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Italian Pages [290] Year 2017
CORSO DI
ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO II,2
In copertina:
Gogh, Vincent van (1853-1890): La notte stellata, 1889. New York, Museum of Modern Art (MoMA). Olio su tela, cm. 73,7 x 92,1. Acquisito tramite il lascito Lillie P. Bliss. Inv.: 472.1941.© 2017. Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze.
Carlo Augusto Cannata
CORSO DI
ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO II,2
G. Giappichelli Editore
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http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0438-9
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NOTA INTRODUTTIVA
Il volume precedente (II,1) di questo corso era concepito come introduzione generale alla materia delle obbligazioni, e conteneva anche – ma nella stessa prospettiva – la trattazione speciale della stipulatio. Il presente secondo tomo dello stesso volume (II,2) è pensato come un discorso introduttivo alla parte speciale, della quale però già tratta alcuni temi. In effetti esso è impostato sullo studio del sistema romano delle fonti d’obbligazione, ma, per le obbligazioni sanzionate con la condictio (in particolare quelle generate da mutuo e arricchimento ingiustificato, nonché le obligationes contratte litteris) ne esaurisce la materia (nei limiti, naturalmente, di una trattazione istituzionale). Per le obbligazioni da contratto consensuale e le obbligazioni da delitto contiene invece soltanto due necessarie introduzioni generali, e la parte speciale vera e propria, con le singole figure dei contratti e dei delitti, è rinviata al prossimo volume (II,3), mentre un capitolo finale è già qui dedicato in modo isolato al dogma della perpetuatio obligationis, che può considerarsi anch’esso un particolare meccanismo di produzione d’obbligazione. Per la faticosa correzione delle bozze è stata fondamentale la collaborazione della dottoressa Stefania Roncati. CARLO AUGUSTO CANNATA Genova, marzo 2017
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TITOLO DEL VOLUME
ABBREVIAZIONI
ABGB
Allgemeines bürgerliches Gesetzbuch (codice civile austriaco, pubblicato il primo giugno 1811 con vigore dal primo gennaio 1812)
ALR
Allgemeines Landrecht für die Preußischen Staaten (codice generale prussiano del 1794, definitivamente abrogato con l’entrata in vigore del BGB)
BGB
Bürgerliches Gesetzbuch (codice civile tedesco, approvato il 18 agosto 1896 con vigore dal primo gennaio 1900)
Brev.
Breviarium Alarici Regis (lex Romana Wisigothorum)
BRUNS
C.G. BRUNS, Fontes iuris Romani antiqui7 (O. Gradenwitz), Tubingae 1909
C.
Codex Justinianus
CANNATA, Corso I-II,1
C.A. CANNATA, Corso di Istituzioni di diritto romano I, Torino 2001; II,1, Torino 2003
CANNATA, Scritti I-II-III
CANNATA, Scritti scelti di diritto romano (a cura di LETIZIA VACCA) I (Torino 2011); II (Torino 2012); III (Torino 2014) [l’opera viene spesso richiamata con Scritti o Scritti scelti, senza il nome dell’autore]
CANNATA, SG I
C.A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea I, Torino 1997
CANNATA, Sul problema C.A. CANNATA, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, Catania 1996 CANNATA, Uni.
C.A. CANNATA, Il diritto romano e gli attuali problemi d’unificazione del diritto europeo, in Studi Impallomeni, Milano 1999, 41 ss.
CCesp
Código Civil (codice civile spagnolo 1889, vigente)
CCfr
Code civil (codice civile francese 1804, vigente)
CCit[1865]
Codice civile (del Regno d’Italia; la data indicata è quella del-
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la promulgazione, decretata a Firenze il 17 giugno 1865, con messa in vigore dal primo gennaio 1866; abrogato con l’entrata in vigore del CCit[1942]) CCit[1942]
Codice civile (italiano del 1942, vigente)
CCS
Code civil suisse. Codice civile svizzero [vedi qui infra ZGB]
C.Th.
Codex Theodosianus
D.
Digesta Iustiniani
DtuÜ
Corpus Iuris Civilis. Text und Übersetzung (BEHRENDS, KNÜTEL, KUPISCH, SEILER) II ss: Digesten (Heidelberg 1995 ...)
ERNOUT-MEILLET
A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine4 (4e tirage augmenté par J. André), Paris 1985
FIRA I-II-III
Fontes iuris Romani anteiustiniani I: Leges (S. RICCOBONO; Firenze 19682); II: Auctores (J. BAVIERA; Firenze 19682); III: Negotia (V. ARANGIO-RUIZ; Firenze 19722)
Gai.
Gai institutiones [N.B.! quando non si tratta dell’abbreviazione usuale del nome del giurista Gaius]
Gai. ep.
Gai institutionum epitome (FIRA II, p. 232 ss.)
I.
Institutiones Iustiniani
Ind. itp.
Index interpolationum quae in Iustininiani digestis inesse dicuntur, curaverunt E. Levy, E. Rabel I (Weimar 1929); (Suppl. =) Supplementum I ad libros I-XII (1929); II (1931); III (1933)
Int.
interpretatio (nel Brev.)
KASER, RPR I-II
M. KASER, Das römische Privatrecht I2, München 1971; II2, München 1975
KASER/HACKL
M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht (zweite Auflage neu gearbeitet von K. Hackl), München 1996
KP I-V
Der kleine Pauly. Lexikon der Antike I-V, Stuttgart 19641975 (reprint DTV 1979)
LENEL, EP
O. LENEL, Das edictum perpetuum3, Leipzig 1927
LENEL, Pal. I-II
O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, Lipsiae 1889
n.
nota (ovvero, se del caso, note)
OR
Schweizerisches Obligationenrecht, Code des obligations, Codice delle obbligazioni (Codice svizzero delle obbligazioni: revisione dell’OR promulgato nel 1881 con vigore dal 1883; promulgato, come quinto libro dello ZGB, il 30 marzo 1911 con vigore dal primo gennaio 1912)
ABBREVIAZIONI
IX
p.
pagina (ovvero, se del caso, pagine)
Paul.
Pauli sentetiae [N.B.! quando non si tratta dell’abbreviazione usuale del nome del giurista Paulus]
PUGLIESE, PCR I-II
G. PUGLIESE, Il processo civile romano I: Le legis actiones, Roma 1962; II: Il processo formulare tomo primo, Milano 1963
PUGLIESE, Scritti I-VI
G. PUGLIESE, Scritti giuridici scelti I-VI, Napoli 1985
ROTONDI
G. ROTONDI, Leges publicae populi Romani, Milano 1912 (reprint Hildesheim 1966)
RE 1,1 ...
Paulys Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaften neue Bearbeitung herausgegeben von G. Wissowa (etc.) 1,1 ..., Stuttgart 1894 ss.
RS I-II
M.H. CRAWFORD (ed.), Roman Statutes I-II, London 1996
tab.
tabula (si tratta del modo di citare la legge delle dodici tavole; l’abbreviazione si riferisce alla tavola, ed è seguita dal suo numero d’ordine – da 1 a 12 – seguito ulteriormente dal numero del versetto; per numerazione e testo faccio riferimento alla ricostruzione edita in FIRA I, p. 26-73)
ThlL I ...
Thesaurus linguae Latinae I ..., Lipsiae 1900 ss.
Suppl.
Supplementum [vedi qui sopra Ind. itp.]
Ulp.
Tituli ex corpore Ulpiani [N.B.! quando non si tratta dell’abbreviazione usuale del nome del giurista Ulpianus]
Vat.
Vaticana fragmenta (FIRA II, p. 463 ss.)
VIR
Vocabolarium iurisprudentiae Romanae I-V, Berolini 19031962
WALDE-HOFMANN I-II
A. WALDE-J.B. HOFMANN, Lateinisches etymologisches Wörterbuch5 I-II, Heidelberg 1982
WB[1838]
Burgerlijk Wetboek (Codice civile olandese del 1838; il codice risulta ora abrogato a seguito della graduale entrata in vigore del WB[1992])
WB[1992]
Burgerlijk Wetboek (Codice civile olandese vigente; la data, usuale per l’individuazione di questo codice rispetto al suo precedente menzionato qui sopra, è del tutto convenzionale: essa si riferisce alla messa in vigore, ed allude alla data del primo gennaio 1992, quando entrarono in vigore i libri terzo, quinto, sesto e una parte del settimo – libro, quest’ultimo che
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riguarda i singoli contratti nominati –; ma a tale data erano già stati messi in vigore il libro primo [1970] e secondo [1976], mentre non lo erano ancora il libro ottavo, il libro quarto e la parte restante del libro settimo) ZGB
Schweizerisches Zivilgesetzbuch (Code civil suisse; Codice civile svizzero; promulgato il 10 dicembre 1907 con vigore dal primo gennaio 1912)
REPERTORIO DEI GIURISTI CITATI
i) Giuristi dell’epoca repubblicana (precedenti Labeone): Sesto Elio (Sex.Ael.) = Sextus Aelius Paetus Catus (console nel 198 a.C., censore nel 194 a.C.). Catone il giovane (Cat.) = Marcus Porcius Cato Licinianus (* forse intorno al 192 a.C., figlio di Catone il censore; † 152 a.C.). Publio Mucio (P.Muc.) = Publius Mucius Scaevola (console nel 133 a.C.; † intorno al 115 a.C.). Bruto (Brut.) = Marcus Iunius Brutus (pretore nel 142 a.C.). Manilio (Manil.) = Manius Manilius (console nel 149 a.C.). Questi tre ultimi personaggi (P.Muc. Brut. Manil.) componevano la triade che i giuristi romani consideravano quella dei fondatori (fundatores) della loro scienza (Pomp. D.1,2,2,39).
Quinto Mucio l’augure (Q.Muc. aug.) = Quintus Mucius Scaevola augur (* intorno al 165 a.C., parente di Q.Muc.; † 87 a.C.). Rutilio (Rut.) = Publius Rutilius Rufus (console nel 105 a.C.; di una diecina d’anni più giovane di Q.Muc. aug.). Quinto Mucio (Q.Muc.) = Quintus Mucius Scaevola pontifex (* 140 a.C., figlio di P.Muc.; † 82 a.C). Aquilio Gallo (Gall.) = Caius Aquilius Gallus (allievo di Q.Muc., pretore nel 66 a.C.). Servio (Serv.) = Servius Sulpicius Rufus (* 106 o 105 a.C.; † 43 a.C.). Alfeno (Alf.) = Alfenus Varus (discepolo di Serv.; consul suffectus nel 39 a.C.). Ofilio (Ofil.) = Aulus Ofilius (discepolo di Serv.; fu amico di Cesare). Trebazio (Treb.) = Caius Trebatius Testa (* prima dell’80 a.C.; † dopo il 3 d.C.; consigliere giuridico di Cesare e di Augusto; fornì l’insegnamento elementare a Labeone). Tuberone (Tub.) = Q. Aelius Tubero (discepolo di Ofil.). ii) Giuristi dell’epoca delle due scuole: Nota: il nome dei giuristi che risultano avere avuto la posizione di leader della scuola alla quale appartennero sono preceduti dal segno #.
a) Scuola proculiana: s’inizia con Labeone; fu poi detta Proculiana, dal nome di Proculo. # Labeone (Lab.) = Marcus Antistius Labeo (* verso il 50 a.C.; † fra il 15 e il 20 d.C.).
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# Nerva (Nerv.) = Marcus Cocceius Nerva (amico dell’imperatore Tiberio [14-37]; † 33). Nerva figlio (Nerv. f.) = Marcus (?) Cocceius Nerva (figlio di Nerv. e – con ogni probabilità – padre dell’imperatore Nerva, il quale nacque nel 30; console fra il 39 e il 41; doveva essere approssimativamente coetaneo di Proc.). # Proculo (Proc.) = Proculus (* forse all’inizio dell’era volgare; era certo già noto come giurista nel 33; † dopo il 54). # Pegaso (Peg.) = Pegasus (attivo nella seconda metà del I sec., praefectus Urbi forse sotto Vespasiano [69-79] e certamente sotto Domiziano [81-96]). # Celso padre (Cels. pat.) = (Iuventius) Celsus pater (sedette nel consilium di Publio Ducenio Vero, quando questi era consul suffectus nel 95; padre di Cels.). # Nerazio (Ner.) = Lucius Neratius Priscus (consul suffectus 87 o 97; membro del consilium forse dell’imperatore Traiano e certamente di quello di Adriano [117-138]; † dopo il 133). # Celso (Cels.) = Publius Iuventius Celsus (figlio di Cels. pat.; pretore nel 106 o 107; console ordinario per la seconda volta nel 126; attivo all’epoca degli imperatori Traiano [98-117] e Adriano [117-138]). b) Scuola sabiniana: s’inizia con Capitone; fu poi detta Cassiana, dal nome di Cassio, poi anche Sabiniana, dal nome di Celio (non di Massurio)1 Sabino. # Capitone = Caius Ateius Capito (consul suffectus nel 5 d.C.; † 22 d.C.). # Massurio Sabino (Sab.) = Masurius Sabinus (* intorno al 15 a.C.; † intorno al 60 d.C.). Minicio (Min.) = Minicius (fu auditor di Sab.). # Cassio (Cass.) = Caius Cassius Longinus (console nel 30; * poco prima dell’inizio dell’era volgare; † 70). # Celio Sabino (Cel. Sab.) = Cn. Arulenus Caelius Sabinus (consul suffectus 69; operoso in particolare all’epoca dell’imperatore Vespasiano [69-79]). # Giavoleno (Iav.) = Lucius Iavolenus Priscus2 (* intorno al 50; consul suffectus nell’ 86; notizie certe fino al 106; fu maestro di Iul.). # Aburnio Valente (Val.) = forse L. Aburnius Valens Tuscianus (attivo ai tempi dell’imperatore Adriano [117-138] e membro del consilium dell’imperatore Antonino Pio [138-161]; contemporaneo di Iul.). # Giuliano (Iul.) = Publius Salvius Iulianus (* intorno all’80; † tra il 161 e il 169; console ord. forse nel 148; membro del consilium degli imperatori Adriano [117-138], Antonino Pio [138-161] e dei divi fratres [Marco Aurelio e Lucio Vero: 161-169]). Africano (Afr.) = Sextus Caecilius Africanus (* tra il 100 e il 110; discepolo di Iul.; attivo sotto Antonino Pio [138-161]). Gaio (Gai.): Gaius (Le sue Institutiones possono datarsi al 161, ed egli vi menziona sue proprie opere assai impegnative, scritte in precedenza). Meciano (Maec.) = L. Volusius Maecianus (* al più tardi nel 110). 1
Vedi CANNATA, Lo splendido autunno delle due scuole, in Mél. Schmidlin, Bâle 1998, 433 s. Il nome intero parrebbe essere, secondo risultanze epigrafiche, C. Octavius Titius Tossianus L. Iavolenus Priscus. 2
REPERTORIO DEI GIURISTI CITATI
XIII
c) Giuristi non ascrivibili ad una delle due scuole: Mela (Mel.) = Fabius Mela (contemporaneo, forse più giovane, di Lab.). Pedio (Ped.) = Sextus Pedius (datazione difficile; la sua attività va collocata intorno alla metà o nella seconda metà del I sec.). Atilicino (Atil.) = Atilicinus (della stessa epoca di Cass. e Proc.). Plauzio (Plaut.) = Plautius (va considerato contemporaneo di Peg.). Aristone (Arist.) = Titius Aristo (* intorno al 42; † non prima del 105; frequentò in gioventù l’insegnamento di Cass.). Viviano (Vivian.) = Vivianus (citava Cass. ed era citato da Cels.; forse contemporaneo di Cels. pat.). Pomponio (Pomp.) = Sextus Pomponius (fu attivo sotto Adriano [117-138], Antonino Pio [138-161] e i divi fratres [Marco Aurelio e Lucio Vero: 161-169]). Venuleio Saturnino (Ven.) = Venuleius Saturninus (attivo fino all’epoca di Antonino Pio [138-161] e anche dei divi fratres [161-169]). Marcello (Marcell.) = Ulpius Marcellus (membro del consilium degli imperatori Antonino Pio [138-161] e Marco Aurelio [161-180]). Cervidio Scevola (Scaev.) = Quintus Cervidius Scaevola (praefectus vigilum nel 175; membro del consilium dell’imperatore Marco Aurelio [161-180]). Fiorentino (Flor.) = Florentinus (attivo dopo la morte di Antonino Pio). iii) Giuristi dell’epoca dei Severi: Papiniano (Pap.) = Aemilius Papinianus (operoso sotto Settimio Severo [193-211] e Caracalla [198-217, con Settimio Severo fino al 211, con Geta 211-inizio 212]; cancelliere a libellis sotto Settimio Severo; prefetto del pretorio dal 203; † 212 ucciso per ordine di Caracalla. Dei suoi libri responsorum, i libri I-XII furono composti, a quanto pare, sotto Settimio Severo e Caracalla, i libri XIII-XIX al tempo in cui Caracalla era solo imperatore). Trifonino (Tryph.) = Claudius Tryphoninus (membro del consilium di Settimio Severo con Pap.). Paolo (Paul.) = Iulius Paulus (discepolo di Scaev.; assessore del prefetto del pretorio Pap.; membro del consilium imperiale già sotto Settimio Severo con Pap., e poi ancora sotto Alessandro Severo [222-235]; fu anche cancelliere a memoria e infine prefetto del pretorio). Ulpiano (Ulp.) = Domitius Ulpianus (assessore del prefetto del pretorio Pap. sotto Settimio Severo e Caracalla; consigliere permanente di Alessandro Severo dal 222; prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo [222-235]; † 223, assassinato dai pretoriani. Le sue opere sono state in buona parte scritte all’epoca dell’imperatore Caracalla). Arrio Menandro (Arr. Menand.) = Arrius Menander (contemporaneo di Ulp.). Licinnio Rufino (Lic. Ruf.) = M. Cn. Licinius Rufinus (consultò per lettera Paul.). Callistrato (Call.) = Callistratus (non databile). Macro (Mac.) = Aemilius Macer (attivo sotto Caracalla e Alessandro Severo). Marciano (Marcian.) = Aelius Marcianus (attivo sotto Elagabalo [218-222] e Alessandro Severo [222-235]).
