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Italian Pages 272 [269] Year 1997
a lettera asli Ebrei August Strobel
Paideia Editrice
Titolo originale dell’opera: Der Brief an die Hebrder Ubersetz und erklàrt von August Strobel Traduzione italiana di Paola Florioli Revisione di Franco Ronchi © Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen 1991 © Paideia Editrice, Brescia 1997
ISBN
88.394.0556.9
Indice del volume
9 13 13 13 14 15
Elenco delle abbreviazioni
24 25
Introduzione 1. La forma letteraria 2. Il tema dell'omelia 3. La lingua 4. La forma dell'omelia 5. La struttura 6.1 destinatari 7. La datazione 8. L ’autore 9. Il luogo di composizione 10. Lo sfondo storico-religioso e storico-tradizionale 11. Filone 12. Testimonianza di un cristianesimo giudaico
27
Esordio e tema dell'omelia «Il Signore disse» (Sai. 110,1)
31
Parte prima «Siedi alla mia destra» (Sai. 110 ,1) (1,4-4,13)
74
Parte seconda «Tu sei sacerdote» (Sai. 110,4) (4,14-6,20)
16 17 18 19 20 21
107
174
Parte terza «In eterno secondo l’ordine di Melchisedec» (Sai (7,1-10,18) *
110,4)
Parte quarta «Il Signore manderà lo scettro potente da Sion... nel giorno dell’ira... giudicherà» (Sai. 110,2.5 s0 (10,19-12,29)
240
Parte quinta (appendice) Indicazioni per la vita dei singoli cristiani e della comunità, epilogo, notizie personali e saluti (13,1-25)
257
Bibliografìa
8
Indice del volume
263
Glossario
265
Indice analitico
82
96 112 I?2 194
Excursus Un inno in 5,7 ss.? Il problema del secondo ravvedimento Elementi gnostici in 7,3? L ’interpretazione del cap. 11 Il concetto di fede della lettera agli Ebrei
Elenco delle abbreviazioni
Scritti biblici Ab. Abacuc. Abd. Abdia. Agg. Aggeo. Am. Amos. Apoc. Apocalisse. Atti Atti degli Apostoli. Bar. Baruc. Cant. Cantico dei cantici. Col. Lettera ai Colossesi. i, 2 Cor. Prima, seconda lettera ai Corinti, i, 2 Cron. Primo, secondo libro delle Cronache. Dan. Daniele. Deut. Deu teronomio. Ebr. Lettera agli Ebrei. Eccl. Ecclesiaste. Ef. Lettera agli Efesini. Es. Esodo. Esd. Esdra. Est. Ester. Ez. Ezechiele. Fil. Lette ra ai Filippesi. Film. Lettera a Filemone. Gal. Lettera ai Galati. Gd. Lettera di Giuda. Gdt. Giuditta. Gen. Genesi. Ger. Geremia. Giac. Lettera di Giacomo. Giob. Giobbe. Gion. Giona. Gios. Giosuè. Giud. Giudici. Gl. Gioele. Gv. Vangelo di Giovanni. 1, 2, 3 Gv. Prima, se conda, terza lettera di Giovanni. Is. Isaia. Lam. Lamentazioni. Le. Vangelo di Luca. Lev. Levitico. 1, 2 Macc. Primo, secondo libro dei Maccabei. Mal. Malachia. Me. Vangelo di Marco. Mich. Michea. Mt. Vangelo di Matteo. Naum Naum. Neem. Neemia. Num. Numeri. Os. Osea. 1, 2 Pt. Prima, seconda lettera di Pietro. Prov. Proverbi. 1, 2 Re Primo, secondo libro dei Re. 1, 2, 3, 4 Regn. Primo, secondo, terzo, quarto libro dei Regni (LXX). Rom. Lettera ai Romani. Rut Rut. Sai. Salmi. 1, 2 Sam. Primo, secondo libro di Samuele. Sap. Sapienza di Sa lomone. Sir. Siracide (Ecclesiastico). Sof. Sofonia. 1, 2 Tess. Prima, seconda lettera ai Tessalonicesi. 1, 2 Tim. Prima, seconda lettera a Tim o teo. Tit. Tito. Tob. Tobia. Zacc. Zaccaria.
Scritti giudaici del //// sec. a.C. Asc. Ies. Ascensione di Isaia (cf. Ebr. 11,37). Hen. aeth. Libro etiopico di Enoc. Iub. Libro dei Giubilei. L X X Septuaginta (traduzione greca dell'A.T.). Ps. Sai. Salmi di Salomone (farisaici, L X X ). Test. XII Testamenti dei dodici Patriarchi (11 sec. a.C., con interpolazioni cristiane; ad es. Testa mento di Giuda, di Levi, di Ruben, di Simeone).
Scritti giudaici del //// sec. d. C. Bar. syr. Apocalisse siriaca di Baruc. 4 Esd. Apocalisse di Esdra. Ps. Filo ne Liber Antiquitatum Biblìcarum (1 sec. d.C., probabilmente posteriore
IO
Elenco delle abbreviazioni
al 70). Giuseppe Flavio Giuseppe (storico giudaico, ca. 40-100 d.C.): Ant. Antiquitates Iudaicae; Bell. Bellum Iudaicum; Ap. Contra Apionem (scrit to apologetico); Vita Vita Iosephi. 4 Macc. Quarto libro dei Maccabei (1 sec. a.C. / 1 sec. d.C.). Test. Abr. Testamento di Abramo.
Scritti di Qumran C D Documento di Damasco. 1 QS Regola della Comunità. 1 QSa Appen dice alla Regola della Comunità. iQpHab Commento ad Abacuc. iQpPs Commento ai Salmi. 2Q24 Frammenti dalla grotta 2, 4QFlor Florilegium (grotta 4). ioQPs3 Scritto dalla grotta 10. 1 iQMelch Scritto su Melchisedec dalla grotta 11.
Scritti giudaici della prima e della tarda età talmudica Abot R.N . Abot de-Rabbi Natan, ampliamento dei Pirqe Abot (Talmud babilonese, «Sentenze dei padri») d'età tardo- e post-talmudica, bjeb. Tal mud babilonese, trattato Jebamot («Levirato»), bjoma Talmud babilone se, trattato Jom a («Il giorno delle espiazioni»). bSanh. Talmud babilo nese, trattato Sanhedrin («Sinedrio»). bTa‘an. Talmud babilonese, tratta to T a‘anit («Giorni di digiuno e di lutto»). Midr. Pesiq. R. Midrash Pesiqta Rabbati («Grande Pesiqta», raccolta di midrashim omiletici), mjoma Mishna, trattato Joma («Grande giorno dell’espiazione»). mlPara (Mishna, trattato Para («La vacca rossa»). Syn. Zohar Sinossi di 2'ohar; opera esegetica altomedievale della Cabala. Tanh. Bemidbar, tarda interpreta zione rabbinica del libro dei Numeri (v/vi sec. d.C.). Targ. Onq. Targum Onqelos del Pentateuco, presumibilmente tardo 1 sec. d.C. e prima metà del 11 sec. d.C. Targ. Ps. Jon. Targum Pseudo-Jonatan del Pentateuco (tar da età talmudica). tB.B. Tosefta, trattato Baba batra («La prima porta»), sui rapporti giuridici nella vita comunitaria.
Scritti cristiani della prima e della tarda epoca patristica (Il/V sec. d. C.) A cta Pauli Atti di Paolo (11 metà del 11 sec. d.C.). Afraate, Sulla fede Afraate, vescovo siriaco del iv sec. d.C., Omelia sulla fede. Barn. Lettera di Barnaba (scritto giudeocristiano, metà del 11 sec. d.C.). Clem., Iac. Let tera pseudoclementina indirizzata a Giacomo il Minore, premessa alle Omiliae pseudoclementine (G C S 1953). 1 Clem. Prima lettera di Clemente (96 d.C. ca., Roma). Const. Ap. Costituzioni apostoliche (raccolta giuridica della chiesa primitiva, iv sec. d.C.). Epiph., Pan. Epifanio di Salamina, scrit to sulle eresie (iv sec. d.C.). Ev. Eb. Vangelo degli Ebioniti (opera giudeocristiana dei primi anni del 11 sec. d.C.). Herm. Pastore di Erma (11 sec. d.C., Roma): Sim. Similitudini (apocalisse, prima metà del 11 sec.); Vis. V i
Elenco delle abbreviazioni
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sioni. Hipp. Ippolito di Roma (circa 160-235 d.C.): in Dan. commento al libro di Daniele; Ref. omn. haer. Confutazione di tutte le eresie. Ign. Igna zio di Antiochia (vescovo, 110 d.C. ca.): Magn. Epistola ai Magnesi; Smyrn. Epistola alla chiesa di Smirne. Iren., Haer. Ireneo (vescovo di Lione, f 202 d.C. ca.), Adversus haereses. Iust. Giustino Martire (t 165 d.C. ca.): Apoi. Apologia; Dial. Dialogo con l’ebreo Trifone. Mei., Pass. Melitone di Sardi, Omelia sulla pasqua (vescovo, omelia del 160 d.C. ca.). Grotta del Tesoro opera siriaca della scuola di sant’Efrem (iv sec. d.C. ca.). Tert. Ter tulliano (apologeta cartaginese, | 220 d.C. ca.): Pat. La pazienza; Praescr. La prescrizione degli eretici; Scorp. Contro il morso dello scorpione (ope ra antignostica, 203 d.C. ca.). Ps.-Tertulliano appendice al De praescriptione haereticorum (editio Gangneia), ni sec. d.C. ca.
Letteratura profana greca e romana Cic., Verr. 2 Cicerone, Seconda orazione contro Verre (oratore e politico della tarda repubblica di Roma, 106-43 d.C.). Epict., Diss. Epitteto, D is sertazioni (ca. 50-130 d.C., seguace della stoa più recente). Luciano, Mort. Per. Luciano di Samosata, La morte di Peregrino (raffinato scrittore greco del 11 sec. d.C.).
Opere di Filone di Alessandria (ca. 20 a.C. - yo d.C., fondatore di una scuola esegetica veterotestamentaria giudeo-alessandrina)
Abr. De Abrahamo. Aet. De aeternitate mundi. Agric. De agricultura. Cher. De cherubim. Conf. De confusione linguarum. Congr. De congressu eruditionis gratia. Dee. De decalogo. Deter. Quod deterius potiori insidiari soleat. Deus Quod Deus sit immutabilis. Ebr. De ebrietate. Flacc. In Flaccum. Fug. De fuga et inventione. Gig. De gigantibus. Ios. De Iosepho. Leg. all. Legum allegoriae. Legat. Legatio ad Gaium. Migr. De migratione Abrahami. Mos. De vita Mosis. Mut. De mutatione nominum. Omn. prob. Quod omnis probus liber sit. Op. De opificio mun di. Plant. De plantatione. Poster. De posteritate Caini. Praem. De praemis et poenis. Prov. De Providentia. Quaest. E x. Quaestiones in Exodum. Quaest. Gen. Quaestiones in Genesim. Rer. Quid rerum divinarum heres sit. Sacr. De sacrifìciis Abelis et Caini. Sobr. De sobrietate. Somn. De somniis. Spec. leg. De specialibus legibus. Virt. De virtutibus. I testi giudaici rabbinici possono essere reperiti in Str.-Bìll. = H. Strack - P. Billerbeck, Kommentar aus Talmud und Midrascb ni, 1926, 671 ss. Le ope re di Filone di Alessandria sono disponibili in traduzione italiana nell’edi zione a cura di G. Reale e R. Radice (Milano 1994 ss.).
Introduzione
i. Se si confronta la lettera «agli Ebrei» con le lettere di Paolo conside rate autentiche, salta immediatamente all’occhio la sua struttura pecu liare. Per quanto attiene alla form a letteraria, manca il consueto pream bolo: il cosiddetto prescritto, completo di mittente, indicazione dei de stinatari, saluto e ringraziamento. Essa inizia immediatamente con una serie di im portanti asserzioni, alle quali fanno seguito ampie pericopi che si susseguono l ’una all’ altra coerentemente, sviluppando in ogni aspetto il tema cristologico accennato nell’introduzione ( 1,1- 3 ) . L a lette ra esordisce come se si trattasse di uno scritto om iletico, ma si conclu de (13,2 2-25 ) come un’epistola (E. Gràsser). D al punto di vista form a le ciò le conferisce un particolare carattere letterario. Il concetto cen trale riguarda l’esaltazione di C risto «alla destra della maestà nei cieli» e fin dall’inizio riprende in m odo program m atico il Sai. n o . In tutte le afferm azioni successive questo stesso salmo fornisce apertamente o in maniera implicita il fondam ento biblico dal quale si erge la testim o nianza teologica dello scritto, unica e in un certo senso anche origina le ( 1,1 3 ; 3 ,1; 5,6; 6,20; 7 ,3 .1.15 .17 .2 1.2 4 .2 8 ; 8 ,1.12 .2 0 ; 10 ,13 ; I2 >2)2. L a lettera agli Ebrei si differenzia dalle epistole paoline sia per il lineare sviluppo del pensiero omiletico principale , al quale si unisce un interesse prettamente pratico, sia per il vivace avvicendarsi di p ro p o si zioni di carattere esortativo e didattico. I testi esortativi hanno lo sco po di rafforzare la'com unità interpellata nella fede nel C risto innalza to, quelli didattici illustrano il m otivo della maestà del Signore celeste: il suo sacrificio e il suo ministero di somm o sacerdote. L ’ osservatore m oderno potrebbe essere incline a vedere in Ebr. l’opera speculativa teologica di un importante personaggio della chiesa delle origini esper to nelle Scritture. Probabilm ente in questo m odo verrebbe gravem en te frainteso il reale intento della lettera, che per originalità linguistica e argomentativa non ha pari nel N u o vo Testam ento. N ello scritto, che in 13,2 2 si definisce appropriatamente «parola di esortazione», ogni
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Introduzione
discorso mira alla perseveranza e alla speranza, alla fede e alla confes sione, non trascurando tuttavia di mettere sempre in luce anche il fondamento posto da D io per raccomandare la necessità di tale atteg giamento. « L ’esortazione che mira a fornire certezze non ha mai suc cesso se non ha una m otivazione di base» (Herbert Braun). Ed è vero. L'au tore sa che non si dà una salda decisione della volontà senza una più profonda comprensione di ciò che D io ha compiuto in Cristo. Inoltre occorre sottolineare che a tale comprensione si deve giungere attraverso passi logici ed ermeneutici che paiono piuttosto singolari al cristiano di oggi. Ciononostante chi legge la Bibbia cercherà di com prendere quegli argomenti che mantengono certamente inalterato nel tempo il loro valore, anzitutto perché per Ebr. fede e vita del cristiano procedono necessariamente di pari passo, inoltre perché la testim o nianza del C risto innalzato non ha base più solida dell’ obbedienza del la sua fede, la miseria della sua sofferenza, l’enormità della sua morte e quindi la grandezza del suo sacrificio. In un certo senso questo scritto rappresenta un documento unico nel suo genere, perché se ogni con fessione di C risto da parte del singolo e della comunità vuole essere qualcosa più che vuota declamazione, allora necessita della riflessione teologica della croce. Perciò non è certo un caso se qui la risurrezione non ha peso argomentativo fondamentale (v. soltanto 13,20), mentre è trattato a fondo il rapporto tra croce ed esaltazione di Cristo. Per il lettore m oderno potrebbe risultare particolarmente difficoltoso riusci re a seguire passo passo lo sviluppo di pensiero della lettera partendo dalle sue stesse basi: l'ambiente, la religiosità, l’orizzonte di com pren sione filosofico ermeneutico senz’altro singolare. Si tratta del mondo della fede filosofica ellenistica, nel quale la concettualità platonica ren de concrete ed esprimibili le realtà immateriali ultraterrene. A essa si affianca una religiosità di stampo prevalentemente rituale, che in ogni rapporto dell’uom o con D io ritiene indispensabile il sacrificio. N o n da ultimo, si tratta di un orizzonte di pensiero tipico degli scribi d ’Israe le che - strettamente orientato al testo biblico - intende documentare e dimostrare partendo dalla sacra Scrittura dell’Antico Testamento il carattere nuovo e inaudito dell’evento di Cristo. 3. La lingua tradisce uno spirito coltissimo. Eccone le caratteristi che: vasto patrim onio lessicale, form azione delle parole piuttosto ri cercata e discorso sorprendentemente spigliato. L o stile si distingue per
La forma omiletica
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i periodi elegantemente costruiti e per l'evidente volontà di esporre per argomentazioni. Interrogativi, giochi di parole, immagini, esempi, non ché l ’impiego della Scrittura rendono la lettera un’opera d’arte retori ca che nel N .T . è senza pari; tuttavia non si è semplicemente di fronte a un trattato teologico, né tantomeno a una cosiddetta lettera artificia le. Redatta evidentemente per essere letta davanti a una certa com uni tà, le si adatta il carattere di progetto omiletico pensato per fare il mag gior effetto linguistico possibile. Tutto lo splendore del linguaggio atticista e dell’elevata capacità retorica non sono fini a se stessi né pura ambizione letteraria, ma servono ad evidenziare che il discorso attuale è funzione e proseguimento della grande parola che da tempo imme morabile viene pronunciata ( 1,1) e che nel Figlio ha preso form a unica (11,3 ). Quanto allo stile, si può a ragione ricordare che nell’esposizio ne l’uso frequente del comunicativo «noi», il personalissimo «voi» e l’ «io» individuale non provengono affatto solo da uno stile retorico dell’autore, ma rappresentano un autentico elemento omiletico: «Qui è un predicatore che parla alla sua comunità» (H. Thyen). 4. La costruzione degli enunciati si attiene aMaforma dell'omelia , co sì come era d’uso nella sinagoga della diaspora giudaica, ma sicuramen te anche nel culto cristiano primitivo delle comunità ellenistiche, am messo che riuscisse a mantenere un livello culturale tanto elevato. Dopo un preludio solenne, che lancia il tema biblico ricorrente con riguardo al Sai n o - l’esaltazione di Cristo, il Figlio ed erede prom esso da tempi immemorabili - , seguono varie pericopi che danno fondamento al tema, approfondendolo e attualizzandolo. N o i ipotizziam o che al meno nelle espressioni più spiccatamente dottrinali emerga in maniera molto coerente il contenuto essenziale di questo salmo, che fin dall’i nizio rivestì indubbiamente un’importanza grandissima nella com uni tà primitiva. Il Sai n o è un testo fondamentale in immediata prossi mità del cosiddetto hallel (= Sai 11 3 - 11 8 ) , che anche durante la litur gia (pasquale) della chiesa antica dovette avere grande rilievo. G ià la co munità giudaica lo aveva cantato durante il tempo pasquale, ma so prattutto nella notte solenne, cosicché si poteva affermare che in tale notte F hallel spaccava i tetti della città santa. A d ogni modo sono pos sibili alcune illazioni sull’immediato Sitz im Leben liturgico. A una co munità variamente provata, forse anche disorientata e frustrata, biso gnava riuscire a infondere nuova certezza, risolutezza e speranza.
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Introduzione
Sull’esempio dell’omelia sinagogale il tema viene ampiamente spie gato con il ricorso a testi biblici, personaggi tipologicamente significa tivi e idee allegoriche ausiliarie. Continui raffronti con le verità fondamentali dell’antica alleanza assicurano il carattere peculiare dell’ even to di Cristo, mentre un ruolo rilevante spetta al modo di procedere per gradazione ascendente, «dal minore al maggiore». U n metodo dim o strativo non meno ricorrente è l’analogismo, grazie al quale nei con cetti che c’interessano è possibile procedere deduttivamente in modo non strettamente logico dal significato di una cosa o di una persona al significato superiore di analoga grandezza per la comprensione biblica. In complesso è l ’allegoria il metodo che deve portare alla conoscenza di D io e al discernimento delle più profonde verità divine (per Filone essa deve invece condurre alla visione di Dio). Questo presupposto spiega infine anche il procedimento della cosiddetta diairesis (divisione dei concetti), a volte riconoscibile all’inizio, per cui concetti generici forniscono il punto di partenza per una definizione particolare. Inoltre vi possono essere derivazioni etimologiche al servizio dell’interpreta zione simbolica (cf. 7 ,1-3). Stile declamatorio, procedimento metodico e tecnica interpretativa pongono senz’altro Ebr . molto vicino agli scritti di Filone d’Alessan dria (v. intr. 10). La ricerca più recente riconosce anzi in modo sempre maggiore il debito che la lettera ha nei suoi confronti, e il passo che porta a questioni di principio relative all’interpretazione dell’epistola è molto breve (v. H . Braun, Wie man iiber Gott nicht denken soli, Tubingen 19 71). 5. Sembra che ultimamente si sia riusciti a chiarire abbastanza la com plessa struttura a più strati della lettera (A. Vanhoye). Stando alle nuo ve indicazioni, bisogna tener conto non solo del collegamento tra pa role cardinali, com ’è ormai tradizione, ma anche del criterio della ri presa del tema (la cosiddetta indicatio). Inoltre è evidente che le singo le pericopi sono strettamente legate le une alle altre (la cosiddetta con catenatici). Si è poi scoperto che l’autore ha evidenziato i confini delle trattazioni tematiche riprendendo determinati concetti all’inizio e alla fine (la cosiddetta inclusio). N on da ultimo vi sono certe espressioni che sono tipiche delle singole unità (i cosiddetti termini caratteristici). Tutto lo scritto denota così nella disposizione un grandissimo im pe gno intellettuale come pure la chiara volontà di giungere a una simme-
I destinatari della lettera
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tria omiletica. L ’evidente splendida padronanza dello strumento della retorica ellenistica sinagogale fa di Ebr. un documento del cristianesi mo prim itivo unico nel suo genere, per cui si può parlare a buon dirit to di sermone messo per iscritto e inviato a una comunità. La struttu ra che qui proponiam o poggia sulla convinzione ulteriore che alla sua base vi sia il Sai n o , fondamentale per il genere messianico (cf. Me. 14,62 p a rr.;/lm 2,33 ss.; 5,31; 7,55 s .\Rom. 8,34; 1 Cor. 15,25 ecc.). N el N .T . non vi è un altro passo veterotestamentario a cui si faccia così so vente riferimento (v. Str.-Bill. i v , i , 452-465). Gesù stesso davanti al tri bunale aveva delineato la propria futura posizione di potere ricorren do a tale salmo. Il lettore o ascoltatore viene immediatamente coinvol to in un processo di pensiero e di apprendimento pedagogico-om iletico, chiaramente caratterizzato da tappe elementari nell’ interpretazio ne: 1,1- 3 , Signore parla»; 1,4 -4 ,13, «Siedi alla mia destra»; 4,14-6,20, «Tu sei sacerdote»; 7 ,1-10 ,18 , «In eterno secondo l’ordine di M elchisedec»; 10 ,19 -12 ,2 9 , «Il Signore stende lo scettro potente da Sion... nel giorno dell’ira giudicherà». Contenuto teologico determinante dell’e sposizione è una teologia del sacrificio come applicazione immediata e pratica di un’escatologia della croce. 6. 1
problemi relativi alla composizione sono molteplici. C hi sono i destinatari? Apparentemente la lettera è diretta a una comunità giudeo cristiana ellenistica che ben conosce il culto giudaico e dalla quale ci si può quindi ben aspettare che si pieghi all’autorità dell’A ntico Testa mento come testimonianza vincolante riguardante Cristo. U n ’ulterio re dimostrazione può essere fornita dalla menzione dei «padri» ( 1,1) e dal fatto che alla parola della Scrittura sia riconosciuto senz’altra spie gazione il carattere di promessa, mentre il tema della chiamata dei gen tili non viene neppure sfiorato. Il cristiano che crede può essere certo della sua immediata appartenenza al nugolo dei testimoni. La figura di Abram o, ovviamente, interessa solo per quanto attiene significato ed esemplarità messianici (6,13 ss.; 7,4 ss.; 1 1 , 1 7 ss-)> non P er la sua im_ portanza ai fini della missione ai gentili. Questa circostanza è fin trop po evidente per non essere stata presa in considerazione al momento di fissare il canone (alla fine del 11 secolo) con la scelta del titolo «agli Ebrei». D a qui tuttavia emerge al tempo stesso anche l ’im barazzo del la chiesa posteriore, che indubbiamente non aveva più l’esatta cono scenza delle circostanze relative alla redazione. La nostra supposizio
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Introduzione
ne è che diffìcilmente la lettera è stata scritta a cristiani della madrepa tria giudaica. Piuttosto bisogna pensare a una comunità della diaspora, per cui sorge Pinterrogativo su dove trovare un gruppo giudeocristia no tanto chiuso in se stesso come quello qui supposto. N on volendo pensare a Rom a (cf. 13,24), che sia da ricercare magari nella parte orientale dell’impero romano? V i sono vari particolari dello scritto che giustificano tale supposizione, ma sicuramente non è possibile propor re una spiegazione univoca (v. anche E. Gràsser). Per quanto vi siano avvertimenti a non abbandonare il cammino intrapreso e a non per dersi d ’animo nella lotta della fede, la possibilità di un’apostasia a fa vore del paganesimo non viene trattata né presa esplicitamente in con siderazione in alcun punto. Considerato poi che non si fa alcun cenno a un pericolo giudaizzante incombente, ma solamente al timore di la sciarsi sfuggire la salvezza e di perdere la speranza, la lettera può esse re solo espressione della preoccupazione di un predicatore giudeocri stiano riguardo a una comunità giudeocristiana (2,1.3; 6,6; 4 ,1; 10,38; io ,3 5; 3,18). In 3 ,12 inoltre l’apostasia dal D io vivente viene interpre tata come «indurimento» del cuore, per cui neanche tale passo costitui sce un’eccezione. Inoltre 6,1 ss. risulta particolarmente istruttivo, p oi ché il pericolo che minaccia il lettore non è visto propriamente come apostasia, bensì come ricaduta nel tempo precedente della conoscenza imperfetta, della triste penitenza e delle opere morte. Oltre a ciò è si gnificativo il timore espresso riguardo al rischio di crocifìggere nuo vamente il Figlio di D io esponendolo all’infamia (6,6). 7. La datazione può essere forse stabilita con più precisione. Dalle ultime osservazioni si può dedurre che la conversione al cristianesimo è avvenuta da tempo. E ancora, che già una volta, durante una perse cuzione che aveva richiesto sacrifici materiali, vi era stata una prova da superare (10 ,32 ss.). Tuttavia anche al momento attuale si è nel bel m ezzo di una controversia per la quale è richiesta la massima vigilanza ( 12 ,1 ss.). Ricordare le prove precedenti può tornare utile. A llo stesso m odo anche ripensare all’«esito» dei maestri, che ne sta ad indicare non tanto il martirio quanto la morte esemplare, deve fornire ai lettori un utile criterio di comportamento retto (13,7). Le indicazioni che compaiono qua e là danno la certezza che la lette ra non dev’essere situata in epoca troppo precoce. Tenuto conto del l’ accenno a Timoteo in 13,23, è esclusa una datazione antecedente al
L ’autore
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cosiddetto terzo viaggio missionario di Paolo intorno all’ anno 53/55 d. C. D ’altra parte, poiché il culto giudaico del tempio, visto come istitu zione centrale di quell’epoca, è continuamente oggetto dell’ argom en tazione teologica, non è possibile spostare la datazione a dopo la di struzione del tempio, avvenuta nel 70 d.C. Solitamente si suppone che Ebr. non possa aver avuto origine dopo la prima lettera di Clemente (attorno al 95 d.C.), che cita già lo scritto (36,2-5). M a che non si fac cia parola della svolta catastrofica dell’anno 70 d.C., né la si prenda in considerazione in altro modo, consente a nostro parere di ipotizzare solo una datazione precedente a tale anno. Poiché è evidente che è ormai trascorso un certo periodo di tempo dalla fondazione della co munità (2,3; 5,12; 10,32; 12,4; 13,7), sarà opportuno datare la com po sizione attorno all’anno 60 d.C. Infine, 6,10 sembra alludere alla gran de opera misericordiosa della colletta a favore di Gerusalemme, perse guita con impegno ed energia soprattutto a partire dal terzo viaggio missionario (2 Cor. 8,4; 9 ,1.12 ; Rom. 12 ,13 ; 15 ,2 6 -3 1), iniziativa che tuttavia risale già ad alcuni anni addietro. Tutte queste circostanze con corrono univocamente a sfavore di argomentazioni vaghe come quella secondo la quale 2,3 fisserebbe il luogo cronologico dell’ autore e dei lettori nella seconda generazione cristiana, mentre il timore di nuove sofferenze alluderebbe certo all’epoca di D om iziano. Alcune indicazioni della lettera risultano ulteriormente chiarificatri ci, poiché sfruttano l ’idea dei periodo di attesa e penitenza del popolo di D io nel deserto, durato quarantanni (4,3.7; al riguardo cf. Es. 23, 30), per applicarla alla situazione attuale della comunità di C risto non ché per risalire implicitamente alla data della morte di G esù e della sua esaltazione (cioè 30 d.C.). L ’evidente schema di base di tale orienta mento storico-salvifico ed escatologico induce fortemente a situare in linea di principio l’ autore anteriormente al 70 d.C. 8. L'autore stesso si sente strettamente legato alla comunità; forse in un primo tempo ha addirittura insegnato in essa, poiché solo così si spiegherebbe il desiderio espresso alla fine di esserle presto «restitui to» ( 1 3 , 1 9 ). N on soltanto l’ incontestabile menzione di Tim oteo, di scepolo di Paolo, ma anche determinati contatti con temi teologici dell’apostolo stesso (ad es/6,8 ss. j 2 Cor. 6,2; 5,12 /2 Cor. 3,1 ss.; 6,13 ss. / Rom. 4,x ss.; 10,37 ss. / Rom. 1,1 7 j G al 3 ,1 1 ; 1 1 , 1 ss. / Rom. 3 / G a l 3) fanno pensare a una personalità che forse aveva contatti con questa
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Introduzione
grande figura. Tuttavia Fautore dev'essere stato un pensatore indipen dente di grande statura teologica. Assolutam ente irreale è l ’argomentazione relativa a un’affinità spiri tuale con Luca e Atti, che ogni tanto riaffiora. A titolo di esempio, i contatti linguistici che si ritrovano sono dovuti esclusivamente a un’ a naloga form azione filosofica ellenistica, che però nel caso di Ebr. va piuttosto nella direzione di Alessandria (Filone). L ’indovinello vero e proprio a nostro parere riguarda l’identità del l’autore. Considerando il livello dell’importanza teologica della lette ra, inizialmente il quesito è del tutto irrilevante. Esso tuttavia s’im po ne in m odo affatto naturale quando si va a guardare la grandezza e l’eleganza dello scritto. Consideriam o l ’abbondanza di nomi proposti (Luca, Clemente Rom ano, Sila, A pollo, Barnaba, A quila e Priscilla, Tim oteo, G iuda, ecc.): il puro e semplice esame dimostra che in fondo solo il riferimento ad A pollo è degno di nota. Grazie agli Atti e ad al cune indicazioni sparse nel corpus paolino, siamo abbastanza in for mati per quanto concerne la personalità di questa figura e la sua opera missionaria (v. io). Alcune circostanze rafforzano forse tale supposi zione, formulata per la prima volta da Lutero (1522 e 1537): ad esem pio che durante il cosiddetto terzo viaggio missionario A pollo prese contatti con Paolo e Tim oteo, a quanto pare lavorando addirittura in sieme a loro pur restando comunque autonomo (1 Cor . 16 ,12). V edia mo inoltre che anche altrove ha rapporti con la cerchia dei discepoli di Paolo ( Tit. 3 ,13 ), e che evidentemente gode di ottima fama come pre dicatore itinerante e m issionario (/ Cor. 1,12 ; 3,4 s.6). È possibile che il suo campo d’ azione coincidesse in tutto e per tutto con quello della missione paolina, ma non si sa praticamente nulla di come visse poi all’incirca negli anni sessanta - né del suo successivo operato a Rom a. Se si vuole tener buona l’ipotesi della coppia missionaria Tim oteoA p o llo , allora è ovvio che anche la proposta relativa ai destinatari (comunità di C orinto o Efeso) risulterebbe particolarmente plausibile. A C orinto vi erano seguaci di A pollo (Atti 18,27), e d ’altra parte E fe so (Atti 18,24 ss*) rivestiva per entrambi il ruolo di comunità madre. Purtroppo però, vista la carenza di documentazione, non si può anda re al di là di supposizioni e probabilità. 9. Riguardo al luogo di composizione, una certa forza espressiva emerge soprattutto nella frase conclusiva: «Vi salutano quelli dell’Ita
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lia». Da un punto di vista puramente formale sarebbe possibile appli care la frase sia a un gruppo che saluta dall'Italia, sia a un gruppo che si trova lontano e manda i suoi saluti ai connazionali in Italia. E ffetti vamente vi erano comunità del genere, come testimonia la chiesa do mestica raccolta attorno ad Aquila e Priscilla (Atti 18,2; 1 Cor. 16,19). Che la frase discussa segni la fine della lettera, e che inoltre sia form u lata in modo piuttosto generico e vago, interviene comunque a favore dell’ipotesi che lo scritto provenga dall'Italia. I destinatari vanno per ciò ricercati nella parte orientale dell'impero, ma non certo ad Alessan dria, della cui prima comunità cristiana non si sa nulla. N on si tratta neppure della chiesa gerosolimitana, dato che vi è l'accenno alla collet ta. Com e suggeriscono le indicazioni restanti, è preferibile pensare a una comunità nell'ambito dell'azione missionaria di Paolo durante il suo terzo viaggio, composta in prevalenza da giudeocristiani. Poiché anche Tim oteo, definito «nostro fratello», immediatamente dopo la li berazione - dalla prigionia, a quanto pare - intende recarvisi senza in dugio insieme all'autore, certo perché vi si sente di casa, si può p ro porre con una certa riserva Efeso o Corinto, o comunque una chiesa di una certa importanza in territorio greco o dell'Asia M inore. D a qui si giungerebbe anche a una spiegazione abbastanza plausibile del co me e del perché questo scritto potè essere inserito in una delle prime raccolte delle epistole paoline, dal momento che tali raccolte, come sug gerisce il patrimonio epistolare esistente, devono essere accettate dalle chiese suddette. 10. Il problema dello sfondo storico-religioso e storico-tradizionale della lettera è ulteriormente gravato da una questione: lo scritto neo testamentario, che apparentemente ha basi in prevalenza veterotestamentario-giudaiche, davvero è al tempo stesso anche uno scritto fon damentalmente ellenistico (così E. Gràsser)? Prima di prendere posi zione a favore o contro tale ipotesi, occorre chiarire alcune circostan ze. Anzitutto è da riconoscere che il giudizio richiesto può essere emesso soltanto se, con il miglior senso critico, si distinque tra presup posti spirituali e discorso testuale, oltreché tra strutture dirette e indi rette di un enunciato. In secondo luogo i concetti «gnostico», «esseno», «ellenistico» o «apocalittico» devono risultare talmente univoci da impedire qualsiasi analisi poco chiara in cui alla fin fine un'etichet ta possa venire scambiata con un'altra - come se un'afferm azione apo
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calittica potesse essere considerata anche gnostica perché in fondo l’ apocalittica in quanto fenomeno del mondo giudaico ellenistico è già anche «gnosi». Simili giochetti mentali non possono certo essere di al cun aiuto. Le considerazioni che seguono partono dal presupposto che gnosi e apocalittica sono fondamentalmente diverse nella sostanza. C i rifiu tiamo perciò di trattare la teologia di Ebr. inserendola nella categoria di una «gnosi apocalittica» - categoria discutibile secondo la prospet tiva della storia delle religioni - (come fa invece H . Koster). Inoltre non ce la sentiamo di vedere nella lettera una testimonianza della lotta per lo «sviluppo dell’eredità paolina», il che costringerebbe a colloca re la lettera negli ultimi due decenni del i sec. In tale tendenza non vi è nulla di cui tener conto. L ’autore di Ebr.t a nostro parere, va inserito piuttosto nell’ambito dell’opera missionaria paolina posteriore (attor no al 60 d.C.), dalla quale però va chiaramente distinto come persona lità teologica indipendente (v. paragrafo 8). Em erge che la testimonianza di Ebr. nasce da un ambiente spiritua le affine in ogni sua parte essenziale al mondo ideativo teosofico di un Filone di Alessandria. T u tt’al più nella sezione (neoplatonica) inizia le si possono individuare determinati collegamenti con quel m ovim en to tardo che definiamo gnosi e che, come è noto, soltanto nel 11 secolo si presenta in una certa form a compiuta. Tuttavia sarebbe sicuramente errato voler individuare in Ebr . elementi gnostici già inequivocabili oppure una critica mirata contro di essi, per giudicare con il loro aiuto il carattere singolare dello scritto. Le frasi sulla preesistenza del reden tore si adattano senza problem i a un linguaggio filosofico e a un m on do di pensiero strettamente affini a Filone (v. sopra, 1 e 3). L ’idea tipi ca di una «discesa del redentore attraverso i mondi celesti» non è asso lutamente ripresa in 9 ,1 1 s.24 s., ove si parla dell’ingresso nel santua rio celeste. Parimenti, i presupposti del pensiero alessandrino filonia no emergono in 7,1-3 con tanta forza da confutare l’opinione che qui vi sìa un’ allusione alla «incarnazione di un uomo primordiale» in sen so specificamente gnostico. Anche il concetto gnostico dell’origine co mune (di esistenza) di redentore e redenti è totalmente estranea al n o stro autore. Secondo 2 ,1 1 , i cristiani affermano di derivare da D io non a m otivo della natura celeste, ma perché vivono con lui un rapporto di dipendenza creaturale. Infine, sia per Ebr. sia per Filone, è tipica l’idea del viaggio di ritorno alla patria celeste, tanto più che alla sua base vi è
Lo sfondo storico-religioso e storico-tradizionale
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la tematica biblica dell’esodo, non la concezione specifica di un'ascesa a livelli di esistenza sempre più elevati. Ebr. presenta un quadro del mondo sostanzialmente più semplice. Il vero mondo è quello celeste; esso è l ’esistenza eterna. Il mondo terreno con le sue effimere istituzioni non è altro che una «copia» del la più alta realtà di Dio. In Ebr ., questa distinzione caratteristica viene operata principalmente in considerazione delle istituzioni cultuali del giudaismo. Mentre il sacrificio di Cristo, unico ed eterno, è stato offer to nel santuario celeste, alla fine dei tempi, il culto sacrificale cultuale del popolo giudaico è stato compiuto fino a questo momento intera mente nella provvisorietà effimera del vecchio tempo. Q uesto m odo di veder le cose ovviamente non è una dimostrazione né dell’im pron ta gnostica della lettera agli Ebrei, né di una forma precoce di gnosi; piuttosto è analogo alla visione alessandrina filoniana, corrisponden te in tutto alla concezione (neo)platonica e stoica secondo la quale la realtà celeste supera radicalmente il mondo terreno corruttibile (cf. in particolare Str.-Bill, in , 702 ss. su Ebr. 8,5). In tal modo alla testimo nianza dell’Antico Testamento su sommo sacerdozio, culto e sacrifi cio viene strappato un ultimo più profondo significato. L a lettera agli Ebrei si trova indiscutibilmente su questo piano di pensiero dell’in terpretazione alessandrina filoniana della Scrittura e del mondo, tut tavia l’autore compie un altro importante passo avanti mettendo in re lazione, con rigore tipologico, tutto l’evento cultuale sacerdotale con l’adempimento in Cristo. Riflette dappertutto le premesse veterote stamentarie del culto giudaico, con le sue istituzioni e figure, la perso na e opera del messia Gesù (cioè nel senso di una tipologesi strettamente riferita a Cristo). In questo modo si pone un limite ben preciso alla sconcertante molteplicità d’interpretazioni allegoriche (al riguar do v. Sh. N om oto). A ciò, oltre alla concezione del mondo neoplato nica filoniana che fa una netta distinzione tra valori terreni e celesti, si aggiunge la grandezza veramente preminente di un’attesa escatologica che va dritta al suo scopo. Essa dà proseguimento alla speranza uni versale del giudaismo rabbinico e apocalittico, ancorché nella novella forma dell’escatologia del cristianesimo prim itivo in genere. L ’esalta zione del Crocifisso qui diviene l’ atto escatologico per eccellenza, per mezzo del quale alla comunità si schiude l’accesso prossim o e definiti vo al santuario celeste (10 ,19 ss.32 ss.). Tale atto di perfezionam ento diventerà presto realtà se la comunità s’impegnerà con tenacia resisten
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do fino alla morte nelle avversità di persecuzioni dall’esterno; nel frat tempo bisogna cominciare a guardarsi bene dal «rifiutare colui che parla!» (12,25). Il cap. 12 si inserisce perfettamente nel consenso gene rale riguardo a un’attesa escatologica universale della comunità cristia na delle origini (6,1 s.). L a speranza in un «regno incrollabile» prepa rato da D io per la sua comunità è senza cedimenti (12,28). L a nostra interpretazione terrà nella debita considerazione l’estre ma vicinanza agli scritti di Filone (cf. sopra, p. 1 1 , la raccolta delle sue opere). Anche la dipendenza letteraria da essi non va affatto esclusa (diversamente R. Williamson), tanto più che si riscontrano continui contatti (cf. a 6,16 .19 ; 7 ,1-3 .2 5 ; 8,5; 9 ,15 .19 ; 11 ,2 ecc.). T u tt’al più p os sono essere riprese indirettamente certe tradizioni essene, ragion per cui nel commento non verranno sempre approfondite. Sotto un certo aspetto, l’ escatologia universale di Ebr . va vista come criterio per una adeguata collocazione storico-religiosa della lettera. Per determinare la posizione dell'autore non si cercherà, pensando al successivo pensiero protocattolico, di dare una risposta alla questio ne se e in che misura lo scritto introduca uno sviluppo che prende le mosse dalla concreta attesa della seconda venuta. Piuttosto bisogna stabilire che cosa la lettera stessa reputi necessario di fronte alla senti ta problem atica del ritardo della parusia. Si evidenzia così che - p ro prio come il più antico cristianesimo (Paolo e i sinottici) - essa non dà un’interpretazione diversa, ma reagisce vivacemente proponendo una attesa immediata e raccomandando alla comunità interpellata la neces sità della perseveranza. Alquanto discutibile, sebbene spesso sostenu ta dalla ricerca, è quella «certa trasform azione della tradizionale esca tologia (orizzontale) in verticale», che viene spesso effettuata, anche se non senza tensioni, con l’ aiuto di contenuti concettuali alessandrini (così E. Gràsser). Laddove la lettera approfondisce maggiormente la speranza dei cristiani, pensa sempre in m odo concreto-temporale, an che quando in altri temi (come quello del santuario celeste) a chiedere la parola sono segnatamente i concetti filosofici di una spazialità tra scendente. 11. M a chi era dunque Filone , dal quale andò a scuola il nostro au tore per trarre vantaggio, lui cristiano, dalla sua arte di interpretare la Scrittura? Filone nacque intorno al 20 a.C. ad Alessandria. Cresciuto in una tradizione di form azione giudeo-ellenistica, si dedicò a deter
Testimonianza di un cristianesimo giudeocristiano
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minare il permanente contenuto di verità delPAntico Testam ento ser vendosi dell’interpretazione allegorica, metodo ermeneutico corrente. Com e autore Filone fu insolitamente produttivo e influente. Rivestì inoltre cariche direttive nelPimportante comunità giudaica di A les sandria. Relazioni di parentela gli schiusero Paccesso alla corte im pe riale di Rom a, tanto che nel 40 d.C., in qualità di capo di una delega zione, potè difendere interessi giudaici basilari nella protesta contro un culto imperiale problematico. Dagli scritti di Filone si può dedurre molto bene come doveva svolgersi l ’omelia sinagogale giudeo-elleni stica ad Alessandria. L ’ allegorica profondità di pensiero di una fervida interpretazione degli scritti veterotestamentari, in particolare del Pen tateuco, fa pensare alPesistenza di una cerchia piuttosto ampia di di scepoli di Filone, con la quale va messo in relazione Pautore della let tera agli Ebrei. Q uando questi conobbe la fede cristiana gli si schiuse ro nuovi orizzonti di comprensione e certezza. La storia delPefficacia di questa lettera - che, come riteniamo, un tempo era profondamente inserita nelPambito della predicazione cristiana più antica e della ri flessione teologica della prima chiesa - naturalmente si svolse sempre nella tensione tra rifiuto e riconoscimento (al riguardo v. specialmente E. Gràsser). Riassumendo, ricordiamo che Ebr. va intesa come testimonianza di un cristianesimo primitivo giudeocristiano, che ha sì espresso in chiave ellenistica Pevento di Cristo, ma intendendolo in modo assolutamente apocalittico. Sarà compito del commento trasformare ermeneuticamente tale importante conoscenza così che la struttura rivelatoria del l’ evento renda possibile la comprensione odierna di quelPevento. In altre parole, il mistero divino e salvifico della croce va espresso nel linguaggio di oggi come «escatologia della croce» eternamente valida. C on questa espressione intendiamo il duraturo significato temporale ed escatologico della croce, e questo in modo tale che su questa terra la vita delPuomo acquisti senso eterno e futuro durevole solo attra verso il sacrificio. Il criterio ultimo di misura per tutto questo è dato dal sacrificio di Cristo. In conclusione si può affermare con H . Hegermann (p. 25) che il fondamento della fede e l’intento omiletico centrale delPanonimo au tore cristiano possono essere espressi con un’unica frase: non c’è altra certezza al di fuori di quella proveniente dalla parola stessa. Il giura 12.
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mento divino (Sai. 110 ,4 ) è l’estrema possibilità di cogliere D io in questa parola, e proprio in virtù di questa la promessa salvifica deve diventare per il credente certezza incrollabile. L a fede nella m isericor diosa rivelazione escatologica e definitiva di D io nelPevento di C risto sostiene e sprona la vita dell’uomo. Tutta la profondità della riflessio ne sul sacrificio di Cristo sfocia così in ultimo nell’esortazione al di scepolo alla donazione e al sacrificio di sé.
Esordio e tema dell’omelia: «Il Signore disse» (Sai. 110 ,1)
L ’esaltazione del Figlio è la conclusione escatologica di un evento della parola del tempo primordiale 1 Dopo aver parlato ai padri nel tempo passato più volte e in molte manie re per mezzo dei profeti, 2 Dio ha parlato a noi nel tempo ultimo, ai nostri giorni, per mezzo del Figlio, che costituì erede dell’universo e mediante il quale creò anche i mondi. 3 Egli, che è lo splendore della sua gloria e im magine perfetta della sua sostanza e che con la potenza della sua parola so stiene l’universo, «ha preso posto alla destra» della maestà nei cieli, avendo compiuto (per mezzo di sé) una purificazione dei peccati. 3 Sai. iJo,i. 1-3 . L ’esord:io, di tono piuttosto solenne, affronta immediatamente il tema del discorso omiletico: la costituzione del Figlio a dominatore escatologico secondo il Sai. n o . Il periodo, elaborato con la massima cura in ogni singolo particolare, presenta con parole concise e pre gnanti l’importanza globale del Cristo esaltato. La mancanza di un’introduzione vera e propria (il cosiddetto pre scritto) suscita tutta una serie di questioni. Forse che l’inizio origina rio è stato sostituito in epoca precedente al canone da questo esordio, abilmente costruito sotto l’aspetto e linguistico e stilistico, allo scopo di sottolineare la validità universale dello scritto? Invece del solito fo r mulario epistolare greco ne è stato adottato un altro? Che a un certo momento l’usuale introduzione sia stata eliminata, per caso o inten zionalmente? Che addirittura non si tratti neppure di una lettera, ben sì di un trattato redatto occasionalmente? La nostra ipotesi è che ci troviamo davanti a una predica (omelia) sul Sai n o riportata in forma epistolare, di fatto destinata a una precisa comunità cristiana a cui fa cenno il cap. 13. Com e per tutte le lettere, l’indirizzo esterno è andato perduto. L ’indirizzo interno, probabilmente brevissimo, potrebbe es sere caduto in disuso con l’utilizzo frequente dello scritto. In modo ancora più accentuato che in alcune epistole paoline, in Ebr. è eviden
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Ebr. 1,1-3. L ’esaltazione del Figlio come conclusione escatologica
te che form a e contenuto erano strettamente funzionali alla lettura da vanti a una determinata comunità. L 'esord io costituisce un capolavoro stilistico che la traduzione può rendere in m odo solo approssim ativo (v. le cinque allitterazioni nel p ri mo versetto). Il testo originario evidenzia inoltre uno stile con un cer to ritmo che nel quadro della celebrazione liturgica trasform a immedia tamente l'om elia in evento solenne. Questo esordio linguistico è in fi ne una chiara prova che Ebr.y con le sue «figure di linguaggio» accom pagnate dalle «figure di pensiero», manifesta una certa tendenza lin guistica alla «prosa artistica attica», una prosa che appartiene al com pleto bagaglio stilistico di un cristiano erudito del mondo giudeo-elle nistico (cf. Filone, Somn. 1,2 2 1; Flacc. 4 6; Cher. 112 ). 1. L e riflessioni prendono le mosse dall'unico D io della fede biblica, autore di tutte le cose e mistero prim o del mondo, certamente non pu ra e semplice causa o principio onnicom prensivo bensì persona onni potente orientata a una rivelazione verbale. Quando si sottolinea che tale rivelazione è avvenuta «più volte» e «in molte» maniere, ci si so f ferma sul suo carattere qualitativo e quantitativo, ossia sulla sua pie nezza infinita e le sue mille possibilità; infatti vario come la storia del l'um anità è anche l'agire di D io nei confronti dell'uom o, creato m e diante chiamata. M a la parola di D io non si trasfigura addentrandosi in profondità mistiche né si espande panteisticamente nelle vastità del l'universo. Essa interroga sempre direttamente, ed è sempre la singola persona a essere interpellata. Perciò vi è una storia della rivelazione e un movimento della parola nel corso delle epoche sin «dai tempi anti chi», cioè dalla preistoria. Così, per l'uom o che pensa in termini bibli ci, la storia della salvezza che può essere tratta dall'A ntico Testamento va vista necessariamente alla luce della riflessione e della memoria. È la storia dei «padri» chiamati, che vengono visti tutti come oggetto della chiamata di D io (cap. 11) . Probabilmente non si pensa a singoli patriarchi come Abram o, Isacco o Giacobbe, bensì, in senso lato, ai cre denti del popolo di D io veterotestamentario, in quanto si distinguono dai «profeti» ai quali spettava l'elaborazione della parola specifica. L o sguardo sembra appuntarsi in particolare su personaggi profetici co me Samuele, Elia, Isaia e Geremia, dunque su messaggeri della parola di D io che, singolarmente e in solitudine, hanno sofferto per il loro popolo e ad esso hanno parlato (v. anche 11,3 2 ss.). L'autore vede la storia della parola di D io anche come storia dei suoi testimoni, traden
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do così la propria appartenenza al popolo giudaico. Egli considera con cluso il tempo della testimonianza profetica della parola di D io, così come nella sinagoga si pensava che con Malachia il tempo della rivela zione dello Spirito di D io fosse giunto a temporanea conclusione, Per l’ autore della lettera tale epoca in sostanza è remotissima. Si trattava di un tempo in cui D io aveva parlato solo in modo incompleto e m ol to frammentario, forse addirittura in modo alquanto oscuro. Solo in età più recente la storia della diretta rivelazione di un tempo è giunta al suo fine e compimento, superando ogni evento passato: «Dio parlò a noi nel tempo ultimo, ai nostri giorni». C hi ascolta o legge la lettera può considerarsi chiamato e interpellato. 2. Ecco la novità: ora la parola è diffusa illimitatamente, ma soprat tutto l’evento di rivelazione si è concluso alla fine del tempo nell’uni co figlio (cf. Sai 1 1 0 ,1 a). Alla storia della parola di D io di prima se ne è affiancata un’altra più completa che non può più essere superata. È stata presa un’ultima decisione in favore dell’uomo. Il «Figlio» viene presentato come ultimo depositario della rivelazione nella catena sto rico-salvifica dei testimoni profetici d’Israele. Idealmente le riflessioni ci portano vicino all’immagine sinottica di Me. 12 ,1 ss. («figlio», «ere de», citazione: Sai 118 ). Il concetto di «erede» è tratto per lo più da Sai 2,8. Colui che D io ha previsto dall’inizio dei tempi come erede, quando per suo m ezzo creava i «mondi» (= eoni), è anche scopo e fine di tutte le cose e dunque contenuto vero e proprio del mistero di D io in questo mondo e al di là di esso (v. anche Col 1 , 1 6). L'essenza della fine non è altro che l’ essenza dell’inizio e viceversa. Q ui sembra rie cheggiare una tradizione confessionale liturgica del prim o cristiane simo, insieme a un tema tipico soprattutto dei discepoli di Paolo, ma che nell’apostolo incontriamo solo occasionalmente (1 Cor. 8,6). C o lui che ha messo in moto i tempi eterni ne è al tempo stesso anche il compimento. Dalla serie di affermazioni che seguono possiam o de durre con quanta insolita forza si potesse percepire il paradosso delle idee abbozzate. 3. Il Figlio, che irradia la gloria di D io e ne chiarisce la sostanza, che addirittura sostiene l’universo con la forza della sua parola, ha reso possibile la purificazione dei peccati mediante il sacrificio di sé. I sin goli particolari verranno esposti in un secondo tempo, ma la verità decisiva risuona già. Si noterà che la figliolanza di C risto è considerata celeste per sostanza e origine. Si presenta come «splendore» della glo
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ria divina (v. le traduzioni di Sai n o ,3b ), non certamente solo come suo «riflesso» più debole. Racchiude inoltre la riproduzione della sua sostanza come se si trattasse di un'impronta stampata. L ’evidente concettualità, che presenta una certa vicinanza alla descrizione alessandri na filoniana del rapporto tra anima umana e logos divino (cf. ad es. Filone, Plant. 18.50; anche Sap. 16 ,21), non intende affermare che nel Figlio D io sia palese solo approssimativamente, bensì che proprio in lui è visibile pienamente e secondo la sua sostanza. In questo passo il linguaggio della lettera si avvicina moltissimo alla speculazione con temporanea su ragione e sapienza (v. Filone, Somn. 1,233). In fin e’ci è detto che il Figlio sostiene 1*«universo» con la potenza della sua p aro la. L ’idea che D io sostenga e custodisca il mondo in questo modo non è estranea né alla letteratura rabbinica (Str.-Bill. 111, 673) né a Filone (Rer. 36). C iò che caratterizza la nostra testimonianza è l’esclusiva ap plicazione del concetto a Gesù, nel quale davvero la parola prim ordia le di D io ha preso forma definitiva. L ’idea del «sostenere» indica che per D io il mondo costituisce un peso ed è ricolmo di tensioni, per cui il pericolo e la dissoluzione incombono. Però il Figlio lo mantiene uni to per la sua salvezza grazie alla potente parola di D io e ne assicura la stabilità. La convinzione che qui affiora è estremamente salda: solo per mezzo della parola di D io e su D io, così come può essere pronun ciata in modo adeguato unicamente con Cristo, questo mondo avrà un futuro. Aggiungerem o anche che ciò è reso possibile solo col sacrifi cio che egli ha compiuto per ottenere una «purificazione dei peccati»: il dono di se stesso. La storia di D io con il mondo mira quindi alla croce di Cristo, luogo della sua passione e morte. D ove apparente mente solo la follia e la morte hanno trionfato, in verità è stato depo sto un ultimo segreto. Esso verrà illustrato in tutti i suoi aspetti in ciò che segue, sulla base della testimonianza biblica del Sai n o . Dato che il sacrificio del Figlio si è compiuto volontariamente e nell’obbedien za, egli - detto nello stile liturgico confessionale - ha preso posto «alla destra della maestà nei cieli». L ’accenno alla maestà celeste sostituisce il nome di D io (cf. 8,1). L o stereotipo di questa espressione lascia in tendere che ci troviamo di fronte a una formula, dal tono molto so lenne.
