Istituzioni di diritto romano. Parte prima 9788892130937

Il primo volume delle Istituzioni di diritto romano costituisce la prima parte di un manuale destinato agli studenti del

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Italian Pages XII,409 [425] Year 2019

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Indice
Introduzione
Capitolo Primo. Le radici del diritto contemporaneo e le istituzionidi diritto romano
Capitolo Secondo. Diritto oggettivo e diritto soggettivo
Capitolo Terzo. Persone
Capitolo Quarto. Profili di rilevanza giuridica della realtà storica:fatti, atti, negozi giuridici
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Istituzioni di diritto romano. Parte prima
 9788892130937

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Istituzioni di diritto romano Parte Prima

In copertina: Ernesto Biondi, Gaio, Giurista romano del sec. 2º d.C.

Giovanni Finazzi

Istituzioni di diritto romano Parte Prima

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2019 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-3093-7

ISBN/EAN 9788892186644 (ebook - pdf)

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Indice

V

Indice pag.

Introduzione

XI

Capitolo Primo Le radici del diritto contemporaneo e le istituzioni di diritto romano 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Diritto romano e codici moderni Il retaggio del diritto romano: contenuti normativi e scienza giuridica Le istituzioni di diritto romano Aspetti metodologici Periodizzazioni Funzioni dello studio del diritto romano

1 5 11 14 17 21

Capitolo Secondo Diritto oggettivo e diritto soggettivo Sezione prima Il diritto oggettivo e le norme 1. 2.

Diritto oggettivo e norma giuridica Norme giuridiche, norme morali, norme a rilevanza esclusivamente sociale, norme religiose

Sezione seconda L’ordinamento giuridico e le fonti del diritto 3. 4.

Nozione di ordinamento giuridico e fonti del diritto Le fonti del diritto nel periodo monarchico e nella prima fase del periodo repubblicano: mores , leges regiae , prime leggi comiziali

24

24 28

34 34

39

VI

Indice

pag. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

La legge delle XII tavole: un codice con caratteri particolari Leggi e plebisciti: le norme introdotte dalla voluntas populi Il senatusconsultum e l’oratio principis Le costituzioni imperiali Gli editti dei magistrati Responsa o auctoritas prudentium La consuetudine tardo classica Quadro di sintesi relativo alle fonti del diritto dei periodi preclassico e classico Le fonti del diritto nel periodo epiclassico e nel periodo postclassico Le fonti del diritto in epoca giustinianea I contenuti della compilazione giustinianea e lo studio storico del diritto romano

Sezione terza Partizioni del diritto oggettivo

42 45 51 53 57 58 67 69 70 75 80

84

16. Aspetti generali. Ius civile , ius gentium , ius naturale 17. Ius ex scripto , ius sine scripto o ex non scripto . Lex e ius 18. Ius civile , ius praetorium o honorarium , ius extraordinarium 19. Ius publicum , ius privatum . Ius humanum , ius sacrum o divinum 20. Ius commune , ius singulare . Privilegium , praerogativa

100

Sezione quarta Diritto soggettivo e potere

104

21. Il concetto moderno di diritto soggettivo e il diritto in senso soggettivo nell’esperienza romana 22. Il potere

104 108

84

89 91 97

Indice

VII pag.

Capitolo Terzo Persone Sezione prima Aspetti generali: concetti moderni ed elaborazioni romane 1. 2.

Persone e soggetti di diritto Capacità giuridica e capacità di agire. Classificazione romana delle persone e teoria degli status hominum

112

112 115

Sezione seconda Status libertatis

122

3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

122 124 128 140 144 151 154

La schiavitù a Roma Lo schiavo nel diritto pubblico, nel diritto processuale civile e nel diritto sacro Lo schiavo nel diritto privato Le cause della schiavitù Le manumissioni e gli altri modi di acquisto della libertà I liberti Condizioni paraservili e limitazioni della libertà di fatto

Sezione terza Status civitatis

163

10. 11. 12. 13.

163 167 173 176

Cittadinanza romana Peregrini Latini La constitutio Antoniniana

Sezione quarta Status familiae

181

14. Posizione della persona nella famiglia e capacità giuridica 15. La patria potestas : contenuto, limiti, funzioni, difesa processuale 16. Capacità e incapacità dei filiifamilias 17. Acquisto della patria potestas 18. Estinzione della patria potestas

181 183 189 194 202

Sezione quinta Matrimonio e potere maritale

206

19. Il matrimonio nei periodi dell’esperienza giuridica romana e il percorso di liberazione della donna dal potere maritale

206

VIII Indice pag. 20. La libertà matrimoniale e i suoi limiti: sponsalia e legislazione matrimoniale augustea 21. Requisiti di validità del matrimonio 22. Scioglimento del matrimonio 23. Rapporti personali e patrimoniali fra coniugi

213 215 220 224

Sezione sesta Parentele e pseudo-parentele

236

24. I gruppi parentali e pseudo-parentali 25. I vincoli parentali: a(d)gnatio e cognatio

236 241

Sezione settima Capacità di agire e sue limitazioni: tutele e curatele

244

26. 27. 28. 29. 30.

244 247 255 261 267

Capacità di agire Gli impuberi e la relativa tutela Regolamentazione della tutela sugli impuberi La condizione giuridica della donna nell’antica Roma e la tutela muliebre Le curatele

Sezione ottava Persone giuridiche 31. La moderna nozione di persona giuridica 32. Le persone giuridiche nell’esperienza giuridica romana: spunti antichi di una concezione moderna

275 275 277

Capitolo Quarto Profili di rilevanza giuridica della realtà storica: fatti, atti, negozi giuridici Sezione prima Classificazioni dei fatti e degli atti giuridici e teoria del negozio giuridico

290

1. 2.

I concetti descrittivi di fatto giuridico, atto giuridico e negozio giuridico La teoria del negozio giuridico

290 294

Sezione seconda Elementi ed effetti del negozio giuridico: gli elementi essenziali

299

3.

299

Elementi essenziali e accidentali ed effetti essenziali, naturali e accidentali

Indice

IX pag.

4. 5. 6. 7. 8.

I soggetti e le parti del negozio giuridico La manifestazione della volontà La forma del negozio giuridico e il documento Il contenuto precettivo del negozio giuridico La causa del negozio giuridico

300 302 305 315 322

Sezione terza Interpretazione del negozio giuridico, conseguenze delle patologie riguardanti gli elementi essenziali e valutazione di compatibilità con il diritto oggettivo

329

9. L’interpretazione del negozio giuridico 10. L’invalidità del negozio giuridico 11. L’illiceità del negozio giuridico

329 334 338

Sezione quarta Divergenza fra volontà e manifestazione e vizi della volontà

344

12. La divergenza consapevole fra volontà e dichiarazione: riserva mentale e simulazione 13. La divergenza inconsapevole fra volontà e dichiarazione e il vizio della determinazione causale: errore ostativo ed errore motivo 14. Il vizio della determinazione causale indotto con dolo e la condotta dolosa o scorretta nella fase dell’esecuzione del negozio: dolo negoziale e dolo nella fase esecutiva 15. La violenza negoziale: assenza di volontà e vizio della volontà

358 366

Sezione quinta Elementi accidentali del negozio

373

16. La condizione: concetto e tipi 17. Il funzionamento della condizione 18. Il termine

373 386 394

Sezione sesta La rappresentanza negoziale

399

19. Concetto di rappresentanza e inesistenza della rappresentanza diretta nel diritto romano 20. La rappresentanza indiretta nel diritto romano

399 408

344 349

X

Indice

Introduzione Le Istituzioni di diritto romano, delle quali vede la luce la prima parte, comprendente i capitoli da uno a quattro, nascono da una riflessione su alcuni problemi relativi all’insegnamento della omonima materia e sono destinate a soddisfare le esigenze teoriche e pratiche di tale insegnamento. È un dato di fatto che il primo impatto con le istituzioni di diritto romano suscita in un numero non esiguo di studenti l’erronea impressione di una complessiva estraneità dei temi trattati agli orizzonti del futuro operatore del diritto. Da un lato, ciò è dovuto alla sempre più scarsa sensibilità dell’epoca attuale, attraversata da vorticosi e inarrestabili movimenti e adagiata sull’eterno presente di ‘internet’, per la storia e per la cultura, se si eccettua una ristretta cerchia di appassionati e di esperti: un disinteresse, questo, che si accentua quando dalla storia, per così dire, generalista, si passa a quella specifica di determinati settori come, nel nostro caso, il diritto. Dall’altro, su tale fenomeno incide la tendenza a lasciare all’iniziativa dei discenti il compito di cogliere il retaggio dell’esperienza giuridica romana in quella contemporanea, la quale costituirà, nella maggior parte dei casi, l’oggetto esclusivo delle professionalità che i docenti universitari contribuiscono a formare con il loro magistero. Ad accentuare l’idea dell’estraneità del corso di istituzioni di diritto romano rispetto all’attualità si aggiunge il fatto che, da tempo, a causa di alcune scelte legislative riguardanti l’accesso ai corsi di laurea e dei mutamenti che percorrono la società, solo un numero sempre più limitato di studenti iscritti al primo anno del Corso di laurea in Giurisprudenza è a conoscenza delle nozioni basilari della lingua latina, nel mentre per gli altri il ‘gap’ linguistico risulta assai difficilmente colmabile o, nella maggior parte dei casi, del tutto insuperabile. Nelle Istituzioni di diritto romano, si è tentato di mettere in luce con chiarezza le ragioni per le quali lo studio istituzionale del diritto privato romano fornisce un bagaglio di conoscenze indispensabile sia per procedere con maggiore facilità nel corso di studi, sia per presentarsi in seguito nel mondo del diritto attuale con il profilo qualificato del giurista, ben diverso da quello del mero conoscitore di norme, perché caratterizzato dalla consapevolezza di appartenere a una tradizione scientifica plurisecolare che affonda le sue radici nell’esperienza romana, dalla quale derivano, sebbene attraverso molteplici mediazioni, terminologie, concetti e metodi. Tale operazione culturale passa attraverso il costante esame, pur necessariamente sintetico, delle relazioni intercorrenti fra le categorie giuridiche moder-

XII

Introduzione

ne, utilizzate nell’esposizione dell’esperienza romana in funzione descrittiva, e quelle elaborate dai giuristi romani, non sempre coincidenti con le prime, ma utilizzate dai giuristi delle epoche successive come punti di riferimento per le loro costruzioni. Inoltre, sul piano pratico, si è voluto corredare ogni espressione latina rilevante con una traduzione in lingua italiana fra uncini (< … >). Si è tentato, così, di recuperare fra docente e discenti una grammatica comune, che attenui il disagio degli studenti privi di basi linguistiche latine a fronte di una materia elaborata nella lingua parlata nell’antica Roma e quello del docente a fronte dell’evidente sconcerto di molti dei suoi allievi, costretti a fare i conti con parole estranee all’idioma patrio. Infine, poiché i tempi a disposizione per la preparazione dell’esame nei tempi curriculari sono piuttosto brevi, si è tentato di agevolare l’individuazione dei temi rilevanti e la memorizzazione dei medesimi con l’uso di un carattere diverso per indicare i principali oggetti della trattazione. Se questo tentativo di coniugare la presa d’atto del nuovo quadro nel quale l’insegnante di istituzioni di diritto romano si trova a operare con l’esigenza di mantenere la scientificità dell’insegnamento sia riuscito, saranno i risultati dei futuri appelli a dirlo e, dunque, in ultima analisi gli studenti, destinatari di questo libro, il quale, negli intendimenti di chi lo ha concepito, dovrebbe rendere, per quanto possibile, un po’ più leggero il loro lavoro.

Capitolo Primo

Le radici del diritto contemporaneo e le istituzioni di diritto romano SOMMARIO. 1. Diritto romano e codici moderni. – 2. Il retaggio del diritto romano: contenuti normativi e scienza giuridica. – 3. Le istituzioni di diritto romano. – 4. Aspetti metodologici. – 5. Periodizzazioni. – 6. Funzioni dello studio del diritto romano.

1. Diritto romano e codici moderni A) Per essere un giurista non è sufficiente conoscere tutte le norme giuridiche vigenti in un certo contesto o una parte più o meno ampia di esse, cosa che quasi tutti sono in grado di fare documentandosi, oggi anche grazie a ‘internet’, ma bisogna cogliere il significato delle norme giuridiche, anche al di là della portata letterale degli articoli in cui sono espresse, per determinarne nella pratica l’ambito applicativo. La norma giuridica è una prescrizione (o si può anche dire un comando) con propri caratteri peculiari che la distinguono da norme di diversa natura [cfr. oltre, capitolo secondo, § 1], mentre gli articoli sono le strutture di discorso di cui è composto un testo normativo (per esempio la Costituzione, una legge, una direttiva europea, un regolamento europeo o interno): la norma giuridica può essere prevista da un unico articolo o dalla combinazione di più articoli e un articolo può contenere una norma giuridica, più norme giuridiche o una parte di una o più norme giuridiche. L’individuazione del significato di una norma giuridica è definita interpretazione della norma [oltre, capitolo secondo, § 10, E].

Poiché il diritto è creato dall’uomo e per l’uomo e ogni attività umana può essere compresa appieno solo se collocata nel quadro della cultura che la esprime, a tal fine è necessario acquisire una cultura giuridica, parte ineliminabile della quale è la storia. Ciò dipende, da un lato, dalla generica considerazione che la storia giuoca un ruolo decisivo nella cultura occidentale e, dunque, anche in quella giuridica.

2

Capitolo Primo

La consapevolezza dell’importanza dell’origine di certe regolamentazioni e della storia del diritto serpeggiava, del resto, già tra i giuristi romani del II secolo d.C., dunque all’interno dell’esperienza giuridica romana. Per esempio, Gaio, commentando l’antica legge delle XII tavole [oltre, capitolo secondo, § 5], risalente a sei secoli prima, affermava che … in omnibus rebus animadverto id perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus constaret: et certe cuiusque rei potissima pars principium est … (D. 1, 2, 1). Nella stessa epoca, Pomponio, nell’intraprendere una trattazione della storia giuridica di Roma dalle origini, evidenziava la necessità di esporre l’origine del diritto e il suo sviluppo: necessarium itaque nobis videtur ipsius iuris originem atque processum demonstrare (D. 1, 2, 2 pr.).

Ma soprattutto l’importanza della storia nello studio del diritto dipende dalla circostanza che sia i codici moderni di diritto privato dell’Europa continentale, sia gran parte dei concetti giuridici elaborati dai giuristi moderni costituiscono il risultato della riflessione di molte generazioni di giuristi succedutesi nel corso dei secoli, avente per oggetto, con assoluta prevalenza, il diritto romano. In questo senso, va segnalato il suggestivo paragone tracciato dal grande scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe fra il diritto romano e l’anatra, che quando nuota si nasconde sotto l’acqua, ma non scompare definitivamente e ogni volta riappare ancora in vita.

Convenzionalmente, l’esperienza giuridica romana inizia con la fondazione della città di Roma, verso la metà dell’VIII secolo a.C., e si protrae per circa tredici secoli fino alla morte dell’imperatore Giustiniano (avvenuta nella seconda metà del VI secolo d.C., precisamente nel 565 d.C.) [sulle periodizzazioni del diritto romano cfr. oltre, in questo capitolo, § 5]. Egli, avvalendosi dei più autorevoli professori di diritto, avvocati e funzionari imperiali dell’epoca, realizzò, fra il 528 e il 534 d.C. una imponente raccolta di materiali giuridici romani, la compilazione giustinianea, che costituisce la parte preponderante di quello che venne denominato nel medio evo Corpus iuris civilis , cioè l’insieme di tutto il diritto [oltre, capitolo secondo, § 14]. Per ora ci si può limitare a osservare che esso comprende: una raccolta di passi escerpiti dalle opere dei giuristi romani scritte dal I secolo a.C. alla metà del III secolo d.C., chiamata Digesta , vale a dire raccolta di materiale messo in ordine (ma nella lingua italiana si usa più il singolare Digesto), o Pandectae , plurale del sostantivo maschile pandectes , derivato dal greco; una raccolta di costituzioni imperiali emesse dalla prima metà del II secolo d.C. fino alla sua realizzazione, chiamata Codex ; una esposizione elementare del diritto, denominata Institutiones , realizzata attingendo in gran parte a opere del medesimo genere scritte da giuristi del II e del III secolo

Le radici del diritto contemporaneo e le istituzioni di diritto romano

3

d.C., tra le quali soprattutto le Institutiones di Gaio [oltre, in questo capitolo, § 3, A]. I contenuti della compilazione giustinianea, compresi quelli delle Istituzioni, costituivano per previsione imperiale diritto vigente, cioè applicabile nei tribunali, ed essa era, pertanto, utilizzata sia nella scuola che nella pratica. Un posto a parte hanno le Novelle (Novellae constitutiones ), le quali, essendo costituzioni emanate dallo stesso Giustiniano dopo la redazione della compilazione, non rientravano in essa, ma vennero considerate a partire dal medio-evo parte del Corpus iuris civilis.

B) In Oriente, le tre parti della compilazione giustinianea (Digesto, Codice e Istituzioni) e le Novelle, raccolte dopo la morte dell’imperatore, continuarono a costituire il diritto vigente e a essere studiate dopo la morte di Giustiniano. Poi, nella seconda metà del IX secolo d.C. traduzioni e riassunti in lingua greca di tale materiale (con prevalenza di quello proveniente dal Digesto, dal Codice e dalle Novelle), risalenti al VI e al VII secolo d.C., furono oggetto di una nuova raccolta, i Basilici (‘Basiliká’ o Libri Basilicorum ), compilazione ufficiale in lingua greca [oltre, capitolo secondo, § 14, F]. I Basilici, voluti da Basilio I, primo imperatore della dinastia Macedone, furono portati a termine dopo la sua morte dal figlio Leone VI il Saggio nell’883 d.C. Oltre al materiale di derivazione giustinianea, essi contenevano alcuni aggiornamenti tratti da un manuale di poco precedente alla loro composizione (il ‘Prócheiros nómos’ , ossia Manuale legislativo). A partire dal X secolo d.C. i manoscritti dei Basilici vennero corredati da note di commento, sempre in greco, dette scolii, tratte dalle opere dei giuristi bizantini del VI e del VII secolo d.C. elaborate per illustrare e tradurre in greco i passi della compilazione giustinianea (‘palaiá’ ) e poi vennero aggiunte altre note risalenti al periodo dall’XI al XIII secolo d.C., elaborate per illustrare passi dei Basilici (‘neaì paragraphaί’ ).

A proposito del diritto del periodo giustinianeo e, in Oriente, del diritto dei secoli successivi, fino alla conquista turca del 1453 d.C. (caduta di Costantinopoli), si parla di diritto bizantino (dall’antico nome Bisanzio della capitale Costantinopoli, oggi Istanbul). In realtà, per la sua formazione, il diritto bizantino è una declinazione del diritto romano, caratterizzata dalla formulazione dei contenuti romani in lingua greca. La caduta di Costantinopoli segnò in pratica la fine della vigenza del diritto romano in Oriente, con alcune marginali eccezioni. Per esempio, anche sotto la dominazione turca è documentata, in alcune materie, l’applicazione del diritto bizantino ai sudditi greci dell’impero, a parte l’influenza di esso su determinati settori del diritto canonico della Chiesa ortodossa.

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Capitolo Primo

In Occidente, invece, nell’alto medio evo, dal VII all’XI secolo, malgrado la compilazione giustinianea fosse stata resa valida nella parte dell’Italia sottratta al dominio gotico con atto autoritativo di Giustiniano su richiesta di papa Vigilio (pragmatica sanctio pro petitione Vigilii , del 554 d.C.), il diritto romano ebbe una vigenza limitata nel tempo, a causa sia delle vicende storiche, sia della mancanza di una preparazione giuridica che consentisse di utilizzarne i materiali, e addirittura il Digesto cadde nell’oblio. A parte il diritto romano pre-giustinianeo recepito nelle leggi romano-barbariche e nell’Edictum Theodorici [oltre, capitolo secondo, § 13, E], solo in ambiti marginali i principi del diritto romano continuarono a dispiegare qualche influenza, come avvenne nel diritto canonico (il diritto della Chiesa) e in altri contesti circoscritti. Nella Francia meridionale, poi, per mediazione della Lex romana Wisigothorum , si evidenziò una continuità nella vigenza del diritto romano pre-giustinianeo e in particolare del Codex Theodosianus , raccolta di costituzioni realizzata nella prima metà del V secolo d.C., che in Oriente venne abrogata nel 529 da Giustiniano [oltre, capitolo secondo, § 13, D].

Tuttavia, a partire dalla riscoperta del Digesto, avvenuta dopo la metà dell’XI secolo per opera di Irnerio, maestro della scuola di Bologna, il diritto romano tramandato dalla compilazione giustinianea e le Novelle di Giustiniano, con la denominazione complessiva di Corpus iuris civilis, divennero oggetto di studio ininterrotto e fecondo, prima in quella stessa città, poi nelle Università che andavano sorgendo in tutta l’Europa continentale. Nel medio evo, il diritto romano era parte del diritto vigente, essendo applicabile nel Sacro romano impero, che vantava la sua discendenza dall’impero romano, per disciplinare i rapporti interindividuali, e, a fronte dell’esistenza di entità particolari, politiche (regni, singole città) e non politiche (corporazioni), dotate ciascuna di proprie regole giuridiche specifiche (iura propria ), costituiva il diritto comune (ius commune), momento unificante della molteplicità giuridica. Ma anche al di fuori dell’impero, pur non avendo una formale vigenza, esso costituiva il fondamento dell’insegnamento del diritto e dell’elaborazione dei concetti giuridici, influenzando così il diritto vigente. Ebbe origine, così, la tradizione romanistica, espressione con la quale si indica l’insieme di principi, concetti e contenuti normativi elaborati in epoca medievale e moderna in base allo studio dei materiali giuridici romani. Poiché i materiali contenuti nel Corpus iuris civilis si erano formati nel corso di molti secoli (I secolo a.C.-VI secolo d.C.) ed erano fra loro eterogenei, essendovi traccia delle diverse opinioni dei giuristi e delle diverse opzioni normative contenute nelle costituzioni imperiali, sia ai fini dell’applicazione pratica, sia per l’elaborazione dei principi e dei concetti, si imponeva ai giuristi medievali uno sforzo di armonizzazione delle soluzioni tra loro contrastanti, perseguito attraverso varie tecniche interpretative.

Le radici del diritto contemporaneo e le istituzioni di diritto romano

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C) Non ci si può soffermare nel dettaglio sulle complesse vicende legate allo studio del diritto romano e alla sua vigenza nell’epoca intermedia e moderna, in cui ha rilevato il mutare delle metodologie in funzione dei contesti culturali caratterizzanti le varie epoche. Va, tuttavia, evidenziato che i due più importanti codici civili europei, cioè il Codice civile francese (Code civil français o Code Napoleon), entrato in vigore nel 1804, e il Codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch), entrato in vigore il 1° gennaio 1900, i quali costituirono il modello per molti altri codici civili europei e non europei (tra questi ultimi vanno ricordati i codici civili dei paesi dell’America latina e il codice civile della Luisiana), furono il risultato di un accurato lavoro di analisi e di sintesi svolto da numerosi giuristi fra il XVII e il XIX secolo sui materiali giuridici romani e soprattutto sul Corpus iuris civilis giustinianeo. Il Codice civile francese costituisce il frutto dello studio dei giusnaturalisti e dei giusrazionalisti, come Jean Domat e Robert Josef Pothier, che, pur muovendo da principi ordinatori pregiuridici (la natura e la ragione in senso trascendente), ricavarono in prevalenza dal diritto romano i contenuti del diritto di natura e del diritto di ragione. Il Codice civile tedesco, poi, ha ampiamente attinto agli approfondimenti della dottrina ottocentesca sviluppatasi nella corrispondente area culturale (detta Pandettistica, dalle Pandette, cioè dal Digesto, che ne era il principale oggetto di studio), la quale sui materiali del diritto romano giustinianeo aveva costruito un sistema giuridico per il presente.

Per uno dei paradossi di cui è ricca la storia, i codici civili moderni, nel momento stesso in cui privavano il diritto romano della sua vigenza, ne assorbivano in gran parte i contenuti, ancorché mediati attraverso le diverse metodologie degli studiosi alle opere dei quali i codificatori avevano attinto. Pertanto, si può ben dire che i codici civili moderni, compreso quello italiano del 1942, attualmente vigente, risentono fortemente della tradizione giuridica romanistica, pur essendo alle volte penetrati in essi, in misura più esigua, anche contenuti di provenienza diversa (consuetudini locali, principi del diritto canonico e di derivazione germanica e regolamentazioni già contenute in fonti legislative statuali). Va segnalato in margine che attualmente ai principi, ai concetti e ai contenuti del diritto romano e della tradizione romanistica si guarda con attenzione anche in contesti culturalmente molto diversi da quello europeo, come avviene per la codificazione di intere parti del diritto in Cina, dove si pone il problema del rapporto fra il modello del diritto romano e la tradizione del diritto cinese.

2. Il retaggio del diritto romano: contenuti normativi e scienza giuridica A) Le osservazioni che precedono non hanno come scopo quello di spiegare la ragione dell’identità di alcuni contenuti normativi moderni rispetto a quelli ro-

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Capitolo Primo

mani tramandati nel Corpus iuris civilis . Tale identità vi può essere (e spesso vi è) per il rapporto fra i codici moderni e il diritto romano [sopra, in questo capitolo, § 1] o non essere, come in certi settori sempre più di frequente accade per varie ragioni, tra le quali i mutati contesti politici, economici, sociali e culturali odierni rispetto all’esperienza romana. Per fare un esempio banale, ma indicativo, si pensi al fatto che oggi non esiste più la schiavitù come condizione personale riconosciuta dal diritto, che invece era ammessa a Roma e anche in seguito, fino a tempi non molto lontani dal presente. Altri casi in cui, malgrado alcune ipotesi avventurose, i contenuti normativi moderni non trovano riscontro nell’esperienza romana sono quelli riguardanti la tutela ambientale e il diritto d’autore.

Perciò, la constatazione del fatto che una regolamentazione attuale ricalca quella romana o, al contrario, se ne discosta rileva solo in quanto possa costituire lo spunto per l’approfondimento delle relazioni intercorrenti fra la disciplina giuridica e i suoi referenti politici, economici, culturali, sociali, o fra essa e le tecniche attraverso le quali si è pervenuto all’elaborazione di certe soluzioni giuridiche, cioè dal punto di vista dell’analisi delle ricadute dei metodi utilizzati dai giuristi nelle due diverse esperienze (quella romana e quella contemporanea) sulle rispettive regolamentazioni. B) Per quanto riguarda la continuità fra l’esperienza giuridica romana e quelle contemporanee, è ben più importante osservare che esse sono accomunate dall’esistenza della scienza giuridica, che, per la prima volta nella storia, per ragioni ancora oggetto di discussione, si venne a evidenziare proprio nell’antica Roma, rimanendo come costante retaggio nella cultura occidentale. Si può definire scienza giuridica un sistema di conoscenze (appunto una scienza) costruito sulla base delle norme giuridiche vigenti nella società e dei valori a esse sottesi, il quale, da un lato, consente di individuare come i privati (e gli organi pubblici) debbano agire per conseguire conformemente al diritto i risultati pratici che si propongono e, dall’altro, di risolvere le situazioni di conflitto in modo razionale e verificabile, stabilendo in una certa situazione chi abbia ragione e chi abbia torto. Caratteristica dell’esperienza romana, destinata a permanere in quelle successive a essa ispirate, era l’esistenza di persone tecnicamente qualificate e dotate di specifica professionalità, i giuristi (iuris prudentes , anche detti solo prudentes , nel loro insieme denominati, nel linguaggio romano, iuris prudentia e, in quello moderno, dottrina), i quali, in conformità delle norme giuridiche e dei valori che le fondavano, avvalendosi di procedimenti logici, individuavano soluzioni adeguate per dare copertura giuridica alla volontà dei privati e per determinare quale fra gli interessi confliggenti di due o più soggetti dovesse prevalere [oltre, capitolo secondo, § 10].

Le radici del diritto contemporaneo e le istituzioni di diritto romano

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Anche in contesti caratterizzati da una utilizzazione significativa della legge (atto emanato da chi detiene il potere politico per introdurre norme giuridiche), come quelli dei popoli mesopotamici e dell’antica Grecia, non v’è traccia di una scienza del diritto secondo la definizione che se ne è data. Può darsi che i codici mesopotamici siano stati elaborati da funzionari a ciò delegati dal monarca, che potremmo anche considerare ‘esperti del diritto’, ma non consta che sulla base delle relative norme e dei valori di cui erano espressione sia stato creato un sistema di conoscenze strumentale all’interpretazione delle norme e alla risoluzione di conflitti non espressamente regolati dalla legge. Inoltre, nella culla della civiltà occidentale, Atene, la riflessione teorica sul diritto era compito dei filosofi e non aveva funzione pratica, mentre nella prassi giudiziale le norme giuridiche erano menzionate negli scritti difensivi redatti dai logografi, che venivano letti dalle parti del processo davanti alle corti costituenti espressione del tribunale popolare (‘Hēliaía’ ), composte da centinaia di giurati, ma rappresentavano solo uno dei tanti argomenti utilizzati a favore e contro le parti in causa, e neppure quello più importante, di modo che le corti decidevano, come è stato rilevato, in pieno arbitrio in fatto e in diritto. Del resto, in quest’ultimo ambito, la prevalenza ideologica della legge, espressione della volontà popolare, rendeva difficile che si sviluppasse una scienza del diritto.

Attraverso il Digesto, le Istituzioni giustinianee e alcune opere precedenti la compilazione giustinianea, tra le quali le Istituzioni di Gaio [oltre, in questo capitolo, § 3, A] ed altre elaborate con materiali classici [oltre, capitolo secondo, § 13, C], siamo venuti a conoscenza di una parte cospicua delle elaborazioni della scienza giuridica romana. Ma, soprattutto, lo studio ininterrotto che a partire dall’XI secolo fino all’epoca moderna si è svolto sulle dottrine dei prudentes con finalità allo stesso tempo teoriche e pratiche ha influenzato il nostro modo di concepire il diritto. Poiché oggi, come anche in passato, la legge e gli altri fatti idonei a introdurre norme giuridiche non possono disciplinare ogni situazione possibile e immaginabile e le norme (regole) giuridiche non sempre costituiscono un insieme armonico, essendo influenzate da situazioni contingenti di natura politica, economica, sociale, culturale, in contesti di una certa complessità la scienza giuridica è uno strumento efficace per colmare le lacune della regolamentazione e, allo stesso tempo, per garantire l’unità, l’armonia e l’adeguatezza del sistema giuridico alla luce dei valori espressi dalla società e veicolati dal legislatore. Attualmente, ciò vale, del resto, sia all’interno delle singole esperienze nazionali, dove accanto ai codici prolifera una disordinata legislazione speciale, sia al livello del loro comporsi in organismi sovranazionali, come accade, per esempio, nell’Unione europea, dove il comune retaggio rappresentato dalla scienza giuridica di derivazione romana dovrebbe costituire (ma, purtroppo, non sempre costituisce), a fronte della mancanza di un codice e dell’alluvionale susseguirsi di normative specifiche, il principale momento unificante, senza il quale ciascuno parlerebbe, per così dire, una lingua giuridica diversa.

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C) Poiché, come si è visto, il diritto romano è stato a lungo oggetto di studio e, nel contempo, diritto vigente nell’epoca intermedia e fino all’entrata in vigore dei codici civili moderni e considerato che esso ha fornito numerosi contenuti di questi ultimi [sopra, in questo capitolo, § 1], molte delle categorie concettuali attualmente circolanti nella dottrina giuridica, nei codici e nella prassi contrattuale nazionale e internazionale, le corrispondenti figure giuridiche e le rispettive terminologie, di cui ampio uso fanno anche gli operatori pratici (avvocati, notai, giudici), sono state elaborate prima delle codificazioni sulla base dello studio dei materiali giuridici romani e, in particolare, dei passi delle opere dei giuristi romani [oltre, in questo capitolo, § 4]. Grazie, da un lato, agli apporti della scienza del ius commune , poi del giusnaturalismo e del giusrazionalismo e, dall’altro, soprattutto, alla riflessione della dottrina pandettistica tedesca dell’Ottocento [cfr. sopra, in questo capitolo, § 1, B e C], sono divenute cardini dell’attuale scienza giuridica e sono penetrate nei codici categorie concettuali ampie (come, per esempio, quelle di obbligazione, contratto, atto illecito, proprietà, diritti reali su cosa altrui, eredità, capacità giuridica e capacità di agire, manifestazione di volontà, condizione, termine, rappresentanza, procura, forma, errore, dolo, violenza) o più ristrette (come, compravendita, locazione, società, usufrutto e via dicendo), a seconda dei casi ricavate dai materiali giuridici romani (e in particolare dalle elaborazioni dei giuristi romani) o elaborate sulla base dello studio di essi. A tali categorie corrispondono le relative figure giuridiche, denominate istituti, cioè insiemi di norme riguardanti determinati aspetti, e dal diritto romano derivano anche molte delle terminologie oggi utilizzate, sebbene vada sempre verificato entro quali limiti all’identità terminologica corrisponda una identità sostanziale.

Da questo punto di vista, si pone il problema del rapporto fra le categorie e le figure giuridiche elaborate dalla dottrina moderna spesso sulla base dei materiali romani, da una parte, e quelle create già dai giuristi romani, dall’altra. Certo, sarebbe falsante e antistorico ritenere che tutte le categorie e le figure giuridiche elaborate dalla dottrina moderna sulla base del materiale romano fossero già state enucleate dai giuristi romani e che la prima le abbia riprese tali e quali dal materiale antico studiato. Infatti, da un lato, le costruzioni moderne sono state elaborate anche su materiali romani di epoca successiva a quella del tramonto della grande giurisprudenza romana, talora influenzati da concezioni giuridiche orientali ed ellenistiche tardivamente penetrate nel diritto romano, e, dall’altro, molte volte, i giuristi delle epoche intermedia e moderna, influenzati da tradizioni giuridiche germaniche, dai diversi orizzonti culturali in cui lavoravano, dai caratteri dei sistemi giuridici di riferimento e dalle esigenze che, di volta in volta, erano chiamati a soddisfare, hanno compiuto notevoli sforzi costruttivi, trovando nel materiale giuridico romano molti o pochi (a seconda dei casi) spunti significativi, ma da sviluppare e organizzare in un diverso sistema.

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Allo scopo di agevolare la comprensione del fenomeno, si può tracciare un parallelo con quello che è accaduto, nel medioevo, sul piano delle tecniche costruttive degli edifici, dove gli elementi di struttura (fondamenta, colonne, mattoni, lastre marmoree) o decorativi (statue) di costruzioni romane erano spesso riutilizzati per edificare nuovi edifici con funzioni analoghe o diverse. Esempi di costruzioni giuridiche moderne innovative basate su spunti contenuti nel materiale romano sono la teoria della capacità giuridica (idoneità della persona a essere titolare di diritti) e quella della capacità di agire (idoneità della persona a porre in essere atti giuridicamente rilevanti), che i moderni hanno creato studiando le soluzioni giuridiche romane, ma che i giuristi romani non avevano elaborato [oltre, capitolo terzo, § 2]. Un altro esempio è la teoria moderna dell’invalidità degli atti giuridici, creata sulla base dei materiali romani, ma con esiti diversi su cui si riflettono alcune differenze generali fra il sistema giuridico romano e quelli moderni [oltre, capitolo quarto, § 9]. Altre volte la vicinanza fra le categorie antiche e quelle moderne è maggiore e tende perfino all’identificazione: si pensi al concetto di usufrutto (ususfructus), come diritto di godere della cosa altrui e percepirne i frutti, pur essendo diversi alcuni aspetti riguardanti la regolamentazione [oltre, capitolo sesto, § 17].

E anche dove può sembrare che i giuristi moderni si siano limitati a recepire concetti già elaborati dai romani, esistendo una coincidenza fra la terminologia latina e quelle moderne che, nelle lingue neo-latine la traducono, in realtà le cose sono più complesse, in quanto talvolta la coincidenza terminologica costituisce addirittura un elemento sviante, corrispondendo il termine latino e quello che lo traduce a concetti diversi. Tutto ciò non significa che i giuristi romani non abbiano elaborato proprie categorie giuridiche, né che fossero in ciò meno abili dei moderni, essendosi, al contrario, impegnati nel farlo con intensità variabile a seconda delle loro singole personalità e dei metodi di lavoro adoperati e con risultati più o meno soddisfacenti a seconda dei casi: il fatto è che le loro costruzioni erano molte volte diverse da quelle che sarebbero state poi elaborate dai moderni sulla base dei materiali romani. Per esempio, nell’esperienza romana i giuristi utilizzavano il termine contractus , a seconda dei casi per indicare gli atti bilaterali produttivi di obbligazioni o solo alcuni di essi, ma faremmo una fatica vana se cercassimo nel Digesto o nelle Istituzioni di Giustiniano una concezione compiuta e unitaria corrispondente a quella moderna che lo definisce come accordo di due o più parti per costituire, modificare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321 cod. civ.): di quest’ultima troviamo nel materiale romano degli spunti incompiuti, che possiamo considerare come elementi di struttura impiegando i quali i moderni hanno edificato quella costruzione che è la concezione odierna di contratto [oltre, capitolo settimo, § 7].

D) Alla scienza giuridica romana dobbiamo anche molte metodologie adoperate dai giuristi (e dagli operatori pratici del diritto, come i giudici, gli avvocati, i notai) moderni, quali per esempio l’impiego giuridico della tecnica divisoria, dal latino divisio , o diairetica, dal termine greco ‘diaíresis’ , che è la tecnica di dividere gli insiemi in classi di minore estensione, impiegata sia a fini classificatori, sia per risolvere casi pratici, e della logica, che è la tecnica dell’argomentazione, utilizzata per fondare le soluzioni giuridiche e per interpretare testi normativi e atti privati. Un esempio di tecnica divisoria è la divisione dell’insieme possessio in possessio bonae fidei e possessio malae fidei , a seconda se il possessore sia ignaro o consapevole di ledere l’altrui diritto (Paolo in D. 41, 2, 3, 22), che del resto rileva ancora nei moderni ordinamenti. Per quanto riguarda l’impiego della tecnica divisoria a fini classificatori, sono esemplari le Istituzioni di Gaio [oltre, in questo capitolo, § 3]. Al livello pratico, essa, a seconda dei casi, consente di trattare diversamente classi appartenenti allo stesso insieme, valorizzandone la differenza specifica, o di trattarle allo stesso modo, facendo leva sull’appartenenza allo stesso insieme. Sul versante della logica, si può pensare all’argomento basato sulla somiglianza fra un caso regolato e un caso da regolare (detto argumentum a similibus ) e al sillogismo, utilizzato però dai giuristi romani in una sua forma imperfetta, incompleta (sillogismo entimematico).

Queste tecniche operative nacquero al di fuori della scienza del diritto, nell’ambito della riflessione filosofica di ascendenza greca (soprattutto aristotelica e stoica), di cui i singoli giuristi romani avevano una conoscenza di ampiezza e profondità variabile a seconda dei loro interessi, e vennero impiegate nei limiti in cui avevano una utilità sul piano teorico e pratico. Sulle concrete modalità operative di esse nelle epoche intermedia e moderna hanno influito i relativi contesti culturali e le caratteristiche generali dei differenti sistemi giuridici. E) Le considerazioni che precedono, volte a mettere in luce le radici romane del diritto moderno soprattutto sul versante della continuità della scienza giuridica, riguardano le esperienze giuridiche continentali europee contemporanee e quelle a esse ispirate, tutte caratterizzate, a differenza di quella romana, dal primato della legge scritta (anch’esso un concetto moderno), la quale traduce in regole di condotta i valori che si impongono nel giuoco delle forze politiche. In tali esperienze, nelle quali le leggi costituiscono una cornice stringente ineludibile dai giudici, tenuti ad applicarle, il giurista svolge un ruolo fondamentale nel garantire l’unità e l’armonia del sistema. Le esperienze giuridiche moderne contraddistinte da tali caratteri sono definibili sistemi giuridici chiusi o, con denominazione inglese, di ‘civil law’ . Nella continuità del ruolo centrale della scienza giuridica dall’antica Roma ai sistemi chiusi continentali si evidenzia, tuttavia, un aspetto di discontinuità, rappresentato dal fatto che i giuristi romani operavano nel quadro di un sistema aperto, nel quale non vi era una cornice legislativa invalicabile, e concorrevano a individuare il diritto applicabile e i valori a esso sottesi [oltre, capitolo secondo, § 10, C]. A tali esperienze giuridiche moderne se ne contrappongono altre, nelle quali,

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pur essendovi delle leggi, manca una generale cornice legislativa invalicabile: si tratta dei sistemi giuridici aperti, tra i quali rientrano quelli inglese e statunitense, riconducibili al ‘common law’ , che pur avendo in comune con l’esperienza giuridica romana la mancanza di una cornice legislativa invalicabile, non hanno subito, se non in certi periodi storici e, comunque, in misura piuttosto modesta, l’influenza del diritto romano. Nell’ambito delle moderne esperienze di ‘common law’, a garantire l’unità e l’armonia del sistema sono i giudici, che decidono le controversie uniformandosi ai precedenti (stare decisis ) e, con le loro pronunzie, danno origine alla dottrina delle corti, non i giuristi. A causa di ragioni storiche e della scarsa incidenza della dottrina, il diritto romano è rimasto praticamente estraneo a tali esperienze, se si eccettuano i pochi momenti di contatto in epoca più o meno risalente e alcuni principi comuni. Pur appartenendo all’ambito dei sistemi giuridici aperti, in una posizione a parte si collocano le esperienze giuridiche miste, dette ‘mixed legal systems’ , in cui il ‘common law’ coesiste con l’applicazione dei principi del Corpus iuris civilis e di quelli elaborati nel XVII e nel XVIII secolo sulla base del materiale giuridico romano (come avviene, per esempio, in Sud Africa e in Scozia).

3. Le istituzioni di diritto romano A) Il corso di Istituzioni di diritto romano riguarda il diritto privato e il processo civile romani, secondo un modello che risale, nelle linee generali, ai giuristi dell’antica Roma. Si deve premettere che nell’antichità greca e romana erano diffuse trattazioni elementari, chiamate in greco ‘téchnai’ ed ‘encheirídia’ e in latino artes o institutiones o, al singolare, institutio che introducevano allo studio di determinate materie o settori della scienza. Tra queste, al di fuori del diritto, è molto conosciuta l’Institutio oratoria di Quintiliano, che introduceva all’oratoria. Si pensi anche alle Artes di Aulo Cornelio Celso, manuali enciclopedici di agricoltura, veterinaria, giurisprudenza, arte militare, filosofia, storia, medicina (l’unico dell’autore rimasto fino ai nostri giorni).

Numerosi giuristi romani furono autori di institutiones aventi per oggetto la materia giuridica (Fiorentino, Gaio, Ulpiano, Paolo, Callistrato, Marciano) e tra queste particolare importanza rivestono le Gai Institutiones , risalenti alla seconda metà del II secolo d.C., in quanto si tratta dell’unica opera di un giurista romano pervenutaci quasi completa al di fuori della compilazione giustinianea. Le Istituzioni gaiane, per ragioni ancora discusse, rispecchiano il diritto di qualche decennio prima dell’epoca alla quale risalgono.

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Il manoscritto delle Gai Institutiones, risalente al V secolo d.C., venne ritrovato nel 1816 da B.G. Niebuhr, storico, filologo e diplomatico tedesco, presso la Biblioteca Capitolare di Verona. Malgrado esso sia contenuto in un codice palinsesto, cioè in un codice pergamenaceo riutilizzato in seguito come supporto scrittorio per opere diverse (di autori cristiani), le tecniche scientifiche dell’epoca consentirono di riportarne alla luce il testo, pur cagionando danni a causa dell’aggressività degli agenti chimici impiegati. Il contenuto di alcuni dei fogli danneggiati è stato parzialmente ricostruito grazie a ritrovamenti avvenuti in Egitto. Secondo la convenzione più in uso, le Institutiones di Gaio si citano con il nome dell’autore al genitivo (Gai , sottintendendo institutiones) seguito dai numeri del commentario e del paragrafo, separati da una virgola o da un punto.

In tale opera, che consta di quattro commentari (commentarii) e quasi certamente non ha subito significative modifiche successive, è esposta in forma elementare la materia del diritto privato e del processo civile. Dopo una breve parte introduttiva che apre il primo commentario, contenente anche una essenziale trattazione delle fonti del diritto, cioè dei fatti che danno origine alle norme giuridiche, la materia è divisa in tre parti, relative, rispettivamente, al diritto che attiene alle persone (ius quod ad personas pertinet, nel primo commentario), al diritto che attiene alle cose (ius quod ad res pertinet, nel secondo e nel terzo commentario), comprendente diritti reali, successioni e obbligazioni, e al diritto che attiene alle azioni (ius quod ad actiones pertinet, nel quarto commentario). Caratteristica dell’opera è l’utilizzazione del procedimento divisorio o diairetico (divisio, ‘diairesis’ ), cioè della divisione degli insiemi in classi, attraverso il quale la materia è esposta in maniera schematica, chiara e comprensibile [sopra, in questo capitolo, § 2, D]. Da tale caratteristica, che ne rese i contenuti agevolmente fruibili anche una volta venuta meno la grande giurisprudenza classica, dipende il successo che le Institutiones gaiane ebbero dopo la morte del suo autore, tanto da servire nel VI secolo d.C. come modello delle Institutiones imperiali di Giustiniano. In riferimento ai vari argomenti in cui è articolata la trattazione Gaio talora formula una divisione apicale di un insieme (summa divisio ), poi procedendo a ulteriori divisioni di grado inferiore, mentre altre volte procede per divisioni non riconducibili a un sistema unitario. Per esempio, nel primo commentario (Gai 1, 912) le persone (personae) sono divise in liberi (liberi) e schiavi (servi); i liberi (liberi) in nati liberi (ingenui) e nati in schiavitù, poi liberati (libertini); questi ultimi in cittadini romani (cives romani), latini (latini) e stranieri senza alcuna cittadinanza (dediticii). Ulteriori divisioni, non sempre riducibili a un sistema unitario, vengono effettuate nel prosieguo. Nel secondo commentario (Gai 2-3; 10) le cose (res) sono divise in cose di diritto divino (res divini iuris) e cose di diritto umano (res humani iuris); le prime in cose religiose, sacre e sante (res religiosae, sacrae, sanctae), le seconde in private e pubbliche (privatae, publicae). Nel terzo commentario (Gai 3, 88-89) le obbligazioni (obligationes) sono divise a seconda che derivino da atto lecito bilaterale volto a pro-

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durre obbligazione (ex contractu) o da atto illecito (ex delicto); le prime a seconda del modo in cui l’atto si perfezionava e cioè con il trasferimento di una cosa (re), con le parole (verbis), con caratteri scritti (litteris), con il semplice consenso (consensu). Nel quarto commentario (Gai 4, 1 e seguenti), le azioni (actiones) sono divise in azioni personali (actiones in personam) e azioni reali (actiones in rem), ma poi si procede con ulteriori distinzioni non inquadrabili in un sistema unitario.

Sebbene nelle Institutiones di Marciano, risalenti al III secolo d.C., vi sia anche una parte dedicata allo studio del diritto pubblico, riguardante leggi (leges) e processi criminali (iudicia publica ), e le Institutiones di Giustiniano si concludano con una brevissima parte relativa ai processi criminali, dichiaratamente inserita perché fosse possibile averne un’idea superficiale e meramente indicativa, le institutiones erano di regola dedicate esclusivamente o in assoluta prevalenza all’esposizione del diritto privato e del processo civile. Del resto, i giuristi romani, pur occupandosi in una qualche misura anche del diritto pubblico e del diritto e del processo criminale, approfondirono soprattutto tematiche relative al diritto privato. Alcune materie connesse alla sfera pubblicistica furono studiate in quanto ancillari rispetto al diritto privato, come quella relativa ai fatti creativi di norme giuridiche (fonti del diritto), ai quali concorrevano in alcuni casi pure organi costituzionali [oltre, capitolo secondo, §§ 3-12], o in quanto contigue al diritto privato e al processo civile, come avvenne per i profili finanziari dell’amministrazione pubblica (diritto fiscale), caratterizzati da una natura patrimoniale che li avvicinava a tematiche privatistiche [oltre, capitolo terzo, § 32, C]. B) Anche nel diritto intermedio e in epoca moderna la grande tradizione del diritto romano, oggetto di studio e di applicazione pratica, venne identificata soprattutto con il diritto privato e le Institutiones (ormai quelle di Giustiniano) continuarono a svolgere una funzione introduttiva allo studio di esso, analoga a quella oggi svolta per gli studenti del primo anno di corso dalle Istituzioni di diritto privato. Quando, poi, a seguito dell’entrata in vigore dei codici civili, il diritto romano, avendo perso la sua vigenza, divenne oggetto di studio storico, le Istituzioni di diritto romano continuarono a seguire in linea di massima il modello di quelle gaiane, pur con varianti legate alla formazione e alla sensibilità dei singoli autori, alcune delle quali relative all’ordine delle materie e altre influenzate dalla tradizione romanistica e, in particolare, dagli approfondimenti della Pandettistica [sopra, in questo capitolo, § 1, B e C]. Ancora oggi, di solito, nei manuali, dopo una parte introduttiva più o meno sintetica dedicata allo studio delle fonti del diritto e alle partizioni del diritto oggettivo, viene trattato l’intero sistema del diritto privato romano, comprensivo del processo civile, variamente articolato al suo interno. Va segnalato che mentre la maggior parte dei manuali di Istituzioni di diritto romano (con una scelta seguita anche nella presente trattazione) è impostata per nuclei tematici (persone, processo, proprietà e diritti reali, obbligazioni, successioni), che costituisco-

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no una frammentazione del sistema tripartito gaiano (persone, cose, azioni), cui si aggiunge talora una parte relativa a fatti, atti e negozi giuridici, derivante dalla Pandettistica, e recupera la dimensione dello sviluppo storico della materia nell’ambito delle singole problematiche, alcuni manuali inquadrano la materia in una generale griglia cronologica (di solito articolata nelle tre scansioni costituite dal periodo arcaico, da quelli preclassico e classico, e da quello postclassico) [oltre, in questo capitolo, § 5], per poi trattare le singole tematiche in ciascuna delle scansioni individuate. Mentre il primo modello rende più immediatamente percepibile il rapporto di continuità o discontinuità dei singoli aspetti trattati con l’esperienza moderna, il secondo consente di individuare con maggiore incisività le caratteristiche generali del diritto romano nei vari periodi del suo sviluppo. Inoltre, in margine, si deve precisare che le materie giuridiche oggetto di sintetica esposizione nella parte introduttiva dei manuali di Istituzioni di diritto romano (fonti del diritto, partizioni del diritto oggettivo) sono più ampiamente sviluppate nel corso di Storia del diritto romano, nel quale trova ampio spazio anche l’analisi degli organi costituzionali e del diritto e del processo criminale.