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CORSO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO
Furio Antiano (Fur. Anth.) = Furius Anthianus (presumibilmente contemporaneo di Mod.). Modestino (Mod.) = Herennius Modestinus (discepolo di Ulpiano; praefectus vigilum tra il 224 e il 244; citato come ancora operoso in un rescritto del 2393). iv) Giuristi del periodo epiclassico: Ermogeniano (Herm.) = Hermogenianus (si deve presumere che sia stato attivo nelle cancellerie dell’imperatore Diocleziano [284-305] e che sia stato il compilatore del Codex Hermogenianus del 295).
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C.3,42,5, dell’imperatore Gordiano.
I LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI SOMMARIO: 1. La nozione di fonte d’obbligazione. – 2. La classificazione delle Istituzioni di Gaio.
1. LA NOZIONE DI FONTE D’OBBLIGAZIONE. – Per fonti delle obbligazioni s’intendono i fatti giuridici che le producono. L’espressione “fonte d’obbligazione” non è romana. I romanisti usano talora, per esprimere il concetto, quella di causa obligationis, che ricorre bensì in qualche testo, ma per lo più in altro senso, ad esprimere l’idea della situazione che corrisponde ad un’obbligazione, cioè la consistenza degli obblighi delle parti o il loro regime. Si possono vedere Pomp. D.50,17,27 (quamvis obligationum causae pactione possint immutari et ipso iure et per pacti conventi exceptionem); Iav. D.24,1,20 (in pendenti puto esse causam obligationis, concetto poi espresso di nuovo con causam stipulationis); Paul. D.36,1,41 pr. (la ‘causa naturalium obligationum’ transit per effetto della norma del senatoconsulto Trebelliano che dispone il trasferimento delle azioni che iure civili heredi et in heredem competunt, norma che deve essere intesa anche come disponente il trasferimento delle azioni pretorie). Nel senso di un’allusione alla fonte dell’obbligazione può essere interpretato il si ex alia causa perpetuae obligationis di Scaev. D.3,5,34,3, nonché l’ulla causa praecesserat debendi di Pomp. D.15,1,49,2 (cfr. Pomp. D.39,5,26) 1.
A partire almeno dall’epoca di Quinto Mucio i giuristi impiegarono delle classificazioni sistematiche, cioè delle diairesi dialettiche, per presentare le fonti delle obbligazioni 2. Quella che si legge nelle Istituzioni di Gaio è – per quanto
1 In entrambi questi due ultimi testi nuda ratio significa “la sola scrittura nei libri contabili (rationes) di per se stessa”. 2 Per la storia della classificazione delle fonti d’obbligazione (ed anche sulle fonti d’obbligazione in generale) devo rinviare ad alcuni miei vecchi lavori, non senza ricordare che essi vennero ad inserirsi in una rivisitazione della tematica della divisio obligationum suscitata dall’acuta sensibilità giuridica del compianto collega, e già da allora amico, Theo MAYER-MALY, in particolare con una conferenza sulla Divisio obligationum appunto, pubblicata in The Irish Jurist, 2 n. s. (1967), 375 ss. Fra i miei contributi ricordo in particolare: La distinctio re-verbis-litterisconsensu et les problèmes de la pratique, in Sein und Werden im Recht (Festgabe von Lübtow), Berlin 1970, 431 ss., ripubblicato nei miei Scritti scelti di diritto romano, 213 ss.; Sulla divisio
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CORSO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO
ci risulta – la prima che sia stata concepita come generale, cioè come comprensiva di tutte le obbligazioni previste dal ius civile. Come avremo modo di constatare, essa non è né esauriente, né tecnicamente ineccepibile; ciò nonostante è opportuno che la prendiamo come punto di partenza della nostra esposizione perché riveste un’importanza storica tutta particolare. Infatti, da un lato essa rappresenta la sintesi di elementi precedenti facilmente identificabili, dall’altro ha costituito il punto di partenza del filone che ha determinato l’impostazione del problema delle fonti delle obbligazioni sino ai nostri giorni.
2. LA CLASSIFICAZIONE DELLE ISTITUZIONI DI GAIO. – Leggiamo anzitutto, per esteso o per indicem, i passi delle Istituzioni gaiane dai quali la classificazione emerge, nel terzo libro dell’opera, a partire dal luogo nel quale la trattazione delle obbligazioni prende inizio: Gai.3,88: 3 ad obligationes; quarum summa divisio in duas species diducitur: omnis enim obligatio vel ex contractu nascitur, vel ex delicto. 89: Et prius videamus de his quae ex contractu nascuntur. Harum autem quattuor genera sunt: aut enim re contrahitur obligatio aut verbis aut litteris aut consensu. 90: Re contrahitur obligatio velut mutui datione. 4 proprie in his [fere] rebus contingit quae pondere numero mensura constant, qualis est pecunia numerata, vinum, oleum, frumentum, aes, argentum, aurum. Quae res aut numerando aut metiendo aut pendendo in hoc damus, ut accipientium fiant et quandoque nobis non eadem, sed aliae eiusdem naturae reddantur. Unde etiam mutuum appellatum est, quia quod ita tibi a me datum est, ex meo tuum fit. 91: Is quoque, qui non debitum accepit ab eo qui per errorem solvit, re obligatur. Nam proinde ei condici potest SI PARET EUM DARE OPORTERE, ac si mutuum accepisset. Unde quidam putant pupillum aut mulierem, cui sine t 5 non debitum per errorem datum est, non teneri condicobligationum nel diritto romano repubblicano e classico, in Iura 21(1970), 52 ss. (Scritti scelti I, 237 ss.); La classificazione delle fonti delle obbligazioni: vicende di un problema dommatico e pratico, in TARELLO (ed.), Materiali per una storia della cultura giuridica IV, Bologna 1974, 37 ss. (Scritti scelti I, 265 ss.); anche la voce Obbligazioni nel diritto romano, medievale e moderno, in Digesto4. Sez. civile XII, Torino 1995, 418 ss. (i paragrafi 3-9). Si può vedere anche un mio (più recente) scritto civilistico (Sulle fonti delle obbligazioni), pubblicato nel Trattato della responsabilità contrattuale diretto da Giovanna Visintini I: inadempimento e rimedi, Padova 2009, ripubblicato nei miei Scritti scelti III (Torino 2014), 221-260, nonché, infine, il volume Materiali per un corso di fondamenti del diritto europeo II, Torino 2008. 3 Integrato in base a I.3,13 pr. 4 Integrato in base a I.3,14 pr.; vedi anche res cott. D.44,7,1,2. 5 Cfr. I.3,14,1.
LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI
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tione, non magis quam mutui datione. Sed haec species obligationis non videtur ex contractu consistere, quia is qui solvendi animo dat magis distrahere vult negotium quam contrahere. 92: Verbis obligatio fit ex interrogatione et responsione …[La trattazione dell’obbligazione che verbis fit prosegue sino al § 127; vi si tratta della stipulatio 6, ma nei § 95a-96, assai lacunosi 7, si faceva menzione, come casi di fonte d’obbligazione contratta con dichiarazione verbale di uno solo dei due soggetti interessati (uno loquente), della dotis dictio (§ 95a) e del iusiurandum liberti (§ 96).] 128: Litteris obligatio fit veluti nominibus transscripticiis … [La trattazione relativa ai nomina transscripticia prosegue sino al § 133.] 134: Praeterea litterarum obligatio fieri videtur chirographis et syngraphis, id est si quis debere se aut daturum se scribat; ita scilicet si eo nomine stipulatio non fiat. Quod genus obligationis proprium peregrinorum est. 135: Consensu fiunt obligationes in emptionibus venditionibus, locationibus conductionibus, societatibus, mandatis. 136: Ideo autem istis modis consensu dicimus obligationes contrahi, quia neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur, sed sufficit eos qui negotium gerunt consensisse. Unde inter absentes quoque talia negotia contrahuntur, veluti per epistulam aut per internuntium, cum alioquin verborum obligatio inter absentes fieri non possit. 137: Item in his contractibus alter alteri obligatur de eo, quod alterum alteri ex bono et aequo praestare oportet, cum alioquin in verborum obligationibus alius stipuletur, alius promittat, et in nominibus alius expensum ferendo obliget, alius obligetur. 138 8: Sed absenti expensum ferri potest, etsi verborum obligatio cum absente contrahi non possit. … [La trattazione delle obbligazioni che consensu fiunt prosegue fino al § 162, così articolata: emptio venditio § 139-141; locatio conductio § 142147; societas § 148-154; mandatum § 155-162; di seguito Gaio inserisce due digressioni: la prima (§ 163-167) sull’acquisto per mezzo di altri, la seconda (§ 168-181) sui modi di estinzione delle obbligazioni.] 182: Transeamus nunc ad obligationes quae ex delicto nascuntur, veluti si quis furtum fecerit, bona rapuerit, damnum dederit, iniuriam commiserit; quarum omnium rerum uno genere consistit obligatio, cum ex contractu obligationes in IIII genera diducantur, sicut supra exposuimus. [La trattazione analitica delle obbligazioni da delitto prosegue sino alla fine del terzo libro (§ 225).]
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Cioè degli argomenti già trattati nel vol. II,1, cap. Va, § 1-5.4 Gli istituti qui menzionati risultano già dai frammenti di testo che ci rimangono, ma il tenore letterale del testo doveva essere abbastanza simile a quello di Gai ep.2,9,3-4; cfr. Ulp.6,2. 8 Si ammette in genere l’idea del Krüger che considerava il § 138 proveniente da un glossema. Infatti, anche se la frase, che riprende la seconda parte del § 136, non ne rappresenta una semplice ripetizione perché la completa con un chiarimento, essa è inserita palesemente fuori luogo. 7
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Traduco quanto sopra riportato; quanto alle annotazioni che vi ho inserito fra parentesi quadre, le riprendo riducendole all’essenziale. “88: Passiamo ora alle obbligazioni 9, la divisione principale delle quali si articola 10 in due specie: qualunque obbligazione, infatti, nasce o da contratto o da delitto. 89: E occupiamoci anzitutto di quelle che nascono da contratto. Di queste esistono quattro generi: infatti l’obbligazione si contrae 11 o re 12 o verbis (= con parole dette) o litteris (= con parole scritte) o consensu (= col consenso, cioè con l’accordo informale delle parti). 90: L’obbligazione si contrae re come nel caso in cui si dia a mutuo 13. Il dare a mutuo ha luogo esclusivamente con riguardo alle cose che vengono in considerazione per il peso, il numero o la misura 14, quali denaro, vino, olio, granaglie, bronzo, argento, oro. Contandole, misurandole o pesandole 15, queste cose le diamo con l’intesa che esse passino in proprietà di colui che le riceve e che in un momento successivo ci vengano restituite, non esse stesse, ma altre di ugual natura. Questa è anche la ragione per la quale (questo negozio) è stato chiamato mutuo, in quanto quel che da me ti è stato dato da mio diventa tuo 16. 91: È obbligato re anche chi ha ricevuto un indebito da colui che
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Vedi nel vol. II,1, p. 11 (cap. V § 1, presso la n. 1). Ad evitare un frequente equivoco, sottolineo che il verbo diducere che Gaio usa (diducitur) non è una variante di deducere (de-ducere: “condurre dall’alto verso il basso” e quindi “far discendere, dedurre”): diducere (dis-ducere) significa “condurre in direzioni diverse” e quindi contiene l’idea del “separare, distinguere”. 11 Dicendo che una obligatio ‘contrahitur’ (un’obbligazione «si contrae»), Gaio usa qui intenzionalmente un verbo (contrahere) adatto non solo ad esprimere l’idea che un soggetto “risulta obbligato”, cioè «contrae un’obbligazione», come si dice che uno contrae un debito (contrahere aes alienum: vedi Cic., Cat.2,2,4) o anche si contrae una malattia (morbum: Plin., n. h.30,21,65; vedi anche Plin., n. h.36,69,202); il verbo contrahere è direttamente allusivo al contractus, termine che altro non è se non il suo participio passato sostantivato (con forma di quarta declinazione). 12 Preferisco non tradurre l’espressione re (re contrahere obligationem), perché, come vedremo, il suo senso preciso non può essere reso con una traduzione. Volendo farlo si potrebbe dire che (l’obbligazione si contrae) “per effetto di una cosa” ovvero, volendo essere più aderenti a quel che Gaio forse pensava in questo contesto, “col fatto che è stata data una cosa (trasferita la proprietà di una cosa)”. 13 Letteralmente, mutui datione significa “con la dazione (impiego per chiarezza questo sostantivo, anche se in italiano esso deve considerarsi desueto o di gergo, e già così lo registrava il Tommaseo) di una cosa prestata”, o più precisamente “mutuata”, perché le locuzioni costruite con mutuus (-a, -um) alludono in ogni caso al prestito a consumo (mutuo), e mai al prestito d’uso (comodato = commodatum). Il termine mutuus è un aggettivo, che significa “dato a mutuo” (ad esempio, pecunia mutua, “denaro mutuato, dato a mutuo”; pecuniam mutuam dare, “dare denaro a mutuo”); ne è provenuto il sostantivo neutro mutuum col significato di “cosa data a mutuo”, e anche “mutuo” in genere, per cui l’ablativo mutuo assume il senso di “a titolo di mutuo”. 14 Si tratta cioè delle cose che noi diciamo fungibili. Vedi nel vol. II,1, p. 197 presso le n. 401402. 15 Per coerenza con quanto precede, l’ordine dovrebbe essere “pesandole, contandole, misurandole”. 16 Con questa frase Gaio dà credito ad un’etimologia popolare del vocabolo mutuum (meumtuum = ex meo tuum, come se in italiano dicessimo che mutuo deriva da “mio-tuo = da mio [diviene] tuo”). Si tratta di un’etimologia fantasiosa, che sull’analoga varroniana di nexum (da necsuum: vol. II,1, p. 48 con la n. 141) ha il solo vantaggio di non essere anche sbagliata nella sostanza giuridica. 10
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gliel’ha pagato per errore. In effetti, si può esercitare contro di lui (per pretendere la restituzione di quanto gli si è pagato) la condictio con l’intentio ‘si paret eum dare oportere’ (= se risulta che egli deve dare) esattamente come se (quel che gli è stato erroneamente pagato lo) avesse ricevuto a mutuo. Perciò alcuni ritengono che un pupillo o una donna, ai quali sia stato dato per errore un indebito, non siano tenuti con la condictio più di quanto non lo sarebbero se fosse loro stato dato a mutuo. Ma questa specie di obbligazione (cioè: l’obbligazione alla restituzione dell’indebito) non appare formarsi da contratto, perché colui che dà con l’intento di pagare vuole piuttosto por fine ad un affare (distrahere negotium) che non porlo in essere (contrahere negotium). 92: L’obbligazione nasce verbis (da parole dette) per effetto di una domanda e una risposta ... [da questo punto e fino al § 127 Gaio parla della stipulatio, di cui si è detto nel vol. II,1 cap. Va § 1-5.4, intercalando però la menzione di due atti obbligatori la cui forma consiste nella sola dichiarazione della parte che si obbliga: la costituzione formale della dote (dotis dictio) e il giuramento (iusiurandum) del liberto al patrono 17.] 128: L’obbligazione nasce litteris (da parole scritte, cioè da una scrittura) come nel caso dei nomina transscripticia [di questi – vale a dire dell’expensilatio – Gaio tratta fino al § 133.]. 134: Oltre a questo caso un’obbligazione letterale risulta nascere da chirografi e singrafi, cioè nel caso in cui alcuno scriva di dovere o che darà, beninteso se per quello stesso titolo non abbia luogo una stipulatio. Ma si tratta di un genere d’obbligazione riservato a stranieri. 135: L’obbligazione nasce dal consenso (= dall’accordo delle parti) nei casi di compravendita, locazione conduzione, società, mandato. 136: E se diciamo che in codeste quattro fattispecie le obbligazioni si contraggono col consenso, è per la ragione che in esse non si esige alcuna particolare formalità orale o scritta, ma basta che coloro che gestiscono l’affare abbiano raggiunto l’accordo. Sicché tali negozi si concludono anche tra assenti, per lettera o mediante un messaggero, mentre l’obbligazione verbale non può invece formarsi fra assenti. 137: Ancora, in questi contratti ciascuna parte risulta obbligata rispetto all’altra alle prestazioni che l’una deve eseguire a favore dell’altra ex bono et aequo 18, mentre invece nelle obbligazioni verbali una parte stipula e l’altra promette, come nei nomina transscripticia una parte, facendo l’expensilatio, obbliga l’altra, e l’altra risulta obbligata. 138: Però l’expensilatio può farsi nei confronti di un assente, benché un’obbligazione verbale non possa contrarsi con un assente. [Segue la trattazione dei quattro contratti consensuali menzionati – compravendita, locazione, società, mandato – fino al § 162. Dopo di che Gaio inserisce una digressione sull’acquisto per mezzo di altri, nonché la trattazione dei modi di estinzione delle obbligazioni (§ 168-181: vedi vol. II,1 cap. Va § 6-6.5).] 182: Passiamo ora alle obbligazioni che nascono da delitto, come quando alcuno abbia effettuato un furto, rapinato dei beni, cagionato danno (a cose), commesso iniuria (aggressione ad un uomo libero); l’obbligazione che riguarda tutti questi casi consiste di un unico genere, mentre le obbligazioni da contratto si distinguono in quattro generi,
17 Per questo giuramento obbligatorio si veda Gai. ep.2,9,4 (è il luogo corrispondente alla seconda parte di Gai.3,96) e Ven. D.40,12,44 pr. 18 Preferisco non tradurre ex bono et aequo. Di per se stessa l’espressione alluderebbe ad una determinazione secondo equità del contenuto delle prestazioni dovute da ciascuna parte: ma, come vedremo, con quelle parole Gaio si riferisce al diverso criterio della buona fede. Sarebbe stato più semplice e preciso, in effetti, che egli scrivesse ‘quod alterum alteri ex fide bona praestare oportet’, in coerenza con l’intentio della formula delle azioni che sanzionavano i contratti consensuali.