Parte prima
(1,4 -4,13)
«Siedi alla mia destra» (Sai. 1 10,1)
La maestà del Figlio innalzato è superiore alla gloria degli angeli
(1 ,4-14) 4 Diventò tanto più potente degli angeli, quanto è più alto di loro il nome che ha ereditato. 5 Infatti a quale degli angeli ha mai detto: «Tu sei mio fi glio, oggi ti ho generato», e ancora: «Gli sarò padre ed egli sarà per me fi glio»? 6 Ma quando introduce (ha introdotto) di nuovo il primogenito nel mondo, dice: «E tutti gli angeli di Dio devono adorarlo». 7 E un’altra vol ta riguardo agli angeli dice: «Rende i suoi angeli come venti, e i suoi servi tori come fiamme di fuoco»; 8 ma riguardo al Figlio: «Il tuo trono, o Dio, sta in eterno», e ancora: «Uno scettro di rettitudine è lo scettro del suo re gno»; «Tu hai amato la giustizia e odiato l’iniquità». 9 «Perciò, o Dio, il tuo Dio ti ha unto con olio di esultanza a preferenza dei tuoi compagni». 10 Inol tre: «Tu, o Signore, al principio hai fondato saldamente la terra, e opera delle tue mani sono i cieli; n essi periranno, ma tu rimani; e tutti invecchieranno come un vestito, 12 e tu li arrotolerai come un mantello», come una veste «saranno anzi cambiati. Ma tu sei lo stesso e i tuoi anni non avranno fine». 13 A quale degli angeli ha mai detto: «Siedi alla mia destra, fin ché non abbia reso i tuoi nemici uno sgabello ai tuoi piedi»? 14 N on sono essi tutti spiriti ministranti, inviati per prestare un servizio a coloro che devono ereditare la salvezza? j Sai. 2,7; 2 Sam. 7,14. 6 Deut. 32,43. 7 Sai. 104,4. 8 s. Sai. 45,7 s. 10-12 Sai. 102,26 s. 13 Sai. 110,1. 4 -14 . Conformemente alla struttura dell’omelia sinagogale, segue immediatamente una pericope che illustra il tema dell’ esaltazione del Figlio alla destra del Padre partendo dalla Scrittura. Per l’argomenta zione si ricorre a una scelta di passi scritturistici, formanti una cosid detta «catena», che danno fondamento alle enunciazioni sostanziali del tema. Il modo di procedere è studiato, come dimostra la scelta dei testi che, per la riflessione cristologica della comunità primitiva, dove vano effettivamente avere un significato basilare. Il v. 13 riprende si gnificativamente la domanda introduttiva del v. 5, cosicché alla fine
Ebr. 1,4-14. La maestà del Figlio secondo Sai. n o
viene ripresentato intenzionalmente quel passo della Scrittura che ca ratterizza nel m odo più completo l'esposizione omiletica. Il collage di citazioni è introdotto da Sai 2,7, un testo la cui particolare afferm a zione poteva anch'essa suscitare grande interesse. Tanto più che co munque con il tema della «generazione» del Figlio alFinterprete della Scrittura veniva fornita una notevole omogeneità (cf. Sai n o ,3 c e Sai 2,jc)y che poteva indurre a fare considerazioni cristologiche. Il filo conduttore delle citazioni bibliche è costituito dalPaffermazione del v. 4, secondo il quale C risto ha ereditato un «nome» che supera di gran lunga quello degli angeli. Il concetto di «nome» indica complessi vamente la nuova dignità di C risto perché, a differenza del pensiero m oderno, il nome racchiude al tempo stesso anche l'essenza della co sa nominata, in questo caso dignità e ministero. Certo, per prima co sa è inteso il nome di Figlio, ma non solo. L a funzione è chiarita in ol tre dai titoli «Signore», «primogenito» e «Dio». Il confronto con gli angeli ha permesso l'elaborazione ideale della dignità di dominatore del Figlio, unica nel suo genere, rispetto alla quale essi sono stati chia ramente posti in posizione subalterna come «spiriti ministranti». Se si considera che questa prim a serie di concetti (1,4 -14 ) si aggancia diret tamente al v. 3, e dunque che non si parla tanto di una maggior supe riorità di Gesù quanto della sua esaltazione e della sua intronizzazio ne alla destra di D io, allora è probabile che il contenuto fosse anticipa to dal tema principale generale, e che quindi il Sai 1 1 0 ne costituisca il fondam ento omiletico. È evidente che viene ulteriormente sviluppato un ragionamento ben preciso. N u lla fa pensare a una specifica disputa sugli angeli, suscitata dalla situazione generale o particolare della co munità. È più plausibile che l’interpretazione di Sai 110 ,3 , se 1° S1 ri~ ferisce all’intronizzazione del Signore escatologico, sia applicata alla corte celeste che entrerà in azione nel giorno del giudizio. La com uni tà prim itiva ha sempre com preso l'esaltazione di C risto in maniera fu n zionale come insediamento nell'ufficio di giudice alla fine dei tempi. E questa concezione è presente anche in 1,6 ss. Che nella chiesa delle origini l'interpretazione di Sai 110 ,3 vertesse sul potere di Gesù, m ag giore di quello degli angeli, emerge anche da E f 3,20 ss. e da 1 Pt. 3,22. Tale interpretazione sorgeva senz'altro laddove non solo venivano esi bite delle citazioni, ma se ne prendevano in considerazione anche il contesto e il nesso logico spirituale. Ragion per cui vanno sottolineati anche gli stretti contatti sostanziali con il cosiddetto inno cristologico
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di FU. 2,5 ss. L ’affinità con Paolo è indiscutibilmente stretta. Se si pen sa che era in gioco l’importanza teologica della morte in croce di G e sù, che urgeva sviluppare in modo attendibile, allora si spiega in m odo del tutto ovvio l’alto interesse omiletico per il Sai n o , interesse qui evidente. D ’altro canto questo salmo, probabilmente già nel giudai smo dell’epoca, aveva assunto una certa importanza kerygm atica nella fondazione e, in particolare, nella formulazione dell’attesa messianica (v. Str.-Bill, iv ,1, 452 ss.), alla quale poteva ora agganciarsi la comunità primitiva; né è escluso che lo stesso Gesù non vi sia ricorso per giusti ficare biblicamente la singolare comprensione di sé come Figlio del l’uom o (Me. 12,35 ss-i 14*62). Il fatto sorprendente che l’ antica sinago ga dei primi tre secoli d.C. non abbia lasciato alcun documento relati vo all’interpretazione messianica del salmo, prima sicuramente diffu sissima, si spiega allora con una ferma opposizione a questa dim ostra zione biblica, fondamentale per la fede cristiana delle origini. N ella lo gica del periodare il v. 4 fa ancora parte dell’esordio, ma da un pun to di vista sostanziale e concettuale punta già verso una direzione nuo va. Sulla base del Sai n o , l’intento dell’esposizione mira ora natural mente a descrivere il C risto esaltato. L a riflessione si sposta dalla men zionata maestà di D io alle potenze celesti. In quanto esseri intermedi tra la regione terrena e quella celeste, era loro attribuita grande im por tanza nella concezione dualistica del mondo propria del giudaismo ellenistico e palestinese di allora. L ’abbondanza d’idee era inoltre ter reno fertile per speculazioni selvagge. N ello stile preferito di Ebr., il periodo inizia subito con un confronto. Abbiam o accennato al singo lare modo dell’autore di pensare per confronti e proporzioni. Il «Fi glio» è superiore, o meglio più potente degli angeli, quanto maggiore è la dignità (- «nome») attribuitagli. L ’affermazione mira al momento dell’intronizzazione. Previsto fin dal principio come erede e costituito tale per testamento (v. 2), con il proprio docile sacrificio, che ha reso possibile una purificazione totale dei peccati, egli ha dunque ottenuto definitivamente il possesso della sua «eredità» alla fine dei tempi, ere dità che sta ora difendendo dall’opposizione dei nemici grazie alla propria posizione (v. 13). G li enunciati lasciano trasparire una notevo le posizione di tipo adozionista, nonostante si conosca e si ribadisca la preesistenza del Figlio. Proprio come in FU. 2,9 o in Rom. 1,4, questa riflessione non prevede un processo salvifico in cui quanto era stato previsto si è compiuto automaticamente, secondo una pianificazione
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eterna, ma si sforza di riflettere sul vero motivo dell’esaltazione che è, prim a di qualsiasi altra cosa, la verità storica del Crocifisso. L a predi cazione apostolica non ha mai semplicemente affermato apodittica mente o declamato qualcosa, ma ha sempre interpretato e argomenta to. L o stesso avviene in questo testo, in primo luogo con ampie cita zioni bibliche. 5. Com e prim a serie abbiamo Sai. 2,7 collegato a 2 Sam. 7,14 . In entrambi i casi il concetto di figlio è al centro di un discorso e di una promessa straordinari di D io. E probabile che attraverso Sai. 110 ,3 : «generato prima dell’aurora», messo in relazione con Sai. 2: «oggi ti ho generato», per motivi di com binazione giustificati dalla tecnica in terpretativa, dalla citazione emerga la certezza del significato messia nico delPaffermazione, che prima di allora, ovviamente, era applicata, secondo una visione comune a tutto POriente, alPinsediamento sul tro no del re israelita, il quale sapeva di essere «figlio» del suo D io. G ià in epoca precristiana il pensiero biblico metteva in relazione il salmo con l’ atteso re messia e salvatore (cf. Ps. Sai 17 ,2 1 ss.). D i conseguenza an che il cristianesimo delle origini si richiamò decisamente a questo fondamentale testo cristologico per vedervi preannunciato il battesi mo (Atti 4,25 ss.; Le. 3,22D ) o la risurrezione (Atti 13,33), non tanto la nascita di C risto (cf. anche Apoc. 12,5; Iust., D iai 88,3.8; 103,6; Ev. Eb. ecc.), che in un prim o tempo non destò alcun interesse teologico. Accanto alla possibilità di un'allusione alPesaltazione pasquale si p o trebbe prendere in considerazione l’ipotesi che Ebr. pensi a una «ge nerazione» pretemporale (cf. Sai 110 ,3 ), perché in ciò che segue si fa cenno al «primogenito». L ’ «oggi» sarebbe allora riferito alPinserimento del Preesistente nel mondo. In Ebr. tutta l’enfasi è posta sull’ espressione «tu sei mio figlio». Il seguito della frase non è affatto esibito per pura forza delPabitudine. D a esso infatti si poteva ricavare qualcosa di più preciso riguardo al rapporto del Figlio con il Padre. Perciò la frase «og gi ti ho generato» veniva indubbiamente riferita a un particolare atto di elezione (v. anche a 5,6). L ’ «io» sottolinea, nell’ascolto della chiesa delle origini, la volontà assoluta di D io di rivelarsi in questo C risto. Se l ’autore presuppone una tradizione più antica, come accade per la tradizione sinottica del battesimo di Gesù, allora P«oggi» mira p ro babilmente, come in 3,7 e 4,7, al tempo della salvezza inaugurato con Gesù. Q uesto offrirebbe al tempo stesso una spiegazione del perché nel v. 6 alP«introduzione» più antica ne venga affiancata una «secon-
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da» con il ritorno escatologico del Figlio. Segue la citazione ulteriore di 2 Sam. 7,14. La profezia di Natan poteva essere applicata senza difficoltà al promesso re davidico degli ultimi tempi, come dimostra anche la setta essena di Qumran (4QFlor). In questa seconda citazio ne complementare l'accento è posto sulla conclusione, «Egli mi sarà figlio». In questo modo si ottiene esattamente la figura retorica giu daica del parallelismo antitetico. Essa sottolinea l’argomentazione se condo la quale a nessuno degli angeli è stato mai rivolto tale titolo e tale promessa. Anche se PAntico Testamento più volte presenta gli an geli come «figli di Dio» ( Gen . 6,2.4; 58,1 L X X ; 89,7; Gìob. 1,6; 2, 1; 38,7), tuttavia il pensiero dei traduttori successivi, soprattutto dei L X X , ai quali Ebr. si aggancia, non ha potuto ammettere tale fatto per fedeltà a uno spiccato monoteismo. Si avevano allora tentativi d’inter pretazione diversa, oppure si sceglievano nuove form ulazioni. Com e afferma giustamente la domanda introduttiva, a nessuno degli angeli è stato mai concesso un rapporto con D io così unico nel suo genere. 6. N el seguito viene illustrata, a partire dalla Scrittura, non la rela zione tra Padre e Figlio, bensì quella tra il Figlio e gli angeli; il ragio namento si sviluppa partendo dal primo per passare poi ai secondi. Deut. 32,43 (nella versione sintetica dei L X X ) serve a dimostrare che il Figlio, messo in risalto come «primogenito» probabilmente per la sua elezione pretemporale, quando è «nuovamente introdotto» nel m on do viene adorato da tutti gli angeli. Della prima «entrata» nel mondo tratta significativamente anche 10,5. Il testo presente si raffigura la comparsa del Figlio nel momento delPimminente seconda venuta che, come era convinzione generale nei primi tempi del cristianesimo, av verrà nella gloria delle schiere angeliche celesti (cf. Me. 13,26; Mt. 24, 30; Le. 21,27; 2 Tess. 1,7 ecc.; cf. anche Hen. aeth. 1,4). C i si può chie dere in che misura essa sia considerata già avvenuta con l ’esaltazione, in quanto nella formulazione alcuni punti restano oscuri. A d ogni m odo essa ha luogo nel mondo su cui il Cristo esaltato regnerà dopo aver preso possesso della propria eredità (al riguardo v. Sai 98,7.9). È pos sibile che la definizione «primogenito» sia giustificata con Sai 89, 28, importante per le frasi riferite a Davide. Deut. 32 descrive Pultima ri velazione di D io nel giudizio, e sotto questo aspetto anche da un pun to di vista materiale e concettuale si presenta in particolare come p ro va scritturistica. N el complesso è chiaro che quanto esposto, in m odo più accentuato rispetto a quanto lasciano intendere le citazioni, presen
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ta una gran quantità di riferimenti alla Scrittura che mettono alla p ro va Perudizione dell’autore. 7. Il v. 7 prosegue nella descrizione delle funzioni celesti subordina te degli angeli; si ha la citazione di Sai 104,4, ^ grande inno della crea zione, che esordisce illustrando la maestà celeste di D io. La congiun zione «e» posta all’inizio del versetto, insieme al «ma» che segue al v. 8, intende accentuare il contrasto tra la posizione del Figlio e quella degli angeli, che sono semplicemente spiriti ministranti della creazio ne. L ’immagine che paragona gli angeli ai «venti» e alle «fiamme di fuoco» non ha certo intenzione di equipararli alle forze della natura, di cui parla il testo ebraico originale, ma indica che il loro com pito consiste in una solerte operosità, e che la loro sostanza dipende inte ramente dalla decisione di Dio. 8. T u tt’altro la posizione e la funzione del Figlio (v. 8: «ma»)! Il suo trono, quindi il suo com pito di dominatore, durerà in eterno, come prova Sai. 45,7 s., che è riportato tanto diffusamente soprattutto per ché l ’invocazione «o D io» si adattava in modo particolare a un’inter pretazione applicata alla posizione unica di Cristo. Il Sai 45, com po sto come inno di nozze per un re israelita, in un secondo tempo era stato probabilmente compreso in senso messianico, interpretazione a cui poteva dar luogo il v. 8b. I versetti potevano essere compresi come se si stesse parlando del trono di Davide, benedetto da D io e che re sterà in eterno perché su di esso infine sederà il messia. A tale concet to ben si adattava anche il seguito, «il Signore, il tuo D io, ti ha consa crato». Com e nel caso di Sai. 2,7 e n o , i , anche Ebr. pensa a un dialo go tra il Padre e il Figlio, qui elevato da D io al suo stesso livello. Per l’autore della lettera, a questo punto la Scrittura mostra l’atto della consegna del regno. D io stesso assegna a C risto la signoria eterna sul l’universo, e definisce il suo scettro uno scettro che incarna la giustizia incorruttibile, una «verga di rettitudine» (cf. al riguardo «verga di p o tere», Sai 1 ro,2a). La sua grandezza di giudice presuppone una dim o strazione personale: egli ha amato la giustizia e odiato l ’iniquità. 9. Il v. 9 spiega meglio questo concetto. Proprio per questo m otivo D io lo ha consacrato con l’ «olio dell’esultanza di salvezza». C risto si è distinto nell’operato terreno, perciò ha potuto essere innalzato e al tempo stesso ricevere l’acclamazione giubilante dei «compagni» ce lesti, ossia degli angeli. Certamente essi sono spiriti ministranti, ma oltre a ciò il loro com pito è anche quello di glorificare D io in eterno.
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io. Com e ulteriore testimonianza sul Figlio segue immediatamente la citazione di Sai. 10 2 ,2 6 s., in assoluto la più estesa di tutta la raccol ta. A n ch ’essa viene intesa come se si trattasse di parola rivolta a C ri sto, in cui stavolta compare l'appellativo «o Signore»; nella com pren sione di Ebr. essa conferma il ruolo creatore prim ordiale del Figlio (cf. 1,2), il quale ha fondato il mondo (cf. Gen. 1,7) e del quale i cieli sono l'opera. 11 s. M a mentre tutto il creato passa, egli, PEterno, resta, non sfio rato dalla caducità e dalla fugacità del tempo. C olui che esiste dal prin cipio può essere compreso soltanto come colui che è in eterno. C iò che nel salmo originariamente valeva per la lode alla maestà sovrana del D io che ha fatto il mondo, ma lo può anche usare e gettare come un vestito vecchio e logoro, è ora visto come parola divina rivolta al F i glio. L a lieve variante della versione dei L X X può essere fatta risalire alPinflusso di Is. 34,4. La menzione del «principio» (così i L X X ) ri porta alla memoria Gen. 1 ,1 . L ’impiego in Ebr. mostra quanto il pen siero cristiano delle origini potesse dedurre in modo diretto e imme diato il ruolo creatore universale del Cristo preesistente. E in questo ovviamente l’impiego dei passi scritturistici non è avvenuto secondo una selezione casuale, bensì interamente secondo principi ben precisi. 13 . L a scelta delle citazioni scritturistiche, per quanto ogni volta ini zino significativamente con un predicato riferito a C risto, passa coe rentemente per gli appellativi di Figlio, D io e Signore, per giungere sino a Sai. 110 ,1 così da citare per ultimo proprio questo passo bibli co, a dimostrazione di una posizione assolutamente unica della digni tà del Figlio. La spiegazione del salmo costituisce il com pito omiletico vero e proprio della lettera. Le idee ritornano in ogni form a al fonda mento omiletico. D i fatto è vero che Cristo, il Figlio ed erede, ha as sunto una posizione unica presso Dio. A l tempo stesso si prepara un altro evento immane: la sottomissione finale dei nemici di C risto, per la quale D io è all’opera in favore del Figlio (10 ,12 ss.), così come in tale occasione addirittura lo «introduce» (v. 6). N on si può evitare di cogliere già in questa citazione un tono ammonitore. Più oltre se ne parlerà più diffusamente. 14. N el dipanarsi del ragionamento segue dapprima un temporaneo riassunto: «N on sono dunque tutti gli angeli spiriti ministranti?» (per tale espressione cf. Filone, Virt. 74). A dire il vero si dovrebbe poi p ro seguire così: e non è forse il Figlio più potente di tutti loro? M a poi-
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che questo è già stato chiarito, viene inserita un’aggiunta il cui tema consente di passare a un nuovo pensiero. Mediante la parola «eredita re», improvvisam ente è la comunità a porsi in primo piano; infatti il m ondo celeste non esiste perché D io si trasfiguri, ma per servire l’u o mo che ha bisogno della salvezza e che può esserne reso degno. Com e C risto ha offerto un proprio sacrificio corporeo, così anche gli spiriti celesti sono chiamati a un servizio e a un impegno di sacrificio, Com e il Padre è venuto in aiuto a C risto nel suo compito ultimo, così anche gli angeli sono destinati a un servizio di aiuto. C oloro che erediteran no la salvezza sono gli stessi che la «devono» ereditare. La grandezza dell’evento impone dedizione estrema alla parola udita (2,1-4) 1 Perciò è necessario prestare un’attenzione del tutto particolare a ciò che abbiamo udito per non sbagliare la rotta. 2 Infatti, se (già) la parola pro nunciata per mezzo degli angeli aveva un valore tanto assoluto che ogni tra sgressione e disobbedienza ricevette la punizione (= ricompensa) adeguata, 3 come potremo scamparvi noi se trascuriamo una salvezza così grande? Essa ebbe inizio nella predicazione del Signore e venne confermata qui, in mezzo a noi, da coloro che l’avevano udita, 4 mentre Dio al tempo stesso testimoniava (della sua verità) con segni e prodigi e miracoli d’ogni genere, e doni dello Spirito santo, elargiti secondo la sua (libera) volontà. 1-4 . Ebr. trae energicamente le conseguenze pratiche necessarie, p o i ché ritiene fermamente che la fede cristiana determini in modo decisi vo la condotta da tenere volta per volta. L ’intento che si celava dietro le riflessioni di 1,5 -14 trova ora per la prim a volta espressione ed è, in ultima analisi, identico allo scopo dell’ omelia (cf. 10 ,19 -12,29 ). D al punto di vista formale, a un’unica frase di energica esortazione (2,1) si aggancia una m otivazione relativamente ampia (2,2-4). Sotto l ’ aspetto contenutistico e concettuale risuona nuovamente, con più ri gorosa concentrazione, quanto già affermato in precedenza. Se 1,14 trattava degli angeli che vengono inviati per coloro che devono eredita re la «salvezza», la pericope attuale chiarisce che occorre mettere ogni im pegno e cura per non rischiare di giocarsi sconsideratamente tale «salvezza» (2,3a). Idealmente si procede in modo da mettere a con fronto l ’antica alleanza con la verità neotestamentaria (v. anche 12 ,18 ss.). Dal punto di vista tematico, la riflessione si inserisce nelPalveo
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comune soprattutto perché vengono ancora menzionati gli angeli. Inoltre, l’impiego del «noi» comunicativo mette l'accento su un m odo di procedere che deve essere necessariamente comune. L ’oratore, per pura sensibilità pastorale, si associa alla comunità perché evidente mente nella situazione contingente di prova gli preme non tanto im porsi con determinatezza, quanto dichiararsi solidale con la chiesa a lui legata. È probabile che abbia in mente una comunità liturgica piut tosto grande, e a favore di tale ipotesi c’è l’ esortazione ad applicarsi con più impegno alle «cose udite». Se abbiamo visto giusto, allora l’ af fermazione non si riferisce a una conoscenza catechetica precedente, ma alla sezione omiletica della lettera appena esposta, collegata alla re lativa lettura della Scrittura. 1. Se D ìo invia addirittura le potenze celesti per aiutare gli uom ini a conseguire la salvezza eterna, questi, dal canto loro, non devono certo persistere in un atteggiamento passivo. Se si è mosso il cielo, allora devono esserne afferrati e determinati coloro che sono a conoscenza della maestà di D io grazie alla grandezza della sua azione salvifica. È accaduto qualcosa di unico e irripetibile, fuori dell’ordinario, e quindi i cristiani sono vivamente esortati ad applicarsi con maggior impegno alla verità loro affidata. Si può «mancare» lo scopo passando oltre senza accorgersene, come una nave che per sbadataggine dell’equipaggio o l trepassa il porto sicuro e riparato. Probabilmente, con il tipico concet to del «passar oltre» è rievocata un’immagine spesso impiegata nella riflessione filosofica di un certo livello (cf. Filone a 6, 19), anche suc cessivamente nella predicazione della chiesa, immagine che paragona l ’esistenza dell’uomo alla vita su un mare in tempesta, e la meta a un porto di riparo, mentre più volte si parla del «porto di quiete» (ad es. Clem., Iac. 13 ss.; Const. Ap. 2,57,2 ss.; Giuseppe, 4 Macc. 7; 4 Esd. 12, 42). Anche Filone (Sacr. 89) può esprimersi in modo simile, pur para gonando il «porto di quiete» che deve essere raggiunto nell’infuriare della tempesta alla «salda posizione» della conoscenza religiosa e della virtù morale. 2. In Ebr. la meta si identifica con la salvezza eterna, vista come un qualcosa del prossim o futuro. C hi la perde si espone a un giudizio la cui inesorabilità è sottolineata con una conclusione a minori ad maius (dal minore al maggiore). La rivelazione della «parola» annunciata sul Sinai non è attribuita direttamente a Dio, bensì agli angeli (cf. già Deut. 33,2; Targ. Onq. Deut. 33,2; Giuseppe, Ant. 15,5,3; Atti 7,38.53; Gal.
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Ebr. 2,1-4. Conseguenze pratiche
3,19 ). Anche il pensiero rabbinico si è ampiamente occupato delle cir costanze della rivelazione sul Sinai (Es. 19,90 ss.; 20,18; cf. al riguardo Filone, Dee. 32 ss.). A differenza di Paolo, Ebr. si esprime in termini neutrali riguardo al valore della parola di rivelazione prom ulgata in tale occasione, allo scopo di evidenziarne la validità assoluta. L ’immagine della «solidità» della parola di D io emergerà poi più volte nel corso della lettera (cf. 3,6.14; 6,19; 9 ,17 ; 13,9), essendo un tema ricorrente del la tradizione biblicamente orientata (Rom. 4,16; 2 Pt. 1,19 ; Filone, Mos. 2,14). L a solidità della parola di D io e la santità assoluta della volontà che in essa si esprime si condizionano fortemente a vicenda. Perciò in seguito verrà sottolineato l’ assoluto carattere punitivo della conclusio ne dell’alleanza: infatti ogni «trasgressione» e «disobbedienza» - com messe dal popolo dell’esodo - ha ricevuto la giusta punizione (cf. Es. 17,7; Num. 20,2-5; inoltre Ebr. 3,7 ss.; 4 ,1 1 ; 12,25). «Trasgressione» e «disobbedienza» contraddistinguono il comportamento dell’ebreo che disprezza la legge. 3. Ma finirà molto peggio per coloro che per indifferenza o sbada taggine trascurano l’ offerta della salvezza eterna. C on la massima in sistenza qui, come in 1 Cor. 10,6 ss., si ricorda che la vicenda dell’ eso do costituisce per «noi» cristiani un esempio ammonitore. L ’autore di Ebr ., insieme alla sua comunità, è cosciente di essere alla fine di un’e poca cruciale, nella quale l’ alternativa tra giudizio o salvezza si pone in m odo inesorabile e definitivo. È inconcepibile che davanti a tale real tà gli uomini possano cadere nella noncuranza e indifferenza per l’ an nuncio. L a proclam azione della salvezza, in fondo, è partita non dagli angeli ma dal Signore stesso, dunque dal Cristo terreno che ora è il Figlio innalzato. Va aggiunto che la comunità interpellata può richia marsi direttamente a individui che hanno ascoltato di persona il Si gnore terreno. L ’autore stesso deve a questi discepoli e testimoni la prom essa della propria «salvezza». Insieme alla comunità ripensa alla credibilità assoluta di quanto è stato detto. Personalmente egli non parrebbe essere stato discepolo del G esù terreno. N on può richiam ar si a u n ’esperienza diretta del C risto come Paolo, benché si possa sup porre che sia stato molto vicino ai portatori apostolici dell’annuncio, a coloro che avevano potuto ascoltare il Gesù terreno. 4. O ltre all’affidabilità degli apostoli vi è stato qualcos’altro che infine gli ha dato la certezza decisiva, come dimostra nella frase con clusiva, in form a di confessione, l ’accento posto sull’esperienza che
Ebr. 2,y-i 8. La signoria universale di Gesù
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D io inoltre «testimoniava» agendo in molti modi. L a ricchezza di quan to ha sperimentato, nonché l'impressione che ne ha tratto, trovano espressione in un elenco di fatti via via più meravigliosi, tanto che è opportuno considerare anche la ripetizione della congiunzione «e». A l di là di quanto espresso a parole, la dimostrazione si rifà alla parola «attiva» in vari modi, che non solo si lascia dietro una grande im pres sione m a-essen d o coinvolto D io -p ro v o c a sempre anche «effetti» sor prendenti. N el caso presente colpisce che oltre a «segni», «prodigi» e «miracoli» vengano menzionate soprattutto anche esperienze carisma tiche e doni che indubbiamente rimandano all'epoca del prim o cri stianesimo. G li ascoltatori sono a conoscenza di questo fatto notevo le, che a buon diritto corona Pargomentazione fornita. Q uando si sot tolinea con energia che D io distribuisce i doni dello Spirito secondo «la sua volontà», vien da pensare a frasi paoline analoghe (cf. 1 Cor. 1 2 ,1 1 ; 2 Cor. 10 ,13). L o Spirito santo non si presenta dunque come un privilegio cui hanno accesso pochi eletti, ma è dato da D io alla com u nità a sua libera discrezione (cf. anche 1 Cor. 12). L'evidente varietà di segni e manifestazioni pneumatiche avvalora un operato credibile. D i versamente dal primo secolo ormai sul finire, la ricchezza di tali mani festazioni straordinarie non solleva ancora dubbi. A nzi, è proprio l'a b bondanza di ciò che si è sperimentato che viene considerata una prova di verità del fatto stesso (cf. Rom. 1,19 ; 2 Cor. 6,7; 12 ,12 ; G a l 3,2 ecc.). D a qui nasce l'energica esortazione a volgere ogni attenzione alla sal vezza resa possibile da Cristo. L a signoria universale dì G esù e il suo m inistero sacerdotale poggiano sulla sua um iliazione assoluta (2,5-18) 2,5 segna una netta cesura. A l breve discorso esortativo fa seguito una nuova spiegazione essenziale delia posizione di signoria universa le di Gesù. Ovviamente la comprensione del contesto non è affatto fa cilitata se - come proposto di quando in quando - si collegano i vv. 58b all'avvertimento dei vv. 1-4. In tal caso Pargomentazione sostiene che nel v. 3 l'autore parla ancora della «salvezza» e che per questo ora, in modo manifestamente analogo, tratta del «mondo futuro». C hi vi aspira non può ispirarsi agli angeli, i quali (secondo la generale con vinzione del primo giudaismo) dominano sì la terra con i suoi popoli e nazioni, ma non il mondo futuro. Di fatto però, diversamente da
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Ebr. 2,5-18. La signoria universale di Gesù
quanto presuppone tale comprensione, nella sua struttura logica il te sto analizzato guarda in avanti, ed è palese che con esso viene ripreso nuovamente il tema principale, ossia la testimonianza della signoria universale del C risto innalzato. In questo senso anche la seconda par te della frase («del quale stiamo parlando») dovrebbe essere abbastan za convincente. Si aggiunga l’afferm azione del v. 8b, che prosegue nel ragionamento vero e proprio e che per giunta alla fine riprende il testo della citazione in m odo tale da tralasciare significativamente Sai 8,7a. Solo nel seguito si affronta il problema, introdotto dalla citazione, della temporanea umiliazione di C risto (vv. 10 ss.). Esso è dapprima anticipato nel v. 8b, ove si dà spazio all’ obiezione critica per cui noi «ancora non» gli vediamo sottomessa ogni cosa. Questa circostanza inquietante viene chiarita nel senso che C risto dovette essere portato all’um iliazione estrema per essere interamente legato agli uomini nella morte e diventare così autore della loro salvezza (v. 10). Infine, noi siamo chiamati «figli» da D io, come anche Gesù è il «Figlio». N ella condotta di quest’ultimo dunque è documentata la realizzazione di un servizio «fraterno» (w . 1 1 ss.). In ultimo, si trattava di ridurre all’ im potenza la morte per conseguire la liberazione degli uomini, resi schiavi dal nemico (vv. 14 ss.). N ella stessa linea di 2,5 il v. 16 ripren de ancora una volta di sfuggita quella che è stata fino ad ora l ’im m agi ne guida: C risto dovette prendersi cura non di loro, degli angeli, bensì della «stirpe di Abram o», cioè degli uomini, e questo «rendendosi si mile» a loro e mediante la sofferenza. Il pensiero dell’ autore si è ora definitivamente spostato su un tema diverso. Il concetto principale di venta allora quello del «sacerdozio di Gesù» (secondo Sai 110 ,3 ). L ’argomentazione della pericope, svolta in m odo estremamente coe rente, a nostro parere non tralascia alcuna questione. Relativamente alla costruzione del testo omiletico si potrebbe osservare che a quanto pare il Sai 1 1 0 è spiegato per ordine e alquanto sistematicamente. F u o r viarne si dimostra la spiegazione secondo la quale certe false conce zioni dei lettori sugli angeli vanno tolte di mezzo. È vero invece che è il testo biblico di base a determinare il corso del ragionamento. Per approfondire ulteriormente il tema dell’ «esaltazione di Cristo» ci si rifà a Sai 8,6-7, la cui citazione si è offerta in particolare per associa zione - secondo le regole della riflessione rabbinica - sia materialmen te (incoronazione del Figlio dell’uomo) sia per via del testo (cf. «sotto i suoi piedi» con 1,13 ). O ltre a ciò, la nuova catena di citazioni dei vv.
Ebr. 2,5-13. Rappresentante del genere umano
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12 ss. è altrettanto notevole per la tecnica di procedim ento quanto lo è nel v. 8 la conclusione al contrario («non... nulla») e il conciso riassun to della pericope. Per breve tempo Gesù è stato umiliato per amore dei fratelli
(2,5-n) 5 Infatti non sottomise ad angeli il mondo futuro del quale stiamo parlan do (1,6). 6 Anzi qualcuno da qualche parte ha testimoniato e detto: «Che cosa è Fuomo perché ti ricordi di lui? O il Figlio delPuomo perché tu te ne curi? 7 Tu lo umiliasti per un breve tempo di fronte agli angeli; di gloria e di onore lo hai coronato, 8 tutto hai posto sotto i suoi piedi». «Sottopo nendogli tutto» infatti, non gli lasciò nulla di non sottomesso. Ora però noi ancora non vediamo che tutto gli «è sottomesso». 9 Vediamo anzi colui «che per breve tempo è stato umiliato di fronte agli angeli», cioè Gesù, «incoro nato di gloria e di onore» a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio provasse la morte a favore di ciascuno. 10 Infatti ben si addi ceva a colui per il quale e dal quale sono tutte le cose che rendesse perfetto mediante la sofferenza colui che ha condotto alla gloria molti figli ed è au tore della loro salvezza, n Infatti colui che santifica e coloro che sono san tificati provengono tutti da una stessa origine, per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, 12 quando dice: «Annunzierò il tuo nome ai miei fra telli; in mezzo alPassemblea canterò le tue lodi». 13 E ancora: «Porrò in lui la mia fiducia». E inoltre: «Eccomi, io e i figli che Dio mi ha dato». 6-8 Sai. 8,5-7 (eccetto 8,7a). 8 $. Sai. 8,6 s. 12 s. Sai. 22,23. * 3a ^s- 8,17 e 2 Sam. 22,3. 8,18.
i^b Is.
5. A quale scopo il tono così grave ed energico delPesortazione? G li ascoltatori sono invitati a riflettere sull’unicità delPevento. In qualun que momento la loro fede sia in crisi per una qualsiasi circostanza, ogni volta essa deve rafforzarsi nel convincimento che D io ha sotto messo il mondo futuro non ad angeli, ma al Figlio. N o n bisogna sof fermarsi a riflettere su questioni riguardanti il futuro o l ’aldilà, sulle quali si potrebbe speculare. Si tratta piuttosto di un fatto che coinvol ge l’uomo. Com e lascia intuire l’uso senza articolo di «angeli», un pun to di vista si contrappone all’altro. L ’autorità massima è conferita al Figlio in quanto rappresentante del genere umano. O gni cosa giunge al suo compimento non in un numero infinito di potenze angeliche, ma in quell’unico essere che si è già assiso accanto a D io, per cui an che ciò che rientra nel futuro è già adesso oggetto di decisione e per
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severanza. Invece di nominare subito Cristo, in un prim o tempo Ebr. si accontenta di una constatazione negativa secondo la quale il mondo futuro non è sottomesso a degli angeli. Con ciò la questione Cristo resta volutamente ancora aperta. G li ascoltatori debbono aprirsi ad altri importanti pensieri. C iò a cui mira l’autore non è un discorso de clam atorio, ma un’omelia ricca di argomentazioni che sappia attirare gli interpellati fuori dal loro distacco speculativo. In un certo senso vi è la consapevolezza di aver instaurato un dialogo, per cui si afferma: «di cui stavamo parlando». Per il predicatore e la comunità la questio ne cruciale riguarda la redenzione escatologica, di cui esiste una testi monianza superiore. L ’ aspettativa delPautore sembra rifarsi al pensie ro giudaico per quanto riguarda la speranza in un mondo rinnovato, trattando però tale attesa in termini ellenistici. Letteralmente il testo parla della «ecumene futura», e lo sguardo chiaramente si volge a un m ondo trasfigurato, liberato dai nemici di Cristo (cf. Sai 110 ,1) , che ha il suo centro a Sion (cf. Sai 110 ,2 ; cf. 12 ,18 ss.). Il linguaggio evi denzia un contesto m essianologico protogiudaico, significativo per il pensiero delPautore. 6. L a signoria di C risto viene illustrata nel seguito da una seconda citazione tratta dal Sai 8. Anche qui si afferma che «ogni cosa è sot tomessa ai suoi piedi» (cf. 1,13 ) . Q uesto passo viene presentato solen nemente come «testimonianza». Q uindi non si tratta di un comune discorso in cui «qualcuno» parla di una cosa qualsiasi, ma piuttosto di una manifestazione diretta dello Spirito di D io. Ed è del tutto secon dario sapere a chi D io ne ha fatto dono. L ’introduzione della citazio ne, che a prim a vista può sembrare strana, si ritrova spesso anche in Filone come form ula fissa (Ebr. 61; Agric. 51; Plani. 138; Conf 39; Somn. 1,15 0 e molti altri). L ’evidente indeterminatezza dell’ espressio ne si spiega col fatto che pensando a un concetto superiore d ’ispira zione («testimoniare»), ogni particolare secondario è stato intenzio nalmente messo da parte. Anche il luogo in cui si trova il passo biblico può essere omesso, in quanto le circostanze che lo accompagnano passano in secondo piano rispetto al discorso stesso. Q uesto infatti è insolitamente sufficiente. Essendo attestazione dell’«uomo», anzi del «figlio dell’uom o», per l’istruito autore della lettera, e forse anche per la chiesa prim itiva, esso non parla di un qualsiasi rappresentante del genere umano, ma del concetto stesso di umanità: ecce homo! V i è fo r se un uom o tanto misero e disprezzato da essere dimenticato da D io?
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Esiste il «figlio dell'uom o» da cui D io distoglie lo sguardo? A ssolu tamente no. Egli dovette soffrire più profondamente di qualsiasi altro la solitudine e lo smarrimento delFuomo. 7. Perciò D io ha pensato a lui in modo unico. Benché per breve tem po reso inferiore agli angeli, lo ha poi coronato di splendore e dignità celesti, e ora il suo potere è superiore a quello di qualsiasi altro (1,3). C iò che ai nostri occhi appare come umiliazione estrema, in realtà si gnifica dominio unico nel suo genere alla fine del vecchio tempo e al l'inizio del mondo rinnovato. Chi è in grado di comprendere la logica dell’agire divino? 8. N on vi è assolutamente nulla che non sia sottomesso a questo Figlio delFuomo, perché l’Altissim o stesso garantisce la verità. Secon do la convinzione dell’autore, Sai 8,5-7 non parla in modo più o me no atemporale della posizione delFuomo, alFinterno della creazione e di fronte a D io, con lo scetticismo e il dispregio proprio della sinago ga o l ’ottimismo eccessivamente entusiasta dei L X X ; a suo parere in vece esso presenta una testimonianza sull’agire storico di D io in C ri sto, essenza stessa della vera umanità, ed è per questo che in lui pos siamo trovare sia gli abissi spaventosi sia gli obiettivi eterni dell’uma nità. Diversamente da come intendeva soprattutto l’interpretazione più antica, la citazione biblica - come prova la constatazione del v. 8b - p o trebbe essere intesa in senso generalmente cristologico, e a questo ha dato verosimilmente adito in primo luogo il significativo titolo mes sianico di «Figlio delFuomo». C on questo titolo, conformemente alla più antica forma della tradizione del Figlio delFuomo (cf. Dan. 7 ,13 ss.), si mette in risalto l’ esaltazione di colui che prima è stato umiliato. U na volta costituito al di sopra di «tutte le cose», nessuno più può sottrarsi alla sua autorità di sovrano, che è innanzitutto servizio; in fatti colui che è stato innalzato esercita già la sua signoria, anche se noi ancora attendiamo l ’ultimo atto visibile. A tale grave problema, che poteva mettere alla prova la fede, si riferiscono le successive con siderazioni che introducono con un «ora però» la scottante questione temporale per cui la verità di Cristo, così come emerge dal Sai, 8, è «non ancora» manifesta. Se Cristo è la «fine» di questo mondo, essen done meta e conclusione, come può il mondo perdurare? La cosiddet ta questione escatologica evidentemente non è roba da ultime pagine di dogmatica, ma abbraccia la cristologia in m odo sostanziale e irri nunciabile. Per quanto attiene alla comprensione messianica del Sai 8,
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di prove non ve n ’è alcuna per il giudaismo rabbinico, e solo poche ed oscure per Fapocalittica del giudaismo tardo. N el frattempo ha ac quisito un'im portanza maggiore il fatto che nella letteratura cristiana prim itiva vi sia una coscienza simile in / Cor. 15,25 ss., ove troviamo ancora collegati insieme Sai 1 1 0 ,1 e Sai 8,7. L'originalità di questa controversia riguardante una fondamentale frase cristologica sulla ba se di testi biblici ricchi di significato è dunque indubbia. 9. L o si coglie anche e soprattutto constatando che l'espressione di Sai 8,6 («un poco al di sotto degli angeli» L X X ) - la quale nella ver sione ebraica originaria indicava che l’uomo è stato fatto di poco infe riore a D io - viene messa in relazione esclusivamente al messia - F i glio dell'uom o, per essere inoltre interpretata con riguardo al proble ma cruciale del «non ancora» riferito all'evento sperato, il problem a cioè del ritardo della parusia. Quanti interrogativi vi fossero a questo proposito è provato anche dalle dichiarazioni di 10,35 ss- Riteniamo di estrema importanza dal punto di vista teologico che il significato teologico comunemente attribuito alla passione e morte di Gesù serva, a quanto pare, a riempire il vuoto lasciato dal dominio di Cristo non ancora definitivamente visibile. Se anche non vediamo Cristo regnare nell'onnipotenza di D io, tut tavia i nostri occhi scorgono chiaramente l'uom o Gesù che è stato um i liato «per breve tempo» e che ha dovuto patire anche la morte. È si gnificativo che in questo contesto l'autore parli di «Gesù», utilizzan do dunque il nome del Cristo terreno con il quale ha messo in rela zione Sai 8,5 ss. Se ne deduce che anche il discorso sul «Figlio del l'uom o» mira più alla funzione che al titolo. Di conseguenza a Gesù venne dato di essere uomo. L'aiu to non poteva venire semplicemente dall'esterno: la situazione disperata dell’uomo doveva essere cambiata radicalmente e dall'interno. Per far ciò D io ha operato paradossalm en te con l'uom o Gesù, umiliato all’estremo. A causa della «morte che ha sofferto» egli è stato incoronato di gloria e di onore, per cui nella m or te l ’autore individua il fondamento dell'esaltazione: ma questo fonda mento, nel quale il Figlio dell’uom o sperimenta tutta la concretezza dell'evento, non è uno sfondamento abissale? Egli deve averlo per cepito, come pure l’ha sentito il noto inno della lettera ai Filippesi (2,5 ss.). L ’autore giudeocristiano si trova ancora impreparato davanti al fatto assurdo della morte del messia. In Ebr. la motivazione parados sale della gloria di Cristo è immediatamente affiancata da una spiega
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zione supplementare: «perché per la grazia di D io provasse la morte a favore di ciascuno». Questa proposizione finale sembra logicamente fuori posto, mentre l'espressione «per la grazia di D io» disturba al quanto il filo del discorso. Bisogna forse pensare a una glossa succes siva? Oppure, come in antiche varianti, la locuzione «per la grazia di Dio» va trasformata in «a parte Dio», perché i correttori la trovavano illogica? Che l'espressione «incoronato di gloria e di onore» vada ri ferita non tanto al Cristo innalzato, ma a quello umiliato, la cui digni tà sacerdotale sarebbe qui in oggetto (secondo Es. 28,2, M osè deve preparare al fratello Aronne una veste sacra «a onore e gloria») (cf. sotto, 5,4 ss.)? L a decisione è tutt'altro che semplice. Se abbiamo ra gione, allora il contesto della citazione che appare in 2,7 stabilisce che nel discorso dell'incoronazione si pensa anche all'esaltazione. Ebr. p o teva già pensare al ministero sacerdotale di Gesù, ma sicuramente guardava anche alla gloria e all'onore del C risto glorificato. L a con clusione illogica della frase va ricondotta all’ audacia dell’afferm azione, percepita dall'autore stesso. Egli, vedendosi costretto a comm enta re il poco comprensibile riferimento alla necessaria umiliazione di G e sù, per prima cosa l'ha reso meno oscuro richiamandosi alla grazia di D io che gli sta dietro, e inoltre apprezzando la morte di Gesù nel suo significato generale e particolare. Gesù dovette provare la morte a van taggio di tutti. Egli, il potente che domina su tutti, è dunque colui che sperimentò l'im potenza a vantaggio di tutti. G li ascoltatori della let tera vengono interpellati indirettamente in maniera m olto personale. L'aspetto esistentivo e quello esistenziale sono presentati allo stesso modo. C iò che è avvenuto con Cristo riguarda chiunque, qualunque sia la sua posizione al riguardo. L'espressione biblica «provare la m or te» sfiora inoltre una categoria essenziale dell'esperienza umana lad dove si rammenta che morire è amaro, anche solo come processo na turale inevitabile. L'autore, che parla della «sofferenza della morte», ne conosce il molteplice carattere doloroso. È ripresa in m odo palese la problematica esistenziale più profonda per la quale anche, e soprat tutto, il mondo antico aveva una spiccata sensibilità. Q uando C risto sperimentò la morte «a favore di ciascuno», senza limitazioni, d ev'es sere stata un’esperienza indubbiamente tremenda per lui. Ma non è di questo che si tratta, bensì del significato della sua morte che - come in Paolo - è compresa come passione e morte vicaria universale. D ietro a ciò vi è, come si sottolinea espressamente per l’ ascoltatore, la «grazia
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di Dio» - un punto di vista egualmente paolino. La frase «mediante la grazia di Dio» è formulata proprio in considerazione dell'uomo, che altrimenti dovrebbe sprofondare nel nichilismo. 10. U n'altra frase fornisce un'ulteriore argomentazione per rendere comprensibile la morte di Gesù, illustrando meglio lo sfondo dell’ agi re di D io in lui. Anche dal punto di vista di D io la sofferenza era l ’uni ca strada praticabile. L ’espressione «ben si addiceva a colui per il qua le e dal quale sono tutte le cose» ha per soggetto Dio. A lle spalle vi è una riflessione teologica, anche se il linguaggio può suonare filosofico (cf. Filone, Leg. a ll 1,48; Aet. 41). M a considerando la morte di Gesù, il Figlio, si può affermare che sia «adeguata» a Dio? Il lettore può per cepire lo sconvolgim ento dell'autore nell’arrischiare tale riflessione, se pensa al tono estremamente audace della frase, evidentemente scelto apposta. Stando a quanto si afferma qui, D io, presentato esplicitamen te come perfezionatore e fondamento primordiale della creazione, per agire conformemente alla propria divinità, dovette perfezionare, me diante la passione, l'autore della nostra salvezza. In questo m odo è avviata una riflessione che porta a un limite logico, per cui non può essere liquidata come speculazione. Ogni considerazione infatti sfocia nella conclusione che D io può essere il «Rivelato» solo in quanto è «il N ascosto», altrimenti non sarebbe più Dio. Anche il compimento, dunque, non può avvenire semplicemente «nella potenza» o «nella glo ria», ma solo «nell'impotenza» o «nella sofferenza». Il concetto di «perfezionamento», usato più volte, è di contenuto com plesso e rappresenta anche una specie di motivo tematico (cf. 5,5»; 7,28; 9,9; 10 ,14 ; IX>40)- Letteralmente ha il significato di «portare al compimento», e comprende una componente cultuale-soteriologica oltre a quella storico-apocalittica (v. soprattutto 7,28). L'aspetto etico è rilevante solo nella misura in cui il compimento comprende anche la santificazione. L'u om o e il mondo, come si fa capire, vengono portati alla meta solo mediante il sacrificio. Il compimento si ha unicamente per mezzo di D io e di fronte a D io, ma al tempo stesso deve essere anche adeguato alla sua santità, la quale non ammette nulla che non sia santo. N el concetto di «perfezionamento» rientrano dunque anche gli aspetti parziali della donazione totale e della santificazione radicale. C o n ciò viene sollevato un problema particolare: la frase «il quale ha condotto molti figli alla gloria» si riferisce a D io o a Cristo? Per m o tivi di ordine linguistico noi preferiam o la seconda eventualità. C he il
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discorso non si riferisca a D io è dimostrato dal proseguim ento del pensiero, in cui si fa osservare con insistenza che tutti, ossia colui che santifica e coloro che vengono santificati, hanno origine dall’unico D io in quanto tutti suoi «figli». Avendo dato ottima prova di sé nel servi zio agli uomini che devono essere condotti alla gloria, G esù è stato re so perfetto (innalzato) come loro «capofila» e «autore della salvezza». D io dunque non ha scelto tale strada per capriccio, ma perché essa era congeniale alla sua divinità rispetto agli uomini. L'au tore di Ebr. sa che D io «rende perfetto» qualcuno solo per l'obbedienza e il servizio, perché la sua parola si presenta come un'esigenza etica che coinvolge tutta la vita e come chiamata morale rivolta alla persona. In base a tale riflessione appare dubbioso l'intento di vedere nel v. 1 1 un teologumeno gnostico (la cosiddetta dottrina della syngeneia). 1 1 . 1 cristiani fanno risalire a D io la loro origine non per via della na tura celeste (cf. Atti 17,28), ma perché con lui sono in un rapporto di dipendenza di fede e di sottomissione creaturale. Essi possono essere chiamati «santi» perché la loro appartenenza è provata. In quanto u o mini ebbero bisogno di essere santificati dal «santo», al quale egual mente non furono risparmiate le miserie della vita umana. Ebr. va ol tre la concezione ellenistica filantropica dell’unica umanità fraterna, co sa che del resto è dimostrata anche dalle successive testimonianze scrit turali. Cristo, che ha reso possibile la santificazione, non si vergogna di chiamare «fratelli» gli uomini. Indirettamente l'idea guida rimane comunque quella della figliolanza di tutti, per cui C risto e gli uomini sono in rapporto fraterno gli uni con l'altro. «N on si vergogna di lo ro» (al presente): è disposto in qualsiasi momento a intercedere in lo ro favore. A causa di questa responsabilità fraterna ha anzi percorso consapevolmente il cammino dell’abisso, fino a rinnegare se stesso. 12 . C iò che la sua vita da sola potrebbe facilmente illustrare viene spiegato - per fissarne il significato attuale - mediante citazioni dalla Scrittura che chiariscono la volontà assolutamente personale di C ri sto. Poiché Gesù comprese se stesso a partire da D io, si mise al servi zio degli uomini nel modo profano che è loro proprio. L a prim a cita zione, tratta dal Sai 22, noto per l'inserimento nella vicenda della passione (cf. Me. 15,34), per Ebr. chiarisce che Gesù ha dato a D io l'assicurazione che ne avrebbe annunziato il nome (e quindi anche la volontà) ai «fratelli». C iò accadrà nell'esaltazione della nuova assem blea di D io, che renderà grazie per la propria santificazione e salvezza.
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Sotto l’aspetto tematico si riscontrano certi contatti con quelle tradi zioni pasquali nelle quali il R isorto impartisce esplicitamente istru zioni ai suoi «fratelli» (Mt. 28,10; Gv. 20,17), *1 c^e potrebbe rim anda re a un'analoga considerazione della Scrittura. In ogni caso la testi m onianza rafforza l ’idea che di fronte a D io la responsabilità recipro ca com porta necessariamente la donazione di sé. Il servizio di Gesù alla fratellanza rende perciò evidente fin dove arriva la responsabilità per la vita e la salvezza tra noi uomini. La condivisione dell’esperienza umana doveva necessariamente accogliere come metro di misura il suo sacrificio. 13 . L e due citazioni successive - che in Is. 8,17 ss. stanno una di se guito all’altra, mentre qui vengono citate separatamente, certo perché la prima parte appare anche in 2 Sam. 22,3 - parlano espressamente di D io come fonte della fiducia di Gesù. L a seconda citazione dichiara a pertamente che egli si sentiva responsabile nei confronti dei «figli» affi datigli. L a controprova offerta dalla Scrittura contraddice l’ipotesi che si tratti dell’elaborazione di una concezione gnostica. Evidentemente l’idea della parentela tra redentore e santificati non è lanciata solam en te ai sensi di una divinità fisica, ma solo col significato di un rapporto fraterno etico. Is. 8,18 delinea la convinzione del profeta riguardo a sé e ai propri «figli» o «discepoli»: «N oi siamo segno e presagio in Israe le da parte del Signore». Il contesto di Is. 8,16 è relativo alla rivelazio ne che verrà custodita e sigillata fino al momento in cui D io disperde rà l’ oscurità su Giacobbe. Partendo dalla convinzione della profezia adempiuta in Cristo, Ebr. mette in relazione il discorso con i «figli di D io» di cui D io ha reso responsabile Cristo. Stando al testo, quest’ul timo si addossò pienamente e senza obiezioni tale responsabilità. Il destino mortale deH’uomo è superato con la morte di Cristo (2 ,14 -18 ) 14 Poiché dunque i figli partecipano del sangue e della carne, anch'egli vi partecipò allo stesso modo per annientare con la morte colui che ha potere sulla morte, cioè il diavolo, 15 e per liberare così tutti quelli che per paura della morte passavano tutta la vita in condizione di schiavitù. 16 Infatti non è degli angeli che si prende cura, ma «della stirpe di Abramo si pren de cura». 17 Perciò doveva rendersi in tutto simile «ai fratelli», per dimo strarsi misericordioso ed essere un sommo sacerdote fedele per le cose che riguardano il rapporto con Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo.
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18 Infatti (solo) per essere stato lui stesso tentato di persona e avere preso su di sé la sofferenza potè venire in aiuto a quelli che sono ancora nella prova. 14 Is. 8,18. 16 Is. 41,8 s. 17 Sai 22,23.
14 -18 . L'argom entazione dei w . 14 -18 spiega come vada compresa la morte di Gesù avvenuta, in tutto e per tutto, nell'orrore e nella de bolezza del trapassare umano. Si ha così una spiegazione più precisa della riflessione del v. 9 («a causa della morte che ha sofferto»). Se prima al centro della riflessione vi era temporaneamente il rapporto umano di fratellanza tra Gesù e gli uomini, ora vi è il loro destino co mune, l ’«essere per la morte», nel quale la responsabilità fraterna di Gesù è stata messa veramente alla prova. 14. C on l'aiuto di un semplice processo deduttivo si constata che Gesù deve aver condiviso «il sangue e la carne» «come i figli», e que sto «allo stesso modo», dal punto di vista sia qualitativo che quantita tivo. L ’osservazione è estremamente significativa. N o n si afferma che abbia abbandonato una condizione celeste. Indubbiamente Ebr. vede le cose in modo molto meno mitico, quantunque naturalmente fosse possibile azzardare un’asserzione così ambiziosa. C iò che si sottolinea è che Gesù non ha temuto il destino mortale dell'esistenza umana; non è rimasto estraneo a quanto paralizza, umilia e assurdamente an nienta. Se ovunque, nel pensiero del tempo, si parla di «carne e san gue», qui - non senza motivo - l’ordine è invertito, «sangue e carne». C on ciò si fa presente che in questo mondo esistono non solo il venir meno e la morte, ma anche lo spargimento di sangue e la guerra. È un mondo di fratelli ostili, in cui vi è bisogno di salvezza e pace. C risto le ha portate. Egli non rifuggì dal divenire fratello dei discendenti di Caino, i quali lo misero a morte macchiandosi di fratricidio (cf. 11,4 ). Che nel v. 14 sia nuovamente inserito Is. 8,18 («i figli») rimanda egualmente a categorie di pensiero bibliche, non gnostiche. Q uindi il portatore della salvezza non poteva vivere in alcuna esistenza diver sa da quella degli altri uomini. Era unito ad essi nella medesima creaturalità. N on condusse l’esistenza apparente di un essere celeste che, secondo la concezione dell'antichità, non avrebbe mai potuto morire, perché per il pensiero greco ellenistico (e anche gnostico) esistenza divina e natura terrena non avrebbero mai potuto unirsi totalmente. Ben diverso invece il modo di pensare biblico di Ebr., che sostiene l'unione fraterna di Gesù sino alla caducità corporale per vedere spez
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zato, in questa identità paradossale, il potere della morte. I vincoli m or tiferi che dominano e tengono soggetta l'esistenza umana non vengo no mutati da un miracolo celeste, ma «mediante la morte», con la qua le» è stato annientato «colui che della morte ha il potere». Evidente mente non è una battaglia simulata quella a cui si pensa né un'esisten za terreno-corporea apparente. Il linguaggio suggerisce piuttosto che l'autore intendesse proprio formulare in modo paradossale il nucleo del messaggio su cui poggia la fede cristiana. N on ci dice come imma gina la vittoria sul nemico. Considera il «diavolo» come colui che ha «il potere della morte». D ietro tale affermazione potrebbero esservi concezioni tardogiudaiche nelle quali satana è visto come autore del male e signore (o angelo) della morte. In modo analogo anche Paolo parla del peccato come del pungiglione della morte (1 Cor. 15,56; Rom. 7 ,13 ss.); ma per non esonerare gli uomini dalla responsabilità etica, l’ apostolo non tiene conto di satana come autore del potere del pecca to e della morte. Ben diversamente la lettera agli Ebrei, ove l'o p p o si tore satanico, personificazione metafìsica di ogni male e di ogni ini micizia, viene intenzionalmente contrapposto alla persona del salvato re (cf. Sap. 2,24). Il sì al D io personale della vita e della salvezza com porta ovviamente anche il no a colui che è il non-dio, il corruttore e nemico della vita. 15 . Fatalmente il m ondo è minacciato dall'esterno e dall'interno, co me dimostra la continuazione del ragionamento per cui Cristo, p ro prio grazie alla sua morte, ha portato la liberazione a coloro che per tutta la vita sono condannati alla schiavitù per il timore della morte. D ifficilm ente l'analisi della vita umana e della realtà terrena avrebbe potuto essere presentata in m odo più crudo, ma anche corrisponden te a verità, perché ciò che viene chiamato vita qui è realisticamente e spietatamente descritto come schiavitù di esseri destinati alla morte. C o n l’immagine della schiavitù s'intende sia la precarietà dell’esisten za umana sia la sua condizione di colpa. N on si può dire che in simile dichiarazione si colga un animo scettico; dietro le parole vi è incon fondibile la protesta di fondo di uno spirito acutissimo che però, per la fede che ha in Cristo, va avanti per la sua strada, nella certezza pie na di una possibile libertà. Evidentemente non ha la sensibilità dello gnostico, altrettanto consapevole della prigionia dell’anima, ma che nel proprio anelito alla redenzione non riconosce il disperato sm arri mento. L ’eventualità di una qualche redenzione di sé a basso prezzo
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non è neanche accennata. L'unica possibilità di salvezza è data dall'at to liberatorio di Cristo, che ha agito confidando in D io (2,13). Dal momento che Cristo ha portato la liberazione «mediante la (propria) morte», ecco emergere la profonda intuizione che D io ottiene le sue vittorie attraverso l'impotenza, e che quindi la nostra impotenza ef fettivamente spiana la strada all’agire di Dio. Vi sono stati, nella chiesa primitiva, interpreti dell'opera salvifica che hanno sviluppato l'idea ausiliaria di un inganno del diavolo, o hanno insegnato che G esù ha dato la propria anima in riscatto a satana, il quale però non è stato in grado di trattenerla. Questi non sono altro che tentativi inadeguati di spiegare l'illogicità dell'agire divino. La paradossalità, qui soprattutto ontica, oggi va dunque trasferita a tutela del carattere decisionale della nostra esistenza sulla prassi - insensata dal punto di vista logico - di un comportamento di amore e sacrificio, per cui a C risto spetta il ruolo d'iniziatore e perfezionatore della fede. Questo è l'intento che anima la testimonianza cristiana di Ebr., che non mira affatto a illu strare parzialmente fatti relativi all'aldilà, ma vede l'uom o nel suo ab bandono. Perciò si afferma, coerentemente, che C risto non si prende cura degli «angeli» bensì della «stirpe di Abram o». 16. Si rigetta l'assurda eventualità che egli possa essersi facilitato il compito, o che possa essersi dedicato a qualcosa di estraneo e lontano come la salvezza degli angeli. Per obbedienza nei confronti di D io, egli portò aiuto laddove ve ne era estremo bisogno, cioè agli uomini, la cui vita è come una «malattia verso la morte». Il discorso sulla «stirpe di Abram o» (secondo Is. 41,8 ss.) presuppone che tutti, giudei e gentili, hanno bisogno di aiuto, ma davanti a lettori giudeocristiani non vi era certo bisogno di mettere tanto in risalto i secondi. N el contesto considerato, l'accento è posto sul fatto che con la donazione di D io gli uomini hanno un aiuto nella realtà di questo mondo. A c canto a sé ora hanno colui che ha superato la morte. Perché potesse essere il salvatore non gli venne risparmiato nulla. 17. Una frase illuminante dichiara che questo poteva avvenire solo nell’assoluta solidarietà «sotto ogni aspetto» con i fratelli uomini, ai quali egli divenne «uguale» e non solo simile. A llo stesso m odo viene spiegata ancora una volta l'affermazione di 2,10. Cristo ha potuto di ventare sostenitore degli uomini non come oggetto di un processo celeste né perché era stato, per così dire, programm ato in anticipo per la sua missione di salvezza. A l contrario, divenne uguale ai fratelli
Ebr. 3,1-6. Cristo e la fedeltà della sua comunità
«perché si dimostrasse m isericordioso e fosse un sommo sacerdote fe dele (= perseverante) per le cose che riguardano il rapporto con Dio». Queste parole corrispondono esattamente al pensiero biblico che ad ogni automatismo della salvezza contrappone il correttivo della fede richiesta da D io. L a solidarietà di Gesù con gli uomini trovò espres sione convincente nella dimostrazione della fede, delPamore e della speranza. N el v. 17, per la prima volta e con estrema naturalezza, giac ché si cita la Scrittura (Sai n o ), il discorso cade sul «sommo sacerdo te» che espia i peccati del popolo. Presumibilmente si sfiora un nuovo punto di vista in funzione di riflessioni che verranno in seguito (cf. 4 ,14 ss.). Q ui ci basti sottolineare che, a prescindere dal destino m or tale della nostra esistenza, ora si parla nuovamente (v. in ultimo 1,3) e apertamente della corruzione del genere umano. 18. In questo modo è reso possibile il passaggio logico al v. 18, o l tremodo ricco di contenuti e anch’esso aperto a sviluppi ulteriori. In fatti, nella misura in cui è caratterizzato dal peccato, questo m ondo è anche una realtà di tentazione. Per questo corrisponde al vero la frase in cui si afferma che al C risto sofferente tale tentazione non venne ri sparmiata affatto, perché solo in questo modo potevano essere real mente aiutati gli uomini in tentazione. Egli «può veramente» venire in aiuto di chi è nella prova. Il confronto con il Cristo tentato è il prim o passo per sperimentare il Signore vivente; infatti la passione di C risto, in quanto assunta davanti a D io, è sempre garanzia della presenza del C rocifisso stesso. Cristo, il Figlio fedele nella casa di Dio, vuole anche la fedeltà della sua comunità (3,1-6) 1 Perciò, fratelli santi che siete partecipi della vocazione celeste, fissate lo sguardo su Gesù, l’inviato e il sommo sacerdote della nostra professione di fede, 2 il quale è «fedele» al suo creatore come anche «Mosè nella sua casa». 3 Egli infatti è stato giudicato degno di una gloria tanto maggiore rispetto a Mosè come il costruttore di una casa riceve un onore più grande rispetto alla casa stessa. 4 Ogni casa infatti viene costruita da qualcuno; ma colui che costruisce tutto è Dio. 5 E Mosè è stato sì «fedele in tutta la sua casa» co me «un servitore» a testimonianza di ciò che doveva essere detto. 6 Cristo, però, come un figlio «sulla propria casa», e noi rappresentiamo la sua casa se conserviamo saldamente la franchezza e il vanto della speranza. 2 e fa Num. 12,7.