Analoga struttura, del resto, salva l’estromissione del diritto processuale civile, oggetto di un apposito corso, è nella sostanza conservata nelle Istituzioni di diritto privato, che introducono allo studio del diritto privato vigente.

4. Aspetti metodologici A) A partire dall’entrata in vigore dei codici civili, il diritto romano, avendo cessato di essere diritto vigente, cioè applicabile nel presente [sopra, in questo capitolo, § 1, C], è divenuto oggetto di uno studio storico, concernente un periodo di oltre tredici secoli (dalla fondazione di Roma alla morte di Giustiniano: VIII secolo a.C.-VI secolo d.C.), durante i quali molteplici e rilevanti furono gli sviluppi e i cambiamenti. Lo storico del diritto romano, anche detto, nel linguaggio corrente nel settore, romanista (ma, essendo romanisti tutti coloro che si occupano di storia e antichità romane, sarebbe più corretto chiamarlo giusromanista), ha come compito prevalente quello della ricostruzione del diritto vigente nei periodi studiati. Per fare ciò occorre tenere conto, oltre che dei contenuti normativi, delle notizie riguardanti la riflessione teorica e il lavoro pratico dei giuristi, la prassi negoziale, ossia relativa agli atti giuridici con i quali i privati regolavano i propri interessi [per le nozioni di atto giuridico e negozio giuridico, cfr. oltre, capitolo quarto, §§ 1 e 2], e quella giudiziaria. La ricostruzione di tali aspetti avviene attraverso le fonti di cognizione (cioè di conoscenza) del diritto, da tenere distinte dalle fonti di produzione del diritto, che danno origine alle norme giuridiche [oltre, capitolo secondo, §§ 3-12]. Tra le fonti di cognizione del diritto romano hanno un ruolo preponderante le fonti giuridiche: il Corpus iuris civilis [sopra, in questo capitolo, § 1], le opere giuridiche dell’epoca compresa fra il II e il V secolo d.C. giunte fino a noi inte-

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ramente o in parte, tra le quali le Institutiones di Gaio [sopra, in questo capitolo, § 3, A] e alcune raccolte di materiali giuridici [oltre, capitolo secondo, § 13, C], cui vanno aggiunte le raccolte di costituzioni imperiali pregiustinianee, tra le quali il Codex Theodosianus [oltre, capitolo secondo, § 13, D]. La maggior parte di questo materiale è pervenuto in forma di libro (codex il più delle volte di pergamena) o di fogli di libro e in qualche caso in frammenti di rotoli di papiro (che sono oggetto di studio di una disciplina particolare, la papirologia). Vi sono, poi, le fonti letterarie: senza voler dare un quadro esaustivo, va segnalato che alcune notizie circa il diritto romano delle varie epoche sono ricavabili da opere letterarie di argomento non specificamente giuridico, come, per esempio, quelle degli annalisti (che elencavano gli eventi anno per anno) e degli storici, degli eruditi, degli oratori, dei grammatici, degli agrimensores (esperti nella misurazione dei terreni, anche detti gromatici , in quanto usavano la groma , uno strumento per determinare i confini dei terreni), degli scrittori cristiani. Di una certa importanza sono anche le risultanze archeologiche, epigrafiche (tra le quali sono convenzionalmente fatte rientrare le tavolette in cui erano scritti gli atti privati), numismatiche.

B) Inoltre, lo storico del diritto non può esimersi dal porre in relazione il diritto vigente nell’epoca studiata con il più ampio quadro della società in cui quel diritto è sorto e si è sviluppato, dovendo procedere alla contestualizzazione dell’esperienza giuridica nella cornice di quella politica, sociale, economica e culturale. I fenomeni giuridici, infatti, si comprendono appieno soltanto collocandoli nell’ambito delle strutture sociali ed economiche e dei relativi rapporti e tenendo conto della politica, delle ideologie dominanti, della cultura e del complesso di conoscenze esistenti. Tuttavia, va precisato che le norme giuridiche non costituiscono il risultato meccanico delle forze che agiscono nella società e degli equilibri che la caratterizzano, essendo, a seconda dei casi, create o individuate da soggetti qualificati e, il più delle volte, attraverso procedimenti predeterminati, sebbene i soggetti e i procedimenti coinvolti subiscano l’influenza degli assetti sociali, economici e culturali [sulle fonti di produzione del diritto, cfr. oltre, capitolo secondo, §§ 3-12]. Ciò significa che esiste una distinzione di piani fra le strutture e le dinamiche socioeconomiche, da un lato, e il diritto che ne è espressione, dall’altro: per esempio, la legge (lex), nella Roma repubblicana come presso di noi, è creata da organi assembleari che approvano una proposta a essi presentata secondo rigorosi procedimenti, essendo l’influsso del dato sociale mediato attraverso il procedimento di creazione della norma legislativa. Ed anche quando, come accadeva nell’esperienza romana primitiva per le norme di formazione consuetudinaria (mores ), i contenuti normativi erano espressione delle strutture sociali ed economiche, era pur sempre necessario che determinati soggetti, cioè i più antichi giuristi romani, appartenenti al collegio sacerdotale dei pontefici (pontifices), le riconoscessero come tali, individuandole e selezionandole.

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La rilevata differenza di piani fra la dimensione sociale e quella giuridica si coglie anche, a un livello più complesso, nella dialettica fra la prima e le costruzioni concettuali elaborate della scienza giuridica romana, le quali, essendo dotate di una vita propria e riflettendosi sul piano della concreta regolamentazione, tendevano a resistere per lungo tempo alle modificazioni sociali. Così, spesso una figura giuridica individuata in un periodo caratterizzato da un particolare contesto sociale con una determinata funzione è sopravvissuta ai mutamenti della società, magari svolgendo nel nuovo quadro una funzione diversa. Per esempio, la tutela legittima sugli impuberi usciti dalla patria potestà (patria potestas) paterna o dell’avo paterno, introdotta nel V secolo a.C. come potere attribuito dalla legge ai parenti legittimi più stretti al fine di evitare il depauperamento o la perdita del patrimonio familiare, dunque a protezione del gruppo, venne poi considerata, a partire almeno dalla prima metà del I secolo a.C., come un ufficio (officium) volto a proteggere l’impubere [oltre, capitolo terzo, § 27, E].

C) V’è, poi, il problema delle categorie utilizzabili nello studio del diritto romano e nella esposizione di esso. A partire dalla prima metà del Novecento, è stato discusso nella dottrina giusromanistica se lo storico del diritto si possa avvalere, nello studio del diritto romano e nell’esposizione della materia, delle categorie concettuali moderne oppure debba utilizzare quelle, spesso diverse, elaborate dai giuristi romani. Malgrado quest’ultima opzione possa sembrare più corretta dal punto di vista scientifico in quanto elimina a monte il rischio di sovrapporre il nostro modo di vedere alle concezioni romane, ove si rinunziasse a usare le categorie concettuali moderne, verrebbe meno la possibilità di tracciare quelle relazioni fra l’esperienza romana e le esperienze moderne che agevolano la comprensione di queste ultime giustificando lo studio delle Istituzioni di diritto romano o tale operazione di confronto sarebbe molto più complessa. Pertanto, è più vantaggioso che lo storico del diritto romano esamini la materia studiata attraverso la lente costituita dalle categorie moderne. Queste ultime costituendo strumento di analisi e organizzazione della materia, possono essere definite categorie descrittive, mentre quelle elaborate dai giuristi romani sono oggetto di studio, allo stesso modo della regolamentazione, in quanto hanno inciso sull’individuazione del diritto applicabile nell’antica Roma e, quindi, possono essere definite categorie dogmatiche o normative. Tale distinzione evidenzia come, da un lato, sia fondamentale chiarire di volta in volta se le categorie concettuali cui è fatto riferimento siano quelle descrittive (moderne) oppure quelle dogmatiche o normative (antiche) e, dall’altro, si debbano adeguare le categorie descrittive alla particolare realtà studiata allo scopo di evitare che esse siano falsanti rispetto a essa. Per avere un quadro più preciso del problema si deve tenere presente il fatto che anche le categorie concettuali moderne sono state elaborate nei secoli sulla base dei materiali romani [sopra, in questo capitolo, § 2, C], di modo che esse molte volte corrispondono

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a categorie che i giuristi romani avevano presenti nel loro lavoro, pur non avendole espresse o avendolo fatto in modo diverso (categorie implicite). Inoltre, si deve osservare che il rapporto fra categorie descrittive e categorie dogmatiche non si può porre in relazione a periodi, come quello arcaico e, per certi versi, quello postclassico, nei quali, pur essendovi dei giuristi, non vi fu una elaborazione scientifica del diritto del genere di quella riscontrabile nel periodo classico, frutto del lavoro della giurisprudenza coeva [sulla distinzione fra i vari periodi, cfr. oltre, in questo capitolo, § 5; sui diversi modi di lavorare dei giuristi in tali periodi, cfr. oltre, capitolo secondo, § 10 e 13]. A tale proposito, va chiarito che l’impiego delle categorie descrittive non ha alcuna alternativa, non avendo senso ammettere l’esistenza di categorie inconsapevoli.

5. Periodizzazioni A) La riscontrata esigenza di individuare il diritto vigente nelle varie epoche nelle quali si svolge l’esperienza romana e di porlo in relazione con le rispettive strutture socio-economiche e politiche [sopra, in questo capitolo § 4, B] rende necessario tracciare alcune periodizzazioni, ossia griglie cronologiche di riferimento, cioè divisioni in periodi (o, si può anche dire, epoche), da applicare allo studio delle varie materie trattate e delle singole figure giuridiche, le cui vicende vanno esposte tenendo conto delle diverse fasi nelle quali si articola la loro esistenza. B) Fondamentale è la periodizzazione del diritto privato romano, la quale, dato che il diritto privato ha uno stretto collegamento con le strutture socio-economiche, va articolata in base a tali strutture e alle loro modificazioni nel tempo, cui corrispondono le cesure fra un periodo e l’altro. Una prima fase è rappresentata dal periodo arcaico, che si estende dalla fondazione della civitas, risalente alla metà dell’VIII secolo a.C., alla fine del IV secolo a.C. Pur trattandosi di un periodo assai lungo, in cui non si può pensare che le strutture della società e dell’economia siano rimaste del tutto invariate dall’inizio alla fine, è possibile individuarne alcuni tratti unitari. Esso è caratterizzato da una struttura socio-economica su base patriarcale, incentrata sui poteri quasi illimitati del paterfamilias , il quale, non essendo sottoposto a poteri altrui, esercitava la patria potestas sui propri filiifamilias , sui loro discendenti, maschi e femmine, sulle proprie filiaefamilias , sulle mogli dei figli e dei discendenti. Egli esercitava anche la manus , potere maritale sulla propria moglie (che solo in seguito poté essere esercitato per scopi specifici e per brevissimi periodi su altre donne), in un primo momento sempre, essendo in origine effetto indefettibile del matrimonio, poi solo quando avesse acquistato tale potere e non lo avesse perso, nonché la dominica potestas sui propri servi e, a partire da un certo momento, anche poteri diversi su persone che, per va-

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rie cause, si venivano a trovare presso di lui in condizione paraservile, cioè di minorazione giuridica o di fatto della libertà personale. Sul nucleo familiare descritto, denominato familia proprio iure , cfr. oltre, capitolo terzo, §§ 14-18. Sulla manus e sui rapporti fra questa e il matrimonio, che mutarono forse già nel corso del V secolo a.C., cfr. oltre, capitolo terzo, § 19. Sulla schiavitù, cfr. oltre, capitolo terzo, §§ 3-7. Sulle condizioni paraservili più risalenti, cfr. oltre, capitolo terzo, § 9, B e C.

Il paterfamilias, unica persona idonea, sul piano del diritto privato, a essere titolare di diritti e di doveri e a porre in essere atti giuridicamente vincolanti, partecipava allo svolgimento delle attività produttive pastorali, agricole e artigianali e, nel contempo, coordinava nello svolgimento di esse le persone soggette alla sua patria potestas, alla manus e agli altri suoi poteri, compresi i servi, i quali, di numero ancora esiguo e di cultura affine a quella del proprietario (laziale o italica), venivano trattati in modo non molto dissimile da quello in cui lo erano i filiifamilias. Nell’economia del periodo arcaico dovevano assumere una certa rilevanza anche organismi parentali più estesi della familia proprio iure, i quali in origine dispiegavano un ruolo nelle attività produttive pastorali e agricole, le gentes , titolari della proprietà (detta perciò gentilizia) di ampi appezzamenti di terreno concessi a pascolo o in coltivazione ai patresfamilias che a esse appartenevano insieme agli altri componenti della famiglia [sulle gentes, cfr. oltre, capitolo terzo, § 24, D]. Inoltre, incideva verisimilmente anche sul versante economico l’esistenza di rapporti fiduciari di clientela , nei quali un cliens o un gruppo di clientes si poneva sotto la protezione di un paterfamilias di condizione sociale più elevata, appartenente a una gens, potendosi quest’ultimo, detto patronus , avvalere della forza-lavoro del cliens o del gruppo di clientes [cfr. oltre, capitolo terzo, § 9, C].

Le attività produttive erano in origine destinate in prevalenza a soddisfarne i bisogni del nucleo familiare, ma, a un certo punto, i beni prodotti in misura superiore al fabbisogno cominciarono a essere immessi sul mercato, dapprima con il sistema del baratto (scambio di cosa contro cosa), poi anche dietro corrispettivo in aes rude e in seguito in aes signatum , costituenti le più antiche forme di moneta. Un momento di significativo incremento del dinamismo economico, nel quale fiorirono le attività artigianali dirette soprattutto allo scambio, fu quello della monarchia etrusca (VI secolo a.C.), seguito dalla stagnazione economica del V secolo a.C. Sembra da condividere l’ipotesi secondo la quale la monarchia etrusca avrebbe segnato pure un ridimensionamento del rilievo delle gentes, cui si sarebbe accompagnata l’estensione della proprietà privata individuale dei terreni, e un’attenuazione dell’assoggettamento dei clientes ai patroni.

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Secondo quanto convenzionalmente si afferma in dottrina, agli inizi del III secolo a.C. ebbe inizio il periodo preclassico, che si protrasse fino alla fine dell’epoca repubblicana (27 a.C., anno nel quale venne instaurato il principato di Augusto). Esso è caratterizzato dall’affermarsi del modo di produzione schiavistico, connesso alle conquiste militari, che portarono a un aumento esponenziale del numero degli schiavi (soprattutto appartenenti alle popolazioni sottomesse ridotti in schiavitù e discendenti di essi), utilizzati, oltre che nella pastorizia, per lo sfruttamento agricolo del territorio e nelle attività artigianali. La loro condizione si venne, in linea di massima, differenziando da quella delle persone sottoposte alla patria potestas e alla manus (potere maritale), nel segno di un complessivo peggioramento, specialmente per gli schiavi addetti alla lavorazione della terra, che spesso ormai non avevano alcuna durevole consuetudine con il loro dominus e molte volte neppure alcuna comunanza culturale con il medesimo, data la provenienza geografica da territori sempre più lontani da quelli laziale ed italico. Dal punto di vista economico, si evidenziò un notevole dinamismo: parallelamente al conseguimento dell’egemonia sul Mediterraneo da parte di Roma, si diffuse il commercio dei prodotti sul territorio italico e nei mercati extraitalici, essendo sempre più frequenti anche le esportazioni e le importazioni transmarine. Con analoghi caratteri dal punto di vista socio-economico si presenta il periodo classico, il quale, aprendosi con il passaggio dalla repubblica al principato (27 a.C.), si concluse verso la metà del III secolo d.C., quando per l’economia romana già si evidenziavano i sintomi di una fase di crisi e cessò l’espansione dell’impero, con la conseguente lenta, ma inesorabile, decadenza del modo di produzione schiavistico. La qualifica di periodo classico si spiega con il fatto che l’esperienza giuridica romana dell’epoca è caratterizzata da una scienza del diritto svincolata dal fattore religioso, anche se in realtà tale fenomeno è riscontrabile fin dal III secolo a.C. [oltre, capitolo secondo, § 10, C e D]. Poiché analoghe erano nei periodi preclassico e classico le strutture socio-economiche e la principale caratteristica dell’esperienza giuridica classica (la quale giustifica l’appellativo di periodo classico), costituita dall’esistenza di una scienza del diritto svincolata dalla sfera religiosa, già è presente dal III secolo a.C. in poi, vale a dire in quello che si è definito periodo preclassico, la distinzione fra i due periodi è meramente convenzionale e basata solo sul referente costituito dal mutamento istituzionale rappresentato dal passaggio dalla repubblica al principato. Malgrado quanto osservato, si ritiene opportuno conservare tale distinzione a livello descrittivo per spezzare un periodo che, altrimenti, sarebbe troppo lungo, distinguendo il momento del formarsi della scienza del diritto da quello del suo consolidamento, cui corrisponde, oltre tutto, il controllo del princeps su di essa [oltre, capitolo secondo, § 10, D].

Vi fu, in seguito, un’età di transizione, il periodo epiclassico, che durò circa un cinquantennio, terminando con l’abdicazione di Diocleziano (305 d.C.). Mal-

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grado una parte della dottrina lo comprenda nel periodo classico accentuando alcuni profili di continuità rispetto a quest’ultimo e le differenze dal successivo periodo dal punto di vista della produzione delle norme giuridiche, esso presenta già in parte le strutture socio-economiche del periodo successivo e sul versante delle caratteristiche dell’esperienza giuridica coeva è da segnalare la scomparsa della figura del giurista come si era evidenziata nei periodi preclassico e classico [oltre, capitolo secondo, § 10, F]. Nel IV secolo d.C., a partire dalla presa di potere dell’imperatore Costantino (312 d.C.), ha origine il periodo postclassico o tardo antico, caratterizzato da una gravissima crisi economica e sociale, dal progressivo indebolimento delle strutture territoriali dell’impero, che porta alla caduta dell’impero romano d’Occidente (475 d.C.), e dalla diffusione del Cristianesimo, divenuto religione di stato nel 380 d.C. Dal punto di vista economico, a parte la contrazione dei commerci, si assiste a uno sfruttamento del territorio estensivo e di bassa redditività, al ridimensionamento della mano d’opera servile e alla diffusione di forme di dipendenza diverse dalla schiavitù, tutti caratteri che preludono alle strutture economiche dell’alto medio evo. Tra le nuove forme di dipendenza, ebbe rilevanza soprattutto il colonato [oltre, capitolo terzo, § 9, D].

Nell’ambito di tale periodo si fa rientrare anche l’epoca dell’imperatore Giustiniano (527-565 d.C.), ma a quest’ultimo proposito è preferibile parlare di periodo giustinianeo, trattandosi di un’età che ha propri specifici caratteri, se non altro per la realizzazione della compilazione e per l’intensa attività legislativa svolta dall’imperatore. C) Per quanto concerne alcuni aspetti particolari che saranno esaminati in questo manuale, come quelli relativi ad alcuni dei procedimenti di formazione delle norme giuridiche, che chiamiamo fonti di produzione del diritto, in cui erano talora coinvolti organi costituzionali [oltre, capitolo secondo, §§ 3-14], rileva una diversa periodizzazione, utilizzata sul versante dello studio del diritto pubblico romano, oggetto del corso di Storia del diritto romano, nella quale assumono un ruolo fondamentale le diverse forme di governo succedutesi nell’esperienza romana. Si tratta della periodizzazione delle forme costituzionali, articolata in: periodo monarchico (dalla fondazione della civitas alla fine del VI secolo a.C., epoca nella quale fu deposto l’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo), periodo repubblicano (dalla caduta della monarchia alla fine della repubblica, nel 27 a.C.), periodo del principato (dalla fine della repubblica alla seconda metà del III secolo d.C.) e periodo del dominato o dell’impero assoluto (dall’ascesa al trono dell’imperatore Diocleziano, cioè dal 284 d.C. in poi).

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Va osservato, in margine, che la periodizzazione delle forme costituzionali si riflette in un caso su quella del diritto privato romano: la distinzione fra periodo preclassico e classico, i quali hanno dal punto di vista socio-economico tratti comuni, dipende da quella fra periodo repubblicano, in cui si colloca il periodo preclassico, e periodo del principato, in cui si colloca quello classico.

6. Funzioni dello studio del diritto romano A) Lo studio del diritto romano adempie oggi a varie funzioni. Poiché il diritto privato contemporaneo si è formato sulla base dello studio del diritto privato romano e, soprattutto, delle soluzioni giuridiche tramandate dal Corpus iuris civilis [sopra, in questo capitolo, § 1], lo studio del diritto privato romano svolge una funzione propedeutica insostituibile allo studio delle Istituzioni di diritto privato. In particolare, molte delle categorie concettuali, delle figure e delle terminologie che caratterizzano quest’ultimo sono state elaborate sulla base di materiali romani e, quindi, possono essere meglio comprese attraverso la conoscenza di essi. Lo studente di primo anno potrà agevolmente verificarlo scorrendo gli indici del proprio manuale di Istituzioni di diritto privato, qualunque esso sia, confrontandolo con l’indice del manuale di Istituzioni di diritto romano. Per le ragioni viste, però, di volta in volta va accertato il rapporto fra le categorie, le figure e le terminologie moderne e quelle antiche [sopra, in questo capitolo, §§ 2, C e 4, C].

B) Inoltre, l’esperienza giuridica romana insegna ai moderni il fondamentale ruolo della scienza giuridica [sopra, in questo capitolo, § 2, B], consistente nel sottrarre la decisione delle controversie e, in generale, la soluzione dei problemi giuridici all’arbitrio del potere politico e dei giudici (funzione di garanzia), nel colmare le lacune del sistema, cioè nell’individuare la norma applicabile in assenza di specifiche disposizioni riguardanti i casi di volta in volta considerati (funzione di completamento) e nel ricondurre ad armonia le diverse norme esistenti, attualmente appartenenti ai sistemi giuridici nazionali e sovranazionali (funzione di armonizzazione). Dal punto di vista del diritto nazionale, tali funzioni di garanzia, completamento e armonizzazione assumono particolare rilevanza a fronte del proliferare della legislazione speciale (cioè di leggi riguardanti uno o più aspetti limitati, contrapposte a quelle leggi relative a interi settori che sono i codici), la quale, essendo ispirata da esigenze contingenti e spesso dall’emergenza di regolamentare certi fenomeni, il più delle volte non è in linea con i principi giuridici recepiti dai codici, rendendo difficile individuare quali siano, in riferimento al panorama normativo inteso nel suo complesso, i principi e quali le eccezioni. Lo stesso vale dalla prospettiva del diritto dell’Unione europea, an-

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ch’esso originato dalle esigenze del momento, per il quale si pone, però, anche il problema di individuare nei singoli ordinamenti nazionali ricadute omogenee.

Si tratta di un compito che presuppone l’individuazione di categorie giuridiche unitarie a livello nazionale e sovranazionale e che è agevolato quando sia possibile ricondurre le singole norme nazionali (dei codici e delle leggi speciali) e comunitarie alle categorie di derivazione romanistica. Tuttavia, anche quando, non essendo possibile utilizzare categorie ordinanti preesistenti, ne debbano essere create di nuove, è opportuno individuare queste ultime in base a un confronto con quelle della tradizione giuridica comune risalente al diritto romano, per rendersi conto dell’impatto delle innovazioni legislative sul piano dei principi. Considerato, poi, che la moderna scienza del diritto discende da quella romana, i modelli di ragionamento utilizzati dai giuristi romani per individuare soluzioni pratiche sono di ausilio per la comprensione delle tecniche dell’argomentazione giuridica. Va segnalato, tuttavia, che tali tecniche argomentative si ambientano oggi nel quadro di sistemi diversi da quello romano, in quanto caratterizzati dall’esistenza di una cornice di leggi invalicabile (sistemi chiusi) [sulla distinzione fra il sistema aperto romano e quelli moderni continentali, chiusi, cfr. sopra, in questo capitolo, § 2, E]. Esse assumono, pertanto, una diversa funzionalità.

C) Infine, nelle esperienze formatesi sulla tradizione romanistica, proprio per il loro legame con l’esperienza giuridica romana, al diritto romano può essere riconosciuta una residuale operatività concreta, sia come criterio di scelta fra più interpretazioni di una disposizione legislativa possibili alla luce dei principi generali, sia come parametro di individuazione di una regola di condotta negli ambiti non disciplinati in modo espresso dai codici e dalle leggi speciali. In tali connessioni, il diritto romano opera come principio generale inespresso e ciò è possibile in quanto non vi è alcuna disposizione legislativa che abbia statuito espressamente l’abrogazione del diritto romano, visto nel suo complesso. Tale operatività concreta del diritto romano, troppo spesso ignorata dai cultori del diritto positivo, trova, del resto, la sua giustificazione normativa nell’art. 12, comma 2, disp. prel. cod. civ.: «Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato». Con riferimento alla parte finale della norma, nella Relazione del Ministro Guardasigilli al codice civile del 1942, si legge che nell’espressione «principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato» il termine «ordinamento» è comprensivo, tra l’altro, «della tradizione scientifica nazionale (diritto romano, comune, ecc.)».

Capitolo Secondo

Diritto oggettivo e diritto soggettivo SOMMARIO. Sezione prima: Il diritto oggettivo e le norme. 1. Diritto oggettivo e norma giuridica. – 2. Norme giuridiche, norme morali, norme a rilevanza esclusivamente sociale, norme religiose. – Sezione seconda: L’ordinamento giuridico e le fonti del diritto. 3. Nozione di ordinamento giuridico e fonti del diritto. – 4. Le fonti del diritto nel periodo monarchico e nella prima fase del periodo repubblicano: mores , leges regiae , prime leggi comiziali. – 5. La legge delle XII tavole: un codice con caratteri particolari. – 6. Leggi e plebisciti: le norme introdotte dalla voluntas populi . – 7. Il senatusconsultum e l’oratio principis . – 8. Le costituzioni imperiali. – 9. Gli editti dei magistrati. – 10. Responsa o auctoritas prudentium . – 11. La consuetudine tardo classica. – 12. Quadro di sintesi relativo alle fonti del diritto dei periodi preclassico e classico. – 13. Le fonti del diritto nel periodo epiclassico e nel periodo postclassico. – 14. Le fonti del diritto in epoca giustinianea. – 15. I contenuti della compilazione giustinianea e lo studio storico del diritto romano. – Sezione terza: Partizioni del diritto oggettivo. 16. Aspetti generali. Ius civile , ius gentium , ius naturale . – 17. Ius ex scripto , ius sine scripto o ex non scripto . Lex e ius . – 18. Ius civile , ius praetorium o honorarium , ius extraordinarium . – 19. Ius publicum , ius privatum . Ius humanum , ius sacrum o divinum . – 20. Ius commune , ius singulare . Privilegium , praerogativa . – Sezione quarta: Diritto soggettivo e potere. 21. Il concetto moderno di diritto soggettivo e il diritto in senso soggettivo nell’esperienza romana. – 22. Il potere.

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Sezione prima

Il diritto oggettivo e le norme 1. Diritto oggettivo e norma giuridica A) Il diritto oggettivo è l’insieme delle norme giuridiche vigenti in un determinato contesto sociale e caratterizza ogni società che abbia raggiunto un certo grado di sviluppo. Si può dire, pertanto, che ovunque vi sia una società v’è anche il diritto: ubi societas ibi ius . A Roma, il diritto oggettivo era definito ius , senza aggettivazione o, quando si intendevano definire le parti da cui era composto, accompagnato da un aggettivo [oltre, in questo capitolo, §§ 16 e seguenti]. Con una definizione generale moderna, suscettibile di precisazioni, si può dire che la norma giuridica è un comando generale e astratto che ha la funzione, diretta o indiretta, di risolvere conflitti di interesse. Essa, dal punto di vista logico, è sempre un discorso ipotetico, espresso o implicito: se A (protasi), allora X (apodosi), dove A è la descrizione di un fatto tipico, in presenza del quale essa è applicabile, che costituisce la fattispecie astratta, e X la previsione di effetti giuridici per il caso che tale fattispecie sia integrata.

B) Funzione della norma giuridica è, dunque, quella di risolvere conflitti di interesse tra persone, in modo diretto o indiretto. Risolvono direttamente conflitti di interesse le norme di relazione (anche definite di comportamento o di condotta), le quali a tale scopo attribuiscono a una persona (soggetto attivo) un potere, denominato dai giuristi moderni diritto soggettivo, cui corrisponde un dovere di condotta, cioè di comportamento, di un’altra persona (soggetto passivo). Per esempio, il creditore ha il diritto di esigere dal debitore l’adempimento di una prestazione e quest’ultimo la deve adempiere al primo [oltre, in questo capitolo, § 21, B; capitolo settimo, § 1, A]. Il proprietario di una cosa ha il diritto di ottenere che nessuno interferisca nella sua relazione con essa e ogni altro soggetto deve astenersi da qualsiasi comportamento che leda la suddetta relazione [oltre, in questo capitolo, § 21, B; capitolo sesto, § 1, A]. La nozione (moderna) di diritto soggettivo verrà approfondita in seguito [oltre, in questo capitolo, § 21].

Risolvono solo indirettamente conflitti di interessi le norme di qualificazione (anche dette di organizzazione), che attribuiscono una qualifica a una persona, a

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una cosa o a una situazione di fatto, dalla quale discendono conseguenze sul piano giuridico. Nel diritto romano, v’erano norme che determinavano quali persone fossero libere (liberi) e quali in stato di schiavitù (servi), quali sottoposte alla potestà di un paterfamilias e quali non sottoposte a tale potestà [oltre, capitolo terzo, §§ 3 e 14]. Un’altra norma determinava quali cose fossero di diritto divino (res divini iuris ) e quali di diritto umano (res humani iuris ) [oltre, capitolo sesto, § 2, C].

Risolvono indirettamente conflitti di interessi anche le norme tecniche, nelle quali è previsto che per raggiungere un certo scopo si debba tenere un determinato comportamento, cioè, nel linguaggio giuridico, adempiere un onere. Solo comportandosi in quel modo la persona raggiungerà lo scopo che si prefigge: così, talora affinché si producano certi effetti giuridici voluti è necessario porre in essere un atto in una determinata forma o entro un termine e altrimenti lo scopo non viene conseguito. Per esempio, se nel diritto romano si voleva trasferire il dominium ex iure Quiritium (Quirites sono i cittadini romani), cioè la proprietà secondo il diritto civile, di un fondo italico, trattandosi di una cosa per la quale era previsto un particolare regime formale di circolazione e precisamente di una res mancipi , lo si doveva fare per forza con atti formali e solenni, come la mancipatio o la in iure cessio [oltre, capitolo sesto, § 4, A; 12, A]. Inoltre, se si voleva agire con un’azione basata sull’imperium del pretore, magistrato che sovraintendeva all’amministrazione della giustizia (actio praetoria ) per ottenere l’irrogazione di una pena pecuniaria (poena) nei confronti di chi aveva compiuto un illecito, di solito lo si doveva fare nel termine di un anno [sulle azioni penali cfr. oltre, capitolo quinto, § 12, C].

C) La struttura della norma giuridica è sempre quella di un comando generale e astratto. Da tale definizione si ricavano i caratteri indefettibili della norma giuridica: la generalità, l’astrattezza e la coercibilità o coattività, implicite nella nozione di comando. La generalità esprime il fatto che norma è rivolta a un insieme indefinito di soggetti, individuabili in base a determinati presupposti stabiliti dalla norma stessa (non essendo la sua formulazione riferita, quindi, a soggetti specifici). L’astrattezza indica che la norma è applicabile quando è integrato il fatto tipico che essa descrive, denominato fattispecie astratta (non un determinato fatto storico realmente accaduto). L’astrattezza e la generalità meglio si comprendono se si riflette sulla struttura logica della norma giuridica: se A, allora X [sopra, in questo §, A], dove A è la descrizione di un fatto tipizzato, dunque astratto (denominata fattispecie astratta, da species facti ), non di uno specifico fatto concreto inveratosi nella realtà. Per esempio, nel periodo classico, se una persona si appropriava fraudolentemente di un bene altrui per ricavare un vantaggio ed era sorpresa in flagrante, cioè sul fatto (fattispecie astratta del furtum manifestum ), andava incontro alla condanna pari al quadruplo del valore della cosa rubata (effetto giuridico) [oltre, capitolo settimo, § 22]. Non sarebbe stata, invece, una norma giuridica quella formulata nel seguente modo: se Marco Tullio Cicerone si è appropriato (o si approprierà) fraudolentemente del cavallo di Gaio Aquilio per ricavare un vantaggio ed è stato (o sarà) sorpreso in flagrante, sia condannato al quadruplo del valore della cosa rubata. In quest’ultimo caso, infatti, il contenuto sarebbe concreto, non astratto, e speciale, non generale, perché riferito a persona specifica.

Inoltre, poiché la norma è un comando, non ci si può sottrarre impunemente all’osservanza di essa e, dunque, è coessenziale alla norma giuridica la coercibilità o coattività. Nelle norme di relazione [sopra, in questo §, B], la coercibilità è assicurata attraverso la previsione di una sanzione, che consiste in un pregiudizio inflitto dagli organi della comunità (o almeno con la loro assistenza) ai danni di chi, tenuto a osservare la norma e, cioè, ad ubbidire al comando che essa pone, non l’abbia osservata: da tale prospettiva si usa affermare che la norma giuridica è coattiva, cioè che la sua osservanza può essere imposta dalla comunità con la forza. Il male in cui la sanzione consiste può colpire, a seconda di quello che la norma stabilisce, la persona o il patrimonio del trasgressore ed essa può essere diretta o indiretta. La sanzione diretta è volta a ripristinare o a soddisfare l’interesse leso a seguito della violazione del comando e può essere in forma specifica o per equivalente: con la sanzione diretta in forma specifica, che può costituire la conseguenza della lesione di interessi patrimoniali o non patrimoniali ed era molto rara nel diritto romano, si ripristina in natura la situazione esistente prima della violazione della norma o si realizzano gli effetti previsti dalle parti di un contratto e non attuati volontariamente. Nel periodo classico la sanzione in forma specifica era incompatibile con il fatto che la condanna del convenuto poteva avere per oggetto solo una somma di denaro. Invece, nel periodo postclassico il proprietario privato illegittimamente del possesso della propria cosa, a seguito della condanna del possessore, lo poteva riottenere grazie all’intervento degli organi della comunità.

Nel caso della sanzione diretta per equivalente, che può conseguire solo alla lesione di interessi patrimoniali ed era il tipo normale di sanzione diretta nel diritto romano [oltre, capitolo quinto, § 14], il soggetto che ha violato la norma è tenuto a corrispondere al soggetto leso dalla violazione di essa una somma pari al valore dell’interesse leso, cioè l’equivalente pecuniario, allo scopo di ripristinare tale interesse o di soddisfarlo: per esempio, chi non ha adempiuto all’obbligo assunto con un contratto è condannato al risarcimento del danno. Invece, la sanzione

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indiretta, che prescinde dallo scopo di ripristinare l’interesse leso o di soddisfarlo, consiste in una pena comminata a chi abbia violato la norma ed era prevista, nel diritto romano, per gli atti illeciti: tale pena (poena) poteva colpire la persona dell’offensore o il suo patrimonio, avendo in quest’ultimo caso per oggetto una somma di denaro [oltre, capitolo settimo, § 21]. Secondo alcune norme vigenti a partire dalla metà del V secolo a.C., la persona che rubava una cosa altrui di notte (fur nocturnus ) poteva essere uccisa dal derubato, mentre quella che rompeva a un’altra persona libera un osso (os fractum ) doveva pagare all’offeso una pena di trecento assi (l’asse era l’unità monetaria allora in uso) [oltre, capitolo settimo, §§ 22 e 23].

Nelle norme di qualificazione [sopra, in questo §, B] la sanzione che assicura la coercibilità della norma consiste nella irretrattabilità e definitività della qualificazione attribuita. Per esempio, secondo una norma molto risalente, il figlio di madre schiava era a sua volta schiavo, senza che fosse possibile ritenere diversamente, e veniva trattato dal diritto come tale [oltre, capitolo terzo, § 6, B]. Il tempio dedicato e consacrato a una divinità su un terreno pubblico era una cosa sacra (res sacra), rientrante fra le cose di diritto divino (res divini iuris), essendo sottoposto al relativo regime giuridico [oltre, capitolo sesto, § 2, C].

Infine, nelle norme tecniche [sopra, in questo §, B], la sanzione per la mancata osservanza della condotta richiesta dalla norma, cioè per l’inadempimento dell’onere, consiste nell’impossibilità di raggiungere lo scopo prefissato. Se un fondo italico (rientrante, come tale, nella categoria delle res mancipi ) non era trasferito per mezzo degli atti formali e solenni prescritti dall’ordinamento a tal fine (mancipatio e in iure cessio ), ma con una semplice consegna informale (traditio ) non se ne trasferiva la proprietà [oltre, capitolo sesto, § 4, B, e § 12]. Se una persona voleva intentare un’azione proponibile solo entro un certo termine dopo la scadenza di esso, l’azione non gli era concessa o, se gli era comunque concessa, il convenuto veniva assolto.

Quanto osservato in merito alla struttura della norma giuridica vale in linea di massima anche per l’esperienza giuridica romana, ma va segnalato che, almeno in un caso, risulta essere stato considerato come norma giuridica anche un comando generale e astratto non coercibile, cioè privo di sanzione, essendo probabilmente decisiva l’introduzione di esso per legge, cioè da parte di un organo dello stato (i comitia ) competente all’emanazione di norme giuridiche nel rispetto del relativo procedimento.

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Capitolo Secondo

La legge che introduceva norme non assistite da sanzione era denominata nel tardo periodo classico lex imperfecta [oltre, in questo capitolo, § 6, C]. L’unico esempio certo di leggi di tal genere è la lex Cincia de donis et muneribus , che introduceva una norma proibitiva non prevedendo alcuna sanzione per la violazione del divieto: in tal caso, la coercibilità come carattere indefettibile della norma venne assicurata dal pretore, magistrato che sovraintendeva all’amministrazione della giustizia [oltre, capitolo ottavo, § 16].

D) Dal punto di vista terminologico, va precisato che la norma giuridica può essere sancita da una struttura unitaria di discorso, chiamata disposizione, oppure è ricavabile da più disposizioni attraverso il coordinamento di esse. Inoltre, la norma giuridica non coincide con la legge, la quale è solo uno dei fatti che possono creare norme giuridiche e può contenere una o, più frequentemente, varie disposizioni espressive di una o più norme giuridiche. Di solito, la legge è divisa in articoli (in latino capita, singolare caput), che contengono le disposizioni, e questi, oggi, possono essere divisi in commi. Il codice in senso moderno è una legge che disciplina una intera branca del diritto e generalmente contiene un elevato numero di articoli, talora divisi in commi. Gli articoli, poi, possono essere raggruppati in libri, titoli, capi, sezioni, come avviene nel codice civile vigente.

2. Norme giuridiche, norme morali, norme a rilevanza esclusivamente sociale, norme religiose A) Le norme giuridiche appartengono al più ampio insieme delle norme o regole di condotta, che comprende anche norme o regole di altra natura (morali, sociali, religiose) e, pertanto, si deve affrontare il problema dei caratteri che distinguono le norme giuridiche rispetto alle altre norme. B) La funzione della norma giuridica la distingue dalla norma morale. Mentre la norma giuridica serve a risolvere direttamente o indirettamente un conflitto di interessi intersoggettivo stabilendo a favore di un soggetto un potere e a carico di un altro un corrispondente dovere o attribuendo una certa qualifica a una persona, a una cosa, a una situazione o fissando i presupposti per raggiungere un determinato risultato [sopra, in questo capitolo, § 1, B], la norma morale si limita a valutare in senso positivo o negativo (secondo la contrapposizione valore/disvalore) una condotta individuale, in sé considerata o tenuta in relazione ad altri, alla luce di un sistema di valori, non risolvendo alcun conflitto di interessi. Di solito, la norma morale si differenzia da quella giuridica anche sul piano della struttura, in quanto, mentre quest’ultima è coercibile, cioè caratterizzata da una sanzione per il caso di inosservanza [sopra, in questo capitolo, § 1, C], la norma morale non è coercibile, mancando la sanzione.

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Tuttavia, a Roma nel periodo preclassico, vi erano casi nei quali alla violazione di una norma morale seguiva una sanzione indiretta rilevante sul piano giuridico (essendovi dunque una struttura in definitiva coincidente con quella della norma giuridica). Si trattava del controllo esercitato dai censori (censores) sul rispetto dei buoni costumi da parte dei consociati (cura morum ): poiché tali magistrati, in caso di trasgressione delle norme morali da parte dei privati, potevano emanare, all’esito di un iudicium de moribus , la nota censoria , la quale comportava l’ignominia , con conseguenze pregiudizievoli per il trasgressore sul piano del diritto pubblico (condizionandone la posizione nelle assemblee popolari e la possibilità di rivestire la carica senatoria), si evidenziava, dal punto di vista della struttura, un fenomeno caratteristico dell’operatività della norma giuridica, essendovi una sanzione indiretta e, dunque, la coercibilità. Pertanto, in questo caso la distinzione fra norma morale e norma giuridica era individuabile soltanto sul versante della funzione, in quanto la norma morale, a differenza di quella giuridica, non disciplinava un conflitto di interessi attraverso l’attribuzione di un potere a una persona e di un dovere a un’altra né aveva le altre possibili funzioni delle norme giuridiche (attribuzione di una qualifica e subordinazione degli effetti voluti all’adempimento di un onere).

Va segnalato, inoltre, che talora una medesima situazione può essere oggetto, allo stesso tempo, di una norma morale e di una norma giuridica e, anzi, spesso le più gravi violazioni di una norma morale sono anche oggetto di una norma giuridica (si pensi all’omicidio o al furto): ciò nonostante, la norma morale e quella giuridica rimangono distinte dal punto di vista della funzione e della struttura secondo quanto osservato, ponendosi su piani paralleli e non comunicanti. Quando una stessa situazione sia oggetto allo stesso tempo di una norma giuridica e di una norma morale, dal punto di vista del diritto non interessa se la valutazione sottesa alla norma giuridica e quella sottesa alla norma morale siano di segno uguale (come nei due casi esemplificati) o di segno opposto. Si deve anche osservare che alle volte una situazione oggetto fino a un certo momento solo di una norma morale viene recepita in una norma giuridica quando l’osservanza della prima diventa poco costante a causa di una crisi di valori nella società o dell’allentamento del controllo sociale. Esempi di quest’ultimo caso si evidenziano in riferimento ai limiti dei poteri del proprietario sui propri schiavi e della patria potestas sui figli e sugli altri discendenti in potestà [oltre, capitolo terzo, § 3, B, e § 15, B].

C) Le norme giuridiche vanno anche distinte rispetto alle norme a rilevanza esclusivamente sociale, tra le quali rientrano le norme di cortesia e buona educazione. Poiché la norma a rilevanza esclusivamente sociale, diversamente da quella morale, riguarda i rapporti intersoggettivi come quella giuridica, la differenza fra la prima e la seconda riguarda soltanto la struttura, non la funzione. Infatti, mentre la norma giuridica è coercibile in quanto prevede una sanzione, in caso di viola-

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zione della norma a rilevanza esclusivamente sociale sono possibili solo a forme di autotutela non assistite dal controllo della comunità (e dunque non giuridiche). Norma sociale o di buona educazione è quella che impone di salutare il vicino di casa. Se quest’ultimo non mi saluta non scatterà alcuna sanzione, ma sarò giustificato se non lo saluterò più neppure io. Va, inoltre, segnalato che vi sono casi in cui la situazione considerata da una norma a rilevanza esclusivamente sociale è recepita da una norma giuridica che vi ricollega delle conseguenze sul piano del diritto. Per esempio, nell’attuale diritto penale, la valutazione, formulata alla luce di una norma a rilevanza esclusivamente sociale, di ingiustizia di una condotta altrui può comportare l’applicabilità dell’attenuante comune di cui all’art. 62, comma 2, cod. pen., secondo il quale attenua il reato la circostanza di avere reagito in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui.

D) Più complessa è la distinzione fra norma giuridica e norma religiosa, perché quest’ultima si articola in due tipologie. La prima è costituita dalle norme attinenti alla dimensione etico-religiosa, ossia da quelle norme religiose che valutano la condotta individuale conformemente alla morale di una certa religione. Riguardo a tali norme si può richiamare sul piano teorico quanto osservato a proposito della distinzione funzionale e strutturale fra norma giuridica e norma morale, dato che la norma religiosa di stampo morale ha una solo una funzione valutativa di una condotta individuale, non disciplinando un conflitto di interessi né direttamente né indirettamente, e di solito non ha il carattere strutturale della coercibilità, non essendo prevista una sanzione per il caso in cui essa sia violata. Tuttavia, nel quadro di religioni caratterizzate da una forte struttura organizzativa invasiva della sfera individuale, anche la norma etico-religiosa, pur non avendo la funzione di una norma giuridica e, dunque, non essendo tale, è talora coercibile dall’organizzazione: si pensi, per le infrazioni più gravi, alla espulsione della persona che ha violato la norma etico-religiosa dalla comunità dei fedeli (nelle chiese cristiane, la scomunica, ma un fenomeno analogo è contemplato anche nell’ebraismo).

Dato che il fenomeno religioso non ha solo un carattere intimistico, ma è dotato anche di una rilevanza sociale, v’è anche una seconda tipologia di norme religiose, cui appartengono quelle che disciplinano l’organizzazione sociale dei credenti, i quali, a seconda dei vari modelli inveratisi nella storia, possono coincidere con tutti i componenti della comunità, come avveniva nella città-stato antica (‘polis’ in greco, civitas in latino) per la religione pagana, o solo con una parte di essi facenti capo a un organismo intermedio fra l’individuo e la comunità, come avveniva in un primo momento e avviene oggi per il cristianesimo (nel quale i credenti appartengono alla chiesa o alle singole chiese). Le norme religiose riguardanti l’organizzazione dei credenti possono avere anche la funzione di risolvere conflitti interindividuali e la violazione di esse può comportare l’applicazio-

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ne di una sanzione inflitta nell’ambito dell’organismo interessato (lo stato per la religione pagana e le chiese per quella cristiana), essendo, dunque, in questo caso vere e proprie norme giuridiche. A Roma, dove il paganesimo era una religione di stato e la comunità dei credenti coincideva con quella dei cittadini, le norme organizzative della religione pagana erano norme giuridiche dello stato, che le emanava e ne garantiva l’osservanza. L’esperienza romana, tuttavia, presentava aspetti particolari, alcuni dei quali non si inquadrano agevolmente nella cornice teorica appena sopra delineata. Innanzi tutto, nel periodo arcaico, durante la monarchia, anche al di fuori delle norme relative all’organizzazione del culto, la separazione fra la sfera civile e quella religiosa non era avvertita in modo netto e, di conseguenza, non è sempre possibile distinguere le norme religiose da quelle giuridiche. Infatti, al re spettava il compito di imporre ai consociati il rispetto delle norme religiose, riguardanti non solo l’organizzazione, ma anche i rapporti dei fedeli fra loro, con i sacerdoti e con le divinità, allo scopo di conservare una condizione di armonia fra la città e i suoi dei, nella quale questi ultimi non fossero adirati con essa (pax deorum ), e se tale condizione era rotta doveva essere ricostituita, a seconda dei casi abbandonando il trasgressore e/o i suoi beni alla divinità offesa (sacertas ), giustiziandolo (deo necari ) o imponendogli sacrifici espiatori (piacula ). Dal punto di vista dell’osservatore moderno, le previsioni aventi per oggetto attività dirette a ricostituire l’armonia fra la comunità cittadina e la divinità offesa sono interpretabili come vere e proprie sanzioni, essendo possibile pertanto affermare che anche le norme della morale religiosa riguardanti condotte tenute nei rapporti fra fedeli (cioè fra i cittadini, tutti partecipi del culto della città) erano coercibili. Più specificamente, condotte che nel periodo preclassico avrebbero assunto una rilevanza solo laica erano in quello arcaico oggetto anche di una valutazione religiosa e, inversamente, condotte che nella tarda repubblica avrebbero avuto una portata soltanto sul piano religioso rilevavano anche sul piano del generale ordinamento della città. Nella prima direzione (dalla valutazione giuridico-religiosa a quella solo laica), per limitarsi al versante del diritto privato, si può osservare che condotte attinenti nel periodo preclassico e classico solo alla sfera laica erano anticamente sanzionate con la sacertas (sopra, in questo §), rilevante sul piano religioso, la quale comportava che la persona era privata di ogni protezione giuridica, potendo anche essere impunemente uccisa. Per esempio, una legge di Numa Pompilio, della quale ci informa lo storico Dionigi d’Alicarnasso, prevedeva la consecratio a Iuppiter Terminus di colui che avesse spostato o rimosso i confini di un fondo (Dion. 2, 74). Verso la fine del periodo preclassico era proponibile in casi di tal genere un’azione denominata actio finium regundorum , la cui portata era del tutto attinente alla sfera laica [oltre, capitolo sesto, § 13, H]. Nella seconda direzione (dalla valutazione giuridico-religiosa a quella solo religiosa), va ricordata l’antica rilevanza del iusiurandum , che sarebbe stato nella tarda

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repubblica oggetto solo di una valutazione religiosa, in alcune applicazioni che incidevano sul piano del rapporto fra i consociati. Così, secondo una ipotesi verisimile, il giuramento promissorio era utilizzato per rendere vincolante la promessa solenne di una certa prestazione (sponsio ) [oltre, capitolo settimo, § 11, C]. Inoltre, il giuramento assertorio circa la verità di un fatto era utilizzato nel processo per suscitare l’esigenza di un accertamento di una situazione controversa (legis actio sacramento , dove in origine sacramentum indicava il giuramento): entrambi i contendenti asseveravano con giuramento le proprie contrapposte affermazioni e, pertanto, si doveva accertare quale giuramento fosse giusto e quale fosse uno spergiuro, affinché, con un sacrificio agli dei, si potesse ricostituire la pax deorum [oltre, capitolo quinto, §§ 3, B, e 5, A e B].

Forse già fin dall’epoca della monarchia etrusca e certamente dall’inizio dell’epoca repubblicana, tuttavia, emerse l’idea di una distinzione fra norme attinenti alla sfera laica e norme attinenti alla sfera religiosa. Da questo punto di vista, rileva la distinzione, attestata per la fine del III secolo a.C., ma probabilmente più risalente, fra ius , termine con il quale si definisce l’insieme delle norme giuridiche, e fas termine con il quale si definisce l’insieme delle norme attinenti alla sfera della religione. Ciò non significa che le norme religiose non abbiano a lungo continuato a rilevare sul versante del diritto della città. Ancora nell’epoca preclassica, nel procedimento legislativo assembleare volto all’approvazione di una proposta di legge da parte dei comitia , ossia delle assemblee popolari comprendenti tutto il popolo, per emanare validamente una legge dovevano essere rispettate anche le prescrizioni riconducibili al fas.