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come sopra abbiamo esposto. [Gaio prosegue illustrando le quattro specie delle obbligazioni da delitto, fino al § 225, col quale conclude la trattazione delle obbligazioni e insieme il terzo libro del suo manuale istituzionale]
Come si vede, la classificazione delle fonti d’obbligazione non è soltanto enunciata all’inizio della trattazione istituzionale che Gaio fa della materia (Gai.3,88-89): essa ne regge tutta l’esposizione, come ossatura sistematica. Questo schema gaiano, con i suoi pregi e i suoi difetti, sarà per noi un punto di riferimento costante in tutto questo libro: e saranno magari proprio i difetti ad offrirci l’occasione per certi approfondimenti importanti della materia. In ogni caso, dovremo infine riuscire a comprendere bene che cosa Gaio intendesse dirvi, e perché – per quali ragioni storiche o dommatiche – lo dicesse. Nel primo approccio che ne faremo in questo primo paragrafo mi limito ad esporre alcune osservazioni preliminari: [A] sull’impiego, che Gaio vi fa, dei concetti diairetici di genere e specie, [B] sulla nozione di contractus che Gaio vi adotta, [C] sui criteri in base ai quali Gaio effettua le sue divisiones (diairesi). [A] La prima osservazione. È ovvio notare – lo si fa sempre, perché la cosa si vede ictu oculi alla prima lettura dei due paragrafi iniziali – che nella costruzione diairetica gaiana è invertito l’ordine dei generi e delle specie: Gaio divide la materia delle obbligazioni in due specie (obbligazioni da contratto e obbligazioni da delitto), e poi divide la specie delle obbligazioni da contratto in quattro generi (re, verbis, litteris, consensu); quanto alla specie delle obbligazioni da delitto fa poi (Gai.3,182), dal punto di vista logico, la stessa cosa, anche se solo per dire che non v’è diairesi per queste obbligazioni, sicché le considera come consistenti in un unico genere. Ora, questa impostazione di Gaio – con la divisio in species che precede quella in genera – non rappresenta un suo errore, bensì una sua scelta 19. Si tenga anzitutto presente che la classificazione adottata da Gaio viene ad ordinare il contenuto della materia trattata (le obbligazioni o, se vogliamo: l’obbligazione) su tre livelli: il più alto (la summa divisio) è quello delle nozioni di obbligazione da contratto e obbligazione da delitto; sotto di questo sta il livello delle nozioni di obbligazione contratta re, obbligazione contratta verbis, obbligazione contratta litteris, obbligazione contratta consensu, alle quali non corrispondono, per le obbligazioni da delitto, concetti equivalenti; il terzo livello è quello della tipologia dei contratti e dei delitti (mutuo, stipulatio, nomen transscripticium, compravendita, locazione, società, mandato; furto, rapina, danno aquiliano, iniuria). Ora, lo strumentario concettuale della dialettica non aveva tre nozioni diairetiche per tre livelli, ma soltanto due: genus e species. 19 La spiegazione che propongo è piuttosto orientata nel senso di quella del MARTINI, Genus e species nel linguaggio gaiano, in Synteleia Arangio-Ruiz I, Napoli 1964, 462 ss., che non in quello di ORESTANO, Obligationes e dialettica (1959), in ORESTANO, Scritti III, Napoli 1998, 1343 ss.
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Ciò non rappresentava una difficoltà operativa 20, perché nulla vieta di riprendere la classificazione a partire da qualunque punto del già classificato. Per esempio, Gaio avrebbe potuto operare così: l’oggetto della sua analisi essendo l’obligatio, dopo averla divisa nei due genera dell’obligatio ex contractu e ex delicto, avrebbe potuto ripartire dall’obligatio ex contractu come (nuovo) oggetto di analisi e dividerla nei genera delle obbligazioni re, verbis, litteris, consensu contractae, sicché poi mutuo, stipulatio, vendita etc. sarebbero venuti a rappresentare le specie di questi generi. In altre parole, gli strumenti operativi dei genera e delle species sono sufficienti per operazioni diairetiche di qualunque estensione; essi diventano insufficienti solo quando lo scopo dello scienziato sia quello di presentare in un unico panorama contestuale tutto il contenuto del campo osservato, con tutte le diairesi possibili. Per questo le scienze naturali moderne, specie a partire dal XVIII secolo, hanno ampliato la gamma delle categorie disponibili nelle classificazioni con più livelli, introducendo ad esempio quelle di famiglia, ordine e classe.
Ora, siccome Gaio voleva presentare un sistema unitario osservabile, per così dire, con un unico colpo d’occhio, doveva necessariamente impiegare (non era stato il primo a farlo) gli strumenti disponibili in sequenza continua, senza ripartire da zero, cioè senza considerare come (nuovo) punto di partenza per l’operazione diairetica un’entità già prima definita come genere o come specie. Accettato tutto ciò, non solo non ha molto senso criticare Gaio perché stabilisce la sequenza delle sue diairesi nell’ordine species-genus-species invece che genus-species-genus. D’altra parte, per scegliere come ha scelto, egli aveva due imprescindibili ragioni: anzitutto che la diairesi delle obbligazioni re, verbis, litteris, consensu, almeno per i primi tre membri, era già stata stabilita fin dall’epoca di Quinto Mucio come serie di genera di obbligazioni, e non era certo il caso di definirla diversamente; in secondo luogo, la tipologia finale delle singole fonti (mutuo, stipulatio, vendita, locazione etc., ed i singoli delitti, cioè furto, rapina etc.) dovevano risultare come una serie di species 21, trattandosi degli individui finali non divisibili di tutta la classificazione, così com’era concepita. Cioè come sistematica generale delle obbligazioni, che giunge dunque a collocare nel sistema le diverse fattispecie contrattuali o delittuali, cioè i diversi tipi di contratto o delitto. La descrizione speciale di ciascun tipo potrà comportare che esso sia fatto oggetto di diairesi ulteriori, ma il singolo tipo costituirà allora il punto di partenza di una nuova 20 Un’esposizione, semplice ma – credo – sufficientemente chiara, di modi e scopi della divisio per genera e species è presente in CANNATA, SG I, 218 ss. Nella letteratura romanistica l’opera principale che riguarda questa tematica è comunque quella – alquanto difficile per vero – del TALAMANCA, Lo schema genus-species nelle sistematiche dei giuristi romani, Roma 1977 (da: Colloquio italo-francese: La filosofia greca e il diritto romano (1973) II. Accademia nazionale dei Lincei, Quaderno N. 221). 21 Per vero, Gaio parla rispettivamente di species e genera per i due primi livelli; degli elementi dell’ultimo – quello della tipologia dei contratti e dei delitti – non qualifica formalmente in modo espresso la loro posizione nella classificazione, anche se il fatto che si tratti di species emerge con chiarezza dall’insieme della sua costruzione, ed anche espressamente almeno nel ‘Sed haec species obligationis’ di Gai.3,91.
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operazione che si ridurrà ad una divisio in genera. Gaio stesso riferisce della discussione sui “generi di furto” (genera furtorum: Gai.3,183), citando in proposito le opinioni di Servio, Labeone e Sabino.
[B] La seconda osservazione preliminare. La divisio iniziale (summa divisio) di Gaio è fatta con riferimento alle nozioni di contratto (contractus) e delitto (delictum). Quel che richiede un chiarimento, è il senso in cui Gaio impiega il termine contractus; infatti, la sua terminologia è in proposito varia, perché egli non parla solo di obligatio che “nasce da contratto” (ex contractu nascitur, § 88; obligationes quae ex contractu nascuntur, § 89), ma anche di obligatio che contrahitur 22. Potrebbe provenirne il sospetto che Gaio si esprimesse in questo modo perché quel ch’egli contrapponeva all’obbligazione da delitto era genericamente l’obbligazione originata da qualunque altro fatto che non sia un delitto; come si dice talora oggi: ogni obbligazione da fatto lecito 23. Ma certamente non è così. La nozione di contractus che Gaio impiega nella sua divisio obligationum si definisce come un accordo delle parti diretto alla produzione d’obbligazioni. La certezza di questa conclusione ce la fornisce Gaio stesso, come suol dirsi, apertis verbis. Leggendo sopra il § 91 della sua trattazione, si è visto che egli giustificava l’opinione di coloro che ritenevano non necessaria l’auctoritas tutoris perché un pagamento indebito ricevuto da un pupillo o da una donna producesse l’obbligazione di restituire al solvens quanto ricevuto, scrivendo: ‘Sed haec species obligationis non videtur ex contractu consistere, quia is qui solvendi animo dat magis distrahere vult negotium quam contrahere’. Non si tratta di un semplice enunciato; Gaio vi compie un’analisi dommatica precisa del pagamento: colui che paga non ha la volontà di ‘contrahere negotium’, cioè di “porre in essere (con l’altro che riceve il denaro) un affare”, bensì quella di ‘distrahere negotium’, ‘eliminare un affare (già instaurato con il suo partner)”. Ora, siccome da questo Gaio trae la conseguenza che l’obbligazione di restituire l’indebito non va considerata “prendere esistenza da un contratto” (non videtur ex contractu consistere), ciò significa appunto che il contratto è per Gaio un affare posto in essere da un soggetto con un altro soggetto. La cosa si fa ancor più chiara considerando che nel contesto di questa frase il contratto preso in considerazione come punto di partenza era il mutuo, e l’aspetto contrattuale del mutuo dipende dall’accordo fra le parti sulla causa (causa credendi) della prestazione del denaro (o delle altre cose mutuate); ma anche il pagamento consiste in una traditio accompagnata dall’accordo causale (sulla causa solven22 Gai.3,89; 90. Vedi anche sopra, n. 11. Sul significato di contrahere e contractus si veda l’accurata indagine del WUNNER, Contractus, Köln/Graz 1964, 4-42. 23 L’espressione “obbligazione da fatto lecito” non è scorretta, come lo è invece quella di “responsabilità da fatto lecito” (vedi CANNATA, Sul problema, 5 s.), quando vuole indicare la responsabilità da inadempimento (o cattivo adempimento), il quale è pur sempre un illecito.
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di) 24: ed è proprio a questi accordi che evidentemente si riferisce Gaio per affermare che il pagamento non costituisce un contratto: perché non c’è volontà diretta a creare obbligazioni, mentre nel mutuo questa volontà esiste. Del resto, che Gaio considerasse ex contractu le obbligazioni che dipendono da un accordo delle parti diretto a crearle risulta anche in modo chiaro dal fatto che tutti i tipi di fonti d’obbligazione ex contractu di cui egli parla implicano un simile accordo – anche la dotis dictio, il iusiurandum liberti e i chirografi –, salvo beninteso il pagamento d’indebito, che egli, e proprio per questa ragione, esclude espressamente dal novero dei contratti (haec species obligationis non videtur ex contractu consistere). [C] La terza osservazione preliminare. Si tratta ora di determinare quale sia il criterio in base al quale sono stabilite le due prime diairesi della classificazione, e cioè che cosa differenzi le obbligazioni da contratto da quelle da delitto, e cosa permetta di distinguere tra loro le obbligazioni contrattuali che si formano re, verbis, litteris e consensu. Quanto alle diairesi del terzo livello, è chiaro che i singoli contratti si differenziano per la natura dell’affare che ciascuno realizza e i singoli delitti per la natura della condotta sanzionata: in altre parole, a ciascuno dei tipi (species) di contratto o delitto corrisponde una fattispecie diversamente definita. Ma cerchiamo di impostare tutto il discorso in modo più preciso. Finora ho piuttosto insistito sul fatto che la classificazione gaiana che stiamo studiando è una classificazione delle fonti delle obbligazioni. In realtà – basta leggerne l’inizio – essa è formalmente impostata come classificazione delle obbligazioni: Nunc transeamus ad obligationes. Quarum summa divisio in duas species diducitur … Certo, in sostanza, tutta questa ‘divisio obligationum’, questa “classificazione delle obbligazioni” è stabilita con riferimento alle loro fonti ed è concepita come un discorso sulle fonti: la stessa divisio iniziale (summa divisio) è infatti già indicata con riferimento al modo in cui un’obbligazione nascitur: come l’obbligazione “nasce”, cioè si produce, viene ad esistere. Tuttavia, dicendo che qualunque obbligazione nasce da contratto o da delitto (vel ex contractu vel ex delicto), la diairesi che si propone ha sempre per oggetto le obbligazioni, sicché la differenza tra le due species non va cercata in una differenza tra contratto e delitto, ma tra obbligazione da contratto e obbligazione da delitto. Se così stanno le cose, Gaio doveva pensare che la differenza fra le due specie sta nel fatto che l’obbligazione da contratto è sanzionata con azione reipersecutoria e l’obbligazione da delitto con azione penale. A questa idea conduce anche la stretta omogeneità dei concetti che Gaio impiegava nella summa divisio delle obbligazioni e di quelli che fondavano il discorso che nelle Istituzioni si legge più avanti, all’inizio del quarto libro, dove si classificano le azioni. 24
Vedi nel vol. II,1 p. 285 (in fine, dopo la n. 705) s.; anche vol. I p. 310 s.
