale real tà gli uomini possano cadere nella noncuranza e indifferenza per l'an nuncio. La proclamazione della salvezza, in fondo, è partita non dagli angeli ma dal Signore stesso, dunque dal Cristo terreno che ora è il Figlio innalzato. Va aggiunto che la comunità interpellata può richia marsi direttamente a individui che hanno ascoltato di persona il Si gnore terreno. L'autore stesso deve a questi discepoli e testimoni la promessa della propria «salvezza». Insieme alla comunità ripensa alla credibilità assoluta di quanto è stato detto. Personalmente egli non parrebbe essere stato discepolo del Gesù terreno. N o n può richiamar si a un'esperienza diretta del Cristo come Paolo, benché si possa sup porre che sia stato molto vicino ai portatori apostolici dell'annuncio, a coloro che avevano potuto ascoltare il Gesù terreno. 4· Oltre all'affidabilità degli apostoli vi è stato qualcos'altro che infine gli ha dato la certezza decisiva, come dimostra nella frase con elusiva, in forma di confessione, l'accento posto sull'esperienza che
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f)io inoltre «testimoniava>> agendo i n molti modi. L a ricchezza di quan to ha sperimentato, nonché l'impressione che ne ha tratto, trovano espressione in un elenco di fatti via via più meravigliosi, tanto che è opportuno considerare anche la ripetizione della congiunzione «e». Al di là di quanto espresso a parole, la dimostrazione si rifà alla parola «attiva» in vari modi, che non solo si lascia dietro una grande impres sione ma - essendo coinvolto Dio - provoca sempre anche «effetti» sor prendenti. N el caso presente colpisce che oltre a «segni», «prodigi» e « miracoli» vengano menzionate soprattutto anche esperienze carisma tiche e doni che indubbiamente rimandano all 'epoca del primo cri stianesimo. Gli ascoltatori sono a conoscenza di questo fatto notevo le, che a buon diritto corona l'argomentazione fornita. Quando si sot tolinea con energia che Dio distribuisce i doni dello Spirito secondo >, nessuno più può sottrarsi alla sua autorità di sovrano, che è innanzitutto servizio; in fatti colui che è stato innalzato esercita già la sua signoria, anche se noi ancora attendiamo l'ultimo atto visibile. A tale grave problema, che poteva mettere alla prova la fede, si riferiscono le successive con siderazioni che introducono con un «ora perÒ» la scottante questione temporale per cui la verità di Cristo, così come emerge dal Sal. 8, è «non ancora» manifesta. Se Cristo è la «fine» di questo mondo, essen done meta e conclusione, come può il mondo perdurare ? La cosiddet ta questione escatologica evidentemente non è roba da ultime pagine di dogmatica, ma abbraccia la cristologia in modo sostanziale e irri nunciabile. Per quanto attiene alla comprensione messianica del Sal. 8,
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di prove non ve n'è alcuna per il giudaismo rabbinico, e solo poche ed oscure per l'apocalittica del giudaismo tardo. Nel frattempo ha ac quisito un'importanza maggiore il fatto che nella letteratura cristiana primitiva vi sia una coscienza simile in 1 Cor. I 5 ,2 5 ss., ove troviamo ancora collegati insieme Sal. I IO, I e Sal. 8,7. L'originalità di questa controversia riguardante una fondamentale frase cristologica sulla ba se di testi biblici ricchi di significato è dunque indubbia. 9· Lo si coglie anche e soprattutto constatando che l'espressione di Sal. 8,6 («un poco al di sotto degli angeli » LXX) - la quale nella ver sione ebraica originaria indicava che l'uomo è stato fatto di poco infe riore a Dio - viene messa in relazione esclusivamente al messia - Fi glio dell'uomo, per essere inoltre interpretata con riguardo al proble ma cruciale del «non ancora» riferito all'evento sperato, il problema cioè del ritardo della parusia. Quanti interrogativi vi fossero a questo proposito è provato anche dalle dichiarazioni di 10,3 5 ss. Riteniamo di estrema importanza dal punto di vista teologico che il significato teologico comunemente attribuito alla passione e morte di Gesù serva, a quanto pare, a riempire il vuoto lasciato dal dominio di Cristo non ancora definitivamente visibile. Se anche non vediamo Cristo regnare nell' onnipotenza di Dio, tut tavia i nostri occhi scorgono chiaramente l'uomo Gesù che è stato umi liato «per breve tempo» e che ha dovuto patire anche la morte. È si gnificativo che in questo contesto l'autore parli di «Gesù», utilizzan do dunque il nome del Cristo terreno con il quale ha messo in rela zione Sal. 8, 5 ss. Se ne deduce che anche il discorso sul «Figlio del l'uomo» mira più alla funzione che al titolo. Di conseguenza a Gesù venne dato di essere uomo. L'aiuto non poteva venire semplicemente dall'esterno: la situazione disperata dell'uomo doveva essere cambiata radicalmente e dall'interno. Per far ciò Dio ha operato paradossalmen te con l'uomo Gesù, umiliato all'estremo. A causa della «morte che ha sofferto» egli è stato incoronato di gloria e di onore, per cui nella mor te l'autore individua il fondamento dell 'esaltazione: ma questo fonda mento, nel quale il Figlio dell'uomo sperimenta tutta la concretezza dell'evento, non è uno sfondamento abissale ? Egli deve averlo per cepito, come pure l'ha sentito il noto inno della lettera ai Filippesi (2,5 ss.). L'autore giudeocristiano si trova ancora impreparato davanti al fatto assurdo della morte del messia. In Ebr. la motivazione parados sale della gloria di Cristo è immediatamente affiancata da una spiega-
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Rappresentante del genere umano
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?.ione supplementare: «perché per la grazia di Dio provasse la morte a favore di ciascuno». Questa proposizione finale sembra logicamente fuori posto, mentre l'espressione «per la grazia di Dio» disturba al quanto il filo del discorso. Bisogna forse pensare a una glossa succes siva ? Oppure, come in antiche varianti, la locuzione «per la grazia di l)io» va trasformata in «a parte Dio», perché i correttori la trovavano illogica? Che l'espressione «incoronato di gloria e di onore» vada ri ferita non tanto al Cristo innalzato, ma a quello umiliato, la cui digni tà sacerdotale sarebbe qui in oggetto (secondo Es. 28,2, Mosè deve preparare al fratello Aronne una veste sacra «a onore e gloria») (cf. sotto, 5 ,4 ss.) ? La decisione è tutt'altro che semplice. Se abbiamo ra gione, allora il contesto della citazione che appare in 2,7 stabilisce che nel discorso dell'incoronazione si pensa anche all'esaltazione. Ebr. po teva già pensare al ministero sacerdotale di Gesù, ma sicuramente guardava anche alla gloria e all'onore del Cristo glorificato. La con clusione illogica della frase va ricondotta all'audacia dell'affermazio ne, percepita dall'autore stesso. Egli, vedendosi costretto a commenta re il poco comprensibile riferimento alla necessaria umiliazione di Ge sù, per prima cosa l'ha reso meno oscuro richiamandosi alla grazia di Dio che gli sta dietro, e inoltre apprezzando la morte di Gesù nel suo significato generale e particolare. Gesù dovette provare la morte a van taggio di tutti. Egli, il potente che domina su tutti, è dunque colui che sperimentò l'impotenza a vantaggio di tutti. Gli ascoltatori della let tera vengono interpellati indirettamente in maniera molto personale. L'aspetto esistentivo e quello esistenziale sono presentati allo stesso modo. Ciò che è avvenuto con Cristo riguarda chiunque, qualunque sia la sua posizione al riguardo. L'espressione biblica «provare la mor te>> sfiora inoltre una categoria essenziale dell'esperienza umana !ad dove si rammenta che morire è amaro, anche solo come processo na turale inevitabile. L'autore, che parla della «sofferenza della morte», ne conosce il molteplice carattere doloroso. È ripresa in modo palese la problematica esistenziale più profonda per la quale anche, e soprat tu tto, il mondo antico aveva una spiccata sensibilità. Quando Cristo sperimentò la morte «a favore di ciascuno», senza limitazioni, dev'es sere stata un'esperienza indubbiamente tremenda per lui. Ma non è di questo che si tratta, bensì del significato della sua morte che - come in Paolo - è compresa come passione e morte vicaria universale. Dietro a ciò vi è, come si sottolinea espressamente per l'ascoltatore, la «grazia
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di Dio» - un punto di vista egualmente paolino. La frase «mediante la grazia di Dio» è formulata proprio in considerazione dell'uomo, che altrimenti dovrebbe sprofondare nel nichilismo. 1 o. Un'altra frase fornisce un'ulteriore argomentazione per rendere comprensibile la morte di Gesù, illustrando meglio lo sfondo dell'agi re di Dio in lui. Anche dal punto di vista di Dio la sofferenza era l'uni ca strada praticabile. L'espressione «ben si addiceva a colui per il qua le e dal quale sono tutte le cose» ha per soggetto Dio. Alle spalle vi è una riflessione teologica, anche se il linguaggio può suonare filosofico (cf. Filone, Leg. ali. 1 ,4 8 ; Aet. 4 1 ). Ma considerando la morte di Gesù, il Figlio, si può affermare che sia «adeguata» a Dio? Il lettore può per cepire lo sconvolgimento dell'autore nell'arrischiare tale riflessione, se pensa al tono estremamente audace della frase, evidentemente scelto apposta. Stando a quanto si afferma qui, Dio, presentato esplicitamen te come perfezionatore e fondamento primordiale della creazione, per agire conformemente alla propria divinità, dovette perfezionare, me diante la passione, l'autore della nostra salvezza. In questo modo è avviata una riflessione che porta a un limite logico, per cui non può essere liquidata come speculazione. Ogni considerazione infatti sfocia nella conclusione che Dio può essere il «Rivelato» solo in quanto è «il Nascosto», altrimenti non sarebbe più Dio. Anche il compimento, dunque, non può avvenire semplicemente «nella potenza» o «nella glo ria», ma solo «nell'impotenza» o «nella sofferenza>> . Il concetto di «perfezionamento», usato più volte, è d i contenuto complesso e rappresenta anche una specie di motivo tematico (cf. 5 ,9; 7,2 8 ; 9,9; 1 0, 14; 1 1 ,40). Letteralmente ha il significato di «portare al compimento», e comprende una componente cultuale-soteriologica oltre a quella storico-apocalittica (v. soprattutto 7,28). L'aspetto etico è rilevante solo nella misura in cui il compimento comprende anche la santificazione. L'uomo e il mondo, come si fa capire, vengono portati alla meta solo mediante il sacrificio. Il compimento si ha unicamente per mezzo di Dio e di fronte a Dio, ma al tempo stesso deve essere anche adeguato alla sua santità, la quale non ammette nulla che non sia santo. Nel concetto di «perfezionamento» rientrano dunque anche gli aspetti parziali della donazione totale e della santificazione radicale. Con ciò viene sollevato un problema particolare: la frase «il quale ha condotto molti figli alla gloria» si riferisce a Dio o a Cristo ? Per mo tivi di ordine linguistico noi preferiamo la seconda eventualità. Che il
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2, s - 1 3 .
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discorso non si riferisca a Dio è dimostrato dal proseguimento del pensiero, in cui si fa osservare con insistenza che tutti, ossia colui che santifica e coloro che vengono santifi cati, hanno origine dall'unico Dio in quanto tutti suoi «figli». Avendo dato ottima prova di sé nel servi zio agli uomini che devono essere condotti alla gloria, Gesù è stato re so perfetto (innalzato) come loro «capofila» e «autore della salvezza». Dio dunque non ha scelto tale strada per capriccio, ma perché essa era congeniale alla sua divinità rispetto agli uomini. L'autore di Ebr. sa che Dio «rende perfetto» qualcuno solo per l'obbedienza e il servizio, perché la sua parola si presenta come un'esigenza etica che coinvolge tutta la vita e come chiamata morale rivolta alla persona. In base a tale riflessione appare dubbioso l'intento di vedere nel v. 1 1 un teologu meno gnostico (la cosiddetta dottrina della syngeneia). I I. I cristiani fanno risalire a Dio la loro origine non per via della na tura celeste (cf. Atti 1 7,2 8), ma perché con lui sono in un rapporto di dipendenza di fede e di sottomissione creaturale. Essi possono essere chiamati «santi» perché la loro appartenenza è provata. In quanto uo mini ebbero bisogno di essere santificati dal «santo», al quale egual mente non furono risparmiate le miserie della vita umana. Ebr. va ol tre la concezione ellenistica filantropica dell'unica umanità fraterna, co sa che del resto è dimostrata anche dalle successive testimonianze scrit turali. Cristo, che ha reso possibile la santificazione, non si vergogna di chiamare «fratelli» gli uomini. Indirettamente l'idea guida rimane comunque quella della figliolanza di tutti, per cui Cristo e gli uomini sono in rapporto fraterno gli uni con l'altro. «Non si vergogna di lo ro» (al presente): è disposto in qualsiasi momento a intercedere in lo ro favore. A causa di questa responsabilità fraterna ha anzi percorso consapevolmente il cammino dell'abisso, fino a rinnegare se stesso. I l.. Ciò che la sua vita da sola potrebbe facilmente illustrare viene spiegato - per fissarne il significato attuale - mediante citazioni dalla Scrittura che chiariscono la volontà assolutamente personale di Cri sto. Poiché Gesù comprese se stesso a partire da Dio, si mise al servi zio degli uomini nel modo profano che è loro proprio. La prima cita zione, tratta dal Sal. 22, noto per l'inserimento nella vicenda della passione (cf. Mc. 1 5 ,34), per Ebr. chiarisce che Gesù ha dato a Dio l'assicurazione che ne avrebbe annunziato il nome (e quindi anche la volontà) ai «fratelli». Ciò accadrà nell'esaltazione della nuova assem blea di Dio, che renderà grazie per la propria santificazione e salvezza.
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Ebr. �,1 4- 1 8 .
La liberazione mediante la morte di Cristo
Sotto l'aspetto tematico si riscontrano certi contatti con quelle tradi zioni pasquali nelle quali il Risorto impartisce esplicitamente istru zioni ai suoi «fratelli» (Mt. 28, 1 o; Gv. 20, 1 7), il che potrebbe rimanda re a un'analoga considerazione della Scrittura. In ogni caso la testi monianza rafforza l'idea che di fronte a Dio la responsabilità recipro ca comporta necessariamente la donazione di sé. Il servizio di Gesù alla fratellanza rende perciò evidente fin dove arriva la responsabilità per la vita e la salvezza tra noi uomini. La condivisione dell'esperienza umana doveva necessariamente accogliere come metro di misura il suo sacrificio. 1 3 . Le due citazioni successive - che in Is. 8, 1 7 ss. stanno una di se guito all'altra, mentre qui vengono citate separatamente, certo perché la prima parte appare anche in 2 Sam. 22,3 - parlano espressamente di Dio come fonte della fiducia di Gesù. La seconda citazione dichiara a pertamente che egli si sentiva responsabile nei confronti dei «figli» a ffi datigli. La controprova offerta dalla Scrittura contraddice l'ipotesi che si tratti dell'elaborazione di una concezione gnostica. Evidentemente l'idea della parentela tra redentore e santificati non è lanciata solamen te ai sensi di una divinità fisica, ma solo col significato di un rapporto fraterno etico. Is. 8, r 8 delinea la convinzione del profeta riguardo a sé e ai propri «figli » o «discepoli»: «Noi siamo segno e presagio in Israe le da parte del Signore». Il contesto di /s. 8, 1 6 è relativo alla rivelazio ne che verrà custodita e sigillata fino al momento in cui Dio disperde rà l'oscurità su Giacobbe. Partendo dalla convinzione della profezia adempiuta in Cristo, Ebr. mette in relazione il discorso con i «figli di Dio» di cui Dio ha reso responsabile Cristo. Stando al testo, quest'ul timo si addossò pienamente e senza obiezioni tale responsabilità. Il destino mortale dell'uomo è superato con la morte di Cristo (2, 1 4- 1 8 ) 1 4 Poiché du nqu e i figli partecipano del sangue e della carne, anch'egli vi partecipò allo stesso modo per annientare con la mo rte colui che ha potere sulla morte, cioè il diavolo, 1 5 e per liberare così tutti quelli che per paura della morte passavano tutta la vita in condizione di schiavitù. 16 Infatti non è degli angeli che si prende cura, ma «della stirpe di Abramo si pren de cura» . 17 Perciò doveva rendersi in tutto simile «ai fratelli», per dimo strarsi misericordioso ed essere un sommo sacerdote fedele per le cose che rigua rd ano il rapporto con Dio, allo scopo di espi are i peccati del popolo.
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2 , 1 4- 1 8.
La liberazione mediante la morte di Cristo
5I
Infatti (solo) per essere stato lui stesso tentato di persona e avere preso su di sé la sofferenza poté venire in aiuto a quelli che sono ancora nella prova. r
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8 , 1 8 . 1 6 /s. 4 1 , 8
s.
1 7 Sal. 2.2.,2. 3 .
1 4- 1 8. L'argomentazione dei vv. 1 4- 1 8 spiega come vada compresa
la morte di Gesù avvenuta, in tutto e per tutto, nell'orrore e nella de bolezza del trapassare umano. Si ha così una spiegazione più precisa della riflessione del v. 9 («a causa della morte che ha sofferto»). Se prima al centro della riflessione vi era temporaneamente il rapporto umano di fratellanza tra Gesù e gli uomini, ora vi è il loro destino co mune, l' «essere per la morte», nel qu àle la responsabilità fraterna di Gesù è stata messa veramente alla prova. 1 4 . Con l'aiuto di un semplice processo deduttivo si constata che Gesù deve aver condiviso «il sangue e la carne» «come i figli», e que sto «allo stesso modo», dal punto di vista sia qualitativo che quantita tivo. L'osservazione è estremamente significativa. Non si afferma che abbia abbandonato una condizione celeste. Indubbiamente Ebr. vede le cose in modo molto meno mitico, quantunque naturalmente fosse possibile azzardare un'asserzione così ambiziosa. Ciò che si sottolinea è che Gesù non ha temuto il destino mortale dell'esistenza umana; non è rimasto estraneo a quanto paralizza, umilia e assurdamente an nienta. Se ovunque, nel pensiero del tempo, si parla di «carne e san gue», qui - non senza motivo - l'ordine è invertito, « sangue e carne». Con ciò si fa presente che in questo mondo esistono non solo il venir meno e la morte, ma anche lo spargimento di sangue e la guerra. È un mondo di fratelli ostili, in cui vi è bisogno di salvezza e pace. Cristo le ha portate. Egli non rifuggì dal divenire fratello dei discendenti di Caino, i quali lo misero a morte macchiandosi di fratricidio (cf. 1 1 ,4). Che nel v. 14 sia nuovamente inserito /s. 8,1 8 («i figli») rimanda egualmente a categorie di pensiero bibliche, non gnostiche. Quindi il portatore della salvezza non poteva vivere in alcuna esistenza diver sa da quella degli altri uomini. Era unito ad essi nella medesima crea turalità. Non condusse l'esistenza apparente di un essere celeste che, secondo la concezione dell'antichità, non avrebbe mai potuto morire, perché per il pensiero greco ellenistico (e anche gnostico) esistenza divina e natura terrena non avrebbero mai potuto unirsi totalmente. Ben diverso invece il modo di pensare biblico di Ebr., che sostiene l'unione fraterna di Gesù sino alla caducità corporale per vedere spez-
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zato, in questa identità paradossale, il potere della morte. I vincoli mor tiferi che dominano e tengono soggetta l'esistenza umana non vengo no mutati da un miracolo celeste, ma «mediante la morte», con la qua le» è stato annientato «colui che della morte ha il potere». Evidente mente non è una battaglia simulata quella a cui si pensa né un'esisten za terreno-corporea apparente. Il linguaggio suggerisce piuttosto che l'autore intendesse proprio formulare in modo paradossale il nucleo del messaggio su cui poggia la fede cristiana. Non ci dice come imma gina la vittoria sul nemico. Considera il «diavolo» come colui che ha «il potere della morte» . Dietro tale affermazione potrebbero esservi concezioni tardogiudaiche nelle quali satana è visto come autore del male e signore (o angelo) della morte. In modo analogo anche Paolo parla del peccato come del pungiglione della morte ( 1 Cor. 1 5 , 5 6; Rom. 7, 1 3 ss.); ma per non esonerare gli uomini dalla responsabilità etica, l'apostolo non tiene conto di satana come autore del potere del pecca to e della morte. Ben diversamente la lettera agli Ebrei, ove l'opposi tore satanico, personificazione metafisica di ogni male e di ogni ini micizia, viene intenzionalmente contrapposto alla persona del salvato re (cf. Sap. 2,24). Il sì al Dio personale della vita e della salvezza com porta ovviamente anche il no a colui che è il non-dio, il corruttore e nemico della vita. 1 5 . Fatalmente il mondo è minacciato dall'esterno e dall'interno, co me dimostra la continuazione del ragionamento per cui Cristo, pro prio grazie alla sua morte, ha portato la liberazione a coloro che per tutta la vita sono condannati alla schiavitù per il timore della morte. Difficilmente l'analisi della vita umana e della realtà terrena avrebbe .potuto essere presentata in modo più crudo, ma anche corrispondente a verità, perché ciò che viene chiamato vita qui è realisticamente e spietatamente descritto come schiavitù di esseri destinati alla morte. Con l'immagine della schiavitù s'intende sia la precarietà dell'esisten za u mana sia la sua condizione di colpa. Non si può dire che in simile dichiarazione si colga un animo scettico; dietro le parole vi è incon fondibile la protesta di fondo di uno spirito acutissimo che però, per la fede che ha in Cristo, va avanti per la sua strada, nella certezza pie na di una possibile libertà. Evidentemente non ha la sensibilità dello gnostico, altrettanto consapevole della prigionia dell'anima, ma che nel proprio anelito alla redenzione non riconosce il disperato smarri mento. L'eventualità di una qualche redenzione di sé a basso prezzo
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2, 14- 1 8. La liberazione mediante la morte di Cristo
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non è neanche accennata. L'unica possibilità di salvezza è data dall'at t o liberatorio di Cristo, che ha agito confidando in Dio (2, 1 3). Dal rnomento che Cristo ha portato la liberazione «mediante la (propria) morte», ecco emergere la profonda intuizione che Dio ottiene le sue vittorie attraverso l'impotenza, e che quindi la nostra impotenza ef fettivamente spiana la strada all'agire di Dio. Vi sono stati, nella chiesa primitiva, interpreti dell'opera salvifica che hanno sviluppato l'idea ausiliaria di un inganno del diavolo, o hanno insegnato che Gesù ha dato la propria anima in riscatto a satana, il quale però non è stato in grado di trattenerla. Questi non sono altro che tentativi inadeguati di spiegare l'illogicità dell'agire divino. La paradossalità, qui soprattutto ontica, oggi va dunque trasferita a tutela del carattere decisionale della nostra esistenza sulla prassi - insensata dal punto di vista logico - di un comportamento di amore e sacrificio, per cui a Cristo spetta il ruolo d'iniziatore e perfezionatore della fede. Questo è l'intento che anima la testimonianza cristiana di Ebr. , che non mira affatto a illu strare parzialmente fatti relativi all'aldilà, ma vede l'uomo nel suo ab handono. Perciò si afferma, coerentemente, che Cristo non si prende l:ura degli «angeli» bensì della «stirpe di Abramo». 16. Si rigetta l'assurda eventualità che egli possa essersi facilitato il l:ompito, o che possa essersi dedicato a qualcosa di estraneo e lontano come la salvezza degli angeli. Per obbedienza nei confronti di Dio, egli portò aiuto laddove ve ne era estremo bisogno, cioè agli uomini, la cui vita è come una «malattia verso la morte». Il discorso sulla «stirpe di Abramo» (secondo /s. 4 1 ,8 ss.) presuppone che tutti, giudei c gentili, hanno bisogno di aiuto, ma davanti a lettori giudeocristiani non vi era certo bisogno di mettere tanto in risalto i secondi. Nel contesto considerato, l'accento è posto sul fatto che con la donazione di Dio gli uomini hanno un aiuto nella realtà di questo mondo. Ac canto a sé ora hanno colui che ha superato la morte. Perché potesse essere il salvatore non gli venne risparmiato nulla. 1 7· Una frase illuminante dichiara che questo poteva avvenire solo nell'assoluta solidarietà «sotto ogni aspetto» con i fratelli uomini, ai quali egli divenne «uguale» e non solo simile. Allo stesso modo viene spiegata ancora una volta l'affermazione di 2, 10. Cristo ha potuto di ventare sostenitore degli uomini non come oggetto di un processo celeste né perché era stato, per così dire, programmato in anticipo per la sua missione di salvezza. Al contrario, divenne uguale ai fratelli
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«perché si · dimostrasse misericordioso e fosse un sommo sacerdote fe dele ( = perseverante) per le cose che riguardano il rapporto con Dio» . Queste parole corrispondono esattamente al pensiero biblico che ad ogni automatismo della salvezza contrappone il correttivo della fede richiesta da Dio. La solidarietà di Gesù con gli uomini trovò espres sione convincente nella dimostrazione della fede, dell'amore e della speranza. Nel v. 1 7, per la prima volta e con estrema naturalezza, giac ché si cita la Scrittura (Sal. I Io), il discorso cade sul «sommo sacerdo te» che espia i peccati del popolo. Presumibilmente si sfiora un nuovo punto di vista in funzione di riflessioni che verranno in seguito (cf. 4, 1 4 ss.). Qui ci basti sottolineare che, a prescindere dal destino mor tale della nostra esistenza, ora si parla nuovamente (v. in ultimo I ,J ) e apertamente della corruzione del genere umano. 1 8. In questo modo è reso possibile il passaggio logico al v. I 8, ol tremodo ricco di contenuti e anch'esso aperto a sviluppi ulteriori. In fatti, nella misura in cui è caratterizzato dal peccato, questo mondo è anche una realtà di tentazione. Per questo corrisponde al vero la frase in cui si afferma che al Cristo sofferente tale tentazione non venne ri sparmiata affatto, perché solo in questo modo potevano essere real mente aiutati gli uomini in tentazione. Egli «può veramente» venire in aiuto di chi è nella prova. Il confronto con il Cristo tentato è il primo passo per sperimentare il Signore vivente; infatti la passione di Cristo, in quanto assunta davanti a Dio, è sempre garanzia della presenza del Crocifisso stesso. Cristo, il Figlio fedele nella casa di Dio, vuole anche la fedeltà della sua comunità (3, 1 -6) Pe rciò , fratelli santi che siete partecipi della vocazione celeste, fissate lo sguardo su Gesù, l'inviato e il sommo sacerdote della nostra professione di fede, 2 il quale è «fedele» al suo creatore come anche «Mosè nella sua casa». 3 Egli infatti è stato giu dic ato degno di una gloria tanto maggiore rispetto a Mosè come il costruttore di una casa riceve un onore più grande rispetto alla casa stessa. 4 Ogni casa infatti viene costruita da qualcuno; ma colui che costruisce tutto è Dio. s E Mosè è stato sì «fedele in tutta la sua casa» co me «u n servitore» a testimonianza di ciò che doveva essere detto. 6 Cristo, pe rò, come un figlio «sulla propria casa», e noi rappresentiamo la sua casa se conserviamo saldamente la franchezza e il vanto della speranza. 1
% e sa Num. 12,7.
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SS
1-6. Per la prima volta gli ascoltatori vengono interpellati diretta mente (3 , 1 ). Dopo pensieri molto profondi (2, 5 - 1 8) si giunge ora a una nuova esortazione (3 ,1 ss.) che, come già 2, 1 -4, è accompagnata da una motivazione (3,3 -6). Vi si sottolinea che Cristo, il Figlio, ha rag giunto un onore maggiore rispetto a Mosè. L'esortazione ha lo scopo di raccomandare l'applicazione pratica di quanto detto prima. La se zione con la motivazione racchiude concetti che ancora una volta ri mandano a quanto seguirà. La questione della «vocazione celeste» ri ceverà in un secondo tempo precisazioni sul contenuto (9, 1 5 ) . Il rife rimento tematico al «sommo sacerdote», a cui si era appena accennato in 2, 1 7 ss., caratterizza l'affermazione del v. 1 che fa da cornice. Esso dà peso all'esortazione successiva a non lasciarsi sfuggire l' «oggi» del la promessa divina (J ,7-4, 1 3). In 4, 1 4- 1 6 si ha nuovamente un'esposi zione analoga a 2, 1 7 ss. Anche l'invito a seguire il sommo sacerdote della «professione» di fede viene ripetuto in 4, 14, e in questo modo 3 , 7-4, 1 1 (o 4, I 3 ) risulta essere una sezione conclusa; ma s e ne parlerà diffusamente più avanti. La pericope di cui stiamo trattando intende comunque favorire il passaggio a questo più ampio ragionamento, che non vorremmo definire, con altri interpreti, una «grande interpolazio ne» . Se abbiamo ragione, allora a suo modo si avrà un ulteriore cre scendo nell'omelia. 1. Ebr. presenta pochi appellativi. Tanto più colpisce allora l'espres sione solenne «fratelli santi». Non si tratta di una frase retorica così come usa fare nell'imbarazzo l'oratore per colmare una pausa di si lenzio (cf. J , I 2; 1 0, 1 9 e I J,22). In questo contesto essa ha piuttosto un peso sostanziale, tanto più che si è appena accennato al motivo ecce zionale della comunione dei cristiani, ossia l'essere fratelli del sommo sacerdote Gesù, per mezzo del quale è stato ristabilito il rapporto tra l'uomo e Dio ed è stata compiuta un'espiazione per i peccati. È a lui che va dedicata ogni attenzione. È chiaro che l'esortazione intende provocare una decisione. Non afferma nulla di ovvio, ma rimanda a una particolare condotta in quanto gli ascoltatori sono partecipi di una «vocazione celeste». Non si tratta tanto di una vocazione generica a essere cristiani, ma del compito specifico di rafforzare la «chiamata» e dar prova di sé in quanto · battezzati. L'appellativo rivela che ci si immagina gli interpellati come partecipanti a un'azione liturgica so lenne, forse collegata a una liturgia battesimale (cf. 1 0,22), per cui era opportuno ricordare anche l'istruzione ricevuta un tempo (6, I I ss.).
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Ebr. J,I-6. Cristo e la fedeltà della sua comunità
Anche la definizione «partecipi di una vocazione celeste» va precisata. Risulta logica e naturale l'associazione col tipico concetto della «pro fessione di fede», che qui verosimilmente significa, in senso lato, la testimonianza con parole e opere. Apprendiamo che il cristiano non può attualizzare da solo, per sua essenza, una natura celeste, ma che viene sollecitato a farlo sulla base della parola di Dio che gli viene an nunciata. Da un certo punto di vista la meta è assai lontana, ma l'aiuto che fornisce per orientarsi l' «inviato» e «sommo sacerdote della no stra professione di fede» può essere considerato assolutamente affida bile. Dietro di lui vi è Dio che lo manda ( r ,2 ), e nel servizio sacerdota le ha dato prova di sé in modo straordinario. Le frasi sono composte tenendo presente il Sal. I I o, come rivela il tema del «sommo sacerdo te» (e come avviene già in 2, I 7). Sal. I 1 0,2 dichiara inoltre che Dio, il Signore, «manderà» il dominatore, colui che siede alla sua destra. Ebr. sa che l'autorità e il mandato di Dio hanno preso forma in «Gesù». Analogamente a Fil. 2, 5 ss. è espresso chiaramente che si tratta di un portavoce terreno e della sua condotta davanti a Dio. È lui il contenu to della «professione di fede». Con questo termine si vuole indicare tanto l'atto che il contenuto della professione. Probabilmente si allude in senso lato alla testimonianza battesimale della comunità, che esige fedeltà (v. ancora 4, 1 4) e che, viceversa, assicura la fedeltà da parte di Cristo, il quale è garante della promessa della speranza eterna (cf. I o, 22 ss.). Non bisogna pensare a una formula confessionale fissa, che magari veniva pronunciata anche dal sommo sacerdote, ma piuttosto a un atto liturgico formale (v. anche I J , I 5 ) che presumibilmente assu meva un carattere di giuramento e d'impegno solenne, per cui si po neva in particolare il problema della possibile apostasia. In 3 ,7-4, 1 3 l'autore affronta con estrema energia questo problema e i l pericolo connesso. Prima di inoltrarsi nelle profonde verità della fede in Cri sto, con grande energia pastorale richiama l'attenzione della comunità sulla gravità della decisione presa. 2. Dai suoi membri si attende fedeltà, ossia nient'altro che la rispo sta allo stesso comportamento di Gesù che, di fronte al suo creatore, ha dimostrato la propria fedeltà. Sorprende che sia descritta non tanto una certa condotta in una determinata occasione, quanto in generale il rapporto attuale di fedeltà di Gesù verso Dio. Secondo 2, 1 7, Gesù è divenuto sommo sacerdote «fedele » soffrendo con i fratelli. Qui è scritto che la comunità può basarsi sempre su questo fatto. Il rapporto
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del Figlio con il Padre è quindi definito come rapporto tra creatura e creatore, cosa che per l'autore non rappresenta una contraddizione ri spetto a tutte le altre affermazioni entusiastiche riguardo al Figlio co me mediatore della creazione. È evidente che l'idea di un rapporto me tafisica essenziale tra Gesù e il «creatore» gli è assolutamente estranea. La posizione del Figlio rispetto al Padre è da lui definita in modo bi blico come rapporto di obbedienza e fedeltà, concetto che illustra ri mandando al servizio «fedele» di Mosè «nella sua casa» e riprendendo quindi intenzionalmente una testimonianza data da Dio riguardo a Mosè in Num. I 2,7 (v. LXX). Grazie a questa fedeltà Mosè assunse una posizione tale davanti a Dio da collocarsi al di sopra degli angeli. 3· Incrementando le considerazioni precedenti si prende poi spunto dal concetto di «casa» per affermare che, quanto a grado, Gesù è sta to giudicato degno di maggior gloria rispetto a Mosè. A questo, infat ti, era stato riservato il compito di guida nella «casa» d'Israele affida tagli, tuttavia non può comparire come costruttore di tale «casa». In fondo, occupando il primo posto nella comunità, ruolo di grande re sponsabilità, era solamente una parte della casa, non certo il «costrut tore» stesso per potersi elevare «sopra» di essa. Di conseguenza - e qui l'argomentazione, in forma di analogismo, segue le regole dell'in terpretazione rabbinica - il posto d'onore di Gesù è maggiore; difatti in quanto «figlio» è sullo stesso piano di Dio, il costruttore della casa. Formalmente il concetto della «casa» servita da Mosè è ripreso da Num. 1 2,7, ma rispetto al contenuto è ovvio che si pensa in senso lato alla «casa d 'Israele>> (cf. al riguardo Sal. I 1 4, 1 ; 1 I 8, I ss. ). 4· Il v. 4a è di tono piuttosto generico. Affermando che ogni casa è costruita da qualcuno esprime un'idea secondaria. Ma quello che è un dato di fatto generico, nell'analogia considerata consente di continua re il pensiero affermando che anche Dio, che tutto ha creato ed edifi cato, è costruttore di una «casa» che abbraccia il mondo intero. Questa riflessione presuppone che Gesù, il Figlio del Padre, possa conside� rarsi Signore di questa «casa di Dio». Stando a I,2, effettivamente lo è in quanto «erede» di tutte le cose. L'idea guida sottolinea che egli, in quanto figlio, per ruolo ed onore è sullo stesso piano del costruttore. Il pensiero del rapporto di fedeltà non viene comunque dimenticato. 5· Dopo i concetti intermedi considerati, il procedimento dimostra tivo si avvia ora definitivamente verso la conclusione. Mosè (secondo Num. I 2,7) si dimostrò fedele nella sua casa come «servitore» (cf. an-
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Ebr.
J,7- I I .
L' «oggi... della chiamata divina
che Es. 4, Io; I 4,3 I ; Num. I I , I 1 ecc.). Soprattutto avveniva che riferis se integralmente e senza falsificazioni ciò che «veniva detto», ossia le parole di Dio. Per Num. I 2,8 (LXX) egli era insomma la «bocca» e il «portavoce» di Dio, poiché riportava al popolo la testimonianza, non in modo «poco chiaro» o «cifrato», bensì alla lettera. Dietro a questo concetto vi è la convinzione sia della santità assoluta della torà sia del suo carattere etico vincolante. 6. Mentre Mosè si dimostrò fedele «nella sua casa», affidatagli da Dio, Cristo in quanto figlio sta «sopra la sua casa»; dal Padre è stato costituito erede e possessore. La sua dignità dunque è unica e maggio re. Il titolo onorifico «Cristo>>, messo non per caso, rafforza l'intento, poiché ricorda che come l'essere servitore era compito di Mosè, il ruolo di Cristo spettava al Figlio. In I 0,2 I è detto in maniera ancora più esplicita che noi abbiamo un sommo sacerdote «posto sopra la ca sa di Dio>>. Il «sì ... però» della frase precisa con insistenza lo scopo cristologico della dimostrazione. Seguono ora, un po' di sorpresa, ma adeguatamente inserite nel contesto della trattazione, le conseguenze pratiche per i lettori compresi in quel «noi» di J , I («la nostra profes sione di fede»). A che scopo questa nuova riflessione ? La «casa di Dio», sopra la quale il «Figlio» è stato posto come erede (cf. Sal. I I o), siamo «noi», i cristiani. Il v. 6 parla più esattamente della «casa di Cri sto » . Non è facile divenirne partecipi. L'appartenervi dipende anzi da determinati presupposti (cf. 2, I 7). L'Israele dell'antica alleanza era le gato da un vincolo di sangue, mentre la casa, ovvero la comunità, di Cristo si presenta come «popolo» di coloro che hanno ricevuto la re missione dei peccati. Il punto di vista nazionale in questo modo viene a mancare. Se la «casa d'Israele» aveva solo una durata limitata, la «casa di Dio» ora definitivamente realizzata e che in Cristo ha la pie tra angolare (Sal. I 1 8 ,22) conduce al mondo celeste eterno. Per il cri stiano ogni cosa dipende dalla capacità di conservare «la franchezza e il vanto della speranza». Con queste parole si ricorda che la fede è questione di «professione» libera e vittoriosa (cf. J , I }. Come Israele, anche il nuovo popolo di Dio corre il rischio di trascurare la promessa del riposo sabbatico (3 ,7-4, I 3 ) _ Stando alla forma, questa sezione a s é stante s i presenta come «ome lia» nell'omelia, per cui la troviamo anche, non a caso, come esortazio-
Ebr. 3,7- 1 1 . L'c oggi» della chiamata divina
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ne tipica in un sermone che vuoi essere «parola di esortazione». Ne ri sulta che nel complesso della composizione non le spetta un ruolo se condario, ma anzi un compito estremamente importante. L'autore non divaga in excursus, ma conferisce alla sua esposizione proprio la forza critica dirompente necessaria a fare della parola umana una parola di Dio; soltanto questa infatti, non certo la riflessione umana, è in grado d'imporre una decisione con la necessaria inflessibilità. Ebr. parte dal presupposto che l'oratore può contare sulla piena autorevolezza solo se riferisce una parola autorevole. Perciò la pericope conclusiva di 4, 1 2 ss., che può apparire singolare, è parte integrante di questa «esorta zione» estremamente dura. La lettera agli Ebrei dimostra nuovamente la ragione del suo discorso, per cui ora al di là di 3,3-6 pensa in modo ancor più radicale. Attenzione particolare meritano le affermazioni di 3,7-4, 1 3 in quan to parte tipica dell'insieme omiletico. Alla loro base vi è una vasta se zione tratta dal Sal. 9 5 . L'autore è consapevole di trovarsi con la sua comunità in un'epoca di transizione, come l'antico Israele nel deserto. Si tratta di un «tempo breve» (cf. 1 0,37). È possibile che, per l'adem pimento delle aspettative, tacitamente si pensasse a un intervallo di circa quarant'anni, come la durata dell 'esodo (cf. anche 10,3 7 s.). Co me già accennato, la lettera agli Ebrei potrebbe essere stata composta tra il 6o e il 70 d.C. L'autore calcola segretamente gli anni a partire dalla data della morte di Gesù (3 0 d.C.). Dall'invito all'esortazione «quotidiana» traspare una certa urgenza dell'attesa. L' «oggi>> della chiamata divina esige un'ultima decisione (3 ,7- 1 1 ) 7 Pe rciò, come dice l o Spirito santo: «Oggi, s e udite l a sua voce, 8 non in durite i vos tri cuori come nel l 'esas peraz ion e il giorno della tentazione nel deserto, 9 ove i vostri padri (mi) misero alla p rova Io e videro per quaran t'anni le mi e opere. Perciò mi disgustai di questa generazione e dissi: «So no sempre n e li ' errore con il cuo re » Ma essi non riconobbero le mi e vi e, 1 1 per cui giurai nella mia ira: «Non en trino nel mio rip oso! ». .
7-1 1 Sal. 9 5 ,7- 1 1 .
Se da Gesù la chiesa può imparare cos'è la fedeltà, dal popolo dell'antica alleanza può apprendere com'è facile cadere nell'infedeltà. Anche se la riflessione principale è del tutto ragionevole, tuttavia da 7·
60
Ebr. J,7- 1 1 .
L,«oggi» della chiamata divina
un punto di vista logico e linguistico il passaggio suscita alcuni inter rogativi. Si era appena affermato che l'appartenenza alla casa di Cristo alla fin fine è decisa dall'atteggiamento dei cristiani che devono perse verare fiduciosi e sereni nella loro speranza. E subito dopo, in modo piuttosto inaspettato, si ha l'inserimento della citazione di Sal. 9 5 ,71 1, dal tono duro e ammonitore: «Perciò, come dice lo Spirito santo». L'apparente pesantezza non va spiegata col fatto che celatamente si pensava già al proseguimento del v. I 2: «Guardate perciò, fratelli, che non ... » . La formula introduttiva «come dice lo Spirito santo», espressa in modo un po' stereotipato, fa apparire più probabile che quel «per ciò», in base al proponimento precedente, vada inteso nel senso: «Per tanto va tenuto presente ciò che dice lo Spirito santo», per poi sposta re l'attenzione sul v. 8 e affermare: «Pertanto è necessario ... non in durite i vostri cuori ! » . È chiaro che la parola biblica, nel complesso del l' esposizione omiletica, non serve principalmente come citazione vera e propria. L'autore anzi per dar più peso alla propria parola ammoni trice si serve del forte monito biblico, il cui significato salvifico attuale è per lui fuor di dubbio. Innanzitutto la lunghezza della citazione, che comprende tutta la parte conclusiva del salmo ed è riportata proba bilmente a memoria, ne ha fatto l'argomento formale più forte, da cui nuovamente la necessità di spiegarla meglio nei particolari. Il modo di procedere di Ebr. è sorprendente. Quasi irriguardosamente e d'im provviso pone i lettori di fronte a una parola dello Spirito che deve colpirli e stimolarli profondamente. Avendo essi preso come comuni tà (battesimale) una decisione che si lascia alle spalle ogni volontà or dinaria, la lettera ricorda loro con insistenza e vigore che sulla strada intrapresa non può esservi ritorno né ritiro. Le conseguenze sarebbe ro altrimenti spaventose (cf. I 2; 4, I ). Dietro a questo procedimento vi è la ferma convinzione che la parola della Scrittura sia di grande attua lità. L' «oggi» è inteso come chiamata attuale dello Spirito di Dio, il qua le afferma che i cristiani interpellati - secondo J , I «partecipi di una chiamata celeste>> - devono prestare ascolto alla voce di Dio. L' «oggi » comprende il periodo di proclamazione del messaggio di Cristo ( ana logamente a 2 Cor. 6,2 ) , ma è evidente che punta anche alla particolare situazione liturgica in cui la «chiamata>> di Dio possa essere colta in una chiara accettazione. 8. Poiché la franchezza e la certezza in ciò che spera caratterizzano il cristiano, non vi può essere indurimento del cuore. Con ciò s'inten-
Ebr.
3,7- I I .
L' «oggi» della chiamata divina
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de l'ostinazione per cui l'uomo s i chiude alla voce d i Dio, e non il cuore inquieto e in ricerca. La Scrittura biasima l'atteggiamento di chi si rivolta contro Dio con arroganza e spirito di ribellione. La comuni tà quindi viene messa in guardia da quella «esasperazione» che porta al rifiuto di Dio, così come a Massa e Meriba Israele si era abbandona to al dubbio: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no ?» (cf. Es. I 7, I ss.). Dio punisce una condotta tanto ostinata perché non piomba su Israele all'improvviso come una contestazione, ma andava preparandosi da tempo e deliberatamente. 9· Sebbene faccia parte della citazione, l'appellativo «i vostri padri» allude a persone interpellate come giudeo(cristiane). In certi periodi della storia non ci si dovrebbe mai impuntare sconsideratamente con tro Dio. Anche qui Ebr. intende rivolgersi direttamente alla comunità. Non è forse vero che anch'essa esce da esperienze di fede inaudite (cf. 2, I -4) ? I O. Per quarant'anni Israele nel deserto ha visto le «opere» di Dio. Che cosa significa? Grazie a un «perciò» in più (che prosegue con «mi disgustai ... » ) , la citazione presenta una divisione differente rispetto al la versione dei LXX, ove invece è scritto: «e videro le mie opere. Per quarant'anni mi adirai contro quella generazione». Mentre qui si in tendono le opere della collera, l'autore di Ebr. pensa invece piuttosto alle «prodigiose» dimostrazioni di potere come segni della guida mi sericordiosa di Dio. Di conseguenza la condotta dei padri dovrebbe apparire tanto più sorprendente alla comunità interpellata, quanto più comprensibile la reazione di Dio. Il fallimento di un tempo non deve assolutamente ripetersi. Inoltre, su esempio del salmo, il luogo esatto non viene specificato, primo perché in fondo è irrilevante, e poi per ché sarebbe d'impedimento alla testimonianza. Mentre il testo ebraico fa riferimento a «Massa» e a «Meriba», circostanza senz'altro nota a Ebr. , l'autore della lettera trascura completamente i particolari relativi alla località, come del resto fa la versione greca. In questo modo tutta l'attenzione si concentra sul comportamento d'Israele nel suo com plesso; ed è proprio la sua mancanza di fede che la comunità del nuo vo popolo di Dio non deve e non può far propria. Le tappe dell'esodo acquistano necessariamente forza espressiva per illustrare quei tipi di comportamento che meritano una punizione («sdegnarsi» con Dio, «metterlo alla prova», «tentarlo» ). Col v. IO la citazione del Sal. 9 5 passa al discorso diretto, e a parlare è Dio stesso. Vi esprime il dis gu-
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Ebr.
3 ,7- 1 1 .
L' «oggi» della chiamata divina
sto per la generazione dell'esodo, di cui è stufo e che in fondo al cuore
è sempre stata incline all'errore, benché le fosse consentito vedere le «opere» divine. I I . Venendo a mancare la fede e l'obbedienza, nella sua collera Dio ha giurato che non sarebbe mai entrata nel suo riposo, ossia nella «ter ra promessa» da lui prospettata. La riproduzione letterale della frase del giuramento tratta dalla versione greca dei LXX, che non può esse re compresa senza la conoscenza del testo ebraico, comprova la for mazione biblica giudaica dell'autore (cf. Num. 1 4,30). Dal canto suo neanche Ebr. ha compiuto variazioni di sorta, perché il carattere ispi rato della parola di Dio è per essa un massimo assioma. Il tremendo giudizio di Dio emesso sulla generazione dell'esodo viene pienamente accolto in funzione intimidatoria. Tuttavia non è certo inteso in senso antigiudaico, segue anzi in tutto l'uso della sinagoga, la quale sapeva anch'essa giudicare in modo altrettanto duro. La citata bizzarra divi sione del salmo effettuata al v. roa dà l'impressione che Dio sia inter venuto solo dopo quarant'anni, mentre la testimonianza dell'Antico Testamento parla piuttosto esplicitamente e con estrema precisione dell'inizio dell'esodo, a volte addirittura del secondo anno (Num. I 4,2 1 -3 5; 3 2, 1 0- 1 3; Deut. 1,34-40), collegando così a una causa precisa la lunga permanenza nel deserto. Effettivamente questa divergenza dall'originale, lieve ma certo intenzionale, permette di fare un con fronto più pertinente rispetto alla situazione dei lettori. Ora si sa di essere alla fine dell'esodo, e non all'inizio. Non va esclusa l'eventualità che l'attesa del cristianesimo delle origini contemplasse, come quella giudaica, in primo luogo un periodo messianico di quarant'anni, cosa che già rabbi Elieser (attorno al 90 d.C.) riteneva tramandata: «l giorni del messia sono quarant'anni, come è detto in Sal. 9 5 , 1 0» (bSanh. 99a). Tuttavia nella nostra lettera non viene riportato alcun calcolo, mentre tutta l'urgenza di cui si è consapevoli viene trasformata in pres sante esortazione a tenersi pronti. Si può rammentare che in modo a nalogo anche Paolo, con fare ammonitore, aveva alluso all'esempio di Israele ( 1 Cor. 1 0,7). La croce come fondamento della condotta cri stiana è il segno posto da Dio che rimanda ali' amore e alla speranza. La fede cristiana ha bisogno della disponibilità incondizionata all'azio ne, né può mai fare a meno della perseveranza necessaria per affronta re un futuro ultimo.
Solo la reciproca esortazione quotidiana scongiura il pericolo dell'apostasia (J ,I 2- I4) 1 2 Fratelli, state attenti che in nessuno di voi vi sia un cuore malvagio e in fedele che potrebbe rinnegare il Dio vivente! 1 3 Piuttosto esortatevi a vi cenda, ogni giorno, finché viene proclamato l' «oggi», affinché nessuno tra di voi sia indurito dall'inganno del peccato. 14 Noi infatti siamo divenuti compagni di Cristo, se manteniamo salda sino alla fine la fede iniziale. 13 Sal. 9 5 ,7 ss.
Essendo la chiesa in cammino come l'Israele dell'esodo per una meta eterna, in quanto comunità di «fratelli», così l'appellativo, essa deve preoccuparsi che nessuno rinneghi la propria fede. Ognuno è re sponsabile dell'altro e ciascuno risponde di chi rimane indietro. Il mo nito è diretto a evitare l'apostasia dalla fede di Cristo, alla quale è lega to il «vanto della speranza» (3,6). L'affermazione non suffraga affatto l'ipotesi secondo la quale qui potrebbero essere intesi destinatari etni cocristiani minacciati dal pericolo di ricadere nell'idolatria senza Dio. In fondo già Num. 14 parlava di apostasia in relazione a Israele. Essa costituisce il pericolo in assoluto più temibile nell 'epoca cristiana, tempo dell' «oggi>> e perciò tempo in cui la voce di Dio risuona nuo vamente in modo particolare (cf. I 2,2 5 ) . Dio esige quella fede che si volga a lui senza condizioni o riserve, con la piena fiducia nella sua parola. 1 3 . Ciò che trasmette il nostro oratore, ossia una «parola di esorta zione», in fondo deve essere compito di tutti gli interpellati; infatti . L'uso linguistico potrebbe orientarsi a /s. 5 2,7 (LXX). Evidentemente il vangelo come «buona novella» non è semplicemente testimonianza di Cristo, ma piuttosto annuncio incoraggiante delle cose ultime che il suo sacrificio ci ha svelato: il pericolo vero e proprio, da cui si è messi in guardia, non è una concezione cristologica errata, bensì il venir meno della tensione escatologica della fede. L'orientamento sostanziale al futuro può essere sottovalutato. In ciò l'autore vede anche il reale fallimento d 'Israele nel deserto: invece di guardare avanti, restò sempre ancorato al presente. In fondo il Dio che lo aveva fatto uscire dall'Egitto ha com piuto i prodigi maggiori nel futuro. Segue poi una chiarissima defini zione del concetto di fede che corrisponde appieno all'esame svolto (cf. I I , I ). La vera fede ha uno spiccato carattere di certezza: l'attività individuale non dev'essere sepolta, ma messa allo scoperto. Ciò può accadere solo se alla domanda del significato di tutto ciò fa riscontro una risposta. Per questo motivo al fallimento d'Israele Ebr. non con trappone se non la certezza della fede dalla quale Dio si attende tutto. 3· Rifacendosi al Sal. 9 5 constata che «noi», che siamo giunti alla fe de, entriamo «in riposo», e questo in considerazione del giuramento che impedì a Israele di fare altrettanto. Dio avrebbe giurato «sebbene le opere fossero create fin dalla fondazione del mondo». Poiché in un
Ebr. 4,4-9. La prova di un futuro «riposo di Dio»
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primo momento la risposta, presentata in forma assai abbreviata, non del tutto comprensibile, segue una dimostrazione accurata (4,4- 1 0) dalle linee di fondo chiarissime. Quando Dio portò a termine le opere della creazione preparò un «riposo» eterno per sé e per l'uomo. Poi ché a causa del proprio fallimento Israele non poté entrarvi, l'offerta è rimasta valida sino a questo momento. Perciò il nuovo popolo di Dio può e deve sfruttarla. Con riguardo alla particolare aspettativa di Ebr. occorre far notare l'affermazione al presente «noi che siamo pervenuti alla fede entriamo nel riposo» . Ebr. è guidato dall'idea che con l'essere cristiani sia stato stabilito il rapporto con una nuova realtà che schiu de al credente (e a lui solo) il mondo ( = riposo eterno) di Dio. In que sto si distingue dal pensiero ellenistico filoniano, che fondamental mente tra l'uomo e il mondo di Dio mantiene un contrasto superabile, almeno in parte, solo mediante la conoscenza e la visione religiosa. L'idea inoltre indubbiamente punta a stabilire che l'attesa deve tende re al futuro, ove Dio ha preparato l'ultimo compimento. L'autore è guidato dalla salda convinzione che la fede cristiana apra a una re la zione con Dio, la cui dimensione non solo abbraccia una nuova com prensione del presente, ma schiude anche quel futuro in cui Dio avrà un posto irrinunciabile. è
Anche la testimonianza di Davide è prova di un futuro �riposo di Dio» (4,4-9) 4 Infatti a proposito del settimo giorno da q ual che parte ha detto così: «E nel settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere». 5 E di nuovo al passo citato è detto: «Non entreranno nel mio riposo». 6 Poiché du n que risulta che alcuni debbono ancora «entrarvi», e d'altra parte q u elli che per primi ricevettero la buona notizia non vi sono entrati a causa della loro infedel tà, 7 allora di nuovo egli fissa un giorno «oggi », per dire dopo tanto tempo per mezzo di Davide con le parole già citate: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cu o ri» 8 Se infatti già Giosuè li avesse introdotti al ripo so, non avrebbe in seguito parlato di un altro giorno. 9 Dunque ne deriva che al popolo di Dio resta ancora un riposo sabbatico. .
s-7 Sal. 9 S , I I e Sal. 9 5 ,7 ss.
4-9. La dimostrazione, completata con 4,4-9 e che deve dar forza al l'idea di un riposo ancora da godere, scompone accuratamente le con nessioni appena create.
68
Ebr. 4·
4t4-9·
La prova di u n futuro «riposo di Dio,.
Con il metodo dell'indeterminatezza tipico soprattutto di Filone
(v. «da qualche parte» anche in 2,6}, viene espressamente citato il
classico passo di Gen. 2,2 in cui Dio impone il riposo sabbatico nel settimo giorno della creazione. In tutta la letteratura del primo giudai smo e del cristianesimo delle origini esso rappresenta la prova princi pale per il futuro grande «giorno di Dio», che abbraccia mille anni. L'ottica di Ebr. , che va direttamente al nocciolo, rinuncia a fornire nu meri. In questo modo è messo in risalto l'essenziale: come fu il prin cipio, così sarà anche la fine della creazione. Perciò l'uomo della te stimonianza biblica sa di essere stato liberato per vivere in modo eti camente responsabile sotto la chiamata di Dio. 5. La validità permanente di Gen. 2,2 viene infine appoggiata dal ri ferimento a Sal. 9 5 , I I , testo principale del ragionamento, in cui il con cetto centrale del «riposo» ha anch'esso una sua precisa collocazione. Per il pensiero biblico, da questa uguaglianza di parole deriva il diritto a trarre determinate conclusioni. Cercheremo di capirle, anche se non è più possibile adottarle. 6. Se anche il salmo sa che all'Israele del deserto non è stato conces so di entrare nel riposo, tuttavia l'affermazione mantiene la sua validi tà per altri che potrebbero entrarvi. Dio non ritira mili una parola da ta. Se coloro ai quali in un primo tempo, con tale offerta, era stata pro clamata una «buona novella» non vi sono entrati, allora era evidente che la promessa fatta prima sarebbe tornata a essere nuovamente vali da a un tempo stabilito. 7· Ciò avvenne quando Davide diede nuovo risalto alla parola di Dio. Secondo la convinzione di Ebr. Dio non può parlare a caso. Dietro le sue parole vi è sempre un significato saldo e permanente. 8. Perciò si aggiunge che Giosuè non ha ancora introdotto Israele nel «riposo». È vero, lo ha condotto nella terra promessa, ma questa non ha mai costituito il vero contenuto della promessa divina. Esami nando il contenuto dell'ultima affermazione, la tecnica interpretativa del nostro autore, basata sulla conoscenza della Scrittura, sfiora invece un principio metodologico dell' allegoresi alessandrina neoplatonica. L'interessante circostanza che in questo passo si utilizzi senza riserve la versione grecizzata del nome Giosuè, ossia (come nei LXX) «Ge SÙ», è una conferma dei contatti esistenti con la sinagoga ellenistica, che gettano una luce particolare sulla composizione di Ebr. La lettera è scritta partendo fondamentalmente dalla convinzione che la parola
Ebr. 4, 1 o s. Il pericolo della disobbedienza
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della Scrittura è aperta, sia temporalmente sia dal punto di vista cono scitivo; essa vuoi dire qualcosa di permanente, che è il contenuto reale del compimento futuro. 9· Riguardo all'accurata dimostrazione successivamente inserita, si può allora concludere che al «popolo di Dio», l'espressione compare qui per la prima volta, effettivamente spetti ancora un «riposo sabba tico», il quale deve costituire l'oggetto della sua speranza (cf. 4, I ). Sul la base del cap. 4 è stata elaborata la tesi (E. Kasemann) secondo la quale, grazie al concetto di «popolo di Dio itinerante», sarebbe possi bile riportare tutta la testimonianza di Ebr. a un unico denominatore comune teologico, tanto più che avrebbe a fondamento anche un cer to concetto (gnostico) di redentore. Ma Ebr. s'immagina veramente un «popolo di Dio» (v. anche I I ,2 5) in cammino ? Una più attenta consi derazione fa nascere delle riserve; infatti è evidente che l'autore di E br. sente di essere, con la comunità interpellata, non all'inizio della pere grinazione, ma molto vicino alla sua conclusione. L'entrata nel riposo sabbatico, da un certo punto di vista, è anzi già cosa del presente, del l' «oggi». Si fissa dunque categoricamente ciò che è ritenuto una verità e di cui si può prendere possesso. Tutti dovrebbero prendere sul serio il pe r icolo della disobbedienza (4, I O s.) Io Infatt i chi è «entrato nel suo riposo» giunge anche «al riposo dalle sue ope re» come Dio dalle proprie. I I Aspiriamo dunque ad «entrare in qu el ri poso», affinché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza. 1 0 s. Sal. 95 , 1 1
ed Es. 2,2.
Per approfondire il risultato vengono inserite ancora una spie gazione in stile personale-individuale e un energico monito in prima plurale «noi», analogo all'enunciato di 4, I . Là si trattava di parole di incoraggiamento, qui di un'esortazione. Come Dio nel settimo giorno si riposò dalle sue opere, così anche l'uomo che è entrato nel riposo di Dio «giunge al riposo dalle proprie opere». Cosa significa ? Riguardo a Dio si tratta certamente degli atti creativi di cui riferisce Gen. I , dei quali si può pensare soprattutto che costarono fatica e lavoro. Se in seguito è detto che l'uomo è giunto al riposo dalle «sue opere», ciò può solo significare che ha deposto quanto vi era di gravoso e ostaco1 0.
Ebr. 4, 1 2
70
s.
La parola di Dio come dimensione giudiziale
lante. Certo non si tratta dei pesi che gravano normalmente sulla vita umana e che non vengono risparmiati a nessuno, ma piuttosto del com plesso degli errori di una vita, errori che necessitano del perdono. Que sta idea sarebbe allora del tutto analoga a quella che compare in 1 Pt. 4, I ss.: «colui che soffrì nella carne», Cristo, «ha fatto cessare ( = ha portato riposo) dal peccato». Dietro a tale espressione vi è un ricchis simo patrimonio di idee giudeocristiano. Per esempio, dei giudeocri stiani Epifanio scrive che predicavano Cristo come grande «sabato» (Pan. 3 0,3 2,6 ss.). Evidentemente la frase esplicativa non indica un «riposo di Dio» che avrà inizio solo in un lontano futuro. È piuttosto una realtà della salvezza offerta, la quale avrà prossimo compimento con l'intervento di Dio. 1 1 . Da questa tensione nasce la necessità dell'esortazione a compie re ogni sforzo per entrare in «quel riposo», «perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza (d'Israele)». Non è messa in discussione la comunità nel suo complesso, ma la singola persona. In quanto «casa di Dio» (3 ,6) la comunità ha comunque un fondamento più saldo e si curo rispetto a Israele. Il pericolo dell'apostasia è tuttavia da prendere in seria considerazione dal singolo cristiano (cf. J, I 2; 4, I ). Il suo falli mento personale può comportare la perdita della salvezza, divenendo così molto più profondo di quello d'Israele. La parola di Dio rappresenta una dimensione giudizi ale (4, I 2 s.) 1 2 La pa ro la di Dio infatti è viva, efficace e più affilata di una spada a dop pio taglio, per cui trapassa fino alla divisione di anima e spirito, articola zioni e midollo, e giudica i sentimenti e i pensieri del cuore. 1 3 No n v'è creatura che non sia manifesta davanti a lui. Anzi tutto è nudo e messo allo scoperto davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto.
Anche il nuovo popolo di Dio prende le sue decisioni sapendo quanto sia inesorabilmente affilata la parola di Dio. Alla base della fra se ammonitrice di 4, 1 I vi è una concezione teologica che al tempo stes so porta a conclusione l'intero monito (3,7-4, I I ). Nel loro rigido orien tamento tematico le frasi suonano come un excursus. Formalmente si tratta di un compatto enunciato allegorico riguardante le caratteristi che giudiziali della parola di Dio, che viene paragonata a una spada. Si preannunciano così pensieri fondamentali che ancora una volta collo12
s.
Ebr. 4, 1 0 s. Il pericolo della disobbedienza
71
cano l'autore vicino alla teologia alessandrina filoniana, benché s i pos sa scorgere anche il carattere peculiare della sua esposizione. Effettivamente Filone (in un'interpretazione di Gen. 1 5 , 1 0) descrive con parole simili la forza disgregante della parola (Rer. I J0- 1 40, 2 2 5 , 2 3 4-2 3 6), intendendo però, sullo sfondo di una concezione del mondo panteistica, di filosofia stoica, la capacità critica dell'intelletto di scom porre l'universo e di comprendere la composizione contraddittoria del cosmo: «Perché il logos divino ha diviso e scomposto tutte le cose nella natura». Differenziandosi nettamente da questa posizione, il me desimo concetto in Ebr. non presenta gli elementi di razionalità gene rale né quelli della scomposizione logico-razionale. Indubbiamente si aggiungono poi concezioni strettamente bibliche che non sono orien tate al concetto di ragione né a un concetto filosofico di sapienza (cf. Sap. 7,2 2), bensì alla testimonianza della volontà divina. Di conseguenza la parola di Dio non è parte essenziale del mondo, ma tende a esso, più esattamente all'uomo, per esporre e affermare ciò che Dio esige. La «parola» non è la ragione del mondo su cui si basa ogni essere, ma è qualcosa di inaudito che Dio manifesta in modo certo e vincolante nel contesto dell'ascolto e dell'obbedienza. I fondamenti di questa con cezione si trovano nell'Antico Testamento, ove soprattutto i profeti testimoniano la potenza della parola e se ne fanno carico (/s. 40,8; 49,2; Ger. 2 3,29 ). In Sap. 1 8, 1 5 la «parola di Dio» che libera Israele nella notte pasquale è paragonata a un «guerriero implacabile» che dal cielo si lancia sulla terra: «Come spada affilata egli portò il tuo ordine inesorabile, e fermandosi riempì ogni cosa di morte». Che le parole della torà siano simili a una spada è convinzione diffusa anche presso i rabbi. Ebr. è più vicina a questo paragone di tipo immaginifico che non al concetto filosofico di logos. 1 2. Per Ebr. la parola di Dio non è una parola il cui contenuto sia comunque Dio o il divino, ma è ciò che Dio in persona pronuncia e le cui caratteristiche gli sono conformi. Come lui, anch'essa è viva e in tende quindi portare alla vita (Deut. 3 2,47; 1 Pt. 1 ,2 3 ). Il non ascolto comporta sempre la morte. La vera vita, proprio in considerazione della vera realtà di questo mondo (cf. 2, 1 5 ), può solo essere espressa con riguardo a Dio. La parola non è qualcosa di inanimato, non è eco né fumo, ma ci porta più vicini alla realtà della sua persona. L'uomo vive di essa (Le. 4,4). In quanto parola su Dio è anche parola di Dio. La parola di Dio è «efficace»; provoca l'efficacia di cui parla. Dio
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·Ebr. 4, 1 .1 s.
La parola di Dio come dimensione giudiziale
veglia sulla propria parola affinché essa «avvenga» (/s. 5 5 , 1 1 ). Può es sere fonte di salvezza o di perdizione, come mostra in modo esempla re la storia d'Israele. Quanto la duplice funzione della parola sia al cen tro della riflessione è evidenziato dalla terza caratteristica: è «più affi lata» di una spada a doppio taglio. Con questo diviene chiaro che ine vitabilmente non si tratta solo di vita e di efficacia, ma anche di divi sione e separazione, e dunque dell'istituzione di chiari rapporti da par te di Dio. Lo stesso concetto viene ripetuto in tre punti che propon gono altrettante nuove immagini. Quando «trapassa>>, la parola di Dio divide ciò che vi è di più intimo, stretto e segreto. Anima e spirito de finiscono la parte spirituale dell'uomo, quella per così dire più interio re di cui si è responsabili di fronte a Dio. L'immagine della separazio ne delle articolazioni dal midollo probabilmente non intende introdur re l'ambito anatomico, ma si riferisce a qualcosa di strettamente legato insieme. Infine si afferma che la parola è giudice «dei sentimenti e dei pensieri del cuore», e quindi può mettere allo scoperto anche ciò che vi è di più segreto. Evidentemente la parola di Dio è l'arma più affilata che possa colpire l 'uomo. D'altra parte non esiste altro mezzo con cui risultare più vittoriosi. La parola definisce la realtà della presenza di Dio e dunque il mezzo della sua rivelazione nella vita dell'uomo, che è creatura. 1 3 . Con la parola Dio ha creato l'uomo. Con la parola lo richiama di continuo alla sua origine creaturale di cui è chiamato a render con to. La parola è tanto affilata quanto incorruttibile lo sguardo di Dio. Egli giudica non in modo superficiale, ma conoscendo il reale stato di cose, dal momento che ogni cosa davanti a lui è «nuda» e «messa allo scoperto» . Le espressioni alludono al fatto che l'uomo deve giustifi carsi come una vittima che si aspetti in ogni momento il colpo fatale. Con forte enfasi, alla fine della pericope è detto letteralmente: «al qua le dobbiamo rendere conto». Con questo è detto chiaramente che la parola di Dio si aspetta una risposta da parte nostra. Riassumendo, ribadiamo che 4, 1 2 ss. offre una dimostrazione del l'idea portante che la teologia della croce e la teologia della parola so no indissolubilmente connesse. Essa dà un volto all'intera testimonian za di Ebr. Soprattutto il seguito tiene conto di quest'idea. Se la testi monianza paolina può essere riassunta nella frase che la «parola della croce» esiste in potenza, quella di Ebr. a sua volta nella frase che la «parola del sacrificio» esige la nostra responsabilità (v. anche 1 3, 1 5 s.).
Ebr.
4, 1 z s.
La parola di Dio come dimensione giudiziale
73
Molti interpreti fanno iniziare con 4, 1 4 una seconda ampia parte che si estende sino a r o, r 8 . Conscio di essere un po' uscito dal semina to con la spiegazione del Sal. 9 5 , l'autore avrebbe ora ripreso risolu tamente il filo del discorso. In questo modo risulterebbe comprensibi le l'interesse più o meno improvviso per il definitivo oggetto principa le della lettera. Già per 3,7-4, 1 3 vi era motivo di obiettare a tale ipote si. L'intento palese di Ebr. è di comporre e allineare i pensieri all'in terno dell'omelia in modo tale da riprendere ogni volta parole e frasi che essenzialmente presuppongano il fondamento omiletico del Sal. I 1 0. Con 4, 1 4-6,20 abbiamo uno di questi nuovi pensieri, che tenta di introdurre un tema ulteriore per trarne le debite conseguenze.
Parte seconda
«Tu s ei sacerdote» (Sal. 1 1 0,4)
(4, 1 4-6, 20) La gioia di professare la fede nasce dal ministero sacerdotale di Gesù, il q u ale ha portato aiuto fin nella t r ibola zione più profonda dell'esistenza (4, 14-5,IO) Questa parte tratta in primo luogo la realtà del sacerdozio di Gesù in linea di principio, per cui ne vengono illustrate innanzitutto le ca ratteristiche essenziali, ossia la chiamata diretta da parte di Dio e l'in condizionata capacità di compassione. Si tratta dunque di spiegare più approfonditamente idee precedentemente esposte in 2,9 ss. e 2, 1 7 ss. L'esortazione parenetica di 4, 14, che riprende nuovamente le finalità dell'ampia enunciazione di 3,7-4, 1 I nel senso del vero e proprio inten to pratico principale, segue J , I in modo obiettivo e concettualmente consapevole. Il pensiero principale può essere strutturato in tre parti: a) 4, I 4- I 6, come accennato, fa da ponte con affermazioni precedenti, come mostrano soprattutto i concetti impiegati; b) 5,1 -4 espone le due circostanze fondamentali già citate, che caratterizzano il ministero sa cerdotale: la capacità umana di compatire, e la chiamata da parte di Dio; c) 5 , 5 - I o infine applica in successione inversa (vero chiasmo) i criteri summenzionati al ministero di Gesù, al quale, benché chiamato da Dio, non fu risparmiata l 'esperienza delle profondità della soffe renza umana. Le frasi conclusive di 5,9 e 5 , 1 0 anticipano la parte cen trale vera e propria (7, 1 - I o, 1 8 }, nella quale vengono spiegate minuzio samente le espressioni «al modo di Melchisedec» e «in eterno». Quanto sia stretto il collegamento logico con la sezione precedente, 3,7-4, 1 I , è evidenziato dalla ripresa dei medesimi temi, importantis simi per l'autore. Sal. 1 1 0,4 afferma: «Il Signore ha giurato e non si pentirà: 'Tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedec'». Prima di dedicarsi a questo tema omiletico fondamentale, evidente mente l'autore in 3,7 ss. intendeva innanzitutto trattare di quel giura mento antico pronunciato in un momento di collera e rimorso per non concedere la salvezza. Quanto di fatto lo abbia impegnato questa
Ebr.
-4, 14-16.
Manteniamoci fedeli alla confessione di fede
7S
affermazione del salmo lo deduciamo dalle riflessioni di 7, 1 8-22. La coerenza con cui le frasi tratte dal Sal. I 1 o vengono continuamente spiegate, apertamente o anche tacitamente, è prova convincente della particolare struttura omiletica della lettera. Per la prova dataci da Gesù, manteniamoci fedeli alla confessione di fede e presentiamoci davanti a Dio (4,14- 1 6) 1 4 Poiché noi abbiamo ora u n g ra n de sommo sacerdote che è passato at traverso i cieli, Gesù, il Figlio di pio, manteniamoci fedeli alla confessione di fede. 1 5 Infat ti noi non abbiamo un sommo sacerdote che non sia in grado di compatire le nostre debolezze, ma piuttosto uno che è stato pro vato in ogni cosa allo stesso modo, ma senza peccato. 16 Accostiamoci dun que con gioia al trono della grazia, affi nché otteniamo misericordia e tro viamo grazia per essere aiutati nel tempo opportuno !
1 4. L'inizio, «poiché dunque abbiamo», non trae le conseguenze da 3,7-4, 1 J, né conclude qualcosa di detto in precedenza (v. in particola re 2, 1 7 ss.); riassume invece un dato di fatto: in Gesù noi possediamo un eccellente sommo sacerdote, il cui ministero ci ha reso accessibile il cielo schiudendoci così la natura più particolare di Dio. Se la frase dà l'impressione che l'autore fino ad ora non abbia parlato d'altro, è per ché fondamentalmente il suo pensiero prende le mosse dal Sal. I I o. L'affermazione riguardante la maestà di giudice del Figlio e la sua di gnità sacerdotale «secondo l'ordine di Melchisedec» dà l'impronta al salmo. La testimonianza biblica trapela laddove è detto: «Poiché noi abbiamo ora un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli». Dal momento che, fondamentalmente, già nel salmo pasquale sta scritto così, vi si può subito far riferimento, ovviamente con ac centi propri. Cristo, che ha schiuso il cielo, è presentato come sommo sacerdote «grande»: esagerazione certo solo apparente, per quanto questo titolo ellenistico riservato al sovrano indichi soprattutto la di gnità del Signore del mondo spettante a colui che è stato innalzato (v. anche 1,4- 1 3). Questa espressione compare significativamente anche in Filone, che con essa ha sottolineato l'importanza cosmica del sim bolo relativo al sommo sacerdote (Somn. 1 ,2 1 5 - 2 1 9; 2, I 8 3). A diffe renza di Filone Ebr. non intende illustrare la funzione di sommo sa cerdote di un logos celeste, bensì fornire la dimostrazione che proprio il Gesù terreno, il Cristo della passione e della croce, è sia sommo sa-
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�Ebr. 4, 14- 1 6.