Da una prospettiva diversa, sul versante della quale è evidente il carattere giuridico di certe norme attinenti alla religione, può darsi che già nella fase finale del periodo arcaico si distinguesse fra ius humanum , nel quale rientravano le norme giuridiche attinenti alla sola sfera laica, e ius sacrum o divinum , comprendente le norme giuridiche che riguardavano l’organizzazione della religione e il rapporto con le divinità [oltre, in questo capitolo, § 19, D]. In ogni caso, alla fine del periodo preclassico, la rilevanza dei fenomeni religiosi sul piano dell’ordinamento generale della città era ormai limitata nei rapporti fra privati. Per esempio, il giuramento conservava una portata circoscritta in ipotesi tutto sommato marginali: quello assertorio era utilizzato per decidere una controversia giudiziale attraverso l’equiparazione del fatto giurato al fatto accertato (iusiurandum in iure ) [oltre, capitolo quinto, § 11, F] e per stimare il valore di una cosa controversa (iusiurandum in litem ) [oltre, capitolo quinto, § 9, E], e quello promissorio era prestato dallo schiavo, che non poteva assumere obblighi sul piano giuridico, appena prima di essere liberato (dunque pri-

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ma di diventare liberto), per impegnarsi sul piano religioso a effettuare prestazioni a favore del soggetto che lo aveva liberato, cioè del patrono (promissio iurata liberti ) [oltre, capitolo settimo, § 11, G]. In altri casi, l’incidenza della religione riguardava la condizione privatistica di determinate persone, come le sacerdotesse di Vesta (Vestales) [oltre, capitolo terzo, §§ 18, A; 27, B; 29, C; capitolo ottavo, § 8] e alcuni sacerdoti (i Flamines ) [oltre, capitolo terzo, § 19, E], e la condizione di determinate cose, come avveniva per quelle destinate al culto e consacrate (res sacrae ) e per i fondi dove erano seppelliti cadaveri (res religiosae , sacre agli dei Mani, ossia agli spiriti dei defunti), che erano incommerciabili [oltre, capitolo sesto, § 2, C].

Con il diffondersi del cristianesimo, la comunità dei fedeli cessò di coincidere con quella dei cittadini, ponendosi come realtà intermedia fra questi e lo stato. Fino all’editto di Milano del 313 d.C., che stabilì la liceità della religione cristiana al pari di ogni altra religione praticata a Roma, si evidenziarono momenti di accesa conflittualità fra l’impero e i cristiani (sfociati pure in alcune persecuzioni ai danni di questi ultimi) e, quindi, anche tra le norme giuridiche statali e le norme religiose, non più riferibili allo stato. Successivamente, con il progredire del tardo antico, quando la religione cristiana divenne religione di stato (380 d.C.), vi furono molti tentativi degli imperatori di regolamentare aspetti della nuova religione (cesaropapismo) e, inversamente, la chiesa cominciò a volere disciplinare ogni aspetto della vita umana, anche in ambiti estranei alla religione, prevedendo sanzioni a carico dei trasgressori, spesso con la intolleranza che caratterizza le dottrine totalitarie.

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Sezione seconda

L’ordinamento giuridico e le fonti del diritto 3. Nozione di ordinamento giuridico e fonti del diritto A) L’ordinamento giuridico è l’insieme di tutte le norme giuridiche vigenti in un determinato contesto sociale, coincidendo con il diritto oggettivo riferito a tale contesto. Secondo la teoria statualista, un tempo molto diffusa, l’unico ordinamento giuridico è quello dello stato, in quanto solo in tale ambito sarebbe riscontrabile quella coercibilità che è tipico carattere di struttura della norma giuridica. Invece, secondo la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, oltre all’ordinamento giuridico statuale vi sarebbero altri ordinamenti giuridici, cioè insiemi di norme giuridiche vigenti nell’ambito di organismi intermedi fra l’individuo e lo stato (come comunità religiose, associazioni private), applicabili a coloro che appartengono a tali organismi e coercibili nell’ambito di essi. Proprio la coercibilità delle norme, che si evidenzia quando l’ordinamento intermedio preveda sanzioni per la violazione di esse e abbia la forza di applicarle, costituisce il sintomo dell’esistenza di un ordinamento giuridico, in quanto questo può esistere solo se dotato del carattere dell’effettività, cioè quando sia in grado di imporre attraverso i propri organi il rispetto delle norme che a esso fanno capo. L’effettività è da valutare all’interno dell’ordinamento giuridico di riferimento (e non sul piano dell’ordinamento statuale): pertanto, sebbene il più delle volte gli ordinamenti giuridici relativi a organismi intermedi fra il cittadino e lo stato siano riconosciuti e tutelati dall’ordinamento statuale, tale riconoscimento e tale tutela non costituiscono presupposti della loro esistenza, per la quale è sufficiente la loro effettività. Ne discende che anche le norme emanate da organismi che lo stato non riconosce e non tutela possono costituire gli ordinamenti giuridici di tali organismi, purché sussista il carattere dell’effettività, essendo in grado i rispettivi organi di imporre agli associati il rispetto delle norme interne. Per esempio, a Roma, prima che la religione cristiana fosse ufficialmente ammessa, alla luce della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici si dovrebbe riconoscere nella chiesa cristiana, che emanava norme per i fedeli e le faceva osservare, un ordinamento giuridico. In generale va segnalato che non esclude l’esistenza di un ordinamento giuridico il fatto che sia illecito per l’ordinamento statuale: perciò, anche un’associazione mafiosa può costituire un ordinamento giuridico, quando, come normalmente accade, le norme che essa emana siano effettive e, cioè, alla loro violazione conseguano sanzioni in concreto applicate gli associati.

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Malgrado la contrapposizione fra la teoria statualista e la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici si sia storicamente ambientata nel quadro della contrapposizione fra stato e organismi intermedi, va segnalata anche l’esistenza di ordinamenti sovranazionali. A seconda dei casi, per la loro individuazione rilevano il riconoscimento degli stati, versati in accordi internazionali, o il criterio dell’effettività, connessa alla concreta coercibilità delle relative norme, necessaria affinché esse abbiano il carattere della giuridicità. In riferimento all’esperienza romana, si evidenziavano sia trattati internazionali (foedera), come anticamente per le comunità appartenenti al nomen Latinum , sia l’idea della vigenza di norme sovranazionali a prescindere da essi, per le quali era competente un collegio sacerdotale, i Fetiales . Per quanto riguarda la coercibilità di tali norme, a parte le conseguenze della loro violazione sul piano religioso, che potrebbero avere costituito l’aspetto più importante agli occhi dei contemporanei, ci si potrebbe domandare se la guerra possa essere stata considerata una sanzione (bellum iustum ).

B) Secondo la visuale moderna, le norme giuridiche, che hanno, come si è visto, i caratteri della generalità e dell’astrattezza [sopra, in questo capitolo, § 1], sono create da determinati fatti storici rilevanti sul piano giuridico, denominati fonti del diritto oggettivo o fatti di produzione normativa. Nella letteratura romana giuridica e non giuridica non esistono vere e proprie elencazioni comprendenti solo fonti del diritto intese in tal modo, cioè solo fatti idonei a introdurre nell’ordinamento norme generali e astratte. Tuttavia, sia nelle opere retoriche (non giuridiche), riguardanti la tecnica dell’argomentazione, nella quale erano specializzati gli oratori, cioè gli avvocati che difendevano le parti nei processi, sia nelle opere giuridiche, sono contenute alcune elencazioni che, descrivendo da quali fatti promanava il diritto nel suo complesso o il diritto civile, accanto a fatti che non producevano norme generali e astratte e non sono dunque riconducibili al concetto di fonte del diritto in senso moderno, includono anche la menzione di alcune fonti del diritto, come tali idonee a produrre norme generali e astratte. Nelle elencazioni delle partes iuris contenute in opere retoriche (segnatamente nell’anonima Rethorica ad Herennium e nei Topica di Cicerone), accanto a vere e proprie fonti del diritto idonee a introdurre norme generali e astratte, sono compresi fatti che davano luogo a comandi specifici (riferiti a singole persone) e concreti (relativi a fatti storici presi nella loro individualità) e anche fatti che non introducevano comandi, né generali e astratti né specifici e concreti. La eterogeneità dei fenomeni elencati si spiega con la funzione di tali elencazioni, consistente nell’indicare dove l’oratore, cioè l’avvocato, potesse rinvenire argomenti giuridici idonei a convincere il giudice della fondatezza della posizione del proprio cliente, a prescindere dal fatto che si trattasse o meno di norme giuridiche.

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In Reth. Her. 2, 19, come parti del diritto (partes iuris), sono menzionate la legge (lex) e la consuetudine (consuetudo), che producono norme giuridiche, caratterizzate dalla generalità e dall’astrattezza, ma accanto a esse figurano, da un lato, la sentenza (iudicatum) e l’accordo fra privati (pactum), che producevano solo comandi vincolanti per singole persone (nella sentenza le parti del processo e nell’accordo i contraenti: dunque comandi non generali), e concreti (non astratti), e, dall’altro, il buono e l’equo (bonum et aequum) e la natura (natura), che non producevano né norme giuridiche né comandi vincolanti per singoli soggetti, ma potevano rilevare sul piano giuridico solo in quanto una norma giuridica vi ricollegasse effetti: in questo caso, però, la fonte del diritto era quella che aveva introdotto la norma, non le nozioni astratte considerate. Secondo un modello abbastanza simile, in Cic. top. 28, come parti del diritto civile (partes iuris civilis), Cicerone, accanto alla legge (lex), agli editti dei magistrati (edicta magistratuum) e al costume (mos), che producevano norme giuridiche, menzionava le deliberazioni del senato (senatus consulta), che alla sua epoca (I secolo a.C.) non introducevano norme giuridiche, ma si limitavano a demandare al pretore di introdurre una certa regolamentazione nell’esercizio della sua attività di indirizzo dell’amministrazione della giustizia, l’autorità (ossia il parere autorevole) dei giuristi (iuris peritorum auctoritas), i quali individuavano soluzioni relative a casi concreti (dunque non norme generali e astratte) ricavandone poi, però, delle massime (criteri) per la soluzione di altri casi, le sentenze (res iudicatae), che creavano comandi concreti per le parti del processo, e l’equità (aequitas), che non creava né norme né comandi concreti (pur ispirando gli editti dei magistrati e l’elaborazione dei giuristi).

C) Le elencazioni contenute in opere giuridiche, che si rinvengono in un passo delle Istituzioni di Gaio (Gai 1, 2) e in un passo delle Definitiones di Papiniano (D. 1, 1, 7 pr.-1), risalgono al II secolo d.C. e sono rispettivamente riferite alle parti da cui è composto il diritto romano o ai fatti (da intendere, a seconda dei casi, come procedimenti o come soggetti che creano diritto) da cui esso proviene o che lo hanno introdotto. Gaio impiega la terminologia constant iura populi Romani ex … (sebbene iura sia di numero plurale, indica l’ordinamento romano nel suo complesso o, se si vuole conservare il plurale nella traduzione, le norme giuridiche). Papiniano afferma che il ius civile venit da determinati fatti e che i pretori introduxerint il ius praetorium [sulla distinzione fra ius civile e ius praetorium, cfr. oltre, in questo capitolo, § 18, A-E].

Esse annoverano accanto a fatti produttivi di norme giuridiche, per definizione generali e astratte, cioè a vere e proprie fonti del diritto nell’accezione moderna, fatti produttivi di soluzioni giuridiche relative a casi concreti, dalle quali i giuristi potevano trarre massime (criteri) per la soluzione di altri casi. Nella elencazione contenuta nelle Institutiones di Gaio sono fonti del diritto, producendo norme ge-

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nerali e astratte, le leggi assembleari (leges), i plebisciti emanati dalle assemblee della plebe, cioè dalla parte della popolazione non appartenente all’antico patriziato (plebiscita), i senatoconsulti, cioè le delibere del senato (senatus consulta), che alla sua epoca erano anch’essi divenuti fonte di norme generali e astratte, gli editti dei magistrati (edicta magistratuum) che avevano il potere di emanare editti. Potevano, invece, avere per oggetto sia norme generali e astratte sia soluzioni di singoli casi le costituzioni imperiali (constitutiones principum), a seconda che si trattasse di costituzioni generali o particolari, mentre i responsi dei giuristi (responsa prudentium) contenevano soluzioni relative a singoli casi controversi o dubbi. Dall’analisi delle costituzioni imperiali particolari e delle soluzioni dei giuristi relative a singoli casi, questi ultimi potevano ricavare delle massime (cioè criteri) di decisione per altri casi. Anche nella elencazione di Papiniano, accanto a vere e proprie fonti giuridiche (creative di norme generali e astratte), come leggi (leges), plebisciti (plebis scita), senatoconsulti (senatus consulta), considerate come fonti del ius civile , e l’editto del pretore, fonte del diritto pretorio (ius praetorium), detto anche onorario (ius honorarium) [per la distinzione fra ius civile e ius praetorium o honorarium, cfr. oltre, in questo capitolo, § 18, A-E], erano ricordate l’autorità (ossia il parere autorevole) dei giuristi (auctoritas prudentium), che introduceva soluzioni relative a casi concreti dalle quali potevano essere ricavate massime di decisione per altri casi, e le sentenze del tribunale dell’imperatore (decreta principis), che, in quanto sentenze, risolvevano specifiche controversie, non contenendo norme generali e astratte, ma offrivano anch’esse materiale per l’elaborazione, da parte dei giuristi, di massime utilizzabili in altri casi. Pure il contenuto di tali elencazioni si spiega con la loro funzione pratica, che era quella di individuare tutti i fatti dai quali erano introdotti criteri giuridici per la risoluzione dei conflitti intersoggettivi: alla luce del parametro funzionale, ben si comprende come a fatti idonei a creare norme giuridiche, come tali caratterizzate dalla generalità e dall’astrattezza, e perciò riconducibili al concetto moderno di fonti del diritto oggettivo, potessero essere affiancati quei fatti che introducevano soluzioni di singoli casi concreti, dalle quali erano ricavabili, attraverso l’elaborazione dei giuristi, massime (criteri) per la soluzione di altri casi [su tale compito dei giuristi, cfr. oltre, in questo capitolo, § 10]. Una terza elencazione, risalente a Pomponio, include tra i fatti dai quali scaturisce il diritto la lex , il proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit , le legis actiones , il plebiscitum , l’edictum magistratuum , il senatus consultum , la principalis constitutio (D. 1, 2, 2, 12). L’inclusione delle legis actiones tra i fatti da cui scaturisce il diritto, che costituisce una peculiarità del giurista, dipende dall’approccio storicizzato di quest’ultimo, il quale, muovendo dalla legge delle XII tavole, vi ricollegava da un lato il diritto di

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creazione giurisprudenziale e dall’altro le legis actiones, aggiungendo poi le fonti del diritto emerse successivamente. In realtà, le legis actiones non introducevano norme giuridiche, ma erano il mezzo processuale attraverso il quale i cittadini tutelavano i loro diritti, riconosciuti da norme giuridiche introdotte dalle altre fonti.

D) La riscontrata coesistenza, nelle elencazioni delle parti del diritto o dei fatti da cui promana il diritto contenute in opere giuridiche, di vere e proprie fonti del diritto oggettivo (come tali idonee a introdurre comandi generali e astratti) e di fonti di soluzioni riferite a casi concreti, ancorché generalizzabili per opera dei giuristi, è connessa ad alcune caratteristiche del sistema giuridico romano che lo differenziano rispetto ai moderni sistemi giuridici dell’Europa continentale, come il nostro, nei quali si è formata la teoria delle fonti del diritto oggettivo. Mentre questi ultimi sono ispirati al primato della legge, fonte di norme giuridiche, cioè di comandi generali e astratti, che costituisce il modello secondo il quale è stato elaborato il concetto di fonte del diritto, nel diritto privato romano è riscontrabile una limitata importanza della legge, che, pur esistendo fin dal periodo arcaico, era solo uno dei fatti che fornivano criteri di risoluzione dei conflitti intersoggettivi, esistendo fin da epoca risalente la consapevolezza che questi ultimi potevano trovare soluzione anche e soprattutto al di fuori delle previsioni legislative. Tale differenza è collegata più in generale alla diversità fra il sistema aperto che caratterizzava l’esperienza giuridica romana, in cui non era ritenuta necessaria una cornice legislativa entro la quale inquadrare tutta la fenomenologia giuridica, e i sistemi chiusi che connotano le moderne esperienze giuridiche continentali e quelle a esse ispirate, dove la legge costituisce la cornice invalicabile entro cui si inquadra l’intera fenomenologia giuridica [sopra, capitolo primo, § 2, E].

In tale quadro, i giuristi romani, per suggerire ai consociati le regole da seguire e ai giudici il diritto applicabile, adoperavano un metodo casistico (o topico), cioè non si limitavano a trarre le soluzioni giuridiche delle questioni controverse o dubbie per via deduttiva da norme generali e astratte, come oggi fanno gli operatori del diritto, ma individuavano i criteri di soluzione dei casi sottoposti alla loro attenzione e delle questioni pratiche che si prospettavano in base alle caratteristiche socio-economiche del rapporto. Per fare ciò, essi prendevano in considerazione un ampio spettro di parametri [oltre, in questo capitolo, § 10], tra i quali i fatti enumerati nelle elencazioni contenute in opere giuridiche sopra esaminate, non tutti idonei, come si è visto, a introdurre comandi generali e astratti [sopra, in questo §, E].

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4. Le fonti del diritto nel periodo monarchico e nella prima fase del periodo repubblicano: mores , leges regiae , prime leggi comiziali A) A differenza di quanto accade negli ordinamenti moderni, a Roma il diritto precede la legge e in larga parte non è introdotto da essa. Fino alla legge delle XII tavole, risalente alla metà del V secolo a.C., l’esperienza giuridica romana fu basata soprattutto sui mores , riferiti a non meglio precisabili antenati nell’espressione mores maiorum . Il loro nucleo più antico risaliva alle origini della civitas e, con ogni probabilità, per alcuni di essi, addirittura all’epoca precivica, dove potrebbero avere riguardato i singoli aggregati umani poi venuti a fare parte della città, ed era costituito da norme giuridiche che disciplinavano gli aspetti fondamentali della vita della società arcaica, rispondendo ad elementari esigenze di ordine. Tra le più antiche norme introdotte dai mores erano, per esempio, quelle concernenti il potere assoluto del paterfamilias sui figli nati nel matrimonio (denominato patria potestas ), la sanzione prevista per il parricidio (parricidium), l’interdizione del prodigo (prodigus), il lutto vedovile, relativamente alle quali i giuristi espressamente li richiamano. Ma allo stesso gruppo di antichissime norme appartenevano quelle che nell’epoca più risalente disciplinavano il matrimonio e i rapporti di parentela, in linea con la circostanza che gli organismi familiari costituivano la struttura portante della società romana e della primitiva economia, la tutela della proprietà privata, gli atti illeciti.

I mores appartenenti a questo nucleo più antico integravano un fenomeno consuetudinario, ma con caratteristiche proprie, collegate alla società primitiva in cui si ambientavano. Mentre il concetto moderno di consuetudine, che si ricollega a quello romano classico di consuetudo [oltre, in questo capitolo, § 11], è basato sull’elemento oggettivo rappresentato dalla ripetizione costante di un comportamento (usus ) e su quello soggettivo consistente nella convinzione che questo comportamento sia doveroso sul piano giuridico o almeno sociale (opinio iuris vel necessitatis ), il fondamento dei mores si collocava a monte rispetto alla costanza dei comportamenti e alla convinzione della doverosità, in un contesto nel quale erano compenetrate la dimensione giuridica e quella religiosa. Sul rapporto fra norma giuridica e norma religiosa nel periodo arcaico, cfr. sopra, in questo capitolo, § 2, D. Va, però, precisato che le norme introdotte dai mores non erano direttamente riconducibili alla volontà degli dei, i quali, secondo l’immaginario romano, non stabilivano norme giuridiche e non le dettavano agli uomini (inesistenza di teofanie normative), né decidevano la ragione e il torto (inesistenza sia di

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procedimenti ordalici, come duelli fra i litiganti e prove di sopravvivenza, sia di decisioni in base ai segni divini, cioè agli auspicia ).

Tale fondamento era individuabile in una concezione giuridico-religiosa immanente, cioè calata nella realtà del mondo e con essa compenetrata (dunque non trascendente, cioè non posta al di là della realtà), di modo che i più antichi mores, rispondendo a esigenze basilari di ordine, forse considerate dai contemporanei come parte di un più ampio ordine cosmico, vincolavano non solo gli uomini, ma anche le divinità, disciplinando sia i rapporti fra gli uomini che quelli tra questi e gli dei. Da una prospettiva non incompatibile con quella illustrata, è stato ipotizzato che il fondamento dei mores fosse individuato nella natura delle cose (in rerum natura), cioè nella struttura sociale ed economica dei rapporti della Roma arcaica (e forse già delle realtà preciviche), impregnata della dimensione religiosa. In tale contesto, la ripetizione costante di determinati comportamenti assistita dalla convinzione della loro doverosità non era un fatto che creava la norma, come la moderna consuetudine, ma il modo in cui la norma fondata sulla concezione giuridico-religiosa immanente di cui si è detto e ricavata dalla struttura stessa del rapporto si palesava nella società. I mores erano, dunque, espressione di una sorta di diritto naturale immanente nella realtà ed erano connessi alla struttura sociale incentrata intorno alla famiglia basata sul legittimo matrimonio e dominata dai poteri del padre, che si esprimeva in una economia di tipo pastorale e agricolo, nella quale i pochi atti giuridici dei privati dovevano essere immediatamente riconoscibili o in quanto posti in essere nel rispetto di forme rigorose o perché trasferivano materialmente una cosa. Tuttavia, tali costumi non erano immutabili, essendo soggetti a variazioni coerenti con il modificarsi del quadro complessivo della società e dell’economia.

L’individuazione e la selezione dei mores, che introducevano norme direttamente efficaci nei confronti dei cittadini, appartenenti al nucleo più antico del diritto civile (ius civile) [oltre, in questo capitolo, § 18, A], spettava al collegio sacerdotale dei pontefici (pontifices), i quali, oltre ad avere competenze religiose specifiche, furono i più antichi giuristi romani. I pontefici diedero ai mores formulazioni verbali adeguate e agevolmente memorizzabili, forse versate poi per iscritto e conservate nei loro archivi. Alla metà del V secolo a.C., molti dei mores preesistenti ritenuti ancora vigenti vennero versati nella legge delle XII tavole [oltre, in questo §] e probabilmente quelli non recepiti almeno implicitamente nella legge si considerarono non più vigenti. B) Ai mores più antichi, se ne aggiunsero alcuni più recenti, emersi nel periodo repubblicano in connessione con strutture socio-economiche più progredite,

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poco prima e, sebbene se ne sia dubitato, anche dopo la legge delle XII tavole. Il fondamento di essi, però, era verisimilmente diverso da quello primitivo, non essendovi più una connessione fra diritto e religione così pregnante come in passato e rilevando ormai solo l’autorità degli antenati (i maiores) e la convinzione che la norma fosse ricavabile dalla struttura del rapporto, le quali sopperivano all’impossibilità di ricostruire la precisa origine delle norme. Per esempio, sembrano risalire all’epoca repubblicana i mores riguardanti alcuni casi di pignoris capio (impossessamento di una cosa come pegno), presupponendo l’esistenza dello stipendio dei soldati (che in precedenza non erano pagati) e di cavalieri con cavallo pubblico [oltre, capitolo quinto, § 6, B]. È dubbio, poi, a quale epoca risalga una norma sulla delega di giurisdizione, ricondotta dai giuristi classici ai mores maiorum. Di certo successivo alla lex Cincia sulle donazioni del 204 a.C., che presupponeva l’ammissibilità delle donazioni fra marito e moglie, è il divieto di donazioni fra coniugi ricondotto dai giuristi ai mores [cfr. oltre, capitolo ottavo, § 16].

Per l’epoca successiva alle XII tavole, però, le norme ricondotte dai romani ai mores sono molto più rare e, quando i mores non siano espressamente menzionati nelle fonti, andrebbe approfondito nei singoli casi se le norme a essi ricondotte dalla dottrina romanistica moderna siano riconducibili a essi oppure siano state introdotte dall’opera dei giuristi (in un primo momento i pontefici) o dal pretore. Si pensi alla nascita del contratto letterale, forse da attribuire più che ai mores alla riflessione dei giuristi [oltre, capitolo settimo, § 14].

C) Nel periodo monarchico, come si ricava da testi giuridici e letterari, alcune norme giuridiche furono introdotte dai re per mezzo di leggi (leges regiae ), ma è dubbio se si trattasse di atti unilaterali del re (rex), magari resi pubblici davanti al popolo riunito nelle più antiche assemblee (i comitia curiata e, forse, nella monarchia etrusca, almeno per alcune materie, i comitia centuriata ), o di vere e proprie deliberazioni di tali assemblee su proposta del re, come ritenevano gli autori antichi, forse influenzati dal modello più tardo delle leggi assembleari repubblicane. Secondo la tradizione, esse vennero riunite nel c.d. ius Papirianum a opera di un tale Sesto Papirio. Si è a lungo dubitato se le leges regiae siano realmente esistite o se, invece, le norme a esse ricondotte dalla tradizione null’altro siano che mores, ma oggi si tende ad ammettere la loro storicità.

D) Già all’inizio dell’epoca repubblicana, accanto ai mores, si evidenziarono le prime leggi comiziali (leges ) votate dalle assemblee popolari (comitia curiata e comitia centuriata ) su proposta dei

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magistrati muniti dell’imperium , quali i consoli, il pretore, il dittatore, mentre le deliberazioni della plebe, cioè della parte non aristocratica della popolazione (plebiscita ), su proposta dei suoi rappresentanti (tribuni plebis ) erano vincolanti in un primo momento solo nei confronti di essa [oltre, in questo capitolo, § 6]. Va segnalato, però, che l’incidenza delle leggi comiziali e dei plebisciti sul diritto privato fu, prima della metà del V secolo a.C., molto scarsa.

5. La legge delle XII tavole: un codice con caratteri particolari A) Verso la fine della prima metà del V secolo a.C. le aspre lotte della parte non aristocratica della popolazione (plebs ) contro l’aristocrazia (patricii : di qui anche il sostantivo patriziato), dirette a ottenere la limitazione degli smisurati poteri dei magistrati, appartenenti a quest’ultima, ebbero come conseguenza la nomina, al posto dei magistrati ordinari della città (consoli, pretori, censori, edili, questori), di una magistratura di dieci uomini, i decemviri , incaricati di redigere una legge contenente le norme che dovevano regolare la vita della società romana. Tale legge ebbe come scopo principale quello di rendere certo il diritto della città, sottraendolo all’arbitrio dei pontefici, anch’essi allora espressione del solo patriziato, che individuavano il diritto applicabile, e dei magistrati, che lo applicavano, e venne realizzata in tempi piuttosto brevi, circa un paio d’anni (dei quali fu il primo quello in cui venne elaborata la maggior parte di essa, circa i cinque sesti), all’esito di vicende complesse e in parte oscure. Essa venne denominata legge delle dodici tavole (lex duodecim tabularum), dal numero delle tavole su cui erano scritte le disposizioni, e in dottrina essa è definita anche codice decemvirale, in quanto il termine codice, nell’accezione moderna, indica una legge che disciplina in maniera completa ed esaustiva una o più materie. Si tratta del primo codice realizzato nell’esperienza romana, che rimase anche l’unico per nove secoli, cioè fino alla prima metà del V secolo d.C. È dubbio se esso sia stato sottoposto all’approvazione del popolo riunito in assemblea, come parrebbe preferibile ritenere, considerata la sua importanza per l’intera comunità, comprensiva anche dell’elemento plebeo.

B) La tradizione considerava la legge delle XII tavole come la fonte di tutto il diritto pubblico e privato, riconoscendole il carattere dell’esaustività, cioè ritenendo che essa comprendesse, al momento della sua emanazione, tutte le norme vigenti all’interno della civitas . Sebbene il codice decemvirale contenga anche importanti principi riguardanti il diritto pubblico e il diritto e il processo criminali, esso concerne soprattutto il diritto privato e il processo civile.

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L’esaustività delle XII tavole non implica, però, che i decemviri abbiano regolamentato in maniera analitica tutte le materie, come avviene nei codici moderni. Infatti, le disposizioni della legge spesso presupponevano che continuassero a essere vigenti norme preesistenti, appartenenti al patrimonio degli antichi mores predecemvirali, le quali erano richiamate solo in maniera implicita, e, pertanto, all’occhio degli studiosi, appaiono spesso allusive ed ellittiche, sottintendendo alcune norme non espressamente sancite dalla legge. Per esempio, in tab. 5, 4, la successione in assenza di testamento (ab intestato) dei filiifamilias (sui heredes ) al paterfamilias era solo presupposta e non espressamente sancita nella disposizione che prevedeva, sempre per il caso di assenza di testamento, la successione del parente civile collaterale più vicino di grado (agnatus proximus ): si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto [oltre, capitolo ottavo, § 7]. Per fare un altro esempio, in tab. 6, 1, erano disciplinati gli effetti di due atti giuridici formali e solenni (il nexum e il mancipium, ossia la mancipatio , che erano gesta per aes et libram ), ma né in tale disposizione, né altrove nella legge si precisava come dovessero essere posti in essere tali atti [oltre, capitolo sesto, § 12, A, sulla mancipatio; capitolo settimo, § 8, D, sul nexum]. Evidentemente, in entrambi i casi, la legge sanciva una norma giuridica e recepiva per rinvio implicito un’altra norma o più norme, introdotte dai mores preesistenti, il fondamento delle quali, in tal modo, diventava la legge medesima.

Ciò si spiega in quanto, essendo il codice decemvirale il risultato di un compromesso fra patrizi e plebei e forse anche fra le diverse famiglie che appartenevano al patriziato, furono disciplinati in modo chiaro ed espresso soprattutto gli aspetti che avrebbero potuto dare luogo a maggiori conflittualità. C) La rapidità della realizzazione della legge delle dodici tavole dipende, con ogni probabilità, dal fatto che, malgrado la tradizione conservi memoria di un’ambasceria nelle città greche finalizzata ad apprendere come si dovesse elaborare un codice, le norme che la componevano erano in buona parte recezioni di mores preesistenti, genuinamente romani, forse già conservati in forma scritta negli archivi pontificali e, comunque, elaborati in forma agevolmente memorizzabile. A conferma di ciò, si può osservare che le poche disposizioni di cui abbiamo integrale conoscenza sono formulate in una prosa ritmica che agevola la memorizzazione, tanto che è invalso l’uso di chiamarle versetti. Per esempio, si veda l’andamento ritmico di tab. 4, 2b: Si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto [oltre, capitolo, terzo, § 18, B].

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Ciò non significa che non vi fossero alcune norme nuove e verisimilmente l’occasione della redazione per iscritto venne sfruttata anche per formulare meglio e adeguare ai mutamenti della realtà sociale alcune consuetudini preesistenti. Probabilmente, una novità fu la norma che prevedeva la possibilità di agire in giudizio con la legis actio per iudicis arbitrive postulationem : tab. 2, 1b [oltre, capitolo quinto, § 5, E]. Disposizioni che potrebbero avere formulato in maniera più adeguata consuetudini già esistenti sono forse quelle riguardanti la successione ereditaria in assenza di testamento (tab. 5, 4-5) [oltre, capitolo ottavo, § 7].

Ma la principale novità è stata proprio quella consistente nella creazione di una legislazione scritta non limitata a specifiche norme di dettaglio, bensì estesa alla regolamentazione dell’intero diritto della città, pur con i caratteri segnalati [sopra, in questo §, B]. In tal modo, venne soddisfatta l’esigenza di certezza del diritto e anche la componente plebea della popolazione (direttamente la parte alfabetizzata e indirettamente quella che non lo era) fu messa in grado di conoscere il diritto applicabile, in anticipo rispetto alla patologia dei rapporti e alla risoluzione delle controversie, sebbene l’interpretazione e l’applicazione delle norme sia rimasta a lungo monopolio dell’aristocrazia patrizia. D) Purtroppo, malgrado molti contenuti del codice decemvirale siano in qualche misura ricostruibili, la nostra conoscenza di essi è indiretta, frammentaria e incompleta. La conoscenza delle norme decemvirali è basata sulle citazioni del contenuto o della lettera di singole disposizioni da parte di autori di opere letterarie, soprattutto di argomento storico, retorico, grammaticale e antiquario, e da parte di giuristi classici, di modo che, da un lato, non conosciamo tutte le disposizioni e, di quelle delle quali abbiamo notizia, spesso conosciamo solo una o più parti e, dall’altro, non è possibile ricostruire con precisione l’ordine delle norme. Va anche considerato che spesso le opere storiche e retoriche tramandano solo il contenuto approssimativo di una norma delle XII tavole, influenzato dal contesto e dall’uso contingente che ne viene fatto, mentre quelle di grammatica e antiquarie sono di solito più precise. Le opere giuridiche, poi, hanno talora subito vicende travagliate, sia per l’inaffidabilità dei meccanismi di trasmissione (dettatura, copiatura), sia perché alle volte sono state oggetto di alterazioni in occasione del loro inserimento in raccolte postclassiche o nella compilazione giustinianea. Per questi motivi, in alcuni casi conosciamo due o più versioni diverse di una norma decemvirale, non essendo sempre agevole determinare quale sia la più attendibile.

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6. Leggi e plebisciti: le norme introdotte dalla voluntas populi A) Il termine lex (al plurale leges ), che descrive in generale un regolamento vincolante, nell’accezione che interessa in questa sede indica una specifica fonte del diritto, idonea a porre norme giuridiche, vale a dire comandi generali e astratti, direttamente efficaci nei confronti dei consociati e appartenenti al ius civile , nell’accezione contrapposta al ius praetorium o honorarium [oltre, in questo capitolo, § 18, A-E]. Da questa prospettiva si parla di lex publica . In contrapposizione a essa vi erano i regolamenti privati stabiliti dai singoli nel porre in essere atti giuridici, per i quali è utilizzabile la terminologia lex privata , tra i quali le leges mancipi , che erano dichiarazioni compiute durante una mancipatio , atto formale rientrante fra i gesta per aes et libram , e le leges contractus , denominate, a seconda del contratto cui afferivano, leges venditionis, locationis e così via.

Si debbono distinguere un’accezione ampia della lex e una ristretta. La lex in senso ampio era definita da Ateio Capitone, giurista degli inizi del principato, generale iussum populi ac plebis rogante magistratu . I due momenti qualificanti della lex erano la proposta del magistrato, denominata rogatio , ma letteralmente interrogazione/domanda perché egli chiedeva all’assemblea del popolo o della plebe di approvare il testo proposto, e l’approvazione da parte del popolo o della plebe, ossia il iussum , che aveva valore di comando generale. La definizione di Capitone è riportata dall’antiquario Aulo Gellio nella sua opera Noctes Atticae (Gell. Noct. Att. 20, 2). Ancora nella seconda metà del II secolo d.C. il giurista Papiniano, in un passo delle sue Definitiones sottolineava la promanazione della lex dalla volontà del popolo, qualificandola communis rei publicae sponsio , in termini moderni dello stato (D. 1, 3, 1). Era, comunque, sempre necessaria la proposta magistratuale, tanto che proprio dal nome del magistrato rogante (ed eventualmente anche del collega) la legge prendeva la denominazione. In un primo momento, era richiesta anche una conforme delibera dei patres , denominata auctoritas , successiva alla delibera popolare di approvazione e in seguito preventiva (cioè sulla proposta di legge).

La lex (in senso ampio), come si ricava dalle Institutiones gaiane (Gai inst. 1, 3), comprendeva la lex in senso stretto, che era approvata da un’assemblea di tutto il popolo (comitia curiata , poi comitia centuriata , comitia tributa , a seconda che il popolo fosse riunito per curie, per centurie, per tribù territoriali) su proposta di un magistrato maggiore della civitas (per esempio, consoli, pretore, dittatore, decemviri), e il plebis scitum o plebiscitum , che era approvato dall’assemblea della plebe, cioè della parte non aristocratica della popolazione (concilium plebis ) su proposta di un magistrato della plebe (tribunum plebis ). I plebiscita , che in origine vincolavano solo la plebe (la cui assemblea li aveva emanati), in progresso di tempo divennero vincolanti per tutta la popolazione: si parla, a questo proposito, di equiparazione dei plebiscita alle leges, definitivamente ammessa dalla lex Hortensia del 287 a.C. (Pomponio in D. 1, 2, 2, 8), ma preceduta da vicende complesse e in parte ancora da decifrare che anticiparono in qualche misura l’equiparazione. Dal passo di Pomponio si ricava che, dopo l’equiparazione relativa all’efficacia (potestas ), leggi e plebisciti si distinguevano solo per il diverso procedimento (species constituendi ).

B) A seconda dei diversi procedimenti adoperati per l’emanazione delle leges, si distingue fra lex rogata , ma con traduzione letterale [per la ragione di ciò, cfr. sopra, in questo §, A], che era approvata all’esito di un complesso procedimento da un’assemblea su proposta di un magistrato dotato del potere di agire con l’organo assembleare deliberante (ius agendi cum populo ), e lex dicta , che era emanata da un magistrato a ciò delegato con una lex rogata e non era votata dall’assemblea, ma solo pronunziata davanti a essa. Normalmente, gli organi assembleari della città di Roma emanavano leggi volte a disciplinare la comunità stessa e i rapporti fra i cittadini romani che appartenevano a essa, verificandosi una coincidenza fra i destinatari della legge e gli appartenenti alla comunità dalla quale essa promanava, ma sono documentate anche leggi che, sebbene votate a Roma dalle assemblee, contenevano la regolamentazione di aspetti riguardanti una città diversa. A questo proposito, è impiegata in senso proprio la terminologia lex data : essa era una lex rogata (dunque proposta da un magistrato e approvata dall’assemblea) eteronoma, perché disciplinava una comunità diversa da quella che l’aveva approvata. Un esempio di lex data era quella che, votata a Roma dalle assemblee su proposta magistratuale (quindi una lex rogata), approvava uno statuto municipale, ossia lo statuto di un’altra civitas Romana , considerata come comunità autonoma. La terminologia lex data, che, quando usata in senso proprio, ha il significato che si è visto, era anche adoperata in senso improprio per descrivere la lex dicta, cioè la legge emanata da un magistrato su delega dell’assemblea.

C) Nell’esperienza giuridica romana del periodo repubblicano, vi fu uno scar-

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so impiego della legge (in senso ampio) sul versante del diritto privato. Essa, mentre costituiva la fonte del diritto più importante, se non esclusiva, sul versante del diritto pubblico, non era il principale strumento di adeguamento del diritto privato alle esigenze della società, intervenendo su singoli aspetti e non disciplinando quasi mai una intera materia o più materie, con la sola eccezione rappresentata dalla legge delle XII tavole [sopra, in questo capitolo, § 5]. Nella materia privatistica, la legge risulta utilizzata prevalentemente per apportare aggiustamenti a regolamentazioni preesistenti, come nel caso delle numerose leggi in materia di garanzie personali delle obbligazioni [oltre, capitolo settimo, § 13], per disciplinare aspetti marginali, ma di grande impatto sul piano sociale e politico, come nel caso delle leggi sugli interessi nei prestiti di denaro (leges foeneraticiae , da foenus ) [oltre, capitolo settimo, § 8], per unificare, completare e modificare la regolamentazione preesistente di determinate materie, come nel caso della lex Aquilia relativa al damnum iniuria datum , cioè al danneggiamento a cose [oltre, capitolo settimo, § 24], per abrogare norme risalenti agli antichi mores , confermate dalle XII tavole, come nel caso della lex Poetelia Papiria della seconda metà del IV secolo a.C., che abrogò il nexum [oltre, capitolo settimo, § 8, D].

All’impiego limitato della legge nel diritto privato è connesso il problema dei limiti oggettivi in cui essa poteva innovare l’ordinamento. A questo proposito, nella dottrina moderna si è ipotizzato che dal punto di vista giuridico la legge non potesse modificare o abrogare le norme introdotte dai mores . Tale ipotesi, basata sulla erronea interpretazione di alcune clausole contenute nelle leggi della tarda repubblica, che sono diversamente spiegabili, è destituita di fondamento, in quanto è provato che fin dalla metà del V secolo a.C. la legge assembleare successiva prevaleva sul diritto precedente con cui era incompatibile, senza distinzione a seconda della fonte che l’aveva introdotto, e v’è almeno un caso in cui risulta senza alcun dubbio che un risalente istituto introdotto dai mores è stato abrogato da una legge. In tab. 12, 5 si legge che ut quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset . Se ne ricava che fin dall’epoca delle XII tavole anche le norme introdotte dai mores potevano essere modificate o abrogate. Ciò vale sia per i mores non recepiti espressamente o implicitamente nel codice decemvirale e dunque da esso abrogati, sia per le norme di tale codice in cui erano stati trasfusi precedenti mores, che potevano essere abrogati da leggi successive. Inoltre, si è visto che la lex Poetelia Papiria abrogò il nexum , introdotto dai mores.

Può darsi, invece, che dal punto di vista dell’ideologia delle classi dominanti o

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della percezione collettiva (e, dunque, senza che vi fosse una vera e propria preclusione giuridica) si ritenesse che alcuni principi fondanti della comunità, come quelli riguardanti le libertà individuali e le garanzie personali dei cittadini, non potessero essere abrogati dalla volontà popolare. Per esempio, nella tarda repubblica era diffusa l’idea che una legge non potesse togliere la libertà o la cittadinanza a un gruppo di persone, come dimostra un passo dell’orazione pro Caecina di Cicerone (Cic. Caec. 95 s.), il quale, più in generale, induce a credere che secondo il sentire dei ceti che detenevano il potere vi fossero principi connaturali all’esistenza stessa della comunità (che, non esistendo a Roma una costituzione scritta, oggi diremmo attinenti alla costituzione in senso materiale) non derogabili o difficilmente derogabili. Si spiegano forse così (dunque per ragioni ideologiche più che giuridiche) una clausola contenuta in leggi tardo-repubblicane che delimitava la portata della proposta del magistrato all’assemblea in caso di contrarietà al ius (si quid ius non esset rogarier, eius ea lege nihilum rogatum ) e analoghe clausole che fanno riferimento anche alla contrarietà al fas [sul fas, cfr. sopra, in questo capitolo, § 2, D]. Affermare che una parte della proposta (rogatio), in quanto contraria a norme giuridiche o religiose, si doveva intendere non presentata significava escluderla dalla deliberazione popolare (iussum ) e, dunque, dal contenuto della legge. Secondo una diversa opinione, tali clausole riguardavano solo la violazione di norme giuridiche e religiose che regolavano il procedimento legislativo (e non di norme sostanziali) da parte del magistrato proponente. In ogni caso, nel quadro delle tormentate vicende politiche della tarda repubblica, il magistrato proponente, inserendo tali clausole nella proposta, si sottraeva a ogni responsabilità per violazione di norme giuridiche e religiose.

Inoltre, durante il periodo repubblicano non era visto con favore che la legge sancisse in generale la nullità degli atti posti in essere in violazione di un divieto da essa stabilito. Da un passo, pervenutoci non completo, dei Tituli ex corpore Ulpiani , opera postclassica contenente materiale dell’omonimo giurista dell’epoca della dinastia dei Severi, in riferimento alle norme proibitorie (cioè contenenti un divieto) sancite da leggi, si ricava la distinzione fra leges perfectae , leges minus quam perfectae e leges imperfectae , connessa al tipo di sanzione prevista dalla norma per la violazione del comando (Tit. ex corp. Ulp. 1, 1-2). Mentre le leges perfectae sancivano la nullità dell’atto vietato, quelle minus quam perfectae, presupponendo che l’atto vietato fosse valido, comminavano una sanzione pecuniaria, e quelle imperfectae non sancivano la nullità dell’atto vietato né comminavano una pena pecuniaria. Poiché, dalla prospettiva moderna, la norma giuridica per essere tale deve avere il carattere della coattività, che è assicurata dalla sanzione, per le leges imperfectae, nelle quali la violazione del divieto non era sanzionata, si pone il problema del fondamento

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della giuridicità. In realtà, la sanzione delle leges imperfectae, pur non essendo prevista nella legge, si evidenziava sul piano del diritto pretorio (ius praetorium) [oltre, in questo capitolo, § 18, A-D], attraverso la concessione da parte del pretore di azioni pretorie (actiones praetoriae) e difese pretorie (exceptiones ) basate sul suo imperium , ma attuative rispetto alla legge [oltre, capitolo quinto, § 9, C e G, per le actiones praetoriae, e § 10, B, per le exceptiones]. Un altro piano sul quale v’è la possibilità di ravvisare una sanzione indiretta era quello del controllo dei censori sui costumi (cura morum ), che aveva conseguenze pregiudizievoli sul versante del diritto pubblico per chi era colpito dalla nota censoria [sopra, in questo capitolo, § 2, B]. Può darsi, però, che dal punto di vista dei romani la norma introdotta da una lex imperfecta fosse considerata norma giuridica semplicemente in quanto introdotta da una legge, cioè da un fatto idoneo a creare norme giuridiche.

Dal punto di vista storico, sembrerebbe che in un primo momento si preferisse ricorrere a leges minus quam perfectae e imperfectae e solo per un momento successivo è documentato l’impiego delle leges perfectae. Il primo caso certo di lex perfecta è la lex Voconia , riguardante le successioni (169 a.C.) [oltre, capitolo ottavo, § 11], mentre una lex minus quam perfecta (la lex Furia de sponsu , riguardante le garanzie personali delle obbligazioni) è documentata già nella seconda metà del III secolo a.C. [oltre, capitolo settimo, § 13]. L’unica lex certamente imperfecta conosciuta è la lex Cincia de donis et muneribus , che vietava le donazioni di valore superiore a una certa somma, risalente al 204 a.C. [oltre, capitolo ottavo, § 16].

D) Lo scarso impiego dello strumento legislativo nel diritto privato dipendeva non da limiti giuridici, ma dall’esistenza di meccanismi di adeguamento diversi, quali, in particolare, la predisposizione dei mezzi di protezione degli interessi privati da parte del pretore (praetor), magistrato che organizzava il sistema della tutela giurisdizionale (processuale) dei diritti [oltre, in questo capitolo, § 9], e l’elaborazione dei giuristi (interpretatio prudentium ), coinvolti nell’applicazione del diritto quali consulenti delle parti, di magistrati e di giudici [oltre, in questo capitolo, § 10]. Tali fonti del diritto consentivano di aggiornare il diritto privato in maniera più rapida, non dovendosi osservare un procedimento complesso e macchinoso come quello legislativo, e, allo stesso tempo, poiché sia il pretore che i giuristi costituivano espressione delle classi che detenevano il governo della civitas , erano più agevolmente controllabili da queste ultime di quanto lo fossero le assemblee del popolo e della plebe. In una società che, pur in continuo sviluppo, rimase sempre aristocratica, pretore e giuristi garantivano la corrispondenza delle nuove norme e dei criteri di soluzione delle

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controversie ai valori in cui si riconoscevano le classi dominanti (prima l’aristocrazia patrizia, poi la nobilitas patrizio-plebea) cui appartenevano. Invece, le assemblee popolari, sebbene non fossero organizzate secondo sistemi che assicurassero pari peso a ogni cittadino e dal punto di vista procedurale fossero subordinate ai magistrati che presentavano le proposte, come ogni corpo collettivo numeroso risentivano anche di fattori irrazionali, che avrebbero potuto fare prevalere gli interessi dei ceti subalterni.

E) Al circoscritto impiego della legge in materia privatistica nel periodo repubblicano, corrispondente all’ideologia delle classi dominanti, si contrappone la grande rilevanza sul piano ideologico a essa attribuita nell’ultima fase di tale periodo in certi ambienti politici, dove se ne sottolineava la connessione con la volontà popolare. Valorizzavano la legge come principale fonte del diritto i populares , ossia gli uomini politici favorevoli alla parte della plebe non appartenente alla nobilitas patrizio-plebea, come i fratelli Gracchi e, in generale, gli esponenti della fazione democratica. Inoltre, sembra connesso alla prevalenza riconosciuta alla legge nell’ambito delle fonti del diritto il progetto di Giulio Cesare di codificare i principi del diritto, il quale, ove attuato, avrebbe comportato una rottura con la tradizionale metodologia casistica dei giuristi romani [su tale metodo, cfr. oltre, in questo capitolo, § 10, C].

Poi, all’inizio del principato, per opera di Augusto, nel nuovo quadro della concordia fra le classi sociali e sempre per ragioni ideologiche, lo strumento legislativo assunse una notevole rilevanza sul piano concreto. Mentre, come si è visto, nel periodo repubblicano la lex era solo raramente adoperata per regolamentare intere materie nel diritto privato, agli inizi del principato Augusto, allo scopo di introdurre importanti riforme sul piano del diritto di famiglia, del matrimonio e delle successioni, utilizzò due leges rogatae: la lex Iulia de maritandis ordinibus , letteralmente , dove gli ordines sono le diverse classi sociali, e la lex Papia Poppaea nuptialis , che erano dette nel complesso lex Iulia et Papia [oltre, capitolo terzo, § 20, C; 22, C; 29, E; capitolo ottavo, § 3]. L’impiego augusteo della lex è probabilmente da ascrivere all’esigenza di assicurarsi il consenso con la scelta di una forma di produzione del diritto tipicamente repubblicana e coinvolgente le assemblee popolari in materie di grande impatto sociale. L’ultima legge assembleare risale, probabilmente, all’epoca dell’imperatore Nerva, per cui si può dire che dopo il I secolo d.C., con la decadenza delle assemblee popolari, tale fonte del diritto perse la sua operatività.

Inoltre, proprio quando cessò di funzionare come fonte del diritto, la legge co-

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minciò a essere presa a parametro dell’efficacia delle norme giuridiche e delle massime di risoluzione di controversie introdotte da altre fonti del diritto (senatusconsulta , constitutiones principis e, a certe condizioni, responsa prudentium ), fenomeno descritto da Gaio nelle Institutiones con le parole legis vicem optinere (Gai 1, 4-5 e 7). Con tale assimilazione si voleva affermare che queste ultime fonti del diritto erano idonee a creare norme direttamente efficaci per i consociati, cioè appartenenti al ius civile , in una delle sue accezioni [oltre, in questo capitolo, § 18], come quelle introdotte dalla legge. Per l’individuazione delle giustificazioni dell’assimilazione di altre fonti del diritto alla legge, si rinvia alle relative trattazioni [oltre, in questo capitolo, § 7, A e § 8, C].