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Ritengo vera questa affermazione, anche se per accettarla si deve superare una difficoltà che proviene dall’esposizione di Gaio relativa alle azioni. (Devo avvertire il lettore che questa digressione esplicativa sarà alquanto lunga e complessa: se, dunque, il lettore intende seguire il filo principale del discorso che sto conducendo, può saltare interamente tutto il presente brano scritto in caratteri piccoli). Riferisco anzitutto sinteticamente quanto si legge in Gai.4,1-9, riportando gli enunciati che ora specialmente ci interessano: Gai.4,1: 25 quot genera actionum sint, verius videtur duo esse, in rem et in personam. … 26. 2: In personam actio est, qua agimus cum aliquo, qui nobis vel ex contractu vel ex delicto obligatus est, id est cum intendimus DARE FACERE PRAESTARE OPORTERE. Traduco: “Resta da parlare delle azioni. E se ci chiediamo quanti siano i generi delle azioni, sembra più corretto (dire) che sono due: (le azioni) in rem e (le azioni) in personam. … 2: È in personam l’azione che esercitiamo contro uno che è obbligato verso di noi da contratto o da delitto, cioè quando la nostra pretesa (espressa nell’intentio della formula che usiamo) è che (il convenuto) deve dare facere praestare 27”. Siccome quelle che ci interessano sono le azioni in personam, possiamo tralasciare qui il § 3, dove Gaio definisce le azioni in rem 28, ed anche i seguenti §§ 4-5, che riguardano bensì le azioni in personam, ma per aspetti particolari che toccheremo altrove. Quelli che ancora ci interessano in modo particolare sono i §§ 6-9, dove Gaio distingue tra azioni reipersecutorie e azioni penali. Noterò subito, prima di iniziare la lettura, che Gaio sembra applicare questa distinzione solo alle azioni in personam, mentre in realtà essa rappresenta ancora una divisio di tutte le azioni 29; però, l’atteggiamento di Gaio non dà luogo, alla fin fine, ad equivoco alcuno perché, essendo le azioni in rem tutte reipersecutorie 30, la differenza tra i due generi delle azioni reipersecutorie e delle azioni penali si appalesa unicamente in rapporto alle azioni in personam. La lettura dei testi relativi a quanto ho detto or ora ci offre però subito una sorpresa, perché in realtà Gaio non enuncia una diairesi in due generi (azioni reipersecutorie, azioni penali), ma in tre generi, perché accanto alle azioni reipersecutorie e a quelle penali egli ne individua altre, che rivestono insieme carattere reipersecutorio e penale, sicché risultano, in questa prospettiva, da classificare come “azioni miste” 31. Solo che, come potremo facilmente constatare, questa categoria delle azioni “miste” rappresenta con ogni probabilità un’aggiunta fatta da Gaio stesso ad una divisione tradizionale, ed un’aggiunta assai mal co-
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Così integrava lo HUSCHKE, basandosi su I.4,6 pr. Nel seguito della frase Gaio riferiva e criticava una diversa tesi che divideva le azioni in quattro generi. Vedi vol. II,1 p. 124 con la n. 124. 27 Di questa triade dei verbi che indicano la prestazione dovuta si è parlato nel vol. II,1 cap. V § 1 (p.14 s.), trattando di Paul. D.44,7,3 pr., dove essa pure ricorre (vedi anche, su praestare, p. 132 ss., a proposito di Ulp. D.21,2,31). Va notato che se i tre verbi, considerati nel loro insieme, esprimono bene il carattere della prestazione come possibile oggetto di un’obbligazione, essi non sono adatti a descrivere, come invece fa Gaio, il tenore dell’intentio di un’actio in personam, perché il verbo praestare non vi compariva mai. 28 Lo abbiamo considerato nel vol. I cap. IVc (p. 399 ss.). 29 Cfr. I.4,6,16. 30 Cfr. I.4,6,17. 31 Così le denomineranno in effetti gli autori delle Istituzioni imperiali: I.4,6,16, e così fanno ancor oggi i romanisti. 26
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struita, la quale conduce ad una vera e propria sciatteria dommatica. Seguiamo comunque quanto egli scrive: Gai.4,6: Agimus autem interdum, ut rem tantum consequamur, interdum ut poenam tantum, alias ut rem et poenam. 7: Rem tantum persequimur velut actionibus, ex contractu agimus. 8: Poenam tantum sequimur velut actione furti et iniuriarum et secundum quorumdam opinionem actione vi bonorum raptorum: nam ipsius rei et vindicatio et condictio competit. 9: Rem vero et poenam persequimur velut ex his causis, ex quibus adversus infitiantem in duplum agimus; quod accidit per actionem iudicat, depensi, damni inae Aquae, a legatorum nomine quae per damnationem certa relicta sunt. La traduzione: “Talora agiamo in giudizio per ottenere unicamente la cosa 32, talora per ottenere unicamente una pena, altre volte per ottenere tanto la cosa quanto una pena. 7: Perseguiamo solo la cosa come con le azioni che esercitiamo in base ad un contratto (ex contractu). 8: Perseguiamo solo una pena come con l’azione di furto (actio furti) e d’ingiurie (= aggressioni alla persona; è l’actio iniuriarum) e secondo l’opinione di alcuni anche con l’azione per la rapina (actio vi bonorum raptorum): infatti per (riottenere) la cosa stessa ci spetta tanto la rei vindicatio quanto la condictio 33. 9: Cosa e pena le perseguiamo entrambe nei casi 34 nei quali agiamo in duplum contro il convenuto che non
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La parola res (cosa) qui, come nell’aggettivo reipersecutoria (attributo di actio nell’espressione actio reipersecutoria) o nell’espressione rei persecutio, sta a significare l’oggetto (entità economica) che l’attore pretende spettargli, e si contrappone alla pena (poena), in quanto questa rappresenta solo la punizione del convenuto quale autore di un delitto. Questa differenza non può essere compresa se si osservano i fenomeni sotto il profilo della sostanza, perché così anche la pena rappresenta una somma di denaro che spetta all’attore in quanto dovutagli in forza di un’obbligazione. La differenza emerge invece sotto il profilo processuale, perché lo scopo dell’azione reipersecutoria è di restaurare l’equilibrio patrimoniale che l’ordinamento prevede e protegge, e che risulta compromesso, mentre lo scopo dell’azione penale è quello di punire il convenuto per aver commesso un’infrazione che l’ordinamento prevede e punisce come tale. Dal punto di vista delle strutture, dunque, l’attore di un’azione penale agisce nell’interesse pubblico, per realizzare la punizione, prevista dalla legge o dall’editto pretorio, di un delinquente; il fatto che il convenuto sia condannato a pagare la pena all’attore e non alle casse dello Stato costituisce solo lo strumento tecnico per compensare l’attore di questa sua attività nell’interesse pubblico. Su tutto ciò ritorneremo più avanti, a suo luogo. Quanto alle locuzioni alle quali mi riferivo all’inizio di questa nota, va detto che quella di actio reipersecutoria è estranea alle fonti, che non impiegano del tutto l’aggettivo persecutorius (nelle fonti latine antiche, giuridiche e no, esso è presente solo in C.10,74,1 pr. a. 409, nella forma persecutoria, ma il corrispondente – originale – C.Th.12,8,1 ha invece prosecutoria): essa è una creazione dei romanisti, che usano anche correntemente “azione reipersecutoria” in italiano; si legge anche “sachverfolgende Klage” in tedesco e “action réipersécutoire” in francese. 33 Gaio argomenta, per dimostrare il carattere puramente penale (= di persecutio poenae) di queste azioni, dal fatto che per perseguire la restituzione della cosa rubata (cioè per la rei persecutio) l’attore ha a disposizione altre azioni reipersecutorie (rei vindicatio e condictio), che concorrono (in concorso cumulativo) con l’azione penale. Questa argomentazione vale però evidentemente solo per l’actio furti e l’actio vi bonorum raptorum; nel caso dell’actio iniuriarum non ci sarebbe nulla da rivendicare né da condicere. 34 Il lettore avrà notato che, nell’insieme dei testi che abbiamo letto in questo § 1, Gaio introduce spesso le sue enumerazioni con velut(i), congiunzione che in se stessa significa “come; per
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confessi, il che avviene con l’actio iudicati 35, con l’actio depensi 36, con l’actio ex lege Aquilia per il danneggiamento 37, o per l’azione che spetta per i legati con oggetto certo lasciati per damnationem (= con effetto obbligatorio) 38.” Ora, uno sguardo alle fonti escerpite dai compilatori nel Digesto ci permette di stabilire con sufficiente certezza che i giuristi impiegavano bensì le nozioni di azione reipersecutoria e azione penale nello stesso senso che queste assumono in Gai.4,6-8, ma vediamo anche altrettanto chiaramente che l’idea delle azioni nelle quali tanto l’aspetto reipersecutorio quanto quello penale sono presenti era del tutto diversa da quella descritta in Gai.4,9. Dalle stesse fonti – alle quali appartengono pure alcuni passi dello stesso Gaio, ma tratti da opere diverse dalle Istituzioni – si ricava altresì l’impressione che, se alle nozioni di azione penale e reipersecutoria corrispondevano bensì due concetti dommatici, questi concetti non erano usati come genera di una divisio (diairesi) delle azioni 39: ma, se questa può restare un’impressione, appare invece del tutto certo che nella mente dei giuristi non aveva posto un tertium genus di azioni miste – comunque denominate –: solo essi sottolineavano talora che in certe azioni penali è presente pure una rei persecutio, o viceversa che certe azioni reipersecutorie posseggono qualche connotato che le avvicina alle azioni penali. Un concreto sguardo sulle fonti principali chiarirà quanto sto dicendo. a) In una serie di testi, parlandosi di un singolo tipo di azione, si dice che tale azione rei persecutionem continet per stabilire che non si tratta di un’azione penale, e quindi si trasmette all’erede del soggetto al quale spetta, si dà contro l’erede del soggetto che ne risulta passivamente legittimato 40, e, nel caso si tratti di azione pretoria, essa è perpetua e non annale 41. Come testi concepiti in questo senso possiamo citaesempio; ad esempio come”: ma Gaio l’impiega indifferentemente dove l’enumerazione sia palesemente esemplificativa (Gai.3,92; 4,7) e dove essa sia esauriente o almeno lo dovrebbe essere secondo il suo modo di vedere (Gai.3,90; 3,128; 3,182). Io ho seguito, nella traduzione, questo suo modo di esprimersi, ma non nel punto al quale si riferisce la presente nota, dove Gaio ha bensì scritto velut, ma è evidente che, se appare esemplificativa l’enumerazione dei tipi che segue quod accidit, esemplificativa secondo lui non vuol essere l’indicazione che identifica la categoria delle azioni con le quali rem et poenam persequimur con l’insieme delle azioni nelle quali ha luogo la litiscrescenza, se almeno le s’intende – ma Gaio non poteva ragionare altrimenti – di azioni in se stesse reipersecutorie. 35 Sull’actio iudicati vedi vol. I p. 120; vedi anche vol. II,1 p. 51 ss. 36 Per l’actio depensi vedi nel vol. II,1 p. 152 n. 211. 37 Dell’actio ex lege Aquilia e del damnum iniuria datum parleremo ampiamente a suo luogo, ma vedi già brevemente qui, infra, nel brano che s’inizia presso la n. 82. 38 L’allusione è all’actio ex testamento certi, di cui si parlerà a suo luogo. 39 Vedi anche le considerazioni del WACKE, Actio rerum amotarum, Köln/Graz 1963, 115 s. 40 Quelli della limitata trasmissibilità attiva e dell’intrasmissibilità passiva erano caratteri delle azioni penali: se ne parlerà espressamente a suo luogo. 41 La regola che, secondo l’insieme delle fonti escerpite nel Digesto, era applicata dalla giurisprudenza classica era nel senso che le azioni penali pretorie erano esperibili entro l’anno (la regola fu definita da Cassio, secondo Ulp. D.44,7,35 pr., dove ‘ut tamen-similibus’ è difficilmente comprensibile e deve ritenersi corrotto), e non tutte le azioni pretorie, come invece parrebbe dire Gai.4,110-111, dove l’enunciato alla fine del § 110 deve considerarsi forse solo espresso con troppa approssimazione. Il tema è trattato con compiutezza dall’AMELOTTI, La prescrizione delle azioni in diritto romano, Milano 1958, 23 ss.
LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI
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re 42: Ulp. Pomp. D.4,9,3,4 (actio adversus nautas, caupones, stabularios ut recepta restituant 43; rei persecutionem continet); Ulp. D.13,1,7,2 (condictio ex causa furtiva 44; rei habet persecutionem); Ulp. Marcell. D.13,5,18,2 (actio de pecunia constituta 45; … utrum poenam contineat haec actio an rei persecutionem: et magis est, ut etiam Marcellus putat, ut rei sit persecutio); D.16,1,10 (riguarda le due azioni 46 date ex senatus consulto Velleiano nel caso in cui una donna intercessit pro alio 47; habent enim rei persecutionem); Ulp. D.16,3,7,1 (actio depositi 48; … quamquam enim alias ex dolo defuncti non solemus teneri nisi pro ea parte quae ad nos pervenit, tamen hic dolus ex contractu reique persecutione descendit …); Ulp. D.25,5,1,4 (riguarda l’azione data contro la donna che, essendo stata immessa nel possesso di beni ventris nomine, cioè nell’interesse del nascituro di cui è incinta, abbia dolosamente trasferito ad altri tale possesso 49; rei habet persecutionem); Ulp. D.29,4,12,1 (riguarda l’azione data dal pretore al soggetto beneficiario di un legato in forza di un testamento, contro l’erede istituito nello stesso testamento, il quale non abbia accettato l’eredità testamentaria per succedere come erede legittimo frodando così i legatari 50; magis est enim rei persecutionem quam poenam continere); Ulp. D.38,5,3,1 (riguarda l’azione – con formula Fabiana o Calvisiana – che spetta al patrono per recuperare i beni dei quali un suo liberto abbia disposto in modo da frodarne le aspettative ereditarie protette ai sensi dell’editto pretorio 51; habet rei persecutionem); Ulp. D.39,2,4,10 (si riferisce all’azione accordata a chi avesse richiesto la cautio damni infecti, ove il pretore avesse ordinato all’avversario di prestarla e questi non l’avesse prestata e poi non avesse neppur permesso all’istante – a seguito dei relativi ulteriori provvedimenti pretori – di in possessione esse e di possidere l’immobile pericolante 52; rei habeat persecutionem 53); Ulp. D.42,1,6,3 (actio iudicati 54; rei persecutionem continet); Ulp. D.43,16,3,1 (si parla dell’azione data in id quod ad eum pervenerit, cioè nei limiti dell’arricchimento, contro l’erede di colui che abbia effettuato una deiectio sanzionata con l’interdictum de vi armata 55; in ea rei persecutio continetur) 56. In due casi, nei quali l’azione scaturisce dal com42 Dopo la citazione di ogni passo aggiungo fra parentesi l’indicazione dell’azione di cui si tratta e, dopo un punto e virgola, l’espressione usata nel testo per indicare il suo carattere reipersecutorio. 43 LENEL, EP, 131. 44 Gai.4,4; vedi anche Ulp. D.13,1,9. 45 LENEL, EP, 247 ss. 46 Paul. D.16,1,1,2. 47 Su nozione e casistica dell’intercedere pro alio della donna vedi KASER, RPR I, 667; sulle azioni LENEL, EP, 187. 48 Gai.4,47. 49 LENEL, EP, 313 s. 50 LENEL, EP, 363 s. 51 LENEL, EP, 352 s. (Ulp. D.38,5,1 pr.); KASER, RPR I, 709. 52 Ulp. D.39,2,7 pr. come ripreso da LENEL, EP, 372. Sulle nozioni di in possessione esse contrapposto a possidere vedi brevemente nel vol. I, p. 183. 53 Vedi già Ulp. D.39,2,4,7: … iudicium datur: quod non ad quantitatem refertur, sed ad id quod interest, et ad utilitatem venit, non ad poenam. 54 Vol. II,1 p. 52; LENEL, EP, 443 ss. 55 Sull’interdetto vedi vol. I, p. 232 s.; sull’azione data al deiectus contro l’erede del deiciens Ulp. D.43,16,3 pr. 56 Si può aggiungere, anche se impostato diversamente, Ulp. D.47,2,52,27: Si quis iuraverit se
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portamento chiaramente fraudolento di un soggetto, si precisa bensì che essa non deve considerarsi diretta alla punizione del suo autore, bensì solo alla riparazione del danno sofferto dall’altra parte, ma la sua provenienza dalla frode influisce in qualche modo sul regime. Così, in relazione con Iul. D.14,4,8 (actio tributoria 57; quia non de dolo est, sed rei persecutionem continet … quamvis non aliter quam dolo interveniente competat) viene precisato da Ulp. D.14,4,7,5 che l’azione di cui si tratta è data bensì in perpetuo, ma contro l’erede (del pater o dominus contro il quale originariamente spettava) solo nei limiti di quanto pervenutogli (de eo dumtaxat quod ad eum pervenerit), cioè dell’arricchimento 58. L’altro caso è quello dell’actio in factum che il pretore dava de alienatione iudicii mutandi causa facta. Si trattava di un’azione che il pretore accordava 59 per il caso nel quale un soggetto, passivamente legittimato ad una certa azione, avesse, allo scopo di rendere più gravosa la posizione dell’attore, alienato la cosa alla quale il giudizio si riferiva in modo da costringerlo ad agire contro un convenuto diverso e per lui più scomodo o difficile 60. In proposito, Ulp. D.4,7,4,6 chiarisce che Haec actio non est poenalis, sed rei persecutionem arbitrio iudicis continet, quare et heredi dabitur: in heredem autem (segue in D. eod. 6 61) vel post annum non dabitur, e la ragione è addotta nel Digesto usando un brano di Gaio (D. eod. 7): quia pertinet quidem ad rei persecutionem, videtur autem ex delicto dari. Traduco: “(fr. 4,6) Quest’azione non è penale, ma ha come contenuto la rei persecutio realizzata con arbitrato del giudice, e verrà data all’erede (del soggetto attivamente legittimato); però contro l’erede (del soggetto passivamente legittimato) (fr. 6) o dopo trascorso un anno non sarà data, (fr. 7) perché essa riguarda bensì la rei persecutio,
furtum non fecisse, [-] furti quidem actio peremitur, rei tamen persecutio domino servatur. Vi si dice che se un soggetto, convenuto con l’actio furti, abbia prestato il giuramento decisorio di “non aver commesso il furto” (furtum se non fecisse) di cui si tratta, l’actio furti contro di lui vien meno, ma il proprietario della cosa rubata ne conserva la rei persecutio. L’allusione alla rei persecutio dovrebbe intendersi limitata alla rei vindicatio della cosa, se si crede a Ulp. Iul. D.12,2,13,2 (testo che si considera in genere rimaneggiato) nel quale si afferma che secondo Giuliano il giuramento ‘furtum se non fecisse’ liberava (in forza dell’exceptio iuris iurandi) il suo autore anche dalla condictio ex causa furtiva, perché passivamente legittimato a questa è solo il ladro. Vedi AMIRANTE, Il giuramento, Napoli 1954, 124 s., che però sottovaluta il nostro D.47,2,52,27, in quanto non tiene conto del fatto che l’inciso deinde rem furtivam contrectet esige l’aggiunta iniziale di nec, come propose il MOMMSEN: io, nel riportare il passo, ho soppresso l’inciso, perché mi sembra una glossa. 57
Il passo va letto nel contesto di Ulp. D.14,4,7,2-14,4,9 pr., nel quale il frammento di Giuliano è inserito. La sequenza parla dell’actio tributoria, che veniva accordata contro il paterfamilias che avesse dolosamente (dolo malo) omesso di chiamare al concorso (previsto dall’editto pretorio con riguardo alla peculiaris merx di cui si dirà subito, aumentata di ogni provento risultante dall’affare in cui è stata impiegata: Ulp. D.14,4,1 pr.; 5,5; Gai.4,72), o fatto partecipare al concorso in misura minore del dovuto uno dei creditori risultanti dalla gestione commerciale (Ulp. Ped. D.14,4,1,1) di merce appartenente ai beni peculiari (peculiaris merx: Ulp. D.14,4,1,2) del filius o dello schiavo, gestione effettuata da costoro sciente patre dominove (Ulp. D.14,4,1,3). Vedi Gai.4,72 (integrato secondo P. Oxy. 2103: FIRA II, p.203). 58 Vedi da ultimo CHIUSI, Contributo allo studio dell’editto de tributoria actione, Roma 1993, 372 s. 59
LENEL, EP, 125 ss.
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Vedi Gai. D.4,7,1 pr. e l’ampia casistica presente in tutto il relativo titolo del Digesto.
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Il fr. 5, di Paolo, possiamo tralasciarlo.
LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI
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ma risulta concedersi in base ad un delitto”. Si noterà che il fatto che l’azione reipersecutoria traesse la sua origine da un delitto non dava luogo a conseguenza alcuna in particolare nel caso della condictio ex causa furtiva (vedi Ulp. D.13,1,7,2 cit. sopra): ma nel caso del furto l’azione penale (actio furti) e le azioni reipersecutorie (rei vindicatio e condictio furtiva) erano distintamente previste, mentre nel caso de alienatione iudicii mutandi causa facta un’unica azione era disponibile. Però nessun dubbio pare sorgesse neppure per l’actio rerum amotarum, della quale si dice in Paul. D.25,2,21,5: Haec actio, licet ex delicto nascatur, tamen rei persecutionem continet et ideo non anno finitur, sicut et condictio furtiva; praeterea et heredibus competit 62. b) L’espressione poenae persecutio compare anch’essa in qualche testo, ma in genere essa equivale praticamente ad “azione penale”, solo considerata in modo, per così dire, dinamico: l’esercizio dell’azione penale 63. Vale invece la pena di leggere interamente Gai. D.47,2,55,3: Cum furti actio ad poenae persecutionem pertineat, condictio vero et vindicatio ad rei reciperationem, apparet recepta re nihilo minus salvam esse furti actionem, vindicationem vero et condictionem tolli; sicut ex diverso post solutam dupli aut quadrupli poenam salva est vindicatio et condictio 64. La contrapposizione fra poena e rei persecutio si trova anche in due testi in materia di actio sepulchri violati 65, a proposito della
62 “Questa azione, benché nasca da un delitto, contiene tuttavia una rei persecutio, e pertanto non si prescrive in un anno, così come pure la condictio furtiva; inoltre essa spetta agli eredi”. Con queste parole Paolo voleva senz’altro, io credo, affermare il carattere reipersecutorio dell’azione (sul tema vedi WACKE, Actio cit. 115 ss.), la quale era data dal pretore al marito, dopo il divorzio, contro colei che fu sua moglie, per le cose rubategli da costei durante il matrimonio “in vista del divorzio” (divortii causa). Paul. D.25,2,1+ Gai. eod., 2. Essa voleva sostituire l’infamante actio furti ed era considerata analoga ad una condictio furtiva (Gai. D.25,2,26). LENEL, EP, 308 ss. 63 Gai. D.9,2,32 pr., per esempio. Non riguardano il tema qui trattato due testi. Il primo è Ulp. D.4,8,9,2, dove con poenae persecutio (come in Ulp. D.4,8,2 con poenae petitio) si allude all’azione per pretendere il pagamento della pena convenzionale che le parti, quando si accordavano col compromissum per affidare la soluzione di una loro controversia ad un arbiter privato, si promettevano reciprocamente per il caso non avessero rispettato poi il lodo arbitrale; la pena era stipulata, e l’azione relativa era quindi una condictio e non un’azione penale. Il secondo è Marcian. D.48,16,1,4, che riguarda la lex Remnia de calumniatoribus (ROTONDI, 363; SANTALUCIA, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, Milano 1998, 180 s. n. 253) e quindi il processo penale pubblico. Un impiego di poena simile a quello di Ulp. D.4,8,9,2, e questa volta contrapposto espressamente a rei persecutio, si legge in Pap. D.18,7,7, dove il giurista spiega che per una pena convenzionale, pattuita in un contratto di vendita senza stipulatio, si può agire con l’azione contrattuale (actio venditi) solo se l’azione è giustificata da un danno subìto: vix est, ut eo nomine vindictae ratione venditor agere possit, acturus utiliter, si non servata lege in poenam quam alii promisit inciderit: il venditore potrà agire utilmente solo se (il testo è casistico), a causa del mancato rispetto della clausola penale da parte del compratore, il venditore si trovi a dover pagare una pena da lui promessa ad un terzo: quidquid enim excedit, poena non rei persecutio est. 64 “Siccome l’actio furti riguarda la persecuzione della pena, mentre la condictio e la vindicatio riguardano il recupero della cosa, è chiaro che, una volta che sia stata recuperata la cosa, l’actio furti permane tuttavia, mentre la vindicatio e la condictio vengono meno; come, reciprocamente, dopo che sia stata pagata la pena del doppio o del quadruplo, permangono vindicatio e condictio”. L’actio furti, come vedremo a suo luogo, era l’azione penale contro il ladro, e serviva per condannare costui alla pena del quadruplo (in caso di furto flagrante) e del doppio (in caso di furto non flagrante) del valore della cosa rubata. 65 Ulp. D.47,12,3 pr., da leggere con LENEL, EP, 228 s. L’azione era pretoria, penale, in bonum et aequum se esperita da soggetti interessati; ma siccome, in mancanza di interessati o se
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quale Papiniano (D.47,12,10) precisava che chi l’esperisse vittoriosamente non ne avrebbe conseguito id … quod in rei persecutione, sed in sola vindicta sit constitutum 66 e Ulpiano (D.29,2,20,5) affermava: haec enim actio poenam et vindictam, quam rei persecutionem continet. c) Abbiamo infine una serie di testi nei quali in certe azioni si ravvisa la coesistenza di funzione reipersecutoria e funzione penale: e vedremo subito che la prospettiva in essi adottata non è affatto quella in base alla quale Gaio costruì nelle Istituzioni il tertium genus delle azioni con le quali rem et poenam persequimur. Possiamo aprire la rassegna con un passo di Gaio stesso, che si riferisce all’azione prevista sotto la rubrica edittale de publicanis, per il caso in cui un publicanus (appaltatore d’imposte pubbliche) 67 o i suoi collaboratori schiavi o liberi 68 avesse, nell’esercizio della sua attività pubblica, sottratto con la forza beni ad un privato 69. L’azione era in duplum (post annum in simplum), ma era data si id restitutum non erit (se ciò – vale a dire: quanto sottratto – non sarà stato restituito) 70. A quest’ultimo proposito scriveva Gaio: D.39,4,5 (Gai. ad ed. praet. urbani tit. de publicanis): Hoc edicto efficitur, ut ante acceptum quidem iudicium restituta re actio evanescat, post acceptum vero iudicium nihilo minus poena duret.[sed tamen absolvendus est etiam qui post acceptum iudicium restituere paratus est.] 71 1: Quaerentibus autem nobis, utrum duplum totum poena sit et praeterea rei sit persecutio, an in duplo sit et rei persecutio, ut poena simpli sit, magis placuit, ut res in duplo sit. Traduco: “Con questo editto si ha che l’azione vien meno con la restituzione della cosa (= dell’insieme delle cose sottratte) effettuata prima della litis contestatio (del relativo processo), ma (se la restituzione ha luogo) dopo la litis contestatio la pena permane (= deve essere comunque irrogata). [-] 1: E se ci chiediamo se il duplum rappresenti tutto gli interessati non volevano agire, chiunque poteva esperirla, in questo caso la pena era prevista dall’editto in una somma fissa di denaro. Si tenga presente che un sepolcro (Ulp. D.47,12,3,2) era sottratto alla proprietà privata (almeno normalmente: Gai.2,6) e quindi, se fosse stato violato, l’eventuale interesse dell’attore non poteva corrispondere ad un danno da lui subìto (cessat Aquilia: Ulp. D.47,12,2). 66 Cfr. la terminologia (vindictae ratione agere) usata in Pap. D.18,7,7, riportato sopra alla n. 63. In entrambi i luoghi, come pure nel testo di Ulpiano citato subito dopo, vindicta è usato nel senso di “vendetta”, ad indicare, cogliendone il carattere – per così dire – psico-sociale, la pena inflitta per iniziativa della parte lesa con l’esercizio della sua azione penale privata. 67 Ulp. D.39,4,1,1. Sui publicani si veda sempre il bel libro della CIMMA, Ricerche sulle società di publicani, Milano 1981. 68 La familia publicanorum, che è definita in Ulp. D.39,4,1,5. 69 L’azione data quod publicanus vi ademerit (Ulp. D.39,4,1 pr.; LENEL, EP, 387) era concepita come azione speciale, rispetto a quelle comuni per fatti analoghi (in particolare l’actio furti manifesti e l’actio vi bonorum raptorum; Ulp. D.39,4,1,2-4). 70 Ulp. Pomp. D.39,4,1,4. 71 La frase tra parentesi quadre contrasta con quanto detto precedentemente ed implica una conclusione che escluderebbe il problema posto nel § 1 o almeno ne propone una soluzione che contrasta con quella che ivi adotta Gaio: la considererei un glossema piuttosto che un’interpolazione, ma comunque la frase non può essere genuina. La sua genuinità è, contro la maggioranza degli autori, difesa praticamente solo dal LEVY, Zur Lehre von den sog. actiones arbitrariae, in ZSS 36(1915), 72 n.1, sulla base di Ulp. D.13,7,9,5, ma non mi pare che l’argomento sia calzante, né comunque sufficiente.
LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI
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intero la pena, e la rei persecutio possa spettare a parte oltre a ciò (vale a dire: con le ulteriori azioni reipersecutorie appropriate, cioè la rei vindicatio o magari la condictio furtiva), ovvero nel duplum sia compresa anche la rei persecutio, cioè la pena sia del simplum, è prevalsa l’opinione che la res (= la pretesa restitutoria) sia compresa nel duplum 72”. Come si vede, qui Gaio, che scriveva prima di aver composto le Institutiones 73, interpreta, in conformità con l’opinione prevalente fra i giuristi (magis placuit), l’azione di cui si tratta come azione diretta tanto a rem quanto a poenam persequi, e si tratta bensì, come per le azioni miste delle Istituzioni, di una interpretazione in questo senso della condanna al duplum: ma qui il duplum non proviene affatto, com’era invece nelle Istituzioni, dalla litiscrescenza adversus infitiantem. La stessa interpretazione la troviamo in un testo di Paolo (D.27,3,2,2) 74 per l’actio rationibus distrahendis, azione (in duplum) a disposizione del pupillo, da lui esperibile alla fine della tutela 75 ove risultasse che il tutore, gerendola, aveva asportato dei beni al pupillo 76. Vengono infine in considerazione i testi – che direi i più interessanti – nei quali si tratta di azioni indubbiamente penali, dicendo che esse rei persecutionem continent, volendosi con ciò affermare che la pena per esse prevista ha essa stessa anche funzione reipersecutoria. Ora, in un caso, si tratta di un’azione con pena calcolata in un multiplo del valore dell’oggetto preso in considerazione, per cui qui un’analisi analoga a quelle che abbiamo or ora considerate è ancora astrattamente possibile, benché assente dal testo: si tratta dell’actio quod metus causa 77, che intra annum era data in quadruplum, e della quale si dice che viene data anche ai successori del soggetto al quale spettava, quoniam et rei habet persecutionem 78: si deve però tener conto del fatto che il carattere penale dell’actio quod metus causa deve considerarsi attenuato perché, a tenore almeno di un testo di Paolo (D.4,2,14,15), in casi di concorso di più soggetti nel fatto dannoso (si plures metum adhibuerint), se l’azione fosse stata esercitata contro uno solo, essa non era più esperibile contro gli altri non soltanto se il convenuto avesse restituito in corso di giudizio in esecuzione dell’ordine di restituere del giudice, ma anche se, condannato, avesse eseguito il giudicato 79. Ma vi sono anche
72 E dunque che il publicanus (di questi soggetti tratta il testo, come si desume anche dalla inscriptio) convenuto, che abbia restituito dopo la litis contestatio, debba essere condannato in simplum, cioè alla sola pena. 73 D.39,4,5 proviene dal commentario all’editto del pretore urbano, che in Gai.1,188 è menzionato dall’autore stesso come sua opera precedente. 74 Haec actio licet in duplum sit, in simplo rei persecutionem continet, non tota dupli poena est. Vedi anche Tryph. D.26,7,55,1 in fine. Del testo di Paolo (che non piaceva punto alla critica interpolazionistica; vedi Ind. itp. ad h. l.) il LEVY, Die Konkurrenz der Aktionen und Personen I, Berlin 1918, 144 scorge bene il rapporto (logico) con Ulp. D.27,3,1,23, ma vi considera spuri in simplo e non-est, supponendo un’operazione interpolazionistica assai poco verosimile. 75 Ulp. D.27,3,1,24. 76 Paul. D.27,3,2 pr. KASER, RPR I, 364; l’azione era già prevista nelle dodici tavole e quindi esperibile con legis actio: KASER, 89. In origine spettava solo contro il tutore legittimo, ed è discusso se l’estensione agli altri tipi di tutela (cfr. Ulp. D.27,3,1,19) fosse già avvenuta in epoca classica. 77 LENEL, EP, 112. 78 Ulp. D.4,2,14,2 in fine, da si annus largiretur (parole che vanno intese “se l’anno non sia ancora finito”, come traduce DTuÜ II: “wenn die Jahresfrist noch nicht verstrichen ist”); Ulp. D.4,2,16,2; KUPISCH, In integrum restitutio und vindicatio utilis, Berlin/New York 1974, 235 con la n. 481. 79 Il testo dice ‘ex sententia quadruplum restituerit’, ma è accettabile l’idea di correggere restituerit in praestiterit: BESELER, Beiträge III, Tübingen 1913, 155. La chiusa del passo è stata
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testi nei quali la duplice funzione – penale e reipersecutoria – è attribuita ad azioni in simplum, ed un primo esempio è rappresentato dall’actio in factum che il pretore accordava disciplinando la situazione creatasi con la missio in possessionem che veniva attribuita in funzione della bonorum venditio 80; nel testo seguente si parla in particolare dell’azione data contro il soggetto immesso nel possesso dei beni 81, se per suo dolo siano state deteriorate cose oggetto della missio in possessionem a lui fatta: D.42,5,9,8 (Ulp. 62 ad ed.): Si possessionis causa deterior facta esse dicetur dolo eius, qui in possessionem missus sit, actio in eum ex dolo datur, quae neque post annum neque in heredes ceterosque successores dabitur, cum ex delicto oriatur poenaeque nomine concipiatur, D. 42,5,10 (Paul. 59 ad ed.): nisi quatenus ad eum pervenit; D. 42,5,11 (Ulp. 62 ed ed.): heredi autem dabitur, quia et rei continet persecutionem. Cioè: “(Ulp.9,8:) Se si dirà che, in ragione del possesso, (una cosa) sia stata deteriorata per dolo di colui che sia stato immesso nel possesso, viene data azione contro di lui sulla base del dolo, la quale azione non verrà data né dopo l’anno né contro gli eredi e gli altri successori, in quanto nasce da delitto ed è concepita a titolo di pena, (Paul. 10:) se non nei limiti dell’arricchimento; (Ulp. 11:) mentre sarà data all’erede, perché contiene anche la rei persecutio”. Ma l’esempio più chiaro di queste azioni penali in simplum, nelle quali all’azione stessa è riconosciuta anche funzione reipersecutoria, ed anzi alla pena stessa, nel suo intero, funzione reipersecutoria (cioè risarcitoria per l’attore) oltre che punitiva (per il convenuto) è quello dell’actio ex lege Aquilia; e siccome si tratta di uno dei casi epressamente menzionati in Gai.4,9, possiamo qui apprezzare interamente il divario profondo tra la concezione presente nelle Istituzioni gaiane e quella corrente presso i giuristi classici. Esaminiamo dunque questo tema con precisione. Il regime dell’actio ex lege Aquilia possiamo per ora 82 sintetizzarlo così: essa spettava al proprietario di una cosa contro colui che l’avesse con colpa distrutta o danneggiata, per farlo condannare ad una somma di denaro equivalente al valore del danno sofferto. L'actio ex lege Aquilia era senza dubbio un’azione penale 83: in caso di concorso di persone nel fatto dannoso l’azione era esperibile per l’intero contro ciascuno dei concorrenti e il suo esercizio contro l’uno non liberava gli altri 84, e ancora, la lex Aquilia stessa variamente sospettata di interpolazione (vedi Ind. itp. anche nel Suppl.), ma, nel complesso, non mi pare vi siano ragioni sufficienti per rovesciare la soluzione presente nel passo, come faceva il Beseler stesso nel luogo or ora cit. 80 Vedi nel vol I, p. 122 (in fine) ss. La disciplina era prevista nel titolo edittale (XXXIX nella ricostruzione del LENEL, EP, 423 ss.) de bonis possidendis proscribendis vendundis. Qui interessa soprattutto la clausola edittale ‘Si quis, cum in possessione bonorum esset, …’ (Ulp. D.42,5,9 pr.; LENEL, EP, 424, § 215). 81 La legittimazione attiva o passiva alle azioni che l’editto prevedeva a questo proposito (vedi il cit. D.42,5,9 pr.) era genericamente attribuita nell’editto stesso ei, ad quem ea res pertinebit (= al soggetto opportuno), perché le azioni erano previste per casi diversi e la situazione poteva comunque presentarsi diversamente: vedi Ulp. D.42,5,9,3, dove si enumerano il curator bonis distrahendis datus, il debitore stesso o il (o un) creditore. Per l’azione che ci interessa, la legittimazione passiva è sempre del soggetto che è stato immesso nel possesso dei beni del debitore. 82 Ne parleremo espressamente ed ampiamente nel prosieguo di questo corso. 83 CANNATA, Sul problema, 8 s. con l’esame di Iul. D.9,2,51 pr.-3. 84 Ulp. Iul. D.9,2,11,2 dove si motiva: nam ex lege Aquilia quod alius praestitit alium non relevat, cum sit poena. Sulla cumulatività, propria delle obbligazioni da delitto, si è già detto brevemente nel vol. II,1 p. 135.
LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI
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prevedeva l’azione nossale 85 per il caso in cui il fatto fosse stato commesso da uno schiavo senza la consapevolezza del proprio dominus. Ora, i giuristi si erano posti questo problema pratico: se, in un caso concreto, contro il soggetto che avesse cagionato ad altri un danno aquiliano 86 fosse esperibile, per gli stessi fatti, un’azione reipersecutoria, come poteva risolversi il relativo problema di concorso delle due azioni? Il problema si poneva perché, da un lato, la regola del ius civile secondo la quale non si poteva agire due volte de eadem re 87 non impediva il concorso cumulativo di un’azione reipersecutoria con un’azione penale, in quanto esse, per definizione, non erano de eadem re, ma d’altra parte, siccome la pena dell’actio ex lege Aquilia corrispondeva al valore della cosa, anzi – almeno al tempo della giurisprudenza classica – era calcolata sull’interesse dell’attore (id quod interest), e cioè nella misura del valore del danno sofferto dall’attore valutato allo stesso modo nel quale sarebbe stato valutato in un’azione contrattuale, appariva evidentemente ingiusto che il soggetto danneggiato potesse in pratica pretendere due volte dal danneggiante il risarcimento del danno sofferto 88. Sulla base di queste considerazioni, il concorso dell’actio ex lega Aquilia con un’azione reipersecutoria veniva dunque evitato, e ciò si era deciso precisamente sulla base della constatazione che l’azione aquiliana rei persecutionem continet: ciò è detto espressamente in Paul. D.44,7,34,2 per un caso di concorso fra actio commodati 89 e actio legis Aquiliae (utraeque enim actiones rei persecutionem continent) e in Paul. D.17,2,50 per un caso di concorso fra l’azione aquiliana e l’actio pro socio 90, dove Paolo motivava ‘utraque actio ad rei persecutionem respicit, non ut furti ad poenam dumtaxat’, e cioè “entrambe le azioni riguardano la rei persecutio, non come l’actio furti (che riguarda) unicamente la pena”, dove la precisazione finale con l’allusione comparativa all’actio furti è evidentemente fatta solo con riguardo all’azione aquiliana. Proprio da quest’ultima affermazione si ricava che, affermando che
85 Gai.4,76; cfr. I.4,8,4; Ulp. D.9,2,27,2-3; Ulp. D.9,4,2 pr.-1; LENEL, EP, 199. Sulle azioni nossali si dirà nel cap. IV di questo stesso volume. 86 Così si usa denominare oggi, anche da parte dei civilisti, il danneggiamento corrispondente alla fattispecie sanzionata dalla lex Aquilia, ora da norme come quelle dell’art. 1382 CCfr; art. 2043 CCit[1942]; § 823 BGB; Art. 41 OR. 87 La regola risaliva alle legis actiones (Gai.4,108); nel processo formulare, il regime relativo conobbe un’importante modifica con la lex Iulia iudiciorum privatorum del 17 a. C.: su tutto ciò vedi vol. I, p. 111 ss. La regola – che si usa esprimere dicendo bis de eadem re ne sit actio o bis de eadem re agere non licet – vietava evidentemente in origine solo la replica della medesima azione fra le stesse parti e relativamente alla stessa pretesa basata sugli stessi fatti; ma la giurisprudenza la intese come un divieto a che lo stesso soggetto agisse contro un altro facendo valere la stessa pretesa sulla base degli stessi fatti, indipendentemente dal tipo di azione esercitata: quel che risulta dunque vietato nel processo formulare è semplicemente l’agire de eadem re (Ulp. D.44,2,5). La seconda azione – almeno dopo la lex Iulia – poteva risultare impedita ipso iure ovvero mediante opposizione, da parte del convenuto, dell’exceptio rei iudicatae o rei in iudicium deductae (vol. I, p. 113). 88 Rinvio ancora per una trattazione più precisa dei problemi suscitati dall’applicazione della lex Aquilia alla prosecuzione di questo corso. Per ora cito il testo più generale in materia di concorso dell’azione aquiliana con altre azioni (Paul. D.44,7,34 pr.-2) e rinvio a CANNATA, Sul problema, 8 ss., in particolare il brano a p. 10 con le n. 42-45. 89 Era l’azione, evidentemente reipersecutoria, che spettava al comodante contro il comodatario che non avesse restituito la cosa oggetto del contratto. 90 Era l’azione, anch’essa chiaramente reipersecutoria, che sanzionava i rapporti fra le parti di un contratto di società.
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l’azione aquiliana tende alla rei persecutio, il giurista non voleva affermare che essa fosse da considerarsi un’azione reipersecutoria, ma che essa, pur essendo un’azione penale, conteneva anche la rei persecutio. Ciò risulta pure, del resto, dalla struttura del meccanismo tecnico impiegato per evitare il concorso che, per il caso di concorso fra azione aquiliana e actio ex locato, si desume da Gai. D.19,2,25,5 e Paul. D.19,2,43 91. Consideriamo, come esempio, il caso dell’ultimo di questi testi: AA ha dato in locazione il proprio schiavo Stico a NN, e durante la locazione NN ha ferito lo schiavo; se AA avesse esercitato per prima l’azione aquiliana ottenendovi la condanna di NN al valore del danno sofferto, e poi esercitasse l’azione contrattuale ex locato, da quest’ultima azione NN uscirebbe assolto, non sulla base della considerazione processuale che AA agiva de eadem re, bensì in base alla considerazione sostanziale che AA, avendo ottenuto con la prima azione quel che NN gli avrebbe dovuto, in forza del contratto di locazione, alla stregua del principio di buona fede, nulla più NN doveva ad AA 92; se invece AA avesse esercitato per prima l’azione ex locato, nel corso del giudizio di questa il giudice, una volta stabilito che NN doveva ad AA una certa somma di denaro corrispondente alla diminuzione di valore dello schiavo in quanto ferito da NN, prima di condannare NN nella misura di tale somma, avrebbe – naturalmente, su richiesta da parte di NN stesso – imposto ad AA l’onere di prestare a NN una cautio 93, garantendogli che non avrebbe agito contro di lui con l’actio ex lege Aquilia per gli stessi fatti. Come si vede, il concorso cumulativo viene così evitato senza negarne la possibilità giuridica in sé, cioè senza negare che le due azioni (ex locato e ex lege Aquilia) sarebbero in se stesse cumulabili per la loro diversa natura. Appare dunque ben chiaro che l’actio ex lege Aquilia risulta bensì essere un’azione nella quale sono considerati presenti tanto il carattere penale quanto quello reipersecutorio, ma ciò per ragioni che non hanno nulla a che fare con quel che nella stessa azione ravvisava Gai.4,9: la litiscrescenza (esperibilità in duplum adversus infitiantem), sulla quale nelle Istituzioni era basato il carattere misto dell’azione, qui non viene per nulla in considerazione. Anzi, accettando il modo di vedere adottato da Gaio nelle Istituzioni, e cioè limitando il carattere penale dell’azione aquiliana a quel duplum proveniente dalla litiscrescenza, si verrebbe a negare del tutto il carattere di pena alla sanzione prevista dalla legge aquilia, in contrasto con le fonti giurisprudenziali (ne abbiamo viste diverse, come Ulp. Iul. D.9,2,11,2; eod. 51,2; Paul. D.17,2,50): del resto, se il dulpum da litiscrescenza può essere considerato una pena, si tratta evidentemente di una pena processuale e non sostanziale. Riprendiamo ora in discorso che avevamo interrotto con questo lungo chiarimento.
Al secondo livello – lo abbiamo già constatato – c’è una sola diairesi: quella delle obbligazioni da contratto perché, posto che quelle da delitto appartengo91
Vedi già CANNATA, Sul problema, 10 n. 44 (che si trova a p. 37). L’actio ex locato era infatti un iudicium bonae fidei, secondo l’intentio formulare del quale il giudice doveva stabilire che cosa, in forza del contratto, il convenuto doveva ancora – al momento del processo – dare o fare ex fide bona a favore dell’attore, per condannarlo poi ad una somma di denaro equivalente. Nel nostro caso, essendo il convenuto già stato condannato al risarcimento dovuto, la somma alla quale condannarlo sarebbe stata nulla. Anche se il convenuto non avesse ancora pagato la somma alla quale era stato condannato con l’azione aquiliana, questa somma egli non la doveva all’attore in forza del contratto attualmente dedotto in giudizio, ma in forza del giudicato dell’azione (aquiliana) precedente. 93 Si trattava di una stipulatio giudiziale: vedi nel vol. II,1, p. 109 ss. 92
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no tutte ad un solo genere (Gai.3,182), in quel ramo del sistema una diairesi non ha ragion d’essere. Le obbligazioni da contratto, invece, vengono divise in quattro generi, ancora in base alla struttura della loro fonte: aut re contrahitur obligatio, aut verbis aut litteris aut consensu (Gai.3,89). Il criterio discretivo di questa diairesi è molto particolare. Siccome siamo in presenza di quattro generi di obbligazioni contrattuali, le fattispecie costitutive d’obbligazione di tutti e quattro i generi devono presentarsi come fattispecie contrattuali e, come già abbiamo visto, il connotato caratteristico della fattispecie contrattuale è per Gaio la presenza dell’accordo delle parti. Che Gaio pensasse precisamente così lo si constata con chiarezza da un dettaglio del suo discorso. Quando egli definisce il genus delle obbligazioni che si contraggono consensu, e cioè con l’accordo delle parti, abbiamo visto che diceva: Gai.3,136: Ideo autem istis modis consensu dicimus obligationes contrahi, quia neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur, sed sufficit eos qui negotium gerunt consensisse. Con ciò – è inutile che ripeta la traduzione che si è già letta sopra – Gaio dice precisamente che queste obbligazioni si individuano come contratte consensu, cioè con l’accordo delle parti, perché l’accordo delle parti è, di per sé solo, sufficiente (sufficit) a produrle, il che significa: perché si producano le obbligazioni degli altri tre generi il consenso è sempre necessario, ma esso non basta, in quanto per la loro produzione è necessario ancora qualcos’altro; qui, invece, il puro e semplice consenso produce già le obbligazioni. Confrontando le obbligazioni consensu contractae con quelle contratte verbis e litteris, nel medesimo testo Gaio precisa ulteriormente: perché si formi un’obbligazione contratta verbis è necessaria – oltre all’accordo delle parti – una verborum proprietas, una particolare forma orale; perché si formi un’obbligazione contratta litteris è necessaria – oltre all’accordo delle parti – una scripturae proprietas, una particolare forma scritta. Gaio non completa il confronto precisando quale proprietas sia necessaria, oltre al consenso delle parti, per la formazione di un’obbligazione re contracta. Seguendo il filo del suo pensiero, potremmo dire che qui la proprietas necessaria non è una forma particolare, ma il trasferimento della proprietà delle cose che saranno poi oggetto dell’obbligazione di restituirle: ma Gaio lascia da parte questo dettaglio, e ci avverrà forse più in là di capire che scelse di non parlarne perché facendolo sarebbe entrato in un ginepraio forse per lui inestricabile, ma comunque inadatto alla semplicità che voleva mantenere al suo manuale istituzionale 94. Così, comunque, abbiamo potuto renderci conto di quale sia il criterio che 94
Nel ginepraio noi entreremo infra, nel prossimo capitolo.
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regge la divisio delle obbligazioni da contratto nei suoi quattro generi. I verba, le litterae, e la res, intesa come datio rei (trasferimento della proprietà di una cosa) e il consensus sono, per le fattispecie dei rispettivi generi, il fatto che dà luogo al sorgere dell’obbligazione. Bisogna avere ben chiaro che questi quattro elementi (elementi di fatto) non esauriscono ciascuno la rispettiva fattispecie creativa dell’obbligazione: ciascuno di essi rappresenta solo, nella relativa fattispecie, il fatto conclusivo, rispetto al quale gli altri elementi funzionano come presupposti. Le fattispecie delle fonti d’obbligazione sono costruite dando ad un certo fatto tale ruolo perché si vuole che nelle rispettive ipotesi l’obbligazione si formi appunto al verificarsi di quel fatto: esso dunque assume, in ciascuna fattispecie di fonte d’obbligazione, la specifica funzione di fatto produttivo dell’obbligazione stessa. Per fare un esempio: se B ottiene da A l’accordo per un mutuo di 100 HS, il fatto che il diritto romano abbia costruito l’obbligazione da mutuo come obbligazione re contracta impedisce a tale accordo di produrre obbligazione finché il denaro mutuato non sia pervenuto in proprietà di B; l’acquisto della proprietà delle specie monetarie, che B otterrà come effetto della traditio che A gli abbia fatta in base all’accordo di mutuo, produrrà in B l’obbligazione di restituire un’uguale somma di denaro. Questa costruzione del contratto di mutuo ha due conseguenze: i) siccome le obbligazioni da mutuo non nascono al momento del consenso delle parti, ma con l’acquisto da parte del mutuatario della proprietà delle cose mutuate, nessuna obbligazione può nascere prima che la traditio venga effettuata; in particolare, in forza dell’accordo di mutuo, il mutuante non risulta obbligato a dare a mutuo 95; ii) siccome l’obbligazione da mutuo, che è quella del mutuatario di restituire quanto ha ricevuto, nasce dall’acquisto della proprietà delle cose mutuate, essa non può avere ad oggetto che la somma ricevuta: dunque il mutuatario non può risultare obbligato a corrispondere interessi al mutuante 96.
A questo punto, credo, abbiamo un’idea dei contenuti e dell’impostazione complessiva che Gaio scelse di dare alla divisio obligationum. Questo risultato rappresenta per noi soltanto un punto di partenza per la ricostruzione, che faremo, del sistema romano delle fonti d’obbligazione e della sua storia e che – lo si constaterà facilmente – non sarebbe possibile senza il riferimento sicuro alla concezione gaiana. A proposito della quale resta ora un’ultima osservazione marginale. 95 Invece, ad esempio, siccome il diritto svizzero costruisce il mutuo come contratto consensuale, l’accordo di mutuo obbliga il mutuante a dare a mutuo: Art. 312 OR. 96 Questo secondo punto risulterà interamente chiaro solo quando avremo potuto stabilire (nel prossimo capitolo) il senso preciso del re obligari. Nel diritto romano, un mutuo con interessi era ovviamente ben possibile, ma per gli interessi si doveva fare un’apposita stipulatio. Questa regola resta anche nel diritto svizzero, perché l’obbligazione del mutuatario alla restituzione vi nasce pur sempre dalla ricezione del mutuo. Solo, naturalmente, invece della stipulatio, che i diritti moderni non conoscono più, gli interessi devono essere previsti con uno specifico accordo. Il mutuo commerciale, tuttavia, produce naturalmente interessi (Art. 313 OR).
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Come già mi era occorso di notare, la divisio di Gaio si presenta come riferita alle obbligazioni che scaturiscono da fonti appartenenti al ius civile: precisamente nel senso che si tratta di istituti accessibili ai cittadini romani, vuoi perché appartengono al ius civile in senso stretto, vuoi perché appartengono al ius gentium e quindi risultano accessibili anche agli stranieri (peregrini), come già sappiamo essere, ad esempio, per la stipulatio fatta senza impiegarvi il verbo spondere 97; ne restano così escluse le fonti d’obbligazione appartenenti esclusivamente al ius honorarium. Questa impostazione non impedisce a Gaio di farvi alcune annotazioni di diritto straniero, menzionando il diritto di singole comunità straniere 98 ed una volta istituti esclusivamente appartenenti, in generale, al diritto dei peregrini 99. E non gli impedisce neppure di menzionare istituti pretori quando si tratti di complementi o correzioni essenziali del regime civilistico di un istituto 100. In un solo caso Gaio opera una sorta di speciale assimilazione di un istituto pretorio: fra i delitti egli enumera (Gai.3,182) anche la rapina (si bona rapuerit) come si trattasse di un istituto della stessa natura civilistica di furto, danno aquiliano e iniuria, e solo poi, parlandone in particolare (Gai.3,209), chiarisce che si tratta bensì di un caso speciale di furto, ma che l’azione mediante la quale esso è specificamente sanzionato è un’azione pretoria.
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Gai.3,93-94. Vedi nel vol. II,1, p. 63 s. A proposito della possibilità che un giuramento crei obbligazione al di fuori del caso del iusiurandum liberti: Gai.3,96: Nam apud peregrinos quid iuris sit, singularum civitatium iura requirentes aliud intellegere poterimus; a proposito della possibilità che l’erede del fidepromissor peregrino sia tenuto, se alio iure civitas eius utatur (Gai.3,120). 99 Col che (Gai.3,124) s’intende, evidentemente, che si tratta di istituti (le singrafi e i chirografi) presenti in diversi diritti stranieri, non necessariamente in tutti. Per misurare esattamente la rilevanza pratica di questi riferimenti che Gaio faceva ai diritti stranieri, si pensi che al suo tempo i territori stranieri in questione erano normalmente le province stesse dell’Impero Romano. 100 È il caso dell’actio in quadruplum pretoria contro il fur manifestus, che ha sostituito il regime delle dodici tavole basato sulla poena capitalis (Gai.3,189; vedi vol. II,1 p. 57 con le n. 181183 [sub C]) e dell’azione in quadruplum per il furtum prohibitum, che colmava una lacuna della stessa legge (Gai.3,192; vedi nel vol. II,1 p. 55 n. 167). 98
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II I GENERI RELATIVI ALLA CONDICTIO SOMMARIO: 1. I generi relativi alla condictio. – 2. Verbis obligari. – 3. Litteris obligari. – 4. Re obligari. – 4.1. L’arricchimento ingiustificato.