Manteniamoci fedeli alla confessione di fede
cerdote sia Figlio di Dio. Se in Filone il logos celeste si presenta come colui che è realmente esistente, in base al quale l'elemento terreno, come ad esempio il sommo sacerdozio giudaico, può essere spiegato e diviene significativo, l'autore di Ebr. parte invece da un'altra prospet tiva; la realtà terrena di Gesù lo indirizza verso quel mondo celeste che naturalmente neanche per lui ha costituito un problema. In questo contesto occorre prestare particolare attenzione alla testimonianza of ferta dal significativo quadro del v. 1 4. Esso riporta una dichiarazione riguardante il Gesù terreno cui è attribuito il titolo di «Figlio di Dio», al quale sono collegate indubbiamente concezioni non solo relative al l'esistenza; infatti secondo 1,4 egli ha «ereditato» questo nome. Né tan tomeno Gesù viene definito «Figlio» per distinguerlo da Gesù = Gio suè (4,8), come sostengono alcuni interpreti. Questo titolo cristologi co afferma piuttosto chi è realmente Gesù, innanzi tutto in quanto con tenuto principale della confessione di fede. Perciò ci viene precisato che la sua funzione consiste nel ministero sacerdotale per il mondo in tero e per tutti gli uomini (v. già 1 , 3 e 2, 5 ss.). Di conseguenza, ogget to della «professione di fede» cristiana non è affatto semplicemente una verità o una concezione a cui astrattamente aderire o meno; si tratta invece di un qualcosa che si riconosce e si approva esistentivamente, nel quale si ripone la propria speranza, consapevoli che altrimenti non ve ne sarebbero altre. Nella «professione di fede », inoltre, si esprime la lode dell'uomo ricolmo di lieta fiducia (cf. 4, 1 6; I 0, 1 9). In Ebr. la testimonianza teologica e l'esaltazione liturgica si indirizzano in mo do unico a Gesù, che ha ereditato il titolo di «Figlio di Dio» e nell'a dempimento della propria mansione sacerdotale «è passato attraverso i cieli» . Quale significato ha tale espressione ? Riteniamo sia da esclu dere l'ipotesi che, seguendo la teoria gnostica che conosce l'idea del «viaggio celeste dell'anima», si riferisca a un ritorno o a un'ascensione del salvatore attraverso le sfere celesti (cf. ad es. Test. Levi 3; A se. Ies. 7 ss.). Sia il contesto che il linguaggio (v. «passare attraverso») sugge riscono piuttosto che l'evento sia descritto in analogia al procedere del sommo sacerdote che entra nel santo dei santi del tempio geroso limitano nel grande giorno dell'espiazione. Stando alla descrizione di Flavio Giuseppe (Beli. 5 , 5 ,3 ss.) bisognava passare attraverso due ten de, all'ingresso una del santo l'altra del santo dei santi. Ornate di sim boli cosmici, le tende dovevano essere una raffigurazione del cielo. L 'idea che non si tratti di un'ascensione al mondo celeste presentata in
Ebr.
�h 1 4- 1 6.
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modo mitico, ma di una rappresentazione del ministero di Gesù col ri corso al noto rituale del tempio nasce non ultimo dalla constatazione che ora anche i cristiani hanno accesso al «trono della grazia» . 1 5 · Dal v. 1 5 risulta evidente che l'autore mira a descrivere la man sione sacerdotale, non a elaborare speculazioni sulla redenzione. Co me in 2, 1 7' ss., l'attenzione è rivolta all'aspetto terreno del ministero sofferto e sanguinante di Gesù. È evidente che il diritto a una gioiosa professione di fede si basa non sulla figliolanza divina di Gesù, ma sul la sua umanità. Quanto alla scena del ministero, essa è duplice, com prendendo il cielo e la terra. Ciò che lì avviene acquisisce significato immediato per comprendere la conferma da parte di Dio. In primo luogo è detto che Gesù è stato in grado di com-patire le nostre debo lezze. Era una persona fatta di «sangue e carne» (2, 1 4). Patì c sofferse, proprio come tocca dolorosamente a qualsiasi uomo di questa terra, né tantomeno gli sono state risparmiate le lotte interiori personali. No n solo dovette resistere alla tentazione «nello stesso modo» (cf. 2, 1 8}, ma anche ((in ogni cosa>> . Le tentazioni non gli si presentarono singo larmente o in modo sporadico, ma costituirono un esame in cui tutta quanta la persona dovette dar prova di sé. N e faceva parte anche la ne cessità di una decisione estrema, che riguardò la tremenda eventualità dell'apostasia. L'accento è dunque posto sull'espressione «(ma) senza peccato», che segue la caratterizzazione dell'umanità di Gesù. Tale e spressione non dà un giudizio sul motivo delle tentazioni, ma valuta l'effetto finale. Nella teologia d'impostazione biblica dell'autore, il «peccato» cui Gesù si oppose parafrasa l'infrazione dei comandamenti di Dio, anzi, in fondo è il rifiuto stesso di Dio (cf. 4, 1 6 ss.). L'espres sione in parola non va dunque intesa in senso etico-morale, magari in considerazione degli innumerevoli peccati di ogni giorno, come po trebbe suggerire un fraintendimento moderno; essa si basa invece sulla volontà di Dio resa manifesta, alla quale Gesù obbedì in una situazio ne limite radicale. N el caso di Gesù, dunque, il pericolo non consiste va unicamente nel commettere un cosiddetto peccato, ma nel divenire infedele a Dio. Egli vi si oppose. La validità di questa interpretazione è confermata da 5 ,7 ss. Da un certo punto di vista, tutta la tradizione dell'Antico Testamento si attiene alla «impeccabilità» di Gesù nel sen so descritto. Sebbene predeterminato come caratteristica del servo di Dio sofferente (cf. fs. 5 3,9), e addirittura insegnato in Filone a propo sito del sommo sacerdote e logos divino (Fug. 1 08), criterio di una cor-
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f , I -4.
La cura dei doveri sacerdotali
retta comprensione resta pur sempre il fatto dell'obbedienza dimo strata sulla croce (Fil. 2,5 ss.; 2 Cor. 5,2 I ; I Pt. 1 , I 9; 2,22; 3 , 1 8; I Gv. 3 , 5 ccc.). 1 6. Il fondamento della fede cristiana è dunque essenzialmente e ori ginariamente di tipo storico, non tanto prodotto di una fantasia reli giosa. La formula «senza peccato» fissa la sostanza della questione co mc una sigla teologica, poiché ne derivano conseguenze liberatorie. Il trono di Dio, insomma, non è un trono del giudizio, ma un trono di grazia. Con l'intronizzazione di Cristo, i rapporti tra uomo e Signore sono cambiati. Chi gli si accosta nel giusto modo non viene respinto; solo i nemici divengono sgabello per i suoi piedi (cf. Sal. I 1 o, I s. in 1 , 3 I e I O, I J). Chi giunge non s e ne va via ancora più spoglio, giacché «riceve misericordia» e «trova grazia» - due espressioni bibliche per affermare chiaramente che si tratta dell'accoglienza dell'uomo davanti a Dio, e non del disvelamento di misteri divini. N ella miseria l'uomo ha bisogno di misericordia, nella colpa senza via d'uscita necessita della grazia. In modo altrettanto tipico è detto in Sal. 1 1 1 ,4 che il Si gnore «è ricco di grazia e di misericordia». Inoltre, quando si sottoli nea che questo è m otivo di «aiuto tempestivo», probabilmente si in tende che Gesù libera sempre dalla prova e dalla tentazione, ovvia mente non solo nel momento attuale. Quest'asserzione acquista valo re soprattutto sullo sfondo dell' «oggi», ma non si limita affatto al mo mento liturgico, come prova l'espressione generica «accostiamoci dun que» . Grazie a Gesù, la comunità neotestamentaria può confidare nel compiacimento divino in ogni problema e in ogni tentazione. Il con cetto un po' convenzionale dell' «aiuto» (v. anche 2, 1 8) sembra adattar si egualmente alla testimonianza della Scrittura (per il gruppo dei sal mi dell'balle/ cf. Sal. I 1 5 , I o ss.; Sal. I I 8,6, citato in I J,6). La cura dei doveri sacerdotali è legata ( 5 , I -4)
a
determinati presupposti
1 Infatti ogni sommo sacerdote preso fra gli uomini viene costituito a favo re di uomini in relazione al rapporto con Dio, per offrire a Dio doni e sa crifici per i peccati, 2 per cui egli è in grado di essere comprensivo con quelli che sono nell'ignoranza e nell'errore, in quanto egli stesso è carico di debo lezza. 3 E perciò fa parte dei suoi doveri offrire per se stesso come per il popolo (sacrifici) per i peccati. 4 Inoltre nessuno può attribuirsi tale ono re, ma vi ene chiamato da Dio, proprio com e Aron ne.
Ebr.
s , 1 -4.
La cura dei doveri sacerdotali
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1-4. La pericope illustra il significato e il compito dell'ufficio sacer dotale. Vengono elaborate le caratteristiche generali per poi applicarle a Cristo ( 5 , 5 - 1 0). Perciò non ci troviamo davanti alla motivazione di 4, 1 4- 1 6, quanto a una dimostrazione esplicativa al cui centro vi è la massimo e più importante carica della comunità statale e cultuale giu daica. 1. L'attenzione tuttavia non si volge alla posizione politica del som mo sacerdote, che era al tempo stesso presidente del sinedrio, massi1no giudice e rappresentante dello stato, ma esclusivamente al suo com pito cultuale sacerdotale «davanti a Dio»; e in particolare è la solenne liturgia nel grande giorno dell'espiazione che viene presa in conside razione. Questo avviene in modo tale da sottolineare tutti quei mo menti che sono essenziali per la sua azione vicaria in tale giorno. Della festa in particolare ancora non si parla (v. sotto, cap. 9), ma si illustra no le circostanze in cui al sommo sacerdote viene conferita la sua di gnità incomparabile: «preso fra gli uomini è costituito per uomini in relazione al rapporto con Dio». In questo modo si richiama alla mente ciò che di lui è detto nell'Antico Testamento (cf. Es. 28 ss.; Lev. r 6; Num. 1 8 ss. ecc.) e non ciò che si è andato via via aggiungendo in man s ioni e specialità nel corso della storia d'Israele. Nel sommo sacerdote si incarna la convinzione che davanti a Dio debba essere un uomo a intercedere per gli uomini, «per offrire doni e sacrifici per i peccati». È possibile che con ciò si pensi a offerte incruente e di sangue. Ancor più probabile è che s'intendano le varie offerte presentate dal sommo sacerdote nella festa dell'espiazione, e specificamente le offerte di san gue (8,3) perché rivestono un'importanza particolare (cf. Lev. r 6,1 5). A ciò s i aggiunga c h e i l sommo sacerdote poteva agire i n questo modo per sé e per il popolo solo nel grande giorno dell'espiazione. z s. Il significato del rituale emerge piuttosto chiaramente nei due versetti successivi, 2 s. L'affermazione che pone il sommo sacerdote sullo stesso piano di «quelli che sono nell 'ignoranza e nell'errore» per attribuirgli una « debolezza» che dev'essere anch'essa espiata può esse re adeguatamente compresa solo in base a quanto avviene nel giorno dell'espiazione. Come è noto, in tale occasione il sommo sacerdote pronunciava una confessione dei peccati rispettivamente per sé, per il gruppo dei sacerdoti e per tutto il popolo (m]orna 3 ,8 ; 4,2; 6,2); in essa si implorava il perdono per ciò che nell'anno trascorso era stato og getto di «mancanza, violazione, peccato». Evidentemente dovevano es-
Bo
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J , I -4.
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sere presentate a Dio tutte le mancanze commesse, involontarie e non intenzionali, lievi e gravi, consapevoli e inconsapevoli, eccetto ovvia mente quelle che comportavano un radicale rifiuto (Num. I 5 ,22-3 I ) . L'espressione «quelli che sono nell'ignoranza e nell'errore» si riferisce a questo contesto. Quando inoltre del sommo sacerdote è detto che è benissimo in grado di «capire», di «soffrire» e «sentire», il testo origi nario corrispondente (v. anche 4, I 5) intende la capacità insita nella natura umana di sbagliare, violare e peccare in modo solidale, per quanto essa possa tenersi nel giusto mezzo tra l'empia passione e la divina incapacità di soffrire (Filone, Abr. 2 5 7; Deus 1 62 ss.). La realtà di una «debolezza» di fondo che coinvolge la persona intera è tale an che per il sommo sacerdote, il quale quindi, secondo la legge, era «obbligato» a pronunciare una confessione dei peccati «per sé come per il popolo», e a «offrire (sacrifici) per i peccati» (cf. mfoma 1 ,2). Particolarmente solenne e importante era il tamid al mattino del gior no dell'espiazione, come pure gli altri atti sacrificali. Ai fini della sua argomentazione, in questo passo Ebr. rinuncia ai particolari che gli sono noti. 4· Un altro punto di vista rilevante è la constatazione che nessuno è in grado di arrogarsi da solo la «carica» o «onore» di sommo sacer dote, ma deve riceverla da Dio, come è dimostrato da Es. 2 8, I ss. in relazione ad Aronne. Dietro tale funzione vi è dunque la chiamata di vina, non la propria volontà o la propria aspirazione. Aronne, in quan to antenato del sacerdozio levitico, venne prescelto da Dio «per essere mio (cioè di Dio) sacerdote ». Laddove ci si arroga ingiustamente di ritti sacerdotali, come si proponeva la rivolta di Core (Num. 1 6), entra in scena il giudizio di Dio, poiché «farà avvicinare a sé (solamente} colui che egli avrà scelto» (Num. I 6, 5 ). Quale significato teologico collega l'autore al sacerdozio giudaico ? Il suo pensiero si basa su linee di fondo bibliche, ma a quanto pare parla di un'istituzione ancora esistente, il che rimanda agli anni prece denti la distruzione del tempio (70 d.C.). Senza alludere a personalità specifiche che, come si sa, in tarda epoca giudaica furono spesso con testate, indirizza i suoi pensieri al ministero sacerdotale come ideale. L'importanza unica nel suo genere gli deriva dall'istituzione e dal com pito. È stato Dio a volere per il suo popolo il ministero sacerdotale, ragion per cui Aronne e il sacerdozio levitico furono prescelti per Israele. Evidentemente bisogna che siano degli uomini ad agire con
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J , J - I O.
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funzione sacerdotale vicaria in favore di altri uomini, perché il popolo di Dio gli si presenti santo e puro. Per poter prestare un giusto servi zio occorre dunque la solidarietà con gli uomini peccatori e deboli. rale servizio è necessario ovunque il fallimento e la colpa si facciano largo. Ciò che nell'Antico Testamento appare come un'elezione parti colare ed esclusiva, nel Nuovo diviene compito di tutti.
·
Chiamato da Dio, per la sua assoluta obbedienza Gesù divenne autore della salvezza ( 5 , 5 - 1 0) s Così anche Cristo non si attribuì da sé l'onore di divenire sommo sacer dote, ma (lo fece) colui che gli parlò così: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato». 6 E lo stesso dice in un altro passo: «Tu sei sacerdote in eterno se condo l'ordine di Melchisedec». 7 Il quale nei giorni della sua carne offrì pregh iere e supp lich e con forti grid a e lacrime a colui che poteva salvarlo dalla morte, e fu esaudito per la sua angoscia; 8 sebbene fosse il Figlio, da quello che patì i mparò l'obbedienza, 9 e avendo sperimentato la perfezio ne, divenne causa «della salvezza eterna» per tutti quelli che sono obbe dienti, Io nominato da Dio sommo sacerdote «secondo l'ordine di Melchi sedec». s Sal. 2,7. 6 Sal. I IO,.f. 7 Sal.
I
16, 1
ss.
9 /s. 4 f , I 7. IO Sal. I 10,4.
L'esito delle considerazioni di 5 , 1 -4 viene applicato a Cristo in una pericope a parte, per dimostrare che il senso ultimo del sacerdo zio veterotestamentario in lui si è trovato incarnato, adempiuto e su perato. Un tipico «così anche» stabilisce il confronto tra Aronne e Cristo; per prima cosa si sottolinea che neppure il secondo si è attri buito da sé l' «onore» e la «gloria» dell'ufficio sacerdotale. Quando «divenne» sommo sacerdote - allusione alla sua passione - ciò accad de secondo la volontà e la parola di Dio. Le due citazioni tratte da Sal. 2,7 e Sal. 1 1 0,4 (cf. 1 , 1 3 ) contengono la promessa fatta a Cristo di es sere Figlio e sommo sacerdote, rafforzando così il privilegio spettante a Gesù di potersi presentare davanti a Dio, Padre e Signore. Mentre Sal. 2,7 sottolinea maggiormente l'incarico di Figlio, Sal. 1 1 0,4 ne evi denzia la perpetua dignità di sommo sacerdote. Una promessa elettiva di Dio trova sempre chiara espressione. La combinazione delle due ci tazioni indubbiamente ha motivazioni sostanziali, per quanto possa presupporre anche determinate regole relative alla tecnica interpreta tiva (cf. Sal. 2,7 e 1 IO,J). Se ciò è esatto, allora in questo contesto non s s.
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Un inno i n s ,7 ss.?
si tratta tanto dell'elaborazione di una cosiddetta dimostrazione pro fetica della costituzione di Gesù come sommo sacerdote, quanto del chiarimento inequivocabile della sua vocazione unica e irripetibile. Le parole, infatti, lasciano intendere che con Gesù Dio puntava a qualco sa di più grande che non con Aronne e il sacerdozio levitico. La sua mansione sacerdotale consistette nella passione, con la quale «divenne sommo sacerdote». Verosimilmente l'impiego di Sal. 2,7 (e in partico lare «lo oggi ti ho generato ») mira alla fattispecie dell'insediamento di Gesù nella dignità sacerdotale conseguita ( 5 , I o). Per quanto riguarda Sal. I I o,4, tale orientamento è fuor di dubbio. Ne consegue che l' «og gi», proprio come in Sal. 95 ,7, ha un particolare significato kerygmati co grazie al quale la morte e l'esaltazione di Gesù si presentano come svolta escatologica di importanza cruciale. Definiscono il fondamento di un ministero perpetuo, perciò con la citazione si può tranquilla mente parlare solamente di «sacerdozio)), tanto più che il testo man tiene chiaramente l'espressione unica «secondo l'ordine di Melchise dec » . L'importanza che ciò riveste verrà minuziosamente spiegata più avanti (cap. 7). Intanto qui ci viene già anticipato che il sommo sacer dozio di Aronne non solo è stato incarnato per l'ultima volta, ma è sta to anche superato ed estinto (7, I 2). La ragione di questa nuova «isti tuzione)) trova una spiegazione nelle frasi seguenti ( 5,7- I o), che pur rifacendosi a Sal. I 10,4 in modo poco logico, tuttavia, se viste in di pendenza dal v. 5 a, acquistano un loro significato. Un inno in 5,7 ss.? Linguaggio e stile ebraizzante dei vv. 7- 1 0 in tempi recenti hanno ripetutamente dato motivo di vedervi un fram mento innico rielaborato (E. Kasemann) o una professione di fede (G. Schille). Si è tentata persino una ricostruzione (G. Friedrich, H. Zim mermann). In genere si parte dal sicuro presupposto che in questi ver setti si rispecchi un testo preformato (M. Rissi, J. Jeremias). Una spie gazione più ovvia delle particolarità linguistiche e materiali si ha pren dendo in considerazione l'eventualità, plausibilissima per il metodo omiletico, che la raffigurazione della disperazione e del tormento di Gesù possa effettuarsi partendo anche dalla prova scritturistica. Si pen si anzitutto a una serie di testi di salmi pertinenti, per cui accanto a Sal. 2 2,3 .2 5, Sal. 3 1,23, Sal. 3 9, 1 3 e Sal. 69,2 ss. la preferenza va netta mente al Sal. 1 1 6 (= Sal. I I4 e 1 1 5 LXX) (cf. E. Grasser e Fr. Schro ger). La critica non può contestare l'esistenza di numerose dipenden-
Ebr.
J , J - 1 0.
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z e e contatti, per non dire che la conoscenza fondamentale del meto do omiletico di Ebr. torna a tutto vantaggio di una tale spiegazione. Di conseguenza l'autore ha rielaborato un testo che la comunità pri mitiva aveva riferito a Cristo, prendendolo invece dal gruppo dei sal mi dell'balle/. Esso poteva servire come nessun altro a illustrare la lot ta interiore di Cristo, il quale è rivestito di «debolezza» ( 5 ,2); al tempo stesso può tuttavia avere inciso anche la tradizione di una preghiera drammatica di Gesù (v. il racconto del Getsemani, cf. in particolare Le. 22,44; Mc. 1 4, 3 2 ss.; Gv. 1 2,27 ss.). Sembra più illuminante l'ipo tesi che la circostanza storica, di cui in un primo tempo dovette es servi una tradizione, sia stata sì importante, ma non tanto quanto la relativa riflessione cristologica, in base alla dimostrazione profetica.
7· Il passaggio dal v. 6 al v. 7, che a prima vista sembrerebbe illogico («il quale») e con cui viene introdotta la testimonianza biblica sul Cristo sofferente, poggia sul fatto che Ebr. ricorda qualcosa di cono sciuto, probabilmente per alludere a espressioni tipiche del testo bibli co. La descrizione della figura del Cristo biblico della passione porta alla costruzione di una frase piuttosto lunga (ricca di participi) in 5 ,71 o, che dalla miseria di Gesù giunge al Cristo innalzato, perché il suo sommo sacerdozio si basa sulla dialettica del destino che da lui ci si aspetta ( 5, 5 ). Apprendiamo che nulla gli fu risparmiato «nei giorni della sua carne,., ossia durante la sua esistenza terrena, che comprese la schiavitù sotto il timore della morte (2, 1 4 ss.) e l'esperienza della «debolezza» ( 5 ,2). Anche il salmista invoca Dio «nei suoi giorni», os sia durante la sua vita (Sal. 1 1 6,2). Di fronte alla morte Cristo ha of ferto «preghiere » e «suppliche», duplice espressione usuale che equi para la sua preghiera ai doni del sommo sacerdote, come indica l'im piego della locuzione «offrire (sacrifici)» relativa al culto (cf. Filone, Cher. 42). Allo stesso modo anche il salmista di Sal. 1 1 6, 1 in pericolo di morte offre la sua «invocazione». Forse Ebr. ha illustrato con un mo do di dire tipico il contesto che gl'interessava in relazione a «preghie ra e intercessione ». L'inconsueta lotta che Cristo deve sostenere nella preghiera viene illustrata con pochi tratti secondari che parlano di «forti grida e lacrime», probabilmente in parte sull'esempio di Sal. 1 1 6,8 (cf. anche Sal. 22,2 5 ). Si potrebbe supporre che la tradizione re lativa alla passione che tratta di una «lotta nel Getsemani» (v. in parti colare Le. 22,4 1 ) sia stata rielaborata in senso biblico per insistere sulla
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Ehr.
s , s - r o.
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disperazione di Cristo e al tempo stesso sul suo intervento di inter cessione presso Dio. In epoca più antica furono indubbiamente in pri mo luogo i salmi a favorire il voluto confronto messianologico. Un Cristo sofferente di questo tipo era estraneo all'attesa giudaica di epo ca neotestamentaria, ed estremamente scandaloso. Mai ottenimento dell'assenso divino apparve più urgente e sofferto che nel nostro pas so. Se vi è una tradizione molto tarda sul «gridare» e il «piangere» del messia (v. Midr. Pesiq. R. 36 ( r 62a)), allora questa rappresenta un'ec cezione indotta dali' annuncio cristiano. Una massima giudaica può aiutare meglio a capire: «Vi sono tre tipi di preghiera, ognuno più po tente del precedente: preghiera, grida e lacrime. La preghiera si fa in silenzio, il grido a voce alta, ma le lacrime sono meglio di tutto» (Syn. Zohar 2, 1 9b/2oa). È chiaro che Ebr. parla in modo analogo di una preghiera che quanto a fervore e avvilimento non ha eguali (cf. anche Os. I 2, 5 a proposito di Giacobbe; diverso invece Gen. 3 2,26). Può in tendere solo la lotta di Gesù con Dio nei giorni della passione quan do, stando alla testimonianza dei vangeli, implora con queste parole: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice» (Le. 22,42); si poteva quindi far riferimento a Sal. I I 6, 1 3 come ulteriore esternazione della volontà di Gesù: «Prenderò il calice della salvezza>> (v. al riguardo 5 ,9: «causa di salvezza>>). Il testimone dei LXX viene interpretato come invocata «salvezza» di Cristo dalla morte, e non come «preservazio ne» dalla morte, che nel caso di Gesù non avrebbe mai corrisposto al vero. In tale concezione Sal. I I 6,3 . 8 dice che l'anima è stata strappata dalla morte e che il salmista cammina «nella terra dei viventi>>. Se si ri fiuta la versione a volte ipotizzata per cui il Cristo orante venne esau dito «non per la sua angoscia», allora la preghiera invocante la salvez za dalla morte è effettivamente stata ascoltata. C'è chi suggerisce che Cristo venne esaudito «per la sua pietà». Contro tale ipotesi vi sono sia argomenti d'ordine linguistico (cf. 1 2,28) sia il contesto stesso. L'i dea di Ebr. evidentemente è che Cristo abbia superato quell'angoscia tremenda proprio grazie alla certezza di essere salvato dalla morte. In fondo anche il Sal. I r 6 accenna a questo: qui l'orante parla esplicita mente della propria «angoscia», e osserva che la «morte dei suoi santi» è preziosa agli occhi di Dio (v. Sal. I I 6, I 5 e cf. Str.-Bill. 1, 847). 8. Quest'idea estremamente audace sostiene che nel momento della tentazione più grande, l'eventualità stessa della morte, Cristo ha di mostrato un'obbedienza filiale. Il gioco di parole «imparò ... patì » tro-
Ebr. J,J- I O.
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va i parallelismi più stretti in Filone, che lo utilizza di frequente (ad es . Fug. 1 3 8). Non si pensa alla disposizione d'animo devota e virtuo sa di Gesù, ma alla prova unica e irripetibile superata negli abissi del l'angoscia e nella notte della tentazione, quando divenne veratnente uno con noi uomini. Proprio per questo al Figlio non è stato rispar miato nulla da Dio. Tuttavia non si può parlare di arbitrarietà, poiché egli, pur riluttante, prese su di sé la sofferenza (e la morte) che provo cò il «perfezionamento». Egli ancora non era quello che sarebbe di ventato, ossia sommo sacerdote, sebbene fosse stato prescelto come Figlio. Quando è detto che dovette imparare «la» obbedienza, sicu ramente s'intende un sacrificio di proporzioni tali da superare ampia mente i limiti del consueto. Quanto asserisce Ebr. trova in Fil. 2,7 ss. il parallelo paolino più prossimo. La vera condizione di figlio si ottie ne solo mediante l'obbedienza - elaborata frase fondamentale della teologia biblica relativa alla conoscenza, che fa apparire sbagliato in terrogarsi su un mito gnostico di redenzione il quale avrebbe potuto influire sull'esposizione. Non sono la presunta natura divina, né tan tomeno il «sapere» o la «conoscenza» (gr. gnosis) a schiudere all'uomo la salvezza, ma unicamente la fede e l'obbedienza (v. anche 4,2). 9· Si può dirlo in modo meno mitico e filosofico ? Presso Dio non esiste alcun automatismo del processo di redenzione. Ebr. sviluppa un duplice pensiero: che Gesù in quanto «reso perfetto» è motivo di sal vezza per gli uomini, e che inoltre mostra esemplarmente il come tale redenzione sia possibile. «Perfezionamento» si ha con l'assoluta offer ta della vita davanti all'altare di Dio (cf. 4, 1 6), cioè donandosi a lui e dando prova di sé nella condizione di empietà. Considerando i presup posti di questo concetto (cf. Es. 29,9. 3 3 ; Lev. 8,3 3; 1 6,3 2; 2 1 , 10; Num. 3,3), si potrebbe affermare che l'uomo non può presentarsi a mani vuote di fronte a Dio, ma deve offrire almeno se stesso. Dal sacrificio di Gesù nasce la necessità per l'uomo di essere totalmente legato a lui. Se fosse soltanto un modello, vi si potrebbe rinunciare. Ma se egli è al tempo stesso anche causa della nuova realtà, chiamata «salvezza eter na» (forse secondo /s. 4 5, 1 7; o piuttosto secondo l'espressione «sacer dote in eterno»; cf. in particolare anche Filone, Agric. 96), allora non esiste perfezionamento al di fuori del fondamento posto. Con il Cri sto della passione si è aperto dunque l'accesso a una vita di donazione e di accoglienza da parte di Dio, in quanto definisce la misura e l'og getto della fede.
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Ebr. s ,r r -6,20. Comunità e speranza eterna
10. Alla fine della riflessione Ebr. colloca il pronunciamento di Dio tratto da Sal. I 1 0,4. Parla di un «annuncio pubblico» e dunque di una «solenne proclamazione», per cui ora oltre al testo del salmo si parla anche esplicitamente di «sommo sacerdozio» di Gesù. La conclusione delle riflessioni di 4, I 4- 5, I O fa capire che c'è qualcosa di ancora più profondo da spiegare. Soprattutto l'espressione «secondo l'ordine di Melchisedec» è tanto enigmatica da richiedere una spiegazione a parte (cf. 7, I ss.).
Contro ogni pigrizia che conduce all'apostasia irrevocabile, la comunità deve aspirare alla maturità, tanto più che Dio le ha fermamente promesso una speranza eterna ( 5, I I -6,20) Con l'affermazione entusiastica che Dio ha solennemente proclama to Cristo «sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec» (Sal. 1 1 0 ,4 ), l'autore torna al centro tematico della sua omelia. Tuttavia ri nuncia ad addentrarvisi subito. Forse che improvvisamente ha l'im pressione che i suoi lettori potrebbero non dedicare all'esposizione la dovuta attenzione ? È più probabile che dopo attenta riflessione sia stato inserito un ulteriore passaggio allo scopo di scuotere l'uditorio, come è nel carattere dell'omelia che si definisce «parola di esortazio ne» . Quella che potrebbe sembrare un'idea repentina è invece un mo do di procedere intenzionale. Se ne ha conferma nella conclusione di questa parte che, con nuove esortazioni, si conclude anch'essa con le parole di Sal. I I 0,4. Queste pericopi di rimprovero riferite a una spe cifica situazione della comunità corrispondono in tutto alla forma del l'omelia prescelta. Gli enunciati di 5 , 1 I -6,2o comprendono due parti diverse che si differenziano nettamente nel tono usato. Fino a 6, 8 pre valgono l'ammonimento e la minaccia di punizione, poi, sino a 6,20, è la volta di incoraggiare e infondere fiducia. Evidentemente all'autore erano giunte notizie riguardanti la situazione poco soddisfacente della comunità a lui nota. Forse anche richiesto di una «parola di esorta zione», come usava allora, dopo un'accurata preparazione e non senza continui rimandi alla sua base biblica l'autore entra ora nel merito dei rapporti all'interno della comunità. Non è quindi un caso che sia pro prio questa pericope a mettere maggiormente in luce il carattere omi letico attuale dello scritto. Se in J ,7-4, 1 1 aveva insistito essenzialmente sulla responsabilità dei cristiani per la singola persona, ora concentra
Ebr. J, 1 1 -6,2o. Comunità e speranza eterna
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definitivamente l'attenzione sulla comunità nel suo complesso; l'aspro rimprovero d'immaturità spirituale e l'accenno a un'impossibile secon da penitenza vanno seriamente intesi, benché sotto un certo aspetto rientrino anche nei doveri omiletici. In caso contrario difficilmente vi sarebbe la motivazione fornita da 6, 1 2 : « affinché non diventiate pi gri». Questo modo di procedere costringe a riflettere sul significato generale di un simile disegno in bianco e nero. Che gli interpellati, in definitiva, non siano poi valutati proprio come immaturi, risulta chia ramente da quanto segue, dove non viene loro celata tutta la profondi tà della conoscenza cristologica (capp. 7 ss.). Il rimprovero mosso agli ascoltatori, per cui non sarebbero abba stanza «perfetti>> per le idee che verranno presentate, indubbiamente intende destarne l'interesse, come si riproponeva l'antica arte oratoria. Il passaggio evidenzia in modo particolare quanto, in fondo, stesse a cuore all'autore un discorso liturgico solenne. Perlomeno a una parte degli ascoltatori viene richiamato alla mente il periodo iniziale della loro esistenza cristiana, forse allo scopo di ottenerne al tempo stesso anche un rinnovamento e un approfondimento della professione di fe de fatta al momento del battesimo. Nel complesso si può tuttavia af fermare che a quanto pare i neobattezzati non sono un tema a parte della lettera. Forse questo può dipendere dal fatto che abbiamo a che fare con una comunità giudeocristiana (cf. 6,6), la quale invece di ri uscire a sviluppare una forza missionaria maggiore, si trova a dover affrontare i problemi creatisi al suo interno. I I- 1 4· In particolare i concetti di questa riflessione presentata in forma fortemente retorica procedono in questo modo: 5 , 1 1 - 1 4 moti vano la necessità dell'omelia con la pigrizia spirituale della comunità, i cui componenti, a dire il vero, dovrebbero essere ormai in grado di es sere essi stessi dei maestri. Il termine «pigro, torpido>> delimita il te ma-guida sino a 6, 1 2. L'omelia stessa deve costituire un passo decisivo per dimostrare le verità più profonde di cui si interessa una fede ma tura. I pensieri ruotano quindi tutt'intorno al tradizionale circolo di immagini: bambino-adulto, latte - cibo solido, ignaro-perfetto. Che in questo modo a essere interpellata non è una parte della comunità, bensì la comunità intera, dimostra che un intento catechetico è stato espres so con linguaggio filosofico (cf. ad es. anche Filone, Agric. 9; Migr. 29) , e che non siamo davanti a una dottrina gnostica della perfezione. In questo vediamo inoltre una netta differenza rispetto a 1 Cor. J, I -J . •••
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Ebr.
f , I 1 - 1 4.
L a condizione spirituale della comunità
6, 1 -6 esorta a spingersi finalmente al di là delle nozioni elementari, come si confà a persone che sono state «una volta illuminate». La ri flessione si conclude con parole ammonitrici che ricordano come non esista una seconda penitenza per coloro che hanno apostatato, poiché il rifiuto di Cristo equivarrebbe a una nuova crocifissione del Figlio di Dio compiuta di persona. 7 s. I versetti 6,7 s. presentano una breve parabola sulla fertilità del la terra, che può ricevere la pioggia per la benedizione o per la maledi zione. La forma della raffigurazione è analoga a quella di 4, 1 2 ss., do ve alla stessa maniera vengono introdotti toni da giudizio. 9- 1 2. Con 6,9- I 2 si ha una netta svolta di pensiero: con saggi accen ti pastorali ci si appella alle forze buone attive nella comunità. Lettori e ascoltatori vengono ora chiamati addirittura «carissimi». I J- I 8. I vv . 6, I J - I 8 con l'intento di rafforzare la decisione riman dano all'esempio di Abramo, il quale grazie alla sua perseveranza ot tenne quella promessa che anche oggi è ancora motivo della speranza cristiana. In questo modo l'autore, materialmente e concettualmente, ha fatto nuovamente ritorno al tema principale, come indicano anche i concetti impiegati (v. ad es. 6, I 7. I 8). Questa attenzione è confermata anche dalla nuova menzione di un giuramento di Dio (v. sopra, 4, I 1 , e sotto, 7,2 I ) che garantisce il fondamento della speranza cristiana. . 1 9 s. I due versetti conclusivi, 6, I 9 s., definiscono nettamente il pas saggio al pensiero omiletico principale in cui lo sguardo è rivolto sia indietro che in avanti (cf. 2, 1 7 ss.; 4, I 4 ss.; 7, I ss.; 9, 1 ss.). Rispetto a 5 , I o il versetto 6,20 presenta un impiego più completo di Sal. I I 0,4. Nel complesso si può parlare di un'energica ripresa del tema principa le dell'omelia, stavolta però in via definitiva.
La condizione spirituale della comunità non ( 5 , I I - 14)
è
soddisfacente
1 1 Su questo argomento dobbiamo fare u n' ampi a omelia, difficile anche da spiegare, poiché siete diventati duri d'orecchio. 1 2 E voi che da tempo or mai dovreste essere maestri, avete ancora bisogno che vi s'insegnino certi primi fondamenti delle parole di Dio, tanto più che vi siete ridotti ad avere ancora bisogno di latte invece che di cibi solidi. 1 3 Infatti chi riceve ancora il latte p erc hé ignaro del giusto discorso è immaturo. 14 Il cibo solido in vece è per persone mature le quali, attraverso l'esperienza, posseggono sen s i esercitati a distinguere il bene d al m ale .
Ebr.
J,I 1 - 14.
La condizione spirituale della comunità
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1 1 . È la riflessione sostanziale del predicatore e teologo che spinge l'autore a non sviluppare subito l'ultima testimonianza, a non parlare subito di «questo argomento», ossia la frase centrale improntata al Sal. 1 I o. Deve dilungarsi in un'ampia esposizione e in una spiegazione dif ficile da illustrare soprattutto perché i cristiani interpellati sono diven t ati «duri d'orecchio», alla lettera «torpidi di udito» . Da un punto di vi sta puramente formale l'autore giustifica la successiva ampiezza degli enunciati (cf. 7, 1 - I o, I 8) con la difficoltà dell'intento che lo anima. D'al tra parte giunge a spiegare che ampiezza e difficoltà sono proprio ciò di cui la comunità ha bisogno. In altre parole, non è semplice parlare dell'argomento che segue. Cosa ancora più importante, non è affatto scontato poter essere ascoltatori. Il mistero della persona di Cristo non si disvela così facilmente né tanto meno lo si può avvicinare con pigri zia o indifferenza. Bisogna smettere di essere duri d'orecchi, difetto proprio di ogni comunità media. L'autore non ha intenzione di illu strare il mistero di Cristo secondo il Sal. I 1 o staccandolo da un'analisi critica della situazione interna della comunità. Il rimprovero per chi è duro d'orecchi è aspro, e stando al contesto mira anche alla speranza languente degli interpellati (cf. 6, 1 2). Se già prima gli ammonimenti non mancavano, lo stesso non si può dire di affermazioni dirette che ci potessero far conoscere più da vicino la comunità destinataria dello scritto. Per questo passo però è diverso. Evidentemente l'autore si è ac corto che la verità umana, che può essere oltremodo scomoda, diventa esprimibile solo di fronte alla più profonda verità di Cristo. Laddove questo accade, quella che noi chiamiamo critica non ha l'ultima paro la. Occorre sia dimostrarne la fondatezza (cf. 6,7 ss.) sia destare il co raggio e la fiducia per poter prendere l'altra strada, quella migliore (co sì 6,9 ss.). Di là del retore e del teologo s'intravede il padre spirituale. 1 2. In fin dei conti, coloro che in lui vedono il maestro, e sicura mente devono averlo anche cercato come tale, dovrebbero essere già da tempo essi stessi dei «maestri» . La formulazione fa pensare che l'au tore di fatto sia ben informato riguardo alla nascita della comunità, avvenuta alcuni anni prima. Verosimilmente proprio a lui si deve ad dirittura la conversione cristiana o perlomeno l'istruzione decisiva. In fondo, la comunità dovrebbe ormai essere in grado di compiere ciò che invece si aspetta da lui. Naturalmente non tutti sono in grado di essere «maestri» (compito eminente, v. ad es. 1 Cor. 1 2,2 8), però esiste una crescita spirituale che si richiede a tutti. Non è che tale afferma-
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J,I I - 1 4·
La condizione spirituale della comunità
zione si riferisca a un periodo di catecumenato piuttosto lungo e in fondo inutile, quanto a un processo di maturazione successivo al bat tesimo, che non c'è stato pur rientrando nell'essere cristiano. Non ri guarda un perfezionamento interiore nel senso di una «divinizzazio ne» come per gli gnostici, ma dello sviluppo della capacità d'insegna mento, che comporta anche la facoltà personale di penetrare nella ve rità di Cristo. Ebr. dà così voce a una concezione fondamentale del pri mo cristianesimo per cui in sostanza ogni cristiano è istruito diretta mente «da Dio» (cf. 1 Tess. 4,9), della qual cosa egli, che ha ricevuto lo Spirito, può di fatto essere a conoscenza (cf. 6,4 ss.). Tanto più deplo revole è che gli interpellati siano rimasti visibilmente inattivi, ossia spiritualmente «torpidi», ragion per cui devono ricevere nuovamente «certi primi fondamenti delle parole di Dio». In questo versetto non va esclusa la possibilità di un'altra versione: «Voi ... avete nuovamente bisogno di qualcuno che v'insegni i primi fondamenti delle parole di Dio» . In questo caso sarebbe maggiormente accentuata la contraddi zione per cui essi, che dovrebbero essere già in grado d'insegnare, ne cessitano ancora di un maestro. Privilegiando la traduzione da noi proposta si mette maggiormente in risalto che si sta parlando di deter minate nozioni basilari, elencate poi di fatto in 6, 1 . Il termine «fonda menti iniziali», impiegato in filosofia, rimanda probabilmente a inse gnamenti di base impartiti ai catecumeni. Quanto alle «parole di Dio» che ne sono l'oggetto, la scelta dei concetti rivela forse che la comuni tà non sa interpretarle come «pronunciamenti divini» riguardanti Ge sù. Effettivamente si tratta di qualcosa di più, ossia della profondità della conoscenza relativa a Cristo, con cui intenzionalmente si porta un argomento di ragione, mentre non si presenta affatto un criterio gnostico per l'essere cristiano (cf. 6, 1 : «insegnamento iniziale su Cri sto»). Il livello assolutamente insoddisfacente della capacità d'insegna re è tratteggiato infine anche in 1 2b. Ebr. riprende un'immagine usua le tanto nella filosofia (cf. Filone, Omn. prob. 1 6o; Epict. 2, 1 7) quanto nel cristianesimo delle origini ( 1 Pt. 2,2 ), che qui ha una certa asprezza critica. Non considerano che sono ancora nella condizione del bam bino, anzi del lattante, mentre da tempo ormai dovrebbero essere maturi e indipendenti (cf. anche Filone, Migr. 4 6) ? Con coerente logi ca, Ebr. riferisce l'immagine alla «persona incapace dì parlare», non autonoma e che deve essere servita invece di agire da sé, esprimendo in chiari termini quali sono i suoi pensieri. Il lattante che si nutre di
Ebr. 6,1 -6. Il cristiano necessita di una crescita spirituale
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latte e non di «nutrimento solido» vive in uno stato di dipendenza e passività (cf. Filone, Agric. 9). 1 3 . Una frase generica e chiarificatrice sottolinea la necessità di un «giusto ( = esatto) discorso». Con un linguaggio elevato e al tempo stesso ebraizzante, il testo originario parla di «discorso della giusti zia», intendendo per significato il «giusto discorso». Forse si fa già allusione al compito vero e proprio del cristiano adulto, che deve svi luppare la «giusta parola>). Come anche altrove, l'autore parla di cose che tutti sanno (ad es. in 3,4) per accentuare } ,ovvietà di ciò che sta di cendo. Ciò che rientra nella normalità dovrebbe suscitare consenso generale. Ma ciò che è valido per il quotidiano spinge anche a trarre le debite conseguenze per quanto riguarda la vita spirituale. 1 4. Prova di una completa maturità del cristiano non è dunque la conoscenza mistica, come per la gnosi, bensì l'applicazione della fa coltà acquisita di discernere il bene dal male. Mentre il lattante non è in grado di decidere sul tipo di nutrimento, l'uomo adulto può invece decidere benissimo se ad es. un cibo gli piace o no. Ma forse la frase non vuoi essere c osì univoca. Con l'espressione drastica «per distin guere il bene dal male>) si può anche pensare che i cristiani interpellati a dire il vero dovrebbero sapere cosa «giova» loro nell'età cristiana raggiunta. Se anche non è in discussione la loro volontà o meno di ri manere cristiani, si tratta comunque di condurre una «battaglia buona o cattiva». Perciò il cristiano dovrebbe acquisire «facoltà esercitate», considerazione che sottolinea come l'uomo possegga senz'altro una capacità di comprensione per le cose spirituali (v. anche Filone, Leg. all. 3 , 1 8 3 : «organi d i senso»), che è sottoposta, e anzi dev'esserlo, alla capacità di formazione. Lo scopo dunque - per dirla in un'unica frase - è il «cristiano maturo» che si preoccupa della profondità della testi monianza e deve anche essere in grado di trasmetterla. Poiché ogni apostasia sarebbe irrevocabile, il cristiano necessita di una crescita spirituale (6, 1 -6) 1 Perciò, lasciando da parte la dottrina elementare su Cristo, pensiamo alle cose da adulti maturi, così da non dover gettare di nuovo le fondamenta, vale a dire il ravvedi mento dalle opere morte e la fede in D io, 2 la dottrina delle immersioni battesimali, l'imposizione delle mani, la ris urrezione dei morti e il giudizio eterno. 3 Questo faremo, se Dio lo permette. 4 Infatti è impossib ile che quelli che sono stati illuminati una volta, che hanno gusta-
9.2.
Ebr. 6, 1 -6. Il cristiano necessita di una crescita spirituale
to il dono celeste, che hanno ricevuto e sono diventati partecipi dello Spiri to santo, 5 che inoltre hanno gustato la buona parola di Dio e le potenze del mondo futuro, 6 siano rinnovati ancora una volta nel ravvedimento se dovessero apostatare, crocifiggendo di nuovo loro stessi il Figlio di Dio ed esponendolo all'infamia. 1. Con un energico «perciò» iniziale l'autore trae le debite conse guenze per sé e la comunità. Intende guidarla verso ciò che è veramen te degno di lei. Non si limita a qualche ammonimento, come ci si sa rebbe potuti aspettare dopo quanto esposto sino ad ora, ma vuole ri mediare senza indugio all'errore riconosciuto. Dato che dal punto di vista cronologico gli interpellati sono cristiani adulti, è ora che lo di ventino anche concretamente. In questo senso l'autore ripone molte speranze in loro ( 6,9 ) . Sarebbe un ben cattivo maestro della sua co munità se volesse solo istruire e non venire subito in aiuto. Questo comporta che si metta da parte la «dottrina elementare su GesÙ» pas sando ad argomenti adatti a persone mature. Ciò che chiama «maturi tà» va compresa come opposizione alla condizione di chi è ancora mi norenne; dunque non equivale semplicemente a «perfezione» (tradu zione comunque possibile). Infine non pensa a una condizione fisico morale, bensì alla capacità, acquisita con l'esercizio, di dedicarsi a ri flessioni più profonde che comprendono non solo una parte della ve rità di Cristo, ma tutto il suo complesso con le conseguenze che ne derivano. La verità di Cristo è simile a un edificio di cui sono state poste le fondamenta. Bisogna ancora erigere le mura, perché le fonda menta da sole rappresenterebbero un qualcosa d'incompleto, anzi di addirittura impossibile in sé (analogamente 1 Cor. J , I o ss.). Essere cri stiano non è una condizione per sua natura perfetta, ma un continuo cogliere e trasmettere quelle verità che danno forma alla vita indiriz zando a uno scopo. Ciò che per Ebr. è il fondamento, o l'istruzione di base, viene elencato e precisato meglio . Per prima cosa, in una frase a due elementi è menzionato «il ravvedimento dalle opere morte e la fiducia in Dio))' per indicare già il rapporto reciproco tra le grandezze citate. Nel tempo messianico non si può più costruire sulle «opere», ma solo sulla fede fiduciosa. Parlando di opere «morte» e di «fiducia in Dio», anche se in modo riassuntivo, emerge un contatto con il pen siero paolino (cf. Rom. 4, 5 ). La novità che rende possibile un agire «vi vente» è unicamente la fede dell'epoca di Cristo. Perciò i due nuclei tematici hanno un rapporto tanto stretto.
Ebr. 6, 1 -6. Il cristiano necessita di una crescita spirituale
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2. È chiaro che questa descrizione di un'istruzione ricevuta in un tempo precedente presuppone cristiani di origine giudaica, come con ferma anche il seguito, dove si menziona esplicitamente la «dottrina» ricevuta prima, che equivale alle «fondamenta gettate», per suddivide re in altri due grossi nuclei tematici il materiale catechetico: «la dot trina delle immersioni battesimali e dell'imposizione delle mani, della risurrezione dei morti e del giudizio eterno». Nonostante il linguag gio conciso, per prima cosa si penserà che - come indica il plurale - nel giudaismo le lustrazioni e i riti di purificazione hanno sempre avuto una grande importanza (ad es. presso gli esseni). In tale eventualità non è chiaro se l'istruzione cristiana si sia espressa negativamente al riguar do, oppure se ne abbia ammesso l'uso entro certi limiti (come in 9, 1 0). Tuttavia è altrettanto ipotizzabile che sia stata approfondita la parti colarità del battesimo di Gesù rispetto a quello di Giovanni e ad altre lustrazioni cultuali (cf. Atti 1 8,24 ss.; 1 9, 1 ss.), ricavando quindi il ca rattere unico e irripetibile del primo in quanto battesimo dello Spirito. Considerando le frasi che seguono in 6,4 ss., questa riflessione è un po' a parte, dato che sembra esservi un chiarimento di quello che in certo qual modo distingue il cristianesimo. Anche l' «imposizione del le mani» è uno specifico atto cristiano che rientra nell'istruzione. Co me è noto, già la prima chiesa compiva tale azione per conferire lo Spirito santo (Atti 8, 1 7. 1 9; 9, 1 2 . 1 7; 1 3 ,3 ecc.). Non va tuttavia dimen ticato che prendeva direttamente a modello dal giudaismo l'ordina zione dei discepoli al compito di maestri per divenire essi stessi dot tori, con un rito in cui venivano loro «imposte» le mani, come si dice tecnicamente (cf. al riguardo Num. 27, 1 8 ss.; Deut. 3 4,9). L'autore può aver pensato che il dono dello Spirito, ricevuto con tale atto, ren deva il singolo cristiano al tempo stesso anche maestro della parola di Dio, circostanza di cui i cristiani qui rimproverati non hanno appro fittato. Quando infine si fa cenno all'insegnamento riguardante la «ri surrezione dei morti e il giudizio eterno», si tratta ancora una volta di temi giudaici tradizionali. Ovviamente Ebr. può solo presupporre che il loro significato sia stato messo particolarmente in risalto alla luce della verità di Cristo. Oggetto dell'annuncio della risurrezione dove va essere innanzi tutto, anche per il giudeocristianesimo, il Risorto stes so. Questi però al tempo stesso garantisce anche l'assoluzione mise ricordiosa nel giudizio estremo. I sei temi relativi all'istruzione ca techetica rivelano indubbiamente un destinatario giudeocristiano della
,..
Ebr.
6, 1 -6.
Il cristiano necessita di una crescita spirituale
lettera, anche se l'elenco mette in luce una certa obiettività neutrale che sottolinea al massimo come lo sforzo debba tendere a una più profonda comprensione della verità. In questo caso allora vengono schiusi orizzonti totalmente diversi. Comunque il rilievo dato ai sei temi ribadisce a sufficienza quella che deve essere considerata la dot trina fondamentale dell'istruzione dei catecumeni: abbandono del pas sato, inserimento nel nuovo e infine evidenziazione della gravità della decisione presa in vista delle cose future. N on è certo poco, ma se non bisogna fermarsi a questo è proprio perché le varie linee che conflui scono in Cristo e che sottolineano il carattere irripetibile e prodigioso dell'evento sono troppo brevi. La venuta di Gesù è sufficiente come causa e motivo di fede, ma non porta oltre per quanto riguarda lo «Ze lo per la piena convinzione della speranza sino alla fine» (6, 1 1 ). Quel lo che è elencato può bastare giusto per i cristiani che sono agli inizi e intendono affrontare le difficoltà dell'ora presente, non certo per quei seguaci la cui perseveranza e coerenza, rivolta con speranza in avanti, nasce dall'inesauribile verità di Cristo, dà tensione alla vita e impulso missionario alla comunità. 3 · Trattandosi di qualcosa di estremamente importante, la decisione di aspirare alla «maturità» viene inoltre fatta dipendere dalla volontà di Dio di coronare di successo l'impegno comune. L'autore si esprime come il giudeo fervente (v. anche 1 Cor. 1 6,7) che si accerta del favore di Dio, poiché la sua buona volontà da sola non basta. La frase non cela tanto il dubbio che Dio possa non permettere qualcosa, ma sotto linea la certezza che con il suo aiuto tutto vada a buon fine in qualsiasi circostanza. Ebr. punta a coinvolgere in questa sua personale certezza la comunità intera che, essendo pigra, ne ha bisogno. 4· Essa sta correndo un grosso rischio, per cui è necessario che com pia tale passo. Se infatti si arrivasse al punto di rinunciare anche a quan to è indispensabile, nessun aiuto sarebbe più possibile. Una frase relati vamente estesa nega la possibilità che vi possa essere un secondo rav vedimento, ribadendo quindi, al tempo stesso, l'unicità e irripetibilità della conversione a Cristo. Si tratta di una pura constatazione, senza riferimenti specifici agli ascoltatori. Tuttavia da tali parole essi dove vano rendersi conto che era tempo di cambiare modo di pensare e di imparare, per giungere finalmente alle verità eterne. È colpa della loro pigrizia se sono fermi, minacciati dal pericolo dell'apostasia. Non esi ste assolutamente la possibilità di retrocedere a prima del battesimo.
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A questo s i allude parlando d i «quelli che sono stati illuminati una vol ta» (v. anche 2 Cor 4,6; inoltre Iust., Apol. 1 ,61). Da un punto di vista formale si tratta di un concetto della mistica ellenistica, ma anche il pensiero cristiano può affermare che Cristo è «irradiato» su colui che riceve il battesimo (Ef 1 , 1 8; 5,1 3) come luce per la vita, poiché strappa dal potere delle tenebre (Col. I , I J ). All'« illuminazione», inoltre, è di rettamente collegato il ricevimento dello Spirito, «dono celeste» che trasmette vita celeste e forze ultraterrene. N o n lo si possiede, ma se ne diviene partecipi, in quanto lo Spirito contraddistingue ampiamente la realtà attuale del Cristo esaltato, realtà che nessuno può rivendicare per sé solo. Quando poi è detto che i cristiani lo hanno «gustato», questo significa che hanno ricevuto un nutrimento, per così dire, costruttivo sia per l'anima sia per il corpo. Resta da chiarire se questo modo di di re sia influenzato anche da determinate azioni simboliche durante l'at to battesimale (per l'espressione cf. 1 Pt. 2,3). È possibile che come ac cadeva durante i riti misterici pagani, ai battezzandi venissero presen tati, con funzione simbolica, determinati doni che potevano apparire loro come assaggio del nutrimento celeste (ad es. latte, miele ecc.). 5. Quando poi è detto «e inoltre hanno gustato la buona parola di Oio e le potenze del mondo futuro)), ci si appella al ricordo di qualco sa di promesso a livello personale. Si aggiunga che alla celebrazione del battesimo spesso si univa anche la prima celebrazione dell'euca ristia. Si trattava sempre di un'anticipazione dei beni del mondo futu ro, che non erano affatto considerati solo puramente spirituali. Se an che in seguito Ebr. ricorrerà a concetti ellenistici, tuttavia resta indi scutibile l'esistenza di concezioni giudaiche rabbiniche. Infine, la de scrizione dei cristiani «illuminati una volta» mira a evidenziare la gran dezza e la ricchezza dei doni ricevuti col battesimo. 6. Se chi li ha ricevuti dovesse apostatare, questi non potranno più essere concessi, cosa che la comunità potrebbe rimproverarsi. In fon do con essi la grazia di Dio viene resa presente in modo simbolico. Non è possibile trattarli a proprio piacimento. O li si riceve una volta per sempre, o ci si rinuncia del tutto. Per mettere in risalto quanto sia tremenda l'apostasia, l'autore parla in modo intimidatorio del cristia no che apostatando «crocifigge di nuovo con le sue mani il Figlio di Dio esponendolo all'infamia (umiliante dell'esecuzione pubblica)». Solamente se si considera che la lettera è indirizzata a lettori giudeo cristiani si può cogliere tutta l'asprezza accusatoria che si cela dietro .
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Il problema del secondo ravvedimento
questa frase. In fondo dovevano essere soprattutto i cristiani di origi ne giudaica a sentire la morte del messia come una grave colpa del lo ro popolo, mentre, d'altra parte, per loro il dono della fede e della connessa remissione dei peccati era tanto più prezioso. Si poteva pen sare forse a un argomento più duro ? Il problema del secondo ravvedimento. La questione del secondo ravvedimento è in fondo uguale a quella del secondo battesimo, se il concetto di «ravvedimento» è visto da un punto di vista puramente teologico e non in base alla posteriore comprensione ecclesiale del ravvedimento come pentimento e penitenza. Più precisamente, la di scussione non riguarda la caduta in singoli peccati (qualunque pecca to), bensì l'apostasia in generale. Ebr. si esprime su quello che stando ai vangeli Gesù ha chiamato il peccato contro lo Spirito santo (Mc. 3, 29). Anche altrove la testimonianza del Nuovo Testamento conosce la possibilità di una chiara alternativa posta alla fede, espressa dali' op posizione «o ... o .. » (1 Tim. 1 , 1 9; Mt. 2 5 , 1 ss. ecc.). Il problema teolo gico posto da 6,4 ss. non è il fatto in sé di una possibile apostasia, né tantomeno una sua discussione, bensì a chi tocchi giudicare, e con quali criteri si decida, della cosiddetta «apostasia». Il duro giudizio di Lutero su questo passo e dunque sull'intera lettera è noto. Il presup posto da cui parte è una precisa dottrina del peccato, e soprattutto del peccato mortale, propria della chiesa successiva e che al tempo della lettera agli Ebrei ancora non esisteva. Da un punto di vista storico, quindi, la posizione di Lutero oggi non è più accettabile. In fin dei conti non si tratta assolutamente di constatare, da parte della chiesa o di un funzionario, un caso di apostasia da colpire con sanzioni eccle siastiche; è invece l'annuncio a evidenziare la possibilità che questo avvenga, costringendo quelli che stanno rischiando a dare un nuovo orientamento alla loro vita. Il diritto a ciò esiste se la fede cristiana non è solo fondamento della grazia, ma anche pietra di paragone nel giudizio. E questo per Ebr. è indiscutibile. Chi eleva 6,4 ss. a principio della disciplina penitenziale della chiesa, come i novaziani del n1 e IV sec., non riconosce il significato delle possibilità che ci sono state aperte in Cristo, e rende la chiesa una comunità farisaica settaria. Vi sono giudizi che Dio riserva a sé affinché siano presi da tutti più se riamente in sacro orrore. .
La vegetazione sterile viene eliminata (6,7 s.) 7 I nfa tt i il terreno imbevuto della p i ogg ia che cade di frequente su di esso e p rod u ce «vegetazione» utile per quelli per i quali viene coltivato, partecipa alla benedizione di Di o . 8 Ma se «produce spine e cardi» è inutile e pros sima alla maledizione che all a fine lo porta a es se re bruciato.
7 s. Gen. ) , 1 7.
Un breve discorso per immagini in 6,7 s. interrompe le dure frasi che esortavano a cambiare mentalità. Agendo esteriormente quasi come la descrizione di un idillio naturale, esso ha invece lo scopo d'illustrare la gravità del giudizio, gravità di cui gli ascoltatori devono essere in formati. Mancando ogni interpretazione, il discorso si avvicina al ge nere della parabola. Quanto al suo significato, non vi sono dubbi: lad dove la benedizione ricevuta non porta frutto, si ha l'eliminazione di ciò che è sterile o inutile. Quest'immagine che rimanda alla storia bi blica delle origini ha lo scopo di catturare senza tante parole ammoni trici il consenso dell'uditorio. 7· Ebr. intende mostrare che cosa deve aspettarsi colui che apostata c per suo conto crocifigge nuovamente Cristo: invece della benedizio ne si attira la maledizione. Il punto di partenza è esattamente l'imma gine opposta, ossia la terra imbevuta di piogge frequenti (v. anche Deut. 1 r , r o s.) che produc e una vegetazione utile. Dietro l'affermazione si cela la convinzione, diffusa anche sul piano filosofico, che ogni evento naturale per sua destinazione (= entelechia) in fondo mira all'utile, co me pure ogni erba della terra esiste per il meglio dell'uomo (al riguar do cf. Filone, Agric. 8 ss.). Dunque le uniche piante di valore sono quelle coltivate (v. anche Gen. I , I I ss.; J , I 7). D'altronde solo la «ter ra» riarsa che beve avidamente il dono celeste della pioggia per pro durre «vegetazione utile» risponde alla propria destinazione, che ol tretutto consiste nel produrre per coloro «per i quali viene coltivata». La terra, per così dire, materna esiste per l'essere umano (v. anche Fi lone, Op. 1 3 3 ) In tal modo è oggetto di benedizione divina, e anche in seguito verrà coltivata con zelo. Forse il concetto di «benedizione» è scelto in considerazione della testimonianza biblica di Gen. J , I 7· 8. Ma se il terreno produce invece «spine e cardi» - espressione trat ta dalla Bibbia per indicare una vegetazione senza valore - allora è «inu tile» e vicino alla «maledizione», come si può ricavare dalla citazione precedente; non ha corrisposto alle attese riposte in esso, venendo co.
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Ebr. 6,9- 1 2 . C'è
speranza che la comunità vinca la propria pigrizia
sì meno alla propria destinazione. La fine è il fuoco del giudizio divi no. Poiché tale asserzione coincide con l'intento kerygmatico, la lieve illogicità - che considerata in un certo modo ha anche ragion d'essere - con cui viene giudicata la terra non deve turbare. La gravità dell'im magine prospettata non può essere ignorata né ha bisogno di altre pa role. L'autore volge nuovamente l'attenzione ai suoi lettori che vor rebbe sì portare alla comprensione, ma senza abbandonarli. La parabola è formulata senza dubbio in modo magistrale. L' espo sizione tradisce la capacità narrativa e la limpida logica dell'oratore. Pur riprendendo il linguaggio biblico, al tempo stesso lo adatta al pen siero dell'epoca. Ci si potrebbe anche chiedere se non ci sia un certo legame con le parabole di Gesù (cf. Mt. 7, 1 6 ss.; Mc. 4, 14 ss.), ma ov viamente la certezza non esiste. Sarebbe infine da valutare se il carat teristico elemento della «pioggia che cade di frequente)) non introduca un simbolo messianico di un certo rilievo per il tempo pasquale, per cui potrebbero esser presi in considerazione anche passi come Giac. 5,7, e in particolare Gl. 2,23 e Os. 6,3 (cf. b Ta'an. 4 a- 5 a) . Qualunque conclusione si finisca per trarre, non si può negare che i versetti s'in seriscono nelle strutture rigidamente bibliche del ragionamento prin cipale in modo di gran lunga migliore rispetto a quanto possa sembra re a prima vista (cf. anche Filone, Deus 1 5 5 ss.). C'è
speranza che la comunità vinca la propria pigrizia (6,9- 1 2.)
Quanto a voi però, carissimi, anche se parliamo così, siamo convinti delle cose m igliori e di ciò che (vi) porta alla salvezza. I o D i o, infatti, non è in giusto da dimenticare la vostra opera e l'amore dimostrato nel suo nome qu a nd o avete dato sostegno ai santi e ancora li sostenete. 1 1 Desideriamo p erò che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo in tutta la convinzione della speranza, fino alla fine, 12 perché non diventiate pigri ma piuttosto imitatori di coloro che con la fede e la perseveranza ereditano le promesse. 9
Con 6,9 ss. si ha una svolta decisiva non solo nel tono, ma anche nel pensiero. Se fino ad ora solo tra le righe si percepiva che l'autore non ha intenzione di abbandonare i suoi ascoltatori, ora questo viene det to esplicitamente. Se fino ad ora prevaleva la gravità giudiziale del ser mone ammonitore, gli enunciati che seguiranno ora irradiano fiducia appassionata e incoraggiamento vigoroso. Non è certo nell'intento del la lettera suscitare timori e avvilimento tra i suoi ascoltatori. Le dure
Ebr. 6,9- 1 2.
C'è speranza che la comunità vinca la propria pigrizia
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frasi non mirano a frustrare i cristiani ormai impigriti, ma a renderli attivi sul piano della pronta comprensione e dell'autocoscienza penti ta. In questo rientra naturalmente anche l'incitamento. 9· Con espressioni inequivocabili l'autore manifesta la simpatia e l'affetto che prova. Il «noi» letterario dà peso alla frase, vi si riesce a percepire il maestro che fa leva sulla propria autorità. Egli confida nel «bene» che caratterizza i membri della comunità, e lo fa da cristiano oltre che da uomo. Certo è consapevole di aver pronunciato parole gra vi e scomode perché non poteva né era in grado di trattenersi, ma cio nonostante essi non devono sentirsi abbandonati né ripudiati, al con trario. Li chiama, e solo qui, «carissimi», c dunque si sente profonda mente legato a loro, cosa che è qui della massima importanza. A spin gerlo non sono state amarezza o incomprensione, ma preoccupazione e affetto, perciò è lungi dal voler attenuare o ritirare ciò che ha affer mato. Si esprime con estrema cautela quando dice di essere convinto «delle cose migliori», se confrontate a quanto denunciato in 6,8 . 10. Per quanto riguarda la salvezza i suoi ascoltatori non falliranno e i motivi di questo non vanno ricercati in loro stessi, ma nella giusti zia (= fedeltà) di Dio, che certamente non dimentica le opere d'amore da loro compiute nel suo nome. Colpisce l'espressione «la vostra ope ra e l'amore». Si può solo pensare a un impegno particolare che richie da le forze riunite della comunità. Non si tratterà certo di opere di be neficenza nell'ambito della propria comunità. È altrettanto improba bile che si tratti di particolari «servizi» resi durante un'epoca di perse cuzione ( I O,J 2 ss.). La frase allude piuttosto a una straordinaria opera di sostegno intrapresa dalla comunità per aiutare un gruppo esterno, «i santi». Se questa iniziativa è avvenuta così dichiaratamente nel no me di Dio, e se è diventata nel frattempo un'istituzione fissa, allora si dovrebbe senz'altro valutare se non vi sia un riferimento alla grande colletta dei primi tempi del cristianesimo, di cui sentiamo parlare più di una volta nel corpus paolino (nella parte relativa al terzo viaggio mis sionario) (cf. 2 Cor. 8 , 5 ). L'espressione indubbiamente tipica «servire i santi» si riferirebbe dunque anch'essa al sostegno finanziario alle chie se povere della patria palestinese (cf. Rom. I 5,2 5 .3 I ; 1 Cor. r 6, I ; 2 Cor. 8,4; 9, 1 . 1 2; Atti 1 1 ,29). Sappiamo che questa iniziativa era un proposi to sia della missione giudeocristiana sia di quella etnicocristiana (Gal. 2, 1 o), e che durò vari anni. Quando si parla tecnicamente dei «santi» è probabile che si riprenda una definizione della chiesa gerosolimitana.
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Ebr.
6,9- r2. C'è speranza che la comunità vinca la propria pigrizia
Se la lettera agli Ebrei risale davvero al tempo precedente il 70 d.C., allora questa spiegazione, che non è l'unica tra gl'interpreti, diventa notevolmente più probabile. Per quanto i particolari vadano precisati meglio, l'autore è sotto l'effetto di una potenza esemplare dell'amore, estesa e disponibile. Non è in grado di sottrarvisi, perché Dio benedi ce soprattutto questa disponibilità al sacrificio e al servizio. Vuole che la carità regni tra gli uomini, soprattutto tra quelli che, grazie a Cristo, l'hanno raggiunta davanti al trono stesso della grazia (4, I 6). I I. Se possibile, lo zelo nell'esercizio dell'amore - oggi parleremmo d'impegno sociale - da un certo punto di vista è più facile da suscitare e quindi più facile da mantenere dello «zelo in tutta la convinzione della speranza fino alla fine». L'amore per il prossimo, se è un senti mento autentico e naturale, ha sempre un oggetto immediato in cui ri conoscere la necessità e il significato del suo compito. Questo è più difficile nel caso della speranza cristiana che, essendo viva, è in grado d'influire sul cristiano solo se gli viene continuamente promessa. Una comunità che collabora attivamente e con spirito di disponibilità può compiere grandi cose se vi è il desiderio di superarsi l'un l'altro (cf. 2 Cor. 9,2 ). Perché la speranza sia viva, ci vuole però lo zelo del singolo cristiano, mentre, viceversa, ogni cosa dipende dalla capacità o meno di ciascuno di mantenere tale atteggiamento. Evidentemente Ebr. in tende ravvivare e rafforzare l'attesa del singolo in seno alla comunità; ecco spiegato lo struggente e appassionato «noi desideriamo (fervida mente) ». Laddove si impiegano le forze di un attivo amore per il pros simo, «tutta la convinzione» dovrebbe avere il suo caposaldo. Anche se il cristiano non si fa servo per avere in cambio un compenso, tutta via s'impegna soprattutto per colui «nel cui nome» agisce nell'amore, ed è proprio a questo nome che è collegata la speranza (cf. 6, 1 3 ss.). Verosimilmente si pensa che alla fine l'amore e la speranza si vincono o si perdono insieme. 1 2.. Visto sotto questo aspetto, il v. 1 1, in fondo, prosegue coeren temente. Il concetto di pigrizia rimanda a 5 , 1 1 ; ma mentre là si consta tava una diffusa «pigrizia nell'ascolto», qui si tratta più di una pigrizia generale che colpisce tutta la vita cristiana. Accanto alle parole della promessa, sono i modelli della fede e della perseveranza ad avere l'im portanza maggiore. È a questi che bisogna rifarsi, non· imitandoli - ne risulterebbero solo delle caricature - bensì cercando di riprodurne l'e sistenza vissuta pienamente. L'espressione «di coloro che ... ereditano
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La promessa di Dio ad Abramo
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le promesse» non s i riferisce a un preciso gruppo di persone del passa to d'Israele o del presente della chiesa (così sotto, 1 1 , 1 ss. e r 2, r ss.), ma a quanti, in modesto anonimato e nonostante tutte le prove e av versità, percorrono la via della speranza «sino alla fine», che anche per essi comprende « meta» e «significato», anzi «compimento» (cf. Ps. Sal. I 2,8). Il plurale «promesse» si riferisce alla molteplice testimonianza offerta dalla Scrittura. Del numero illimitato di coloro che andrebbero ricordati come modelli di fede e di perseveranza, nel seguito viene tut tavia scelta e messa in risalto un'unica figura.
La promessa di Dio ad Abramo ha comunque valore immutabile {6, I J -20) 1 3 Quando infatti Dio fece la promessa ad Abramo, «giurò per se stesso», poiché non vi era nessuno superiore per cui avrebbe potuto giurare. 1 4 E disse: «In verità, benedicendo voglio benedirti (molto) e moltiplicando vo glio moltiplicarti ( molto)». r s E così, avendo perseverato, conseguì la pro messa. 16 Gli uomini infatti giurano per qualcuno superiore a loro e il giu ramento per loro serve da convalida per escludere ogni controversia. 17 Per ciò Dio, che voleva mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l'ir rcvocabilità del suo intento, intervenne con un giuramento 1 8 perché con due atti immutabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi avessimo un forte incoraggiamento; noi, che abbiamo cercato rifugio aggrappandoci alla speranza che ci è posta innanzi, 19 nella quale noi abbiamo un'ancora dell'anima, sicura oltre che salda, «che penetra fin nell'interno della corti na», zo ove Gesù è entrato per noi come precursore, essendo divenuto sommo sacerdote «in eterno secondo l'ordine di Melchisedec» . 1 3 s.
Gen. 22, 1 6 ss. 19 Lev. 1 6,2. 1 2. 10 Sal. 1 10,4.
1 3 -20. In quanto popolo, Israele ha ricevuto molte promesse. In tal senso l'annuncio dei profeti parla chiaro. Se si vogliono prendere sin gole figure dell'antica alleanza che sono state ritenute degne di riceve re promesse personali, allora si può menzionare solamente Davide, il fondatore della monarchia (cf. 2 Sam. 7, 14 ss.). Se infine si vuole indi care una personalità che vada oltre il solo Israele, allora Abramo emerge in solitaria grandezza. La testimonianza che lo riguarda nella lettera è insolitamente estesa. È importante che appaia ripetutamente come destinatario della promessa divina, e anzi che, in fondo, abbia ricevuto le promesse divine maggiori dal punto di vista del contenuto. A bramo è portato sempre come esempio fulgido del fatto che il mon-
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6,I J-20. La promessa di Dio ad Abramo
do e la promessa di Dio appartengono alla fede, fede che non è puro appannaggio d'Israele per quanto esso sia anche il popolo del messia (cf. Gen. 1 2,2). Questo pensiero dovette colpire profondamente l'au tore. Seguendo le regole dello scriba giudaico del tempo, studia a fon do il mistero, e cioè le allusioni a Cristo nella figura di Abramo. La pericope 6 ,I 3 -20 costituisce quindi un passaggio improvviso, ma certo ponderato, a 7, I ss.4 ss. È notevole la differenza rispetto a Paolo. È vero che anche l'autore di Ebr. in Abramo vede il destinatario della promessa (cf. Rom. 4, 1 4 ss.; Gal. J,8. r 6), ma sviluppando il tema pren de una strada completamente diversa, visto che non vengono presi minimamente in considerazione né la fede che giustifica né il signifi cato, unico nel suo genere, che la figura dei padri riveste per i gentili. Mancando dunque un interesse teologico specifico per il mondo etni cocristiano, se ne può dedurre che abbiamo a che fare con un teologo giudeocristiano. Per rafforzare la perseveranza della sua comunità in siste più sull'elemento formale della promessa che non su quello con tenutistico, per cui in primo luogo interessa l'insolita forma del giu ramento, dal momento che al tempo stesso ne deriva anche l'assolu tezza della sua validità. Se Dio definisce non solo un concetto, ma la realtà della fede, allora la parola con cui promette è qualcosa di più di un semplice «discorso»: è un impegno assoluto, un «giuramento» in crollabile, come direbbe la Bibbia. 1 3 . Ebr. parla della promessa di Dio fatta ad Abramo come se si trattasse di una sola. Dal punto di vista contenutistico e materiale questo è certo vero, tuttavia i racconti inerenti ad Abramo riferiscono che la promessa venne ripetuta più di una volta (cf. Gen. 1 2,2 ss.; 1 3 , 1 6; I 5 , 5 ss.; I 7, 5 ss.). Per illustrare l'importanza di questa promessa assolutamente irrevocabile si rimanda alle ultime parole pronunciate da Dio (Gen. 22, 1 6 ss.). Vi si riferisce che, per quanto riguarda Abra mo, Dio «giurò per se stesso» - formulazione alquanto singolare per il pensiero di un biblista come l'autore, che infatti si appresta a illustrarne il significato. Poiché Dio non aveva nessuno superiore a lui sul quale poter giurare, giurò «per se stesso». Di per sé non bisogna cercare as solutamente nulla dietro questa espressione che si serve di un'immagi ne antropomorfa. Le cose stantio diversamente - come già accennato - per il punto di vista di allora. Che si tratti di un sistema di pensiero più ampio ed elaborato è provato soprattutto da due testi di Filone, la cui scuola di metodologia ermeneutica sembra essere stata un tempo
Ebr.