7. Il senatusconsultum e l’oratio principis A) Il senatusconsultum o senatus consultum (anche detto senatus decretum ) era una delibera vincolante del senato (quod senatus iubet atque constituit ), organo assembleare ristretto che costituiva espressione delle classi dominanti. Malgrado i giuristi classici riconducessero alle delibere senatorie valore normativo fin dal periodo repubblicano (Pomponio in D. 1, 2, 2, 9), in realtà esso divenne una fonte di norme giuridiche direttamente vincolanti per i consociati solo nella seconda metà del II secolo d.C. In precedenza, nel periodo repubblicano e nella prima fase del principato, sul versante del diritto privato, le delibere del senato avevano una efficacia solo indiretta nei confronti della popolazione, ordinando ai pretori che si occupavano di dettare le linee dell’amministrazione della giustizia nei rapporti fra cittadini (praetor urbanus ) o fra cittadini e stranieri (praetor peregrinus ) di mettere a disposizione dei privati mezzi di tutela giudiziale (actiones e exceptiones , cioè difese pretorie) in presenza di determinati presupposti o di non concedere in particolari ipotesi i mezzi di tutela che altrimenti essi concedevano (denegatio actionis ). In questa fase iniziale tali ordini vincolavano (più dal punto di vista politico che da quello giuridico) solo i pretori ai quali erano rivolti e, dunque, il senatoconsulto non era una fonte del diritto. Tale tipologia di interventi, che aveva una efficacia indiretta, si riscontra ancora in molti senatoconsulti del I secolo d.C., come per esempio il Macedonianum , il Velleanum , il Trebellianum , il Pegasianum [oltre, capitolo terzo, § 16, C, e § 29, B. per i primi due; capitolo ottavo, § 12, per gli ultimi due].

A partire dalla metà del II secolo d.C., come apprendiamo dalle Institutiones di Gaio, il senatusconsultum legis vicem optinet (Gai 1, 4), vale a dire è equiparato alla legge quanto all’efficacia, nel senso che a esso viene riconosciuta l’idoneità a introdurre norme giuridiche con la stessa efficacia di quelle introdotte dalla legge, direttamente vincolanti per i consociati e, quindi, appartenenti al diritto civile (ius civile), nell’accezione contrapposta al diritto pretorio (ius praetorium) o onorario (honorarium) [oltre, in questo capitolo, § 18, A-E]. Per esempio, le norme sulla successione reciproca fra madre e figli in assenza di testamento, introdotte dai senatusconsulta Tertullianum e Orfitianum , della seconda metà del II secolo d.C., erano direttamente efficaci per i cittadini, innovando il sistema della successione legittima risalente alle XII tavole e rilevando pertanto sul piano del ius civile [oltre, capitolo ottavo, § 7].

Tuttavia, Gaio precisava che dell’equiparazione del senatusconsultum alla lex si era dubitato, anche se non è chiaro quali fossero le ragioni del dubbio e sulla base di quali argomenti esso sia stato superato nel senso dell’equiparazione. Non può essere escluso che abbia rilevato in tale direzione l’accentuarsi del controllo del princeps , che come tale era anche princeps senatus , ossia il primo componente per prestigio dell’assemblea senatoria, sull’attività dell’organo. Alle volte, poi, l’intervento imperiale nell’attività del senato si estrinsecava nella lettura di una orazione imperiale (oratio principis), di solito da parte di un questore (quaestor), a sostegno della proposta sulla quale l’assemblea era chiamata a votare, di modo che la volontà del senato manifestata nell’approvazione della proposta si palesava conforme a quella dell’imperatore. Una giustificazione teorica più precisa del riconoscimento del vigore di legge dei senatoconsulti, sempre in connessione con il controllo del princeps sul senato e con la sua influenza sulla formazione delle delibere senatorie, può essere individuata considerando che, come si vedrà, i giuristi del II secolo d.C. equiparavano le costituzioni imperiali alle leggi e consideravano l’imperatore investito da parte del popolo del supremo potere di comando appartenente a quest’ultimo [oltre, in questo capitolo, § 8, C].

B) Nell’ultima fase dell’epoca classica, l’oratio principis in senatu habita divenne una vera e propria fonte del diritto, da cui promanavano norme direttamente vincolanti. Mentre in un primo momento essa non aveva avuto alcuna autonomia rispetto al senatusconsultum poi emanato, che era perciò considerato come fonte delle

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norme, in seguito, a partire dall’epoca dell’imperatore Adriano, i giuristi cominciarono a considerare il testo dell’oratio favorevole alla proposta come fonte di principi giuridici muniti dell’autorità imperiale e pertanto, malgrado fosse stato poi emanato il senatoconsulto, ne fecero autonomo oggetto di studio, finalizzato all’individuazione della regolamentazione. Successivamente, alla fine del II secolo d.C., poiché non era concepibile che la deliberazione del senato non fosse in linea con l’oratio principis, l’efficacia normativa venne riconosciuta direttamente a quest’ultima, a prescindere dal fatto che la successiva votazione del senato fosse avvenuta o meno. Per esempio, nel 195 d.C. una oratio Severi vietò l’alienazione dei terreni rustici e suburbani appartenenti agli impuberi sottoposti a tutela [oltre, capitolo terzo, § 28, C] e nel 206 d.C. un’oratio Antonini sancì la convalida delle donazioni fra coniugi se il donante era morto senza avere revocato la donazione [oltre, capitolo ottavo, § 16].

8. Le costituzioni imperiali A) Le costituzioni emanate dall’imperatore (constitutiones principis ) potevano essere generali e particolari. Le costituzioni generali, idonee anche a contenere norme giuridiche (cioè comandi generali e astratti) di diritto privato, erano gli edicta , impiegati molto raramente sul versante del diritto privato, e i mandata , alcuni dei quali importanti nelle materie privatistiche. Questi ultimi erano rivolti ai funzionari imperiali e ai magistrati repubblicani esistenti ancora durante il principato e, soprattutto, ai governatori delle province imperiali e senatorie, riguardando quindi i rapporti privatistici che si svolgevano in tali contesti territoriali. Uno dei rari casi nei quali gli edicta rilevarono sul versante del diritto privato dettando direttamente norme giuridiche vincolanti per i destinatari è quello del famoso editto con il quale l’imperatore Caracalla, nel 212 d.C. concesse la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero, seppure con marginali eccezioni (constitutio Antoniniana ) [oltre, capitolo terzo, § 13].

Ancora all’inizio del II secolo d.C., le prescrizioni contenute nei mandata avevano una efficacia normativa solo indiretta, in quanto era il funzionario o il magistrato destinatario dell’incarico a doverle rendere operative uniformandosi alle istruzioni ricevute nel concreto esercizio dell’attività giurisdizionale: per esempio, i governatori provinciali ottemperavano ai mandati imperiali introducendo determinate disposizioni negli editti con i quali regolamentavano la propria giurisdi-

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zione. Solo in seguito ai mandati venne riconosciuta l’idoneità a introdurre direttamente norme giuridiche efficaci nei confronti degli abitanti delle province, essendo divenuto l’editto del funzionario o del magistrato destinatario un semplice mezzo di pubblicità di un provvedimento già dotato di propria efficacia normativa. L’efficacia indiretta dei mandata è documentata per i primi anni del II secolo d.C. in una lettera di Plinio il Giovane, il quale, essendo governatore del Ponto e della Bitinia, scriveva all’imperatore Traiano, menzionando un proprio editto emanato secondo un mandato imperiale che aveva vietato le confraternite cristiane (Plin. epist. 10, 96, 7). La successiva ammissione dell’efficacia normativa diretta dei mandata è provata da D. 48, 3, 6, 1, dove il giurista Marciano menzionava un mandato in materia di diritto criminale risalente a uno o due decenni dopo. Tra le norme giuridiche privatistiche introdotte da mandata rientrano quelle che sancivano divieti matrimoniali per i funzionari provinciali [oltre, capitolo terzo, § 21, E] e quelle che disciplinavano alcuni aspetti della capacità privatistica dei militari [oltre, capitolo terzo, § 16, D].

B) Le costituzioni particolari, ben più importanti sul piano del diritto privato, erano i rescripta , denominati anche subscriptiones , in quanto redatti in calce alla petizione del richiedente, le epistulae , e i decreta . Rescripta ed epistulae erano diverse modalità di un fenomeno unitario: un richiedente, che nel caso dei rescripta poteva essere qualsiasi privato cittadino o un giudice investito della decisione di una causa e nel caso delle epistulae un funzionario dell’amministrazione imperiale o uno dei magistrati della struttura organizzativa repubblicana ancora operanti nel principato (il più delle volte un pretore o un governatore di una provincia senatoria), domandava all’imperatore un parere giuridico su un caso dubbio o controverso, che descriveva nella petizione, e l’imperatore, facendo propria la risposta elaborata dalla cancelleria imperiale competente (a libellis per le istanze private e ab epistulis per le istanze in forma di lettera), rispondeva enunciando un principio di diritto (si può anche dire un criterio, una massima di decisione), in astratto idoneo a risolvere il caso, ma la cui applicabilità era condizionata alla realtà dei fatti esposti (la risposta conteneva l’espressione si vera sunt ). Mentre per ottenere un rescriptum la petizione era presentata con un breve scritto in cui erano indicati i fatti e il quesito rivolto all’imperatore (libellus , prex ), e la risposta era pubblicata per mezzo di affissione nel luogo dove si trovava l’imperatore, per ottenere l’epistula anche la richiesta era presentata con una lettera (epistula) all’imperatore. La possibilità di rivolgersi in forma epistolare all’imperatore per ottenere una lettera contenente la soluzione era ammessa a causa dello stretto legame intercorrente fra il

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princeps , da una parte, e i suoi funzionari e i magistrati repubblicani ancora operanti nel principato, dall’altra.

Rescripta ed epistulae, riguardando un caso specifico e avendo per oggetto un principio di diritto, non introducevano norme giuridiche, nel senso di comandi generali e astratti (e, in realtà, non contenevano neppure comandi particolari e concreti) e non erano, quindi, fonti del diritto, bensì massime, cioè criteri, di decisione da applicare nel caso in relazione al quale era stata avanzata la petizione. Tuttavia, potevano dispiegare una efficacia anche in casi analoghi (vale a dire simili) in quanto i giuristi li consideravano alla stregua di precedenti, muniti della particolare autorità a essi attribuita dalla loro provenienza. Pertanto, a seguito dell’elaborazione dei giuristi, i principi sanciti dall’imperatore per un caso specifico potevano operare come comandi generali e astratti, divenendo applicabili a tutti i rapporti che presentavano caratteri analoghi rispetto a quello in relazione al quale erano stati emanati. A tale fenomeno si riferiva il giurista dell’epoca severiana Ulpiano nelle sue Institutiones, impiegando, in riferimento alle constitutiones , l’espressione trahi ad exemplum ed escludendo tale operazione per quelle personales , cioè riferite a singole persone (D. 1, 4, 1, 2). È implicito in questo genere di operatività che un giurista dovesse attentamente valutare i profili di analogia e diversità fra il caso che doveva risolvere e quello in riferimento al quale l’imperatore aveva espresso il principio di diritto. Da un lato, però, anche ove vi fosse stata una assoluta coincidenza fra i due casi, era possibile che il principio di diritto non fosse ritenuto applicabile, sul presupposto che la cancelleria imperiale avesse trascurato aspetti della fattispecie che avrebbero suggerito l’enunciazione di un diverso principio di diritto. Dall’altro, anche in presenza di aspetti differenziali fra le fattispecie, non era escluso che il principio di diritto fosse ritenuto comunque estensibile sul presupposto della inidoneità degli aspetti differenziali a giustificare una diversa soluzione.

I decreta erano le sentenze del tribunale imperiale, riguardando, pertanto, uno specifico contenzioso. Anche tale tipologia non introduceva norme giuridiche, ma poteva essere oggetto di una efficacia estesa a casi analoghi grazie all’opera dei giuristi, secondo modalità simili a quelle illustrate per le altre costituzioni particolari. C) Secondo quanto si legge nelle Institutiones di Gaio, non era stato mai posto in dubbio che la costituzione imperiale (comprensiva di quelle generali e particolari) fosse equiparata alla legge (legis vicem optineat ), cioè avesse la medesima efficacia, in quanto l’imperatore riceveva l’imperium per legge (Gai 1, 5). Allo stesso modo che per i senatoconsulti, l’equiparazione alla legge implica, se ci si attiene a una rigorosa consequenzialità logica, che le norme imperiali appartengono al ius civile

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, non al ius praetorium o honorarium [oltre, in questo capitolo, § 18, A-E]. Come risulta da un passo delle Institutiones di Ulpiano, la giustificazione di tale operazione concettuale (espressa dal giurista con il dire che quod principi placuit, legis habet vigorem ) era individuata nel fatto che l’imperatore riceveva l’imperium e la potestas dal popolo attraverso una legge di investitura, la lex regia de imperio , che si richiama all’antichissima lex curiata de imperio , detta così perché approvata dai comitia curiata , la quale attribuiva il potere di comando (imperium) al re e, poi, caduta la monarchia, ai magistrati maggiori della repubblica (D. 1, 4, 1 pr.). Sembrerebbe trattarsi, però, in riferimento al II secolo d.C., di una forzatura ideologica, in quanto è verisimile che in quell’epoca, esauritosi il ruolo delle assemblee popolari, la lex de imperio fosse in realtà divenuta una delibera del senato (cioè un senatus consultum). In ogni caso, pure in un passo di Pomponio si riscontra l’idea che il potere di emanare costituzioni idonee a introdurre norme vincolanti per i cittadini fosse attribuito (datum ) al princeps , sebbene non siano precisati i modi dell’attribuzione (D. 1, 2, 2, 11).

Tale costruzione giuridica, che equiparava l’efficacia delle costituzioni imperiali alla legge, era influenzata dall’ideologia imperiale e forzava la realtà da molti punti di vista. In primo luogo, talora gli editti e i mandati regolamentavano situazioni non disciplinate dal diritto civile (ius civile), né dal diritto pretorio (ius praetorium), ma inquadrabili nel ius extraordinarium o ius novum , di creazione imperiale [oltre, in questo capitolo, § 18, A-E, per i primi due; F, per il terzo], non introducendo, pertanto, norme di ius civile . Inoltre, come si è visto, i mandati in un primo momento dispiegavano una efficacia normativa solo indiretta e, dunque, diversa da quella della legge [sopra, in questo §, A]. Va anche evidenziato che la teoria dell’equiparazione alla legge non si attagliava a fondare l’efficacia delle costituzioni particolari, che non avevano per oggetto comandi generali e astratti, ma principi di diritto o massime di decisione, come i rescritti e le epistole, oppure comandi particolari e concreti, come i decreti [sopra, in questo §, B]. Del resto, pure le costituzioni particolari potevano riguardare casi riconducibili non solo all’ambito del ius civile, ma anche a quelli del ius praetorium e del ius extraordinarium .

Si trattava, comunque, di una costruzione giuridica sovrastrutturale, in quanto sovrapposta a precedenti giustificazioni differenziate a seconda del tipo di costituzione. Infatti, soltanto in progresso di tempo, forse già nel corso del I secolo d.C. o al più tardi durante la prima metà del II secolo d.C., l’esigenza di giustificare in maniera unitaria il potere normativo imperiale venne soddisfatta dai giuri-

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sti con la teoria della delega del potere di comando (imperium ) dal popolo all’imperatore, che sfruttava, reinterpretandole, tradizionali e antichissime prassi costituzionali, risalenti ai periodi monarchico e repubblicano. In un primo momento, tra l’instaurazione del principato e la seconda metà del I secolo d.C., il potere di emanare costituzioni generali era probabilmente fondato sull’imperium del princeps, mentre il potere di emanare rescripta ed epistulae fondava sull’autorità e sul prestigio del princeps (auctoritas ), che è cosa diversa dall’imperio, cioè dal potere di comando (imperium). Le sentenze imperiali forse erano in origine fondate sull’imperium del princeps, a parte la possibile incidenza del potere di giudicare su richiesta (soltanto o soprattutto in appello) attribuito ad Augusto nel 30 a.C. (in greco, ‘ékkleton dikázein’ ).

9. Gli editti dei magistrati A) Nell’elenco gaiano delle parti del diritto figurano anche gli edicta eorum qui ius edicendi habent (Gai 1, 6), e Papiniano, nelle sue Definitiones dopo avere elencato le fonti del ius civile , menziona il diritto pretorio, cioè il ius praetorium , anche detto ius honorarium (D. 1, 1, 7, 1) [oltre, in questo capitolo, § 18, A-E]. Per comprendere questo fenomeno bisogna considerare che a Roma il pretore urbano (praetor urbanus), il pretore peregrino (praetor peregrinus ), creato nel 242 a.C. (quest’ultimo competente solo quando uno dei litiganti fosse uno straniero o entrambi fossero stranieri), e gli edili curuli (aediles curules), che sovraintendevano ai mercati, e nelle province i governatori provinciali (praesides) e i questori (quaestores), che in quelle amministrate dal senato (perciò dette province senatorie) avevano le medesime competenze sui mercati spettanti in Roma agli edili, all’inizio del loro periodo di carica emanavano un testo scritto, chiamato editto perpetuo (edictum perpetuum, perpetuo perché generale e destinato a durare fino alla fine della carica), nel quale erano previsti i mezzi di tutela processuale (azioni, difese e altre tutele) che avrebbero concesso ai privati. Alcuni di questi mezzi non erano basati su norme introdotte dalle fonti di produzione del diritto civile (ius civile) e allora si consideravano fondati sui poteri dell’autore dell’editto (in particolare, per i pretori e i governatori provinciali, sull’imperium di cui erano titolari). A ben vedere, in quest’ultimo caso, si trattava di una vera e propria produzione normativa (avente per oggetto comandi generali e astratti) di origine magistratuale, in quanto la promessa del mezzo processuale ai privati in presenza di determinati requisiti pre-

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supponeva, dal punto di vista sostanziale, il riconoscimento di un diritto da parte del magistrato autore dell’editto. Poiché gli editti in tal caso introducevano norme di diritto onorario (ius honorarium), anche chiamato, in riferimento all’editto del pretore, diritto pretorio (ius praetorium), e, dunque, diverse, quanto al fondamento, da quelle prodotte dalle altre fonti del diritto, che appartenevano al diritto civile (ius civile), tale fenomeno verrà esaminato più diffusamente a proposito della distinzione fra ius civile e ius honorarium [oltre, in questo capitolo, § 18, A-E]. Va segnalato che durante l’anno di carica il pretore poteva emanare altri editti per soddisfare specifiche esigenze di tutela: si parlava in questo caso di edictum repentinum , terminologia connessa al fatto che tali editti riguardavano esigenze contingenti.

B) Dalla prospettiva dei moderni, la considerazione degli editti dei magistrati dotati di ius edicendi come fonte del diritto oggettivo potrebbe destare qualche perplessità, atteso che tali magistrati conservarono sempre una discrezionalità, più o meno estesa a seconda dei periodi, nel concedere o meno nei singoli casi concreti i mezzi di tutela promessi, rimanendo liberi di valutare l’opportunità di accordare protezione ai richiedenti. Va, tuttavia, osservato che a Roma il principio della certezza del diritto assumeva una portata meno pregnante di quella odierna, per cui il diritto onorario era senz’altro percepito dai contemporanei come parte del diritto oggettivo. La discrezionalità del pretore nel concedere o meno mezzi di tutela previsti nell’editto (perciò detti edittali) e il potere di concedere mezzi di tutela non previsti dall’editto (concessi con decretum e, perciò, denominati decretali) non venne eliminata neppure dalla lex Cornelia de edictis del 67 a.C., che imponeva al pretore di esercitare la giurisdizione secondo il suo editto emanato all’inizio dell’anno di carica (secundum edictum suum perpetuum ).

10. Responsa o auctoritas prudentium A) Tra le partes degli iura populi romani Gaio includeva i responsa prudentium , ossia le risposte dei giuristi a quesiti di privati, magistrati, giudici e nel periodo classico anche di funzionari imperiali (Gai 1, 7). Per definire tali responsa, il giurista utilizzava il termine sententiae , che indicava le risposte rese in relazione a specifiche controversie, già instaurate o da instaurare, e il termine generico opiniones . Inoltre, sempre nel II secolo d.C., Papiniano, nelle Definitiones , tra le

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fonti del diritto civile, valorizzando più il fondamento degli apporti dei giuristi alla formazione del diritto che le forme in cui tali apporti si manifestavano, menzionava l’auctoritas prudentium (D. 1, 1, 7 pr.). Pomponio, in un passo del suo Enchiridion , considerava l’apporto dei giuristi proprium ius civile quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit (D. 1, 2, 2, 12) [oltre, in questo capitolo, § 17, B]. Gli apporti dei giuristi, considerati nel loro complesso, costituiscono la iuris prudentia , vale a dire la scienza del diritto, che possiamo anche tradurre con il termine italiano giurisprudenza, il quale, tuttavia, ha oggi un significato diverso. Quando si parla dell’antica Roma, la parola giurisprudenza assume una valenza analoga a quella che viene in considerazione nelle espressioni ‘laurea in giurisprudenza’, ‘facoltà di giurisprudenza’ e traduce, quindi, il latino iuris prudentia, cioè dottrina o scienza del diritto, designando gli apporti dei giuristi (prudentes) collettivamente considerati. Relativamente all’esperienza contemporanea, invece, con la parola giurisprudenza si intendono le pronunzie dei giudici, prese nel loro complesso, mentre per indicare gli apporti dei giuristi si usa il termine dottrina. Tale eterogenesi di significato dipende dal ridimensionamento del ruolo del giurista nei sistemi giuridici dell’epoca moderna, dove è invece centrale il ruolo del giudice che, nei sistemi chiusi, applica direttamente la legge e, in quelli aperti, individua sulla base dei precedenti il diritto applicabile [sopra, capitolo primo, § 2, E].

B) I giuristi romani del periodo arcaico e della fase iniziale di quello preclassico erano gli appartenenti al collegio sacerdotale dei pontefici (pontifices), esistente fin dai primordi della città (Pomp. in D. 1, 2, 2, 6). Le loro competenze religiose erano connesse all’esigenza di garantire la correttezza delle cerimonie e dei riti, in cui si esprimeva il rapporto fra la civitas e gli dei. Inizialmente, in un contesto nel quale non v’era ancora una netta distinzione fra le sfere del diritto e della religione ed era centrale il valore della pax deorum , che doveva essere ristabilita ove fosse stata infranta da condotte umane tali da causare l’ira degli dei verso la città [sopra, in questo capitolo, § 2, D], le primitive funzioni dei pontefici in ambito giuridico dovettero essere quelle consistenti nel determinare quali fossero queste condotte e che cosa si dovesse fare per ristabilire l’armonia infranta. Si trattava, in sostanza, di individuare, formulare compiutamente e poi memorizzare i mores che costituivano il diritto della città [sopra, in questo capitolo, § 4, A] e di consigliare il re circa le norme applicabili nell’amministrazione della giustizia. Si è visto, inoltre, che le funzioni di formulazione, memorizzazione e conservazione dei mores, forse a un certo punto versati per iscritto, ebbero un ruolo importante nell’elaborazione della legge delle

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XII tavole, che ne recepì, con i necessari aggiustamenti, una parte considerevole, espressamente o implicitamente [sopra, in questo capitolo, § 5, B e C]. Il capo del collegio, denominato pontifex maximus , poi, partecipava ad atti formali fondamentali per la vita della città, che si svolgevano davanti alle più antiche assemblee della città (comitia curiata ), come, per esempio, la più antica forma di adozione (adrogatio [oltre, capitolo terzo, § 17, A e C] e il testamento comiziale (testamentum calatis comitiis ) [oltre, capitolo ottavo, § 8]. A un certo punto, ogni anno uno dei componenti del collegio veniva designato per consigliare i privati che lo interrogassero in materia giuridica: tale attività si concretava nel suggerire quali atti porre in essere per raggiungere gli effetti giuridici che il richiedente si riproponeva (cavere ), nell’individuare quale fosse la soluzione conforme al diritto in ipotesi di conflitti di interessi (respondere ) e quali fossero i formulari delle azioni utilizzabili in giudizio dai consociati a tutela dei propri diritti (agere ). Mentre prima della legislazione decemvirale, i pontefici operavano in assoluta libertà, dovendosi rapportare solo con quei mores che essi concorrevano a selezionare e con le leggi regie, una volta emanata la legge delle XII tavole [sopra, in questo capitolo, § 5], essi si dovettero confrontare con le disposizioni in essa contenute e ciò consentì loro di individuare soluzioni innovative. Per esempio, sfruttando la norma sanzionatoria secondo la quale, se il padre vendeva per tre volte il figlio, perdeva la potestà su di esso (si pater filium ter venum duit filius a patre liber esto : tab. 4, 2b), i pontefici crearono l’emancipatio , cioè un modo attraverso il quale il padre, ove lo volesse, poteva liberare il proprio figlio dalla patria potestas , che in origine era inestinguibile, vendendolo tre volte a un fiduciario, cioè a una persona che, d’accordo con il padre medesimo, acquistava per tre volte il figlio di quest’ultimo al solo scopo di farlo uscire dalla patria potestà [oltre, capitolo terzo, § 18, B].

Tuttavia, il codice decemvirale non fu considerato una cornice legislativa invalicabile avente per oggetto comandi generali e astratti, cioè norme giuridiche dalle quali ricavare in via deduttiva la soluzione delle questioni dubbie o controverse. Nell’ambito della giurisprudenza pontificale, infatti, già si evidenziavano alcuni caratteri, fra loro connessi, che sarebbero stati propri dei giuristi laici della fase successiva del periodo preclassico e del periodo classico: l’impiego del metodo casistico e l’ambientarsi della individuazione del diritto applicabile in un sistema aperto. Infatti, a differenza di quanto fanno i giuristi moderni, i pontefici non avevano interesse ad elaborare astratte costruzioni giuridiche dalle quali fare discendere in via deduttiva le soluzioni pratiche, né forse ne avevano la capacità,

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ma si misuravano con i singoli casi concreti che venivano portati alla loro attenzione, individuando la soluzione giuridica a partire dal caso, del quale venivano valorizzati gli aspetti particolari (metodo casistico). Inoltre, nell’individuare il diritto applicabile, cioè nello svolgere quell’attività che era denominata interpretatio , i pontefici non erano vincolati dalla cornice stringente della legge, ma suggerivano ai privati e ai giudici le massime, cioè i criteri da utilizzare in concreto, sulla base dei precedenti e delle regole casistiche, che trovavano espressione dapprima nei mores e poi nei versetti delle XII tavole che in larga misura li avevano recepiti, potendo però anche innovare rispetto al diritto esistente in base ai valori condivisi dalle classi dominanti delle quali erano espressione (sistema aperto). In ultima analisi, dato che il fondamento dei mores consisteva nella struttura stessa dei rapporti socio-economici, era quest’ultima a suggerire la soluzione giuridica, a prescindere dall’esistenza o meno di un testo normativo da comprendere e da applicare.

C) Alla fine del IV secolo a.C. iniziò il processo di laicizzazione della giurisprudenza, che avrebbe condotto, in progresso di tempo, all’emersione di giuristi professionali la cui autorità non era più ricondotta alla titolarità di una carica sacerdotale (che potevano o meno rivestire), ma, da un lato, al dato sociale rappresentato dall’appartenenza alle classi dominanti, che spesso trovava espressione nel contemporaneo esercizio delle cariche magistratuali repubblicane, e, dall’altro, alla competenza individuale nel campo del diritto (Pomponio in D. 1, 2, 2, 7; 35 e seguenti). Tra le attività del giurista rimasero quelle pratiche riguardanti la consulenza sugli atti da porre in essere, i responsi riguardanti i conflitti di interessi e i mezzi giudiziali da adottare (cavere, respondere, agere) [sopra, in questo §, B], ma si cominciò a evidenziare anche una riflessione teorica che, muovendo dallo studio dei casi, pervenne alla formulazione di regole (dette appunto casistiche), suscettibili di essere applicate in casi analoghi o di essere aggiustate, modificate, sostituite da altre quando ritenute non più soddisfacenti o in presenza di casi in cui, malgrado la presenza di elementi comuni, gli elementi differenziali le rendevano inapplicabili. Inoltre, a partire dal III secolo a.C. e, con maggiore intensità nel II secolo a.C. cominciò a nascere una letteratura giuridica, nella quale avrebbero trovato spazio, a partire dal I secolo a.C., anche opere sistematiche di grande profondità. La nascita della giurisprudenza laica comportò un mutamento rilevante nel sistema giuridico romano, in quanto, mentre in precedenza ogni questione giuridica poteva avere soltanto una soluzione, eventualmente maturata a seguito di una discussione che rimaneva interna al collegio pontificale, quando l’appartenenza a esso non fu più un requisito della qualità di giurista, ogni questione giuridica diven-

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ne suscettibile di più soluzioni diverse, in quanto era possibile che i diversi giuristi non concordassero in merito alla soluzione da dare alla questione stessa: nacque così il ius controversum , caratterizzato dal fatto che ciascuna delle soluzioni date era considerata, alla pari delle altre, diritto vigente. I contrasti fra le opinioni dei giuristi potevano essere di volta in volta superati, sul versante teorico, attraverso il successivo approfondimento (sempre ad opera dei giuristi) delle relative problematiche, anche se a quelli eventualmente superati se ne potevano sostituire di nuovi. Ma, soprattutto, sul versante pratico, ossia in riferimento al singolo processo, la divergenza fra le opinioni relative a un caso specifico veniva superata al livello della decisione del giudice, il quale, non essendo nel processo ordinario del periodo classico (processo formulare) un togato (cioè un giudice professionale inquadrato nei ruoli della magistratura all’esito di un apposito concorso), ma un comune cittadino non necessariamente esperto di diritto, decideva secondo i responsi dei giuristi eventualmente prodotti dai litiganti o da lui stesso acquisiti, scegliendo, ove questi fossero discordanti, quale soluzione seguire. Altre caratteristiche della giurisprudenza romana, nelle quali la novità del ius controversum si viene a inserire, provenivano nel loro nucleo originario dall’epoca precedente, nella quale giuristi erano i pontefici. Tra queste, innanzi tutto, era lo stretto legame con la dimensione casistica, che si traduceva nell’impiego del metodo casistico o topico. Riducendo il complesso fenomeno ai suoi aspetti elementari, si può affermare che nei periodi preclassico e classico le massime, cioè i criteri, di decisione erano elaborate in riferimento a singoli casi controversi, essendo perciò regole casistiche, e, poi, potevano essere utilizzate come precedenti anche per risolvere casi che presentassero le stesse caratteristiche di quello in riferimento al quale si erano formate, mentre per i casi che presentavano anche caratteristiche differenti i giuristi valutavano di volta in volta se le somiglianze con il caso sul quale la regola si era formata giustificassero la medesima soluzione o se gli elementi differenziali suggerissero piuttosto l’applicazione di una regola diversa. Il metodo casistico era utilizzato, inoltre, sul piano della formazione delle costruzioni teoriche e sistematiche, peraltro quasi sempre ispirate da scopi pratici, e della verifica della loro tenuta, nel senso che esse erano elaborate a partire dall’analisi di casi realmente accaduti o immaginari, di scuola, ed erano costantemente vagliate alla luce della casistica, di modo che la singola costruzione valeva nella misura in cui dall’osservazione di altri casi non considerati al momento della sua formulazione non emergesse che la formulazione teorica comportava conseguenze inaccettabili o inopportune. V’era, poi, l’eventualità che una regola casistica o una teoria apparissero superate alla luce di una riconsiderazione del caso o del problema che facesse ritenere erroneamente non valorizzato un aspetto ritenu-

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to rilevante o erroneamente valorizzato un aspetto irrilevante. Pertanto, le costruzioni dei giuristi romani erano sempre perfettibili, modificabili e superabili in base al confronto con la casistica quanto al contenuto e all’ampiezza applicativa. Vale la pena di ricordare le parole di Paolo, il quale sul finire del periodo classico, nel definire la regula , affermava che … non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod regula fiat … (D. 50, 17, 1 pr.). Ius è in questo caso la soluzione giuridica del caso concreto, che non discende per deduzione da una regola, essendo per converso proprio dall’analisi delle soluzioni giuridiche dei casi concreti che la regola si forma. La conseguenza è che la regola desunta dalle soluzioni giuridiche dei casi concreti costituisce solo un criterio la cui applicabilità va verificata di volta in volta alla luce delle caratteristiche del caso concreto cui si deve dare una soluzione giuridica.

Anche nella giurisprudenza laica, il metodo casistico si collocava nel quadro di un sistema aperto, nel quale, pur essendo utilizzata (ancorché marginalmente nel diritto privato) la legge, mancava una cornice legislativa invalicabile, come invece avviene in molti sistemi contemporanei, tra i quali il nostro, dove tale cornice è rappresentata dalla costituzione, dai codici e dalle leggi speciali. Pertanto, il giurista romano non si limitava all’interpretatio legis , ossia all’interpretazione di un norme scritte, ma soprattutto individuava nella struttura dei rapporti economico-sociali il diritto applicabile, procedendo a quella che può essere definita interpretatio iuris . Tale è pure il senso dell’espressione interpretatio prudentium , che indicava la ricerca e l’individuazione della norma applicabile. Non essendovi una cornice legislativa vincolante, alla quale si potesse guardare per attingere i valori ispiratori del sistema, il giurista veicolava i valori espressi nella società, i quali a Roma erano quelli delle classi dominanti, di cui egli era e si sentiva espressione, condivisi dalle classi subalterne o, ove così in concreto non fosse, ad esse imposti. Tali valori, nell’ideologia del periodo classico, erano considerati declinazioni della iustitia , del bonum , dell’aequum , dell’honestum . È in questo senso che si debbono intendere affermazioni del genere di quelle, che si leggono in alcuni passi del Digesto attribuiti a Ulpiano, giurista dell’epoca severiana (D. 1, 1, 1 pr.-1; D. 1, 1, 10 pr.-2), forse in parte rimaneggiati dai compilatori giustinianei, ma il cui nucleo esprime, nella sostanza, il pensiero dei giuristi classici: ius deriva da iustitia ; secondo Celso, ius est ars boni et aequi ; i giuristi sono chiamati a ragione sacerdotes , in quanto coltivano la giustizia, professano la conoscenza del buono e dell’equo, distinguendo l’equo dall’iniquo, il lecito dall’illecito, seguono la vera philo-

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sophia , non quella simulata ; la giustizia è la volontà costante e perpetua di dare a ciascuno il suo; i praecepta iuris che i giuristi applicano sono honeste vivere, alterum non laedere suum cuique tribuere ; la iuris prudentia è conoscenza delle cose divine e umane, scienza del giusto e dell’ingiusto. Si tratta di affermazioni che si spiegano per il fatto che i giuristi veicolavano nel mondo del diritto i valori della società di cui erano e si consideravano espressione, sebbene le affermazioni menzionate non specificassero di quali valori si trattasse al di là delle formulazioni generali, essendo essi ricavabili dall’analisi delle specifiche soluzioni dei casi controversi o, comunque, dubbi.

Poiché tali valori mutavano a seconda delle strutture socio-economiche e dei punti di riferimento culturali, le soluzioni casistiche e le costruzioni teoriche erano influenzate da essi, di modo che una certa soluzione o una certa teoria potevano essere superate, oltre che per la riconsiderazione degli aspetti del caso o del problema [sopra, in questo §], anche per la modificazione dei valori che vi erano sottesi. Perciò, Giavoleno, in un passo delle sue Epistulae , ben poteva affermare che omnis definitio in iure civili periculosa est: parum (ma è preferibile la correzione in rarum) est enim, ut non subverti posset (D. 50, 17, 202).

D) Nel principato, sorgono a Roma scuole di diritto e, in particolare, quella dei Sabiniani e quella dei Proculiani, la prima fondata dal giurista Ateio Capitone e continuata da Masurio Sabino e poi da altri e la seconda dal giurista Antistio Labeone e continuata da Proculo e poi da altri (Pomponio in D. 1, 2, 2, 47-53), fino alla seconda metà del II secolo d.C. È discusso se la distinzione fra le scuole si sia riflessa sul metodo di lavoro dei giuristi appartenenti a esse e in quale modo, ma, in ogni caso, spesso i giuristi appartenenti all’una e all’altra avevano opinioni divergenti su singoli problemi, anche se nel II secolo d.C. alcuni contrasti vennero superati. Va, inoltre, osservato che il princeps tendeva a esercitare la sua posizione di primazia anche per controllare la giurisprudenza. Da un lato, venne introdotto il ius respondendi ex auctoritate principis , il quale veniva concesso dall’imperatore solo a determinati giuristi e non su richiesta dell’interessato, ma per iniziativa imperiale (Pomponio in D. 1, 2, 2, 48-50): esso incideva sul sistema del ius controversum facendo preferire i responsi di quei giuristi che ne erano insigniti, sul presupposto che tali responsi era come se promanassero direttamente dal princeps. I responsi dei giuristi non dotati del ius respondendi, benché anch’essi considerati diritto, avevano, dunque, una valenza recessiva, non potendo prevalere su quelli dei giuristi che avevano ricevuto il beneficio imperiale. L’operatività del ius respondendi si riscontrava soprattutto nel

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processo, dove, come si è visto, il giudice privato decideva le controversie sulla base dei responsa dei giuristi prodotti dalle parti o da lui acquisiti d’ufficio, riguardanti il caso sottoposto al suo giudizio [sopra, in questo §, C]. In tale contesto, pur essendo senz’altro possibile chiedere responsi anche a giuristi che non avevano il ius respondendi, il responso di un giurista munito di esso prevaleva rispetto a quelli dei giuristi che non ne erano muniti. Connesso all’operatività del ius respondendi nel processo è anche il riconoscimento del valore di legge al contenuto dei responsa e in particolare alle sententiae concordi dei giuristi che ne erano muniti: Gaio, nelle Institutiones affermava che le sententiae concordi dei giuristi interpellati, formulate in occasione del singolo processo, avevano efficacia di legge, mentre in presenza di sententiae discordi era il giudice a scegliere quale seguire, aggiungendo che tale principio era stato recepito in un rescritto dell’imperatore Adriano (Gai 1, 7). L’attribuzione dell’efficacia di legge al contenuto delle sententiae concordanti presupponeva che si trattasse di sententiae espresse da giuristi cui era stato concesso dal princeps il ius respondendi, in quanto la giustificazione dell’equiparazione alla legge è da individuare, appunto, nella particolare autorità che esso attribuiva a chi ne era dotato, derivata da quella dell’imperatore. È evidente che il giudice non si poteva discostare dal contenuto delle sententiae tutte concordi dei giuristi dotati del ius respondendi, essendo irrilevanti le eventuali sententiae discordi di giuristi non muniti di ius respondendi. Ove però non vi fossero sententiae di giuristi muniti di ius repondendi, il giudice avrebbe tenuto conto di quelle formulate da giuristi che non ne erano muniti.

D’altro lato, a partire dal II secolo d.C., i giuristi sempre più spesso facevano parte della burocrazia imperiale, cioè dell’apparato amministrativo dell’impero, rivestendo uffici connessi all’amministrazione della giustizia, dalla direzione delle cancellerie che preparavano i testi dei rescritti e delle epistulae alle più elevate cariche della carriera dei funzionari imperiali (carriera equestre), come il praefectus praetorio , il quale, tra l’altro, giudicava in grado d’appello al posto dell’imperatore. Rivestirono tale ufficio i grandi giuristi di epoca severiana Papiniano, Ulpiano e Paolo. L’appartenenza alla burocrazia è un modo attraverso il quale l’imperatore si assicura il controllo sulla giurisprudenza.

E) La giurisprudenza romana (intesa come scienza del diritto praticata dai giuristi) costituiva la suprema istanza unificante del diritto oggettivo. Da un lato, i giuristi individuavano il diritto applicabile ricavandolo dalle strutture socio-economiche alla luce dei valori propri delle classi dominanti e largamente condivisi da quelle subalterne. Dall’altro, essi interpretavano le norme introdotte dalle fonti scritte (leggi, senatoconsulti, costituzioni imperiali, editti dei magistrati). Tutte le

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tipologie in cui si esprimeva l’attività dei giuristi, compresa l’individuazione della norma applicabile a prescindere dall’esistenza di una previsione scritta, erano definite con l’espressione interpretatio prudentium ), conseguiva il ius liberorum (ma, in realtà, privilegio spettante a causa dei figli), introdotto dalla legislazione matrimoniale di Augusto per incrementare la natalità, spettavano anche nell’ipotesi in cui uno dei nati avesse fattezze in prevalenza ferine, non avendo la madre che si era uniformata alle prescrizioni legali sposandosi e procreando alcuna colpa (Ulpiano in D. 50, 16, 135) [oltre, in questo capitolo, § 20, C].

Nei periodi arcaico e preclassico, per la nascita non era previsto alcun mezzo di pubblicità, rilevando il controllo sociale e l’atto diffuso nella prassi di prendere in braccio i propri figli neonati e sollevarli verso l’alto (tollere liberos ), i cui effetti giuridici sono incerti e forse variarono nel tempo, ma che comunque dimostrava in modo inequivoco l’entrata di un nuovo individuo (caput) nella famiglia. Nel principato la nascita dei figli legittimi e, poi, anche illegittimi doveva essere dichiarata davanti a una pubblica autorità (professio ) o in un documento privato (testatio ), con valore probatorio, ma era ammessa la prova contraria.

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C) Il concepito (conceptus), anche descritto come qui in utero est , essendo ancora mulieris portio … vel viscerum (Ulpiano in D. 25, 4, 1, 1), non era considerato ancora una persona, cioè un essere umano, ma la giurisprudenza ammise la protezione delle sue aspettative ereditarie ove il padre fosse morto nel periodo intercorrente fra il concepimento e la nascita e, cioè, ove il figlio fosse nato postumo [oltre, capitolo ottavo, § 3]. A tal fine, il pretore nominava un curator ventris , persona che aveva il compito di conservare la consistenza dell’eredità che il nascituro avrebbe potuto acquistare solo al momento della nascita. Per descrivere la tutela delle aspettative ereditarie del concepito, si giunse ad affermare che qui in utero sunt in toto paene iure civili in rerum natura esse intelleguntur , cioè che i concepiti si considerano venuti in esistenza, già nati (Giuliano in D. 1, 5, 26), ma tale formulazione non aveva quella portata generale che il suo tenore letterale sembrerebbe esprimere, riguardando solo le aspettative ereditarie e non l’intero ambito del diritto civile. In realtà, i giuristi romani erano ben consapevoli del fatto che intendere il concepito già tra le cose umane (in rebus humanis) per preservare i vantaggi che avrebbe acquistato con la nascita era una finzione. Come affermava Paolo, infatti, qui in utero est, perinde ac si in rebus humanis esset custoditur (Paolo in D. 1, 5, 7 pr.): l’espressione perinde ac si dimostra che il concepito non era, in realtà, fra le cose umane, ma si considerava come se lo fosse. Nel medio evo tale concetto venne sintetizzato con l’affermazione che conceptus pro iam nato habetur , nella quale la portata apparentemente generale risente forse dell’influenza cristiana.

Sul versante del diritto criminale venne punito il procurato aborto, non in quanto il feto fosse considerato un essere umano, ma perché si trattava di un fatto contrario alla speranza (spes) del padre di avere un figlio e all’interesse demografico della civitas. D) La persona si estingueva a seguito della morte, la cui prova poteva essere data in ogni modo da chi aveva interesse. Non sempre, però, tale momento era accertabile e tale incertezza poteva sollevare problemi, in particolare quando determinati effetti giuridici dipendevano da quale fra due persone fosse morta prima di un’altra. Ciò avveniva soprattutto nella materia delle successioni legittime (cioè senza testamento), dove si doveva determinare, fra due persone legate da rapporto di parentela, chi fosse morto prima e chi, essendogli sopravvissuto, gli fosse divenuto erede. Se non v’era modo di provare quale delle due persone fosse morta per prima, in quanto per esempio erano entrambe decedute a causa di un evento catastrofico (terremoto, eruzione vulcanica, naufragio), in epoca classica si applicava

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la regola della commorienza, cioè esse si consideravano morte nello stesso momento, con la conseguenza che nessuna delle due era succeduta all’altra acquistandone l’eredità. Tuttavia, nel II secolo d.C. alcuni rescritti imperiali stabilirono principi che derogavano a tale regola, basati su massime d’esperienza legate a una valutazione astratta della resistenza delle persone in funzione dell’età e del sesso (secondo l’id quod plerumque accidit ). Se il padre e il figlio erano morti in guerra e non si sapeva chi era morto prima, il padre si considerava morto prima del figlio; se non era noto chi, fra il marito e la moglie fosse morto prima, la donna si considerava morta prima dell’uomo; se erano morti il padre e il figlio e non v’era prova di chi fosse morto prima, il padre si considerava morto prima del figlio se questo era pubere e dopo il figlio se questo era impubere (Trifonino in D. 34, 5, 9, 1; 3-4). Il presupposto dell’operatività di tali principi era l’inesistenza di elementi dai quali risultasse quale delle due persone fosse in realtà premorta all’altra.

In epoca giustinianea tali principi casistici si irrigidirono, divenendo vere e proprie presunzioni di premorienza contro le quali era ammessa la prova contraria dell’interessato: si trattava, pertanto, di praesumptiones iuris tantum o presunzioni relative, cioè che ammettono la prova contraria (contrapposte alle praesumptiones iuris et de iure o presunzioni assolute, che non ammettono prova contraria).

2. Capacità giuridica e capacità di agire. Classificazione romana delle persone e teoria degli status hominum A) La moderna scienza del diritto ha elaborato il concetto di capacità giuridica (ma si parla anche di soggettività giuridica e, in maniera più ambigua, di personalità giuridica) per definire l’idoneità della persona fisica a essere titolare di diritti e di doveri e il concetto di capacità di agire per indicare l’idoneità della persona fisica a porre in essere atti rilevanti dal punto di vista giuridico, finalizzati a costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici. Sebbene tali concetti siano stati creati sulla base dello studio del materiale tramandato dal Corpus iuris civilis , da cui emerge la rilevanza attribuita nell’esperienza romana a tali idoneità, i giuristi romani non hanno formulato le categorie concettuali della capacità giuridica e di quella di agire. Nel periodo classico non v’era un termine che descrivesse la capacità giuridica. Si è visto che il sostantivo persona indicava l’uomo nella sua concretezza, non la sua idoneità a essere titolare di diritti e doveri, e lo stesso vale per il termine caput .

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Neppure l’impiego del sostantivo persona nel senso di maschera o di personaggio teatrale può condurre a ipotizzare che esso venisse utilizzato per indicare la capacità giuridica: per i giuristi persona era l’essere umano concretamente inteso, come esemplifica Gai 1, 8 e seguenti, dove personae sono sia l’essere umano libero, sia quello in stato servile. Inoltre, a conferma della concezione concreta di caput, va segnalato che ancora nel periodo classico avanzato Paolo affermava servile caput nullum ius habet (D. 4, 5, 3, 1). In quest’ultimo passo caput significa individuo, cioè il singolo appartenente a un insieme, che qui è rappresentato da tutti gli esseri umani, fra i quali l’aggettivo servile individua quelli in stato di schiavitù.

Si deve attendere la legislazione del periodo postclassico per incontrare, in riferimento agli schiavi, una utilizzazione di persona in un’accezione che anticipa quella della moderna espressione capacità giuridica e lo stesso avviene in un passo delle Istituzioni di Giustiniano per il termine caput. In Nov. Theod. 17, 1, 2 (439 d.C.), dell’imperatore Teodosio II, si legge che gli schiavi non possono agire in giudizio quasi nec personam habentes e nella Parafrasi di Teofilo (VI secolo d.C.), scritta in greco, gli schiavi sono detti ‘aprósopoi’ (Teoph. Par. 3, 17). Inoltre, in I. 1, 16, 4 si afferma che servus … nullum caput habuit . L’impiego del verbo habere per reggere persona e caput denota che i due sostantivi non indicano più la persona o l’individuo nella sua concretezza come nel periodo classico, ma un’attribuzione che spetta ad alcuni individui (gli uomini liberi) e non ad altri (gli schiavi), che possiamo definire con terminologia moderna capacità giuridica (o anche personalità o soggettività giuridica).

Tali sviluppi, dunque, risalgono a un’epoca nella quale si era da tempo esaurita la parabola della giurisprudenza teorico-pratica del periodo classico. B) Mentre nelle esperienze giuridiche moderne la capacità giuridica è riconosciuta a tutti gli esseri umani, essendo una declinazione del principio di eguaglianza (giuridica) degli uomini, a Roma l’idoneità della persona a essere titolare di diritti e di doveri era riconosciuta solo agli esseri umani liberi (contrapposti ai servi ), ossia non soggetti al diritto di proprietà di un’altra persona, e, tra questi, in maniera piena e completa sul versante del diritto privato solo ai cives Romani (di genere maschile e femminile) che non fossero sottoposti a poteri altrui, quali la patria potestas , spettante al paterfamilias su figli, figlie e ulteriori discendenti di genere maschile e femminile, la manus , potere dell’uomo sulla propria moglie (ed eccezionalmente su altre donne libere), e il mancipium , potere che si acquistava sulle persone alienate dal loro paterfamilias con la mancipatio , che era un atto formale e solenne.

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Della schiavitù, della cittadinanza e dei poteri che escludevano la capacità giuridica si tratterà diffusamente nel prosieguo [oltre, in questo capitolo, §§ 3-7 sulla schiavitù; §§ 10-13, sulla cittadinanza; §§ 14-18, sulla patria potestas; § 19, A, e § 29, D, sulla manus; § 9, B, sul mancipium]. Dal punto di vista terminologico, va segnalato fin d’ora che nel sintagma patria potestas , equivalente a potestà paterna, l’aggettivo patria, cioè paterna, allude non solo al padre, ma anche all’ascendente paterno in linea diretta (nonno e bisnonno paterni e così via). Nelle espressioni paterfamilias, filiusfamilias, filiafamilias, materfamilias, il segno familias, che può essere unito o separato dal resto, è un antico genitivo di familia , sostantivo della prima declinazione, in -as, in luogo di quello del latino classico, che è in -ae.

A questo proposito rileva la distinzione, contenuta nelle Istituzioni di Gaio, fra personae sui iuris e personae alieno iuri subiectae , le quali si possono chiamare anche, con espressione più sintetica, personae alieni iuris (Gai 1, 48). Queste ultime erano denominate così in quanto sottoposte alla potestas , che poteva essere dominica , espressione che descrive la proprietà del padrone sugli schiavi, e patria , cioè del capofamiglia sui figli, le figlie e gli altri discendenti in linea maschile, maschi e femmine, o alla manus , potere dell’uomo sulla propria moglie (ed eccezionalmente su altre donne libere), o al mancipium , potere che si acquistava sulle persone alienate dal loro paterfamilias con la mancipatio , mentre erano sui iuris tutte le altre (Gai 1, 49-50; 52; 55). Guardando alla distinzione fra personae sui iuris e personae alieno iuri subiectae o alieni iuris è agevole rendersi conto che solo le prime, non essendo oggetto di un diritto altrui né soggette a poteri altrui, avevano la completa idoneità a essere titolari di diritti e di doveri. Tale quadro ha indotto parte della dottrina a sostenere che i giuristi romani abbiano inquadrato il problema dell’idoneità della persona a essere titolare di diritti e di doveri (cioè quella oggi è denominata capacità giuridica) nell’ambito della teoria dei tre status hominum , cioè dei tre stati o condizioni personali: status libertatis , status civitatis e status familiae . Solo chi fosse libero, cittadino romano e indipendente da poteri altrui (patria potestas, manus, mancipium), avrebbe potuto avere la titolarità di diritti e di doveri. È senz’altro vero che i giuristi romani hanno teorizzato i singoli status (libertatis, civitatis, familiae), utilizzandoli per inquadrare l’analisi casistica e, nelle opere istituzionali, per ordinare in base a essi l’esposizione della materia delle personae. Non v’è dubbio, inoltre, circa il fatto che i tre status, presi singolarmente, condizionavano l’idoneità della persona a essere titolare di diritti e di doveri.