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i-6 . Per la prima volta gli ascoltatori vengono interpellati direttamente (3,1). D opo pensieri molto profondi (2,5-18) si giunge ora a una nuova esortazione (3,1 ss.) che, come già 2,1-4 , è accompagnata da una motivazione (3,3-6). V i si sottolinea che Cristo, il Figlio, ha rag giunto un onore maggiore rispetto a Mosè. L'esortazione ha lo scopo di raccomandare l’applicazione pratica di quanto detto prima. L a se zione con la motivazione racchiude concetti che ancora una volta ri mandano a quanto seguirà. La questione della «vocazione celeste» ri ceverà in un secondo tempo precisazioni sul contenuto (9,15). Il rife rimento tematico al «sommo sacerdote», a cui si era appena accennato in 2 ,17 ss., caratterizza l’affermazione del v. 1 che fa da cornice. Esso dà peso all’esortazione successiva a non lasciarsi sfuggire l’ «oggi» del la promessa divina (3,7-4,13). In 4 ,14 -16 si ha nuovamente un’esposi zione analoga a 2 ,17 ss. Anche l’invito a seguire il sommo sacerdote della «professione» di fede viene ripetuto in 4,14, e in questo m odo 3, 7 -4 ,11 (o 4 ,13) risulta essere una sezione conclusa; ma se ne parlerà diffusamente più avanti. La pericope di cui stiamo trattando intende comunque favorire il passaggio a questo più ampio ragionamento, che non vorrem m o definire, con altri interpreti, una «grande interpolazio ne». Se abbiamo ragione, allora a suo modo si avrà un ulteriore cre scendo nell’omelia. 1. Ebr. presenta pochi appellativi. Tanto più colpisce allora l’espres sione solenne «fratelli santi». N on si tratta di una frase retorica così come usa fare nell’imbarazzo l’oratore per colmare una pausa di si lenzio (cf. 3,12 ; 10 ,19 e t 3j22)' questo contesto essa ha piuttosto un peso sostanziale, tanto più che si è appena accennato al m otivo ecce zionale della comunione dei cristiani, ossia l’essere fratelli del sommo sacerdote Gesù, per mezzo del quale è stato ristabilito il rapporto tra l’uom o e D io ed è stata compiuta un’espiazione per i peccati. È a lui che va dedicata ogni attenzione. È chiaro che l’esortazione intende provocare una decisione. N on afferma nulla di ovvio, ma rimanda a una particolare condotta in quanto gli ascoltatori sono partecipi di una «vocazione celeste». N on si tratta tanto di una vocazione generica a essere cristiani, ma del compito specifico di rafforzare la «chiamata» e dar prova di sé in quanto battezzati. L ’appellativo rivela che ci si immagina gli interpellati come partecipanti a un’azione liturgica so lenne, forse collegata a una liturgia battesimale (cf. 10,22), per cui era opportuno ricordare anche l’istruzione ricevuta un tempo (6 ,11 ss.).
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Anche la definizione «partecipi di una vocazione celeste» va precisata. Risulta logica e naturale Passociazione col tipico concetto della «pro fessione di fede», che qui verosimilmente significa, in senso lato, la testimonianza con parole e opere. Apprendiam o che il cristiano non può attualizzare da solo, per sua essenza, una natura celeste, ma che viene sollecitato a farlo sulla base della parola di D io che gli viene an nunciata. D a un certo punto di vista la meta è assai lontana, ma l’aiuto che fornisce per orientarsi P«inviato» e «sommo sacerdote della n o stra professione di fede» può essere considerato assolutamente affida bile. D ietro di lui vi è D io che lo manda (1,2), e nel servizio sacerdota le ha dato prova di sé in m odo straordinario. Le frasi sono composte tenendo presente il Sai. n o , come rivela il tema del «sommo sacerdo te» (e come avviene già in 2,17). Sai. 110 ,2 dichiara inoltre che D io, il Signore, «manderà» il dominatore, colui che siede alla sua destra. Ebr. sa che Pautorità e il mandato di D io hanno preso form a in «Gesù». Analogam ente a FU. 2,5 ss. è espresso chiaramente che si tratta di un portavoce terreno e della sua condotta davanti a D io. È lui il contenu to della «professione di fede». C on questo termine si vuole indicare tanto Patto che il contenuto della professione. Probabilmente si allude in senso lato alla testimonianza battesimale della comunità, che esige fedeltà (v. ancora 4,14) e che, viceversa, assicura la fedeltà da parte di C risto, il quale è garante della prom essa della speranza eterna (cf. 10, 22 ss.). N on bisogna pensare a una form ula confessionale fissa, che magari veniva pronunciata anche dal sommo sacerdote, ma piuttosto a un atto liturgico formale (v. anche 13 ,15 ) che presumibilmente assu meva un carattere di giuramento e d'im pegno solenne, per cui si p o neva in particolare il problem a della possibile apostasia. In 3,7-4 ,13 l'autore affronta con estrema energia questo problem a e il pericolo connesso. Prim a di inoltrarsi nelle profonde verità della fede in C ri sto, con grande energia pastorale richiama l’ attenzione della comunità sulla gravità della decisione presa. 2. Dai suoi membri si attende fedeltà, ossia nient’altro che la rispo sta allo stesso comportam ento di G esù che, di fronte al suo creatore, ha dimostrato la propria fedeltà. Sorprende che sia descritta non tanto una certa condotta in una determinata occasione, quanto in generale il rapporto attuale di fedeltà di G esù verso D io. Secondo 2 ,17 , Gesù è divenuto somm o sacerdote «fedele» soffrendo con i fratelli. Q ui è scritto che la comunità può basarsi sempre su questo fatto. Il rapporto
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del Figlio con il Padre è quindi definito come rapporto tra creatura e creatore, cosa che per Fautore non rappresenta una contraddizione ri spetto a tutte le altre affermazioni entusiastiche riguardo al Figlio co me mediatore della creazione. È evidente che Fidea di un rapporto me tafisico essenziale tra Gesù e il «creatore» gli è assolutamente estranea. La posizione del Figlio rispetto al Padre è da lui definita in m odo bi blico come rapporto di obbedienza e fedeltà, concetto che illustra ri mandando al servizio «fedele» di Mosè «nella sua casa» e riprendendo quindi intenzionalmente una testimonianza data da D io riguardo a M osè in Num. 12,7 (v. L X X ). Grazie a questa fedeltà M osè assunse una posizione tale davanti a D io da collocarsi al di sopra degli angeli. 3. Incrementando le considerazioni precedenti si prende poi spunto dal concetto di «casa» per affermare che, quanto a grado, Gesù è sta to giudicato degno di maggior gloria rispetto a M osè. A questo, infat ti, era stato riservato il compito di guida nella «casa» dTsraele affida tagli, tuttavia non può comparire come costruttore di tale «casa». In fondo, occupando il primo posto nella comunità, ruolo di grande re sponsabilità, era solamente una parte della casa, non certo il «costrut tore» stesso per potersi elevare «sopra» di essa. D i conseguenza - e qui l'argomentazione, in forma di analogismo, segue le regole delFinterpretazione rabbinica - il posto d’onore di Gesù è maggiore; difatti in quanto «figlio» è sullo stesso piano di D io, il costruttore della casa. Formalmente il concetto della «casa» servita da M osè è ripreso da Num. i2 ,j, ma rispetto al contenuto è ovvio che si pensa in senso lato alla «casa dTsraele» (cf. al riguardo Sai. 1 1 4 ,1 ; 1 1 8, 1 ss.). 4. Il v. 4a è di tono piuttosto generico. Afferm ando che ogni casa è costruita da qualcuno esprime un'idea secondaria. Ma quello che è un dato di fatto generico, nelPanalogia considerata consente di continua re il pensiero affermando che anche Dio, che tutto ha creato ed edifi cato, è costruttore di una «casa» che abbraccia il mondo intero. Questa riflessione presuppone che Gesù, il Figlio del Padre, possa conside rarsi Signore di questa «casa di Dio». Stando a 1,2, effettivamente lo è in quanto «erede» di tutte le cose. L ’idea guida sottolinea che egli, in quanto figlio, per ruolo ed onore è sullo stesso piano del costruttore. Il pensiero del rapporto di fedeltà non viene comunque dimenticato. 5. D opo i concetti intermedi considerati, il procedimento dim ostra tivo si avvia ora definitivamente verso la conclusione. M osè (secondo Num. 12,7) si dimostrò fedele nella sua casa come «servitore» (cf. an-
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che Es. 4,10; 14,31; Num. 1 1 , 1 1 ecc.). Soprattutto avveniva che riferis se integralmente e senza falsificazioni ciò che «veniva detto», ossia le parole di D io. Per Num, 12,8 (L X X ) egli era insomma la «bocca» e il «portavoce» di D io, poiché riportava al popolo la testimonianza, non in m odo «poco chiaro» o «cifrato», bensì alla lettera. Dietro a questo concetto vi è la convinzione sia della santità assoluta della torà sia del suo carattere etico vincolante. 6. M entre M osè si dim ostrò fedele «nella sua casa», affidatagli da D io, C risto in quanto figlio sta «sopra la sua casa»; dal Padre è stato costituito erede e possessore. L a sua dignità dunque è unica e m aggio re. Il titolo onorifico «Cristo», messo non per caso, rafforza l'intento, poiché ricorda che come l'essere servitore era compito di M osè, il ruolo di C risto spettava al Figlio. In 10,21 è detto in maniera ancora più esplicita che noi abbiamo un sommo sacerdote «posto sopra la ca sa di D io». Il «sì... però» della frase precisa con insistenza lo scopo cristologico della dimostrazione. Seguono ora, un p o ’ di sorpresa, ma adeguatamente inserite nel contesto della trattazione, le conseguenze pratiche per i lettori compresi in quel «noi» di 3,1 («la nostra profes sione di fede»). A che scopo questa nuova riflessione? La «casa di D io», sopra la quale il «Figlio» è stato posto come erede (cf. Sai 110 ) , siamo «noi», i cristiani. Il v. 6 parla più esattamente della «casa di C r i sto». N o n è facile divenirne partecipi. L ’appartenervi dipende anzi da determinati presupposti (cf. 2,17). L'Israele dell’antica alleanza era le gato da un vincolo di sangue, mentre la casa, ovvero la comunità, di C risto si presenta come «popolo» di coloro che hanno ricevuto la re missione dei peccati. Il punto di vista nazionale in questo m odo viene a mancare. Se la «casa d'Israele» aveva solo una durata limitata, la «casa di Dio» ora definitivamente realizzata e che in C risto ha la pie tra angolare (Sai. 118,22) conduce al mondo celeste eterno. Per il cri stiano ogni cosa dipende dalla capacità di conservare «la franchezza e il vanto della speranza». C on queste parole si ricorda che la fede è questione di «professione» libera e vittoriosa (cf. 3,1). Come Israele, anche il nuovo popolo di Dio corre il rischio dì trascurare la promessa del riposo sabbatico (3,7-4,13) Stando alla form a, questa sezione a sé stante si presenta come «om e lia» nell'om elia, per cui la troviam o anche, non a caso, come esortazio
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ne tipica in un sermone che vuol essere «parola di esortazione». N e ri sulta che nel complesso della composizione non le spetta un ruolo se condario, ma anzi un compito estremamente importante. L'autore non divaga in excursus, ma conferisce alla sua esposizione proprio la forza critica dirompente necessaria a fare della parola umana una parola di D io; soltanto questa infatti, non certo la riflessione umana, è in grado d'im porre una decisione con la necessaria inflessibilità. Ebr. parte dal presupposto che l'oratore può contare sulla piena autorevolezza solo se riferisce una parola autorevole. Perciò la pericope conclusiva di 4, 12 ss., che può apparire singolare, è parte integrante di questa «esorta zione» estremamente dura. La lettera agli Ebrei dimostra nuovamente la ragione del suo discorso, per cui ora al di là di 3,3-6 pensa in m odo ancor più radicale. Attenzione particolare meritano le affermazioni di 3,7-4,13 in quan to parte tipica dell'insieme omiletico» Alla loro base vi è una vasta se zione tratta dal Sai 95. L ’autore è consapevole di trovarsi con la sua comunità in un'epoca di transizione, come l'antico Israele nel deserto. Si tratta di un «tempo breve» (cf. 10,37). È possibile che, per l'adem pimento delle aspettative, tacitamente si pensasse a un intervallo di circa quarant'anni, come la durata dell'esodo (cf. anche 10,37 s.). C o me già accennato, la lettera agli Ebrei potrebbe essere stata composta tra il 60 e il 70 d.C. L'autore calcola segretamente gli anni a partire dalla data della morte di Gesù (30 d.C.). D all'invito all'esortazione «quotidiana» traspare una certa urgenza dell'attesa.
L'«oggi» della chiamata divina esige un’ultima decisione (3,7-11) 7 Perciò, come dice lo Spirito santo: «Oggi, se udite la sua voce, 8 non in durite i vostri cuori come nell’esasperazione il giorno della tentazione nel deserto, 9 ove i vostri padri (mi) misero alla prova 10 e videro per quaran t'anni le mie opere. Perciò mi disgustai di questa generazione e dissi: «So no sempre nell’errore con il cuore». Ma essi non riconobbero le mìe vie, n per cui giurai nella mia ira: «Non entrino nel mio riposo!». 7 - 1 1 Sai. 95 , 7 - 1 1 .
7. Se da Gesù la chiesa può imparare cos'è la fedeltà, dal popolo dell'antica alleanza può apprendere com ’è facile cadere nell'infedeltà. Anche se la riflessione principale è del tutto ragionevole, tuttavia da
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un punto di vista logico e linguistico il passaggio suscita alcuni inter rogativi. Si era appena affermato che l’ appartenenza alla casa di C risto alla fin fine è decisa dalPatteggiamento dei cristiani che devono perse verare fiduciosi e sereni nella loro speranza. E subito dopo, in m odo piuttosto inaspettato, si ha l ’inserimento della citazione di Sai. 95,71 1 , dal tono duro e ammonitore: «Perciò, come dice lo Spirito santo». L ’ apparente pesantezza non va spiegata col fatto che celatamente si pensava già al proseguim ento del v. 12: «Guardate perciò, fratelli, che non...». L a form ula introduttiva «come dice lo Spirito santo», espressa in m odo un p o ’ stereotipato, fa apparire più probabile che quel «per ciò», in base al proponim ento precedente, vada inteso nel senso: «Per tanto va tenuto presente ciò che dice lo Spirito santo», per poi sposta re l’ attenzione sul v. 8 e affermare: «Pertanto è necessario... non in durite i vostri cuori!». È chiaro che la parola biblica, nel complesso del l ’esposizione omiletica, non serve principalmente come citazione vera e propria. L ’autore anzi per dar più peso alla propria parola am m oni trice si serve del forte monito biblico, il cui significato salvifico attuale è per lui fuor di dubbio. Innanzitutto la lunghezza della citazione, che comprende tutta la parte conclusiva del salmo ed è riportata p roba bilmente a memoria, ne ha fatto l’ argomento formale più forte, da cui nuovamente la necessità di spiegarla meglio nei particolari. Il m odo di procedere di Ebr. è sorprendente. Q uasi irriguardosamente e d ’ im provviso pone i lettori di fronte a una parola dello Spirito che deve colpirli e stimolarli profondamente. A vendo essi preso come com uni tà (battesimale) una decisione che si lascia alle spalle ogni volontà o r dinaria, la lettera ricorda loro con insistenza e vigore che sulla strada intrapresa non può esservi ritorno né ritiro. Le conseguenze sarebbe ro altrimenti spaventose (cf. 12 ; 4,1). D ietro a questo procedim ento vi è la ferma convinzione che la parola della Scrittura sia di grande attua lità. L ’ «oggi» è inteso come chiamata attuale dello Spirito di D io, il qua le afferma che i cristiani interpellati - secondo 3,1 «partecipi di una chiamata celeste» —devono prestare ascolto alla voce di Dio. L ’ «oggi» comprende il periodo di proclam azione del messaggio di C risto (ana logamente a 2 Cor. 6,2), ma è evidente che punta anche alla particolare situazione liturgica in cui la «chiamata» di D io possa essere colta in una chiara accettazione. 8. Poiché la franchezza e la certezza in ciò che spera caratterizzano il cristiano, non vi può essere indurimento del cuore. C on ciò s’inten
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de l'ostinazione per cui l'uom o si chiude alla voce di D io, e non il cuore inquieto e in ricerca. La Scrittura biasima l'atteggiamento di chi si rivolta contro D io con arroganza e spirito di ribellione. La com uni tà quindi viene messa in guardia da quella «esasperazione» che porta al rifiuto di Dio, così come a Massa e Meriba Israele si era abbandona to al dubbio: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?» (cf. Es. 17 ,1 ss.). D io punisce una condotta tanto ostinata perché non piomba su Israele alPimprovviso come una contestazione, ma andava preparandosi da tempo e deliberatamente. 9. Sebbene faccia parte della citazione, l'appellativo «i vostri padri» allude a persone interpellate come giudeo(cristiane). In certi periodi della storia non ci si dovrebbe mai impuntare sconsideratamente con tro Dio. Anche qui Ebr. intende rivolgersi direttamente alla comunità. N on è forse vero che anch'essa esce da esperienze di fede inaudite (cf. 2,1-4)? 10. Per quarantanni Israele nel deserto ha visto le «opere» di Dio. Che cosa significa? Grazie a un «perciò» in più (che prosegue con «mi disgustai...»), la citazione presenta una divisione differente rispetto al la versione dei L X X , ove invece è scritto: «e videro le mie opere. Per quarantanni mi adirai contro quella generazione». Mentre qui si in tendono le opere della collera, l'autore di Ebr. pensa invece piuttosto alle «prodigiose» dimostrazioni di potere come segni della guida mi sericordiosa di Dio. D i conseguenza la condotta dei padri dovrebbe apparire tanto più sorprendente alla comunità interpellata, quanto più comprensibile la reazione di Dio. Il fallimento di un tempo non deve assolutamente ripetersi. Inoltre, su esempio del salmo, il luogo esatto non viene specificato, primo perché in fondo è irrilevante, e poi per ché sarebbe d'impedimento alla testimonianza. Mentre il testo ebraico fa riferimento a «Massa» e a «Meriba», circostanza senz'altro nota a Ebr., l'autore della lettera trascura completamente i particolari relativi alla località, come del resto fa la versione greca. In questo m odo tutta l'attenzione si concentra sul comportamento d'Israele nel suo com plesso; ed è proprio la sua mancanza di fede che la comunità del nuo vo popolo di D io non deve e non può far propria. Le tappe dell’esodo acquistano necessariamente forza espressiva per illustrare quei tipi di comportamento che meritano una punizione («sdegnarsi» con Dio, «metterlo alla prova», «tentarlo»). C ol v. 10 la citazione del Sai. 95 passa al discorso diretto, e a parlare è D io stesso. V i esprime il disgu
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sto per la generazione delPesodo, di cui è stufo e che in fondo al cuore è sempre stata incline all’errore, benché le fosse consentito vedere le «opere» divine. 11. Venendo a mancare la fede e l’obbedienza, nella sua collera D io ha giurato che non sarebbe mai entrata nel suo riposo, ossia nella «ter ra promessa» da lui prospettata. La riproduzione letterale della frase del giuramento tratta dalla versione greca dei L X X , che non può esse re compresa senza la conoscenza del testo ebraico, comprova la fo r mazione biblica giudaica dell’ autore (cf. Num. 14,30). Dal canto suo neanche Ebr. ha compiuto variazioni di sorta, perché il carattere ispi rato della parola di D io è per essa un massimo assioma. Il tremendo giudizio di D io emesso sulla generazione dell’esodo viene pienamente accolto in funzione intimidatoria. Tuttavia non è certo inteso in senso antigiudaico, segue anzi in tutto l’uso della sinagoga, la quale sapeva anch’ essa giudicare in modo altrettanto duro. La citata bizzarra divi sione del salmo effettuata al v. ioa dà l’impressione che D io sia inter venuto solo dopo quarant’anni, mentre la testimonianza dell’Antico Testamento parla piuttosto esplicitamente e con estrema precisione dell’inizio dell’esodo, a volte addirittura del secondo anno (Num. 14 ,2 1-3 5 ; 3 2 ,10 -13 ; Deut. 1,34-40), collegando così a una causa precisa la lunga permanenza nel deserto. Effettivamente questa divergenza dall’originale, lieve ma certo intenzionale, permette di fare un con fronto più pertinente rispetto alla situazione dei lettori. O ra si sa di essere alla fine dell’esodo, e non all’inizio. N on va esclusa l’eventualità che l’attesa del cristianesimo delle origini contemplasse, come quella giudaica, in prim o luogo un periodo messianico' di quarant’anni, cosa che già rabbi Elieser (attorno al 90 d.C.) riteneva tramandata: «I giorni del messia sono quarant’anni, come è detto in Sai 95,10» (bSanh. 99a). Tuttavia nella nostra lettera non viene riportato alcun calcolo, mentre tutta l’urgenza di cui si è consapevoli viene trasformata in pres sante esortazione a tenersi pronti. Si può rammentare che in m odo analogo anche Paolo, con fare ammonitore, aveva alluso all’esempio di Israele (/ Cor. 10,7). L a croce come fondamento della condotta cri stiana è il segno posto da D io che rimanda all’ amore e alla speranza. L a fede cristiana ha bisogno della disponibilità incondizionata all’ azio ne, né può mai fare a meno della perseveranza necessaria per affronta re un futuro ultimo.
Solo la reciproca esortazione quotidiana scongiura 11 pericolo dell’apostasia (3,12-14) 12 Fratelli, state attenti che in nessuno di voi vi sia un cuore malvagio e in fedele che potrebbe rinnegare il Dio vivente! 13 Piuttosto esortatevi a vi cenda, ogni giorno, finché viene proclamato P«oggi», affinché nessuno tra di voi sia indurito dall'inganno del peccato. 14 N oi infatti siamo divenuti compagni di Cristo, se manteniamo salda sino alla fine la fede iniziale. 13
Sai
95,7 ss.
12. Essendo la chiesa in cammino come l’Israele dell’esodo per una meta eterna, in quanto comunità di «fratelli», così l'appellativo, essa deve preoccuparsi che nessuno rinneghi la propria fede. O gnuno è re sponsabile dell’altro e ciascuno risponde di chi rimane indietro. Il m o nito è diretto a evitare l’apostasia dalla fede di Cristo, alla quale è lega to il «vanto della speranza» (3,6). L ’affermazione non suffraga affatto l’ipotesi secondo la quale qui potrebbero essere intesi destinatari etnicocristiani minacciati dal pericolo di ricadere nell’idolatria senza Dio. In fondo già Num. 14 parlava di apostasia in relazione a Israele. Essa costituisce il pericolo in assoluto più temibile nell’epoca cristiana, tempo dell’ «oggi» e perciò tempo in cui la voce di D io risuona nuo vamente in modo particolare (cf. 12,25). D io esige quella fede che si volga a lui senza condizioni o riserve, con la piena fiducia nella sua parola. 13 . C iò che trasmette il nostro oratore, ossia una «parola di esorta zione», in fondo deve essere compito di tutti gli interpellati; infatti «nessuno di essi» nell’esasperazione deve prendere la strada dell’apo stasia. N essuno deve pensare di essere lasciato da solo, idea che porta all’ostinazione. Questo indurimento del cuore è la grande tentazione del presente, tanto più che è da attribuirsi all’ «inganno del peccato»: questo definisce non solo il fallimento umano, ma anche una potenza avversa a Dio. D i conseguenza non soltanto la volontà individuale costituisce un potenziale pericolo, in quanto può essere debole, ma ben più pericoloso è un qualcosa di estraneo e ignoto che ci domina. 14. La fede in Cristo è non solo compito etico, ma anche testim o nianza in una lotta in cui si decidono i rapporti di potere. A consola zione e rafforzam ento si aggiunge che quanti sono «partecipi» di una «vocazione» (3,1) celeste sono anche «compagni di Cristo» e dunque coeredi. Ora che essi, in quanto battezzati, portano il suo nome, egli
Ebr. 3,15-19. La promessa era rivolta a Israele?
ne accompagna il cammino per sostenerli fino al raggiungimento del l'ultim a meta. Ancora una volta l'autore introduce una condizione, una sola, ma essenziale: «se manteniamo saldo sino alla fine il fonda mento della fede iniziale» (cf. cap. n ) . Con questo s'intende non la «certezza di fede dell'inizio», ma il «fondamento della fede», la «base» della certezza che negli ascoltatori ha avuto inizio ormai da tempo. La promessa di un riposo estremo del popolo di Dio era rivolta forse a Israele? (3 ,15 -19 ) 15 Quando la parola dice: «Oggi che udite la sua parola non indurite i vo stri cuori neH'esasperazione», chi furono allora quelli che dopo «aver udi to», «si ribellarono (contro Dio)»? 16 N on furono (forse) tutti quelli che sotto la guida di Mosè avevano preso parte all'uscita dall'Egitto? 17 Con tro chi «si adirò per quarant'anni»? Non accadde contro coloro che aveva no peccato e «i cui cadaveri caddero nel deserto»? 18 A chi era rivolto il giu ramento «non entreranno nel suo riposo», se non a quanti erano stati di subbidienti? 19 E così noi vediamo che a causa della loro infedeltà non poterono entrarvi. 15 Sai. 95,7 ss. (cf. inoltre Es. 17,1 ss. e spec. Num. 14,20-45), 17 Sai 95,10 e Num. 14,29.32. 18 Sai 95,11 (cf. Num. 14,22 s.).
15 .1 vv. 15 -19 illustrano il concetto di «indurimento» in base a una nuova citazione di Sai 95,7 s. In stile retorico assai abile, con tre in terrogativi successivi, si dimostra che «ribellione», fallimento e disob bedienza come forme di ostinata mancanza di fede non hanno alcuna speranza di «giungere» nel riposo promesso. Vista dal di fuori, l'a r gomentazione appare alquanto artificiosa e voluta (v. il superfluo «for se» del v. 16). D i fatto però intende dare una tale spinta al ragiona mento, da conquistarsi il totale assenso degli ascoltatori per l'am m o nimento che seguirà in 4 ,1, e per rivolgere con maggior decisione la volontà all'ambita meta che sarà positivamente sviluppata in 4 , 1 - 1 1 . 16. Il prim o interrogativo riguarda il comportamento del popolo a M assa e M eriba (Es. 17 ,1 ss.). N essun ascoltatore può negare che il popolo dell'esodo fosse «esasperato» con Dio. 17. N e risulta necessariamente l'assenso per un giudizio che incom be anche in caso di fallimento proprio. Il secondo interrogativo allude alla vicenda di Qadesh, quando Israele non volle combattere per pren dere possesso della terra e in seguito a ciò D io «si adirò» per quaran-
Ebr. 4,1-3. La promessa della parola è per la comunità cristiana
t'anni (stando a Num. 14,20-38). A lla fine, quando Israele osò fare co munque un tentativo, subì una tremenda sconfitta ad opera di amaleciti e cananei (Num. 14,45). 18. La terza domanda riguarda il giuramento prestato da D io nella medesima occasione, episodio che qui ovviamente viene inserito alla fine come risultato della condotta tenuta allora .(Num. 14,28 ss.). A n che in questo caso gli ascoltatori non possono che confermare che la trasgressione e la ribellione vengono punite immediatamente. C o sì fa cendo rendono noto al tempo stesso di sapere benissimo quale sorte potrebbe attendere anche loro. 19. Il v. 19 tira le somme e al tempo stesso introduce la nuova rifles sione in cui si rafforza in positivo l'idea che si tratta di entrare nel «ri poso» di Dio. L'autore punta a far comprendere alla comunità l'im portanza dell'ora. Bisogna essere pienamente consapevoli delle conse guenze che la decisione comporta. Quella che suona come una mi naccia in realtà è un’arringa appassionata rivolta al cristiano maturo, che deve andare oltre il semplice sì della decisione battesimale di un tempo per vivere, ora dopo ora, una vita di responsabilità. L a prom essa della parola è per la com unità cristiana (4,1-3) 1 Poiché la promessa di entrare nel suo riposo è ancora lontana dal suo adempimento, preoccupiamoci perché nessuno di voi possa apparire un ri tardatario. 2 Anche noi, come loro, abbiamo ricevuto la buona notizia; ma per essi la parola di predicazione fu inutile perché non si era unita nella fe de agli ascoltatori. 3 N oi infatti «entriamo in (un) riposo quando pervenia mo alla fede, come egli ha detto: «Così ho giurato nella mia ira: non entre ranno nel mio riposo», benché le opere fossero create fin dalla fondazione del mondo. 3 Sai. 95,11. 4 Es. 2,2. 1-3 . La sorte d'Israele durante l'esodo induce a riflettere. In fondo non hanno fallito tutti? Il giudizio divino non ha raggiunto tutti? L 'u o mo incline a ribellarsi a D io ha poi possibilità di scampo? L a riflessio ne di 4,1 ss. dimostra che l'autore, cristiano di origine giudaica, dev'essersi posto queste domande. Tuttavia non cade nella rassegnazione né nello scetticismo. Consapevole che di fronte a D io alla fede appartiene la promessa, trae conclusioni che mostrano responsabilità e fiducia. Egli inoltre sa della comunione del nuovo popolo di Dio, la quale sog
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Ebr. 3,15-19. La promessa era rivolta a Israele?
giace alla parola di D io ed è orientata a un fine ultimo, per cui, come Israele nel deserto, può basarsi su una solida promessa. Ebr. la defini sce «lieta novella» e dimostra che il suo contenuto è incomparabile. 1. O gnuno deve preoccuparsi, anzi addirittura temere, che «nessu no di voi» (cf. già 3,13) rimanga indietro, così da non riuscire alla fine a entrare nel «riposo di D io». Il sabato eterno libera dal faticoso pere grinare, dalla ricerca angosciosa e dalla lotta disperata. Tuttavia vi è anche un troppo tardi. Chi si allontana dalla strada, chi procede in m odo incerto, non solo «resta indietro» temporaneamente, ma perde di vista anche la meta. Q uindi il timore che deve animare la comunità sino all’assoluta responsabilità reciproca non è rassegnazione paraliz zante, bensì atteggiamento di saggia prudenza e attiva donazione. 2. Questa vigilanza spirituale è indispensabile soprattutto perché an che i cristiani posseggono «come quelli» una «lieta novella». «Noi» Pabbiamo, dichiara Pautore. Si percepisce la gioia di poter esibire un tale straordinario possesso. Il modo di esprimersi del v. 1 ricorda che la promessa è il vero contenuto di ciò che nella «parola delPannuncio» attualmente viene proclamata come «lieta novella». L 'u so linguistico potrebbe orientarsi a Is. 52,7 (L X X ). Evidentemente il vangelo come «buona novella» non è semplicemente testimonianza di Cristo, ma piuttosto annuncio incoraggiante delle cose ultime che il suo sacrificio ci ha svelato: il pericolo vero e proprio, da cui si è messi in guardia, non è una concezione cristologica errata, bensì il venir meno della tensione escatologica della fede. L ’orientamento sostanziale al futuro può essere sottovalutato. In ciò Pautore vede anche il reale fallimento dTsraele nel deserto: invece di guardare avanti, restò sempre ancorato al presente. In fondo ii D io che lo aveva fatto uscire dalPEgitto ha com piuto i prodigi maggiori nel futuro. Segue poi una chiarissima defini zione del concetto di fede che corrisponde appieno alPesame svolto (cf. 1 1 ,1 ) . La vera fede ha uno spiccato carattere di certezza: Pattività individuale non dev'essere sepolta, ma messa allo scoperto. C iò può accadere solo se alla domanda del significato di tutto ciò fa riscontro una risposta. Per questo motivo al fallimento dTsraele Ebr. non con trappone se non la certezza della fede dalla quale D io si attende tutto. 3. Rifacendosi al Sai. 95 constata che «noi», che siamo giunti alla fe de, entriamo «in riposo», e questo in considerazione del giuramento che impedì a Israele di fare altrettanto. D io avrebbe giurato «sebbene le opere fossero create fin dalla fondazione del mondo». Poiché in un
Ebr. 4,4-9. La prova di un futuro «riposo di Dio»
primo momento la risposta, presentata in form a assai abbreviata, non è del tutto comprensibile, segue una dimostrazione accurata (4,4-10) dalle linee di fondo chiarissime. Quando D io portò a termine le opere della creazione preparò un «riposo» eterno per sé e per l’uomo. P o i ché a causa del proprio fallimento Israele non potè entrarvi, l’offerta è rimasta valida sino a questo momento. Perciò il nuovo popolo di D io può e deve sfruttarla. C on riguardo alla particolare aspettativa di Ebr. occorre far notare l’affermazione al presente «noi che siamo pervenuti alla fede entriamo nel riposo». Ebr. è guidato dall’idea che con l’ essere cristiani sia stato stabilito il rapporto con una nuova realtà che schiu de al credente (e a lui solo) il mondo (= riposo eterno) di Dio. In que sto si distingue dal pensiero ellenistico filoniano, che fondam ental mente tra l’uomo e il mondo di Dio mantiene un contrasto superabile, almeno in parte, solo mediante la conoscenza e la visione religiosa. L ’idea inoltre indubbiamente punta a stabilire che l’attesa deve tende re al futuro, ove D io ha preparato l’ultimo compimento. L ’autore è guidato dalla salda convinzione che la fede cristiana apra a una rela zione con Dio, la cui dimensione non solo abbraccia una nuova com prensione del presente, ma schiude anche quel futuro in cui D io avrà un posto irrinunciabile. A nche la testim onianza di D avide è p ro va di un fu tu ro «riposo di Dio» (4,4-9) 4 Infatti a proposito del settimo giorno da qualche parte ha detto così: «E nel settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere». 5 E di nuovo al passo
citato è detto: «Non entreranno nel mio riposo». 6 Poiché dunque risulta che alcuni debbono ancora «entrarvi», e d’altra parte quelli che per primi ricevettero la buona notizia non vi sono entrati a causa della loro infedeltà, 7 allora di nuovo egli fissa un giorno «oggi», per dire dopo tanto tempo per mezzo di Davide con le parole già citate: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori». 8 Se infatti già Giosuè li avesse introdotti al ripo so, non avrebbe in seguito parlato di un altro giorno. 9 Dunque ne deriva che al popolo di Dio resta ancora un riposo sabbatico. 5-7 Sai. 95,11 e Sai. 95,7 ss.
4-9. La dimostrazione, completata con 4,4-9 e che deve dar forza al l’idea di un riposo ancora da godere, scompone accuratamente le con nessioni appena create.
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Ebr. 4,4-9. La prova di un futuro «riposo di Dio»
4. C on il metodo dell'indeterminatezza tipico soprattutto di Filone (v. «da qualche parte» anche in 2,6), viene espressamente citato il classico passo di Gen. 2,2 in cui D io impone il riposo sabbatico nel settimo giorno della creazione. In tutta la letteratura del primo giudai smo e del cristianesimo delle origini esso rappresenta la prova princi pale per il futuro grande «giorno di D io», che abbraccia mille anni. L 'ottica di Ebr., che va direttamente al nocciolo, rinuncia a fornire nu meri. In questo modo è messo in risalto l’essenziale: come fu il prin cipio, così sarà anche la fine della creazione. Perciò l'uom o della te stimonianza biblica sa di essere stato liberato per vivere in modo eti camente responsabile sotto la chiamata di Dio. 5. La validità permanente di Gen. 2,2 viene infine appoggiata dal ri ferimento a Sai. 9 5 ,11, testo principale del ragionamento, in cui il con cetto centrale del «riposo» ha anch’esso una sua precisa collocazione. Per il pensiero biblico, da questa uguaglianza di parole deriva il diritto a trarre determinate conclusioni. Cercheremo di capirle, anche se non è più possibile adottarle. 6. Se anche il salmo sa che all'Israele del deserto non è stato conces so di entrare nel riposo, tuttavia l'afferm azione mantiene la sua validi tà per altri che potrebbero entrarvi. D io non ritira mai una parola da ta. Se coloro ai quali in un prim o tempo, con tale offerta, era stata p ro clamata una «buona novella» non vi sono entrati, allora era evidente che la promessa fatta prima sarebbe tornata a essere nuovamente vali da a un tempo stabilito. 7. C iò avvenne quando Davide diede nuovo risalto alla parola di D io. Secondo la convinzione di Ebr. D io non può parlare a caso. Dietro le sue parole vi è sempre un significato saldo e permanente. 8. Perciò si aggiunge che Giosuè non ha ancora introdotto Israele nel «riposo». È vero, lo ha condotto nella terra promessa, ma questa non ha mai costituito il vero contenuto della promessa divina. Esam i nando il contenuto dell'ultima affermazione, la tecnica interpretativa del nostro autore, basata sulla conoscenza della Scrittura, sfiora invece un principio m etodologico dell’allegoresi alessandrina neoplatonica. L'interessante circostanza che in questo passo si utilizzi senza riserve la versione grecizzata del nome Giosuè, ossia (come nei L X X ) «G e sù», è una conferma dei contatti esistenti con la sinagoga ellenistica, che gettano una luce particolare sulla composizione di Ebr. La lettera è scritta partendo fondamentalmente dalla convinzione che la parola
Ebr. 4,10 s. Il pericolo della disobbedienza
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della Scrittura è aperta, sia temporalmente sia dal punto di vista con o scitivo; essa vuol dire qualcosa di permanente, che è il contenuto reale del compimento futuro. 9. Riguardo all'accurata dimostrazione successivamente inserita, si può allora concludere che al «popolo di D io», l'espressione compare qui per la prima volta, effettivamente spetti ancora un «riposo sabba tico», il quale deve costituire l'oggetto della sua speranza (cf. 4 ,1). Sul la base del cap. 4 è stata elaborata la tesi (E. Kàsemann) secondo la quale, grazie al concetto di «popolo di D io itinerante», sarebbe possi bile riportare tutta la testimonianza di Ebr. a un unico denominatore comune teologico, tanto più che avrebbe a fondamento anche un cer to concetto (gnostico) di redentore. M a Ebr. s'immagina veramente un «popolo di Dio» (v. anche 11,2 5 ) m cammino? U na più attenta consi derazione fa nascere delle riserve; infatti è evidente che l'autore di Ebr. sente di essere, con la comunità interpellata, non all'inizio della pere grinazione, ma molto vicino alla sua conclusione. L'entrata nel riposo sabbatico, da un certo punto di vista, è anzi già cosa del presente, dell'«oggi». Si fìssa dunque categoricamente ciò che è ritenuto una verità e di cui si può prendere possesso. T u tti dovrebbero prendere sul serio il pericolo della disobbedienza (4,10 s.) 10 Infatti chi è «entrato nel suo riposo» giunge anche «al riposo dalle sue ope re» come Dio dalle proprie, n Aspiriamo dunque ad «entrare in quel ri poso», affinché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza. 10 s. Sai. 95,11 ed Es. 2,2.
10. Per approfondire il risultato vengono inserite ancora una spie gazione in stile personale-individuale e un energico monito in prima plurale «noi», analogo all'enunciato di 4 ,1. Là si trattava di parole di incoraggiamento, qui di un’esortazione. Com e D io nel settimo giorno si riposò dalle sue opere, così anche l'uom o che è entrato nel riposo di D io «giunge al riposo dalle proprie opere». C osa significa? Riguardo a D io si tratta certamente degli atti creativi di cui riferisce Gen. 1, dei quali si può pensare soprattutto che costarono fatica e lavoro. Se in seguito è detto che l'uom o è giunto al riposo dalle «sue opere», ciò può solo significare che ha deposto quanto vi era di gravoso e ostaco
Ebr. 4,12 s. La parola di Dio come dimensione giudiziale
lante. Certo non si tratta dei pesi che gravano normalmente sulla vita umana e che non vengono risparmiati a nessuno, ma piuttosto del com plesso degli errori di una vita, errori che necessitano del perdono. Q u e sta idea sarebbe allora del tutto analoga a quella che compare in i Pt. 4,1 ss.: «colui che soffrì nella carne», Cristo, «ha fatto cessare (= ha portato riposo) dal peccato». Dietro a tale espressione vi è un ricchis simo patrimonio di idee giudeocristiano. Per esempio, dei giudeocri stiani Epifanio scrive che predicavano Cristo come grande «sabato» (Pan. 30,32,6 ss.). Evidentemente la frase esplicativa non indica un «riposo di D io» che avrà inizio solo in un lontano futuro. È piuttosto una realtà della salvezza offerta, la quale avrà prossimo compimento con l’intervento di Dio. 11. D a questa tensione nasce la necessità dell’esortazione a com pie re ogni sforzo per entrare in «quel riposo», «perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza (d'Israele)». N on è messa in discussione la comunità nel suo complesso, ma la singola persona. In quanto «casa di Dio» (3,6) la comunità ha comunque un fondamento più saldo e si curo rispetto a Israele. Il pericolo dell'apostasia è tuttavia da prendere in seria considerazione dal singolo cristiano (cf. 3 ,12 ; 4,1). Il suo falli mento personale può comportare la perdita della salvezza, divenendo così molto più profondo di quello d'Israele.
L a parola di D io rappresenta una dim ensione giudiziale (4,12 s.) 12 La parola di Dio infatti è viva, efficace e più affilata di una spada a dop pio taglio, per cui trapassa fino alla divisione di anima e spirito, articola zioni e midollo, e giudica Ì sentimenti e i pensieri del cuore. 13 Non v’è creatura che non sia manifesta davanti a lui. Anzi tutto è nudo e messo allo scoperto davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto. 12 s. Anche il nuovo popolo di D io prende le sue decisioni sapendo quanto sia inesorabilmente affilata la parola di Dio. A lla base della fra se ammonitrice di 4 ,11 vi è una concezione teologica che al tempo stes so porta a conclusione l'intero monito (3,7-4,! 1). N el loro rigido orien tamento tematico le frasi suonano come un excursus. Formalmente si tratta di un compatto enunciato allegorico riguardante le caratteristi che giudiziali della parola di Dio, che viene paragonata a una spada. Si preannunciano così pensieri fondamentali che ancora una volta collo
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cano Pautore vicino alla teologia alessandrina filoniana, benché si pos sa scorgere anche il carattere peculiare della sua esposizione. Effettivamente Filone (in un’interpretazione di Gen. 15 ,10 ) descrive con parole simili la forza disgregante della parola (Rer . 130 -14 0 , 225, 234-236), intendendo però, sullo sfondo di una concezione del mondo panteistica, di filosofia stoica, la capacità critica dell'intelletto di scom porre l'universo e di comprendere la composizione contraddittoria del cosmo: «Perché il logos divino ha diviso e scom posto tutte le cose nella natura». Differenziandosi nettamente da questa posizione, il me desimo concetto in Ebr. non presenta gli elementi di razionalità gene rale né quelli della scomposizione logico-razionale. Indubbiamente si aggiungono poi concezioni strettamente bibliche che non sono orien tate al concetto di ragione né a un concetto filosofico di sapienza (cf. Sap. 7,22), bensì alla testimonianza della volontà divina. D i conseguenza la parola di D io non è parte essenziale del mondo, ma tende a esso, più esattamente alPuomo, per esporre e affermare ciò che D io esige. L a «parola» non è la ragione del mondo su cui si basa ogni essere, ma è qualcosa di inaudito che D io manifesta in m odo certo e vincolante nel contesto delPascolto e delPobbedienza. I fondamenti di questa con cezione si trovano nelPAntico Testamento, ove soprattutto i profeti testimoniano la potenza della parola e se ne fanno carico (Is. 40,8; 49,2; Ger. 23,29). In Sap. 18 ,15 «parola di Dio» che libera Israele nella notte pasquale è paragonata a un «guerriero implacabile» che dal cielo si lancia sulla terra: «Come spada affilata egli portò il tuo ordine inesorabile, e fermandosi riempì ogni cosa di morte». Che le parole della torà siano simili a una spada è convinzione diffusa anche presso i rabbi. Ebr. è più vicina a questo paragone di tipo im maginifico che non al concetto filosofico di logos. 12. Per Ebr. la parola di D io non è una parola il cui contenuto sia comunque D io o il divino, ma è ciò che D io in persona pronuncia e le cui caratteristiche gli sono conformi. Com e lui, anch'essa è viva e in tende quindi portare alla vita (Deut. 32,47; 1 Pt. 1,23). Il non ascolto comporta sempre la morte. La vera vita, proprio in considerazione della vera realtà di questo mondo (cf. 2,15), può solo essere espressa con riguardo a Dio. La parola non è qualcosa di inanimato, non è eco né fumo, ma ci porta più vicini alla realtà della sua persona. L ’uom o vive di essa (Le. 4,4). In quanto parola su D io è anche parola di D io. La parola di D io è «efficace»; provoca l'efficacia di cui parla. D io
Ebr..4,12 s. La parola di Dio come dimensione giudiziale
veglia sulla propria parola affinché essa «avvenga» (Is. 5 5 ,11). Può es sere fonte di salvezza o di perdizione, come mostra in m odo esempla re la storia d ’Israele. Q uanto la duplice funzione della parola sia al cen tro della riflessione è evidenziato dalla terza caratteristica: è «più affi lata» di una spada a doppio taglio. C o n questo diviene chiaro che ine vitabilmente non si tratta solo di vita e di efficacia, ma anche di divi sione e separazione, e dunque dell’istituzione di chiari rapporti da par te di D io. L o stesso concetto viene ripetuto in tre punti che propon gono altrettante nuove immagini. Q uando «trapassa», la parola di D io divide ciò che vi è di più intimo, stretto e segreto. Anim a e spirito de finiscono la parte spirituale dell’uom o, quella per così dire più interio re di cui si è responsabili di fronte a D io. L ’immagine della separazio ne delle articolazioni dal m idollo probabilmente non intende introdur re l’ambito anatomico, ma si riferisce a qualcosa di strettamente legato insieme. Infine si afferma che la parola è giudice «dei sentimenti e dei pensieri del cuore», e quindi può mettere allo scoperto anche ciò che vi è di più segreto. Evidentemente la parola di D io è l’arma più affilata che possa colpire l ’uom o. D ’altra parte non esiste altro m ezzo con cui risultare più vittoriosi. L a parola definisce la realtà della presenza di D io e dunque il m ezzo della sua rivelazione nella vita dell’uomo, che è creatura. 13 . C on la parola D io ha creato l ’uomo. C on la parola lo richiama di continuo alla sua origine creaturale di cui è chiamato a render con to. L a parola è tanto affilata quanto incorruttìbile lo sguardo di D io. Egli giudica non in m odo superficiale, ma conoscendo il reale stato di cose, dal momento che ogni cosa davanti a lui è «nuda» e «messa allo scoperto». Le espressioni alludono al fatto che l’uom o deve giustifi carsi come una vittima che si aspetti in ogni m omento il colpo fatale. C o n forte enfasi, alla fine della pericope è detto letteralm ente: «al qua- \ le dobbiam o rendere conto». C on questo è detto chiaramente che la parola di D io si aspetta una risposta da parte nostra. Riassum endo, ribadiamo che 4 ,12 ss. offre una dim ostrazione del l’idea portante che la teologia della croce e la teologia della parola so no indissolubilmente connesse. Essa dà un volto all’intera testimonian za di Ebr . Soprattutto il seguito tiene conto di quest*idea. Se la testi m onianza paolina può essere riassunta nella frase che la «parola della croce» esiste in potenza, quella di Ebr. a sua volta nella frase che la «parola del sacrificio» esige la nostra responsabilità (v. anche 1 3 ,15 s.).
Ebr. 4,12 s. La parola di Dio come dimensione giudiziale
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M olti interpreti fanno iniziare con 4,14 una seconda ampia parte che si estende sino a 10 ,18 . Conscio di essere un p o ’ uscito dal semina to con la spiegazione del Sai. 95, Pautore avrebbe ora ripreso risolu tamente il filo del discorso. In questo modo risulterebbe com prensibi le Pinteresse più o meno im provviso per il definitivo oggetto principa le della lettera. G ià per 3,7-4,13 vi era m otivo di obiettare a tale ipote si. L ’intento palese di Ebr. è di comporre e allineare i pensieri alPinterno delPomelia in modo tale da riprendere ogni volta parole e frasi che essenzialmente presuppongano il fondamento omiletico del Sai n o . C on 4,14-6,20 abbiamo uno di questi nuovi pensieri, che tenta di introdurre un tema ulteriore per trarne le debite conseguenze.
Parte seconda
«Tu sei sacerdote» (Sai. 110,4) (4,14-6,20)
La gioia di professare la fede nasce dal ministero sacerdotale di Gesù, il quale ha portato aiuto fin nella tribolazione più profonda dell’ esistenza (4,14-5,10) Q uesta parte tratta in prim o luogo la realtà del sacerdozio di Gesù in linea di principio, per cui ne vengono illustrate innanzitutto le ca ratteristiche essenziali, ossia la chiamata diretta da parte di D io e Pincondizionata capacità di compassione. Si tratta dunque di spiegare più approfonditam ente idee precedentemente esposte in 2,9 ss. e 2 ,17 ss. L 'esortazion e parenetica di 4,14, che riprende nuovamente le finalità dell'am pia enunciazione di 3 ,7 -4 ,11 nel senso del vero e proprio inten to pratico principale, segue 3,1 in m odo obiettivo e concettualmente consapevole. Il pensiero principale può essere strutturato in tre parti: a) 4 ,14 -16 , come accennato, fa da ponte con affermazioni precedenti, come m ostrano soprattutto i concetti impiegati; b) 5,1-4 espone le due circostanze fondamentali già citate, che caratterizzano il ministero sa cerdotale: la capacità umana di compatire, e la chiamata da parte di D io; c) 5 ,5 -10 infine applica in successione inversa (vero chiasmo) i criteri sum m enzionati al ministero di Gesù, al quale, benché chiamato da D io, non fu risparmiata l'esperienza delle profondità della so ffe renza umana. Le frasi conclusive di 5,9 e 5,10 anticipano la parte cen trale vera e propria (7 ,1-10 ,18 ), nella quale vengono spiegate m inuzio samente le espressioni «al modo di Melchisedec» e «in eterno». Q uanto sia stretto il collegamento logico con la sezione precedente, 3 ,7 - 4 ,11, è evidenziato dalla ripresa dei medesimi temi, im portantis simi per Pautore. Sai 110 ,4 afferma: «Il Signore ha giurato e non si pentirà : 'T u sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di M elchisedec'». Prim a di dedicarsi a questo tema om iletico fondamentale, evidente mente Pautore in 3,7 ss. intendeva innanzitutto trattare di quel giura mento antico pronunciato in un momento di collera e rim orso per non concedere la salvezza. Quanto di fatto lo abbia impegnato questa
Ebr. 4,14-16. Manteniamoci fedeli alla confessione di fede
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affermazione del salmo lo deduciamo dalle riflessioni di 7,18 -22. La coerenza con cui le frasi tratte dal Sai n o vengono continuamente spiegate, apertamente o anche tacitamente, è prova convincente della particolare struttura omiletica della lettera. Per la prova dataci da Gesù, manteniamoci fedeli alla confessione di fede e presentiamoci davanti a Dio (4,14-16) 14 Poiché noi abbiamo ora un grande sommo sacerdote che è passato at traverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, manteniamoci fedeli alla confessione di fede. 15 Infatti noi non abbiamo un sommo sacerdote che non sia in grado di compatire le nostre debolezze, ma piuttosto uno che è stato pro vato in ogni cosa allo stesso modo, ma senza peccato. 1 6 Accostiamoci dun que con gioia al trono della grazia, affinché otteniamo misericordia e tro viamo grazia per essere aiutati nel tempo opportuno! 14. L ’inizio, «poiché dunque abbiamo», non trae le conseguenze da 3,7-4 ,13, né conclude qualcosa di detto in precedenza (v. in particola re 2 ,17 ss.); riassume invece un dato di fatto: in Gesù noi possediam o un eccellente sommo sacerdote, il cui ministero ci ha reso accessibile il cielo schiudendoci così la natura più particolare di D io. Se la frase dà l'impressione che Pautore fino ad ora non abbia parlato d ’altro, è per ché fondamentalmente il suo pensiero prende le mosse dal Sai n o . L ’affermazione riguardante la maestà di giudice del Figlio e la sua di gnità sacerdotale «secondo l’ordine di Melchisedec» dà l’impronta al salmo. La testimonianza biblica trapela laddove è detto: «Poiché noi abbiamo ora un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli». D al momento che, fondamentalmente, già nel salmo pasquale sta scritto così, vi si può subito far riferimento, ovviamente con ac centi propri. Cristo, che ha schiuso il cielo, è presentato come sommo sacerdote «grande»:" esagerazione certo solo apparente, per quanto questo titolo ellenistico riservato al sovrano indichi soprattutto la di gnità del Signore del mondo spettante a colui che è stato innalzato (v. anche 1,4 -13 ). Questa espressione compare significativamente anche in Filone, che con essa ha sottolineato l’importanza cosmica del sim bolo relativo al sommo sacerdote (Somn. 1,2 15 -2 19 ; 2,183). A diffe renza di Filone Ebr. non intende illustrare la funzione di sommo sa cerdote di un logos celeste, bensì fornire la dimostrazione che proprio il Gesù terreno, il C risto della passione e della croce, è sia sommo sa
Ebr. 4,14-16. Manteniamoci fedeli alla confessione di fede
cerdote sia Figlio di D io. Se in Filone il logos celeste si presenta come colui che è realmente esistente, in base al quale l’elemento terreno, come ad esempio il somm o sacerdozio giudaico, può essere spiegato e diviene significativo, Pautore di Ebr. parte invece da un'altra prospet tiva; la realtà terrena di Gesù lo indirizza verso quel mondo celeste che naturalmente neanche per lui ha costituito un problema. In questo contesto occorre prestare particolare attenzione alla testimonianza o f ferta dal significativo quadro del v. 14. Esso riporta una dichiarazione riguardante il Gesù terreno cui è attribuito il titolo di «Figlio di D io», al quale sono collegate indubbiamente concezioni non solo relative alPesistenza; infatti secondo 1,4 egli ha «ereditato» questo nome. N é tan tom eno Gesù viene definito «Figlio» per distinguerlo da Gesù = G io suè (4,8), come sostengono alcuni interpreti. Questo titolo cristologi co afferma piuttosto chi è realmente Gesù, innanzitutto in quanto con tenuto principale della confessione di fede. Perciò ci viene precisato che la sua funzione consiste nel ministero sacerdotale per il m ondo in tero e per tutti gli uomini (v. già 1,3 e 2,5 ss.). Di conseguenza, ogget to della «professione di fede» cristiana non è affatto semplicemente una verità o una concezione a cui astrattamente aderire o meno; si tratta invece di un qualcosa che si riconosce e si approva esistentivamente, nel quale si ripone la propria speranza, consapevoli che altrimenti non ve ne sarebbero altre. N ella «professione di fede», inoltre, si esprime la lode delPuomo ricolmo di lieta fiducia (cf. 4,16; 10,19). In Ebr. la testimonianza teologica e l'esaltazione liturgica si indirizzano in m o do unico a Gesù, che ha ereditato il titolo di «Figlio di Dio» e nell'a dempimento della propria mansione sacerdotale «è passato attraverso i cieli». Quale significato ha tale espressione? Riteniam o sia da esclu dere l'ipotesi che, seguendo la teoria gnostica che conosce l'idea del «viaggio celeste dell'anima», si riferisca a un ritorno o a un'ascensione del salvatore attraverso le sfere celesti (cf. ad es. Test. L evi 3; Asc. Ies. 7 ss.). Sia il contesto che il linguaggio (v. «passare attraverso») sugge riscono piuttosto che l'evento sia descritto in analogia al procedere del sommo sacerdote che entra nel santo dei santi del tempio geroso limitano nel grande giorno dell'espiazione. Stando alla descrizione di Flavio Giuseppe (Bell. 5,5,3 ss.) bisognava passare attraverso due ten de, all'ingresso una del santo l'altra del santo dei santi. Ornate di sim boli cosmici, le tende dovevano essere una raffigurazione del cielo. L 'id ea che non si tratti di un'ascensione al mondo celeste presentata in
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m odo mitico, ma di una rappresentazione del ministero di Gesù col ri corso al noto rituale del tempio nasce non ultimo dalla constatazione che ora anche i cristiani hanno accesso al «trono della grazia». 15 . D al v, 15 risulta evidente che Pautore mira a descrivere la man sione sacerdotale, non a elaborare speculazioni sulla redenzione. C o me in 2 ,17 ss., l’ attenzione è rivolta all’aspetto terreno del ministero sofferto e sanguinante di Gesù. È evidente che il diritto a una gioiosa professione di fede si basa non sulla figliolanza divina di Gesù, ma sul la sua umanità. Quanto alla scena del ministero, essa è duplice, com prendendo il cielo e la terra. C iò che lì avviene acquisisce significato immediato per comprendere la conferma da parte di Dio. In prim o luogo è detto che Gesù è stato in grado di com-patire le nostre debo lezze. Era una persona fatta di «sangue e carne» (2,14). Patì e sofferse, proprio come tocca dolorosamente a qualsiasi uom o di questa terra, né tantomeno gli sono state risparmiate le lotte interiori personali. N on solo dovette resistere alla tentazione «nello stesso modo» (cf. 2,18), ma anche «in ogni cosa». Le tentazioni non gli si presentarono singo larmente o in modo sporadico, ma costituirono un esame in cui tutta quanta la persona dovette dar prova di sé. N e faceva parte anche la ne cessità di una decisione estrema, che riguardò la tremenda eventualità dell’apostasia. L ’accento è dunque posto sull’espressione «(ma) senza peccato», che segue la caratterizzazione dell’umanità di Gesù. Tale espressione non dà un giudizio sul m otivo delle tentazioni, ma valuta l’effetto finale. N ella teologia d’impostazione biblica delPautore, il «peccato» cui Gesù si oppose parafrasa l’infrazione dei comandamenti di Dio, anzi, in fondo è il rifiuto stesso di D io (cf. 4,16 ss.). L ’espres sione in parola non va dunque intesa in senso etico-morale, magari in considerazione degli innumerevoli peccati di ogni giorno, come p o trebbe suggerire un fraintendimento moderno; essa si basa invece sulla volontà di D io resa manifesta, alla quale Gesù obbedì in una situazio ne limite radicale. N el caso di Gesù, dunque, il pericolo non consiste va unicamente nel commettere un cosiddetto peccato, ma nel divenire infedele a Dio. Egli vi si oppose. L a validità di questa interpretazione è confermata da 5,7 ss. Da un certo punto di vista, tutta la tradizione dell’Antico Testamento si attiene alla «impeccabilità» di Gesù nel sen so descritto. Sebbene predeterminato come caratteristica del servo di D io sofferente (cf. Is. 53,9), e addirittura insegnato in Filone a p ro p o sito del sommo sacerdote e logos divino (Fug . 108), criterio di una cor
Ebr. 5,1'4- La cura dei doveri sacerdotali
retta comprensione resta pur sempre il fatto delFobbedienza dim o strata sulla croce ( F U . 2,5 ss.; 2 C o r . 5,21; 1 P t . 1,19; 2,22; 3,18; 1 G v . 3, 5 ecc.). 16. Il fondamento della fede cristiana è dunque essenzialmente e o ri ginariamente di tipo storico, non tanto prodotto di una fantasia reli giosa. L a form ula «senza peccato» fìssa la sostanza della questione co me una sigla teologica, poiché ne derivano conseguenze liberatorie. Il trono di D io, insomma, non è un trono del giudizio, ma un trono di grazia. C on l’intronizzazione di Cristo, i rapporti tra uom o e Signore sono cambiati. C hi gli si accosta nel giusto modo non viene respinto; solo i nemici divengono sgabello per i suoi piedi (cf. S a i . 110,1 s. in 1, 31 e 10,13). C hi giunge non se ne va via ancora più spoglio, giacché «riceve misericordia» e «trova grazia» - due espressioni bibliche per affermare chiaramente che si tratta dell’accoglienza dell’uomo davanti a D io, e non del disvelamento di misteri divini. N ella miseria l’uom o ha bisogno di misericordia, nella colpa senza via d ’uscita necessita della grazia. In modo altrettanto tipico è detto in S a i . 111,4 c^ e ^ Si gnore «è ricco di grazia e di misericordia». Inoltre, quando si sottoli nea che questo è m otivo di «aiuto tempestivo», probabilmente si in tende che G esù libera sempre dalla prova e dalla tentazione, ovvia mente non solo nel momento attuale. Q uest’asserzione acquista valo re soprattutto sullo sfondo delP«oggi», ma non si limita affatto al m o mento liturgico, come prova l’espressione generica «accostiamoci dun que». G razie a Gesù, la comunità neotestamentaria può confidare nel compiacimento divino in ogni problem a e in ogni tentazione. Il con cetto un p o ’ convenzionale dell’ «aiuto» (v. anche 2,18) sembra adattar si egualmente alla testimonianza della Scrittura (per il gruppo dei sal mi d e l l * h a l l e l cf. S a i . 115 ,10 ss.; S a i . 118,6, citato in 13,6). L a cura dei doveri sacerdotali è legata a determinati presupposti
(S>i-4 ) 1 Infatti ogni sommo sacerdote preso fra gli uomini viene costituito a favo re di uomini in relazione al rapporto con Dio, per offrire a Dio doni e sa crifici per i peccati, 2 per cui egli è in grado di essere comprensivo con quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, in quanto egli stesso è carico di debo lezza. 3 E perciò fa parte dei suoi doveri offrire per se stesso come per il popolo (sacrifici) per i peccati. 4 Inoltre nessuno può attribuirsi tale ono re, ma viene chiamato da Dio, proprio come Aronne.