6,I J-20. La promessa di Dio ad Abramo
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seguita dall'autore. Le dichiarazioni di Filone presentano un ragiona mento parallelo a Ebr. Nel primo passo (Sacr. 93 ) spiega diffusamente che Dio è certo credibile anche solo sulla semplice parola. Le sue pa role non hanno bisogno di un giuramento, ma gli equivalgono sempre. Ma quando nella Scrittura Dio è ripctutamente descritto nell'atto di giurare qualcosa, ciò avviene per dare all'uomo, che pensa in termini umani, il necessario aiuto per capire. Nel secondo passo (Leg. ali. 3 ,203 ss.), che fa esplicito riferimento a Gen. 22, 1 6 ss., trattando sorpren dentemente lo stesso problema, si constata che Dio soltanto è il garan te più potente, prima per se stesso e poi anche per le sue opere; di conseguenza egli può giurare solo per se stesso, offrendosi anche co me certezza. 1 4. Andando oltre Filone, Ebr. trae conseguenze per la fede della comunità cristiana che è consapevole in modo nuovo di Dio c della sua parola. Questa circostanza ha influito addirittura sul testo della frase divina, che in un punto particolare differisce da quello dci LXX. Invece di parlare della moltiplicazione della «discendenza» di Abra mo, è prevalsa la formulazione « e io ti moltiplicherò (molto)». In questo modo viene distolta l'attenzione dalla pluralità della discen denza, ovvero da giudei e gentili, in cui anche Paolo vede l'adempi mento della promessa. L'interesse teologico punta più sulla figura del patriarca stesso, il quale ha ottenuto l'adempimento della promessa sotto forma di una « grande moltiplicazione». Da 1 1 ,8 ss. emerge an cora più chiaramente che essa, secondo Ebr., comprende anche l' «eredità» della «terra straniera», e naturalmente in primo luogo l sac co, coerede della promessa, la cui voluta immolazione è prototipo del sacrificio di Cristo ( I I , I 7 ss. ). I 5. Tale definizione del contenuto della promessa chiarisce perfet tamente la constatazione del v. I 5 · Abramo dimostrò perseveranza e fiducia davanti a Dio riguardo sia alla promessa della terra sia a quella di un figlio e così « conseguì la promessa)). Ovviamente Ebr. dà per scontato che Abramo dovesse ancora sperimentare l'adempimento di quanto gli era stato promesso per la prima volta in Gen. I 2,2 ss. (cf. Gen. 2 3 ) . Lo può constatare senza difficoltà perché parte dalla con vinzione teologica che entrambi i doni, la terra ricevuta e il figlio ge nerato, racchiudevano già in sé il bene salvifico futuro ( 1 I , I o) . Anche se la «promessa» non si era ancora realizzata, gli antenati potevano comunque veder la e salutarla «da lontano)) ( 1 1 , 1 3 ). Di qui emerge che •••
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6,I J-2.0. La promessa di Dio ad Abramo
la redazione della promessa divina di Gen. 22, I 6 ss . è accentuata tipo logicamente in senso cristologico e non già, come avviene in Paolo, in senso messianico-ecclesiologico. Ciò che si può imparare da A bramo è principalmente la perseveranza nella fede in una salvezza futura. 1 6. Tutto il peso delle asserzioni, il cui proposito per il momento si può solo leggere fra le righe, viene ulteriormente rafforzato nel v. I 6; qui si ricorda quale usanza sia in vigore fra gli uomini per dimostrare, con una gradazione dal minore al maggiore, che lo stesso vale anche e soprattutto per Dio. Gli uomini giurano per qualcuno che è superiore a loro, e il giuramento ha lo scopo di escludere qualsiasi controversia. Avendo l'autore seguito Filone per quanto riguarda il metodo, non stupisce trovare in quest'ultimo, parola per parola, la stessa frase di valore universale (Sacr. 9 3 ; cf. anche Somn. I , I 2). In modo del tutto analogo nel seguito si afferma subito che presso Dio lo stesso deve ac cadere in misura ancora maggiore. 1 7. Ebr. ribadisce energicamente che Dio ha voluto garantire la fer mezza della sua promessa proprio mediante un giuramento, in modo tale che «grazie a due atti irrevocabili nei quali Dio è impossibile che mentisca noi avessimo un grande incoraggiamento» (cf. I 8); si riferi sce alla sua parola, che promette ed è credibile, e al giuramento per se stesso. Oggetto di quest'ultimo, stando al contesto, è la promessa di Gen. 2 2, I 6 ss., che, secondo l'interpretazione fornita, s'identifica nel l' «eredità» resa reale e accessibile in Cristo. È da notare che in questo modo è preso indirettamente in considerazione il tema principale se condo il quale Dio garantisce con giuramento la sua salvezza, tema che può esser stato suggerito fondamentalmente da Sal. I I o, 4 (cf. a 3,7 ss. e 7,20 ss.). Quando in questo passo la traduzione letterale afferma che Dio «è intervenuto con un giuramento», si ha l'associazione di due concetti. Dio è colui che giura e al tempo stesso colui che garanti sce il giuramento, cioè, per così dire, «colui che sta in mezzo», «al quale l 'uno si richiama e sul quale l'altro fa affidamento» (Fr. B leek). 1 8. Questi due dati di fatto che sottolineano la veracità di Dio (cf. Num. 2 3 , 1 9; Rom. 3 ,4; Tit. I,J) possono e devono dunque servire da « grande incoraggiamento» alla comunità. La «veracità» di Dio dimo stra di essere soprattutto fedeltà alla promessa pronunciata; in essa i cristiani, che conoscono fin troppo bene l'incostanza umana, possono trovare un punto fermo assoluto; né lo abbandoneranno coloro che cercano proprio in essa «rifugio». In un mondo ostile che perseguita
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l'uomo e gli d à la caccia, l a possibilità di sopravvivere esiste a motivo della speranza cristiana. Essa è in grado di strapparci a un vortice fata le. Acquistiamo certezza in forza della fedeltà incondizionata di Dio che si esprime nelle parole della promessa. Se la storia delle religioni insegna che la parola di Dio ha sempre mosso l'uomo, la storia d'Israe le, al cui inizio troviamo la figura di Abramo, testimonia che la parola di Dio nel suo movimento ha una meta a cui l'uomo può tenersi ag grappato se nella tempesta della vita non vuole diventare un relitto sbattuto sulla spiaggia. 1 9 . La tribolazione esistenziale dell'uomo dell'antichità trapela per un momento quando Ebr. parlando della «speranza afferrata» usa l'immagine dell' «ancora dell'anima, sicura oltre che salda», che pos sediamo. Come in 2, 1 , nel linguaggio e nel pensiero, altrimenti assolu tamente biblici, s'insinua un'immagine estranea, piuttosto di filosofia popolare, che descrive lo smarrimento e la minaccia che incombono sull'uomo immerso in un mare di errori e tempeste. Riemerge una cer ta familiarità con Filone che, a proposito degli uomini privi della vera fede in Dio, può affermare (Dee. 67) che sono sballottati eternamente qua e là, irrequieti come imbarcazioni oscillanti che «non entrano mai in porto né trovano mai àncora sicura nella verità». Ma se Filone vede il «sostegno più nobile della vita dell'anima>> nella «necessaria fede nel Dio eternamente vivente», Ebr. fa un decisivo passo avanti per la co munità cristiana definendo «àncora» la speranza garantita da Dio. Certo, la fede dà sostegno in una vita esposta a tempeste, ma solo la speranza fornisce l'orientamento. È inevitabile che sorga l'interrogati vo sul fondamento della speranza. Interrompendo bruscamente l'im magine, si asserisce che l'àncora «penetra fin nell'interno della corti na», richiamando così il testo di Lev. 1 6, 2. 1 2. Perciò il saldo fonda mento della speranza è il santo dei santi, che contraddistingue l' «in terno della cortina» e delimita il luogo del sacrificio espiatorio annua le nel giorno dell'espiazione. L'àncora è nascosta, proprio come invi sibile doveva essere quanto accadeva all'interno del santo dei santi. Es sa è al tempo stesso assolutamente affidabile, perché fa presa nel luogo stesso di Dio. Da 4, 14 risulta che Ebr. naturalmente pensa al cielo, o meglio al santuario celeste . .2.0. Per tornare al tema principale, concludendo la sezione l'autore riprende l'idea che Gesù è entrato nel santo dei santi (cf. 4, 14), preci sando che lo ha fatto per noi come «precursore». Inoltre si cita di nuo-
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vo e letteralmente il testo di Sal. I I 0,4. Ciò a cui già in 5, I o si faceva riferimento tematico può essere ora definitivamente sviluppato nel l'omelia. Ebr. ha già considerato vari aspetti importanti. Gesù è diven tato sacerdote «in eterno»; e questo entrando «per noi» nel santo dei santi, o più precisamente ottenendo, mediante la sua morte, il compi mento, ossia l'insediamento nella nuova dignità. L'espressione «per noi» evidenzia lo scopo del suo ministero vicario, che necessita l'ac quisizione personale. Quando inoltre è detto che Gesù è penetrato nel santo dei santi come «precursore», allora si considera in special modo la meta sperata dalla comunità cristiana, violando e superando il ritua le giudaico che riservava l'ingresso nel locale al solo sommo sacerdote.
Parte terza
« In eterno secondo l'ordine di Melchisedec»
(Sa /. I I0,4) (7, I - IO, I 8 )
Salendo per due versanti omiletici differenti, Ebr. si è avvicinato al ver setto centrale di Sal. I I0,4, che con il v. I caratterizza l'intero salmo (cf. 4, 14- 5 , 1 0 e 5 , 1 1 -6,20). Questo modo di procedere ammette con clusioni plausibili sul fondamento testuale dell'omelia, che fornisce contenuto e direzione alle idee. Le affermazioni che seguono dimo strano innegabilmente di essere interpretazione della testimonianza biblica, in cui accanto al nome e alla figura di Melchisedec viene trat tato principalmente il significato del giuramento biblico (Sal. I 1 0,4a). Con 7, 1 - 10, I 8, chi ascolta il sermone si trova davanti alla parte didat tica vera e propria, nella quale ogni testimonianza contribuisce a met tere in risalto la grandezza di Cristo.
La carica perpetua del sommo sacerdozio di Gesù secondo l'ordine di Melchisedec comporta l'abrogazione del sacerdozio levitico nonché della legge mosaica (7, I -28) In 7, I - 2 8 per prima cosa ci si preoccupa di dimostrare il mistero della persona e della carica di Cristo. Qui la convinzione riguardo a un'esemplarità (tipologica) particolare di Melchisedec si fonde con la fede in una p reesistenza del Figlio, che sotto un certo aspetto potreb be anche essere stata realtà figurativa primordiale. Evidentemente da Sal. I 10,4 si ricava più di quanto il versetto stesso non dica; infatti nel testo originale l'espressione «secondo l'ordine di Melchisedec» signi fica solo «alla maniera del sacerdozio di Melchisedec>>. Quando poi l'autore la carica di significato partendo dalla narrazione di Gen. 1 4, oltremodo oscura per la comprensione biblica contemporanea, allora nasce inevitabile la domanda sui suoi presupposti ermeneutici e stori co-religiosi. In questo, il moderno lettore della Bibbia percepisce mag giormente l'estraneità di tale arte interpretativa. Constatiamo inoltre che quanto Ebr. offre è un tentativo di dimostrare la preesistenza di Cristo a partire dal Sal. I 10, tentativo che va ampiamente compreso,
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Ebr. 7,1-28. Sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec
dal punto di vista sia metodologico sia contenutistico, alla luce di Fi lone. Se in questo non siamo neanche più in grado di seguirlo, tuttavia oggi più che mai resta il compito di rendere teologicamente possibile l'enunciazione dell'eterno significato di Gesù. È necessario soffer marsi brevemente sulla forma e la struttura dell'omelia, che in questa parte viene particolarmente caricata dal punto di vista tematico. 1-3. In 7, 1 - 3 tutta la conoscenza di Ebr. riguardo a Melchisedec, trat tenuta sin da 5 , 1 ss., emerge infine appieno con un'unica frase assai estesa, che è al tempo stesso un elenco e un'interpretazione. Le carat teristiche che definiscono il mistero del personaggio vengono riporta te in modo conciso, pur mantenendo l'usuale stile elevato. 7,1 - 3, sia materialmente sia dal punto di vista metodologico ermeneutico, è alla base di tutto il discorso successivo, che ha lo scopo di dimostrare il sacerdozio eterno di Cristo secondo l'ordine di Melchisedec nel senso di Sal. I I 0,4. Stile, contenuto e collocazione omiletica della frase non consentono di avanzare l'ipotesi di un inno, magari rielaborato. 4- 1 .1. Con i vv 4- I 2 l'attenzione dell'ascoltatore viene spostata sul particolare fatto che Abramo diede la decima a Melchisedec, da cui si può arguire la sottomissione del sacerdozio levitico al sacerdozio di Melchisedec-Cristo. Il procedimento ideale segue le usuali regole er meneutiche, riconoscibili nella lettera: a) constatazione di un caso sin golare della Scrittura, v. 4; b) ricerca del significato più profondo par tendo dal sapere generale, v. 5; c) accentuazione del caso paradossale, in cui si ha un'allusione al significato spirituale più profondo, v. 6; d) conclusione dal minore al maggiore, v. 7; e) descrizione della con clusione, vv. 8 ss.: Melchisedec-Cristo è superiore a Levi. Nei vv I 1 s. si argomenta in modo tipico per ipotesi, partendo dal contrario. I J - I 7. Nei vv. I J - I 7 si giunge finalmente all'identificazione esplici ta di Melchisedec con Cristo, la cui origine dalla tribù di Giuda deve testimoniare della correttezza della dichiarazione di Sal. I I 0,4. Cristo non sarebbe diventato sommo sacerdote secondo la «legge di una p re scrizione carnale» bensì per la «potenza di una vita indistruttibile» . I 8-2 5. I successivi versetti I 8-2 5 ancora una volta passano dalla per sona di Cristo al nuovo ordinamento da lui inaugurato, per cui viene introdotta per la prima volta l'idea del «testamento» maggiore. L'af fermazione trova sostegno nell'allusione al giuramento prestato da Dio. A una promessa più grande corrisponde al tempo stesso una «spe ranza maggiore» . Anche questi versetti si rivelano facilmente parte del.
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Ebr. 7, 1 - 3 .
La figura eterna di Melchisedec
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l, intera dimostrazione, di cui la conclusione dal minore al maggiore è caratteristica. Il v. 2 5 ha un leggero contatto con Rom. 8,34. 2.6-2.8. I vv. 26- 2 8 sono una specie di riassunto dell'intero discorso. In essi si ribadisce ancora una volta il sacerdozio eterno e incorruttibi le di Cristo. I due versetti 27 e 28 proseguendo 4, 1 4 ss. rimandano a qualcosa di tematicamente nuovo (v. il concetto «una volta per tut te»). Al posto del sacerdozio della «debolezza», con Cristo si ha il sa cerdozio eterno del « Figlio reso perfetto» (cf. I , 2 e Sal. 2,7). Per la tecnica interpretativa di Ebr. è fondamentale il continuo ri mando a Sal. I I 0,4 nelle varie sezioni (vv. J . I 1 ss. I 7.2 1 ss.2 8). Con una lieve schematizzazione vi si può riconoscere un particolare impegno per quanto riguarda le seguenti espressioni: 7, 1 -3 «Melchisedec», 4- 1 2 «secondo l'ordine d i Melchisedec», I J - I 7 «sacerdote in eterno», 1 8 -2 5 «il Signore ha giurato», 26-28 «Figlio in eterno» (Sal. 2,7 e I 1 0,4). Recentemente nel cap. 7 si è voluto vedere un midrash-pesher su Sal. I 10,4 e Gen. 1 4, 1 7-20 (F. Schroger). I due testi biblici che parlano di Melchisedec, tratti dall'Antico Testamento, rispettivamente dal li bro dei Salmi e dal libro della Genesi, sarebbero stati accostati secon do il metodo interpretativo rab binico richiamandosi alla seconda re gola di rabbi Hillel, secondo la quale due passi corrispondenti si com pletano e s'integrano a vicenda. Di fatto l'elaborazione dei testi proce de in modo tale che il loro accostamento produce una dichiarazione riguardante Cristo unica nel suo genere. Forse però il concetto di mi drash non è del tutto adeguato. Se in questo abbiamo ragione, allora ci troviamo davanti a una sorta di tecnica interpretativa allegorica come quella di Filone, tecnica che l'autore di Ebr. possiede in modo perfet to. Il sacerdozio di Gesù viene ora illustrato definitivamente e com pletamente, avendo cura di svelare la profondità del contesto salvifico. Il compositore è guidato dalla convinzione che quanto dichiarato a proposito del «sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedec» non possa essere pura declamazione, ma necessiti di argomentazione. È quanto giustamente fa, anche se naturalmente a modo suo.
La figura eterna di Melchisedec si rivela incarnazione del Figlio di Dio (7, 1 -3) Questo «Melchisedec» infatti, «re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, che andò incontro ad Abramo (per riceverlo) mentre ritornava dalla bat taglia dei re» e «lo benedisse», 2 a l quale Abramo diede pure «la decima di 1
I IO
Ebr. 7, 1 -3 . L a figura eterna di
Melchisedec
ogni cosa (del bottino}», che se s'interpreta (il nome) è innanzitutto un «re di giustizia», ma poi anche «re di Salem», che significa «re di pace», 3 sen za padre, senza madre, senza genealogia, che non ha né un inizio dei giorni né fine di vita, ma è anzi fatto simile al Figlio di Dio, egli dunque rimane «sacerdote» per sempre. 1
ss.
Gen. 1 4 , 1 7-2.0.
Sulla base di Gen. 14, I 7 ss., il v. I descrive sommariamente l'in contro tra Melchisedcc e Abramo; in un'unica frase sono concentrati tutti i fattori di rilievo per la dimostrazione: «Questo Melchisedec in fatti ... rimane sacerdote per sempre». Per prima cosa viene richiamato alla memoria l'evento in sé. N ella Scrittura, Melchisedec è presentato come « re di Salem», ossia di Gerusalemme, stando al senso letterale (cf. Sal. 76,3). Egli era un «sacerdote del Dio altissimo», espressione che al tempo di Ebr. poteva essere intesa esclusivamente nel senso del monoteismo giudaico. Contempla la certezza che Dio è l'unico e il più alto (Filone, Leg. all. 3,8 2 ). Ogni minima forma di echi politeistici non era più ammissibile né lecita. Abbreviando Gen. I 4 è detto inoltre che fu Melchisedec ad «andare incontro» ad Abramo, e non - come lì - il re di Sodoma, del quale Melchisedec in quanto re di Salem era alla pari, circostanza che si può dedurre solo indirettamente (cf. Gen. I 4, I 8). Venne così introdotta l'idea di un' «accoglienza» solenne del vin citore e trionfatore (v. anche Filone, Abr. 23 5), perché il concetto gre co di «andare incontro» in questo senso è puramente tecnico. Così anche gli altri particolari emergono con maggiore evidenza. In primo luogo vi è che Melchisedec ha benedetto Abramo, cosa che documen ta la superiorità del primo rispetto al secondo; poi vi è la consegna da parte di Abramo della decima «di ogni cosa» - ossia del bottino (v. 4). 2. Se pensiamo che in Abramo il giudeo praticante venerava il pa triarca per eccellenza e che vi era l'abitudine di pronunciare una be nedizione in sua memoria, si riesce a comprendere quanto la circo stanza descritta dovesse affascinare l'esegeta. Ovviamente tutto l'inte resse si concentra sulla persona di colui che è tanto superiore al pa triarca. L'autore si accosta al mistero di Melchisedec dapprima inter pretandone etimologicamente il nome. Come anche in Filone (Leg. all. 3,79), tale interpretazione svela una caratteristica etica psicologica di colui che lo porta. Scomponendo il nome ebraico nelle sue due parti (melki-sedeq) si ha che egli è «un re di giustizia». L'indicazione stessa della sede del suo regno fornisce un'ulteriore caratteristica del 1.
Ebr. 7, 1 -3 .
La figura eterna di Melchisedec
III
suo modo di governare. L'espressione «re di Salem», che suona quasi come un titolo, significa «re della pace» (ebr. shalom). I due attributi per l'autore appartengono senz' altro al tipo ideale di dominatore di Melchisedec-Cristo. In modo del tutto simile anche Filone può affer mare: «Il tiranno può chiamarsi signore della guerra, ma il re principe della pace, Salem ... » . Ebr. applica come Filone un principio esegetico a noi estraneo: «Ciò che non è nella torà, non esiste sulla terra (in mun do ) >> , ovviamente con un caratteristico spostamento di accento. A det ta di Filone, Dio definisce Melchisedec re della pace e suo sacerdote, «senza averne fornito prima una sola azione; anzi fin dal principio (!) lo aveva creato così regale, pacifico e degno del suo sacerdozio» per ché il suo nome significa «re giusto». Da qui Filone deduce la preesi stenza del «Verbo » . 3 · Diversamente, anche s e in modo simile, procede l'autore di Ebr. , il quale mette in risalto più l'unicità della persona che la funzione di dominatore. Prendendo spunto dal silenzio della Scrittura constata i fatti - «senza padre, senza madre, ecc.» - per dedurre la preesistenza e l'eternità della persona. Questo argumentum e silentio si basa sulla cir costanza, per la comprensione moderna puramente casuale, che l'An tico Testamento non dice assolutamente nulla a proposito della nasci ta e della morte di Melchisedec. Tanto più rilevante doveva apparire a Ebr. la singolarità di questa figura di re-sacerdote a cui la Scrittura ac cenna, singolarità che alla fine è diventata prova della sua eternità. Le frasi in cui si constata l'assenza di genealogia presuppongono natu ralmente il diritto s acerdotale giudaico, che attribuisce la carica esclu sivamente in base alla discendenza !evitica (Es. 28, 1 ss.; Num. J , I o ecc.). Così all'interprete della Scrittura s i pone inevitabilmente un in terrogativo: questo misterioso Melchisedec era di origine legittima o illegittima ? Se è giusta la prima ipotesi, a favore della quale vengono addotti vari argomenti, allora bisogna pensare a una figura unica nel suo genere. Ed è proprio questa la conclusione in cui, quanto a radi calità dell'argomentazione, l'autore è intenzionato a superare addirit tura Filone. Il discorso in crescendo culmina nell'espressione «egli è anzi fatto simile al Figlio di Dio». La frase si conclude poi definitiva mente con un colle gamento concettuale con Sal. 1 1 0,4: «[Egli] rimane sacerdote per sempre » . L'audacia dell'affermazione, che consiste nel l'indubbia identificazione di Melchisedec con Cristo con una specie di considerazione di tipologia reale (filosofico-speculativa), non può as-
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Elementi gnostici in 7,3 ?
solutamente venir sminuita, tendenza invece propria dell'interpreta zione più recente. Non solo bisogna tener conto che Ebr. vi ha prepa rato gli ascoltatori per interi capitoli, ma occorre anche considerare che tutti i capitoli successivi sull'operato sacerdotale di Cristo vengo no sviluppati partendo dalla parità di Cristo e Melchisedec. Perciò per questo passo non è consentito fornire strumenti di comprensione mo derni, perché si possa dire che Melchisedec è inteso come raffigura zione e tipo di Cristo, oppure che gli sia stato «simile » . Non meno di scutibile è l'opinione che si tratti di una figura simbolica; né, con in terpreti della chiesa primitiva, si dirà che Melchisedec è presentato come un angelo. Ciò che per Filone è scopo ultimo dell'anima umana (Op. 1 44), ossia la cosiddetta «affinità con Dio», stando a Ebr. ha da tempo trovato nel Figlio adempimento prototipico.
Elementi gnostici in 7,3 ? Si metterà in dubbio innanzitutto la spie gazione storico-religiosa secondo la quale dietro 7,3 vi è la concezione dell' «incarnazione di un uomo primordiale (E. Kasemann). Anche non attribuendola direttamente a Ebr. , ma a una tradizione o fonte innica liturgica rielaborata, la dimostrazione non diventa più probabile. L e cose stanno diversamente: Ebr. parte dalla convinzione che Cristo i n quanto sommo sacerdote «secondo l'ordine d i Melchisedec» sia una figura eterna primordiale nella misura in cui rappresenta l'incarnazio ne del logos alessandrino (Filone, Fug. ro8 ss.). Che egli dovette farsi carico dell'impegno sacerdotale fin nelle profondità abissali della de bolezza umana e della realtà della morte lo distingue dalla forma filo niana di una ragione cosmica divina e personale. Del tutto errata è l'idea che l'ipotizzato mito gnostico dell'uomo primordiale già in I , I 6,2o sia stato di aiuto nell'elaborazione dell' «analogia» tra i l redentore e quanti necessitano della redenzione (E. Grasscr). Per Filone infatti non è dimostrabile l'identità tra logos e uomo primordiale (U. Friich tel). Se dovessero sussistere ancora dubbi riguardo a ciò che determina il pensiero in Ebr. , questi sarebbero cancellati dal titolo «Figlio di Dio» , qui estremamente significativo, con il quale l'argomentazione s i con cluderà altrettanto solennemente in 7,2 8 . Anche in Filone il logos è definito «Figlio di Dio», e di esso l'alessandrino ritiene che in quanto creatura di Dio abbia a sua volta creato l'uomo. Se a questo punto della dimostrazione Ebr. dà al Cristo-Melchisedec preesistente il tito lo di «Figlio di Dio», ciò evidentemente accade sulla base della cosmo-
Elementi gnostici in 7,3 ?
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logia filoniana, sottomessa alla verità della testimonianza cristologica (I ,2). In base alla loro conoscenza gli ascoltatori devono essere con dotti vicino a questo « Figlio», che è logos-mediatore rispetto a Dio. Dal gradino dell'ascolto devono giungere a quello della visione inte riore (cf. 7,4 che invita coerentemente: .. Guardate!>>). In altre parole, sotto l'aspetto materiale e metodologico 7, I -3 tradisce un certo pen siero di scuola alessandrina filoniana, assoggettato direttamente alla te stimonianza cristologica del sacerdozio eterno di Cristo secondo il Sal. 1 IO. In un primo tempo è l'idea del sacerdozio ((durevole» a dominare (cf. «per sempre»). Sottolineando maggiormente la «stabilità ininter rotta» con il ricorso a una concettualità di tipo greco, viene messa in evidenza soprattutto la dimensione relativa alla storia della rivelazio ne, introdotta dalla parificazione tra Melchisedec e Cristo. La sfumatura innegabilmente filoniana delle idee esposte in 7, I-3 non rimanda a un mito gnostico rielaborato relativo alla figura dell'uomo primordiale - redentore. Tuttavia è indiscutibile che la tradizione bi blica su Melchisedec abbia influenzato relativamente presto il pensie ro religioso del giudaismo e della chiesa. Lo sfondo spirituale per si lnili speculazioni era certo pronto sin dal 1 sec. d.C. (cf. 1 I QMelch; 1 Clem. 36). Per l'epoca successiva si distingue il gruppo gnostico dei melchisedechiani, fondato da Teodoto gnostico intorno al 2oo d.C. (lp polito, Ref omn. haer. 7,3 6; I 0,24; Ps.-Tertulliano, Haer. 24; Epiph., Pan 5 5 ). Oltremodo vasta è inoltre la testimonianza del metodo scrit turistico aggadico tardogiudaico, che ovviamente non poteva ignorare Sal. I I 0,4 né tantomeno Gen. 1 4. In questo caso manchiamo tuttavia di risposte che contenutisticamente si avvicinino a Ebr. 7, sebbene si debba osservare che le parole del salmo potevano essere applicate an che al messia come prescelto speciale di Dio (cf. Abot R. N. 34 (9a)). A ciò si aggiunge l'interpretazione, a quanto pare assai diffusa, di Mel chisedec come sommo sacerdote del tempo escatologico messianico (Str.-Bill. IV, I , 464). È tipico di tutti i sistemi cosiddetti gnostici, e dunque essenziale per una corretta valutazione, che il redentore sia sempre identificato in qualche modo con Cristo, e che sia messa in discussione la sua capaci tà di soffrire in quanto persona celeste. In questo Ebr. si differenzia nettamente dal pensiero gnostico, poiché in ogni speculazione (neo platonica filoniana) sull'origine (preesistente) e sulla misteriosa prei storia di Cristo ha posto proprio la sua passione e la sua morte a fon.
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Ebr. 7J4- I2. La superiorità di Melchisedec-Cristo
damento della testimonianza. Se anche non siamo più in grado di se guire in tutto le sue idee, tuttavia queste ci inducono a riflettere a fon do sulla verità della morte di Gesù sempre in relazione alla sua pri mordialità ed origine. Dove infatti viene ribadita la divina verità della croce di Gesù va anche necessariamente dedotto il principio teologico secondo il quale egli è di origine divina.
Dalla superiorità di Melchisedec-Cristo sul sacerdozio levitico risulta l'abolizione dell'ordinamento mosaico (7,4-1 2) Considerate però quanto sia grande colui al quale «Abramo diede la de cima» dai migliori pezzi del bottino, lui, il patriarca! 5 Mentre quelli dei fi gl i di Levi che ricevono il sacerdozio posseggono una prescrizione per i m porre, secondo la legge, la decima al popolo, cioè ai loro fratelli, sebbene questi siano usciti dai lombi di Abramo, 6 «egli», che non fa risalire a loro la p ro p ria genealogia, «ha» riscosso la decima da Abramo e ha «benedetto» colui che ha le promesse. 7 Senza alcuna obiezione, dunque, l'inferiore viene benedetto dal s up eriore 8 E mentre q ui riscuotono la decima uomi ni che sono mortali, là lo fa uno di cui è attestato che vive. 9 E attraverso Abramo anche Levi, che riceve le decime, per così dire ha versato la sua de cima. I o Infatti egli era ancora nei lombi dell'antenato «quando Melchise dec gli andò incontro». I I Ora, se mediante il sacerdozio levitico - grazie al quale il popolo ricevette le leggi - fosse possibile la perfezione, che biso gno ci sarebbe di costituire un altro «sacerdote» «secondo l'ordine di Mel chisedec» invece di designarl o «secondo l'ordine» di Aronne? I z Se infatti il sacerdozio viene modificato, interviene inevitabilmente anche un cam biamento della legge. 4
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4 Gen. 1 4,zob. 6
Gen.
I 4, 1 9.
10
Gen.
1 4, I 7. I I Sal. 1 10,4.
4· In un'ulteriore sezione concettuale nei vv. 4 - 1 2 si ha un'analisi delle caratteristiche appena elencate che dimostrano la grandezza di Melchisedec e del suo sacerdozio. I lettori devono cogliere con l' oc chio spirituale le relazioni più profonde, come si confà a «cristiani ma turi » (6, 1 ). Gi à Abramo si era inchinato del tutto spontaneamente alla grandezza di Melchisedec, consegnandogli la decima dalla parte m ig l i o re del · suo bottino, ed E br. lo sottolinea ripetendo «lui, il patriarca» . Intende ribadire che Abramo era già sotto l'effetto del personaggio ultraterreno e sacerdotale. Perciò gli consegnò la decima, consistente nei «pezzi migliori del suo bottino», oggetti scelti; è una precisazione
Ebr. 7J41.- I 2.
La superiorità di Melchisedec-Cristo
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ulteriore rispetto al v. 2. Il patriarca non agì così sotto costrizione, ma in tutta spontaneità e naturalezza, consapevole della grandezza celeste di chi gli stava di fronte; e questo in totale adempimento di una di sposizione divina, come illustrano le considerazioni successive. 5 · Nel v. 5 in un primo tempo si allude al carattere paradossale del l'accaduto, cioè che, evidentemente, insieme al patriarca anche dai figli di Levi - i quali all'epoca naturalmente si trovavano ancora «nei lombi di Abramo)) (ossia non erano ancora nati) - è stata riscossa la decima; e questo nonostante essi stessi, secondo la legge di Dio, avessero il diritto di imporre la decima al popolo, ai loro fratelli (cf. Num. 1 8,2032). Chi riflette a fondo su questo fatto - e questo è proprio l'intento dello scritto - non può non cogliere la forte contraddittorietà del con testo. E comunque non si tien conto che la tribù di Levi avrebbe fatto la sua comparsa solo molto più tardi. Ovviamente, poiché al redattore di Ebr. la storia umana, in particolare da Abramo in poi, appare come storia continuativa dell'intervento divino che comporta un immediato significato per il presente, prospettive di altro tipo passano inevitabil mente in secondo piano. Gli sta molto più a cuore il carattere prodi gioso dell'evento per cui i «figli di Levi», privilegiati in base alla legge divina, mediante un atto sp9ntaneo sono sottomessi a qualcuno che è ' loro superiore. 6. L'idea che quella volta Abramo potrebbe essere stato umiliato è lontanissima, come deduciamo dal fatto che accanto al pagamento della decima si ricorda ancora una volta che Melchisedec «ha benedet to» lui, il depositario della promessa. Nel testo originale greco colpi sce l'uso del verbo al perfetto dell'allegoria, che attesta l'importanza diretta anche per il presente della benedizione impartita un tempo. Così non sussiste alcun dubbio che il sacerdozio di questo Melchise dec-Cristo è un qualcosa di assolutamente unico e di addirittura attua le. N on solo. Chi legge capisce che oggi, nell'epoca cristiana, si può divenire immediatamente partecipi di questa benedizione (cf. 6,7). Es sa proviene da colui che «non era della loro stirpe», cioè dei figli di Levi, perché è più grande di loro e il suo diritto è indiscutibilmente superiore al loro, anzi lo infrange. Il patriarca stesso non vi ha mosso la minima obiezione. 7· Per delineare più chiaramente la circostanza fondamentale, segue un'affermazione di tono piuttosto generale e didattico. I lettori devo no nuovamente confrontare la diversità dei due personaggi, ciascuno
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dei quali rappresenta un proprio ordine. E in che cosa consista alla fin fine quest'ultimo è detto dal successivo v. 8 . 8 . L a struttura comparativa «qui ... là» rende interessante l a formu lazione perché rende insignificante quella distanza temporale percepi ta dal lettore odierno, sostituendola anzi con una contemporaneità lo cale quasi attuale. Se poi, per giunta, il «qui» è stato scelto in relazione al sacerdozio levitico, mentre il «là» è riferito a Melchisedec, allora si fa presente almeno che il primo rappresenta una grandezza ancora esistente, mentre il sacerdozio del secondo in questo modo non è più immediatamente attuale. Perché sia così occorre che da parte degli ascoltatori vi sia una più profonda penetrazione della testimonianza attestante «che vive», espressione riferita in primo luogo alla fi gura di Melchisedec che però si identifica con il Figlio di Dio, i cui giorni non hanno fine (v. 3). La sostanza delle cose per Ebr. non è evidente, ma si rivela solamente grazie a un intenso sforzo conoscitivo. La contrap posizione tra gli «uomini mortali» e Melchisedec «che vive» introduce nuovamente e in modo allusivo la problematica dell'esistenza (analo gamente 7,2 3). Laddove questa emerge, l'uomo che si interroga tente rà ripetutamente di spingersi oltre la superficie sino al nucleo centrale delle cose, l'origine della rivelazione. Non che possa vedere Dio; tut tavia penetrerebbe almeno quell'ambito in cui Dio può manifestare la propria volontà. In Cristo, l'autore di Ebr. vede il depositario della ri velazione e della vita per eccellenza, legato all'uomo fin dentro la tri bolazione dell'esistenza. 9· Consapevole che ogni considerazione di tipo tradizionale non è più sufficiente, riassume quindi, ancora una volta, la sua convinzione nei vv . 9 ss. Con una formulazione piuttosto cauta («per così dire») fa capire che la propria opinione, ora esposta in breve e concisamente (cf. Filone, Cher. 1 1 2 e molti altri), potrebbe anche non essere condi visa da tutti. Personalmente, tuttavia, egli non è assolutamente in gra do di staccarsene. Tramite Abramo anche a Levi, che riscuote le deci me ed è antenato e quintessenza di tutto il sacerdozio giudaico, è stata per così dire imposta la decima (perfetto dell'allegoria). 1 0. Infatti si trovava ancora nei lombi del padre Abramo (= del ca postipite) «quando Melchisedec gli andò incontro». Ciò che prima, al v. 5, in fondo era espresso solo indirettamente perché inizialmente si trattava solo di evidenziare il carattere paradossale di un evento, ora viene ribadito con una certa riserva, definitivamente e con precisione.
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La circostanza richiede assolutamente che si rifletta sul suo significato per il presente. I I. Per escludere ogni dubbio riguardo alla conoscenza acquisita, con una frase condizionale irreale si ribadisce che non avrebbe potuto essere altrimenti. L'imposizione della decima alla classe sacerdotale !e vitica, essa stessa autorizzata alla riscossione di decime - un atto di ri levanza giuridica - ha il carattere di realtà irrefutabile. Qui la dimo strazione si allontana dalla base di Gen. 14, interpretata allegorica mente, per fondarsi solo su Sal. 1 1 0,4. Se mediante il sacerdozio leviti co vi fosse «perfezione», ossia un nuovo ordinamento nei rapporti con Dio in modo definitivo, comprendente anche il bene della spe ranza, allora non ci sarebbe bisogno di istituire nessun altro sacerdo zio, come è invece accaduto con Melchisedec-Cristo. In questo modo il sacerdozio levitico, che evidentemente è presentato come un'istitu zione ancora operante (v. in particolare 7,8), viene proclamato giuri dicamente abolito. N on è stato in grado di adempiere il compito im postogli per legge. L'inciso «grazie al quale il popolo ricevette le leg gi» non si riferisce proprio al compito della «perfezione», bensì al sa cerdozio levitico, circa il quale il popolo israelita possedeva istruzioni ben precise. Il pieno significato di questo accenno si manifesta solo sulla base dci capitoli a venire, nei quali si cerca di sviluppare tutta la grandezza dell'opera di redenzione unica e irripetibile di Cristo. 12.. Per l'autore di Ebr. infatti si è avuta nientemeno che l'introdu zione di un nuovo «ordine», cosa che alla fine trova espressione al v. 1 2 nelle debite forme e con l'aiuto di concezioni filoniane (v. intr. 1 0): ogni mutamento nel sacerdozio comporta inevitabilmente (alla lettera: «per necessità») una trasformazione della legge. È evidente che per E br. ordine legale e ordine sacerdotale sono strettamente connessi. La por tata dell'evento è immane, come si intuisce già allusivamente in questa frase; non si tratta affatto di un qualcosa che riguarda unicamente il popolo, bensì di un ordinamento di base che viene dichiarato abolito. Sotto certi riguardi E br. sembra esser vicino a Paolo, che definisce Cri sto la «fine della legge» (Rom. 1 0,4). Mentre però l'apostolo parte dall_'idea della volontà di Dio espressa nella legge, che l'uomo non è in grado di rispettare avendo così bisogno di Cristo, per Ebr. il punto di partenza è l'insufficienza dell'antico ordinamento cultuale. Paolo vuo le aprire gli occhi dell'uomo smarrito all'evento di Cristo, Ebr. desta nel giudeo la consapevolezza del fallimento della legalità cultuale.
Cristo è di origine divina, n on )evitica (7, I J - I 7) 1 3 I nfatt i colui al q ual e si riferiscono queste paro le appartiene a una tribù d iversa, della quale nessuno fu addetto al servizio d ell altare. 14 È no to in fatti che il S i gno re nostro è «uscito da Giuda», della cui tribù Mosè non ha detto nulla riguardo ai sacerdoti . 1 5 E questo appare in modo molto p iù evi dent e s e nell 'uguagl i a nza con Melchisedec viene costituito un altro «sacer dote» r6 che non è divenuto tale secondo la legge di un ordinamento car nale, ma in base alla potenza di una vita indi stru tti b i le. 17 La testimonian za che lo riguarda dice infatti: «Tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine d i Melchisedec». '
1 3 . Nei vv. 1 3 - 1 7 viene portata una dimostrazione ulteriore al fatto che l'esercizio sacerdotale affidato alla tribù di Levi è stato abolito. L 'autore prende in considerazione il dato storico noto per cui Cristo, al quale si riferisce la sentenza di Sal. I 1 0,4, di fatto appartiene a un'al tra tribù. Se per il nostro modo di pensare in questo passo viene eleva to ad argomento ciò che in realtà deve essere ancora dimostrato, per Ebr. il contesto è ben diverso. L'autore ricerca un ulteriore particolare e intende proporlo alla riflessione oltre al generale livello di conoscen za della comunità come componente supplementare di una più vasta serie di prove. Se si parte dalla considerazione che il Sal. I I o parla di Melchisedec-Cristo, il quale per Gen. 14 è senza genealogia, allora tut to il ragionamento appare effettivamente un po' illogico. D'altra par te, se si tien conto che - come già ai vv. I 1 s. - è il Sal. I IO a essere nuo vamente al centro dell'attenzione, allora l'esposizione diventa com prensibile. Per la concezione dello studioso giudaico della Bibbia, Sal. I 1 0,4 no n lascia alcun dubbio: il sacerdote che vi è menzionato non può in alcun modo appartenere alla tribù di Levi. Sembra quindi giustifi cato dedurne che fosse membro di una tribù «della quale nessuno (mai) fu addetto al servizio dell'altare». In fondo si tratta di un compito af fidato solo ed esclusivamente ai discendenti di Levi. Il v. I 3 dice lette ralmente: «Ha partecipazione a un'altra tribù» (perfetto dell'allego ria}, espressione che evidenzia la certezza dell'adempimento presente di Sal. I 1 0,4. 1 4. Il v. I 4 precisa il pensiero alludendo all'origine di Gesù dalla tribù di Giuda. Viene così espressa la figliolanza davidica di Gesù nel senso di una convinzione comune nel cristianesimo primitivo {cf. in
Ebr. 7, 1 )- 1 7. Cristo è di origine
divina, non levitica
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particolare Rom. 1 ,3 ; Mt. 1,1 ss.; Le. 1 ,27; 2 Tim 2,8 ecc.). Se questo è esatto, allora nell'affermazione confluiscono due componenti: la con vinzione del giudaismo del tempo che il messia promesso nell'Antico Testamento provenga dalla tribù di Davide (= Giuda) (cf. in particola re 1 Mace. 2,47; Ps. Sal. 1 7 e 1 8; 4 Esd. 7,28; 1 1 , 1 ss.; bSanh. 97a ecc.), e la conoscenza storica effettiva riguardo a tale pretesa genealogica della famiglia di Gesù. La formulazione del v. 14 in questo è più un'afferma zione nello stile liturgico kerygmatico che non una relazione di stam po storico: «Il Signore nostro è uscito da Giuda», alla lettera: «sorto» . Nel tenore dovrebbe ricordare l e predizioni bibliche, come indica l'im magine della «salita da Giuda», simile a un astro (cf. Zacc. 3 ,8; 6, 1 2; Ger. 2 3 , 5 ; Mal. 3,2o). Può esserci soprattutto una particolare affinità con il testo di Num. 24, 1 7 (cf. inoltre Sal. I 1 2,4). Quando si dice: «il Signore nostro», riecheggia lo stile confessionale delle chiese cristiane elleni stiche; ne risuona la convinzione vittoriosa che Cristo rivendica un diritto universale e che di fatto non gli può essere negata la venerazio ne che gli spetta (cf. a 1 , 1 0 ss.). Ci si potrebbe chiedere inoltre se non si vada magari profilando una disputa precoce sull'origine del messia. Di sicuro era convinzione generale del popolo giudaico che alla fine dei tempi sarebbe venuto un messia davidico. Indubbiamente però sorsero problemi quando per Gesù della tribù di Giuda venne riven dicata anche la dignità sacerdotale. E questo tanto più che nel popolo esistevano gruppi religiosi (v. la comunità degli esseni del Mar Morto) che evidentemente attendevano due messia, quello regale da Israele e quello sacerdotale da Levi-Aronne (cf. 1QS 1x,9 ss.; r QSa 28a; anche in particolare Test. XII Rub. 6,7 ss.; Test. Sym. 7, r ss.; Test. Iud. 2 1 ,2). Anche se le concezioni erano poco uniformi, c non poteva essere al trimenti, tuttavia Ebr. può aver subìto l'influenza indiretta della di scussione generale. In fondo, a suo modo, sottolinea chiaramente che in Gesù si unificano due ruoli di messia, di cui quello sacerdotale è palesemente in primo piano. Se anche questo non accade nel senso di un'attesa levitico-aronitica di un messia-sacerdote, ha tuttavia luogo sulla base di una singolare speculazione riguardo a Melchisedec, che in una forma qualsiasi deve essere stata assai diffusa a Qumran, come prova il frammento 1 r QMelch, pur lasciando aperti alcuni interroga tivi. Comunque la tendenza di Ebr. è abbastanza palesemente a favore di una messianicità sacerdotale che non è poi così fortemente sottoli neata nella restante letteratura del cristianesimo primitivo, per quanto .
I 20
Ebr. 7, 1 J - 1 7. Cristo è di origine divina, non !evitica
forse qua e là ne emergano alcuni accenni (così ad es. nel passo di tra dizione prepaolina di Rom. 3, 2 4 ss.). Quando si fa presente che Mosè non ha detto nulla «riguardo a sacerdoti» della tribù di Giuda, si evi denzia anche che Gesù è proprio il messia e sacerdote di stirpe non levitica preannunciato da Sal. 1 I o,4. 1 5 . A riprova di questo vi è anche un'altra frase rafforzativa, nel v. 1 5, introdotta dalle parole «e questo appare in modo molto più evi dente», che si riferiscono a quanto detto al v. I 3. Il sacerdozio di Cri sto sarebbe dunque un'entità a parte, che non ha niente a che vedere con la tribù di Levi perché il testo del salmo attesta l' «uguaglianza» con Melchisedec. Bisogna inoltre vedere se Dio, che era all'opera con potenza di vita celeste, abbia mai voluto un ordinamento terreno e ca duco. Intendendo l'espressione «secondo l'ordine di Melchisedec» co me «secondo l'uguaglianza con Melchisedec», l'autore esprime la con vinzione che il sacerdozio di Cristo non solo è di carattere peculiare, ma rappresenta addirittura una propria nuova realtà. 1 6. La sua caratteristica sostanziale, nel raffronto con la «legge di un ordinamento carnale», è rappresentata dalla «potenza di una vita indistruttibile» che si può vedere in Melchisedec, del quale è lecito af fermare: «senza fine di vita» (così letteralmente 7,3 ), «egli vive» (7, 8), «rimane sacerdote per sempre» (7,3 b). Come Filone, evidentemente anche il nostro autore ama l'idea delle «potenze» di Dio all'opera in questo mondo, grazie alle quali l'uomo è in grado di avvicinarsi alle verità eterne. Tuttavia egli compie un ulteriore passo avanti quando in Cristo-Melchisedec vede incarnata, in modo completo e unico, la «po tenza di una vita indistruttibile». La «legge di un ordinamento carna le» non implica il concetto di peccato, ma quello della caducità e del l'effimero, così come anche i sacerdoti levitici, chiamati secondo i cri teri della discendenza carnale e della natura corporea, sono mortali (cf. 7,8 .2J). 1 7. Quando ci si richiama nuovamente a Sal. I I 0,4, l'accento è in negabilmente posto sull'espressione «tu sei sacerdote in eterno». In essa Cristo, sulla base di una dichiarazione divina, è attestato come l'eterna figura sacerdotale, figura decisiva in modo definitivo per tutto ciò che vive. Riassumendo il ragionamento dei vv. I 3 ss., Ebr. torna nuovamente alla prova scritturistica di cui cita per interò la frase cen trale. Probabilmente traspare anche l'idea che nelle parole di Dio ab bia la sua ultima origine anche la «forza di una vita indistruttibile» . In·
Ebr. 7, 1 8-z s .
Cristo è l'autore di un ordinamento perfetto
121
fine, l'autore di Ebr. non pensa più, come Filone, al mondo come a un libero spazio delle eterne potenze di Dio. Per lui il nuovo centro della rivelazione e della conoscenza è piuttosto la figura salvatrice dell' eter no sommo sacerdote Cristo, «che con la potenza della parola sostiene tutte le cose» ( I , J ).
Cristo è l'autore di
un
ordinamento incorruttibile e perfetto
(7, 1 8 -2 5 ) Infatti, d a una parte s i h a l'abrogazione d i u n precetto precedente, a cau della sua debolezza e inutilità, 19 perché la legge non ha perfezionato nulla; dall'altra si ha l'introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale ci avviciniamo a Dio. 20 E in quale misura questo accadde senza giu ramento - poiché quelli sono certo divenuti sacerdoti senza giuramento, 2 1 ma costui con un giuramento da parte di colui che gli ha detto: «Il Si gnore ha giurato e non si pente: 'Tu sei sacerdote in eterno'», 22 tanto più anche Gesù è di ventato garante di un testamento migliore. 23 E gli uni so no diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo, 24 egli però possiede un sacerdozio immutabile perché «ri mane in eterno» . 2 5 Perciò è in grado anche di salvare in modo perfetto quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, perché vive sempre allo sco po d'intercedere a loro favore. 18
sa
1 1 Sal. 1 1 0,4a. 2.4 Sal. 1 10,4.
1 8-2 5. In genere l'interpretazione è incline a definire i vv 1 8- 2 5 un'unità concettuale a s é stante, dal momento che i n essa s i trovano tre frasi dello stesso tipo sullo schema «certo ... ma» . In particolare presentano i seguenti elementi formali: vv. 1 8 ss. tesi, vv. 20-22 prova scritturistica, vv 2 3 ss. prova dei fatti, v. 2 5 reiterazione della tesi in versione più concreta. Da un punto di vista prevalentemente conte nutistico si possono distinguere i seguenti raggruppamenti: vv. 1 5 - 1 9, vv. 20-22 e vv. 23 -2 5 . In considerazione del particolare modo di pro cedere omiletico di Ebr. , di fatto i vv 1 8- 2 5 andrebb ero considerati a parte. Essi mirano a evidenziare le conseguenze giuridiche del sommo sacerdozio di Cristo. È evidente che nel capitolo 7 i vari argomenti si concludono ogni volta con un'espressione tratta dalla Scrittura, facili tando così una suddivisione della materia. 1 8. Se nel v. I 2 compariva la nozione simile a una tesi per cui il «mu tamento» del sacerdozio comporta necessariamente anche quello della .
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I 22
Ebr. 7, 1 8- 2 5 .
Cristo è l'autore di un ordinamento perfetto
legge, qui si parla in modo ancora più accentuato dell' «abrogazione» del «precetto precedente». E questo ancora una volta in modo tale da prendere come punto di partenza della riflessione la prassi generale. Il termine «abrogazione» definisce un atto di annullamento con valore di legge; nell'epigrafia tale concetto è variamente attestato come ter mine giuridico. Nel nostro caso si parte dalla considerazione che l'at to giuridico dell'invalidamento si ha quando una legge o un ordina mento si dimostrano «deboli o inutili». Effettivamente esistono frasi giuridiche che non ottengono l'effetto voluto, vuoi perché richiede rebbero una formulazione più perentoria del precetto, vuoi perché per altri motivi non conseguono il risultato sperato. 1 9. C ome evidenzia l'inserimento della frase di 1 9a, l'autore ha già in mente la legge di Mosè. Se al v. 1 6 si era già parlato della «legge di un ordinamento carnale>>, ora se ne constata la «debolezza e inutilità>> . S i s a che Paolo può affermare che l a legge, sebbene sia santa e buona, conduce alla morte (Rom. 7,9- 1 2). Ebr. ne ribadisce l'incapacità di «rendere perfetto>> . Questo giudizio appare forse meno radicale, ma il risultato finale è il medesimo. Chi confida nella «legge>> non ha alcuna «speranza». Il sacerdozio dei figli di Levi amministra qualcosa di tran sitorio, e non è stato in grado di procurare la «vita indistruttibile» del v. 1 6. Incatenato ai limiti della vita naturale corporea, ha un proprio compito per quanto riguarda il rapporto con Dio ( 5 , 1 ), malgrado tutto però non sa schiudere l'accesso a lui. Solo abolendolo si è giunti all' «introduzione di una speranza migliore». L'una presuppone l'al tro; le disposizioni divine infatti hanno valore di legge e non possono sussistere l'una accanto all'altra. La «speranza migliore» consente al l'ebreo di «avvicinarsi» a Dio (cf. il «noi»). Questo linguaggio è oltre modo significativo. Forse che il tipo di relazione dell'ebreo, tenuto al rispetto della legge e del culto, non è decisamente caratterizzato dal l' esclusione dali'accesso a Dio, la cui dimora è rappresentata dal santo dei santi ? Se la formula «accostarsi a Dio» nei LXX è riservata quasi esclusivamente al servizio sacerdotale, allora si comprende come pre sto o tardi la cosa sarebbe diventata un problema gnoseologico e quin di fondamentalmente teologico. Filone è considerato il rappresentante di quei giudei eruditi profondamente toccati dalla questione della ri velazione e della conoscenza, ragion per cui in lui i toni esistenziali sono presenti in larghissima misura: «Poiché anche quando Abramo si accostò a Dio riconobbe immediatamente di essere polvere e cenere»
Ebr.
7,1 8-2. s . Cristo è l'autore di un ordinamento perfetto
1 13
(Gen. I 8,27) (Deus I 6o ss.). Si percepisce che l' «accostarsi a Dio» nel l' antica alleanza era possibile solo a pochi eletti. Ebr. invece scrive partendo dalla certezza liberatoria di una «speranza migliore», «grazie alla quale noi (riferendosi dunque a tutta la comunità) ci avviciniamo a Dio». Che l'incontro sia qualcosa di più che rivelazione ricevuta e comprensione delle relazioni divine, e cioè accesso al santo dei santi in forza del sacrificio di Gesù, ci è chiaro da 6,20. Se un privilegio di po chi è diventato diritto fondamentale di tutti i membri della comunità, ciò documenta una nuova condizione total mente mutata. 20 s. Al pari dei risultati, anche i presupposti sono radicalmente dif ferenti, come si vede dal fatto che Dio ha rafforzato il nuovo ordina mento con un giuramento solenne. In tal modo mantiene senza riser ve la sua nuova promessa, ormai definitiva. Quando un po' macchino samente si dice «non senza giuramento», si vuole forse suggerire che Dio non ha assolutamente voluto rinunciare a un tale atto unico nel suo genere perché era indispensabile al raggiungimento del suo scopo. Il conseguimento del bene eterno della speranza è concesso per l' eter nità. Niente può più essere ripreso indietro, né lo sarà mai. È quindi ri levante la differenza rispetto all'ordinamento che c'era prima. Per con ferire maggior peso all'espressione «e in quale misura questo accadde senza giuramento», in un primo tempo la frase non viene conclusa, ma interrotta parenteticamente mediante l'inserimento di una spiegazio ne: «poiché quelli sono certo divenuti sacerdoti senza giuramento, ma costui con un giuramento da parte di colui che gli ha detto: Sal. I Io, 4a» . In tal modo viene recuperata subito la prova scritturistica per la mezza frase precedente («e in quale misura questo accadde senza giu ramento») - circostanza che fa capire chiaramente che Ebr. non argo menta sulla base di Sal. r I o, ma ne prende invece spunto per la pro pria omelia. La contrapposizione comparativa tra «poiché quelli ... ma costui» si riferisce sia al sacerdozio levitico sia a Cristo. Se «quelli» non sono pervenuti alla loro funzione mediante un giuramento è per ché Dio in un primo tempo non ha voluto che un ordinamento prov VIsono. 2.2.. In modo simile a 6, r 7, eppure in maniera diversa, viene ripreso il concetto ancora più importante di «giuramento», con cui indub biamente trova espressione la convinzione che Dio stesso lo ha presta to di fronte a Gesù (cf. 5 ,9 ss.). Proprio quest'ultimo perciò si è assun to il ruolo di «garante di un testamento (o alleanza) migliore», come
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Ebr. 7,1 8-2.J . Cristo è l'autore di un ordinamento perfetto
sottolinea l'aggiunta del v. 22. Preferendo la traduzione «testamento» a «alleanza», sottolineiamo che per Ebr. è determinante la concezione per cui non esiste alcun accordo bilaterale (nel senso di rapporto rego lato da un patto), bensì una libera decisione su iniziativa unicamente di Dio. Questa ha carattere di donazione garantita da un giuramento, nella quale Dio ha impegnato Gesù quale «garante» della sua validità e verità incondizionate (riguardo a tale concetto v. Filone, Cher. 4 5 ) . A ciò si collega al tempo stesso la convinzione che Gesù (si faccia caso al nome del Signore terreno) può essere presentato come garante dell' as soluta verità della promessa di Dio. Gesù è garante perché sulla croce ha dimostrato un'obbedienza unica, a motivo della quale è stato innal zato. Vorremmo perciò riflettere sull'affermazione che Gesù, in quan to testimone della fede, per l'uomo che s'interroga e che è in ricerca sarà sempre anche il garante della verità. 2 3· Questa consapevolezza è accentuata dal confronto che segue nei vv. 2 3 ss., che vede contrapporsi il gran numero dei sacerdoti levi ti ci al sacerdozio dell'unico Cristo. L'idea della grande quantità appare sminuita dal fatto che si è resa necessaria a causa della morte che at tende tutti i sacerdoti, impedendo loro di esercitare durevolmente la loro funzione. L'autore introduce così una nuova idea che non va af fatto sottovalutata, anche se da un punto di vista puramente esteriore può sembrare lievemente artificiosa. In un'analisi critica, ma sincera, constata che questo mondo costringe il sacerdozio israelita, affidato a uomini mortali, a un dispendio religioso cultuale senza precedenti: ma in realtà non si tratta forse di uno sforzo vano, che porta solo a una rassegnazione più profonda ? Così come stanno le cose, l'autore si sente perciò di riporre la sua speranza (v. 1 9 ) esclusivamente nel sa cerdote di cui si attesta che «rimane per sempre» (v. 3). 24. Ciò che là è dato temporaneamente a singole persone che in quan to mortali vengono e poi vanno, Dio in Gesù lo ha elevato a carica im mutabile e non trasferibile. In essa tutto è assoluto, conclusivo e defi nitivo, in quanto non più relativizzato da morte e temporalità. Il con cetto del «rimanere» va visto in particolare nell'ottica teologico-filo sofica, e ha il significato di esistere per sempre (Filone, Somn. 2,22 1 ) . «Diventato» tale per la morte del sacerdote, il sacerdozio ha acquisito una validità che ha fondamento al di là del nostro destino mortale. In altre parole, una speranza nata dalla croce significa sperare contro ogni speranza (Rom. 4, 1 8).
Ebr. 7,1 8-1 s. Cristo è l'autore di un ordinamento perfetto
I25
2 5. Se il sacerdozio è affidato a Gesù in modo immutabile ed esclu sivo, allora viene definitivamente aperta la strada per poter giungere a Dio (v. 2 5 : «perciò»). Ogni ricerca disperata, ogni sforzo intrapreso a tentoni diviene superfluo. Il sacerdote secondo l'ordine di Melchise dec è in grado di salvare in «modo perfetto» (letteralmente «del tut to»; anche in Filone) tutti coloro che «per mezzo di lui», ossia me diante il suo ministero, «si accostano a Dio». Oltre al v. I9, qui non si parla solo di un «venire più vicino », ma addirittura di «accostarsi >> (cf. Es. I 6,9; Lev. 9, 5 ) , come pure di avvicinarsi al «trono della grazia>> (4, I6) e alla santissima dimora di Dio stesso (6,2o). Con il servizio sacer dotale di Cristo, Dio è uscito dunque dalla sua inaccessibilità. Non so lo si è fatto conoscere, ma lo ha fatto in modo tale che noi «riceviamo misericordia» e «possiamo trovare grazia» (4, I 6). Anche se la sua so stanza ora è messa allo scoperto, non per questo la sua santità ne risul ta minimamente offesa. Rimasto ne� nascondimento sino ad ora, «per mezzo di lui», «che vive sempre allo scopo d'intercedere in loro favo re», Dio è divenuto accessibile. Dietro questa frase vi è il profondo timore reverenziale del giudeo credente, consapevole che il problema uomo-Dio non ha mai saputo trovare facile soluzione. La situazione temporaneamente ancora aperta è denunciata dall'espressione «è in grado di salvare» : dunque la salvezza dell'uomo non è semplicemente qualcosa di concluso e generale, spettante a ciascuno, ma è resa pos sibile solamente in Cristo, nella misura in cui consente a coloro che «si accostano» di avere accesso a Dio. Quando poi è detto che egli, quale sommo sacerdote vivente per sem pre, «garantisce (intercedendo) per essi», l'affermazione ricorda con siderazioni di Filone, che pure attribuisce al logos un'azione mediatri ce e di intercessione (Rer. 2 0 5 ) . Questo viene presentato in qualità di sommo sacerdote nel tempio del mondo (v. a 4, 1 4), ove esercita tra l'altro la funzione di mediatore e intercessore tra Dio e il mondo, o tra Dio e l'uomo. Quest'idea sembra essere da Ebr. non solo ripresa, ma anche riferita a Cristo in modo nuovo e singolare. La parola di Dio in lui ha preso una forma unica e irripetibile. Egli esercita la propria fun zione in modo tale da «intervenire» (davanti a Dio) come un sacerdo te a favore degli uomini perduti e mortali. «Questo 'intervenire' è com petenza di un intercessore, e dunque in questo caso non abbiamo la presentazione di attenuanti, bensì vera intercessione» (0. Michel). In tal modo è inequivocabilmente chiaro che noi uomini siamo sempre i
1 26
Ebr.
],.16-.18. Il sacrificio di se stesso, unico e irripetibile
«salvati» e lui è sempre il salvatore. D'altra parte è questo il prodigio inconcepibile: grazie al suo ministero di mediazione, coloro che non sono s anti possono comunque accostarsi al Dio santo.
Il sommo sacerdozio di Gesù, unico nel suo genere,
si fonda sul sacrificio di se stesso, unico e irripetibile (7,26-28)
.1 6 Tale era infatti il sommo sacerdote adeguato a noi, che fosse santo, sen za falsità, senza macchia e separato dai peccatori, e posto più in alto dei cieli, 27 che non avesse bisogno come gli (altri) sommi sacerdoti di offrire ogni giorno sacrifici per i propri peccati e poi per que l li del popolo, poiché questo egli l'ha fatto una volta per tutte qu an do ha offerto se stesso. 28 In fatti la legge costituisce come sommi sacerdoti degli uomini soggetti alla de bolezza, mentre la parola del giuramento emanato dopo la le gge costituisce un «Figlio » che è reso perfetto «in eterno» . .28 Sal.
1 1 0,4.
26. Sempre riferendosi principalmente alla persona del sommo sa cerdote, il ragionamento si conclude con uno stile che ricorda quello di un inno. 7, 1 iniziava con il dimostrativo «questo», 7,26 completa la riflessione dichiarando «tale era infatti il sommo sacerdote adeguato a noi». L'affermazione si rifà al v. 2 5 , ma in fin dei conti include tutte le espressioni che in qualche modo sottolineano la continua opera sa cerdotale di Cristo davanti a Dio. Se in 2, 1 o si chiariva cosa «si ad di ceva» a Dio per realizzare la perfezione mediante la sofferenza, qui si esplicita quale sommo sacerdote è «adeguato» a noi. Sullo sfondo vi è la concezione, in parte filosofica, che Dio percorre del tutto libera mente determinate vie per realizzare la salvezza. Il suo operato mira a un'estrema, assoluta realizzazione di ciò che è necessario. Sa anche che cosa è veramente di aiuto all'uomo. Solo un sacerdozio unico nel suo genere poteva schiudere l'eterno rapporto con Dio che compren de la salvezza. La natura di questo sacerdozio di Cristo viene caratte rizzata sotto un duplice aspetto, con una specie di elenco. Meraviglia e lode trapelano dalle formulazioni che si riferiscono all'unicità etico cultuale e alla sostanza celeste sotto vari aspetti. Egli è «santo», non in modo esistenziale o in base all'origine, ma nel legame con Dio che ha contraddistinto il suo pensiero e la sua azione, sempre guidati dall' at tenzione alla volontà del Padre. Inoltre è «senza falsità (cattiveria)» e «senza macchia (o contaminazione)» proprio perché su duplice fronte
Ebr.
7,26-28.
Il sacrificio di se stesso, unico e irripetibile
I .17
è stato provato e confermato. Ha saputo mantenersi puro nelle tenta zioni che per natura gravano sull 'uomo, ma anche in quelle che giun gono da fuori per guastare un'indole innocente e pura. Con concetti chiaramente «sacerdotali cultuali» viene caratterizzata l'assoluta per fezione di Cristo in modo da cercare di cogliere l'unicità etico-morale della sua persona (cf. anche Filone, Spec. leg. 1 ,260 ). Altri due elemen ti ne descrivono il carattere e la particolare posizione: egli è «separato dai peccatori» e «posto più in alto dei cicli». Come in 4, 1 5 ss. si con stata ancora una volta l' «impeccabilità» del sommo sacerdote. Stando alle asserzioni precedenti, non vi può essere alcun dubbio riguardo ad essa: non è innata né ereditaria, ma ha avuto dimostrazione nella soli darietà con i «peccatori». Ora, sicuramente, il v. 26 guarda solo all'esi to, e cioè al posto accanto a Dio del Cristo innalzato, ma l'afferma zione non può essere meditata senza tener conto dei suoi presupposti. Qualcuno è stato preso dalla massa dei «peccatori», per i quali Dio è distante e il suo «trono di misericordia» inaccessibile. Questo qualcu no, dunque, è stato in grado di rompere l'opposizione insanabile tra terra e cielo, non per se stesso, ma per i peccatori, cioè per noi. Adesso svolge la sua funzione nel santuario celeste, ove intercede per i suoi presso Dio (7,2 5 ). 27. L'importanza della sua posizione si deduce dal fatto che per svolgere tale funzione non deve più offrire sacrifici quotidiani. Questa affermazione appare inesatta, poiché il sommo sacerdote sacrifica ogni giorno solo nel periodo della grande festa dell'espiazione, e non du rante tutto l'anno. Nessun dubbio che l'autore ne fosse al corrente (cf. 9,7.2 5 ; I O, I .J). Ora, sia che abbia in mente proprio i giorni di tale fe sta, come può far pensare il risalto che analogamente a 5,3 viene dato all'offerta per le colpe proprie e del popolo (significativa anche la strut tura «prima ... poi)), cf. Lev. 1 6,6.9 ), sia che prenda le mosse semplice mente dal fatto che il sommo sacerdozio si assume la responsabilità del l'offerta quotidiana, il che è meno probabile, in un caso o nell'altro l'au tore contrappone drasticamente l'unicità e irripetibilità del sacrificio di C risto al servizio giornaliero e molteplice nel tempio. Proprio per ché la funzione di Cristo presso Dio dimostra di essere un continuo intervento d 'intercessione (7,2 5) il culto d'Israele è diventato super fluo ed è stato abolito: «poiché questo egli l'ha fatto una volta per tut te quando ha offerto se stesso ». L'argomento irrompe trionfante, e in modo quasi improvviso conclude almeno temporaneamente il ragia-
I 28
Ebr. 8,1 - 1 3· Ministero sacerdotale alla destra di Dio
namento maggiore. Tra le righe s'intuisce che Cristo ha rinunciato al l' offerta «per se stesso» per via della sua impeccabilità. Al contrario, egli che era puro e senza peccato ha offerto la propria persona come sacrificio innocente e senza macchia a Dio, per trasformarne radical mente il rapporto con gli uomini. Per la prima volta emerge con la massima chiarezza che Cristo è insieme sommo sacerdote e vittima. Concezione audace, che verrà sviluppata successivamente . .18. Ma per smussare un po' il ragionamento condotto sino a questo momento, si richiama alla memoria ancora una volta l'avvenuta abro gazione della legge (7, 1 8 -7,2 5 ). In tale occasione un sommo sacerdote eterno e immortale, anzi addirittura il Figlio (J,I -6), grazie al giura mento della parola di Dio ha preso il posto di un ordinamento che si no a quel momento era stato coperto da uomini deboli e peccatori. La risolutezza del pensiero, che parte da Sal. I I 0,4 e vi fa continuamente ritorno, ora colpisce in modo particolare. Se infatti Paolo, ad esempio, sottolinea che la legge esiste tra la promessa e il tempo mcssianico, per così dire, solo come ordinamento divino ad interim, perché la pro messa è stata fatta per prima e quindi ha la precedenza come impegno vero e proprio di Dio, dal canto suo Ebr. ribadisce che il giuramento di cui parla Davide è stato prestato successivamente alla legge e quindi va considerato come la manifestazione reale della volontà di Dio. Ogni ordinamento precedente, dunque, non ha più valore. Con Dio si è avuta una perfezione eterna e la certezza che ne deriva non poggia sul dato della «legge» ma sulla sua «parola», che ormai nella vita e nella morte del Figlio è divenuta egualmente manifesta e credibile.
La grandezza del ministero sacerdotale di Cristo consiste nello svolgersi alla destra di Dio (8, 1 - I J) In 8, 1 Ebr. passa decisamente all'argomento principale. Costruisce questo versetto letteralmente giocando con l'espressione caratteristica «sedere alla destra», Sal. I IO, I . Fin dall'introduzione ( 1 ,3 ) essa con traddistingue il tema guida (v. anche I , I J). Qui in 8, 1 è nuovamente ribadita, e il fondamento testuale del sermone viene menzionato espli citamente. Ma se prima al centro dell'attenzione vi era soprattutto il mistero divino della persona di Cristo, ora il pensiero si volge al luogo celeste del suo sacerdozio. In questo modo si giunge a enunciati che per la prima volta esauriscono con ricchezza di idee la verità del suo
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8 , 1 - I J . Ministero sacerdotale alla destra di Dio
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operato al cospetto di Dio. Se ne avrà il completamento più avanti, in 9, 1 I - I o, I 8 . Sotto alcuni aspetti 8, I ss. è caratterizzato nuovamente da una certa sobrietà argomentativa. Il solenne stile in prosa di 7,26 ss., che in parte sembra addirittura innico, viene abbandonato per lasciare spazio a una sensibile obiettività ehe culmina in questa concisa consta tazione: l'importante è il Cristo assiso alla destra di Dio. In fondo di venta irrilevante la p ossibilità di produrre una molteplicità di dimo strazioni profonde . I - 5 · Il concetto di «vera tenda del convegno», introdotto sulla base di Num. 24,6 (LXX), fa subito capire che occorrerà discutere connes sioni più profonde, ma in un primo tempo ci si muove nell'ambito di constatazioni assolutamente imparziali. Il v. 3 trae conclusioni da un dato di fatto generico. Al v. 4 segue un'ipotesi irreale tipica dello stile (cf. 7, 1 1 ecc.). Il v. 5 si riferisce a un significativo contesto biblico da cui si può dedurre che tra il luogo dell'azione sacerdotale terrena c il luogo di quella celeste esistono rapporti profondi che vanno disvclati. Tutto sommato è evidente che nella sezione 8, I - 5 viene presentata in primo luogo tutta una serie di pensieri che devono ancora essere ana lizzati. La testimonianza vera e propria tuttavia viene formulata anco ra una volta chiaramente in relazione al Sal. I I o per non rischiare di perdere di vista quello che è lo scopo dell'omelia. A quanto pare il concetto tematico prescelto è quello di «ministro» o «ministero». 6 - 1 3 · La pericope successiva viene introdotta da una conclusione a minori ad maius. Il « ministero» di Cristo è tanto più eccellente quan to migliore è il testamento di cui è attestazione. Con l'aiuto di Ger. 3 1 ,3 I ss., citazione che tra l'altro è la più lunga in tutta la lettera, si rafforza la verità del nuovo «testamento» (= alleanza) di Dio in vigore. Ebr. è dunque giunto a un punto cruciale della sua dimostrazione. In modo addirittura splendido riesce a coniugare le affermazioni della torà e dei profeti per s ostenere la verità del Cristo innalzato, nella qua le la comunità può riporre la propria speranza. Alle considerazioni basilari di 8, I - I 2, che sviluppano i pensieri di 7, I 8 ss., corrisponderà poi la pericope riassuntiva di IO, I I - I 8, nella quale vengono nuovamen te accostati Sal. 1 I O, I e Ger. 3 1 ,3 I ss. Lo sguardo gettato sulla «paro la» dell'Antico Testamento, con l'ausilio della Weltanschauung di un alessandrinismo filosofico-teologico diviene conoscenza del ponte che è stato gettato in Cristo tra idea e fenomeno, eterno e finito, celeste e terreno.
Il ministero di Cristo non si svolge nella copia terrena del santuario celeste, bensì in questo stesso (8, 1 - 5 ) 1 Il punto centrale del nostro discorso è questo: noi abbiamo un s ommo sacerdote tale che si «è assiso alla destra» del trono della Maestà nei cieli 2 co m e ministro del santuario e della vera tenda che il Signore, non un uo mo, ha piantato. 3 Ogni sommo sacerdote infatti viene costituito per offri re doni e anche sacrifici, per cui è necessario che anche lui abbia qualche co sa da offrire. 4 Se egli fosse sulla terra non sarebbe neppure sacerdote, poi ché già vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge. 5 Questi però servono a una copia e a un'ombra delle realtà celesti, come anche Mosè, quando stava per preparare la tenda, ricevette un ordine (divino): «Guar da», disse infatti, «di fare ogni cosa secondo il modello che ti è s tato mo strato sul monte».
1 Sal. 1 10,4. � Num. 24,6 (LXX).
S Es. 2 5 ,40.