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L’importanza del concetto di status sul versante dell’esposizione dei problemi riguardanti le personae e della sistematica è provata, tra l’altro, dalle Istituzioni di Gaio, da quelle di Giustiniano e dal titolo del Digesto de statu hominum: D. 1, 5.

Tuttavia, l’opinione secondo la quale l’idoneità a essere titolare di diritti e di doveri sarebbe stata misurata alla luce di una considerazione complessiva dei tre status , nel senso che essa vi sarebbe stata soltanto quando la persona godesse della libertà, della cittadinanza e fosse indipendente dal potere di un paterfamilias , non è condivisibile nella sua portata generale, in quanto vuole fare passare per romana una concettualizzazione che, malgrado sfrutti il concetto antico di status, è moderna. Infatti, in primo luogo, la giurisprudenza romana ha coordinato i tre status in una compiuta tripartizione soltanto a proposito della capitis deminutio , che era l’uscita di una persona da un insieme cui prima apparteneva: dall’insieme degli uomini liberi o dei cittadini o delle persone sottoposte alla potestà paterna. In generale, la capitis deminutio era una prioris status mutatio , ma essa sussisteva solo quando l’uscita dall’insieme di appartenenza comportava la recisione, vale a dire lo scioglimento, dei vincoli parentali civili in linea maschile, ossia dell’a(d)gnatio , cui conseguiva l’estinzione dei diritti e dei doveri della persona. Poiché caput aveva il significato concreto di individuo (e non quello di capacità o personalità giuridica) [sopra, in questo capitolo, § 1, A], la denominazione si spiega probabilmente con il fatto che l’insieme al quale l’individuo (caput) cessava di appartenere, a seguito di tale uscita, diminuiva di una unità.

A questo proposito, i giuristi romani distinguevano la capitis deminutio maxima , ossia la perdita della libertà, quella media , ossia la perdita della cittadinanza, e quella minima , ossia la perdita dello stato o condizione di famiglia precedente, nelle quali diminuivano di un individuo, vale a dire di una unità, gli insiemi rispettivamente degli uomini liberi, dei cittadini romani e dei componenti della famiglia, e approfondivano le conseguenze di tali vicende anche sul piano patrimoniale (Gai 1, 159-163; I. 1, 16 pr.-7), ma non giunsero mai a costruire un sistema coerente e organico nel quale l’idoneità a essere titolare di diritti e di doveri fosse ricostruita nel complesso in relazione a tali vicende personali. Se ne ricava che la teoria dei tre status non fu né elaborata né utilizzata dai romani allo scopo di concettualizzare l’idoneità della persona a essere titolare di diritti e di doveri e che, in quest’ultima funzione, costituisce il frutto di una rielaborazione generalizzante dei moderni studiosi del diritto romano. Inoltre, ponendo in relazione il piano della costruzione giuridica con quello della regolamentazione, una rigorosa correlazione fra i tre status e l’idoneità alla titolarità di diritti e doveri si può ipotizzare solo per la fase iniziale del periodo

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arcaico, nella quale è verisimile che godessero di quella che oggi chiamiamo capacità giuridica soltanto coloro che erano liberi, cittadini romani e non sottoposti alla patria potestas del padre o dell’avo o, se donne, alla manus del marito. Si trattava, però, di un’epoca nella quale non v’era una giurisprudenza proclive alla speculazione teorica, ancorché orientata alla pratica, per cui la teoria dei tre status appare, rispetto a tale momento storico, sovrastrutturata dai moderni. In ogni caso, ben presto la correlazione fra i tre status e la titolarità di diritti e doveri venne meno: in particolare, fermo il requisito della libertà, venne ammesso già nel periodo arcaico che i Latini e gli stranieri, malgrado non godessero della cittadinanza romana, fossero titolari, in varia misura, di alcuni diritti e doveri [oltre, in questo capitolo, §§ 11 e 12 ], e nel periodo preclassico e in maggiore misura in quello classico che anche coloro i quali erano sottoposti alla patria potestas, se di genere maschile, pur essendo in quanto tali alieni iuris , fossero titolari di alcuni diritti e doveri [oltre, in questo capitolo, § 16, C e D]. Del resto, lo status civitatis , pur incidendo sulla capacità giuridica, rimaneva estraneo alla contrapposizione gaiana fra persone sui iuris e alieni iuris o alieno iure subiectae , nella quale erano inquadrati i problemi relativi alla idoneità delle persone a essere titolari di diritti e doveri, in quanto gli stranieri, malgrado fossero tutti sui iuris (essendo la patria potestas un potere tipicamente romano), non avevano una piena capacità giuridica. Concludendo sul punto, i giuristi romani non inquadrarono l’idoneità a essere titolare di diritti e di doveri né nel concetto di capacità giuridica, che non avevano elaborato, né in una costruzione generale come la teoria dei tre status, che utilizzavano per finalità diverse. Ne discende che l’impiego dell’una o dell’altra categoria da parte della dottrina moderna ha una portata solo descrittiva, utile per una ordinata esposizione dei problemi, ma non tale da rispecchiare il modo di pensare dei giuristi romani. Infine, la distinzione fra personae sui iuris e alieni iuris o alieno iuri subiectae consente di inquadrare solo una parte dei fenomeni relativi all’idoneità o meno della persona a essere titolare di diritti e di doveri, sia in quanto gli stranieri, pur rientrando tra le prime, potevano essere titolari solo di alcuni diritti e doveri, sia perché alle seconde, ove si trattasse di filiifamilias e di altri discendenti maschi del paterfamilias , a un certo punto venne riconosciuta una parziale idoneità a essere titolari di diritti e di doveri. C) Qualche osservazione merita il rapporto fra l’idoneità a essere titolare di diritti e di doveri (capacità giuridica) e quella a compiere atti giuridicamente rilevanti (capacità di agire). Mentre oggi la capacità di agire, qualora ve ne siano i requisiti (come la maggiore età e la sanità mentale), può spettare solo a persone che abbiano la capacità giuridica, costituendo tali capacità come due cerchi con-

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centrici, il secondo (la capacità giuridica) di diametro maggiore del primo (la capacità di agire), nel diritto romano, accanto alle persone che avevano sia l’idoneità a essere titolari di diritti e di doveri (la capacità giuridica), sia quella di porre in essere atti giuridicamente rilevanti (la capacità di agire), vi erano persone che non avevano in tutto o in parte l’idoneità a essere titolari di diritti e doveri (la capacità giuridica), ma avevano l’idoneità a porre in essere atti giuridicamente rilevanti (la capacità di agire), sebbene gli effetti di questi ultimi atti, non potendo prodursi in capo a loro stessi, si producessero in capo alla persona sotto il cui potere si trovavano. Si trattava degli schiavi, dei filiifamilias , delle filiaefamilias e degli ulteriori discendenti sottoposti alla potestà del paterfamilias (rispetto a questi ultimi l’avo paterno), delle donne sottoposte alla manus , potere dell’uomo sulla propria moglie (ed eccezionalmente su altre donne libere) [oltre, in questo capitolo, § 19, A, e § 29, D], e delle personae in mancipio , denominate così perché soggette al mancipium , potere (diverso dalla proprietà) che si acquistava sulle personae in potestate alienate dal loro paterfamilias con la mancipatio [oltre, in questo capitolo, § 9, B]. Va precisato che, per quanto concerne i filiifamilias, cui venne riconosciuta una limitata capacità giuridica, la capacità di agire non era limitata a quegli ambiti in cui spettava la prima. Nel caso degli schiavi, inoltre, poteva darsi che gli effetti degli atti posti in essere si producessero nei confronti di persona diversa dal proprietario e cioè a favore dell’usufruttuario, che aveva su di essi un diritto reale su cosa altrui, l’usufrutto (ususfructus) [oltre, capitolo sesto, § 17], e del possessore di buona fede, che aveva una piena disponibilità di fatto su di essi, il possesso (possessio) [oltre, capitolo sesto, § 22].

D) Purché sia chiaro quanto osservato sulla differenza fra le concezioni romane della persona e quelle elaborate dalla dottrina moderna, nulla osta all’impiego delle categorie moderne di capacità giuridica e capacità di agire in funzione descrittiva, per definire rispettivamente l’idoneità della persona a essere titolare di diritti e doveri e quella a porre in essere atti giuridicamente rilevanti. Tuttavia, per il modo in cui nell’esperienza romana si atteggiava il rapporto fra l’idoneità alla titolarità di diritti e doveri (capacità giuridica) e l’idoneità a porre in essere atti giuridicamente rilevanti (capacità di agire) [sopra, in questo §, C], le problematiche concernenti la capacità (e l’incapacità) giuridica delle persone e l’oggettiva estensione della loro capacità di agire saranno inquadrate in riferimento a ciascuno dei tre status hominum , ossia tenendo conto del modo in cui i giuristi romani affrontavano la materia delle persone, dovendosi, inoltre, porre in relazione tali aspetti con la distinzione fra personae sui iuris e personae alieni iuris o alieno iuri subiectae [oltre, in questo capitolo, §§ 3-18]. Invece, le problema-

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tiche concernenti l’incapacità di agire, affrontate dalla giurisprudenza romana soprattutto in riferimento alle personae sui iuris , dotate di capacità giuridica, e quelle concernenti i relativi correttivi, riguardanti solo queste ultime, saranno affrontate separatamente [oltre, in questo capitolo, §§ 26-30]. Tutto ciò nella consapevolezza di utilizzare (legittimamente) concetti moderni e concetti antichi per finalità espositive e conoscitive moderne riferite a un oggetto antico. Per le connessioni con lo status familiae , dopo l’esame di esso, verranno trattati il matrimonio [oltre, in questo capitolo, §§ 1923], i gruppi parentali e pseudo-parentali e i vincoli parentali [oltre, in questo capitolo, §§ 24 e 25]. In ultimo, sarà esaminato il problema delle persone giuridiche [oltre, in questo capitolo, §§ 31-32].

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Sezione seconda

Status libertatis 3. La schiavitù a Roma A) A Roma, la divisione apicale riguardante il diritto delle persone, connessa alla loro condizione, riguarda lo status libertatis ed è fra i liberi e i servi . Soltanto i liberi, che potevano essere tali per nascita (ingenui ) o per manumissione, in quanto affrancati da una precedente condizione servile (libertini , cioè persone liberate dalla schiavitù), godevano, ove avessero la cittadinanza romana [oltre, in questo capitolo, § 10] e non rientrassero sotto i poteri di un altro cittadino, della piena capacità giuridica [sopra, in questo capitolo, § 2, B]. Per converso, gli schiavi, malgrado rientranti fra le personae, erano allo stesso tempo cose (res), oggetto del diritto di proprietà, per cui non godevano di essa, non potendo essere titolari di diritti e di doveri. Tuttavia, si teneva conto del fatto che si trattava di esseri umani pensanti e loquenti, potendo i loro atti dispiegare effetti patrimoniali sul versante del diritto civile a favore del loro padrone (dominus, che esercitava su di essi la dominica potestas , cioè il diritto di proprietà) e di coloro che, non essendone proprietari, avessero su di loro il diritto reale di usufrutto (ususfructus) [oltre, capitolo sesto, § 17] o il possesso (possessio) di buona fede [oltre, capitolo sesto, § 22], e, da un certo momento in poi, sul versante del diritto onorario, in presenza di determinati presupposti, anche a danno del loro padrone [oltre, in questo capitolo, § 5]. Per giunta, potevano cessare di essere cose, essendo ammesso che acquistassero la libertà o la riacquistassero se l’avevano persa [oltre, in questo capitolo, § 7]. Si trattava di un modello giuridico unitario di schiavitù, a differenza di quanto accadeva in altre esperienze dell’antichità. Per converso, sul versante socio-economico e in linea di fatto, vi erano notevoli differenze di trattamento, che variavano a seconda del periodo, della funzione economica e del valore del singolo schiavo, dell’ambito geografico, delle vedute e della sensibilità del proprietario.

B) I poteri del dominus erano quasi illimitati, potendo egli giungere perfino all’uccisione dello schiavo (ius vitae ac necis ), allo stesso modo in cui poteva distruggere le altre cose proprie. Tuttavia, nel periodo arcaico, quando l’economia non era ancora impostata su base schiavistica, la condizione degli schiavi non era molto dissimile da quella dei figli sottoposti alla patria potestas del paterfamilias , se si eccettua il fatto che i primi alla morte del padrone rimanevano nella proprietà degli eredi, e v’era un forte controllo sociale che di certo impediva i più gravi abusi. Nel periodo preclassico, poi, malgrado l’economia fosse ormai strutturata su base schiavistica, come lascia intendere lo storico Dionigi di Alicarnasso, i censori, magistrati investiti, tra l’altro, di un invasivo controllo dei costumi (cura morum), potevano sanzionare con la nota censoria , che dispiegava conseguenze sulla posizione del cittadino negli organi assembleari e sulla possibilità di appartenere al senato, il proprietario che impiegasse in misura eccessiva i poteri correttivi che gli spettavano nei confronti dei propri schiavi o li uccidesse ingiustificatamente (Dion. Hal. 20, 13, 3) [sopra, capitolo secondo, § 2, B].

Solo nel principato, nel II secolo d.C., l’imperatore Antonino Pio comminò sanzioni criminali a carico del proprietario che avesse ucciso il proprio schiavo senza giustificato motivo, equiparando tale fattispecie, sul piano sanzionatorio, a quella dell’uccisione intenzionale dello schiavo altrui, a sua volta ricondotta nel principato all’omicidio, e, inoltre, stabilì che il proprietario che senza alcuna giustificazione avesse sottoposto il proprio schiavo a trattamenti disumani (saevitiae) potesse essere costretto ad alienarlo (I. 1, 8). Già nel I secolo d.C., però, la lex Petronia aveva vietato che gli schiavi fossero ingiustificatamente esposti alle belve negli spettacoli circensi e l’imperatore Claudio aveva stabilito che lo schiavo infermo abbandonato dal padrone acquistasse la libertà. Di una certa rilevanza furono anche i divieti di castrazione degli schiavi emanati dagli imperatori Domiziano e Adriano e altri provvedimenti ascrivibili a quest’ultimo, che sanzionavano l’uccisione ingiustificata e altre condotte crudeli ai danni degli schiavi, migliorandone in qualche misura la condizione. Per quanto riguarda le ragioni di tutti questi limiti, giuocò un ruolo decisivo il timore che eccessive disumanità nei confronti degli schiavi, i quali avevano raggiunto un numero considerevole, potessero generare per reazione gravi fatti criminosi ai danni dei cittadini. Che nella fase iniziale del principato fosse quest’ultima la ragione prevalente delle misure limitative del potere dei proprietari di schiavi emerge dal senatoconsulto Silaniano del 10 d.C. (dell’epoca di Augusto), nel quale, per il caso che un proprietario di schiavi fosse stato trovato morto nella propria casa, era previsto che i suoi schiavi venissero sottoposti a interrogatorio sotto tortura e, ove non avessero provato di non essere stati nella possibilità di difendere il padrone, che venissero uccisi. Tuttavia, nel contempo, rilevò il senso di umanità (humanitas), legato al diffondersi della cultura e della filosofia greca e, in particolare, dello stoicismo presso le classi elevate, che giunse al suo apice con gli interventi imperiali della fase centrale del II secolo d.C., tanto che secondo Gaio hoc tempore neque civibus Romanis nec ullis aliis hominibus, qui sub imperio populi romani sunt, licet

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supra modum et sine causa in servos suos saevire (Gai. 1, 53).

Nel periodo postclassico, Costantino vietò di dividere le famiglie servili (C. 3, 38, 11) e l’uccisione intenzionale dello schiavo venne sempre punita. Tuttavia, il padrone poteva sottrarsi alla condanna dimostrando di non avere avuto l’intenzione di uccidere lo schiavo, essendo questo morto a seguito dell’esercizio di mezzi correttivi normali (come le frustate e le battiture).

4. Lo schiavo nel diritto pubblico, nel diritto processuale civile e nel diritto sacro A) Al di là della generica (ed esatta) affermazione che lo schiavo non aveva la capacità giuridica, la condizione giuridica degli schiavi va esaminata in relazione ai vari ambiti del diritto. B) Nel diritto pubblico lo schiavo era del tutto incapace e, sul versante del diritto criminale, ove commettesse degli illeciti che, se compiuti da una persona libera, avrebbero integrato dei crimini (crimina), non poteva essere sottoposto al processo criminale. In quest’ultima ipotesi, il magistrato esercitava il proprio potere coercitivo (coercitio) senza alcuna delle garanzie previste per le persone libere dotate di cittadinanza romana e le forme procedurali talora documentate nelle fonti erano utilizzate solo allo scopo di consentire al proprietario di difendere il proprio diritto di proprietà. Comunque, a parità di gravità dell’illecito, lo schiavo era punito più gravemente della persona libera (in alcuni casi con la crocifissione, considerata servile supplicium ). Era anche prevista la tortura dello schiavo come normale mezzo di indagine giudiziaria (quaestio servorum ).

C) Nel diritto processuale civile lo schiavo, essendo una res , non era parte, cioè soggetto del processo, non potendo assumere la veste di attore né quella di convenuto, ma nelle actiones in rem , cioè nelle azioni a tutela della proprietà o di un altro diritto assoluto su una cosa, era oggetto dell’azione e nelle actiones in personam , con le quali si faceva valere un diritto di credito, oggetto della prestazione inadempiuta dal debitore contro il quale il creditore agiva in giudizio [per la distinzione fra i due tipi di azioni, cfr. oltre, capitolo quinto, § 9, B]. Sul versante delle actiones in rem, di particolare interesse è il processo di libertà (causa liberalis ), nel quale

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si controverteva in merito allo status di libertà o schiavitù di un uomo. Il processo di libertà si svolgeva nelle forme processuali attraverso le quali, nei vari periodi, era intentata l’azione diretta a rivendicare la proprietà delle cose (rei vindicatio ) di cui il proprietario avesse perso il possesso [oltre, capitolo sesto, § 13, A], pur non essendo l’azione proposta nel processo di libertà, a differenza di quella di rivendica (che poteva avere per oggetto anche uno schiavo), volta a difendere il proprietario contro chi si era impossessato dello schiavo. Pertanto, nell’antico processo delle legis actiones era utilizzata la legis actio sacramento in rem , dove in origine sacramentum era il giuramento, la quale fu la più antica forma di rivendicazione [oltre, capitolo quinto, § 5, A]. Fin da allora il processo di libertà vedeva contrapposti un soggetto che affermava di essere proprietario (dominus) di un essere umano e un altro che, per converso, asseriva che quell’essere umano era in stato di libertà (adsertor in libertatem ), mentre la persona del cui stato si disputava era oggetto dell’azione. Si poteva trattare di una vindicatio in libertatem , quando a prendere l’iniziativa processuale era chi affermava che una persona che serviva come schiavo fosse in realtà libera, o di una vindicatio in servitutem , quando a prendere l’iniziativa processuale era chi asseriva di essere proprietario di una persona che viveva come libera. In riferimento all’impiego della legis actio sacramento in rem nel processo di libertà si affermarono alcuni principi particolari. Innanzi tutto, in pendenza della decisione finale, l’uomo della cui condizione giuridica si disputava viveva come se fosse libero: per descrivere tale principio, i romani dicevano che venivano date le vindiciae secundum libertatem . Inoltre, la somma oggetto della cauzione (summa sacramenti ), che nell’azione di rivendicazione della proprietà (reivindicatio) variava a seconda del valore della cosa, era sempre quella minima di cinquanta assi (asse è un’antica moneta romana), a prescindere dal valore dell’uomo del cui status si disputava. La competenza a decidere spettava ai decemviri stlitibus iudicandis (un collegio di dieci giudici specializzato nelle cause di libertà: stlis è parola arcaica che equivale a lis ).

Fu poi possibile, in alternativa, instaurare il processo di libertà attraverso l’agere per sponsionem , che consentiva di evitare la macchinosa procedura della legis actio sacramento in rem [oltre, capitolo sesto, § 13, A]. Nell’agere per sponsionem, l’adsertor in libertatem si faceva promettere con una sponsio [oltre, capitolo settimo, § 11] da chi affermava di essere proprietario dell’uomo di pagare una somma di denaro a titolo di penale se fosse risul-

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tato che si trattava di un uomo libero e poi intentava l’azione a tutela del credito, dovendosi nel processo accertare la sussistenza del presupposto dell’obbligo (cioè lo status libertatis ). L’agere per sponsionem consentiva di impiegare per l’accertamento dello status controverso la legis actio sacramento in personam , dove in origine sacramentum descriveva il giuramento, e, soprattutto, a partire dalla metà del V secolo a.C., la più agile legis actio per iudicis arbitrive postulationem , nella quale non era prevista la cauzione [oltre, capitolo quinto, § 5, B e C].

Nel processo formulare, invece, si ricorreva alla formula petitoria , cioè alla vindicatio formulare, actio in rem utilizzata per rivendicare la proprietà di una cosa o per fare valere un altro diritto assoluto [oltre, capitolo sesto, § 13, A], e si continuava a praticare, in alternativa, l’agere per sponsionem, facendo valere l’obbligo sorgente dalla sponsio con un’actio in personam chiamata actio ex stipulatu certi . Il processo era sempre incardinato fra l’adsertor in libertatem e chi affermava di essere proprietario dell’essere umano il cui stato era controverso. In caso di utilizzazione della formula petitoria, ove fosse accertata la ragione dell’attore, il convenuto si poteva sottrarre alla condanna soddisfacendo quanto richiesto dall’attore (quindi, a seconda che attore fosse il proprietario o l’adsertor, desistendo dall’affermare la libertà o la proprietà sull’essere umano) in base all’operatività di un meccanismo denominato clausula arbitraria [oltre, capitolo quinto, § 9, E]. Tuttavia, se il convenuto non si avvaleva di tale possibilità, data la particolarità della situazione dedotta in giudizio (che coinvolgeva lo status libertatis), è dubbio se la conseguenza in caso di accoglimento della domanda, fosse la condanna pecuniaria del convenuto (proprietario o adsertor in libertatem, a seconda di chi avesse preso l’iniziativa), in sé insufficiente a garantire l’esito dell’accertamento (cioè la libertà o la proprietà), come avveniva in generale, con poche eccezioni, nel processo formulare, o se vi fossero, in alternativa o in aggiunta alla condanna pecuniaria, meccanismi attraverso i quali fosse assicurato sul versante dello stato personale l’esito dell’accertamento nel senso della libertà, come per esempio una tutela magistratuale sul piano di fatto della libertà accertata. In ogni caso, la decisione era rimessa non a un giudice monocratico, ma a un collegio di recuperatores.

Inoltre, cominciò a essere utilizzata un’azione di mero accertamento, cioè non volta a ottenere una condanna del convenuto come le altre azioni, ma diretta solo ad accertare la condizione dell’uomo il cui stato era controverso, denominata praeiudicium an liber sit [oltre, capitolo quinto, § 9, F]. Nel principato venne utilizzata la cognitio extra ordinem [oltre, capitolo quinto, § 14], con competenza dei consoli e poi di un praetor de liberalibus causis . Nel

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periodo postclassico continuò a essere impiegato il preiudicium, ormai nel quadro del processo cognitorio dell’epoca. Ancora nel periodo classico valeva il principio secondo il quale in pendenza della decisione la persona del cui status si disputava rimaneva in condizione di libertà (Paolo in D. 40, 12, 24 pr.). Inoltre, continuava ad essere una caratteristica di tutti i procedimenti menzionati che la libertà della persona della cui condizione si discuteva era affermata non da quest’ultima, ma da un qualsiasi cittadino, che assumeva il ruolo di parte processuale (l’adsertor in libertatem ). Forse anche in conseguenza di ciò, malgrado il principio generale secondo il quale non vi poteva essere un nuovo un processo relativo all’affare già oggetto di un processo fra le stesse persone [oltre, capitolo quinto, § 12, C], venne ammesso che la sentenza che negava la libertà non escludesse la riproposizione del processo di libertà relativo alla medesima persona: dato che l’adsertor in libertatem, cioè una delle parti processuali, essendo un qualsiasi cittadino, cambiava di volta in volta, si intendeva che il successivo processo non fosse lo stesso già svoltosi in precedenza. Usa dire, pertanto, che la sentenza che negava la libertà non passava mai in giudicato, cioè non diventava irretrattabile, in quanto il giudicato impediva di riproporre la medesima azione solo fra le stesse parti, mentre l’adsertor poteva cambiare di volta in volta. In realtà, tale giustificazione può avere solo agevolato il sorgere della regola in esame, non potendo fondarla del tutto: infatti, poiché tale caratteristica del processo di libertà non sembra sia stata sfruttata in senso inverso, cioè per ammettere la riproposizione dell’azione da parte di chi asseriva di essere proprietario dopo l’emanazione della sentenza che aveva accertato la libertà della persona, la reale giustificazione del principio era il favor libertatis .

Nel principato, una grande innovazione si ebbe nel processo di libertà che si svolgeva nelle forme della cognitio extra ordinem in caso di manumissio fideicommissaria [oltre, in questo capitolo, § 7, C], cioè ove il proprietario di uno schiavo avesse disposto un fideicommissum libertatis , disposizione precativa di ultima volontà con la quale egli rimetteva a un proprio erede di affrancare un proprio schiavo (cioè di effettuarne la manumissio ) dopo la propria morte [oltre, capitolo ottavo, § 12]. Se l’erede onerato del fedecommesso (ossia il fedecommissario) non ottemperava alla volontà del defunto, si riconobbe allo schiavo il potere di agire personalmente in giudizio contro l’erede medesimo proponendo di persona l’azione. Anche nel diverso caso in cui uno schiavo avesse corrisposto una somma di denaro a una persona per essere comprato e poi liberato e questa non avesse adempiuto all’accordo, si ammise che lo schiavo potesse agire contro la persona inadempiente [oltre, in questo capitolo, § 7, F]. Si trattava degli unici casi nei quali, nel periodo classico, lo schiavo aveva la capacità di partecipare come parte a un processo.

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Nel periodo postclassico, negli altri casi di processo di libertà era ancora necessario l’adsertor in libertatem , figura eliminata solo da Giustiniano, il quale abrogò anche la regola classica secondo la quale la sentenza che accertava lo stato servile non era irretrattabile. La necessità dell’adsertor in libertatem ancora nel IV secolo d.C. è dimostrata dal fatto che Costantino emanò norme volte a facilitarne il reperimento (CTh. 4, 8, 5, del 322 d.C.) e dalla formale eliminazione della figura solo da parte di Giustiniano, il quale consentì in generale alla persona il cui stato era controverso di agire da sola per rivendicare la libertà (C. 7, 17, 1, del 528 d.C.).

Al di fuori del processo di libertà si deve ricordare l’interdictum de homine libero exhibendo , diretto a ottenere l’esibizione davanti al pretore di un soggetto privato di fatto della libertà. D) Nel diritto sacro (ius sacrum) lo schiavo aveva una limitata capacità, potendo partecipare ai riti e alle feste religiose. Inoltre, talora, esso era equiparato alla persona libera per determinati effetti giuridici che, dipendenti da aspetti rilevanti sul versante del ius sacrum, si producevano anche sul piano del ius humanum : per esempio, il fondo nel quale era stato sepolto uno schiavo da chi avesse il diritto di seppellirlo diventava una res religiosa , sacra agli dei Mani, ossia agli spiriti dei defunti, come tale incommerciabile (extra commercium ) [oltre, capitolo sesto, § 2, C].

5. Lo schiavo nel diritto privato A) Nel diritto privato, vanno distinti gli atti leciti cui partecipava lo schiavo e gli atti illeciti da questo compiuti. Quanto agli atti leciti, si devono distinguere i rapporti personali e quelli patrimoniali di cui era parte uno schiavo. Per quanto concerne i rapporti personali, lo schiavo non aveva né la capacità giuridica, né la capacità di agire. Pertanto, esso non poteva contrarre matrimonio e la unione stabile di uno schiavo con una schiava, priva di ricadute giuridiche, era chiamata contubernium . Con l’affermarsi del cristianesimo, alla irrilevanza giuridica di tale unione servile si contrappose la possibilità di contrarre un matrimonio che aveva rilevanza solo sul piano religioso. Lo schiavo non era titolare di poteri personali come la patria potestas e la manus , potere dell’uomo sulla propria moglie (ed eccezionalmente su altre donne libere), e non aveva vincoli parentali civili, cioè di a(d)gnatio . Nel periodo classico anche la parentela di sangue fra schiavi (cognatio servilis ) era di regola irrilevante, pur ammettendosi che potesse produrre alcuni effetti negativi.

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Gli schiavi parenti di sangue, se venivano liberati, incorrevano nei divieti matrimoniali connessi alla parentela [oltre, in questo capitolo, § 21, C] e se avevano fra loro rapporti sessuali compivano un incesto, con conseguenze sul piano del diritto criminale.

Nel periodo postclassico, però, venne vietata la separazione delle famiglie servili [sopra, in questo capitolo, § 3, B] e nel periodo giustinianeo, si ammise che gli schiavi liberati, se parenti di sangue in forza di un vincolo costituitosi durante la schiavitù, potessero succedere gli uni agli altri in assenza di testamento [oltre, capitolo ottavo, § 7]. B) Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, lo schiavo non aveva la capacità giuridica e, pertanto, non poteva essere titolare di diritti e di doveri. Sul piano di fatto, però, spesso il dominus metteva a disposizione dello schiavo denaro e altri beni (immobili e mobili, tra i quali anche schiavi, detti servi vicarii ), che quest’ultimo poteva amministrare e di cui, entro certi limiti, poteva disporre: si trattava del peculium , la cui proprietà comunque rimaneva al dominus, che poteva in qualsiasi momento revocarlo in tutto o in parte a suo arbitrio (ademptio peculii ), mentre lo schiavo non ne era titolare, né aveva su di esso alcun diritto, avendone solo la materiale disponibilità. L’entità e la composizione del peculium erano mutevoli, sia in quanto il dominus poteva a suo piacimento aggiungere altri beni a esso o sottrarre beni che ne facevano parte, sia perché operava il principio della surrogazione reale, rientrando nel peculium i beni e i diritti reali e di credito acquistati dallo schiavo disponendo di beni e diritti che già ne facevano parte, essendovi, inoltre, l’eventualità che lo schiavo, con la propria intraprendenza, facesse fruttare i beni peculiari o, al contrario, con la propria insipienza, causasse l’impoverimento o addirittura la dissoluzione del patrimonio messo a sua disposizione [oltre, in questo §, C]. C) Sul versante della capacità di agire, cioè della idoneità a porre in essere atti giuridicamente rilevanti, le cose erano un po’ più complesse, in quanto lo schiavo, essere pensante e loquente, salve alcune eccezioni, poteva porre in essere i medesimi atti che ponevano in essere le persone libere, malgrado non potesse divenire titolare delle situazioni giuridiche attive e passive che ne derivavano. Nel valutare gli effetti giuridici di tali atti, ossia l’imputazione dei diritti e dei doveri che ne scaturivano al dominus e le conseguenze giuridiche per la controparte, una posizione particolare assumevano gli atti di amministrazione e disposizione dei beni facenti parte del peculium [sopra, in questo §, B], in quanto l’attribuzione di esso allo schiavo presupponeva l’autorizzazione generale del dominus ad amministrarli e, entro certi limiti, a disporne. In particolare, lo schiavo ne poteva disporre a titolo oneroso, cioè per ricavarne una controprestazione, con la traditio [oltre, capitolo sesto, § 12, C]: in tal modo, ne

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trasferiva il possesso e, se si trattava di res nec mancipi , ossia di cose che non si alienavano con l’atto formale denominato mancipatio [oltre, capitolo sesto, § 4, A-C], anche la proprietà all’accipiente. Lo schiavo, poi, sempre con la traditio, poteva disporre dei beni peculiari anche per adempiere gli obblighi assunti (solutio , nel senso di adempimento), sebbene questi ultimi non integrassero obbligazioni giuridicamente vincolanti e coercibili, ma solo doveri morali e sociali, considerati dai giuristi romani obligationes naturales [oltre, in questo §, D]. Lo schiavo non poteva, invece, partecipare agli atti di alienazione formale: non alla in iure cessio , poiché non aveva capacità processuale, né alla mancipatio , che era un gestum per aes et libram e poteva essere compiuta solo fra cittadini romani.

A seguito dell’atto di disposizione riguardante il bene peculiare compiuto dallo schiavo, il dominus perdeva il possesso e, trattandosi di res nec mancipi , che non si alienavano con l’atto solenne denominato mancipatio , anche la proprietà del bene. Inoltre, lo schiavo poteva riscuotere crediti facenti parte del peculium, ossia ottenere la solutio (nel senso di adempimento) dal debitore: quando veniva effettuata la prestazione dovuta, il dominus acquistava la proprietà di quanto lo schiavo aveva ricevuto, che veniva a fare parte del peculium medesimo, e il debitore si liberava, con la conseguenza che il dominus non poteva più agire contro di lui per l’adempimento. Tali effetti si producevano sul versante del ius civile (nell’accezione contrapposta a ius praetorium o honorarium [sopra, capitolo secondo, § 18, A-E]). Non è chiaro in quale modo incidesse sui poteri di disposizione dello schiavo la libera administratio peculii concessa dal dominus , di cui è notizia nelle fonti. Non è sicuro, infatti, che senza di essa lo schiavo non potesse disporre ugualmente dei beni peculiari a titolo oneroso ed è certo che anche ove fosse concessa lo schiavo non poteva disporre dei beni peculiari a titolo gratuito, cioè senza un corrispettivo.

Lo schiavo, nella gestione del peculio, poteva anche concludere contratti con il dominus e con persone estranee, cioè diverse dal dominus (per esempio, vendere, comprare, locare o prendere in locazione, prestare del denaro o prenderlo in prestito). Dai contratti conclusi dallo schiavo con il dominus sorgevano soltanto doveri morali e sociali, ossia obligationes naturales , non vincolanti giuridicamente [oltre, capitolo settimo, § 6]. Dai contratti conclusi dallo schiavo con estranei, invece, sorgevano crediti a favore del dominus, cui corrispondevano debiti a carico della controparte, rilevanti sul versante del ius civile,

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e, da un certo momento in poi, crediti a favore della controparte, cui corrispondevano debiti a carico del dominus, sul versante del ius praetorium o honorarium [oltre, in questo §, D], mentre fra lo schiavo e la controparte sorgeva una obligatio naturalis , non vincolante sul piano giuridico, ma solo sul piano morale e su quello sociale [oltre, capitolo settimo, § 6]. Analoghi atti leciti (traditio , solutio , nel senso di adempimento, contratti) potevano essere posti in essere dallo schiavo al di fuori dell’amministrazione del peculium. Anche in questo caso, poiché lo schiavo non godeva della capacità giuridica, non potendo essere titolare di diritti e doveri, gli atti che poneva in essere non potevano dispiegare effetti giuridici nella sua sfera patrimoniale, inesistente. Pertanto, si deve esaminare entro quali limiti essi potessero dispiegare effetti giuridici nella sfera patrimoniale del dominus e della controparte. Il regime era articolato. Se l’atto era posto in essere fra lo schiavo e il dominus non si producevano effetti giuridici fra l’uno e l’altro, ostandovi il diritto di proprietà che il primo aveva sul secondo. Sul piano di fatto, però, gli atti di trasferimento dal dominus allo schiavo potevano comportare la costituzione del peculium [con gli effetti visti sopra, in questo §, B] o, se questo già era stato costituito, un incremento di esso e, in senso inverso, gli atti di trasferimento dallo schiavo al dominus potevano comportare una diminuzione del peculium o il suo venire meno.

I contratti posti in essere fra dominus e schiavo non facevano sorgere obbligazioni sul piano del diritto, ma la giurisprudenza riteneva che integrassero obligationes naturales , ossia obblighi rilevanti solo sul piano morale e sociale [oltre, capitolo settimo, § 6]. Invece, se lo schiavo poneva essere un atto con una persona estranea, cioè diversa dal dominus, si potevano produrre alcuni effetti giuridici nella sfera di quest’ultimo e in quella di tale persona e, da questa prospettiva, la dottrina moderna afferma che lo schiavo, sebbene privo di capacità giuridica, aveva la capacità di agire [sopra, in questo capitolo, § 2, C]. Sul piano del ius civile , vigeva il principio che gli atti leciti compiuti dallo schiavo potevano produrre solo effetti giuridici favorevoli, cioè vantaggiosi, per il dominus, il quale, pertanto, si avvantaggiava dell’attività svolta dallo schiavo, ma non ne poteva essere in alcun modo pregiudicato. In D. 50, 17, 133, di Gaio si legge che melior condicio nostra per servos fieri potest, deterior fieri non potest . Perciò, se una persona trasferiva allo schiavo altrui la proprietà di una cosa, era il dominus ad acquistare il diritto di proprietà. Se una persona contraeva un’obbligazione con uno schiavo altrui, creditore era il dominus. Se un debi-

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tore adempiva un’obbligazione, cioè pagava il suo debito, allo schiavo altrui, il dominus acquistava la proprietà della cosa oggetto di adempimento. Se era lo schiavo ad adempiere un’obbligazione al creditore del dominus che aveva autorizzato con il iussum l’adempimento, il dominus era liberato dall’obbligazione come se avesse adempiuto personalmente.

Tale regolamentazione dava luogo a problemi sul piano equitativo quando l’atto compiuto dallo schiavo con la persona estranea era in astratto (cioè se entrambe le parti fossero state persone libere e sui iuris ) idoneo a produrre effetti sia vantaggiosi che svantaggiosi, in quanto non era giusto che, secondo il principio vigente nel ius civile, il dominus si potesse avvalere dei primi senza però subire i secondi e che la persona estranea dovesse subire solo gli effetti svantaggiosi, senza potersi avvalere di quelli vantaggiosi. Per esempio, l’adempimento di una obbligazione (solutio ), se effettuato da un debitore a un creditore entrambi liberi e sui iuris , era idoneo a fare acquistare al creditore la proprietà della cosa oggetto della prestazione (effetto vantaggioso per il creditore e svantaggioso per il debitore) ed estingueva l’obbligazione (effetto pregiudizievole per il creditore, che perdeva la possibilità di richiedere nuovamente l’adempimento, e vantaggioso per il debitore, che si liberava dell’obbligazione). Quando, invece, il debitore adempiva nelle mani dello schiavo del creditore, quest’ultimo, in quanto dominus dello schiavo, acquistava la proprietà della cosa oggetto della prestazione (effetto vantaggioso), ma l’obbligazione non si estingueva, non potendo, sul piano del ius civile, prodursi un effetto pregiudizievole per il dominus, il quale, pertanto, ne poteva richiedere di nuovo l’adempimento.

In questi casi, si parla di negozio claudicante (negozio zoppo, perché produceva per il dominus solo gli effetti vantaggiosi e non quelli svantaggiosi). Nel periodo classico, nel caso dell’adempimento dell’obbligazione effettuato dal debitore nelle mani dello schiavo del creditore, per superare l’iniquità della disciplina prevista dal ius civile intervenne il pretore, il quale, ove la prestazione ricevuta dallo schiavo fosse stata utilizzata da questo a vantaggio del creditore (cioè del proprio dominus) e nei limiti in cui ciò fosse avvenuto, concedeva al debitore, convenuto in giudizio dal creditore malgrado il precedente adempimento ricevuto dallo schiavo, la difesa pretoria denominata exceptio doli , sul presupposto che la condotta del creditore, consistente nell’intentare l’azione, fosse contraria alla correttezza cui dovevano essere improntati i rapporti fra i consociati, in quanto egli aveva tratto vantaggio dalla prestazione adempiuta dal debitore allo schiavo. La funzione espletata da tale difesa nel caso in esame era quella dell’exceptio doli praesentis o, con linguaggio moderno, di exceptio doli generalis , essendo essa impiegata per paralizzare l’azio-

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ne esercitata in contrasto con la correttezza [oltre, capitolo quarto, § 14, E]. Si tratta di uno dei casi nei quali il ius pretorium svolgeva una funzione correttiva rispetto al ius civile [sopra, capitolo secondo, § 18, C].

D) Sul versante del ius civile era escluso che dagli atti leciti posti in essere dallo schiavo con una persona estranea potessero scaturire in capo al dominus effetti sfavorevoli, facendo eccezione, nei limiti considerati, solo gli atti di disposizione dei beni peculiari [sopra, in questo §, C]. Pertanto, dall’attività lecita dello schiavo non potevano sorgere obblighi né a carico dello stesso, perché non aveva capacità giuridica, né a carico del dominus, perché si trattava di effetti svantaggiosi. La giurisprudenza ammise però che a carico dello schiavo e del dominus potessero sorgere obbligazioni naturali (obligationes naturales), rilevanti solo sul piano morale e sociale, a favore della persona estranea, con la conseguenza che, malgrado quest’ultima non potesse richiedere l’adempimento in giudizio, se lo schiavo o il dominus adempivano spontaneamente l’obbligo morale e sociale, il dominus non poteva ottenere dalla persona stessa la restituzione di quanto pagato. Tale effetto delle obligationes naturales (che non era l’unico nel diritto romano) è detto soluti retentio , vale a dire il mantenimento da parte del creditore naturale dell’oggetto della prestazione adempiuta in ottemperanza all’obbligo morale e sociale [oltre, capitolo settimo, § 6].

Tuttavia, in una società, come quella romana dei periodi preclassico e classico, caratterizzata dal modo di produzione schiavistico, nella quale gli uomini liberi avevano interesse ad avvalersi degli schiavi per lo svolgimento delle attività economiche e commerciali, era quanto mai opportuno vincolare sul piano giuridico anche i padroni degli schiavi nei confronti delle persone con le quali questi concludevano affari. Tale esigenza, cui era poco sensibile il ius civile , venne soddisfatta sul versante del ius praetorium , nel quadro della tipologia del supplere ius civile [sopra, capitolo secondo, § 18, C]. A partire da un certo momento dell’epoca preclassica (forse già nel II secolo a.C.), il pretore ammise che, in presenza di certi presupposti precisati nell’editto, il dominus subisse anche alcune conseguenze svantaggiose dell’agire lecito dello schiavo e dell’agire lecito di altre persone nell’interesse dello schiavo, rispondendo come debitore ove si trattasse di situazioni dalle quali, se lo schiavo non fosse stato tale, ma una persona libera e sui iuris , sarebbe sorta a carico di quest’ultima una obbligazione verso un’altra persona. Precisamente, il pretore consentiva all’estraneo che era entrato in rapporti d’affari con lo schiavo altrui di agire contro il dominus che non avesse adempiuto l’obbligazione contratta dallo schiavo quando il dominus medesimo: a) aveva previamente autorizzato in modo generale o specifico, espresso o implicito, la generalità delle persone o una o più persone determi-

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nate a entrare in rapporti d’affari con il proprio schiavo; b) aveva ratificato, cioè approvato successivamente, l’affare non previamente autorizzato intercorso fra il proprio schiavo e un estraneo; c) si era arricchito in conseguenza dell’affare. Gli affari rilevanti dalla prospettiva in esame erano in prevalenza contratti, dai quali nel diritto romano sorgevano solo obbligazioni [oltre, capitolo settimo, §§ 7-18]. Tuttavia, tra gli affari che coinvolgevano lo schiavo rientravano anche atti leciti non contrattuali bilaterali, come il pagamento (che i romani costruivano come atto bilaterale) di una somma non dovuta (indebiti solutio ) dall’estraneo allo schiavo, che avrebbe fatto sorgere l’obbligo di restituzione se effettuato a favore di una persona libera [oltre, capitolo settimo, § 20, B]. E vi rientravano anche semplici attività come la gestione di affari altrui senza previo incarico (negotiorum gestio ), compiuta dallo schiavo a favore di persona estranea o da questa a favore del primo, dalla quale, ove al posto dello schiavo vi fosse stata una persona libera e sui iuris , sarebbero sorte obbligazioni a carico del gestore e del gerito [oltre, capitolo settimo, § 20, C].

Si tratta del fenomeno descritto dalla dottrina moderna con l’espressione actiones adiecticiae qualitatis , denominate in tal modo (e, con espressione sintetica, azioni adiettizie) perché aggiungevano come effetto della fattispecie la responsabilità del dominus, il quale rispondeva per un fatto di un’altra persona (nel caso in esame lo schiavo). Si deve precisare che, in realtà, nel caso di contratti e altri atti leciti riguardanti lo schiavo, la denominazione actiones adiecticiae qualitatis è usata solo per convenzione, dato che, non avendo lo schiavo la capacità giuridica, unica persona responsabile per le conseguenze del contratto o dell’atto lecito era il dominus, la cui responsabilità, dunque, non si aggiungeva alla responsabilità di un’altra persona (cioè non era a stretto rigore adiettizia). Solo se si considera che lo schiavo era responsabile sul piano morale e sociale, cioè debitore naturale della persona libera, si può affermare che la responsabilità del dominus era adiettizia, perché si aggiungeva a quella naturale dello schiavo. Come si vedrà, la natura adiettizia della responsabilità si evidenziò, invece, a partire da una certa epoca in poi, nell’impiego di tali azioni contro il paterfamilias per contratti e atti leciti non contrattuali riguardanti i filiifamilias , quando si ammise anche la responsabilità di questi ultimi, cui pertanto quella del paterfamilias si aggiungeva [oltre, in questo capitolo, § 16, B].

In tal modo il pretore, allo stesso tempo, tutelava l’interesse dei terzi che instauravano relazioni giuridiche con gli schiavi altrui e soddisfaceva l’interesse dei proprietari di schiavi ad avvalersene per lo svolgimento dei propri affari, in quanto la responsabilità del dominus per le obbligazioni sorgenti dai rapporti d’affari che coinvolgevano i propri schiavi era condizione imprescindibile affinché si potesse accettare di porre in essere attività economiche e commerciali con gli schiavi altrui senza il rischio di subire un pregiudizio.

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Le azioni adiettizie contemplate nell’editto erano l’actio exercitoria , l’actio institoria , l’actio quod iussu , l’actio de peculio et de in rem verso , le cui due clausole sono talora trattate in dottrina, e lo erano anche dai romani, come separate azioni, l’actio tributoria . Le actiones exercitoria e institoria (Gai 4, 71) erano basate su autorizzazioni generali ed espresse del dominus a entrare in rapporti d’affari con il proprio schiavo. L’actio exercitoria presupponeva che il dominus, nell’esercizio di un’attività armatoriale, ossia di commercio marittimo, avendo la qualità di exercitor , avesse preposto allo svolgimento di essa uno schiavo, chiamato magister navis . La persona che avesse instaurato un rapporto d’affari nei limiti della preposizione (praepositio exercitoria ) con lo schiavo preposto (il magister navis) poteva agire contro il preponente (vale a dire contro l’exercitor) per ottenere l’adempimento dell’intera obbligazione (in solidum ). L’actio institoria, invece, presupponeva che il dominus, nell’esercizio di un’attività commerciale terrestre, come per esempio quella avente per oggetto la gestione di una taberna , avesse preposto allo svolgimento di essa uno schiavo, che era denominato institor . La persona che avesse instaurato un rapporto d’affari nei limiti della preposizione (praepositio institoria ) con lo schiavo preposto (institor) poteva agire contro il preponente (vale a dire contro il dominus) per ottenere l’adempimento dell’intera obbligazione (in solidum ). In entrambe le azioni, nella preposizione rientravano non solo gli atti di esercizio del commercio, ma anche tutti gli atti finalizzati all’attività commerciale. Per esempio, nell’attività armatoriale rientravano nella preposizione la presa in locazione della nave per il trasporto delle merci, i contratti di lavoro con i componenti dell’equipaggio e quelli conclusi per procurarsi il sostentamento di quest’ultimo, e nell’attività commerciale terrestre rientravano nella preposizione i contratti conclusi per l’acquisto delle merci o delle materie prime o per prestare i servizi. In entrambi i casi, la preposizione si considerava estesa anche agli atti diretti ad acquisire la disponibilità di capitali per lo svolgimento dell’attività e per le spese relative alle strutture che la rendevano possibile (per esempio il mutuo, ossia il finanziamento, ottenuto per riparare la nave nell’actio exercitoria o per acquistare le merci da vendere nella bottega nell’actio institoria).

Eventuali limitazioni della preposizione dovevano essere rese note al pubblico con mezzi idonei, come gli avvisi affissi nella sede dell’attività commerciale nella quale lo schiavo preposto intratteneva i rapporti con la clientela. L’actio quod iussu (Gai 4, 70) era basata su un’autorizzazione specifica ed espressa, essendo utilizzabile quando il

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dominus autorizzava specificamente una persona a porre in essere con il proprio schiavo un contratto o un altro atto lecito. Anche a tale autorizzazione, denominata iussum , si ricollegava la responsabilità del dominus per l’intero debito (in solidum ). La giurisprudenza ammise che la medesima azione fosse esperibile contro il dominus quando egli aveva ratificato (cioè riconosciuto come vincolante nei propri confronti, approvato) il contratto o l’atto lecito non previamente autorizzato: si può dire, da tale prospettiva, che la ratihabitio era equiparata al iussum . L’actio de peculio et de in rem verso (Gai 4, 72a-74) va esaminata scomponendola nelle due clausole de peculio e de in rem verso. Per quanto concerne la clausola de peculio , la responsabilità del dominus era basata su un’autorizzazione generale e implicita, che era connessa all’uso dei romani di concedere ai propri schiavi la disponibilità di un peculium [sopra, in questo §, B]. Quando lo schiavo, nella gestione del peculium, instaurava un rapporto d’affari con una persona diversa dal dominus, quest’ultima poteva agire contro il dominus per fare valere il proprio diritto di obbligazione nei limiti dell’attivo peculiare netto. Esso si determinava tenendo conto delle obligationes naturales intercorrenti fra il dominus e lo schiavo, cioè degli obblighi rilevanti non sul piano giuridico, ma nella sola sfera morale e sociale [sopra, in questo §, C]. Ciò significa che il dominus poteva dedurre dall’ammontare lordo del peculium i propri crediti naturali nei confronti dello schiavo, essendo perciò, in sostanza, preferito ai propri creditori rispetto a tale massa patrimoniale, nel mentre i debiti naturali del dominus nei confronti dello schiavo andavano ad accrescere la consistenza del peculium a tutto vantaggio dei creditori. Per chiarire il modo in cui, per determinare l’attivo peculiare, si teneva conto delle partite attive e passive fra dominus e schiavo si possono fare due esempi. Se il peculium aveva un valore lordo di cento e il dominus aveva nei confronti del proprio schiavo un credito naturale di trenta, il creditore di una somma di novanta, proponendo contro il dominus l’actio de peculio, poteva ottenere solo che egli venisse condannato a pagare settanta, perché il dominus rispondeva solo nei limiti del netto del peculium: peculio lordo (100) – credito naturale del dominus verso lo schiavo (30) = peculio netto (70). Viceversa, se il peculium aveva il valore di cento e il dominus era debitore naturale del proprio schiavo per venti, il creditore di una somma di centodieci, agendo con l’actio de peculio contro il dominus, poteva ottenere che egli fosse condannato per l’intera somma, in quando all’ammontare del peculium (100) si sommava il credito naturale dello schiavo verso il proprio dominus (20), divenendo l’attivo peculiare superiore al credito (e cioè pari a 120).