Ebr. 5,1-4. La cura dei doveri sacerdotali
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1-4. La pericope illustra il significato e il compito dell’ufficio sacer dotale. Vengono elaborate le caratteristiche generali per poi applicarle a Cristo (5,5-10). Perciò non ci troviamo davanti alla m otivazione di 4 ,14 -16 , quanto a una dimostrazione esplicativa al cui centro vi è la massimo e più importante carica della comunità statale e cultuale giu daica. 1. L ’attenzione tuttavia non si volge alla posizione politica del som mo sacerdote, che era al tempo stesso presidente del sinedrio, massi m o giudice e rappresentante dello stato, ma esclusivamente al suo com pito cultuale sacerdotale «davanti a Dio»; e in particolare è la solenne liturgia nel grande giorno dell’espiazione che viene presa in conside razione. Questo avviene in modo tale da sottolineare tutti quei m o menti che sono essenziali per la sua azione vicaria in tale giorno. Della festa in particolare ancora non si parla (v. sotto, cap. 9), ma si illustra no le circostanze in cui al sommo sacerdote viene conferita la sua di gnità incomparabile: «preso fra gli uomini è costituito per uom ini in relazione al rapporto con Dio». In questo modo si richiama alla mente ciò che di lui è detto nell’Antico Testamento (cf. Es. 28 ss.; Lev. 16; Num. 18 ss. ecc.) e non ciò che si è andato via via aggiungendo in man sioni e specialità nel corso della storia dTsraele. N el sommo sacerdote si incarna la convinzione che davanti a D io debba essere un uom o a intercedere per gli uomini, «per offrire doni e sacrifici per i peccati». È possibile che con ciò si pensi a offerte incruente e di sangue. A ncor più probabile è che s’intendano le varie offerte presentate dal sommo sacerdote nella festa dell’espiazione, e specificamente le offerte di san gue (8,3) perché rivestono un’importanza particolare (cf. Lev. 16 ,15). A ciò si aggiunga che il sommo sacerdote poteva agire in questo modo per sé e per il popolo solo nel grande giorno dell’espiazione. 2 s. Il significato del rituale emerge piuttosto chiaramente nei due versetti successivi, 2 s. L ’affermazione che pone il sommo sacerdote sullo stesso piano di «quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore» per attribuirgli una «debolezza» che dev’essere anch’essa espiata può esse re adeguatamente compresa solo in base a quanto avviene nel giorno dell’espiazione. Com e è noto, in tale occasione il sommo sacerdote pronunciava una confessione dei peccati rispettivamente per sé, per il gruppo dei sacerdoti e per tutto il popolo (mjoma 3,8; 4,2; 6,2); in essa si implorava il perdono per ciò che nell’anno trascorso era stato og getto di «mancanza, violazione, peccato». Evidentemente dovevano es
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sere presentate a D io tutte le mancanze commesse, involontarie e non intenzionali, lievi e gravi, consapevoli e inconsapevoli, eccetto ovvia mente quelle che com portavano un radicale rifiuto (Num. 15 ,2 2 -3 1). L'espressione «quelli che sono nelPignoranza e nell'errore» si riferisce a questo contesto. Q uando inoltre del sommo sacerdote è detto che è benissim o in grado di «capire», di «soffrire» e «sentire», il testo origi nario corrispondente (v. anche 4 ,15) intende la capacità insita nella natura umana di sbagliare, violare e peccare in modo solidale, per quanto essa possa tenersi nel giusto m ezzo tra l'em pia passione e la divina incapacità di soffrire (Filone, Abr. 257; Deus 162 ss.). L a realtà di una «debolezza» di fondo che coinvolge la persona intera è tale an che per il sommo sacerdote, il quale quindi, secondo la legge, era «obbligato» a pronunciare una confessione dei peccati «per sé come per il popolo», e a «offrire (sacrifici) per i peccati» (cf. mjoma 1,2). Particolarm ente solenne e importante era il tamid al mattino del gior no dell’espiazione, come pure gli altri atti sacrificali. A i fini della sua argom entazione, in questo passo Ebr. rinuncia ai particolari che gli sono noti. 4. U n altro punto di vista rilevante è la constatazione che nessuno è in grado di arrogarsi da solo la «carica» o «onore» di sommo sacer dote, ma deve riceverla da D io, come è dimostrato da Es. 28,1 ss. in relazione ad Aronne. D ietro tale funzione vi è dunque la chiamata di vina, non la propria volontà o la propria aspirazione. A ronne, in quan to antenato del sacerdozio levitico, venne prescelto da D io «per essere mio (cioè di D io) sacerdote». Laddove ci si arroga ingiustamente di ritti sacerdotali, come si proponeva la rivolta di Core (Num. 16), entra in scena il giudizio di D io, poiché «farà avvicinare a sé (solamente) colui che egli avrà scelto» (Num. 16,5). Q uale significato teologico collega l'autore al sacerdozio giudaico? Il suo pensiero si basa su linee di fondo bibliche, ma a quanto pare parla di un'istituzione ancora esistente, il che rimanda agli anni prece denti la distruzione del tempio (70 d.C.). Senza alludere a personalità specifiche che, come si sa, in tarda epoca giudaica furono spesso con testate, indirizza i suoi pensieri al ministero sacerdotale come ideale. L'im portan za unica nel suo genere gli deriva dall'istituzione e dal com pito. È stato D io a volere per il suo popolo il ministero sacerdotale, ragion per cui Aronne e il sacerdozio levitico furono prescelti per Israele. Evidentem ente bisogna che siano degli uomini ad agire con
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funzione sacerdotale vicaria in favore di altri uomini, perché il popolo di D io gli si presenti santo e puro. Per poter prestare un giusto servi zio occorre dunque la solidarietà con gli uomini peccatori e deboli. Tale servizio è necessario ovunque il fallimento e la colpa si facciano largo. C iò che nell’Antico Testamento appare come un’elezione parti colare ed esclusiva, neL N uovo diviene compito di tutti. Chiamato da Dìo, per la sua assoluta obbedienza Gesù divenne autore della salvezza (5,5-10) 5 Così anche Cristo non si attribuì da sé l’onore di divenire sommo sacer
dote, ma (lo fece) colui che gli parlò così: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato». 6 E lo stesso dice in un altro passo: «Tu sei sacerdote in eterno se condo l’ordine di Melchisedec». 7 II quale nei giorni della sua carne offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva salvarlo dalla morte, e fu esaudito per la sua angoscia; 8 sebbene fosse il Figlio, da quello che patì imparò l’obbedienza, 9 e avendo sperimentato la perfezio ne, divenne causa «della salvezza eterna» per tutti quelli che sono obbe dienti, 10 nominato da Dio sommo sacerdote «secondo l’ordine di Melchi sedec». 5 Sai. 2,7. 6 Sai. 110,4. 7 Sai. 1 16,1 ss. 9 Is. 45,17. 10 Sai. 110,4.
5 s. L ’esito delle considerazioni di 5,1-4 viene applicato a C risto in una pericope a parte, per dimostrare che il senso ultimo del sacerdo zio veterotestamentario in lui si è trovato incarnato, adempiuto e su perato. U n tipico «così anche» stabilisce il confronto tra A ronne e Cristo; per prima cosa si sottolinea che neppure il secondo si è attri buito da sé l’ «onore» e la «gloria» dell’ufficio sacerdotale. Q uando «divenne» sommo sacerdote - allusione alla sua passione - ciò accad de secondo la volontà e la parola di Dio. Le due citazioni tratte da Sai. 2,7 e Sai 110 ,4 (cf. 1,13 ) contengono la promessa fatta a C risto di es sere Figlio e sommo sacerdote, rafforzando così il privilegio spettante a Gesù di potersi presentare davanti a D io, Padre e Signore. M entre Sai. 2,7 sottolinea maggiormente l’incarico di Figlio, Sai 110 ,4 ne evi" denzia la perpetua dignità di sommo sacerdote. U na promessa elettiva di D io trova sempre chiara espressione. La combinazione delle due ci tazioni indubbiamente ha motivazioni sostanziali, per quanto possa presupporre anche determinate regole relative alla tecnica interpreta tiva (cf. Sai. 2,7 e 110 ,3). Se ciò è esatto, allora in questo contesto non
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Un inno in 5,7 ss.?
si tratta tanto delPelaborazione di una cosiddetta dimostrazione p r o fetica della costituzione di Gesù come sommo sacerdote, quanto del chiarimento inequivocabile della sua vocazione unica e irripetibile. Le parole, infatti, lasciano intendere che con Gesù D io puntava a qualco sa di più grande che non con A ronne e il sacerdozio levitico. L a sua mansione sacerdotale consistette nella passione, con la quale «divenne som m o sacerdote». Verosimilmente Pimpiego di Sai 2,7 (e in partico lare «Io oggi ti ho generato») mira alla fattispecie delPinsediamento di G esù nella dignità sacerdotale conseguita (5,10). Per quanto riguarda Sai. 110 ,4 , orientamento è fuor di dubbio. N e consegue che P«oggi», proprio come in Sai. 95,7, ha un particolare significato kerygm atico grazie al quale la morte e Pesaltazione di Gesù si presentano come svolta escatologica di im portanza cruciale. Definiscono il fondam ento di un ministero perpetuo, perciò con la citazione si può tranquilla mente parlare solamente di «sacerdozio», tanto più che il testo man tiene chiaramente Pespressione unica «secondo Pordine di M elchisedee». L'im portanza che ciò riveste verrà minuziosamente spiegata più avanti (cap. 7). Intanto qui ci viene già anticipato che il sommo sacer dozio di A ronne non solo è stato incarnato per Pultima volta, ma è sta to anche superato ed estinto (7,12). L a ragione di questa nuova «isti tuzione» trova una spiegazione nelle frasi seguenti (5,7-10), che pur rifacendosi a Sai 110 ,4 in m odo poco logico, tuttavia, se viste in di pendenza dal v. 5a, acquistano un loro significato. U n inno in 5,7 ss.? Linguaggio e stile ebraizzante dei vv. 7 -10 in tempi recenti hanno ripetutamente dato m otivo di vedervi un fram mento innico rielaborato (E. Kàsemann) o una professione di fede (G., Schille). Si è tentata persino una ricostruzione (G. Friedrich, H . Zim mermann). In genere si parte dal sicuro presupposto che in questi v e r setti si rispecchi un testo preform ato (M. Rissi, J. Jeremias). U na spie gazione più ovvia delle particolarità linguistiche e materiali si ha pren dendo in considerazione l'eventualità, plausibilissima per il metodo omiletico, che la raffigurazione della disperazione e del tormento di G esù possa effettuarsi partendo anche dalla prova scritturistica. Si pen si anzitutto a una serie di testi di salmi pertinenti, per cui accanto a Sai 22,3.25, Sai 3 1,2 3 , Sai 39 ,13 e Sai. 69,2 ss. la preferenza va netta mente al Sai 1 1 6 (= Sai 1 1 4 e 1 1 5 L X X ) (cf. E. G ràsser e Fr. Schròger). L a critica non può contestare l ’esistenza di numerose dipenden
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ze e contatti, per non dire che la conoscenza fondamentale del m eto do omiletico di Ebr. torna a tutto vantaggio di una tale spiegazione. D i conseguenza l’autore ha rielaborato un testo che la comunità p ri mitiva aveva riferito a Cristo, prendendolo invece dal gruppo dei sal mi delYhallel. Esso poteva servire come nessun altro a illustrare la lot ta interiore di Cristo, il quale è rivestito di «debolezza» (5,2); al tempo stesso può tuttavia avere inciso anche la tradizione di una preghiera drammatica di Gesù (v. il racconto del Getsemani, cf. in particolare Le. 22,44; Me. 14,32 ss.; Gv. 12,27 ss-)- Sembra più illuminante l’ipo tesi che la circostanza storica, di cui in un prim o tempo dovette es servi una tradizione, sia stata sì importante, ma non tanto quanto la relativa riflessione cristologica, in base alla dimostrazione profetica. 7. Il passaggio dal v. 6 al v. 7, che a prima vista sembrerebbe illogico («il quale») e con cui viene introdotta la testimonianza biblica sul Cristo sofferente, poggia sul fatto che Ebr. ricorda qualcosa di cono sciuto, probabilmente per alludere a espressioni tipiche del testo bibli co. La descrizione della figura del Cristo biblico della passione porta alla costruzione di una frase piuttosto lunga (ricca di participi) in 5,710, che dalla miseria di Gesù giunge al Cristo innalzato, perché il suo sommo sacerdozio si basa sulla dialettica del destino che da lui ci si aspetta (5,5). Apprendiam o che nulla gli fu risparmiato «nei giorni della sua carne», ossia durante la sua esistenza terrena, che comprese la schiavitù sotto il timore della morte (2,14 ss.) e l’esperienza della «debolezza» (5,2). Anche il salmista invoca D io «nei suoi giorni», os sia durante la sua vita (Sai. 116,2). D i fronte alla morte C risto ha o f ferto «preghiere» e «suppliche», duplice espressione usuale che equi para la sua preghiera ai doni del sommo sacerdote, come indica l ’im piego della locuzione «offrire (sacrifici)» relativa al culto (cf. Filone, Cher. 42). A llo stesso modo anche il salmista di Sai. 1 1 6 ,1 in pericolo di morte offre la sua «invocazione». Forse Ebr. ha illustrato con un m o do di dire tipico il contesto che gPinteressava in relazione a «preghie ra e intercessione». L ’inconsueta lotta che C risto deve sostenere nella preghiera viene illustrata con pochi tratti secondari che parlano di «forti grida e lacrime», probabilmente in parte sull’esempio di Sai. 116 ,8 (cf. anche Sai. 22,25). Si potrebbe supporre che la tradizione re lativa alla passione che tratta di una «lotta nel Getsemani» (v. in parti colare Le. 22,41) sia stata rielaborata in senso biblico per insistere sulla
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Ebr. 5,5-ro. Gesù venne chiamato da Dio
disperazione di Cristo e al tempo stesso sul suo intervento di inter cessione presso Dio. In epoca più antica furono indubbiamente in p ri mo luogo i salmi a favorire il voluto confronto messianologico. U n C risto sofferente di questo tipo era estraneo all'attesa giudaica di epo ca neotestamentaria, ed estremamente scandaloso. M ai ottenimento dell'assenso divino apparve più urgente e sofferto che nel nostro pas so. Se vi è una tradizione molto tarda sul «gridare» e il «piangere» del messia (v. Midr. Pesiq. R. 36 (i62a)), allora questa rappresenta un'ec cezione indotta dall'annuncio cristiano. Una massima giudaica può aiutare meglio a capire: «Vi sono tre tipi di preghiera, ognuno più p o tente del precedente: preghiera, grida e lacrime. La preghiera si fa in silenzio, il grido a voce alta, ma le lacrime sono meglio di tutto» (Syn . Zohar 2,i9b/2oa). È chiaro che Ebr. parla in m odo analogo di una preghiera che quanto a fervore e avvilimento non ha eguali (cf. anche Os. 12,5 a proposito di Giacobbe; diverso invece Gen. 32,26). Può in tendere solo la lotta di Gesù con D io nei giorni della passione quan do, stando alla testimonianza dei vangeli, implora con queste parole: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice» (Le. 22,42); si poteva quindi far riferimento a Sai 1 1 6 ,1 3 come ulteriore esternazione della volontà di Gesù: «Prenderò il calice della salvezza» (v. al riguardo 5,9: «causa di salvezza»). Il testimone dei L X X viene interpretato come invocata «salvezza» di C risto dalla morte, e non come «preservazio ne» dalla morte, che nel caso di Gesù non avrebbe mai corrisposto al vero. In tale concezione Sai 116 ,3.8 dice che l'anima è stata strappata dalla morte e che il salmista cammina «nella terra dei viventi». Se si ri fiuta la versione a volte ipotizzata per cui il Cristo orante venne esau dito «non per la sua angoscia», allora la preghiera invocante la salvez za dalla morte è effettivamente stata ascoltata. C ’è chi suggerisce che C risto venne esaudito «per la sua pietà». Contro tale ipotesi vi sono sia argomenti d'ordine linguistico (cf. 12,28) sia il contesto stesso. L 'i dea di Ebr. evidentemente è che C risto abbia superato quell'angoscia tremenda proprio grazie alla certezza di essere salvato dalla morte. In fondo anche il Sai 1 1 6 accenna a questo: qui l'orante parla esplicita mente della propria «angoscia», e osserva che la «morte dei suoi santi» è preziosa agli occhi di D io (v. Sai 1 1 6 ,1 5 e cf. Str.-Bill. 1, 847). 8. Q uest'idea estremamente audace sostiene che nel momento della tentazione più grande, l'eventualità stessa della morte, C risto ha d i m ostrato un'obbedienza filiale. Il gioco di parole «imparò... patì» tro
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va i parallelismi più stretti in Filone, che lo utilizza di frequente (ad es. Fug. 138). N on si pensa alla disposizione d’animo devota e virtuo sa di Gesù, ma alla prova unica e irripetibile superata negli abissi delFangoscia e nella notte della tentazione, quando divenne veramente uno con noi uomini. Proprio per questo al Figlio non è stato rispar miato nulla da D io. Tuttavia non si può parlare di arbitrarietà, poiché egli, pur riluttante, prese su di sé la sofferenza (e la morte) che p rovo cò il «perfezionamento». Egli ancora non era quello che sarebbe di ventato, ossia sommo sacerdote, sebbene fosse stato prescelto come Figlio. Quando è detto che dovette imparare «la» obbedienza, sicu ramente s’intende un sacrificio di proporzioni tali da superare ampia mente i limiti del consueto. Quanto asserisce Ebr. trova in FU. 2,7 ss. il parallelo paolino più prossimo. La vera condizione di figlio si ottie ne solo mediante l’ obbedienza - elaborata frase fondamentale della teologia biblica relativa alla conoscenza, che fa apparire sbagliato in terrogarsi su un mito gnostico di redenzione il quale avrebbe potuto influire sull’esposizione. N on sono la presunta natura divina, né tan tomeno il «sapere» o la «conoscenza» (gr. gnosis) a schiudere all’uom o la salvezza, ma unicamente la fede e l’obbedienza (v. anche 4,2). 9. Si può dirlo in modo meno mitico e filosofico? Presso D io non esiste alcun automatismo del processo di redenzione. Ebr. sviluppa un duplice pensiero: che Gesù in quanto «reso perfetto» è m otivo di sal vezza per gli uomini, e che inoltre mostra esemplarmente il come tale redenzione sia possibile. «Perfezionamento» si ha con l’ assoluta o ffer ta della vita davanti all’altare di D io (cf. 4,16), cioè donandosi a lui e dando prova di sé nella condizione di empietà. Considerando i presup posti di questo concetto (cf. Es. 29,9.33; Lev. 8,33; 16,32; 2 1,10 ; Num. 3,3), si potrebbe affermare che l’uomo non può presentarsi a mani vuote di fronte a D io, ma deve offrire almeno se stesso. D al sacrificio di Gesù nasce la necessità per l’uomo di essere totalmente legato a lui. Se fosse soltanto un modello, vi si potrebbe rinunciare. M a se egli è al tempo stesso anche causa della nuova realtà, chiamata «salvezza eter na» (forse secondo Is. 45,17; o piuttosto secondo l’ espressione «sacer dote in eterno»; cf. in particolare anche Filone, Agric. 96), allora non esiste perfezionamento al di fuori del fondamento posto. C on il C ri sto della passione si è aperto dunque l’ accesso a una vita di donazione e di accoglienza da parte di Dio, in quanto definisce la misura e l’og getto della fede.
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Ebr. 5,11-6,20. Comunità e speranza eterna
io. A lla fine della riflessione Ebr. colloca il pronunciamento di D io tratto da Sai 1 10,4. Parla di un «annuncio pubblico» e dunque di una «solenne proclam azione», per cui ora oltre al testo del salmo si parla anche esplicitamente di «sommo sacerdozio» di Gesù. La conclusione delle riflessioni di 4 ,14 -5 ,10 fa capire che c’è qualcosa di ancora più profondo da spiegare. Soprattutto l'espressione «secondo l'ordine di M elchisedec» è tanto enigmatica da richiedere una spiegazione a parte (cf. 7,1 ss.). C o n tro o g n i pigrizia che conduce alPapostasia irrevocabile, la com unità deve aspirare alla m atu rità, tan to più che D io le ha ferm am ente prom esso una speranza eterna (5,11-6 ,20 ) C o n l'afferm azione entusiastica che D io ha solennemente proclam a to C risto «sommo sacerdote secondo l ’ordine di Melchisedec» (Sai 110 ,4 ), Pautore torna al centro tematico della sua omelia. Tuttavia ri nuncia ad a d d e n tratisi subito. Forse che improvvisamente ha l’im pressione che i suoi lettori potrebbero non dedicare all’ esposizione la dovuta attenzione? È più probabile che dopo attenta riflessione sia stato inserito un ulteriore passaggio allo scopo di scuotere l’uditorio, come è nel carattere dell’ omelia che si definisce «parola di esortazio ne». Q uella che potrebbe sembrare un'idea repentina è invece un m o do di procedere intenzionale. Se ne ha conferma nella conclusione di questa parte che, con nuove esortazioni, si conclude anch'essa con le parole di Sai 110 ,4 . Queste pericopi di rim provero riferite a una spe cifica situazione della comunità corrispondono in tutto alla form a del l'om elia prescelta. G li enunciati di 5 ,11-6 ,2 0 comprendono due parti diverse che si differenziano nettamente nel tono usato. Fino a 6,8 pre valgono l'ammonimento e la minaccia di punizione, poi, sino a 6,20, è la volta di incoraggiare e infondere fiducia. Evidentemente all'autore erano giunte notizie riguardanti la situazione poco soddisfacente della comunità a lui nota. Forse anche richiesto di una «parola di esorta zione», come usava allora, dopo u n ’accurata preparazione e non senza continui rimandi alla sua base biblica Pautore entra ora nel merito dei rapporti all'interno della comunità. N o n è quindi un caso che sia p ro prio questa pericope a mettere maggiormente in luce il carattere om i letico attuale dello scritto. Se in 3 ,7 -4 ,11 aveva insistito essenzialmente sulla responsabilità dei cristiani per la singola persona, ora concentra
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definitivamente l'attenzione sulla comunità nel suo complesso; l'aspro rim provero d'immaturità spirituale e l'accenno a un'im possibile secon da penitenza vanno seriamente intesi, benché sotto un certo aspetto rientrino anche nei doveri omiletici. In caso contrario difficilmente vi sarebbe la motivazione fornita da 6,12: «... affinché non diventiate pi gri». Questo modo di procedere costringe a riflettere sul significato generale di un simile disegno in bianco e nero. Che gli interpellati, in definitiva, non siano poi valutati proprio come immaturi, risulta chia ramente da quanto segue, dove non viene loro celata tutta la profondi tà della conoscenza cristologica (capp. 7 ss.). Il rim provero mosso agli ascoltatori, per cui non sarebbero abba stanza «perfetti» per le idee che verranno presentate, indubbiamente intende destarne l'interesse, come si riproponeva l'antica arte oratoria. Il passaggio evidenzia in modo particolare quanto, in fondo, stesse a cuore all'autore un discorso liturgico solenne. Perlomeno a una parte degli ascoltatori viene richiamato alla mente il periodo iniziale della loro esistenza cristiana, forse allo scopo di ottenerne al tempo stesso anche un rinnovamento e un approfondimento della professione di fe de fatta al momento del battesimo. N el complesso si può tuttavia af fermare che a quanto pare i neobattezzati non sono un tema a parte della lettera. Forse questo può dipendere dal fatto che abbiamo a che fare con una comunità giudeocristiana (cf. 6,6), la quale invece di ri uscire a sviluppare una forza missionaria maggiore, si trova a dover affrontare i problemi creatisi al suo interno. 1 1 - 1 4 . In particolare i concetti di questa riflessione presentata in forma fortemente retorica procedono in questo modo: 5 ,1 1 - 1 4 m oti vano la necessità dell'omelia con la pigrizia spirituale della comunità, i cui componenti, a dire il vero, dovrebbero essere ormai in grado di es sere essi stessi dei maestri. Il termine «pigro, torpido» delimita il te ma-guida sino a 6,12. L ’omelia stessa deve costituire un passo decisivo per dimostrare le verità più profonde di cui si interessa una fede ma tura. I pensieri ruotano quindi tutt’intorno al tradizionale circolo di immagini: bambino-adulto, latte - cibo solido, ignaro-perfetto. Che in questo m odo a essere interpellata non è una parte della comunità, bensì la comunità intera, dimostra che un intento catechetico è stato espres so con linguaggio filosofico (cf. ad es. anche Filone, Agric. 9; Migr. 29), e che non siamo davanti a una dottrina gnostica della perfezione. In questo vediamo inoltre una netta differenza rispetto a 1 Cor. 3 ,1-3 .
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6 ,1-6 esorta a spingersi finalmente al di là delle nozioni elementari, come si confà a persone che sono state «una volta illuminate». L a ri flessione si conclude con parole ammonitrici che ricordano come non esista una seconda penitenza per coloro che hanno apostatato, poiché il rifiuto di C risto equivarrebbe a una nuova crocifissione del Figlio di D io compiuta di persona. 7 s. I versetti 6,7 s. presentano una breve parabola sulla fertilità del la terra, che può ricevere la pioggia per la benedizione o per la maledi zione. L a form a della raffigurazione è analoga a quella di 4 ,12 ss., d o ve alla stessa maniera vengono introdotti toni da giudizio. 9 -12 . C on 6,9-12 si ha una netta svolta di pensiero: con saggi accen ti pastorali ci si appella alle forze buone attive nella comunità. Lettori e ascoltatori vengono ora chiamati addirittura «carissimi». 1 3 - 1 8 . 1 vv. 6 ,13 -18 con l'intento di rafforzare la decisione rim an dano all’esempio di Abram o, il quale grazie alla sua perseveranza ot tenne quella promessa che anche oggi è ancora motivo della speranza cristiana. In questo m odo l'autore, materialmente e concettualmente, ha fatto nuovamente ritorno al tema principale, come indicano anche i concetti impiegati (v. ad es. 6 ,17 .18 ). Questa attenzione è confermata anche dalla nuova menzione di un giuramento di D io (v. sopra, 4 ,1 1 , e sotto, 7,2 r) che garantisce il fondamento della speranza cristiana. 19 s. I due versetti conclusivi, 6,19 s., definiscono nettamente il pas saggio al pensiero omiletico principale in cui lo sguardo è rivolto sia indietro che in avanti (cf. 2 ,17 ss.; 4 ,14 ss.; 7,1 ss.; 9,1 ss.). Rispetto a 5 ,10 il versetto 6,20 presenta un impiego più completo di Sai 110 ,4 . N el complesso si può parlare di un’energica ripresa del tema principa le dell’omelia, stavolta però in via definitiva. La condizione spirituale della comunità non è soddisfacente ( 5 >J I _ I 4 ) n Su questo argomento dobbiamo fare u n ’ampia omelia, difficile anche da spiegare, poiché siete diventati duri d’orecchio. 12 E voi che da tempo or mai dovreste essere maestri, avete ancora bisogno che vi s’ insegnino certi primi fondamenti delle parole di Dio, tanto più che vi siete ridotti ad avere ancora bisogno di latte invece che di cibi solidi. 13 Infatti chi riceve ancora il latte perché ignaro del giusto discorso è immaturo. 14 II cibo solido in vece è per persone mature le quali, attraverso l’esperienza, posseggono sen si esercitati a distinguere il bene dal male.
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1 1 . È la riflessione sostanziale del predicatore e teologo che spinge l'autore a non sviluppare subito l ’ultima testimonianza, a non parlare subito di «questo argomento», ossia la frase centrale improntata al Sai 110 . Deve dilungarsi in un'ampia esposizione e in una spiegazione dif fìcile da illustrare soprattutto perché i cristiani interpellati sono diven tati «duri d’orecchio», alla lettera «torpidi di udito». D a un punto di v i sta puramente formale l’ autore giustifica la successiva ampiezza degli enunciati (cf. 7 ,1-10 ,18 ) con la difficoltà dell’intento che lo anima. D ’al tra parte giunge a spiegare che ampiezza e difficoltà sono proprio ciò di cui la comunità ha bisogno. In altre parole, non è semplice parlare dell’argomento che segue. Cosa ancora più importante, non è affatto scontato poter essere ascoltatori. Il mistero della persona di C risto non si disvela così facilmente né tantomeno lo si può avvicinare con pigri zia o indifferenza. Bisogna smettere di essere duri d’orecchi, difetto proprio di ogni comunità media. L ’autore non ha intenzione di illu strare il mistero di Cristo secondo il Sai n o staccandolo da un’ analisi critica della situazione interna della comunità. Il rim provero per chi è duro d’orecchi è aspro, e stando al contesto mira anche alla speranza languente degli interpellati (cf. 6,12). Se già prima gli ammonimenti non mancavano, lo stesso non si può dire di affermazioni dirette che ci potessero far conoscere più da vicino la comunità destinataria dello scritto. Per questo passo però è diverso. Evidentemente l ’autore si è ac corto che la verità umana, che può essere oltremodo scomoda, diventa esprimibile solo di fronte alla più profonda verità di Cristo. Laddove questo accade, quella che noi chiamiamo critica non ha l’ultima paro la. O ccorre sia dimostrarne la fondatezza (cf. 6,7 ss.) sia destare il co raggio e la fiducia per poter prendere l’ altra strada, quella migliore (co sì 6,9 ss.). D i là del retore e del teologo s’intravede il padre spirituale. 12 . In fin dei conti, coloro che in lui vedono il maestro, e sicura mente devono averlo anche cercato come tale, dovrebbero essere già da tempo essi stessi dei «maestri». La formulazione fa pensare che l’ au tore di fatto sia ben informato riguardo alla nascita della comunità, avvenuta alcuni anni prima. Verosimilmente proprio a lui si deve ad dirittura la conversione cristiana o perlomeno l’istruzione decisiva. In fondo, la comunità dovrebbe ormai essere in grado di compiere ciò che invece si aspetta da lui. Naturalmente non tutti sono in grado di essere «maestri» (compito eminente, v. ad es. 1 Cor. 12,28), però esiste una crescita spirituale che si richiede a tutti. N on è che tale afferm a
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zione si riferisca a un periodo di catecumenato piuttosto lungo e in fondo inutile, quanto a un processo di maturazione successivo al bat tesimo, che non c'è stato pur rientrando nelFessere cristiano. N o n ri guarda un perfezionam ento interiore nel senso di una «divinizzazio ne» come per gli gnostici, ma dello sviluppo della capacità d'insegna mento, che comporta anche la facoltà personale di penetrare nella ve rità di Cristo. Ebr. dà così voce a una concezione fondamentale del p ri mo cristianesimo per cui in sostanza ogni cristiano è istruito direttamente «da Dio» (cf. 1 Tess. 4,9), della qual cosa egli, che ha ricevuto lo Spirito, può di fatto essere a conoscenza (cf. 6,4 ss.). Tanto più deplo revole è che gli interpellati siano rimasti visibilmente inattivi, ossia spiritualmente «torpidi», ragion per cui devono ricevere nuovamente «certi prim i fondamenti delle parole di Dio». In questo versetto non va esclusa la possibilità di un'altra versione: «Voi... avete nuovamente bisogno di qualcuno che v'insegni i primi fondamenti delle parole di D io». In questo caso sarebbe maggiormente accentuata la contraddi zione per cui essi, che dovrebbero essere già in grado d'insegnare, ne cessitano ancora di un maestro. Privilegiando la traduzione da noi proposta si mette maggiormente in risalto che si sta parlando di deter minate nozioni basilari, elencate poi di fatto in 6,1. Il termine «fonda menti iniziali», impiegato in filosofìa, rimanda probabilmente a inse gnamenti di base impartiti ai catecumeni. Quanto alle «parole di D io» che ne sono l'oggetto, la scelta dei concetti rivela forse che la com uni tà non sa interpretarle come «pronunciamenti divini» riguardanti G e sù. Effettivam ente si tratta di qualcosa di più, ossia della profondità della conoscenza relativa a Cristo, con cui intenzionalmente si porta un argomento di ragione, mentre non si presenta affatto un criterio gnostico per l'essere cristiano (cf. 6,1: «insegnamento iniziale su C ri sto»). Il livello assolutamente insoddisfacente della capacità d'insegna re è tratteggiato infine anche in u h . Ebr. riprende un'immagine usua le tanto nella filosofia (cf. Filone, Omn. prob. 160; Epict. 2,17) quanto nel cristianesimo delle origini (/ Pt. 2,2), che qui ha una certa asprezza critica. N o n considerano che sono ancora nella condizione del bam bino, anzi del lattante, mentre da tempo ormai dovrebbero essere maturi e indipendenti (cf. anche Filone, Migr. 46)? C o n coerente logi ca, Ebr. riferisce l'immagine alla «persona incapace di parlare», non autonoma e che deve essere servita invece di agire da sé, esprimendo in chiari termini quali sono i suoi pensieri. Il lattante che si nutre di
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latte e non di «nutrimento solido» vive in uno stato di dipendenza e passività (cf. Filone, Agric. 9). 13. U na frase generica e chiarificatrice sottolinea la necessità di un «giusto (= esatto) discorso». C on un linguaggio elevato e al tempo stesso ebraizzante, il testo originario parla di «discorso della giusti zia», intendendo per significato il «giusto discorso». Forse si fa già allusione al compito vero e proprio del cristiano adulto, che deve svi luppare la «giusta parola». Come anche altrove, l’autore parla di cose che tutti sanno (ad es. in 3,4) per accentuare Fovvietà di ciò che sta di cendo. C iò che rientra nella normalità dovrebbe suscitare consenso generale. Ma ciò che è valido per il quotidiano spinge anche a trarre le debite conseguenze per quanto riguarda la vita spirituale. 14. Prova di una completa maturità del cristiano non è dunque la conoscenza mistica, come per la gnosi, bensì l’applicazione della fa coltà acquisita di discernere il bene dal male. Mentre il lattante non è in grado di decidere sul tipo di nutrimento, l’uomo adulto può invece decidere benissimo se ad es. un cibo gli piace o no. M a forse la frase non vuol essere così univoca. C on l’ espressione drastica «per distin guere il bene dal male» si può anche pensare che i cristiani interpellati a dire il vero dovrebbero sapere cosa «giova» loro nell’età cristiana raggiunta. Se anche non è in discussione la loro volontà o meno di ri manere cristiani, si tratta comunque di condurre una «battaglia buona 0 cattiva». Perciò il cristiano dovrebbe acquisire «facoltà esercitate», considerazione che sottolinea come l’uomo possegga senz’altro una capacità di comprensione per le cose spirituali (v. anche Filone, Leg. all. 3,18 3: «organi di senso»), che è sottoposta, e anzi dev’esserlo, alla capacità di formazione. L o scopo dunque - per dirla in un’unica frase - è il «cristiano maturo» che si preoccupa della profondità della testi monianza e deve anche essere in grado di trasmetterla. Poiché ogni apostasia sarebbe irrevocabile, il cristiano necessita di una crescita spirituale (6,1-6) 1 Perciò, lasciando da parte la dottrina elementare su Cristo, pensiamo alle cose da adulti maturi, così da non dover gettare di nuovo le fondamenta, vale a dire il ravvedimento dalle opere morte e la fede in Dio, 2 la dottrina delle immersioni battesimali, l’imposizione delle mani, la risurrezione dei morti e il giudizio eterno. 3 Questo faremo, se Dio lo permette. 4 Infatti è impossibile che quelli che sono stati illuminati una volta, che hanno gusta
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to il dono celeste, che hanno ricevuto e sono diventati partecipi dello Spiri to santo, 5 che inoltre hanno gustato la buona parola di Dio e le potenze del mondo futuro, 6 siano rinnovati ancora una volta nel ravvedimento se dovessero apostatare, crocifìggendo di nuovo loro stessi il Figlio di Dio ed esponendolo alPinfamia. i. C o n un energico «perciò» iniziale Pautore trae le debite conse guenze per sé e la comunità. Intende guidarla verso ciò che è veram en te degno di lei. N on si limita a qualche ammonimento, come ci si sa rebbe potuti aspettare dopo quanto esposto sino ad ora, ma vuole ri mediare senza indugio alPerrore riconosciuto. Dato che dal punto di vista cronologico gli interpellati sono cristiani adulti, è ora che lo di ventino anche concretamente. In questo senso Pautore ripone molte speranze in loro (6,9). Sarebbe un ben cattivo maestro della sua co munità se volesse solo istruire e non venire subito in aiuto. Q uesto com porta che si metta da parte la «dottrina elementare su Gesù» pas sando ad argomenti adatti a persone mature. C iò che chiama «maturi tà» va compresa come opposizione alla condizione di chi è ancora mi norenne; dunque non equivale semplicemente a «perfezione» (tradu zione comunque possibile). Infine non pensa a una condizione fisico morale, bensì alla capacità, acquisita con Pesercizio, di dedicarsi a ri flessioni più profonde che com prendono non solo una parte della ve rità di C risto, ma tutto il suo complesso con le conseguenze che ne derivano. L a verità di C risto è simile a un edifìcio di cui sono state poste le fondamenta. Bisogna ancora erigere le mura, perché le fondamenta da sole rappresenterebbero un qualcosa d’incompleto, anzi di addirittura impossibile in sé (analogamente / Cor. 3,10 ss.). Essere cri stiano non è una condizione per sua natura perfetta, ma un continuo cogliere e trasmettere quelle verità che danno forma alla vita indiriz zando a uno scopo. C iò che per Ebr. è il fondamento, o Pistruzione di base, viene elencato e precisato meglio. Per prima cosa, in una frase a due elementi è menzionato «il ravvedimento dalle opere morte e la fiducia in Dio», per indicare già il rapporto reciproco tra le grandezze citate. N el tempo messianico non si può più costruire sulle «opere», ma solo sulla fede fiduciosa. Parlando di opere «morte» e di «fiducia in D io», anche se in m odo riassuntivo, emerge un contatto con il pen siero paolino (cf. Rom. 4,5). L a novità che rende possibile un agire «vi vente» è unicamente la fede delPepoca di Cristo. Perciò i due nuclei tematici hanno un rapporto tanto stretto.
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2. È chiaro che questa descrizione di un’istruzione ricevuta in un tempo precedente presuppone cristiani di origine giudaica, come con ferma anche il seguito, dove si menziona esplicitamente la «dottrina» ricevuta prima, che equivale alle «fondamenta gettate», per suddivide re in altri due grossi nuclei tematici il materiale catechetico: «la dot trina delle immersioni battesimali e dell’imposizione delle mani, della risurrezione dei morti e del giudizio eterno». N onostante il linguag gio conciso, per prima cosa si penserà che - come indica il plurale - nel giudaismo le lustrazioni e i riti di purificazione hanno sempre avuto una grande importanza (ad es. presso gli esseni). In tale eventualità non è chiaro se l’istruzione cristiana si sia espressa negativamente al riguar do, oppure se ne abbia ammesso l’uso entro certi limiti (come in 9,10). Tuttavia è altrettanto ipotizzabile che sia stata approfondita la parti colarità del battesimo di Gesù rispetto a quello di Giovanni e ad altre lustrazioni cultuali (cf. Atti 18,24 ss.; 19 ,1 ss.), ricavando quindi il ca rattere unico e irripetibile del primo in quanto battesimo dello Spirito. Considerando le frasi che seguono in 6,4 ss., questa riflessione è un p o ’ a parte, dato che sembra esservi un chiarimento di quello che in certo qual modo distingue il cristianesimo. Anche P«im posizione del le mani» è uno specifico atto cristiano che rientra nell’istruzione. C o me è noto, già la prima chiesa compiva tale azione per conferire lo Spirito santo (Atti 8 ,17.19 ; 9 ,12 .17 ; 13,3 ecc.). N o n va tuttavia dimen ticato che prendeva direttamente a modello dal giudaismo l’ ordina zione dei discepoli al compito di maestri per divenire essi stessi dot tori, con un rito in cui venivano loro «imposte» le mani, come si dice tecnicamente (cf. al riguardo Num. 27,18 ss.; Deut. 34,9). L ’autore può aver pensato che il dono dello Spirito, ricevuto con tale atto, ren deva il singolo cristiano al tempo stesso anche maestro della parola di D io, circostanza di cui i cristiani qui rimproverati non hanno appro fittato. Quando infine si fa cenno all’insegnamento riguardante la «ri surrezione dei morti e il giudizio eterno», si tratta ancora una volta di temi giudaici tradizionali. Ovviamente Ebr. può solo presupporre che il loro significato sia stato messo particolarmente in risalto alla luce della verità di Cristo. Oggetto dell’annuncio della risurrezione d ove va essere innanzitutto, anche per il giudeocristianesimo, il R isorto stes so. Questi però al tempo stesso garantisce anche l’assoluzione m ise ricordiosa nel giudizio estremo. I sei temi relativi all’istruzione ca techetica rivelano indubbiamente un destinatario giudeocristiano della
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lettera, anche se Pelenco mette in luce una certa obiettività neutrale che sottolinea al massimo come lo sforzo debba tendere a una più profonda comprensione della verità. In questo caso allora vengono schiusi orizzonti totalmente diversi. Comunque il rilievo dato ai sei temi ribadisce a sufficienza quella che deve essere considerata la dot trina fondamentale delPistruzione dei catecumeni: abbandono del pas sato, inserimento nel nuovo e infine evidenziazione della gravità della decisione presa in vista delle cose future. N on è certo poco, ma se non bisogna fermarsi a questo è proprio perché le varie linee che conflui scono in Cristo e che sottolineano il carattere irripetibile e prodigioso dell'evento sono troppo brevi. La venuta di Gesù è sufficiente come causa e m otivo di fede, ma non porta oltre per quanto riguarda lo «ze lo per la piena convinzione della speranza sino alla fine» ( 6 ,11). Q uel lo che è elencato può bastare giusto per i cristiani che sono agli inizi e intendono affrontare le difficoltà dell’ora presente, non certo per quei seguaci la cui perseveranza e coerenza, rivolta con speranza in avanti, nasce dairinesauribile verità di Cristo, dà tensione alla vita e impulso missionario alla comunità. 3. Trattandosi di qualcosa di estremamente importante, la decisione di aspirare alla «maturità» viene inoltre fatta dipendere dalla volontà di D io di coronare di successo Pimpegno comune. L'autore si esprime come il giudeo fervente (v. anche 1 Cor. 16,7) che si accerta del favore di D io, poiché la sua buona volontà da sola non basta. La frase non cela tanto il dubbio che D io possa non permettere qualcosa, ma sottolinea la certezza che con il suo aiuto tutto vada a buon fine in qualsiasi circostanza. Ebr . punta a coinvolgere in questa sua personale certezza la comunità intera che, essendo pigra, ne ha bisogno. 4. Essa sta correndo un grosso rischio, per cui è necessario che com pia tale passo. Se infatti si arrivasse al punto di rinunciare anche a quan to è indispensabile, nessun aiuto sarebbe più possibile. U na frase relati vamente estesa nega la possibilità che vi possa essere un secondo rav vedimento, ribadendo quindi, al tempo stesso, l'unicità e irripetibilità della conversione a Cristo. Si tratta di una pura constatazione, senza riferimenti specifici agli ascoltatori. Tuttavia da tali parole essi dove vano rendersi conto che era tempo di cambiare m odo di pensare e di imparare, per giungere finalmente alle verità eterne. È colpa della loro pigrizia se sono fermi, minacciati dal pericolo dell'apostasia. N o n esi ste assolutamente la possibilità di retrocedere a prim a del battesimo.
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A questo si allude parlando di «quelli che sono stati illuminati una vo l ta» (v. anche 2 Cor. 4 ,6; inoltre Iust., Apoi. 1,6 1). Da un punto di vista formale si tratta di un concetto della mistica ellenistica, ma anche il pensiero cristiano può affermare che Cristo è «irradiato» su colui che riceve il battesimo (E f 1,18 ; 5,13) come luce per la vita, poiché strappa dal potere delle tenebre (Col. 1,13 ). AlP«illum inazione», inoltre, è di rettamente collegato il ricevimento dello Spirito, «dono celeste» che trasmette vita celeste e forze ultraterrene. N on lo si possiede, ma se ne diviene partecipi, in quanto lo Spirito contraddistingue ampiamente la realtà attuale del C risto esaltato, realtà che nessuno può rivendicare per sé solo. Quando poi è detto che i cristiani lo hanno «gustato», questo significa che hanno ricevuto un nutrimento, per così dire, costruttivo sia per Panima sia per il corpo. Resta da chiarire se questo modo di di re sia influenzato anche da determinate azioni simboliche durante Pat to battesimale (per l'espressione cf. 1 Pt. 2,3). È possibile che come ac cadeva durante i riti misterici pagani, ai battezzandi venissero presen tati, con funzione simbolica, determinati doni che potevano apparire loro come assaggio del nutrimento celeste (ad es. latte, miele ecc.). 5. Quando poi è detto «e inoltre hanno gustato la buona parola di D io e le potenze del mondo futuro», ci si appella al ricordo di qualco sa di promesso a livello personale. Si aggiunga che alla celebrazione del battesimo spesso si univa anche la prima celebrazione delPeucaristia. Si trattava sempre di un’anticipazione dei beni del mondo futu ro, che non erano affatto considerati solo puramente spirituali. Se an che in seguito Ebr. ricorrerà a concetti ellenistici, tuttavia resta indi scutibile l’esistenza di concezioni giudaiche rabbiniche. Infine, la de scrizione dei cristiani «illuminati una volta» mira a evidenziare la gran dezza e la ricchezza dei doni ricevuti col battesimo. 6. Se chi li ha ricevuti dovesse apostatare, questi non potranno più essere concessi, cosa che la comunità potrebbe rimproverarsi. In fon do con essi la grazia di D io viene resa presente in m odo simbolico. N on è possibile trattarli a proprio piacimento. O li si riceve una volta per sempre, o ci si rinuncia del tutto. Per mettere in risalto quanto sia tremenda l’apostasia, Pautore parla in modo intimidatorio del cristia no che apostatando «crocifigge di nuovo con le sue mani il Figlio di D io esponendolo all’infamia (umiliante dell’esecuzione pubblica)». Solamente se si considera che la lettera è indirizzata a lettori giudeo cristiani si può cogliere tutta l’ asprezza accusatoria che si cela dietro
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Il problema del secondo ravvedimento
questa frase. In fondo dovevano essere soprattutto i cristiani di origi ne giudaica a sentire la morte del messia come una grave colpa del lo ro popolo, mentre, d ’altra parte, per loro il dono della fede e della connessa remissione dei peccati era tanto più prezioso. Si poteva pen sare forse a un argomento più duro? Il problem a del secondo ravvedim ento. La questione del secondo ravvedimento è in fondo uguale a quella del secondo battesimo, se il concetto di «ravvedimento» è visto da un punto di vista puramente teologico e non in base alla posteriore comprensione ecclesiale del ravvedimento come pentimento e penitenza. Più precisamente, la di scussione non riguarda la caduta in singoli peccati (qualunque pecca to), bensì l’apostasia in generale. Ebr. si esprime su quello che stando ai vangeli Gesù ha chiamato il peccato contro lo Spirito santo (Me. 3, 29). Anche altrove la testimonianza del N uovo Testamento conosce la possibilità di una chiara alternativa posta alla fede, espressa dall’ op posizione «o... o...» (/ Tim. 1,19 ; Mt. 25,1 ss. ecc.). Il problema teolo gico posto da 6,4 ss. non è il fatto in sé di una possibile apostasia, né tantomeno una sua discussione, bensì a chi tocchi giudicare, e con quali criteri si decida, della cosiddetta «apostasia». Il duro giudizio di Lutero su questo passo e dunque sull’intera lettera è noto. Il presup posto da cui parte è una precisa dottrina del peccato, e soprattutto del peccato mortale, propria della chiesa successiva e che al tempo della lettera agli Ebrei ancora non esisteva. D a un punto di vista storico, quindi, la posizione di Lutero oggi non è più accettabile. In fin dei conti non si tratta assolutamente di constatare, da parte della chiesa o di un funzionario, un caso di apostasia da colpire con sanzioni eccle siastiche; è invece l’annuncio a evidenziare la possibilità che questo avvenga, costringendo quelli che stanno rischiando a dare un nuovo orientamento alla loro vita. Il diritto a ciò esiste se la fede cristiana non è solo fondamento della grazia, ma anche pietra di paragone nel giudizio. E questo per Ebr. è indiscutibile. Chi eleva 6,4 ss. a principio della disciplina penitenziale della chiesa, come i novaziani del 111 e iv sec., non riconosce il significato delle possibilità che ci sono state aperte in Cristo, e rende la chiesa una comunità farisaica settaria. V i sono giudizi che D io riserva a sé affinché siano presi da tutti più se riamente in sacro orrore.
L a vegetazione sterile viene elim inata (6,7 s.) 7 Infatti il terreno imbevuto della pioggia che cade di frequente su di esso e
produce «vegetazione» utile per quelli per i quali viene coltivato, partecipa alla benedizione di Dio. 8 Ma se «produce spine e cardi» è inutile e pros sima alla maledizione che alla fine lo porta a essere bruciato. 75. Gen. 3,17.
U n breve discorso per immagini in 6,7 s. interrompe le dure frasi che esortavano a cambiare mentalità. Agendo esteriormente quasi come la descrizione di un idillio naturale, esso ha invece lo scopo d’illustrare la gravità del giudizio, gravità di cui gli ascoltatori devono essere in formati. M ancando ogni interpretazione, il discorso si avvicina al ge nere della parabola. Quanto al suo significato, non vi sono dubbi: lad dove la benedizione ricevuta non porta frutto, si ha l’eliminazione di ciò che è sterile o inutile. Q uest’immagine che rimanda alla storia b i blica delle origini ha lo scopo di catturare senza tante parole ammoni trici il consenso dell’uditorio. 7. Ebr. intende mostrare che cosa deve aspettarsi colui che apostata e per suo conto crocifigge nuovamente Cristo: invece della benedizio ne si attira la maledizione. Il punto di partenza è esattamente l’imma gine opposta, ossia la terra imbevuta di piogge frequenti (v. anche Deut. 1 1 ,1 0 s.) che produce una vegetazione utile. D ietro l’afferm azione si cela la convinzione, diffusa anche sul piano filosofico, che ogni evento naturale per sua destinazione (= entelechia) in fondo mira all’utile, co me pure ogni erba della terra esiste per il meglio dell’uom o (al riguar do cf. Filone, Agric. 8 ss.). Dunque le uniche piante di valore sono quelle coltivate (v. anche Gen. 1 , 1 1 ss.; 3,17). D ’altronde solo la «ter ra» riarsa che beve avidamente il dono celeste della pioggia per p ro durre «vegetazione utile» risponde alla propria destinazione, che o l tretutto consiste n elprodurre per coloro «per i quali viene coltivata». L a terra, per così dire, materna esiste per l’essere umano (v. anche F i lone, Op. 133). In tal modo è oggetto di benedizione divina, e anche in seguito verrà coltivata con zelo. Forse il concetto di «benedizione» è scelto in considerazione della testimonianza biblica di Gen. 3 ,17 . 8. Ma se il terreno produce invece «spine e cardi» - espressione trat ta dalla Bibbia per indicare una vegetazione senza valore - allora è «inu tile» e vicino alla «maledizione», come si può ricavare dalla citazione precedente; non ha corrisposto alle attese riposte in esso, venendo co
Ebr. 6,9-12. C ’è speranza che la comunità vinca la propria pigrizia
sì meno alla propria destinazione. La fine è il fuoco del giudizio divi no. Poiché tale asserzione coincide con l’intento kerygm atico, la lieve illogicità - che considerata in un certo modo ha anche ragion d ’essere - con cui viene giudicata la terra non deve turbare. La gravità dell’im magine prospettata non può essere ignorata né ha bisogno di altre pa role. L ’autore volge nuovamente l’attenzione ai suoi lettori che v o r rebbe sì portare alla comprensione, ma senza abbandonarli. L a parabola è formulata senza dubbio in modo magistrale. L ’espo sizione tradisce la capacità narrativa e la limpida logica dell’oratore. Pur riprendendo il linguaggio biblico, al tempo stesso lo adatta al pen siero dell’epoca. C i si potrebbe anche chiedere se non ci sia un certo legame con le parabole di Gesù (cf. Mt. ss.; Me. 4 ,14 ss.), ma o v viamente la certezza non esiste. Sarebbe infine da valutare se il carat teristico elemento della «pioggia che cade di frequente» non introduca un simbolo messianico di un certo rilievo per il tempo pasquale, per cui potrebbero esser presi in considerazione anche passi come Giac, 5,7, e in particolare Gl. 2,23 e O5. 6,3 (cf. bTa'an. 4a~5a). Qualunque conclusione si finisca per trarre, non si può negare che i versetti s’ in seriscono nelle strutture rigidamente bibliche del ragionamento prin cipale in modo di gran lunga migliore rispetto a quanto possa sembra re a prima vista (cf. anche Filone, Deus 155 ss.). C ’è speranza che la comunità vinca la propria pigrizia (6,9-12) 9 Quanto a voi però, carissimi, anche se parliamo così, siamo convinti delle cose migliori e di ciò che (vi) porta alla salvezza, io Dio, infatti, non è in giusto da dimenticare la vostra opera e l’amore dimostrato nel suo nome quando avete dato sostegno ai santi e ancora li sostenete. 11 Desideriamo però che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo in tutta la convinzione della speranza, fino alla fine, 12 perché non diventiate pigri ma piuttosto imitatori di coloro che con la fede e la perseveranza ereditano le promesse. C on 6,9 ss. si ha una svolta decisiva non solo nel tono, ma anche nel pensiero. Se fino ad ora solo tra le righe si percepiva che l’autore non ha intenzione di abbandonare i suoi ascoltatori, ora questo viene det to esplicitamente. Se fino ad ora prevaleva la gravità giudiziale del ser mone ammonitore, gli enunciati che seguiranno ora irradiano fiducia appassionata e incoraggiamento vigoroso. N on è certo nell’intento del la lettera suscitare timori e avvilimento tra i suoi ascoltatori. Le dure
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frasi non mirano a frustrare i cristiani ormai impigriti, ma a renderli attivi sul piano della pronta comprensione e delPautocoscienza penti ta. In questo rientra naturalmente anche l’incitamento. 9. Con espressioni inequivocabili Pautore manifesta la simpatia e l'affetto che prova. Il «noi» letterario dà peso alla frase, vi si riesce a percepire il maestro che fa leva sulla propria autorità. Egli confida nel «bene» che caratterizza i membri della comunità, e lo fa da cristiano oltre che da uomo. Certo è consapevole di aver pronunciato parole gra vi e scomode perché non poteva né era in grado di trattenersi, ma cio nonostante essi non devono sentirsi abbandonati né ripudiati, al con trario. L i chiama, e solo qui, «carissimi», e dunque si sente profonda mente legato a loro, cosa che è qui della massima importanza. A spin gerlo non sono state amarezza o incomprensione, ma preoccupazione e affetto, perciò è lungi dal voler attenuare o ritirare ciò che ha affer mato. Si esprime con estrema cautela quando dice di essere convinto «delle cose migliori», se confrontate a quanto denunciato in 6,8. 10. Per quanto riguarda la salvezza i suoi ascoltatori non falliranno e i motivi di questo non vanno ricercati in loro stessi, ma nella giusti zia (= fedeltà) di D io, che certamente non dimentica le opere d’amore da loro compiute nel suo nome. Colpisce Pespressione «la vostra ope ra e l’amore». Si può solo pensare a un impegno particolare che richie da le forze riunite della comunità. N on si tratterà certo di opere di be neficenza nell’ambito della propria comunità. È altrettanto im proba bile che si tratti di particolari «servizi» resi durante un’epoca di perse cuzione (10,32 ss.). La frase allude piuttosto a una straordinaria opera di sostegno intrapresa dalla comunità per aiutare un gruppo esterno, «i santi». Se questa iniziativa è avvenuta così dichiaratamente nel n o me di Dio, e se è diventata nel frattempo un’istituzione fissa, allora si dovrebbe senz’altro valutare se non vi sia un riferimento alla grande colletta dei primi tempi del cristianesimo, di cui sentiamo' parlare più di una volta nel corpus paolino (nella parte relativa al terzo viaggio m is sionario) (cf. 2 Cor. 8, 5). L ’espressione indubbiamente tipica «servire i santi» si riferirebbe dunque anch’essa al sostegno finanziario alle chie se povere della patria palestinese (cf. Rom. 1 5 , 2 5 .3 1 ; / Cor. i 6 , i ; 2 Cor. 8, 4 ; 9 , 1 . 1 2 ; Atti 1 1 , 29 ). Sappiamo che questa iniziativa era un prop osi to sia della missione giudeocristiana sia di quella etnicocristiana (Gal. 2 , 1 0 ), e che durò vari anni. Quando si parla tecnicamente dei «santi» è probabile che si riprenda una definizione della chiesa gerosolimitana.