1 . Ora che l'autore ha spiegato approfonditamente le affermazioni principali del testo di Sal. I I O, I -4 e che agli ascoltatori è stata presen tata una ricchezza di materiale quasi sconcertante, viene affrontato in modo assai felice, da un punto di vista retorico-pedagogico, l'interro gativo - evidentemente molto sentito - della vera e propria testimo nianza sostanziale, interrogativo che viene posto all'inizio di una nuo va pericope. Il punto cruciale «del discorso», rappresentato dall'idea di fondo della testimonianza biblica di Sal. I I O, è l'esaltazione di Cri sto « alla destra del trono della Maestà nei cieli>>. In questo modo tutte le espressioni inniche del salmo vengono ricondotte a un denominato re comune che, al tempo stesso, comprende anche il kerygma princi pale per chi ascolta il sermone. All'ascoltatore, infatti, a motivo della parola divina è dato sapere che noi abbiamo «Un sommo sacerdote tale» da svolgere il suo ministero nella gloria celeste, davanti a Dio. In questo modo può prescindere dalla propria peccaminosità terrena che lo vincola (7,26), per consolarsi con una prospettiva migliore. Con lin guaggio solenne, Dio viene descritto con una circonlocuzione riferen tesi al suo ruolo di giudice (v. «trono della Maestà nei cieli»). Ciò che normalmente ostacola l'uomo in ricerca inducendolo alla rassegnazio ne, ovvero l'inavvicinabilità di Dio, grazie al Cristo innalzato è diven tata annuncio liberatorio, unico e irripetibile, del «trorio della grazia» (4, I 6). Quando è detto che Cristo ha preso posto «alla destra del tro no della Maestà», ciò significa che a lui è stato attribuito ogni potere.
Ebr.
8, 1 - f . Ministero di Cristo e santuario celeste
13I
2. Tale circostanza è resa evidente soprattutto dall'immagine suc cessiva, in cui egli appare in qualità di «ministro del santuario e della vera tenda del convegno». Perciò Cristo non è soltanto un personag gio celeste, bensì centro attivo e autorevole del cielo, cielo che non è affatto pensato come un santuario qualsiasi che va al di là di ogni im maginazione, ma piuttosto come concretizzazione del tabernacolo dei primi tempi d'Israele. Linguaggio c immagine sembrano ancora una volta essere fortemente influenzati da Filone (cf. Leg. all. J , I 3 5 : «Mi nistro e aiutante del santuario»; Fug. 93). Quest'ultimo non solo parla in termini analoghi del vero sommo sacerdote, che è «libero da pecca ti>> (Spec. leg. 1 ,2 3 0}, ma, come il nostro autore, associa il santuario terreno, copia e immagine, all'edificio celeste, vero tabernacolo. Ciò che lo distingue nettamente da Ebr. sono gli aspetti panteistici (Spec. leg. 1 ,66}. Ricordando le parole della Scrittura in Num. 24,6 ( v . anche /s. 42, 5 ), Ebr. afferma che esiste una tenda celeste non costruita da mani di uomo, ma dovuta a Dio. Anche Filone, altrove, può mettere in relazione la «tenda ordinata da Dio» con la «sapienza (divina)» (Leg. ali. 3 ,46), pur sviluppando in tale occasione una concezione chia ramente divergente quando afferma che Dio si manifesterebbe sola mente a poche persone. È indubbio che in Ebr. la questione della rive lazione riceve una propria risposta, cosicché la distanza da Filone fon damentalmente c'è e rimane. 3 · Per questo motivo nei vv. 3 - 5 l'argomentazione prende un'altra direzione. Sebbene l'idea del santuario celeste parta dal tabernacolo di . . . . epoca mosatca, per pnma cosa SI pensa comunque, come tn 5, 1 ss., a quanto accade anno dopo anno nel tempio il giorno dell'espiazione (v. i verbi al presente). In questo senso il v. 3 espone un'esperienza co mune. Come il sommo sacerdote del popolo offre «doni e sacrifici», così doveva fare per sua natura anche Cristo, che si « offrì » (aoristo}. Sorprendentemente, qui Ebr. non parla del luogo celeste in cui ebbe luogo il sacrificio del corpo di Cristo; afferma invece che anche questi doveva avere «qualche cosa» da offrire a Dio. Qui si anticipa già, per ché se ne riconosce l'importanza, quanto verrà esposto approfondi tamente tn 9, 1 I ss. 4· Col v. 4 si torna nuovamente al luogo dell'offerta, anche se natu ralmente il concetto viene sviluppato al negativo: se egli esercitasse «sulla terra» il suo ministero sacerdotale, sarebbe un'altra cosa. Poiché qui vi sono sacerdoti che attendono al loro servizio «secondo la legge»,
I 32
Ebr. 8, 1 - s .
Ministero di Cristo e santuario celeste
per lui e per la carica affidatagli non vi sarebbe posto. La formulazio ne intende perciò dimostrare che il ministero di Gesù, in fondo, ha il suo adempimento solo in un luogo celeste. Ma come necessitava di un'offerta propria, così anche di un suo luogo ove presentarla. L'af fermazione «vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge » è una prova a sostegno dell'ipotesi che lo scritto omiletico sia stato redatto prima della distruzione del tempio nel 70 d.C. Parecchi interpreti so no dell'avviso che anche in caso contrario la frase del v. 4 avrebbe po tuto essere formulata da Ebr. in questo modo, dal momento che par la in relazione alla tenda del convegno. 5. Ma per quanto riguarda il contenuto, si tratta sicuramente del sa cerdozio giudaico, e il proseguimento del pensiero al v. 5 include chia ramente il presente dell'autore. Altrimenti la catastrofe della città san ta e del suo tempio sarebbe stata indubbiamente presa in considera zione ed elaborata. Poiché questo non era possibile né si osava pensar lo, l'autore sostiene semplicemente la convinzione teologica che il cul to gerosolimitano, evidentemente ancora esistente, è «copia ed om bra» del modello celeste. L'espressione «realtà celesti» intende il san tuario con i suoi arredi in senso lato, quindi edificio e utensili. Mentre i rabbi hanno interpretato Es 2 5 ,40 come se allora a Mosè fosse stata promessa la durata eterna delle cose, viceversa l'autore di Ebr. , pre sumi bilmente ex ammiratore di Filone ed ora cristiano, interpreta la testimonianza biblica per l'istituzione esistente proprio in senso con trario, ossia come dimostrazione della sua validità solo provvisoria e imperfetta. Se nei LXX il concetto di «prototipo» (gr. typos) ha preva lentemente il significato di «modello, campione», qui, con l'aiuto del l'ermeneutica alessandrina, l'accento è posto sul carattere inferiore di copia riservato al santuario terreno e ai suoi arredi. In quanto «imita zione » e «ombra», essi rappresentano solo un debole riflesso della real tà celeste, ma non sono eguali a essa. Mentre il testo ebraico di Es. 2 5, 40 asserisce che a Mosè è stato mostrato per così dire un « modello» preciso della tenda del convegno secondo il quale costruire, Ebr. , par tendo come Filone dall'idealismo platonico, ipotizza che alla base del le cose terrene vi sia un'entità eterna e immortale alla quale Mosè si è ispirato. La dipendenza esegetico-metodica da Filone si manifesta fin nell' «ogni cosa» aggiunto alla citazione della Scrittura (Filone, Leg. all. J , I o2); ma nonostante l'affinità di pensiero, Ebr. si distingue da Filone (cf. in particolare Mos. 2,74(3)) perché per l'autore il mondo .
Ebr.
8,6- I 3· Cristo testimone
di un nuovo testamento
I33
celeste è luogo del Cristo innalzato, ragion per cui la sua eterna realtà acquisisce significato e rilevanza. N o n lo è solo in quanto tale. Come accenna in 8, I , si possono fare molteplici considerazioni, che però ri cevono un significato solo grazie al ministero sacerdotale di Cristo. Per l'autore di Ebr. il ponte tra mondo eterno e mondo corruttibile è la «parola di Dio» divenuta, in verità, realtà storica.
Cristo è il testimone di un nu ovo testamento al quale si collegano promesse più salde {8,6- 1 3 ) Ora però h a ottenuto u n ministero sacerdotale tanto più eccellente quan to migliore è il testamento di cui è mediatore (= testimone), il quale è stato giuridicamente disposto su promesse più salde. 7 Se infatti quel primo (te stamento) fosse privo di difetti, allora non si sarebbe cercato lo spazio per un secondo. 8 Poiché biasimandoli dice loro: «Ecco verranno giorni, dice il Signore, in cui concluderò con la casa d'Israele e con la casa di Giuda una nuova alleanza (= testamento), 9 non un'alleanza (= testamento) come quel la che conclusi con i loro padri nel giorno in cui li presi per mano per con durli fuori dal paese d'Egitto. Poiché essi non sono rimasti fedeli a questa alleanza ( = testamento) con me, e io non mi sono più curato di loro, dice il Signore. 10 E questa è l'alleanza che io stipulerò con la casa d'Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le scriverò nei loro cuori. E io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo, dice il Signore. 1 1 E nessuno dovrà più istruire il suo concittadino e dire al fratel lo: conosci il Signo re , perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande. I 2 Perché io sarò misericordioso riguardo alla loro iniquità, e non mi ricorderò più dei loro peccati» . z 3 Parlando di «una nuova» (alleanza) ha dichiarato antiquata la prima; ma ciò che può diventare vecchio e anti quato è prossimo a scomparire. 6
8- u Ger. 3 1 ,3 1 -34.
6. La svolta temporale è nuovamente presa in considerazione nel modo p iù marcato con la pericope 6- 1 3 («ora però»). Se nei vv. 7,20 ss. dalla grandezza dell'evento di Cristo si deduceva il «testamento più eccellente», ora viceversa dal testamento di cui Cristo è garante si giunge al più eccellente ministero sacerdotale che egli «ha ottenuto». Là come testo biblico di base si aveva Sal. 1 10,4, qui Ger. 3 I ,3 I ss., in cui Dio parla di u na futura «nuova alleanza» o «nuovo testamento» . Sotto l'aspetto contenutistico trovano proseguimento gli enunciati di 7, 1 8 ss., che anche dal punto di vista logico ricevono un completamcn-
I 34
Ebr. 8,6-1 3 . Cristo testimone di un nuovo testamento
to eccellente. Il dato di fatto del nuovo ordinamento, che può essere raf forzato da promesse più solenni, viene diffusamente portato a dimo strazione della grandezza del ministero sacerdotale di Cristo. Il modo di trarre conclusioni è tipico di E br. in particolare. Già nell'Antico Te stamento il rapporto tra Dio e il popolo era stabilito da un atto testa mentario (gr. diatheke = «alleanza, testamento»), e a Mosè spettava il ruolo di «mediatore» o «garante» (cf. Gal. J , I 9)· Ora però con C risto le «promesse più salde» sono divenute realtà, e per questo il suo mi nistero è più eccellente. A prima vista non è chiaro a cosa miri questa espressione. Probabilmente si pensa a Ger. 3 r , che contiene parecchie promesse riguardanti la realizzata comunione con Dio. Nel testo pro fetico Dio manifesta soprattutto la ferma volontà di stabilire un' estre ma comunione interiore con il suo popolo, comunione che non può essere più distrutta da alcuna divisione e che comprende tutti i me m bri del popolo. E proprio a tale riguardo l'ordinamento precedente era lacunoso. Avendolo Dio mantenuto in vigore solo a prezzo di molti fallimenti umani, che hanno messo duramente alla prova la sua pazien za, tale ordinamento non poteva restare valido per sempre. 7· Quella dei profeti non era forse già una lotta di Dio in favore del suo popolo, disunito e infedele ? La consapevolezza della comunione divina sfuggiva di continuo al popolo. Alla fine Dio si è visto costret to a sostituire il «primo testamento» con un «secondo». L'idea di di sposizione testamentaria unilaterale è certamente dominante. Tanto più il comportamento del popolo appare come rivolta e disobbedien za che finirono col provocare l'intervento punitivo di Dio per elimi nare quanto era «debole» e «inutile» (7, 1 8). 8. Nella lunga citazione di Geremia è Dio a parlare. Il suo giudizio annienta, la sua volontà di cambiare le cose è inflessibile. Con linguag gio solenne annuncia per l'era messianica futura un nuovo rapporto giuridico, una «nuova alleanza» . Con essa agirà in modo definitivo e conclusivo nei confronti della casa d'Israele e della casa di Giuda. Poi ché il nuovo rapporto di comunione sarà perfetto e durevole, quello antico, concluso sul monte Sinai, verrà abrogato. 9 s. Il popolo, che deve a Dio la liberazione dalla schiavitù, lo ha mal ripagato con la ribellione e la disobbedienza. Al contrario, la «nuova alleanza» sarà un rapporto di comunione tranquilla e di libera obbe dienza. Cuori e menti si piegheranno spontaneamente ai comanda menti, che colmando l'intimo degli uomini non saranno più pretese
Ebr.
8,6- 1 3. Cristo testimone di un nuovo testamento
I3 5
provenienti dall'esterno. Una volta spazzate via le riserve, Dio e il po polo possono accogliersi liberamente a vicenda approvandosi incon dizionatamente. I I . Se n eli' antica alleanza non vi era conoscenza di Dio personale, ma solo mediata, anche questo in futuro sarà diverso. O gni singolo com ponente il popolo di Dio avrà con lui un rapporto di conoscenza di retta. Le differenze religiose, sociali e naturali spariranno. Ciò che pri ma era un ordine («Conosci il Signore») ora si presenta come espe rienza personale di tutti. I 2 . La conclusione della citazione è scelta in modo tale da eviden ziare il fondamento su cui poggerà l'ordinamento della «nuova allean za». Le iniquità precedenti ( = trasgressioni della legge) saranno per donate da Dio. I peccati non possono più turbare il rapporto, perché Dio non se ne ricorda più. La parola di Dio caratterizza quindi la «nuo va alleanza» in tre modi: come epoca di obbedienza interiorizzata, co me condizione di conoscenza di Dio personale e incontrastata, infine come una relazione complessivamente regolata dal perdono dei pecca ti. Le riserve create da una volontà ostinata, da una conoscenza fram mentaria e da una fede imperfetta verranno spazzate via, avendo Dio creato tutte le premesse indispensabili. Concludendo la citazione con la promessa della remissione dei peccati, l'autore torna al tema princi pale del ministero sacerdotale di Cristo che ha comportato la purifica zione dai peccati ( 1 ,2). Ovviamente tale idea per ora non è espressa. 1 3 . Nell'introduzione della citazione udiamo invece ancora una vol ta che la parola di Dio dichiara esplicitamente antiquata l'antica allean za. Come motivazione generale aggiuntiva si ricorda che quanto di venta vecchio e antiquato è destinato a scomparire. La provvisorietà ne è dunque una caratteristica. Quindi anche I' antica alleanza ha una durata ben precisa. Dietro le parole vi è la convinzione della prossima fine delle cose (cf. 6,8) e, inoltre, certo anche quella che in un futuro imminente il culto giudaico verrà di fatto sostituito da una forma di relazione con Dio visibile e più pura. È indubbio che Ebr. intenda la parola profetica nella sua rilevanza attuale. Sotto l'impressione del suo adempimento si fa strada la certezza dell'eliminazione prossima e vio lenta dell'istituzione cultuale, divenuta ormai superflua (v. anche 10,26 ss.). Diversamente da Filone, Ebr. vede Dio non come il Signore eter namente immobile nel mondo celeste, ma come salvatore che crea, che opera in vista di un mondo nuovo e di una nuova comunione.
Le istituzioni cultuali dell'antica alleanza
portano il marchio dell'imperfezione; sono quindi un richiamo divino alla su periorità del nuovo ordinamento (9, 1 - 1 0) O ra, certo, anche il primo {testamento) aveva norme per il servizio (cul tuale), e un santuario terrestre. 2 Infatti fu allestita una tenda, la prima (an teriore) in cui vi erano il candelabro, la tavola e i pani d eli' offerta, che ven ne chiamata il santo. 3 D ietro il secondo velo, però, venne eretta una tenda che si chiamava il santo dei santi, 4 che conteneva l'incensiere d'oro e l'ar ca dell'alleanza tutta ricoperta d'oro, nella quale si trovavano un vaso d'o ro con la manna e il bastone di Aronne che era germogliato e le tavole del l'alleanza; s e sopra di essa stavano i cherubini della gloria che adombrava no il propiziatorio. Ma ora non c'è bisogno di entrare nei particolari . 6 Es sendo così stabilite le cose, per compiere il loro servizio cultuale i sacerdoti entrano in ogni tempo nella (prima) tenda anteriore, 7 ma nella seconda en tra solamente il sommo sacerdote una volta l'anno, non senza sangue, che offre per sé e per le mancanze non conosciute del popolo. 8 Lo Spirito santo manifesta così che la via al santuario non è stata ancora rivelata, fin ché sussiste la prima tenda, 9 che è richiamo simbolico al tempo attuale, in cui a lui erano offerti sia doni che sacrifici che non potevano rendere per fetto secondo coscienza colui che svolge il servizio cultuale, I o trattandosi solo di prescrizioni carnali riguardanti cibo e bevande e ogni sorta di ablu zioni che sono imposte solo sino al tempo della correzione. I - Io. Per evidenziare la superiorità del ministero di Cristo, Ebr. ri volge la sua attenzione addirittura ai particolari degli arredi sacri e dell'evento liturgico fondamentale. Evidentemente il suo intento non è semplicemente quello di sminuire il valore delle istituzioni tradizio nali, bensì in un certo qual modo di ridimensionarlo, delimitandone peculiarità e grandezza. Solo nel corso della descrizione inevitabil mente trova espressione l'idea che il carattere cultuale di legge dell'an tica alleanza rimanda a un'estrema, perfetta istituzione della quale è garante l'evento di Cristo. Con tale obiettivo, i vv. 1 - 5 descrivono la tenda del convegno con i suoi utensili, e i vv. 6- 1 1 il culto, culminante nel grande giorno dell'espiazione. La descrizione riguarda il taberna colo secondo il racconto biblico (Es. 2 5 - 30), non il tempio contempo raneo e i rituali che vi si svolgevano. Trattandosi di un ragionamento teologico di un certo rilievo, è comprensibile l'orientamento quasi uni laterale. Tacitamente si presuppone che quanto accade nel tempio di Gerusalemme sia p iù o meno la continuazione deli' antica disposizio ne, destinata poi a sua volta a essere relativizzata e superata nel mo1
Ebr.
9, 1 - 1 0. Le istituzioni cultuali dell'antica alleanza
1 37
mento in cui si ha l'annuncio di una «promessa migliore» . Una corret ta esegesi giunge addirittura a comprendere che Dio fin da principio aveva introdotto solo provvisoriamente l'ordinamento cultuale del l'antica alleanza. Per un certo riguardo, questa pericope serve ad illu strare l'ufficio del sommo sacerdote nel grande giorno dell'espiazione, già menzionato in 5 , I ss. Il fascino della pericope consiste nel fatto che con la descrizione dei tanti fatti di grande effetto, nei quali facil mente ci si potrebbe perdere (v. l'osservazione del v. s b), si viene in trodotti all'unicità di evento del ministero sacerdotale di Cristo, la so la teologicamente significativa {9, I I - 1 5 ) . Due concetti tipici che mar cano il contenuto dell'elenco sono gli attri buti «terrestre », v. I , e «car nale)), v. 1 0, che affermano il carattere transitorio e fragile dell'ordina mento mosaico. 1 . Dopo la dura asserzione di 8 , I 3, in una nuova argomentazione si ammette («ora, certo anche))) che il primo testamento aveva ricevuto norme giuridiche sul culto, come pure un «santuario terrestre>> ( oppu re, «e un santuario, quello terrestre»). Nella formulazione più breve l'accento è posto sul dato di fatto, che merita attenzione sebbene d'al tra parte sia indiscutibile il carattere mondano dell'istituzione. L'Israe le dell'antica alleanza non si è certo reso colpevole di arroganza se ha posseduto un sacerdozio e una tenda sacra per ottenere la remissione dei peccati (8,I 2 ) . Già allora ciò rientrava in una disposizione divina . .1. Con un certo gusto per il particolare, nei vv . 2- 5 vengono elen cati gli arredi, pur limitandosi l'autore a due locali, il santo e il santo dei santi, con gli utensili sacri essenziali in essi conservati. Alla base della descrizione vi è quanto riferisce la versione greca dei LXX, che per I' autore può essere considerato autentica raffigurazione di ciò che è conforme al prototipo celeste (cf. Es. 2 5 ,40). Insieme a molti con temporanei interessati, anche l'autore di Ebr. parte dall'idea che il tem pio erodiano - come del resto anche quello di Salomone - sia soltanto un tentativo di imitare la tenda del convegno. Come è noto, allora già da tempo non esisteva più l'arca dell'alleanza (v. 5). La visione idea lizzata, così come la coltiva Ebr. contro il corso dello sviluppo stori co, è espressa chiaramente nella descrizione degli utensili del santo dei santi, presentati quasi esclusivamente come oggetti d'oro, nei quali si riflette lo splendore della gloria divina (cf. anche Apoc. 2 I ) . La pre senza di norme che regolano il culto viene spiegata in un primo tempo con l'accenno alla costruzione della tenda del convegno, che consiste-
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E br. 9, 1 - 1 0. Le istituzioni cultuali dell'antica alleanza
va in una tenda anteriore e in una interna. Spettando a ogni locale una particolare dignità, si parla di due tende, anche se di fatto doveva trat tarsi di un'unica struttura con un unico accesso (cf. Es. 26,3 I ss.). Nel la separazione degli ambienti si cela un senso più profondo (vv. 6 s . ) , la comprensione del quale è preparata dalla menzione del nome e dalla descrizione degli arredi principali. Nel cosiddetto «santo» si trovava no «il candelabro» (cf. Es. 2 5,30-39; 3 7, I 7-24) e «la tavola» (cf. Es. 2 5 , 2 3 - 3 0; 3 7,IO- I 6), con l'aggiunta chiarificatrice «e il posto dei pani» (= pani dell'offerta) (cf. Es. 2 5 ,29; Lev. 24, 5 -9). Dal termine usato (con l'articolo) emerge che si tratta di arredi conosciutissimi. Il candelabro d'oro a sette bracci era ornato sul fusto e sui bracci laterali da «calici in forma di fiore». Anche il candelabro del tempio erodiano, che co nosciamo dalla raffigurazione sull'arco di Tito, viene descritto diffu samente da Flavio Giuseppe (Ant. 3,6,7). Le sue sette lampade sono un'imitazione dei (sette) pianeti. La stessa interpretazione è data da Filone (Mos. 2(3), I o2 s .). Secondo Es. 26,3 5 e 40,24, esso era collocato sul lato meridionale, e due volte al giorno si p-rovvedeva alla sua ma nutenzione. A un suo servizio coscienzioso vennero legate particolari benedizioni. Di fronte a esso, sul lato settentrionale, vi era il tavolo anch'esso d'oro (Es. 2 5 ,23), sul quale ogni sabato i cosiddetti pani del l' offerta venivano disposti in due pile vicine: dodici pani in tutto, tanti quante le tribù d'Israele. Preparati secondo un procedimento partico lare e deposti davanti alla «faccia del Signore>> insieme a del sale, essi simbolizzavano la sua fedeltà all'alleanza e alla creazione (Filone, Mos. 2(3), I o4). I pani rimanevano esposti ogni volta per una settimana, per essere poi consumati nel santuario com'era privilegio dei sacerdoti (cf. Lev. 24, 5 -9). Stranamente Ebr. non menziona l'altare dei profumi, cir costanza che ha causato non poche difficoltà d'interpretazione. Se ne parlerà più diffusamente in seguito. 3· La descrizione in un primo tempo procede ponendo nel v. 3 il santo dei santi «dietro il secondo telo» . Ignorando il «primo telo», Ebr. privilegia un altro oggetto significativo (cf. Es. 26,3 I ss.). Questo teneva celato il luogo della rivelazione di Dio, che «voleva abitare nel l'oscurità>) (1 Re 8, I 2; 2 Cron. 3 , I 4). Vi si accennava fugacemente già in 6, I 9. Filone (Mos. 2(J ), I o i ) distingue fra il «telo» o cortina che cela l'accesso al santo dei santi e l' «involucro», ossia il tela" che introduce al santo (cf. Giuseppe, Beli. 5,5,4). 4· Con un lieve cambiamento di linguaggio vengono elencati gli og-
Ebr.
9, 1 - 1 0. Le istituzioni cultuali dell'antica alleanza
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getti che «appartenevano» a questo ambiente santissimo (= «tenda»), costruito a forma di cubo. Ora la descrizione menziona intenzional mente i principali oggetti d'oro. Affascinato dall'importanza del luo go, l'autore di Ebr. si dilunga a elencare gli straordinari arredi del san tuario terreno. In primo luogo viene ricordato l' «incensiere d'oro», con cui forse si intende l'altare dei profumi con i suoi accessori. Il ter mine prescelto (gr. thymiaterion) è più generico rispetto ad «altare dei profumi» (Es. 27, 1 : thysiasterion, cf. anche Es. 30,1 .27, Lev. 4,7. 1 8 ecc.) . Alcuni interpreti pensano che - come sembrerebbero appoggia re alcuni argomenti linguistici (v. in particolare Giuseppe, Ant. 4,2,2.4; 8,3 ,8 ecc.) - si intenda in particolare il turibolo o braciere d'oro del sommo sacerdote, ma in tal modo si vuole appianare la difficoltà creata dal fatto che l'altare dei profumi, a dire il vero, non può ess ere inserito tra gli oggetti facenti parte del santo dei santi. Che si debba accusare Ebr. di una svista ? Se abbiamo ragione, allora indubbiamente la lettera intende l' «altare dei profumi», così come Filone impiega il concetto controverso col medesimo significato (cf. Mos. 2(3),94. 1 0 1 . 1 0 5 ; Spec. leg. 1 ,23 1 .290; Rer. 226 s.). Resta l'interrogativo s e l'autore abbia sbagliato la collocazione dell' «altare dei profumi» (con i suoi accessori) per ignoranza, oppure se fosse animato da un particolare in tento. Noi propendiamo per la seconda ipotesi. Descrivendo il tempio com'era in origine, Ebr. mette l'altare dei profumi tra gli arredi del santo dei santi, fatto giustificabile dal punto di vista funzionale. Stan do alla testimonianza della Scrittura l'altare era sì davanti al telo, ma anche «davanti all'arca» (Es. 30,6; 40, 5; 1 Cor. 6,22) e «davanti al Si gnore» (Lev. 1 6, 1 8). Anche in Ez. 4 1 ,2 2 si afferma che il tavolo è po sto « alla presenza di Dio». Diventa quindi comprensibile che Es. 26, 3 5 (LXX) non lo elenchi tra gli oggetti del «santo» (cf. inoltre Es. 3 5, 13 ecc.). In fondo il profumo dell'altare era destinato a penetrare nel santo dei santi. Vi si aggiunga che anche nel giorno dell'espiazione l'al tare aveva un ruolo particolare, poiché veniva asperso di sangue come il santo dei santi (Lev. 1 6, 1 8 s.). In Es. J O, I o (LXX), ove viene descrit ta questa sua funzione, è detto espressamente «è (strumento) santissi mo per il Signore». Se si pensa che a Ebr. non preme tanto far cono scere il santo a chi non ne sa nulla, bensì evidenziare la divinità e il re lativo carattere di rivelazione del luogo santo dell'antica alleanza, al lora l'attribuzione proposta diviene maggiormente comprensibile e l'e ventualità di una svista assai meno probabile. Nonostante tutto, un cer-
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to grado di estrosità è incontestabile (cf. anche Filone, Rer. 226). Co me secondo oggetto del santo dei santi nel v. 4 viene elencata «l'arca dell'alleanza tutta ricoperta d'oro» (Es. 2 5 , 1 0- 1 6; 3 7, 1 -6; Filone, Mos. 2 (3 ),9 5 ) col suo triplice contenuto: il vaso della manna (Es. I 6,J J ), il bastone di Aronne (Nu m 1 7, 1 6-26) e le tavole della legge (Es. 2 5 , 1 6; Deut. I O, I s.). Evidentemente l'autore si fonda, almeno in parte, su un'opinione esegetica coeva (v. anche b]oma 5 2b), che sosteneva tale descrizione in base a Es. 1 6,3 2 s. e a Nu m. 1 7, 1 9.22; tuttavia tale inter pretazione può essere contrastata citando 1 Re 8,9, secondo cui l'arca non conteneva nulla se non le due tavole di pietra. In generale si pen sava semplicemente che l'urna e il bastone fossero conservati nel santo dei santi stesso. Insieme alle tavole, essi incarnano il simbolo certo più significativo della guida divina in occasione dell'esodo, ricordi e atte stazioni dell'assistenza fisica e spirituale di Dio. Il «pane del cielo», inviato prodigiosamente, ha consentito di non morire di fame nel de serto, cosa che anche i discendenti dovranno sempre ricordare (cf. Es. 1 6,3 2). Il bastone di Aronne, però, deposto nelra tenda del convegno davanti al Signore e miracolosamente germogliato e fiorito durante la notte, è diventato simbolo della scelta operata da Dio di un sacerdo zio per il suo popolo, perché spiritualmente non avesse a mancargli nulla e perché non morisse (Num. 1 7,2 5 ; Filone, Mos. 2(3 ), 1 78 ss. 1 86). Infine, le due «tavole dell'alleanza», fatte di pietra, ma su cui erano incisi i comandamenti (Es. 3 1 , 1 8), rappresentano il dono più p rezioso in assoluto che Israele abbia ricevuto da Dio. Esso infatti si distingue da tutti gli altri popoli perché ne conosce con precisione estrema la volontà. I dieci comandamenti, essenza della torà, non da ultimo fun gono anche da garanzia decisiva dell'alleanza conclusa, sulla quale Israele ha sempre fondato la propria stabilità e il proprio futuro (cf. anche Filone, Rer. 1 67 ss.). Se anche l'arca dell'alleanza, stando a Ebr. , è stata luogo in cui si conservavano oggetti tanto importanti, segno tangibile a ricordo della storia salvifica del popolo, la sua importanza non si esaurisce affatto qui. 5 . In base a tale convinzione, da ultimo, viene fatto presente che so pra di essa si trovavano i cherubini della gloria, i quali «adombrava no» il propizia torio. Alla fine dell'elencazione, dunque, è il pezzo più santo e prezioso a essere menzionato. Sono messe in risalto due figure angeliche che, collocate sulle estremità più strette, protendevano le ali sopra il coperchio (cf. Es. 2 5 , 1 7 ss.). Si tratta di due guardiani celesti .
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del santissimo luogo d i espiazione e d i rivelazione che per Filone sono «un simbolo della misericordia di Dio» (Mos. 2(3),96). L'arca dell'al leanza andò perduta con la distruzione del primo tempio. Numerose tradizioni secondarie si ricollegano al suo aspetto esteriore, al suo ruolo e alla sua custodia, ma Ebr. , che si attiene scrupolosamente allo stringato riassunto offerto dai LXX, non vi fa la minima allusione. Ha rinunciato anche a precisare i particolari. Le sue considerazioni sono sufficienti a fornire le basi per affermare che l'antica alleanza ha avuto sia prescrizioni cultuali sia un santuario. N on era certo un santuario senza importanza, tuttavia era pur sempre soltanto un'opera realizza ta con materiale terreno e da mano d'uomo. Spendere più parole ri guardo a particolari o addirittura alla simbologia (come pure Filone, Rer. 22 I ), significherebbe deviare dal senso ultimo delle cose, e cioè che l'imperfezione del santuario è segno di una perfezione più grande, come si vede facilmente se si considera il culto officiato nel santuario dopo la sua ultimazione. Anche Filone la pensava in modo del tutto analogo (Mos. 2(3 ),7 5) quando sottolinea che le azioni sacre dell'uffi cio sacerdotale sono state compiute «nella massima concordanza e in armonia con la costruzione». 6. Il v. 6a riprende l'uso linguistico del v. 2a. Il significato del san tuario non risiede in esso, ma in una funzione cultuale che, sulla base della struttura costruita su indicazione divina, si è svolto in due am bienti rigidamente distinti: quello di competenza dei sacerdoti, e quel lo riservato al sommo sacerdote, entrambi assolutamente inaccessibili al popolo. Al primo i sacerdoti potevano accedere «sempre», nel secon do poteva entrare unicamente il sommo sacerdote soltanto «una vol ta» all'anno. Con «compimento del servizio cultuale» da parte dei sa cerdoti, E br. intende la cura settimanale del tavolo riservato ai pani dell'offerta, l'accensione quotidiana del candelabro e l'offerta d'incen so presentata ogni giorno, al mattino e alla sera (cf. Es. 3 0,7 ss.; Lev. 24, 3). In base a un ordinamento successivo, le varie mansioni venivano sorteggiate tra i sacerdoti addetti al servizio al tempio secondo la cate goria (cf. m]oma 2). 7· Assolutamente unico tuttavia era il ministero del sommo sacer dote, il quale solo una volta in tutto l'anno, e cioè un unico giorno, il IO di Tishri, poteva entrare nel santo dei santi al cospetto di Dio. I particolari (Lev. I 6, I I ss. I 5 ss.2o ss. accenna a una duplice entrata nel santo dei santi) tuttavia non dovrebbero essere compresi dall' «una voi-
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ta» di Ebr. (cf. m]oma 5, 1 ss.; 7,4; Filone, Legat. 306; anche Spec. leg. 1 ,72; similmente Giuseppe, Beli. 5,5 .7). Nei vv. 6 s. poi Ebr. parla al presente, partendo quindi dal presupposto che i particolari atti cul tuali derivanti dalla costruzione della tenda del convegno sono ancora in vigore, circostanza che significa che a quel tempo tali atti venivano ancora compiuti. In caso contrario l'autore probabilmente avrebbe de dicato maggior cura alla descrizione dei particolari. Oltre a ciò è forse rilevante che nell'illustrazione del servizio del sommo sacerdote nel grande giorno dell'espiazione non viene menzionata l'arca dell'allean za, sulla quale veniva sparso il sangue dell'espiazione (caratteristica la differenza rispetto a 9,2 1 ). Tale servizio viene spiegato con la semplice affermazione che il sommo sacerdote deve presentare un sacrificio e spiatorio, non senza sangue, per i peccati suoi e per quelli commessi inconsapevolmente dal popolo (v. sopra, a 7,27). In base alla legge (cf. Lev. 4, 1 3 ; Num. 1 5 ,22 ss.) si fa dunque una distinzione tra trasgressio ni volontarie e non (v. anche 5,2; 10,26), puntando lo sguardo sull'atto cultuale principale. Con «mancanze non conosciute» s'intendono quei peccati commessi non per empietà irrispettosa né in malafede, come pure quelli per i quali in seguito si è provato vergogna e pentimento. Dietro la breve annotazione del v. 7 vi è l'ebreo che conosce la miseri cordia straordinaria e l'assoluta santità di Dio, il quale in quel giorno concede espiazione totale (v. anche Filone, Spec. leg. 1 , 1 87). Tuttavia Ebr. non può accontentarsi di questa conoscenza. L'ordinamento cul tuale di cui sa apprezzare benissimo l'unicità costituisce per lui al tem po stesso a!lche la prova più lampante della sua imperfezione. 8. Dalla notevole argomentazione del v. 8 traspare la convinzione che struttura e arredi del culto veterotestamentario, creati su istruzione di vina, presentino al tempo stesso anche la testimonianza dello Spirito di Dio riguardo a un'imperfezione e limitatezza temporanea, consape volmente voluta. Infine, nella prima tenda possono entrare solo i sa cerdoti . È posta come una barriera davanti al santo dei santi, simbolo del santuario celeste {8,2; I 0, 1 9). Se ne deduce che l'ingresso a que st'ultimo non era aperto e quindi vi era ancora la necessità della rive lazione. A quanto pare Ebr. intende lo Spirito santo non come il dono che viene fatto a tutti i cristiani, né come la parola biblica (come in 3 , 7), ma piuttosto come testimonianza d i Dio nelle sue opere, che sono ricolme di una simbologia divina. Questa considerazione è formulata quasi si trattasse di una tesi (v. i participi).
Ebr.
9, 1 - 10. Le istituzioni cultuali dell'antica alleanza
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9 · Il v. 9 è caratterizzato da una spiegazione che attualizza la cono scenza acquisita. Partendo dal fatto che il sacerdozio levitico svolge il suo servizio nel tempio di Gerusalemme, si afferma che la prima ten da, che in quanto struttura cultuale vincolante continua a esistere in tale forma, è simbolo per il tempo attuale. Certo, i sacerdoti officiano ancora, ma evidentemente non possono ottenere alcuna purificazione definitiva. L'espressione «tempo attuale» non equivale al termine apo calittico «eone attuale)). Parte anzi dal fatto evidente che l'ordinamen to ancora esistente non è nella condizione di rendere perfetto «secon do coscienza» colui che serve, cioè colui che si accosta a Dio. Si conti nua a restare nell'esteriorità e vi è mancanza di espiazione, quella che purifica l'uomo nell'intimo rendendolo in grado di avvicinarsi a Dio. In questo modo si ammoniscono in particolare i lettori giudeocristiani a non mettersi su un piano di adorazione di Dio che potrebbe signifi care una ricaduta nell'effimero o nell'inadeguato. Quando si afferma che doni e sacrifici non sono in grado di ottenere la necessaria «pu rezza della coscienza» (riguardo a questa espressione v. Filone, Spec. leg. I ,2o3 ), se lo stesso sommo sacerdote ogni anno deve espiare pec cati inconsapevoli, allora tacitamente si allude già alla necessità di un sacrificio più grande. Quanto imperfetta è la prima tenda, tanto in sufficienti sono anche i doni presentati in essa e che non concedono alcuna «perfezione» . Così E br. sfiora l'interrogativo fondamentale: agli atti relativi all'antica alleanza va attribuito un valore duraturo ? E in quale misura ? La risposta fornita introduce il criterio della «coscienza pura)), cioè il criterio della perfetta purezza dell'uomo che gli permet ta di sussistere davanti a Dio. La «coscienza)) non viene intesa come qualcosa di relativo alla natura e all'origine celeste, bensì come la parte dell'uomo più intima, responsabile davanti a Dio. Il sacerdozio veterotestamentario per la lettera agli Ebrei dimostra l'impossibilità di raggiungere lo scopo mediante «ordinamenti carnali», che equivalgo no a pratiche esteriori, tangibili, come cibi, bevande c abluzioni. L'al lusione è al cerimoniale multiforme in cui è invischiato il servizio sa cerdotale, destinato a rimane�e nell'esteriorità. Ogni sforzo mirava a conseguire e mantenere una purezza rituale formale, ma non quella purezza che caratterizza tutto l'uomo nuovo, cuore e mente compresi (cf. Ger. 3 I ,J I ss.). 10. L'osservanza di particolari prescrizioni inerenti al cibo (cf. Lev. I I , 2 ss.), ma anche un corretto uso delle offerte consacrate (cf. Lev. 22;
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Num. 1 8,8 ss.) nonché le lustrazioni di vario genere (cf. Lev. 1 6,23
ss.), possono anche essere indispensabili per l'integrità formale del sa cerdote, ma fondamentalmente non significano nulla per il suo rap porto con Dio al di là dell'ordinamento cultuale. Certo, la coscienza era istituzionalizzata, ma insieme anche spersonalizzata. Perciò per l'autore di Ebr., che in quanto cristiano si è trasferito in una nuova di mensione di fede e di conoscenza, è assolutamente necessaria una «cor rezione» che tenga conto dell'effettiva ventà di Dio. Tali prescrizioni sono imposte solo fino al «momento dell'ordinamento nuovo», dopo diché non hanno più valore alcuno. Probabilmente l'espressione cor rispondente non si riferisce al tempo di Cristo nel suo complesso, ma all'istante messianico dell'evento di Cristo, la svolta che porta a ciò che è vero e ultimo, alla verità assoluta e perfetta che migliora il rap porto dell'uomo con Dio in modo radicale e completo.
Cristo è il vero sommo sacerdote in ragione del suo sacrificio di se stesso, e in quanto tale è garante di un testamento nuovo alla fine dei tempi {9, 1 I - Io, I 8) Questa parte contiene la grande testimonianza sul significato unico della morte di Gesù, intesa come donazione di sé del vero sommo sa cerdote. Se nelle sezioni precedenti al centro dell'attenzione vi erano al cap. 7 la persona di Melchisedec-Cristo e in 8, 1-9, 1 0 il luogo del cul to in particolare, ora ci si concentra esclusivamente sulla nuova di mensione cultuale, giuridica e unica del suo sacrificio. In questo modo si è riusciti, con uno sforzo intellettuale progressivo, a sviluppare il senso ultimo del ruolo messianico di Gesù. La sommaria raffigurazio ne e l'argomentazione concisa si rivelano magistrali. Ogni asserzione riceve un fondamento convincente. Ciò che prima era stato solo ac cennato con frasi sulla grandezza del sommo sacerdozio (4, 14), sul ri to sacrificale ali' «interno della cortina>> ( 6, 19 s.) e sull'atto unico e irri petibile del sacrificio di sé (7,27) in un luogo celeste (8,2), ora viene il lustrato nelle debite forme. 1 1- 1 4. Le riflessioni di 9, 1 1 - 1 4 riguardano l'unicità del sacrificio di sé e la completa «redenzione eterna» ottenuta per suo tramite. Tale redenzione è realizzata in un ultimo superamento di quanto accade una volta l'anno nel grande giorno dell'espiazione. Nel v. 14 quasi in volontariamente s'insinua la testimonianza pastorale per cui con essa
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«la nostra coscienza» è stata purificata dalle «opere morte» «per servi re il Dio vivente» . Probabilmente questo aveva una certa attualità li turgica per i lettori. In complesso si tratta di un compendio linguistico e tematico inerente a varie dichiarazioni centrali del contesto più am pio e di quello più ristretto (cf. v. I 1 con 4, 14 e 9, 1 ; v. 1 2 con 2, 1 7; 5 , 1 ; 7,27; 8,2 e 9,7; vv 1 3 s. con 4, 1 6; 7,2 5 ; 9,9; 1 0,22; 9, 1 5 con 3 , 1 ; 6, 1 7; 7, 22; 8,6 ss.). Indiscutibilmente questi versetti racchiudono altre signifi cative idee della lettera. Il concetto di «sacerdozio eterno» (Sal. 1 r o,4) si amplia sino a diventare prova di una «redenzione eterna». I s- 1 7.1 8-22. Le frasi 9, 1 5 - 1 7 insieme a 9, 1 8-22 sviluppano nuova mente (7, 1 8-2 5 e 8,6- 1 3) le conseguenze giuridiche del sacrificio da vanti alla realtà di un «nuovo testamento». Sorprende l'insistenza del concetto, ripreso più volte. Probabilmente nessuna trattazione poteva risultare più convincente per una comunità giudeocristiana. Si consi deri anche che inoltre si poteva fare ampio ricorso alla parola di Dio (cf. Ger. 3 r ). La particolare forza teologica di Ebr. risulta anche dal coniugare in modo estremamente convincente l'attestazione del nuo vo testamento con il postulato della morte del testatore. In più è pre sentata una riflessione che mette a confronto la prima e la seconda al leanza, entrambe necessariamente inaugurate mediante il sangue espia torio. In tal modo si riconducono a unità logica e comprensibile sia il discorso relativo a Cristo «garante» (7,22) sia la testimonianza divina riguardante un perdono conclusivo (8, 1 2). Da un punto di vista tema tico ci troviamo davanti all'unificazione, realizzata nel Cristo-messia, delle due grandi tradizioni relative al giorno dell'espiazione e alla conclusione dell'alleanza. Già in Qumran troviamo un tentativo simi le (cf. xQS I, r 8-n, r 8; CD xx,28-3o; Iub. 5 , 1 7 s.). La profondità della testimonianza giudeocristiana fornita da Ebr. tuttavia non vi è mai stata raggiunta, nonostante tutta la spiritualizzazione dei momenti cultuali. In tale contesto merita considerazione una certa vicinanza a Paolo, il quale in Rom. 7, 1 ss., analogamente a Ebr. 9, 1 6 ss., può fonda re la libertà dalla legge ricorrendo all'idea di una morte necessaria. 2 3 -28. L'entrata nel santuario celeste in 9,23-28 è considerata l'even to decisivo «nella pienezza dei tempi» (eoni) (cf. 1 ,2; 4,9). Più avanti, con 10, 1 9 ss., l'atteggiamento fondamentalmente escatologico di Ebr. pervade definitivamente la parte conclusiva della lettera. Noi presu miamo che in questo modo corrisponda alla restante testimonianza del Sal. I l O (cf. vv 5 -7), in quanto in I O, I I - 1 8 con il v. I J torna esplicita.
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mente sul dominio di Cristo nel senso indicato da Sal. I I o, 1 b. La pro spettiva della seconda venuta di Cristo al v. 28 garantisce la risoluta attesa dell'autore, alla quale comunque sono indubbiamente subordi nate le affermazioni platonizzanti, presentemente escatologiche. E vi dentemente solo e soltanto con il loro aiuto viene accentuata la verità del mondo celeste e della salvezza futura, nella quale bisogna sperare con viva attesa; questo non vale invece per una superficiale, spiritua listica dottrina sull'eternità. Sono riprese, anche se non illimitatamen te, le molteplici concezioni sul santuario celeste proprie del primo giudaismo. Con ragione si è fatto notare che Ebr. lascia quasi intera mente al lettore il compito di tradurre l'immagine della tenda del con vegno veterotestamentaria nella realtà celeste. Per quanto attiene alla storia della tradizione, vi sono alcune espressioni di questa pericope che meritano attenzione. Un certo stile confessionale affiora dal «per noi» del v. 24 (cf. Rom. 8,34; cf. 7,2 5 ) . La medesima convinzione esca tologica è dietro il v. 26 («pienezza dei tempi») e 1 Cor. 10, 1 1 . Come dichiara apertamente il v. 24, il «santuario fatt � da mani d'uomo» si riferisce al cielo, per cui ne consegue che anche in 9, I I non può essere inteso il corpo di Cristo (come ritiene invece Vanhoye ). IO, I - Io. La pericope r o, I - I O chiarisce in base a Sal. 40,7-9a, impie gato abbastanza liberamente, la docile volontà di Gesù e quindi la sua illimitata disponibilità al sacrificio. Dalla citazione si deduce inoltre anche il rifiuto delle offerte fatte secondo la legge e che sino a questo momento erano state oggetto di un apparato cultuale infruttuoso. I I- I 8. I o, 1 I- I 8 completa il ragionamento principale sviluppato a partire da 8, 1 ss. ponendo ancora una volta l'accento sul dominio eter no ottenuto dal sommo sacerdote Cristo. Affermazioni già note ven gono ripetute (per Sal. I I O, I a cf. vv I 2 s. con 8 , 1 s.; per Ger. 3 1 ,3 1 .34 cf. vv I 6 s. con 8,8 ss.). La nuova citazione del versetto di Sal. I I O, I h (cf. al riguardo I , I 3 ) rende possibile un passaggio appropriato alla suc cessiva grande sezione di 10, 1 9- 1 2,29. Si dà ancora una volta fonda mento all'idea che da quando vi è stato il sacrificio di Cristo non vi è più alcun bisogno di altre offerte. Appare dubbio che Ebr. abbia adot tato il metodo del midrash-pesher (come ritiene F. Schroger). Chi può affermare che abbia illecitamente introdotto nella Scrittura un'idea o una speculazione ? In fondo, l'autore non si sente tenuto ad alcuna in terpretazione libera, bensì a una tipologesi strettamente orientata al Cristo-messia, per cui potrebbe aver imparato in massima parte dall'al.
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Ebr.
9, I I -1 4. La redenzione non si basa sul sangue
di animali
I 47
legoresi platonica e dal significato simbolico filoniano a essa affine. Ogni impiego teologico ermeneutico serve a dimostrare il significato salvifico e il carattere sacrificale della morte di Cristo. La sua necessi tà, e ancor più il suo significato, vengono dimostrati a partire dal cen tro del culto giudaico; ne consegue che alla lettera spetta una posizio ne unica nel dialogo cristiano-giudaico della chiesa primitiva. Non è possibile fornire una suddivisione ideale della sezione mag giore; con quella che viene qui suggerita cerchiamo di tener conto del lo sforzo compiuto da Ebr. riguardo a contenuto e raffigurazione, da to che si passa chiaramente dalla persona (cap. 7) al luogo (cap. 8) e in fine al ministero del sommo sacerdote, dapprima in senso negativo (9, I I ss.), quindi ampiamente positivo (9, I s - xo, I 8).
La redenzione non si basa sul sangue di animali, ma sul sacrificio che Gesù fece di se stesso a Dio (9, 1 1 - 1 4) I I Ma Cristo, che si presentò come sommo sacerdote dei beni divenuti real tà, attraverso la tenda più grande e più perfetta, non costruita con mani, cioè non appartenente a questa creazione, 12 entrò, una volta per tutte, nel santuario, non per il sangue di capri e vitelli, ma per il proprio sangue, e tro vò una «redenzione» etern a 13 Se infatti il sangue di capri e tori e la cenere di una giovenca sp arsi su qu elli che sono contaminati santificano, purifi candoli nella carne, 1 4 quanto più allora il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì se stesso senza macchia, purificherà la nostra coscien za dalle opere morte, affinché serviamo il Dio vivente. .
1l
Sal.
1 1 1 ,9a.
Con un «ma» senza compromessi Ebr. contrappone la perfezio ne del ministero sacerdotale di Gesù all'imperfezione del servizio levi tico nel santuario terrestre. Parlando specificamente di Cristo (v. ana logamente 5, 5 ), indirettamente fa capire che il messia Gesù non può essere inteso nel senso di un'attesa corrente. Come la sua figura (7, 3 : «Figlio d i Dio»), così anche il suo compito era parti colare Comunque il v. I r in un primo momento sembra avere in mente la venuta sto rica: egli si presentò (cf. Le. I 2, 5 I ) come sommo sacerdote dei «beni realizzati>> del mondo celeste. In un'altra lezione, a nostro parere non quella originale, questa formulazione un po' singolare viene modifica ta nell'espressione «sommo sacerdote dei beni futuri», più compren sibile e perciò adottata da quasi tutti gli esegeti. Di fatto però si ha una I 1.
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Ebr. 9,1 1-14. L a redenzione non s i basa sul sangue d i animali
esemplificazione della frase, mentre non riceve la necessaria attenzio ne l'espressione fìloniana «beni realizzati» (cf. Leg. all. 3,86 s.). Sem bra che in essa si faccia precisa distinzione tra i beni profetizzati, non ancora disponibili, e quelli «divenuti» realtà, argomento di un discor so divino giunto al suo adempimento. Il v. 1 I a afferma che con l'av vento di Cristo, mediatore di salvezza, anche i doni futuri compresi dal suo ministero sacerdotale sono divenuti presenti. Le «prescrizioni carnali>> sono abolite, mentre dal momento della sua venuta ha inizio il «tempo dell'ordinamento nuovo». I doni stessi sono di tipo «cele ste». Ciò che s'intende con essi può essere facilmente dedotto sulla ba se di altre affermazioni, e cioè la «vocazione celeste» (J , I ) e il «dono ce leste» ( 6,4) che il cristiano illuminato può gustare o sperimentare co me dono dello Spirito. Dovrebbe ess ere soprattutto inteso anche il per dono dei peccati ricevuto, che ha come conseguenza una perfetta pu rezza che consente all'uomo di comparire al cospetto di Dio (cf. 8,8 ss.). Il concetto di «beni» indica dunque le cose celesti che divengono realtà nell'era messianica (v. anche I o, I s�; in particolare Is. 5 2,7 ci t. in Rom. I o, I 5 ), anche se, a dire il vero, nell'uso linguistico ellenistico tut ti gli oggetti di ordine superiore potrebbero essere chiamati così. Nel la concettualità astratta del discorso teologico, Ebr. descrive il Cristo storico per farne apparire l'operato in questo mondo come operato sa cerdotale fin dal principio (v. anche 5, I - 1 o). È stato orientato intera mente al compito vero ed ultimo, consistente nell'offerta della perso na in s"crificio a Dio. Questa tappa decisiva della sua vita e della sua azione è oggetto della frase principale dei vv. I I b e I 2, nella quale vie ne ribadita in due modi la grandezza del ministero sacerdotale: in pri mo luogo con la constatazione che Cristo è entrato nel santuario di Dio attraverso «la tenda più grande e più perfetta, non costruita con mani», in secondo luogo evidenziandone il sacrificio unico e irripe tibile «per il proprio sangue» . Entrambe le asserzioni divengono chia re alla luce del rituale del grande giorno dell'espiazione, così come sta bilito per il popolo d 'Israele dal comando di Dio in Lev. 1 6. Luogo dell'atto pieno di significato era, per il sacerdozio levitico di epoca mo saica, la tenda del convegno, mentre per Cristo è la dimora celeste di Dio . Questa è definita da Ebr. in triplice modo: santuario «più gran de», «più perfetto» e «non costruito da mani». Ciò significa che la li mitazione del tabernacolo è abolita. In quanto archetipo fondamenta le, alla dimora di Dio competono perfezione estrema e massima figura
Ebr. 9,1 1-14. La redenzione non si basa sul san gue di animali
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ideale (cf. 8 , 5). Non essendo opera costruita da mani d'uomo, suo co struttore può essere considerato lo stesso Dio eterno (8,2). Di tanto in tanto riaffiora la concezione secondo la quale con «tenda più grande e più perfetta» s'intende il corpo di Cristo, dato che in Gv. 2,2 1 s. si ri porta un detto di Gesù in tal senso. Tuttavia questa particolare espres sione, come pure la precisazione «non appartenente a questa creazio ne», indicano con sicurezza la dimora eterna di Dio (v. anche 9,24). La si distingueva dal cielo, visi bile agli occhi, per descriverla come luogo ultraterreno di adorazione perpetua, cioè come santuario simile al tempio (cf. /s. 6, 1 ss.; Dan. 7,9 ss.; Sal. I OJ , I 9 ss.; in particolare Apoc. 3, 1 2; 8,3 s. ecc.). Non si può pensare a niente di più grandioso e pos sente, e ovviamente l'accesso a tale luogo era interdetto agli uomini mortali (cf. 9,8). Le caratteristiche menzionate da Ebr. ricordano la descrizione del santuario celeste in Filone (v. sopra, a 8, 2), sebbene egli sia incline a far sussistere accanto a «tutto l'universo», presentato co me «vero santuario della divinità», il divino spazio «del tempio» come «elemento più santo del mondo>>. Il panteismo filosofico in Ebr. resta tuttavia escluso, poiché il santuario celeste di Dio vi è inteso come luo go assolutamente trascendente. Anche l'idea filoniana di uno spazio «santo» che abbracciava tutto il mondo non viene ripresa da Ebr. Ta citamente la raffigurazione parte dal presupposto che la dimora di Dio può essere paragonata solo al santo dei santi della tenda del convegno. La componente spaziale, tuttavia, non è ignorata del tutto quando si parla di passare «attraverso» il santuario. Cristo lo fece in analogia al sommo sacerdote dell'antica alleanza, il quale doveva anch'egli «attra versare» il santuario. Ciò che altrove è sottolineato con maggior forza (cf. 4, 1 4; 6, 1 9), qui viene trascurato in favore dell'evento sacrificale unico e decisivo. Resta da chiarire in che misura si pensasse specifica mente a un «cielo degli angeli». Il luogo dell'offerta riveste un certo interesse solo in relazione al suo carattere celeste eccezionale. 1 2. Il v. 1 2 aggiunge che Cristo è entrato «non attraverso (alla lette ra) il sangue di capri e vitelli», bensì «attraverso (alla lettera) il proprio sangue», e questo una volta per sempre. Se prima il termine «attraver so» era inteso in senso spaziale, ora lo è in senso causale, per cui tra duciamo «per». Questa comprensione poggia su Lev. 1 6,2 s., in cui è detto chiaramente che Aronne potrà entrare nel santuario solo a con dizione di presentare un giovenco per il sacrificio e un ariete per l' olo causto. «Attraverso» indica dunque il motivo che rende possibile qual-
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SO
Ebr.
9,1 1 - 1 4. La redenzione non si basa sul sangue di animali
cosa. Stando a Lev. 1 6, 1 4 ss. il sangue del giovenco era versato per l'e spiazione dei peccati del popolo. Il sangue del sacrificio era l'unico mezzo che rendeva possibile l'accesso al santuario (v. 7). Secondo tale concezione, lo stesso Cristo poté entrare nel santuario di Dio unica mente a motivo di un sacrificio di sangue; ma avendo offerto la pro pria vita, egli si distingue radicalmente dall'ordinamento levitico. L'e spressione generica che parla al plurale di «sangue dei capri e dei vitel li» ha un'accezione vagamente negativa, in quanto vi si percepisce l'al lusione a un'operazione ripetuta più volte nell'anno, che, alla fin fine risulta inutile. Dietro le parole sul sangue di Cristo presentato in of ferta vi è invece la convinzione che egli è stato disposto a dare quan to vi era di più prezioso. In altre parole, egli ha offerto a Dio il sacrifi cio totale della propria persona, senza timore della morte. In questo, l'assoluto rinnegamento di sé allo scopo di esaltare Dio appare pie namente dimostrato per fede e conoscenza. Ciò che con Cristo ha tro vato la sua espressione paradossale, ma insieme insuperabile, è dunque la relazione tra sommo sacerd�zio e sacrificio; per la miglior com prensione della testimonianza va tuttavia ricordato che Ebr., come di mostra 5,7 ss., introduce anche il concetto di prova, terribile ma supe rata; in altro modo Gesù non avrebbe potuto «trovare» una «reden zione eterna». Quest'ultima espressione significa qualcosa di più di una semplice redenzione personale, ossia il dato di fatto di una liberazione valida sul piano universale, conquistata una volta per tutte e a favore di tutti gli uomini. Vi sono compresi anche i concetti di irripetibilità e insostituibilità. Il verbo «trovò», che in greco è medio, mette in risalto l'impegno personale e al tempo stesso anche che qui Cristo ha otte nuto o attuato qualcosa di assolutamente non scontato. Evidentemen te vi è alla base l'idea che Dio abbia insolitamente permesso tale re denzione per gli uomini a motivo del sacrificio straordinario. 1 3. La riflessione che segue ai vv. 1 3 s. ribadisce ulteriormente la ve rità espressa. Non che nell'antica alleanza il sangue degli animali sacri ficati fosse privo di valore: di fatto ha santificato «purificando nella carne»; ma al sangue di Cristo non spetta allora una potenza san tificatrice ancora maggiore ? Questa considerazione ulteriore parla del sangue animale nel culto veterotestamentario in senso lato. Invece di capri e vitelli si parla di «capri» e «giovenchi» (cf. fs. 1 ;1 1 ), e della ce nere di una giovenca rossa (cf. Num. 1 9). Al di là del grande giorno dell'espiazione, probabilmente è la condizione di una purificazione ri-
Ebr. 9,1 1 -14. La redenzione non si basa sul sangue di animali
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chiesta a tutti a imporsi all'attenzione. Mentre i sacrifici di animali pu rificavano dall'impurità causata da trasgressioni, la cenere frammista ad acqua liberava addirittura da quella dovuta al contatto con un ca davere. In ogni caso la cenere veniva impiegata in quelle contaminazio ni che impedivano di frequentare il santuario. Presumibilmente Ebr., al pari d i Filone (Spec. leg. 1 ,268), parte dal presupposto che l'aspersio ne con la cenere era egualmente compito del sommo sacerdote (b]oma 42b). La giovenca veniva macellata al di fuori della città (mPara 3,6: sul Monte degli Ulivi), e il sangue raccolto veniva spruzzato per sette volte in direzione del tempio. Ebr. ribadisce che quanti si erano con taminati ottenevano in questo modo la «purificazione nella carne». E di fatto così è stata ristabilita la purezza cultico-rituale, dunque la co munità liturgica. Questo non è certo poco, ma in tal maniera non ci si limita forse a un rapporto esteriore con Dio ? Evidentemente l'interro gativo non dava pace nemmeno a Filone. Però per lui è un pio deside rio ciò che per E br. è una certezza liberatrice. I 4· Con una conclusione logica dal minore al maggiore, nel verset to I 4 si ribadisce che il «sangue di Cristo» purifica ancora di più la co scienza dalle opere morte. Chi ascolta può avere la certezza assoluta che il sangue del mediatore di salvezza possiede una potenza espiatri ce più forte, con la quale è in grado di purificare anche l'intimo del l'uomo. In fin dei conti il vero p roblema non è la contaminazione che si ha toccando dei morti - la si risolve con un preciso rituale -, bensì l'impurità che dal profondo del cuore lascia agire in noi la morte e il nulla, cosicché non solo viviamo nella lontananza da Dio, ma la ren diamo sempre maggiore con il nostro comportamento. In 6, I , alla «pe nitenza dalle opere morte» viene affiancata in positivo la «fiducia di fede in Dio»; analogamente, qui si accostano la purificazione dalle «opere morte» e il servizio al Dio vivente. In tal modo è dimostrato che esse vengono compiute sulla base della possibilità umana, ed è pro prio su questo che poggiano la loro discutibilità e inutilità. D'altra par te si schiude una prospettiva quasi paolina quando allo sforzo indivi duale viene contrapposta la liberazione dell'uomo legato nel suo inti mo, liberazione compiuta da Cristo e che consente al cuore purificato di rendere un culto vivo (cf. Rom. 3,27 s.; I 2, 1 s. ecc.). Una religione solo formalistica per la concezione di Ebr. è fine a se stessa, un qual cosa che non ha valore e che in fondo risulta fatale. L'uomo deve e può liberarsene per servire il «Dio vivente». Solo in questo modo ot-
I 5 2.
Ebr. 9, 1 s - 1 7. La morte di Gesù come garanzia di validità
tiene per sé la vita. Nel «sangue di Cristo» Ebr. non vede una forza protettiva magica; vi ricorre per descrivere una modalità di compor tamento che illustra chiaramente altrove ( 5,7). La vittima si presenta «senza macchia» in ragione della grande obbedienza dimostrata. L'ac cenno al Dio vivente specifica che questo Dio non si aspetta «opere morte» ma un «culto vivo» (cf. 1 Tess. I ,9). Gli animali che vengono sacrificati possono magari richiamare confusamente alla memoria que sta verità teologica fondamentale, ma non potranno mai essere la veri tà stessa. Questa infatti punta all'uomo, alla persona, al cuore, poiché l'essere umano va ricondotto all'origine della sua creaturalità, a Dio. Anche Cristo ha offerto se stesso non solo «davanti a Dio», ma a Dio stesso, e lo ha fatto «mediante uno Spirito eterno»: questo significa che Cristo ha agito in conformità alla volontà del Padre. Senza dubbio per Ebr. la donazione di sé da parte di Gesù è stata un suo atto perso nale. Ciò che l'ha resa accettabile è stato l'accordo del sommo sacer dote - vittima con lo Spirito, ossia con la volontà e la chiamata di Dio.
La morte di Gesù garantisce la validità di un nuovo ordinamento testamentario (9, 1 5 - I 7) E perciò egli è il garante (mediatore) di un nuovo testamento, affinché coloro che sono stati chiamati all'eredità eterna ricevano la promessa, dal momento che la [sua] morte avvenne per liberare dalle trasgressioni com messe sotto il primo testamento. 1 6 Infatti, laddove esiste un testamento dev'�ssere intervenuta la morte del testatore, 17 perché un testamento di viene giuridicamente efficace (alla lettera: «saldo») solo con dei defunti ( = in caso di morte), non entrando mai in vigore finché il testatore è in vita. x5
La pericope 9, I I - 14 serve a dimostrare che la morte di Cristo è sta ta un sacrificio di se stesso. I versetti prendono lo spunto dall'attività personale del Redentore per dimostrare ai cristiani interessati che è a lui che essi devono la loro nuova esistenza. L'argomentazione che si dipana in 9, 1 5 - 1 7, del quale contenutisticamente fa parte anche 9, 1 82. 2. , porta il discorso sulla grande necessità di tale sacrificio; infatti o gni impegno intellettuale è messo nel dimostrare l'importanza che tale evento estremo e reale ha rivestito. In accordo con affermazioni pre cedenti (v. in particolare 8,8 ss. e 7, 1 8 ss.) viene inoltre rìbadito il pun to di vista della nuova realtà testamentaria. 9, 1 8-22 considera l'esem pio dell'inaugurazione dell'antica alleanza, avvenuta anch'essa median-
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te «spargimento di sangue», per cui dall'argomentazione dal minore al maggiore (a minori ad maius) si trae la comprensione della necessità assoluta del sacrificio di Gesù. 1 5 . Alla conclusione tratta nel v. 14 se ne affianca una seconda («e perciò») che riprende argomenti già noti per approfondirli in modo lo gico (8,6). Cristo è veramente il garante (mediatore) di un nuovo testa mento (cf. Filone, Mos. 2(3), r 66, riguardo a Mosè), poiché su questa base il significato della sua morte può essere pienamente compreso. Il «perciò» che rimanda oltre viene spiegato meglio. La morte di Gesù in particolare diviene comprensibile se si considera che è collocata a una svolta all'interno della storia della salvezza. La promessa di un testa mento nuovo non ha potuto realizzarsi senza che al tempo stesso non si verificasse una liberazione radicale dall'ordinamento antico. Coloro che sono stati chiamati a godere dell'eredità eterna, e i cristiani inter pellati possono considerarsi tra questi, non avrebbero mai potuto ar rivarvi né con le proprie forze né tantomeno grazie al vecchio ordi namento. Era necessaria la morte, e la morte di Gesù, perché in altro modo non era possibile liberarsi dalle colpe commesse nel tempo del «primo testamento» . Le disposizioni testamentarie, quella vecchia e quella nuova, sono intese in successione cronologica, ma i lettori dello scritto - sicuramente giudeocristiani - in un certo senso sanno di tro varsi «tra i due tempi». Con questo, per il pensiero critico resta prov visoriamente aperto l'interrogativo se abbia un senso la morte del messia - che per il pensiero giudaico costituisce indubbiamente uno «scandalo» inaudito. Certamente ci si può chiedere se la liberazione dalle «mancanze» precedenti, in primo luogo colpe gravi contro la vo lontà di Dio, non fosse possibile anche in altro modo. L'autore, che come Paolo (v. in particolare Rom. 3,24-26; anche Atti I J,J 8 s.) avreb be potuto concepire l'idea di un grande giorno dell'espiazione indi spensabile e conclusivo perché la santità di Dio esige l'espiazione di ogni forma di disubbidienza, a questo punto introduce una propria ri flessione per dimostrare la necessità della «morte». 1 6. Il v. I 6 afferma che il concetto di disposizione testamentaria com porta necessariamente la circostanza della morte del testatore per di venire efficace in tutte le sue parti. L'argomentazione è tratta dalla pras si giuridica, nella quale è previsto che in caso di eredità deve sempre essere prima «attestata» la morte del testatore, e questo mediante una certificazione o giuridica o notarile.
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9, I 5- I 7. La morte di Gesù come garanzia di validità
1 7. L'importanza che questo esempio riveste per Ebr. emerge nel v. 17 dall'ulteriore precisazione del carattere di un testamento. Linguag gio e definizione denotano contatti con disposizioni giudaiche alle qua li è nota la formula: «Così sia e accada» (v. in particolare tB. B. 8 , 1 0). La sostanza del testamento, a differenza d eli' atto di donazione, risiede nel diritto del testatore di disporre dei propri beni fino al momento del la morte. Esso acquisisce il suo vero carattere vincolante (= «stabilità») solo con la morte del testatore, il quale fino ad allora ha facoltà di scio glierlo, modificarlo, integrarlo e addirittura sostituirlo con un altro. Paradossalmente si fa capire che il testamento costituisce una disposi zione che per tutta la durata della vita del testatore non ha efficacia ni· stabilità giuridica, che acquisisce invece immediatamente «con dei dc · funti», ossia in caso di sua morte. A voler essere pignoli le frasi di E br. potrebbero creare alcune difficoltà, dal momento che in base all'im magine impiegata risulterebbe che la disposizione testamentaria, di eu i è autore Dio, ha potuto divenire efficace soltanto con la morte di lui . N on possiamo pensare che l 'aUJ:ore abbia preso in considerazione una simile eventualità, né che l'abbia poi espressa in parole, anche se è cer to sorprendente quanto questa e altre sue considerazioni si avvicinino a una verità così scioccante. La morte del «Figlio» in fondo non com porta anche quella del Padre? E così via. Probabilmente l'assurdità intensa in senso puramente razionale è sempre la vera caratteristica di una «teologia del sacrificio». Ma per un modo di vedere solo razio nale ogni donazione di sé è priva di senso. Chi invece è disposto a pensare oltre il semplice calcolo conosce molto bene il profondo si gnificato del servizio e della donazione. È consapevole che diversa mente il mondo e l'uomo non potrebbero esistere affatto. Il carattere inaudito risiede nel fatto che, secondo la conoscenza biblica, Dio stes so ha voluto e santificato il mistero del sacrificio in modo da offrire la libertà all'interno di obblighi inflessibili. Un'ulteriore difficoltà logica nasce dalla circostanza che in questo contesto Cristo è testatore e ga rante del testamento (cf. 7,22). Ma questo modo di vedere le cose non deve turbare, né lo deve la convinzione per cui Cristo è sommo sacer dote e vittima insieme. Tutti i tentativi di spiegare l'evento in modo simbolico ovviamente si avvicinano soltanto al paradosso vero e pro prio, ma non gli sono mai del tutto all'altezza. È evidente che l'autore si sforza di evidenziare certi aspetti essenziali. Riunirli in un quadro c ompleto e unitario non rientra nei suoi intenti, né nelle sue capacità. -
Anche per il primo testamento c'è stato bisogno di sangue espiatorio (9, 1 8-22) 1 8 Perciò neppure l a prima alleanza è stata inaugurata senza sangue. 1 9 In fatti, dopo che ogni comandamento fu proclamato da Mosè a tutto il popo lo secondo la legge, egli prese il sangue dei vitel l i e capri ass ieme ad acqua, lana scarlatta e issopo e asperse sia il libro stesso sia tutto il popolo 20 di cendo: «Questo è il sangue del testamento che Dio ha stabilito per voi». 2 1 Ma allo stesso modo asperse col sangue anche la tenda con tutti gli arre di del culto. 22 Infatti, secondo la legge, quasi tutte le cose vengono purifi cate con il sangue, e senza sp argi mento di sangue non vi è p erdono .
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Es.
24,8.
1 8. Il v. 1 8 va inteso alla luce dell'affermazione generica del v. 1 6. Anche la disposizione dell'antica alleanza ha avuto bisogno della mor te o del sangue sacrificale, fatto che per la comprensione della necessi tà della morte di Gesù è assai significativo. Benché alla base vi sia il medesimo vocabolo (gr. diatheke), ora al centro della riflessione vi è più il dato dell' «alleanza» che non l'immagine del testamento. Il v. 1 8 richiama alla memoria l'inaugurazione dell'antica alleanza secondo Es. 24,3 ss., anch'essa avvenuta non senza sangue. Se la comunità di Ebr. proveniva dalla realtà di questa prima disposizione divina, allora quasi ineluttabilmente doveva riuscire a comprendere la circostanza inaudi ta di un altro sacrificio all'inizio della seconda, «nuova alleanza». Dal punto di vista logico, una certa frattura si crea allorché nel seguito la morte del testatore stesso non viene presa in considerazione. La base su cui poggia l'argomentazione è unicamente la verità universale per cui atto giuridico testamentario e morte costituiscono una relazione inscindibile. Ma proprio a questo punto il ragionamento si sposta da un piano di paragone e di metafora a un piano pratico. L'analogia nel l'inaugurazione dei due testamenti eleva in maniera non irrilevante la rigorosità della dimostrazione. Anche il concetto di «inaugurazione», che più avanti verrà ripreso ancora una volta e marcatamente per de scrivere la verità di Cristo ( 1 o,2o), include un certo elemento giuridi co, poiché con essa l'alleanza della legge ha acquistato validità dive nendo vincolante. Il passato prossimo ( « è stata») esprime il significato simbolico dell'atto, ma può anche informare che l'antica alleanza per il popolo ebreo ha valore fino al tempo attuale. La prima possibilità merita forse la preferenza, non in ultimo per via del contenuto.