1. I GENERI RELATIVI ALLA CONDICTIO. – Nel Digesto sono riportati numerosi passi del commentario di Pomponio ai libri iuris civilis di Quinto Mucio Scevola pontifex 1. A noi interessa ora il seguente, e incominciamo leggendolo nella forma in cui la compilazione giustinianea ce lo propone 2: D.46,3,80 (Pomp. 4 ad Q. Muc.): Prout quidque contractum est, ita et solvi debet: ut, cum re contraxerimus, re solvi debet: veluti cum mutuum dedimus, ut retro pecuniae tantundem solvi debeat. et cum verbis aliquid contraximus, vel re vel verbis obligatio solvi debet, verbis, veluti cum acceptum promissori fit, re, veluti cum solvit quod promisit. aeque cum emptio [vel] 3 venditio vel locatio contracta est, quoniam consensu nudo contrahi potest, etiam [dis]sensu contrario 4 dissolvi potest. “Come qualcosa si è contratto, così deve sciogliersi; ad esempio, quando abbiamo contratto re, deve sciogliersi re: come nel caso in cui abbiamo dato a mutuo, che deve pagarsi in senso inverso un’uguale somma di denaro; e quando abbiamo contratto qualcosa verbis, l’obbligazione deve sciogliersi o re o verbis: verbis, come quando si fa l’acceptilatio al promissor, re, come quando (questi) paga quel che ha promesso. Allo stesso modo, quando si
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In LENEL, Pal. II, 60-79 sono presenti 106 frammenti. Si stratta di un testo alquanto discusso; vedi CANNATA, La distinctio, cit. (sopra, cap. I n. 2), 439 ss. (= Scritti II, 221 ss.). 3 Questo vel è certo entrato nel testo per errore di uno scriba. 4 Come è chiaro, ‘dissensu contrario’ è sbagliato; la due correzioni possibili sono dissensu [contrario] e [dis]sensu contrario, ma solo quest’ultima è accettabile: oltre ai motivi che esponevo in CANNATA, La distinctio cit., 440 (sub a), si pensi semplicemente che la risoluzione consensuale del contratto si fa con un accordo (appunto un accordo contrario rispetto all’accordo contrattuale) e non col disaccordo (cfr. Ner. Arist. D.2,14,58, cit. nel prossimo cap. III). 2
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è contratta una compravendita o una locazione, siccome la si può contrarre col nudo consenso, deve potersi anche sciogliere con un consenso contrario.” Per ora mi limito a proporre questa traduzione – volutamente letterale nella misura del possibile, e quindi anche alquanto brutta –, rinviando ogni chiarimento al contesto dell’altra, che faremo subito, dopo aver tentato di ricostruire, nei limiti del probabile e del possibile, l’originale di Pomponio. Qui sopra mi sono limitato a correggere due piccoli errori materiali, che – tra Pomponio e Giustiniano – la tradizione manoscritta del testo vi ha inseriti. Aggiungo invece qualche informazione sulle opere dalle quali il testo proviene. Della biografia di Pomponio 5 non sappiamo praticamente nulla, ma è possibile stabilire con certezza che egli fu attivo sotto Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161) e i divi fratres (Marco Aurelio e Lucio Vero: 161-169): era dunque contemporaneo di Gaio, che pure scrisse dei libri ad Q. Mucium 6; un terzo giurista, Lelio Felice (Laelius Felix) 7, operò più o meno alla stessa epoca dei due 8. Ho citato anche Lelio, perché si tratta del terzo giurista a noi noto come autore di un commentario ai libri iuris civilis di Q. Mucio 9. Il rapporto cronologico fra queste tre opere – i soli tre commentari, per quanto ne sappiamo, ai libri iuris civilis di Scevola il pontefice – non può essere determinato; si può solo dire che il commentario di Pomponio, che constava di 39 libri 10, conteneva nel quinto libro una menzione dell’imperatore Adriano († 138) come già defunto 11, e che quello di Gaio, essendo menzionato nel primo libro delle Istituzioni, fu certo scritto prima del 161. Se si ammetta che il commentario di Pomponio sia stato scritto al tempo dell’imperatore Antonino Pio 12, e che la citazione di Gaio in Pomp. (22 ad Q. Muc.) D.45,3,39 si riferisse ad un’opinione che Gaio esprimeva nei propri libri ex Q. Mucio 13,
5 Per le notizie biografiche relative a Pomponio e la cronologia delle sue opere rinvio allo splendido studio del NÖRR, Pomponius oder “Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in AA.VV., Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II,15, Berlin/New York 1978, 497 ss. (sui libri ad Q. Mucium, p. 547 s.). 6 Lo sappiamo da Gaio stesso, che li menziona in Gai.1,188: … in libris quos ex Q. Mucio fecimus. 7 KRÜGER, Geschichte der Quellen und Literatur des Römischen Rechts2, München und Leipzig 1912, 189; KUNKEL, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen2, Graz/Wien/Köln 1967, 170. 8 Di lui è possibile solo determinare che era vivo durante l’impero di Adriano, sulla base dell’episodio, narrato da Paolo in D.5,4,3 dicendovi che Laelius lo riferiva come testimone oculare (Laelius scribit se vidisse), e questo Lelio va identificato con l’omonimo che Paolo menziona ancora come giurista in D.5,3,43 in relazione ad una quaestio nella quale era intervenuto anche Atilicino, e per la quale è citato anche un rescritto di Antonino Pio, che parrebbe Lelio non conoscesse. 9 Gell.15,27 riporta alcuni passi che dice (§ 1; cfr. § 4 e § 5) di leggere in libro Laelii Felicis ad Q. Mucium. 10 Il titolo esatto del commentario di Pomponio doveva essere, secondo LIEBS, Variae lectiones, in Studi Volterra V, Milano 1971, 72 ss.: Ad Q. Mucium lectionum libri XXXIX. 11 D.7,8,22 pr.: Divus Hadrianus … statuit … 12 Così LENEL, Pal. II, 60 n.1, che si basa su Pomp. D.7,8,22 pr. cit. e sul fatto che il contenuto dei frammenti che conosciamo non suggerisce una datazione successiva alla morte di Antonino Pio. 13 LENEL, Pal. I, 251 (Gaius, fr. 482).
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dovremmo desumerne che l’opera di Gaio precedette quella di Pomponio, o almeno la redazione del libro 22 di quest’ultima. Ma l’indizio è tenue 14. Quanto ai 18 libri iuris civilis di Quinto Mucio Scevola pontifex (140-82 a. C.), essi rappresentavano per i Romani la prima opera nella quale un giurista si fosse impegnato in una presentazione complessiva del ius civile 15. Anche se un certo carattere generale dovevano già avere avuto almeno i Tripertita di Sesto Elio, la cui attività si colloca attorno al 200 a. C., tra questi e i libri iuris civilis di Quinto Mucio vi era senza dubbio un’enorme stacco quanto al livello scientifico della trattazione, perché Quinto Mucio operava ormai dopo che i tre grandi fundatores della giurisprudenza moderna (Publio Mucio, che di Scevola pontifex era il padre, Bruto e Manilio) avevano perfezionato, conferendogli i suoi caratteri definitivi, il metodo della scienza giuridica 16.
Dall’insieme dei frammenti che ce ne sono noti, il commentario di Pomponio ad Quintum Mucium non può essere definito nel suo insieme come un commentario lemmatico 17, perché il pensiero dell’autore commentato non era sempre riferito con citazioni testuali. Tuttavia la forma lemmatica vi era spesso impiegata. In questi casi il luogo si presentava incominciando con un enunciato come ‘Quintus Mucius ait:’ o ‘scribit:’, seguito dal passo muciano, e quindi, dopo l’indicazione ‘Pomponius:’, recando il commentario di questi. Nel Digesto restano alcuni passi così strutturati 18, ma è naturale pensare che in origine essi 14
NÖRR, Pomponius cit., 512 n. 68. Nella sintetica storia della giurisprudenza romana, che presentava nel suo Enchiridium, Pomponio affermava senz’altro che Quintus Mucius Publii filius pontifex maximus ius civile primus constituit generatim in libros decem et octo redigendo (Pomp. D.1,2,2,41), dove l’avverbio generatim non significa, io credo, “impiegando diairesi in genera” (anche se questo impiego da parte di Scevola è certo, e lo vediamo pure nel testo che stiamo studiando), ma “in generale, nel suo complesso”. Vedi già CANNATA, SG I, 264 s. (e poi Qualche considerazione sull’ambiente della giurisprudenza romana al tempo delle due scuole, in Cunabula iuris [Studi Broggini], Milano 2002, 64 n. 33 = CANNATA, Scritti II, 409 n. 33). 16 Sul ruolo storico dei tre fundatores (Pomp. D.1,2,2,39) rinvio a CANNATA, SG I, 223 ss. (il § 2); quel che vi si dice a proposito di Ulp. Brut. D.9,2,27,22-23 (p.232 ss.) va completato con CANNATA, Il terzo capo della lex Aquilia, in BIDR 98/99 (1995/1996), 132 ss. (§ 7 e 8) = CANNATA, Scritti II, 261 ss. 17 Si usa denominare «lemmatico» il commentario ad un’altra opera – o comunque ad un altro insieme di testi – nel quale si riportano testualmente i passi dell’opera commentata (lemmi), a ciascuno dei quali l’autore del commentario fa seguire il proprio commento o le proprie deduzioni. Sul carattere dei libri di Pomponio ad Quintum Mucium sotto questo profilo vedi NÖRR, Pomponius cit., 547 (in fine) s. 18 Dal lib. 8: D.33,1,7; dal lib. 9: D.34,2,34 pr.; dal lib. 17: D.9,2,39; dal lib. 31: D.19,1,40. Con la sola indicazione ‘Q. M. scribit’: dal lib. 9: D.34,2,34,1 (secondo le annotazioni manoscritte dello SCHERILLO alla sua copia di LENEL, Pal. II, ad h. l. [Pomp. fr. 261], il commento di Pomp. cominciava da quod ipsum quantum …; poi, nel § 2, dove la citazione di Q. Mucio è fatta con discorso indiretto: tunc rectissime scribit Quintus Mucius …, il commento di Pomp. s’iniziava con ideoque ipso iure alienata …); dal lib. 18: D.40,7,29,1 (ma l’indicazione ‘Pomponius’ sembra allo SCHERILLO vada inserita prima di Labeo hoc …); dal lib. 31: D.18,1,66,2; dal lib. 32: D.8,3,15. Mi è caro menzionare certe annotazioni di Gaetano Scherillo, grande conoscitore delle fonti (nel primo dei luoghi citati egli segnava anche come spurie le parti [dominium-mutavit], [si in hoc15
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fossero assai più numerosi, e che molti di quelli che nel Digesto non presentano più questa struttura l’abbiano perduta per effetto del lavoro compilatorio, orientato nel senso della semplificazione e della soppressione del ricordo di discussioni fra giuristi. La dottrina romanistica ha spesso cercato di individuare i lemmi muciani, che in molti testi dovevano essere presenti 19. Quel che a noi ora interessa in particolare, si è che in D.46,3,80 lemma e commentario sono riconoscibili in modo evidente; aggiungendo nel lemma – in una forma che non può essere che congetturale – la menzione del litteris obligari, che i compilatori hanno sempre soppressa dove la leggevano 20 ma Quinto Mucio non poteva passare sotto silenzio, possiamo ragionevolmente presumere di avere restituito al testo il suo andamento originale: D.46,3,80 (Pomp. 4 ad Q. Muc.): Prout quidque contractum est, ita et solvi debet; ut, cum re contraxerimus, re solvi debet: veluti cum mutuum dedimus, ut retro pecuniae tantundem solvi debeat; et cum verbis aliquid contraximus, vel re vel verbis obligatio solvi debet: verbis, veluti cum acceptum promissori fit, re, veluti cum solvit quod promisit; aeque cum emptio [-] venditio vel locatio contracta est, quoniam consensu nudo contrahi potest, etiam [-]sensu contrario dissolvi potest. Una precisazione esegetica preliminare è necessaria, prima ancora di tradurre. Il tenore stesso dell’insieme del lemma muciano impone d’intendere 21 il debet della prima frase nel senso di “deve potersi” e non di “si deve”. Tale frase, infatti, enuncia quello che si usa denominare «il principio del contrarius actus» 22, secondo il quale un effetto giuridico si elimina con un atto contrario – cioè un atto della stessa natura ma diretto in senso opposto – rispetto a quello che lo ha prodotto: ma poi, nell’esemplificazione, le serie di atti enumerati come idonei ad eliminare l’effetto obbligatorio prodotto verbis e litteris (per l’effetto prodotto re un analogo problema non si poneva) comprendono anche atti che non sono contrari rispetto agli atti costitutivi (per verbis, re e verbis; per litteris, re e litteris). Possiamo ora tradurre così:
libram,], [deminuere-tunc], [sed si ex-petentem]). La Palingenesia di Lenel è stato veramente il libro della sua vita, ed a me è toccata la fortuna di ricevere, dopo la sua morte, la copia che teneva sempre a portata di mano. 19 Si veda soprattutto DI MARZO, Saggi critici sui libri di Pomponio ad Q. M. (1899), ripubblicato in Labeo 7 (1961), 218 ss.; 352 ss. 20 Cfr. I.3,21: … quae nomina hodie non sunt in usu … 21 KNÜTEL, Contrarius consensus, Köln/Graz 1968, 11 s. 22 Vedi già sopra, vol. II,1 p. 50 con la n. 147; p. 303 prima della (e con la) n. 784 a proposito di Gai.3,169-170.
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“ Secondo il modo in cui ciascun rapporto 23 è stato instaurato, così pure deve potersi sciogliere: come, quando abbiamo instaurato (un rapporto) re, deve essere sciolto re: per esempio quando abbiamo dato a mutuo, che deve pagarsi in senso inverso un’ugual somma di denaro; e quando abbiamo instaurato un qualche rapporto verbis (= con parole dette), l’obbligazione deve essere sciolta o re o verbis: verbis, come quando viene fatta l’acceptilatio (verbale) 24 al promissor, re, come quando (questi) paga quel che ha promesso; allo stesso modo quando sia stata conclusa una compravendita o una locazione, siccome la si può concludere col consenso puro e semplice, la si può sciogliere con un consenso contrario.”. Lo stacco fra la prima parte del testo – quella che abbiamo assegnato al lemma di Quinto Mucio – e la seconda – che abbiamo attribuito a Pomponio – è netto. Nella prima si propone una diairesi di tre genera obligationum per stabilire come una regola, quella del contrarius actus, si inserisca nel regime dell’estinzione proprio delle obbligazioni di ciascun genus. Nella seconda parte si propongono due tipi di fonte, compravendita e locazione, senza definire un ulteriore, corrispondente genus di obbligazioni, e si parla solo della possibilità di usare in relazione a quei due tipi la regola del contrarius actus, senza punto accennare al regime generale dell’estinzione dell’obbligazione ad essi proprio. E ciò si fa in quanto il carattere del discorso contenuto nella prima parte è tutto diverso dal carattere del discorso condotto nella seconda: la prima parte ha carattere espositivo o, se si vuole, di enunciato; la seconda rappresenta una deduzione tratta dalla prima ed applicata ai due contratti che vi si menzionano: deduzione operata sulla base dell’analogia (aeque = allo stesso modo), e l’analogia non è tratta dall’intero discorso della prima parte, ma da un punto di esso. Vi si vuol dire infatti solo: come quel che si è contratto re, verbis e litteris può rispettivamente sciogliersi re, verbis e litteris, poiché i due negozi qui menzionati si contraggono col nudo consenso, devono potersi sciogliere col nudo consenso. 23
Il (pronome) neutro quidque ha il valore di un sostantivo che contiene l’idea di “ciascuno” e alla lingua italiana fa difetto la possibilità di renderlo se non con il corrispondente aggettivo, ma come attributo di un sostantivo: “ciascuna cosa, ciascuna entità” e simili. Dovendo scegliere dunque un sostantivo, ho ritenuto opportuno scegliere qui “rapporto”, perché Q. Mucio sta parlando di obbligazioni, e perché dice che quel quidque è stato contractum, che a sua volta allude al legame formatosi (e cioè – così mi è parso appropriato tradurre – instaurato fra le parti). Queste scelte nella traduzione sono state fatte anche in vista del carattere della vicenda descritta nel testo, che parla di quel quidque che contractum est in vista del suo solvi, del fatto, cioè, che deve (o può) “essere sciolto”. 24 Vol. II,1 § 6.2. 25 Qui infra, § 3.
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Ciò prova che come diairesi – come divisio obligationum – Quinto Mucio proponeva solo quella re-verbis-litteris. Anche se si volesse supporre che il testo risalisse interamente a Quinto Mucio, resterebbe pur sempre il fatto che, come divisio obligationum, egli proponeva solo quella fra obbligazioni re contractae, verbis contractae e litteris contractae 26. Questa conclusione può essere illustrata con un riscontro interessante, che ci permette l’orazione ciceroniana pro Roscio comoedo 27. Si tratta di un’arringa che Cicerone pronunziò nell’anno 76 a. C., o poco dopo 28, in difesa di un attore di teatro assai noto a quel tempo 29, il quale si trovava ad essere convenuto nella condictio di una somma determinata di denaro. I fatti della causa erano alquanto complessi, ma sul punto essenziale, quello dell’esistenza del debito, l’argomentazione dell’avvocato era impostata in modo assai semplice: Cicerone sosteneva che la fonte dell’obbligazione di Roscio a pagare all’attore la somma pretesa non risultava provata. L’impostazione di questo punto del discorso difensivo risulta da due passaggi dell’orazione, assai sintetici e precisi 30; per evidenziare la logica che li collega, devo invertire l’ordine nel quale la costruzione dell’arringa ha indotto l’oratore a pronunziarli; ma è l’essenza del loro senso tecnico giuridico che qui ci interessa, e non la linea retorica del discorso in cui sono inserite: Cic., p. Roscio com.5,14: Pecunia petita est certa, cum tertia parte sponsio facta est. Haec pecunia necesse est aut data, aut expensa lata, aut stipulata sit. 26
Non dimentico che la menzione delle obbligazioni litteris contractae l’ho aggiunta io nella mia ricostruzione del testo: ma si tratta di un’aggiunta indiscutibilmente necessaria, e il tenore che le ho dato è – nella sostanza – il solo possibile. Il solo argomento che potrebbe usarsi per sostenere che anche la parte del testo che ho attribuito a Pomponio risaliva a Quinto Mucio potrebbe basarsi sull’osservazione che in tale parte non si impiega una nozione generale di contratto consensuale, nozione generale che – ciò sarà chiaro in seguito – certo Pomponio aveva, mentre probabilmente Scevola non la conosceva ancora. Io credo che la cosa si spieghi invece col fatto che il suo discorso sulla risoluzione consensuale Pomponio lo voleva fare per vendita e locazione e non per tutti i contratti consensuali. L’idea che l’intero testo, e quindi anche la chiusa, risalga a Quinto Mucio è stata sostenuta dal GALLO, Synallagma e conventio nel contratto I, Torino 1992, in part. p. 32 ss. 27 Su quanto segue, anche per la documentazione essenziale dei dati implicati, vedi il capitoletto I (§ 1-4) di CANNATA, Der Vertrag als zivilrechtlicher Obligierungsgrund in der römischen Jurisprudenz der klassischen Zeit, in Collatio iuris Romani (Études Ankum), Amsterdam 1995, 59 ss. Quel che qui scrivo in merito all’orazione ciceroniana p. Roscio com., lo riprendo da quel che in proposito già scrissi in CANNATA, Qualche considerazione sui nomina transscripticia, (Studi Nicosia, Torino 2007), ora in Scritti II, in part. 622 ss., e che ora riprenderò ampiamente nel § 3 di questo stesso capitolo. 28 Vedi M. GELZER, RE, 2. Reihe 13 (1939), 839. 29 Sull’eccellenza professionale e la notorietà di Q. Roscius Gallus († poco prima del 62 a. C. EDER, in KP IV, 1458, s. v. Roscius, num. 7) vedi Cic., de orat.1,28,130. 30 Vedi anche CANNATA, La distinctio cit., 444 s.