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Se la lettera agli Ebrei risale davvero al tempo precedente il 70 d.C ., allora questa spiegazione, che non è Tunica tra gl’interpreti, diventa notevolmente più probabile. Per quanto i particolari vadano precisati meglio, Pautore è sotto l'effetto di una potenza esemplare dell'amore, estesa e disponibile. N on è in grado di sottrarvisi, perché D io benedi ce soprattutto questa disponibilità al sacrificio e al servizio. Vuole che la carità regni tra gli uomini, soprattutto tra quelli che, grazie a Cristo, l'hanno raggiunta davanti al trono stesso della grazia (4,16). 1 1 . Se possibile, lo zelo nell'esercizio dell'amore - oggi parleremmo d'im pegno sociale - da un certo punto di vista è più facile da suscitare e quindi più facile da mantenere dello «zelo in tutta la convinzione della speranza fino alla fine». L'am ore per il prossimo, se è un senti mento autentico e naturale, ha sempre un oggetto immediato in cui ri conoscere la necessità e il significato del suo compito. Questo è più difficile nel caso della speranza cristiana che, essendo viva, è in grado d'influire sul cristiano solo se gli viene continuamente promessa. U n a comunità che collabora attivamente e con spirito di disponibilità può compiere grandi cose se vi è il desiderio di superarsi l'un l'altro (cf. 2 Cor. 9,2). Perché la speranza sia viva, ci vuole però lo zelo del singolo cristiano, mentre, viceversa, ogni cosa dipende dalla capacità o meno di ciascuno di mantenere tale atteggiamento. Evidentemente Ebr. in tende ravvivare e rafforzare l'attesa del singolo in seno alla comunità; ecco spiegato lo struggente e appassionato «noi desideriamo (fervida mente)». Laddove si impiegano le forze di un attivo amore per il p ro s simo, «tutta la convinzione» dovrebbe avere il suo caposaldo. Anche se il cristiano non si fa servo per avere in cambio un compenso, tutta via s'im pegna soprattutto per colui «nel cui nome» agisce nell'am ore, ed è proprio a questo nome che è collegata la speranza (cf. 6,13 ss.). Verosim ilm ente si pensa che alla fine l'am ore e la speranza si vincono o si perdono insieme. 12. Visto sotto questo aspetto, il v. 12, in fondo, prosegue coeren temente. Il concetto di pigrizia rimanda a 5 ,1 1 ; ma mentre là si consta tava una diffusa «pigrizia ndl'ascolto», qui si tratta più di una pigrizia generale che colpisce tutta la vita cristiana. Accanto alle parole della promessa, sono i modelli della fede e della perseveranza ad avere l'im portanza maggiore. È a questi che bisogna rifarsi, non imitandoli - ne risulterebbero solo delle caricature - bensì cercando di riprodurne l'e sistenza vissuta pienamente. L'espressione «di coloro che... ereditano
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le promesse» non si riferisce a un preciso gruppo di persone del passa to dTsraele o del presente della chiesa (così sotto, 1 1 , 1 ss. e 12 ,1 ss.), ma a quanti, in modesto anonimato e nonostante tutte le prove e av versità, percorrono la via della speranza «sino alla fine», che anche per essi comprende «meta» e «significato», anzi «compimento» (cf. Ps. Sai 12,8). Il plurale «promesse» si riferisce alla molteplice testimonianza offerta dalla Scrittura. Del numero illimitato di coloro che andrebbero ricordati come modelli di fede e di perseveranza, nel seguito viene tut tavia scelta e messa in risalto un’unica figura. La promessa di Dio ad Abramo ha comunque valore immutabile (6,13-20) 13 Quando infatti Dio fece la promessa ad Abramo, «giurò per se stesso», poiché non vi era nessuno superiore per cui avrebbe potuto giurare. 14 E
disse: «In verità, benedicendo voglio benedirti (molto) e moltiplicando vo glio moltiplicarti (molto)». 15 E così, avendo perseverato, conseguì la pro messa. 16 Gli uomini infatti giurano per qualcuno superiore a loro e il giu ramento per loro serve da convalida per escludere ogni controversia. 17 Per ciò Dio, che voleva mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’ir revocabilità del suo intento, intervenne con un giuramento 18 perché con due atti immutabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi avessimo un forte incoraggiamento; noi, che abbiamo cercato rifugio aggrappandoci alla speranza che ci è posta innanzi, 19 nella quale noi abbiamo un’ancora delPanima, sicura oltre che salda, «che penetra fin nell’interno della corti na», 20 ove Gesù è entrato per noi come precursore, essendo divenuto sommo sacerdote «in eterno secondo l’ordine di Melchisedec». 13 s. Gen. 22,16 ss. 19 Lev, 16,2.12. 20 Sai. 110,4.
13-20 . In quanto popolo, Israele ha ricevuto molte promesse. In tal senso l’ annuncio dei profeti parla chiaro. Se si vogliono prendere sin gole figure dell’antica alleanza che sono state ritenute degne di riceve re promesse personali, allora si può menzionare solamente Davide, il fondatore della monarchia (cf. 2 Sam. 7,14 ss.). Se infine si vuole indi care una personalità che vada oltre il solo Israele, allora Abram o emerge in solitaria grandezza. La testimonianza che lo riguarda nella lettera è insolitamente estesa. È importante che appaia ripetutamente come destinatario della promessa divina, e anzi che, in fondo, abbia ricevuto le promesse divine maggiori dal punto di vista del contenuto. Abram o è portato sempre come esempio fulgido del fatto che il m on
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do e la promessa di D io appartengono alla fede, fede che non è puro appannaggio d’Israele per quanto esso sia anche il popolo del messia (cf. Gen. 12,2). Questo pensiero dovette colpire profondamente l ’au tore. Seguendo le regole dello scriba giudaico del tempo, studia a fon do il mistero, e cioè le allusioni a C risto nella figura di Abram o. La pericope 6 ,13-20 costituisce quindi un passaggio im provviso, ma certo ponderato, a 7,1 ss.4 ss. È notevole la differenza rispetto a Paolo. È vero che anche l ’autore di Ebr. in Abram o vede il destinatario della promessa (cf. Rom. 4 ,14 ss.; Gal. 3,8.16), ma sviluppando il tema pren de una strada completamente diversa, visto che non vengono prèsi minimamente in considerazione né la fede che giustifica né il signifi cato, unico nel suo genere, che la figura dei padri riveste per i gentili. M ancando dunque un interesse teologico specifico per il mondo etnicocristiano, se ne può dedurre che abbiamo a che fare con un teologo giudeocristiano. Per rafforzare la perseveranza della sua comunità in siste più sull’elemento formale della promessa che non su quello con tenutistico, per cui in prim o luogo interessa l’insolita forma del giu ramento, dal momento che al tempo stesso ne deriva anche l’ assolu tezza della sua validità. Se D io definisce non solo un concetto, ma la realtà della fede, allora la parola con cui promette è qualcosa di più di un semplice «discorso»: è un impegno assoluto, un «giuramento» in crollabile, come direbbe la Bibbia. 1 3 .Ebr. parla della promessa di D io fatta ad Abram o come se si trattasse di una? sola. D al punto di vista contenutistico e materiale questo è certo vero, tuttavia i racconti inerenti ad Abram o riferiscono che la promessa venne ripetuta più di una volta (cf. Gen. 12,2 ss.; 13, 16; 15,5 ss.; 17,5 ss.). Per illustrare l’importanza di questa promessa assolutamente irrevocabile si rimanda alle ultime parole pronunciate da D io (Gen. 22,16 ss.). V i si riferisce che, per quanto riguarda A b ra mo, D io «giurò per se stesso» - form ulazione alquanto singolare per il pensiero di un biblista come l’autore, che infatti si appresta a illustrarne il significato. Poiché D io non aveva nessuno superiore a lui sul quale poter giurare, giurò «per se stesso». D i per sé non bisogna cercare as solutamente nulla dietro questa espressione che si serve di un’immagi ne antropom orfa. Le cose stanno diversamente - come già accennato - per il punto di vista di allora. Che si tratti di un sistema di pensiero più ampio ed elaborato è provato soprattutto da due testi di Filone, la cui scuola di metodologia ermeneutica sembra essere stata un tempo
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seguita dall'autore. Le dichiarazioni di Filone presentano un ragiona mento parallelo a Ebr . N el primo passo (Sacr. 93) spiega diffusamente che D io è certo credibile anche solo sulla semplice parola. Le sue pa role non hanno bisogno di un giuramento, ma gli equivalgono sempre. M a quando nella Scrittura D io è ripetutamente descritto nell’atto di giurare qualcosa, ciò avviene per dare alPuomo, che pensa in termini umani, il necessario aiuto per capire. N el secondo passo (Leg. all. 3,203 ss.), che fa esplicito riferimento a Gen. 22,16 ss., trattando sorpren dentemente lo stesso problema, si constata che D io soltanto è il garan te più potente, prima per se stesso e poi anche per le sue opere; di conseguenza egli può giurare solo per se stesso, offrendosi anche co me certezza. 14. Andando oltre Filone, Ebr. trae conseguenze per la fede della comunità cristiana che è consapevole in modo nuovo di D io e della sua parola. Questa circostanza ha influito addirittura sul testo della frase divina, che in un punto particolare differisce da quello dei L X X . Invece di parlare della moltiplicazione della «discendenza» di A b ra mo, è prevalsa la form ulazione «... e io ti moltiplicherò (molto)». In questo modo viene distolta l’attenzione dalla pluralità della discen denza, ovvero da giudei e gentili, in cui anche Paolo vede l ’adempi mento della promessa. L ’interesse teologico punta più sulla figura del patriarca stesso, il quale ha ottenuto l’adempimento della promessa sotto forma di una «grande moltiplicazione». Da ri,8 ss. emerge an cora più chiaramente che essa, secondo Ebr., comprende anche Y «eredità» della «terra straniera», e naturalmente in primo luogo Isac co, coerede della promessa, la cui voluta immolazione è prototipo del sacrificio di Cristo ( 1 1 , 1 7 ss.). 15. Tale definizione del contenuto della promessa chiarisce perfet tamente la constatazione del v. 15. Abram o dimostrò perseveranza e fiducia davanti a D io riguardo sia alla promessa della terra sia a quella di un figlio e così «conseguì la promessa». Ovviamente Ebr. dà per scontato che Abram o dovesse ancora sperimentare l’ adempimento di quanto gli era stato promesso per la prima volta in Gen. 12,2 ss. (cf. Gen. 23). Lo può constatare senza difficoltà perché parte dalla con vinzione teologica che entrambi i doni, la terra ricevuta e il figlio ge nerato, racchiudevano già in sé il bene salvifico futuro ( 11,10 ) . Anche se la «promessa» non si era ancora realizzata, gli antenati potevano comunque vederla e salutarla «da lontano» ( 11,13 ) . D i qui emerge che
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la redazione della promessa divina di Gen. zz,i6 ss. è accentuata tipo logicamente in senso cristologico e non già, come avviene in Paolo, in senso messianico-ecclesiologico. C iò che si può imparare da Abram o è principalmente la perseveranza nella fede in una salvezza futura. 16 . Tutto il peso delle asserzioni, il cui proposito per il momento si può solo leggere fra le righe, viene ulteriormente rafforzato nel v. 16; qui si ricorda quale usanza sia in vigore fra gli uomini per dimostrare, con una gradazione dal minore al maggiore, che lo stesso vale anche e soprattutto per Dio. G li uomini giurano per qualcuno che è superiore a loro, e il giuramento ha lo scopo di escludere qualsiasi controversia. A vendo l’autore seguito Filone per quanto riguarda il metodo, non stupisce trovare in quest’ultimo, parola per parola, la stessa frase di valore universale (Sacr. 93; cf. anche Somn. 1,12 ). In m odo del tutto analogo nel seguito si afferma subito che presso D io lo stesso deve ac cadere in misura ancora maggiore. 17. Ebr. ribadisce energicamente che D io ha voluto garantire la fer mezza della sua promessa proprio mediante un giuramento, in m odo tale che «grazie a due atti irrevocabili nei quali D io è im possibile che mentisca noi avessimo un grande incoraggiamento» (cf. 18); si riferi sce alla sua parola, che promette ed è credibile, e al giuramento per se stesso. O ggetto di quest’ultimo, stando al contesto, è la prom essa di Gen. 22 ,16 ss., che, secondo l'interpretazione fornita, s’identifica nel1’ «eredità» resa reale e accessibile in Cristo. È da notare che in questo m odo è preso indirettamente in considerazione il tema principale se condo il quale D io garantisce con giuramento la sua salvezza, tema che può esser stato suggerito fondamentalmente da Sai. 110 ,4 (cf. a 3,7 ss. e 7,20 ss.). Quando in questo passo la traduzione letterale afferm a che D io «è intervenuto con un giuramento», si ha l’associazione di due concetti. D io è colui che giura e al tempo stesso colui che garanti sce il giuramento, cioè, per così dire, «colui che sta in mezzo», «al quale l’uno si richiama e sul quale l ’altro fa affidamento» (Fr. Bleek). 18. Questi due dati di fatto che sottolineano la veracità di D io (cf. Num. 23,19 ; Rom. 3,4; Tit. 1,3) possono e devono dunque servire da «grande incoraggiamento» alla comunità. L a «veracità» di D io dim o stra di essere soprattutto fedeltà alla promessa pronunciata; in essa i cristiani, che conoscono fin troppo bene l’incostanza umana, possono trovare un punto fermo assoluto; né lo abbandoneranno coloro che cercano proprio in essa «rifugio». In un mondo ostile che perseguita
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Puomo e gli dà la caccia, la possibilità di sopravvivere esiste a m otivo della speranza cristiana. Essa è in grado di strapparci a un vortice fata le. Acquistiam o certezza in forza della fedeltà incondizionata di D io che si esprime nelle parole della promessa. Se la storia delle religioni insegna che la parola di D io ha sempre mosso Puomo, la storia d’Israe le, al cui inizio troviamo la figura di Abram o, testimonia che la parola di D io nel suo movimento ha una meta a cui Puomo può tenersi ag grappato se nella tempesta della vita non vuole diventare un relitto sbattuto sulla spiaggia. 19. La tribolazione esistenziale delPuomo delPantichità trapela per un momento quando Ebr. parlando della «speranza afferrata» usa Pimmagine delP«ancora delPanima, sicura oltre che salda», che p o s sediamo. Com e in 2 ,1, nel linguaggio e nel pensiero, altrimenti assolu tamente biblici, s'insinua un’immagine estranea, piuttosto di filosofia popolare, che descrive lo smarrimento e la minaccia che incom bono sulPuomo immerso in un mare di errori e tempeste. Riem erge una cer ta familiarità con Filone che, a proposito degli uomini privi della vera fede in Dio, può affermare (Dee. 67) che sono sballottati eternamente qua e là, irrequieti come imbarcazioni oscillanti che «non entrano mai in porto né trovano mai àncora sicura nella verità». M a se Filone vede il «sostegno più nobile della vita delPanima» nella «necessaria fede nel D io eternamente vivente», Ebr. fa un decisivo passo avanti per la co munità cristiana definendo «àncora» la speranza garantita da Dio. Certo, la fede dà sostegno in una vita esposta a tempeste, ma solo la speranza fornisce Porientamento. È inevitabile che sorga Pinterrogativo sul fondamento della speranza. Interrompendo bruscamente Pim magine, si asserisce che Pàncora «penetra fin nelPinterno della corti na», richiamando così il testo di Lev. 16 ,2.12. Perciò il saldo fonda mento della speranza è il santo dei santi, che contraddistingue P«Ìnterno della cortina» e delimita il luogo del sacrificio espiatorio annua le nel giorno delPespiazione. L ’àncora è nascosta, proprio come invi sibile doveva essere quanto accadeva alPinterno del santo dei santi. E s sa è al tempo stesso assolutamente affidabile, perché fa presa nel luogo stesso di Dio. Da 4,14 risulta che Ebr. naturalmente pensa al cielo, o meglio al santuario celeste. 20. Per tornare al tema principale, concludendo la sezione Pautore riprende Pidea che Gesù è entrato nel santo dei santi (cf. 4,14), preci sando che lo ha fatto per noi come «precursore». Inoltre si cita di nuo
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vo e letteralmente il testo di Sai 110 ,4 . C iò a cui già in 5,10 si faceva riferimento tematico può essere ora definitivamente sviluppato nelPomelia. Ebr . ha già considerato vari aspetti importanti. Gesù è diven tato sacerdote «in eterno»; e questo entrando «per noi» nel santo dei santi, o più precisamente ottenendo, mediante la sua morte, il com pi mento, ossia Pinsediamento nella nuova dignità. L ’ espressione «per noi» evidenzia lo scopo del suo ministero vicario, che necessita l’ ac quisizione personale. Quando inoltre è detto che Gesù è penetrato nel santo dei santi come «precursore», allora si considera in special modo la meta sperata dalla comunità cristiana, violando e superando il ritua le giudaico che riservava l’ingresso nel locale al solo sommo sacerdote.
Parte terza
«In eterno secondo l’ordine di Melchisedec» (Sai. 110,4) (z*1-10 )1 ^) Salendo per due versanti omiletici differenti, Ebr: si è avvicinato al ver setto centrale di Sai 110 ,4 , che con ^ v - 1 caratterizza l’intero salmo (cf. 4 ,14 -5 ,10 e 5,11-6,20). Questo modo di procedere ammette con clusioni plausibili sul fondamento testuale dell’omelia, che fornisce contenuto e direzione alle idee. Le affermazioni che seguono dim o strano innegabilmente di essere interpretazione della testimonianza biblica, in cui accanto al nome e alla figura di Melchisedec viene trat tato principalmente il significato del giuramento biblico (Sai n o,4a). C on 7 ,1-10 ,18 , chi ascolta il sermone si trova davanti alla parte didat tica vera e propria, nella quale ogni testimonianza contribuisce a met tere in risalto la grandezza di Cristo. La carica perpetua del sommo sacerdozio di Gesù secondo l’ordine di Melchisedec comporta l’abrogazione del sacerdozio levitico nonché della legge mosaica (7,1-28) In 7,1-28 per prima cosa ci si preoccupa di dimostrare il mistero della persona e della carica di Cristo. Qui la convinzione riguardo a un’esemplarità (tipologica) particolare di Melchisedec si fonde con la fede in una preesistenza del Figlio, che sotto un certo aspetto potreb be anche essere stata realtà figurativa primordiale. Evidentemente da Sai 110 ,4 si ricava più di quanto il versetto stesso non dica; infatti nel testo originale l’espressione «secondo l’ordine di Melchisedec» signi fica solo «alla maniera del sacerdozio di Melchisedec». Quando poi l’ autore la carica di significato partendo dalla narrazione di Gen . 14, oltremodo oscura per la comprensione biblica contemporanea, allora nasce inevitabile la domanda sui suoi presupposti ermeneutici e stori co-religiosi. In questo, il moderno lettore della Bibbia percepisce m ag giormente l’estraneità di tale arte interpretativa. Constatiam o inoltre che quanto Ebr . offre è un tentativo di dimostrare la preesistenza di C risto a partire dal Sai n o , tentativo che va ampiamente compreso,
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dal punto di vista sia m etodologico sia contenutistico, alla luce di F i lone. Se in questo non siamo neanche più in grado di seguirlo, tuttavia oggi più che mai resta il compito di rendere teologicamente possibile l’ enunciazione dell’eterno significato di Gesù. È necessario so ffer marsi brevemente sulla form a e la struttura dell’omelia, che in questa parte viene particolarmente caricata dal punto di vista tematico. 1-3 . In 7 ,1-3 tutta la conoscenza di Ebr. riguardo a Melchisedec, trat tenuta sin da 5,1 ss., emerge infine appieno con un’unica frase assai estesa, che è al tempo stesso un elenco e un’interpretazione. Le carat teristiche che definiscono il mistero del personaggio vengono riporta te in m odo conciso, pur mantenendo l’usuale stile elevato. 7 ,1-3 , sia materialmente sia dal punto di vista metodologico ermeneutico, è alla base di tutto il discorso successivo, che ha lo scopo di dimostrare il sacerdozio eterno di C risto secondo l’ordine di Melchisedec nel senso di Sai 110 ,4 . Stile, contenuto e collocazione omiletica della frase non consentono di avanzare l ’ipotesi di un inno, magari rielaborato. 4 -12 . C on i vv. 4 -12 l’attenzione dell’ascoltatore viene spostata sul particolare fatto che Abram o diede la decima a Melchisedec, da cui si può arguire la sottomissione del sacerdozio levitico al sacerdozio di M elchisedec-Cristo. Il procedim ento ideale segue le usuali regole er meneutiche, riconoscibili nella lettera: a) constatazione di un caso sin golare della Scrittura, v. 4; b) ricerca del significato più profondo par tendo dal sapere generale, v. 5; c) accentuazione del caso paradossale, in cui si ha un’allusione al significato spirituale più profondo, v. 6; d) conclusione dal minore al maggiore, v. 7; e) descrizione della con clusione, vv. 8 ss.: M elchisedec-Cristo è superiore a Levi. N ei vv. 1 1 s. si argomenta in modo tipico per ipotesi, partendo dal contrario. 13 - 17 . N ei vv. 1 3 - 1 7 si giunge finalmente all’ identificazione esplici ta di Melchisedec con C risto, la cui origine dalla tribù di G iuda deve testimoniare della correttezza della dichiarazione di Sai 110 ,4 . C risto non sarebbe diventato sommo sacerdote secondo la «legge di una pre scrizione carnale» bensì per la «potenza di una vita indistruttibile». 1 8 - 2 5 .1 successivi versetti 18-25 ancora una volta passano dalla per sona di C risto al nuovo ordinamento da lui inaugurato, per cui viene introdotta per la prima volta l’idea del «testamento» maggiore. L ’af ferm azione trova sostegno nell’allusione al giuramento prestato da D io. A una prom essa più grande corrisponde al tempo stesso una «spe ranza maggiore». Anche questi versetti si rivelano facilmente parte del
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l’intera dimostrazione, di cui la conclusione dal minore al maggiore è caratteristica. Il v. 25 ha un leggero contatto con Rom. 8,34. 2 6 -2 8 .1 vv. 26-28 sono una specie di riassunto delPinitero discorso. In essi si ribadisce ancora una volta il sacerdozio eterno e incorruttibi le di Cristo. I due versetti 27 e 28 proseguendo 4 ,14 ss. rimandano a qualcosa di tematicamente nuovo (v. il concetto «una volta per tut te»). A l posto del sacerdozio della «debolezza», con C risto si ha il sa cerdozio eterno del «Figlio reso perfetto» (cf. 1,2 e Sai. 2,7). Per la tecnica interpretativa di Ebr. è fondamentale il continuo ri mando a Sai. 110 ,4 nelle varie sezioni (vv. 3 .1 1 ss. 17 .2 1 ss.28). C on una lieve schematizzazione vi si può riconoscere un particolare impegno per quanto riguarda le seguenti espressioni: 7 ,1-3 «Melchisedec», 4 -12 «secondo l’ordine di Melchisedec», 13 - 1 7 «sacerdote in eterno», 18-25 «il Signore ha giurato», 26-28 «Figlio in eterno» (Sai. 2,7 e 110 ,4 ). Recentemente nel cap. 7 si è voluto vedere un midrash-pesher su Sai. 110 ,4 e Gen. 14 ,17 -2 0 (F. Schròger). I due testi biblici che parlano di Melchisedec, tratti dall’Antico Testamento, rispettivamente dal li bro dei Salmi e dal libro della Genesi, sarebbero stati accostati secon do il metodo interpretativo rabbinico richiamandosi alla seconda re gola di rabbi Hillel, secondo la quale due passi corrispondenti si com pletano e s’integrano a vicenda. D i fatto l’ elaborazione dei testi proce de in modo tale che il loro accostamento produce una dichiarazione riguardante Cristo unica nel suo genere. Forse però il concetto di midrash non è del tutto adeguato. Se in questo abbiamo ragione, allora ci troviamo davanti a una sorta di tecnica interpretativa allegorica come quella di Filone, tecnica che l’autore di Ebr. possiede in m odo perfet to. Il sacerdozio di Gesù viene ora illustrato definitivamente e com pletamente, avendo cura di svelare la profondità del contesto salvifico. Il compositore è guidato dalla convinzione che quanto dichiarato a proposito del «sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec» non possa essere pura declamazione, ma necessiti di argomentazione. È quanto giustamente fa, anche se naturalmente a modo suo. L a figura eterna di Melchisedec si rivela incarnazione del Figlio di Dio (7.1-3 )
1 Questo «Melchisedec» infatti, «re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, che andò incontro ad Abramo (per riceverlo) mentre ritornava dalla bat taglia dei re» e «lo benedisse», 2 al quale Abramo diede pure «la decima di
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ogni cosa (del bottino)», che se s’interpreta (il nome) è innanzitutto un «re di giustizia», ma poi anche «re di Salem», che significa «re di pace», 3 sen za padre, senza madre, senza genealogia, che non ha né un inizio dei giorni né fine di vita, ma è anzi fatto simile al Figlio di Dio, egli dunque rimane «sacerdote» per sempre. 1 ss. Gen. 14,17-20.
1. Sulla, base di Gen. 14 ,17 ss., il v. 1 descrive sommariamente l’in contro tra Melchisedec e Abram o; in un’unica frase sono concentrati tutti i fattori di rilievo per la dimostrazione: «Questo Melchisedec in fatti... rimane sacerdote per sempre». Per prima cosa viene richiamato alla memoria l ’evento in sé. N ella Scrittura, Melchisedec è presentato come «re di Salem», ossia di Gerusalemme, stando al senso letterale (cf. Sai 76,3). Egli era un «sacerdote del D io altissimo», espressione che al tempo di Ebr . poteva essere intesa esclusivamente nel senso del monoteismo giudaico. Contempla la certezza che D io è l’unico e il più alto (Filone, Leg. a ll 3,82). O gni minima forma di echi politeistici non era più ammissibile né lecita. Abbreviando Gen. 14 è detto inoltre che fu Melchisedec ad «andare incontro» ad Abram o, e non - come lì - il re di Sodoma, del quale Melchisedec in quanto re di Salem era alla pari, circostanza che si può dedurre solo indirettamente (cf. Gen. 14, 18). Venne così introdotta l’idea di un’ «accoglienza» solenne del vin citore e trionfatore (v. anche Filone, Abr. 235), perché il concetto gre co di «andare incontro» in questo senso è puramente tecnico. Così anche gli altri particolari emergono con maggiore evidenza. In primo luogo vi è che Melchisedec ha benedetto Abram o, cosa che documen ta la superiorità del primo rispetto al secondo; poi vi è la consegna da parte di Abram o della decima «di ogni cosa» - ossia del bottino (v. 4). 2. Se pensiamo che in Abram o il giudeo praticante venerava il pa triarca per eccellenza e che vi era l’ abitudine di pronunciare una be nedizione in sua memoria, si riesce a comprendere quanto la circo stanza descritta dovesse affascinare l’esegeta. Ovviamente tutto l’inte resse si concentra sulla persona di colui che è tanto superiore al pa triarca. L ’autore si accosta al mistero di Melchisedec dapprima inter pretandone etimologicamente il nome. Com e anche in Filone (Leg. a ll 3,79), tale interpretazione svela una caratteristica etica psicologica di colui che lo porta. Scomponendo il nome ebraico nelle sue due parti (melki-sedeq ) si ha che egli è «un re di giustizia». L ’indicazione stessa della sede del suo regno fornisce un’ulteriore caratteristica del
Ebr. 7,1-3. La figura eterna di Melchisedec
III
suo modo di governare. L ’espressione «re di Salem», che suona quasi come un titolo, significa «re della pace» (ebr. shalom). I due attributi per l’autore appartengono senz’altro al tipo ideale di dominatore di M elchisedec-Cristo. In modo del tutto simile anche Filone può afferà mare: «Il tiranno può chiamarsi signore della guerra, ma il re principe della pace, Salem...». Ebr. applica come Filone un principio esegetico a noi estraneo: «Ciò che non è nella torà, non esiste sulla terra (in mundo)», ovviamente con un caratteristico spostamento di accento. A det ta di Filone, D io definisce Melchisedec re della pace e suo sacerdote, «senza averne fornito prima una sola azione; anzi fin dal principio (!) 10 aveva creato così regale, pacifico e degno del suo sacerdozio» per ché il suo nome significa «re giusto». Da qui Filone deduce la preesi stenza del «Verbo». 3. Diversamente, anche se in modo simile, procede l’autore di Ebr ., 11 quale mette in risalto più l’unicità della persona che la funzione di dominatore. Prendendo spunto dal silenzio della Scrittura constata i fatti - «senza padre, senza madre, ecc.» - per dedurre la preesistenza e l’eternità della persona. Questo argumentum e silentio si basa sulla cir costanza, per la comprensione moderna puramente casuale, che l’A n tico Testamento non dice assolutamente nulla a proposito della nasci ta e della morte di Melchisedec. Tanto più rilevante doveva apparire a Ebr . la singolarità di questa figura di re-sacerdote a cui la Scrittura ac cenna, singolarità che alla fine è diventata prova della sua eternità. Le frasi in cui si constata l’assenza di genealogia presuppongono natu ralmente il diritto sacerdotale giudaico, che attribuisce la carica esclu sivamente in base alla discendenza levitica (Es. 28,1 ss.; Num. 3,10 ecc.). Così all’interprete della Scrittura si pone inevitabilmente un in terrogativo: questo misterioso Melchisedec era di origine legittima o illegittima? Se è giusta la prima ipotesi, a favore della quale vengono addotti vari argomenti, allora bisogna pensare a una figura unica nel suo genere. Ed è proprio questa la conclusione in cui, quanto a radi calità dell’argomentazione, l’autore è intenzionato a superare addirit tura Filone. Il discorso in crescendo culmina nell’espressione «egli è anzi fatto simile al Figlio di Dio». La frase si conclude poi definitiva mente con un collegamento concettuale con Sai 110 ,4 : «[Egli] rimane sacerdote per sempre». L ’audacia dell’affermazione, che consiste nel l ’indubbia identificazione di Melchisedec con Cristo con una specie di considerazione di tipologia reale (filosofico-speculativa), non può as
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solutamente venir sminuita, tendenza invece propria delPinterpretazione più recente. N on solo bisogna tener conto che Ebr. vi ha prepa rato gli ascoltatori per interi capitoli, ma occorre anche considerare che tutti i capitoli successivi sull’operato sacerdotale di C risto vengo no sviluppati partendo dalla parità di Cristo e Melchisedec. Perciò per questo passo non è consentito fornire strumenti di comprensione m o derni, perché si possa dire che Melchisedec è inteso come raffigura zione e tipo di Cristo, oppure che gli sia stato «simile». N on meno di scutibile è l’opinione che si tratti di una figura simbolica; né, con in terpreti della chiesa primitiva, si dirà che Melchisedec è presentato come un angelo. C iò che per Filone è scopo ultimo dell’anima umana {Op. 144), ossia la cosiddetta «affinità con Dio», stando a Ebr. ha da tempo trovato nel Figlio adempimento prototipico. Elementi gnostici in 7,3? Si metterà in dubbio innanzitutto la spie gazione storico-religiosa secondo la quale dietro 7,3 vi è la concezione dell’ «incarnazione di un uomo primordiale (E. Kàsemann). Anche non attribuendola direttamente a Ebr., ma a una tradizione o fonte innica liturgica rielaborata, la dimostrazione non diventa più probabile. Le cose stanno diversamente: Ebr. parte dalla convinzione che C risto in quanto sommo sacerdote «secondo l’ordine di Melchisedec» sia una figura eterna primordiale nella misura in cui rappresenta l’incarnazio ne del logos alessandrino (Filone, Fug. 108 ss.). Che egli dovette farsi carico dell’impegno sacerdotale fin nelle profondità abissali della de bolezza umana e della realtà della morte lo distingue dalla forma filo niana di una ragione cosmica divina e personale. D el tutto errata è l’idea che l’ipotizzato mito gnostico dell’uomo primordiale già in 1 ,1 6,20 sia stato di aiuto nell’elaborazione dell’ «analogia» tra il redentore e quanti necessitano della redenzione (E. Gràsser). Per Filone infatti non è dimostrabile l’identità tra logos e uomo primordiale (U. Fruchtel). Se dovessero sussistere ancora dubbi riguardo a ciò che determina il pensiero in Ebr., questi sarebbero cancellati dal titolo «Figlio di D io», qui estremamente significativo, con il quale l’argomentazione si con cluderà altrettanto solennemente in 7,28. Anche in Filone il logos è definito «Figlio di D io», e di esso l’ alessandrino ritiene che in quanto creatura di D io abbia a sua volta creato l’uomo. Se a questo punto della dimostrazione Ebr. dà al Cristo-M elchisedec preesistente il tito lo di «Figlio di Dio», ciò evidentemente accade sulla base della cosm o
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logia filoniana, sottomessa alla verità della testimonianza cristologica (1,2). In base alla loro conoscenza gli ascoltatori devono essere con dotti vicino a questo «Figlio», che è logos-mediatore rispetto a D io. Dal gradino delPascolto devono giungere a quello della visione inte riore (cf. 7,4 che invita coerentemente: «Guardate!»). In altre parole, sotto Paspetto materiale e metodologico 7 ,1-3 tradisce un certo pen siero di scuola alessandrina filoniana, assoggettato direttamente alla te stimonianza cristologica del sacerdozio eterno di C risto secondo il Sai 110 . In un primo tempo è Pidea del sacerdozio «durevole» a dominare (cf. «per sempre»). Sottolineando maggiormente la «stabilità ininter rotta» con il ricorso a una concettualità di tipo greco, viene messa in evidenza soprattutto la dimensione relativa alla storia della rivelazio ne, introdotta dalla parificazione tra Melchisedec e Cristo. La sfumatura innegabilmente filoniana delle idee esposte in 7 ,1-3 non rimanda a un mito gnostico rielaborato relativo alla figura dell’uom o primordiale - redentore. Tuttavia è indiscutibile che la tradizione bi blica su Melchisedec abbia influenzato relativamente presto il pensie ro religioso del giudaismo e della chiesa. L o sfondo spirituale per si mili speculazioni era certo pronto sin dal 1 sec. d.C. (cf. u Q M e lc h ; 1 Clem . 3 6). Per l’ epoca successiva si distingue il gruppo gnostico dei melchisedechiani, fondato daT eodoto gnostico intorno al 200 d.C. (Ip polito, R e f omn. haer. 7,3 6; 10,24; Ps.-Tertulliano, Haer. 24; Epiph., Pan. 55). Oltrem odo vasta è inoltre la testimonianza del metodo scritturistico aggadico tardogiudaico, che ovviamente non poteva ignorare Sai. 110 ,4 né tantomeno Gen. 14. In questo caso manchiamo tuttavia di risposte che contenutisticamente si avvicinino a Ebr. 7, sebbene si debba osservare che le parole del salmo potevano essere applicate an che al messia come prescelto speciale di D io (cf. Abot R.N. 34 (9a)). A ciò si aggiunge l’interpretazione, a quanto pare assai diffusa, di M el chisedec come sommo sacerdote del tempo escatologico messianico (Str.-Bill, iv ,1, 464). È tipico di tutti i sistemi cosiddetti gnostici, e dunque essenziale per una corretta valutazione, che il redentore sia sempre identificato in qualche modo con Cristo, e che sia messa in discussione la sua capaci tà di soffrire in quanto persona celeste. In questo Ebr . si differenzia nettamente dal pensiero gnostico, poiché in ogni speculazione (neo platonica filoniana) sulPorigine (preesistente) e sulla misteriosa prei storia di Cristo ha posto proprio la sua passione e la sua morte a fon
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damento della testimonianza. Se anche non siamo più in grado di se guire in tutto le sue idee, tuttavia queste ci inducono a riflettere a fon do sulla verità della morte di Gesù sempre in relazione alla sua primordialità ed origine. D ove infatti viene ribadita la divina verità della croce di Gesù va anche necessariamente dedotto il principio teologico secondo il quale egli è di origine divina.
Dalla superiorità di Melchisedec-Cristo sul sacerdozio levitico risulta l’abolizione dell’ordinamento mosaico (7,4-12) 4 Considerate però quanto sia grande colui al quale «Abramo diede la de cima» dai migliori pezzi del bottino, lui, il patriarca! y Mentre quelli dei fi gli di Levi che ricevono il sacerdozio posseggono una prescrizione per im porre, secondo la legge, la decima al popolo, cioè ai loro fratelli, sebbene questi siano usciti dai lombi di Abramo, 6 «egli», che non fa risalire a loro la propria genealogia, «ha» riscosso la decima da Abramo e ha «benedetto» colui che ha le promesse. 7 Senza alcuna obiezione, dunque, l’inferiore viene benedetto dal superiore. 8 E mentre qui riscuotono la decima uomi ni che sono mortali, là lo fa uno di cui è attestato che vive. 9 E attraverso Abramo anche Levi, che riceve le decime, per così dire ha versato la sua de cima. io Infatti egli era ancora nei lombi delPantenato «quando Melchise dec gli andò incontro», n Ora, se mediante il sacerdozio levitico - grazie al quale il popolo ricevette le leggi - fosse possibile la perfezione, che biso gno ci sarebbe di costituire un altro «sacerdote» «secondo l’ordine di Mel chisedec» invece di designarlo «secondo l’ordine» di Aronne? 12 Se infatti il sacerdozio viene modificato, interviene inevitabilmente anche un cam biamento della legge. 4 Gen. i4,2ob. 6 Gen. 14,19. 10 Gen. 14,17. 1 1 Sai 110,4.
4. In un’ulteriore sezione concettuale nei vv. 4 -12 si ha un’ analisi delle caratteristiche appena elencate che dimostrano la grandezza di Melchisedec e del suo sacerdozio. I lettori devono cogliere con l’ oc chio spirituale le relazioni più profonde, come si confà a «cristiani ma turi» (6,1). G ià Abram o si era inchinato del tutto spontaneamente alla grandezza di Melchisedec, consegnandogli la decima dalla parte m iglio re del suo bottino, ed Ebr . lo sottolinea ripetendo «lui, il patriarca». Intende ribadire che Abram o era già sotto l’effetto del personaggio ultraterreno e sacerdotale. Perciò gli consegnò la decima, consistente nei «pezzi migliori del suo bottino», oggetti scelti; è una precisazione
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ulteriore rispetto al v. 2. Il patriarca non agì così sotto costrizione, ma in tutta spontaneità e naturalezza, consapevole della grandezza celeste di chi gli stava di fronte; e questo in totale adempimento di una di sposizione divina, come illustrano le considerazioni successive. 5. N el v. 5 in un primo tempo si allude al carattere paradossale del l’accaduto, cioè che, evidentemente, insieme al patriarca anche dai figli di Levi - i quali all’epoca naturalmente si trovavano ancora «nei lom bi di Abram o» (ossia non erano ancora nati) - è stata riscossa la decima; e questo nonostante essi stessi, secondo la legge di D io, avessero il diritto di imporre la decima al popolo, ai loro fratelli (cf. Num. 18,2032). Chi riflette a fondo su questo fatto - e questo è proprio l’intento dello scritto - non può non cogliere la forte contraddittorietà del con testo. E comunque non si tien conto che la tribù di L evi avrebbe fatto la sua comparsa solo molto più tardi. Ovviamente, poiché al redattore di Ebr. la storia umana, in particolare da Abram o in poi, appare come storia continuativa dell’intervento divino che comporta un immediato significato per il presente, prospettive di altro tipo passano inevitabil mente in secondo piano. G li sta molto più a cuore il carattere prodi gioso dell’evento per cui i «figli di Levi», privilegiati in base alla legge divina, mediante un atto spontaneo sono sottomessi a qualcuno che è loro superiore. 6. L ’idea che quella volta Abram o potrebbe essere stato umiliato è lontanissima, come deduciamo dal fatto che accanto al pagamento della decima si ricorda ancora una volta che Melchisedec «ha benedet to» lui, il depositario della promessa. N el testo originale greco colpi sce l’uso del verbo al perfetto dell’allegoria, che attesta l’importanza diretta anche per il presente della benedizione impartita un tempo. C o sì non sussiste alcun dubbio che il sacerdozio di questo M elchise dec-Cristo è un qualcosa di assolutamente unico e di addirittura attua le. N on solo. Chi legge capisce che oggi, nell’epoca cristiana, si può divenire immediatamente partecipi di questa benedizione (cf. 6,7). E s sa proviene da colui che «non era della loro stirpe», cioè dei figli di Levi, perché è più grande di loro e il suo diritto è indiscutibilmente superiore al loro, anzi lo infrange. Il patriarca stesso non vi ha mosso la minima obiezione. 7. Per delineare più chiaramente la circostanza fondamentale, segue un’affermazione di tono piuttosto generale e didattico. I lettori devo no nuovamente confrontare la diversità dei due personaggi, ciascuno
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dei quali rappresenta un proprio ordine. E in che cosa consista alla fin fine quest’ultimo è detto dal successivo v. 8. 8. La struttura comparativa «qui... là» rende interessante la form u lazione perché rende insignificante quella distanza temporale percepi ta dal lettore odierno, sostituendola anzi con una contemporaneità lo cale quasi attuale. Se poi, per giunta, il «qui» è stato scelto in relazione al sacerdozio levitico, mentre il «là» è riferito a Melchisedec, allora si fa presente almeno che il primo rappresenta una grandezza ancora esistente, mentre il sacerdozio del secondo in questo modo non è più immediatamente attuale. Perché sia così occorre che da parte degli ascoltatori vi sia una più profonda penetrazione della testimonianza attestante «che vive», espressione riferita in primo luogo alla figura di Melchisedec che però si identifica con il Figlio di D io, i cui giorni non hanno fine (v. 3). La sostanza delle cose per Ebr. non è evidente, ma si rivela solamente grazie a un intenso sforzo conoscitivo. La contrap posizione tra gli «uomini mortali» e Melchisedec «che vive» introduce nuovamente e in modo allusivo la problematica dell’esistenza (analo gamente 7,23). Laddove questa emerge, l’uomo che si interroga tente rà ripetutamente di spingersi oltre la superficie sino al nucleo centrale delle cose, l'origine della rivelazione. N on che possa vedere D io; tut tavia penetrerebbe almeno quell’ambito in cui D io può manifestare la propria volontà. In Cristo, l’autore di Ebr. vede il depositario della ri velazione e della vita per eccellenza, legato all’uomo fin dentro la tri bolazione dell’esistenza. 9. Consapevole che ogni considerazione di tipo tradizionale non è più sufficiente, riassume quindi, ancora una volta, la sua convinzione nei vv. 9 ss. C on una formulazione piuttosto cauta («per così dire») fa capire che la propria opinione, ora esposta in breve e concisamente (cf. Filone, Cber. 1 1 2 e molti altri), potrebbe anche non essere condi visa da tutti. Personalmente, tuttavia, egli non è assolutamente in gra do di staccarsene. Tramite Abram o anche a Levi, che riscuote le deci me ed è antenato e quintessenza di tutto il sacerdozio giudaico, è stata per così dire imposta la decima (perfetto deH’allegoria). 10. Infatti si trovava ancora nei lombi del padre Abram o (= del ca postipite) «quando Melchisedec gli andò incontro». C iò che prima, al v. 5, in fondo era espresso solo indirettamente perché inizialmente si trattava solo di evidenziare il carattere paradossale di un evento, ora viene ribadito con una certa riserva, definitivamente e con precisione.
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La circostanza richiede assolutamente che si rifletta sul suo significato per il presente. 1 1 . Per escludere ogni dubbio riguardo alla conoscenza acquisita, con una frase condizionale irreale si ribadisce che non avrebbe potuto essere altrimenti. L ’imposizione della decima alla classe sacerdotale levitica, essa stessa autorizzata alla riscossione di decime - un atto di ri levanza giuridica - ha il carattere di realtà irrefutabile. Q ui la dim o strazione si allontana dalla base di Gen. 14, interpretata allegorica mente, per fondarsi solo su Sai. 110,4. Se mediante il sacerdozio levitico vi fosse «perfezione», ossia un nuovo ordinamento nei rapporti con D io in modo definitivo, comprendente anche il bene della spe ranza, allora non ci sarebbe bisogno di istituire nessun altro sacerdo zio, come è invece accaduto con M elchisedec-Cristo. In questo modo 11 sacerdozio levitico, che evidentemente è presentato come un’istitu zione ancora operante (v. in particolare 7,8), viene proclamato giuri dicamente abolito. N on è stato in grado di adempiere il compito im postogli per legge. L ’inciso «grazie al quale il popolo ricevette le leg gi» non si riferisce proprio al compito della «perfezione», bensì al sa cerdozio levitico, circa il quale il popolo israelita possedeva istruzioni ben precise. Il pieno significato di questo accenno si manifesta solo sulla base dei capitoli a venire, nei quali si cerca di sviluppare tutta la grandezza dell’opera di redenzione unica e irripetibile di Cristo. 12 . Per l’autore di Ebr. infatti si è avuta nientemeno che l’ introdu zione di un nuovo «ordine», cosa che alla fine trova espressione al v. 12 nelle debite forme e con l’aiuto di concezioni filoniane (v. intr. 10): ogni mutamento nel sacerdozio comporta inevitabilmente (alla lettera: «per necessità») una trasformazione della legge. È evidente che per Ebr. ordine legale e ordine sacerdotale sono strettamente connessi. La p o r tata dell’evento è immane, come si intuisce già allusivamente in questa frase; non si tratta affatto di un qualcosa che riguarda unicamente il popolo, bensì di un ordinamento di base che viene dichiarato abolito. Sotto certi riguardi Ebr. sembra esser vicino a Paolo, che definisce C ri sto la «fine della legge» (Rom. 10,4). Mentre però l’apostolo parte dall’ idea della volontà di D io espressa nella legge, che l’uom o non è in grado di rispettare avendo così bisogno di Cristo, per Ebr. il punto di partenza è l’insufficienza dell’ antico ordinamento cultuale. Paolo vu o le aprire gli occhi dell’uomo smarrito all’evento di Cristo, Ebr. desta nel giudeo la consapevolezza del fallimento della legalità cultuale.
Cristo è di origine divina, non leviitica (7,13-17) 13 Infatti colui al quale si riferiscono queste parole appartiene a una tribù diversa, della quale nessuno fu addetto al servizio dell’altare. 14 È noto in fatti che il Signore nostro è «uscito da Giuda», della cui tribù Mosè non ha detto nulla riguardo ai sacerdoti, r 5 E questo appare in modo molto più evi dente se neiruguaglianza con Melchisedec viene costituito un altro «sacer dote» 1 6 che non è divenuto tale secondo !a legge di un ordinamento car nale, ma in base alla potenza di una vita indistruttibile. 17 La testimonian za che lo riguarda dice infatti: «Tu sei sacerdote in eterno secondo Pordine di Melchisedec». 14 Gen. 49,10 inoltre Sai. 112,4.
Sai 110,4. *7 Sai. 110,4.