Se poi v’erano più creditori interessati ad agire con l’actio de peculio, si seguiva l’ordine in cui si presentavano, applicandosi la regola secondo la quale il primo a presentarsi prevaleva dal punto di vista giuridico e poi si passava, sempre

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nell’ordine delle richieste, agli altri: con una formulazione sintetica si può dire prior tempore, potior iure , ossia chi prima arriva prevale. Perciò, se l’attivo peculiare era di cento e vi erano due creditori interessati ad agire con l’actio de peculio, aventi uno un credito di settanta e l’altro di sessanta, solo quello che intentava per primo l’actio de peculio poteva ottenere la condanna del dominus a dargli l’intera somma a lui spettante. L’altro, ove decidesse di intentare comunque l’actio de peculio, avendolo fatto dopo il primo, si sarebbe dovuto accontentare di una condanna del dominus a dargli la somma residua.

L’incidenza dei crediti e debiti naturali del dominus verso lo schiavo sulla consistenza peculiare e l’eventuale esistenza di più creditori potevano comportare l’insufficienza del peculium a soddisfare uno o più creditori legittimati a intentare l’actio de peculio o a soddisfarli integralmente e nella stessa direzione potevano rilevare le modificazioni della consistenza del peculium dovute ad altri fattori. Tuttavia, il peculium, malgrado la sua consistenza fosse diminuita o si fosse esaurita, poteva sempre ricostituirsi a seguito di nuove concessioni del dominus allo schiavo o di iniziative economiche di quest’ultimo. Pertanto, il creditore interessato ad agire con l’actio de peculio, ove per una ragione o per l’altra l’attivo peculiare non fosse sufficiente a soddisfarlo integralmente, si trovava nella condizione di scegliere se agire subito contro il dominus, perdendo però una parte del credito dato che, secondo un principio generale, l’azione non poteva essere riproposta per il medesimo affare [oltre, capitolo quinto, § 12, C], o aspettare la eventuale ricostituzione del peculium, salva, come si vedrà, l’ulteriore eventualità offerta dalla clausola de in rem verso [oltre, in questo §]. Quando, invece, il peculium veniva revocato o per qualsiasi altra ragione cessava di esistere (per esempio per morte o manumissione, cioè affrancazione dello schiavo), l’actio de peculio non poteva più giovare al creditore, ma il pretore gli concedeva un’azione, denominata actio de peculio annalis , esperibile entro un anno dalla cessazione del peculium contro la persona cui questo era pervenuto, di solito il dominus o lo schiavo affrancato, ossia liberato, cui esso era stato concesso al momento della manumissione, sempre nei limiti dell’attivo peculiare. Nel periodo postclassico sembrerebbe essere stato ammesso che lo schiavo affrancato rispondesse delle obbligazioni contratte in stato servile anche se non gli erano stati concessi i beni peculiari al momento della liberazione (CTh. 2, 32, 1 = C. 4, 26, 13, 4, del 422 d.C.).

Per quanto riguarda la clausola de in rem verso , a prescindere da un’autorizzazione generale o speciale, espressa o implicita, l’editto del pretore prevedeva che, sempre in ipotesi di affari che coinvolgevano lo schiavo e una persona estranea, quest’ultima potesse agire contro il dominus per fare valere il proprio credito nei limiti dell’arricchimento da quest’ultimo conseguito. Presupposto della responsabilità del dominus era l’in

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rem versum , vale a dire il profitto, cioè il vantaggio ottenuto in conseguenza dell’affare che aveva coinvolto lo schiavo, e l’azione, perciò, poteva essere intentata solo nei limiti di tale vantaggio. Per esempio, se lo schiavo aveva preso in prestito delle somme e le aveva messe a disposizione del dominus, colui che le aveva prestate poteva agire contro il dominus stesso per la restituzione, sul presupposto che esse erano state riversate nel patrimonio di quest’ultimo, incrementando la sua sfera patrimoniale. Non è chiaro, però, se il vantaggio del quale si doveva tenere conto fosse quello iniziale o quello esistente al momento in cui l’azione era proposta, la cui misura poteva essere diversa.

Per quanto riguarda il rapporto fra la clausola de peculio e quella de in rem verso, il giudice investito della causa poteva condannare il dominus sulla base dell’esistenza del peculium, se questo era capiente o, se non lo era, sulla base dell’in rem versum, cioè dell’arricchimento. La condanna sulla base dell’in rem versum, però, poteva essere pronunciata sia se il peculium fosse stato costituito e non fosse capiente, sia se il peculium non fosse stato costituito affatto. L’actio tributoria (Gai 4, 72) era basata su due presupposti, consistenti nella concessione del peculium e nell’autorizzazione esplicita o implicita a svolgere con esso un’attività commerciale. Il secondo presupposto comportava alcune ricadute sul versante della regolamentazione che differenziavano il regime di tale azione da quello dell’actio de peculio. Innanzi tutto, la posizione dei creditori era più favorevole rispetto a quella del dominus di quanto lo fosse nell’actio de peculio. Infatti, l’azione spettava al creditore nei limiti dell’attivo lordo del peculium e non per il solo attivo peculiare netto: ciò significa che per determinare la consistenza del peculium non si teneva conto dei crediti naturali del dominus nei confronti dello schiavo, i quali concorrevano sullo stesso piano dei crediti vantati dai terzi. Inoltre, se vi erano più creditori e il peculium non copriva tutti i crediti, costoro concorrevano in una percentuale uguale per tutti, compreso il proprietario ove creditore naturale del proprio schiavo, indipendentemente da chi aveva richiesto per primo l’adempimento, attuandosi una vera e propria procedura concursuale, come nel moderno fallimento dell’imprenditore (principio della par condicio creditorum ). Per esemplificare, se il peculium era di cento e v’erano due creditori, uno con un credito di ottanta e uno con un credito di settanta, oltre al dominus, creditore naturale del proprio schiavo per cinquanta, essendo i crediti nel complesso di ammontare doppio rispetto al peculio, ciascun creditore, compreso il dominus, concorreva nella misura del 50%, in quanto (80 + 70 + 50) : 100 = 100 : 50. Pertanto, i due creditori estranei ottenevano la condanna del dominus a pagare loro rispettivamente quaranta e trentacinque, nel mentre il dominus avrebbe trattenuto venticinque. Gaio precisava che l’actio tributoria poteva essere intentata anche quando al creditore fosse stato distribuito meno del dovuto (cioè, a seconda dei casi, meno dell’intero credito o della percentuale che gli spettava) per ottenere la rimanente parte.

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E) Per quanto riguarda gli atti illeciti rilevanti sul versante del diritto privato (delicta ) compiuti dallo schiavo ai danni di persona diversa dal dominus , si ebbero regolamentazioni differenti a seconda dei vari periodi. Nel periodo arcaico, le sanzioni previste, essendo afflittive, cioè traducendosi in un danno materiale arrecato all’offensore (per esempio la morte e il taglione), potevano essere applicate nei confronti dello schiavo che avesse compiuto l’atto illecito e si doveva solo fare salva l’esigenza che i diritti del proprietario dello schiavo venissero tutelati nella fase dell’accertamento. V’erano, anzi, casi nei quali la sanzione afflittiva prevista a carico dello schiavo era più grave di quella prevista per il caso che a commettere lo stesso illecito fosse stata una persona libera: per esempio, nelle XII tavole (tab. 8, 14) era stabilito che lo schiavo che avesse compiuto un furto e fosse stato colto in flagrante fosse fustigato e precipitato da una rupe (forse la rupe Tarpea), laddove la persona libera sarebbe stata assegnata al derubato (addictio ) [oltre, capitolo settimo, § 21, A].

Quando, poi, per alcuni atti illeciti si ammise che l’inflizione della sanzione afflittiva potesse essere evitata attraverso una composizione volontaria fra offeso e offensore, può darsi che sia stato consentito al dominus di evitare che la sanzione fosse applicata al proprio schiavo pattuendo la composizione con l’offeso, dapprima solo se quest’ultimo accettasse, poi anche in difetto di accettazione [sulla composizione, denominata pactio , cfr. oltre, capitolo settimo, § 21]. Con la trasformazione delle sanzioni da afflittive a pecuniarie, la mancanza di capacità giuridica dello schiavo sul versante processuale e sostanziale impediva che egli fosse convenuto in giudizio e che la condanna al pagamento della pena a favore dell’offeso potesse essere pronunziata nei suoi confronti. Non può essere escluso che, a fronte di tali difficoltà, per i delitti compiuti da schiavi siano state mantenute per un periodo più o meno breve le risalenti sanzioni afflittive, ma da un certo momento in poi, a partire dal periodo preclassico, si ammise che la persona offesa dall’illecito compiuto dallo schiavo potesse agire in giudizio con la relativa azione penale contro colui il quale ne era dominus al momento in cui era proposta l’azione affinché quest’ultimo venisse condannato al pagamento della pena pecuniaria. Tuttavia, il proprietario convenuto poteva evitare di pagare la pena cedendo lo schiavo all’offeso attraverso la noxae deditio , denominata così da noxa , in quanto l’offeso, ove avesse voluto, avrebbe potuto personalmente infliggere il castigo allo schiavo offensore. Perciò, le azioni da atto illecito, quando intentate contro il proprietario dello schiavo, erano dette actiones noxales e oggi usa dire che avevano il carattere della nossalità. Poiché nel caso di illeciti privati compiuti da schiavi la persona sulla quale gravava l’obbligo di pagare la pena pecuniaria si individuava al momento dell’instaurazione del processo, da un lato non interessava chi fosse proprietario dello schiavo al momen-

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to dell’illecito e dall’altro, se prima di tale momento lo schiavo aveva acquistato la libertà, l’offeso poteva agire in giudizio direttamente contro l’offensore. La cessione nossale era, in realtà, un trasferimento formale della proprietà dello schiavo, effettuato con la mancipatio , che era un gestum per aes et libram [oltre, capitolo settimo, § 21].

F) Poiché lo schiavo era privo della capacità giuridica, in caso di illeciti altrui contro il patrimonio, come il furto (furtum) e il danneggiamento a cose (damnum iniuria datum ) [oltre, capitolo settimo, §§ 22 e 24], riguardanti cose facenti parte del peculium , persona offesa era il dominus , proprietario della cosa rubata o danneggiata, che poteva utilizzare contro l’offensore le relative azioni. Inoltre, poiché lo schiavo, malgrado fosse un essere umano (homo, persona), era una res appartenente al dominus , non poteva essere considerato persona offesa da atti illeciti altrui contro la persona, ma solo oggetto sul quale si perpetrava l’illecito. Pertanto, in ipotesi di ingiuria (iniuria) fisica e di danneggiamento (damnum iniuria datum [oltre, capitolo settimo, §§ 23 e 24]) ai danni dello schiavo, persona offesa era il dominus. Va segnalato che nel periodo arcaico, in un una delle più risalenti forme di iniuria , la pena per il danno recato allo schiavo altrui era stabilita in misura differenziata rispetto al medesimo danno recato a una persona libera. Le XII tavole, infatti, per il caso di rottura di un osso (os fractum ) allo schiavo altrui causata con la mano o con un bastone, prevedevano a carico dell’offensore una pena pecuniaria dimezzata, pari a centocinquanta assi, rispetto a quella prevista per il caso di rottura di un osso alla persona libera, che era di trecento assi (tab. 8, 3). Poi, nel III secolo a.C., a seguito della lex Aquilia , il danneggiamento materiale allo schiavo (come anche l’uccisione di esso) transitò nel delitto di damnum iniuria datum , potendo il dominus, persona offesa, a seconda dei casi, agire con l’actio legis Aquiliae o con alcune azioni pretorie [oltre, capitolo settimo, § 23, A, per l’os fractum; § 24, per i casi recenziori di danneggiamento].

6. Le cause della schiavitù A) La più antica causa di schiavitù fu la prigionia di guerra, detta iusta servitus , che apparteneva al ius gentium in senso descrittivo [sopra, capitolo secondo, § 16, B e C]. In un primo momento, qualunque soldato poteva appropriarsi degli uomini e delle donne appartenenti al popolo nemico presi prigionieri nel corso di azioni militari, acquistandone la proprietà per mezzo dell’impossessamento (occupatio ), allo stesso modo di quanto poteva avvenire per i beni dei nemici (res ho-

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stium ). In seguito, si riconobbe al comandante romano il potere di decidere la sorte dei prigionieri, che potevano essere lasciati in stato di libertà o assegnati ai militari o venduti all’incanto come schiavi (venditio sub corona ), talora direttamente nel luogo dove si erano svolte le operazioni militari. Ove, poi, vi fosse stata la resa dei nemici che avessero affidato la loro sorte al comandante romano (deditio fidei ), egli era garante degli accordi raggiunti con i loro governanti in ordine alla sorte dei componenti della comunità arresasi.

Anche per i cittadini romani catturati dai nemici la prigionia di guerra, integrando la capitis deminutio maxima , cioè l’uscita della persona dall’insieme degli uomini liberi [sopra, in questo capitolo, § 2, B], era causa di schiavitù. I nemici, ponendo in essere l’occupatio dei cittadini romani catturati, cioè impossessandosi di essi, ne acquistavano la proprietà secondo i diritti stranieri (iure peregrinorum ). Caduto in mani nemiche, il romano diveniva dunque schiavo e perdeva, con la libertà e la cittadinanza, la capacità giuridica e, dunque, la titolarità di ogni diritto e dovere: i suoi beni divenivano cose di nessuno (res nullius), di cui chiunque anche in patria si poteva appropriare attraverso l’occupatio, cioè l’impossessamento, e i crediti di cui era titolare e i debiti di cui era gravato si estinguevano. Tuttavia, ove egli riuscisse a tornare sul territorio romano o sul territorio di uno stato avente rapporti di amicizia con Roma, riacquistava, insieme alla libertà e alla cittadinanza, i propri diritti, in forza di quel retaggio giuridico antichissimo che i romani chiamavano postliminium o ius postliminii (composto di post e limes ). La terminologia utilizzata dai giuristi romani talora sembra indicare che durante la prigionia i diritti si consideravano quiescenti (cioè ancora esistenti, ma dormienti, non operativi) per poi riattivarsi al momento dell’eventuale ritorno, mentre altre volte sembra presupporre che essi si estinguessero per poi sorgere di nuovo al momento dell’eventuale ritorno.

Invece, le situazioni nelle quali rilevava una relazione continuativa fra una persona e una cosa o un’altra persona, come la possessio delle cose, basata sulla relazione con la cosa che ne era oggetto, diversa dalla proprietà, fondata su un titolo di acquisto [oltre, capitolo sesto, § 22], e il matrimonio, basato sulla relazione fra i coniugi [oltre, in questo capitolo, § 19], non si ricostituivano per il solo fatto del ritorno, ma si potevano costituire un nuovo possesso sulla stessa cosa e un nuovo matrimonio con la stessa persona ove ne fossero nuovamente integrati i presupposti. Inoltre, in un primo momento, se un romano moriva in prigionia, non aveva

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capacità di avere eredi né testamentari, ove avesse fatto testamento, né per legge, in quanto era morto in stato servile, non essendo quindi titolare di alcun diritto e dovere e avendo perso al momento della cattura, insieme alla capacità giuridica, quella di avere successori. Tuttavia, una lex Cornelia dell’epoca del dittatore Silla stabilì (all’incirca nell’80 a.C.) che il cittadino romano catturato dai nemici, divenuto dunque schiavo, e morto in prigionia, ove prima della cattura avesse fatto testamento, si doveva considerare, ai fini dell’efficacia di quest’ultimo atto, come se fosse morto nell’ultimo istante di libertà, cioè al momento della cattura, con la conseguenza che, fingendosi morto nella condizione di persona libera e cittadina romana, il testamento era valido. Si tratta della fictio legis Corneliae , denominata così perché la morte del cittadino al momento della cattura era una finzione, strumentale all’apertura della successione. In seguito, tale finzione venne estesa dalla giurisprudenza anche alla successione legittima. B) L’altra principale causa della schiavitù, anch’essa di ius gentium in senso descrittivo, era la nascita da madre schiava. Durante il principato, sulla base del favor libertatis si affermò il principio che se la madre durante la gestazione era stata anche per un brevissimo periodo libera il figlio nasceva libero. C) Altre cause della schiavitù che interessavano i cittadini romani avevano carattere sanzionatorio. In epoca repubblicana v’erano i casi del debitore inadempiente assegnato al creditore (debitor addictus ), che, alla fine della procedura esecutiva instaurata con la legis actio per manus iniectionem , poteva, in alternativa, essere ucciso dal creditore o venduto come schiavo oltre il Tevere (trans Tiberim), del renitente alla leva (infrequens o indelectus, indilectus ) e di chi si era sottratto al censimento (incensus ). Negli ultimi due casi, che si spiegano con il carattere primario dei doveri verso lo stato, la condotta della persona era sintomo dell’estraneità alla comunità e la sanzione della perdita della libertà era una presa d’atto di tale situazione da parte dell’ordinamento. Inoltre, i giuristi si chiedevano se nel periodo arcaico coincidesse con la schiavitù la condizione del ladro colto in flagrante (fur manifestus ) assegnato (addictus) al derubato (Gai 3, 189). V’era, poi, il caso del deditus , cioè del cittadino romano che, avendo causato un pregiudizio a una popolazione straniera violando una norma del diritto internazionale, veniva consegnato a tale popolazione (dal pater patratus ) per liberare dalla responsabilità il popolo romano.

Nel principato, aveva carattere sanzionatorio la riduzione in schiavitù stabilita da un senatoconsulto Claudiano (54 d.C.) ai danni della donna che, essendo stata

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diffidata dal padrone di uno schiavo dal continuare con esso una relazione sessuale non autorizzata, non l’aveva interrotta: in tal caso il dominus dello schiavo acquistava la proprietà della donna (Gai 1, 160). È dubbio se la necessità di tre diffide, documentata dalle fonti, fosse prevista nel senatoconsulto o sia frutto di una interpretazione giurisprudenziale o di una prassi affermatasi in seguito. La norma prevista dal senatoconsulto venne abrogata da Giustiniano, il quale, ritenendola indegna dei suoi tempi (forse perché non conforme all’ideologia cristiana), decise di non includerne alcuna menzione nel Digesto (I. 3, 12, 1).

Un’altra causa di schiavitù con fine sanzionatorio riguardava l’uomo libero che, d’accordo con un’altra persona, fingendosi schiavo, si faceva vendere a un compratore per frodarlo, cioè allo scopo di dividersi con il venditore il corrispettivo, per poi ottenere, avvalendosi di un adsertor in libertatem , l’accertamento della sua condizione di uomo libero: già nel periodo repubblicano il pretore negava l’azione di stato diretta all’accertamento della libertà (denegatio actionis ) e poi, verso la fine del periodo classico, tale ipotesi venne considerata come vera e propria causa di schiavitù. Inoltre, i condannati nel processo criminale a gravi pene, come la morte, i lavori forzati e l’abbandono alle belve nel circo (summa supplicia , metalla , feras ), divenivano schiavi del popolo romano (servitus poenae ). Già nel periodo classico si evidenziò la revocatio in servitutem ingrati liberti , vale a dire la revocazione nella condizione servile dello schiavo manumesso, cioè affrancato, denominato libertus , quando egli avesse tenuto nei confronti del patronus , cioè di colui che, essendo in precedenza il suo dominus , lo aveva liberato, condotte molto gravi non conformi alla gratitudine che gli doveva [oltre, in questo capitolo, § 8]. Tale causa di schiavitù si generalizzò nel periodo postclassico. D) Nel IV secolo d.C., Costantino ammise la vendita dei figli neonati (Vat. fragm. 34), la quale comportava che divenissero schiavi dell’acquirente. Tale stato di schiavitù era, però, redimibile, nel senso che il padre in ogni momento poteva riscattare il proprio figlio dalla condizione servile trasferendo all’acquirente o a chi fosse in seguito divenuto proprietario del figlio stesso un altro schiavo del medesimo valore o una somma pari al valore attuale del figlio (corrispondente al danno economico subito dall’acquirente o dal successivo proprietario a seguito del riscatto). Giustiniano limitò la liceità di tale vendita al caso di estrema indigenza dei genitori.

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7. Le manumissioni e gli altri modi di acquisto della libertà A) Le manumissioni (manumissiones, singolare manumissio) erano atti del dominus attraverso i quali lo schiavo veniva affrancato dallo stato di schiavitù, ossia liberato (manumissus): tali espressioni derivano da mittere e manu . Il ius civile conosceva tre forme di manumissione, che si possono designare perciò manumissioni civili: la manumissio vindicta , quella censu e quella testamento . Esse attribuivano alla persona affrancata la libertà e la cittadinanza romana. Perciò, le manumissioni diedero nuova linfa alla cittadinanza romana, causando l’ingresso nel novero dei cittadini dapprima di persone di provenienza prevalentemente italica e poi di persone di origini etniche e culturali sempre più disparate che, però, in molti casi, avendo servito per lungo tempo alle dipendenze di un padrone romano e magari appartenendo a famiglie di schiavi che avevano servito per generazioni, malgrado la memoria delle origini, tendevano a vivere e sentire secondo le idealità e i modelli diffusi presso le classi dominanti.

La manumissio vindicta , risalente al periodo arcaico, era in origine un’applicazione a fini negoziali, cioè al solo scopo di ottenere l’effetto giuridico dell’affrancazione, del processo di libertà, che avveniva nelle forme della legis actio sacramento in rem (dove sacramentum era in origine un giuramento), mezzo giudiziale funzionale alla tutela di ogni diritto soggettivo assoluto [sopra, in questo capitolo, § 4, C]. Il padrone di una persona in stato servile, intenzionato a liberarla, chiedeva a una persona di sua fiducia di assumere in tribunale il ruolo di adsertor in libertatem e di compiere la vindicatio in libertatem , ossia di affermare che la persona in condizione servile era libera secondo il ius Quiritium , cioè secondo il ius civile (Quirites erano i cittadini romani). A fronte della vindicatio in libertatem dell’adsertor, che al cospetto del pretore asseriva essere l’uomo libero e ne toccava il capo con una bacchetta, ossia con un ramoscello (vindicta, festuca), il padrone non effettuava la contrapposta vindicatio in servitutem (rivendicazione in schiavitù), cioè non affermava che si trattava di un proprio schiavo secondo il ius Quiritium, e il pretore dichiarava che l’uomo era libero (addictio secundum libertatem ). Si trattava, dunque, in quell’epoca, di una utilizzazione della legis actio sacramento in rem, normalmente impiegata come vera e propria azione giudiziale per rivendicare la proprietà di una cosa o per ottenere la dichiarazione della libertà di un uomo di cui era controversa la condizione, al diverso scopo di instaurare un finto processo (per i romani una imaginaria lis ) finalizzato a ottenere un particolare effetto

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giuridico conforme alla volontà di un privato, consistente nella liberazione di un suo schiavo. Sebbene tale originaria struttura dell’atto sembri riconducibile ai modi operativi della giurisprudenza pontificale, al di là della risalenza al periodo arcaico, la datazione è dubbia, essendo sicuro soltanto che all’epoca delle XII tavole esistevano le condizioni per la sua esistenza, in quanto la legge aveva confermato la in iure cessio (Paolo in Vat. fragm. 50), della quale la manumissio vindicta sembrerebbe essere stata un’applicazione [oltre, capitolo quarto, § 6, B e C].

In seguito, nel periodo preclassico, la forma dell’atto mutò radicalmente, non facendosi più luogo al finto processo, e fu il dominus che voleva effettuare la manumissione a pronunziare con parole predeterminate (verba sollemnia ) davanti a un magistrato (di solito, un console o un pretore) una formula liberatoria, imponendo sul capo dello schiavo la bacchetta (vindicta, festuca). L’aspetto di continuità dell’atto nel passaggio dalla forma processuale a quella più recente è rappresentato dall’uso della vindicta, cioè della bacchetta, che, però, nella prima era utilizzata dall’adsertor in libertatem mentre compiva la dichiarazione e nella seconda dal dominus che intendeva affrancare lo schiavo. Nella forma più recente, pur continuando le manumissiones vindictae a dover avvenire davanti a un magistrato, non fu più necessario che esse si svolgessero in tribunale, essendo frequente che avvenissero al tradizionale passaggio dei magistrati, accompagnati dal loro corteo, per le vie della città all’inizio dell’anno di carica (in transitu ).

La deformalizzazione dell’atto continuò nel periodo classico, venendo meno a un certo punto l’esigenza di pronunziare parole predeterminate, e nel periodo postclassico fu ritenuta sufficiente una dichiarazione informale resa davanti al magistrato, senza che fosse più necessario l’uso della bacchetta. La manumissio censu , collegata al censimento effettuato periodicamente dai censori nel periodo repubblicano e quindi non anteriore all’affermarsi di tale prassi, avveniva a seguito dell’iscrizione dello schiavo nelle liste del censo, verisimilmente effettuata su dichiarazione dello schiavo stesso ai censori in presenza del padrone, che non si opponeva. L’inclusione nelle liste del censo, essendo incompatibile con la condizione servile in quanto presupposto della partecipazione alle assemblee popolari (comitia), comportava l’acquisto della libertà e della cittadinanza romana. È dubbio se, prima di diventare una forma autonoma di affrancazione, l’iscrizione nelle liste del censo costituisse un adempimento conseguente alla manumissio vindicta o alla manumissio testamento, diretto a realizzarne gli effetti, cioè l’acquisto della libertà e quello della cittadinanza romana.

Nella fase centrale del II secolo d.C., la manumissio censu è menzionata da Gaio come istituto vigente, in un’epoca nella quale a Roma già da tempo non si

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provvedeva più al censimento, mentre nell’ultima fase del periodo classico essa non era più utilizzata. L’ultimo censimento imperiale del quale si ha notizia risale all’epoca di Vespasiano (72 d.C.). Può darsi che Gaio si rappresentasse la possibilità di ricorrere alla manumissio censu nell’ipotesi di futuri censimenti imperiali o che pensasse all’impiego di essa nelle civitates Romanae diverse da Roma, interessate da censimenti locali.

La manumissio testamento , che secondo la tradizione era conosciuta già all’epoca delle XII tavole, era una disposizione testamentaria formale contenuta nel testamentum per aes et libram [oltre, capitolo ottavo, § 10], nella quale il dominus dichiarava servus meus Stichus liber esto o servum meum Stichum liberum esse iubeo . Essa dispiegava efficacia solo dopo la morte del padrone. Sembra verisimile che le origini della disposizione siano da ricercare nell’arcaica mancipatio familiae , che era una vera e propria mancipatio , ossia un atto di trasferimento nelle forme del gestum per aes et libram , avente per oggetto l’intero patrimonio, che costituì la protoforma del testamentum per aes et libram [oltre, capitolo ottavo, § 8].

B) Al di fuori delle tre tipologie di manumissione esaminate [sopra, in questo §, A], il ius civile non riconosceva alcuna rilevanza alla volontà del dominus di affrancare il proprio schiavo. Alcuni sviluppi significativi si vennero, invece, evidenziando verso la fine della repubblica sul piano del ius praetorium , tanto che dottrina moderna, forzando un poco gli spunti offerti dalle fonti, ha elaborato la categoria concettuale delle manumissioni pretorie, affiancandola a quella delle manumissioni civili. Se il dominus, senza porre in essere una manumissione civile, dichiarava in maniera seria e impegnativa di volere che lo schiavo fosse libero e poi, cambiata idea, lo rivendicava in schiavitù per mezzo del processo di libertà (proponendo una vindicatio in servitutem ), il pretore non gli concedeva l’azione, tutelando in tal modo la libertà di fatto dello schiavo, il quale però non acquistava né la libertà come stato giuridico (cioè la condizione giuridica di uomo libero) né la cittadinanza. A questo proposito, i romani parlavano di un semplice in libertatem morari , alludendo a una situazione di fatto in cui allo schiavo era concesso vivere come una persona libera. I giuristi romani, approfondendo lo studio del problema, individuarono alcuni casi tipici nei quali la serietà della dichiarazione del dominus era più evidente: la manumissio inter amicos , nella quale la dichiarazione era resa dal dominus davanti a un gruppo di amici, la manumissio per mensae adhibitionem , nella quale la

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dichiarazione avveniva durante una riunione conviviale, che era una variante della prima tipologia, e la manumissio per epistulam , nella quale la dichiarazione era scritta in una lettera. Traspare dalle tipologie individuate la preoccupazione di provare la manifestazione di volontà del dominus, che nei primi due casi era dimostrata chiamando amici e convitati come testimoni e nel terzo utilizzando l’efficacia probatoria dello scritto. Non sembra, però, che l’individuazione di tali tipologie, nel complesso molto comprensive, si sia tradotta nell’esclusione dei medesimi effetti sul piano del ius praetorium negli altri casi in cui constasse una volontà di liberare lo schiavo espressa in forma seria e impegnativa.

Nel 19 d.C. (epoca di Tiberio) la lex Iunia Norbana stabilì che gli schiavi affrancati in forme diverse da quelle contemplate dal ius civile acquistassero anche giuridicamente la libertà, come nelle manumissioni civili, e, a differenza che in queste ultime, la cittadinanza latina (non quella romana), con alcune limitazioni sul piano del diritto privato soprattutto in materia ereditaria rispetto alla generale condizione dei Latini: gli schiavi manumessi in tali modi vennero, perciò, detti Latini Iuniani [oltre, in questo capitolo, § 12, D]. Anche in riferimento all’epoca successiva alla lex Iunia Norbana la dottrina definisce, impropriamente, le affrancazioni non solenni manumissioni pretorie, malgrado ormai fossero disciplinate dalla legge.

C) A differenza della manumissio testamento [sopra, in questo §, A], in un primo momento non era un’autonoma forma di affrancazione la manumissio fideicommissaria , per definire la quale si usava l’espressione fideicommissaria libertas , chiamata così in quanto preordinata in una disposizione mortis causa in forma precativa (cioè in forma di preghiera), ossia in un fideicommissum , denominato fideicommissum libertatis , contenuto in un testamento o in codicilli ab intestato [oltre, capitolo ottavo, § 12]. Per mezzo di esso, il disponente chiedeva all’erede di liberare uno schiavo appartenente al disponente medesimo, all’erede o a un terzo. Dopo la morte del testatore, l’erede (che in questo caso possiamo chiamare onerato, perché su di lui gravava il peso della disposizione) doveva affrancare lo schiavo proprio o del disponente o del terzo (in quest’ultimo caso dopo averlo acquistato), avvalendosi della manumissio vindicta o di quella censu (destinata, però, a cadere in desuetudine con la scomparsa del censimento nel I secolo d.C.). In ipotesi di inottemperanza alla richiesta, l’onerato poteva essere costretto ad adempiere al di fuori delle forme del processo formulare, vale a dire nella cognitio extra ordinem del periodo classico da un

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console e, in seguito, da un pretore (praetor fideicommissarius ). Poi, però, nel prosieguo del principato, con alcuni senatoconsulti della prima metà del II secolo d.C., si ammise che, in caso di inadempimento dell’onerato, lo schiavo potesse agire personalmente (cioè senza che intervenisse un adsertor in libertatem ), sempre nel quadro della cognitio extra ordinem , per ottenere una sentenza costitutiva (cioè tale da modificare la realtà giuridica) che gli attribuisse direttamente la libertà [sopra, in questo capitolo, § 4, C], per cui la manumissio fideicommissaria, sebbene dal punto di vista formale fosse ancora una preghiera di liberare lo schiavo rivolta all’erede, può essere in un certo senso considerata un’autonoma forma di manumissione, rilevante sul versante del ius extraordinarium [sopra, capitolo secondo, § 18, F]. D) Nel periodo postclassico, a partire dall’epoca dell’imperatore Costantino (prima metà del IV secolo d.C.), a seguito dell’affermarsi del cristianesimo, si evidenziò una ulteriore forma di manumissione, la manumissio in ecclesia , la quale, pur essendo simile dal punto di vista formale alla manumissio inter amicos in quanto il dominus, un cristiano, la poneva in essere con una dichiarazione al cospetto dell’assemblea degli appartenenti alla medesima comunità religiosa, attribuiva, come le tre antiche manumissioni civili, la libertà e la cittadinanza romana. Sempre nel periodo postclassico, si ammise che il ministro del culto (clericus ) potesse liberare informalmente i propri schiavi e anche che lo schiavo conseguisse la libertà se il dominus distruggeva al cospetto di testimoni i documenti che attestavano la proprietà su di esso.

E) L’elevato numero di manumissioni era visto come un fenomeno negativo, perché si traduceva in una dispersione dei patrimoni delle famiglie abbienti e forse anche per il pericolo di instabilità sociale connesso all’incremento della popolazione libera di bassa estrazione sociale. Allo scopo di evitare che le manumissioni venissero effettuate con leggerezza e in numero eccessivo furono, pertanto, emanate alcune leggi limitatrici delle manumissioni. La lex Fufia Canina del 2 a.C., riguardante la manumissio testamento al fine di contrastare l’uso di manumettere per testamento un numero eccessivo di schiavi per futili ragioni di vanità, stabilì il numero massimo delle manumissioni testamentarie valide in proporzione al numero di schiavi del manumissore, vietando quelle in eccesso e sancendone la nullità (Gai 1, 42-46). Da quel momento le manumissioni testamentarie dovettero essere disposte nominativamente (nominatim), essendo valide solo quelle che, nell’ordine in cui erano state disposte, erano contenute entro il limite consentito.

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Chi era proprietario di più di due schiavi e non più di dieci, poteva manumetterne la metà; chi ne aveva più di dieci e non più di trenta, un terzo; chi più di trenta e non più di cento, un quarto; chi più di cento e non più di cinquecento, un quinto; chi un numero superiore non più di cento. Chi non aveva più di due schiavi non incorreva in alcun limite. La legge stessa poneva argine ad alcune conseguenze illogiche dipendenti dal criterio meramente matematico adottato.

Inoltre, la lex Aelia Sentia del 4 d.C. vietò di effettuare manumissioni ai domini di età inferiore a vent’anni e di manumettere schiavi di età inferiore a trent’anni, prevedendo però un apposito procedimento che consentiva di superare tali divieti. In entrambi i casi, se la manumissione era autorizzata da un consilium presieduto a Roma dal pretore e nelle province dal governatore provinciale, previo accertamento di una iusta causa , il dominus poteva validamente manumettere lo schiavo, ma solo nella forma della manumissio vindicta . Tra le iustae causae delle manumissioni effettuate dal dominus di età inferiore a vent’anni (Gai 1, 39), la legge prevedeva stretti rapporti di parentela di sangue (manumissione del padre o della madre) e altre relazioni molto strette fra manumissore e manumesso (pedagogo, fratello di latte). Tra le iustae causae delle manumissioni di schiavi di età inferiore a trent’anni (Gai 1, 19), la legge prevedeva stretti rapporti di parentela di sangue (figlio, figlia, fratello, sorella), altre relazioni molto strette (alunno, pedagogo), un interesse del dominus meritevole di tutela (manumissione dello schiavo per impiegarlo come procurator , ossia amministratore del proprio patrimonio, o della schiava per sposarla). In progresso di tempo, la giurisprudenza ritenne che tutte le giuste cause contemplate dalla legge valessero sia per le manumissioni effettuate dal dominus di età inferiore a vent’anni, sia per le manumissioni di schiavi di età inferiori a trenta.

Va segnalato che, dopo la lex Iunia Norbana (19 d.C.), l’autorizzazione si ritenne necessaria anche affinché un dominus di età inferiore a vent’anni potesse attribuire la libertà e la cittadinanza latina ai propri schiavi: in tal caso, ottenuta l’autorizzazione, il dominus poteva utilizzare soltanto la manumissio inter amicos [sopra, in questo §, B]. La manumissione effettuata da un dominus di età inferiore a vent’anni senza la prescritta autorizzazione era nulla. In un primo momento, la nullità colpiva anche la manumissione di uno schiavo di età inferiore a trent’anni effettuata senza la prescritta autorizzazione dal dominus che aveva raggiunto i vent’anni, ma in quest’ultimo caso sembrerebbe che il pretore negasse al dominus la rivendica in schiavitù (come nel caso delle manumissioni pretorie [sopra, in questo §, B]). Dopo la lex Iunia Norbana del 19 d.C. lo schiavo di età minore di trent’anni manumesso senza l’autorizzazione del consilium acquistava la libertà e la cittadinanza dei Latini Iuniani : si parla a questo proposito di Latini Aeliani .

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La legge vietava pure le manumissioni effettuate dal debitore in frode dei creditori e dal libertus , ossia dallo schiavo manumesso, in frode delle aspettative successorie del patrono, cioè di chi, essendone in precedenza il padrone, lo aveva manumesso [oltre, in questo capitolo, § 8, sul libertus; capitolo ottavo, § 7, sulle aspettative successorie del patrono], di cui sanciva la nullità (Gai 1, 37). Risulta evidente che il debitore, manumettendo i propri schiavi, avrebbe ridotto la consistenza del proprio patrimonio e perciò reso più difficile la soddisfazione del creditore. Allo stesso modo, il liberto, manumettendo i propri schiavi, avrebbe ridotto la consistenza del proprio patrimonio, sul quale il patrono aveva aspettative successorie in caso di premorienza del liberto medesimo. Tale era l’importanza della previsione della nullità delle manumissioni in frode ai creditori che essa venne resa applicabile anche ove il manumissore fosse straniero da un senatoconsulto dell’epoca di Adriano (Gai 1, 47).

La legge prevedeva, infine, che gli schiavi che avevano compiuto atti turpi o gravi crimini e perciò subito gravi sanzioni private o pene infamanti, ove manumessi, acquistassero la libertà, ma fossero nella condizione degli stranieri che, sconfitti dal populus Romanus , si erano arresi (dediticii ), i quali conservavano la libertà, ma non avevano cittadinanza: tali schiavi manumessi sono i dediticii Aeliani . Tuttavia, a differenza degli altri stranieri senza cittadinanza, essi in perpetuo non potevano acquistare la cittadinanza romana né quella latina, né avvicinarsi a meno di cento miglia da Roma e, se violavano quest’ultimo divieto, cadevano di nuovo in stato di schiavitù, come servi publici , ossia schiavi del popolo Romano. Giustiniano abrogò le previsioni della lex Aelia Sentia, a eccezione del divieto di manumissioni fraudolente (C. 7, 5, 1 del 530 d.C., e 7, 6, 1 del 531 d.C.). F) La libertà poteva essere conseguita anche in assenza di una manumissio, cioè di un atto del dominus rivolto a tale scopo. A parte il riacquisto della libertà per rientro in patria del prigioniero a seguito del postliminium [sopra, in questo capitolo, § 6, A], nel periodo preclassico era ammesso l’acquisto della libertà per legge e per atto del magistrato e nel periodo classico casi particolari di acquisto della libertà furono introdotti da senatoconsulti e costituzioni imperiali. L’acquisto della libertà poteva avere funzione premiale per lo schiavo: per esempio, il senatoconsulto Silaniano del 10 d.C. prevedeva che, per atto del pretore, acquistasse come premio la libertà lo schiavo che denunciava l’assassino del proprio padrone. Altre volte, l’acquisto della libertà aveva funzione sanzionatoria per il dominus che avesse tenuto condotte deprecabili: un editto dell’imperatore Claudio stabilì che divenisse libero lo schiavo malato abbandonato dal dominus e una costituzione imperiale del I secolo d.C. ammise l’acquisto della libertà da parte della schiava (ancilla) venduta con clausola che non fosse destinata alla prostituzione (ne prostituatur ) se il patto veniva violato. Nella seconda metà del II secolo d.C., si

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ammise anche che, ove uno schiavo avesse pagato del denaro a una persona libera per farsi comprare e manumettere, in caso di inadempimento fosse applicabile la disciplina prevista per il fideicommissum libertatis [sopra, in questo §, C].

A partire dall’epoca di Diocleziano lo schiavo acquistava la libertà se godeva per un periodo di tempo determinato, pari almeno a vent’anni, della libertà di fatto. Inoltre, nel tardo antico, in connessione con il riconoscimento del cristianesimo come religione di stato, era previsto che lo schiavo conseguisse la libertà se rivestiva una carica ecclesiastica o assumeva lo stato monacale con il consenso del padrone e in alcuni casi anche senza tale consenso.

8. I liberti A) Gli schiavi manumessi acquistavano la libertà e, se manumessi nelle forme previste dal diritto civile, la cittadinanza romana. A seguito della manumissione, lo schiavo affrancato dal padrone diveniva libertus di colui che l’aveva manumesso, denominato patronus , e, nell’insieme degli homines liberi , apparteneva alla categoria dei libertini , contrapposti agli ingenui . Dal punto di vista terminologico sia libertus che libertinus definiscono in sostanza il liberto, cioè lo schiavo affrancato dal padrone, ma mentre il primo sostantivo considera il liberto in relazione al patrono (si è libertus di qualcuno), accentuando il dato relazionale, il secondo descrive l’appartenenza del liberto alla categoria dei libertini a prescindere dalla relazione con il manumissore.

B) I liberti incorrevano in alcune limitazioni di capacità. Sul piano del diritto pubblico, non potevano rivestire le magistrature repubblicane, essendo loro precluso l’accesso all’ordo senatorius , ed era anche difficile che potessero entrare a far parte dell’ordo equester , cioè dell’ordine dei cavalieri, in seno al quale da un certo momento in poi venivano scelti i funzionari più importanti dell’amministrazione imperiale. Tuttavia, l’imperatore poteva concedere a singoli liberti il ius anulorum aureorum , che, attribuendo loro un segno distintivo proprio degli appartenenti all’ordine equestre (appunto il diritto di indossare anelli d’oro), ne consentiva l’accesso alle cariche pubbliche. In epoca Giulio-Claudia, del resto, alcuni liberti rivestirono uffici di rilievo nell’amministrazione imperiale.

Anche nel diritto privato vi erano alcune incapacità del liberto. Per esempio, la lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a.C. vietò alle liberte e ai liberti di sposare appartenenti al ceto senatorio, divieto che nel II secolo d.C. venne sanzionato con la nullità del matrimonio. C) Inoltre, v’erano obblighi di comportamento a carico del liberto dipendenti dalla relazione intercorrente con colui che lo aveva manumesso, denominato patronus (patrono), cioè dal rapporto di patronato. A tali obblighi del liberto corrispondevano veri e propri diritti del patrono, denominati unitariamente ius patronatus , in cui succedevano i discendenti del patrono alla sua morte. In primo luogo, il liberto era tenuto nei confronti del patrono all’obsequium o reverentia , cioè a comportamenti coerenti con la gratitudine e la devozione che egli doveva serbare al patrono. Ove non vi adempisse, il patrono poteva utilizzare mezzi correttivi corporali e, nei casi più gravi, il liberto era sanzionato dapprima in sede criminale, per previsione della lex Aelia Sentia (4 d.C.), poi, a seguito di costituzioni imperiali, con la revoca in stato servile per ingratitudine (revocatio in servitutem ingrati liberti ). Alcune condotte contrarie all’obsequium e alla reverentia che il liberto doveva serbare verso il patrono erano sanzionate dal pretore. Al liberto non era concesso intentare azioni contro il patrono senza l’autorizzazione del pretore, potendo altrimenti essere convenuto in giudizio dal patrono con un’azione penale pretoria, ossia con un’azione basata sul ius praetorium diretta a ottenere la condanna del liberto al pagamento di una pena pecuniaria fissa. Il pretore, poi, denegava al liberto le azioni infamanti contro il patrono, cioè non gli consentiva di agire contro quest’ultimo con quelle azioni che, essendo relative a comportamenti di particolare disvalore o sleali, comportavano l’infamia del condannato [oltre, in questo capitolo, § 26, C]. Inoltre, connessa alla rilevanza del rapporto di patronato in ambito processuale è la limitazione della condanna del patrono a favore del liberto entro la misura delle sue possibilità economiche (beneficium competentiae ) [oltre, capitolo quinto, § 13].

All’obsequium e alla reverentia era pure collegato il divieto sancito a carico della libertà di divorziare dal patrono con cui fosse sposata senza il consenso di quest’ultimo. Il liberto, inoltre, doveva prestare le operae , commisurate a giorni, la cui estensione e le cui modalità erano stabilite dal patrono. Dopo la manumissione, il liberto prometteva di eseguirle con la promissio iurata liberti , contratto verbale utilizzabile solo a tale scopo, forse preceduto da un giuramento prestato prima della manumissione, o con una stipulatio , contratto verbale che si perfezionava con una domanda e con una congrua risposta

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affermativa, utilizzabile in generale per fare sorgere una obbligazione, in quest’applicazione denominata stipulatio operarum . In caso di inadempimento, il patrono poteva intentare l’actio operarum . Le operae erano officiales (da officium ), se non valutabili economicamente, e fabriles , se valutabili economicamente: mentre le prime non potevano essere cedute dal patrono e potevano, pertanto, essere eseguite solo a favore di quest’ultimo e dei suoi discendenti, le seconde erano cedibili anche a titolo oneroso, vale a dire dietro corrispettivo. Operae officiales erano, per esempio, quelle che avevano per oggetto attività professionali, come quelle del liberto medico o istitutore, ma anche quelle aventi per oggetto servizi domestici. Operae fabriles erano quelle che avevano per oggetto la coltivazione dei campi o attività artigianali e commerciali.

D) Inoltre, il rapporto di patronato comportava alcune conseguenze nelle materie delle successioni legittime, della tutela e della curatela legittime degli incapaci di agire, in quanto, rispetto al liberto, che non aveva parenti civili, ossia a(d)gnati , il patrono era trattato come se fosse il parente civile viciniore nel grado, cioè l’a(d)gnatus proximus . Già le XII tavole prevedevano la successione legittima del patrono al liberto che non avesse figli in potestà (sui heredes ) e ben presto, al patrono vennero attribuite anche la tutela sul liberto impubere e sulla liberta e la curatela sul liberto malato di mente (furiosus ). A partire dal periodo preclassico, sul versante del diritto pretorio, se il liberto non aveva figli o li aveva diseredati, perdeva la capacità di fare testamento per la metà del proprio patrimonio, in quanto alla sua morte il pretore attribuiva il possesso di metà dei beni del liberto al patrono. Si trattava della bonorum possessio (dimidiae partis) contra tabulas liberti : in sostanza, sul versante del ius praetorium il testamento del liberto conservava validità solo nei limiti di una metà del patrimonio, essendo il possesso dell’altra accordato al patrono.

Infine, fin dall’inizio del periodo classico il rapporto di patronato comportava l’obbligo del liberto di prestare gli alimenti al patrono indigente e quello del patrono di prestare gli alimenti al liberto indigente, che si potevano fare valere nelle forme processuali introdotte dall’imperatore (cognitio extra ordinem ). E) Lo schiavo affrancato con la manumissio testamento , chiamato libertus Orcinus (perché il dominus era andato all’Orcus, cioè da Plutone, divinità dell’oltretomba, cioè era morto, prima che lo schiavo acquistasse la libertà), era esente dalle conseguenze personali del

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patronato, perché non aveva un patrono, ma subiva alcune conseguenze patrimoniali del patronato rispetto ai discendenti del patrono. Anche lo schiavo per il quale era stato disposto un fideicommissum libertatis che, a seguito di ingiustificata assenza in tribunale dell’onerato, otteneva la libertà per pronunzia del magistrato [sopra, in questo capitolo, § 7, C] era considerato liberto Orcino. Se, invece, l’assenza dell’onerato in tribunale era giustificata, quest’ultimo acquistava la qualità di patrono.

Nel principato, venne ammesso che l’imperatore potesse concedere ai liberti la restitutio natalium , con la quale venivano equiparati agli ingenui.

9. Condizioni paraservili e limitazioni della libertà di fatto A) Nell’esperienza giuridica romana, cui era estranea l’idea dell’eguaglianza fra tutti gli uomini, v’erano situazioni nelle quali persone libere di cittadinanza romana incorrevano, a seconda dei casi, nella privazione o nella limitazione della capacità giuridica oppure, pur conservando la capacità giuridica, vedevano limitata, più o meno incisivamente, la loro libertà di movimento sul piano giuridico o fattuale. Alcune di queste situazioni risalgono all’epoca arcaica, altre sono emerse in seguito, nei periodi preclassico, classico e postclassico. Per quanto concerne le cause che escludevano la capacità giuridica delle persone libere di cittadinanza romana, quelle dipendenti dalla sottoposizione alla patria potestas e alla manus , potere dell’uomo sulla propria moglie (ed eccezionalmente su altre donne libere), riguardando lo status familiae , saranno esaminate in seguito [oltre, in questo capitolo, §§ 14-18].

B) Già nel periodo arcaico subivano limitazioni significative della capacità giuridica le personae in mancipio o in causa mancipii . Si trattava di figli, figlie e ulteriori discendenti in linea maschile di genere maschile e femminile alienati dal loro paterfamilias , vale a dire dalla persona che aveva la patria potestas su di essi, a un’altra persona con una mancipatio , che era un gestum per aes et libram [oltre, capitolo sesto, § 12, A]. Malgrado si trattasse dello stesso atto formale con il quale si trasferiva la proprietà delle res mancipi , ossia di quelle cose che nell’economia agraria del periodo arcaico servivano a produrre ricchezza (in linguaggio economico, i mezzi di produzione), tra le quali rientravano gli schiavi [oltre, capitolo sesto, § 4, A], l’acquirente (denominato mancipio accipiens , cioè colui che acquistava

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una cosa o una persona con la mancipatio ) acquistava su tali persone un potere denominato mancipium , diverso dal diritto di proprietà che si acquistava sugli schiavi. Al di là dell’approccio istituzionale, il problema è un più complesso, perché il sostantivo mancipium era idoneo a descrivere, oltre all’atto di trasferimento denominato mancipatio , sia il diritto di proprietà sulle res mancipi , tra le quali gli schiavi, che erano al tempo stesso persone, sia, nel caso in esame, un potere su persone libere, come tale diverso dalla proprietà. Inoltre, mancipium definiva pure la persona in stato servile, creando un ulteriore profilo di ambiguità in relazione all’espressione in causa mancipii , che potrebbe alludere o alla sottoposizione alla condizione del mancipio come potere o all’avvicinamento della condizione del sottoposto al mancipio a quella dello schiavo. È dubbio se tale polivalenza del termine sia dovuta a un’originaria indifferenziazione fra il diritto di proprietà sui mezzi di produzione e, in particolare sugli schiavi, e il potere assoluto sulle persone in mancipio oppure, come sembra più verisimile, a un successivo accostamento del potere sulle persone libere a quello sugli schiavi giustificato dalla comune funzione economica, consistente nella fruizione della forza-lavoro. La questione è connessa a quella delle origini della proprietà nell’esperienza giuridica romana [oltre, capitolo sesto, § 6, A].