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9, 1 8 - 2 2 . Senza sangue espiatorio non vi è testamento
1 9. Il v. 19 espone l'inaugurazione dell'alleanza veterotestamentari� in modo tale da dare maggior peso, nella prima parte, alla testimo nianza della Scrittura, nella seconda, invece, alla tradizione. Second< ) Es. 24,3 ss., in un primo tempo Mosè espose oralmente al popolo tutte le parole e le prescrizioni divine. In un secondo tempo si giunse a metterle per iscritto. Il mattino successivo su un altare eretto ai pie d i del monte venne offerto un olocausto e come vittime sacrificali ven nero uccisi dei giovenchi. Una metà del sangue fu raccolta in un re ci piente, l'altra spruzzata sull'altare. Infine, dopo aver dato lettura del libro dell'alleanza, Mosè prese il sangue che era stato raccolto e con esso asperse il popolo. Mentre faceva questo, per spiegare, parlò del «sangue dell'alleanza». La testimonianza dell'Antico Testamento (se condo i LXX) è stata da Ebr. ripresa, accentuata e completata inten zionalmente. Anzitutto colpisce che Mosè sia presentato come colui che parla ( = profeta) e che agisce (= sacerdote), e questo di fronte a «tutto il» popolo, nella veste di chi ha promulgato «ogni» comanda mento e ha asperso «tutte le cose» con il sangue (vv. 1 9.2 1 .2 2). Se ne deduce che Mosè ha officiato, in modo del tutto analogo a Gesù, co me « mediatore» e «rappacificatore» (così Filone, Mos. 2, r 66), e che la sua funzione va evidenziata, come unica e completa, in relazione al l'inaugurazione dell'antica alleanza per giustificare la conclusione per analogia. In tal modo Ebr. ottiene anche lo scopo di fare apparire il parlare e l'agire della chiesa del suo tempo come adempimento e per fezionamento di un più alto piano divino, poiché il modo di agire di Mosè delineava già, «a mo' di ombra», la realtà futura, anche se per il momento, ovviamente, «secondo la legge» (v. 22). Questa concezione viene poi formulata esplicitamente (9,23; in particolare r o, r ) . Eviden temente nel v. 1 9 vi è in primo luogo il semplice intento di rafforzare il significato dell'atto compiuto in passato. Seguendo esattamente quanto prescritto dalla legge, Mosè ha proclamato a «tutto il popolo» «ogni » comandamento. La volontà di Dio è sempre totale e assoluta, lascia intendere questa formulazione. La legge (cf. il decalogo) è di grandezza superiore. Più forte del concetto di comandamento, la leg ge permette di cogliere l'essenziale. Il v. 1 9b va oltre il testo dell' Anti c o Testamento parlando non solo di tori (o giovenchi), ma anche di «capri». Se stando a Lev. r e 3 entrambe le specie potevano essere pre sentate come olocausto e sacrificio di salvezza (cf. Es. 24, 5 LXX), al lora il citarle entrambe cela l'intento di avvicinare il più possibile a
Ebr. 9,1 8-22. Senza sangue espiatorio non vi è testamento
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quello del grande giorno dell'espiazione il rito inaugurale d eli' antica alleanza, rito che avvenne per ringraziare Dio e per purificare coloro che vi presero parte. Anche Filone (Quaest. Ex. 24, 5 ) come Es. 24, 5 LXX ha sottolineato i due tipi di sacrificio (cf. anche Mos. 2, 1 47: «un vitello e due arieti»). Se al di là di quanto attesta l'Antico Testamento è detto che il sangue di tori e capri è stato asperso insieme ad «acqua, lana scarlatta e issopo», forse si vuoi creare una corrispondenza con le prescrizioni di legge riguardanti le purificazioni (cf. Lev. 1 4,4·6·49· 5 1 s.; Num. 19,6. 1 7 s.), prescrizioni a cui Ebr. chiaramente vuoi riferirsi (v. 22 ) . I particolari chiariscono il procedimento se si considera che il gambo dell'issopo, una pianta aromatica, avvolto con lana scarlatta per ché si imbevesse abbondantemente del sangue sacrificale, può essere considerato alla stregua di un aspersorio. In origine, gli elementi indi cati potrebbero esser serviti principalmente a rafforzare la purificazio ne. Non solo menzionando esplicitamente l'aspersione del libro della legge, ma soprattutto ricordando che assieme al libro venne aspersa anche la tenda nonché tutti gli arredi, Ebr. attesta di sentirsi tenuto a un certo tipo d'interpretazione tradizionale. La ritroviamo anche in Flavio Giuseppe (Ant. 3 ,8,6) e in Filone, i quali accanto alla consacra zione con olio (così Es. 40,9) conoscono un'ulteriore aspersione con il sangue (secondo Lev. 8) (così Mos. 2, 1 47 ss.). Filone presenta inoltre la medesima versione della citazione di Es. 24,8 (LXX) . Mettendo in risalto questo aspetto, dal canto suo Ebr. rafforza ovviamente l'im pressione dell'analogia data dall'immagine in relazione alla nuova al leanza fondata con il sacrificio di Cristo. Non lo turba assolutamente che la Scrittura rimandi a un momento successivo alla conclusione del l'alleanza stessa (Es. 24) la consacrazione della tenda del convegno con i suoi arredi ( Es. 40). La tradizione su cui lavora Ebr. chiaramente partiva dalla contemporaneità dell'evento, poiché il rispetto della suc cessione cronologica era irrilevante ai fini di una considerazione teo logica relativa alla conclusione dell'alleanza. 20. È evidente inoltre che le parole di Mosè riportate al versetto 20 hanno grande peso, in quanto attestano chiaramente che l'antica allean za è istituzione divina, basata anch'essa su un sacrificio di sangue. Che questa frase significativa possa essere stata pronunciata in relazione all'aspersione del popolo e del «libro>> getta una luce eloquente sul pensiero giudaico di Ebr. In totale conformità alla devozione propria del giudaismo tardo, la torà appare come dono privilegiato fatto da
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Ebr. 9,1 8-22. Senza sangue espiatorio non vi è testamento
Dio a Israele, dono che resterà suo per sempre e in ogni circostanza, dovesse anche peccare. Resta da chiarire se le parole della Scrittura, dal momento che risultano lievemente distorte, siano da considera re citate a memoria dall'autore. Perlomeno l'espressione «questo è il sangue dell'alleanza» può contenere un'allusione alle parole pronun ciate da Gesù al momento di istituire l'eucarestia (cf. Mc. 1 4,24; Mt . 26,2 8); infatti, nel seguito, l'autore riprenderà ancora due volte il con cetto di «sangue dell'alleanza» ( r o,29; I J,20) per metterlo in relazione diretta ali'opera di Cristo. Si osservi inoltre che un culto festivo, di eu i si può supporre che facesse parte anche la lettura di questa omelia, poteva sempre favorire l'associazione con le parole dell'istituzione eucaristica. La supposizione si rivela ancor più plausibile se si ipotizza che la comunità di Ebr. si sia riunita per celebrare una liturgia che comprendesse anche battesimo ed eucarestia. Il raffronto tra nuova alleanza e alleanza conclusa sul Sinai difficilmente non troverà ascol to, dal momento che è stato preceduto da una lunga preparazione. Si trattava semplicemente di approfondire nozioni già note al fine di rafforzare la fede. La comunità non solo doveva riflettere su quanto accade, ma anche sul perché è così; solo conoscendo le verità più profonde avrebbe perseverato nella sua fede in Cristo. N on è da escludere che la forma della citazione di Es. 24,8 (LXX) fornisca un argomento a favore della vicinanza temporale di Ebr. a Paolo ( 1 Cor. I 1 ,2 5 ) e a Mc. ( 14,24). Più importante è vedere la testimonianza teo logica del v. 20, ossia il rilievo dato all'alleanza conclusa con il sangue del sacrificio. Già allora la consacrazione avveniva nella forma di una purificazione globale. 2 1 . Il v. 21 estende l'atto alla tenda e agli arredi sacri (riguardo al termine v. Num. 4, 1 2), mentre l'avverbio «allo stesso modo)), nonché il tempo del verbo, non lasciano dubbi riguardo a una certa contem poraneità negli atti di aspersione. Secondo la testimonianza biblica, tale evento (Es. 40) viene descritto nella stessa successione che con traddistingue la conclusione dell'alleanza (Es. 24) anche se, ovviamen te, i tempi vengono fatti coincidere. In questo modo si è riusciti a chiarire l'essenza del culto sacrificate veterotestamentario nella sua origine ricorrendo all'eminente esempio della conclusione dell'allean za. Gli accenti, posti in modo singolare, sottolineano il proposito. 22. A buon diritto dunque si possono infine tirare le somme di quanto si è appreso. L'essenza del culto veterotestamentario è riassun-
Ebr. 9,1 3 -18. Il sacrificio unico e irripetibile di Gesù
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ta in parole estremamente concise. Ciò che si ammette come eccezio ne («quasi tutto»), ossia la purificazione ottenuta mediante qualcos'al tro che non sia un sacrificio di sangue (cf. Lev. 5 , 1 I ss.; I 5, 5 ss.; I 6,26 ss. ecc.), non parla a sfavore dell'ordinamento di base confermato da Dio, che viene descritto con parole simili anche in Lev. I 7, I I e adotta il linguaggio giuridico giudaico (bjoma 5 I a): «Non vi è altra espiazio ne se non con il sangue». Per quanto riguarda l'intento dimostrativo principale, in questo modo viene a essere sottolineato il significato del sacrificio elevato a obbligo. In un primo tempo non si prende in con siderazione in che misura all'azione veterotestamentaria spetti una certa limitata validità, ma questo argomento sarà trattato più avanti ( 1 0,4). Parlando di «spargere il sangue» e non di «versare il sangue», l'autore attira l'attenzione dei lettori sulle conseguenze di tale atto, per distoglierla invece dalle modalità di svolgimento dell'azione cul tuale. Così il sacrificio di Cristo, oltremodo inconcepibile e scandalo so, può tornare a essere oggetto di attenzione.
Il sacrificio unico e irripetibile di Gesù comprende una riconciliazione c o m pleta ai fini del perfezionamento del mondo (9,23-28) 13 Se è dunque necessario che le copie di ciò che è nel cielo vengano purifi cate con tali mezzi, gli originali celesti (devono esserlo) con sacrifici supe rio ri a questi. 14 Poiché Cristo non entrò in un santuario costruito con mani, antitipo di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al co spetto di Dio in nostro favore; 15 e non con l'intento di offrire se stesso più volte, come fa il sommo sacerdote che entra ogni anno nel santuari o con sangue di altri esseri, 16 altrimenti avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo; ora però e gli si è manifestato una volta per tutte, alla fine dei tempi, per annullare il peccato mediante il suo sacrificio. 17 E come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio, 18 così anche Cristo, dopo essere stato offerto una volta «per togliere i peccati di molti)), apparirà una seconda volta, libero da pec cati, per la salvezza di coloro che lo attendono .
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La pericope 9,23-28 riassume argomenti già noti e prepara la dimostrazione successiva. Il v. 2 3 , i n te rp retan do la frase generale del v. 22, parla della grande «necessità» di una purificazione mediante un 23.
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Ebr. 9,2.J-.18. Il sacrificio unico e irripetibile di Gesù
sacrificio cruento. Già in 8,5 si era fatto osservare che i sacerdoti levi tici attendono a un servizio che è «copia» e «ombra» delle cose celesti. Il ragionamento esposto in 9, I - I o ne offre una prova assai particola reggiata. I versetti 9, I 1 -22 chiariscono il significato di principio del sacrificio cruento ai fini della purificazione e del perdono. Il v. 2 3 ri badisce, con una formulazione astratta e autorevole, l'esistenza di una « necessità» che è possibile riconoscere, deducibile in base a una con vincente argomentazione dal minore al maggiore. Dietro il concetto di «necessità» si cela un intento principalmente logico, e non l'idea di una effettiva costrizione, tanto più che la frase è al presente. A diffe renza di Filone, il quale dalla bellezza del cosmo ricava l'esistenza di un creatore che lo mantiene, e si serve della testimonianza dell'Antico Testamento per dimostrare realtà metafisiche e vedere nella tenda del convegno un richiamo al cosmo (divino) platonico, il «tempio vero», E br. si interroga sulla necessità del sacrificio senza badare al contesto esistenziale cosmologico. Arriva così a concludere che le cose celesti necessitano di «sacrifici superiori» . .2.4. Ciò che in un primo tem�>o è presentato come conclusione pu ramente generica (si osservi il plurale), riceve immediatamente la spe cificazione desiderata grazie all'unico sacrificio di sé da parte di Cri sto, il quale non è entrato in un santuario costruito da mani d'uomo, che sarebbe semplice antitipo delle realtà vere, ma nel cielo stesso. Quasi ripetendo l'asserzione di 9, I I si afferma che l'entrata nel san tuario celeste, del quale il tabernacolo poteva essere solamente copia, riproduzione assai fedele del modello reale, ha potuto realizzarsi solo grazie a un'azione sacerdotale straordinaria. Non che le realtà celesti abbiano avuto bisogno di essere purificate. Nel v. 23b sembra che in tenzionalmente non si sia ripreso il verbo da 2 3a. Così al v. 24 risulta va più facile concentrarsi esclusivamente sull'ingresso della vittima nel s antuario celeste. Questa visione su relazioni più profonde deve dar fondamento alla circostanza di un modo di agire superiore. Se Cristo non è entrato nel santuario terreno ma nel «cielo stesso», questo si gnifica che ha affrontato la reale verità, l'origine e il fondamento delle cose, ossia la realtà di Dio. Dapprima Eb.r. parla del «cielo» in modo usuale per distinguerlo dall'opera dell'uomo, ma il termine è anche un eufemismo che indica Dio. Diversamente da come sentiamo noi oggi, Dio non è una sigla per significare trascendente, inesprimibile e in sondabile. Manifestando lo scopo e la conseguenza dell'azione sacer-
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dotale s i aggiunge: «per comparire ora a l cospetto d i Dio i n nostro fa vore». Questa espressione nell'Antico Testamento (cf. Sal. 42,3 ) può indicare concretamente la frequenza del santuario. Nel presente con testo invece è intesa in senso strettamente letterale, in quanto è pre sentato un atto unico e conclusivo che comporta la fine e lo scopo di tutte le cose. Quest'affermazione estremamente audace descrive in pa role chiarissime la fase decisiva dell'esaltazione, a partire dalla quale si ha il «tempo presente». È caratterizzata dal fatto che qualcuno ha po tuto vedere «il volto di Dio». Tra le affermazioni di base della fede giu daica vi è quella secondo la quale Dio, che dimora in un nascondimen to inaccessibile, non si rivela all'occhio umano. N on è possibile soste nere la visione della sua gloria, tantomeno il suo sguardo. Al sommo sacerdote era consentito entrare nel santo dei santi del tempio, dimora simbolica di Dio, s olo nel giorno dell'espiazione, quando era avvolto dal denso fumo dell'incenso. Che impressione allora, il fatto inaudito che Cristo abbia p otuto forzare l'impenetrabilità che circonda il Dio santo ! E questo non per sé, ma «per noi» - come si afferma alla fine, con una pregnanza che ricorda Paolo. Quest'affermazione condusse già il pensiero e la fede primitivi a un limite assoluto. L'autore conosceva bene le implicazioni dell'espressione tecnica ripresa, ma come avrebbe potuto altrimenti descrivere l'unione tra Cristo e Dio sulla base del sa crificio della croce ? N e affiora la tacita convinzione che al cospetto di Dio non avrebbe potuto presentarsi uno qualsiasi, ma certamente solo il Figlio, che aveva superato una prova durissima. L'espressione «per noi)), in forza della concezione di una sofferenza vicaria in Paolo, è in tesa spesso nel senso di «al nostro posto», mentre qui comporta l'in tercessione «a favore» dell'uomo (v. anche 7,2 5). Se Paolo insiste mag giormente sul ruolo passivo del Cristo sofferente (eccezioni: Gal. 1 ,4; 2, 20), dal canto suo Ebr. ne accentua il ruolo attivo e l'azione. Viene dunque a cadere l'idea di un evento salvifico oggettivo, voluto e pre parato da Dio, mentre si afferma sempre più l'idea di un «sacrificio at tivo)) . Al posto dell'affermazione puramente teologica, descritta dal verbo della salvezza all'indicativo, a cui fa seguito l'imperativo etico, Ebr. presenta l'esempio eloquente di Cristo che ha sacrificato la liber tà diventando, in quanto senza potere, il plenipotenziario secondo la volontà di Dio. Il significato etico del sacrificio non va prima evinto, come per Paolo, ma è immediatamente visibile. 2 5 . Cristo appare come modello e garante della verità della fede cri-
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stiana, che punta direttamente alla prassi e non alla teoria. Per mettere tale verità al sicuro da fraintendimenti, chiarendo il significato di «una volta per tutte>> si sottolinea che egli non ha offerto se stesso «più vol te», come invece fa il sommo sacerdote giudaico che ogni anno offre sacrifici nel santo dei santi. Fondamentale è che il suo sacrificio della croce è bastato a impegnare definitivamente Dio in favore dell'uomo, il quale, invischiato nel peccato, ha bisogno del sacrificio liberatorio di una persona. 26. Pienamente consapevole dell'audacia inaudita, il v. 26 osa affer mare ancora che Cristo, se fosse comparso con le modalità del sommo sacerdozio terreno, «avrebbe dovuto patire più volte dalla fondazione del mondo». Un'ombra di scetticismo o di tristezza traspare dalla constatazione che il genere umano è in contrasto con Dio fin dagli inizi. La storia della fede delineata in seguito al cap. I I è infatti solo uno degli aspetti di un contrasto più grande. Empietà, tribolazione e colpa nel mondo non vanno assolutamente sottovalutate, perché Dio stesso ne soffre, forse anche più di una volta nella figura del suo Cri sto, il che non sarebbe del tutto inconcepibile. Il concetto di «soffe renza» mira al «patire la morte», ed è quindi già impiegato in senso tecnico (cf. 2,9 ). Quasi con un sospiro di sollievo al v. 26b prorompe la dichiarazione che ora Cristo si è manifestato un'unica volta alla fine dei tempi, per a!!nullare il peccato con l'offerta di se stesso. La sua morte segna la grande svolta. L' «ora perÒ» va inteso più in senso tem porale che logico. Il mondo è posto sotto una nuova luce. La sua vita offerta in sacrificio sulla croce abbraccia veramente il grande giorno dell'espiazione della storia dell'umanità. Egli ha espiato anche la colpa delle generazioni precedenti, e quindi è stato conseguito qualcosa di più di una semplice remissione dei peccati: essi sono stati «annullati». Con «si è manifestato» s'intende non davanti a Dio, bensì davanti al mondo di Dio. Se abbiamo ragione, allora dietro questa attestazione vi è la coscienza del carattere proclamatorio dell'evento della parola. Ebr. parte dal presupposto che la verità della croce di Cristo ha co minciato a essere annunciata dal momento stesso dell'evento, tanto che anche in I ,2 è detto che alla fine dei tempi Dio ha parlato per mezzo del Figlio (cf. anche 1 Pt. 1 ,2o; 1 Gv. 3, 5). Ciò che dev'essere p roclamato non è visibile agli occhi; può trovare accoglienza o incon trare il rifiuto. La rivelazione non comprende ciò che di per sé è chia ro alla comprensione umana; sostanzialmente riguarda piuttosto ciò
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9,23-28. Il sacrificio unico e irripetibile di Gesù
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che è nascosto. Forse in nessun'altra parte è data in modo più concen trato che nel sacrificio di se stesso da parte di Cristo. 2 7· Laddove la fondamentale categoria esistenziale della morte de termina la decisione di base dell'uomo, la croce, in quanto dimensione storica, diventa norma escatologica. Il v. 27 introduce a buon diritto, e anzi a rigor di logica, la gravità della decisione, ovviamente se la frase intende assicurare e motivare veramente la convinzione espressa al v. 2 8 . Da un punto di vista della psicologia della fede, la tematica elabo rata al v. 27 ha comunque un'incredibile forza espressiva. Dimostra che dall'uomo, volente o nolente, ci si attende una decisione dalla qua le egli, in quanto creatura responsabile, non può scappare. Senza men zionare Dio, il v. 27 ribadisce con una formulazione di valore univer sale che l'uomo, prima o poi, deve morire, com'è stabilito; «dopo di che viene il giudizio». La frase vuoi essere una constatazione, non una minaccia. Inoltre si tratta di una convinzione basata sull'esperienza, non di un'opinione personale. Alle spalle vi è la consapevolezza che l'essere uomo dev'essere giustificato. Al di là dell'affermazione gene rica, all'ascoltatore viene ribadito che dopo la morte vi sarà un giorno del giudizio in cui Dio tirerà le somme in modo definitivo e universa le. La sorte di Cristo è significativa perché dà una risposta all'incer tezza dell'esistenza umana, a quanto pare profondamente sentita. 28. Di questa esigenza tiene conto il v. 28 nel trarre le sue conclu sioni. Ciò che per costituzione è parte integrante dell'esistenza uma na, ossia la morte, non è stata risparmiata neppure a Cristo, che dovet te rendersi in tutto simile ai suoi fratelli (cf. 2, 1 0 ss.). E questo a pre scindere dal fatto che la sua morte sia da valutare sotto l'aspetto del servo di Dio sofferente (secondo fs. 5 3 ) perché dovette annullare i pec cati di «molti» . La morte di Gesù, in un primo tempo vista come real tà ineluttabile dell'esistenza umana, trova spiegazione teologica in una frase secondaria che riprende fs. 5 3 , 1 2 . Sorprende che alla profezia biblica si faccia solamente allusione senza esporla per intero. Oltre a ciò Ebr. ne approfitta teologicamente in modo tale da far risultare il compito di Gesù di essere servo di Dio un compito voluto da Dio stesso. Tale aspetto affiora dalle parole: «dopo essere stato offerto» (diversamente dal v. 2 5 ). Il significato di fs. 53 dunque non è che Gesù ha voluto essere il servo di Dio, quanto che con il suo servizio e la sua sofferenza segna l'adempimento della profezia. In essa, come è noto, non si parla della croce. Di fatto il destino di Gesù è stato ancora più
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spaventoso rispetto a quello prospettato da /s. 5 3 · Il ricorso al passo biblico, impiegato per esempio in Mc. 1 0,4 5 per indicare l'esplicita volontà di Gesù, tradisce quindi uno stadio relativamente precoce del la riflessione teologica; anche il mantenimento dell'ebraismo (i peccati «di molti» = di tutti) appare rilevante. Forse l'elemento decisivo è pro prio che Cristo ha vissuto l'obbedienza del servo di Dio, perché sol tanto tale comportamento era in grado di elevare la sua morte a sacri ficio. Se al _v. 26 si parlava di annullamento radicale del «peccato», qui si parla di togliere i «peccati » (al plurale !). La speranza dei molti ai quali è stato donato il perdono può basarsi sul sacrificio di Cristo. Al la liberazione transitoria seguirà quella definitiva. Al momento della sua seconda venuta egli sarà «libero da peccato)) (alla lettera: «senza peccato»); ciò significa che la sua vita e la sua opera non dovranno più servire a togliere di mezzo il peccato, come quando venne per la pri ma volta. A questo punto, il ragionamento cambia all'improvviso e in modo sorprendente. Non è detto, in analogia al v. 27, che sarà Cristo a portare a termine il giudizio destinato all'uomo (si affermerà così solo in I O, I 3), ma che egli appare «per la salvezza» a «coloro che lo at tendono». Compare già in modo velato l'esortazione escatologica che seguirà ( 1 0, I 9 ss.). Quando venne per la prima volta aveva il compito di servire, quando verrà per la seconda sarà per salvare. In questo mo do viene ricordata l'opera peculiare di Gesù sulla quale la comunità può fond&re la propria speranza. Per la prima volta si accenna al tema che sarà oggetto approfondito di future riflessioni. Il sacrificio di Cri sto, essendo avvenuto alla fine dei tempi, è di efficacia universale. Non comprende solo, negativamente, la liberazione dal peccato, ma anche, positivamente, la liberazione «per la salvezza»: con ciò si intende il possesso della vita ( I O, I 9 ss.) e infine il «conseguimento della promes sa» e dell' «eredità» eterna ( IO,J 6). Vediamo che Ebr. si sforza non so lo di comunicare una speranza, ma principalmente di mostrarne il fon damento.
La legge come ombra delle cose future ha reso possibile una remissione dei pecca t i solo imperfetta ( 1 o, I - I o) 1 Infatti la legge, che mostra solo un'ombra dei beni futuri, ma non l'im magine stessa delle cose, non può rendere perfetti quelli che vi si accostano con gli stessi sacrifici che, anno dopo anno, vengono offe rti senza interru zione. 2 Altrimenti non si sarebbe forse cessato di offrirli se coloro che ren-
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dono i l culto, essendo già purificati, non avessero più avuto coscienza dei loro peccati ? 3 Ma proprio con questi sacrifici si rinnova o gni anno il ri cordo dei peccati, 4 poiché infatti è impossibile che il sangue dei tori e dei capri cancelli i peccati. 5 Perciò entrando nel mondo dice: «Hai rifiutato sacrifici e doni, ma mi hai preparato un corpo. 6 No n hai gradito né olo causti né sacrifici espiatori». 7 Allora ho detto: «Ecco, io vengo, come è scritto di me nel rotolo del libro, per fare, o Dio, la tua volon tà» . 8 Mentre prima dichiara: «Hai rifiutato e non hai gradito sacrifici e doni, olocausti e sacrifici espiatori», che pure vengono offerti secondo la legge, 9 ha aggiun to dopo: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà» . Con ciò abolisce il pri mo per stabilire il s eco nd o xo In base a questa volontà noi siamo stati santifi cati una volta per tutte mediante l'offerta del corpo di Gesù Cristo. .
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40,7-9a (con alcune variazioni significative in Ebr. ).
1 . Per approfondire l'idea della necessità del sacrificio di Cristo (9, 23), in I O, I - I O Ebr. mette in luce principalmente l'insufficienza della prassi sacrificale veterotestamentaria. Ciò che già prima era stato det to più volte a proposito delle istituzioni del culto mosaico (8, 1 ss.) vie ne qui completato. E come in 8, 5 vediamo ripreso il concetto di «om bra». Esso caratterizza la «legge», la quale non ha la capacità di conse guire il perfezionamento dei credenti. Pur provenendo da Dio, tutta via non fornisce assolutamente una chiara idea di quali siano i «beni futuri» divenuti realtà solo grazie a Cristo (v. a 9, 1 1 ). Di ciò che avreb be dovuto affiorare come verità eterna e permanente, nella legge si può percepire al massimo il profilo, non però la figura precisa che ne è alla base e alla quale può essere adatta solo una luminosità solare. In fatti la legge è in grado di dare un abbozzo approssimativo di quanto effettivamente Dio ha voluto realizzare con la morte di Cristo. Ciò che sta di fronte alla realtà che è solo «ombra» viene definito «imma gine stessa delle cose» da Ebr. , che qui aderisce a una visione pretta mente platonico-filoniana. Come accade per l'espressione «antitipo (o archetipo) del vero (santuario)» di 9,24, anche qui allude alla convin zione in base alla quale un valore esistenziale perpetuo spetta solo e unicamente ai beni celesti (v. anche Col. 2, 1 7), non invece alle cose terrene tra cui è annoverata anche la legge d'Israele. Una simile opi nione probabilmente non poteva contare molto su un consenso una nime. Il carattere d' «ombra» proprio della legge ha in fondo in Ebr. , dive rs a m e nte che i n Filone, funzione chiaramente negativa, anzi spre giativa, ed era inevitabile che un giudaismo ellenistico colto dovesse
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pronunciarsi a suo sfavore. Probabilmente è con questa consapevo lezza che si passa subito a una descrizione più precisa delle imperfe zioni. Dietro la frase si cela la coscienza di quanto sia inutile offrire sacrifici ogni anno nel giorno d eli' espiazione; vi è inoltre la consape volezza dell'insufficienza dei doni, e, in fondo, la sensazione di agire vanamente e senza esito, per quanto disperatamente si tenga duro. La constatazione che nonostante ogni impegno quelli che si accostano non possono essere «resi perfetti» esprime verosimilmente una rassegna zione profondamente sentita. L'affermazione riguarda la comunità del tempio con i suoi sacerdoti, che ogni anno ha bisogno di purificazione eppure non giunge mai alla piena comunione con Dio. 2. Sisifo come esperienza del credente. Alla sua maniera, Ebr. espri me questa concezione. In modo quasi sofistico asserisce che se si aves se la consapevolezza di un perdono dei peccati definitivo e conclusi vo, si avrebbe smesso di offrire sacrifici tanto vani; ma evidentemente non c'è mai stata la possibilità di un sacerdozio purificato una volta per tutte, come sottolinea a sufficienza la ricorrenza annuale del gior no dell'espiazione. Se per Paolo (Rom. 7) è chiaro che in fondo la leg ge non fa che moltiplicare i peccati, dal canto suo Ebr. sa che essa li perpetua nella coscienza accusatrice dell'uomo. Questo sentito pro blema non viene approfondito come in Paolo in una riflessione teolo gica, ma si muove sul piano dell'esperienza religiosa. Se l'idea non pro venisse da un ambito giudeocristiano, sarebbe priva di rigorosità; così invece presenta una forza espressiva non irrilevante. L 'impressione è che con la sua constatazione il v. 2 affronti in primo luogo la questio ne temporale per darle una risposta negativa. La soppressione dei sa crifici non veniva assolutamente presa in considerazione dagli offe renti dell'Antico Testamento, poiché l'accusatoria «consapevolezza (= coscienza) dei loro peccati», come si manifesta apertamente nelle con fessioni dei peccati, aveva sempre avversato chiaramente tale idea. Tut tavia questa viene espressa se non altro in forma interrogativa, per cui si deduce che a Ebr. non premeva tanto fare un'affermazione audace quanto piuttosto spingere gli ascoltatori a riflettere. 3· Di fatto, come si constata invece al v. 3, ogni anno per mezzo dei sacrifici si rinnova il «ricordo dei peccati)). Così almeno risulta di fat to dalle istruzioni relative al grande giorno d eli' espiazione. Invece di togliere dalla coscienza il peso dei peccati questo viene continuamente rinnovato, rendendo così impossibile il raggiungimento di una totale
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redenzione e di un completo perfezionamento. Il concetto di «memo ria» sembrerebbe prendere in considerazione sia l'aspetto del «ricor do» che quello della «menzione» nella confessione dei peccati. 4· Il v. 4 introduce un argomento ulteriore, secondo il quale con il sangue di tori e capri è impossibile cancellare i peccati; né tantomeno lo possono il tipo e la quantità di sangue, trattandosi pur sempre di sangue animale. La riflessione giunge inoltre a stabilire che questi do ni sacrificali non bastano assolutamente a conseguire l'espiazione de finitiva davanti a Dio. Con questo non è che l'autore sostenga che Dio esige il sangue di un sacrificio umano; piuttosto sembra guidarlo l'idea che non è possibile liberarsi dal sacrificio totale della persona con il ricorso a una vittima sostitutiva. Quindi, per Ebr., tutta la concezione e la prassi sacrificale dell'Antico Testamento in fin dei conti si basa su un errore. E p oiché tale concezione ha influenzato anche il pensiero religioso al di fuori d'Israele, non può esser stata altro che illusione ingannevole. D avanti a Dio non conta nulla né il formalismo cultuale, né un suo equivalente, per quanto buone siano le intenzioni; conta soltanto il compimento della sua volontà che coinvolge sempre l'uo mo nella sua globalità. 5. In questo senso i vv. 5 ss. danno una chiara risposta alla constata zione del v. 4, e vanno perciò considerati strettamente uniti ai vv. 1 - 4 . Conoscendo l'importanza della dimostrazione, Ebr. collega talmente la sua argomentazione alla Scrittura che in Sal. 40,7-9a vede riportato un dialogo di Cristo con Dio (similmente in 2, 1 2 s.), dialogo che si sa rebbe svolto prima della sua comparsa o ingresso nel mondo. Stando al cont esto, il soggetto di «egli dice» - Cristo, e non il salmista Davide - non presenta problemi. Tuttavia non è ancora chiaro se si alluda in parti colar modo all' «incarnazione ». Non sappiamo che cosa Ebr. inten desse veramente. È indubbio che non possa essersi immaginato l'in gresso di Gesù secondo lo schema del mito gnostico; piuttosto, in ba se a 1 ,6, in cui l'attenzione è posta sulla futura seconda «introduzio ne», si può pensare a un atto della manifestazione in relazione alla pri ma «introduzione». Evidentemente si tratta di descrivere l'invio di Gesù nel mondo; questo significa che si può prescindere del tutto dal la nascita in particolare (cf. Atti 1 3 ,24). Come l'autore parla in termini tecnici dell' «entrata nel santuario celeste» (9, 1 2), così anche dell' «en trata nel mond o » . Se con questa si intende l'introduzione dell'opera sacerdotale, con quella si intendeva il suo perfezionamento. Il modo
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di esprimersi tecnico cultuale lascia ben poco spazio a una spiegazione particolare riguardo alla modalità biologica o alla forma specifica di un mito. Che non si pensi neanche lontanamente all'incarnazione si può dedurre anche dalla circostanza stessa del dialogo riportato. Cri sto si esprime come lo farebbe il Figlio obbediente, pronto ad adem piere la volontà di Dio e a offrire la propria vita. Come si può intuire dal testo, egli non si presenta come il Preesistente nel quadro di un pro cesso di redenzione o di una discesa dal cielo, bensì come sommo sa cerdote che si sente chiamato sulla base della parola divina espressa nel la sacra Scrittura. A causa della singolare composizione del v. 7a, l'idea sembra essere addirittura quella che egli si è presentato a Dio come orante (in preghiera?) per dimostrare la propria disponibilità a soffrire e per piegarsi volontariamente al comando divino. Stando alla Scrittu ra, Cristo intendeva offrire in sacrificio il «corpo», ossia la propria per sona, in cambio dei «sacrifici e doni» non graditi (cf. ad es. /s. 5 3 , 1 2 in 9,2 8). La singolare versione della citazione al v. 5 b (nel testo origina rio: «gli orecchi mi hai aperto») va probabilmente attribuita a un erro re di lettura o di scrittura. Il testo modificato veniva meglio incontro all'intento teologico di Ebr. di dimostrare che Cristo, in quanto som mo sacerdote, ha offerto il sacrificio conclusivo, quello vero. 6. Di questo si compiacque Dio (leggermente diversi i LXX), e non degli olocausti e dei sacrifici per il peccato (cf. Sal. 5 1 , 1 8). Quindi so no le parole stesse di Cristo a precisare che i principali tipi di sacrifi cio tradizionali in Israele non contraddistinguono la reale verità volu ta da Dio. 7· Il v. 7, come già accennato, riveste particolare importanza essen do stato anche il suo contenuto originario modificato a favore dell'in terpretazione messianica. Invece dell'arante è Cristo a parlare davanti a Dio. Il libro non è la «legge», ma la sacra Scrittura come profezia ri ferita a Cristo. Ebr. ha fatto dell'affermazione una dichiarazione d'in tenti da parte del messia intenzionato a fare la volontà di Dio e anche Sal. 40,9 è stato volutamente abbreviato in tal senso. Grande rilievo è dato al fatto che Cristo rinuncerà ai sacrifici usuali per dimostrarsi ub bidiente. La verità di tale dichiarazione appare sufficientemente con fortata dal testo della Scrittura. Per Ebr. infatti vi si afferma chiara mente che Cristo porta l'abolizione dei vecchi rapporti, non solo il lo ro miglioramento o completamento; e se ha abolito l'ordinamento an tico, lo ha fatto perché esso non rientrava nell'intento salvifico di Dio.
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Come anche in 8 ,7- 1 J , le argomentazioni puntano a un rapporto asso lutamente nuovo con Dio nel tempo messianico. 8. Tale proposito affiora soprattutto nei vv. 8- I o, un ulteriore libero esame dei quali commenterà chiaramente il contenuto nel senso citato. Dapprima l'attenzione si rivolge all'inizio della citazione («sopra»), che viene ripetuta ancora una volta con parole proprie. Il rifiuto di Dio, si osserva, riguarda i sacrifici offerti «secondo la legge». La ver sione al plurale di Sal. 40,7 va a sostegno dello sforzo di formulare un'affermazione generale riguardante il rifiuto di ogni sorta di sa crificio. 9· Il v. 9 («poi ha detto») riprende la decisione di Cristo, espressa più avanti, di voler compiere la volontà di Dio, riferendola alla stipu lazione di una nuova alleanza. Al posto di una prima, transitoria, ne viene una seconda e definitiva. Tale riflessione è redatta al presente, nello stile di una tesi derivata. Dalla parola di Cristo dunque emerge chiaramente l'ordinamento ora in vigore. 1 0. L'utilizzo di nozioni note si ha subito al v. 10. Quella che po trebbe apparire come una riflessione irrilevante di chi conosce la Scrit tura contiene una realtà immediata e attuale anche per i lettori cristia ni (si osservi bene lo stile in «noi», volutamente prescelto). Ciò che fi no a questo momento era una spiegazione distaccata, ora prende la for ma di una dichiarazione teologica solenne che intende essere di con forto, ai fini di rafforzare la certezza del perdono dei peccati. Il tono elevato della frase è forse dovuto al Sitz im Leben liturgico della lette ra. Sorprende che l'espressione «una volta per sempre», che compare alla fine della frase, non sia pronunciata da Cristo ma dai cristiani. La santificazione che hanno ricevuto si presenta come globale e comples siva. N on ha bisogno di essere ulteriormente perfezionata perché è il risultato di una realtà più grande, caratterizzata dall'eliminazione del l'antico e dall'instaurazione del nuovo. Più avanti si vedrà che l'argo mentazione di Ebr. non riguarda principalmente l'olocausto o il sacri ficio di sangue, ma ha scelto in primo luogo il concetto piuttosto am pio di «consegna», nel senso di offerta, per esprimere così anche l' ob bedienza conforme alla volontà. In questo contesto il sacrificio di Cri sto è caratterizzato anzitutto come rinuncia e donazione di sé davanti a Dio.
L'esaltazione di Cristo introduce il tempo della perfezione e d el l u ltim a vittoria ( I o, I I - I 8) '
11 E così ogni sacerdote sta lì ogni giorno e celebra il culto, offrendo più vol te gli stessi sacrifici che non possono mai togliere pec cati ; 12 questi, invece, che offrì un unico sacrificio per i pecca ti, «si è assiso» per sempre «alla de stra di Dio» 1 3 aspettando, per il tempo restante, che «i suoi nemici siano posti a sgabello dei suo i piedi». 14 Infatti mediante una sola offerta ha por tato per sempre alla perfezi one quanti vengono santificati. 1 s Ma questo ce lo attesta addirittura lo Spiri to santo. Infatti, dopo aver detto: 1 6 «Questo è i l testamento che io stipulerò per loro dopo quei giorni», il Signore dice: «Porrò le mie leggi nei loro cuori e le scriverò nelle loro menti 17 e non mi ricorderò più dei loro peccati e dell e loro ini qu i tà» . 18 M a dove c'è perdo no per questi, non vi è più bisogno di offerta per il peccato. 1�
Sal. n o, u. 13 Sal. n o, I h. 16
Ger. J I,JJ.
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Ger. J 1 ,34d.
I I- I 8. In complesso questa pericope si compone di affermazioni no te, come risulta anche dall'impiego delle stesse espressioni tipiche. Il tema principale conclusivo è ancora una volta l'unicità del sacrificio di Cristo, che per questo siede sul trono (8, I) alla «destra di Dio>> «per s empre » (7,4) e giudicherà i suoi nemici (9,2 8; I , I J ). Proprio in questo modo ha ottenuto anche la perfezione eterna per tutti i santificati ( I o, I ), il che significa che in adempimento alla profezia di Ger. 3 I ,3 3 sono giunti «quei giorni» (8,8 ss.) nei quali effettivamente le offerte saranno eliminate e, grazie alla morte di Cristo, sarà concessa la remissione universale dei peccati. Il ritorno al fondamento biblico offerto dal Sal. I I O rassicura nuovamente sul fatto che l'autore non si attiene a idee sue personali, ma a una testimonianza esistente, anzi all'attestazione stessa dello Spirito di Dio (I o, 1 5 ). I 1 . Diversamente da 9, 1 I - 1 4 e 9,23 -28, nella conclusione Cristo non è messo a confronto con il servizio del sommo sacerdote nel grande giorno dell'espiazione, bensì con il sommo sacerdozio d'Israele in as soluto. I suoi rappresentanti se ne stanno ogni giorno nel tempio svol gendo i loro compiti cultuali. Si può pensare all'olocausto quotidiano del mattino e della sera o ad altri servizi rituali. Anche se tutte le man sioni erano rigorosamente regolamentate, tuttavia fondamentalmente «ogni sacerdote» era chiamato e tenuto a svolgerle. In q�esto caso «sta va» davanti a Dio, come afferma un'espressione ricorrente dell'Antico Testamento (ad es. Deut. I o,8; Giud. 20,2 8), per svolgere incessante mente la sua mansione di servo del Signore altissimo. Un compito da
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schiavo, se si pensa che qui si parla d i offrire «molte volte gli stessi sa crifici» in modo faticoso e in fondo anche insensato, dato che non rie scono mai a eliminare i peccati (I o, I .4). Così, stando alla convinzione di Ebr. , nel ministero sacerdotale vi è qualcosa d'insufficiente e insod disfacente. N on è assolutamente scevro da carenze e fallimenti. Si ha l'impressione che l'autore, il quale fa solo constatazioni, non accuse, ne abbia sofferto, naturalmente prima di attingere certezza dal sacrifi cio di Cristo. 1 2 . Se nella presenza del sacerdote scorge l'elemento imperfetto e 1nconcluso di tutta l'istituzione, ancora più in Cristo, che grazie al suo sacrificio unico siede sul trono alla destra di Dio, vede la verità ultima ed eterna in base alla quale comprendere e misurare ogni evento futu ro. Di conseguenza «un solo» sacrificio sostiene il passato colpevole, che «per colpa dei peccati» rappresenta un peso. Ma questa verità li bera anche per il futuro, perché contro di essa si infrange ogni ostilità e ogni resistenza. Ancora una volta risuona il Sal. I I o, in parte citato alla lettera in parte riportato liberamente («per sempre»); la sua affer mazione riguardo a «Cristo seduto alla destra di Dio» irradia qualcosa del riposo eterno promesso al popolo di Dio (4,9), riposo che ha il suo fondamento immutabile nella signoria dell'intercessore e sommo sa cerdote (7,24 s.). Che Cristo sieda sul trono tuttavia non è inteso co me un avvenimento definitivamente concluso. 1 3 . Il v. I J, nello spirito di Sal. I I O, I b, guarda alla fine dei nemici che vengono posti ai piedi di Cristo da Dio, il quale introduce la vit toria totale di suo Figlio. Vi è ancora un breve intervallo di tempo da aspettare perché la vittoria iniziata sia completa. Si percepisce qui lo spirito della comunità primitiva che sentiva di essere prossima alla pie nezza dei tempi. La sua speranza, che nasce dall'evento dell' esaltazio ne del Signore, non deve finire nell'incertezza. Essa si esprime come perseveranza nell'attesa, come sottolineano fortemente le successive parole di incoraggiamento (v. già 9,2 8). In questo contesto non è chia ro chi siano i «nemici» di Cristo che devono chinarsi davanti a lui (v. anche I , I J). Probabilmente non si pensa tanto a satana o a forze de moniache ostili a Dio, quanto a potenze terrene (cf. I 0,27 ss.; 6,8) che oppongono una resistenza ostinata alla testimonianza di Cristo, cau sando la temporanea procrastinazione della rivelazione del mondo celeste. Solo in seconda istanza può essersi mischiata anche la con vinzione della sconfitta inflitta agli avversari metafisici di Cristo di cui
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Esaltazione di Cristo e tempo della perfezione
si parla in 2, 14. Certo, il loro tempo ha un termine, come ricorda an cora una volta esplicitamente 10,37 ricorrendo alla Scrittura. In questo modo, l'attesa di Ebr. si colloca perfettamente all'interno della spe ranza rigorosamente orientata della cristianità primitiva. Partendo dai suoi particolari presupposti, essa impartisce l'insegnamento riguar dante il sommo sacerdote intronizzato a kosmocrator, grazie alla cui signoria universale la redenzione, che prima era caduca, si è definitiva mente trasformata in eterna. 1 4. In tal senso il v. 1 4 parla della «perfezione» che è divenuta realtà nel tempo attuale e nella quale può essere accolto l'uomo in quanto «santificato>>. E questo grazie a un'unica oblazione, come viene riba dito ancora una volta per evidenziare bene tutto il distacco dai vani sforzi del sacerdozio veterotestamentario. Inoltre vi è una leggera al lusione al fatto che il sacrificio di Cristo è un evento chiuso nel suo significato. La «perfezione» può quindi esser fatta passare come un'e sperienza della fede già attuale, perfetta in se stessa e perciò dono e offerta «per sempre » . Chiaramente il concetto, come già esposto al trove ( 2, 1 o ) , non indica un processo di perfezionamento etico o ad dirittura mistico-cultuale, bensì niente di più e niente di meno che un rapporto di comunione diretta con Dio nel quale sia eliminato tutto ciò che fino a quel momento è stato di impedimento o di disturbo. In tal modo Ebr. in fondo ha ricondotto a un denominatore comune estremamente semplice il fine della speranza, fondandolo in modo radicale sul sacrificio unico di Cristo, il che merita attenta riflessione. Che la vita in libertà perpetua debba basarsi sulla morte dell'unico sommo sacerdote è un'intuizione inaudita, che porta all'estremo limi te ogni riflessione. 1 5 · Per rafforzare la verità di quanto si è appreso, ancora una volta si fa riferimento alla promessa divina di Ger. 3 1 ,3 1 -3 4 {8,8 ss.) in for ma abbreviata. Essa è messa in risalto per sottolineare l' attualizzazio ne immediata della parola come attestazione dello Spirito santo. La let tera agli Ebrei presuppone che anche oggi esso parli come un tempo, tramite i profeti. Più che avvertire (cf. 3 ,7) intende promettere e inco raggiare. In tal modo la parola eterna di Dio diventa una grandezza vivente ed efficace (cf. Filone, Leg. ali. 3 ,4; J,2 1,7), e questo anche nel tempo di Cristo. 16 s. La prima parte del discorso, che non lascia dubbi riguardo al l'adempimento presente delle promesse divine, è scelta in modo tale ·
Ebr.
I o, I I - 1 8 .
Esaltazione di Cristo e tempo della perfezione
I 73
che l'espressione «dice il Signore)) passa immediatamente alla verità ef fettiva, che è quella che conta. E cioè che Dio agisce direttamente sul cuore degli uomini e perdona «peccati)) e «iniquità)), dei quali non si ricorderà più. Le parole decisive non seguono solo al v. I 7, come oc casionalmente si è pensato, ma già in I 6b, come detta la logica: «dopo aver detto ... , dice)). Passando dal centro della citazione direttamente alla sua conclusione, l'autore mette in risalto proprio quella nuova realtà del tempo mcssianico che diventa manifesta solo a causa del sacrificio unico e irripetibile di Cristo, dal momento che una remissione totale non può mai essere ipotizzata senza la realtà totale di un sacrificio. 1 8 . Al v. I 8 Ebr. presuppone tale convinzione. Questa tesi, che con clude la vasta trattazione teologica del sommo sacerdozio di Gesù (4, 14- I 0, 1 8), ribadisce l'eliminazione della necessità del sacrificio perché Cristo ha reso possibile una remissione perfetta dei peccati. Il risulta to complessivo delle riflessioni oltremodo varie viene riassunto un'ul tima volta nella maniera più semplice. Si può intuire che con questa dichiarazione di principio si intenda portare l'uditorio composto da giudeocristiani a quella certezza che faccia loro abbandonare definiti vamente il legame che li tiene uniti al vecchio. A maggior ragione l'o rientamento al nuovo e al futuro può divenire un compito che ci si as sume di buon grado.
Parte quarta
«Il Signore manderà lo s cettro potente da Sion ... nel giorno dell'ira ... giudicherà» (Sal. 1 1 0 , 2 . 5 s.) ( 1 0 , 1 9- 1 2, 2 9) Dopo aver ampiamente descritto il sommo sacerdozio di Gesù, la cui unicità «secondo l'ordine di Melchisedec)) è presa approfonditamente in esame (7, 1 - Io, I 8), Ebr. si volge nuovamente alla situazione dei suoi lettori, che non è assolutamente soddisfacente. Viene dunque ripreso uno stile esortativo fermo ed energico, come è già accaduto più volte nella parte introduttiva del sermone (2, 1 ss.; 3 , 1 ss.; 4, 1 ss.; 4, 1 4 ss.; 5, I 1 ss.). L'esortazione è motivata dalla speranza viva fondata sul Sal. I I O (v. in particolare 1 2,2). Quindi le considerazioni di 10, 1 9- I 2,29 for mano chiaramente una parte a sé stante. Dal punto di vista linguistico e contenutistico, la dichiarazione di 1 0, 1 9, che segna una svolta, è si mile al collegamento fornito da 4, 1 4·
Il sacrificio di Gesù è motivo di speranza certa p er il cristiano, la cui perseveranza è messa a dura p rova ( I o, I 9-39) In 1 o, I 9-3 9 echeggiano già parecchie idee fondamentali delle peri copi successive. Elaborate in modo, per così dire, sommario, richia mano alla memoria cose già note per evidenziare le premesse dell'agire cristiano (cf. 3 , 1 .6; 4, I 6; 6, I 9 s .). Nell'ammonimento a mantenere la professione di fede si può scorgere un tema-guida che corrisponde in particolare al carattere della liturgia solenne che immaginiamo come Sitz im Le ben dell'omelia. Strettamente collegato a questo appare il discorso importantissimo della «promessa» (cf. 4, 1 ; 6, I I s.; 7,6; 8,6; 9, I 5; 1 0,3 6 ecc.), che racchiude il vero e proprio bene della speranza del la comunità. I 9-2 5 . La tematica, concettualmente piuttosto marcata, induce a con cludere che con I0, 1 9-2 5 l'autore abbia creato un brano intermedio indubbiamente ideale per passare alla sezione maggiore. In esso espri me in modo molto concentrato l'impegno pastorale pratico. La spe ranza di chi ascolta deve essere rafforzata, e alla sua attesa va data la necessaria tensione. Già la frase di passaggio affronta subito e lucida-
Ebr.
10,19-1 5. La speranza nel giorno ormai prossimo
1 75
mente il fine, il « giorno prossimo», dunque il momento della rivelazio ne finale di Dio (cf. Sal. r ro, 5 ss.: «giorno dell'ira»). 26-3 1 . Di fatto, la successiva pericope 10,26-3 r mette in risalto in un primo tempo negativamente il giudizio incombente; in questo mo do l'intento che la anima acquista una durezza assai minacciosa. A que sto contribuiscono anche varie citazioni scritturistiche (vv. 2 7 e 3 0) e il tipico procedimento conclusivo del v. 29. Il v. 3 2 rappresenta non sol tanto un'affermazione dottrinale, ma al tempo stesso anche una testi monianza molto personale dell'autore, spinto da un'autentica preoc cupazione per la salvezza sua e della comunità. 32-3 9. Molto diverso è invece l'intento che anima la terza pericope, dalla quale traspaiono caldo affetto, conforto genuino e soprattutto una certezza gioiosa. L 'esposizione intende rafforzare gli i n te rpell ati facendoli progredire nella fede. La comunità, che già una volta ha dato esemplarmente buona prova di sé, non deve abbandonare la fiducia. Mentre in 1 0,26-3 1 la gravità della situazione di giudizio ormai pros sima è offerta a una riflessione più general e, in questa pericope si con tinua direttamente con gli inviti di ro, 1 9-2 5 (vv. 3 2.3 5 ) . La conclusio ne è costituita da una notevole testimonianza scritturistica che vede accostati /s. 26,20 e Ab. 2, 3 s.
La profondità dell'evento deve indurre a lasciarsi guidare dalla speranza nel giorno ormai prossimo .
( 1 0, 1 9-2 5 )
1 9 Avendo dunque, fratelli, (fondata) certezza nell'accesso al santuario per mezzo del sangue di Gesù, zo accesso che egli ha inaugurato per noi come via nuova e vivente attraverso la cortina, cioè la sua carne, 2 1 e avendo un «sommo sacerdote sopra la casa di Dio», zz accostiamoci dunque con cuo re sincero nella p ienezza della fede, i cuori liberati con l 'aspersione dalla cat tiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. 23 Manteniamo senza va cillare la professione della speranza, perché colui che ha promesso è fedele; 24 guardiamoci a vicenda per ricevere stimoli all'amore e alle opere buone, z 5 non disertando le nostre riunioni come è abitudine di alcuni, ma esor tandoci vicendevolmente, con tanta più forza quanto più vedete avvicinarsi il giorno. 21 Num. 1 2,7.
1 9 . Solo grandi verità di fede possono dar fondamento a una spe ranza che sprona e indirizza la vita intera. Di questa circostanza tien
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Ebr.
I O, I 9-2 S ·
La speranza nel giorno ormai prossimo
conto Ebr. all'inizio dell'ampia esortazione che sta per sviluppare. Sa infatti che un invito di cui non è chiaro il motivo suonerebbe solo en fatico, vuoto e senza esito. E ponderatamente ricapitola ancora una vol ta in poche parole il nucleo essenziale della sua conoscenza cristologi ca («dunque»). Ribadisce ciò che è possesso irrinunciabile della fede, ossia da un lato l'esperienza della franchezza e della fiducia di poter penetrare nel santuario di Dio grazie al sacrificio di Gesù, e dall'altro la nota circostanza del sommo sacerdozio di Cristo, posto come Fi glio e Signore sopra la casa di Dio (3 , 1 -6). A ben guardare, sono pa recchie le idee che compaiono. La fiducia che ci permette di andare se renamente incontro al futuro poggia sul «sangue di Gesù», dunque sull'offerta della vita del Signore terreno. Solo il suo sacrificio ha reso possibile la libertà in un mondo reso schiavo dal timore della morte (2, 1 5 ). Come dimostra l'immagine del velo (cf. 6, 1 9 s.), i cristiani si ac costano al santuario celeste, e non soltanto ai «beni salvifici» in parti colare, come si potrebbe anche tradurre. Il ricorso alle immagini della «via>>, dell' «accesso>> e della «casa di Dio>> è chiarissimo (v. anche 9,2 s .). La soglia del santo dei santi celeste in cui si trova il trono di Dio (4, 1 6), a differenza di quella del santuario terreno, può essere varcata non più da un'unica persona, bensì dai molti che ripongono la loro fiducia nella morte di Gesù. È questo infine l'elemento nuovo, per il quale Ebr. ha impiegato tutta la forza argomentativa nell'ampia sezione 7, 1 I O, I 8 . Non soltanto la singola persona, ma tutta l a comunità dei fra telli sperimenta la libertà mediata da Gesù (v. l'appellativo «fratelli>>). 20. E questo non si limita affatto a un'esperienza momentanea, ma comporta un tipo di condotta dinamico per cui la «via nuova e viven te>> viene percorsa risolutamente, senza restare bloccati nell'attesa. È da notare il modo di esprimersi biblico, poiché ancora una volta (v. anche in 9, 1 8) viene ribadito che come Mosè anche Gesù ha aperto, o più precisamente «inaugurato», una via nuova. Ma mentre la conclu sione dell'alleanza da parte del primo, in fondo, riguardava le «opere morte» (6, 1 ; 9, 14), Cristo, che in 6,20 è chiamato «precursore», ha portato a una realtà capace di donare la vita a tutti coloro che percor rono la sua via. L'espressione «attraverso il velo, cioè per mezzo della sua carne» può indicare solo che grazie al sacrificio di sangue della sua vita Cristo ha stabilito il rapporto con Dio. N on si ipotizza certo che la carne di Cristo abbia dovuto esser tolta di mezzo, così come si spianta una tenda. Piuttosto, la menzione della «carne» vuole allu dere
Ebr.
I O, I 9-2 f .
La speranza nel giorno ormai prossimo
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ancora una volta al fatto che Cristo non ha compiuto il suo sacrificio con facilità, bensì sopportando prove e lotte e infine dando prova di obbedienza ( 5 ,7). Questo tipo di comprensione ci fa anche dubitare dell'ipotesi che qui l'autore abbia rielaborato concetti gnostici, magari facendo in modo che la «carne», componente materiale del corpo, ri sulti essere di impedimento nel cammino verso Dio. Nel pensiero cul tuale di Ebr. , la «cortina» che introduce al santo dei santi non costi tuisce affatto un ostacolo che deve essere spinto da parte, ma piutto sto il luogo in cui versare il sangue dell'espiazione e che in determina te circostanze consente l'accesso al santo dei santi. In modo altrettan to positivo anche al v. 20 la carne di Cristo sembra essere considerata più uno strumento, un ingresso, dal momento che l'idea in essa e spressa documenta, nel presente contesto, ciò che «noi» possediamo e che «ci» è rivelato. 2 1 . In tal senso il v. 2 1 prosegue immediatamente con l'ulteriore con statazione, formulata in termini biblici (cf. Num. 1 2,7), che noi abbia mo «un sommo sacerdote sopra la casa di Dio». Cristo vi compare quale Signore del santuario celeste che compie il suo ufficio davanti a Dio (7 ,2 5 ) . In esso rientra anche la sua intercessione a favore della co munità domestica e cultuale del luogo. Va presa in considerazione la possibilità che qui come in 3 , 5 s. vi possa essere un'allusione alla co munità in quanto «casa di Dio » . « Casa» qui può significare «comunità domestica». Anche il santuario non era mai considerato solo come edificio ma sempre, in primo luogo, come comunità del tempio e di culto, con il sommo sacerdote come suo rappresentante. Se ora Cristo è costituito sommo sacerdote celeste, allora sono già chiariti anche i rapporti giuridici della nuova comunità, la «famiglia di Dio». Per que sto la comunità di Cristo può considerare una garanzia del futuro che le è preparato tutto ciò che già possiede nella fede. 22.. Dopo questo ampio preambolo che descrive una volta di più la verità centrale della fede, vengono tre esortazioni formulate dopo at tenta riflessione (vv. 22.23 .24), riguardanti manifestamente la terna fe de, speranza e carità (cf. 1 Cor. I J, I J). Per prima cosa il v. 22, dopo tale premessa, esorta ad «accostarsi» «con cuore sincero nella pienez za della fede» . Non è affatto un invito a vagare senza meta, ma al contrario sprona a compiere il passo decisivo verso l'estrema vicinan za a Dio (7, 1 9 ) . Questo deve avvenire senza riserve e ripensamenti, ma anzi in piena certezza. Il forte risalto dato all'interiorità dell'atteggia-
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10,19-2. J. La speranza nel giorno ormai prossimo
mento è decisamente voluto. In questo ci si distingue dalla religione dell'antica alleanza. I suoi sacerdoti infatti venivano consacrati solo esteriormente mediante l'aspersione di sangue e il lavaggio con acqua (Lev. 8,6.30; I6,4), mentre i cristiani lo sono profondamente nell'inti mo, poiché nel cuore, sede dei pensieri, sono stati liberati dalla co scienza accusatrice. Accanto alla purificazione del cuore vi è il «lavag gio del corpo con acqua pura» . Evidentemente i due atti sono visti in stretta connessione. Riguardo al secondo è opportuno l'accostamento al battesimo, dal momento che la scelta del termine «corpo» accanto a ((cuore» esprime inequivocabilmente che l'uomo è purificato nella sua interezza fisica. L'impiego di «acqua pura» è in riferimento più all' ef fetto che alla qualità (cf. Ez. 36,2 5 ). Indirettamente è possibile che vi sia un'allusione alla consuetudine della comunità primitiva di battezza re in acqua corrente, o come si suoi dire idonea. Comunque è ben lon tana l'idea di una consacrazione gnostica. Sotto l'aspetto linguistico, dal participio passato deduciamo che gli interpellati non hanno appe na ricevuto il battesimo, ma sono già battezzati da tempo, circostanza sicuramente di una certa importanza per la presentazione della situa zione liturgica. Un ricordo del battesimo tanto accentuato non è do vuto a un capriccio del caso, ma ha senz' altro un motivo liturgico spe cifico. A questo punto della sua omelia, il pensiero dell'autore ancora una volta è legato strettamente alla situazione concreta, allo scopo di interpellare e scuotere gli ascoltatori. 23. Lo conferma anche il successivo secondo invito a mantenere senza vacillare la «confessione della speranza» (3, 1 4; 4, I4), poiché il concetto di «confessione» rivela un'impronta teologico-battesimale. Certo non si pensa a un formulario preciso, bensì all'atto stesso della confessione di fede, che include il sì incondizionato alla speranza po sta ( 6,2 ) . Gli interpellati hanno corso il rischio di perdere di vista il Cristo che sta per tornare, ragion per cui vengono vivamente esortati a non abbandonare la risolutezza iniziale. Ciò che col battesimo han no acquisito per diritto deve divenire loro possesso, poiché non può esservi alcun dubbio che Dio, colui che ha promesso (6, I 3 ; I 1 , 1 1 ; 1 2,26), è assolutamente fedele. Resta solo d a chiedersi se anche i l cri stiano, al quale è stata fatta una promessa tanto grande, dà prova della medesima affidabilità. Dall'affermazione possiamo vedere che il con cetto di speranza sfiora molto da vicino quello di «promessa» (4, I - 1 I ;
8,6; 9, 1 5 ) .
Ebr.
I O, I 9-1 J .
La speranza nel giorno ormai prossimo
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2 4 . Dopo le esortazioni alla fede e alla speranza, ve ne è infine una terza riguardante la carità attiva. Essere cristiani non è mai soltanto una certezza soggettiva nella salvezza, ma comporta sempre anche il servizio al prossimo, che nella tribolazione non deve essere indotto a dubitare della verità di Cristo. Il v. 24 richiede che i cristiani si osser vino a vicenda per ricevere un più grande «stimolo all'amore per il pros simo e alle opere buone». Quest'ultima espressione tradisce un certo pensiero giudaico, poiché anche la sinagoga distingue tra le cosiddette opere di carità e le «opere buone», ovviamente superiori alle prime. Al contrario Ebr. , in questo concordando palesemente con Paolo, pone con decisione l' «amore per il prossimo» come programma-guida fon damentale, essendo slittato in secondo piano il rango teologico delle cosiddette «opere buone». La proposta di osservarsi vicendevolmente va intesa come un consiglio discreto. È noto quanto invidia competi tiva e gelosia possano essere di sprone per ottime prestazioni. N ella comunità cristiana al contrario questa inclinazione naturale dell'uomo deve indurre a compiere il bene ovunque ce ne sia bisogno. La formu lazione lascia capire che non si pensa solo alle usuali opere di benefi cenza e all'elemosina. Paolo in particolare sa descrivere con parole ef ficaci la sfera di competenza della carità cristiana (cf. 1 Cor. I 3). An che Ebr. ha in mente una comunità solerte che cerca di venire incon tro il più possibile alle urgenze interne ed esterne, ossia alle proprie carenze sociali e alle molteplici necessità del tempo. Ciò che viene compiuto avviene a causa di Cristo in uno spirito di amore per i fra telli e per il prossimo. Con riguardo alla persona, si tratterà di opera «buona», cioè caritatevole, utile ed edificante. 2 5. Poiché lo stimolo corretto che non degenera in egoismo esiste solo all'interno della comunità, si aggiunge che non si deve mancare alle assemblee liturgiche (cf. 2 Tess. 2, 1 ), o meglio che non devono es sere disertate, come purtroppo è divenuta abitudine di certuni. La stret ta associazione logica tra il v. 26 e il v. 24 denuncia un problema scot tante fortemente sentito. È chiaro che non si tratta dell'apostasia di pochi cristiani di fronte all'unica comunità dei credenti, né di tenden ze settarie, bensì solo del rischio di cadere nella pigrizia e nell'indiffe renza da parte di coloro che evitano le riunioni comuni. Ma di questo risente la forza vitale di tutta la comunità. Poiché il senso del proprio compito nel mondo e il fine ultimo della missione a esso collegata può divenire chiaro solo mediante il culto comunitario, diventa essenziale
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Ebr.
1 0,2.6-3 1 . All'apostasia segue inevitabilmente il giudizio
riunirsi tutti insieme. Se l'amore nel mondo e nella vita quotidiana de
ve rivelarsi con forza, occorre ricercarne sempre l'origine (v. 22: «ac
costiamoci»). È significativo che anche in I J , I 5 s. il sacrificio di rin graziamento dell'amore sia strettamente collegato al sacrificio di lode della fede. Quando alla fine si ha l'invito a esortarsi a vicenda per fre quentare le riunioni, l'intento è quello di contrapporre energicamente ai pochi esempi negativi i tanti positivi. Ogni fallimento deve indurre a stringersi insieme in modo ancora più compatto, mobilitando così nuove energie. Occorre anzitutto compiere subito passi per migliora re, senza aspettare che prendano il sopravvento fenomeni di dissolu zione. La comunità non può assolutamente permetterselo, tanto più che è a conoscenza del «giorno» che impone disponibilità imme d iata È il « giorno del Signore», il «giorno del giudizio», il «giorno dell'ira», insomma «il giorno» per eccellenza in cui ogni cosa verrà alla luce (c f Sal. I I o, 5 ). La frase conclude il versetto con accenti estremamente gr a vi. Probabilmente si riferisce all'ammonimento del v. 2 5, e non alla ri chiesta del v. 24 di agire caritatevolmente. Essa conclude un discorso e al tempo stesso introduce un nuovo tema. Sullo sfondo vi è un'attesa temporale elementare, così com'era generalmente diffusa nella chiesa primitiva. A ciò si collega la convinzione che la ragione di tale attesa è più o meno manifesta. Il tipo di segni che annunciano l' «imminenza» del giorno di Dio non è esplicitato. Non è tuttavia da escludere che la situazione politica generale, caratterizzata da tribolazioni e affanni {Nerone ?), possa servire da argomentazione. Nel seguito, il v. 37 pre ciserà meglio la tensione dell'attesa. Forse in questo contesto si può anche richiamare alla memoria che già nella chiesa più antica si era an data formando la convinzione secondo la quale il frequentare la litur gia pasquale, in particolare, costituiva un sacro dovere. La celebrazio ne notturna fin da prestissimo venne considerata simbolo della comu nità futura nel regno di Dio. .
.
All'apostasia segue inevitabilmente il giudizio ( 1 o,26-3 I ) Poiché, se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, 27 ma soltanto una terribile attesa del giudizio e della «vampa di fuoco» «che divorerà i ri belli». 28 Quando qualcuno vìola la legge di Mosè, «muo.re» senza pietà «sulla parola di due o tre testimoni». 29 Di quanto maggior castigo pensa te allora sarà rite nu to d e gn o colui che avrà calpestato il Figlio di Dio, che
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Ebr. 1 o,26- 3 1 . All'apostasia segue inevitabilmente il giudizio
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avrà stimato cosa senza valore il «sangue del testamento» da cui era stato santificato, e che avrà oltraggiato lo Spirito della grazia? 30 Conosciamo in fatti colui che ha detto: «Mia è la vendetta. Io ripagherò», e ancora: «Il Si g? ore giudicherà il suo popolo». 3 1 È tremendo cadere nelle mani del Dio vivente. 27 /s. 1 6, 1 1 (LXX) . 28 Deut. 1 7,6. 29 Es. 24, 8. 30 Deut. J2,J 5a.J6a, anche Sal. I J 5 ,I4.
26. L'indifferenza può portare all'apostasia. Ebr. non teme di chia mare apertamente per nome il pericolo davanti al «giorno ormai pros simo » . Al tempo stesso ritiene opportuno continuare a sviluppare il tema del giudizio. È fi n troppo facile che l'irresolutezza, collegata a un segreto estraniamento, possa mutarsi in deciso rifiuto. Il versetto 26 aveva già menzionato tale eventualità. Un tentativo di primitiva inti midazione ? Certamente no. Piuttosto un'evidente riflessione critica, che non nega come tale possibilità esista per i molti come per il predi catore stesso. Quello che chiama «peccato intenzionale» è una conce zione fin troppo familiare al giudaismo degli scribi, e in particolare anche a Filone; risale a Num. I 5,30, secondo cui il peccato deliberato non può essere perdonato essendo identificabile principalmente come apostasia. Quanto radicalmente sia considerata la possibilità della ri bellione e della protesta contro Dio emerge, in primo luogo, dall'e spressione contrastante «ricevere la verità», che descrive indubbia mente tutto l'insieme del patrimonio di fede (cf. 1 Tim. 2,4), e, secon dariamente, anche da tutte le altre affermazioni nelle quali trova espres sione ancora una volta, come in 6,4 ss., la gravità estrema della deci sione presa. L'attestazione del giorno ultimo costringe a questa presa di posizione. Se c'è una verità, allora questa verrà certamente alla luce. E se verrà alla luce, allora la vita presente deve già essere condizionata da essa. Per evitare malintesi, occorre osservare che l'espressione «se pecchiamo volontariamente» intende un comportamento di fondo attuale. Riguarda più il rifiuto permanente che non il rinnegamento temporaneo. Verosimilmente sullo sfondo di tale riflessione vi è il raffronto tra la verità di Cristo e l'evento del giorno dell'espiazione, anch'esso in grado di offrire un perdono universale eccetto che nel ca so di rifiuto deliberato. Che il v. 26 abbia contemporaneamente in mente l'annullamento del battesimo si può dedurre dal parallelo di 6,4 ss. Il potere di remissione dei peccati legato al sacrificio di Cristo ter mina là dove non è più richiesto. E come potremmo attenderci qual cosa di diverso ? Cristo stesso, presente nella decisione di fede, si ritrae
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Ebr. 10,26-3 1 . Ali' apostasia segue inevitabilmente il giudizio
se lo respingiamo per sempre da noi. L'espiazione non può più essere concessa laddove viene a mancare il suo fondamento. Grazia, perdo no, riconciliazione non rappresentano verità generali che possono es sere colte, sfruttate ed eventualmente anche accantonate a proprio piacimento, ma costituiscono verità particolari legate a Cristo e che solo per suo tramite possono essere acquisite. L'espiazione come isti tuzione della prassi ecclesiastica non ha ancora nessuna importanza in questo testo degli inizi. Si tratta solamente di chiarire cosa significa verità valida a motivo di Cristo. E questo emergerà con lui, non pri ma. La chiesa, che cura l'annuncio, non può più fare altro che mo strare la gravità della decisione. Infatti, la situazione esistente laddovc Cristo è stato rinnegato è già abbastanza terribile. 27. Nella sottile formulazione linguistica del v. 27 trova espressione l'angoscia che afferra l'uomo intenzionato a percorrere da solo la pro pria strada, addentrandosi in un futuro oscuro. Se non rim�ne più al cun sacrificio per i peccati, tuttavia resta «una terribile attesa del giu dizio». L'uomo si trova davanti a qualcosa di incerto e minaccioso che gli si erge di fronte, come una parete inclinata che può crollare da un momento all'altro travolgendolo. Nella formulazione del v. 27, a quan to pare, in un primo tempo si è rinunciato deliberatamente a menzio nare la persona del giudice. In tal modo l'autore poteva presentare il punto di vista esistenziale riguardante tutto il peso della decisione pre sa, le cui enormi conseguenze spesso sono intuite soltanto confusa mente. Subito dopo, le affermazioni si conformano alla citazione bi blica. Collegandosi a /s. 26, 1 1 , per prima cosa è presentata l'immagine del fuoco che divora avidamente tutto quello che gli sta intorno (v. anche 6,8). Descritto in modo quasi personificato, esso è un velato ac cenno al Dio che giudica. In tal modo passa anche un duplice ordine di idee: che i ribelli lottano contro una grandezza sempre più forte di loro, dalla quale potranno solo risultare sconfitti come in un evento superiore; e che l'attestazione della Scrittura proprio a questo propo sito dice la verità, ragion per cui può essere utilizzata in senso quasi aforistico. 2 8. Perciò, da un'ulteriore riflessione sarà d'obbligo concludere con il v. 28 che la punizione sarà molto maggiore nel caso del rifiuto del « Figlio di Dio» che non in quello dell'infedeltà alla legge mosaica. Co me è noto, la persona che ne abbandona radicalmente l'ordinamento (cf. Deut. 1 7,2) è dichiarata colpevole sulla parola di due o tre testi-
Ebr.
10,26-3 1. All'apostasia segue inevitabilmente il giudizio
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moni e deve morire. Quanto peggio sarà allora per chi si oppone al Fi glio di Dio disprezzandone il sacrificio. 2.9. L'interrogativo «pensate» sottintende che gli interpellati stessi sono benissimo in grado di fornire una risposta. Se, date le precise di sposizioni, non esistono eccezioni in nessun caso, tantomeno esiste ranno per un atteggiamento del genere, che va a colpire non solo la materia della legge ma la persona stessa di Dio che è legata al Figlio. L'empio modo di agire di coloro che apostatano è descritto in tre punti. Per prima cosa si parla di «calpestare il Figlio di Dio»: s'intende un comportamento che esprima sia disprezzo sia volontà di annien tamento. Forse dietro questa espressione vi è l'esperienza dell'aposta ta, il quale non assume tanto una posizione di neutralità o tolleranza ma al contrario propende piuttosto per l'aperta ostilità. In secondo luogo commette apostasia chi disprezza il «sangue dell'alleanza», chi, alla lettera, «stima cosa comune » il sangue «mediante il quale è stato un giorno santificato» . Ebr. si riferisce con questo al momento in cui la persona, in forza del sacrificio di Gesù che è alla base della nuova alleanza, è stata accolta all'interno della comunità cristiana. Questo sangue ha un significato elementare per il rapporto con Dio. Non in dica qualcosa di «comune», senza valore ed efficacia per l'uomo, ma è santo. Proprio perché appartiene a Dio mette in relazione con lui. Per prima cosa si valuterà se vi siano allusioni all'atto del battesimo, p oiché esso si trova all'inizio dell'appartenenza alla «nuova alleanza» . E invece da scartare l'ipotesi secondo la quale qui vi è un'allusione al l'eucarestia, ipotesi contro cui gioca l'espressione «è stato santificato» . Ovviamente l'associazione d i idee poteva essere provocata, ma non è certo voluta. Ebr. parte dal presupposto che la santificazione avviene direttamente, e non indirettamente, per mezzo del sacrificio di Cristo. È a un unico atto che guarda, non a molti. Quanto più punibile dun que il comportamento degli apostati ! Al terzo punto infine l'apostasia viene definita disprezzo dello «Spirito della grazia>>, certo richiaman dosi a Zacc. 1 2, I o. La certezza nella misericordia di Dio trasmessa da questo Spirito si scontra con il rifiuto in malafede e lo scherno. Cre diamo di potercela cavare anche senza di essa, dimenticandoci però che, in alternativa, resta solo il giudizio; e ci s'inganna a proposito del la temibilità di questo. Ebr. ha rinunciato, probabilmente di proposi to, alla descrizione della «punizione peggiore» che incombe. Certamen te comporta qualcosa di più della morte fisica con la quale nell'antica
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Ebr. ro,26-3 1 . All'apostasia segue inevitabilmente il giudizio
alleanza si puniva l'apostasia. Anche Filone di tanto in tanto ha svi luppato tale argomentazione (Fug. 84). Come costui, anche Ebr. sot tolinea che le conseguenze non possono essere mai abbastanza consi derate; ma illustrarle non è compito del testimone della parola divina. La santità di Dio esige timore da parte nostra, soprattutto quando è di essa che dobbiamo parlare. Se Dio è qualcosa di più di un mero con cetto, ossia una realtà riconosciuta, allora questo viene espresso fin nel linguaggio. Per questo motivo qui si parla di lui, il giudice, dapprima solo al passivo. 30. Al v. 30 tale atteggiamento è confermato, anche se ora ci si espri me in modo chiaramente molto più diretto. Sorprende che l'autore includa consapevolmente anche se stesso nella frase. A ciò si aggiunga che delinea con precisione estrema la personalità dell'essere divino che ha di fronte. È determinato dalla convinzione che tutti sono respon sabili davanti a Dio. Infine, quel «mia è>>, che la citazione pone pro prio all'inizio (così anche Rom. I 2, I 9 ) , sottolinea l'esistenza di uno che si è riservato di agire in ogni circostanza per ultimo e in qualità di giusto. In tal senso, da Deut. 3 2,3 5 affiora chiaramente la decisa vo lontà di punire l'empietà dell'apostasia e della ribellione. Ciò che per tutti ne deriva come conseguenza ultima è evidenziato in un'ulteriore citazione, proseguimento del passo precedente {cf. Deut. 32, 3 6; anche Sal. 1 3 5 , 1 4). Stando a questa il Signore giudicherà il «suo popolo» . L'immagine del «giorno dell'ira» d i Sal. 1 1 0, 5 dice semplicemente che il Signore terrà giudizio tra i popoli. N el presente contesto intende evidentemente ribadire che il suo popolo in particolare, cioè la co munità cristiana, non deve assolutamente sottovalutare il giudizio fu turo. L'espressione «Signore» allude al fatto che Dio detiene certi di ritti di proprietà, e anche che può punire le trasgressioni. 3 1 . A questo punto, quasi all'improvviso si ha una frase di carattere personale a conclusione del pensiero. Linguisticamente si riallaccia al v. 27a, e tradisce un forte coinvolgimento personale. Qui finalmente si nomina esplicitamente il nome di Dio. Anche l'argomento trattato non potrebbe essere espresso in modo più drastico. L'espressione biblica «cadere nelle mani» non nasconde che, senza Cristo, l'uomo sta di fronte a un abisso spaventoso che inevitabilmente lo inghiottirà. G ra zie al sacrificio di Cristo ci si può rifugiare nelle mani dì Dio, ma sen za quello si cade vittime di un giudizio che annienta impietosamente. Proprio il Dio vivente è anche il santo. Nell'Antico Testamento è
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scritto che è meglio cadere nelle sue mani anziché in quelle degli uo mini (cf. 2 Sam. 24, I 4; 1 Cron. 2 I, I 3; Sir. 2, I 8 ), mentre qui si trae una conclusione diametralmente opposta partendo dalla verità di Cristo. Grazie a essa la testimonianza del Dio che giudica viene forse messa in luce in modo ancora più chiaro. Indubbiamente in questo particolare passo la distanza dal pensiero filosofico di un Filone è lampante (cf. Deut. 3 2,34 s. e Leg. all. I o 5). L'intera testimonianza di Ebr. pone l'uo mo di fronte all'alternativa di accettare la graz ia del sacrificio di Cri sto o di rischiare, nella presunzione, di divenire vittima del giudizio di Dio. Proprio alla conclusione del ragion am en to maggiore la medesi ma conoscenza viene espressa ancora una volta con analoga incisività (cf. I 2,29).