13 . N ei w . 1 3 - 1 7 viene portata una dimostrazione ulteriore al fatto che l’esercizio sacerdotale affidato alla tribù di Levi è stato abolito. L ’autore prende in considerazione il dato storico noto per cui Cristo, al quale si riferisce la sentenza di Sai. 1 10,4, di fatto appartiene a un’al tra tribù. Se per il nostro m odo di pensare in questo passo viene eleva to ad argomento ciò che in realtà deve essere ancora dimostrato, per Ebr. il contesto è ben diverso. L ’autore ricerca un ulteriore particolare e intende proporlo alla riflessione oltre al generale livello di conoscen za della comunità come componente supplementare di una più vasta serie di prove. Se si parte dalla considerazione che il Sai. n o parla di M elchisedec-Cristo, il quale per Gen. 14 è senza genealogia, allora tut to il ragionamento appare effettivamente un p o ’ illogico. D ’altra par te, se si tien conto che - come già ai vv. 1 1 s. - è il Sai. 1 1 0 a essere nuo vamente al centro dell’attenzione, allora l’esposizione diventa com prensibile. Per la concezione dello studioso giudaico della Bibbia, Sai. 110 ,4 non lascia alcun dubbio: il sacerdote che vi è menzionato non può in alcun modo appartenere alla tribù di Levi. Sembra quindi giustifi cato dedurne che fosse membro di una tribù «della quale nessuno (mai) fu addetto al servizio dell’ altare». In fondo si tratta di un compito af fidato solo ed esclusivamente ai discendenti di Levi. Il v. 13 dice lette ralmente: «H a partecipazione a un’altra tribù» (perfetto dell’ allego ria), espressione che evidenzia la certezza dell’adempimento presente di Sai. 110 ,4 . 14. Il v. 14 precisa il pensiero alludendo all’origine di Gesù dalla tribù di Giuda. Viene così espressa la figliolanza davidica di Gesù nel senso di una convinzione comune nel cristianesimo prim itivo (cf. in
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particolare Rom. 1,3; Mt. 1,1 ss.; Le. 1,27; 2 Tim. 2,8 ecc.). Se questo è esatto, allora nell’affermazione confluiscono due componenti: la con vinzione del giudaismo del tempo che il messia promesso nell’A ntico Testamento provenga dalla tribù di Davide (= Giuda) (cf. in particola re 1 Macc. 2,47; Ps. Sai 17 e 18; 4 Esd. 7,28; 1 1 , 1 ss.; bSanh. 972. ecc.), e la conoscenza storica effettiva riguardo a tale pretesa genealogica della famiglia di Gesù. La formulazione del v. 14 in questo è più un’afferm a zione nello stile liturgico kerygmatico che non una relazione di stam po storico: «Il Signore nostro è uscito da Giuda», alla lettera; «sorto». N el tenore dovrebbe ricordare le predizioni bibliche, come indica l’im magine della «salita da Giuda», simile a un astro (cf. Zacc. 3,8; 6 ,12; Ger. 23,5; Mal. 3,20). Può esserci soprattutto una particolare affinità con il testo di Num. 24 ,17 (cf. inoltre Sai 112,4 ). Quando si dice: «il Signore nostro», riecheggia lo stile confessionale delle chiese cristiane elleni stiche; ne risuona la convinzione vittoriosa che Cristo rivendica un diritto universale e che di fatto non gli può essere negata la venerazio ne che gli spetta (cf. a 1,10 ss.). C i si potrebbe chiedere inoltre se non si vada magari profilando una disputa precoce sull’origine del messia. D i sicuro era convinzione generale del popolo giudaico che alla fine dei tempi sarebbe venuto un messia davidico. Indubbiamente però sorsero problemi quando per Gesù della tribù di Giuda venne riven dicata anche la dignità sacerdotale. E questo tanto più che nel popolo esistevano gruppi religiosi (v. la comunità degli esseni del M ar M orto) che evidentemente attendevano due messia, quello regale da Israele e quello sacerdotale da Levi-A ronne (cf. iQ S ix,9 ss.; iQ S a 28a; anche in particolare Test. X I I Rub. 6,j ss.; Test. Sym. 7,1 ss.; Test. Iud. 21,2). Anche se le concezioni erano poco uniformi, e non poteva essere al trimenti, tuttavia Ebr. può aver subito l’influenza indiretta della di scussione generale. In fondo, a suo modo, sottolinea chiaramente che in Gesù si unificano due ruoli di messia, di cui quello sacerdotale è palesemente in primo piano. Se anche questo non accade nel senso di un’attesa levitico-aronitica di un messia-sacerdote, ha tuttavia luogo sulla base di una singolare speculazione riguardo a Melchisedec, che in una form a qualsiasi deve essere stata assai diffusa a Qumran, come prova il frammento u Q M e lch , pur lasciando aperti alcuni interroga tivi. Com unque la tendenza di Ebr. è abbastanza palesemente a favore di una messianicità sacerdotale che non è poi così fortemente sottoli neata nella restante letteratura del cristianesimo prim itivo, per quanto
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forse qua e là ne emergano alcuni accenni (così ad es. nel passo di tra dizione prepaolina di Rom. 3,24 ss.). Quando si fa presente che M osè non ha detto nulla «riguardo a sacerdoti» della tribù di Giuda, si evi denzia anche che Gesù è proprio il messia e sacerdote di stirpe non levitica preannunciato da Sai 110 ,4 . 15 . A riprova di questo vi è anche un’altra frase rafforzativa, nel v. 15 , introdotta dalle parole «e questo appare in modo molto più evi dente», che si riferiscono a quanto detto al v. 13. Il sacerdozio di C ri sto sarebbe dunque un’entità a parte, che non ha niente a che vedere con la tribù di Levi perché il testo del salmo attesta 1’ «uguaglianza» con Melchisedec. Bisogna inoltre vedere se D io, che era all’opera con potenza di vita celeste, abbia mai voluto un ordinamento terreno e ca duco. Intendendo l’espressione «secondo l’ordine di Melchisedec» co me «secondo l’uguaglianza con Melchisedec», l’autore esprime la con vinzione che il sacerdozio di Cristo non solo è di carattere peculiare, ma rappresenta addirittura una propria nuova realtà. 16. L a sua caratteristica sostanziale, nel raffronto con la «legge di un ordinamento carnale», è rappresentata dalla «potenza di una vita indistruttibile» che si può vedere in Melchisedec, del quale è lecito af fermare: «senza fine di vita» (così letteralmente 7,3), «egli vive» (7,8), «rimane sacerdote per sempre» (7,3 b). Com e Filone, evidentemente anche il nostro autore ama l’idea delle «potenze» di D io all’opera in questo mondo, grazie alle quali l’uomo è in grado di avvicinarsi alle verità eterne. Tuttavia egli compie un ulteriore passo avanti quando in Cristo-M elchisedec vede incarnata, in modo completo e unico, la «po tenza di una vita indistruttibile». La «legge di un ordinamento carna le» non implica il concetto di peccato, ma quello della caducità e del l ’effim ero, così come anche i sacerdoti levitici, chiamati secondo i cri teri della discendenza carnale e della natura corporea, sono mortali (cf. 7,8.23). 17 . Q uando ci si richiama nuovamente a Sai 110 ,4 , l’ accento è in negabilmente posto sull’espressione «tu sei sacerdote in eterno». In essa C risto, sulla base di una dichiarazione divina, è attestato come l’eterna figura sacerdotale, figura decisiva in m odo definitivo per tutto ciò che vive. Riassum endo il ragionamento dei vv. 13 ss., Ebr. torna nuovamente alla prova scritturistica di cui cita per intero la frase cen trale. Probabilmente traspare anche l’idea che nelle parole di D io ab bia la sua ultima origine anche la «forza di una vita indistruttibile». In
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fine, l’autore di Ebr. non pensa più, come Filone, al mondo come a un libero spazio delle eterne potenze di Dio. Per lui il nuovo centro della rivelazione e della conoscenza è piuttosto la figura salvatrice dell’eter no sommo sacerdote Cristo, «che con la potenza della parola sostiene tutte le cose» (1,3). Cristo è Pautore di un ordinamento incorruttibile e perfetto (7,18-25) 18 Infatti, da una parte si ha Pabrogazione di un precetto precedente, a cau sa della sua debolezza e inutilità, 19 perché la legge non ha perfezionato nulla; dall’altra si ha l’introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale ci avviciniamo a Dio. 20 E in quale misura questo accadde senza giu ramento - poiché quelli sono certo divenuti sacerdoti senza giuramento, 21 ma costui con un giuramento da parte di colui che gli ha detto: «Il Si gnore ha giurato e non si pente: ‘Tu sei sacerdote in eterno’», 22 tanto più anche Gesù è diventato garante di un testamento migliore. 23 E gli uni so no diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo, 24 egli però possiede un sacerdozio immutabile perché «ri mane in eterno». 25 Perciò è in grado anche di salvare in modo perfetto quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, perché vive sempre allo sco po d’intercedere a loro favore. 21 Sai 1 io,4a. 24 Sai 110,4. 18-25. In genere l’interpretazione è incline a definire i vv. 18-25 un’unità concettuale a sé stante, dal momento che in essa si trovano tre frasi dello stesso tipo sullo schema «certo... ma». In particolare presentano i seguenti elementi formali: w . 18 ss. tesi, w . 20-22 prova scritturistica, vv. 23 ss. prova dei fatti, v. 25 reiterazione della tesi in versione più concreta. D a un punto di vista prevalentemente conte nutistico si possono distinguere i seguenti raggruppamenti: w . 15 -19 , vv. 20-22 e w . 23-25. In considerazione del particolare modo di p ro cedere omiletico di Ebr., di fatto i vv. 18-25 andrebbero considerati a parte. Essi mirano a evidenziare le conseguenze giuridiche del sommo sacerdozio di Cristo. È evidente che nel capitolo 7 i vari argomenti si concludono ogni volta con un’espressione tratta dalla Scrittura, facili tando così una suddivisione della materia. 18. Se nel v. 12 compariva la nozione simile a una tesi per cui il «mu tamento» del sacerdozio comporta necessariamente anche quello della
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Ebr. 7,18-25. Cristo è l’autore di un ordinamento perfetto
legge, qui si parla in modo ancora più accentuato delP«abrogazione» del «precetto precedente». E questo ancora una volta in modo tale da prendere come punto di partenza della riflessione la prassi generale. Il termine «abrogazione» definisce un atto di annullamento con valore di legge; nelFepigrafia tale concetto è variamente attestato come ter mine giuridico. N el nostro caso si parte dalla considerazione che Pat to giuridico dell’invalidamento si ha quando una legge o un ordina mento si dimostrano «deboli o inutili». Effettivamente esistono frasi giuridiche che non ottengono l’effetto voluto, vuoi perché richiede rebbero una formulazione più perentoria del precetto, vuoi perché per altri motivi non conseguono il risultato sperato. 19. Com e evidenzia l’inserimento della frase di i9a, l’autore ha già in mente la legge di Mosè. Se al v. 1 6 si era già parlato della «legge di un ordinamento carnale», ora se ne constata la «debolezza e inutilità». Si sa che Paolo può affermare che la legge, sebbene sia santa e buona, conduce alla morte (Rom. 7,9-12). Ebr. ne ribadisce l’incapacità di «rendere perfetto». Questo giudizio appare forse meno radicale, ma il risultato finale è il medesimo. Chi confida nella «legge» non ha alcuna «speranza». Il sacerdozio dei figli di Levi amministra qualcosa di tran sitorio, e non è stato in grado di procurare la «vita indistruttibile» del v. 1 6. Incatenato ai limiti della vita naturale corporea, ha un proprio compito per quanto riguarda il rapporto con D io (5,1), malgrado tutto però non sa schiudere l’accesso a lui. Solo abolendolo si è giunti all’ «introduzione di una speranza migliore». L ’una presuppone l’al tro; le disposizioni divine infatti hanno valore di legge e non possono sussistere l’una accanto all’altra. La «speranza migliore» consente al l ’ebreo di «avvicinarsi» a D io (cf. il «noi»). Questo linguaggio è oltre m odo significativo. Forse che il tipo di relazione dell’ebreo, tenuto al rispetto della legge e del culto, non è decisamente caratterizzato dal l’esclusione dall’accesso a Dio, la cui dimora è rappresentata dal santo dei santi? Se la formula «accostarsi a Dio» nei L X X è riservata quasi esclusivamente al servizio sacerdotale, allora si comprende come pre sto o tardi la cosa sarebbe diventata un problema gnoseologico e quin di fondamentalmente teologico. Filone è considerato il rappresentante di quei giudei eruditi profondamente toccati dalla questione della ri velazione e della conoscenza, ragion per cui in lui i toni esistenziali sono presenti in larghissima misura: «Poiché anche quando Abram o si accostò a D io riconobbe immediatamente di essere polvere e cenere»
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(Gen. 18,27) {Deus 160 ss.). Si percepisce che ^«accostarsi a Dio» nelPantica alleanza era possibile solo a pochi eletti. Ebr. invece scrive partendo dalla certezza liberatoria di una «speranza migliore», «grazie alla quale noi (riferendosi dunque a tutta la comunità) ci avviciniamo a Dio». Che l’incontro sia qualcosa di più che rivelazione ricevuta e comprensione delle relazioni divine, e cioè accesso al santo dei santi in forza del sacrificio di Gesù, ci è chiaro da 6,20. Se un privilegio di p o chi è diventato diritto fondamentale di tutti i membri della comunità, ciò documenta una nuova condizione totalmente mutata. 20 s. A l pari dei risultati, anche i presupposti sono radicalmente dif ferenti, come si vede dal fatto che D io ha rafforzato il nuovo ordina mento con un giuramento solenne. In tal m odo mantiene senza riser ve la sua nuova promessa, ormai definitiva. Quando un p o ’ macchino samente si dice «non senza giuramento», si vuole forse suggerire che D io non ha assolutamente voluto rinunciare a un tale atto unico nel suo genere perché era indispensabile al raggiungimento del suo scopo. Il conseguimento del bene eterno della speranza è concesso per l’ eter nità. Niente può più essere ripreso indietro, né lo sarà mai. È quindi ri levante la differenza rispetto all’ordinamento che c’era prima. Per con ferire maggior peso all’espressione «e in quale misura questo accadde senza giuramento», in un primo tempo la frase non viene conclusa, ma interrotta parenteticamente mediante l’inserimento di una spiegazio ne: «poiché quelli sono certo divenuti sacerdoti senza giuramento, ma costui con un giuramento da parte di colui che gli ha detto: Sai. n o , 4a». In tal modo viene recuperata subito la prova scritturistica per la mezza frase precedente («e in quale misura questo accadde senza giu ramento») - circostanza che fa capire chiaramente che Ebr. non argo menta sulla base di Sai. 110 , ma ne prende invece spunto per la p ro pria omelia. La contrapposizione comparativa tra «poiché quelli... ma costui» si riferisce sia al sacerdozio levitico sia a Cristo. Se «quelli» non sono pervenuti alla loro funzione mediante un giuramento è per ché D io in un primo tempo non ha voluto che un ordinamento p ro v visorio. 22. In modo simile a 6,17, eppure in maniera diversa, viene ripreso il concetto ancora più importante di «giuramento», con cui indub biamente trova espressione la convinzione che D io stesso lo ha presta to di fronte a Gesù (cf. 5,9 ss.). Proprio quest’ultimo perciò si è assun to il ruolo di «garante di un testamento (o alleanza) migliore», come
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sottolinea l’ aggiunta del v. 22. Preferendo la traduzione «testamento» a «alleanza», sottolineiamo che per Ebr. è determinante la concezione per cui non esiste alcun accordo bilaterale (nel senso di rapporto rego lato da un patto), bensì una libera decisione su iniziativa unicamente di D io. Questa ha carattere di donazione garantita da un giuramento, nella quale D io ha impegnato Gesù quale «garante» della sua validità e verità incondizionate (riguardo a tale concetto v. Filone, Cher. 45). A ciò si collega al tempo stesso la convinzione che Gesù (si faccia caso al nome del Signore terreno) può essere presentato come garante dell’as soluta verità della promessa di Dio. Gesù è garante perché sulla croce ha dimostrato un’obbedienza unica, a motivo della quale è stato innal zato. Vorrem m o perciò riflettere sull’ affermazione che Gesù, in quan to testimone della fede, per l ’uomo che s’interroga e che è in ricerca sarà sempre anche il garante della verità. 23. Questa consapevolezza è accentuata dal confronto che segue nei w . 23 ss., che vede contrapporsi il gran numero dei sacerdoti levitici al sacerdozio dell’unico Cristo. L ’idea della grande quantità appare sminuita dal fatto che si è resa necessaria a causa della morte che at tende tutti i sacerdoti, impedendo loro di esercitare durevolmente la loro funzione. L ’autore introduce così una nuova idea che non va af fatto sottovalutata, anche se da un punto di vista puramente esteriore può sembrare lievemente artificiosa. In un’analisi critica, ma sincera, constata che questo mondo costringe il sacerdozio israelita, affidato a uom ini mortali, a un dispendio religioso cultuale senza precedenti: ma in realtà non si tratta forse di uno sforzo vano, che porta solo a una rassegnazione più profonda? C osì come stanno le cose, l’autore si sente perciò di riporre la sua speranza (v. 19) esclusivamente nel sa cerdote di cui si attesta che «rimane per sempre» (v. 3). 24. C iò che là è dato temporaneamente a singole persone che in quan to mortali vengono e poi vanno, D io in Gesù lo ha elevato a carica im mutabile e non trasferibile. In essa tutto è assoluto, conclusivo e defi nitivo, in quanto non più relativizzato da morte e temporalità. Il con cetto del «rimanere» va visto in particolare nell’ottica teologico-filosofica, e ha il significato di esistere per sempre (Filone, Somn. 2,221). «Diventato» tale per la morte del sacerdote, il sacerdozio ha acquisito una validità che ha fondamento al di là del nostro destino mortale. In altre parole, una speranza nata dalla croce significa sperare contro ogni speranza (Rom. 4,18).
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25. Se il sacerdozio è affidato a Gesù in modo immutabile ed esclu sivo, allora viene definitivamente aperta la strada per poter giungere a D io (v. zy. «perciò»). Ogni ricerca disperata, ogni sforzo intrapreso a tentoni diviene superfluo. Il sacerdote secondo l'ordine di M elchise dec è in grado di salvare in «modo perfetto» (letteralmente «del tut to»; anche in Filone) tutti coloro che «per m ezzo di lui», ossia me diante il suo ministero, «si accostano a Dio». O ltre al v. 19, qui non si parla solo di un «venire più vicino», ma addirittura di «accostarsi» (cf. Es. 16,9; Lev. 9,5), come pure di avvicinarsi al «trono della grazia» (4, 16) e alla santissima dimora di D io stesso (6,20). C on il servizio sacer dotale di Cristo, D io è uscito dunque dalla sua inaccessibilità. N o n so lo si è fatto conoscere, ma lo ha fatto in modo tale che noi «riceviamo misericordia» e «possiamo trovare grazia» (4,16). Anche se la sua so stanza ora è messa allo scoperto, non per questo la sua santità ne risul ta minimamente offesa. Rimasto nel nascondimento sino ad ora, «per m ezzo di lui», «che vive sempre allo scopo d ’intercedere in loro favo re», D io è divenuto accessibile. Dietro questa frase vi è il profondo timore reverenziale del giudeo credente, consapevole che il problem a uom o-D io non ha mai saputo trovare facile soluzione. L a situazione temporaneamente ancora aperta è denunciata dall’ espressione «è in grado di salvare»: dunque la salvezza dell’uomo non è semplicemente qualcosa di concluso e generale, spettante a ciascuno, ma è resa pos sibile solamente in Cristo, nella misura in cui consente a coloro che «si accostano» di avere accesso a Dio. Quando poi è detto che egli, quale sommo sacerdote vivente per sem pre, «garantisce (intercedendo) per essi», l’affermazione ricorda con siderazioni di Filone, che pure attribuisce al logos un’ azione mediatri ce e di intercessione (Rer. 205). Questo viene presentato in qualità di sommo sacerdote nel tempio del mondo (v. a 4,14), ove esercita tra l’ altro la funzione di mediatore e intercessore tra D io e il mondo, o tra D io e l’uomo. Q uest’idea sembra essere da Ebr. non solo ripresa, ma anche riferita a Cristo in modo nuovo e singolare. La parola di D io in lui ha preso una forma unica e irripetibile. Egli esercita la propria fun zione in modo tale da «intervenire» (davanti a D io) come un sacerdo te a favore degli uomini perduti e mortali. «Questo ‘intervenire’ è com petenza di un intercessore, e dunque in questo caso non abbiamo la presentazione di attenuanti, bensì vera intercessione» (O. Michel). In tal modo è inequivocabilmente chiaro che noi uomini siamo sempre i
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«salvati» e lui è sempre il salvatore. D ’altra parte è questo il prodigio inconcepibile: grazie al suo ministero di mediazione, coloro che non sono santi possono comunque accostarsi al Dio santo. Il sommo sacerdozio di Gesù, unico nel suo genere, si fonda sul sacrificio di se stesso, unico e irripetibile (7,26-28) 26 Tale era infatti il sommo sacerdote adeguato a noi, che fosse santo, sen
za falsità, senza macchia e separato dai peccatori, e posto più in alto dei cieli, 27 che non avesse bisogno come gli (altri) sommi sacerdoti di offrire ogni giorno sacrifici per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché questo egli l’ha fatto una volta per tutte quando ha offerto se stesso. 28 In fatti la legge costituisce come sommi sacerdoti degli uomini soggetti alla de bolezza, mentre la parola del giuramento emanato dopo la legge costituisce un «Figlio» che è reso perfetto «in eterno». 28 Sai. 110,4.
26. Sempre riferendosi principalmente alla persona del sommo sa cerdote, il ragionamento si conclude con uno stile che ricorda quello di un inno. 7,1 iniziava con il dimostrativo «questo», 7,26 completa la riflessione dichiarando «tale era infatti il sommo sacerdote adeguato a noi». L ’affermazione si rifà al v. 25, ma in fin dei conti include tutte le espressioni che in qualche modo sottolineano la continua opera sa cerdotale di Cristo davanti a Dio. Se in 2,10 si chiariva cosa «si addi ceva» a D io per realizzare la perfezione mediante la sofferenza, qui si esplicita quale sommo sacerdote è «adeguato» a noi. Sullo sfondo vi è la concezione, in parte filosofica, che D io percorre del tutto libera mente determinate vie per realizzare la salvezza,, Il suo operato mira a un’estrema, assoluta realizzazione di ciò che è necessario. Sa anche che cosa è veramente di aiuto all’uomo. Solo un sacerdozio unico nel suo genere poteva schiudere l’eterno rapporto con D io che compren de la salvezza. La natura di questo sacerdozio di Cristo viene caratte rizzata sotto un duplice aspetto, con una specie di elenco. M eraviglia e lode trapelano dalle form ulazioni che si riferiscono all’unicità etico cultuale e alla sostanza celeste sotto vari aspetti. Egli è «santo», non in m odo esistenziale o in base all’origine, ma nel legame con D io che ha contraddistinto il suo pensiero e la sua azione, sempre guidati dall’ at tenzione alla volontà del Padre. Inoltre è «senza falsità (cattiveria)» e «senza macchia (o contaminazione)» proprio perché su duplice fronte
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è stato provato e confermato. H a saputo mantenersi puro nelle tenta zioni che per natura gravano sull’uomo, ma anche in quelle che giun gono da fuori per guastare un’indole innocente e pura. C on concetti chiaramente «sacerdotali cultuali» viene caratterizzata l’assoluta per fezione di Cristo in modo da cercare di cogliere l’unicità etico-morale della sua persona (cf. anche Filone, Spec. leg. 1,260). Altri due elemen ti ne descrivono il carattere e la particolare posizione: egli è «separato dai peccatori» e «posto più in alto dei cieli». Com e in 4,15 ss. si con stata ancora una volta P«impeccabilità» del sommo sacerdote. Stando alle asserzioni precedenti, non vi può essere alcun dubbio riguardo ad essa: non è innata né ereditaria, ma ha avuto dimostrazione nella soli darietà con i «peccatori». Ora, sicuramente, il v. 26 guarda solo all’esi to, e cioè al posto accanto a D io del Cristo innalzato, ma l’afferm a zione non può essere meditata senza tener conto dei suoi presupposti. Qualcuno è stato preso dalla massa dei «peccatori», per i quali D io è distante e il suo «trono di misericordia» inaccessibile. Questo qualcu no, dunque, è stato in grado di rompere l’opposizione insanabile tra terra e cielo, non per se stesso, ma per i peccatori, cioè per noi. Adesso svolge la sua funzione nel santuario celeste, ove intercede per i suoi presso D io (7,25). 27. L ’importanza della sua posizione si deduce dal fatto che per svolgere tale funzione non deve più offrire sacrifici quotidiani. Questa affermazione appare inesatta, poiché il sommo sacerdote sacrifica ogni giorno solo nel periodo della grande festa dell’ espiazione, e non du rante tutto l’anno. N essun dubbio che l’autore ne fosse al corrente (cf. 9,7.25; 10 ,1.3). Ora, sia che abbia in mente proprio i giorni di tale fe sta, come può far pensare il risalto che analogamente a 5,3 viene dato all’offerta per le colpe proprie e del popolo (significativa anche la strut tura «prima... poi», cf. Lev. 16,6.9), s^a c^e prenda le mosse semplicemente dal fatto che il sommo sacerdozio si assume la responsabilità del l’ offerta quotidiana, il che è meno probabile, in un caso o nell’altro l’au tore contrappone drasticamente l’unicità e irripetibilità del sacrificio di Cristo al servizio giornaliero e molteplice nel tempio. Proprio per ché la funzione di Cristo presso D io dimostra di essere un continuo intervento d’intercessione (7,25) il culto dTsraele è diventato super fluo ed è stato abolito: «poiché questo egli l’ha fatto una volta per tut te quando ha offerto se stesso». L ’argomento irrompe trionfante, e in modo quasi im provviso conclude almeno temporaneamente il ragio
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Ebr. 8,1-13. Ministero sacerdotale alla destra di Dio
namento maggiore. Tra le righe s’intuisce che Cristo ha rinunciato al l’offerta «per se stesso» per via della sua impeccabilità. A l contrario, egli che era puro e senza peccato ha offerto la propria persona come sacrificio innocente e senza macchia a D io, per trasformarne radical mente il rapporto con gli uomini. Per la prima volta emerge con la massima chiarezza che C risto è insieme sommo sacerdote e vittima. Concezione audace, che verrà sviluppata successivamente. 28. M a per smussare un p o ’ il ragionamento condotto sino a questo momento, si richiama alla memoria ancora una volta l’avvenuta abro gazione della legge (7,18-7,25). In tale occasione un sommo sacerdote eterno e immortale, anzi addirittura il Figlio (3,1-6), grazie al giura mento della parola di D io ha preso il posto di un ordinamento che si no a quel momento era stato coperto da uomini deboli e peccatori. La risolutezza del pensiero, che parte da Sai 110 ,4 e continuamente ritorno, ora colpisce in modo particolare. Se infatti Paolo, ad esempio, sottolinea che la legge esiste tra la promessa e il tempo messianico, per così dire, solo come ordinamento divino ad interim, perché la pro messa è stata fatta per prima e quindi ha la precedenza come impegno vero e proprio di D io, dal canto suo Ebr. ribadisce che il giuramento di cui parla Davide è stato prestato successivamente alla legge e quindi va considerato come la manifestazione reale della volontà di Dio. O gni ordinamento precedente, dunque, non ha più valore. C on D io si è avuta una perfezione eterna e la certezza che ne deriva non poggia sul dato della «legge» ma sulla sua «parola», che ormai nella vita e nella morte del Figlio è divenuta egualmente manifesta e credibile. La grandezza del ministero sacerdotale di Cristo consiste nello svolgersi alla destra di Dio (8 ,1-13 ) In 8,i Ebr. passa decisamente all’argomento principale. Costruisce questo versetto letteralmente giocando con l’ espressione caratteristica «sedere alla destra», Sai 1 1 0 ,1 . Fin dall’introduzione (1,3) essa con traddistingue il tema guida (v. anche 1,13 ). Qui in 8,1 è nuovamente ribadita, e il fondamento testuale del sermone viene menzionato espli citamente. M a se prima al centro dell’attenzione vi era soprattutto il mistero divino della persona di Cristo, ora il pensiero si volge al luogo celeste del suo sacerdozio. In questo modo si giunge a enunciati che per la prim a volta esauriscono con ricchezza di idee la verità del suo
Ebr. 8,1-13. Ministero sacerdotale alla destra di Dio
operato al cospetto di Dio. Se ne avrà il completamento più avanti, in 9 ,11- 10 ,18 . Sotto alcuni aspetti 8,1 ss. è caratterizzato nuovamente da una certa sobrietà argomentativa. Il solenne stile in prosa di 7,2 6 ss., che in parte sembra addirittura innico, viene abbandonato per lasciare spazio a una sensibile obiettività che culmina in questa concisa consta tazione: l ’importante è il Cristo assiso alla destra di D io. In fondo di venta irrilevante la possibilità di produrre una molteplicità di dim o strazioni profonde. 1-5 . Il concetto di «vera tenda del convegno», introdotto sulla base di Num. 24,6 (L X X ), fa subito capire che occorrerà discutere connes sioni più profonde, ma in un primo tempo ci si muove nell’ambito di constatazioni assolutamente imparziali. Il v. 3 trae conclusioni da un dato di fatto generico. A l v. 4 segue un’ipotesi irreale tipica dello stile (cf. 7 ,1 1 ecc.). Il v. 5 si riferisce a un significativo contesto biblico da cui si può dedurre che tra il luogo dell’azione sacerdotale terrena e il luogo di quella celeste esistono rapporti profondi che vanno disvelati. Tutto sommato è evidente che nella sezione 8,1-5 viene presentata in prim o luogo tutta una serie di pensieri che devono ancora essere ana lizzati. La testimonianza vera e propria tuttavia viene formulata anco ra una volta chiaramente in relazione al Sai. n o per non rischiare di perdere di vista quello che è lo scopo dell’omelia. A quanto pare il concetto tematico prescelto è quello di «ministro» o «ministero». 6 -13 . La pericope successiva viene introdotta da una conclusione a minori ad maius. Il «ministero» di Cristo è tanto più eccellente quan to migliore è il testamento di cui è attestazione. C on l ’ aiuto di Ger. 3 1 ,3 1 ss., citazione che tra l’altro è la più lunga in tutta la lettera, si rafforza la verità del nuovo «testamento» (= alleanza) di D io in vigore. Ebr. è dunque giunto a un punto cruciale della sua dimostrazione. In m odo addirittura splendido riesce a coniugare le affermazioni della torà e dei profeti per sostenere la verità del C risto innalzato, nella qua le la comunità può riporre la propria speranza. Alle considerazioni basilari di 8 ,1-12 , che sviluppano i pensieri di 7,18 ss., corrisponderà poi la pericope riassuntiva di 1 0 ,1 1 - 1 8 , nella quale vengono nuovamen te accostati Sai. 1 1 0 ,1 e Ger. 3 1,3 1 ss. L o sguardo gettato sulla «paro la» dell’Antico Testamento, con l’ausilio della W’eltanschauung di un alessandrinismo filosofico-teologico diviene conoscenza del ponte che è stato gettato in Cristo tra idea e fenomeno, eterno e finito, celeste e terreno.
Il ministero di Cristo non si svolge nella copia terrena del santuario celeste, bensì in questo stesso (8,1-5) 1 II punto centrale del nostro discorso è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote tale che si «è assiso alla destra» del trono della Maestà nei cieli 2 come ministro del santuario e della vera tenda che il Signore, non un uo mo, ha piantato. 3 Ogni sommo sacerdote infatti viene costituito per offri re doni e anche sacrifìci, per cui è necessario che anche lui abbia qualche co sa da offrire. 4 Se egli fosse sulla terra non sarebbe neppure sacerdote, poi ché già vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge. 5 Questi però servono a una copia e a un’ombra delle realtà celesti, come anche Mosè, quando stava per preparare la tenda, ricevette un ordine (divino): «Guar da», disse infatti, «di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mo strato sul monte». 1 Sai 110,4. 2 Num, 24,6 (LXX). 5 Es, 25,40.
1. O ra che l’autore ha spiegato approfonditamente le affermazioni principali del testo di Sai 110 ,1- 4 e c^e ascoltatori è stata presen tata una ricchezza di materiale quasi sconcertante, viene affrontato in m odo assai felice, da un punto di vista retorico-pedagogico, l’interrogativo - evidentemente molto sentito - della vera e propria testimo nianza sostanziale, interrogativo che viene posto all’inizio di una nuo va pericope. Il punto cruciale «del discorso», rappresentato dall’idea di fondo della testimonianza biblica di Sai n o , è l’esaltazione di C ri sto «alla destra del trono della Maestà nei cieli». In questo m odo tutte le espressioni inniche del salmo vengono ricondotte a un denominatore comune che, al tempo stesso, comprende anche il kerygm a princi pale per chi ascolta il sermone. A ll’ascoltatore, infatti, a m otivo delli parola divina è dato sapere che noi abbiamo «un sommo sacerdote tale» da svolgere il suo ministero nella gloria celeste, davanti a D io. Ir questo m odo può prescindere dalla propria peccaminosità terrena che lo vincola (7,26), per consolarsi con una prospettiva migliore. C o n lin guaggio solenne, D io viene descritto con una circonlocuzione riferentesi al suo ruolo di giudice (v. «trono della Maestà nei cieli»). C iò che normalmente ostacola l’uom o in ricerca inducendolo alla rassegnazio ne, ovvero l’inaw icinabilità di D io, grazie al Cristo innalzato è diven tata annuncio liberatorio, unico e irripetibile, del «trono della grazia> (4,16). Q uando è detto che C risto ha preso posto «alla destra del tro no della Maestà», ciò significa che a lui è stato attribuito ogni potere.
Ebr. 8,i- j. Ministero di Cristo e santuario celeste
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2. Tale circostanza è resa evidente soprattutto dall'immagine suc cessiva, in cui egli appare in qualità di «ministro del santuario e della vera tenda del convegno». Perciò Cristo non è soltanto un personag gio celeste, bensì centro attivo e autorevole del cielo, cielo che non è affatto pensato come un santuario qualsiasi che va al di là di ogni im maginazione, ma piuttosto come concretizzazione del tabernacolo dei primi tempi dTsraele. Linguaggio e immagine sembrano ancora una volta essere fortemente influenzati da Filone (cf. Leg. all. 3 ,135 : «M i nistro e aiutante del santuario»; Fug. 93). Q uest'ultim o non solo parla in termini analoghi del vero sommo sacerdote, che è «libero da pecca ti» (Spec. leg. 1,230), ma, come il nostro autore, associa il santuario terreno, copia e immagine, all'edifìcio celeste, vero tabernacolo. C iò che lo distingue nettamente da Ebr. sono gli aspetti panteistici (Spec. leg. 1,66). Ricordando le parole della Scrittura in Num. 24,6 (v. anche Is. 42,5), Ebr. afferma che esiste una tenda celeste non costruita da mani di uomo, ma dovuta a Dio. Anche Filone, altrove, può mettere in relazione la «tenda ordinata da Dio» con la «sapienza (divina)» (Leg. all. 3,46), pur sviluppando in tale occasione una concezione chia ramente divergente quando afferma che D io si manifesterebbe sola mente a poche persone. È indubbio che in Ebr. la questione della rive lazione riceve una propria risposta, cosicché la distanza da Filone fon damentalmente c’è e rimane. 3. Per questo motivo nei w . 3-5 l’argomentazione prende un’altra direzione. Sebbene l ’idea del santuario celeste parta dal tabernacolo di epoca mosaica, per prima cosa si pensa comunque, come in 5,1 ss., a quanto accade anno dopo anno nel tempio il giorno dell’espiazione (v. i verbi al presente). In questo senso il v. 3 espone un’esperienza co mune. Com e il sommo sacerdote del popolo offre «doni e sacrifici», così doveva fare per sua natura anche Cristo, che si «offrì» (aoristo). Sorprendentemente, qui Ebr. non parla del luogo celeste in cui ebbe luogo il sacrificio del corpo di Cristo; afferma invece che anche questi doveva avere «qualche cosa» da offrire a Dio. Q ui si anticipa già, per ché se ne riconosce l’importanza, quanto verrà esposto approfondi tamente in 9 ,11 ss. 4. C ol v. 4 si torna nuovamente al luogo dell’offerta, anche se natu ralmente il concetto viene sviluppato al negativo: se egli esercitasse «sulla terra» il suo ministero sacerdotale, sarebbe un’altra cosa. Poiché qui vi sono sacerdoti che attendono al loro servizio «secondo la legge»,
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per lui e per la carica affidatagli non vi sarebbe posto. L a form ulazio ne intende perciò dimostrare che il ministero di Gesù, in fondo, ha il suo adempimento solo in un luogo celeste. Ma come necessitava di un’offerta propria, così anche di un suo luogo ove presentarla. L ’ af fermazione «vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge» è una prova a sostegno dell’ipotesi che lo scritto omiletico sia stato redatto prima della distruzione del tempio nel 70 d.C. Parecchi interpreti so no dell’avviso che anche in caso contrario la frase del v. 4 avrebbe p o tuto essere formulata da Ebr. in questo modo, dal momento che par la in relazione alla tenda del convegno. 5. Ma per quanto riguarda il contenuto, si tratta sicuramente del sa cerdozio giudaico, e il proseguimento del pensiero al v. 5 include chia ramente il presente dell’autore. Altrim enti la catastrofe della città san ta e del suo tempio sarebbe stata indubbiamente presa in considera zione ed elaborata. Poiché questo non era possibile né si osava pensar lo, l’autore sostiene semplicemente la convinzione teologica che il cul to gerosolimitano, evidentemente ancora esistente, è «copia ed om bra» del modello celeste. L ’espressione «realtà celesti» intende il san tuario con i suoi arredi in senso lato, quindi edificio e utensili. Mentre i rabbi hanno interpretato Es. 25,40 come se allora a M osè fosse stata prom essa la durata eterna delle cose, viceversa l’autore di Ebr., pre sumibilmente ex ammiratore di Filone ed ora cristiano, interpreta la testimonianza biblica per l’istituzione esistente proprio in senso con trario, ossia come dimostrazione della sua validità solo provvisoria e imperfetta. Se nei L X X il concetto di «prototipo» (gr. typos) ha preva lentemente il significato di «modello, campione», qui, con l’ aiuto del l’ermeneutica alessandrina, l’accento è posto sul carattere inferiore di copia riservato al santuario terreno e ai suoi arredi. In quanto «imita zione» e «ombra», essi rappresentano solo un debole riflesso della real tà celeste, ma non sono eguali a essa. Mentre il testo ebraico di Es. 25, 40 asserisce che a M osè è stato mostrato per così dire un «modello» preciso della tenda del convegno secondo il quale costruire, Ebr., par tendo come Filone dall’idealismo platonico, ipotizza che alla base del le cose terrene vi sia un’ entità eterna e immortale alla quale M osè si è ispirato. L a dipendenza esegetico-metodica da Filone si manifesta fin nell’ «ogni cosa» aggiunto alla citazione della Scrittura (Filone, Leg. all. 3,10 2); ma nonostante l’affinità di pensiero, Ebr. si distingue da Filone (cf. in particolare Mos. 2,74(3)) perché per l’autore il mondo
Ebr. 8,6-13. Cristo testimone di un nuovo testamento
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celeste è luogo del Cristo innalzato, ragion per cui la sua eterna realtà acquisisce significato e rilevanza. N o n lo è solo in quanto tale. C om e accenna in 8,1, si possono fare molteplici considerazioni, che però ri cevono un significato solo grazie al ministero sacerdotale di C risto. Per Pautore di Ebr. il ponte tra mondo eterno e mondo corruttibile è la «parola di Dio» divenuta, in verità, realtà storica. C risto è il testim one di un n uovo testam ento al quale si collegano promesse più salde (8,6-13)
6 Ora però ha ottenuto un ministero sacerdotale tanto più eccellente quan to migliore è il testamento di cui è mediatore (= testimone), il quale è stato giuridicamente disposto su promesse più salde. 7 Se infatti quel primo (te stamento) fosse privo di difetti, allora non si sarebbe cercato lo spazio per un secondo. 8 Poiché biasimandoli dice loro: «Ecco verranno giorni, dice il Signore, in cui concluderò con la casa d’Israele e con la casa di Giuda una nuova alleanza (= testamento), 9 non un’alleanza (= testamento) come quel la che conclusi con i loro padri nel giorno in cui li presi per mano per con durli fuori dal paese d’Egitto. Poiché essi non sono rimasti fedeli a questa alleanza (= testamento) con me, e io non mi sono più curato di loro, dice il Signore. 10 E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le scriverò nei loro cuori. E 10 sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo, dice il Signore, n E nessuno dovrà più istruire il suo concittadino e dire al fratel lo: conosci il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande. 12 Perché io sarò misericordioso riguardo alla loro iniquità, e non mi ricorderò più dei loro peccati». 13 Parlando di «una nuova» (alleanza) ha dichiarato antiquata la prima; ma ciò che può diventare vecchio e anti quato è prossimo a scomparire. 8-12 Ger. 31,31-34.
6. L a svolta temporale è nuovamente presa in considerazione nel m odo più marcato con la pericope 6-13 («ora però»). Se nei w . 7,20 ss. dalla grandezza dell’evento di Cristo si deduceva il «testamento più eccellente», ora viceversa dal testamento di cui C risto è garante si giunge al più eccellente ministero sacerdotale che egli «ha ottenuto». L à come testo biblico di base si aveva Sai. 110 ,4 , 24> esso era collocato sul lato meridionale, e due volte al giorno si provvedeva alla sua ma nutenzione. A un suo servizio coscienzioso vennero legate particolari benedizioni. D i fronte a esso, sul lato settentrionale, vi era il tavolo anch’esso d’oro (Es. 25,23), sul quale ogni sabato i cosiddetti pani del l’ offerta venivano disposti in due pile vicine: dodici pani in tutto, tanti quante le tribù dTsraele. Preparati secondo un procedimento partico lare e deposti davanti alla «faccia del Signore» insieme a del sale, essi sim bolizzavano la sua fedeltà all’ alleanza e alla creazione (Filone, Mos. 2(3), 104). I pani rimanevano esposti ogni volta per una settimana, per essere poi consumati nel santuario com ’ era privilegio dei sacerdoti (cf. L ev . 24,5-9). Stranamente Ebr. non menziona l ’altare dei profum i, cir costanza che ha causato non poche difficoltà d’interpretazione. Se ne parlerà più diffusamente in seguito. 3. L a descrizione in un primo tempo procede ponendo nel v. 3 il santo dei santi «dietro il secondo telo». Ignorando il «primo telo», Ebr. privilegia un altro oggetto significativo (cf, Es. 26,31 ss.). Questo teneva celato il luogo della rivelazione di D io, che «voleva abitare nel l’oscurità» (1 Re 8 ,1 2 ; 2 Cron. 3 , 1 4 ). V i si accennava fugacemente già in 6,19. Filone (Mos. 2 (3),10 1) distingue fra il «telo» o cortina che cela l’ accesso al santo dei santi e l’ «involucro», ossia il telo che introduce al santo (cf. Giuseppe, Bell. 5 , 5 ,4 ). 4. C o n un lieve cambiamento di linguaggio vengono elencati gli og
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getti che «appartenevano» a questo ambiente santissimo (= «tenda»), costruito a forma di cubo. O ra la descrizione menziona intenzional mente i principali oggetti d'oro. Affascinato dall’importanza del lu o go, Pautore di Ebr. si dilunga a elencare gli straordinari arredi del san tuario terreno. In primo luogo viene ricordato 1*«incensiere d'oro», con cui forse si intende l'altare dei profum i con i suoi accessori. Il ter mine prescelto (gr. thymiaterion) è più generico rispetto ad «altare dei profumi» (Es. 27,1: thysiasterion, cf. anche Es. 30 ,1.27, Lev. 4,7.18 ecc.). Alcuni interpreti pensano che - come sembrerebbero appoggia re alcuni argomenti linguistici (v. in particolare Giuseppe, Ant. 4 ,2,24 ; 8,3,8 ecc.) - si intenda in particolare il turibolo o braciere d 'oro del sommo sacerdote, ma in tal modo si vuole appianare la difficoltà creata dal fatto che l'altare dei profumi, a dire il vero, non può essere inserito tra gli oggetti facenti parte del santo dei santi. Che si debba accusare Ebr. di una svista? Se abbiamo ragione, allora indubbiamente la lettera intende 1' «altare dei profum i», così come Filone impiega il concetto controverso col medesimo significato (cf. Mos. 2(3),9 4 .io i. 105; Spec. leg. 1,231.29 0; Rer. 226 s.). Resta l'interrogativo se l'autore abbia sbagliato la collocazione dell'«altare dei profum i» (con i suoi accessori) per ignoranza, oppure se fosse animato da un particolare in tento. N oi propendiamo per la seconda ipotesi. D escrivendo il tempio com'era in origine, Ebr. mette l'altare dei profum i tra gli arredi del santo dei santi, fatto giustificabile dal punto di vista funzionale. Stan do alla testimonianza della Scrittura l’altare era sì davanti al telo, ma anche «davanti all’arca» (Es. 30,6; 40,5; 1 Cor. 6,22) e «davanti al Si gnore» (Lev. 16,18). Anche in Ez. 4 1,2 2 si afferma che il tavolo è p o sto «alla presenza di Dio». Diventa quindi comprensibile che Es. 26, 35 (L X X ) non lo elenchi tra gli oggetti del «santo» (cf. inoltre Es. 35, 13 ecc.). In fondo il profum o dell'altare era destinato a penetrare nel santo dei santi. V i si aggiunga che anche nel giorno dell'espiazione l'a l tare aveva un ruolo particolare, poiché veniva asperso di sangue come il santo dei santi (Lev. 16,18 s.). In Es. 30,10 (L X X ), ove viene descrit ta questa sua funzione, è detto espressamente «è (strumento) santissi mo per il Signore». Se si pensa che a Ebr. non preme tanto far cono scere il santo a chi non ne sa nulla, bensì evidenziare la divinità e il re lativo carattere di rivelazione del luogo santo dell'antica alleanza, al lora l'attribuzione proposta diviene maggiormente comprensibile e l'e ventualità di una svista assai meno probabile. Nonostante tutto, un cer
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to grado di estrosità è incontestabile (cf- anche Filone, Rer. 226). C o me secondo oggetto del santo dei santi nel v. 4 viene elencata «Parca dell'alleanza tutta ricoperta d'oro» (Es. 2 5 ,10 -16 ; 37,1-6 ; Filone, Mos. 2 (3),95) col suo triplice contenuto: il vaso della manna (Es. 16,33), ^ bastone di Aronne (Num. 17,16 -26 ) e le tavole della legge (Es. 25,16; Deut. 10 ,1 s.). Evidentemente l'autore si fonda, almeno in parte, su un'opinione esegetica coeva (v. anche bjoma 52b), che sosteneva tale descrizione in base a Es. 16,32 s. e a Num . 17,19 .2 2; tuttavia tale inter pretazione può essere contrastata citando 1 Re 8,9, secondo cui l'arca non conteneva nulla se non le due tavole di pietra. In generale si pen sava semplicemente che l'urna e il bastone fossero conservati nel santo dei santi stesso. Insieme alle tavole, essi incarnano il simbolo certo più significativo della guida divina in occasione dell'esodo, ricordi e atte stazioni dell'assistenza fisica e spirituale di Dio. Il «pane del cielo», inviato prodigiosamente, ha consentito di non morire di fame nel de serto, cosa che anche i discendenti dovranno sempre ricordare (cf. Es. 16,32). Il bastone di Aronne, però, deposto nella tenda del convegno davanti al Signore e miracolosamente germogliato e fiorito durante la notte, è diventato sim bolo della scelta operata da D io di un sacerdo zio per il suo popolo, perché spiritualmente non avesse a mancargli nulla e perché non morisse (Num. 17,25; Filone, Mos. 2(3),178 ss.186). Infine, le due «tavole dell'alleanza», fatte di pietra, ma su cui erano incisi i comandamenti (Es. 3 1,18 ), rappresentano il dono più prezioso in assoluto che Israele abbia ricevuto da D io. Esso infatti si distingue da tutti gli altri popoli perché ne conosce con precisione estrema la volontà. I dieci comandamenti, essenza della torà, non da ultim o fun gono anche da garanzia decisiva dell'alleanza conclusa, sulla quale Israele ha sempre fondato la propria stabilità e il proprio futuro (cf. anche Filone, Rer . 16 7 ss.). Se anche l'arca dell'alleanza, stando a Ebr., è stata luogo in cui si conservavano oggetti tanto importanti, segno tangibile a ricordo della storia salvifica del popolo, la sua im portanza non si esaurisce affatto qui. 5. In base a tale convinzione, da ultimo, viene fatto presente che so pra di essa si trovavano i cherubini della gloria, i quali «adom brava no» il propiziatorio. A lla fine dell'elencazione, dunque, è il pezzo più santo e prezioso a essere menzionato. Sono messe in risalto due figure angeliche che, collocate sulle estremità più strette, protendevano le ali sopra il coperchio (cf. Es. 15,17 ss.). Si tratta di due guardiani celesti
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del santissimo luogo di espiazione e di rivelazione che per Filone sono «un simbolo della misericordia di Dio» (Mos. 2(3),96). L ’arca delPalleanza andò perduta con la distruzione del prim o tempio. N um erose tradizioni secondarie si ricollegano al suo aspetto esteriore, al suo ruolo e alla sua custodia, ma Ebr., che si attiene scrupolosamente allo stringato riassunto offerto dai L X X , non vi fa la minima allusione. H a rinunciato anche a precisare i particolari. Le sue considerazioni sono sufficienti a fornire le basi per affermare che l'antica alleanza ha avuto sia prescrizioni cultuali sia un santuario. N on era certo un santuario senza importanza, tuttavia era pur sempre soltanto un'opera realizza ta con materiale terreno e da mano d'uom o. Spendere più parole ri guardo a particolari o addirittura alla simbologia (come pure Filone, Rer. 221), significherebbe deviare dal senso ultimo delle cose, e cioè che l'im perfezione del santuario è segno di una perfezione più grande, come si vede facilmente se si considera il culto officiato nel santuario dopo la sua ultimazione. Anche Filone la pensava in m odo del tutto analogo (Mos. 2(3^7 5) quando sottolinea che le azioni sacre dell’u ffi cio sacerdotale sono state compiute «nella massima concordanza e in armonia con la costruzione». 6. Il v. 6a riprende l'uso linguistico del v. 2a. Il significato del san tuario non risiede in esso, ma in una funzione cultuale che, sulla base della struttura costruita su indicazione divina, si è svolto in due am bienti rigidamente distinti: quello di competenza dei sacerdoti, e quel lo riservato al sommo sacerdote, entrambi assolutamente inaccessibili al popolo. A l prim o i sacerdoti potevano accedere «sempre», nel secon do poteva entrare unicamente il sommo sacerdote soltanto «una v o l ta» all'anno. C o n «compimento del servizio cultuale» da parte dei sa cerdoti, Ebr. intende la cura settimanale del tavolo riservato ai pani dell’offerta, l'accensione quotidiana del candelabro e l'offerta d'incen so presentata ogni giorno, al mattino e alla sera (cf. Es. 30,7 ss.; Lev. 24, 3). In base a un ordinamento successivo, le varie mansioni venivano sorteggiate tra i sacerdoti addetti al servizio al tempio secondo la cate goria (cf. mjoma 2). 7. Assolutamente unico tuttavia era il ministero del sommo sacer dote, il quale solo una volta in tutto l’anno, e cioè un unico giorno, il 10 di Tishri, poteva entrare nel santo dei santi al cospetto di D io. I particolari (Lev. 1 6 ,1 1 ss. 15 ss.20 ss. accenna a una duplice entrata nel santo dei santi) tuttavia non dovrebbero essere compresi dall’ «una voi-
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ta» di Ebr. (cf. mjoma 5,1 ss.; 7,4; Filone, Legat. 30 6; anche Spec. leg. 1,72; similmente Giuseppe, Bell 5,5.7). N ei vv. 6 s. poi Ebr. parla al presente, partendo quindi dal presupposto che i particolari atti cul tuali derivanti dalla costruzione della tenda del convegno sono ancora in vigore, circostanza che significa che a quel tempo tali atti venivano ancora compiuti. In caso contrario l ’autore probabilmente avrebbe de dicato maggior cura alla descrizione dei particolari. Oltre a ciò è forse rilevante che ndl'illustrazione del servizio del sommo sacerdote nel grande giorno delPespiazione non viene menzionata l’ arca delPalleanza, sulla quale veniva sparso il sangue dell’espiazione (caratteristica la differenza rispetto a 9,21). Tale servizio viene spiegato con la semplice affermazione che il sommo sacerdote deve presentare un sacrificio espiatorio, non senza sangue, per i peccati suoi e per quelli commessi inconsapevolmente dal popolo (v. sopra, a 7,27). In base alla legge (cf. Lev. 4 ,13 ; Num. 15,22 ss.) si fa dunque una distinzione tra trasgressio ni volontarie e non (v. anche 5,2; 10,26), puntando lo sguardo sull’ atto cultuale principale. C on «mancanze non conosciute» s'intendono quei peccati commessi non per empietà irrispettosa né in malafede, come pure quelli per i quali in seguito si è provato vergogna e pentimento. D ietro la breve annotazione del v. 7 vi è l'ebreo che conosce la m iseri cordia straordinaria e l'assoluta santità di D io, il quale in quel giorno concede espiazione totale (v. anche Filone, Spec. leg. 1,18 7). Tuttavia Ebr. non può accontentarsi di questa conoscenza. L'ordinam ento cul tuale di cui sa apprezzare benissimo l'unicità costituisce per lui al tem po stesso anche la prova più lampante della sua imperfezione. 8. D alla notevole argomentazione del v. 8 traspare la convinzione che struttura e arredi del culto veterotestamentario, creati su istruzione di vina, presentino al tempo stesso anche la testimonianza dello Spirito di D io riguardo a un'imperfesdone e limitatezza temporanea, consape volmente voluta. Infine, nella prima tenda possono entrare solo i sa cerdoti. È posta come una barriera davanti al santo dei santi, sim bolo del santuario celeste (8,2; 10,19). Se ne deduce che l'ingresso a que st’ultimo non era aperto e quindi vi era ancora la necessità della rive lazione. A quanto pare Ebr. intende lo Spirito santo non come il dono che viene fatto a tutti i cristiani, né come la parola biblica (come in 3, 7), ma piuttosto come testimonianza di D io nelle sue opere, che sono ricolme di una simbologia divina. Questa considerazione è formulata quasi si trattasse di una tesi (v. i participi).
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9. Il v. 9 è caratterizzato da una spiegazione che attualizza la cono scenza acquisita. Partendo dal fatto che il sacerdozio levitico svolge il suo servizio nel tempio di Gerusalemme, si afferma che la prima ten da, che in quanto struttura cultuale vincolante continua a esistere in tale forma, è simbolo per il tempo attuale. Certo, i sacerdoti officiano ancora, ma evidentemente non possono ottenere alcuna purificazione definitiva. L ’espressione «tempo attuale» non equivale al termine apo calittico «eone attuale». Parte anzi dal fatto evidente che l'ordinam en to ancora esistente non è nella condizione di rendere perfetto «secon do coscienza» colui che serve, cioè colui che si accosta a Dio. Si conti nua a restare nell'esteriorità e vi è mancanza di espiazione, quella che purifica l'uom o nell'intimo rendendolo in grado di avvicinarsi a D io. In questo modo si ammoniscono in particolare i lettori giudeocristiani a non mettersi su un piano di adorazione di D io che potrebbe signifi care una ricaduta nell'effim ero o nell'inadeguato. Quando si afferma che doni e sacrifici non sono in grado di ottenere la necessaria «pu rezza della coscienza» (riguardo a questa espressione v. Filone, Spec. leg. 1,203), se lo stesso sommo sacerdote ogni anno deve espiare pec cati inconsapevoli, allora tacitamente si allude già alla necessità di un sacrificio più grande. Quanto imperfetta è la prima tenda, tanto in sufficienti sono anche i doni presentati in essa e che non concedono alcuna «perfezione». C osì Ebr. sfiora l'interrogativo fondamentale: agli atti relativi all'antica alleanza va attribuito un valore duraturo? E in quale misura? La risposta fornita introduce il criterio della «coscienza pura», cioè il criterio della perfetta purezza dell'uom o che gli permet ta di sussistere davanti a Dio. La «coscienza» non viene intesa come qualcosa di relativo alla natura e all'origine celeste, bensì come la parte dell'uom o più intima, responsabile davanti a Dio. Il sacerdozio veterotestamentario per la lettera agli Ebrei dimostra l'im possibilità di raggiungere lo scopo mediante «ordinamenti carnali», che equivalgo no a pratiche esteriori, tangibili, come cibi, bevande e abluzioni. L 'a l lusione è al cerimoniale multiforme in cui è invischiato il servizio sa cerdotale, destinato a rimanere nell'esteriorità. Ogni sforzo mirava a conseguire e mantenere una purezza rituale formale, ma non quella purezza che caratterizza tutto l'uom o nuovo, cuore e mente compresi (cf. Ger. 3 1,3 1 ss.). 10. L'osservanza di particolari prescrizioni inerenti al cibo (cf. Lev. 1 1 ,2 ss.), ma anche un corretto uso delle offerte consacrate (cf. Lev. 22;
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Ebr. 9 ,11-10 ,18 . Cristo è il vero sommo sacerdote
Num. 1 8,8 ss.) nonché le lustrazioni di vario genere (cf. Lev. 16,23 ss.), possono anche essere indispensabili per Pintegrità formale del sa cerdote, ma fondamentalmente non significano nulla per il suo rap porto con D io al di là dell’ordinamento cultuale. Certo, la coscienza era istituzionalizzata, ma insieme anche spersonalizzata. Perciò per Pautore di Ebr., che in quanto cristiano si è trasferito in una nuova di mensione di fede e di conoscenza, è assolutamente necessaria una «cor rezione» che tenga conto dell’effettiva verità di Dio. Tali prescrizioni sono imposte solo fino al «momento deH’ordinamento nuovo», dopo diché non hanno più valore alcuno. Probabilmente l’ espressione cor rispondente non si riferisce al tempo di Cristo nel suo complesso, ma all’istante messianico dell’evento di Cristo, la svolta che porta a ciò che è vero e ultimo, alla verità assoluta e perfetta che migliora il rap porto dell’uom o con D io in modo radicale e completo. Cristo è il vero sommo sacerdote in ragione del suo sacrificio di se stesso, e in quanto tale è garante di un testamento nuovo alla fine dei tempi ( 9 ,11-10 ,18 ) Questa parte contiene la grande testimonianza sul significato unico della morte di Gesù, intesa come donazione di sé del vero sommo sa cerdote. Se nelle sezioni precedenti al centro dell’attenzione vi erano al cap. 7 la persona di M elchisedec-Cristo e in 8,1-9 ,10 il luogo del cul to in particolare, ora ci si concentra esclusivamente sulla nuova di mensione cultuale, giuridica e unica del suo sacrificio. In questo modo si è riusciti, con uno sforzo intellettuale progressivo, a sviluppare il senso ultimo del ruolo messianico di Gesù. La sommaria raffigurazio ne e l’argomentazione concisa si rivelano magistrali. O gni asserzione riceve un fondamento convincente. C iò che prima era stato solo ac cennato con frasi sulla grandezza del sommo sacerdozio (4,14), sul ri to sacrificale all’ «interno della cortina» (6,19 s.) e sull’atto unico e irri petibile del sacrificio di sé (7,27) in un luogo celeste (8,2), ora viene il lustrato nelle debite forme. n - 1 4 . Le riflessioni di 9 ,1 1 - 1 4 riguardano l’unicità del sacrificio di sé e la completa «redenzione eterna» ottenuta per suo tramite. Tale redenzione è realizzata in un ultimo superamento di quanto accade una volta l’anno nel grande giorno dell’espiazione. N el v. 14 quasi in volontariamente s’insinua la testimonianza pastorale per cui con essa
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«la nostra coscienza» è stata purificata dalle «opere morte» «per servi re il D io vivente». Probabilmente questo aveva una certa attualità li turgica per i lettori. In complesso si tratta di un compendio linguistico e tematico inerente a varie dichiarazioni centrali del contesto più am pio e di quello più ristretto (cf. v. 1 1 con 4 ,14 e 9 ,1; v. 12 con 2 ,17 ; 5,1; 7,27; 8,2 e 9,7; w . 13 s. con 4,16; 7,25; 9,9; 10,22; 9,15 con 3,1; 6 ,17 ; 7, 22; 8,6 ss.). Indiscutibilmente questi versetti racchiudono altre signifi cative idee della lettera. Il concetto di «sacerdozio eterno» (Sai. 110 ,4 ) si amplia sino a diventare prova di una «redenzione eterna». 15 -17 .18 -2 2 . Le frasi 9 ,15 - 17 insieme a 9 ,18-22 sviluppano nuova mente (7,18-25 e 8,6-13) conseguenze giuridiche del sacrifìcio da vanti alla realtà di un «nuovo testamento». Sorprende l'insistenza del concetto, ripreso più volte. Probabilmente nessuna trattazione poteva risultare più convincente per una comunità giudeocristiana. Si consi deri anche che inoltre si poteva fare ampio ricorso alla parola di D io (cf. Ger. 31). La particolare forza teologica di Ebr . risulta anche dal coniugare in modo estremamente convincente l’attestazione del nuo vo testamento con il postulato della morte del testatore. In più è pre sentata una riflessione che mette a confronto la prim a e la seconda al leanza, entrambe necessariamente inaugurate mediante il sangue espia torio. In tal modo si riconducono a unità logica e comprensibile sia il discorso relativo a Cristo «garante» (7,22) sia la testimonianza divina riguardante un perdono conclusivo (8,12). D a un punto di vista tema tico ci troviamo davanti alPunifìcazione, realizzata nel Cristo-m essia, delle due grandi tradizioni relative al giorno dell'espiazione e alla conclusione dell'alleanza. G ià in Qumran troviamo un tentativo sim i le (cf. iQ S 1,18 -11,18 ; C D x x,28-30; Iub. 5 ,17 s.). L a profondità della testimonianza giudeocristiana fornita da Ebr. tuttavia non vi è mai stata raggiunta, nonostante tutta la spiritualizzazione dei momenti cultuali. In tale contesto merita considerazione una certa vicinanza a Paolo, il quale in Rom. 7,1 ss., analogamente a Ebr. 9 ,16 ss., può fonda re la libertà dalla legge ricorrendo all'idea di una morte necessaria. 23-28. L'entrata nel santuario celeste in 9,23-28 è considerata l'even to decisivo «nella pienezza dei tempi» (eoni) (cf. 1,2; 4,9). Più avanti, con 10 ,19 ss., l'atteggiamento fondamentalmente escatologico di Ebr. pervade definitivamente la parte conclusiva della lettera. N o i presu miamo che in questo modo corrisponda alla restante testimonianza del Sai. n o (cf. vv. 5-7), in quanto in 10 ,1 1 - 1 8 con il v. 13 torna esplicita
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mente sul dominio di Cristo nel senso indicato da Sai. 1 1 0 , ib. La pro spettiva della seconda venuta di Cristo al v. 28 garantisce la risoluta attesa dell’autore, alla quale comunque sono indubbiamente subordi nate le affermazioni platonizzanti, presentemente escatologiche. E v i dentemente solo e soltanto con il loro aiuto viene accentuata la verità del mondo celeste e della salvezza futura, nella quale bisogna sperare con viva attesa; questo non vale invece per una superficiale, spiritua listica dottrina sulPeternità. Sono riprese, anche se non illimitatamen te, le molteplici concezioni sul santuario celeste proprie del primo giudaismo. Con ragione si è fatto notare che Ebr. lascia quasi intera mente al lettore il compito di tradurre l’immagine della tenda del con vegno veterotestamentaria nella realtà celeste. Per quanto attiene alla storia della tradizione, vi sono alcune espressioni di questa pericope che meritano attenzione. U n certo stile confessionale affiora dal «per noi» del v. 24 (cf. Rom. 8,34; cf. 7,25). L a medesima convinzione esca tologica è dietro il v. 2 6 («pienezza dei tempi») e 1 Cor. 1 0 ,1 1 . Com e dichiara apertamente il v. 24, il «santuario fatto da mani d ’uomo» si riferisce al cielo, per cui ne consegue che anche in 9 ,11 non può essere inteso il corpo di Cristo (come ritiene invece Vanhoye). 10 ,1- 10 . La pericope 10 ,1- 10 chiarisce in base a Sai. 4 0 , 7 ^ , impie gato abbastanza liberamente, la docile volontà di Gesù e quindi la sua illimitata disponibilità al sacrifìcio. Dalla citazione si deduce inoltre anche il rifiuto delle offerte fatte secondo la legge e che sino a questo momento erano state oggetto di un apparato cultuale infruttuoso. n - 1 8 . 1 0 ,1 1 - 1 8 completa il ragionamento principale sviluppato a partire da 8,1 ss. ponendo ancora una volta l’accento sul dominio eter no ottenuto dal sommo sacerdote Cristo. Afferm azioni già note ven gono ripetute (per Sai. n o ,ia cf. vv. 12 s. con 8,1 s.; per Ger. 3 1,3 1.3 4 cf. w . 16 s. con 8,8 ss.). L a nuova citazione del versetto di Sai. u o ,ilb (cf. al riguardo 1,13 ) rende possibile un passaggio appropriato alla suc cessiva grande sezione di 10 ,19 -12 ,2 9 . Si dà ancora una volta fonda mento all’idea che da quando vi è stato il sacrificio di C risto non vi è più alcun bisogno di altre offerte. Appare dubbio che Ebr. abbia adot tato il metodo del midrash-pesher (come ritiene F. Schròger). C hi può affermare che abbia illecitamente introdotto nella Scrittura un’idea o una speculazione? In fondo, l’ autore non si sente tenuto ad alcuna in terpretazione libera, bensì a una tipologesi strettamente orientata al Cristo-m essia, per cui potrebbe aver imparato in massima parte dall’ al-
Ebr. 9 ,11-14 . La redenzione non si basa sui sangue di animali
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legoresi platonica e dal significato simbolico filoniano a essa affine. Ogni impiego teologico ermeneutico serve a dimostrare il significato salvifico e il carattere sacrificale della morte di Cristo. La sua necessi tà, e ancor più il suo significato, vengono dimostrati a partire dal cen tro del culto giudaico; ne consegue che alla lettera spetta una posizio ne unica nel dialogo cristiano-giudaico della chiesa primitiva. N on è possibile fornire una suddivisione ideale della sezione m ag giore; con quella che viene qui suggerita cerchiamo di tener conto del lo sforzo compiuto da Ebr, riguardo a contenuto e raffigurazione, da to che si passa chiaramente dalla persona (cap. 7) al luogo (cap. 8) e in fine al ministero del sommo sacerdote, dapprima in senso negativo (9, 1 1 ss.), quindi ampiamente positivo (9 ,15-10 ,18 ). L a redenzione non si basa sul sangue di anim ali, m a sul sacrificio che Gesù fece di se stesso a D io (9 ,11-14 ) n Ma Cristo, che si presentò come sommo sacerdote dei beni divenuti real tà, attraverso la tenda più grande e più perfetta, non costruita con mani, cioè non appartenente a questa creazione, 12 entrò, una volta per tutte, nel santuario, non per il sangue di capri e vitelli, ma per il proprio sangue, e tro vò una «redenzione» eterna. 13 Se infatti il sangue di capri e tori e la cenere di una giovenca sparsi su quelli che sono contaminati santificano, purifi candoli nella carne, 14 quanto più allora il sangue di Cristo, che mediante 10 Spirito eterno offrì se stesso senza macchia, purificherà la nostra coscien za dalle opere morte, affinché serviamo il Dio vivente. 12 Sai m ,9a.