Le persone in mancipio o in causa mancipii, malgrado rimanessero libere e cittadine romane, versavano in una condizione in parte simile a quella degli schiavi, tanto che, secondo Gaio, erano costituite e considerate servorum loco , vale a dire come se fossero schiavi (Gai 1, 123 e 138). Il fenomeno in esame verisimilmente trasse origine dalla prassi diffusa nel periodo arcaico di vendere i propri figli e gli ulteriori discendenti in potestà per ragioni economiche, allo scopo di ricavarne un prezzo come corrispettivo, nel mentre l’acquirente si procurava in tal modo le prestazioni lavorative del figlio, della figlia o dell’ulteriore discendente altrui. Poiché la patria potestas era in origine inestinguibile, la mancipatio del figlio, della figlia o dell’ulteriore discendente, maschio o femmina, pur ponendo la persona alienata sotto il mancipium dell’acquirente, non faceva venire meno la patria potestas del paterfamilias che aveva compiuto l’alienazione, che però, limitatamente agli aspetti confliggenti con il mancipium, non poteva essere esercitata mentre la persona sottoposta era in mancipio e si riespandeva quando, per una qualsiasi ragione, tale condizione cessava. Le XII tavole, però, stabilirono che alla terza alienazione del figlio la patria potestas venisse meno, con la conseguenza che, dopo tale momento, essa non concorreva più con il mancipium dell’acquirente. La norma, che sanzionava gli eccessi paterni nell’uso del ius vendendi , era del seguente tenore: si pater filium ter venum duuit, filius a patre liber esto (tab. 4, 2b).

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In seguito, la giurisprudenza pontificale, interpretando restrittivamente la norma, introdusse la regola secondo la quale già la prima mancipatio della figlia femmina e dell’ulteriore discendente di genere maschile o femminile li facevano uscire dalla patria potestas (Gai 1, 132). Da allora in poi, per le figlie femmine e per gli ulteriori discendenti il mancipium non poteva concorrere con la patria potestas dell’alienante (a differenza di quanto avveniva per i figli maschi fino alla terza alienazione). Durante il periodo preclassico, la prassi di vendere le persone in potestà per trarne profitto cadde in desuetudine a causa dell’affermarsi del modo di produzione schiavistico e la mancipatio di esse continuò a essere ancora effettuata soltanto in pochi casi. In primo luogo, essa era utilizzata quando il paterfamilias intendesse liberarle definitivamente dalla propria patria potestas con la emancipatio , per renderle indipendenti o per consentirne l’adozione da parte di un altro paterfamilias (adoptio ) [cfr. oltre, in questo capitolo, § 17, D; § 18, B]. Infatti, quanto ai figli, ciò avveniva sfruttando in maniera strumentale la norma delle XII tavole sulle conseguenze estintive della triplice vendita, nel mentre, per le figlie e gli ulteriori discendenti di entrambi i generi, si utilizzava la regola introdotta dalla giurisprudenza pontificale, per la quale era sufficiente una vendita [sopra]. In tali utilizzazioni, essendo la mancipatio svincolata dalla funzione economica originaria (che era quella di vendita a contanti), l’accipiente acquistava il mancipium per brevissimi periodi (tre volte sui figli altrui e una sola volta sulle figlie e sugli ulteriori discendenti altrui), al solo fine di consentire all’alienante di raggiungere l’effetto della liberazione dei sottoposti dalla patria potestas (che conseguiva, a seconda che si trattasse di figli maschi o di figlie e altri discendenti, alla terza o alla prima mancipatio). Inoltre, ancora nell’epoca classica la mancipatio delle persone in potestà era effettuata per cederli all’offeso se avevano compiuto un atto illecito e il paterfamilias non gli voleva pagare la pena prevista: tale cessione realizzava la noxae deditio (ma si può anche dire ) [sopra, in questo capitolo, § 5, E]. In tal caso, essendo la mancipatio finalizzata a evitare il pagamento di una pena per l’atto illecito compiuto dal figlio, verisimilmente l’offeso poteva esercitare legittimamente il mancipium solo fino a quando la persona in mancipio avesse prestato a suo favore servigi equivalenti all’importo della pena dovuta dal paterfamilias in mancanza di abbandono nossale. Se, una volta ottenuti tali servigi, il titolare del mancipium non provvedeva alla manumissione, cioè all’affrancazione della persona in mancipio, può darsi che fosse il pretore a costringerlo con mezzi indiretti a effettuarla.

Sia nel periodo arcaico che in quelli preclassico e classico, le personae in mancipio non perdevano la libertà, né la cittadinanza e non subivano in conseguenza

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del mancipium limitazioni di capacità giuridica e di agire sul versante dei rapporti personali, come il matrimonio e la filiazione nell’ambito del matrimonio. Perciò, sembrerebbe che la patria potestas, se non si era estinta per triplice vendita del figlio o per vendita della figlia o dell’ulteriore discendente, continuasse a poter essere esercitata dal padre o dall’avo nei rapporti personali riguardanti il discendente dato in mancipio. Si può pensare, per esempio, al necessario consenso del padre al matrimonio.

La principale caratteristica della condizione delle personae in mancipio era la mancanza della capacità giuridica sul versante dei rapporti patrimoniali, presentandosi da tale punto di vista la loro posizione analoga a quella degli schiavi, mentre la posizione della persona che li aveva in mancipio somigliava a quella del dominus . Ulteriore somiglianza alla condizione degli schiavi era costituita dal fatto che alla morte del titolare del mancipium il suo erede subentrava nella titolarità del potere. Inoltre, come avveniva per gli schiavi, dal mancipium si usciva per manumissio [sopra, in questo capitolo, § 7], ma questa aveva effetti diversi rispetto a quelli che aveva per gli schiavi, non facendo acquistare la libertà e la cittadinanza, in quanto le persone in mancipio ne erano già titolari. Inoltre, la persona affrancata dal mancipium, non avendo perso la libertà a seguito della mancipatio, non acquistava la condizione di liberto (che era propria dello schiavo liberato), mantenendo quella di ingenuus , cioè di persona che non aveva mai cessato di essere libera. Ne discendeva che la persona manumessa dal titolare del mancipium non era tenuta a prestare l’obsequium , la reverentia , le operae . Tuttavia, se al momento della manumissio la persona liberata dal mancipium non era più sotto la patria potestas del proprio paterfamilias, il manumissore era equiparato al patrono e, perciò, al parente viciniore nel grado in linea maschile rispetto alla persona affrancata, cioè all’a(d)gnatus proximus , con le relative conseguenze sul piano della successione legittima, della tutela e della curatela [per la condizione dei liberti, cfr. sopra, in questo capitolo, § 8].

Va anche precisato che, da un lato, la persona in mancipio, a seguito della manumissio, ricadeva sotto la patria potestas del proprio paterfamilias, se questa non si era estinta, e, dall’altro, non si applicavano le leggi limitatrici delle manumissioni. Le personae in mancipio scomparvero nel periodo postclassico, quando cadde in disuso la noxae deditio e la liberazione dalla patria potestas (ossia l’emancipatio) era ormai effettuata senza la mancipatio. C) In altri casi, v’erano restrizioni giuridiche o di fatto più o meno incisive della libertà di alcune persone, che, però, rimanevano di condizione libera (ossia non in stato di schiavitù) e cittadine romane, godendo della capacità giuridica e di quella

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agire. Nel periodo arcaico, una particolare forma di dipendenza era quella dei clientes (al singolare cliens), persone di posizione sociale inferiore che si ponevano sotto la protezione di un appartenente al patriziato, ossia all’aristocrazia, il quale assumeva la denominazione di patronus . In seguito, quando tra la fine del periodo arcaico e il periodo preclassico la fascia più elevata della plebe, affiancatasi al patriziato nella nobilitas patrizio-plebea, si organizzò in gentes , anche i plebei appartenenti alle famiglie più importanti dal punto di vista sociale cominciarono ad avere loro clientes. Il rapporto fra cliens e patronus era governato dalla fides , che imponeva comportamenti reciproci, tra i quali soprattutto la protezione del cliens da parte del patronus e i servigi e il rispetto dovuti dal primo a secondo. In realtà, vi potrebbero essere state anche implicazioni più ampie del rapporto di clientela sul piano privatistico, difficilmente ricostruibili in quanto esso, mano a mano che si attenuava la centralità dell’ordinamento delle gentes in cui erano inquadrate prima l’aristocrazia, poi la nobiltà, perse gradualmente la sua importanza giuridica, conservando un rilievo dal punto di vista politico e sociale. Le violazioni della fides, comunque, sul piano del diritto criminale comportavano la consacrazione a una divinità (sacertas ), da cui conseguiva la cessazione di ogni protezione giuridica per il colpevole, che poteva essere impunemente ucciso. Nel periodo monarchico, tale sanzione giuridico-religiosa era prevista a carico della parte del rapporto di clientela che avesse violato la fides, patrono o cliente che fosse, mentre nel periodo repubblicano le dodici tavole, forse in accoglimento di una richiesta della plebe, alla quale appartenevano i clientes, la prevedevano solo a carico del patrono che avesse compiuto una fraus , ossia avesse violato la fides, ai danni del cliente, non più a carico di quest’ultimo.

Inoltre, a partire dal periodo arcaico era limitata la libertà di fatto dei nexi (al singolare nexus), i quali, pur rimanendo di condizione libera e cittadini romani, vincolavano con il contratto di nexum , che si perfezionava in modo formale e solenne essendo un gestum per aes et libram , la propria persona o le proprie operae , cioè la propria attività lavorativa, a garanzia dell’obbligazione di pagare una somma di denaro derivante da un titolo preesistente (contratto o atto illecito) o assunta con il contratto stesso [oltre, capitolo settimo, § 8]. La limitazione della libertà era connessa al fatto che il nexus, per ottenere la liberazione dall’asservimento con la solutio per aes et libram , ove non adempisse l’obbligazione pecuniaria, era tenuto a prestare la propria attività lavorativa a favore del creditore e alle dipendenze di quest’ultimo fino a concorrenza della somma dovuta. Una tappa decisiva nella scomparsa dei nexi è rappresentata dalla lex Poetelia Papiria , probabilmente del 326 a.C., che abolì il nexum o gran parte delle sue applicazioni, lasciando forse in vita solo ipotesi marginali.

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Una grave restrizione della libertà di movimento di persone di condizione libera e cittadine romane, esistente nel periodo arcaico e in quello preclassico, riguardava i debitores addicti o adiudicati (al singolare debitor addictus, adiudicatus), debitori inadempienti che il magistrato assegnava al creditore all’esito della legis actio per manus iniectionem , i quali per un certo periodo potevano anche essere tenuti in catene nella prigione privata del creditore in attesa della loro sorte definitiva (quando non fossero riscattati o non si riscattassero, la morte o la vendita come schiavi). Gli addicti, la cui situazione era migliorata durante il periodo preclassico, vennero meno con l’abrogazione dell’antico processo romano delle legis actiones , a seguito della lex Iulia iudiciorum privatorum del 17 a.C. Nexi e debitores addicti erano soggetti ai doveri di natura pubblica, appartenendo anche all’esercito, mentre non sappiamo se e in quale misura la loro capacità fosse limitata sul versante del diritto privato. Nell’ultima fase del periodo preclassico e ancora in quello classico, vi erano, poi, i ducti iussu praetoris , debitori condannati che il pretore consentiva fossero portati via dal creditore: anch’essi erano liberi, cittadini e dotati di capacità giuridica, ma con diminuita libertà di movimento: la condizione di questi ultimi era, in ogni caso, meno dura di quella degli addicti.

V’erano, poi, nel periodo arcaico, i ladri colti in flagrante aggiudicati dal magistrato al derubato (fures manifesti , al singolare fur manifestus), per i quali era discusso fra i giuristi dei periodi successivi se fossero in stato di schiavitù oppure in una condizione di dipendenza diversa, simile a quella degli addicti o adiudicati, compatibile con la conservazione della libertà e della cittadinanza (Gai 3, 189). Nei periodi preclassico e classico, limitazioni della libertà difficili da ricostruire nel dettaglio riguardavano anche altre categorie di persone, che conservavano la libertà, la cittadinanza e, perciò, anche la capacità giuridica. A partire dal periodo preclassico, coloro che prestavano le loro opere dietro compenso a favore di un soggetto nel quadro di una locatio operarum , corrispondente al nostro contratto di lavoro, chiamati mercennari (al singolare, mercennarius), erano soggetti al potere disciplinare dell’utilizzatore delle loro prestazioni (conductor operarum ). A limitazioni consistenti della libertà di movimento e a poteri disciplinari ancora più intensi erano soggetti gli auctorati (al singolare auctoratus) cioè i gladiatori che, a momento del contratto di ingaggio, detto auctoramentum, effettuavano la promessa a favore dell’impresario (lanista) di eseguire la loro prestazione (retribuita) di combattere fino alla morte. Nel periodo classico, le persone riscattate dalla prigionia di guerra da un privato, denominate redempti ab hostibus (al singolare redemptus) erano gravate da un vincolo personale a garanzia della restituzione a colui che li aveva ri-

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scattati (redemptor ) di quanto pagato per il riscatto: tale vincolo era considerato come una sorta di pegno avente per oggetto la persona.

D) Già nel periodo classico nelle province, come è documentato soprattutto per l’Egitto, e, poi, più diffusamente nel periodo postclassico, a gravi limitazioni della libertà di movimento furono soggetti i coloni (singolare colonus), persone che coltivavano il fondo di un proprietario terriero, detto dominus , per sostentare sé stessi e le loro famiglie. Dal punto di vista privatistico, il rapporto fra colonus e dominus era talora inquadrabile, a seconda dei casi, nella locatio operarum , in cui il colono eseguiva le prestazioni lavorative a favore del dominus, tenuto a un corrispettivo, oppure nella locatio rei , vale a dire nell’affitto agrario del fondo del dominus al colono, tenuto al canone locatizio per il godimento. Tuttavia, non si avevano vere e proprie locazioni quando il corrispettivo non era in denaro ma in natura (frutti della terra e degli animali), come spesso accadeva. Il problema dell’inquadramento giuridico, comunque, ha una scarsa rilevanza, in quanto l’unificazione del regime del colonato avvenne in un periodo, quello postclassico, nel quale non v’era una giurisprudenza in grado di qualificare la realtà in modo corretto dal punto di vista giuridico.

Nella legislazione imperiale del periodo postclassico, a partire dalla seconda metà del IV secolo, si stabilì a più riprese che i coloni non potessero allontanarsi dal fondo che coltivavano (C. 11, 53(52), 1, del 371 d.C.; C. 11, 51(50), 1; C. 11, 52(51), 1; C. 11, 48(47), 12). Inoltre, non potevano essere sottratti da terzi alla coltivazione del fondo medesimo, né il dominus aveva il potere di allontanarli da esso, evidenziandosi una relazione molto intensa fra tali persone e la terra che coltivavano. Tali aspetti erano giustificati dai molteplici interessi per soddisfare i quali il colonato si era sviluppato, di natura economica, sociale e fiscale. Il colonato rispondeva all’esigenza dei proprietari fondiari di conservare la manodopera libera, meno costosa di quella servile, limitando la fuga dalle campagne, a quella del fisco di ricevere il pagamento delle imposte fondiarie (che talora erano commisurate al numero di coloni impiegati nella coltivazione e che, comunque, non sarebbe stato possibile pagare se i fondi non fossero stati coltivati) e a quella dei coloni stessi (spesso, prima di divenire tali, piccoli proprietari terrieri) di essere tutelati dal proprietario del fondo dalle vessazioni di altri proprietari e del fisco. A tali fattori si aggiunse, alla fine del periodo classico, la crisi del modo di produzione schiavistico, connesso anche alla fine delle grandi conquiste militari.

Nel quadro dell’irrigidimento delle strutture sociali caratteristico del basso impero, la condizione di colono si trasmetteva dai genitori ai figli, essendo acquistata per nascita da madre colona e poi anche da padre colono. Se il padre e la madre erano coloni di fondi appartenenti a diversi proprietari i figli e-

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rano assegnati in parte al fondo coltivato dal primo e in parte al fondo coltivato dalla seconda. Si poteva diventare coloni anche per spontaneo acquisto della relativa condizione, per sottoposizione di fatto alla condizione di colono per un lungo periodo di tempo (usucapione trentennale: C. 11, 48, 19, di Anastasio, tra il 491 e il 518 d.C.; C. 11, 48, 23, 1-3, di Giustiniano, tra il 531 e il 534 d.C.), per assegnazione coattiva di mendicanti e prigionieri di guerra alla coltivazione dei fondi da parte dello stato.

La liberazione del colono dalla sua condizione avveniva per affrancazione informale da parte del dominus, necessariamente accompagnata, però, dalla cessione al colono affrancato della proprietà del fondo coltivato. In altri casi, il regime dell’estinzione del rapporto di colonato ricalca quello dell’acquisto della libertà da parte degli schiavi nel periodo postclassico. Si ammise che il colono si liberasse dalla propria condizione sottraendosi al vincolo con la terra per un determinato periodo di tempo (Th. 5, 18, di Onorio e Teodosio, del 419 d.C.), ma a questo proposito furono introdotti limiti rigorosi (Nov. Valent. 31, del 451 d.C.). La condizione di colono cessava pure se il colono accedeva alla carriera ecclesiastica o acquistava lo stato monacale con il consenso del proprietario del fondo.

Sebbene in fonti del basso impero si legga che i coloni erano soggetti a una sorta di schiavitù (quadam servitute dediti videantur : C. 11, 50, 2 pr.), essendo anche definiti servi terrae , il colono godeva della libertà, della cittadinanza e della capacità giuridica, sia sul versante dei rapporti personali che su quello dei rapporti patrimoniali. Pertanto, egli era proprietario del proprio patrimonio (di solito assai esiguo), il quale, però, era detto impropriamente peculium , come quello degli schiavi, forse perché era vincolato a garanzia del proprietario del fondo, non essendo alienabile senza l’autorizzazione di quest’ultimo. Inoltre, i negozi di disposizione del fondo avevano necessariamente per oggetto anche i coloni che lo coltivavano, alcuni dei quali, specie nelle province orientali, erano perfino censiti nei registri fondiari insieme ai fondi, di cui erano considerati pertinenze: in questo caso i coloni erano denominati adscripticii , ossia assegnati per iscritto ai fondi. E) Sempre nel periodo postclassico, in connessione con l’irrigidimento delle strutture sociali, vi erano anche altre situazioni nelle quali l’esercizio di una determinata attività o una certa consistenza patrimoniale comportavano automaticamente l’imposizione coattiva di una certa condizione della persona, cui erano correlati doveri e specifici limiti alla libertà, non potendo chi vi si trovava abbandonare la condizione imposta e trasferendosi essa anche ai figli. Ciò accadeva per i corporati (al singolare, corporatus) appartenenti a quelle corporazioni (corporationes) in cui erano inquadrati coloro che esercitavano mestieri di pubblico interesse (per esempio, pistores , navicularii ),

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Capitolo Terzo

essendo in tal modo garantito che tali attività fossero continuativamente svolte, e per i curiales (al singolare curialis) o decuriones (al singolare decurio), componenti dei senati cittadini (curiae ), dato che tali organi, cui appartenevano coattivamente le persone più abbienti, rispondevano della riscossione delle imposte e delle varie entrate pubbliche.

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Sezione terza

Status civitatis 10. Cittadinanza romana A) Un’altra condizione che influiva, in misura diversa a seconda dei periodi storici, sulla capacità giuridica era lo status civitatis . Ai cives Romani , i quali, ove non soggetti alla potestà del padre o di altro ascendente (patria potestas ), alla manus , potere dell’uomo sulla propria moglie (ed eccezionalmente su altre donne libere) [oltre, in questo capitolo, § 19, A, e § 29, D], e al mancipium , potere acquistato sulle persone alienate dal loro paterfamilias con la mancipatio [sopra, in questo capitolo, § 9, B], godevano della piena capacità giuridica, si contrapponevano i Latini e i peregrini , i quali a Roma avevano una capacità giuridica limitata, ma sempre più ampia mano a mano che la città si venne aprendo alle relazioni commerciali. Mentre la civitas Romana era costruita unitariamente, sia i Latini che i peregrini erano di diversi tipi e, come si vedrà, ciò si rifletteva sul grado in cui, già nel periodo arcaico e in misura maggiore nei periodi preclassico e classico, vennero a godere di una limitata capacità giuridica. B) Vi erano vari modi di acquisto della cittadinanza romana, che diedero luogo a un sistema molto articolato sia nella diacronia che nella sincronia, nel quale, come sempre, i romani mostrarono un esemplare equilibrio fra il piano dei principi e le ragioni di opportunità che si evidenziarono nei diversi periodi. Comunque, in riferimento all’esperienza giuridica romana, la problematica dell’acquisto della cittadinanza non è riconducibile alla contrapposizione, oggi molto accentuata nel dibattito politico per ragioni ideologiche, fra ius sanguinis (acquisto della cittadinanza per discendenza naturale) e ius soli (acquisto della cittadinanza per residenza in uno stato). Mentre il vincolo di sangue con una persona che godeva della cittadinanza romana era solo uno dei possibili fondamenti dell’acquisto della medesima, la residenza sul territorio romano faceva acquistare la cittadinanza soltanto ai Latini , con i quali non v’era una sostanziale diversità di cultura.

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Capitolo Terzo

Innanzi tutto, la cittadinanza romana si acquistava per nascita, essendo applicabile una norma considerata dai romani di ius gentium [sopra, capitolo secondo, § 16], secondo la quale il figlio nato da legittimo matrimonio acquistava la cittadinanza che il padre aveva al momento del concepimento, mentre il figlio che nasceva al di fuori di un legittimo matrimonio acquistava la cittadinanza che la madre aveva al momento della nascita [sul legittimo matrimonio, cfr. oltre, in questo capitolo, §§ 19-23]. Pertanto, se i genitori erano entrambi cittadini romani, il figlio nasceva cittadino romano sia se concepito in costanza di un legittimo matrimonio, sia in caso contrario. Inoltre, acquistavano la cittadinanza romana sia il figlio concepito da padre romano in costanza di legittimo matrimonio con una donna non romana, sia il figlio nato al di fuori di un legittimo matrimonio da madre romana e da padre non romano. La norma di ius gentium che regolava l’acquisto della cittadinanza per nascita venne derogata nel I secolo a.C. dalla lex Minicia , la quale, per limitare i casi di acquisto della cittadinanza romana per nascita in ipotesi di unioni miste, stabilì che i nati da unioni non integranti un legittimo matrimonio non acquistassero la cittadinanza romana né se il padre era romano e la madre straniera, né se il padre era straniero e la madre romana. Mentre la prima previsione confermava la norma di ius gentium, la seconda innovava rispetto a essa (Gai 1, 78).

La cittadinanza romana si acquistava anche a seguito delle manumissioni civili, dato che esse facevano acquistare al manumesso, oltre alla libertà, la stessa cittadinanza del manumissore, ma a seguito della lex Aelia Sentia del 4 d.C. la regola non si applicava nel caso di manumissione dello schiavo di età inferiore a trent’anni non autorizzata nelle forme previste dalla legge [sopra in questo capitolo, § 7, A e E]. A partire dal periodo repubblicano, particolari modalità riguardavano l’acquisto della cittadinanza romana da parte dei Latini . Per esempio, risalgono rispettivamente al periodo arcaico e all’inizio di quello preclassico il ius migrandi , limitato all’epoca repubblicana, e il ius honorum , esistente ancora nel principato [oltre, in questo capitolo, § 12 A e B]. Il primo comportava che un cittadino di una città latina poteva, trasferendosi stabilmente a Roma, rinunciare alla cittadinanza latina d’origine e acquistare quella romana. In base al secondo, i Latini che rivestivano una magistratura nella città di origine acquistavano, in aggiunta alla cittadinanza latina, quella romana e tale regime nel principato venne esteso ai Latini che facevano parte dei senati cittadini.

Inoltre, la cittadinanza romana si poteva acquistare per atto autoritativo e, in particolare, per legge, per atto del magistrato autorizzato per legge, per senatoconsulto, per costituzione imperiale. L’atto autoritativo poteva concedere la cittadi-

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nanza a singoli o a intere comunità o a tutti coloro che vivevano in un certo territorio oppure stabilire in astratto i presupposti dell’acquisto della cittadinanza. Estese concessioni della cittadinanza romana a intere comunità riguardarono, nella fase iniziale del I secolo a.C., i socii italici , in connessione con le vicende relative alla guerra sociale. Poi, nel 212 d.C. l’imperatore Caracalla, con la constitutio Antoniniana concesse a tutti i sudditi dell’impero la cittadinanza romana.

Per esempio, nel principato, vennero introdotti nuovi modi di acquisto della cittadinanza per agevolare la formazione di famiglie in cui sia i coniugi che la prole fossero cittadini romani in luogo di famiglie composte da persone di diversa cittadinanza. Secondo un senatoconsulto, qualora una persona di cittadinanza romana avesse sposato una persona straniera o latina ignorando che quest’ultima non aveva la cittadinanza romana o ignorando di avere la cittadinanza romana e dall’unione fosse nato un figlio, ove l’errore fosse stato provato, il coniuge non romano e il figlio avrebbero acquistato la cittadinanza romana (erroris causae probatio : Gai 1, 67-76).

Alcuni interventi normativi, poi, introdussero agevolazioni per l’acquisto della cittadinanza romana da parte dei Latini delle varie categorie [oltre, in questo capitolo, § 12], talora per finalità demografiche, vale a dire per accrescere il numero dei cittadini romani, e altre volte a scopo premiale. Tra i casi ricordati da Gaio (1, 28-34), va segnalato quello della anniculi causae probatio , riguardante i Latini Aeliani , ossia gli schiavi di età inferiore a trent’anni manumessi in violazione della lex Aelia Sentia del 4 d.C. [sopra, in questo capitolo, § 7, E]: forse per finalità demografiche, si stabilì che il Latinus Aelianus , ove avesse sposato una donna romana, Latina coloniaria o Latina Aeliana e gli fosse nato un figlio, quando questo avesse raggiunto l’anno di età, potesse ottenere con un particolare procedimento la cittadinanza romana per sé, per il figlio e per la moglie se questa non era già cittadina romana. Sempre Gaio ricordava alcuni casi, previsti da costituzioni imperiali e senatoconsulti, nei quali l’acquisto della cittadinanza romana da parte dei Latini aveva funzione premiale, essendo collegata alla prestazione del servizio per alcuni anni nei vigiles , alla costruzione di una nave di grande tonnellaggio con la quale fosse stato trasportato per alcuni anni frumento a Roma, all’edificazione di una casa con l’impiego di una elevata somma di denaro e all’esercizio di un mulino di una certa produttività nell’Urbe.

C) La perdita della cittadinanza romana si verificava, principalmente, quan-

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do il cittadino romano diveniva schiavo, in quanto la cittadinanza non poteva esistere senza la libertà [sopra, in questo capitolo, § 6, A e C]. Con una terminologia più tecnica, lo stesso concetto può essere espresso affermando che la capitis deminutio media , vale a dire l’uscita dell’individuo dall’insieme dei cittadini romani, avveniva soprattutto a seguito della capitis deminutio maxima , vale a dire dell’uscita dell’individuo dall’insieme delle persone libere [sopra, in questo capitolo, § 2, B].

Vi erano, però, anche casi in cui la persona perdeva la cittadinanza romana conservando la libertà. Per esempio, colui il quale, per evitare una condanna a morte, esercitava il diritto di andare in esilio (ius exulandi) in un’altra città legata a Roma da un trattato che prevedeva l’accoglimento degli esuli perdeva la cittadinanza romana a seguito di un consequenziale provvedimento del magistrato, denominato aqua et igni interdictio , che comportava anche la confisca dei beni e il divieto di rientrare nell’Urbe, ma conservava la libertà. A un certo punto, a partire dall’ultima fase del periodo repubblicano, l’esilio, con la conseguente aqua et igni interdictio, divenne una pena autonoma, prevista per gravi crimini, che faceva perdere la cittadinanza romana. Nel principato, anche la pena del domicilio coatto perpetuo in un’isola, ossia la deportatio in insulam , cui era equivalente la pena del domicilio coatto perpetuo in un’oasi del deserto, privava il condannato della cittadinanza romana, ma non della libertà. Lo stesso avveniva nel caso di condanna perpetua all’esecuzione coattiva di opere pubbliche, cioè di damnatio in opus publicum . Va segnalato, inoltre, che nel periodo repubblicano, non essendo ammesso, a eccezione che in un caso particolare, che un cittadino romano avesse due cittadinanze (c.d. doppia cittadinanza), la cittadinanza romana si perdeva per acquisto di un’altra cittadinanza. Un caso di perdita della cittadinanza romana per acquisto di altra cittadinanza è quello, esistente fin dal periodo preclassico, dei cittadini romani che venivano inviati per popolare le colonie latine fondate da Roma [sui Latini coloniarii , cfr. oltre, in questo capitolo, § 12, B]: essi, acquistando la cittadinanza latina, perdevano quella romana. Costituisce, invece, un’eccezione spiegabile con l’esigenza di controllo delle città latine avvertita dalle classi dirigenti romane nel periodo repubblicano l’ammissione del godimento della doppia cittadinanza (latina e romana) a favore dei Latini investiti di funzioni amministrative e di governo nelle loro comunità (ius honorum ) [sopra, in questo §, B; oltre, in questo capitolo, § 12, B].

D) Va segnalato che cittadini romani erano anche coloro che componevano la popolazione delle coloniae Romanae o coloniae civium Ro-

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manorum , nuove città fondate dai romani che, malgrado non dotate di autonomia sul piano politico, avevano proprie istituzioni amministrative, e dei municipia di diritto romano, città straniere preesistenti, ai cittadini delle quali Roma concedeva la cittadinanza romana, che si veniva così a sostituire a quella straniera. Per i municipia di diritto romano vi può essere stato un breve periodo in cui, sul versante del diritto privato, pur essendo applicabile il diritto romano, siano sopravvissuti, forse solo sul piano di fatto, gli ordinamenti preesistenti. Inoltre, nell’ambito dei municipia vi erano differenziazioni a seconda se i loro cittadini potessero o meno esercitare a Roma il diritto di voto e quello di candidarsi alle magistrature, distinguendosi fra municipia optimo iure e municipia imminuto iure .

E) Sia a Roma che fuori dall’Urbe, le autorità romane applicavano ai cittadini romani il diritto romano. Mentre nelle controversie fra cittadini romani si applicavano tutte le norme che componevano l’ordinamento romano, rientranti nel ius civile, nel ius honorarium, nel ius extraordinarium [sopra, capitolo secondo, § 18], e nelle province anche quelle specifiche norme che erano introdotte dalle autorità centrali e negli editti dei governatori provinciali per essere applicate nel territorio provinciale, nelle controversie fra un romano e uno straniero erano applicabili solo quelle norme dell’ordinamento romano che erano applicabili anche agli stranieri [oltre, in questo capitolo, § 11, A-C].

11. Peregrini A) Poiché i Latini , pur essendo stranieri rispetto ai cittadini romani, godevano di una condizione privilegiata rispetto agli altri stranieri, è opportuno esaminare prima la posizione degli stranieri non aventi cittadinanza latina. Ai primordi della storia di Roma, i peregrini (stranieri), contrapposti ai cittadini romani, erano verisimilmente del tutto privi di capacità giuridica, non applicandosi a essi quel nucleo primigenio di norme, soprattutto introdotte dai mores, che costituiva l’antico diritto quiritario, denominato ius Quiritium o ius civile, inteso nell’accezione più ristretta che descrive il complesso delle norme giuridiche applicabili solo ai cives Romani, il quale nella città più antica esauriva l’ordinamento (Quirites sono i cittadini romani) [sopra, capitolo secondo, § 16, F; § 18, A]. Ben presto si dovettero evidenziare rapporti fiduciari di ospitalità (hospitium , a seconda dei casi privato e pubblico) fra singoli stranieri o comunità straniere, da un lato, e singoli cittadini romani, casati nobiliari (gentes) o la città di Roma nel suo complesso, dall’altro, che attribuivano forme di protezione agli stranieri. Anche i trat-

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tati internazionali (foedera ), come per esempio quelli fra Roma e Cartagine (il più antico dei quali risale al 509 a.C.), potevano riconoscere particolari diritti e tutele agli stranieri.

L’incremento delle relazioni con altri popoli, però, fece sorgere l’esigenza di disciplinare in maniera più generale i rapporti personali e patrimoniali fra romani e stranieri. A tale periodo risalgono il conubium o ius conubii e il commercium o ius commercii , che potevano essere concessi a singoli stranieri o a intere comunità. Il conubium riguardava la sfera dei rapporti personali e consentiva alle persone di cittadinanza straniera che ne godevano di contrarre legittimo matrimonio con persone di cittadinanza romana, con la conseguenza che, pur rimanendo esse straniere, i figli nati dall’unione, secondo il principio generale, acquistavano la cittadinanza del padre al momento del concepimento e, quindi, se il padre era cittadino romano, la cittadinanza romana [sopra, in questo capitolo, § 10, B]. Il commercium, invece, riguardava i rapporti patrimoniali e, a differenza di quanto potrebbe suggerire la denominazione, non era una semplice autorizzazione a porre in essere transazioni commerciali nel territorio romano, della quale non vi era peraltro alcuna necessità, ma consentiva di compiere gli atti formali denominati gesta per aes et libram , altrimenti riservati ai cittadini romani, e soprattutto, tra questi, la mancipatio , che trasferiva la proprietà dei mezzi produttivi dell’economia arcaica (res mancipi [oltre, capitolo sesto, § 4, A; § 12, A]). È discusso se il commercium consentisse anche di agire in giudizio con le azioni di legge (legis actiones), che furono la più antica forma romana di processo [oltre, capitolo quinto, §§ 3-6], e di concludere il contratto verbale denominato sponsio , che si perfezionava con una domanda e una congrua risposta affermativa contenenti il verbo spondere , anch’esso altrimenti riservato ai cittadini romani [oltre, capitolo settimo, § 11]. Per quanto concerne gli effetti della mancipatio compiuta dallo straniero munito di commercium in qualità di acquirente, è da escludere che essa gli facesse acquistare la proprietà secondo il diritto civile (dominium ex iure Quiritium , cioè proprietà secondo il diritto dei cittadini romani, denominati Quirites ) come se acquirente fosse stato un cittadino romano, mentre è verisimile che facesse acquistare una proprietà diversa, ma di analogo contenuto e tutelata processualmente dalle autorità romane.

B) A parte quanto osservato in merito al conubium e al commercium, che potevano essere oggetto di concessione [sopra, in questo §, A], mentre sul versante del diritto pubblico gli stranieri rimasero sempre incapaci, sul versante del diritto privato, a partire dal periodo preclassico, venne loro riconosciuta una capacità giuridica limitata, ma di una certa ampiezza, sia in quanto nell’ambito dell’ordi-

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namento romano vennero individuate norme giuridiche applicabili agli stranieri, poi ricondotte dai giuristi al ius gentium in senso normativo [sopra, capitolo secondo, § 16, D], sia perché il ius honorarium non era in linea di principio limitato ai cittadini romani [sopra, capitolo secondo, § 18, A]. Si trattava di complessi di norme rientranti nel diritto romano e applicate dalle autorità romane (soprattutto dal pretore) nell’impostare il processo in presenza di controversie fra persone straniere o fra una persona straniera e una di cittadinanza romana. Si può dire, allora, che a Roma, nei periodi preclassico e classico, si applicavano solo norme romane anche se una o tutte le parti di un processo erano straniere (principio della territorialità del diritto). Dal punto di vista dell’amministrazione della giustizia riguardante i rapporti in cui almeno una delle parti era straniera, i romani impiegavano la terminologia iurisdictio peregrina , ma in realtà tale terminologia era riferita all’applicazione di norme di diritto romano (di ius honorarium e di ius gentium) da parte delle autorità romane. Pertanto, è da escludere che a Roma, nei periodi arcaico preclassico e classico, trovasse applicazione il diverso principio della personalità del diritto, secondo il quale ciascuna persona viene giudicata secondo le norme della comunità di appartenenza. Quest’ultimo principio, che aveva caratterizzato altre esperienze antiche, come quelle delle monarchie orientali ed ellenistiche, trovò poi applicazione nel periodo postclassico, almeno in alcuni dei regni romano-barbarici formatisi dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente (avvenuta nella seconda metà del V secolo d.C.), nei quali il diritto romano era applicato ai sudditi romani, i diritti barbarici ai barbari [sopra, capitolo secondo, § 13, E].

Non è noto se, per quanto riguarda i rapporti personali fra stranieri appartenenti alla medesima comunità, nell’editto del pretore vi fossero norme di rinvio agli ordinamenti delle comunità di appartenenza. A volere ammettere l’esistenza di norme di quest’ultimo tipo, sarebbe ulteriormente confermata la vigenza del principio della territorialità del diritto, in quanto i diritti delle comunità di appartenenza sarebbero stati applicati dal magistrato romano non perché direttamente applicabili, ma solo in quanto richiamati per rinvio in una norma di diritto romano.

C) Al di fuori della città di Roma, nel territorio italico, per lungo tratto del periodo repubblicano, i peregrini appartenevano a comunità autonome legate al populus Romanus da trattati (foedera, al singolare foedus) ed erano denominati socii italici . Si trattava di città-stato non inglobate nel territorio romano al momento della conquista, le quali conservavano i loro ordinamenti giuridici particolari anche dal punto di vista privatistico. I trattati potevano essere formalmente fra eguali (foedera aequa ) o con riconoscimento della supremazia del popolo romano (foedera iniqua

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), sebbene in sostanza Roma avesse sempre una posizione di preminenza. Tali realtà formalmente indipendenti si collocavano in un territorio italico organizzato, per così dire, a pelle di leopardo, in quanto, accanto ad esse, vi erano i territori annessi a seguito della conquista romana, organizzati in municipi di diritto romano, e le colonie romane e latine.

Nel I secolo a.C., però gli appartenenti alle comunità straniere ubicate nell’Italia peninsulare, a seguito della guerra sociale (bellum sociale: 89-87 a.C.), si videro concessa la cittadinanza romana. Nell’Italia insulare e nei territori extra-italici su cui Roma esercitava la sua sovranità, accorpati nelle province, vi erano due categorie di stranieri. In primo luogo, vi erano i peregrini alicuius civitatis (ma, poiché civitas significa anche cittadinanza, pure stranieri di una qualche cittadinanza), i quali erano cittadini di città-stato dotate di autonomia e avevano, pertanto, la corrispondente cittadinanza. Si trattava delle civitates peregrinae , la cui autonomia poteva essere formalmente garantita sul piano giuridico o solo tollerata da Roma su un piano fattuale. Le civitates peregrinae ubicate nelle province erano di tre tipi: foederatae , se legate a Roma da un trattato internazionale (foedus) che ne garantiva l’autonomia; sine foedere liberae et immunes , se la loro autonomia era garantita solo da un atto unilaterale di Roma; autonome di fatto, se la loro autonomia era tollerata da Roma solo sul piano di fatto.

Tutte queste città avevano ordinamenti particolari e propri tribunali, essendo, pertanto, le controversie fra i loro cittadini sottratte al diritto romano. Tuttavia, il governatore provinciale, che amministrava la giustizia nella provincia, mentre non poteva violare l’autonomia delle città straniere ove essa fosse stata formalmente riconosciuta da Roma in un trattato (città federate) o con un atto unilaterale (città libere e immuni), poteva ingerirsi negli affari interni di quelle città la cui autonomia non era garantita formalmente sul piano giuridico, ma solo tollerata (città autonome di fatto), con il solo limite, talora stringente, dell’opportunità al livello della politica internazionale. Vi erano, poi, i peregrini nullius civitatis (e, dunque, di nessuna cittadinanza), anche chiamati dediticii , in quanto appartenenti a comunità che si erano arrese senza condizioni ai romani. I peregrini appartenenti a tale categoria, sebbene fossero liberi, erano in condizione di sudditi, direttamente sottomessi a Roma, e perciò non erano organizzati nella forma della città-stato e non avevano propri ordinamenti, essendo privi sia della cittadinanza romana, sia di una cittadinanza diversa. Le autorità romane (principalmente il governatore provinciale, titolare dei poteri giurisdizionali, ma, nelle province imperiali in cui erano nominati, anche gli iuridici , funzionari investiti della giurisdizione) applicavano ai peregrini nullius civitatis il diritto lo-

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cale preesistente alla conquista romana, con le integrazioni decise dal governo centrale romano e dal governatore, che vi provvedeva nel proprio editto (edictum provinciale ). Dal punto di vista giuridico, tale scelta fondava sulla discrezionalità che caratterizzava l’imperium del governatore, poiché in teoria nulla avrebbe impedito l’applicazione di quella parte dell’ordinamento romano che poteva essere applicata agli stranieri, costituita dal ius gentium in senso normativo e dal ius honorarium [sopra, capitolo secondo, § 16, D, e § 18, A-D]. Pertanto, in definitiva, nelle province, sia i tribunali locali delle civitates peregrinae che le autorità romane nei territori direttamente amministrati applicavano nelle cause fra stranieri i diritti locali (iura peregrinorum ). Tuttavia, i peregrini alicuius civitatis , pur avendo una propria cittadinanza, adivano con una certa frequenza le autorità romane, chiedendo di essere giudicati secondo quella parte dell’ordinamento romano che era loro applicabile, costituito dal ius gentium in senso normativo e dal ius honorarium , comprensivo delle norme emanate dal governatore per la provincia, sempre salve le norme stabilite per la provincia dalle autorità centrali. Anche i peregrini nullius civitatis , che non avevano cittadinanza, potevano chiedere che le autorità romane, anziché applicare i diritti locali, li giudicassero secondo tale parte dell’ordinamento romano. Non è chiaro se, affinché la controversia fra peregrini fosse decisa secondo le norme romane, fosse sufficiente la volontà di una delle parti o fosse necessario il consenso di entrambe.

Sempre nelle province, nelle cause fra un cittadino romano e uno straniero alicuius o nullius civitatis (ossia appartenente o meno a una qualche città-stato) erano applicabili il ius gentium in senso normativo e il ius honorarium, in cui rientravano anche le norme emanate dal governatore per la provincia, a parte le norme stabilite dalle autorità centrali per la provincia. In alternativa, però, il cittadino romano che era in lite con uno straniero appartenente a una città-stato poteva scegliere di sottoporsi alla giurisdizione dei tribunali locali, i quali applicavano solo il diritto straniero.

D) Nel principato era ammesso che una persona avesse contemporaneamente sia la cittadinanza romana che una cittadinanza straniera (c.d. doppia cittadinanza). A partire dall’epoca di Augusto, infatti, era invalso l’uso di concedere la cittadinanza romana ai peregrini alicuius civitatis che, rivestendo nelle loro città cariche pubbliche, facevano parte delle classi di governo. Poiché lo scopo di tali concessioni era quello di vincolare gli appartenenti a tali classi alla dinastia del princeps e, in generale, all’impero, per poterne più agevolmente controllare l’operato politico, ed essendo ciò possibile nella misura in cui tali persone, godendo nel contempo della cittadi-

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nanza straniera di origine, continuassero a rivestire tali cariche, la concessione onorifica della cittadinanza romana non faceva venire meno la cittadinanza straniera. Tale condizione incideva sul diritto applicabile in vario modo. A parte l’influenza della doppia cittadinanza per l’individuazione dell’autorità dotata di giurisdizione e per quella del diritto applicabile, si potevano evidenziare delle situazioni limite, connesse alla sostanziale superiorità dell’impero romano rispetto alle città di cui pur riconosceva l’autonomia: per esempio, la condanna pronunziata dal tribunale di una civitas peregrina secondo le norme del suo ordinamento poteva essere appellata da chi godeva della doppia cittadinanza davanti al tribunale imperiale, dove la decisione non poteva che essere presa sulla base dello stesso ordinamento straniero in base al quale aveva pronunziato la sentenza impugnata il tribunale della città straniera.

E) Meritano una menzione a parte gli ‘apólides’ , i quali, come i peregrini nullius civitatis [sopra, in questo §, C], non avevano una cittadinanza, ma erano trattati in modo diverso rispetto a questi ultimi dal punto di vista giuridico. A tale categoria di persone appartenevano i dediticii Aeliani , schiavi manumessi che, essendosi macchiati di condotte turpi o gravi crimini durante la schiavitù, avevano perciò subito sanzioni private o pene infamanti. Come si è visto, secondo quanto disponeva la lex Aelia Sentia del 4 d.C., questi stranieri subivano speciali limitazioni [sopra, in questo capitolo, § 7, E], di modo che la loro condizione era deteriore rispetto a quella degli altri dediticii, ossia dei peregrini nullius civitatis. Tale condizione venne eliminata da Giustiniano (Iust. 7, 5, 1, del 530 d.C.).

Erano apolidi anche le persone private della cittadinanza romana a seguito di gravi crimini, come quelli sanzionati a partire dalla fase finale della repubblica con l’aqua et igni interdictio come pena autonoma (Ulpiano in D. 32, 1, 2) e, nel principato, con la deportatio in insulam e con la damnatio in opus publicum , se perpetua [sopra, in questo capitolo, § 10, C]. Non essendovi, a differenza che per i peregrini nullius civitatis, alcun ordinamento preesistente alla conquista romana cui attingere le norme giuridiche da applicare agli apolidi, le uniche norme giuridiche loro applicabili erano quelle del ius gentium in senso normativo (Marciano in D. 48, 19, 17, 1) e verisimilmente anche quelle del ius honorarium, ossia, nel complesso, le norme appartenenti a quella parte dell’ordinamento romano che si applicava anche agli stranieri.

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12. Latini A) Tra le persone che non godevano della cittadinanza romana, ai Latini erano riservate condizioni particolari, differenziate a seconda dei casi, ma, in generale, più favorevoli di quelle degli altri stranieri, in quanto vi era, con i Romani una maggiore vicinanza culturale. La civitas Latina comprendeva varie declinazioni, cui corrispondevano, in ultima analisi, condizioni personali in parte diverse. Innanzi tutto, v’erano i Latini prisci , vale a dire i cittadini delle città latine esistenti in epoca arcaica, alleate con Roma nella lega latina (con varie vicende, dal foedus Cassianum del 493 a.C. al 338 a.C.), ognuna delle quali aveva un proprio ordinamento particolare, sebbene vi fossero verisimilmente alcune regole giuridiche comuni. Un esempio di originaria comunanza giuridica, poi venuta meno nel periodo preclassico, è la disciplina del fidanzamento, denominato sponsalia , ricordato anche in riferimento al Latini dall’erudito del II secolo d.C. Aulo Gellio, che attingeva al giurista del I secolo a.C. Servio Sulpicio Rufo (Gell. Noct. Att. 4, 4, 1-3) [oltre, in questo capitolo, § 20, A].

I Latini prisci avevano il conubium e il commercium con i cittadini romani, potendo avvalersi dei gesta per aes et libram [sopra, in questo capitolo § 11, A]. Inoltre, avevano il ius migrandi , cioè il diritto di stabilirsi a Roma acquistando la cittadinanza romana. B) V’erano, poi, i Latini coloniarii , che abitavano le colonie latine fondate da Roma per controllare il territorio, dette coloniae latinae o coloniae civium Latinorum . Nel periodo arcaico, la lega latina, di cui Roma faceva parte e sulla quale da un certo momento in poi esercitò la sua egemonia, fondava nuove città. Anche dopo lo scioglimento della lega latina (338 a.C.), Roma continuò a fondare nuove città latine (appunto le coloniae latine o civium Latinorum), sul territorio delle quali erano insediati cittadini romani e, in minor numero, stranieri che, però, stabilendosi nella colonia, perdevano le loro cittadinanze d’origine (romana e straniere) e acquistavano la cittadinanza latina: tali persone, in contrapposizione ai Latini prisci, erano definite Latini coloniarii.

I Latini coloniarii godevano del commercium [sopra, in questo capitolo, § 11, A], del ius migrandi [sopra, in questo §, A] e solo in qualche caso del conubium [sopra, in questo capitolo, § 11, A]. Verso la fine del IV secolo a.C., venne loro concesso il ius suffragii , che era il diritto di votare nelle assemblee romane (comitia ), attribuito ai Latini coloniarii che si trovavano a Roma nel giorno delle votazioni. In seguito, si aggiunse il ius honorum , che comportava l’acquisto della cittadinanza romana per quei Latini coloniarii che, nella colonia di appartenenza, rivestivano magistrature o (nel principato) facevano parte delle curiae , cioè delle assemblee ristrette che erano espressione delle classi dominanti. Il ius honorum, legando le classi dominanti delle colonie latine a Roma, era in realtà uno strumento di controllo dell’amministrazione locale. Le coloniae latine sul suolo italico vennero meno con la concessione della cittadinanza romana ai socii Italici alla fine della guerra sociale, nell’89 a.C., ma vi furono anche colonie latine fondate nelle province.

C) In progresso di tempo la cittadinanza latina venne attribuita anche agli abitanti di città straniere preesistenti che Roma aveva trasformato in municipia latina . Tale condizione venne anche imposta fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., a interi territori, come la Sicilia, la Gallia Narbonese e la Spagna. Gli abitanti dei municipia latina e dei territori a essi equiparati avevano una condizione analoga a quella dei Latini coloniarii. D) A seguito della lex Iunia Norbana del 19 d.C. [sopra, in questo capitolo, § 7, B], una particolare cittadinanza latina fu concessa agli schiavi manumessi in forme diverse da quelle civili: si parla, a questo proposito, di Latini Iuniani (Gai 1, 22-24). Essi avevano una condizione simile a quella dei Latini coloniarii , ma non avevano mai il conubium con persone di cittadinanza romana e non potevano fare testamento né avere eredi legittimi: dopo la loro morte, i beni di cui erano stati titolari in vita tornavano al patrono non per successione a causa di morte, ma come se si trattasse di un peculium , ossia, come scriveva Gaio, iure quodammodo peculii (Gai 3, 56). Il fatto che il patrono acquistasse iure peculii il patrimonio del Latinus Iunianus premortogli, espresso con efficacia affermando che egli viveva come libero e moriva come schiavo (I. 3, 7, 4), comportava che il primo rispondesse dei debiti contratti dal secondo in vita solo nei limiti dell’attivo, mentre, ove si fosse trattato di un erede, avrebbe risposto per i debiti oltre l’attivo, cioè anche con i propri beni, ultra vires .