La fedeltà nella lotta e nella sofferenza riceve la promessa incondizionata della vita (IO,J 2-J9) Ma richiamate alla memoria quei primi giorni in cui, essendo stati (ap pena) illuminati, avete sostenuto una grande e dolorosa lotta, 33 ora espo sti pubblicamente a insulti e addirittura a vessazioni, ora come compagni di sofferenza di coloro che venivano trattati in questo modo. 34 E avevate compassione dei carcerati, anzi accettavate con gioia la spoliazione dei vo stri beni, poiché riconoscevate voi stessi di avere un possesso migliore e duraturo. 3 5 Dunque non gettate via la vostra fiducia, che ha una grande ricompensa! 36 Infatti avete bisogno di perseveranza per compiere la vo lontà di Dio e ottenere la promessa. 37 «Ancora» «solo un po' di tempo» infatti, e «colui che deve venire verrà, non tarderà. 3 8 Il mio giusto però vivrà per fede, m a se indietreggia, la mia anima non si compiacerà in lui » . 3 9 N o i però non siamo d i quelli che «indietreggiando» arrivano alla rovina, ma mediante la «fede» alla salvezza dell'anima. 32
37a /s. 26,20. 37h.3 8 A b. 2,3
s.
39 Ab. 2,4.
Il monito a non cadere nell'apostasia non poteva restare inespres so, l'autore si sentiva tenuto a farlo. Tuttavia è significativo che imme diatamente dopo, come in 6,9 ss., vi sia un completo mutamento nei pensieri e nei sentimenti. La sezione successiva, vv. 3 2-3 9, intende de cisamente essere di incoraggiamento per rafforzare ciò che è debole e colmare di nuova fiducia ciò che è minacciato. In una frase di ampio respiro la comunità viene esortata a richiamare alla mente sempre (v. il presente) le prove sostenute un tempo: essa non può né deve dimenti3 .2. .
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care che all'inizio, non appena aveva aderito a Cristo, aveva dato buo na prova di sé in modo esemplare e ammirevole. Dalle considerazioni piuttosto minuziose si possono trarre alcune indicazioni sulle circo stanze precise della fondazione della comunità. L'autore conosce bene questi «primi giorni», ossia i tempi iniziali, poiché vicino o lontano che fosse vi aveva preso parte personalmente. Nonostante fossero sta ti appena «illuminati», cioè incorporati nella verità di Cristo mediante l'istruzione e il battesimo ricevuti ( 6,4), gli interpellati dovettero so stenere subito una prova dura e dolorosa (cf. I Tess. 2,2 ) dimostrando la necessaria perseveranza. È possibile che l'opposizione che dovette ro affrontare fosse originata dalla conversione alla fede cristiana. 3 3 · Questa ipotesi è appoggiata dalle indicazioni più precise che for nisce il v. 3 3, riguardanti «insulti e addirittura vessazioni» - ovvero umiliazioni psicologiche e materiali - subite allora, tanto più che evi dentemente non vi erano martiri da piangere. Per questo motivo è quindi assolutamente improbabile che i dati si riferiscano a una gran de persecuzione di stato, magari quella di Nerone. Quando inoltre è detto che gli interessati sono stati «esposti pubblicamente», l' espressio ne si riferisce a punizioni pubbliche, forse nell'ambito di competenza delle autorità giudiziarie cittadine (cf. I Cor. 4,9). I membri della co munità non direttamente coinvolti non avevano comunque esitato a dare prova di solidarietà fraterna, non abbandonando a se stessi tutti coloro che «così andavano per la propria strada» (cioè pieni di perse veranza). Per compassione e corresponsabilità furono loro vicini nel doloroso cammino. 34· Il v. 34 riferisce alcuni particolari. Condividendo le sofferenze dei carcerati, che avevano bisogno d'incoraggiamento e assistenza, essi hanno corso anche il rischio di essere a loro volta arrestati . . Inoltre si è sopportata con gioia la «spoliazione dei beni » . Questa annotazione, che allude alla confisca dei beni (cf. 4 Mace. 4, 1o), può forse essere spie gata meglio. Sappiamo che il rimborso delle spese derivanti alla comu nità cittadina da un procedimento penale era competenza del magi strato. La confisca dei beni o l'ammenda in denaro veniva stabilita da un verdetto di giurati con valore esecutivo. Tale sentenza poteva met tere a repentaglio la stessa esistenza del condannato. Talvolta vi era una certa attenuazione della pena se si era in grado di produrre una fi deiussione. Poiché le considerazioni di Ebr. sembrano coinvolgere tutti gli interpellati («spoliazione dei vostri beni»), non è escluso che
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La fedeltà nella lotta e nella sofferenza
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l'aiuto sia stato vicendevole, magari con un'azione del tutto sponta nea. Apprendiamo che i cristiani hanno accolto perfino con gioia la perdita dei loro averi, certi di un possesso più grande e perpetuo. Co me appaiono transitorie le ricchezze terrene, paragonate alle cose eter ne promesse da Dio! Anche solo con la scelta dei termini l'autore di mostra che per lui il mondo celeste è qualcosa di certo. 3 5. Ma la realizzazione della speranza resta comunque rimandata al futuro, al quale deve orientarsi ogni aspirazione. In fondo, l'eternità non è un bene spirituale scontato, come ritengono le varie concezioni filosofiche, bensì una promessa elargita alla fede. Essa rende liberi ri guardo al futuro e necessita dell'assoluta fiducia di chi la riceve in do no. Il Dio di Ebr. è una persona, non un essere eterno e impersonale. Anche solo per questo si può esser certi che adempirà le sue promesse in modo definitivo e completo. Che tale fiducia si basi sul sacrificio di Cristo si è appena tentato di dimostrarlo ampiamente. Se in 3,6 si invi tava a conservare la franchezza (fiduciosa) acquisita, ora - poiché se ne sa un po' di più - si esorta a non gettarla assolutamente via. Ebr. insiste su quello che non deve assolutamente accadere. Tutto il pregio della fiducia e della franchezza della fede cristiana emergerà in futuro, dove ci attende una «ricompensa grande». Si potrebbe anche pensare che il sacrificio che si chiede consiste in abnegazione e rinuncia, ma una cosa è sicura: comunque sia, Dio non si fa donare nulla, anzi, ri paga in sovrabbondanza. Non è mai l'uomo a presentare qualcosa di suo, in realtà è sempre Dio (v. anche Rom. 8, 1 8 s.). Ciò che si esige dall'uomo, che solitamente persegue con tanta tenacia i propri scopi, è semplicemente una perseveranza analoga. 36. Nel v. 3 6 si anticipa esplicitamente che questa è la volontà di Dio. per quanto riguarda la comunità. Perseveranza è qualcosa di più di semplice pazienza; indica uno sforzo di ricerca rivolto in avanti, mi rante a ottenere la ricompensa promessa e a prendere possesso dell'e redità (cf. al riguardo 1 1 ,39). «Promessa» qui non sta a indicare le pa role pronunciate, ma l'oggetto stesso dell'impegno. Nel seguito verrà descritta con una citazione tratta dalla Scrittura. 37· A dire il vero si tratta dell'unione di due profezie intese in senso messianico, /s. 26, 20 e Ab. 2,3 s. {anche Agg. 2,6 ?), la cui grande im portanza nella letteratura del tempo è attestata dalla frequenza con cui sono citate; probabilmente per questo motivo non vi è qui l'usuale formula di citazione. In questo contesto sono d'interesse solo l' accen-
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tuazione teologica nonché l'evidente vicinanza a Paolo, il quale mani festa un analogo profondo rapporto almeno con Ab. 2,4 (Rom. I , 1 7; Gal. J , I 1 ). Il frammento di versetto preferito da quest'ultimo, a prima vista non appariscente, rivela la dipendenza da una tradizione prece dente che si rifaceva principalmente a Ab. 2,3 . Il passo profetico risul ta essere la dimostrazione centrale dell'attesa messianica giudaica. Per Ebr. , Ab. 2,3 s. racchiude la quintessenza della promessa. Dove sta la garanzia che l'attesa giungerà a buon fine ? Con i vv. 37 s. viene data una risposta alla tormentosa domanda che è di una forza espressiva straordinaria. La perseveranza richiesta è in tensione tra il non -ancora e il presto. Solo in questo modo viene vissuta in modo corretto, pas sando tra Scilla e Cariddi senza cadere né nel fanatismo né nell'indif ferenza. Il «non ancora» (Ab. 2,3a; cf. Agg. 2,6) mira a preservare l'at tesa dei cristiani dal forzare il futuro. Il «brevissimo momento» (/s. 26,20) esorta a mantenere un atteggiamento di tensione. Dalla co munità cristiana ci si attende né più né meno di quanto si esigeva dalle generazioni di epoca profetica (cf. Ez. I 2,2 I ss.), benché la sua spe ranza sia fondata propriamente sul sacrificio di Cristo. Il v. 3 7a riba disce ciò che l'uomo deve sempre tenere a mente. Se anche tale affer mazione si basa chiaramente sulla convinzione della rivelazione finale ormai imminente, tuttavia manca (come in 3,7 ss.) una precisazione ulteriore su ciò che si attende dopo anni. E questo è tanto più notevo le dal momento che l'attesa dell'epoca aveva stabilito talvolta con e strema esattezza che il «momento» sarebbe durato circa quarant'anni (cf. 1 QpPs 3 7, 1 0). È importante osservare che sia con l' «ancora» sia con il «brevissimo momento» viene ripreso un vocabolario propria mente tecnico (cf. Filone, Leg. all. 2,69 ), che inserisce il lettore nella storia viva della speranza d'Israele (cf. anche Dan. 9, 1 9; Sir. 3 2,22). Egli deve essere saldamente condotto attraverso il pericoloso oscilla re tra tensione massima e delusione più profonda. Il nucleo della pro va scritturistica combinata è Ab. 2,3 b, che nel testo originario (T. M.) rimanda alla visione profctica (cf. Ab. 3 ). Nel pensiero protocristiano e ra diffusa l'interpretazione applicata alla seconda venuta di Cristo. Ebr. s'inserisce nella storia dell'interpretazione che è possibile docu mentare (cf. 1 Clem. 2 3 , 5 ; 50,4; Hipp., in Dan. 4, 1 0,4), e forse, insie me a Paolo, ne è proprio all'inizio. Il riferimento a «colui che deve venire», infine, si ritrova anche nella tradizione evangelica, dove tut tavia indica non il messia futuro ma il messia della profezia «arrivato »
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(cf. Dan. 7, 1 J ; Zacc. 9,9; Mal. J , I ; Sal. 1 1 8,26; al riguardo Mt. 1 1 ,3 par., Gv. 6, 1 4). In più stretto collegamento con l'interpretazione giudaica corrente, Ebr. ritiene invece che il passo scritturistico si riferisca al l'ultimo giorno del messia, che a motivo della sua intronizzazionc comparirà per giudicare e salvare. Egli giungerà all'improvviso, ritor nerà sicuramente. In conformità con la speranza giudaica, qui è più in discussione il mancato ritorno che non il ritardo della venuta: ma in entrambi i casi bisognerebbe presupporre la convinzione di un termi ne fissato dalla volontà divina. Solo e soltanto Dio conosce il momen to della rivelazione fi nale e proprio per questo esso è una realtà certa, sempre minacciosamente vicina. Perciò per l'uomo ne deriva la neces sità di essere costantemente pronto e preparato. 3 8. A fronte di questa esigenza irrinunciabile, Ab. 2,4 è stato ripreso per intero nel v. 3 8 e subito inserito. Posponendo Ab. 2,4a a 2,4b, il testo originario è stato reso più comprensibile, dal momento che l'e spressione «indietreggiare» si riferisce ora chiaramente al giusto. A ciò si aggiunge che la versione dei LXX «ma il giusto vivrà per la mia fe de» riceve un nuovo particolare senso dallo spostamento di «mio»: «Ma il mio giusto vivrà per la (a motivo della) fede» . Ebr. si avvicina così maggiormente al senso del testo originario. La fede non è intesa come un'entità a sé stante, supplementare, di cui il credente avrebbe bisogno, ma nel pensiero di Ebr. indica l'atteggiamento di fondo in base al quale agire e sperare. Non è considerata primariamente un do no, come in Paolo, l'opposto delle opere meritorie, ma piuttosto come atteggiamento personalissimo di profonda fiducia. Chi confida nella promessa di Dio ( «il mio giusto») conserverà la certezza della fede rag giungendo così il fine ultimo, la vita di Dio nella nuova realtà promes sa. Il pericolo che corrono gli ascoltatori non è quello della giustizia secondo la legge ma senza la fede, giustizia contestata da Paolo, bensì quello del «cedimento» e del «venir meno», ossia lo scoraggiamento e l'abbandono. Stand o alle sue parole precise, Dio non si compiace af fatto di un tale atteggiamento. Proprio l'uomo che conosce Dio do vre h be essere ricolmo di una fiducia indomabile e radiosa. 3 9· Come per rafforzare il concetto si ha poi il v. 3 9 che intende pre cisare che cosa non si deve né, in fondo, si vuole fare. Si ha così un'in terruzione quasi improvvisa dell'esortazione, finora piuttosto insisten te, per esprimere nel linguaggio più semplice ciò che ha validità e dun que va osservato come norma di comportamento. A che scopo allora
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continuare con altre esortazioni, che in fondo sono tutte del medesi mo tenore ? La fedeltà di fede ha come scopo la «salvezza dell'anima», concessa da Dio, al quale perciò comunque appartiene. Pare quasi che si alluda a un noto det fO di Gesù (cf. Mc. 8,3 5 parr.). Il «noi» inten zionalmente adottato al termine della riflessione evidenzia la solida rietà di E br. con la sua chiesa. Essa si fonda sulla consapevolezza di una esperienza e una promessa fondamentali. Ebr. non intende essere solo una guida, un predicatore morale per la sua comunità, ma se ne sente anzitutto compagno di strada e di fede. Emerge qui la risolutezza di uno spirito energico, che sa come coinvolgere gli incerti e i titubanti.
Sin dal tempo antico esiste una storia esemplare della fede dei p a dr i ai quali era nota la promessa della nuova Sion ( 1 1 , 1 -40) ,
Sorprende la compattezza del capitolo che offre un elenco di testi moni eminenti della fede nel quadro di una visione storico-salvifica. Non deve tuttavia trarre in inganno, inducendo a interpretare le sin gole trattazioni, che sono strettamente collegate fra loro dal punto di vista tematico, dimenticando il contesto più ampio. Che il capitolo non sia a sé stante è dimostrato sia dal richiamo al concetto di fede di Ab. 2,4a in I o,J 8 sia la sintesi conclusiva dei vv. I 1 ,39 s. In questo lunghis simo staccato, che mette in evidenza con un ritmo volutamente mono tono la frase tematica «per fede» (ripetuta in tutto I 8 volte, oltre a di verse variazioni) per illuminarne i molteplici aspetti, la tensione cresce sino a sfociare in un ragionamento di incisività elementare (la cosid detta anafora). Quasi automaticamente l'ascoltatore doveva sentirsi parte vivente di una storia della fede iniziata in tempi remotissimi; uscirne fuori non poteva non apparirgli un grave sacrilegio, in quanto si vedeva condotto a una profondità tale di conoscenza in cui Cristo, l'eterno sommo sacerdote assiso alla destra di Dio (cf. Sal. 1 I o, I ), do veva apparirgli quasi inevitabilmente come inizio e fine di tutta la sto ria di Dio nel mondo e con il mondo ( 1 2, I s.). È chiaro che l'autore, con sapiente abilità retorica, si avvicina sempre più al punto conclusi vo dell'omelia che racchiude un'ultima testimonianza. 1 s.2- 1 2. La suddivisione della vasta unità non presenta alcuna diffi coltà. Dopo una definizione pro grammatica di fede in I I , I s., che mette in risalto uno degli aspetti tipici per la concezione generale, nei vv. 2-7 fa seguito la presentazione dell'atteggiamento dei padri fino a
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1 1,1-40. La storia esemplare della fede dei padri
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Noè incluso. Nei vv 8 - I 2 trova accurata trattazione Abramo che in troduce un'epoca nuova. È consigliabile leggere insieme i vv. 2- 1 2, che costituiscono un primo approccio al tema prima della sezione centrale dei vv I 3 - 1 6. L'evidente suddivisione per importanza non dà certo il diritto di porre una cesura più marcata dopo il v. 8. Potrebbe però es serci l'eco di una concezione tardogiudaica, secondo la quale l'umani tà fino a N o è dev'essere sottoposta a un giudizio a parte (cf. Hen. aeth. 92, 1 ss.; I Pt. 3 , 1 8 ss.). Specialmente dalla testimonianza di Paolo ap prendiamo che nella figura di Abramo egli vedeva un inizio comple tamente nuovo della storia della promessa di Dio (cf. Gen. I 2, I ss.). Parallelamente nei vv 8- 1 2 Abramo è proprio al centro della rifles sione. In qualità di «padre della fede» la sua figura non manca in nes sun elenco di credenti esemplari (cf. I Mace. 2, 5 2; 4 Mace. 1 6,20 ss.; in particolare Filone, Rer. 90 ss.; Virt. 5 ; Praem. 24 ss. ecc.). 1 3- 1 6. Nei vv I J - 1 6 si avvia una breve riflessione sul significato della fede nei padri precedentemente citati, i quali poterono vedere, ma non conseguire i beni promessi. Forse guardando già al cap. I 2 si ribadisce ancora una volta che Dio ha preparato una città futura agli antenati. I patriarchi !sacco, Giacobbe e Giuseppe, Mosè e il suo tem po come pure gli inizi della conquista della terra forniscono il materia le dimostrativo per il successivo ampio ragionamento dei vv. I 7-3 1 . 1 7-3 1 . All'interno d i questa sezione assumono una certa importan za i vv 24-29, sull'opera e il tempo di Mosè. Senza voler strutturare rigidamente ciò che emerge dai successivi vv 30 s., a quanto pare Ebr. era completamente d ominato dalla volontà di accumulare fatti su fatti per poi interrompersi bruscamente, quasi esausto: «Che dirò ancora?». Osserviamo che con i vv. 30 s. affronta una tappa della storia d'Israele che già all'inizio ( 3 ,7 ss.) aveva avuto un ruolo importante. Inoltre era più opportuno non continuare a esporre in ogni particolare la storia della fede del suo popolo oltre a quanto era riferito nel Pentateuco. E comunque Ebr. non si sente in grado di proseguire con la minuziosità adottata inizialmente, essendo i racconti della sacra Scrittura sempli cemente troppo imponenti. Dal momento, però, che ora tutto dipende da una storia della fede che giunge fino al presente, si ha un'ulteriore sezione, la terza. 3 2-3 8.39 s. La carrellata storica continua ora a rapidi tratti nei vv 3 2b-3 8. Il ritmo del linguaggio in questa parte conclusiva è scelto di versamente. Lo stile pesante lascia il posto a una frenesia quasi febbri.
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L'interpretazione del cap. 1 1
le. In luogo di frasi particolareggiate già al v . 3 3 compaiono brevi ac cenni concisi. I vv . 3 5 s. si presentano come una sintesi. Nel v. 3 7 compaiono addirittura solo espressioni e concetti frammentari che il lustrano in modo fulmineo la storia della fede fino all'epoca più recen te. Dopo una tale variopinta quantità di aspetti evidenziati, l'autore si costringe nuovamente alla calma e nel v. 3 8 tenta di trarre le prime conclusioni. Sorprendentemente si tratta di una constatazione negati va. L'esito vero e proprio, di una certa importanza per lo svolgimento principale dei pensieri è riassunto nei vv. 3 9 s.
L'interpretazione del cap. 1 1 . Non è possibile dare una risposta definitiva alla questione di quanta parte del cap. 1 1 rappresenti la rie · laborazione di materiale tradizionale preesistente. n materiale offerto presuppone essenzialmente la testimonianza dell'Antico Testamento, sicuramente filtrata e modellata dall'interpretazione scritturistica ag gadica del tempo. I paralleli ad esso più prossimi possono essere ri scontrati in Filone. La quantità di contatti non ci sembra esigua, cosa che hanno ammesso anche diversi recenti lavori, seppure per trarre, ovviamente, conclusioni differenti (cf. C. Spicq, R. Williamson). Cer to si spingono troppo o l tre gli esegeti che sostengono di trovarsi da vanti a un preciso «testo didattico)) rielaborato. È molto più semplice arrivare a chiarire le cose partendo dalla forma, dal momento che an che altrove, nella letteratura tardogiudaica e del primo cristianesimo, si trovano elencazioni analoghe. Sembra che venissero prescelte in particolare a scopo d'insegnamento. Il materiale didattico stesso non era certo fissato, anche se nella mistica giudaica l'idea di una succes sione dei giusti e dei pii d'Israele dovrebbe aver messo radici piuttosto presto (cf. Iub. ; Ps . Filone, Liber Antiquitatum Biblicarum; Grotta del tesoro siriaca ecc.). Il cristianesimo, consapevole di essere alla fine del cammino della storia di Dio con il suo popolo (cf. Le. 3 ,23 ss.), naturalmente vi ricorre anch'esso per scopi catechetici (cf. Atti 7, 1 ss.; 1 Clem. 9 ss.; Iren., Annuncio Apostol. 1 7- 3 0; Const. Ap. 8 , 1 2 ecc.). Parimenti era naturale servirsi dello schema di un tale elenco nel qua dro della predicazione alle comunità (cf. in particolare Afraate, Sulla fede ecc.), con la possibilità di arricchirla così con dotte e fondamentali notazioni bibliche. Sembra che sia stata specialmente l'omelia pa squale a portare avanti tale tradizione, visibile anche in Ebr. , sullo sfondo di una scelta evidentemente ampia di lezioni (cf. Mel., Pass. 69
Ebr.
1 1 ,1 s. Le verità ultime si disvelano solo alla fede
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ss. 8 3 ss. ecc.). In questo ci si orientava sempre ai tempi del rapporto privilegiato con Dio e alle figure principali della storia della salvezza. Sarebbe da approfondire altrove se questa tradizione possa spiegare la particolarità linguistica del più volte utilizzato perfetto dell'allegoria. Lo ritroviamo infatti nei seguenti passi: il sacrificio di Abele, v. 4; l'im molazione d'Isacco, v. 1 7; l'istituzione dell'agnello pasquale, v. 2 8 . È indubbio che con la scelta del perfetto viene evidenziato il significato simbolico dei tre sacrifici per l'evento di Cristo, per definire anche la storia della salvezza come storia del significato nascosto del sacrificio di Cristo. Tuttavia è altrettanto possibile che usando il perfetto si vo lesse stabilire un rapporto immediato con la situazione liturgica del culto rappresentato, in quanto si poteva ritenere di trovarsi in una certa coincidenza temporale con i sacrifici menzionati. Crediamo si gnificativo che tanto nella tradizione giudaica quanto in quella cristia na la datazione dei due primi sacrifici risulti documentabile al tempo della solennità rispettivamente della pasqua e della pentecoste. Se ciò consenta illazioni riguardo al Sitz im Leben della nostra omelia do vrebbe essere una questione da sollevare almeno come ipotesi. Le verità ultime si disvelano solo alla fede ( 1 I, 1
s.
)
1 Ora fede è la realtà di ciò che si spera, la convinzione di cose che non si vedono. 2 Per mezzo di essa infatti gl i antenati (= «antichi») ricevettero con ferma testimoniate.
La pericope I o, I 9-3 9 è chiaramente incorniciata da un'esortazione alla fede. In 1 0,22 l'invito è ad accostarsi nella «pienezza di fede)), mentre in 1 0,3 8 vi è la testimonianza della Scrittura stando alla quale il giusto per fede ha la promessa che vivrà secondo il compiacimento di Dio. Sia l'esortazione che la promessa hanno bisogno di una motiva zione più precisa - così ritiene Ebr. In fondo, ogni riflessione deve te ner conto della correlazione tra fede e ragione. L'autore colma il ben noto salto tra le due ponendo un pilastro dopo l'altro in una succes sione di esempi nella quale ogni testimone della fede ha una sua im portanza particolare all'interno del contesto più ampio. Il complesso di tutti gli esempi relativi alla fede fornisce la base per una fiducia in crollabile e per una speranza certa, la quale, come un ponte saldamen te gettato, consente all'uomo che lo attraversa di giungere alla Gerusa lemme celeste.
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Il concetto di fede della lettera agli Ebrei
1 . Per dare una chiara indicazione dell'obiettivo che si vuole raggiun gere con la dimostrazione che si basa su di un «nugolo di testimoni» ( 1 2, 1 ), all'inizio di questo capitolo, che è il più lungo di tutta l'omelia, troviamo una sentenza fondamentale sulla natura della fede. Essa cer to non racchiude una definizione compiuta e scolastica, perfetta sotto ogni aspetto, ma come definizione pregnante e sicuramente tipica non può essere sottovalutata. In I 2,2 Cristo è detto «iniziatore>) e «perfe zionatore» della fede. Egli incorpora, per così dire, l'atteggiamento di fondo, dal quale dipende tutta la storia dell'uomo, nella sua forma iniziale e in quella finale, compiuta. .1. La correttezza della definizione fornita è subito precisata al v. 2 con un accenno generico agli antenati (= «antichi») che per la loro fe de ricevettero da Dio una testimonianza a loro favore, a conferma che il loro atteggiamento legittimamente li rende validi esempi normativi e venerabili modelli di fede. Il concetto di testimonianza non mira solo a un atto storico, ma anche si riferisce chiaramente alla situazione pre sente degli ascoltatori.
Il concetto di fede della lettera agli Ebrei. Dalla magistrale e me morabile definizione di I I, I traspare, inconfondibile, un'impostazio ne di chiara matrice filosofica. La fede non è evidenziata in primo luogo, come ad es. in Paolo, come dono dell'epoca messianica e mez zo di giustificazione «per amore di Cristo», così da essere fiducia nel Dio della grazia. In Ebrei la fede indica piuttosto la realtà vera di ciò che è invisibile; più precisamente, non è un'opinione incerta, bensì quanto vi è di più certo e fermo; non è l' opinabilità di un qualcosa di possibile, bensì la realtà di ciò che si spera; non è un qualcosa di appa rente, bensì è la verità ultima. Questo modo di vedere le cose, comple tamente diverso rispetto a Paolo (è assente anche la caratteristica al ternativa «per le opere» o «per fede»), non sa che cosa sia il dubbio. Qui non si esprime il teologo cristiano in lotta con il fariseismo, bensì il pensatore cristiano che elabora il suo messaggio nel quadro di una concezione filosofica del mondo. L'orizzonte del confronto di pen siero è evidentemente ampio e generale. Non si tratta qui della forma cristiana della fede, bensì della fede in sé in quanto possibilità preco stituita, anche se sempre in rapporto alla realtà di Dio e da essa dipen dente. La fede non è associata alla rivelazione come se fosse l'organo deputato a coglierla, bensì è il luogo che le è proprio per eccellenza.
Il concetto di fede della lettera agli Ebrei
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La fede non è né un sentire soggettivo né un atteggiamento razionale; essa comprende la sostanza della realtà sperata. In quanto prova della realtà impercettibile che, in linea con la testimonianza globale, è pur sempre, in ultima analisi, la realtà personale di Dio, la fede ha il carat tere di garanzia incrollabile e incontestabile. Essa dà fondamento alla realtà delle cose future; non è neppure convinzione soggettiva, bensì un convincimento dovuto a fatti reali, ma non verificabili con gli oc chi. Il tentativo al v. I di definire la natura della fede apre una doppia prospettiva che rappresenta l'unica chiave per capire appieno gli esem pi successivi. La prima espressione di rilievo sottolinea il significato della fede in riferimento a quel lato d eli' esistenza umana che è rivolto verso la speranza; la seconda presenta la fede come criterio per vedere il mondo e per accettare l'esistenza. Il termine greco tradotto con «real tà)) (hypostasis) intende evidenziare ciò che, per così dire, esiste già in precedenza. Quando poi si dice che fede (la mancanza d eli' articolo ha valore enfatico) «è)) o, meglio, «contiene)) ciò che si spera, sembra lo gico attendersi una posizione che vada contro l'esperienza e contro la natura; che corrisponda all'assurdità del comportamento e prenda quindi sul serio il fatto del paradosso. Anche la seconda espressione si confronta con il problema dell'irrazionale, in quanto precisa che la fe de pone e segue criteri diversi, perché esiste una convinzione dovuta proprio a una realtà che non può essere colta con gli occhi, anzi che sembra essere contraria alla realtà visibile. A quanto sembra, E br. è estremamente interessato al problema gno seologico, il che lo avvicina molto a Filone. Questi può scrivere infatti (Praem. 5 8): « Chi confida veramente in Dio ( = crede in Dio) ha rico nosciuto che non ci si può fidare di tutte le altre cose, che sono create c corruttibili ... Ma chi riesce a guardare oltre a tutto ciò che è corpo reo e a tutto ciò che è incorporeo, e a passarvi oltre, trovando solido sostegno in Dio soltanto, con salda comprensione e fiducia incrollabi le e immutabile, allora egli è realmente felice e può esser detto beato>>. Da queste parole risulta che anche Filone ha cercato una risposta nella natura paradossale e assurda della fede. Quando ci si volge a Dio con fede, ciò che è incerto si trasforma in certissimo, anzi nell'unica cer tezza; e proprio ciò che per l'occhio appare il più certo, in realtà si di mostra essere assolutamente inaffidabile. In Filone, dunque, la rispo sta al problema della conoscenza e la risposta al problema della vita coincidono; con la fede vengono o vinte o perse insieme (Rer. 93 s.).
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Come Filone, anche Ebr. mostrerà, nel resto del capitolo, la verità del le cose conosciute adducendo l'esempio dei padri, prima di tutti quel lo di Abramo. L'affinità di pensiero dei due autori è evidente anche se, certamente, lo scopo ultimo della fede, come insegna la storia dei suoi rappresentanti raccontata qui di seguito, viene descritto da Ebr. nel modo che gli è peculiare. Per quanto indiscutibile sia l'affinità del suo pensiero con la filosofia alessandrina di stampo filoniano, tuttavia es so è c aratt erizz ato dal nuovo riferimento alla verità di Cristo. Anche chi s'interessa di filosofia sa già che la fede è una possibilità dell'uomo che però trascende sempre la sua capacità personale: «Chi ha la fede non è in grado di definirla, e per chi non ce l'ha, l'ombra della sventu ra grava sulla sua definizione» (F. Kafka). L'uomo biblico conferma che la fede non può assolutamente prescindere dalla realtà di Dio e dalla sua azione salvi fica. Se non se ne ha l'esperienza non è possibile parlarne o testimoniarla; ma ap partiene certamente al contenuto più specifico della testimonianza cristiana che la fede abbia una storia che si svolge nel segno del sacrificio, nella quale Gesù abbia un posto di primo piano in quanto «iniziatore» e «perfezionatore» della fede ( 1 2, 1 ) , in modo tale che ne derivi la certezza di una «chiamata celeste» .
Già gli inizi della storia umana erano storia della fede ( 1 I,J - 1 2 ) 3 Per fede noi sappiamo che i mondi furono approntati per mezzo della pa rola di Dio, così che la realtà visibile non ha avuto origine dalla realtà per cepibile da occhio umano. 4 Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio miglio re di Caino. Grazie a essa ricevette la testimonianza di essere giusto, aven do Dio accettato «i suoi doni» e per essa, benché morto, continua a parla re. 5 Per fede Enoc fu rapito perché non vedesse la morte, e «non lo si tro vò più perché Dio lo aveva portato via». Infatti prima di essere rapito in cielo ricevette l'attestazione di «essere stato gradito a Dio»; 6 ora, senza fede è impossibile piacergli. Infatti colui che vuole accostarsi a Dio deve cre dere che egli esiste e che ricompenserà coloro che lo cercano. 7 Per fede Noè, essendo stato avvertito di cose che ancora non si vedevano e avendo ne avuto timore, costruì un'arca per la salvezza della sua casa; per questa fede condannò il mondo e divenne un erede della giustizia che è conforme alla fede. 8 Per fede Abramo, dopo essere stato chiamato, obbedì e partì per un luogo che doveva ricevere in eredità, e «si trasferì» senza sapere dove sarebbe andato. 9 Per fede «si stabilì» nella terra della promessa che per lui era come una regione straniera, abitando in tende insieme ad !sacco e Gia cobbe, i coeredi della medesima promessa. Io Egli aspettava infatti la città
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dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio. 1 1 Per fede anche Sara ricevette il potere di fondare una discendenza, e questo nono stante la sua età avanzata, perché ritenne verace colui che aveva promesso. 12 Per questo da un uomo solo, e anzi da un uomo senza più potenza, pro vengono quelli che sono «numerosi come le stelle del cielo e come la sab bia del mare, che è innumerevole». 4 Gen. 4t4b. s Gen. s,z4. 8 Gen. 1.2., 1 .4. 1 .2. Gen. 11, 1 7; I 5,5; anche Gen. J 1, I J . 3 · La serie di esempi ha inizio con una verità fondamentale, formu lata volutamente in prima persona plurale, che riprende e sviluppa la tesi espressa al v. I h , affermando che i mondi, o meglio le epoche del mondo, gli eoni, sono stati formati dalla parola di Dio, il che può es sere riconosciuto solo dalla fede. Profondamente attento al problema gnoseologico, Ebr. indirizza subito ogni riflessione al primo inizio di tutte le cose. Per penetrare il mistero della creazione è necessaria quel la presa di posizione personale che coglie la verità partendo da una pro spettiva di fede. Senza questa non conosceremmo altro che l'esistenza materiale, le cose che i nostri occhi possono sì vedere, ma che non rap presentano la vera realtà. Se Dio ha creato il mondo (cf. Gen. I , 1 ss.: «e Dio disse»), che è visto come grandezza di successione temporale, allora la ragione ultima non è ciò che possiamo cogliere con i nostri sensi ma la sua parola e la sua volontà. Esse possono essere acquisite come realtà solo con la fede. In maniera straordinaria Ebr. riesce ad andare subito oltre una sterile e formale elencazione di fatti e persone. La storia della fede non scorre accanto agli ascoltatori senza sfiorarli, ma riguarda la questione fondamentale della vita umana e quindi la «nostra» esistenza. Una certa difficoltà è creata dalla negazione nella frase consecutiva: se non viene riferita all'intera frase, ma solo al con cetto della «apparenza percepibile», ammette anche la traduzione «sÌ che da cose non visibili ha avuto origine ciò che si vede». Tuttavia è da preferire la traduzione da noi proposta, in quanto giustifica al meglio la posizione del « non». Dalla concettualità emerge inoltre una certa vi cinanza a Filone, il quale può egualmente operare una distinzione tra «mondo (spirituale) riconoscibile» e mondo «percepibile» (Conf 1 72), indicando nel primo l'archetipo del secondo. Anche nel suo pensiero la parola di Dio ha indiscutibilmente un posto particolare in quanto grandezza creatrice e ordinatrice. È invece singolare riscontrare che per lui la creazione è intesa in modo platonizzante come risultato di un processo evolutivo in discesa che procede per lo più a tappe. L'ini-
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zio biblico è qui mantenuto in modo tale che la «parola» non si perde, come nel pensiero gnostico, in una materia non divina, dalla quale de ve poi essere liberata. E br. affascina piuttosto con la grande semplicità della sua dichiarazione, palesemente assai vicina alla testimonianza della Bibbia. L'alternativa, proposta dall'interrogativo riguardante gli inizi, non appare risolta in modo speculativo, ma è intesa come de ci sione spettante alla fede. E questo tanto più che per l'autore in fondo la «parola di Dio» si identifica con la parola dell'eterno Figlio di Dio, il quale «sostiene>> ( 1 ,3) l'universo per suo mezzo. Nel passo qui con siderato, il mondo è visto in maniera più accentuata nella sua artico lazione periodico-temporale. Veniamo a sapere che esso non solo è creato, ma è anche «approntato» in vista di uno scopo. 4· Alla fede, che ha il suo compimento in Cristo, spetta un compito sostanziale, e nel v. 4 questa convinzione è sostenuta subito e aperta mente. Come primo esempio Ebr. cita Abele, che offrì un sacrificio più prezioso rispetto a quello di Caino. La sua fede è dedotta dal racconto biblico (cf. Gen. 4,4 s.). Significativamente egli è presentato come «ti po» del sacrificio di Cristo. La sua maggiore prontezza a donare in contrò il compiacimento di Dio il quale per questo motivo «guardò ad Abele e ai suoi doni », ma non a Caino. Andando oltre il racconto biblico e considerando la reazione di Dio, Ebr. parla di una «testimo nianza» (v. 2). Dio, infatti, si è pronunciato, quale giudice incorrutti bile, in favore di Abele, il quale dunque è la figura alla quale bisogna ispirarsi. Dio attestò di lui che era un «giusto», appellativo corrente nel giudaismo tardo (Giuseppe, Ant 1,2, 1 ; Asc Ies. 9,28; Mt. 2 3 ,3 5 ecc.), visto che la tendenza quasi universale era quella d'interpretare la sto ria umana, a partire dalla caduta di Adamo, con le categorie di « buo no» e «cattivo», «giusto» ed «empio>> . La fede di Abele ebbe inoltre come conseguenza che egli, pur essendo stato ucciso, incredibilmente continua ancora a parlare. Questa convinzione, che ricalca Gen. 4, 1 0 (cf. anche Hen. aeth. 22,7; Test. A br. 1 1 ,2), evidentemente ritiene che A bele, a differenza di tutti gli altri uomini, non è ammutolito nella morte; grazie alla sua fede gli è invece consentito di vivere ancora per presentarsi a Dio come intercessore a favore di altri giusti (cf. Apoc. 6, 9 ss.). È significativo che lo stesso pensiero si ritrovi anche in Filone (Deter. 48.70). Stando a Ebr. 1 2,24, la sorte di Abele ne fa il modello diretto di Cristo. Anch'egli in un certo modo può essere considerato «iniziatore» della fede in questo mondo. .
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S· A differenza di Abele, Enoc non dovette morire. Come ritiene una vasta tradizione che si rifà a Gen. 5,24 (lub. 4, 1 7 ss.; Hen. aeth. 1 , 1 ss.; Sap. 4 , 1 4 ss. e molti altri), Enoc venne rapito e portato direttamente in cielo, o più precisamente in paradiso (Iub. 4,23; Iren., Haer. 5 , 5 , 1 ) a causa della sua particolare religiosità (Sir. 49, 14). La credenza popola re spiegava questo evento affermando che Dio lo custodiva per affi dargli un compito futuro, alla fine dei tempi (Hen. aeth. 70 s.). Che già mentre era in vita Enoc fosse gradito a Dio viene spesso ribadito nei Settanta (Sir. 44, 1 6; Sap. 4, r o); nella tradizione è immancabilmente pre sentato come «giusto» (cf. ad es. 1 Clem. 9,3 ; Tanh. Bemidbar 32). 6. La sua condotta religiosa esemplare è riassunta da Ebr. nel con cetto di fede, e il v. 6 prova con un assioma la correttezza della dedu zione, che, tra l'altro, è quanto mai vicina alla posizione di Paolo: se Enoc riuscì ad arrivare fino a Dio, ciò fu reso possibile, evidentemen te, solo per la fede, poiché in altri modi non è possibile avvicinarglisi, alla lettera «accostarsi a lui» (4, 1 6; 7,2 5; 1 0, 1 ecc.). D'altra parte biso gna sapere che Dio premia senz' altro la ricerca sincera dell'uomo pio; pur punendo il male, Dio soprattutto premia il bene. Come Ebr. , an che Filone evidenzia l'idea dell'uomo «gradito», intendendo in un dop pio senso il «cambiamento» di Enoc che sarebbe passato dalla vita cat tiva (peccaminosa) a quella migliore (Abr. 1 7 ss.), dalla «vita mortale » a quella «immortale » (Mut. 3 8). Tuttavia i n Filone manca totalmente quel tipo di considerazione che alla morte oppone in modo radicale la fede. Mentre Filone tenta di dare un'interpretazione del rapimento, Ebr. si sente libero di prendere sul serio la morte come la vita. 7. Come terzo testimone tratto dal numero degli antenati viene men zionato Noè, il cui comportamento è brevemente descritto con ri guardo alla definizione del v. 1 e includendo la testimonianza biblica di Gen. 6, 1 3 ss. N e risulta una presentazione assolutamente tipica per quanto riguarda l'interpretazione contemporanea. Noè è universal mente considerato il «predicatore della giustizia» (2 Pt. 2, 5; Filone, Rer. 26o). Noè è esemplare perché per fede costruì l'arca, benché que sto apparisse senza senso agli occhi umani e sebbene il «timore» per la sciagura imminente dovesse risultare paralizzante. La fede inoltre gli diede la forza di annunciare il giudizio a una generazione indifferente e ostinata. Infine la fede fu il motivo vero per cui egli divenne l' «ere de» di una giustizia secondo la fede. Questo sta evidentemente ad in dicare che egli rientra nel numero dei giusti più importanti del mondo
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nuovo di Dio. È possibile che qui riecheggi Gen. 6,9. Filone sottolinea la particolare posizione di Noè osservando che egli è il primo essere umano a essere detto «giusto)) nella sacra Scrittura (Conf 90). Era dun que opportuno rendergli omaggio quale prototipo di una «giustizia adeguata alla fede)) (Sir. 44, I 7: «un giusto perfetto))). Sia dal punto di vista linguistico che tematico vi è una certa vicinanza a Paolo (Rom. 4, I I . I J ; 9,30; Io,6). Quando questi parla di «giustizia)), intende sem pre un tipico momento strutturale del tempo di Cristo, mentre Ebr. pensa a una rettitudine esemplare; Paolo vede la «giustizia)) come do no, E br. come compito. È indubbia la vicinanza del secondo al pensie ro proprio della scuola biblica giudaica. 8. Con i vv. 8 ss. l'attenzione si sposta su Abramo e i patriarchi. Si può osservare la tendenza a fornire resoconti più brevi, visto che alla testimonianza resa loro da Dio si accenna sommariamente solo ai vv. I 3 ss. Conoscendo l'importanza dei patriarchi, l'esposizione si sforza di mostrare del loro comportamento esemplare solo le circostanze che ne comprovano la fede, tanto più che esisteva ampio materiale da cui trarre spunto. Dal piano verticale della storia della salvezza l'attenzio ne si sposta ora su quello orizzontale per indugiare alquanto sulla fi gura di Abramo, il «padre della fede» ( 1 Mace. 2, 5 2; 4 Macc. 1 6, 2 0 ss.; Filone, Rer. 90 ss.; Virt. 5 ; Praem. 24 ss.). Se c'era un qualche perso naggio dell'Antico Testamento il cui esempio non poteva restare igno rato, questo era proprio Abramo, la cui fede è esplicitamente menzio nata nella Bibbia in Gen. I 5 ,6. Tuttavia è significativo che ancora una volta Ebr. , a differenza di Paolo, non faccia riferimento a tale passo. Ad interessarlo non è la fede che viene accreditata come giustizia (cf. Rom. 4, I ss.; Gal. 3 ,6 ss.), bensì quella che riempie e condiziona la vi ta. La questione riguardante la relazione vitale esemplare trova una prima risposta nell'accenno all'obbedienza assoluta intesa nel senso del v. I b. Il patriarca ne avrebbe dato prova seguendo incondizionata mente la chiamata di Dio che lo mandava verso il luogo sconosciuto di un'eredità promessa (Gen. I l, I ss.). In un'ulteriore osservazione viene fatto notare che Abramo è stato tanto obbediente da mettersi in cammino verso l'ignoto. Stando a Gen. 1 2,7, egli apprese solo a Si chem che Dio intendeva dare a lui e alla sua discendenza proprio quel paese. Allo stesso modo anche Filone può esaltare il carattere assurdo e unico di un atteggiamento che confida solo in Dio (Abr. 62 ) . 9· Per lui è assolutamente da sottolineare anche la fede di Abramo,
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ricolma dell'attesa del futuro (Migr. 1 ss.), in quanto ogni cosa dipen de dalla perseveranza nel non mancare l' «altro luogo» cui mira la vita (Migr. 43 .46). Per Ebr. la fede del patriarca non acquista concretezza nell'ascesi o nella saggezza, bensì nell'adempimento del prototipo ce leste concretizzato nella terra di Canaan (v. 10). La fede del patriarca si manifestò sia quando partì, sia nella «terra promessa», che nono stante ogni assicurazione a lui doveva apparire solo «come una regio ne straniera» (cf. Gen . 1 7,8; 20, 1 ; 2 I ,23 .34; 24,37 ecc.). Avvezzi a un tipo di vita nomade, Abramo, il figlio !sacco e il nipote Giacobbe (cf. Iub. 1 9, I 5 ss., Gen. 3 5 , I 2) non vi abitarono mai veramente come in un saldo possedimento (cf. anche Filone, Conf 75 ss.). Di conseguenza condussero una vita esemplare sempre all'insegna della prccarietà: sim boli del peregrinare terreno, uomini tra due mondi, modelli di esisten za escatologica. Ancora una volta trova espressione la convinzione che la terra di Canaan sia allusione al mondo eterno e incorruttibile (v. già 3,7 ss.), il solo ad avere stabilità definitiva. O, per dirla con Fi lone, la vera patria, nella quale la peregrinazione diventa «riposo)), si trova davanti a noi, ragion per cui è indispensabile la fede, nel senso di perseveranza. Per Ebr. , invece, la condotta dei patriarchi non è solo richiamo alla patria celeste, quanto piuttosto prova della grande cer tezza della sua esistenza. 1 0. Il v. Io vi applica l'immagine della città saldamente fondata, crea ta da Dio che ne è architetto e costruttore (Filone, Mut. 29 s.). Quindi l'ha progettata ed edificata lui. A differenza delle frasi che seguiranno in 1 3 ss., in un primo tempo si afferma solo che Abramo ne ha fatto l'oggetto della propria attesa. Come emergerà poi da 1 2,22, la città si identifica con la Sion celeste, di cui anche la comunità di Ebr. è in ri cerca ( I 3 , I 4). Ripetutamente menzionata e descritta nella letteratura rabbinica e apocalittica come bene ultimo della speranza d'Israele (Tob. I J,9 ss.; Hen. aeth. 90, 59; 4 Esd. I o,26 s.5 5; Bar. Syr. 3 2,2 ss.; 1 oQPsa Sion; 2Q24 e molti altri), la città di Dio ultraterrena, il cui splendore e pienezza di vita vanno al di là di ogni concezione umana (cf. Gal. 4,26; Apoc. 2 I , I ss. ) , è oggetto anche deli' attesa ansiosa e im paziente della prima comunità cristiana. Quella che normalmente va intesa come espressione metaforica di una comunione ultima tra Dio e l'uomo viene inoltre descritta come la città che ha salde fondamenta, simbolo di una fondazione perpetua e incrollabile. Essa si manifesta come perfetta controparte della tenda terrena per essere quintessenza
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di quella realtà che sola è durevole (1 1 , 1 ) . La conosce la fede vissuta come pellegrinaggio. Anche Filone, in stile stoico, può descrivere al meno il mondo come città cosmica del creatore (Op. 1 7 ss .). Essa è per lui l' «idea del costruttore che progetta l'edificazione di una città» (Leg. all. 3,8 3 ss.). Ebr. ricerca quella meta futura che, come luogo della per fetta comunione con Dio, in ultima analisi e parlando fuori metafora s'identifica con il creatore stesso. In questo modo Ebr. non ha riatti vato il mito che Filone aveva, certo a suo modo, demitologizzato me diante la riflessione filosofica, ma l'ha interpretato come primordiale ricerca di Dio da parte dell'uomo. I I . Che la fede possa avere addirittura, grazie a Dio, un'efficacia concreta e tangibile lo dimostra l'esempio di Sara: ormai anziana e ste rile, purtuttavia mediante la fede ebbe la possibilità di «fondare>> una discendenza. L'espressione, che suona un po' strana, diviene più com prensibile se pensiamo che con essa viene riferita alla donna quella che, nella concezione del tempo, era una facoltà riservata esclusivamente alla funzione sessuale maschile (cf. Filone, E br. 2 1 1). Sebbene la Scrit tura conosca solo il dubbio di Sara (Gen. 1 8, 1 2), Ebr. parla del «pote re» della sua fede, in quanto nello stile degli scribi del tempo può im maginare l'antenata d'Israele solo come modello di religiosità e virtù (Filone, Cher. 50). Dal prodigio l'autore deduce la fede, che è in grado di realizzare l'impossibile. 1 .2. Quanto gli stia a cuore il carattere prodigioso di quella nascita lo dimostra il v. 1 2, secondo il quale paradossalmente l'abbondanza della vita umana ha origine da un uomo ormai «morto». È possibile che, memori di Ez. 3 3 ,24, si voglia sottolineare che mentre Abramo era uno solo, i suoi discendenti sono moltissimi. Come in Paolo, an che in Ebr. egli è definito «morto>> a causa della sua incapacità di ge nerare (Rom. 4, 1 9); ma l'adempimento della promessa - che è presen tata come un collage di più passi biblici (Gen. 2 2, 1 7; 1 5, 5; 3 2, 1 3 ecc.) e sfiora l'incredibile - è davanti agli occhi di tutti. Può quindi mostrare immediatamente le possibilità della fede nel momento attuale. È chia ro che la storia di Abramo così come la si legge nella Scrittura è testi monianza perenne e velata della vittoria sull'apparente onnipotenza della morte. Ciò che è descritto come esperienza degli antenati da Abele sino ad Abramo, per E br. fa parte dell'esperienza fondamentale di una qualsiasi condotta di fede, dato che questa non si basa su una conoscenza impartita. La fede matura si vede anzi proprio nelle prove
Ebr. I 1 , 1 3- I 6. I padri d'Israele già aspiravano alla città di Dio
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più difficili dell'esperienza umana: fallimento, malattia, tribolazione e morte. Sotto un certo aspetto questi esempi si riferiscono a esperienze limite. Solo queste sono in grado di rivelare che la fede è l'atteggia mento in grado di vincere il mondo.
I p ad ri d'Israele già aspiravano alla città di Dio ( 1 1 , 1 3- 1 6) Nella fede morirono tutti costoro, senza poter c o ns eguire le promesse. Tuttavia le videro e le s alutarono da lonta no, avendo riconosciuto anche «di essere stranieri e pellegrini s u l la terra » . 1 4 Coloro che dicono così, in fatti, dimostrano di essere alla ri ce rca di una patri a. 1 s Se infatti avessero pensato a q u ella da cui erano usciti, avrebbero certo avuto la possibilità di farvi ritorno. 16 Ora, però, essi as p irano a u na patri a migliore, cioè a una celeste. Per questo Dio non si vergo gn a di essere chiamato loro Dio, infatti p rep arò per loro una città. 13 Gen. 2 3,4. 13
1 3 . I vv . 1 3 - 1 6 riassumono quale sia, stando a 1 1 ,2, la testimonianza che all'epoca dei patriarchi le persone menzionate ricevettero da Dio. L'espressione «tutti costoro» difficilmente si riferisce anche agli ante nati citati ai vv . 4-7a, poiché quanto segue non si applica loro. In fon do solo i patriarchi si presentano come portatori della «promessa», e poi ancora come «stranieri e pellegrini» in senso vero e proprio {v. 1 3), partiti alla ricerca di una patria (v. I 5). Dio non si è vergognato di far accostare il suo nome al loro e di farsi chiamare Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (v. 1 6), e in questo consiste la sua testimonian za a loro riguardo. Bisognerebbe tuttavia prestare molta attenzione a quanto era stato loro richiesto. Come è normale in una situazione di fede, essi non sperimentarono la realizzazione di quanto promesso. È vero, ricevettero da Dio la promessa del mondo futuro, ma non fu lo ro risparmiata la morte, sì che di fatto dovettero impegnare tutta la lo ro fiducia. N o n fu dato loro di conseguire e prendere possesso di quel la promessa che racchiude più che un semplice pezzo di terra. Con l'evidente impiego di concezioni alessandrine filoniane, in questa pe ricope affiora l'immagine della peregrinazione verso la patria celeste. Diventa così chiara l'importanza della «promessa»: essa significa ritor no all'origine, rifugio e protezione in Dio, appassionata realizzazione dell'esistenza umana in una realtà extra nos, alla quale apparentemente mira ogni nostra ricerca e aspirazione (cf. Filone, Quaest. Gen. 3 ,4 5 ;
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Ebr. 1 1,13-16. I padri d,Israele già aspiravano alla città di Dio
Cher. 1 20 s.; Somn. 1 ,65 }. Così, ad esempio, in relazione a Gen. 1 7,8 Filone può affermare a proposito di Abramo che lo spirito dell'uomo virtuoso, che risiede dentro il corpo, preferisce essere un viandante anziché un cittadino con fissa dimora, «perché sua patria è l'etere e il cielo» . Per Filone all'uomo religioso è sì possibile la più profonda vi sione edificante, ma alla fine non potrà mai raggiungere la piena cono scenza di Dio. Al contrario Ebr., utilizzando il medesimo patrimonio concettuale, asserisce che i patriarchi poterono già vedere la futura verità celeste come viandanti anelanti in cammino verso di essa, e che però non poterono raggiungere la meta stessa. Ciò che in Filone è an cora espressione di un certo scetticismo gnoseologico, in Ebr. acquista i contorni di una condotta gioiosa e fiduciosa, come dimostrano le pa role «e le salutarono» . 1 4. 1 S · Anche dall'ammissione dei patriarchi d i essere «stranieri e pellegrini» qui sulla terra (cf. Gen. 23,4; 28,4; 47,9 ecc.) emerge la riso lutezza nel non perdere di vista la meta eterna barattandola con una effimera. In tal senso il v. 14 pone l'accento proprio sulle parole di questa affermazione. Volendo essere solamente stranieri, i padri an nunciarono la loro forte aspirazione a una patria (Filone, Rer. 266 s.). Ogni loro pensiero e sentimento puntava decisamente in avanti. Se infatti avessero pensato alla terra da cui erano partiti, allora - come si deduce in un tipico procedimento conclusivo (cf. 4,8; 7, 1 1; 8,4 ecc.) sarebbe stato fin troppo facile per loro farvi ritorno. 16. Il v. 16 ribadisce come verità definitiva ciò che risulta da una logica stringente: «Essi aspirano a una patria migliore, cioè a una ce leste». La formulazione (v. il presente} fa sì che le figure dei patriarchi si fondano automaticamente con i credenti del tempo attuale, i quali però devono trasformare l' «ora» di ciò che hanno saputo nell' - così i LXX in Gen. 47,3 I - se ne vuoi forse sottolineare l'atteggia mento di fede. Contro ogni ragionevolezza Giacobbe si è piegato in teramente alla volontà di Dio. È da notare che anche Filone mette a confronto le due b enedizioni (Sobr. 26 s.); ma mentre l'alessandrino dà risalto al divino entusiasmo del «saggio» Giacobbe per trovarvi una spiegazione del suo comportamento, Ebr. accentua la forza della sua fede (cf. Leg. ali. 3 ,93). Interessato al comportamento eccezionale, non menziona nemmeno la benedizione degli altri dodici figli di Giacob be, che per il nostro modo di pensare è più significativa (cf. Gen. 49).
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E br. I 1,17-3 1. Abramo, il portatore della promessa
22. Come nuovo esempio di comportamento di fede davanti alla morte viene però portato Giuseppe, il quale prevedeva già l'esodo dei fi gli d 'Israele dalla schiavitù in Egitto e perciò pretese dai fratelli che giurassero di riportare le sue ossa nella terra dei padri (Gen. 5 0, 2 5 ) Infatti credeva con fede salda e incrollabile che Dio si sarebbe preso cura del suo popolo (cf. Es. I J, I9; Gios. 24,32; Filone, los. 266). Con la menzione di Giuseppe è posta ora in primo piano la vicenda che de scrive l'evento più importante della storia giudaica. A differenza del pensiero biblico rabbinico, però, al centro dell'attenzione non vi sono la conclusione dell'alleanza e la rivelazione sul Sinai, bensì la forza della fede dimostrata dalla generazione dell'epoca mosaica con i suoi ben noti personaggi. La ricchezza di particolari è analoga a quella che troviamo ai vv. 8- I 2. In questo passo diventa chiaro come non mai che Ebr. misura la sostanza e il significato della storia non in base agli eventi maggiori, .ma in base alla fede dimostrata individualmente; me diante questa per Ebr. vengono nascostamente provocate le trasfor mazioni rivoluzionarie decisive. Qui Ebr. riconosce quella legge di Dio che in un secondo tempo, nel sacrificio di sé da parte di Cristo, dettato dalla fede, si manifesterà nella sua forma più paradossale. L 'accetterà il mondo? ne sarà degno (v. I I, 3 8)? Queste domande ri suonano di continuo, almeno a livello subliminale. 2 3 . Gli inizi della storia personale di Mosè, l'uomo di Dio, furono strani, confusi e irti di pericoli. Appena nato, venne tenuto nascosto per tre mesi dai genitori per essere poi abbandonato (Es. 2,2). Di fron te alla bellezza del bimbo, essi ne intuirono la futura grandezza e fece ro tutto quanto era in loro potere per proteggerlo il più a lungo possi bile e provvedere alla sua sussistenza (Filone, Mos. I ,9 ss.). In tutto ciò solo la fede diede loro la forza di agire contro il «decreto del re», cru dele e accecato dall'ira (Es. I ,22). Poiché non si parla del faraone (a differenza del versetto 24), ma del re o imperatore, tale espressione per gli ascoltatori suona come una critica nei confronti dello stato, sfu matura che l'autore sembra aver ritenuto indispensabile (I 2,4; cf. an che I 0,3 4). 24. Una volta diventato adulto (Es. 2, I I) e figura di spicco alla corte egiziana (cf. Filone, Mos. I,J I ss.), Mosè stesso non si lasciò abbaglia re dal rango e dal prestigio a lui spettanti come figlio di una figlia del faraone (cf. Filone, Mos. I ,4 5 ) . 2 5 . Per fede passò dalla parte del suo popolo per condividerne ogni .
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umiliazione e oppressione (cf. Filone, Mos. 1 ,J 2.40.42). Né gl'impor tava dell'effimero «godimento del peccato» che l'agiata vita di corte consentiva a piacimento. Il modo di dipingere la figura di Mosè tradi sce una tradizione leggendaria, in cui il giudizio critico delle situa zioni mostra un parallelo soprattutto in Filone (Mos. 1 ,3 2). Anche a parer suo Mosè aveva conservato la capacità di vedere ciò che è giusto e vero, resistendo alla tentazione di rinnegare il suo popolo in cambio del vantaggio di un momento. Un aspetto che qui sembra essere evi denziato con riferimento a un problema attuale della comunità (v. an che 1 3, 5 ), mentre al v. 2 5 è espresso solo indirettamente, trova imme diato approfondimento al v. 26 . .26. Colpisce l'espressione «oltraggio di Cristo•, che suona come ter mine tecnico. Forse influenzata da Sal. 89, 50 s. o da passi analoghi (della dimostrazione profetica: Sal. 69, 1 0; Sal. 2 1 , 7 ecc.), con essa s'in tende non solo la «sofferenza a causa di Cristo», bensì l'oltraggio che nella storia della fede è sempre stato prototipico per la futura passione di Cristo, e questo come legge nascosta ( I J , I 2) e punto d'arrivo segre to ( I 2, 1 2 ). Il significato della figura di Mosè, infine, non risiede solo nella sua posizione storica unica per Israele, bensì nella sua potenza evocativa di quell'evento che ha sempre segnato di un significato su periore le tappe della fede, addirittura determinandole in segreto. Per ciò si aggiunge a mo' di spiegazione che Mosè non aveva mai perso di vista la circostanza della «ricompensa», affermazione che mette in lu ce il motivo della sua condotta. Con ciò non si intende tanto che egli si fece guidare dalla prospettiva di una ricompensa, quanto piuttosto che era intenzionato a guardare e giudicare le cose con gli occhi di Dio, per cui la sofferenza e la punizione costituiscono proprio i pre supposti della vita futura ( 1 2,4 ss.). In questo senso l'essere accolti nel la sofferenza di Cristo è una ricchezza più grande di tutti i tesori d'Egitto, così come Paolo può asserire che per lui morire per Cristo è un guadagno (Fil. 1 ,2 1 ). Anche qui la passione di Cristo diventa la chia ve interpretativa di eventi altrimenti incomprensibili nella vita e nel mondo. Essa può essere fatta propria solo nella fede, e questo dovreb be indurre gli ascoltatori a prendere in esame il loro modo di vedere le cose, ancora troppo legato al superficiale, per volgersi a quella pro fondità che sola è in grado di contrapporre un senso al controsenso. Di fatto è il sacrificio a essere inevitabile porta di accesso al futuro . .2 7. Il v. 2 7 probabilmente riguarda la fuga di Mosè dopo l'uccisione
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di un sorvegliante egiziano (Es. 2, 1 1 ss. I 5 ss.), e non già l'esodo. Per sostenere quest'ultima ipotesi si fa sempre presente che in Es. 2, 1 4 si menziona esplicitamente come motivazione la paura che Mosè ebbe del faraone. Ma perché allora non si fa parola del popolo ? E come si potrebbe ricordare l'esodo prima dell'istituzione della pasqua (v. 2 8 ) ? S i osserverà che l'autore non s i attiene alle indicazioni particolareggia te della narrazione veterotestamentaria, ma al riguardo riporta la pro pria opinione teologica. Mette infatti in evidenza la fede in Dio di Mo sè, il quale - proprio come Abramo - accettò di essere condotto lungo un cammino oscuro. Ebr. parla di un comportamento contraddistinto «dalla fede». La proposizione gerundiva che segue, a senso va presa insieme all'affermazione successiva. Evidentemente abbiamo una de scrizione della permanenza nel paese di Madian con la fondamentale rivelazione del roveto ardente (Es. J , I ss.), insieme all'incarico comu nicato in tale occasione, che venne accettato senza timore e con la più grande tenacia (cf. Es. 4- 1 1 ). Forse in relazione a I I , I Ebr. parla in modo lievemente enigmatico di Mosè che, per così dire, vedeva sem pre «l'invisibile» (cioè Dio) e ne ricavava la capacità di perseverare. Questo modo di esprimersi può indicare solamente che il Dio invisi bile si era reso riconoscibile in un certo modo a Mosè, che ne traeva la forza per svolgere il suo difficile compito. È rimarchevole che anche Filone dia un'analoga interpretazione della scena del roveto ardente. Mosè in tale occasione avrebbe ricevuto da Dio questa assicurazione: «Non devi aver timore» (Mos. I ,66.69.73). 28. I vv. 28 e 29 prendono i due eventi più importanti, la celebrazio ne della prima pasqua e l'attraversamento del Mar Rosso, per esaltar li con forza quali atti di fede. Fidando nelle indicazioni fornitegli da Dio (cf. Es. I 2), nella notte dell'esodo Mosè uccise l'agnello pasquale compiendo con il sangue di questo l'aspersione su stipiti e architrave delle case degli israeliti. In questo modo impedì all'angelo della morte, lo «sterminatore» (come è tecnicamente chiamato anche in Sap. 1 8,2 5 ), di «toccare» i primogeniti. L'espressione «ha compiuto (o «celebra to») la pasqua» è al perfetto dell'allegoria e indica che la festa istituita allora ha significato ancora attuale, sia dal punto di vista teologico per la comprensione del sacrificio di Cristo, al quale può alludere anche la singolare espressione «cospargimento del sangue», sia sotto l'aspetto liturgico per la solennità pasquale della comunità cristiana, che si sente egualmente strappata alla morte e consegnata alla vita. La notte
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della festa infatti è una «notte di veglia� (Es. I 2,42). Ciò che il miste rioso rito di sangue della notte pasquale accenna vagamente, diviene verità definitiva nella morte espiatrice di Cristo: l'essere preservati dalla morte e l'essere tratti in salvo da un mondo di schiavitù. 29. Il v. 29 menziona per la prima volta la fede del popolo dell' eso do che, grazie a tale atteggiamento, attraversò il Mar Rosso mentre gli egiziani vennero inghiottiti dalla massa delle acque (Es. I 4, I 5 ss.22.27 s.). Essi non avevano ciò che per Israele significò la salvezza. In Es. I 4,3 I la fede viene presentata come conseguenza del prodigioso salva taggio, mentre qui ne è il presupposto. L'espressione «essi (gli israeli ti) attraversarono» fa risuonare una definizione spesso impiegata per la festa pasquale ebraica, ossia «festa del passaggio» (cf. Filone, Spec. leg. 2, 1 46 s.). L'attenzione di Ebr. è concentrata sulla fede del popolo, mentre per ovvi motivi non è preso in considerazione il tempo di permanenza nel deserto (cf. 3,7 ss.). 30. Al v. 30 fa immediatamente seguito l'accenno alla presa di Geri co (cf. Gios. 6, I ss. 1 5 ss.), con brevi annotazioni sulle circostanze della sua conquista. Ci si giova dell'interesse suscitato dallo spettacolare per dimostrare le sorprendenti possibilità della fede (cf. Mc. I 1,23). Il ri salto dato ai «sette giorni» lascia intuire una certa propensione per la simbologia dei numeri (cf. Filone, Op. 90 ss.; Leg. ali. 8 ss.). Giosuè non viene nominato, in quanto tacitamente si vuole sottolineare di che cosa è capace la fede incondizionata di una comunità, se questa si man tiene risolutamente fedele alla promessa datale. 3 I . Che anche la singola persona possa essere protetta in modo ol tremodo prodigioso è dimostrato nel v. 3 1 dali'esempio singolare del la prostituta Raab (cf. Gios. 2, 1 ss.8 ss.; 6,25 ). Convinta nella fede che Dio avesse promesso e consegnato la terra al suo popolo (cf. Gios. 2,9 ), essa accolse gli esploratori «con pace», ossia senza tradirli; ma il resto degli abitanti della città, che nonostante i prodigi compiuti da Dio op p osero resistenza (alla lettera «rimasero indocili» ), furono votati allo sterminio e vennero uccisi (Gios. 6, 2 1 ). Laddove contro ogni evidenza si dimostra la fede, anche una vita umana discutibile (non senza moti vo Raab viene presentata come «prostituta») può attingere speranza (cf. Giac. 2,2 5; 1 Clem. 2 1 , 1 ss.). D'improvviso, dunque, Ebr. ha presenta to un esempio di fede che sembra essere marginale, ma che invece ha potuto giustamente essere preso in considerazione. Ma in tal modo non si ha il dovere di menzionarne infiniti altri ? Non vi sono altri mo-
2. 1 2
Ebr. 1 1,32-40. La storia della fede d'Israele come storia di sofferenza
de Ili ancora più illuminanti ? Comprendiamo bene che a questo punto l'autore interrompa l'elenco.