11. Con un «ma» senza compromessi Ebr. contrappone la perfezio ne del ministero sacerdotale di Gesù alPimperfezione del servizio levi tico nel santuario terrestre. Parlando specificamente di Cristo (v. ana logamente 5,5), indirettamente fa capire che il messia Gesù non può essere inteso nel senso di un’attesa corrente. Com e la sua figura (7,3: «Figlio di Dio»), così anche il suo compito era particolare. Com unque 11 v. 1 1 in un primo momento sembra avere in mente la venuta sto rica: egli si presentò (cf. Le. 12 ,5 1) come sommo sacerdote dei «beni realizzati» del mondo celeste. In un'altra lezione, a nostro parere non quella originale, questa formulazione un po' singolare viene m odifica ta nell’espressione «sommo sacerdote dei beni futuri», più com pren sibile e perciò adottata da quasi tutti gli esegeti. D i fatto però si ha una
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esemplificazione della frase, mentre non riceve la necessaria attenzio ne l'espressione filoniana «beni realizzati» (cf. Leg. all. 3,86 s.). Sem bra che in essa si faccia precisa distinzione tra i beni profetizzati, non ancora disponibili, e quelli «divenuti» realtà, argomento di un discor so divino giunto al suo adempimento. Il v. n a afferma che con l’av vento di Cristo, mediatore di salvezza, anche i doni futuri compresi dal suo ministero sacerdotale sono divenuti presenti. Le «prescrizioni carnali» sono abolite, mentre dal momento della sua venuta ha inizio il «tempo dell’ordinamento nuovo». I doni stessi sono di tipo «cele ste». C iò che s’intende con essi può essere facilmente dedotto sulla ba se di altre affermazioni, e cioè la «vocazione celeste» (3,1) e il «dono ce leste» (6,4) che il cristiano illuminato può gustare o sperimentare co me dono dello Spirito. D ovrebbe essere soprattutto inteso anche il per dono dei peccati ricevuto, che ha come conseguenza una perfetta p u rezza che consente all’uomo di comparire al cospetto di D io (cf. 8,8 ss.). Il concetto di «beni» indica dunque le cose celesti che divengono realtà nell’era messianica (v. anche 10 ,1 s.; in particolare Is. 52,7 cit. in Rom. 10 ,15 ), anche se, a dire il vero, nell’uso linguistico ellenistico tut ti gli oggetti di ordine superiore potrebbero essere chiamati così. N e l la concettualità astratta del discorso teologico, Ebr. descrive il C risto storico per farne apparire l’operato in questo mondo come operato sa cerdotale fin dal principio (v. anche 5 ,1-10 ). È stato orientato intera mente al compito vero ed ultimo, consistente nell’offerta della perso na in sacrificio a Dio. Questa tappa decisiva della sua vita e della sua azione è oggetto della frase principale dei w . n b e 12, nella quale vie ne ribadita in due modi la grandezza del ministero sacerdotale: in p ri mo luogo con la constatazione che C risto è entrato nel santuario di D io attraverso «la tenda più grande e più perfetta, non costruita con mani», in secondo luogo evidenziandone il sacrificio unico e irripe tibile «per il proprio sangue». Entrambe le asserzioni divengono chia re alla luce del rituale del grande giorno dell’ espiazione, così come sta bilito per il popolo d’Israele dal comando di D io in Lev. 16. L u ogo dell’atto pieno di significato era, per il sacerdozio levitico di epoca mosaica, la tenda del convegno, mentre per Cristo è la dimora celeste di D io. Questa è definita da Ebr. in triplice modo: santuario «più gran* de», «più perfetto» e «non costruito da mani». C iò significa che la li mitazione del tabernacolo è abolita. In quanto archetipo fondamenta le, alla dimora di D io competono perfezione estrema e massima figura
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ideale (cf. 8,5). N on essendo opera costruita da mani d'uom o, suo c o struttore può essere considerato lo stesso D io eterno (8,2). D i tanto in tanto riaffiora la concezione secondo la quale con «tenda più grande e più perfetta» s'intende il corpo di Cristo, dato che in Gv. 2,21 s. si ri porta un detto di Gesù in tal senso. Tuttavia questa particolare espres sione, come pure la precisazione «non appartenente a questa creazio ne», indicano con sicurezza la dimora eterna di D io (v. anche 9,24). L a si distingueva dal cielo, visibile agli occhi, per descriverla come luogo ultraterreno di adorazione perpetua, cioè come santuario simile al tempio (cf. Is. 6,1 ss.; Dan. 7,9 ss.; Sai. 10 3 ,19 ss.; in particolare Apoc. 3 ,12 ; 8,3 s. ecc.). N on si può pensare a niente di più grandioso e p os sente, e ovviamente l'accesso a tale luogo era interdetto agli uomini mortali (cf. 9,8). Le caratteristiche menzionate da Ebr. ricordano la descrizione del santuario celeste in Filone (v. sopra, a 8,2), sebbene egli sia incline a far sussistere accanto a «tutto l'universo», presentato co me «vero santuario della divinità», il divino spazio «del tempio» come «elemento più santo del mondo». Il panteismo filosofico in Ebr. resta tuttavia escluso, poiché il santuario celeste di D io vi è inteso come lu o go assolutamente trascendente. Anche l'idea filoniana di uno spazio «santo» che abbracciava tutto il mondo non viene ripresa da Ebr. T a citamente la raffigurazione parte dal presupposto che la dimora di D io può essere paragonata solo al santo dei santi della tenda del convegno. La componente spaziale, tuttavia, non è ignorata del tutto quando si parla di passare «attraverso» il santuario. C risto lo fece in analogia al sommo sacerdote dell'antica alleanza, il quale doveva anch'egli «attra versare» il santuario. C iò che altrove è sottolineato con maggior forza (cf. 4,14; 6,19), qui viene trascurato in favore dell’evento sacrificale unico e decisivo. Resta da chiarire in che misura si pensasse specificamente a un «cielo degli angeli». Il luogo dell'offerta riveste un certo interesse solo in relazione al suo carattere celeste eccezionale. 12. Il v. 12 aggiunge che C risto è entrato «non attraverso (alla lette ra) il sangue di capri e vitelli», bensì «attraverso (alla lettera) il proprio sangue», e questo una volta per sempre. Se prima il termine «attraver so» era inteso in senso spaziale, ora lo è in senso causale, per cui tra duciamo «per». Questa comprensione poggia su Lev. 16,2 s., in cui è detto chiaramente che Aronne potrà entrare nel santuario solo a con dizione di presentare un giovenco per il sacrificio e un ariete per l'o lo causto. «Attraverso» indica dunque il motivo che rende possibile qual
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cosa. Stando a Lev. 16 ,14 ss. il sangue del giovenco era versato per l'e spiazione dei peccati del popolo. Il sangue del sacrificio era Punico m ezzo che rendeva possibile l’accesso al santuario (v. 7). Secondo tale concezione, lo stesso Cristo potè entrare nel santuario di D io unica mente a motivo di un sacrificio di sangue; ma avendo offerto la p ro pria vita, egli si distingue radicalmente dalPordinamento levitico. L 'e spressione generica che parla al plurale di «sangue dei capri e dei vitel li» ha un'accezione vagamente negativa, in quanto vi si percepisce l'a l lusione a un'operazione ripetuta più volte nell'anno, che, alla fin fine risulta inutile. Dietro le parole sul sangue di Cristo presentato in o f ferta vi è invece la convinzione che egli è stato disposto a dare quan to vi era di più prezioso. In altre parole, egli ha offerto a D io il sacrifi cio totale della propria persona, senza timore della morte. In questo, l'assoluto rinnegamento di sé allo scopo di esaltare D io appare pie namente dimostrato per fede e conoscenza. C iò che con Cristo ha tro vato la sua espressione paradossale, ma insieme insuperabile, è dunque la relazione tra sommo sacerdozio e sacrificio; per la miglior com prensione della testimonianza va tuttavia ricordato che Ebr., come di mostra 5,7 ss., introduce anche il concetto di prova, terribile ma supe rata; in altro modo Gesù non avrebbe potuto «trovare» una «reden zione eterna». Quest'ultima espressione significa qualcosa di più di una semplice redenzione personale, ossia il dato di fatto di una liberazione valida sul piano universale, conquistata una volta per tutte e a favore di tutti gli uomini. V i sono compresi anche i concetti di irripetibilità e insostituibilità. Il verbo «trovò», che in greco è medio, mette in risalto l'im pegno personale e al tempo stesso anche che qui Cristo ha otte nuto o attuato qualcosa di assolutamente non scontato. Evidentem en te vi è alla base l'idea che D io abbia insolitamente permesso tale re denzione per gli uomini a motivo del sacrificio straordinario. 13 . La riflessione che segue ai w . 13 s. ribadisce ulteriormente la ve rità espressa. N o n che nell'antica alleanza il sangue degli animali sacri ficati fosse privo di valore: di fatto ha santificato «purificando nella carne»; ma al sangue di C risto non spetta allora una potenza santificatrice ancora maggiore? Questa considerazione ulteriore parla del sangue animale nel culto veterotestamentario in senso lato,. Invece di capri e vitelli si parla di «capri» e «giovenchi» (cf. Is. 1 ,1 1 ) , e della ce nere di una giovenca rossa (cf. Num. 19). A l di là del grande giorno dell'espiazione, probabilmente è la condizione di una purificazione ri
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chiesta a tutti a imporsi all'attenzione. M entre i sacrifici di animali p u rificavano dall'impurità causata da trasgressioni, la cenere frammista ad acqua liberava addirittura da quella dovuta al contatto con un ca davere. In ogni caso la cenere veniva impiegata in quelle contam inazio ni che impedivano di frequentare il santuario. Presumibilmente Ebr., al pari di Filone (Spec. leg. 1,268), parte dal presupposto che l'aspersio ne con la cenere era egualmente compito del sommo sacerdote (bjoma 42b). L a giovenca veniva macellata al di fuori della città (mPara 3,6: sul M onte degli Ulivi), e il sangue raccolto veniva spruzzato per sette volte in direzione del tempio. Ebr. ribadisce che quanti si erano con taminati ottenevano in questo modo la «purificazione nella carne». E di fatto così è stata ristabilita la purezza cultico-rituale, dunque la co munità liturgica. Questo non è certo poco, ma in tal maniera non ci si limita forse a un rapporto esteriore con D io? Evidentemente l'interro gativo non dava pace nemmeno a Filone. Però per lui è un pio deside rio ciò che per Ebr. è una certezza liberatrice. 14. C on una conclusione logica dal minore al maggiore, nel verset to 14 si ribadisce che il «sangue di Cristo» purifica ancora di più la co scienza dalle opere morte. Chi ascolta può avere la certezza assoluta che il sangue del mediatore di salvezza possiede una potenza espiatrice più forte, con la quale è in grado di purificare anche l'intim o del l'uom o. In fin dei conti il vero problema non è la contaminazione che si ha toccando dei morti - la sì‘risolve con un preciso rituale - , bensì l'im purità che dal profondo del cuore lascia agire in noi la morte e il nulla, cosicché non solo viviam o nella lontananza da D io, ma la ren diamo sempre maggiore con il nostro comportamento. In 6,1, alla «pe nitenza dalle opere morte» viene affiancata in positivo la «fiducia di fede in D io»; analogamente, qui si accostano la purificazione dalle «opere morte» e il servizio al D io vivente. In tal m odo è dimostrato che esse vengono compiute sulla base della possibilità umana, ed è p ro prio su questo che poggiano la loro discutibilità e inutilità. D 'altra p ar te si schiude una prospettiva quasi paolina quando allo sforzo indivi duale viene contrapposta la liberazione dell'uom o legato nel suo inti mo, liberazione compiuta da Cristo e che consente al cuore purificato di rendere un culto vivo (cf. Rom. 3,27 s.; 12 ,1 s. ecc.). Una religione solo formalistica per la concezione di Ebr. è fine a se stessa, un qual cosa che non ha valore e che in fondo risulta fatale. L'u om o deve e può liberarsene per servire il «Dio vivente». Solo in questo m odo ot
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tiene per sé la vita. N el «sangue di Cristo» Ebr. non vede una forza protettiva magica; vi ricorre per descrivere una modalità di com por tamento che illustra chiaramente altrove (5,7). L a vittima si presenta «senza macchia» in ragione della grande obbedienza dimostrata. L 'a c cenno al D io vivente specifica che questo D io non si aspetta «opere morte» ma un «culto vivo» (cf. 1 Tess. 1,9). G li animali che vengono sacrificati possono magari richiamare confusamente alla memoria que sta verità teologica fondamentale, ma non potranno mai essere la veri tà stessa. Questa infatti punta alPuomo, alla persona, al cuore, poiché l'essere umano va ricondotto all’origine della sua creaturalità, a Dio. Anche Cristo ha offerto se stesso non solo «davanti a D io», ma a D io stesso, e lo ha fatto «mediante uno Spirito eterno»: questo significa che Cristo ha agito in conformità alla volontà del Padre. Senza dubbio per Ebr. la donazione di sé da parte di Gesù è stata un suo atto perso nale. C iò che l’ha resa accettabile è stato l'accordo del sommo sacer dote - vittima con lo Spirito, ossia con la volontà e la chiamata di D io. La morte di Gesù garantisce la validità di un nuovo ordinamento testamentario (9,15-17) 15 E perciò egli è il garante (mediatore) di un nuovo testamento, affinché coloro che sono stati chiamati all'eredità eterna ricevano la promessa, dal momento che la [sua] morte avvenne per liberare dalle trasgressioni com messe sotto il primo testamento. 16 Infatti, laddove esiste un testamento dev'essere intervenuta la morte del testatore, 17 perché un testamento di viene giuridicamente efficace (alla lettera: «saldo») solo con dei defunti (= in caso di morte), non entrando mai in vigore finché il testatore è in vita. L a pericope 9 ,1 1- 1 4 serve a dimostrare che la morte di Cristo è sta ta un sacrificio di se stesso. I versetti prendono lo spunto dall'attività personale del Redentore per dimostrare ai cristiani interessati che è a lui che essi devono la loro nuova esistenza. L'argom entazione che si dipana in 9 ,15 -17 , del quale contenutisticamente fa parte anche 9,1822, porta il discorso sulla grande necessità di tale sacrificio; infatti ogni impegno intellettuale è messo nel dimostrare l'im portanza che tale evento estremo e reale ha rivestito. In accordo con affermazioni pre cedenti (v. in particolare 8,8 ss. e 7,18 ss.) viene inoltre ribadito il pun to di vista della nuova realtà testamentaria. 9,18-22 considera l'esem pio dell'inaugurazione dell'antica alleanza, avvenuta anch'essa median
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te «spargimento di sangue», per cui dall’argomentazione dal minore al maggiore (a minori ad maius) si trae la comprensione della necessità assoluta del sacrifìcio di Gesù. 15 . A lla conclusione tratta nel v. 14 se ne affianca una seconda («e perciò») che riprende argomenti già noti per approfondirli in m odo lo gico (8,6). C risto è veramente il garante (mediatore) di un nuovo testa mento (cf. Filone, Mos. 2(3), 166, riguardo a M osè), poiché su questa base il significato della sua morte può essere pienamente compreso. Il «perciò» che rimanda oltre viene spiegato meglio. L a morte di Gesù in particolare diviene comprensibile se si considera che è collocata a una svolta all’interno della storia della salvezza. La promessa di un testa mento nuovo non ha potuto realizzarsi senza che al tempo stesso non si verificasse una liberazione radicale dalPordinamento antico. C o lo ro che sono stati chiamati a godere delPeredità eterna, e i cristiani inter pellati possono considerarsi tra questi, non avrebbero mai potuto ar rivarvi né con le proprie forze né tantomeno grazie al vecchio ordi namento. Era necessaria la morte, e la morte di Gesù, perché in altro m odo non era possibile liberarsi dalle colpe commesse nel tempo del «primo testamento». Le disposizioni testamentarie, quella vecchia e quella nuova, sono intese in successione cronologica, ma i lettori dello scritto - sicuramente giudeocristiani - in un certo senso sanno di tro varsi «tra i due tempi». C on questo, per il pensiero critico resta p ro v visoriamente aperto l’interrogativo se abbia un senso la morte del messia - che per il pensiero giudaico costituisce indubbiamente uno «scandalo» inaudito. Certamente ci si può chiedere se la liberazione dalle «mancanze» precedenti, in primo luogo colpe gravi contro la v o lontà di D io, non fosse possibile anche in altro modo. L ’autore, che come Paolo (v. in particolare Rom . 3,24-26; anche Atti 13,38 s.) avreb be potuto concepire l’idea di un grande giorno dell’espiazione indi spensabile e conclusivo perché la santità di D io esige l’ espiazione di ogni form a di disubbidienza, a questo punto introduce una propria ri flessione per dimostrare la necessità della «morte». 16. Il v. 16 afferma che il concetto di disposizione testamentaria com porta necessariamente la circostanza della morte del testatore per di venire efficace in tutte le sue parti. L ’argomentazione è tratta dalla pras si giuridica, nella quale è previsto che in caso di eredità deve sempre essere prima «attestata» la morte del testatore, e questo mediante una certificazione o giuridica o notarile.
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17 . L 'importanza che questo esempio riveste per Ebr. emerge nel v. 17 dall’ulteriore precisazione del carattere di un testamento. Linguag gio e definizione denotano contatti con disposizioni giudaiche alle qua li è nota la formula: «Così sia e accada» (v. in particolare tB.B. 8,10). L a sostanza del testamento, a differenza dell’ atto di donazione, risiede nel diritto del testatore di disporre dei propri beni fino al momento del la morte. Esso acquisisce il suo vero carattere vincolante (= «stabilità») solo con la morte del testatore, il quale fino ad allora ha facoltà di scio glierlo, modificarlo, integrarlo e addirittura sostituirlo con un altro. Paradossalmente si fa capire che il testamento costituisce una disposi zione che per tutta la durata della vita del testatore non ha efficacia né stabilità giuridica, che acquisisce invece immediatamente «con dei de funti», ossia in caso di sua morte. A voler essere pignoli le frasi di Ebr. potrebbero creare alcune difficoltà, dal momento che in base all’im magine impiegata risulterebbe che la disposizione testamentaria, di cui è autore D io, ha potuto divenire efficace soltanto con la morte di lui. N o n possiam o pensare che l’autore abbia preso in considerazione una simile eventualità, né che l’abbia poi espressa in parole, anche se è cer to sorprendente quanto questa e altre sue considerazioni si avvicinino a una verità così scioccante. La morte del «Figlio» in fondo non com porta anche quella del Padre? E così via. Probabilmente l’assurdità intensa in senso puramente razionale - è sempre la vera caratteristica di una «teologia del sacrificio». M a per un modo di vedere solo razio nale ogni donazione di sé è priva di senso. Chi invece è disposto a pensare oltre il semplice calcolo conosce molto bene il profondo si gnificato del servizio e della donazione. È consapevole che diversamente il mondo e l’uomo non potrebbero esistere affatto. Il carattere inaudito risiede nel fatto che, secondo la conoscenza biblica, D io stes so ha voluto e santificato il mistero del sacrificio in m odo da offrire la libertà all’interno di obblighi inflessibili. U n ’ulteriore difficoltà logica nasce dalla circostanza che in questo contesto Cristo è testatore e ga rante del testamento (cf. 7,22). Ma questo modo di vedere le cose non deve turbare, né lo deve la convinzione per cui C risto è sommo sacer dote e vittima insieme. Tutti i tentativi di spiegare l’ evento in m odo sim bolico ovviamente si avvicinano soltanto al paradosso vero e p ro prio, ma non gli sono mai del tutto all’ altezza. È evidente che l’autore si sforza di evidenziare certi aspetti essenziali. Riunirli in un quadro completo e unitario non rientra nei suoi intenti, né nelle sue capacità.
A n ch e per il prim o testam ento c'è stato bisogno di sangue espiatorio (9,18-22) 18 Perciò neppure la prima alleanza è stata inaugurata senza sangue. 19 In
fatti, dopo che ogni comandamento fu proclamato da Mosè a tutto il popo lo secondo la legge, egli prese il sangue dei vitelli e capri assieme ad acqua, lana scarlatta e issopo e asperse sia il libro stesso sia tutto il popolo 20 di cendo: «Questo è il sangue del testamento che Dio ha stabilito per voi». 21 Ma allo stesso modo asperse col sangue anche la tenda con tutti gli arre di del culto. 22 Infatti, secondo la legge, quasi tutte le cose vengono purifi cate con il sangue, e senza spargimento di sangue non vi è perdono. 20 Es. 24,8.
18. Il v. 18 va inteso alla luce dell’affermazione generica del v. 16. Anche la disposizione dell'antica alleanza ha avuto bisogno della m or te o del sangue sacrificale, fatto che per la comprensione della necessi tà della morte di Gesù è assai significativo. Benché alla base vi sia il medesimo vocabolo (gr. diatheke), ora al centro della riflessione vi è più il dato delF«alleanza» che non l'immagine del testamento. Il v. 18 richiama alla memoria l'inaugurazione dell'antica alleanza secondo Es. 24,3 ss., anch'essa avvenuta non senza sangue. Se la comunità di Ebr . proveniva dalla realtà di questa prima disposizione divina, allora quasi ineluttabilmente doveva riuscire a comprendere la circostanza inaudi ta di un altro sacrificio all'inizio della seconda, «nuova alleanza». D al punto di vista logico, una certa frattura si crea allorché nel seguito la morte del testatore stesso non viene presa in considerazione. La base su cui poggia l'argomentazione è unicamente la verità universale per cui atto giuridico testamentario e morte costituiscono una relazione inscindibile. M a proprio a questo punto il ragionamento si sposta da un piano di paragone e di metafora a un piano pratico. L'analogia nel l'inaugurazione dei due testamenti eleva in maniera non irrilevante la rigorosità della dimostrazione. Anche il concetto di «inaugurazione», che più avanti verrà ripreso ancora una volta e marcatamente per de scrivere la verità di C risto (10,20), include un certo elemento giuridi co, poiché con essa l'alleanza della legge ha acquistato validità dive nendo vincolante. Il passato prossimo («è stata») esprime il significato simbolico dell’atto, ma può anche informare che l'antica alleanza per il popolo ebreo ha valore fino al tempo attuale. La prima possibilità merita forse la preferenza, non in ultimo per via del contenuto.
Ebr. 9,18-22. Senza sangue espiatorio non vi è testamento
19. Il v. 19 espone Pinaugurazione dell’alleanza veterotestamentaria in modo tale da dare maggior peso, nella prima parte, alla testimo nianza della Scrittura, nella seconda, invece, alla tradizione. Secondo Es. 24,3 ss., in un primo tempo Mosè espose oralmente al popolo tutte le parole e le prescrizioni divine. In un secondo tempo si giunse a metterle per iscritto. Il mattino successivo su un altare eretto ai piedi del monte venne offerto un olocausto e come vittime sacrificali ven nero uccisi dei giovenchi. Una metà del sangue fu raccolta in un reci piente, l'altra spruzzata sull’altare. Infine, dopo aver dato lettura del libro dell’ alleanza, Mosè prese il sangue che era stato raccolto e con esso asperse il popolo. Mentre faceva questo, per spiegare, parlò del «sangue dell’ alleanza». L a testimonianza delPAntico Testamento (se condo i L X X ) è stata da Ebr . ripresa, accentuata e completata inten zionalmente. Anzitutto colpisce che Mosè sia presentato come colui che parla (= profeta) e che agisce (= sacerdote), e questo di fronte a «tutto il» popolo, nella veste di chi ha promulgato «ogni» comanda mento e ha asperso «tutte le cose» con il sangue (vv. 19 .21.22). Se ne deduce che M osè ha officiato, in modo del tutto analogo a Gesù, co me «mediatore» e «rappacificatore» (così Filone, Mos. 2 ,1 66), e che la sua funzione va evidenziata, come unica e completa, in relazione al l’inaugurazione dell’antica alleanza per giustificare la conclusione per analogia. In tal modo Ebr . ottiene anche lo scopo di fare apparire il parlare e l ’agire della chiesa del suo tempo come adempimento e per fezionamento di un più alto piano divino, poiché il modo di agire di M osè delineava già, «a m o’ di ombra», la realtà futura, anche se per il momento, ovviamente, «secondo la legge» (v. 22). Questa concezione viene poi formulata esplicitamente (9,23; in particolare 10 ,1). Eviden temente nel v. 19 vi è in primo luogo il semplice intento di rafforzare il significato dell’ atto compiuto in passato. Seguendo esattamente quanto prescritto dalla legge, M osè ha proclamato a «tutto il popolo» «ogni» comandamento. La volontà di E>io è sempre totale e assoluta, lascia intendere questa formulazione. L a legge (cf. il decalogo) è di grandezza superiore. Più forte del concetto di comandamento, la leg ge permette di cogliere l’essenziale. Il v. i9b va oltre il testo dell’A n ti co Testamento parlando non solo di tori (o giovenchi), ma anche di «capri». Se stando a Lev. 1 e 3 entrambe le specie potevano essere pre sentate come olocausto e sacrificio di salvezza (cf. Es. 24,5 L X X ), al lora il citarle entrambe cela l’intento di avvicinare il più possibile a
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quello del grande giorno dell’espiazione il rito inaugurale dell’antica alleanza, rito che avvenne per ringraziare D io e per purificare coloro che vi presero parte. Anche Filone ( Quaest. Ex. 24,5) come Es. 24,5 L X X ha sottolineato i due tipi di sacrifìcio (cf. anche Mos. 2,147: «un vitello e due arieti»). Se al di là di quanto attesta PA ntico Testamento è detto che il sangue di tori e capri è stato asperso insieme ad «acqua, lana scarlatta e issopo», forse si vuol creare una corrispondenza con le prescrizioni di legge riguardanti le purificazioni (cf. Lev. 14,4.6.49.51 s.; Num. 19 ,6 .17 s.), prescrizioni a cui Ebr. chiaramente vuol riferirsi (v. 22). I particolari chiariscono il procedimento se si considera che il gambo dell’issopo, una pianta aromatica, avvolto con lana scarlatta per ché si imbevesse abbondantemente del sangue sacrificale, può essere considerato alla stregua di un aspersorio. In origine, gli elementi indi cati potrebbero esser serviti principalmente a rafforzare la purificazio ne. N o n solo menzionando esplicitamente l’ aspersione del libro della legge, ma soprattutto ricordando che assieme al libro venne aspersa anche la tenda nonché tutti gli arredi, Ebr. attesta di sentirsi tenuto a un certo tipo d’interpretazione tradizionale. La ritroviam o anche in Flavio Giuseppe (Ant. 3,8,6) e in Filone, i quali accanto alla consacra zione con olio (così Es. 40,9) conoscono un’ulteriore aspersione con il sangue (secondo Lev. 8) (così Mos. 2,147 ss-)« Filone presenta inoltre la medesima versione della citazione di Es. 24,8 (L X X ). M ettendo in risalto questo aspetto, dal canto suo Ebr. rafforza ovviamente l’im pressione dell’analogia data dalPimmagine in relazione alla nuova al leanza fondata con il sacrificio di Cristo. N on lo turba assolutamente che la Scrittura rimandi a un momento successivo alla conclusione del l’ alleanza stessa (Es. 24) la consacrazione della tenda del convegno con i suoi arredi (Es. 40). L a tradizione su cui lavora Ebr. chiaramente partiva dalla contemporaneità dell’evento, poiché il rispetto della suc cessione cronologica era irrilevante ai fini di una considerazione teo logica relativa alla conclusione dell’ alleanza. 20. È evidente inoltre che le parole di Mosè riportate al versetto 20 hanno grande peso, in quanto attestano chiaramente che l’antica allean za è istituzione divina, basata anch’essa su un sacrificio di sangue. C he questa frase significativa possa essere stata pronunciata in relazione all’aspersione del popolo e del «libro» getta una luce eloquente sul pensiero giudaico di Ebr. In totale conformità alla devozione propria del giudaismo tardo, la torà appare come dono privilegiato fatto da
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D io a Israele, dono che resterà suo per sempre e in ogni circostanza, dovesse anche peccare. Resta da chiarire se le parole della Scrittura, dal momento che risultano lievemente distorte, siano da considera re citate a memoria dall'autore. Perlomeno l'espressione «questo è il sangue dell’alleanza» può contenere un'allusione alle parole pronun ciate da Gesù al momento di istituire l'eucarestia (cf. Me. 14,24; Mt, 26,28); infatti, nel seguito, l'autore riprenderà ancora due volte il con cetto di «sangue dell'alleanza» (10,29; I 3 »20) Per metterlo in relazione diretta alFopera di Cristo. Si osservi inoltre che un culto festivo, di cui si può supporre che facesse parte anche la lettura di questa omelia, poteva sempre favorire l'associazione con le parole dell'istituzione eucaristica. La supposizione si rivela ancor più plausibile se si ipotizza che la comunità di Ebr. si sia riunita per celebrare una liturgia che comprendesse anche battesimo ed eucarestia. Il raffronto tra nuova alleanza e alleanza conclusa sul Sinai diffìcilmente non troverà ascol to, dal momento che è stato preceduto da una lunga preparazione. Si trattava semplicemente di approfondire nozioni già note al fine di rafforzare la fede. La comunità non solo doveva riflettere su quanto accade, ma anche sul perché è così; solo conoscendo le verità più profonde avrebbe perseverato nella sua fede in Cristo. N on è da escludere che la forma della citazione di Es. 24,8 (L X X ) fornisca un argomento a favore della vicinanza temporale di Ebr. a Paolo (z Cor. 11,2 5 ) e a Me. (14,24). Più importante è vedere la testimonianza teo logica del v. 20, ossia il rilievo dato all'alleanza conclusa con il sangue del sacrifìcio. G ià allora la consacrazione avveniva nella forma di una purificazione globale. 2 1. Il v. 21 estende l'atto alla tenda e agli arredi sacri (riguardo al termine v. Num. 4,12), mentre l'avverbio «allo stesso modo», nonché il tempo del verbo, non lasciano dubbi riguardo a una certa contem poraneità negli atti di aspersione. Secondo la testimonianza biblica, tale evento (Es. 40) viene descritto nella stessa successione che con traddistingue la conclusione dell'alleanza (Es. 24) anche se, ovviamen te, i tempi vengono fatti coincidere. In questo modo si è riusciti a chiarire l'essenza del culto sacrificale veterotestamentario nella sua origine ricorrendo all'eminente esempio della conclusione dell'allean za. G li accenti, posti in m odo singolare, sottolineano il proposito. 22. A buon diritto dunque si possono infine tirare le somme di quanto si è appreso. L'essenza del culto veterotestamentario è riassun
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ta in parole estremamente concise. C iò che si ammette come eccezio ne («quasi tutto»), ossia la purificazione ottenuta mediante qualcos’ al tro che non sia un sacrifìcio di sangue (cf. Lev. 5 ,1 1 ss.; 15,5 ss.; 16,26 ss. ecc.), non parla a sfavore delPordinamento di base confermato da D io, che viene descritto con parole simili anche in L ev . 1 7 , 1 1 e adotta il linguaggio giuridico giudaico (bjoma yia): «N on vi è altra espiazio ne se non con il sangue». Per quanto riguarda l’intento dimostrativo principale, in questo m odo viene a essere sottolineato il significato del sacrifìcio elevato a obbligo. In un prim o tempo non si prende in con siderazione in che misura all’azione veterotestamentaria spetti una certa limitata validità, ma questo argomento sarà trattato più avanti (10,4). Parlando di «spargere il sangue» e non di «versare il sangue», l’autore attira l ’attenzione dei lettori sulle conseguenze di tale atto, per distoglierla invece dalle modalità di svolgim ento dell’azione cul tuale. C osì il sacrifìcio di Cristo, oltrem odo inconcepibile e scandalo so, può tornare a essere oggetto di attenzione. Il sacrificio unico e irripetibile di Gesù comprende una riconciliazione completa ai fini del perfezionamento del mondo (9,23-28) 23 Se è dunque necessario che le copie di ciò che è nel cielo vengano purifi
cate con tali mezzi, gli originali celesti (devono esserlo) con sacrifici supe riori a questi. 24 Poiché Cristo non entrò in un santuario costruito con mani, antitipo di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al co spetto di Dio in nostro favore; 25 e non con l’intento di offrire se stesso più volte, come fa il sommo sacerdote che entra ogni anno nel santuario con sangue di altri esseri, 26 altrimenti avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo; ora però egli si è manifestato una volta per tutte, alla fine dei tempi, per annullare il peccato mediante il suo sacrificio. 27 E come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio, 28 così anche Cristo, dopo essere stato offerto una volta «per togliere i peccati di molti», apparirà una seconda volta, libero da pec cati, per la salvezza di coloro che lo attendono. 28 Is. 53,12.
23. La pericope 9,23-28 riassume argomenti già noti e prepara la dimostrazione successiva. Il v. 23, interpretando la frase generale del v. 22, parla della grande «necessità» di una purificazione mediante un
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sacrificio cruento. G ià in 8,5 si era fatto osservare che i sacerdoti levi tici attendono a un servizio che è «copia» e «ombra» delle cose celesti. Il ragionamento esposto in 9 ,1-10 ne offre una prova assai particola reggiata. I versetti 9 ,11-2 2 chiariscono il significato di principio del sacrificio cruento ai fini della purificazione e del perdono. Il v. 23 ri badisce, con una formulazione astratta e autorevole, l’esistenza di una «necessità» che è possibile riconoscere, deducibile in base a una con vincente argomentazione dal minore al maggiore. D ietro il concetto di «necessità» si cela un intento principalmente logico, e non l'idea di una effettiva costrizione, tanto più che la frase è al presente. A diffe renza di Filone, il quale dalla bellezza del cosmo ricava l’esistenza di un creatore che lo mantiene, e si serve della testimonianza dell’Antico Testamento per dimostrare realtà metafisiche e vedere nella tenda del convegno un richiamo al cosmo (divino) platonico, il «tempio vero», Ebr. si interroga sulla necessità del sacrificio senza badare al contesto esistenziale cosmologico. A rriva così a concludere che le cose celesti necessitano di «sacrifici superiori». 24. C iò che in un primo tempo è presentato come conclusione pu ramente generica (si osservi il plurale), riceve immediatamente la spe cificazione desiderata grazie all’unico sacrificio di sé da parte di C ri sto, il quale non è entrato in un santuario costruito da mani d’uomo, che sarebbe semplice antitipo delle realtà vere, ma nel cielo stesso. Quasi ripetendo l’asserzione di 9 ,11 si afferma che l’entrata nel san tuario celeste, del quale il tabernacolo poteva essere solamente copia, riproduzione assai fedele del modello reale, ha potuto realizzarsi solo grazie a un’azione sacerdotale straordinaria. N on che le realtà celesti abbiano avuto bisogno di essere purificate. N el v. 23b sembra che in tenzionalmente non si sia ripreso il verbo da 23a. C osì al v. 24 risulta va più facile concentrarsi esclusivamente sull’ingresso della vittima nel santuario celeste. Questa visione su relazioni più profonde deve dar fondamento alla circostanza di un modo di agire superiore. Se C risto non è entrato nel santuario terreno ma nel «cielo stesso», questo si gnifica che ha affrontato la reale verità, l’origine e il fondamento delle cose, ossia la realtà di Dio. Dapprima Ebr. parla del «cielo» in modo usuale per distinguerlo dall’opera dell’uomo, ma il termine è anche un eufemismo che indica Dio. Diversamente da come sentiamo noi oggi, D io non è una sigla per significare trascendente, inesprimibile e in sondabile. Manifestando lo scopo e la conseguenza dell’azione sacer
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dotale si aggiunge: «per comparire ora al cospetto di D io in nostro fa vore». Questa espressione nelPAntico Testamento (cf. Sai. 42,3) può indicare concretamente la frequenza del santuario. N el presente con testo invece è intesa in senso strettamente letterale, in quanto è pre sentato un atto unico e conclusivo che comporta la fine e lo scopo di tutte le cose. Q uest’affermazione estremamente audace descrive in pa role chiarissime la fase decisiva delPesaltazione, a partire dalla quale si ha il «tempo presente». È caratterizzata dal fatto che qualcuno ha p o tuto vedere «il volto di Dio». Tra le affermazioni di base della fede giu daica vi è quella secondo la quale Dio, che dimora in un nascondimen to inaccessibile, non si rivela all’occhio umano. N o n è possibile soste nere la visione della sua gloria, tantomeno il suo sguardo. A l sommo sacerdote era consentito entrare nel santo dei santi del tempio, dimora simbolica di Dio, solo nel giorno dell’espiazione, quando era avvolto dal denso fumo delPincenso. Che impressione allora, il fatto inaudito che C risto abbia potuto forzare l’impenetrabilità che circonda il D io santo! E questo non per sé, ma «per noi» - come si afferma alla fine, con una pregnanza che ricorda Paolo. Q uest’affermazione condusse già il pensiero e la fede primitivi a un limite assoluto. L ’autore conosceva bene le implicazioni dell’espressione tecnica ripresa, ma come avrebbe potuto altrimenti descrivere l’unione tra Cristo e D io sulla base del sa crificio della croce? N e affiora la tacita convinzione che al cospetto di D io non avrebbe potuto presentarsi uno qualsiasi, ma certamente solo il Figlio, che aveva superato una prova durissima. L ’espressione «per noi», in forza della concezione di una sofferenza vicaria in Paolo, è in tesa spesso nel senso di «al nostro posto», mentre qui comporta l’in tercessione «a favore» dell’uomo (v. anche 7,25). Se Paolo insiste m ag giormente sul ruolo passivo del Cristo sofferente (eccezioni: G al 1,4; 2,20), dal canto suo Ebr. ne accentua il ruolo attivo e l’azione. Viene dunque a cadere l’idea di un evento salvifico oggettivo, voluto e pre parato da D io, mentre si afferma sempre più l’idea di un «sacrificio at tivo». A l posto dell’affermazione puramente teologica, descritta dal verbo della salvezza all’indicativo, a cui fa seguito l’imperativo etico, Ebr. presenta l’esempio eloquente di Cristo che ha sacrificato la liber tà diventando, in quanto senza potere, il plenipotenziario secondo la volontà di Dio. Il significato etico del sacrificio non va prima evinto, come per Paolo, ma è immediatamente visibile. 25. C risto appare come modello e garante della verità della fede cri-
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stiana, che punta direttamente alla prassi e non alla teoria. Per mettere tale verità al sicuro da fraintendimenti, chiarendo il significato di «una volta per tutte» si sottolinea che egli non ha offerto se stesso «più v o l te», come invece fa il sommo sacerdote giudaico che ogni anno offre sacrifici nel santo dei santi. Fondamentale è che il suo sacrificio della croce è bastato a impegnare definitivamente D io in favore dell’uomo, il quale, invischiato nel peccato, ha bisogno del sacrificio liberatorio di una persona. 26. Pienamente consapevole dell’audacia inaudita, il v. z6 osa affer mare ancora che Cristo, se fosse comparso con le modalità del sommo sacerdozio terreno, «avrebbe dovuto patire più volte dalla fondazione del mondo». U n ’ombra di scetticismo o di tristezza traspare dalla constatazione che il genere umano è in contrasto con D io fin dagli inizi. L a storia della fede delineata in seguito al cap. 1 1 è infatti solo uno degli aspetti di un contrasto più grande. Empietà, tribolazione e colpa nel mondo non vanno assolutamente sottovalutate, perché D io stesso ne soffre, forse anche più di una volta nella figura del suo C r i sto, il che non sarebbe del tutto inconcepibile. Il concetto di «soffe renza» mira al «patire la morte», ed è quindi già impiegato in senso tecnico (cf. 2,9). Quasi con un sospiro di sollievo al v. z6b prorom pe la dichiarazione che ora Cristo si è manifestato un’unica volta alla fine dei tempi, per annullare il peccato con l’offerta di se stesso. La sua morte segna la grande svolta. L ’ «ora però» va inteso più in senso tem porale che logico. Il mondo è posto sotto una nuova luce. L a sua vita offerta in sacrificio sulla croce abbraccia veramente il grande giorno dell’espiazione della storia dell’umanità. Egli ha espiato anche la colpa delle generazioni precedenti, e quindi è stato conseguito qualcosa di più di una semplice remissione dei peccati: essi sono stati «annullati». C o n «si è manifestato» s’intende non davanti a D io, bensì davanti al m ondo di D io. Se abbiamo ragione, allora dietro questa attestazione vi è la coscienza del carattere proclam atorio dell’evento della parola. Ebr. parte dal presupposto che la verità della croce di C risto ha co minciato a essere annunciata dal momento stesso dell’evento, tanto che anche in 1,2 è detto che alla fine dei tempi D io ha parlato per m ezzo del Figlio (cf. anche 1 Pt. 1,20; 1 Gv. 3,5). C iò che dev’essere? proclam ato non è visibile agli occhi; può trovare accoglienza o incon^ trare il rifiuto. La rivelazione non comprende ciò che di per sé è chia ro alla comprensione umana; sostanzialmente riguarda piuttosto ciò
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che è nascosto. Forse in nessun’altra parte è data in modo più concen trato che nel sacrificio di se stesso da parte di Cristo. 27. Laddove la fondamentale categoria esistenziale della morte de termina la decisione di base delFuomo, la croce, in quanto dimensione storica, diventa norma escatologica. Il v. 27 introduce a buon diritto, e anzi a rigor di logica, la gravità della decisione, ovviamente se la frase intende assicurare e motivare veramente la convinzione espressa al v. 28. D a un punto di vista della psicologia della fede, la tematica elabo rata al v. 27 ha comunque un’incredibile forza espressiva. Dim ostra che dall’uomo, volente o nolente, ci si attende una decisione dalla qua le egli, in quanto creatura responsabile, non può scappare. Senza men zionare Dio, il v. 27 ribadisce con una formulazione di valore univer sale che l’uomo, prima o poi, deve morire, com ’è stabilito; «dopo di che viene il giudizio». L a frase vuol essere una constatazione, non una minaccia. Inoltre si tratta di una convinzione basata sull’ esperienza, non di un’opinione personale. Alle spalle vi è la consapevolezza che l’essere uomo dev’essere giustificato. A l di là dell’affermazione gene rica, all’ascoltatore viene ribadito che dopo la morte vi sarà un giorno del giudizio in cui D io tirerà le somme in modo definitivo e universa le. La sorte di Cristo è significativa perché dà una risposta all’incer tezza dell’esistenza umana, a quanto pare profondamente sentita. 28. Di questa esigenza tiene conto il v. 28 nel trarre le sue conclu sioni. C iò che per costituzione è parte integrante dell’esistenza um a na, ossia la morte, non è stata risparmiata neppure a Cristo, che dovet te rendersi in tutto simile ai suoi fratelli (cf. 2,10 ss.). E questo a pre scindere dal fatto che la sua morte sia da valutare sotto l’aspetto del servo di D io sofferente (secondo Is. 53) perché dovette annullare i pec cati di «molti». La morte di Gesù, in un primo tempo vista come real tà ineluttabile dell’esistenza umana, trova spiegazione teologica in una frase secondaria che riprende Is. 53,12. Sorprende che alla profezia biblica si faccia solamente allusione senza esporla per intero. O ltre a ciò Ebr. ne approfitta teologicamente in modo tale da far risultare il compito di Gesù di essere servo di D io un compito voluto da D io stesso. Tale aspetto affiora dalle parole: «dopo essere stato offerto» (diversamente dal v. 25). Il significato di Is. 53 dunque non è che G esù ha voluto essere il servo di Dio, quanto che con il suo servizio e la sua sofferenza segna l’adempimento della profezia. In essa, come è noto, non si parla della croce. D i fatto il destino di Gesù è stato ancora più
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spaventoso rispetto a quello prospettato da Is. 53. Il ricorso al passo biblico, impiegato per esempio in Me. 10,45 Per indicare l’esplicita volontà di Gesù, tradisce quindi uno stadio relativamente precoce del la riflessione teologica; anche il mantenimento delFebraismo (i peccati «di molti» = di tutti) appare rilevante. Forse l'elemento decisivo è p ro prio che Cristo ha vissuto l'obbedienza del servo di D io, perché sol tanto tale comportamento era in grado di elevare la sua morte a sacri fìcio. Se al v. 26 si parlava di annullamento radicale del «peccato», qui si parla di togliere i «peccati» (al plurale!). La speranza dei molti ai quali è stato donato il perdono può basarsi sul sacrifìcio di Cristo. A l la liberazione transitoria seguirà quella definitiva. A l momento della sua seconda venuta egli sarà «libero da peccato» (alla lettera: «senza peccato»); ciò significa che la sua vita e la sua opera non dovranno più servire a togliere di m ezzo il peccato, come quando venne per la p ri ma volta. A questo punto, il ragionamento cambia all'im provviso e in modo sorprendente. N on è detto, in analogia al v. 27, che sarà Cristo a portare a termine il giudizio destinato all'uomo (si affermerà così solo in 10 ,13 ), ma che egli appare «per la salvezza» a «coloro che lo at tendono». Com pare già in modo velato l’esortazione escatologica che seguirà (10 ,19 ss.). Quando venne per la prima volta aveva il compito di servire, quando verrà per la seconda sarà per salvare. In questo m o do viene ricordata l'opera peculiare di Gesù sulla quale la comunità può fondare la propria speranza. Per la prima volta si accenna al tema che sarà oggetto approfondito di future riflessioni. Il sacrifìcio di C ri sto, essendo avvenuto alla fine dei tempi, è di efficacia universale. N o n comprende solo, negativamente, la liberazione dal peccato, ma anche, positivamente, la liberazione «per la salvezza»: con ciò si intende il possesso della vita (10 ,19 ss.) e infine il «conseguimento della prom es sa» e dell'«eredità» eterna (10,36). Vediamo che Ebr. si sforza non so lo di comunicare una speranza, ma principalmente di mostrarne il fon damento. La legge come ombra delle cose future ha reso possibile una remissione dei peccati solo imperfetta (10 ,1-10 ) 1 Infatti la legge, che mostra solo un'ombra dei beni futuri, ma non rimmagine stessa delle cose, non può rendere perfetti quelli che vi si accostano con gli stessi sacrifìci che, anno dopo anno, vengono offerti senza interru zione. 2 Altrimenti non si sarebbe forse cessato di offrirli se coloro che ren
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dono il culto, essendo già purificati, non avessero più avuto coscienza dei loro peccati? 3 Ma proprio con questi sacrifìci si rinnova ogni anno il ri cordo dei peccati, 4 poiché infatti è impossibile che il sangue dei tori e dei capri cancelli i peccati. 5 Perciò entrando nel mondo dice: «Hai rifiutato sacrifìci e doni, ma mi hai preparato un corpo. 6 Non hai gradito né olo causti né sacrifici espiatori». 7 Allora ho detto: «Ecco, io vengo, come è scritto di me nel rotolo del libro, per fare, o Dio, la tua volontà». 8 Mentre prima dichiara: «Hai rifiutato e non hai gradito sacrifici e doni, olocausti e sacrifici espiatori», che pure vengono offerti secondo la legge, 9 ha aggiun to dopo: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Con ciò abolisce il pri mo per stabilire il secondo. 10 In base a questa volontà noi siamo stati santificati una volta per tutte mediante l’offerta del corpo di Gesù Cristo. $-7 Sai. 40,7-93 (con alcune variazioni significative in Ebr.).
1. Per approfondire l’idea della necessità del sacrificio di C risto (9, 23), in 10 ,1- 10 Ebr. mette in luce principalmente l ’insufficienza della prassi sacrificale veterotestamentaria. C iò che già prima era stato det to più volte a proposito delle istituzioni del culto mosaico (8,1 ss.) vie ne qui completato. E come in 8,5 vediamo ripreso il concetto di «om bra». Esso caratterizza la «legge», la quale non ha la capacità di conse guire il perfezionamento dei credenti. Pur provenendo da D io, tutta via non fornisce assolutamente una chiara idea di quali siano i «beni futuri» divenuti realtà solo grazie a C risto (v. a 9 ,11). D i ciò che avreb be dovuto affiorare come verità eterna e permanente, nella legge si può percepire al massimo il profilo, non però la figura precisa che ne è alla base e alla quale può essere adatta solo una luminosità solare. In fatti la legge è in grado di dare un abbozzo approssimativo di quanto effettivamente D io ha voluto realizzare con la morte di Cristo. C iò che sta di fronte alla realtà che è solo «ombra» viene definito «imma gine stessa delle cose» da Ebr., che qui aderisce a una visione pretta mente platonico-filoniana. Com e accade per l’ espressione «antitipo (o archetipo) del vero (santuario)» di 9,24, anche qui allude alla convin zione in base alla quale un valore esistenziale perpetuo spetta solo e unicamente ai beni celesti (v. anche Col. 2 ,1/), non invece alle cose terrene tra cui è annoverata anche la legge d’Israele. Una simile o p i nione probabilmente non poteva contare molto su un consenso una nime. Il carattere d’ «ombra» proprio della legge ha in fondo in Ebr., diversamente che in Filone, funzione chiaramente negativa, anzi spre giativa, ed era inevitabile che un giudaismo ellenistico colto dovesse
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pronunciarsi a suo sfavore. Probabilmente è con questa consapevo lezza che si passa subito a una descrizione più precisa delle im perfe zioni. Dietro la frase si cela la coscienza di quanto sia inutile offrire sacrifìci ogni anno nel giorno dell'espiazione; vi è inoltre la consape volezza dell’insufficienza dei doni, e, in fondo, la sensazione di agire vanamente e senza esito, per quanto disperatamente si tenga duro. La constatazione che nonostante ogni impegno quelli che si accostano non possono essere «resi perfetti» esprime verosimilmente una rassegna zione profondamente sentita. L ’affermazione riguarda la comunità del tempio con i suoi sacerdoti, che ogni anno ha bisogno di purificazione eppure non giunge mai alla piena comunione con Dio. 2. Sisifo come esperienza del credente. Alla sua maniera, Ebr. espri me questa concezione. In modo quasi sofìstico asserisce che se si aves se la consapevolezza di un perdono dei peccati definitivo e conclusi vo, si avrebbe smesso di offrire sacrifìci tanto vani; ma evidentemente non c’ è mai stata la possibilità di un sacerdozio purificato una volta per tutte, come sottolinea a sufficienza la ricorrenza annuale del gior no dell’espiazione. Se per Paolo (Rom. j) è chiaro che in fondo la leg ge non fa che moltiplicare i peccati, dal canto suo Ebr. sa che essa li perpetua nella coscienza accusatrice dell’uomo. Questo sentito p ro blema non viene approfondito come in Paolo in una riflessione teolo gica, ma si muove sul piano dell’esperienza religiosa. Se l’idea non prò-* venisse da un ambito giudeocristiano, sarebbe priva di rigorosità; così invece presenta una forza espressiva non irrilevante. L ’impressione è che con la sua constatazione il v. 2 affronti in primo luogo la questio ne temporale per darle una risposta negativa. La soppressione dei sa^ orifìci non veniva assolutamente presa in considerazione dagli offe renti dell’Antico Testamento, poiché l’ accusatoria «consapevolezza (= coscienza) dei loro peccati», come si manifesta apertamente nelle con fessioni dei peccati, aveva sempre avversato chiaramente tale idea. T u t tavia questa viene espressa se non altro in forma interrogativa, per cui si deduce che a Ebr. non premeva tanto fare un’affermazione audace quanto piuttosto spingere gli ascoltatori a riflettere. 3. D i fatto, come si constata invece al v. 3, ogni anno per m ezzo dei sacrifici si rinnova il «ricordo dei peccati». C osì almeno risulta di fat to dalle istruzioni relative al grande giorno dell’espiazione. Invece di togliere dalla coscienza il peso dei peccati questo viene continuamente rinnovato, rendendo così impossibile il raggiungimento di una totale
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redenzione e di un completo perfezionamento. Il concetto di «memo ria» sembrerebbe prendere in considerazione sia l’aspetto del «ricor do» che quello della «menzione» nella confessione dei peccati. 4. Il v. 4 introduce un argomento ulteriore, secondo il quale con il sangue di tori e capri è impossibile cancellare i peccati; né tantomeno lo possono il tipo e la quantità di sangue, trattandosi pur sempre di sangue animale. La riflessione giunge inoltre a stabilire che questi do ni sacrificali non bastano assolutamente a conseguire Pespiazione de finitiva davanti a Dio. C on questo non è che l ’autore sostenga che D io esige il sangue di un sacrificio umano; piuttosto sembra guidarlo l’idea che non è possibile liberarsi dal sacrificio totale della persona con il ricorso a una vittima sostitutiva. Quindi, per Ebr ., tutta la concezione e la prassi sacrificale dell’Antico Testamento in fin dei conti si basa su un errore. E poiché tale concezione ha influenzato anche il pensiero religioso al di fuori dTsraele, non può esser stata altro che illusione ingannevole. Davanti a D io non conta nulla né il form alismo cultuale, né un suo equivalente, per quanto buone siano le intenzioni; conta soltanto il compimento della sua volontà che coinvolge sempre l’u o mo nella sua globalità. 5. In questo senso i vv. 5 ss. danno una chiara risposta alla constata zione del v. 4, e vanno perciò considerati strettamente uniti ai vv. 1-4. Conoscendo l’importanza della dimostrazione, Ebr. collega talmente la sua argomentazione alla Scrittura che in Sai. 4 0 , 7 ^ vede riportato un dialogo di Cristo con D io (similmente in 2 ,12 s.), dialogo che si sa rebbe svolto prima della sua comparsa o ingresso nel mondo. Stando al contesto, il soggetto di «egli dice» - Cristo, e non il salmista Davide - non presenta problemi. Tuttavia non è ancora chiaro se si alluda in particolar modo all’ «incarnazione». N o n sappiamo che cosa Ebr. inten desse veramente. È indubbio che non possa essersi immaginato l ’in gresso di Gesù secondo lo schema del mito gnostico; piuttosto, in ba se a 1,6, in cui l’ attenzione è posta sulla futura seconda «introduzio ne», si può pensare a un atto della manifestazione in relazione alla p ri ma «introduzione». Evidentemente si tratta di descrivere l’invio di Gesù nel mondo; questo significa che si può prescindere del tutto dal la nascita in particolare (cf. Atti 13,24). Com e l’autore parla in termini tecnici dell’ «entrata nel santuario celeste» (9,12), così anche dell’ «entrata nel mondo». Se con questa si intende l’introduzione dell’opera sacerdotale, con quella si intendeva il suo perfezionamento. Il modo
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di esprimersi tecnico cultuale lascia ben poco spazio a una spiegazione particolare riguardo alla modalità biologica o alla form a specifica di un mito. Che non si pensi neanche lontanamente all’incarnazione si può dedurre anche dalla circostanza stessa del dialogo riportato. C ri sto si esprime come lo farebbe il Figlio obbediente, pronto ad adem piere la volontà di D io e a offrire la propria vita. Com e si può intuire dal testo, egli non si presenta come il Preesistente nel quadro di un p ro cesso di redenzione o di una discesa dal cielo, bensì come sommo sa cerdote che si sente chiamato sulla base della parola divina espressa nel la sacra Scrittura. A causa della singolare composizione del v. 7a, l’idea sembra essere addirittura quella che egli si è presentato a D io come orante (in preghiera?) per dimostrare la propria disponibilità a soffrire e per piegarsi volontariamente al comando divino. Stando alla Scrittu ra, C risto intendeva offrire in sacrificio il «corpo», ossia la propria per sona, in cambio dei «sacrifìci e doni» non graditi (cf. ad es. Is. 53,12 in 9,28). La singolare versione della citazione al v. 5b (nel testo origina rio: «gli orecchi mi hai aperto») va probabilmente attribuita a un erro re di lettura o di scrittura. Il testo modificato veniva meglio incontro alPintento teologico di Ebr. di dimostrare che Cristo, in quanto som m o sacerdote, ha offerto il sacrifìcio conclusivo, quello vero. 6. D i questo si compiacque Dio (leggermente diversi i L X X ), e non degli olocausti e dei sacrifìci per il peccato (cf. Sai. 5 1,18 ). Quindi so no le parole stesse di Cristo a precisare che i principali tipi di sacrifì cio tradizionali in Israele non contraddistinguono la reale verità volu ta da Dio. 7. Il v. 7, come già accennato, riveste particolare importanza essen do stato anche il suo contenuto originario modificato a favore delPinterpretazione messianica. Invece delPorante è Cristo a parlare davanti a Dio. Il libro non è la «legge», ma la sacra Scrittura come profezia ri ferita a Cristo. Ebr. ha fatto delPaffermazione una dichiarazione d’in tenti da parte del messia intenzionato a fare la volontà di D io e anche Sai. 40,9 è stato volutamente abbreviato in tal senso. Grande rilievo è dato al fatto che C risto rinuncerà ai sacrifici usuali per dimostrarsi ub bidiente. La verità di tale dichiarazione appare sufficientemente con fortata dal testo della Scrittura. Per Ebr. infatti vi si afferma chiara mente che C risto porta Pabolizione dei vecchi rapporti, non solo il lo ro miglioramento o completamento; e se ha abolito Pordinamento an tico, lo ha fatto perché esso non rientrava nelPintento salvifico di Dio.
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Com e anche in 8,7-13, le argomentazioni puntano a un rapporto asso lutamente nuovo con D io nel tempo messianico. 8. Tale proposito affiora soprattutto nei vv. 8-10, un ulteriore libero esame dei quali commenterà chiaramente il contenuto nel senso citato. Dapprima Pattenzione si rivolge alPinizio della citazione («sopra»), che viene ripetuta ancora una volta con parole proprie. Il rifiuto di D io, si osserva, riguarda i sacrifici offerti «secondo la legge». L a v e r sione al plurale di Sai. 40,7 va a sostegno dello sforzo di formulare un’affermazione generale riguardante il rifiuto di ogni sorta di sa crificio. 9. Il v. 9 («poi ha detto») riprende la decisione di C risto, espressa più avanti, di voler compiere la volontà di D io, riferendola alla stipu lazione di una nuova alleanza. A l posto di una prima, transitoria, ne viene una seconda e definitiva. Tale riflessione è redatta al presente, nello stile di una tesi derivata. Dalla parola di C risto dunque emerge chiaramente Pordinamento ora in vigore. 10. L 'u tilizzo di nozioni note si ha subito al v. 10. Q uella che p o trebbe apparire come una riflessione irrilevante di chi conosce la Scrit tura contiene una realtà immediata e attuale anche per i lettori cristia ni (si osservi bene lo stile in «noi», volutamente prescelto). C iò che fi no a questo momento era una spiegazione distaccata, ora prende la fo r ma di una dichiarazione teologica solenne che intende essere di con forto, ai fini di rafforzare la certezza del perdono dei peccati. Il tono elevato della frase è forse dovuto al Sitz im Leben liturgico della lette ra. Sorprende che l'espressione «una volta per sempre», che compare alla fine della frase, non sia pronunciata da C risto ma dai cristiani. L a santificazione che hanno ricevuto si presenta come globale e com ples siva. N o n ha bisogno di essere ulteriormente perfezionata perché è il risultato di una realtà più grande, caratterizzata dalPeliminazione delPantico e dalPinstaurazione del nuovo. Più avanti si vedrà che Pargo mentazione di Ebr. non riguarda principalmente l’ olocausto o il sacri ficio di sangue, ma ha scelto in prim o luogo il concetto piuttosto am pio di «consegna», nel senso di offerta, per esprimere così anche Pobbedienza conforme alla volontà. In questo contesto il sacrificio di C r i sto è caratterizzato anzitutto come rinuncia e donazione di sé davanti a D io.