Inoltre, i Latini Iuniani non potevano acquistare eredità (l’intero patrimonio di

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un defunto o una quota di esso) o legati (cespiti particolari) in forza di un testamento, né essere nominati tutori testamentari degli impuberi. L’unica disposizione a causa di morte che poteva essere efficacemente disposta a favore dei Latini Iuniani era il fideicommissum (Gai 1, 24; 2, 275) [oltre, capitolo ottavo, § 12].

I discendenti dei Latini Iuniani acquistavano, però, la normale cittadinanza latina, senza le incapacità che colpivano i loro padri. Ai Latini Iuniani erano equiparati i c.d. Latini Aeliani [sopra, in questo capitolo, § 7, E] e altre categorie di persone. Le norme alle quali si collegava la cittadinanza latina degli schiavi manomessi in forme diverse da quelle del diritto civile e in violazione delle previsioni della legge (latina libertas ) furono abrogate da Giustiniano (C. 7, 6, 1, del 531 d.C.). E) Il problema del diritto applicabile ai Latini presenta risvolti articolati, data l’eterogeneità delle loro situazioni. Ai Latini prisci i tribunali delle loro città applicavano i relativi ordinamenti, mentre le autorità romane, nelle controversie che coinvolgevano un Latino, verisimilmente applicavano le norme di diritto romano applicabili agli stranieri (ius gentium in senso normativo e ius honorarium [sopra, capitolo secondo, § 16, C, e § 18, A-D), dovendosi tenere conto, inoltre, del fatto che essi godevano del conubium e del commercium , che comportava, oltre all’utilizzabilità dei gesta per aes et libram , anche la tutela processuale per mezzo delle legis actiones [sopra, in questo capitolo, § 11, A; in questo §, A]. Non vi sono testimonianze relative al diritto applicabile ai Latini coloniarii , né sembra che i singoli statuti delle colonie latine contenessero un rinvio generale all’ordinamento particolare di una città latina preesistente, come pur sarebbe stato in astratto possibile. Tuttavia, si tende non a torto a credere che si seguisse, in tal caso, la stessa soluzione che nel principato sarebbe stata adottata per i Latini dei municipia latina della Spagna, ai quali, come si evince da una fonte epigrafica, se non vi erano previsioni particolari negli statuti municipali, era applicabile il diritto romano. Lo si ricava da una clausola dello statuto del municipio di Irni (lex Irnitana , dell’epoca di Domiziano, ritrovata nel 1981 presso Siviglia), contenuta nel caput 93, che verisimilmente riproduceva una omologa previsione contenuta in uno statuto generale applicabile a tutti i municipi latini della Spagna, denominato in dottrina lex Flavia municipalis. Secondo tale disposizione, per gli aspetti non espressamente regolati dallo statuto municipale, si applicava il diritto romano. Tale soluzione verisimilmente era quella già adottata nel periodo repubblicano per i mu-

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nicipia latina e per i Latini coloniarii. Non può essere escluso, però, che i più antichi municipia latina, per un breve periodo di transizione all’indomani della trasformazione in tale forma istituzionale delle città preesistenti, abbiano continuato a utilizzare le norme locali previgenti, forse solo in via di fatto, a prescindere da un fondamento giuridico.

Ai Latini Iuniani e a quelli Aeliani , la cui cittadinanza non era quella di una città latina ma una creazione artificiale della legge, si applicava probabilmente il diritto romano, pur con tutte le incapacità segnalate [sopra, in questo §, D].

13. La constitutio Antoniniana A) Nel 212 d.C. l’imperatore Caracalla, con un editto, la constitutio Antoniniana , concesse la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero (che ancora non l’avessero), facendo eccezione solo per alcune categorie di persone. Poiché il testo in lingua greca della constitutio Antoniniana, detta così in quanto il nome ufficiale dell’imperatore era Marcus Aurelius Severus Antoninus , ci è noto solo in parte attraverso il papiro Giessen 40, col. I, pervenutoci mutilo e non del tutto leggibile, il quadro deve essere integrato con le notizie che si desumono dalla Compilazione giustinianea e con quelle, di difficile valutazione, ricavabili dalle fonti letterarie, epigrafiche e papirologiche.

Per quanto concerne l’estensione soggettiva del provvedimento, erano di certo esclusi dalla concessione della cittadinanza romana gli appartenenti a quelle speciali categorie di peregrini e Latini introdotte dalle leggi sulle manumissioni risalenti ai primi due decenni del I secolo d.C. In particolare, erano esclusi dalla concessione della cittadinanza i Latini Iuniani ed Aeliani e i dediticii Aeliani . Queste condizioni artificiali, di origine legislativa, infatti, vennero formalmente eliminate soltanto tra il 530 e il 531 d.C. da Giustiniano [sopra, in questo capitolo, § 11, E; § 12, D]. Anche le altre categorie di persone che, come i dediticii Aeliani, erano private della cittadinanza a scopo sanzionatorio erano escluse dalla concessione, che avrebbe vanificato la sanzione [sopra, in questo capitolo, § 11, E].

Inoltre, è stato sostenuto in dottrina che dalla concessione della cittadinanza romana fossero esclusi i peregrini nullius civitatis , anche denominati dediticii [sopra, in questo capitolo, § 11, C]. Tuttavia, poiché tale opinione si basa su una interpretazione poco verisimile del testo della costituzione, nella quale non avrebbe avuto senso proclamare

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in generale la concessione della cittadinanza romana a tutti gli stranieri, per poi escluderne una parte considerevole, è probabile che la cittadinanza romana sia stata concessa non solo ai peregrini alicuius civitatis , ma anche a quelli nullius civitatis . Sebbene la constitutio Antoniniana eccettuasse i dediticii da qualche cosa, con ogni probabilità tale eccezione non si riferiva alla concessione della cittadinanza, ma a una clausola molto lacunosa che, ferma l’attribuzione della cittadinanza a tutti gli stranieri, manteneva uno stato di cose preesistente (forse la struttura amministrativa delle cittàstato, ormai divenute però città romane: magistrature, senati cittadini). Del resto, l’eventualità che l’esenzione riguardasse la concessione della cittadinanza romana è smentita dall’estensione del sistema onomastico romano, comprensivo del prenome (praenomen), del nome gentilizio (nomen) e del cognome (cognomen) [oltre, in questo capitolo, § 24, D], alla popolazione del territorio dell’Egitto non appartenente a città-stato, nella cui documentazione papirologica è attestato frequentemente il nome gentilizio Aurelius , lo stesso dell’imperatore Caracalla che aveva concesso la cittadinanza.

B) È discusso in dottrina quale fosse il diritto applicabile ai nuovi cittadini (novi cives), cioè a coloro ai quali la cittadinanza romana era stata concessa dalla constitutio Antoniniana. Per impostare correttamente il problema, va messo in luce, da una parte, che la costituzione non disponeva nulla a tale proposito e, dall’altra, che, in linea teorica, la concessione della cittadinanza romana avrebbe dovuto comportare la vigenza del diritto romano. Qualora, al contrario, si fosse voluta conservare la vigenza dei diritti locali, una tale anomalia rispetto all’equazione fra cittadinanza e applicazione del relativo diritto avrebbe dovuto essere espressamente prevista. Una tale riserva, però, non è documentata sul versante del diritto privato nel testo della costituzione né in altre fonti. Invece, accettando la più verisimile ricostruzione del testo della costituzione, la conservazione dei preesistenti ordinamenti è documentata sul versante delle strutture delle città-stato dotate di autonomia, nelle quali erano vissuti fino ad allora i peregrini alicuius civitatis , cioè in un ambito che si collocava al di fuori del diritto privato, attenendo al diritto pubblico.

Tuttavia, è innegabile che, dopo l’emanazione della constitutio Antoniniana, si possano cogliere alcune tracce della sopravvivenza di concezioni giuridiche preesistenti al livello periferico, ossia nelle province. I documenti, soprattutto papirologici, pervenutici provano il protrarsi di costumi di derivazione ellenistica ed egizia nella prassi negoziale. Inoltre, da numerosi rescritti della cancelleria imperiale successivi alla concessione della cittadinanza romana si ricava che, nelle istanze dei provinciali dirette a ottenere dall’imperatore l’enunciazione del principio di diritto, era contemplata l’eventualità della vigenza di norme giuridiche diverse da quelle romane, delle quali il postulante spesso richiedeva l’applicazione.

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Va, però, tenuto presente che, a livello centrale, tali tendenze vennero osteggiate: ancora nel periodo epiclassico, fino agli inizi del IV secolo d.C., la cancelleria imperiale, con frequenza soprattutto durante l’impero di Diocleziano, si oppose strenuamente e senza eccezioni all’applicazione delle norme giuridiche locali in materie nelle quali vigevano principi di diritto romano indisponibili, cioè inderogabili dai privati [sopra, capitolo secondo, § 19, C]. Per esempio, nei rescritti di Diocleziano, sono documentati il divieto della bigamia, diffusa in alcune zone orientali dell’impero (C. 5, 5, 2, del 285 d.C.), l’estraneità al diritto romano del ripudio formale del figlio (abdicatio , in greco ‘apokéryxis’), praticato secondo il costume greco (C. 8, 46, 6, del 288 d.C.), l’intrasferibilità dei figli a titolo di vendita, donazione, costituzione di garanzia del credito o ad altro titolo, ammessa nei diritti ellenistici (C. 4, 43, 1, del 294 d.C.), il costante il rifiuto di ammettere la validità del matrimonio adelfico, fra fratello e sorella, diffuso in Egitto, e dei matrimoni fra stretti consanguinei, ammessi in ambito ellenistico (C. 5, 4, 17, riportata per esteso in Coll. leg. mos. et rom. 6, 4, del 295 d.C.).

Pertanto, sembra corretta la valutazione di Ludwig Mitteis, secondo la quale, a seguito della concessione della cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero, il diritto romano era divenuto l’unico diritto applicabile, essendo riscontrabile solo una sopravvivenza di fatto degli antichi costumi locali, avversata dal potere centrale quando essi contrastassero con principi inderogabili. Quanto alle cause di tale ultrattività delle norme locali in ambiti periferici sul piano fattuale, può darsi che abbiano rilevato, da un lato, l’ignoranza dei privati e la disinformazione degli operatori del diritto, dei giudici e degli amministratori e, dall’altro, ragioni di opportunità, particolarmente avvertite a livello locale, connesse all’esigenza di non esasperare i rapporti fra i nuovi cittadini e il governo centrale, non avendo la constitutio Antoniniana previsto espressamente quale fosse il diritto applicabile. In una direzione diversa, è stato richiamato in dottrina il ruolo della consuetudo tardo classica, ossia dei mores regionali, che avrebbe avuto la stessa efficacia della lex , essendo espressione della voluntas populi , veicolando nell’ordinamento generale i costumi locali preesistenti [sopra, capitolo secondo, § 11]. Tuttavia, la consuetudine può solo avere giustificato l’applicazione a livello locale di quelle norme straniere preesistenti che derogavano norme giuridiche romane disponibili, cioè derogabili dai privati, non l’applicazione di norme in contrasto con le norme indisponibili, inderogabili del diritto romano, come quelle cui si opponeva la cancelleria dioclezianea [sopra, capitolo secondo, § 19, C]. Inoltre, è da escludere che l’applicazione a livello locale dei diritti preesistenti si possa spiegare con il fenomeno della doppia cittadinanza [sopra, in questo capitolo, § 11, D]. Da un lato, tale giustificazione non potrebbe valere per coloro che erano in precedenza peregrini nullius civitatis , i quali, per definizione,

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erano privi di una cittadinanza che si potesse in astratto cumulare con quella romana. Dall’altro, in riferimento a coloro che erano in precedenza peregrini alicuius civitatis , dopo la concessione della cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero non esistevano più cittadinanze diverse da quella romana che potessero coesistere con quest’ultima in capo a un medesimo soggetto.

A conferma della generalizzata vigenza del diritto romano, è stato messo in luce che un retore greco della fine del III secolo d.C., Menandro di Laodicea, a meno di un secolo dalla constitutio Antoniniana, affermava che, alla sua epoca, le uniche leggi esistenti nell’impero erano quelle romane, affermazione da intendere nel senso che l’unico diritto applicabile era ormai quello romano. Inoltre, nella prassi negoziale, ossia sul versante degli atti fra privati, la documentazione evidenzia che spesso i nuovi cittadini, pur regolando i loro interessi in modo conforme nella sostanza alle costumanze locali preesistenti, tentavano di dare alle loro manifestazioni di volontà una veste formale che ritenevano compatibile con il diritto romano, allo scopo di evitare l’invalidità degli atti posti in essere. A questo proposito, viene in considerazione la frequenza dell’uso della clausola stipulatoria: in molti documenti privati in cui erano versati atti che regolavano gli interessi individuali conformemente ai diritti locali era fatta menzione della conclusione fra le parti di un contratto verbale di stipulatio , tipicamente romano, che si perfezionava con una domanda rivolta da chi intendeva diventare creditore e una congrua risposta affermativa di chi accettava di diventare debitore. Si può osservare che tale clausola, formulata con le parole ‘kai eperōtetheís homológ(h)ēsa’, equivalente in greco di et interrogatus spopondi , o, in caso di reciprocità delle promesse, al plurale ‘kai eperōtēthéntes allélois homolog(h)ésamen’, equivalente di et interrogati ultro citroque spopondimus , ricorreva anche in contesti nei quali non si potevano verificare gli effetti obbligatori riconducibili a tale contratto, per esempio nei testamenti e nelle manumissioni. Attraverso la menzione della stipulatio si voleva assicurare l’efficacia dell’atto sul piano dell’ordinamento, essendo perciò presupposto che pure fra i privati (si può efficacemente dire fra gli uomini della strada) fosse diffusa la consapevolezza del fatto che ormai le uniche norme vigenti erano quelle romane.

C) Neppure nel periodo postclassico e in epoca giustinianea risulta essere stato revocato in dubbio che l’unico diritto applicabile nell’impero era quello romano. Una novità fu rappresentata dal fatto che, a partire da Costantino (prima metà del IV secolo d.C.), alcune concezioni locali, soprattutto ellenistiche e orientali, vennero recepite nelle costituzioni imperiali, divenendo perciò parte integrante dell’ordinamento romano, applicabile a tutti i sudditi. Maggiori difficoltà si potevano presentare nel caso di nuove conquiste territoriali, in quanto ragioni di opportunità nelle relazioni con i popoli sottomessi potevano suggeri-

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re al potere imperiale di tollerare la sopravvivenza delle norme preesistenti per periodi più o meno lunghi, nel mentre le esigenze di assimilazione potevano, al contrario, rendere preferibile la soluzione di imporre l’osservanza del diritto romano: per l’epoca giustinianea ne è prova una novella relativa all’Armenia, che, a lungo contesa fra l’impero e le potenze confinanti, aveva osservato le proprie leggi e i propri costumi fino a quando Giustiniano impose l’osservanza del diritto romano (Nov. 21, del 536 d.C.).

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Sezione quarta

Status familiae 14. Posizione della persona nella famiglia e capacità giuridica A) Per godere della piena capacità giuridica, e cioè della completa idoneità a essere titolare di diritti e di doveri, non era sufficiente che la persona fosse libera, cittadina romana e non sottoposta al mancipium , cioè al potere acquistato sulle persone alienate dal loro paterfamilias con la mancipatio [sopra, in questo capitolo, § 9, B]. L’esistenza e, in seguito, l’estensione della capacità giuridica sul versante del diritto privato dipendevano anche dallo status familiae . Solo il paterfamilias e la donna non sottoposta alla patria potestas o alla manus , potere dell’uomo sulla propria moglie (ed eccezionalmente su altre donne libere) [oltre, in questo capitolo, § 19, A], erano personae sui iuris , dotate di piena capacità giuridica, mentre tutte le altre persone, essendo sottoposte alla patria potestas o alla manus, erano personae alieni iuris o alieno iuri subiectae , la cui capacità giuridica era, a seconda dei periodi e dei casi, assente o limitata. Dal punto di vista storico, i presupposti di tale distinzione vanno ricercati nella struttura che già nel periodo arcaico aveva la famiglia ristretta basata sul legittimo matrimonio, denominata familia proprio iure , ossia in senso proprio, in senso stretto dal punto di vista giuridico, la quale costituiva il nucleo giuridico ed economico in una società pastorale e agricola come quella romana delle origini [oltre, in questo capitolo, § 24, B]. Essa era dominata dalla figura del paterfamilias, sotto la cui patria potestas si trovavano i filiifamilias , le filiaefamilias , gli ulteriori discendenti, la moglie in manu , cioè sottoposta al potere maritale, equiparata alla figlia, le mogli in manu dei discendenti, equiparate a nipoti e pronipoti, che si consideravano sotto la patria potestas del padre o dell’ulteriore ascendente in vita del marito (nonno paterno, bisnonno paterno e così via). Va segnalato che, poiché a partire dal periodo preclassico la manus si poteva eccezionalmente costituire per brevi periodi e per finalità particolari su donne diverse dalla

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moglie del paterfamilias e dalle mogli dei suoi discendenti [oltre, in questo capitolo, § 29, D], si deve ritenere che anche queste rientrassero nella familia proprio iure per tali brevi periodi. L’incidenza di questo fenomeno doveva essere però limitata.

Tuttavia, sebbene quello della famiglia pluripersonale fosse il caso normale, la condizione di paterfamilias, che comportava la piena capacità giuridica, prescindeva dall’esistenza di discendenti su cui esercitare la patria potestas, di un legittimo matrimonio e perfino dalla capacità generativa, ricollegandosi unicamente al presupposto negativo dell’indipendenza dall’altrui patria potestas, tanto che anche un neonato, se non ricadente sotto l’altrui patria potestas, era un paterfamilias (Ulpiano in D. 50, 16, 195, 2) e aveva la piena capacità giuridica. Inoltre, pure la donna, malgrado non potesse essere titolare della patria potestas, ove non sottoposta alla patria potestas dell’ascendente o alla manus del marito, costituiva, da sola, una familia proprio iure unipersonale ed era dotata di capacità giuridica. B) In definitiva, da quanto osservato in merito alla struttura della familia proprio iure discende che erano personae sui iuris , dotate di piena capacità giuridica sul versante del diritto privato: a) il paterfamilias , ossia l’individuo maschio che, libero, cittadino romano e non sottoposto al mancipium , non fosse sotto la patria potestas del padre o dell’ascendente (naturali o adottivi); b) la donna che, libera, cittadina romana e non sottoposta al mancipium , non fosse sottoposta alla patria potestas del paterfamilias della famiglia d’origine o di quello della famiglia del marito alieni iuris che avesse su di lei la manus , né alla manus del marito sui iuris o in casi specifici di altra persona. Rientravano, invece, fra le personae alieni iuris , allo stesso modo degli schiavi [sopra, in questo capitolo, §§ 3-7] e delle personae in mancipio [sopra, in questo capitolo, § 9, B], essendo in origine del tutto privi di capacità giuridica sul versante del diritto privato e poi dotati di una capacità giuridica limitata: a) gli uomini e le donne che si trovavano sotto la patria potestas del proprio padre o dell’ascendente paterno, per nascita o per adozione (figli, figlie, nipoti, pronipoti in potestà); b) le donne che si trovavano nella manus del proprio marito alieni iuris e, perciò, nella potestas del paterfamilias del marito, in quanto equiparate a nipoti del padre del marito e pronipoti del nonno del marito; c) le donne che si trovavano nella manus del proprio marito sui iuris o eccezionalmente di altra persona ed erano equiparate alle figlie del paterfamilias. Sul versante delle personae alieni iuris, si deve anticipare che i filiifamilias già dalla fase conclusiva del periodo preclassico cominciarono a

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godere di una limitata capacità giuridica, che gradualmente si venne ad ampliare nei periodi classico e postclassico [oltre, in questo capitolo, § 16, C e D].

15. La patria potestas : contenuto, limiti, funzioni, difesa processuale A) Il paterfamilias era titolare della patria potestas , potere assoluto nei confronti dei filiifamilias , delle filiaefamilias e degli ulteriori discendenti, cui erano equiparate le mogli in manu dei figli. Tale potere giungeva a comprendere il diritto di ucciderli, denominato ius vitae ac necis (lo stesso che gli spettava sugli schiavi), e il diritto di venderli, denominato ius vendendi , esercitato con la mancipatio , gestum per aes et libram , che li poneva presso l’acquirente nella condizione di personae in mancipio , cioè di persone soggette al potere assoluto denominato mancipium , per certi versi simile alla proprietà sugli schiavi [sopra, in questo capitolo, § 9, B]. Nel periodo postclassico, come si è visto, i figli neonati venduti (non più con la mancipatio) cadevano in schiavitù, ma tale condizione era redimibile dal padre [sopra, in questo capitolo, § 6, D].

Al paterfamilias spettava anche il ius exponendi , cioè il diritto di abbandonare i propri figli neonati. Non è noto il termine entro il quale il ius exponendi poteva essere esercitato e sono discussi i suoi effetti: può darsi che in origine l’esercizio di esso escludesse l’acquisto della patria potestas, mentre nel periodo classico questa non veniva meno. Nel periodo postclassico l’imperatore Costantino ricollegò all’abbandono la perdita della patria potestas (CTh. 5, 9, 1, del 331 d.C.).

B) In un primo momento vi furono ben pochi limiti alla patria potestas sul piano giuridico. Tra questi vanno ricordati il divieto di natura sacrale, stabilito da una lex regia , di uccidere il figlio prima che raggiungesse i tre anni di età, che non valeva se questo presentasse deformità, nel qual caso poteva essere ucciso appena dopo il parto. Inoltre, sembrerebbe che, sempre nel periodo monarchico, non potessero essere esposti i neonati maschi né la prima tra le femmine, con l’eccezione dei figli affetti da deformità fatte constatare ai vicini. La violazione di tali divieti era sanzionata sul versante del diritto criminale. È dubbio che le XII tavole richiedessero in generale una iusta causa affinché il padre potesse legittimamente uccidere il figlio, come

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farebbe pensare un passo in parte lacunoso della Parafrasi di Autun delle Istituzioni gaiane (Frag. Aug. 4, 86). Una norma della legge decemvirale, invece, ricollegava alla terza vendita del figlio la perdita della patria potestas (tab. 4, 2b), mentre secondo l’interpretazione dei pontefici per la figlia e gli ulteriori discendenti questa si perdeva a seguito di una sola vendita (Gai 1, 132) [sopra, in questo capitolo, § 9, B].

Nel periodo repubblicano, i censori esercitavano il controllo sull’esercizio della patria potestas, potendo emanare la nota censoria ai danni del paterfamilias che ne abusasse: in particolare essa poteva colpire chi infliggeva la morte al proprio figlio senza avere prima convocato un organo formato da stretti congiunti, amici e vicini, denominato tribunal domesticum , dal quale il padre doveva farsi consigliare ove intendesse esercitare il ius vitae ac necis. La nota censoria operava come sanzione indiretta di natura non privatistica, incidendo sulla posizione del cittadino negli organi assembleari e sulla possibilità di fare parte del senato [sopra, capitolo secondo, § 2, B].

Nel principato, in connessione con l’emergere di una diversa sensibilità, connotata da un maggiore senso di umanità (humanitas), gli abusi più gravi, tra cui l’uccisione ingiustificata del figlio e l’esposizione degli infanti, furono repressi dall’imperatore nel processo criminale (cognitio extra ordinem criminale). Nel periodo postclassico, con l’imperatore Costantino, l’uccisione del figlio venne ricondotta al crimine di omicidio aggravato dalla relazione di parentela fra uccisore e ucciso (CTh. 9, 15, 1, del 318 d.C.). Nel prosieguo del tardo antico fu sanzionata con la pena capitale l’uccisione dei neonati e pene criminali furono previste per l’esposizione della prole (rispettivamente, CTh. 9, 14, 1 e C. 8, 51, 2, del 374 d.C.). C) L’ampiezza dei poteri spettanti al paterfamilias sugli altri componenti della familia proprio iure ha indotto a indagare, in riferimento al periodo arcaico, i rapporti fra patria potestas e diritto di proprietà sulle cose. Il regime della patria potestas, pur essendo questa un potere personale, era per certi aspetti modellato su quello patrimoniale della proprietà: il paterfamilias poteva alienare il figlio con la mancipatio , un gestum per aes et libram , dunque un atto formale e solenne, con il quale si alienava la proprietà delle res mancipi , cioè dei mezzi produttivi dell’economia arcaica, tra i quali gli schiavi, sottoposti alla dominica potestas del proprietario, vale a dire al suo dominium ex iure Quiritium (cioè dei cittadini romani: Quirites ) [oltre, capitolo sesto, § 4, A; § 12, A].

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Ciò non toglie che la mancipatio della persona sottoposta alla patria potestas avesse effetti diversi da quelli dello stesso atto avente per oggetto lo schiavo, comportando la caduta nel potere detto mancipium dell’acquirente e non nella proprietà di quest’ultimo (dominium ex iure Quiritium ), come invece avveniva per gli schiavi. Ne conseguiva che, a seconda che la persona alienata fosse libera o di condizione servile, diverso era il grado di incapacità e diverse erano le conseguenze della manumissio [sopra, in questo capitolo, §§ 4, 5 e 7, per gli schiavi; § 9, B, per le personae in mancipio].

Inoltre, il paterfamilias, ove gli fossero stati sottratti figli o figlie in potestà poteva esercitare l’azione di rivendica (rei vindicatio ), cioè la medesima azione utilizzabile dal proprietario di una cosa contro colui che lo aveva spossessato, nelle forme processuali in cui questa era intentata nei diversi periodi della storia romana [oltre, in questo §, E; capitolo quinto, § 5, A; capitolo sesto, § 13, A], e l’actio furti ove la sottrazione fosse avvenuta per trarne un vantaggio [oltre, capitolo ottavo, § 22]. Sul versante della manus , potere dell’uomo sulla propria moglie, per certi versi simile alla patria potestas, va segnalata la possibilità di acquistarla per usus , cioè per il protrarsi di una situazione di fatto nel tempo, analogamente a quanto avveniva per l’acquisto della proprietà delle cose: l’acquisto del potere da parte dell’uomo poteva conseguire, infatti, a una convivenza more uxorio , ossia come marito e moglie, annuale, come l’acquisto della proprietà delle cose per usus avveniva, in presenza di determinati requisiti, attraverso il possesso prolungato nel tempo. L’ipotesi secondo la quale tali coincidenze del regime della patria potestas e della proprietà sarebbero spiegabili in base al fatto che in origine entrambe fossero espressione di un potere unitario di natura personale del paterfamilias, esercitato su persone libere e in stato servile e su cose, anticamente denominato, a seconda delle diverse teorie, potestas , mancipium o manus , non sembra persuasiva, atteso che la proprietà sulle cose non aveva un aspetto personale, ma un contenuto esclusivamente patrimoniale. A conferma di ciò basta pensare al fatto che alla morte del paterfamilias, mentre i figli e le figlie divenivano personae sui iuris , cioè libere dalla patria potestas, gli schiavi, come ogni altra cosa, cadevano nella proprietà dell’erede o di persone alle quali il dominus li avesse lasciati con una disposizione testamentaria specifica (legatum per vindicationem ) che ne trasferiva la proprietà. Inoltre, mentre la proprietà poteva essere trasferita ad altri, la patria potestas era intrasmissibile, come dimostra il fatto che la mancipatio del figlio, della figlia o dell’ulteriore discendente non trasferiva la patria potestas, ma faceva cadere la persona alienata nel mancipium dell’accipiente, quindi sotto un potere di natura diversa, del resto compatibile in ipotesi di figli maschi con la permanenza della patria potestas fino alla terza vendita [sopra, in questo capitolo, § 9, B]. Nella stessa direzione va segnalato che

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per compiere l’adozione di una persona già sottoposta all’altrui potestà (adoptio ), questa doveva essere fatta uscire dalla patria potestas del padre originario, proprio perché la potestas non poteva essere trasferita [oltre, in questo capitolo, § 17, D].

Piuttosto, in una direzione opposta, è verisimile che le analogie menzionate fra il regime della patria potestas e quello della proprietà siano spiegabili con il fatto che i figli avevano in antico anche un valore economico, essendo alienabili per ricavarne un corrispettivo. Si spiega così anche la ragione per la quale il sostantivo mancipium poteva indicare sia il potere sulle persone alienate dal paterfamilias con la mancipatio , sia la proprietà sulle cose.

D) La struttura della familia proprio iure , caratterizzata dalla contrapposizione fra il paterfamilias , unica persona sui iuris , e i sottoposti, di genere maschile e femminile, tutte personae alieni iuris [sopra, in questo capitolo, § 14], e dall’assolutezza della patria potestas , vicina per certi versi al dominium ex iure Quiritium (cioè alla proprietà secondo il diritto civile, essendo i Quirites i cittadini romani) [sopra, in questo §, A, B e C], non sembra perfettamente in linea con la funzione dispiegata da tale gruppo parentale dalla fine del periodo preclassico in poi, quando nella rappresentazione che se ne facevano gli appartenenti ai ceti egemoni, essa serviva a fornire alla res publica cittadini in grado di governarla secondo i principi tradizionali. Da tale prospettiva interessa la configurazione della domus , cioè, nella connessione in esame, della familia proprio iure, come semenzaio, ossia vivaio, della res publica (seminarium rei publicae), che si rinviene nel I secolo a.C. nel De officiis di Cicerone (Cic. de off. 1, 54).

Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo, per giustificare la particolare struttura della famiglia romana e l’assolutezza della patria potestas, un grande giusromanista, Pietro Bonfante, avanzò a più riprese l’ipotesi che in origine, quando ancora non esisteva lo stato, gruppi parentali o pseudo-parentali più ampi della familia proprio iure , sulla struttura dei quali questa si sarebbe poi modellata, avrebbero dispiegato una funzione politica, di gestione delle risorse, comprese quelle personali, e di controllo del territorio, analoga a quella che lo stato avrebbe svolto in seguito. Lo studioso, a seconda delle varie fasi in cui si articolò il suo pensiero, identificò tali gruppi di persone nella familia communi iure , ossia in senso

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comune, in senso ampio dal punto di vista giuridico, composta da tutti coloro che (di genere maschile e femminile) discendevano per linea maschile da un comune ascendente defunto, per nascita da matrimoni legittimi e per adozione (fratelli, cugini e loro discendenti, cioè nipoti, pronipoti e così via), e dalle mogli dei componenti del gruppo sottoposte alla manus dei rispettivi mariti, o nella gens , gruppo ancora più ampio, composto da tutti coloro che vantavano la discendenza, anche in questo caso di sangue o adottiva, da un antenato comune, e dalle mogli in manu dei componenti maschi, non avendo più, però, nel succedersi delle generazioni, precisa contezza dei rami dell’albero genealogico [oltre, in questo capitolo, § 24, C e D]. Sia la familia communi iure, che era un vero e proprio gruppo parentale allargato, sia la gens, che, essendo basata su una parentela vera o solo presunta, era un gruppo pseudo-parentale, avrebbero avuto struttura monarchica, essendo governate da un capo sovrano, rispettivamente il paterfamilias e il pater o princeps gentis , di regola designato dal predecessore e dotato di poteri assoluti sul gruppo, mentre tutti gli altri appartenenti a tali gruppi sarebbero stati nella condizione di semplici sudditi, privi di ogni diritto. L’esigenza di attribuire le funzioni politiche a gruppi più ampi della familia proprio iure per l’epoca anteriore all’affermarsi dello stato dipende dal fatto che questa, non sopravvivendo alla morte del paterfamilias, era un organismo di durata troppo breve per potere assolvere la funzione che poi sarebbe stata adempiuta dallo stato, nel mentre gli organismi più ampi si mantenevano nel succedersi delle generazioni.

In sostanza, la struttura della familia proprio iure si sarebbe modellata su quella di gruppi parentali o pseudo-parentali più vasti, che soddisfaceva l’esigenza di realizzare le funzioni di governo del gruppo, di successione nella sovranità, di gestione dei beni comuni (soprattutto risorse legate alla pastorizia e all’agricoltura), di difesa del territorio, di regolamentazione del rapporto fra i gruppi. Malgrado la sovranità fosse a un certo punto, più o meno gradualmente, passata allo stato, la familia proprio iure, fin dalle sue origini uniformatasi a tale modello di struttura, lo avrebbe conservato anche quando le sue funzioni mutarono in conseguenza degli sviluppi complessivi della società e dell’economia. Tale teoria risentiva dell’impostazione caratteristica del positivismo ottocentesco, esportata dal campo delle scienze naturali (Darwin, Lamarck) a quello delle scienze sociali (Spencer), secondo la quale la funzione degli organismi muta più rapidamente della struttura, la quale, da parte sua, resiste a lungo malgrado il mutare della funzione. Perciò, la struttura della familia proprio iure dei periodi preclassico e classico, non più congruente con la sua funzione, avrebbe costituito una sorta di rudere archeologico in base al quale ricostruire la primitiva funzione politica dei gruppi parentali o pseudoparentali più ampi (quasi dei proto-stati), ossia un indizio di tale primitiva funzione.

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A parte il fatto che, in generale, la concezione positivistica non gode più del favore della dottrina (per vero anche al di là dei suoi reali demeriti), si deve osservare che le teorie bonfantiane si rivelano fallaci laddove ipotizzano una struttura monarchica della familia communi iure e della gens, le quali, in realtà, a differenza della familia proprio iure, erano organismi acefali, privi di un capo stabilmente investito del comando. Semmai, la sola gens, in casi di emergenza e dunque temporaneamente, poteva individuare al suo interno una persona di particolare autorevolezza che la guidasse: nella letteratura latina vi sono tracce di tale fenomeno a proposito della migrazione della gens Claudia dalla Sabina a Roma, con a capo Attius Clausus , e della difesa della città da parte della gens Fabia , capeggiata al fiume Cremera da Marcus Fabius Vibulanus contro i Veienti.

Pertanto è più verisimile che la giustificazione della struttura della familia proprio iure vada ricercata nella funzionalità dei poteri assoluti del paterfamilias a soddisfare le esigenze dell’economia pastorale e agricola del periodo arcaico, essendo opportuno in tale contesto concentrare nel capo del gruppo la titolarità del patrimonio, i poteri decisionali e l’organizzazione della manodopera costituita dai figli e dagli altri discendenti e, per le occupazioni muliebri, dalle donne, figlie o mogli che fossero, mentre era ancora limitato l’apporto degli schiavi. Inoltre, da una prospettiva diversa, non è da escludere la corrispondenza dei poteri assoluti del paterfamilias a un principio generale immanente di ordine conforme alle antiche credenze religiose. E) La tutela processuale della patria potestas era assicurata attraverso le medesime azioni che servivano nei vari periodi a rivendicare la proprietà delle cose, con adattamenti connessi alla particolare natura del diritto tutelato, che secondo le categorie moderne potremmo definire come diritto soggettivo assoluto. Nel periodo arcaico e in quello preclassico, nel processo per legis actiones era utilizzata la legis actio sacramento in rem , alla quale si affiancò nel periodo preclassico l’agere per sponsionem , che consentiva l’accertamento giudiziale con la legis actio sacramento in personam , o, a partire dalla metà del V secolo a.C., con la legis actio per iudicis arbitrive postulationem [oltre, capitolo quinto, § 5, A; capitolo sesto, § 13, A]. Nel processo formulare il paterfamilias poteva agire, oltre che con l’agere per sponsionem, che gli consentiva di utilizzare un’actio in personam , con la formula petitoria , adattata, però, con la menzione della persona sottoposta alla patria potestas (per esempio, filium suum ) e della potestà secondo il diritto romano (in potestate ex iure Romano , ma forse in

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precedenza ex iure Quiritium , ossia secondo il diritto civile, essendo i Quirites i cittadini romani), per evitare che il convenuto soccombente pagando la condanna pecuniaria potesse privare della patria potestas il titolare, come invece poteva avvenire nella rivendica della proprietà (Ulpiano in D. 6, 1, 1, 2) [oltre, capitolo quinto, § 1, D; capitolo sesto, § 13, A]. Nel principato, era utilizzata soprattutto un’azione di mero accertamento, che non contemplava la possibilità di una condanna pecuniaria (praeiudicium ) [oltre, capitolo quinto, § 9, F], ed era possibile agire nel processo della cognitio extra ordinem [oltre, capitolo quinto, § 14].

Inoltre, nel periodo classico il pretore tutelava il paterfamilias al quale fosse stato sottratto il filiusfamilias con l’interdictum de liberis exhibendis , un interdetto esibitorio con il quale, su istanza del paterfamilias, veniva ordinato all’autore della sottrazione di esibire davanti al magistrato il figlio, e con l’interdictum de liberis ducendis , interdetto proibitorio con il quale, sempre su istanza del paterfamilias, veniva ordinato che non venisse fatta violenza per impedire che egli portasse con sé il figlio. Tali interdetti potevano essere richiesti solo dal titolare della patria potestas e, dunque, non tutelavano l’esercizio di fatto del diritto, ma la titolarità di esso.

16. Capacità e incapacità dei filiifamilias A) Il filiusfamilias aveva piena capacità di diritto pubblico, potendo rivestire le magistrature, fare parte delle assemblee cittadine e nel principato essere funzionario imperiale, senza alcuna distinzione rispetto alle personae sui iuris . Il paterfamilias, però, poteva avvalersi della patria potestas e dei connessi poteri coercitivi per ostacolare la condotta politica del figlio ove non la condividesse.

Il filiusfamilias era pienamente capace anche sul piano del diritto e del processo criminale. Anche nel ius sacrum il filius aveva la medesima capacità delle personae sui iuris. B) Sul versante del diritto privato, per quanto concerne i rapporti personali, sia il filiusfamilias che la filiafamilias potevano contrarre matrimonio con l’auctoritas del padre e divorziare, ossia sciogliere il matrimonio. Dapprima si riteneva che l’assenso paterno dovesse permanere affinché il matrimonio rimanesse in vita, almeno per quanto riguarda la filiafamilias, mentre nel II secolo d.C. anche per quest’ultima esso era richiesto soltanto come requisito iniziale [oltre, in questo capitolo, § 21, D].

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Il filiusfamilias, inoltre, era titolare del potere denominato manus sulla propria moglie ove avesse contratto matrimonium cum manu (Gai 1, 148; 2, 159; 3, 3; 3, 41; Tit. ex corp. Ulp. 22, 14). In questo caso, il paterfamilias acquistava, però la patria potestas sulla moglie in manu del figlio, probabilmente perché l’aveva sul proprio figlio e, essendo la moglie in manu equiparata a una figlia del proprio marito (loco filiae ), era anche considerata come nipote del padre di questo (loco neptis ): dunque, per una sorta di proprietà transitiva.

Il filiusfamilias non aveva la patria potestas sui propri discendenti, in quanto essa spettava al paterfamilias e solo alla morte di quest’ultimo il figlio, divenendo a sua volta paterfamilias, ne diventava titolare, ma nelle dinamiche interne alla famiglia doveva avere comunque un potere correttivo sui propri figli, esercitabile sotto il controllo del paterfamilias, unico titolare della patria potestas. Per quanto concerne i rapporti patrimoniali, invece, nel periodo arcaico e per buona parte di quello preclassico il filiusfamilias era del tutto privo di capacità giuridica e, sul versante del ius civile (nell’accezione contrapposta al ius honorarium ) [sopra, capitolo secondo, § 18, A-D], le conseguenze dei suoi atti leciti erano regolamentate allo stesso modo di quanto si è visto per gli schiavi [sopra, in questo capitolo, § 5, C]. Pertanto, a parte l’eventualità che il paterfamilias concedesse al filiusfamilias un peculium , disciplinato secondo quanto visto per gli schiavi [sopra, in questo capitolo, § 5, B e C], gli effetti favorevoli degli atti da lui compiuti si producevano in capo al paterfamilias, migliorandone la condizione (vale a dire facendogli acquistare diritti o liberandolo da obbligazioni), mentre gli effetti pregiudizievoli non si producevano. In base a tale principio, gli atti che, se compiuti da una persona sui iuris , avrebbero avuto per questa sia effetti favorevoli che effetti sfavorevoli producevano in capo al paterfamilias solo i primi: si parla a tale proposito di negozi claudicanti. Anche in questo caso, però, come per gli atti leciti compiuti dagli schiavi, il pretore correggeva tale regime a tutela della controparte, concedendo a quest’ultima l’exceptio doli nella funzione di exceptio doli praesentis o, secondo la denominazione moderna, di exceptio doli generalis , che paralizzava l’azione del paterfamilias volta a ottenere un indebito vantaggio e, perciò, scorretta [oltre, capitolo quarto, § 14, E]. Nei contratti a prestazioni corrispettive tutelati da iudicia bonae fidei , come la vendita, poi, era il ius civile a prevedere che il paterfamilias non potesse agire se non avesse nel contempo offerto la controprestazione, in quanto non era conforme alla buona fede che la controparte fosse tenuta a effettuare la prestazione senza ricevere la controprestazione [oltre, capitolo quinto, § 9, D].

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Per quanto riguarda gli effetti sfavorevoli, sul versante del ius honorarium, quando il filiusfamilias avesse posto in essere atti leciti che, ove compiuti da persone sui iuris , avrebbero fatto sorgere obbligazioni a carico di esse, il pretore concedeva alla persona che aveva posto in essere l’atto con il filiusfamilias le actiones adiecticiae qualitatis contro il paterfamilias in presenza dei medesimi presupposti che si sono visti a proposito degli schiavi [sopra, in questo capitolo, § 5, D]. Inoltre, fra il filiusfamilias e il paterfamilias, fra le persone soggette alla medesima patria potestas e fra il primo e le persone estranee potevano sorgere a seguito di atti leciti solo obligationes naturales , rilevanti sul piano morale e sociale, come avveniva per gli schiavi [sopra, in questo capitolo, § 5, C e D]. Nel caso di atti illeciti compiuti dal filiusfamilias ai danni di terzi, come per gli schiavi, si applicava il regime della nossalità, potendo il paterfamilias evitare il pagamento della pena abbandonando il figlio all’offeso con la noxae deditio [sopra, in questo capitolo, § 5, E]. Analoghi principi valevano per le filiaefamilias , rispetto alle quali essi continuarono a essere applicati senza eccezioni nel periodo classico.

C) A partire dall’ultima fase del periodo preclassico e, poi, nel periodo classico, la posizione del filiusfamilias si cominciò a differenziare sensibilmente da quella dello schiavo anche sul versante dei rapporti patrimoniali di diritto privato. Nel I secolo a.C., si ammise che il filiusfamilias (ma non la filiafamilias) potesse contrarre obbligazioni ed essere convenuto in giudizio se inadempiente, potendo il creditore agire direttamente contro di lui per ottenerne la condanna. A seguito di tale novità i filiifamilias si videro riconosciuta una parziale capacità giuridica, divenendo idonei a essere titolari di obblighi. Tuttavia, il creditore, malgrado potesse ottenere una sentenza di condanna contro il filiusfamilias altrui, non poteva agire in sede esecutiva contro quest’ultimo sulla base della sentenza di condanna eventualmente ottenuta fino a quando il condannato non usciva dalla potestas del proprio paterfamilias divenendo sui iuris. In ogni caso, se ne sussistevano i presupposti, in alternativa all’azione contro il filiusfamilias, il creditore poteva agire con una delle actiones adiecticiae qualitatis contro il paterfamilias. L’ipotesi secondo la quale i numerosi testi dai quali risulta provata la capacità di obbligarsi del filiusfamilias sarebbero tutti interpolati dai compilatori giustinianei, essendo tale capacità di obbligarsi una innovazione del VI secolo d.C., non è persuasiva.

Nel I secolo d.C., però, il senatusconsultum Macedonianum vietò di effettuare prestiti di denaro ai filiifamilias se non vi era l’autorizzazione dal paterfamilias e, sulla base di esso, il pretore, ove il figlio o il

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padre fosse stato convenuto in giudizio dal creditore per ottenere la condanna alla restituzione della somma prestata, rispettivamente con la normale azione contrattuale e con l’azione adiettizia de peculio , poteva rifiutare di concedere l’azione (denegatio actionis ) o concedere una difesa, denominata exceptio senatusconsulti Macedoniani . La restituzione spontanea di quanto ricevuto in prestito dal figlio era, però, valida ed efficace, non sorgendo a carico del creditore alcun obbligo di restituzione e, perciò, operando la c.d. soluti retentio , come nel caso delle obligtiones naturales [oltre, capitolo settimo, § 6]. Stando alla Parafrasi di Teofilo alle Istituzioni giustinianee, il senatoconsulto Macedoniano venne deliberato sulla scia di un grave fatto che aveva colpito l’opinione pubblica romana: un filiusfamilias di nome Macedone aveva ucciso il proprio padre (cioè compiuto un parricidium ) allo scopo di ereditare le sue sostanze per potere restituire le somme prese in prestito ai creditori che lo perseguitavano per ottenere la restituzione (Teoph. Par. 4, 7, 7). A tale giustificazione si aggiungeva quella, più generale, connessa al disvalore morale della disponibilità da parte dei filiifamilias di denaro loro dato in prestito (Ulpiano in D. 14, 6, 1 pr.), che li spingeva a un’esistenza dissoluta e lussuriosa e a un tenore di vita per mantenere il quale sarebbero stati disposti addirittura a uccidere il padre per ereditarne le sostanze. Va precisato che la difesa era utilizzabile non solo in caso di mutuo, ma qualsiasi fosse stato il modo in cui l’operazione di finanziamento era stata realizzata. Inoltre, il figlio la poteva opporre anche se era nel frattempo uscito dalla patria potestas. Il fatto che la difesa fosse opponibile non solo dal figlio, ma anche dal padre convenuto con l’actio de peculio , faceva ritenere ai giuristi romani che essa fosse prevista non a difesa del figlio, ma per difendere il padre, essendo, perciò, in odium creditoris , ossia ai danni del creditore.

D) Oltre al normale peculium rilevante sul versante del diritto onorario ai fini dell’esperibilità dell’actio de peculio e dell’actio tributoria contro il paterfamilias, in epoca imperiale si evidenziarono peculia speciali relativi ai filiifamilias. Il regime giuridico dei beni che ne facevano parte era diverso da quello dei beni di proprietà del paterfamilias che rientravano nel normale peculium, in quanto il filiusfamilias aveva la titolarità dei beni e dei diritti contenuti nei peculia speciali. Si evidenziò, così, una ulteriore dilatazione della capacità giuridica del filiusfamilias, incidente dal punto di vista della sua idoneità a essere titolare di diritti. Il modello sulla base del quale venne elaborata la disciplina dei peculi speciali fu quello, risalente alla fase iniziale del principato, del peculium castrense (I. 2, 12 pr.): dapprima, a partire dall’epoca di Augusto, con costituzioni imperiali venne concesso al filiusfamilias di disporre per testamento dei beni

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e dei diritti che aveva acquistato durante il servizio militare per occasione dello stesso (in castris , vale a dire nella vita militare), e poi, grazie ad altri interventi imperiali e all’interpretazione giurisprudenziale, si ammise che egli potesse disporre anche dei beni che gli fossero stati donati dal padre e, sembra, anche da altri congiunti al momento dell’inizio del servizio militare e di quelli lasciatigli in eredità dalla moglie durante il servizio militare e di tutti i beni e i diritti che aveva acquistato disponendo di essi. Tra i beni acquistati in occasione del servizio militare rientravano per esempio il soldo, le quote di bottino, i premi, l’oggetto di donazioni, eredità, legati ricevuti da commilitoni. Come per il normale peculium si applicava il principio della surrogazione reale: ciò significa che appartenevano al peculio anche i beni e i diritti acquistati attraverso atti di disposizione dei beni peculiari, con la differenza che nel caso del peculium castrense tali beni e diritti entravano nella titolarità del filiusfamilias e non in quella del paterfamilias.

Durante l’epoca classica, in forza di interventi normativi imperiali e dell’apporto dei giuristi, si pervenne ad ammettere che rispetto ai beni e ai diritti facenti parte del peculium castrense il filiusfamilias avesse la piena capacità giuridica, potendo disporne con atti tra vivi e a causa di morte. Pertanto, rispetto a tali beni, il filiusfamilias poteva compiere atti giuridicamente vincolanti con il paterfamilias e con le altre persone. Inoltre, i creditori potevano sottoporli a esecuzione forzata anche quando il loro titolare era ancora sottoposto alla patria potestas. Tuttavia, se il filiusfamilias moriva senza avere fatto testamento, essi erano acquistati dal pater come se si trattasse del normale peculium (ossia iure peculii ), non per successione legittima, vale a dire non nella qualità di erede del proprio figlio. Pertanto, sul piano della costruzione giuridica, sembrerebbe che il pater avesse una titolarità quiescente (ossia dormiente), comprendente sia i beni che egli aveva donato al figlio sia quelli da quest’ultimo acquistati durante la milizia, destinata a riespandersi al momento della morte del figlio, ove questo fosse morto senza fare testamento. Sul piano pratico, ne conseguiva che il paterfamilias non rispondeva nei confronti dei creditori del figlio premorto oltre l’attivo del peculio castrense, come invece sarebbe accaduto ove fosse subentrato come erede (atteso che l’erede rispondeva nei confronti dei creditori del defunto anche oltre l’attivo ereditario).

Il regime illustrato venne, poi, esteso al veterano, che era il soldato congedato dal servizio ordinario. Nel periodo postclassico, ebbe origine il peculium quasi castrense : con alcune costituzioni, venne riconosciuta ai filiifamilias funzionari imperiali la titolarità dei beni e dei diritti acquistati nello svolgimento dell’attività burocratica. Il regime, introdotto per i funzionari di palazzo

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(palatini ) da Costantino, poi esteso con altre costituzioni postclassiche ad altri funzionari e ai beni e ai diritti acquistati nello svolgimento delle cariche ecclesiastiche, tendeva a uniformarsi a quello del peculium castrense. Sempre nel periodo postclassico, si stabilì che il paterfamilias potesse amministrare e percepire i frutti dei beni pervenuti al filiusfamilias dalla madre (bona materna ) e poi anche di quelli pervenutigli dagli ascendenti materni (bona materni generis ), non potendo alienarli. Nel definitivo inquadramento giuridico, il filiusfamilias ne acquistava la nuda proprietà, non potendo godere di essi, e il paterfamilias ne acquistava l’usufrutto, cioè il diritto di goderne e percepirne i frutti, cui corrispondeva il potere di amministrarli [sul concetto di nuda proprietà e sull’usufrutto, cfr. oltre, capitolo sesto, § 17]. Nel periodo giustinianeo, il medesimo regime venne applicato a tutti i bona adventicia , ossia ai beni pervenuti al filiusfamilias o alla filiafamilias (finalmente dotata anch’essa di una limitata capacità giuridica sul versante dei rapporti patrimoniali) non dal pater (contrapposti ai bona profecticia