Tutta quanta la storia della fede d'Israele si ri vela come storia di s offere nz a ( 1 1,J 2-4o) 32 E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo, se volessi narrare di Ge deone, Barac, Sansone, Iefte, Davide e anche di Samuele e degli altri profe ti, 33 i quali per fede abbatterono regni, imposero la giustizia, conseguiro no promesse, chiusero le fauci di leoni, 34 spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, trovarono forza nella debolezza, diven nero eroi in guerra, misero in rotta gli eserciti degli avversari. 3 5 Alcune donne riebbero i loro morti con la risurrezione. Altri però furono tortura ti, non accettarono la liberazione, solo per raggiungere una migliore risur rezione. 36 Altri ancora conobbero maltrattamenti e flagelli, anche le cate ne e il carcere: 37 vennero lapidati, torturati durante l'interrogatorio e se gati in due, morirono uccisi di spada, andarono in giro in velli di pecora, in pelli di capra, negli stenti, tormentati, maltrattati; 38 di loro il mondo non era degno, sì che vagarono per i deserti, sui monti, tra le caverne e le grotte della terra. 39 E tutti costoro, che per la fede ricevettero conferma testi moniate, non conseguirono ancora la promessa, 40 perché Dio aveva previ sto qualcosa di meglio per noi, volendo che essi giungessero alla perfezione non senza di noi. 3 2. . L'interrogativo del versetto 3 2a esprime un certo impaccio. Se E br. avesse voluto proseguire con la medesima minuziosità, la sua trat
tazione avrebbe superato ogni misura. Perciò si limita a una sezione semplicemente riassuntiva, che per il lettore esperto della Bibbia non è difficile da decifrare. Sotto l'aspetto tematico, le varie frasi sono intro dotte sempre dalla medesima espressione «per fede» (vv. 33 e 39). Si coglie anche la tacita convinzione che le figure realmente significative dell'epoca che precedette la formazione d'Israele e di quella dei suoi inizi siano già state menzionate. Il modo di dire «mi manca il tempo» riprende retoricamente una formula consueta (cf. Filone, Somn. 2,63; Mos. I ,2 I J ; in particolare Spec. leg. 4,23 8 ecc.). In modo sommario viene preso in considerazione per prima cosa il periodo dei giudici, dei re e dei profeti. Dei primi vengono nominati esplicitamente Gede one ( Giud. 6-8), Barac ( Giud. 4- 5 ) , Sansone ( Giud. I 3- I 5) e Iefte ( Giud. I 1 - I 2 ) . Per esigenze di ritmo linguistico la successione storica non vie ne presa in considerazione. L'unica figura di re a cui si faccia riferimen-
Ebr. 1 I,).1-40. La storia della fede d'Israele come storia di sofferenza
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to è Davide, poiché, com'è scritto (cf. 2 Sam. 7, 1 ss.9), i l Signore era «con lui>>. Inoltre la promessa del messia futuro venne fatta alla sua stirpe (cf. 7, 14). Davide stesso in Ebr. compare come portatore dello Spirito profetico di Dio (3,7; 4,7). Contrariamente a un criterio stori co, Samuele viene nominato dopo di lui, certo perché è considerato antenato dei profeti d'Israele (v. anche Atti 3 ,24), i quali vengono an ch' essi menzionati soltanto sommariamente. Per certi aspetti il verset to 3 2 tiene conto della testimonianza dei cosiddetti «profeti anteriori» e «posteriori>>. 33· Con il v. 33 ha inizio un nuovo elenco in nove parti delle azioni compiute dai personaggi citati, in modo da mettere in luce la forza spronante e vittoriosa della loro fede. Contro cananei, madianiti, moa biti, edomiti, ammoniti e filistei avevano già combattuto gli eroi del l'epoca dei giudici. A più riprese la Scrittura narra di vittorie prodi giose contro re e prìncipi (cf. Giud. 3 , 1 0. I 4 ss.; 4, 1 7 ss. 23; 7,2 5 ; 1 1 ,3 2 s. ecc.). Anche Davide e Samuele riuscirono sempre a sopraffare i po poli dei regni limitrofi (cf. I Sam. 7,3 ss.; 1 7, 1 ss.; 30, 1 ss. ecc.). L'espres sione «imposero la giustizia» (lett.: «facevano giustizia») nasce da un modo di dire ebraico (cf. Sal. 106,3 ; /s. 56, 1 ) in cui probabilmente si pensa al comportamento della persona citata di fronte al proprio po polo, in seno al quale essa - come ad es. Davide - esercitava «il diritto e la giustizia» (2 Sam. 8 , 1 5; I Cron. 1 8, 1 4 ecc.). Parimenti anche il po polo può dire di Samuele: «Tu non ci hai fatto né violenza né alcun torto» (I Sam. 1 2,4). Nella tradizione del popolo giudaico Davide ap pare sempre come modello di re giusto, e Samuele come esempio di giudice retto. L'accenno alle promesse conseguite deve riferirsi prin cipalmente a Davide e ai profeti (cf. 2 Sam. 7, 1 ss.; Ab. 2,3 s. in 10,37 s. e molti altri), tuttavia si può pensare anche a promesse fatte ai singoli giudici, che trovarono adempimento prodigioso (cf. Giud. 4, 14; 6,1 4 ecc.). Poiché si parla i n generale di «promesse» al plurale, l'attenzione non viene rivolta tanto alla promessa di un messia, quanto alle mol teplici occasioni in cui si sono sperimentati protezione e aiuto miseri cordioso. Anche contro fiere selvagge come i leoni gli eroi di Dio ri sultarono vittoriosi. Di combattimenti audaci, riassunti nell'immagine simbolica del «chiudere loro le fauci», si parla a proposito di Sansone (Giud. 14,6), Davide ( I Sam. 1 7,34 ss.) e Daniele. La formulazione, difficile da dimenticare, risale a Dan. 6,23 (soprattutto la versione di Teodozione). Quanto il giudaismo dell'epoca abbia tratto conforto da
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simili atti eroici lo si può dedurre dali� enumerazione che ne è fatta in I Macc. 2,49 ss. Anche il cristianesimo delle origini riterrà importan tissimo narrare gesta analoghe compiute dai propri testimoni di fede (v. Acta Pau/t). 3 4· In fs. 43 ,2, al profeta viene assicurato che potrà passare attraver so il fuoco senza che la fiamma possa bruciarlo. In epoca di persecu zione, da tali affermazioni si traeva grande forza. Ai tre amici di Da niele venne risparmiata la paura del fuoco (cf. Dan. 3 ) , perché in quan to servitori del Dio altissimo dettero prova di fede (cf. Dan. J , I 7 ss.) e nella forza delle loro preghiere si ritennero certi del suo aiuto (cf. le aggiunte a Daniele). Vi sono innumerevoli esempi di uomini di Dio che, perseguitati a causa della loro fede, scamparono al «taglio della spada» : Davide da Saul ( I Sam. I 8,6 ss. ), Elia da A cab e Gezabele ( I Re I 9, 1 ss.), Eliseo dagli aramei (2 Re 6,8 ss.), Geremia da Sedecia (Ger. 3 7), Michea da Ezechia (Ger. 26, 1 9), Uria da Ioiakim (Ger. 26,2 1 ). «Molte sono le sofferenze dei giusti, ma da tutte li libera il Signore» così recita il salmista (34,20 ). Di un prodigioso rinvigorimento nella debolezza fisica, ma anche nella disperazione spirituale, si parla a pro posito di Sansone (Giud. I 5 , I 9; 1 6,28 ss.), di Elia ( I Re I 9,8), di Eze chia (2 Re 20, 1 ss.). Un salmo di Davide esalta Dio che dà al misero la forza di annientare un esercito: «perché con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal. 1 8,30). In modo velato affiora ciò che a volte anche Filone riconosceva come facente parte della natura di Dio, e cioè che proprio il momento di debolezza del credente è il momento della sua massima forza (Mos. 1 ,69 s.). Nell'Antico Testamento, noti esempi di particola re eroismo in battaglia sono: Davide (ad es. 2 Sam. 5 , 1 7 ss.; 8 , I ss.), che ancora fanciullo aveva sconfitto Golia ( I Sam. 1 7, 5 2), e Gionata, che come giovane guerriero si era distinto nella guerra contro i filistei (I Sam. I4, 1 ss.). Davanti al manipolo di Gedeone fuggirono intere schiere {lett.: «accampamenti») (Giud. 7,7). La preghiera di Ezechia ca povolse le sorti di Gerusalemme, assediata dali' esercito di Sennacheri h (2 R e I 8, 1 3 ss.; 19, I ss.; Sir. 48,2 1 ). In tempi ancora più recenti, la truppa di Giuda Maccabeo e dei suoi fratelli riuscì a ottenere, combat tendo, la liberazione dal giogo siriaco: «Nelle sue gesta fu simile a leo ne» ( I Mace. 3,3 s.). Nel prosieguo il riferimento a questa grande epo ca d'insurrezione nazionale si fa più preciso (vv. 3 5 ss.). ·Nel passo che qui prendiamo in considerazione non è chiaro se è già a loro che si pensa e in quale misura. Delle nove proposizioni, le prime tre sottoli-
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neano maggiormente la forza travolgente della fede, le tre successive lo stupefacente eroismo che essa genera, le ultime infine ne mettono in risalto la prodigiosa capacità di rendere forte il debole. E con ciò si afferma apertamente che le possibilità di chi crede sono inaudite e illi mitate. 3 5 . Seguendo una certa logica interna, a questo punto s'inserisce l' at testazione che la fede dà anche la certezza della risurrezione. Elia risu scitò il figlio della vedova di Sarepta ( I Re I 7,8 ss.), Eliseo il figlio del la Sunammita (2 Re 4, 1 8 ss.). Quando è detto che alcune donne «rieb bero» indietro i loro morti, l'espressione probabilmente è scelta in ba se a 2 Re 4,3 6 s. Come ulteriore esempio d'incrollabile fede in una vita di risurrezione, con una evidente allusione a 2 Mace. 6, I 8 ss. e 7, I ss. si rammenta che altre persone subirono la tortura, ma in vista del conse guimento della vita futura preferirono rinunciare alla liberazione ter rena. Effettivamente questo è narrato dell'anziano scriba Eleazaro e di una madre con i suoi sette figli, i quali preferirono sopportare tormen ti indicibili e il martirio piuttosto che rinnegare i comandamenti dei p a dri (2 Macc. 6,26. 30; 7,3 7) . La loro fine è stata entusiasticamente de scritta nel libro dei Maccabei (il cosiddetto quarto libro). Come in 2 Mace. 7,9. I4, viene espressa chiaramente la speranza in una vita eterna presso Dio. In questo modo, quasi senza accorgersene, la lettera agli Ebrei è giunta a evidenziare un nuovo aspetto. Al tema della fede che è vittoriosa in questo mondo ha nuovamente sostituito quello più pro fondo per cui la fede sofferente e il sacrificio del testimone schiudono davvero il futuro e la vita al cospetto di Dio. Vi è una ) sia stata messa in diretta relazione in un discorso figu rato con la quintessenza di tutte le speranze e attese, ovvero Sion, il luogo ove si trova il trono di Dio (I I, I o. 1 6; I J,I4). Dall'incontro im mediato con il contenuto festoso, insito nelle parole dell'omelia e nel la celebrazione dei sacramenti, nasce principalmente la certezza attua le della realtà di ciò che si spera (10, 1 9 ss.; in particolare 1 2,28). Il pen siero escatologico di base ( 1,2; J,I 2 ss.; 1 0,3 5 ss.) inoltre dà sostegno alle affermazioni. La toccante frase conclusiva di 1 2,29, che per forma e contenuto ricorda IO,J 1 , è l'eco di una profonda commozione che riguarda principalmente proprio l'autore. Questa emozione conferisce profondità alla sua testimonianza di fede e pone alla speranza dell'au tore un fine preciso. La gravità della sua esortazione e la radicalità del suo pensiero penitenziale (6,4 ss.; 1 0,26 ss.; 1 2, 1 6 ss.) ne sono diretta mente influenzate. .
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Gesù crocifisso ed esaltato è l'inizio nascosto, il centro segreto del significato della storia del popolo di Dio e il suo fine manifesto dal quale bisogna attingere fo r za (1 2, 1 -J ) 1 Dunque an ch e no i, po i c hé abbiamo attorno a noi un così gran nu golo di testimoni, dopo aver deposto tutto ciò che è d'impaccio e il peccato che c'in triga, corriamo con perseveranza nella gara che ci attende, 2 tenendo lo s guard o fisso su Gesù, l 'inizi atore e perfezionatore della fede, il qual e per
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la gioia che gli stava davanti ha sopportato la croce, disprezzando l'igno minia, e si è addirittura «assiso alla destra» del trono di Dio. 3 Pensate dun que bene a colui che ha sopportato una tale ostilità dei peccatori contro di sé, perché non vi perdiate d'animo e non vi abbiosciate del tutto. 1 Sal. I Io,Ia. 1 . Se i testimoni della fede dell'antica alleanza dovettero attendere il conseguimento della promessa ( I 1 ,39 ss.), possiamo «noi» continuare a restare indifferenti ? Se coloro che avevano salutato con gioia e desi derio la patria futura erano già pieni d'impazienza e fervore, possiamo «noi» persistere nella rassegnazione rinunciando al raggiungimento del fine ultimo ? In modo quasi formalistico e solenne, ma anche con sapevole della forza sconvolgente della sua argomentazione, l'autore sollecita la volontà dei suoi ascoltatori. I versetti 1 e 2 formano un'u nica, ampia proposizione. All'energia dell'appello si unisce la chiarez za del discorso figurato. Per prima cosa la comunità sappia di non es sere sola, ma di essere attorniata da un « gran nugolo di testimoni». L'immagine del nugolo che avvolge richiama un assembramento di persone in cui il singolo non compare più da solo, ma diventa parte di un unico insieme. Il termine «testimoni» non indica i «martiri della fe de», quanti pagarono con la vita le loro convinzioni (come diventerà invece successivamente nell'uso linguistico), bensì testimoni della ve rità e della giustizia della fede, la quale è una «realtà delle cose che si sperano» e un «essere convinti da circostanze che non si vedono» ( I I , I ) . L'immagine del processo sfuma poi i n quella della gara all'interno di un'arena, nella quale gli spettatori divengono testimoni della lotta accanita per la vittoria. Tutto ciò che risulta essere di peso e d'impac cio viene deposto dai corridori. Il concetto di «zavorra, impaccio» è forse un po' troppo duro, ma significa che i lettori, se vogliono giun gere alla meta, devono prendere sul serio l'idea che vi sono fardelli op primenti. Questo spiega l'aggiunta del «peccato che intriga», in quan to tutto ciò che è comodo e gradevole è solo una pastoia per chi corre. Il «peso» fa sprecare inutilmente le forze, la «comodità» infiacchisce la volontà. In entrambi i casi ne soffrono la perseveranza e la forma fi sica. È evidente che la lettera agli Ebrei pensa all'immagine della gara di corsa greco-romana, spesso impiegata nella letteratura (ad es. in Fi lone) . Anche Paolo la prediligeva per illustrare in questo modo la lot ta del cristiano (cf. 1 Cor. 9,24 ss.; Gal. 2,2; 5 ,7; Fil. 2, 1 6 ecc.; cf. anche 2 Tim. 4,7). Allo stesso modo la lettera agli Ebrei ribadisce che si trat-
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ta di conseguire l'ultima vittoria, quella che richiede tutte le forze del la persona, perché ne va della vita. Quello che viene presentato come un gioco è in realtà di una serietà estrema. La vittoria non può essere ottenuta con blandi inviti e appelli entusiasmanti, ma necessita di un impegno superiore la cui motivazione non risiede nemmeno nell'atle ta stesso. 2. A questo punto Ebr. punta l'attenzione su Gesù crocifisso come sorgente di forza risolutiva (cf. anche 4 Macc. 1 7, 1 0). Come i corridori hanno occhi solamente per chi è in prima posizione, così anche i cri stiani in Gesù hanno un atleta che è criterio ed esempio in grado di spronare tutti gli altri. In altre parole, in quanto modello di fede Gesù ne è anche il fondamento. In considerazione di ciò Ebr. lo definisce sinteticamente iniziatore e perfezionatore. Il termine non indica il Si gnore preesistente, che c'era già all'inizio della storia della fede, né colui che precede ogni fede, ma piuttosto fin da principio il Gesù profondamente tentato e messo alla prova nella passione, che dimo strò una fede perfetta ( 2,9 s. 1 7 s.; 5 , 1 ss. 5 ss.) in misura molto maggio re rispetto alle molte figure della storia d'Israele appena tratteggiata. La sua fede unica è dunque al centro dell'attenzione, poiché da essa soltanto può venire la forza necessaria per superare la lotta prescritta. In che cosa consiste tale fede esemplare ? Non in una particolare in tensità di dolore e sofferenza fisica, anche se ovviamente resta tre menda quella che i contemporanei hanno definito «il tipo di esecu zione più crudele e orribile» (Cic., Verr. 2, 5,64). La passione di Gesù non può essere prova di un comportamento unico e irripetibile solo per il tormento fisico e psichico. Messa in questo modo, di fatto po trebbe risultare che anche altre persone hanno sopportato tormenti indicibili. La sofferenza di Gesù acquista il suo carattere unico in considerazione del suo legame particolare con Dio e della sua attesa di Dio in contrasto con il nichilismo da lui sperimentato. Che anche per lui il nulla potesse essere sia il nulla sia Dio (Lutero sul Sal. 22) lo fa capire l'osservazione citata. È in questo senso che Ebr. vi fa riferimen to quando scrive che Gesù per la «gioia» che gli stava davanti disprez zò l'ignominia della croce e dette prova di perseveranza. Anche se in tale occasione avrebbe potuto dubitare di Dio, conservò la fede. Seb bene in quanto Figlio si sentisse chiamato in modo particolare, si man tenne fedele in una tentazione senza precedenti. Non allontanando da sé il compito affidatogli e anzi sentendosi responsabile dei fratelli uo-
Ebr. I 2,4- I 1.
Dio ci corregge severamente per il nostro bene
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mini (2, 1 1 ss.), pur nella sua disperazione pose le basi divine per la pro pria esaltazione. Avendo reso omaggio a Dio nell'ignominia imposta gli, imparò l'obbedienza che sola, in questo mondo, è in grado di sve lare il cammino che conduce alla gloria del trono di Dio (4, 1 6). Alla fin fine è su questa fede che poggia la sua autorità, che gli è conferita da Dio e nella quale ora può essere sommo sacerdote e aiuto per altri {2, 1 8; 5 ,8 s.). Così considerata, la salvezza conseguita per mezzo di Cri sto non è affatto il risultato di un processo ultraterreno o di una realtà ontica ultraterrena; nella riflessione biblica delle primissime origini es sa è invece conseguenza di un atteggiamento in grado di liberare e de terminare il comportamento di noi tutti. Che Dio si sia identificato con il Cristo morente per via della sua fede è la ragione che la fede stessa presuppone. E proprio su questa verità dialettica la testimonianza di Ebr. , con l' «iniziatore e perfezionatore», rimanda al crocifisso igno minioso e al Signore esaltato perché vincitore. 3· Chi si interroga su questa verità, seguendo l'invito del v. 3, certa mente va a sfiorare un limite della comprensione logica, ma oltre a ciò percepisce l'offerta liberante della fede per un proprio orientamento che vada dritto allo scopo e sappia condurre lontano da stanchezza, rassegnazione e rilassatezza. A questo bisogna pensare. Peggiore della sofferenza fisica era per Gesù la completa solitudine. Abbandonato da Dio, dovette provare al tempo stesso il rifiuto di coloro per i quali ave va vissuto, servito e sofferto. Accanto al silenzio del Padre vi era l' op posizione dei fratelli, che si concretizzava nel rifiuto ostile. Sono pro prio questi due fattori a introdurre quella dimensione nichilista estre ma il cui superamento vale realmente come motivo dell'esaltazione. Af fiora la domanda se la situazione del Golgota debba ripetersi, se noi approviamo altrettanto esplicitamente l'opposizione a Gesù, perden do così l'unica possibilità di ottenere un punto fermo interiore e con esso la «forza spirituale» necessaria per raggiungere lo scopo ultimo. Ciò che le persone interpellate hanno dovuto sopportare fino a questo momento non regge il paragone con la passione di Cristo.
Dio ci corregge severamente per il nostro bene ( 1 2,4- 1 1 ) N o n avete ancora resistito fino al sangue nella lotta co nt ro il peccato, 5 e avete dimenticato del tutto le parole d'incoraggiamento rivoltevi come a fi gli: «Figlio mio, non disprezzar e la disciplina del Signo re e non ti scorag4
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I 1,4-
I I . Dio ci corregge severamente per il nostro bene
giare quando sei punito da lui. 6 Perché il Signore corregge colui che ama; e pu nisce ogni figlio che riconosce». 7 Tenete duro nella «disciplina». Dio agisce con voi come con dei «figli». Esiste forse un «figlio» che il padre non «disciplini» ? 8 Ma se voi rimanete senza la disciplina che è toccata a tutti, allora siete bastardi, non figli. 9 Se del resto abbiamo avuto come educatori i nostri padri carnali e li abbiamo seguiti, a maggior ragione non dovremmo essere obbedienti al Padre degli spiriti e avere la vita? I o Men tre infatti quelli ci correggevano secondo il loro giudizio per pochi giorni, egli lo fece per il nostro bene, allo scopo di renderei partecipi della sua san tità. I 1 Certo, ogni severa educazione al momento non sembra essere cau sa di gioia, ma di sofferenza, poi però produce un frutto di pace e di giu stizia a coloro che in essa sono stati disciplinati. J s. Prov. 3 , 1 I
ss.
4· Il sì decisivo di un abbandono totale nasce da una particolare espe rienza di fede esistenziale vissuta dal credente. A questa si riferisce il v. 4· Non è tanto ripresa l'immagine di un incontro di pugilato, quan to piuttosto ulteriormente elaborato il tema di una lotta decisiva. I n fin dei conti, per la comunità non si tratta solo della necessaria capaci tà di resistenza in vista del conseguimento di uno scopo, ma soprat tutto di tener duro in uno scontro mortale con il «peccato». È eviden te che qui il peccato è diversamente inteso rispetto a I 2, I , in cui si esi ge che sia deposto il «peccato che intriga» - espressione che può rife rirsi alle mancanze personali. Iniziando un nuovo pensiero si fa cenno alla necessità di decidersi definitivamente a favore o contro Dio e que sto in una situazione di tentazione estrema. È possibile che si alluda ancora una volta (v. già IO,J2 ss.) al fatto che la comunità sino a quel momento non ha ancora sofferto persecuzioni sanguinose. Oltre a questo l'osservazione, che ha un lieve accento di biasimo, si rivolge certo con fare ammonitore all'insufficiente disponibilità della comuni tà a superare, nel futuro prossimo o lontano, una prova che richieda da lei il massimo. In vista di I 2, 1 8-29 guadagna in probabilità l'ipotesi che l'autore pensi, oltre che alla possibile persecuzione, anche al mo mento escatologico della grande prova. Il peccato per eccellenza sa rebbe allora quello dell'apostasia. Chi le può sfuggire ? L'autore, che definisce il proprio sermone «parola di esortazione» ( 1 3,22 ) , a questo punto riassume ancora una volta la sostanza di ciò che -si era prefisso, allo scopo di ribadire che ad animarlo è il desiderio di prendersi a cuore la comunità.
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I 2�- 1 I .
Dio ci corregge severamente per il nostro bene
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5 . Se anche fino a questo momento essa ha preferito ignorare tale verità ora, dopo aver potuto constatare l'ampiezza e la profondità del l'evento di Cristo, può trarne conforto e incoraggiamento assoluta mente sufficienti. Certo, bisogna esserne sempre memori, così come l'esortazione sotto forma di parola biblica in Prov. J , I 1 ss. è presente come dichiarazione permanente e definitiva. In essa si riflette una ve rità attestata in molti modi nella Scrittura e sulla quale si può riflettere approfonditamente, come fa puntualmente l'autore in quanto segue (vv. 7- 1 I). L'esortazione consolatoria offre un duplice contenuto. Per prima cosa possiamo ritenerci interpellati come «figli» di Dio, il quale si comporta con noi come un padre. In secondo luogo percepiamo l'operato di Dio come quello di un padre che sottopone i suoi figli a una «disciplina». Questa espressione, assai dura e severa, mira soltan to al perfezionamento e alla maturazione. Ebr. cita Prov. J , I I ss. come prova di una concezione diffusa in tutto l'Antico Testamento. Nean che ai credenti dell'antica alleanza veniva risparmiata l'esperienza che il «Dio nascosto», la cui condotta può essere oscura e imperscrutabile, in realtà è misericordioso. Anch'essi passavano per la dura scuola di Dio per maturarvi ed esservi perfezionati. Si pensi a Mosè (cf. Deut. 8, 5 ), a Giobbe (Giob. 5 , I 7) e a tutto il popolo d'Israele (Ger. 2,3 0 ecc.). Tutti costoro erano creta nelle mani del grande vasaio che li pla smava e modellava a suo piacimento (Ger. 1 8,6; fs. 64,8). Ciò che nel l'Antico Testamento echeggia solo come legge generica dell'azione di vina, nella vita del Figlio (cf. J , I -6) ha acquisito forma unica e irripeti bile (cf. 5,7 ss.). Quest'idea che risuona già nella parte introduttiva dell'omelia è implicitamente presente anche qui. Da essa scaturiscono esortazione e ammonimento. Perciò si spiega che al di là del testo ve terotestamentario ora si abbia l'appellativo figlio «mio» . La citazione stessa sottolinea che ogni severa educazione - il concetto greco di pai deia sottintende qualcosa di più della mera correzione - va altamente stimata, e questo non a seconda dei casi ma in linea di principio. 6. Né si deve mai cedere o rinunciare, ma anzi occorre riconoscere nella pedagogia paterna di Dio l'amore che, in fin dei conti, vuole il bene del figlio. Ebr. sviluppa il pensiero in crescendo, giungendo ad af fermare che il Signore corregge ogni figlio che riconosce come suo le gittimo. In questo modo ribadisce che quanti stanno ascoltando l'ome lia devono ritenersi riconosciuti e accolti come tali, e questo quando il dubbio scuote la coscienza e la tentazione prende il sopravvento. È da
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notare che anche Filone concede ampio spazio all'idea della «discipli na» divina (cf. ad es. Deter. 1 44 ss.) e che anch'egli ha commentato in modo simile Prov. 3 , 1 1 ss. (Congr. 1 77). La testimonianza di E br. è conscia della verità liberatrice che ha nella croce di Gesù il suo fon damento. Per il cristiano, le esperienze dolorose possono e devono es sere segno della «figliolanza divina» . 7· Forse è proprio per questo che il lettore odierno della lettera agli Ebrei nei vv. 7 ss. si aspetta frasi più profonde. La spiegazione suc cessiva suona un po' complicata come logica, e distante. Ci troviamo di fronte a un'argomentazione di indirizzo fortemente concettuale. D 'altronde è facile rendersi conto che qui l'autore metta a frutto tutta la propria abilità teologica e pastorale per ricordare una volta di più .d a dove deve trarre sostegno la comunità nella difficile prova che l'attende. All'inizio dell'esclamazione si esorta in modo quasi dirom pente a tener duro nella severa educazione che si riceve da Dio. Tra spaiono qui la preoccupazione e il senso di responsabilità che anima no l'autqre dell'omelia. In maniera del tutto personale gli ascoltatori devono accettare che Dio si comporti con loro come con dei figli. Al cuni manoscritti posteriori hanno lievemente indebolito il testo dal punto di vista linguistico, togliendogli al tempo stesso forza: «Se voi sopportate . . . , allora Dio si comporta con voi come con dei figli» . Solo nel periodo seguente si fa largo un tipo di argomentazione prevalen temente meditativa. L'esperienza quotidiana non insegna forse che la disciplina è necessaria ? Esiste un figlio che non sia guidato dall'autori tà paterna ? Le interpretazioni più antiche presentano sempre il t ermi ne «correzione» al posto di «educazione», come noi preferiremmo tra durre. Ma in questo modo non si accorgono che così facendo il con cetto ellenistico viene visto in maniera assolutamente unilaterale. L'an tica scuola era sì dura, ma il suo ideale educativo non viene adeguata mente compreso se si parte dall'idea di correzione (= punizione cor porale). Basti dire che l'obiettivo era sempre la formazione della per sona e non la punizione di un comportamento, e il colto autore della lettera lo sa fin troppo bene. 8. Il v. 8 illustra lo stesso concetto partendo dal suo contrario (cf. 7, 7; 9,7). Il principio dell' «educazione» dei figli è un dato di fatto gene rale. Se vi sono figli che non la ricevono, allora significa che si tratta di bastardi, figli naturali o illegittimi, lasciati a se stessi senza una guida paterna. È significativo che questa riflessione venga applicata imme-
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diatamente ai lettori. Il presupposto è che tutti i credenti, come ha ap pena dimostrato il cap. I I , vengono ammessi alla divina scuola della fede. Quasi con dispiacere si fa capire che quanti ne vengono esclusi non sono veri figli. 9 · Ma è poi così gravoso sottomettersi all'educazione di Dio ? In un procedimento deduttivo che tien conto dell'analogia offerta, si svilup pa un'argomentazione dalla normalità alla particolarità. Colpisce qui il calore · del «noi» , comunicativo e pastorale, laddove è detto: se «noi» quando eravamo bambini abbiamo dimostrato il dovuto rispetto ai padri, perché adesso non dobbiamo fare lo stesso con Dio, il Padre degli spiriti (cf. Num. 1 6,22; 27,26), il quale garantisce la vita in senso molto più profondo ? A suo modo, questa dichiarazione intende risul tare plausibile. Parte dal presupposto che la paternità di Dio sia globa le. Ogni vita ed ogni spirito ( I , I4) trova perfezionamento in lui. A lui sono legati per origine. Dunque la disobbedienza non sarebbe contra ria alla natura e alla sostanza delle cose ? È evidente che E br., mentre altrove esige che il cristiano sia maturo, qui non riconosce un essere umano autonomo. Dio ha vincolato il dono della vita con scopi edu cativi a una condizione di sottomissione, e non di superbia. I O. Il v. IO rafforza ulteriormente quest'idea. L'educazione, forse se vera, di un padre terreno era comunque limitata nel tempo e in un cer to qual modo era sempre imperfetta. I padri che provengono dalla «car ne» corruttibile possono sbagliare e inoltre possono anche agire arbi trariamente e a capriccio. Se li prendiamo a paragone, stando a Ebr. , è solo perché rimandano a un'azione educativa perfetta da parte di Dio. Per Dio il successo è fuori discussione. Il fine di ogni intervento edu cativo risiede nel divenire partecipi della sua santità. Ciò che non è santo dev'essere purificato, e ciò che è imperfetto dev'essere portato a perfezione. L'educazione divina mira a far sì che l'uomo appartenga totalmente a Dio e in questo modo faccia ritorno a se stesso. 1 I. Con fare comprensivo, nella frase conclusiva al v. I I, Ebr. am mette che per chi la riceve l'educazione comporta sempre una certa sofferenza. Tuttavia è importante guardare al guadagno, ossia alla giu stizia che s'instaurerà in modo per così dire naturale, come frutto «di pace» dopo il tempo della lotta dolorosa. Se abbiamo visto giusto, al lora con questo Ebr. intende l'uomo che attraverso confusione ed er rori, lotta e sofferenza, viene condotto alla pace interiore e all'unità interiore con se stesso.
Un a santificazione insufficiente può portare alla perdita del diritto di primogenitura ( I 2, I 2- I 7) 1 2 Perci ò «rinfrancate le mani stanche e le ginocchia infiacchite» 1 3 e «date ai vostri piedi un passo diritto», affi nché lo zoppo non si sloghi, ma piut tosto si guarisca. 1 4 «Ricercate la pace» con tutti e anche la santificazione, senza la quale nessuno vedrà il Si gno re. 1 5 Vegliate che nessuno smarrisca la grazia di Dio, «che non spunti alcuna radice amara a fomentare disordi ni» e non ne vengano infettati in molti; 16 che nessuno sia fornicatore o profa natore come Esaù, che per una sola pi etanza «vendette la sua primo gen itura» . 1 7 Sapete infatti che egli, quando poi volle ereditare la benedi zione, fu respinto; non trovò possibilità alcuna di ravvedimento, sebbene la richiedesse con lacrime. I�
/s. J 5 ,J· IJ Prov. 4,26a. 14 Sal. J4, 1 sb. I s Deut. 29, I 7C. 16 Gen. 2 5 ,JO ss. 17 Gen. 27,J 8.
1 2.. La dura scuola dell'educazione divina non è certo risparmiata al credente. Ciò che però egli ha in più rispetto agli altri, che percorrono la loro strada senza Dio, la conoscenza dell'ordinamento e del fine for mativo di tale educazione. Lo esplicitano in modo eccellente i versetti 1 2, I 2- I 7. Con il «perciò» del v. 1 2. si traggono brevemente le conse guenze pratiche. Esse traggono autorevolezza dall'essere affermazioni dell'Antico Testamento e riportano ancora una volta alla mente l'im magine della gara decisiva ( I 2, I ) , anche se ovviamente con un certo spo stamento tematico. Gli ascoltatori che, come illustrato, sono consape voli dell'educazione di Dio, sono tenuti a sentirsi direttamente respon sabili gli uni degli altri. Non possono esservi defezioni. N es suno deve rimanere indietro. L'intera persona dev'essere compenetrata del com pito. Cercando parzialmente appoggio in /s. 5 3 ,3, E br. esige per prima cosa che si rinfranchino le «mani stanche» e si raddrizzino le «ginoc chia infiacchite» (cf. anche Sir. 2 5 ,22; Ger. 4,3 I ; 6,24; 27,43; Sof 3 , 1 2 ecc.; inoltre 1 QpHab vn, 1 1 ). 1 3 . Tutti poi debbono tendere a un «percorso diritto» e a non vacil lare, come è detto in riferimento a Prov. 4,26. Il cristiano, infatti, deve avanzare conscio della meta, senza però trascurare mai chi è debole e storpio, che altrimenti cederebbe del tutto. Laddove è possibile, e con l'opportuno sostegno, anche quest'ultimo riacquisterà la capacità di camminare. Nelle parole che seguono la responsabilità di tutti verrà ul teriormente ribadita. 1 4. La comunità integra ha bisogno di pace (cf. Sal. 34, 1 5 e /s. 5 1 , 1 ). O gnuno deve perseguirla in considerazione di tutti gli altri. Ebr. ricor-
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1 2,12-17. La perdita del diritto di primogenitura
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da quindi una richiesta fondamentale avanzata in modo nuovo da Ge sù (Mt. 5,9), divenuta tema principale dell'esortazione neotestamenta ria (cf. Rom. 1 2, 1 8; 1 4, 1 9; I Pt. 3 , 1 1 ; 2 Tim. 2,22). Essa prescrive il com portamento da tenere nei confronti del prossimo e in primo luogo, ov viamente, in seno alla comunità che non può parlare di perdono senza darne prima l'esempio. Ebr. ne dà energica assicurazione ricordando la santificazione personale, «senza la quale nessuno vedrà il Signore». La durezza dell'osservazione è inequivocabile. Quasi incidentalmente si riporta nuovamente l'attenzione sull'obiettivo (cf. Mt. 5, 8; 1 Gv. 3 , 2; I Cor. I 3,I 3 ecc.). Con il titolo «Signore» stavolta s'intende Dio, diffi cilmente Cristo (comunque cf. 9,28). La giusta direzione in avanti non impedisce di vedere il presente, al contrario! 1 5 · S'impone un triplice compito. In primo luogo bisognerà badare che non vi siano ritardatari che perdano il contatto con la «grazia di Dio>> . All'interno della comunità, tutti hanno il compito di sentirsi re ciprocamente responsabili. È significativo che non si faccia cenno al l' elemento disciplinare. Con una nuova variazione viene ripreso un pensiero che era già stato formulato in precedenza: in 4, 1 con un ta glio prevalentemente teologico, e in I o,2 5 in modo estremamente con creto. In secondo luogo si farà attenzione perché nessun membro del la comunità se ne allontani esasperato, diventando per essa un fattore di agitazione e turbamento. Quest'affermazione riprende quasi alla let tera Deut. 29, 1 7( 1 8), in cui l'idolatra viene paragonato a una radice che cela in sé «veleno e fiele»; invece di «fiele» Ebr. legge «che fomenta di sordini ». Quando poi si asserisce che ne possono venire infettati, let teralmente «macchiati», in molti, allora l'avvertimento potrebbe esse re diretto contro una nascosta inclinazione al separatismo. N on solo false dottrine, ma anche strane concezioni morali in una comunità re ligiosa potrebbero assumere forme svianti, per non dire abnormi. La storia del settarismo nella chiesa primitiva offre svariati esempi di svia menti umani. 1 6. Forse da qui nasce il passaggio logico per il v. 1 6 in cui, in terzo luogo, l'esempio della vita di Esaù ( 1 1 ,2o) serve a dimostrare che nella comunità cristiana non c'è spazio per la fornicazione e la profanazio ne. Esaù, che per un'unica pietanza vendette la sua primo genitura ( Gen. 2 5 , 3 3 ), nella tradizione giudaica posteriore è considerato esempio re pellente di cupidigia smodata (v. ad es. Filone, Virt. 208 ecc.). Egli in carna l'uomo sconsiderato al quale l'egoismo e la soddisfazione degli
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istinti importano sopra ogni altra cosa. Di lui risulta sgradita soprat tutto la tendenza all' «empietà» e alla «cattiveria», con cui s'intende una vita senza legame con Dio e in permanente contraddizione con l'ordinamento divino. 1 7. Prendendo riferimento alla tradizione comune («sapete»), E br. introduce con particolare gravità il tema della decisione radicale anche nell'ambito della condotta di vita morale. Senza prendere in conside razione il ruolo di Giacobbe, la perdita della benedizione è indicata come conseguenza immediata di una sconsiderata rinuncia al diritto di primogenitura. Visto come persona che crolla a causa di se stesso e del proprio egoismo, Esaù diventa il personaggio che comprova l'esisten za di un «troppo tardi» definitivo. Nella lettera agli Ebrei il ravvedi mento è non solo questione di buona volontà da parte dell'uomo, co me potrebbe intendere un equivoco psicologico, ma una possibilità concessa esclusivamente da Dio. Quando è detto che Esaù «non trovò spazio di ravvedimento» {lett.) nonostante la richiedesse con le lacri me agli occhi (cf. Gen. 27,3 8}, la testimonianza biblica è approfondita e radicalizzata in tal senso. Con una concettualità tipica, si afferma che la ricusa della benedizione divina, dunque dell'offerta di salvezza, non poté più essere revocata. Il concetto di «ravvedimento» non si ri ferisce a una qualche mancanza, ma allo scopo ultimo: nel pensiero di Ebr. , alla «benedizione» e alla «promessa» per eccellenza. La verità enunciata potrebbe anche essere formulata nel principio che senza la croce per il cristiano non esiste salvezza ( 6,6}. Il perdono si colloca nell'orizzonte dell'offerta divina: uno spazio aperto, ma anche con li miti precisi ( 1 2,24).
Diversamente dalla rivelazione concreta e terrena sul Sinai, la rivelazione ultima di Dio supera ogni immaginazione ( 1 2, 1 8-29) 18 Vo i infatti non «vi siete accostati a un fuoco» tangibile e ardente, a una «nube», a una «tenebra», a una «tempesta», 19 a uno «squillo di tromba» c a un «suono di voci»; quelli che lo udirono non tollerarono che la parola venisse più rivolta loro, 20 perché non sopportavano l'ordine: «Anche 'se è un animale' a 'toccare il monte', 'sia lapidato'!». 2 1 La visione era così terrificante che anche Mosè disse: «'Sono spaventato' e scosso». 22 Invece voi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio viverite, alla Gerusa lemme celeste, e alle miriadi di angeli, all'adunanza festosa 23 e all'assem blea dei primogeniti che sono scritti nei cieli; a un giudice, il Dio di tutti, c
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agli spiriti dei giusti resi perfetti; 24 a Gesù, garante di un testamento nuo vo, e al sangue dell'aspersione, che dice cose più grandi di quello di Abele. 25 Badate di non rifiutare colui che parla, poiché se quelli che rifiutarono colui che si era manifestato sulla terra non trovarono scampo, molto meno noi, se volteremo le spalle a colui che (parla) dal cielo. 26 La sua voce in passato «fece tremare» la terra, ma ora ha fatto una promessa che afferma: «'Ancora una volta farò tremare' non solo 'la terra', ma anche 'il cielo'». 27 Questo «ancora una volta» però rende manifesta la trasformazione di ciò che essendo stato creato può essere scosso, affinché rimangano le cose in crollabili. 28 Perciò, poiché riceviamo un regno incrollabile, dimostria moci riconoscenti, servendo in modo gradito a Dio con timore e rispetto. 2 9 Perché anche il nostro «Dio è un fuoco divoratore». 1 8 s . Es. 1 9, 1 2- 1 9; Deut. 4, 1 1 s.; Deut. 5,22 s . % o Es. 1 9, 1 % s . %1 Deut. 9, 1 9. 2. 6 Sal. 1 1 4,7; Giud.
S ,4 ss.; Agg. 2,6. %9 Deut. 4,24; 9,3 .
1 8-24. L'invito a una risolutezza estrema risulta rafforzato dall'in troduzione a sorpresa di una tematica nuova riguardante la grandezza del contenuto della speranza concesso («infatti» , v. I 8). Partendo dal l'antitipo della rivelazione del Sinai si passa, con un'illustrazione in crescendo, al fatto sconvolgente della futura rivelazione sul Sion. Essa proverrà dal luogo in cui Cristo è stato elevato e dal quale verrà svela ta la sua signoria universale (cf. Sal. 1 I O, I ss.). L'intera pericope I 8-24 è incentrata sul raffronto tra le due rivelazioni: l'una era stata terrena e materiale, terrificante, l'altra sarà invece celeste e soprannaturale, fon te d'immensa gioia. Questo tipo di dimostrazione doveva aver avuto forza vincolante in particolare per gli ascoltatori giudeocristiani, dato che nel pensiero di allora l'evento del Sinai era ormai da tempo dive nuto significativo sulla base della sua simbologia escatologica. La no vità di Ebr. risiede nel fatto che l'attesa di Dio è giustificata prenden do a fondamento il sacrificio di Cristo (I 2,24). Come un tempo Mosè era comparso come mediatore dell'antica alleanza, così ora Gesù è ga rante di un testamento nuovo, in grado di assicurare un avvenire più grande. È evidente che con questa pericope viene posta la gloriosa chia ve di volta alle affermazioni della parte centrale (4, 1 4- I O, I S). È come se i cristiani di origine giudaica dovessero essere condotti alla verità vera e propria mediante una conoscenza provvisoria. 18. Atteggiamenti errati sarebbero giustificabili se le persone inter pellate avessero avuto accesso solo a una rivelazione tangibile, come un tempo sul Sinai. Per quanto sconvolgente fosse stato l'accaduto, tutta via le sue strutture e il suo carattere valevano puramente a titolo d' esem-
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pio. Il cristiano sappia che lo attende invece qualcosa di impareggiabi le c di magnifico. N ella prima manifestazione, infatti, Dio si manten ne nascosto, e l'intera realtà della sua residenza non era ancora visibi le. Il popolo dell'esodo si trovò davanti a un «fuoco ardente» e «tan gibile» . La descrizione sottolinea immediatamente la materialità della rivelazione e con ciò la sua importanza secondaria. Con pochi altri manoscritti non ammetteremo la versione troppo piatta del «monte tangibile» o quella del «fuoco non tangibile». Infatti si trascurerebbe che ancora una volta vi è un uso linguistico tipico ispirato a Filone, in quanto anche l'alessandrino mette in risalto la materialità percepibile nell'evento del Sinai. Su questo sfondo il termine «tangibile» si riferi sce alla manifestazione del fuoco, impenetrabile e concreta, che nasco se persino il luogo della rivelazione (cf. Somn. r , r 1 4). È significativo che Filone interpreti il nome di Mosè col fatto che questi avrebbe «toc cato» qualcosa di divino {cf. Es. 24, 1 ss.). Comunque sia arrivato a que sta concezione singolare e tipica, Ebr. sembra indicare la forma mate riale, inferiore della rivelazione. Sullo stesso piano si colloca anche il successivo elenco di momenti particolari (da Es. 1 9, 1 6 ss.; Deut. 4, 1 1 ss. e 5 ,2 2 ss.). La «nube» e la «tenebra» sottolineano che Dio si è man tenuto nascosto nonostante comparissero segni terrificanti della sua presenza. 1 9. La circostanza della «tempesta» evidenzia la potenza della mani festazione, in particolare come dimostrazione giudiziale. Quanto allo «squillo di tromba» e al «suono di voci», essi attestano il carattere ver bale della rivelazione, nonché la santità distruttiva delle cose udite, anche se solo come diretta manifestazione divina. Deut. 4, I 2 afferma: «Voi udivate un suono di parole, ma non vedevate alcuna figura» . E br. 2,2 afferma che le parole della legge sono state trasmesse per mezzo di angeli. Le circostanze concomitanti citate hanno impegnato, a quanto pare in modo particolare, il pensiero dei dottori del giudaismo. Filone può descriverle in modo similare (Dee. 44,46). L'importanza dell'im p egno degli scribi risulta dal fatto che la venuta futura di Dio alla fine dei tempi viene messa in evidenza con i medesimi soggetti (cf. anche Dee. 49 ). Per esempio la credenza che lo squillo di grandi trombe avrebbe ridestato i morti alla vita era diffusa nel giudaismo tardo co me nel primo cristianesimo (cf. I Tess. 4, 1 3 ss.; I Cor. 1 5 , 5 0 ss.). Per Ebr. sorprende che la circostanza della rivelazione sia considerata so lamente in funzione del suo significato per il giudizio. .
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20. Per questo motivo accanto ai fatti terrificanti il v. 20 ricorda dif fusamente il terrore della comunità di Dio di quel tempo, la quale non aveva potuto sopportare le parole della legge pronunciate dalla voce divina (Deut. 5,23 ss.) . .1 1 . L'autore pone l'accento sulla minaccia di punizione (Es. 1 9, 1 3 ) elevandola a caratteristica della rivelazione, e infine sottolinea addirit tura la paura di Mosè, certo facendo ricorso a Deut. 9, 1 9, perché in questo modo il mediatore dell'antica alleanza è divenuto personalmen te prova evidente del carattere di giudizio e di morte propri dell'al leanza. Viene chiaramente delineandosi che Dio non era raggiungibile né si era rivelato in modo veramente personale. Ma ciò che un tempo era impossibile ora caratterizza esattamente quella realtà disvelata alla comunità cristiana. A questa fu consentito accostarsi alla residenza san tissima. 22-24. Se abbiamo ragione, allora - a differenza di quanto sostengo no parecchi esegeti - né in I 8 ss. né in 22 ss. siamo di fronte a un elen co rigidamente strutturato. Tuttavia è evidente che anche questa raffi gurazione, in quanto opera linguistica studiata (elementi in coppia), intende entusiasmare e spronare. La palese componente attuale, «voi vi siete accostati)), trova forse la spiegazione più attendibile nella si tuazione liturgica e cultuale per la quale l'omelia era stata originaria mente composta. Fin nella forma linguistica essa è espressione di una fondamentale esperienza di fede pasquale, la quale osa non solo af frontare il futuro, ma anche descriverlo. Il periodo è composto da cinque espressioni a due membri, introdotte da «voi vi siete accosta ti)). È evidente che i singoli elementi rispettano un certo ordine, e dal punto di vista tematico si ha un crescendo: luogo della rivelazione («monte Sion e città di Dio» l « Gerusalemme celeste e miriadi di an geli))), modalità della nuova rivelazione («adunanza festosa e assem blea dei primogeniti» l «il giudice e gli spiriti dei giusti»), loro garan zia e fondamento («Gesù e il sangue dell'aspersione»). 22. a) Luogo della rivelazione è il monte Sion e la città di Dio. Allo ra, luogo in cui il popolo temeva di dover morire di fronte alla terri bilità della manifestazione (Es. 20, 1 9; Deut. 5,23); ora, luoghi di vita; il monte Sion come residenza celeste di Dio (cf. Sal. I 1 0,2; 73, 5 ) dal punto di vista storico-religioso è idea proiettata in uno spazio sovra dimensionale proprio dell'aldilà (cf. anche Apoc. 1 4, 1 ), idea di un'atte sa salvifica storica d'Israele che un giorno sarà universale (cf. fs. 8, 1 8;
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Gl. 4, 1 7; Sal. 2,6; Iub. 1 ,2 8 e molti altri). «Sion» racchiude l'essenza dell'obiettivo della speranza, ossia l'insieme delle promesse fatte (cf. già 1 I , I o ) . Tutti gli altri elementi cercano anch'essi di illustrare ciò che in fondo è inesprimibile e inimmaginabile. Come già nel pensiero re ligioso d eli' Antico Testamento, Si o n e Gerusalemme sono grandezze equivalenti (cf. Sal. 5 1 ,50 ecc.) in quanto luogo e città della promessa; così anche qui, ove subito si precisa: «e alla città del Dio vivente». Con ciò si allude al fatto che la comunità cristiana si trova alla sorgen te della vita. Come una fortezza su un'altura inespugnabile, questa città si erge davanti ai fedeli. Non è un miraggio dovuto a follia reli giosa, ma simbolo ultimo di Dio stesso. b) La seconda duplice espressione, «la Gerusalemme celeste e mi riadi di angeli», ancora una volta si riferisce al luogo della rivelazione, introducendo però immediatamente la prospettiva di un luogo pieno di vita. Già nella concezione del giudaismo contemporaneo le forme ideali e stupende della Gerusalemme futura, in genere soltanto rinno vata, superano ogni immaginazione (4 Esd. 7,26; Bar. syr. 40, 1 s.; Ps. Sal. 1 7,22 ss. ecc.). I testimoni del Nuovo Testamento mantengono in misura maggiore la sua assoluta trascendenza (cf. Gal. 4,26; Apoc. 2 I , 1 0 ss.). L a lettera agli Ebrei non sembra neanche prendere in conside razione l'eventualità di una discesa in un mondo trasformato (a diffe renza di Apoc. ), dato che l'autore pensa in termini di rigida contrap posizione tra mondo terreno e mondo celeste. Quest'ultimo, tuttavia, non è una realtà astratta, bensì comunione perfetta tra persone, come viene evidenziato principalmente con l'accenno alle «miri adi (lett. de cine di migliaia) di angeli» (cf. Dan. 7, 1 0; Hen. aeth. 1,9; Apoc. 5, 1 0 ecc.). Che il loro compito consista nel servire ed esaltare Dio lo ap prendiamo da 1,7 ss. 23. c) Con l'espressione «all'adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti che sono scritti nei cieli» l'attenzione si sposta sul popolo di Dio terreno. L'esatta separazione di questa parte di frase nel testo originario crea qualche difficoltà, ma a nostro parere può essere com piuta senza equivoci. Il termine «alla schiera festosa» in quanto ele mento indeterminato va forse riferito alle «miriadi di angeli» per sen so e logica? È a sé stante, oppure fa parte dell'espressione successiva? Secondo noi il significato e la palese preferenza per le . espressioni a due componenti fanno apparire plausibile solo la seconda ipotesi. E br. parte dal presupposto che i cristiani a cui scrive facciano parte di una
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comunità più grande, i cui membri si riuniscono sulla terra e nel cielo per adorare Dio. In tal senso anche i cristiani a cui si rivolge fanno parte dei «primogeniti», cioè dei privilegiati, e questo in base al loro diritto di primogenitura che va custodito con ogni cura (vv. 1 6 ss.). È probabile che con questo si intenda dire qualcosa ai cristiani di origi ne giudaica, qualcosa che essi, in quanto appartenenti a Israele, «figlio primogenito di Dio» (cf. Es. 4,22 ss.; Sir. J6, 1 7), dovrebbero conosce re particolarmente bene. Il loro nome sta scritto nei libri celesti (cf. Dan. 1 2, 1 ; Le. 10,20; Fil. 4,3 ; Apoc. 3 , 5 ecc.), e questo significa che i lo ro diritti futuri non saranno assolutamente messi in dubbio da Dio. Se poi quest'assemblea terrena viene definita così insistentemente «adu nanza festosa», evidentemente è perché si era consapevoli di star vi vendo una celebrazione liturgica grazie alla quale l'unione con gli abi tanti dei cieli sembrava immediatamente concessa. d) La frase inerente al «giudice» e agli «spiriti dei defunti» va cor rettamente tradotta per coglierne il significato. N on ci si riferisce alla generica verità rappresentata dall'espressione «a Dio, il giudice di tut ti», bensì all'altra per cui ci si presenta anche (!) davanti a un giudice che è «Dio di tutti>>. Con ciò si afferma che quanti si stanno accostan do possono ritenersi certi anche del Dio onnipotente. Egli è giudice in qualità di colui che vorrebbe agire davanti agli uomini a loro favore e che può procurare loro giustizia (v. anche 1 0,3 5 ); perciò si aggiunge «e agli spiriti dei giusti portati a perfezione». Essi possono essere considerati testimoni della consolazione promessa. Già il giudaismo precristiano riteneva che la schiera dei credenti che hanno perseverato nella vita e nella sofferenza risiedesse presso Dio (Hen. aeth. 3 9,4 ss.; Asc. !es. 4, 14 ecc.). Quest'idea è stata ripresa da lì, anche se in chiara contraddizione con 1 I ,40 in cui i credenti dell'Antico Testamento era no considerati non ancora «resi perfetti». Poiché è difficile che siano intesi i soli defunti cristiani, è possibile che, seguendo lo schema tradi zionale, quanto avverrà in futuro sia elevato a realtà valida già ora. È indubbio che l'affermazione punti alla perfezione in quanto realtà non solo personale, ma anche universale . .2.4. e) Tale ipotesi è avvalorata dal fatto che nell'espressione con clusiva si parla di Gesù, mediatore di una «alleanza nuova, cioè con clusa solo da poco», e del suo «sangue», dal momento che proprio in questo ha fondamento ogni nuova conquista. Il carattere sacrificale dell'evento di Cristo si presenta come mistero portante della rivela-
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Ebr. 11,1 8-19. La rivelazione ultima di Dio supera ogni immaginazione
zio ne ultima di Dio, alla quale la comunità può accedere. Analogamen
te, in un'epoca successiva l'Apocalisse di Giovanni può vedere l'agnel
lo di Dio come centro di ogni evento escatologico ultraterreno. Con linguaggio tipico, Ebr. riesce ancora una volta a richiamare alla me moria le considerazioni principali dei capitoli precedenti (7,20 ss.; 8,6 ss.; 9, 1 I ss. I 5 ss.; I O, I 9 ss.). Richiamandosi al tempo stesso anche a I I , 4 osserva che il sangue d i Gesù dice «cose superiori» o «più grandio se» rispetto a quello di Abele. Come all'inizio della storia umana, an che alla fine vi è del sangue versato. Il primo grida per essere vendica to, il secondo offre perdono e remissione. Senza bisogno di parole si prende · atto (v. però cap. I I) che, in fondo, tutto lo sviluppo storico mette in luce che cosa è l'uomo: un omicida, come Caino. Resta dun que aperta la domanda se l'uomo cerchi un suo posto stabile laddove non solo lui, ma anche Dio ha operato, per venire sì purificato ma, oltre a ciò, anche «reso perfetto». 2 5 . L'ultima parte riprende il tono del monito (vv. 1 2- 1 7). Che nes suno neghi la gravità della situazione! Senza passaggi intermedi e in modo quasi minaccioso, a quanti ascoltano il sermone s'impone di non rifiutare Dio, colui che parla. Ora che intende concludere la sua testi monianza, l'autore si fa estremamente esplicito e non nasconde più il proprio proposito. Il comportamento che bisogna tenere può essere dedotto direttamente da quella prima rivelazione di Dio sul Sinai. Quando parla il Dio della rivelazione, l'uomo è tenuto ad ascoltare e ubbidire. E non devono esservi assolutamente più indurimento e ri fiuto (v. I 9; 3 , 7 ss.), che già un tempo avevano portato alla punizione e alla morte la generazione dell'esodo. Qualcosa di più grande si sta de lineando. Se già quella non era scampata al giudizio, tanto più la co munità cristiana se dovesse deviare (v. anche 2,3). A quel tempo si trattava di una rivelazione nell'ambito delle possibilità terrene, ora pe rò l'annuncio verrà dal cielo, dunque senza misura né limiti. Ora si tratta di rendere perfette le cose. Ancora una volta si torna sulla con vinzione che già caratterizzava il grandioso prologo: Dio parla ancora e in maniera definitiva mediante suo Figlio, che ha costituito Signore su tutte le cose ( I ,2). Ovviamente i singoli particolari non vanno più discussi. Ormai il concetto per cui Cristo va compreso come mediato re dell'ultima rivelazione è stato sviluppato appieno. Tuttavia il v. 2 5 non si riferisce a lui. Ora, con concisione laconica e in modo quasi atemporale, si può affermare che c'è qualcuno che parla, ossia Dio.
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1 2,1 8-29. La rivelazione ultima di Dio supera ogni immaginazione
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Rifiutarlo sarebbe da sconsiderati, poiché non potremmo mai sfuggir gli. Egli ci ha sempre in suo potere, o come Dio misericordioso o co me colui che giudica. Di fronte all' onnipotenza della sua parola non serve «allontanarsi», perché dal tempo di Cristo Dio non parla più in modo indiretto, ma diretto. La verità del carattere personale di Dio viene proposta con estrema insistenza agli ascoltatori ricorrendo a un vocabolario tipico e ricco, che descrive Dio come colui che si rivela nella parola. Egli «parla», «annuncia», si manifesta come «voce)) e «do na la sua promessa)) (vv. 25 ss.). In questo mondo Dio non viene per cepito e guardato, ma ascoltato nella sua parola. Proprio per questo egli è presente ed operante. E proprio per questo un tempo aveva già «SCOSSO>> la terra. 26. Ebr. giunge a quest'affermazione generica sullo scuotimento del la terra operato dalla voce di Dio partendo da Es. 1 9, 1 8 . Il fenomeno acquista carattere di tipicità per giungere a un'affermazione di stampo teologico. Dal punto di vista del linguaggio e del contenuto, sembra esservi meno dipendenza da Sal. 68,9 o Sal. 77, 1 9 che non da Sal. 1 1 4,7, anch'esso un salmo dell'hallel la cui descrizione dell'esodo può aver ispirato in modo particolare il pensiero. Dietro al testo potrebbe anche esservi Giud. 5,4 ss. La voce di un tempo si contrappone ora alla promessa appena fatta, uguale all'importante profezia di Agg. 2,6. Con lieve spostamento logico dal v. 26a al v. 26b non viene annunzia to in primo luogo l'imminente «scuotimento» futuro, ma viene invece menzionata la promessa fatta «adesso». Il testo stesso viene variato in base al procedimento, tipico di Ebr., dal minore al maggiore («non solo, ma anche))). Come sempre è la versione dei LXX a essere ripresa, e per di più anche ridotta all'essenziale. A differenza del testo origina rio ebraico, al centro dell'attenzione non vi è più l'imminenza della rivelazione ultima e la realizzazione della salvezza, quanto l'accentua zione dell'ancora-una-volta conclusivo. Questa circostanza è probabi le abbia fatto apparire particolarmente indicata a Ebr. la citazione bi blica, in quanto gli si offriva l'opportunità di applicare l'ancora-una volta a una rivelazione conclusiva di Dio, che andava ben oltre la rive lazione del Sinai. Abbiamo già osservato più volte l'influenza che do veva esercitare su Ebr. l'idea della sua imminenza temporale ( I O,J 7 ss.). In questo passo l'idea centrale è quella dell'unicità e irripetibilità. Con notevole moderazione si rinuncia a descrivere come avverrà l'ul timo scuotimento della terra. N on sarà il fantasioso quadro di un ter-
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Elw.
1�,1 8-29. La rivelazione ultima di Dio supera ogni immaginazione
rificante «spettacolo cosmico» a portare al discernimento, bensì la pa rola impegnativa relativa a un'ultima azione globale. Ancora una volta si delinea chiaramente la tendenza ad affermazioni fondamentali . Og getto della speranza non possono essere alcuni particolari di contor no; la decisione dipende invece da se e in quale misura Dio, in quanto autorità capace di rivelazione, viene compreso e riconosciuto («farò tremare»). Se Dio con la sua parola era presente al principio e se tale parola è rimasta viva nella storia fino a questo momento, allora anche la fine ne sarà condizionata. Il linguaggio porta l'impronta di una concezione teologica che racchiude ogni cosa: «Ora però {presente) ha fatto una promessa {passato): 'Farò tremare ... ' (futuro)». Non c'è dubbio! Tutto quello che diciamo a proposito di ciò che vi sarà o av verrà alla fine dipende dal credere e comprendere o meno Dio come persona. Ma la fede nell'Uno e nel Vivente condiziona anche tutte le affermazioni sulle «verità ultime», nonché la descrizione di ciò che cresta». � 7· Da questo punto di vista il v. 27, con la sua distinzione filosofica concettuale tra le cose che possono essere scosse e quelle che non lo possono, è in funzione della dimostrazione teologica vera e propria. Analogamente al linguaggio delle cose visibili e invisibili ( I I , I ss.), questa distinzione dà voce alla convinzione che esista un mondo delle cose create e un mondo eterno del creatore; ma mentre il primo p asse rà, il secondo, con una «trasformazione» che va oltre qualsiasi imma ginazione, diventa una realtà che «resta» essendo incorruttibile per na tura (cf. anche 7,3 .24; 10,34; I J , I . I4). Quella di cui si parla è una tra sformazione ben precisa (v. l'articolo), che va nel senso della testimo nianza dell'attesa biblica, proprio come alla fine del libro del profeta Isaia è detto (66,22) che il cielo nuovo e la terra nuova «restano da vanti a lui>> . Con l'immagine della labile struttura che regge la crea zione terrena, ancora una volta entrano in gioco accenti profonda mente esistenziali; infatti, fragile come la nostra vita è anche la terra su CU I VIVIamo. 28. Solo nella frase conclusiva dell'omelia emerge, quasi incidental mente, che il bene incrollabile della speranza, ricevuto dalla comunità, si identifica in una «signoria regale». Se anche Ebr. non ne ha ancora parlato esplicitamente, tuttavia non si può assolutamente ignorare che, pur con ogni sfumatura filosofica del linguaggio, non si è mai inteso qualcosa di diverso. La signoria di Cristo sommo sacerdote (cf. Sal. I I o)
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I 2,1 8-29. La rivelazione ultima di Dio supera ogni immaginazione
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non può essere immaginata senza il regno del suo popolo. Alla «fine di tutte le cose>> non vi è un'esistenza divina astratta, ma la signoria di Dio in quanto regno ricolmo di vita. Ciò che già nell'Antico Testa mento trova menzione caratteristica (cf. Dan. 7, 1 8; Agg. 2,2 1 ss. ecc.), nella testimonianza di Ebr. si pone indubbiamente come essenza della salvezza disvelata e fondata in Gesù. Lo stile della frase, alla prima plu rale, introduce un tono di certezza personalissima. S'intuisce che la co munità di Cristo, che diviene partecipe del regno di Dio, può ritener si un popolo regale. Essa non vive oppressa né costretta, bensì in vista di un dono attribuitole. L'atteggiamento che le si addice può dunque essere solo quello di gratitudine nei confronti di Dio. Quando nel se guito si afferma che noi lo «serviamo» in modo a lui gradito, al di là della genericità l'affermazione ha uno stretto riferimento cultuale (v. anche ro,2 5). Che tutta la vita del cristiano debba in fondo essere un culto (cf. anche Rom. 1 2, 1 s.) è un concetto che viene ulteriormente sviluppato nell'appendice parenetica della lettera. Alla fine della vasta omelia, tuttavia, simile riflessione è difficilmente pensabile senza un riferimento immediato al tempo e alla situazione della comunità in a scolto. Il «noi» del versetto conclusivo, dunque, non è solo un sogget to comunicativo nel quale l'oratore e l'uditorio confluiscono ancora una volta in una decisione comune («dimostriamoci ... »), ma è piutto sto un soggetto «liturgico». Ovunque un'assemblea si raduni, parla co me una totalità che è qualcosa di più della somma di opinioni e modi di fare personali. Il suo «timore e rispetto» è rivolto a Dio, il quale ha fatto cose grandi e ne ha preparate di meravigliose. �9· Egli è il santo di cui la Scrittura afferma (cf. Deut. 4,24; 9,3 ) che è un «fuoco divoratore». Infine, anche la comunità neotestamentaria deve badare a non trascurare la realtà di Dio, davanti alla quale, a suo modo, stava già il popolo di Dio sul Sinai. È così che va compresa la citazione, marginale ma al tempo stesso facilmente attualizzabile. Se anche l'idea non è che il Dio della comunità neotestamentaria è diver so da quello d eli' Antico Testamento, tuttavia, a ben guardare tutte le considerazioni, non si trascura mai che vi sia un adesso ben diverso da un allora. L'unità del tutto quindi non è un'unità dell'evento, ma della persona. Ricolma di santità maestosa, essa caratterizza la realtà globa le dalla quale riceve legittimazione l'annuncio liberatorio del sacrificio di Cristo e del regno futuro.
Parte quinta (appendice)
Indicazioni per la vita dei singoli cristiani e della comunità, epilogo, notizie personali e saluti ( 1 3 , I - 2 5) I l cap. I 3 si distingue chiaramente dai precedenti per forma e contenu to. Non diremo che sia un'aggiunta, tuttavia è evidente che si tratta di un'appendice. Essa prova che l'intero scritto è un'omelia messa in for ma di lettera, ed è proprio in quest'ultima parte che si ha una certa vi cinanza al formulario epistolare paolino. Non solo ne ritroviamo le caratteristiche tipiche, ma anche linguaggio e stile si fanno più sem plici. Da qui emerge una serie d'interrogativi, come la ricerca aveva più volte intuito, riguardo alla stesura, origine e impiego della lettera, interrogativi che nel quadro del presente commento possono trovare soltanto un tentativo di risposta. Fondamentalmente bisogna prende re atto che al giudizio sul valore storico del cap. I 3 è sempre legato anche quello sul ruolo di tutta la lettera nel cristianesimo delle origini. 1 -6. Invece di trattazioni tematicamente concluse abbiamo diversi gruppi di frasi ammonitrici, collegate più o meno strettamente. Un pri mo blocco si ha nei vv 1 -6. Le dichiarazioni ivi raccolte riguardano più che altro le aspirazioni etiche del singolo cristiano, al quale viene detto in modo molto concreto come deve comportarsi. Le indicazio ni, in parte dal tono imperativo, sono messe insieme a caso. È proba bile che qui sia stato raccolto prevalentemente un insegnamento cate chetico tradizionale. In modo affatto semplice e inequivocabile si esi ge amore per i fratelli e il prossimo (vv. J s.), in particolare in forma di ospitalità e assistenza ai carcerati (v. 3 ); si richiede inoltre una lotta morale sul piano della vita sessuale, nonché del rapporto con il denaro (vv 4 e 5 ). Due citazioni bibliche concludono questo primo blocco. 7- 1 7. Nei versetti seguenti l'attenzione si sposta maggiormente sulla comunità nel suo insieme, che necessita di determinate norme di con dotta. In base a questa considerazione è opportuno considerare i vv. 7- 1 7 una piccola sezione a sé stante, anche se non proprio molto uni taria. Accanto a nuove parole di monito (vv. 7·9· I 5 . I 6. 1 7) incontriamo frasi che in parte motivano (vv. 9b. I 6b. I 7b.) e in parte sono di conte nuto confessionale (vv 8 . 1 4). I vv 1 0- 1 3 danno l'impressione di esse.
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Ebr. 1 3, I -6. Come deve comportarsi
il cristiano
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re un excursus sul ragionamento omiletico. È evidente che da essi emer ge il tipico pensiero teologico di Ebr. , per cui ancora una volta si evi denzia che il cap. I 3 è in stretta connessione con i capitoli che lo pre cedono. Per quanto riguarda questo blocco si osserverà anche che al v. I I si parla nuovamente del sommo sacerdote in linea con la tematica complessiva maggiore. Nel v. I 5 , con l'esortazione a offrire «sacrifici di lode» risuona nuovamente e in modo assai tipico un motivo dell ' hal lel (cf. Sal. I I 6, 1 7). Anche l'interpretazione fornita suscita associazio ni del genere (cf. Sal. I I I , I ; Sal. I I 8, 1 .2 1 .28). Ad ogni modo, grazie a indicazioni di vario tipo la comunità risulta delineata con maggior pre cisione ( vv 7·9· I 7), il che rafforza l'ipotesi che l'autore fosse ben in formato circa la sua situazione. I S-2 5. Nella conclusione vera e propria della lettera (vv I 8-2 5) i ri ferimenti personali prendono il sopravvento. Indubbiamente vi sono molte cose che dipendono dalla loro chiarificazione, dato che l' enig ma letterario della lettera agli Ebrei sussiste tuttora. Ad ogni modo i contatti con il formulario epistolare di Paolo e della scuola paolina in questa parte si fanno particolarmente stretti. Ricordiamo qui: l'invito dell'autore a pregare per lui (v. 1 8; cf. I Tess. 5,2 5 ecc.); la rivelazione di propositi personali (vv. I9 e 2J; cf. Rom. I 5,J 2; I Cor. 1 6, 1 7 s.); un augurio benedicente in stile liturgico (v. 20; cf. Rom. I 5,J J; I 6,2o; 2 Cor. I J , I 1 ; I Tess. 5 ,23); l'intento che anima la lettera (v. 22; cf. I Tess. 5,27; 2 Cor. I J , I o); i saluti da far pervenire ad altri (v. 24; I Tess. 5 ,26; I Cor. 1 6, 1 9 s.); infine l'invocazione della grazia sui destinatari (v. 2 5 ; I Cor. 16,23; 2 Cor. I J , I J). L e concordanze sono ampie e tipiche, tan to da far nascere l'interrogativo sui presupposti storici comuni. .
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Come deve comportarsi il cristiano (I J , I -6) I Che l'amore pe r i fr at e ll i continui. 2 N on trascur at e l'ospitalità, perché con essa alcuni hanno dato alloggio, senza s aperlo, ad angeli. 3 Ricordatevi di quanti sono in carcere, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono tormentati, perché anche voi avete un corpo. 4 Rispettate il matri monio sotto tutti gli aspetti, e il talamo sia incontaminato. Dio, infatti, giu dicherà i fornicatori e i lussuriosi. s La condotta sia senza avarizia, accon tentandovi di ciò che avete, poiché egli stesso ha detto: «Io non ti lascerò e non ti abbandonerò mai», 6 così che, confortati, possiamo dire: «Il Signore è mio aiuto; non avrò paura. Che cosa mi può fare un uomo ?».
5
Deut. 3 1 ,6.8
e
Gen. z8,1 5 ; cf. anche Gios. 1 , 5 . 6 Sal. II 8,6.
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Ebr.
I J,I-6. Come deve comportarsi il cristiano
1 . La comunità cristiana ha bisogno d'indicazioni morali non meno che dottrinali. Accanto al compito di cogliere e comprendere il miste ro della fede in Cristo compare sempre anche quello di permeare e dar forma con lui alla vita. A prescindere dalla profondità dell'esposizio ne, una predicazione corretta si riconoscerà dal fatto di essere in gra do o meno di dire cosa sia essenziale per la condotta di vita. L'invito a perseverare nell'amore per i fratelli ha contatti solo formali con la tradizionale dottrina morale filosofica. Per quanto riguarda il conte nuto, l'attenzione viene immediatamente rivolta a ciò che deve vera mente riempire e determinare la vita cristiana. Ciò che nel mondo el lenistico ha un'importanza etica altrettanto grande, come amore per fratelli e sorelle, nel pensiero della chiesa primitiva diventa caratteri stica eminente di un comportamento che va oltre i legami di sangue. L' «amore per i fratelli» va praticato nell'ambito della vita comunitaria e del culto comune. La testimonianza delle lettere riferite prevalente mente a delle comunità offre prove impressionanti ( 1 Tess. 4,9; Rom. 1 2, 1 0; I Pt. 1,22; 3, 8; 2 Pt. 1,7). Significativo è anche il frequente invi to, alla fine delle lettere di Paolo, a scambiarsi un «bacio fraterno>> (Rom. 1 6, r 6; I Cor. 1 6,20; 2 Cor. 1 3, 1 2; I Tess. 5,26; I Pt. 5 , 1 4). Sicura mente sarebbe errato ricondurre l'ammonimento al fatto che Ebr. , nel momento in cui scrive, teme il decadimento dell'ordinamento «frater no». L'accentuata sottolineatura di quel «continui» nasce piuttosto dal fatto che fino a questo momento l'amore per i fratelli era stato elemen to costitutivo della vita comunitaria. 2. Quando subito dopo si esorta a non dimenticare l'ospitalità, vie ne introdotto un ulteriore punto di vista. Questo valore, che nel pen siero moderno forse non è di primissimo piano, nella società antica era d'importanza fondamentale. Nel mondo greco, come un tempo in Israele, l'ospitalità aveva il valore di un ordinamento sacro. Quello che nel turbine di un decadimento morale generale probabilmente era di ventato un problema, nella comunità cristiana aveva acquisito una nuo va statura esemplare (cf. Le. ro, 5 ss.; Tert., Praescr. 20). Si era anzi in grado di fornirne una nuova motivazione ricorrendo all'attestazione dell'Antico Testamento (Gen. r 8,3; 1 9 ,2 ss.). Non vi si narra forse che Abramo e Lot ospitarono degli angeli senza riconoscerne la natura divina, fatto sottolineato anche da Filone (A br. 107 ss.) ? È probabile che l'autore abbia in mente soprattutto questi racconti (in misura mi nore Giud. 13 e Tob. 5 - 1 2}, comunque si limita deliberatamente ad al-
Ebr.
I J,I-6. Come deve comportarsi il cristiano
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lusioni per indurre i lettori ad arrischiare un'esperienza del genere. Sen za farvi cenno esplicitamente, egli intende avvalorare la parola e la pro messa di Gesù (Mt. 2 5 ,3 8.40; anche Mt. 1 0,4 1 ss.). Per quanto riguarda la linea di pensiero, vi sono contatti con Filone; anch'egli infatti consi dera l'ospitalità dimostrata da Abramo «pratica dell'amore per gli uo mini » . Presumibilmente, dietro la dichiarazione di Ebr. vi è l'intento di spianare la via ai «messaggeri divini» che percorrono il mondo al servizio di Dio. Forse era loro particolarmente vicino ? Oppure faceva anch'egli parte di uno di questi gruppi ? Lo riteniamo probabile. 3· Un duplice monito estende la pratica dell'amore fraterno alla ne cessità certamente particolare dell'assistenza ai carcerati e dell'aiuto reciproco in caso di oppressione violenta. L'esortazione «ricordatevi» ovviamente non è riferita solamente al sostegno morale - intercessioni ecc. - ma soprattutto all'amore attivo, come lascia chiaramente inten dere il testo. Il puro e semplice far memoria sarebbe tutt'altro che cristiano in una situazione veramente disperata. L'idea del com-patire con il fratello viene continuamente espressa da Paolo (Rom. 8, I 7; 1 2, I 3 ; I Cor. 1 2,26; Col. 4, 1 8). Ogni membro del corpo di Cristo deve ri spondere dell'altro (1 Cor. 1 2,2 5). Parecchi testi di età protocristiana forniscono una testimonianza notevole per quanto riguarda la solida rietà dimostrata (v. in particolare Fil. 4, 1 o ss.; I Clem. 5 9,4; I gn., Smyrn. 6,2; cf. anche Luciano, Mort. Per. 1 2). La comunità di Ebr. aveva già superato la prova che le era stata imposta ( 1 0,34), purtuttavia la situa zione era rimasta critica. È difficile che l'appunto, di tono sostanziale, possa essere riferito a una delle persecuzioni maggiori dell'epoca cri stiana primitiva. 4· Con il v. 4 l'interesse si volge alla tutela dell'amore coniugale, mi nacciato da fornicazione e adulterio. Il matrimonio è qualcosa di più di pura comunione tra i sessi legittimata; in un certo s enso si tratta della forma più stretta di convivenza tra esseri umani. Poiché dalla sua stabilità dipendono la trasmissione della vita e l'ordine fondamentale della società civile, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento essa è oggetto della legge divina. L'uomo che la distrugge in quanto ordina mento fondamentale è colpevole di fronte a Dio e ne subirà il giudizio futuro. Il deciso ethos della chiesa primitiva a tale proposito è ben no to. A esso si legava la questione della credibilità di fronte al mondo pa gano circostante, immerso in una condizione di depravazione sessua le. Il decadimento dei costumi costituiva un grave problema soprattut-
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I J ,7- 1 7.
Che cosa deve osservare la comunità
to nelle grandi città. Prendendo in considerazione il «matrimonio» e il « talamo», l'ammonimento rende parte di un comportamento cristiano sia l'istituzione sia il legame personale. L'espressione «sotto tutti gli aspetti» riguarda tutte le forme di degradazione; l'immagine del «tal amo incontaminato» condanna in special modo i rapporti adulte rini (per l'intero complesso cf. anche I Cor. 5,9 ss.; 6, 1 3 ss.; 7, 1 ss.; I Tess. 4, 1 ss.). 5 .6. Il monito a guardarsi dali' avidità, altra forma di brama egoisti ca, segue subito dopo. Il cristiano dovrebbe dar prova piuttosto di au tosufficienza, perché essa sola è conforme al carattere di fiducia della fede. È indubbio che idee simili si trovavano anche nell'etica filosofica del tempo, com'è ampiamente noto. Tuttavia il pensiero cristiano, pur facendo il medesimo tipo di riflessione, parte da presupposti differen ti. Il via non è dato da criteri negativi, ma dalla circostanza positiva che il rapporto con Dio, fondato in modo nuovo, può essere caratte rizzato da una fiducia assoluta, rendendo così possibile anche la liber tà dai beni materiali. In tal senso Ebr. si richiama alla testimonianza della Scrittura, che nel primo caso (Deut. 3 1 ,6.8 e Gen. 28, 1 5 sembra no essere combinati come in Filone, Conf 1 66) si ritrova tipicamente come parola di Dio stesso, nel secondo appare in un luogo particolare (Sal. I I 8 !). Non si può non osservare che l'ultima citazione vuole es sere di incoraggiamento per il caso di nuove ostilità, pensando più ad attacchi e calunnie di tipo personale che non a provvedimenti da parte dello stato. Cerchiamo ora di trarre una prima conclusione: questa pericope non è affatto determinata esclusivamente in senso tradizionale catechetico, ma ha un chiaro riferimento alla comunità di Ebr. In modo allusivo s'intuisce che di essa facevano parte persone che risiedevano in una collettività cittadina piuttosto grande. In linea di massima, i loro pro blemi avevano tutti origine da una certa agiatezza.