L ’esaltazione di Cristo introduce il tempo della perfezione e dell’ultima vittoria (10 ,11-18 ) 11 E così ogni sacerdote sta lì ogni giorno e celebra il culto, offrendo più vol te gli stessi sacrifici che non possono mai togliere peccati; 12 questi, invece, che offrì un unico sacrifìcio per i peccati, «si è assiso» per sempre «alla de stra di Dio» 13 aspettando, per il tempo restante, che «i suoi nemici siano posti a sgabello dei suoi piedi». 14 Infatti mediante una sola offerta ha por tato per sempre alla perfezione quanti vengono santificati. 15 Ma questo ce 10 attesta addirittura lo Spirito santo. Infatti, dopo aver detto: 16 «Questo è il testamento che io stipulerò per loro dopo quei giorni», il Signore dice: «Porrò le mie leggi nei loro cuori e le scriverò nelle loro menti 17 e non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità». 18 Ma dove c'è perdo no per questi, non vi è più bisogno di offerta per il peccato. 1 1 Sai. no,ia. 13 Sai. no,ib. 16 Ger. 31,33. 17 Ger. 31,34(1.
1 1- 18 . In complesso questa pericope si compone di affermazioni no te, come risulta anche dall'impiego delle stesse espressioni tipiche. Il tema principale conclusivo è ancora una volta l'unicità del sacrifìcio di C risto, che per questo siede sul trono (8,1) alla «destra di Dio» «per sempre» (7,4) e giudicherà i suoi nemici (9,28; 1,13 ). Proprio in.questo m odo ha ottenuto anche la perfezione eterna per tutti i santificati (10* 1), il che significa che in adempimento alla profezia di Ger. 3 1,3 3 sono giunti «quei giorni» (8,8 ss.) nei quali effettivamente le offerte saranno eliminate e, grazie alla morte di Cristo, sarà concessa la remissioné universale dei peccati. Il ritorno al fondamento biblico offerto dal Sai n o rassicura nuovamente sul fatto che l'autore non si attiene a idee sue personali, ma a una testimonianza esistente, anzi all'attestazione stessa dello Spirito di D io (10 ,15). 11. Diversamente da 9 ,1 1 - 1 4 e 9,23-28, nella conclusione Cristo non è messo a confronto con il servizio del sommo sacerdote nel grande giorno dell'espiazione, bensì con il sommo sacerdozio d'Israele in as soluto. I suoi rappresentanti se ne stanno ogni giorno nel tempio svol gendo i loro compiti cultuali. Si può pensare all'olocausto quotidiano del mattino e della sera o ad altri servizi rituali. Anche se tutte le man sioni erano rigorosamente regolamentate, tuttavia fondamentalmente «ogni sacerdote» era chiamato e tenuto a svolgerle. In questo caso «sta va» davanti a D io, come afferma un’espressione ricorrente dell’ Antico Testamento (ad es. Deut. 10,8; Giud. 20,28), per svolgere incessante mente la sua mansione di servo del Signore altissimo. U n compito da
Ebr .
io,i
i 1 8. Esaltazione di Cristo e tempo della perfezione -
17 1
schiavo, se si pensa che qui si parla di offrire «molte volte gli stessi sa crifici» in modo faticoso e in fondo anche insensato, dato che non rie scono mai a eliminare i peccati (10,1.4). Così, stando alla convinzione di Ebr., nel ministero sacerdotale vi è qualcosa d'insufficiente e insod disfacente. N on è assolutamente scevro da carenze e fallimenti. Si ha l'im pressione che l'autore, il quale fa solo constatazioni, non accuse, ne abbia sofferto, naturalmente prima di attingere certezza dal sacrifì cio di Cristo. 12 . Se nella presenza del sacerdote scorge l'elemento imperfetto e inconcluso di tutta l'istituzione, ancora più in C risto, che grazie al suo sacrificio unico siede sul trono alla destra di D io, vede la verità ultima ed eterna in base alla quale comprendere e misurare ogni evento futu ro. D i conseguenza «un solo» sacrificio sostiene il passato colpevole, che «per colpa dei peccati» rappresenta un peso. M a questa verità li bera anche per il futuro, perché contro di essa si infrange ogni ostilità e ogni resistenza. A ncora una volta risuona il Sai. n o , in parte citato alla lettera in parte riportato liberamente («per sempre»); la sua affer mazione riguardo a «Cristo seduto alla destra di D io» irradia qualcosa del riposo eterno promesso al popolo di D io (4,9), riposo che ha il suo fondamento immutabile nella signoria dell'intercessore e sommo sa cerdote (7,24 s.). Che Cristo sieda sul trono tuttavia non è inteso co me un avvenimento definitivamente concluso. 13 . Il v. 13, nello spirito di Sai. n o ,ib , guarda alla fine dei nemici che vengono posti ai piedi di Cristo da Dio, il quale introduce la v it toria totale di suo Figlio. V i è ancora un breve intervallo di tempo da aspettare perché la vittoria iniziata sia completa. Si percepisce qui lo spirito della comunità primitiva che sentiva di essere prossim a alla pie nezza dei tempi. L a sua speranza, che nasce dall'evento dell'esaltazio ne del Signore, non deve finire nell'incertezza. Essa si esprime come perseveranza nelPattesa, come sottolineano fortemente le successive parole di incoraggiamento (v. già 9,28). In questo contesto non è chia ro chi siano i «nemici» di Cristo che devono chinarsi davanti a lui (v. anche 1,13 ). Probabilmente non si pensa tanto a satana o a forze de moniache ostili a Dio, quanto a potenze terrene (cf. 10,27 SS-J M ) che oppongono una resistenza ostinata alla testimonianza di Cristo, cau sando la temporanea procrastinazione della rivelazione del mondo celeste. Solo in seconda istanza può essersi mischiata anche la con vinzione della sconfitta inflitta agli avversari metafisici di C risto di cui
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Ebr. ro,i i - 1 8. Esaltazione di Cristo e tempo della perfezione
si parla in 2,14. Certo, il loro tempo ha un termine, come ricorda an cora una volta esplicitamente 10,37 ricorrendo alla Scrittura. In questo m odo, l'attesa di Ebr. si colloca perfettamente alPinterno della spe ranza rigorosamente orientata della cristianità primitiva. Partendo dai suoi particolari presupposti, essa impartisce l ’insegnamento riguar dante il sommo sacerdote intronizzato a kosmocrator, grazie alla cui signoria universale la redenzione, che prima era caduca, si è definitiva mente trasformata in eterna. 14. In tal senso il v. 14 parla della «perfezione» che è divenuta realtà nel tempo attuale e nella quale può essere accolto Puomo in quanto «santificato». E questo grazie a un'unica oblazione, come viene riba dito ancora una volta per evidenziare bene tutto il distacco dai vani sforzi del sacerdozio veterotestamentario. Inoltre vi è una leggera al lusione al fatto che il sacrificio di C risto è un evento chiuso nel suo significato. L a «perfezione» può quindi esser fatta passare come un'e sperienza della fede già attuale, perfetta in se stessa e perciò dono e offerta «per sempre». Chiaramente il concetto, come già esposto al trove (2,10), non indica un processo di perfezionamento etico o ad dirittura mistico-cultuale, bensì niente di più e niente di meno che un rapporto di comunione diretta con D io nel quale sia eliminato tutto ciò che fino a quel momento è stato di impedimento o di disturbo. In tal m odo Ebr. in fondo ha ricondotto a un denominatore comune estremamente semplice il fine della speranza, fondandolo in modo radicale sul sacrificio unico di Cristo, il che merita attenta riflessione. Che la vita in libertà perpetua debba basarsi sulla morte dell'unico sommo sacerdote è un'intuizione inaudita, che porta all'estremo limi^ te ogni riflessione. 15 . Per rafforzare la verità di quanto si è appreso, ancora una volta si fa riferimento alla promessa divina di Ger. 3 1,3 1-3 4 (8,8 ss.) in fo r ma abbreviata. Essa è messa in risalto per sottolineare l'attualizzazione immediata della parola come attestazione dello Spirito santo. La let tera agli Ebrei presuppone che anche oggi esso parli come un tempo, tramite i profeti. Più che avvertire (cf. 3,7) intende promettere e inco raggiare. In tal modo la parola eterna di D io diventa una grandezza vivente ed efficace (cf. Filone, Leg. a ll 3,4; 3,21,7), e questo anche nel tempo di Cristo. 16 s. La prim a parte del discorso, che non lascia dubbi riguardo al l'adempim ento presente delle promesse divine, è scelta in modo tale
Ebr. 10 ,11-18 . Esaltazione di Cristo e tempo della perfezione
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che Pespressione «dice il Signore» passa immediatamente alla verità ef fettiva, che è quella che conta. E cioè che D io agisce direttamente sul cuore degli uomini e perdona «peccati» e «iniquità», dei quali non si ricorderà più. Le parole decisive non seguono solo al v. 17, come oc casionalmente si è pensato, ma già in i6b, come detta la logica: «dopo aver detto..., dice». Passando dal centro della citazione direttamente alla sua conclusione, l’autore mette in risalto proprio quella nuova realtà del tempo messianico che diventa manifesta solo a causa del sacrifìcio unico e irripetibile di Cristo, dal momento che una remissione totale non può mai essere ipotizzata senza la realtà totale di un sacrifìcio. 18. A l v. 18 Ebr . presuppone tale convinzione. Questa tesi, che con clude la vasta trattazione teologica del sommo sacerdozio di Gesù (4, 14 -10 ,18 ), ribadisce l’eliminazione della necessità del sacrifìcio perché C risto ha reso possibile una remissione perfetta dei peccati. Il risulta to complessivo delle riflessioni oltremodo varie viene riassunto u n 'u l tima volta nella maniera più semplice. Si può intuire che con questa dichiarazione di principio si intenda portare l’uditorio composto da giudeocristiani a quella certezza che faccia loro abbandonare definiti vamente il legame che li tiene uniti al vecchio. A maggior ragione l'o rientamento al nuovo e al futuro può divenire un compito che ci si as sume di buon grado.
Parte quarta
«Il Signore manderà lo scettro potente da Sion... nel giorno dell’ira... giudicherà» (Sai. 110,2.5 s-) (I°)I9_I2>29) D opo aver ampiamente descritto il sommo sacerdozio di Gesù, la cui unicità «secondo l'ordine di Melchisedec» è presa approfonditamente in esame (7 ,1-10 ,18 ), Ebr. si volge nuovamente alla situazione dei suoi lettori, che non è assolutamente soddisfacente. Viene dunque ripreso uno stile esortativo fermo ed energico, come è già accaduto più volte nella parte introduttiva del sermone (2,1 ss.; 3,1 ss.; 4,1 ss.; 4 ,14 ss.; 5, 1 1 ss.). L ’esortazione è motivata dalla speranza viva fondata sul Sai 1 1 0 (v. in particolare 12,2). Quindi le considerazioni di 10 ,19 -12 ,2 9 fo r mano chiaramente una parte a sé stante. Dal punto di vista linguistico e contenutistico, la dichiarazione di 10 ,19 , che segna una svolta, è si mile al collegamento fornito da 4,14. Il sacrifìcio di Gesù è motivo di speranza certa per il cristiano, la cui perseveranza è messa a dura prova (10,19-39) In 10 ,19 -39 echeggiano già parecchie idee fondamentali delle pericopi successive. Elaborate in modo, per così dire, sommario, richia mano alla memoria cose già note per evidenziare le premesse dell'agire cristiano (cf. 3,1.6; 4,16 ; 6,19 s.). NelFam m onim ento a mantenere la professione di fede si può scorgere un tema-guida che corrisponde in particolare al carattere della liturgia solenne che immaginiamo come Sitz im Leben dell'omelia. Strettamente collegato a questo appare il discorso importantissimo della «promessa» (cf. 4 ,1; 6 ,11 s.; 7,6; 8,6; 9, 15 ; 10,36 ecc.), che racchiude il vero e proprio bene della speranza del la comunità. 19 -25. L a tematica, concettualmente piuttosto marcata, induce a con cludere che con 10,19 -25 l'autore abbia creato un brano intermedio indubbiamente ideale per passare alla sezione maggiore. In esso espri me in m odo molto concentrato l'im pegno pastorale pratico. La spe ranza di chi ascolta deve essere rafforzata, e alla sua attesa va data la necessaria tensione. G ià la frase di passaggio affronta subito e lucida
Ebr. 10,19-25. La speranza nel giorno ormai prossimo
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mente il fine, il «giorno prossimo», dunque il momento della rivelazio ne finale di D io (cf. Sai 110 ,5 ss-: «giorno delPira»). 2 6 -3 1. D i fatto, la successiva pericope 10 ,26 -31 mette in risalto in un primo tempo negativamente il giudizio incombente; in questo m o do l ’intento che la anima acquista una durezza assai minacciosa. A que sto contribuiscono anche varie citazioni scritturistiche (w . 27 e 30) e il tipico procedimento conclusivo del v. 29. Il v. 32 rappresenta non sol tanto un’affermazione dottrinale, ma al tempo stesso anche una testi monianza molto personale delPautore, spinto da un'autentica preoc cupazione per la salvezza sua e della comunità. 32-39. M olto diverso è invece l'intento che anima la terza pericope, dalla quale traspaiono caldo affetto, conforto genuino e soprattutto una certezza gioiosa. L ’esposizione intende rafforzare gli interpellati facendoli progredire nella fede. La comunità, che già una volta ha dato esemplarmente buona prova di sé, non deve abbandonare la fiducia. Mentre in 10 ,26 -31 la gravità della situazione di giudizio ormai pros sima è offerta a una riflessione più generale, in questa pericope si con tinua direttamente con gli inviti di 10,19-25 (vv. 32.35). L a conclusio ne è costituita da una notevole testimonianza scritturistica che vede accostati Is. 26,20 e Ab. 2,3 s. La profondità delPevento deve indurre a lasciarsi guidare dalla speranza nel giorno ormai prossimo (10 ,19 -25) 19 Avendo dunque, fratelli, (fondata) certezza nell’ accesso al santuario per mezzo del sangue di Gesù, 20 accesso che egli ha inaugurato per noi come via nuova e vivente attraverso la cortina, cioè la sua carne, 21 e avendo un «sommo sacerdote sopra la casa di Dio», 22 accostiamoci dunque con cuo
re sincero nella pienezza della fede, i cuori liberati con l’aspersione dalla cat tiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. 23 Manteniamo senza va cillare la professione della speranza, perché colui che ha promesso è fedele; 24 guardiamoci a vicenda per ricevere stimoli all’amore e alle opere buone, 25 non disertando le nostre riunioni come è abitudine di alcuni, ma esor tandoci vicendevolmente, con tanta più forza quanto più vedete avvicinarsi il giorno. 11 Num. iz,j.
19. Solo grandi verità di fede possono dar fondamento a una spe ranza che sprona e indirizza la vita intera. D i questa circostanza tien
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Ebr. 10,19-25. La speranza nel giorno ormai prossimo
conto Ebr. alFinizio delPampia esortazione che sta per sviluppare. Sa infatti che un invito di cui non è chiaro il motivo suonerebbe solo en fatico, vuoto e senza esito. E ponderatamente ricapitola ancora una v o l ta in poche parole il nucleo essenziale della sua conoscenza cristologi ca («dunque»). Ribadisce ciò che è possesso irrinunciabile della fede, ossia da un lato l'esperienza della franchezza e della fiducia di poter penetrare nel santuario di D io grazie al sacrificio di Gesù, e dall'altro la nota circostanza del sommo sacerdozio di Cristo, posto come F i glio e Signore sopra la casa di D io (3,1-6). A ben guardare, sono pa recchie le idee che compaiono. La fiducia che ci permette di andare se renamente incontro al futuro poggia sul «sangue di Gesù», dunque sull'offerta della vita del Signore terreno. Solo il suo sacrificio ha reso possibile la libertà in un mondo reso schiavo dal timore della morte ( 2 , 1 5). Com e dimostra l'immagine del velo (cf. 6,19 s.), i cristiani si ac costano al santuario celeste, e non soltanto ai «beni salvifici» in parti colare, come si potrebbe anche tradurre. Il ricorso alle immagini della «via», dell'«accesso» e della «casa di D io» è chiarissimo (v. anche 9,2 s.). L a soglia del santo dei santi celeste in cui si trova il trono di D io (4, 16), a differenza di quella del santuario terreno, può essere varcata non più da un'unica persona, bensì dai molti che ripongono la loro fiducia nella morte di Gesù. È questo infine l'elemento nuovo, per il quale Ebr. ha impiegato tutta la forza argomentativa nell'ampia sezione 7 ,110 ,18 . N o n soltanto la singola persona, ma tutta la comunità dei fra telli sperimenta la libertà mediata da G esù (v. l'appellativo «fratelli»). 20. E questo non si limita affatto a un'esperienza momentanea, ma com porta un tipo di condotta dinamico per cui la «via nuova e viven te» viene percorsa risolutamente, senza restare bloccati nell'attesa. È . da notare il modo di esprimersi biblico, poiché ancora una volta (v. anche in 9,18) viene ribadito che come M osè anche G esù ha aperto, o più precisamente «inaugurato», una via nuova. M a mentre la conclu sione dell'alleanza da parte del prim o, in fondo, riguardava le «opere morte» (6,1; 9,14), C risto, che in 6,20 è chiamato «precursore», ha portato a una realtà capace di donare la vita a tutti coloro che percor rono la sua via. L'espressione «attraverso il velo, cioè per m ezzo della sua carne» può indicare solo che grazie al sacrificio di sangue della sua vita C risto ha stabilito il rapporto con D io. N o n si ipotizza certo che la carne di C risto abbia dovuto esser tolta di m ezzo, così come si spianta una tenda. Piuttosto, la menzione della «carne» vuole alludere
Ebr. 10,19-25. La speranza nel giorno ormai prossimo
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ancora una volta al fatto che Cristo non ha compiuto il suo sacrificio con facilità, bensì sopportando prove e lotte e infine dando prova di obbedienza (5,7). Questo tipo di comprensione ci fa anche dubitare dell’ipotesi che qui l’autore abbia rielaborato concetti gnostici, magari facendo in modo che la «carne», componente materiale del corpo, ri sulti essere di impedimento nel cammino verso D io. N el pensiero cul tuale di Ebr., la «cortina» che introduce al santo dei santi non costi tuisce affatto un ostacolo che deve essere spinto da parte, ma piutto sto il luogo in cui versare il sangue dell’espiazione e che in determina te circostanze consente l’ accesso al santo dei santi. In modo altrettan to positivo anche al v. 20 la carne di Cristo sembra essere considerata più uno strumento, un ingresso, dal momento che l’idea in essa espressa documenta, nel presente contesto, ciò che «noi» possediamo e che «ci» è rivelato. 2 1. In tal senso il v. 21 prosegue immediatamente con l’ulteriore con statazione, formulata in termini biblici (cf. Num. 12,7), che noi abbia mo «un sommo sacerdote sopra la casa di D io». C risto vi compare quale Signore del santuario celeste che compie il suo ufficio davanti a D io (7,25). In esso rientra anche la sua intercessione a favore della co munità domestica e cultuale del luogo. V a presa in considerazione la possibilità che qui come in 3,5 s. vi possa essere un’allusione alla co munità in quanto «casa di Dio». «Casa» qui può significare «comunità domestica». Anche il santuario non era mai considerato solo come edificio ma sempre, in primo luogo, come comunità del tempio e di culto, con il sommo sacerdote come suo rappresentante. Se ora C risto è costituito sommo sacerdote celeste, allora sono già chiariti anche i rapporti giuridici della nuova comunità, la «famiglia di D io». Per que sto la comunità di Cristo può considerare una garanzia del futuro che le è preparato tutto ciò che già possiede nella fede. 22. D opo questo ampio preambolo che descrive una volta di più la verità centrale della fede, vengono tre esortazioni formulate dopo at tenta riflessione (w . 22.23.24), riguardanti manifestamente la terna fe de, speranza e carità (cf. / Cor. 13 ,13 ). Per prima cosa il v. 22, dopo tale premessa, esorta ad «accostarsi» «con cuore sincero nella pienez za della fede». N o n è affatto un invito a vagare senza meta, ma al contrario sprona a compiere il passo decisivo verso l ’estrema vicinan za a D io (7,19). Questo deve avvenire senza riserve e ripensamenti, ma anzi in piena certezza. Il forte risalto dato all’interiorità dell’ atteggia
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mento è decisamente voluto. In questo ci si distingue dalla religione delPantica alleanza. I suoi sacerdoti infatti venivano consacrati solo esteriormente mediante Paspersione di sangue e il lavaggio con acqua (Lev. 8,6.30; 16,4), mentre i cristiani lo sono profondamente nell’intimo, poiché nel cuore, sede dei pensieri, sono stati liberati dalla co scienza accusatrice. Accanto alla purificazione del cuore vi è il «lavag gio del corpo con acqua pura». Evidentemente i due atti sono visti in stretta connessione. Riguardo al secondo è opportuno P accostamento al battesimo, dal momento che la scelta del termine «corpo» accanto a «cuore» esprime inequivocabilmente che Puomo è purificato nella sua interezza fisica. L ’impiego di «acqua pura» è in riferimento più alPef fetto che alla qualità (cf. Ez . 36,25). Indirettamente è possibile che vi sia un’allusione alla consuetudine della comunità primitiva di battezza re in acqua corrente, o come si suol dire idonea. Com unque è ben lon tana l’idea di una consacrazione gnostica. Sotto l’aspetto linguistico, dal participio passato deduciamo che gli interpellati non hanno appe na ricevuto il battesimo, ma sono già battezzati da tempo, circostanza sicuramente di una certa importanza per la presentazione della situa^ zione liturgica. Un ricordo del battesimo tanto accentuato non è do vuto a un capriccio del caso, ma ha senz’altro un motivo liturgico spe^ cifico* A questo punto della sua omelia, il pensiero delPautore ancora una volta è legato strettamente alla situazione concreta, allo scopo di interpellare e scuotere gli ascoltatori. 23. L o conferma anche il successivo secondo invito a mantenere senza vacillare la «confessione della speranza» (3,14; 4,14), poiché il concetto di «confessione» rivela un’impronta teologico-battesimale; C erto non si pensa a un form ulario preciso, bensì all’atto stesso della confessione di fede, che include il sì incondizionato alla speranza po sta (6,2). G li interpellati hanno corso il rischio di perdere di vista il C risto che sta per tornare, ragion per cui vengono vivamente esortati a non abbandonare la risolutezza iniziale. Ciò che col battesimo han no acquisito per diritto deve divenire loro possesso, poiché non può esservi alcun dubbio che D io, colui che ha promesso (6,13; 1 1 , 1 1 ; 12,26), è assolutamente fedele. Resta solo da chiedersi se anche il cri stiano, al quale è stata fatta una promessa tanto grande, dà prova della medesima affidabilità. D all’affermazione possiamo vedere che il con cetto di speranza sfiora molto da vicino quello di «promessa» ( 4 ,1- 1 1 ; 8,6; 9,15).
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24. D opo le esortazioni alla fede e alla speranza, ve ne è infine una terza riguardante la carità attiva. Essere cristiani non è mai soltanto una certezza soggettiva nella salvezza, ma comporta sempre anche il servizio al prossimo, che nella tribolazione non deve essere indotto a dubitare della verità di Cristo. Il v. 24 richiede che i cristiani si osser vino a vicenda per ricevere un più grande «stimolo all’amore per il p ro s simo e alle opere buone». Q uest’ultima espressione tradisce un certo pensiero giudaico, poiché anche la sinagoga distingue tra le cosiddette opere di carità e le «opere buone», ovviamente superiori alle prime. A l contrario Ebr., in questo concordando palesemente con Paolo, pone con decisione l’ «amore per il prossimo» come program ma-guida fo n damentale, essendo slittato in secondo piano il rango teologico delle cosiddette «opere buone». La proposta di osservarsi vicendevolmente va intesa come un consiglio discreto. È noto quanto invidia com peti tiva e gelosia possano essere di sprone per ottime prestazioni. N ella comunità cristiana al contrario questa inclinazione naturale dell’uom o deve indurre a compiere il bene ovunque ce ne sia bisogno. L a form u lazione lascia capire che non si pensa solo alle usuali opere di benefi cenza e all’elemosina. Paolo in particolare sa descrivere con parole ef ficaci la sfera di competenza della carità cristiana (cf. 1 Cor. 13). A n che Ebr. ha in mente una comunità solerte che cerca di venire incon tro il più possibile alle urgenze interne ed esterne, ossia alle proprie carenze sociali e alle molteplici necessità del tempo. C iò che viene compiuto avviene a causa di Cristo in uno spirito di amore per i fra telli e per il prossimo. Con riguardo alla persona, si tratterà di opera «buona», cioè caritatevole, utile ed edificante. 25. Poiché lo stimolo corretto che non degenera in egoismo esiste solo all’interno della comunità, si aggiunge che non si deve mancare alle assemblee liturgiche (cf. 2 Tess. 2,1), o meglio che non devono es sere disertate, come purtroppo è divenuta abitudine di certuni. L a stret ta associazione logica tra il v. 2 6 e il v. 24 denuncia un problem a scot tante fortemente sentito. È chiaro che non si tratta dell’ apostasia di pochi cristiani di fronte all’unica comunità dei credenti, né di tenden ze settarie, bensì solo del rischio di cadere nella pigrizia e nell’indiffe renza da parte di coloro che evitano le riunioni comuni. M a di questo risente la forza vitale di tutta la comunità. Poiché il senso del proprio compito nel mondo e il fine ultimo della missione a esso collegata può divenire chiaro solo mediante il culto comunitario, diventa essenziale
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riunirsi tutti insieme. Se l'am ore nel mondo e nella vita quotidiana de ve rivelarsi con forza, occorre ricercarne sempre l'origine (v. 22: «ac costiamoci»). È significativo che anche in 13 ,15 s. il sacrificio di rin graziamento delFamore sia strettamente collegato al sacrificio di lode della fede. Quando alla fine si ha l’invito a esortarsi a vicenda per fre quentare le riunioni, l'intento è quello di contrapporre energicamente ai pochi esempi negativi i tanti positivi. Ogni fallimento deve indurre a stringersi insieme in modo ancora più compatto, mobilitando così nuove energie. O ccorre anzitutto compiere subito passi per m igliora re, senza aspettare che prendano il sopravvento fenomeni di dissolu zione. La comunità non può assolutamente permetterselo, tanto più che è a conoscenza del «giorno» che impone disponibilità immediata. È il «giorno del Signore», il «giorno del giudizio», il «giorno dell'ira», insomma «il giorno» per eccellenza in cui ogni cosa verrà alla luce (cf. Sai 110 ,5 ). La frase conclude il versetto con accenti estremamente gra vi. Probabilmente si riferisce all'ammonimento del v. 25, e non alla ri chiesta del v. 24 di agire caritatevolmente. Essa conclude un discorso e al tempo stesso introduce un nuovo tema. Sullo sfondo vi è un’attesa temporale elementare, così com'era generalmente diffusa nella chiesa primitiva. A ciò si collega la convinzione che la ragione di tale attesa è più o meno manifesta. Il tipo di segni che annunciano l’ «imminenza» del giorno di Dio non è esplicitato. N on è tuttavia da escludere che la situazione politica generale, caratterizzata da tribolazioni e affanni (Nerone?), possa servire da argomentazione. N el seguito, il v. 37 pre ciserà meglio la tensione dell’attesa. Forse in questo contesto si può anche richiamare alla memoria che già nella chiesa più antica si era an data form ando la convinzione secondo la quale il frequentare la litur gia pasquale, in particolare, costituiva un sacro dovere. La celebrazio ne notturna fin da prestissimo venne considerata simbolo della com u nità futura nel regno di D io. #
A ll’apostasia segue inevitabilmente il giudizio (10,26-31)
26 Poiché, se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, 27 ma soltanto una terribile attesa del giudizio e della «vampa di fuoco» «che divorerà i ri belli». 28 Quando qualcuno viola la legge di Mosè, «muore» senza pietà «sulla parola di due o tre testimoni». 29 Di quanto maggior castigo pensa te allora sarà ritenuto degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio, che
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avrà stimato cosa senza valore il «sangue del testamento» da cui era stato santificato, e che avrà oltraggiato lo Spirito della grazia? 30 Conosciamo in fatti colui che ha detto: «Mia è la vendetta. Io ripagherò», e ancora: «Il Si gnore giudicherà il suo popolo». 31 È tremendo cadere nelle mani del Dio vivente. 27 Is. 16,11 (LXX). 28 Deut. 17,6. 29 Es. 24,8. 30 Deut. 32,353.363, anche Sai 135,14.
26. L ’indifferenza può portare all’apostasia. Ebr. non teme di chia mare apertamente per nome il pericolo davanti al «giorno ormai p ros simo». A l tempo stesso ritiene opportuno continuare a sviluppare il tema del giudizio. È fin troppo facile che l’irresolutezza, collegata a un segreto estraniam ene, possa mutarsi in deciso rifiuto. Il versetto 16 aveva già menzionato tale eventualità. U n tentativo di prim itiva inti midazione? Certamente no. Piuttosto un’evidente riflessione critica, che non nega come tale possibilità esista per i molti come per il predi catore stesso. Q uello che chiama «peccato intenzionale» è una conce zione fin troppo familiare al giudaismo degli scribi, e in particolare anche a Filone; risale a Num. 15,30, secondo cui il peccato deliberato non può essere perdonato essendo identificabile principalmente come apostasia. Quanto radicalmente sia considerata la possibilità della ri bellione e della protesta contro D io emerge, in prim o luogo, dall’ e spressione contrastante «ricevere la verità», che descrive indubbia mente tutto l’insieme del patrimonio di fede (cf. 1 Tim. 2,4), e, secon dariamente, anche da tutte le altre affermazioni nelle quali trova espres sione ancora una volta, come in 6,4 ss., la gravità estrema della deci sione presa. L ’attestazione del giorno ultimo costringe a questa presa di posizione. Se c’è una verità, allora questa verrà certamente alla luce. E se verrà alla luce, allora la vita presente deve già essere condizionata da essa. Per evitare malintesi, occorre osservare che l’espressione «se pecchiamo volontariamente» intende un comportamento di fondo attuale. Riguarda più il rifiuto permanente che non il rinnegamento temporaneo. Verosimilmente sullo sfondo di tale riflessione vi è il raffronto tra la verità di Cristo e l’evento del giorno dell’espiazione, anch’esso in grado di offrire un perdono universale eccetto che nel ca so di rifiuto deliberato. Che il v. 2 6 abbia contemporaneamente in mente l’ annullamento del battesimo si può dedurre dal parallelo di 6,4 ss. Il potere di remissione dei peccati legato al sacrificio di Cristo ter mina là dove non è più richiesto. E come potremmo attenderci qual cosa di diverso? C risto stesso, presente nella decisione di fede, si ritrae
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se lo respingiamo per sempre da noi. L ’espiazione non può più essere concessa laddove viene a mancare il suo fondamento. Grazia, perdo no, riconciliazione non rappresentano verità generali che possono es sere colte, sfruttate ed eventualmente anche accantonate a proprio piacimento, ma costituiscono verità particolari legate a C risto e che solo per suo tramite possono essere acquisite. L ’espiazione come isti tuzione della prassi ecclesiastica non ha ancora nessuna importanza in questo testo degli inizi. Si tratta solamente di chiarire cosa significa verità valida a motivo di Cristo. E questo emergerà con lui, non pri ma. L a chiesa, che cura l’annuncio, non può più fare altro che m o strare la gravità della decisione. Infatti, la situazione esistente laddove C risto è stato rinnegato è già abbastanza terribile. 27. N ella sottile form ulazione linguistica del v. 27 trova espressione l’angoscia che afferra l ’uomo intenzionato a percorrere da solo la pro pria strada, addentrandosi in un futuro oscuro. Se non rimane più al cun sacrificio per i peccati, tuttavia resta «una terribile attesa del giu dizio». L ’uomo si trova davanti a qualcosa di incerto e minaccioso che gli si erge di fronte, come una parete inclinata che può crollare da un momento all’ altro travolgendolo. N ella formulazione del v. 27, a quan^ to pare, in un primo tempo si è rinunciato deliberatamente a menzio nare la persona del giudice. In tal m odo l ’autore poteva presentare il punto di vista esistenziale riguardante tutto il peso della decisione pre sa, le cui enormi conseguenze spesso sono intuite soltanto confusamente. Subito dopo, le affermazioni si conform ano alla citazione bi blica. Collegandosi a Is. 2 6 ,11, per prima cosa è presentata l’immagine del fuoco che divora avidamente tutto quello che gli sta intorno (v. anche 6,8). Descritto in modo quasi personificato, esso è un velato ac cenno al D io che giudica. In tal m odo passa anche un duplice ordine di idee: che i ribelli lottano contro una grandezza sempre più forte di loro, dalla quale potranno solo risultare sconfitti come in un evento superiore; e che l’ attestazione della Scrittura proprio a questo propo sito dice la verità, ragion per cui può essere utilizzata in senso quasi aforistico. 28. Perciò, da un’ulteriore riflessione sarà d’obbligo concludere con il v. 28 che la punizione sarà molto maggiore nel caso del rifiuto del «Figlio di Dio» che non in quello dell’infedeltà alla legge mosaica. C o me è noto, la persona che ne abbandona radicalmente l’ ordinamento (cf. Deut. 17,2) è dichiarata colpevole sulla parola di due o tre testi
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moni e deve morire. Quanto peggio sarà allora per chi si oppone al F i glio di D io disprezzandone il sacrifìcio. 29. L ’interrogativo «pensate» sottintende che gli interpellati stessi sono benissimo in grado di fornire una risposta. Se, date le precise di sposizioni, non esistono eccezioni in nessun caso, tantomeno esiste ranno per un atteggiamento del genere, che va a colpire non solo la materia della legge ma la persona stessa di D io che è legata al Figlio. L ’empio modo di agire di coloro che apostatano è descritto in tre punti. Per prima cosa si parla di «calpestare il Figlio di Dio»: s’intende un comportamento che esprima sia disprezzo sia volontà di annien tamento. Forse dietro questa espressione vi è l’esperienza dell’aposta ta, il quale non assume tanto una posizione di neutralità o tolleranza ma al contrario propende piuttosto per l’aperta ostilità. In secondo luogo commette apostasia chi disprezza il «sangue dell'alleanza», chi, alla lettera, «stima cosa comune» il sangue «mediante il quale è stato un giorno santificato». Ebr. si riferisce con questo al momento in cui la persona, in forza del sacrificio di Gesù che è alla base della nuova alleanza, è stata accolta all’interno della comunità cristiana. Questo sangue ha un significato elementare per il rapporto con D io. N o n in dica qualcosa di «comune», senza valore ed efficacia per l’uomo, ma è santo. Proprio perché appartiene a D io mette in relazione con lui. Per prima cosa si valuterà se vi siano allusioni all’atto del battesimo, poiché esso si trova alFinizio dell’ appartenenza alla «nuova alleanza». E invece da scartare l’ipotesi secondo la quale qui vi è un’allusione al l’eucarestia, ipotesi contro cui gioca l’espressione «è stato santificato». Ovviamente l’associazione di idee poteva essere provocata, ma non è certo voluta. Ebr . parte dal presupposto che la santificazione avviene direttamente, e non indirettamente, per mezzo del sacrificio di Cristo. È a un unico atto che guarda, non a molti. Quanto più punibile dun que il comportamento degli apostati! A l terzo punto infine l’ apostasia viene definita disprezzo dello «Spirito della grazia», certo richiaman dosi a Zacc. 12 ,10 . La certezza nella misericordia di D io trasmessa da questo Spirito si scontra con il rifiuto in malafede e lo scherno. C re diamo di potercela cavare anche senza di essa, dimenticandoci però che, in alternativa, resta solo il giudizio; e ci s’inganna a proposito del la temibilità di questo. Ebr. ha rinunciato, probabilmente di proposi to, alla descrizione della «punizione peggiore» che incombe. Certam en te comporta qualcosa di più della morte fisica con la quale nell’antica
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alleanza si puniva l'apostasia. Anche Filone di tanto in tanto ha svi luppato tale argomentazione (Fug. 84). Come costui, anche Ebr. sot tolinea che le conseguenze non possono essere mai abbastanza consi derate; ma illustrarle non è compito del testimone della parola divina. L a santità di D io esige timore da parte nostra, soprattutto quando è di essa che dobbiamo parlare. Se D io è qualcosa di più di un mero con cetto, ossia una realtà riconosciuta, allora questo viene espresso fin nel linguaggio. Per questo motivo qui si parla di lui, il giudice, dapprima solo al passivo. 30. A l v. 30 tale atteggiamento è confermato, anche se ora ci si esprì me in modo chiaramente molto più diretto. Sorprende che l'autore includa consapevolmente anche se stesso nella frase. A ciò si aggiunga che delinea con precisione estrema la personalità dell'essere divino che ha di fronte. È determinato dalla convinzione che tutti sono respon sabili davanti a Dio. Infine, quel «mia è», che la citazione pone pro prio all’inizio (così anche Rom. 12,19 ), sottolinea l'esistenza di uno che si è riservato di agire in ogni circostanza per ultimo e in qualità di giusto. In tal senso, da Deut. 32,35 affiora chiaramente la decisa vo lontà di punire l'empietà dell'apostasia e della ribellione. C iò che per tutti ne deriva come conseguenza ultima è evidenziato in un'ulteriore citazione, proseguimento del passo precedente (cf. Deut. 32,36; anche Sai. 13 5 ,14 ). Stando a questa il Signore giudicherà il «suo popolo». L'im m agine del «giorno dell'ira» di Sai 110 ,5 dice semplicemente che il Signore terrà giudizio tra i popoli. N el presente contesto intende evidentemente ribadire che il suo popolo in particolare, cioè la co munità cristiana, non deve assolutamente sottovalutare il giudizio fu turo. L ’espressione «Signore» allude al fatto che D io detiene certi di ritti di proprietà, e anche che può punire le trasgressioni. 3 1. A questo punto, quasi all'im provviso si ha una frase di carattere personale a conclusione del pensiero. Linguisticamente si riallaccia al v. 27a, e tradisce un forte coinvolgimento personale. Q ui finalmente si nomina esplicitamente il nome di Dio. Anche l'argom ento trattato non potrebbe essere espresso in modo più drastico. L'espressione biblica «cadere nelle mani» non nasconde che, senza Cristo, Puomo sta di fronte a un abisso spaventoso che inevitabilmente lo inghiottirà. G ra zie al sacrificio di Cristo ci si può rifugiare nelle mani di D io, ma sen za quello si cade vittime di un giudizio che annienta impietosamente. Proprio il D io vivente è anche il santo. N e ll5Antico Testamento è
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scritto che è meglio cadere nelle sue mani anziché in quelle degli u o mini (cf. 2 Sam. 24,14; 1 Cron. 2 1,13 ; Sir. 2,18), mentre qui si trae una conclusione diametralmente opposta partendo dalla verità di Cristo. Grazie a essa la testimonianza del D io che giudica viene forse messa in luce in modo ancora più chiaro. Indubbiamente in questo particolare passo la distanza dal pensiero filosofico di un Filone è lampante (cf. Deut. 32,34 s. e Leg. all. 105). L'intera testimonianza di Ebr. pone l’u o mo di fronte all’alternativa di accettare la grazia del sacrificio di C ri sto o di rischiare, nella presunzione, di divenire vittima del giudizio di Dio. Proprio alla conclusione del ragionamento maggiore la medesi ma conoscenza viene espressa ancora una volta con analoga incisività (cf. 12,29). La fedeltà nella lotta e nella sofferenza riceve la promessa incondizionata della vita (10,32-39) Ma richiamate alla memoria quei primi giorni in cui, essendo stati (ap pena) illuminati, avete sostenuto una grande e dolorosa lotta, 33 ora espo sti pubblicamente a insulti e addirittura a vessazioni, ora come compagni di sofferenza di coloro che venivano trattati in questo modo,. 34 E avevate compassione dei carcerati, anzi accettavate con gioia la spoliazione dei vo stri beni, poiché riconoscevate voi stessi di avere un possesso migliore e duraturo. 35 Dunque non gettate via la vostra fiducia, che ha una grande ricompensa! 36 Infatti avete bisogno di perseveranza per compiere la vo lontà di Dio e ottenere la promessa. 37 «Ancora» «solo un po’ di tempo» infatti, e «colui che deve venire verrà, non tarderà. 38 II mio giusto però vivrà per fede, ma se indietreggia, la mia anima non si compiacerà in lui». 39 Noi però non siamo di quelli che «indietreggiando» arrivano alla rovina, ma mediante la «fede» alla salvezza dell’anima. 32
37a Is. 26,20. 37b.}8 Ab. 2,3 s. 39 Ab. 2,4.
32. Il monito a non cadere nell’apostasia non poteva restare inespres so, l’autore si sentiva tenuto a farlo. Tuttavia è significativo che imme diatamente dopo, come in 6,9 ss., vi sia un completo mutamento nei pensieri e nei sentimenti. La sezione successiva, vv. 32-39, intende de cisamente essere di incoraggiamento per rafforzare ciò che è debole e colmare di nuova fiducia ciò che è minacciato. In una frase di ampio respiro la comunità viene esortata a richiamare alla mente sempre (v. il presente) le prove sostenute un tempo: essa non può né deve dimenti
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care che all'inizio, non appena aveva aderito a Cristo, aveva dato buo na prova di sé in modo esemplare e ammirevole. Dalle considerazioni piuttosto minuziose si possono trarre alcune indicazioni sulle circo stanze precise della fondazione della comunità. L'autore conosce bene questi «primi giorni», ossia i tempi iniziali, poiché vicino o lontano che fosse vi aveva preso parte personalmente. Nonostante fossero sta ti appena «illuminati», cioè incorporati nella verità di Cristo mediante l'istruzione e il battesimo ricevuti (6,4), gli interpellati dovettero so stenere subito una prova dura e dolorosa (cf. 1 Tess. 2,2) dimostrando la necessaria perseveranza. È possibile che l'opposizione che dovette ro affrontare fosse originata dalla conversione alla fede cristiana. 33. Questa ipotesi è appoggiata dalle indicazioni più precise che fo r nisce il v. 33, riguardanti «insulti e addirittura vessazioni» - ovvero umiliazioni psicologiche e materiali - subite allora, tanto più che evi dentemente non vi erano martiri da piangere. Per questo motivo è quindi assolutamente improbabile che i dati si riferiscano a una gran de persecuzione di stato, magari quella di Nerone. Quando inoltre è detto che gli interessati sono stati «esposti pubblicamente», l'espressio ne si riferisce a punizioni pubbliche, forse nell'ambito di competenza delle autorità giudiziarie cittadine (cf. 1 Cor. 4,9), I membri della co^ munità non direttamente coinvolti non avevano comunque esitato a dare prova di solidarietà fraterna, non abbandonando a se stessi tutti coloro che «così andavano per la propria strada» (cioè pieni di perse veranza). Per compassione e corresponsabilità furono loro vicini nel doloroso cammino. 34. Il V. 34 riferisce alcuni particolari. Condividendo le sofferenze dei carcerati, che avevano bisogno d'incoraggiamento e assistenza, essi hanno corso anche il rischio di essere a loro volta arrestati. Inoltre si è sopportata con gioia la «spoliazione dei beni». Questa annotazione, che allude alla confisca dei beni (cf. 4 Macc. 4,10), può forse essere spie gata meglio. Sappiamo che il rimborso delle spese derivanti alla com u nità cittadina da un procedimento penale era competenza del magi strato. L a confisca dei beni o l'ammenda in denaro veniva stabilita da un verdetto di giurati con valore esecutivo. Tale sentenza poteva met tere a repentaglio la stessa esistenza del condannato. Talvolta vi era una certa attenuazione della pena se si era in grado di produrre una fi deiussione. Poiché le considerazioni di Ebr. sembrano coinvolgere tutti gli interpellati («spoliazione dei vostri beni»), non è escluso che
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l’aiuto sia stato vicendevole, magari con un'azione del tutto sponta nea. Apprendiamo che i cristiani hanno accolto perfino con gioia la perdita dei loro averi, certi di un possesso più grande e perpetuo. C o me appaiono transitorie le ricchezze terrene, paragonate alle cose eter ne promesse da D io! Anche solo con la scelta dei termini l'autore di mostra che per lui il mondo celeste è qualcosa di certo. 35. Ma la realizzazione della speranza resta comunque rimandata al futuro, al quale deve orientarsi ogni aspirazione. In fondo, l'eternità non è un bene spirituale scontato, come ritengono le varie concezioni filosofiche, bensì una promessa elargita alla fede. Essa rende liberi ri guardo al futuro e necessita dell’assoluta fiducia di chi la riceve in do no. Il D io di Ebr. è una persona, non un essere eterno e impersonale. Anche solo per questo si può esser certi che adempirà le sue promesse in modo definitivo e completo. Che tale fiducia si basi sul sacrificio di Cristo si è appena tentato di dimostrarlo ampiamente. Se in 3,6 si invi tava a conservare la franchezza (fiduciosa) acquisita, ora - poiché se ne sa un p o' di più - si esorta a non gettarla assolutamente via. Ebr. insiste su quello che non deve assolutamente accadere. Tutto il pregio della fiducia e della franchezza della fede cristiana emergerà in futuro, dove ci attende una «ricompensa grande». Si potrebbe anche pensare che il sacrificio che si chiede consiste in abnegazione e rinuncia, ma una cosa è sicura: comunque sia, D io non si fa donare nulla, anzi, ri paga in sovrabbondanza. N on è mai l'uom o a presentare qualcosa di suo, in realtà è sempre D io (v. anche Rom. 8,18 s.). C iò che si esige dall'uom o, che solitamente persegue con tanta tenacia i propri scopi, è semplicemente una perseveranza analoga. 36. N el v. 36 si anticipa esplicitamente che questa è la volontà di D io per quanto riguarda la comunità. Perseveranza è qualcosa di più di semplice pazienza; indica uno sforzo di ricerca rivolto in avanti, m i rante a ottenere la ricompensa promessa e a prendere possesso dell'e redità (cf. al riguardo 11,39 ). «Promessa» qui non sta a indicare le pa role pronunciate, ma l'oggetto stesso dell'impegno. N el seguito verrà descritta con una citazione tratta dalla Scrittura. 37. A dire il vero si tratta dell'unione di due profezie intese in senso messianico, Is. 26,20 e Ab. 2,3 s. (anche ^4 gg. 2,6?), la cui grande im portanza nella letteratura del tempo è attestata dalla frequenza con cui sono citate; probabilmente per questo motivo non vi è qui l'usuale form ula di citazione. In questo contesto sono d'interesse solo l'accen
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tuazione teologica nonché l ’evidente vicinanza a Paolo, il quale mani festa un analogo profondo rapporto almeno con Ab. 2,4 (Rom. 1,17 ; Gal. 3 ,11) . Il frammento di versetto preferito da quest’ultimo, a prima vista non appariscente, rivela la dipendenza da una tradizione prece dente che si rifaceva principalmente a Ab. 2,3. Il passo profetico risul ta essere la dimostrazione centrale dell’attesa messianica giudaica. Per Ebr., Ab. 2,3 s. racchiude la quintessenza della promessa. D ove sta la garanzia che l’attesa giungerà a buon fine? Con i w . 37 s. viene data una risposta alla tormentosa domanda che è di una forza espressiva straordinaria. La perseveranza richiesta è in tensione tra il non-ancora e il presto. Solo in questo modo viene vissuta in modo corretto, pas sando tra Scilla e Cariddi senza cadere né nel fanatismo né nell’indif ferenza. Il «non ancora» (Ab. 2,3a; cf. Agg. 2,6) mira a preservare l’ at tesa dei cristiani dal forzare il futuro. Il «brevissimo momento» (Is. 26,20) esorta a mantenere un atteggiamento di tensione. Dalla co^ munità cristiana ci si attende né più né meno di quanto si esigeva dalle generazioni di epoca profetica (cf. Ez. 12 ,2 1 ss.), benché la sua spe^ ranza sia fondata propriamente sul sacrificio di Cristo. Il v. 37a riba* disce ciò che l ’uomo deve sempre tenere a mente. Se anche tale afferà mazione si basa chiaramente sulla convinzione della rivelazione finale ormai imminente, tuttavia manca (come in 3,7 ss.) una precisazione ulteriore su ciò che si attende dopo anni. E questo è tanto più notevo le dal momento che l’attesa dell’epoca aveva stabilito talvolta con en strema esattezza che il «momento» sarebbe durato circa quarant’anni (cf. iQ p P s 37,10). È importante osservare che sia con l’ «ancora» sia con il «brevissimo momento» viene ripreso un vocabolario propria^ mente tecnico (cf. Filone, Leg. all. 2,69), che inserisce il lettore nella storia viva della speranza dTsraele (cf. anche Dan. 9,19; Sir. 32,22), E gli deve essere saldamente condotto attraverso il pericoloso oscilla^ re tra tensione massima e delusione più profonda. Il nucleo della pro va scritturistica combinata è Ab. 2,3b, che nel testo originario (T. M .) rimanda alla visione profetica (cf. Ab. 3). N el pensiero protocristiano era diffusa l’interpretazione applicata alla seconda venuta di Cristo. Ebr. s’inserisce nella storia dell’interpretazione che è possibile docu mentare (cf. 1 Clem. 23,5; 50,4; H ipp., in Dan. 4,10,4), e forse, insie^ me a Paolo, ne è proprio all’inizio. Il riferimento a «colui che deve venire», infine, si ritrova anche nella tradizione evangelica, dove tut tavia indica non il messia futuro ma il messia della profezia «arrivato»
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(cf. Dan. 7 ,13 ; Zacc. 9,9; Mal. 3,1; Sai. 118 ,26 ; al riguardo Mt. 11,3 par., Gv. 6,14). In più stretto collegamento con l'interpretazione giudaica corrente, Ebr. ritiene invece che il passo scritturistico si riferisca al l’ultimo giorno del messia, che a motivo della sua intronizzazione comparirà per giudicare e salvare. Egli giungerà alPim prow iso, ritor nerà sicuramente. In conformità con la speranza giudaica, qui è più in discussione il mancato ritorno che non il ritardo della venuta: ma in entrambi i casi bisognerebbe presupporre la convinzione di un termi ne fissato dalla volontà divina. Solo e soltanto D io conosce il m om en to della rivelazione finale e proprio per questo esso è una realtà certa, sempre minacciosamente vicina. Perciò per l'uom o ne deriva la neces sità di essere costantemente pronto e preparato. 38. A fronte di questa esigenza irrinunciabile, Ab. 2,4 è stato ripreso per intero nel v. 38 e subito inserito. Posponendo Ab. 2,4a a 2,4b, il testo originario è stato reso più comprensibile, dal momento che l'e spressione «indietreggiare» si riferisce ora chiaramente al giusto. A ciò si aggiunge che la versione dei L X X «ma il giusto vivrà per la mia fe de» riceve un nuovo particolare senso dallo spostamento di «mio»: «Ma il mio giusto vivrà per la (a motivo della) fede». Ebr. si avvicina così maggiormente al senso del testo originario. La fede non è intesa come un'entità a sé stante, supplementare, di cui il credente avrebbe bisogno, ma nel pensiero di Ebr. indica Patteggiamento di fondo in base al quale agire e sperare. N on è considerata primariamente un d o no, come in Paolo, l'opposto delle opere meritorie, ma piuttosto come atteggiamento personalissimo di profonda fiducia. C hi confida nella prom essa di D io («il mio giusto») conserverà la certezza della fede rag giungendo così il fine ultimo, la vita di D io nella nuova realtà prom es sa. Il pericolo che corrono gli ascoltatori non è quello della giustizia secondo la legge ma senza la fede, giustizia contestata da Paolo, bensì quello del «cedimento» e del «venir meno», ossia lo scoraggiamento e l'abbandono. Stando alle sue parole precise, D io non si compiace af fatto di un tale atteggiamento. Proprio Puomo che conosce D io d o vrebbe essere ricolmo di una fiducia indomabile e radiosa. 39. Com e per rafforzare il concetto si ha poi il v. 39 che intende pre cisare che cosa non si deve né, in fondo, si vuole fare. Si ha così un’in terruzione quasi im provvisa dell'esortazione, finora piuttosto insisten te, per esprimere nel linguaggio più semplice ciò che ha validità e dun que va osservato come norma di comportamento. A che scopo allora
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continuare con altre esortazioni, che in fondo sono tutte del medesi mo tenore? La fedeltà di fede ha come scopo la «salvezza delPanima», concessa da Dio, al quale perciò comunque appartiene. Pare quasi che si alluda a un noto detto di Gesù (cf. Me. 8,35 parr.). Il «noi» inten zionalmente adottato al termine della riflessione evidenzia la solida rietà di Ebr. con la sua chiesa. Essa si fonda sulla consapevolezza di una esperienza e una promessa fondamentali. Ebr. non intende essere solo una guida, un predicatore morale per la sua comunità, ma se ne sente anzitutto compagno di strada e di fede. Emerge qui la risolutezza di uno spirito energico, che sa come coinvolgere gli incerti e i titubanti. Sin dal tem po antico esiste una storia esemplare della fede
dei padri, ai quali era nota la promessa della nuova Sion (11,1-40) Sorprende la compattezza del capitolo che offre un elenco di testi moni eminenti della fede nel quadro di una visione storico-salvifica. N o n deve tuttavia trarre in inganno, inducendo a interpretare le sin gole trattazioni, che sono strettamente collegate fra loro dal punto di vista tematico, dimenticando il contesto più ampio. Che il capitolo non sia a sé stante è dimostrato sia dal richiamo al concetto di fede di Ab . 2,4a in 10,38 sia la sintesi conclusiva dei w . 11,3 9 s. In questo lunghis simo staccato, che mette in evidenza con un ritmo volutamente m ono tono la frase tematica «per fede» (ripetuta in tutto 18 volte, oltre a di verse variazioni) per illuminarne i molteplici aspetti, la tensione cresce sino a sfociare in un ragionamento di incisività elementare (la cosid detta anafora). Quasi automaticamente Pascoltatore doveva sentirsi parte vivente di una storia della fede iniziata in tempi remotissimi; uscirne fuori non poteva non apparirgli un grave sacrilegio, in quanto si vedeva condotto a una profondità tale di conoscenza in cui Cristo* Peterno sommo sacerdote assiso alla destra di D io (cf. Sai. 110 ,1) , do veva apparirgli quasi inevitabilmente come inizio e fine di tutta la sto ria di D io nel mondo e con il mondo ( 12 ,1 s.). È chiaro che Pautore, con sapiente abilità retorica, si avvicina sempre più al punto conclusi vo delPomelia che racchiude un'ultima testimonianza. 1 s.2 -12 . La suddivisione della vasta unità non presenta alcuna diffi coltà. D opo una definizione programmatica di fede in 1 1 , 1 s., che mette in risalto uno degli aspetti tipici per la concezione generale, nei vv. 2-7 fa seguito la presentazione delPatteggiarnento dei padri fino a
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N o è incluso. N ei w . 8 -12 trova accurata trattazione Abram o che in troduce un’ epoca nuova. È consigliabile leggere insieme i w . 2 -12 , che costituiscono un prim o approccio al tema prima della sezione centrale dei w . 13 -16 . L ’evidente suddivisione per im portanza non dà certo il diritto di porre una cesura più marcata dopo il v. 8. Potrebbe però es serci l’eco di una concezione tardogiudaica, secondo la quale l’um ani tà fino a N oè dev’essere sottoposta a un giudizio a parte (cf. Hen. aeth. 92,1 ss.; 1 Pt. 3,18 ss.). Specialmente dalla testimonianza di Paolo ap prendiamo che nella figura di Abram o egli vedeva un inizio com ple tamente nuovo della storia della promessa di D io (cf. Gen. 12 ,1 ss.). Parallelamente nei vv. 8-12 Abram o è proprio al centro della rifles sione. In qualità di «padre della fede» la sua figura non manca in nes sun elenco di credenti esemplari (cf. 1 Macc. 2,52; 4 Macc. 16,20 ss.; in particolare Filone, Rer. 90 ss.; Virt. 5; Praem. 24 ss. ecc.). 13 - 16 . N ei w . 13 - 16 si avvia una breve riflessione sul significato della fede nei padri precedentemente citati, i quali poterono vedere, ma non conseguire i beni promessi. Forse guardando già al cap. 12 si ribadisce ancora una volta che D io ha preparato una città futura agli antenati. I patriarchi Isacco, Giacobbe e Giuseppe, M osè e il suo tem po come pure gli inizi della conquista della terra forniscono il materia le dim ostrativo per il successivo ampio ragionamento dei w . 17 - 3 1. 17 - 3 1. A ll’interno di questa sezione assumono una certa im portan za i w . 24-29, sull’opera e il tempo di M osè. Senza voler strutturare rigidamente ciò che emerge dai successivi vv. 30 s., a quanto pare Ebr. era completamente dominato dalla volontà di accumulare fatti su fatti per poi interrompersi bruscamente, quasi esausto: «Che dirò ancora?». O sserviam o che con i vv. 30 s. affronta una tappa della storia d’ Israele che già all’inizio (3,7 ss.) aveva avuto un ruolo importante. Inoltre era più opportuno non continuare a esporre in ogni particolare la storia della fede del suo popolo oltre a quanto era riferito nel Pentateuco. E comunque Ebr, non si sente in grado di proseguire con la minuziosità adottata inizialmente, essendo i racconti della sacra Scrittura sem pli cemente troppo imponenti. D al momento, però, che ora tutto dipende da una storia della fede che giunge fino al presente, si ha un’ulteriore sezione, la terza. 32-38.39 s. La carrellata storica continua ora a rapidi tratti nei vv. 32b-38. Il ritmo del linguaggio in questa parte conclusiva è scelto di versamente. L o stile pesante lascia il posto a una frenesia quasi febbri
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