Che cosa deve osservare la comunità ( 1 J,7-1 7) 7 Ricordatevi dei vostri capi, che vi hanno ·annunciato la parola di Dio. Ri pensate all'esito della loro vita e imitatene la fede. 8 Gesù Cristo, ieri c o ggi lo stesso, lo è anche in eterno. 9 N on lasciatevi fuorviare da dottrine ambigue ed esotiche. Poiché è bene che il cuore sia rinfrancato dalla grazia, non da cibi da cui non trassero alcuna utilità coloro che ne vivevano. I o Noi abbiamo un altare del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che
Ebr. I 3,7- I 7. Che cosa deve osservare la comunità
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prestano il loro servizio nella tenda. I I I corpi degli animali infatti, «il cui sangue viene portato nel santuario» dal sommo sacerdote «per (l'espiazio ne de) il peccato», vengono «bruciati fuori dell'accampamento». I 2 Perciò anche Gesù, per santificare il popolo col proprio sangue, patì «fuori della» porta della città. IJ Usciamogli dun que incontro «fuori dell'accampamen to» e portiamo il suo obbrobrio! I4 Perché non abbiamo qu aggiù una città defi nitiva, ma siamo alla ricerca di qu ella futura. I 5 Per mezzo di lui, dun que, «offriamo in ogni tempo un sacrificio di lode a Dio» , cioè il «frutto del le labbra» che esaltano il suo nome. 16 Non scordatevi però della benefi cenza e della solidarietà. Proprio di questi sacrifici Dio s i compiace. 1 7 Ob bedite ai vostri capi e siate arrendevoli, poiché essi vegli ano sulle vostre anime come coloro che renderanno conto; affinché lo facciano con gioia e non sospirino. Questo infatti sarebbe a vostro danno.
7· Se i cristiani della comunità interpellata debbono aspettarsi che anche in futuro vi siano inimicizie, allora per essi risulta di aiuto pen sare ai loro antichi capi, lett. «guide» (per questo concetto cf. I Clem. 1 ,3 ; 2 1 ,6; Herm. Vis. 2,2,6 ecc.). Forse che questi non hanno reso testi monianza in parole ed opere alla verità dell'annuncio cristiano ? Sem bra che Ebr. abbia in mente alcuni responsabili del passato (v. in par ticolare vv . 1 7.24) che, accanto al mandato di guidare la comunità, ave vano svolto in maniera determinante anche il ministero dell'annuncio. Essendo figure ben note, il loro nome può essere taciuto. Nello stile del linguaggio protocristiano, di essi si riferisce che «hanno annuncia to la parola di Dio» (Atti 4,3 1 ; 8,2 5; Mc. 2,2; Fil. 1 , 1 4; I Pt. 4, 1 1 ecc.). In questo modo in fondo può scrivere solo un missionario cristiano. Presumibilmente vi è un'allusione al fatto che l'annuncio di quei de terminati capi ebbe un'importanza basilare per gli inizi della comunità (cf. ad es. I Cor. 1 6, 1 5 ss.). Con linguaggio conciso, dunque, nell'e spressione si trovano riassunti motivo, presupposto e contenuto della fede. Con ciò si afferma che la comunità può ritenersi inserita in una più grande storia dell'annuncio. Per quanto riguarda la testimonianza resa con le opere da quei capi di comunità, l'espressione formale e so lenne «esito della loro vita» si riferisce alla fedeltà esemplare di cui essi diedero prova. Certamente non occorre pensare al martirio, con tro cui parlerebbe anche 1 2,4, quanto piuttosto a una condotta esempla re tenuta nella lotta vitale e dolorosa, modello da cui i cristiani posso no attingere forza e conforto. Se consideriamo che si tratta di un grup-
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po di cristiani di origine giudaica, allora è a certe dispute con la comu nità sinagogale del luogo che bisogna pensare. Parlando di questa te stimonianza, la lettera agli Ebrei riesce anche a mettere in luce che personalmente egli era stato molto legato ai capi defunti. Il suo mini stero risale dunque agl'inizi della comunità ? È un'eventualità da pren dere in considerazione. 8 . Dal v. 7 ha immediata origine la formula confessionale del v. 8 . Essa ribadisce due concetti: primo, che Gesù era anche il Cristo; se condo, la sua immutabilità, simile a quella di Dio. La frase, facile da mandare a mente, non è una formula liturgica buttata lì a caso, ma probabilmente ha un riferimento attuale, dato che nella lettera si ri badisce ovunque la necessità di restare fedeli alla «confessione di fe de». La dichiarazione secondo la quale Gesù crocifisso è il Cristo ri sultava oltremodo scandalosa per la sinagoga (cf. I Cor. 1 ,23). Inoltre, attestare che costui possiede una dignità simile a Dio in quanto è «lo stesso » ieri, oggi e domani, costituiva una provocazione inaudita. Co sì com'è stilata, la formula probabilmente rivendica per Cristo (v. an che Apoc. 1,8), in modo facile da memorizzare (cf. ad es. Omero, Ilia de 1 ,70), la verità del nome rivelato in Es. 3, 14, secondo cui Dio rac chiude passato, presente e futuro (Sir. 3 8,22) perché è l'unico a essere (cf. Filone, Mos. 1 ,7 5 ). Se il contenuto della confessione di fede è così accentuatamente Cristo, allora egli fa da garante per un nuovo rappor to con Dio e per una nuova verità divina. È probabile che il v. 8 abbia il suo Sitz im Leben nelle svariate formule liturgiche della solennità p asquale (cf. Sal. I I I ,I o; 1 I J, I ss.; 1 3 6, 1 ss.). La comunità sappia che C risto, il quale nella vita dei capi ricordati ha dimostrato di essere il Vi vente, è anche suo Signore adesso (3 ,7: «oggi») e per sempre. Resta da chiedersi come ricambiare la sua fedeltà. 9· Il v. 9 introduce l'idea di guardarsi da dottrine false e allettanti. Dell'univocità della confessione di fede fa parte la stabilità della posi zione assunta. Sembra che per i lettori e ascoltatori la minaccia proven ga in particolare dall'interno stesso della comunità. Il v. 9 non parla affatto di pasti cultuali. Dal contesto e dalla motivazione addotta emerge che le prescrizioni alimentari possono esser divenute un pro blema (com'è noto, esse avevano un'enorme importanza nella vita dei giudei praticanti a causa delle norme della legge). Motivi soprattutto ascetici erano in grado di determinare in maniera decisiva il compor tamento {cf. Rom. 14, 1 3 ss.2o ss.; I Cor. 8,9 ss.). Inoltre ogni disputa
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concernente le questioni puro-impuro, lecito-proibito, idoneo - non idoneo (cf. Lev. 1 7) conduceva in una giungla di regolamenti e opi nioni senza via d 'uscita. Per una comunità giudeocristiana il problema si faceva più scottante per via dell'unione fraterna imposta con gli et nicocristiani. Con incisività quasi paolina, il v. 9b stabilisce che la ne cessaria fermezza del cuore può essere ottenuta solo mediante la gra zia, e non rispettando prescrizioni svariate e inadeguate. Con un chia ro discorso contrappone il dono di una fede semplice allo sforzo uma no di perseguire la salvezza osservando dei precetti in modo scrupo loso o sofistico. Una ricerca religiosa di tal genere non è di utilità al cuna per il singolo e va respinta sulla base di quello che è il nucleo della verità di Cristo (v. analogamente Ign., Magn. 8 , 1 ). Per meglio comprendere la posizione messa in discussione da Ebr. occorre osser vare che il giudaismo della diaspora dava un grande valore ai pasti in comune per rinsaldare i legami comunitari (cf. Giuseppe, Ant. I4, 1 0,8; Filone, Mos. 2,42). E comunque non s i tratta affatto d i pasti cultuali o sacrificali in senso vero e proprio, bensì - come sufficientemente at testato per quanto riguarda la cena pasquale - di adunanze solenni pri ve di carattere sacrificale. È comprensibile, quindi, che anche l'esigen za di «cibo idoneo» avesse un gran peso nel pensiero religioso. A que sto si riferisce Ebr. , e l'esegesi non dovrebbe ignorarlo. È ovvio che il pensiero tradizionale non poteva non avere ripercussioni sul compor tamento di giudeocristiani. Era fin troppo facile che al «cibo idoneo » venisse attribuito u n valore salvifico particolare, e contro questo peri colo Ebr. ritiene indispensabile esprimere un chiaro parere. 1 o. Col v. 1 o ha inizio una delle pericopi più difficili della lettera, una presa di posizione ulteriore basata sull'idea che quanti prendono parte al culto sacrificale levitico privano se stessi del privilegio della nuova alleanza. Con questo ci si riaggancia a temi già affrontati. L'au tore della lettera argomenta per principio. Ciò che afferma non va esa minato punto per punto. L'accento è posto sul fatto che «coloro che servono nella tenda» in quanto rappresentanti dell'antica alleanza non hanno alcun diritto di mangiare dell' «altare» dei cristiani. Che cosa si gnifica qui il termine «altare» ? La «mensa eucaristica», oppure la «cro ce di Cristo sul Golgota» in quanto altare sacrificate ed espiatorio posto da Dio nel mondo ? Considerando il riferimento liturgico nelle affermazioni della lettera, probabilmente non si dovrebbe formulare alcuna alternativa, dal momento che anche nella comunità giudeocri-
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stiana il concetto di eucarestia era applicato non al sacrificio sacramen tale ma a quello spirituale, e questo in antitesi con il pensiero sacrifi cale giudaico (cf. Mal. I , I o s.). Ne consegue che nel v. 10 il concetto di «altare dei sacrifici» può essere compreso in senso spirituale partendo dal sacrificio di Cristo (cf. 7,27; 9, 1 4.28), mentre l'espressione «del qua le mangiamo» va intesa realisticamente in base alla celebrazione, even tualmente anche sacramentale, dei cristiani. Certo quest'ultimo modo di dire non può essere inteso solo in senso figurato. Partendo da que sta interpretazione anche i versetti che seguono divengono più chiari, indicando inequivocabilmente un invito concreto espresso in una pre cisa situazione liturgica presentata (v. I 5 ) Stando a esso la comunità deve passare, confortata e risoluta, dal sacrificio sbagliato e inutile al giusto «sacrificio di lode» gradito a Dio. E questo non in modo sol tanto simbolico, ma probabilmente nel corso di una celebrazione li turgica. I 1 . Il v. I I , in ossequio a una concezione tipologica nota, fornisce il motivo per cui colui che si orienta all'antica alleanza e al suo tipo di sacrificio è privo di diritti per quanto riguarda l'aver parte alla salvez za stabilita nella croce. Stando all'ordinamento della legge veterotesta mentaria (cf. Lev. 1 6,27), durante il solenne sacrificio del giorno del l' espiazione, nel «santuario» - qui s'intende il santo dei santi - veniva introdotto unicamente il sangue degli animali uccisi, mentre la carne, trattandosi di un sacrificio di grado superiore, non finiva sulla mensa dei sacerdoti, ma veniva bruciata «fuori dell'accampamento». 1 2. Il v. I 2, certo un po' a sorpresa, prosegue nel ragionamento in modo antitipico. In quanto immagine opposta al sacrificio per il pec cato del grande giorno dell'espiazione, anche Gesù doveva «patire» fuori dal territorio sacro; storicizzando anzi è detto «fuori della porta della città» . E questo comporta che i sacerdoti che presentano le loro offerte secondo i canoni dell'antica alleanza sono separati dal suo sa crificio come da un abisso, rinunziando così a ogni diritto su di esso. Grazie a questo sacrificio vennero poste basi completamente nuove per la salvezza del popolo, basi che non è più possibile raggiungere passando per l'antica alleanza con il suo culto sacrificale e i suoi pasti rituali. Cristo è stato messo a morte fuori dalle mura della città (cf. Lev. 24, 1 4; Num. I 5,3 5 ss.); ne consegue che la situazione è comple tamente cambiata. 1 3 . Chi cerca la salvezza non solo deve uscirle incontro, ma deve .
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anche sopportarne l'obbrobrio. Dalle formulazioni possiamo dedurre che tutta la comunità deve mettersi al suo fianco. Il distacco dalla si nagoga è dunque inevitabile, tanto più che è conforme alla natura della nuova realtà di fede. 1 4. Ciò che è terreno, presente nella forma dell'alleanza veterote stamentaria in modo però imperfetto e limitato nel tempo, verrà sosti tuito dalle cose celesti; grazie a Cristo è stata sgombrata la via che portava a ciò che è eterno e incorruttibile. È significativo che Filone (Gig. 54) abbia applicato l'espressione «fuori dall'accampamento» in modo analogamente tipico al mondo della rivelazione di Dio. Quali conseguenze ne derivano per la situazione attuale ? I sacrifici vetero testamentari, che a quel tempo venivano ancora presentati (v. le espres sioni al presente dei vv . 9b. I ob), vengono resi superflui e sorpassati dalla donazione di Gesù in quanto hanno dimostrato di non essere in grado di mediare la realtà ultima. 1 5· Proprio per questo Dio vuole un sacrificio puro, il «sacrificio di lode» come «frutto delle labbra», nel quale l'uomo in ogni momento può essere veramente accanto al suo creatore e redentore. L' «esaltare Dio» fa parte dell'esistenza dei salvati, i quali vivono nella certezza del la sua presenza liberatoria (in particolare v. Sal. 1 1 1 , 1 e I I 8, I ). Questa immediatezza è stata stabilita «per mezzo di lui», ossia del Cristo cro cifisso davanti alle porte di Gerusalemme (vv. I 2 s.). Con ciò, e non sen za richiamarsi alla testimonianza veterotestamentaria, Ebr. è giunto a un'intuizione rivoluzionaria. Se anche vi si trova l'idea che la lode a Dio è il sacrificio vero e giusto dell'uomo (cf. Sal. 50, 1 4.23; in particolare Sal. 1 1 6, I 7), idea condivisa da Filone (Spec. leg. 1 ,2 7 1 s. ecc.), tuttavia Ebr. ribadisce che in verità solo il rapporto con il sacrificio storico di Cristo ha come conseguenza la consegna totale e permanente dell'uo mo. Egli sa che in fondo solo un dono unico e irripetibile può rendere la vita libera di donarsi. Il sacrificio di lode dell'antica alleanza consi steva in frutti e doni commestibili (Lev. 7,1 I ss.), ora Dio si attende il sacrificio di lode come «frutto delle labbra» (cf. Os. 1 4,3), espressione di una vita totalmente subordinata a lui. Il sacrificio di lode della boc ca però si ridurrebbe a vuote parole di ipocrisia se non fosse affianca to da quello delle mani. 16. Come già Gesù aveva indissolubilmente collegato l'amore di Dio a quello per il prossimo, così anche l'insegnamento apostolico al quale si aggancia il v. 1 6. I due sinonimi « beneficenza e solidarietà» indicano
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il sostegno materiale dei bisognosi, naturalmente in primo luogo all'in terno della comunità cristiana. Il termine che traduciamo con «solida rietà» è impiegato ripetutamente da Paolo in senso tecnico per indica re la raccolta della colletta, considerata un dovere vero e proprio (Rom. I 5 ,26; 2 Cor. 9, I 3 ). Similmente anche Ebr. doveva avere in mente una partecipazione finanziaria all'azione comune di beneficenza, nella qua le le comunità cristiane delle origini si distinsero indubbiamente tanto quanto la sinagoga. Che un tale «sacrificio» sia gradito a Dio può es sere all'occasione attestato con gratitudine anche da Paolo (Fil. 4, I 8). Qui come lì, tuttavia, l'idea delle «opere buone», che ha contraddi stinto in modo ben preciso la beneficenza privata nel giudaismo anti co, è stata soppiantata da una nuova concezione che ne sottolinea non tanto il carattere doveroso quanto quello di ringraziamento. Il monito «non dimenticate (poi)» dà l'impressione di una formulazione assai ri servata. Non rimarca una mancanza, ma invita a perseverare con tena cia (v. già 6, 1 0). Fino a questo momento la comunità non ha mancato nel dare il buon esempio. Tuttavia non era certo sbagliato far presente anche questa attenzione ai cristiani raccolti per l� celebrazione (cf. 1 Cor. 1 6, I ss .). 1 7. Concluse le considerazioni più strettamente destinate alla comu nità, l'attenzione si sposta ora nuovamente ai vertici (v. 7). Ai «capi» è dovuta obbedienza, poiché nessuna collettività può sussistere senza una guida a cui sottomettersi. Il concetto di «capo» sembra alludere a una forma di organizzazione prevalentemente sinagogale, il che è in ac cordo con le altre osservazioni (v. anche Atti 1 5,2 2; Le. .2 .2,26). Con una formulazione fortemente tipica si afferma che si tratta di seguire delle indicazioni, e non di sottomissione pura e semplice. D'altra parte si asserisce anche che il vincolo va visto come reciproco. I «capi» han no una grave responsabilità, in quanto sono state affidate loro non so lo delle persone, ma delle «anime» di cui essi devono rendere conto a Dio (cf. Le. I 6, I ss.). «Vegliare» può significare non dormire quando la responsabilità è presa sul serio. Indubbiamente la formulazione in tende stimolare il senso del dovere nei capi di comunità. Allo stesso tempo, ai singoli fedeli si fa capire che il ministero spirituale, esercita to in modo corretto, è sempre un servizio che logora e consuma. Il v. 1 7b mette questo concetto per iscritto a beneficio dei destinatari della lettera. Bisogna obbedire ai capi, affinché essi siano pronti a render conto «con gioia» e «senza sospirare». Apparentemente questa frase,
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I J,I8-2 I . Augurio di benedizione e dossologia
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caratterizzata da immedesimazione psicologica, presuppone una pre cisa conoscenza di Ebr. riguardo alla comunità. Che vi siano state l a mentele a proposito dei responsabili ? Come già accennato, non è da escludere la possibilità che la «parola di esortazione» sia stata richiesta da parte della comunità. Sorprende anche che alla fine si senta ancora una volta - come già altrove (6,4 ss.; I 0,26 ss.; I 2, I 4 ss.) - risuonare un accento di gravità minacciosa: «·Q uesto infatti sarebbe a vostro dan no» . La frase, significativamente posta alla fine, ribadisce che lo scol lamento tra la comunità e la sua guida risulterebbe estremamente dan noso, per la prima in modo particolare. La salvezza non è in gioco so lamente per la singola persona, bensì per i molti che compongono la co munità; in essa ognuno dipende dall'altro. Di tanto in tanto si è fatto a ragione osservare che Ebr. al v. I 7 parla dal punto di vista dei capi di comunità. D'altra parte non bisogna ignorare che nell'esortazione essi sono invitati alla dedizione totale. N el giorno del giudizio vi sarà da rendere conto davanti al giudice celeste (6,7 ss.; I 0,3 I; 1 2, 29 ). L a grandezza della responsabilità s i misura sulla grandezza del mandato.
Invito dell'autore a pregare per lui, augurio di benedizione e dossologia ( I J , I 8-2 I ) 1 8 Pregate per noi. Siamo infatti persuasi di avere una buona coscienza, sfor zandoci di agire bene in ogni circostanza. 19 Con maggiore insistenza però vi esorto a farlo, perché possa esservi restituito al più presto. zo Ora il Dio della pace, che ha ricondotto dai morti il grande «pastore delle pecore» «in virtù del sangue di un'alleanza eterna», nostro Signore Gesù, 21 vi munisca di ogni bene per fare la sua volontà, affinché crei in noi ciò che a lu i è gra dito, per mezzo di Gesù Cristo. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. 1.0 /s. 63,1 1; Zacc. 9, I I ; fs. S S ,J ; cf. anche Sal. 1 I I ,9.
1 8-2 5. L'ultima parte della lettera (vv. I 8- 2 5 ) presenta frasi di con tenuto liturgico e personale. Accanto a una certa solennità, adeguata alla materia e al fatto che della lettera viene data pubblica lettura du rante una liturgia, tali frasi testimoniano il legame interiore che unisce il mittente alla comunità destinataria. 1 8. Nell'invito a pregare «per noi», espresso dopo Pinsistente v. 1 7, emerge che anche l'autore percepisce in modo analogo la responsabili tà che grava su di lui. Da vaghi accenni comprendiamo che si sente an ch' egli figura dirigente. La formulazione stessa fa pensare che egli non ·
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scriva solo a titolo personale, ma al tempo stesso anche a nome di un gruppo, supposizione suffragata soprattutto dal contesto seguente (v. 24). Sebbene a lui si debba l'esposizione omiletica (v. 22), tuttavia la lettera ha lo scopo di favorire i rapporti tra i destinatari e un gruppo che fa cerchia attorno all'autore (similmente 1 Tess. 5 ,2 5 .27). Il v. 1 8 fornisce una motivazione abbastanza circostanziata accennando alla « buona (lett.: bella) coscienza» dell'autore e dei suoi accompagnatori, che si sforzano di comportarsi bene sotto ogni aspetto. Che vi siano in circolazione sospetti riguardo a lui o al suo gruppo ? La frase suona troppo entusiastica per giustificare una tale conclusione. L'autore riba disce piuttosto la ferma intenzione da parte sua e dei compagni di con tinuare a dimostrarsi degni della preghiera della comunità. Forse che come cristiano non sta vivendo in un mondo pagano ? E in tale realtà le minacce e le tentazioni sono molteplici. Perciò considera suo com pito precipuo ciò che ha già suggerito ad altri (v. 1 7): avere una con dotta di vita esemplare. E poiché non è in g.r ado di esserlo da solo, co noscendo fin troppo bene l'eventualità di un fallimento, chiede di es sere ricordato dalla comunità nella preghiera. 1 9. E questo tanto più che ha il desiderio di esserle restituito «pre stissimo» . Evidentemente vi sono circostanze particolari che tempora neamente glielo impediscono. È probabile che stia compiendo un viag gio piuttosto lungo, forse in qualità di maestro famoso e richiesto del la chiesa primitiva, ipotesi appoggiata da tutta la testimonianza della lettera. L'affermazione del v. 19 ricorda frasi simili in Paolo (cf. Rom. 1 5 , 3 0 ss.). Certo, tuttavia, non è imitato il suo modo di esprimersi. Al lora Ebr. era forse in viaggio per trasmettere il suo annuncio missio nario ? Collaborava magari con Timoteo, l'accompagnatore di Paolo ? Solo di questi si può trattare al v. 23 . Oppure cercava almeno di met tersi in contatto con lui, che era stato in carcere ? Se non altro que st'ultima eventualità ha un sicuro appoggio nel testo. Da qui deducia mo infatti che entrambi i missionari erano in stretto contatto con i de stinatari della lettera. La conclusione inevitabile è che la comunità in teressata può essere localizzata soltanto all'interno del grande campo di missione di Paolo. Il concetto dell' «essere restituito» allude al fatto che l'autore ha avuto in essa un certo diritto di residenza, con ogni probabilità dal momento della sua fondazione {6, 1 ss.). Anche Timo teo sembra esservi stato particolarmente conosciuto e stimato. Non vi è invece motivo di supporre che l'autore si sia trovato come Timoteo
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I J, I 8-2 I . Augurio di benedizione e dossologia
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in schiavitù o in carcere. Ciò che divide, e che viene dolorosamente sentito, è l'allontanamento. In fondo tra destinatari e autore della let tera esiste un rapporto di forte attaccamento che dura da parecchi an ni. Proprio per questo il secondo si sente libero di esporre così aperta mente e senza compromessi ciò che il momento impone. 20. Contraccambiando le preghiere che ha richiesto per sé, nei vv. 20 ss. esprime un ampio augurio, che in un certo senso costituisce il punto teologico conclusivo della lettera. Quanto segue infatti, a parte l'augurio del v. 2 5, sono semplicemente righe di carattere personale. Nella lunga benedizione, che si conclude con una dossologia liturgica, si parla del «Dio della pace» come autore della salvezza conclusa in Cristo, vincitore della morte (v. già 2, 1 4). L'espressione «Dio della pace» crea il legame con il saluto di pace ebraico (shalom) , che trova applicazione solo nel senso di una nuova e superiore realtà salvifìca. Una frase dipendente piuttosto concisa spiega che è stato proprio que sto Dio a far tornare dai morti il pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un'alleanza eterna. Si sfiora così ancora una volta il nocciolo delle esposizioni teologiche. Si è sempre richiamata l'atten zione sul fatto che la risurrezione di Cristo venga menzionata solo a questo punto. Ed è vero. Chiarite ormai le premesse del tema peculia re dell'annuncio cristiano, la morte e il sacrificio di Gesù, si può ora parlare anche della sua risurrezione in termini confessionali; ma la vi sione di fondo resta salva. In virtù della propria morte {lett.: «nel san gue del nuovo testamento») Gesù è il Vivente risorto. Quando poi in particolare è detto che Dio lo ha «fatto tornare» dai morti, davanti agli occhi di chi legge rivive ancora una volta l'immagine dell'iniziato re e del perfezionatore (cf. 2, 1 0; 1 2,2). Nella parafrasi «pastore grande delle pecore» tuttavia riecheggia l'idea che Gesù ha portato a compi mento tutte le attese d'Israele e dei popoli riguardo a un Signore. La «nuova alleanza» sigillata con il suo sangue elimina le barriere nazio nali, come anche la fede e l'obbedienza dimostrate da Gesù possono essere caratteristica di chiunque. Fondamentalmente si distingue da Mosè, grande figura guida d'Israele ed esaltato anch'egli come «pasto re delle pecore» (cf. fs. 63, 1 1 ), perché non solo ha servito il suo popo lo come quest'ultimo, ma ha dato prova dell'assoluta obbedienza di Figlio. Egli è dunque «pastore grande» in quanto «sacerdote grande» ( 1 0,2 1 ), non in quanto «ideale di un re» (così Filone, Mos. 1 ,61 ss.). Nel seguito Ebr. lo definisce «nostro Signore Gesù)). In questo modo
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attesta con gratitudine ciò che il Crocifisso è per lui: contenuto e cen tro di ogni preghiera e venerazione. In lui ha fondamento l'opera di pace di Dio col mondo. 2 1 . Se questa è la verità che la fede mette in grado di conoscere, al lora la comunità sappia che Dio può aiutare a superare ogni difficoltà, ma soprattutto che può renderla capace di compiere «ogni bene». Ciò che per la concezione filosofica è difficile da definire, in ambito bibli co riceve chiara determinazione: il «bene» è fare la volontà di Dio, che non rappresenta una dimensione inconoscibile bensì rivelata con Ge sù Cristo. Esso comprende tutto «ciò che per mezzo di Gesù Cristo è gradito a Dio». Se il popolo d'Israele conosceva la volontà in base alla legge, la comunità neotestamentaria possiede le indicazioni risolutive nella voce e nelle parole di Gesù (cf. Mc. 1 0, 1 7 ss.; 1 2,2 8 ss.). Così co me è redatta, questa benedizione ha contatti contenutistici tra l'altro con Fil. I ,6. La dossologia liturgica rivolta a Dio (difficilmente a Cri sto) con l'amen rafforzativo ha anch'essa paralleli paolini (cf. Gal. 1 , 5 ; Rom. 1 6,27 ecc.). L a vita cristiana in fondo può essere compresa solo come esistenza teocentrica. Dal rapporto personale con Dio hanno ori gine forze che ci fanno accettare con gratitudine la vita, per quanto li mitata e problematica possa essere.
Accompagnatoria personale e augurio di grazia (I J ,2 2-2 5 ) Vi raccomando però, fratelli, di accogli ere questa parola di esortazione. In fondo si tratta di un breve scritto. 23 Sapp iate che il nostro fratello Ti moteo è stato messo in libertà e che, se giungerà abbastanza presto, vi ve drò ins ieme con lu i. 24 Salutate tutti i vostri capi e tu tti i santi. Vi salutano quelli d'Italia: 25 la grazia sia con tutti voi ! 22
22-2 5. I vv. 22-2 5 sembrano essere un biglietto d'accompagnamento del tutto personale. Verosimilmente l'ha scritto l'autore di propria ma no, mentre la lettera vera e propria potrebbe essere stata redatta con l'aiuto di uno scrivano. Come sappiamo, per scritti piuttosto lunghi la collaborazione di un segretario era prassi comune (cf. Rom. 1 6,22). D'altronde era consuetudine anche che il mittente aggiungesse di sua mano alcune annotazioni conclusive. 22. Al v. 22 osserviamo ancora una volta il titolo familiare «fratelli», nonché la richiesta, formulata in modo personalissimo, di accogliere
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Accompagnatoria personale e augurio di grazia
2SS
di buon grado la «parola di esortazione». Un sermone inviato dall'e stero, e che inoltre proviene da un maestro che non ricopre alcuna fun zione nella comunità, potrebbe anche incontrare opposizione. Tanto più che la situazione spirituale dei destinatari non è del tutto soddisfa cente. Scegliendo la locuzione «parola di esortazione » per l'omelia che ha inviato, l'autore ha trovato la giusta espressione sia per il contenu to sia per la forma (cf. Atti I J, I 5). L'osservazione successiva sul «bre ve» scritto suona un po' fuori luogo. La lettera non rientra forse tra le più lunghe di tutto il Nuovo Testamento ? Certo. Tuttavia non è mai da dimenticare che l'opera non va misurata secondo il nostro metro. Senza dubbio avrebbe potuto essere ben più estesa ( 5 , 1 1 ), magari con l'aggiunta di considerazioni supplementari come al cap. 1 3 (vv . I o1 4). L'autore rinunzia del tutto a descrivere la propria situazione, cir costanza che di fatto sarebbe estranea alla natura e all'intento della lettera (v. anche v. I 8). 2 3 . Solo ai vv. 23 e 24, collocazione psicologicamente assai signifi cativa per una lettera, riceviamo indicazioni atte a rischiarare almeno in parte il buio. Certo per favorire nella comunità uno stato d'animo di massima felicità alla fine si annuncia che «il (nostro) fratello Timo teo» è stato rimesso in libertà. Se giungerà abbastanza presto, l'autore farà visita alla comunità insieme con lui. Allora è vero (v. I 9) che Dio esaudisce le suppliche! L'annotazione risulta comprensibile se si sup pone che il ritorno era già stato preventivato dali' autore. Che gioia se Timoteo potesse partire subito con lui ! L'espressione «nostro fratel lo» lascia intuire che l'autore intratteneva rapporti con il gruppo di Paolo e che forse conosceva addirittura l'apostolo stesso. Per scoprire quanto stretto fosse questo contatto ricorderemo che Paolo ogni tan to parla allo stesso modo del «fratello Apollo», il quale a sua volta ave va raccolto attorno a sé un gruppo di collaboratori (cf. 1 Cor. I 6,20). �4· Il v. 24, in cui l'autore manda i suoi saluti, desta questioni non ir rilevanti. Che si dia risalto ai «capi» fa capire che in quel momento la loro autorità andava rafforzata (in particolare cf. v. I 7). Che cosa si gnifica l'espressione «e tutti i santi» ? Forse che in modo poco chiaro si invita la comunità a salutare, per così dire, se stessa ? D'altronde questa espressione non può certo indicare una cerchia più ristretta, ma solo l'intera comunità cultuale di cui facevano sicuramente parte an che etnicocristiani. Questo spinge a concludere che il biglietto di ac compagnamento originariamente fosse di fatto rivolto solo a un grup-
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I J ,ll-1 5.
Accompagnatoria personale e augurio di grazia
po specifico - forse una famiglia o una comunità domestica - che va quindi considerato il particolare destinatario dell'omelia. In tal caso anche l'annuncio del v. 2 3 b avrebbe un senso ben preciso. Forse nella città esistevano parecchie piccole comunità con tutta una serie di re sponsabili. È possibile che l'autore non li conoscesse tutti quanti. Co sì potrebbe aver scritto il biglietto a un gruppo amico, mentre l'ampia omelia sarebbe stata destinata a tutte le comunità. Ci sarebbe da chie dersi se in tal modo risulti adeguatamente spiegata l'assenza dell'in troduzione protocollare di una lettera, che potrebbe essere andata perduta per il ripetuto utilizzo (v. a 1 , 1 ss.). Ad ogni modo è a nostro parere indubbio che l'ultima frase - «vi salutano quelli d'Italia» - può essere sufficientemente spiegata solo se messa in relazione non con un gruppo originario dell'Italia che fa pervenire i propri saluti, ma con un gruppo che dall'Italia scrive. Tanto più che esiste un legame logico con l'augurio seguente, che costituisce la frase conclusiva e definisce dunque il contenuto stesso del saluto. Al riguardo gli esegeti più anti chi (ad es. Crisostomo, Teodoreto ecc.) non nutrirono mai dubbi. 2.5. Perciò è opportuno ritenere che la lettera agli Ebrei può essere stata indirizzata unicamente a una comunità piuttosto consistente del l'Oriente greco (Efeso, Corinto ?). Tuttavia, su questo punto resteran no sempre interrogativi (v. introduzione). L'augurio seguente è sor prendentemente breve e conciso. Senza precisazioni ulteriori l'autore augura il conforto della «grazia». «Ne esiste una sola, quella che si tro va presso il 'trono della grazia' e che rende saldo il cuore; mettere in guardia dal perderla è intento della lettera (4, 1 6; I 2, 1 5; I 3 ,9)» (H. Strathmann).
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Glossario
aggadico: dell' aggada, tipo di esegesi giudaica a carattere narrativo ed edifi
cante.
allegoresi, allegoria: metodo esegetico che interpreta i vari elementi dell'al
legoria (forma discorsiva nella quale ogni singolo elemento narrativo na sconde un significato più profondo) e altri testi, conferendo loro un signi ficato ulteriore che va oltre il senso letterale. apocalittica: genere ideativo e letterario caratteristico della tarda antichità: rivelazione degli eventi della fine del mondo; ha rapporto con l'attesa della fine di questo mondo. assiologia: trattazione sistematica dei valori fondamentali. deuteropaolino: le lettere di Paolo considerate generalmente non autenti che: Col.,Ef, 2 Tess., 1.2 Tim., Tit. docetismo: dottrina gnostica secondo la quale a Cristo è attribuito solo un corpo apparente. dualismo: concezione che presuppone due diverse forme di esistenza nel mondo e nell'essere umano, ad es. carne-spirito. esistenzialefesistentivo: che si riferisce a strutture dell'esserci umano (esistenza) o alla sua attuazione concreta, nella vita. esseni: comunità giudaica degli esseni; cf. scritti di Qumran. extra nos: «fuori di noi», cioè indipendenza e preesistenza della salvezza. gnosi: mito dualistico delle origini del mondo e della redenzione, attestato nei primi secoli del cristianesimo. Secondo tale mito, un redentore co smico dona agli spiriti-anime, prigioniere nel mondo in seguito a una ca duta primordiale, la conoscenza (gnosis) con l'aiuto della quale esse pos sono far ritorno al vero Dio fuggendo dal mondo dell'an ti-dio (creatore, demiurgo). Le origini extracristiane, se non addirittura p recristiane, del la gnosi sono contestate tanto quanto il concetto stesso e la vastità del suo campo di applicazione. kerygma, kerygmatico: contenuto, valore dell'annuncio cristiano. logos: «parola, discorso», titolo cristologico e anche principio del mondo. lustrazione: purificazione rituale, in genere con acqua. midrash-pesher: metodo esegetico rabbinico. omiletico,omelia: qui, forma di predicazione che spiega un testo versetto per versetto.
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Glossario
dal gr. paraineo, esortare. Parenesi: testo con parole di esortazione, ad es. Rom. I 2- r4; Gal. 5 ; parenetico: esortativo. parusia (ritardo della): il (ritardo del) ritorno definitivo di Cristo. preesistenza: forma di esistenza di Cristo prima della sua venuta sulla terra. pseudepigrafia: attribuzione di un dato testo ad altro autore. salmi dell'ha/le!: Sal. I r 3 - 1 I 8, salmi di lode che venivano cantati al termine della celebrazione pasquale. stoa, stoico: corrente fi losofica che prende il nome da un portico (stoa poi kile) ; essa considerava il logos come principio fondamentale della natura e dell'andamento del mondo e, di conseguenza, raccomandava come idea le una vita secondo ragione (atarassia : stato d'imperturbabilità dalle pas sioni). Stoico viene defi nito, talvolta, anche un atteggiamento spirituale impassibile e imperturbabile. teologumeno: formulazione teologica di un concetto. theologia crucis, theologia gloriae: mentre una «teologia della gloria» parte dal presupposto che con la propria capacità di discernimento l'uomo è in grado di conoscere Dio, una «teologi a della croce» parte dalla croce di C risto asserendo che con essa Dio ha nascosto la propria gloria nella bas sezza, svelandola mediante la parola. Egli diventa così accessibile unica mente alla conoscenza di chi, contro ogni ragione e sulla parola, crede alla presenza di Dio nella croce e nella pass ione. tipologesi, tipologico : un dato viene inteso come prefigurazione di un altro, di maggiore valore; istituzioni o figure dell'A. T. rispetto a istituzioni o fi gure del N.T., ad es. Gesù Cristo. Tipologesi è il metodo interpretativo adottato. parenesi, parenetico:
Indice analitico a cura
di Gotthold Holzhey
Poiché nomi e concetti presenti nel testo biblico possono essere ricercati in dizionari biblici disponibili in gran numero, neWindice analitico seguente sono stati accolti unicamente quei termini che nella spiegazione del testo sono stati trattati specificamente. I numeri rinviano quindi all'esegesi delle pericopi corrispondenti. Per evitare ripetizioni e tuttavia offrire nel modo più completo possibile concetti tra loro intimamente legati da più relazioni, sono state inserite le opportune indicazioni con la freccia in avanti o indietro (-+ �). I particolari excur sus inseriti nelle singole esegesi sono contraddistinti dalla lettera E. A bel e, I 1 ,4; 1 2,24 Abramo, intr. 6.8; 6, I J -20; 13 ss.; intr. a 7, 1 2 8 ; 7, 1 s.4 ss.; intr. a 1 1 , 1 -40; 1 1 ,8. 1 2 s. 1 3 . 1 7 ss. adulterio, -+ matrimonio agnello di Dio: Cristo, I 2,24 alleanza, -+ testamento amore, 2 , 1 7; 3 , 1 1; 6, 1 1 ; 1 0,22.24 s. per Dio, I J , I 6 per i fratelli, 6, 10 s.; 10,24 s.; intr. a I J, I 2 S i I J, I SS. I . I 6 angeli [dominio degli], I,4- 1 4·7·9· 1 4i 2, 1 -4; intr. a 2,5 - 1 8; 2,2 . 5; 1 2,22; 1 3 ,2 rapporto con Cristo, 1 ,4- 1 4 ·4 ·6.9; 2, 16 anziani, gli [presbiteri] (-+ patriarchi), 1 1 ,1 apostasia, intr. 6; 3 , 1 .8 s. 1 2 ss.; 4, 1 1 . 1 5 ; intr. a s , I I -6,2o; 6,4.6; 6,6 E; 6,7; 1 0,26 SS.J8; 1 1 ,2 5 ; intr. a 1 2, 1 2 9; 1 2,4. 1 5 arca dell'alleanza, 9,2 .4 ss. contenuto, 9,4 Aronne, sacerdote, 5 ,4. 5 s.; 9,4. 1 1 ascesi, 1 3,9 ascolto, 4, 1 2 s.; 1 2,2 s aspettare, J,I I ; 1 3, 1 7 attesa del messia, 1 ,5 . 8; 2, 5 .8; J , I I ; 5,7; 7,3 E; 7, 14; 8,8; 9, 1 0 . I I j I0,7 · 3 7i I I ,J2 della seconda venuta (-+ ritardo della pa rusia), intr. Io; I0,2J.J7 attesa prossima (-+ escatologico), intr. I o; 1 0, 2 s .26; 1 2,26 augurio di benedizione, 1 3 ,20 ss.28 autorità di Gesù, 1 ,4; 2,7 ss. -
battesimo, J , I ; 6,2.4 ss.; 1 0,22 s.26.29 secondo, 6,6 E di Gesù, 1 , 5 di Giovanni, 6,2 benedizione, 6,7 s.; 7,6; 1 1 ,20 s.; 1 2, 1 7 beni (futuri), 9, 1 I ; I O, I buono (e cattivo), 1 1 ,4; I 3 ,2 1 caducità, 1 , 1 1 ss.; 7, 1 6; 1 0,34 Caino, 1 1 .4; I 2,24 Canaan, 1 I ,9 carcerati, assistenza ai, intr. a I J, I -1Si I J,J carisma, -+ dono dello Spirito carne c sangue, 2, 14 casa di Dio e di Cristo -+ comunità chiamata di Dio celeste, 3,7 del cristiano, J , I chiesa (-+ comunità), 9, 1 9 cibo, -+ precetti alimentari e di purità città di Dio, saldamente costruita -+ Sion codice dell'alleanza, 9, 19 comandamento (-i) di Dio (-+ legge), 9.4. 19 compimento (per mezzo di Cristo), 2,8. 10; 5 , 9 ; IO,J . I J comunione con Dio e con Cristo, 10, 1 4.2 1 . 2 5 ; l I , Io; I 2,2J comunità di Dio e di Cristo, 3 ,6; I 0,2 1 ; 1 2,28 situazione in Ebr. : intr. a s , u -6,20; s , I I s.; 6, 1 ss.9 ss.; 10,2 5 .26.J 2; 1 1 ,9; intr. a u, I 29i intr. a I J, I -25i I J ,6·9 confessione, intr. 2; 1 ,2; 3 , 1 .6; 4,1 4 s.; 10,23; intr. a 10, 1 9-39
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Indice analitico
[confessione] di fede, 3 , 1 dei peccati, 5 ,2 s . ; I0,2 confidare in Dio, 6, 1 ; 9,1 4; 1 1,2 E; I J ,5 conoscenza di Dio, intr. 4; 7,1 9; 8, u ; 9,1 2; 1 1,2 E; I I ,J. I 3 .27 di Cristo, 5, I I Core, rivolta di, 5 ,4 correzione, -+ educazione coscienza, intr. a 9, I I - Io, I 8; 9,9. I 4; I0,2 creatore, Dio e Cristo, I , I o ss.; 2, Io; 3,2; 9,I I. 2Jj l I , Io; 1 2,9.27 creazione divina (suo ordinamento), 1 , 1 s.7; 3 ,4; 4 t 3 •4• I O. I 2j I I ,Jj 1 2,27 cristiano, 5 , 1 I . I 4j 6, 1 SS.9 SS. cristologia, 1 ,4- 1 4; intr. 2.5 .6. 1o; I , I -3; 2,8 s.; 4,2. 1 4; 5 , 5 s. E; 6, I 3 -20; 7, 3 E; IO, I9; 1 3,8 croce di Cristo, intr. 2.5.6. Io; 1 ,3; J , I I ; 4, I 4 s.; 6,6; 7,3 E; 7,22.24; 9,24 ss.; I I ,19; intr. a I 2, 1 -29; 1 2,2 s.6. I 7j I J,8. IO S . 1 5 .20 culto, -+ liturgia culto giudaico (culto del tempio) (-+ sangue -+ sacrificio), intr. 7; 9,5 ss I 9 superato d a Cristo, 6,2o; 7, I 2. I 3 ; 8, 5 . 1 3 ; 9, 1 - 1 0; intr. a 9, I I - IO, I 8j 9, 1 3 cupidigia, 1 2, 1 6 .
Davide {trono di), 1 ,6; 4,7; 6, I J -20j 1 1 ,3 2 ss. figlio di: Cristo, 1 ,8; 7, 1 4 debolezza d i Cristo (del sommo sacerdozio), 5,2 s.; 5,5 s. E; 5,7; 7,3 E decima, 7,2.4 · 5 · 1 0 s. demoni, IO, I 3 denaro (avidità di), 1 3, 5 deserto, permanenza d'Israele, + destra di Dio, -+ esaltazione di Cristo dimora di Dio, -+ santuario -+ Sion Dio, concetto di, 1 , 1 ; 6, I J s.; 7,I ; intr. a 9, 1 11 0, 1 8; I0,29·J 5 j I J ,8 disobbedienza, 2,2; J, I 5 . I 8 ; 4, 1 1 dominio, dominatore (Dio e Cristo) (-+ atte sa escatologica), I , 1 -3 ·4- 1 4.8; intr. a 2, 5 1 8; 2, 5 .6 S.9; J , I j 4, 1 4; intr. a 9, 1 I - IO, I 8; I O, I J j 1 2, I 8-24.28 S. dono (-i) dello Spirito (carisma), 2,4 dottrina, insegnamento, intr. 7; 5 , 1 2; 6,2 di Gesù Cristo, intr. 2; I ,J ; intr. a 2,5 - 1 8; 2,9 s. I 8; intr. a 4, 14-s, I o; 4, I 4 s.; 5,5 s.; 5 , 5 s. E ; 5,7; 7,3 E ; 7,26; 9,24 ss.; I0,5.32; 1 1 , 26; 1 2,2 s.; 1 3 , 1 2 dualismo, ellenistico, intr. I o; 1 ,4
Ebrei, lettera agli, intr. I - I o; I , I -3 ·4; 2,1 o; 4, 1 3 s.; 6,7 s .; 9,1 7.28; I),6.22 autore, intr. 2.8; 1 , 1 ; 2,3; s , u s.; 6, 1 3 -20; I J , I 8 S.22-2 5 .23 datazione, intr. 6.7.8 .9; 5,4; 6, 1 0; 8,4; intr. a I J , I -25 destinatari, intr. 6; 1 , 1-3; ) , 1 2; intr. a 5 , 1 1 6,2o; 6,2; 9, 1 5; I J , r 8 linguaggio, stile, intr. 3 . 5 ; 1 , 1 -3 ; 3 , 1 5 ; intr. a 5 , I 1 -6,2o; 5 , 1 3 ; 6,8; intr. a 1 0, 19- 1 2,29; 1 2,22-24.28 omelia/predica, intr. 3 . 5 .6; I , I -J·4- I 4; 2, 1 4; intr. a 2,5 - 1 8 ; intr. a ) ,7- 1 1 ; 4, 1 3 ; intr. a 4;14- S, IOj 5 , 5 s. E; intr. a s , I I -6,2o; 6,2o; intr. a 7, I - Io, r 8; intr. a 7, I -28; 7, 1 8 -2 5 ; intr. a 8, I - I J ; 8, 1 ; 9,2o; intr. a I 0, 1 9- 1 2,29; 1 0,22; intr. a I I , 1 -40 39 s.) E; I I , I ; intr. a I 2, I -29j I 2,4 s.22-24.2 5.28; Ìntr. a I J, I -2 5 ; I J ,22.24 e A.T. (citazioni scritturistiche}, intr. 2.6. I Oj I ,4- I 4j 2, 1 -4.6. 1 2; intr. a J ,7- I lj 3,7; S, S s. E; 5,7; intr. a 7, 1 -28; intr. a 8 , I - I J ; 8, 5 .6; 91 I 9 S.j I0,5 ·J7j intr. a I I , I -40 39 s.) E; intr. a 1 2. , 1 -29; 1 2, 5 . I 2. I 5 s.26; intr. a I J 1 I -2 5 j I J,2 e Paolo, intr. 7.8.9; 1 ,2.4; 2,2.4.8 s. 1 4; J,I t ; . 4, 1 3 ; intr. a 5 , I 1 -6,2o; 6, 1 . ro. I 3-20. I 4; 7, 1 2. 1 9.28; intr. a 9, 1 I - I o, I 8; 9, 1 4.20.24; I0,2. 24·3 5·37 s.; intr. a I I , 1 -40; 1 1 ,2 E; 1 I ,6 SS. I 2.26; I 2, I j Ìntr. a I J, I -2 5j I J ,J . I 6. t 8 . 2 1 .23 e Salmo I 10, intr. 1 .4. 5 ; r , 1 -J .4- 1 4.4; intr. a 2,5 - 1 8; J , I ; intr. a 4, I 4-5,1o; 4, I 4; 5,5 s.S. I Oj intr. a 5,1 I -6,20j 5 , 1 l j 6,20j intr. a 7, 1IO, I 8 j intr. a 7, I -28; 7,3 E; 7, 1 I . I J . I 6.2o s.28; intr. a 8, 1 - I J ; 8 , I ; intr. a 9, 1 I - l o, I 8 ; I O, I I - 1 8 . 1 2 S.j intr. a 10, 1 9- 1 2,29j I O,JOj intr. a I I , 1 -4o; intr. a 1 2, 1 -29; 1 2,28 e Filone, +influssi gnostici ecc., intr. 2 . I Oj I ,J . 5 j 2, 1 5 ; 4,8 . 1 2 S.l4j 5, 8; intr. a 5 , I I -6,20j 5 , 1 1 . 1 4; 6,4 s. 1 9; intr. a 7, 1 -28; 7,3 E; intr. a 8, 1 - 1 3; I O, I .20.22j I I , J SS. I J j I J ,2 cristologia nella, +escatologia nella, +rapporti comunitari nella, -+ comunità educazione (correzione) a parte di Dio, 1 2, 5.12 elezione, 5 ,4. 5 s. pretemporale, -+ preesistenza di Cristo
(
(
�
Indice analitico Enoc, I 1 ,5 s. ep iscop us, -+ guida della comunità erede, Cristo, 1 ,2.4; 3,4.6; 6, 1 7 eredità, 9,2 8; IO,J6 esaltazione di Cristo, intr. I .2.4; I , I -3·3·4- I 4; 2,3; intr. a 2,5 - 1 8 ; 2,8 s . I o; 4, I4; 5,5 s.7; 7, 22.27; intr. a 8 , I - I 3 ; 8, I ; 9,24; I0, 1 3 ; intr. a 1 2, I -29; I 2,2 s . I 8-24 alla destra di Dio, I ,3 .4- I 4.4; 3,I; intr. a 8, I - I 3; 8,I; 1 0, 1 1 - 1 8. 1 2; intr. a I I ,I -40 Esaù, I I ,2o; 1 2, 1 6 s. escatologia, intr. Io; 2,8; 4,2; 9,27; 1 1 ,9; intr. a 1 2, I -29.27 escatologico (attesa, giudizio) (-+ attesa pros sima), intr. Io; 2,5 .8; 6,5; 8, I 3 ; intr. a 9, I I lo, 1 8; intr. a 1 0, 1 9-39; I0,25 .26.37; intr. a 1 2, I -29; 1 2,4. I 8 -24. I 9 S.27 espiazione (sacrificio), 2, 1 7; J , I ; 5 , 1 SS.; 6, I 9; 9,7; Ìntr. a 9, I I - I O, I 8; 9, 1 5.20; 10,20; I J , I I con sangue animale, � etica cristiana, intr. a I 3 , I -2 5 ; I J, I eucarestia, 6,5 ; 9,2o; I 0,29; I 3,Io famiglia di Dio, Io,2 1 fede, intr. 2; 2,5 . 1 4 ss.; 3,6. 1 2. 1 4; 4, I -3 .2. I 6; 6,6; 6,6 E; 6, I 3 -20. 1 9; 7,22; 9, 1 2.26; intr. a IO, I 9-39; I 0, 1 9.22.3 5 · 3 8 s.; intr. a I I , I -40; I I , I s.; I I ,2 E; 1 1 ,3 ss. 1 2. I 3 ss. I 8 ss.32 ss.37; intr. a 1 2, I -29; I 2, I ss.26; I 3 ,9 in Cristo, s ,9; 6, 1 s.; 6,6 E; 9,2o; I0,26; I I, 3·40; I 2,2 fondamento della, 6, I; I o, I 9; I 2,2 modello di, 6, I 2; 9,2 s iniziatore e perfezionatore: Cristo, 1 1,2; l I,2 E; 1 2,2; I 3 ,2 e conoscenza, � mancanza di, J , I o s. I s; 9,26 fedeltà (di Dio e di Cristo), 3 ,2; 6, 1 o. I 8; I o,2 3. 39; 1 1 , 1 6 fiducia, IO,J 8; I I , I S. I 3 di fede, 4,2 s. figli di Dio (cristiani), intr. a 2,5 - I 8; 2, Io; 1 2,5 Figlio dell'uomo, Cristo, I ,4; 2,6 ss. Figlio di Dio, Cristo, I ,2 s.4- 14·4 · 5 · 1 3 ; intr. a 2,5 - I S ; 2, Io; 3 , I -6; 4, I4 s.; 5 , 5 s.8; intr. a 7, 1 -28; 7,3 ; 7,3 E; 7,8.28; 9,24; IO, I J . I9.27 s.; 1 2, 5 .2 5 ; 1 3,8 rapporto con Dio (Padre), I ,2 S.4- I4·S ·8. I 3; 2,1 2; 3,2 ss.; 9,24; 1 0,5; 1 2,2 s. 5 .9 figliolanza divina, 2, 1 3; I 2,6 ·
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Filone d'Alessandria, intr. 4.8 . 1 o; I ,3 . 14 ; 1 , 1 . 6 ; 4, 1 2 S . 1 4; 5,8 s.; intr. a S , I I -6,20; S , I I ; 6, I J . I 6. 19; intr. a 7, 1 -28; 7, 1 .2.3; 7,3 E; 7, 9. 16.22.24.2 5 ; 8,2 . 5 ; 9,2 ss.; intr. a 9, I I - I o, I 8; 9,I I . I J . 1 9.23; IO,I .26.J I ; Ìntr. a 1 1 , 1 4 0 (39 s.) E ; I I ,2 E ; I I ,3 ss. I 3 . I 6.2 1 .2 5 .27. 34; I 2, I .6. I 6. I 8 s.; I 3 , I 4 S. fornicazione, I 2, I 6; 1 3 ,4 fratellanza (fraternità) (di Gesù Cristo}, 2, 1 1 SS. I4. I7; 3,I . 1 2; I O, I 9; I J ,22 gara, intr. a 1 2 , 1 -29; 1 2, 1 garante (garanzia), Cristo, 7,22; 8,6; 9,5 ; intr. a 9,1 I - IO,I 8; 9, I 5 . I 7 Gerusalemme, I 2,22 celeste, I I , I 6; intr. a 1 2, I -29; 1 2,22 comunità di, -+ santi -+ opere dell'amore Getsemani, -+ preghiera drammatica Giacobbe, intr. a I I , I -40; I I ,9 . I 3 .20 giorno dell'espiazione, 5 , 1 ; 6, I 9; 7,27; 8,3, 9, 1 - 10.4 • 7•26; intr. a 9, I I - IO, I 8; 9,I J . I 9; I O, I SS.26; I 3, I I giorno di Dio, 4,4; 10,2 5 .JO Giosuè, 4,8 giudei e cristiani, I J , I 2 giudeocristiani e d etnicocristiani, intr. 6. t o; 4, Io; 6,2. I O. I J-20; I J ,9 giudizio di Dio (-+ escatologico), 2,3; 4, I -3; 4, I 6; 6,2; 6,6 E; 6,7 s.; 9,27 s.; intr. a I 0, 1 939; I0,2 5 .26 SS.29 SS.37; 1 2,20.2J.2 5 ; I J,4 per mezzo di Cristo, I ,4 universale, -+ escatologico giuramento di Dio, 3 , 1 8 ; 4,3; intr. a 4, 14- 5 , I o; intr. a S , I 1 -6,2o; 6, I J-20. I J . I 6 s.; intr. a 7, I - Io, 1 8; intr. a 7, I -28; 7,20 ss.28 Giuseppe, I 1 ,22 giustizia, S , I J ; I I ,J j; I 2, I I di Dio, 6, Io per fede (�), 1 I,7 gÌU StO ( - i), IO,j 8; I I , I S.4.7; 1 2,23 gloria di Dio e di Cristo, I ,J ; 2,9; 9, 1 2 ; 1 2,2 gnosi, gnostici in Ebr. : intr. IO (-+ lettera agli Ebrei [influssi gnostici ecc.]) grazia, 4, I 6; 6,6 E; I o,26 di Dio, 2,9; 4, I 6; 6,6; 7,2 5 ; 9,5 .7; I0,29.3 I ; I 2,I 5.25; I J ,2 5 guida della comunità, I J,7. 1 7.24 hallel, il grande (salmi dell'hallel), intr. 4; I ,
4; 5,5 s. E
2
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Indice analitico
impeccabilità di Gesù, .�t, I 5; 5,26 s. imposizione delle mani, 6,2 indurimento, J,8. 1 J. I 5 ss. inno, 5 ,5 s. E intercessione, 7,2 s ; 10,5 .7; I I t4; I J, I 8 ss. intercessore, Cristo, 7,25 ss.; 10, 1 2.2I intronizzazione di Cristo, -+ esaltazione ira di Dio, J , I o s. 1 7; I0,25 lsacco, 6, I4; intr. a I I , I -40; 1 I ,9. I 3 . I 7. 1 9 ispirazione, 2,6; J , l I Israele (-+ popolo di Dio), J,J . I 1 . I 5 ss.; 4, 1 J , I s.6; 9, 1 storia, 4, 1 2; intr. a 1 I , 1 -4o; 1 1,22.27 ss.; 1 2, I 8 issopo, 9, I 9 latte (fig.}, 5 , 1 2 legge d i Mosè [+-], 7, 1 2 . I 6. I 8 s.; 8,4; 9, 1 - 10. 19 s.; IO, l s.28; 1 2,2o; I J,2 I abolizione, 7, I 2. I 8.28; intr. a 9,1 1 - 1 0,1 8 trasgressione della, 2,2 lettura della Scrittura, -+ liturgia leviti (-+ sommo sacerdozio -+ sacrificio}, 7,5 S.9; 7, I 5 libertà, I O, I 4· I 9 libro dell'alleanza, 9, I 9 liturgia, intr. 4; I , I -J; 4,I 4; 9, 5 ss. I 4.2o; intr. a 10, I 9-39; I0,22.2 5 ; intr. a 1 I , I -40 (39 s.) E; intr. a 12,1-29; I 2,22-24.23.28; I J , I . IO. I 6. I 8 lode [sacrificio di], I J, IO. I 5 logos (-+ parola), I ,J; 4, 1 2 s . I 4; 7,3 E ; 7,2 5 lotta dei cristiani, 2,14; 1 2,4; I J ,7 lotta della fede, intr. a I 2,1 -29 maestà di Dio, 1,3 .7; 2, I manna (-+ arca dell'alleanza), 9,4 martire, martirio, -+ testimoni della fede -+ persecuzione matrimonio, 5,9. 1 1 ; I J,4 mediatore dell'alleanza (Cristo), 1 2 ,24 Melchisedec, sacerdote (sacerdozio), intr. a 4, 1 4-5, 10; 4, 14; 5 , 5 s.; intr. a 5 , I I-6,2o; intr. a 7, I - 1o, 1 8; intr. a 7, I-28; 7, 1 s.2 5 e Abramo, 7,4 ss. e Cristo (sommo sacerdote}, intr. a 7,1 -28; 7,2 s.; 7,3 E; 7,4.6.8.10 s. I J . I 5 s.; intr. a 9, l I - I O, I 8 Messia, Cristo, 1 , 5 . 8; 7,14; intr. a 9,1 1 - 1 0, 1 8; 9, 1 I; 10,7; I J,8
miracoli e segni, + misericordia, 4,16; 7,2 5 di Gesù, 2, I 7 mistero di Dio e di Cristo, 1,2; s , u ; intr. a 7, I -28; intr. a 8 , I - I J mondo e Dio, 1 ,3; 2,5; 9,26; Io,26 morte, I,J; 2,9. 14- 1 8. 14 ss.; 9, 1 8.27 s.; 10,29 e vita, 2, I 5 s.; u ,6 di Gesù Cristo (morte sacrificale, sacrifi cio di sé, morte espiatrice), intr. 2; I ,J ; 2,9 S. I 4- I 8 . I 4 ss.; 5 t 5 S.7; s,6.2o; 7t3 E; intr. a 9,1 1 - 1 0, I 8; 9, 1 1 S. I 5- I 7. 1 5 . 1 8 .24 ss.; 1 0, 1 . 1 9 s.; intr. a 1 2, 1 -29; I J , I 2.20 espiatrice di Gesù (-+ sacrificio), 9,26.28; I J , IO resa inoffensiva da Cristo, intr. a 2, 5- I 8 . 1 4 SS., 5 ,7; I J ,20 superamento mediante la fede, 1 1 , I 7. 1 9 Mosè ( -+ legge), 3 , 5 s.; 8 , 5 .6; 9, I 9 s.; 1 o,2 8; I I ,2J ss.; 1 2, I 8 e Cristo, 3 , I -6,2 ss.; 9, I 9 ; 1 o,2o; I 2, 1 8-24. 21 nascondimento di Dio, 7,2 5 ; 9,24; n ,27; 1 2, 5 · I 8 SS. Noè, intr. a 1 1 , 1 -40; I I ,7 nugolo di testimoni (-+ testimoni della fede}, intr. 6; I 2, I obbedienza (di Gesù Cristo), intr. 2 ; 2, I o; 4, 12 S. I 5 ; 5 ,8; 7,22; 8, 1 2; intr. a 9,I I - I O, I 8; 9, I 4.28; 10, 5 ·7 SS.2o; 1 1 ,8; 1 2,2; I J ,20 offerta (colletta), I J , I 6 oggi, J,I -6.7; 4, 1 6; 5 , 5 s . opere buone, I 0,24; 1 3 , 1 6 morte, intr. 6 ; 6, I ; intr. a 9, 1 1 - 10, 1 8; 9, 1 3 dell'amore, 6, Io colletta per Gerusalemme, intr. 7.9; 6, Io; IJ,I6 ospitalità, intr. a 1 3 , 1 -2 5 ; I J ,2 '
pace (saluto di), I 2, 14; I J ,20 s. Paolo, apostolo rapporto con la lettera agli Ebrei, + Paolo, lettere di, intr. I .2.9 parola (-e), 4, 1 2 s.; 7,2 5 .28; 8,5; 9,26 di Dio e di Gesù, I;I ss.; 2,2.4. Io; 3,5; intr. a 3,7- 1 1 ; 4,8 . I 2 s.; 5 , 1 1 ; 6,5 . I 8; 8,1; 9, 26; I O, I 5 · I 9; l I ,J ; I 2,2 5 ; I J ,7.2 1
Indice analitico pasqua (celebrazione della), agnello pasquale, I I , I 9.2.8; I 3 ,9 patriarchi, 1 , 1 ; intr. a I 1 , 1 -40; I 1 ,2..8 . 1 3 pazienza, 6, I 2 peccato (peccatori), 2., 1 4. 1 8; 3 , I 3 ; •h i S ; 7,I 6. 2.6; 8, 1 2; 9,7. 26; I0,2 SS.26; I 1 ,25; Il., I contro lo Spirito santo, 6,6 E e legge, � purificazione dal, � penitenza, intr. 6; 6, I ; I 0,2.6; I l., I 7 seconda, intr. a 5 , I I -6,2.o; 6,4; 6,6 E perdono, 3,6; 4, Io; 6,6; intr. a 9, 1 1 -I o, I 8; 9, 2.3 ss.; Io,2 . 1 0; I 2., 1 4. 1 7.2.4 dei peccati (-+ purificazione ), 5 ,2. s.; 8, I 2.; 9, I 1 .26.28; I O, I 6 S.2.6 S. perfezionamento (per mezzo di Cristo), 2.,8. I O; 5 ,9; IO,J . I J perfezione {di Cristo), 6, r ; 7,2.6; 9, 1 1; I O, I 4 persecuzione {dei cristiani), intr. 7; I 0,33 s.37; 1 2,4; 1 3,)·6 S. pigrizia (indifferenza) dei cristiani, intr. a s, I I -6,20; 6,3 ·9 SS. I l., I 0,2 5 popolo di Dio, antico e nuovo {itinerante), · intr. ro; I, I; 3,7. I O s.; 4, 1 - 3.3 ·9; 6,I J - l. o; 8, 6 SS.j 1 1 ,9 S. I J . I 6; I 2,23 .29 riposo del, � precetti alimentari e di purità (-+ purificazio ne), 9, r o; I 3 ,9 predicazione, 4,2 preesistenza di Cristo, I ,4.6; intr. a 7, 1 - 2. 8 ; 7, 3E preghiera, formule di preghiera, consuetudi ne della preghiera esaudimento della, 5 ,7; I 3 ,23 drammatica, di Cristo, 5, S s. E; S ,7 presbiteri, -+ anziani presenza di Dio, 1 2., I 9.2 5 primogenito, Cristo, 1 ,4- 1 4.5 s.; 1 2,2.3 primogenitura, 1 2., 1 6 s.23 profeti veterotestamentari, 8,7; 1 I,Jl..J7 uccisione di, I 1 ,3 7 promessa di Dio, 6, 1 2.. 1 3 ss. I J-l.o; 7,2.8; 8,6; 9, 1 - 1 0.28; intr. a I O, I 9-39; I0,2J .J6 s.; intr. a I I , I -40; I I , I S.9 . I J . I 8.J2.JJ·J9j Il., I . 1 7. 22.25 adempimento della, 6, I4 s.; 9,28; 1 1 , 1 3 proprietà, -+ ricchezza prova imposta alla comunità, IO,J2; 1 2,4.7 purificazione {precetti di) (purità) [-+ cibo], I ,J s.; 6,2; 9,9. 1 J . 1 9 SS.l.J
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rapimento, -+ Enoc redentore, redenzione {per mezzo di Cri sto), 2, 1 2 . 1 4 ss.; 5,8 s.; 7,3 E; 7, I I; intr. a 9, 1 1 - 10, 1 8; 9, 1 2.. 1 5 - I 7; 10,3 . 1 3 redenzione (per mezzo d i Cristo), 2,I 2; 5 ,9; 7,2 5; 9,28 re d'Israele, 1 1 ,32 di giustizia, -+ Melchisedec retribuzione e merito, 6, I I ; Io,36 ricchezza (proprietà), 1 0,34 ricompensa, I 1 ,2.6; I 2,2.4 rimanere, 7,24; I 2.,27 riposo (riposo sabbatico) di Dio, 3 , 1 1 ; 4, 1 .3 . 4 SS. I O s.; 1 1 ,9 del popolo di Dio, J , I 5 ss. risurrezione (dottrina della) dei morti, 6,2; I I , 1 9.3 5; 1 2, I 9 di Gesù Cristo, intr. 2.; 1 ,5; 2, 1 2; 6,2; 1 1 , 19; I J ,20 ritardo della parusia (-+ attesa della seconda venuta), intr. I o; 2,9 rivelazione, 2,2. 1 3 ; 7, I 9; 8,2.; 9,26 di Dio (in Cristo), I , I ss. 5 s.; 2, 1 o; 4, 1 2. 1 5 ; 7,8 . 1 7. 2 5 ; 9,3 ss.; intr. a 10, 1 9-39; 1 1 , 1 6; intr. a u, I -29; 1 2, I 8-2.4.24 ss.; I J, I4 sul Sinai, 2,2; I 2, 1 8-24. I 8 .22.25 s. sul Sion, � sacerdote, sacerdozio, -+ sommo sacerdote, sommo sacerdozio sacrificio, intr. Io; 2.,1o.I s; 4, 13; 9, 1 7; 1 1 ,3 5 ss.
veterotestamentario {levitico), 5 , I ; 7,27; 9t 19 SS.2 5; IO, l SS.4•7• 8. 1 1 - 1 8 . 1 1 . 14 5. 1 8; intr. a 1 1 , 1 -40 ( 39 s.) E; I 1 ,4; I J, IO ss. di Cristo, intr. 2 . 5 . Io; I ,3 ·4· I4; 6, I 4; 7, 1 9. 27; 8,3 s.; 9, 1 5 - I 7. I 9.24 ss.; IO, I . 5 . I o; 10, I I - I 8 . I I 5. I 9.2.6.2.8 S . 3 1 .3 5 · J7; Ìntr. a I I , I 40 ( 39 s.) E ; 1 1 ,4.22.28.39 s.; 1 2, 1 8-2.4.29; IJ, I O SS.20 salvezza (di Dio in Cristo) (messaggio salvi fico, attesa della salvezza, evento salvifico, storia della salvezza, fede salvifica, piano di salvezza), I , 1 s. 5 . I 4; 2, I -4. I ss.4; intr. a 2, 5 1 8; 2,IOj 41I O s.; 5 ,8.9; 6,9. I 5 . 1 7; 7,26; intr. a 9, I I - I 0, 1 8; 9, 1 1 . I 5 .24.28; I0,37; intr. a I I , 1 -4o; intr. a I I , 1 -4o ( 39 s.) E; 1 2, 2. I 7. 22..28; I J , I I SS.20 sangue (offerta del) (di Cristo), 9,1 I ss.23; I o, 19; 1 2.,24; I 3,20
l. 70
Indice analitico
[sangue] spargimento di, 2,14; Io,.to; 1 1,.18; 1 2,24 nel culto giudaico, 9, 1 9; u ,28 dell'alleanza, 9, 1 9 ss.; 10,29 aspersione con, 9,4·7· 19 ss.; 10,2.1 animale (-? espiazione), 9, 1 2; 1 0t4; I J , I I santi (i cristiani), I 3, 24 comunità di Gerusalemme, 6, 10 santificazione, 2,10 ss.; 10, 1 0.29 santissimo, -? tempio santità, 2,2; 1 2, 10 di Dio, 2,2; 7,2 5 ; 9,7; 10,29·3 1 ; 1 2, 19.29 santo dei santi, � tempio santuario celeste, 6, 19; 8 ,2 s. s ; intr. a 9, I I - 1 o, 1 8 ; 9, 1 1 .24; 1 0, 1 9 terreno (� tempio), 8 , 5 ; 9, 1 SS.24; 1 0, 1 9 satana, 2,14; Io, 1 3 Scrittura, sacra [Antico e Nuovo Testamen to], 2, 1 -4; 9,26; 1 0,7 seconda venuta di Cristo, 1 , 5 s.; intr. a 9, 1 1 IO, I S; 9,28; I O, S seconde nozze d i presbiteri, � matrimonio segni e miracoli, 2,4; 3,10 servire, servizio di Gesù Cristo, 2, 1o; intr. a 4f., I 4- 5 , 1o; intr. a 8, 1 - 1 3 ; 8,2 ss.; 9,I - 1o; Ìntr. a 9, 1 1 - 10, 1 8; 9, 1 4. 1 7.28 servitori di Gesù Cristo, 2,8; 4, 1 5; 1 2,.18 servo di Dio, 9,28 Signore (Dio e Cristo), I , I - I 4. I J ; 7, I 4; 10, 1 9 SS.30; 1 2 ,14.25; I 3 ,8.20 Sinai, -? rivelazione di Dio Sion (monte, città di Dio ecc.), I I ,Io, intr. a I 2, 1 -29; 1 2,22 (sommo) sacerdozio levitico ( [sommo] sacer dote): 5 , 1 SS .5 Ss ; intr. a 7, 1 -28; 7,).8.10 S. 1 3 . 1 8 SS.23 .27; 8,2 ss.; 9, 1 .4 SS.7. 1 1 ; intr. a 9, I I - IO, I 8; 9,23; 10,2. 1 1 .22 di Melchisedec, +di Gesù Cristo, intr. 2; intr. a 2,5 - 1 8 ; 2,9. 1 7; 3 , 1 -6.6 ss.; intr. a 4, 14- 5 , Io; 4, I4; 5 , 5 s. 7. 8 s.; intr. a 5 , I 1 -6,20; intr. a 7, 1 -28; 7,3; 7,3 E; 7,4f..6.8. 1o s. 1 4 ss. I 9.23 ss.26; intr. a 8, I - I J ; 8 , 1 .4.6. 1 2; 9, 1 - 1 0,6 ss.; intr. a 9, 1 I I o, I 8; 9, 1 l SS. I 7.24; 1 0, 5 . 1 1 . 1 2 S. 1 8. I9.2 I j intr. a I 1 , 1 -40; I 2,28 speranza, intr. Io; 2, 1 7; J,l 1 . 1 2; 6,2. 1 1 s. 1 8 s.; intr. a 7, 1 -28; 7, 1 9.24; 9,28; 1 0, I 3 ; intr. a I O, I 9-39; I O, I 9.22 S.3 S · 3 7 Spirito, 4 , I 2 ; I 2,9 di Dio, 9,8; I I ,J 2 .
[Spirito] santo, 2,4; 3 ,7; 6,6 E; 10, 1 5
possesso, ricevimento dello, 6,2.4 stato e autorità civile, I I ,23 storia, I I,22; intr. a 1 2, I -29; I 2,.16 d'Israele, +tavole della legge, -? arca dell'alleanza tempi (eoni}, pienezza dei, intr. a 9, I I - Io, I 8 ; I I ,J tempio di Gerusalemme, 9, I - 1o; 9,2.24 santissimo e santo dei santi nel, 4, I 4; 6, I 9 s.; 7, I9; 9,2 ss.; I J, I 1 velo del, 4, 14; 6, 1 9;9,3 ss.; 10,20 oggetti nel, 9,2.4 distruzione del, intr. 7; s ,4; 8,4 s. tenda del convegno, intr. a 8 , I - I J ; 8,2 ss.; 9, I - Io; 9, I ss.; Ìntr. a 9, 1 1 - I 0, 1 8; 9,1 1 . 1 9. 2 J S.; l 3, I O S. tentazione, 2, I 8; 4, 1 6; 5,8; I 2,2.4 testamento, intr. a 7, 1 -28; 8 ,6; 9, 1 7 Antico e Nuovo -? Scrittura, sacra alleanza (antica e nuova) (� sangue), 7, I )j intr. a 8,1 - I J ; 8,6.7 ss.; 9, 1 .3.4; intr. a 9, 1 I Io, I 8; 9, I 5 . 1 8 ss.; 10,9 s.22 .29; 1 2, 1 8-24. 24.29 testimoni (due o tre}, 10,28 .di Dio, I, I della fede (martiri), intr. 7; intr. a 1 1 , 1 -40; l I , I S. I 7.J2 SS.3 5 ; 1 2, 1 Timoteo, intr. 7.8 ; I J , I9.23 trono di Dio, 4, I4 . 1 6; 1 2,2; I 3,25 ·
umiliazione di Cristo, intr. a 2,5 . - 1 8; 2,7 ss. I I ; 5,7; l 1 ,26 uomo (uomini), umanità, 1 ,3; 2,6 ss. 1 4 s.; 4, 1 2 s.; 9,27 s.; 1 1 ,9 s.; 1 2,24 e Dio, 9, 10.24; 1 0,7.29; 1 2,9.24 vangelo (buona novella), 4,2.6 velo del tempio, +veracità di Dio, 6, 1 8 verità, 7,22; 10,26 vicinanza di Dio, 7, 1 9. 2 5 ; 1 0,22 vita, 4, 1 2; 7, 19 eterna, Tit. 3,7; Ebr. 7, 1 6; u ,3 5 e morte, +vocazione, divina (di Cristo), ) , 1 -6, 1 ; intr. a •h 1 4- 5 , 1 0; 5 , 5 s.; 9, 1 I volontà di Dio (fare la), 4, 1 2 s. 1 5 ; 7,26; 9,4. 14. 19; 10,4 • 7•9; I I ,J; I J,2 1
Per i tipi della Paideia Editrice stampato da Grafiche 4 (Padenghe) Brescia, novembre 1 997