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Cic., p. Roscio com.4,13: Iam duae partes causae sunt confectae: adnumerasse sese negat; expensum tulisse non dicit, cum tabulas non recitat. Reliquum est, ut stipulatum sese dicat: praeterea enim quemadmodum certam pecuniam petere possit non reperio. Con 31 la prima frase di 5,14 (“È stata pretesa una somma certa di denaro, dal momento che è stata fatta la sponsio per la terza parte”) Cicerone intendeva precisamente dire: “L’azione nella quale siamo qui impegnati è la condictio di una somma determinata di denaro 32”. Poi egli enuncia in termini giuridici il problema che si pone al giudice, per risolvere il dilemma posto dall’intentio della formula di tale azione, che sappiamo essere: «se risulta che NN deve dare ad AA tot HS, … (se non risulta …)» 33, e l’enunciato di Cicerone è in questi termini: “Questo denaro deve necessariamente essere stato dato, o essere stato registrato come uscito (nei libri contabili del convenuto), o essere stato fatto oggetto di stipulatio”. In 4,13 Cicerone fa una messa a punto sullo stato delle prove fornite dall’attore a sostegno della sua pretesa, riferendosi ad un certo momento del giudizio: “Due punti della causa sono già esauriti: (l’attore stesso) nega di avere effettuato una rimessa di denaro; non adduce di avere registrato (la somma) come uscita, dal momento che non produce i libri contabili. Resta solo che asserisca di essersela fatta promettere: al di fuori di ciò, infatti, non vedo proprio come possa pretendere in giudizio una somma determinata di denaro”. Come si vede, il ragionamento di Cicerone è tutto basato su una triade di ipotesi, che corrispondono precisamente alla divisio obligationum che abbiamo potuto attribuire a Quinto Mucio leggendo la prima parte di D.46,3,80. Vediamo più precisamente come questa corrispondenza si pone. Nel discorso di Cicerone sono considerate tre fattispecie di fonte d’obbligazione (pecunia data, pecunia expensa lata, pecunia stipulata); nel discorso di Quinto Mucio compaiono le stesse tre fattispecie (mutuum dare, verbis contrahere, ) 34. Fin qui la corrispondenza è perfetta; ma nel testo di Quinto Mucio c’è 31 Per un più completo inquadramento di questi testi di Cicerone nel caso al quale si riferiva l’orazione pro Roscio comoedo si veda, come già avvertivo, il § 3 di questo capitolo. 32 Con ‘tertia parte sponsio facta est’ Cicerone alludeva alla promessa reciproca di pagare, in caso di soccombenza, una somma pari ad un terzo di quella pretesa in giudizio, a titolo di pena processuale, promessa che le parti si scambiavano in iure quando veniva esercitata un’actio certae creditae pecuniae (= condictio di una somma determinata di denaro: vol. II,1 p. 203). Sulla sponsio tertiae partis vedi Gai.4,171 e le formule pompeiane (ma date a Pozzuoli nell’anno 52) riportate nel vol. I, p. 142 s. 33 Sulla formula concreta, nel caso qui esaminato, vedi infra, nel § 3 presso la n. 168. 34 È anche verosimile che l’ordine, nel quale le tre fattispecie erano enumerate, fosse lo stesso nei due testi. Entrambe le enumerazioni s’iniziano con la datio; l’ipotesi del negozio concluso litteris segue bensì quella del negozio concluso verbis presso Scevola mentre la precede presso Ci-
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qualcosa di più, che in quello di Cicerone manca: i tre negozi, menzionati come strumenti pratici per produrre l’obbligazione, presso Quinto Mucio sono rispettivamente ricondotti ai tre genera di una divisio obligationum, e precisamente della divisio dell’obligatio nei generi dell’obligatio contracta re, o verbis, o litteris. Ora, come gli esempi si riferiscono al campo d’applicazione della condictio certae pecuniae, così i generi si devono riferire allo stesso campo: possiamo solo immaginare che il settore di riferimento della diairesi per genera avesse una dimensione più ampia – più generale – ma il massimo della generalizzazione alla quale possiamo giungere è quello del campo completo d’applicazione della condictio formulare originaria, che è quello stesso della legis actio per condictionem che l’ha preceduta: e cioè oltre alla condictio certae pecuniae, anche la condictio certae rei, vale a dire l’intero campo d’applicazione della condictio a tutela delle obbligazioni di dare cose determinate. Possiamo dunque dire che dai testi che stiamo considerando apprendiamo: a) che, all’epoca alla quale essi risalgono, esisteva, con riferimento al campo d’applicazione della condictio, una proposizione teorica, che consisteva nel presentare il possibile contenuto dell’azione come un insieme di obbligazioni, divisibile nei tre genera obligationum stabiliti in base al carattere della loro fonte (reverbis-litteris), divisio che consentiva di stabilire regole proprie a ciascun genus (come è fatto in D.46,3,80 per i modi di estinzione); b) che accanto a questa divisio teorica esisteva, costruita sulla base della medesima impostazione, una sorta di regola pratica, che non considerava concetti ma solo l’azione e gli istituti, la quale permetteva di dire – come abbiamo visto fare Cicerone – che chi esperisce una condictio certae pecuniae si trovava gravato dall’onere di provare che la sua pretesa era fondata in una datio, in una stipulatio o in una expensilatio. Cicerone, che quando disse le cose che abbiamo potuto leggere nei due testi dell’orazione pro Roscio comoedo faceva l’avvocato, si valse solo della regola pratica; ma possiamo ben dire che il pensare giuridico del tempo in cui parlava possedeva un inquadramento teorico di quella regoletta: e che tutto ciò, regoletta e inquadramento teorico, erano presenti nel pensiero di Quinto Mucio Scevola. Quest’ultima conclusione non è avventata: già le date che sopra ho indicate collocano tutti gli elementi di cui ci siamo valsi in un torno d’anni preciso: Quinto Mucio morì poco meno che sessantenne nell’82 a. C., il processo contro Roscio fu celebrato nel 76 a. C., e Roscio stesso morì di lì a poco; ma v’è assai di cerone, ma ciò dipende dal fatto che nel testo di Scevola l’ho posta io, integrandolo, in quel luogo, e così io ho fatto del tutto arbitrariamente, seguendo l’ordine re-verbis-litteris come esso compare ancora nella divisio di Gai.3,89. Per questo ho sottolineato ancora qui, ponendo litteris contrahere fra parentesi uncinate, l’origine di quella menzione nel testo di Scevola: la posizione di tale integrazione rappresenta invero l’aspetto più marcatamente congetturale del mio intervento esegetico.
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più. Cicerone, anche se poi preferì dedicarsi alla retorica, ebbe una non tenue formazione giuridica 35. Già sedicenne, nel 90 a. C., si era messo al seguito di Quinto Mucio Scevola l’augure, ed alla morte di questi nell’87 a. C. – men che ventenne Cicerone e pressoché ottuagenario il maestro – passò nella cerchia degli allievi di Quinto Mucio Scevola pontifex, che dell’augure era cugino in secondo grado 36. Che, quando pensava in termini giuridici, Cicerone si muovesse entro schemi muciani è dunque del tutto naturale. Dunque Quinto Mucio Scevola pontifex conosceva una divisio obligationum nei tre genera delle obbligazioni re contractae, verbis contractae e litteris contractae, e questa diairesi era presente nei suoi libri iuris civilis 37. Non possiamo sapere se sia stato proprio Quinto Mucio pontifex a concepire tale diairesi, ovvero se essa risalisse a qualche altro giurista: ma certo, dato il suo carattere dialettico, non si può risalire a prima dell’epoca dei fundatores. Quel che dobbiamo ancora cercar di capire è quale fosse il senso originario di tale diairesi, e per quale vicenda e con quali modifiche nel suo significato essa sia poi alfine pervenuta nella divisio obligationum di Gaio. Che sia stata la struttura della condictio stessa a sollecitare i giuristi a costruire una classificazione delle obbligazioni, possiamo considerarlo un punto di partenza certo. L’azione, che nella procedura formulare veniva denominata condictio, fu introdotta come legis actio per condictionem, l’ultima – in ordine di tempo – delle legis actiones. Ce la descrive: Gai.4,17b 38: Per condictionem ita agebatur: AIO TE MIHI SESTERTIORUM X 35
Si legga il significativo passaggio di Cic., Brut.40,150-151 (CANNATA, SG I, 270). Per queste date vedi CANNATA, SG I, 242 s., e a p. 251 lo schema per la parentela fra i Mucii. 37 Il quarto libro del commentario di Pomponio ai libri di Scevola, dal quale proviene D.46,3,80, trattava de legatis. Nel commentario, che naturalmente seguiva l’ordine della materia dell’opera commentata, la parte de legatis si iniziava nel libro 3 e finiva nel libro 9 (vedi LENEL, Pal. II, 61-68). La dottrina romanistica ne ha perciò desunto che la diairesi che ci interessa sia stata occasionata dalla trattazione della liberatio legata, cioè del legato avente ad oggetto la remissione di un debito che il legatario aveva verso il testatore (vedi, con una precisazione, CANNATA, La distinctio cit., 440 s. sub c; ma l’ipotesi mi appare oggi assai dubbia). È possibile comunque che la menzione della divisio re-verbis-litteris delle obbligazioni rilevanti per la condictio comparisse, nei libri di Q. Mucio, per la prima volta proprio nel passo che conosciamo. Dico così perché è naturale supporre che a tale divisio Scevola alludesse poi ancora, e più volte: in particolare doveva averlo fatto parlando della condictio, anche se la presenza nei libri iuris civilis di una trattazione specifica dei temi relativi a questa azione si può solo supporre, come, in corrispondenza con i libri 27 e 28 del commentario di Pomponio, ha fatto lo SCHERILLO, Il sistema civilistico, in Studi Arangio-Ruiz IV, Napoli 1953, 454 e tavola fuori testo. 38 La numerazione che adotto è quella del KÜBLER7 (1935), che dopo il § 17 (Si qua res talis erat …) indica come § 17a Per iudicis postulationem … come § 17b il nostro, proseguendo fino a prisca lingua. La numerazione di FIRA II (p. 153) è incoerente, perché il § 17 vi è protratto fino a comprendere anche tutto il paragrafo ora riportato. Il problema deriva dal fatto che questo luogo delle Istituzioni si trova in una grossa lacuna del manoscritto veronese di Gaio (vi manca una pa36
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MILIA DARE OPORTERE: ID POSTULO AI[E]S AUT NEGES. adversarius dicebat non oportere. actor dicebat: QUANDO TU NEGAS IN DIEM TRICENSIMUM TIBI IUDICIS CAPIENDI CAUSA CONDICO. deinde 39 die tricensimo ad iudicem capiendum
praesto esse debebant. condicere autem denuntiare est prisca lingua. “Per condictionem si agiva così: (l’attore diceva:) «Affermo che tu mi devi dare 10.000 HS: ti chiedo se tu lo ammetti o lo neghi». L’avversario diceva di non dovere. L’attore diceva: «Siccome tu neghi, ti ‘condico’ al trentesimo giorno per ottenere un giudice». Quindi, il trentesimo giorno dovevano esser presenti per ottenere un giudice. ‘Condicere’, infatti, nell’antica lingua significava intimare.” Il nome dell’azione (al quale dedico questa lunga trattazione in caratteri piccoli, che il lettore frettoloso può saltare) proviene dunque da una caratteristica procedurale della legis actio, e quindi per l’azione formulare la denominazione risulta, di per se stessa, inespressiva. Lo notava già Gaio, nel paragrafo che segue quanto riportato: Gai.4,18 40: Itaque haec quidem actio proprie condictio vocabatur. nam actor adversario denuntiabat, ut ad iudicem capiendum die xxx adesset; nunc vero non proprie condictionem dicimus actionem in personam 41 intendimus dari nobis oportere. nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit. “Così quest’azione veniva (a quel tempo) denominata condictio in modo appropriato. Infatti l’attore intimava all’avversario di essere presente il trentesimo giorno per avere un
gina, per cui si legge fino a controversia erat, aeque di Gai.4,17 per ricominciare con le difficilmente leggibili parole che precedono ad iudicem capiendum nel § 17b del Kübler, § 17a di FIRA), lacuna in parte colmata grazie al reperto PSI XI 1182, al quale già facevo riferimento nel vol. II,1 (p. 71 n. 222) parlando della legis actio per iudicis postulationem e riportandovi parte di Gai.4,17a, purtroppo senza pensare di adottare già allora la numerazione del Kübler, e indicandola così come appartenente a Gai.4,17. 39 Con questo deinde il Kübler risolve il problema dell’inizio della frase finale del suo § 17b, che, a tenore dell’apografo dello Studemund, doveva constare di qualcosa di più lungo. Devo avvertire, qui una volta per tutte, che per tutti i passi delle Institutiones di Gaio per i quali si pongono problemi di lettura che in qualche modo dipendano dal testo del manoscritto veronese dell’opera, si presentano oggi come fondamentali le ricerche che da tempo va conducendo Filippo Briguglio, che esamina tale manoscritto con gli strumenti dell’esame elettronico. Oltre a diversi contributi puntuali, un resoconto già alquanto ampio di tale lavoro è stato dall’autore presentato nel volume Gai codex rescriptus in Bibliotheca Capitulari Ecclesiae Cathedralis Veronensis curavit Philippus Briguglio (Firenze 2012), ma nel contesto del presente corso istituzionale sarebbe ancora temerario dare conto – se non in qualche puntuale occasione – di tale lavoro ricostruttivo. 40 Nella numerazione del Kübler (vedi la n. 38). FIRA II pone l’inizio del § 18 prima di condicere autem. 41 Quanto all’integrazione : nel manoscritto veronese a questo punto non è scritto nulla: vi si legge person(am) intendimus id nobis (e l’id è giustamente cancellato da tutti gli editori); ma tra personam e intendimus manca certo qualcosa; il LACHMANN integrava sulla base di I.4,6,15 (cfr. KÜBLER7 p. 201 n. 3), ma a me pare in Gaio basti il qua. La frase delle Istituzioni giustinianee è costruita in modo leggermente diverso: nunc vero abusive dicimus condictionem actionem in personam esse, qua actor intendit dari sibi oportere.
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giudice; invece ora non chiamiamo in modo appropriato condictio l’azione in personam con la quale pretendiamo che ci si debba dare (qualcosa). Ai nostri giorni infatti non ha luogo alcuna intimazione a tale titolo”. Volendo rendere esattamente in italiano il senso di ‘condico (in diem tricensimum)’ dovremmo tradurre: “ti intimo di trovarti qui con me (nel trentesimo giorno)”. Il contesto di Gaio, con la sua precisazione semantica sul condicere nella ‘prisca lingua’, precisazione che consiste nel rendere il vocabolo col verbo denuntiare – verbo polisemico, ma tra le sue accezioni la sola che si attagli all’impiego di cui qui si tratta è quella di “intimare” – , conduce a mio parere alla conclusione proposta, se si tenga anche conto, come io credo si debba fare, che il verbo condicere consiste di dicere con il prefisso con- (cum), il quale esprime – in vario senso, anche attenuato e soprattutto allusivo agli effetti finali dell’azione – «la réunion» 42. Non è corretto, in proposito, il discorso che si legge in quasi tutti i lessici, nei quali il testo di Gaio è bensì posto nel dovuto rilievo, ma non è inteso bene, come talora avviene a filologi non giuristi per i testi giuridici: questi autori 43, in effetti, partendo dagli stessi dati sui quali è basato questo mio discorso, danno a condico – con riferimento anche e soprattutto al suo significato originario – il senso di “concludere un accordo” ed, in particolare, “accordarsi per una data”: senza tener conto del fatto che il testo sul quale essi stessi si basano (Gai.4,18) si riferisce ad una legis actio, per cui non è in gioco l’accordo delle parti, ma un’intimazione formale con un termine previsto dalla legge. Essi vengono così a dare al condico nella prisca lingua il senso che il verbo presenta in testi assai più tardi, come nell’impiego che esso ha in Iust.15,2,16 44. Si tenga presente che nella lingua latina il verbo condicere ha conosciuto soprattutto il suo impiego giuridico legato alla condictio (significando dunque: “esercitare la condictio”, “pretendere una prestazione – in particolare di dare – esercitando la condictio”) e che il suo impiego (abbastanza limitato, del resto) nel senso di “accordarsi per una data d’incontro” e simili deve ritenersi un frutto un poco intellettuale della simbiosi tra il suo senso originario (quello della prisca lingua descritto da Gai.4,18) rimasto noto, e quello di “dire insieme” che può percepirsi nella struttura di cum-dicere del vocabolo stesso. Questa mia digressione sul verbo condicere – e, di riflesso, sul sostantivo condictio – si giustifica per il fatto che si tratta di una delle pochissime voci che, nell’epoca repubblicana e classica, si presentano come termini propriamente tecnico-giuridici e non come termini del linguaggio comune adottati dai giuristi come termini tecnici: per condicere è vero piuttosto l’inverso, e cioè che il suo impiego nel discorso laico appare come l’impiego volgarizzato di un termine giuridico. Può non esser stato così all’origine della storia di questo vocabolo, ma l’origine non ci è nota. Con certezza possiamo ritenere che condicere era presente nel senso giuridico di “intimare qualcosa che riguarda entrambe le parti” nel testo della lex Silia, la legge che in un qualche momento che non ci è possibile datare con precisione, ma che va collocato nel III sec. a. C., introdusse la legis actio per condictionem 45; secondo alcuni, si potrebbe ri-
42 ERNOUT-MEILLET, 156 (s. v. cum). Quel che intendo precisamente sottolineare è, dunque, che condico, nel testo dell’antica azione, non indicava la riunione nel senso della conclusione di un accordo, ma nel senso di “ti intimo di ritrovarti (riunirti) qui con me (nel trentesimo giorno) per la nomina del giudice”. 43 Anche lo stesso ERNOUT-MEILLET, 173 (s. v. dix). Seguito da GAFFIOT (s. v. condico). 44 M. Iunianus Iustinus (II sec.; P.L. SCHMIDT, in KP III, 23 s. v. Iustinus num. 5), epitomatore delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, scriveva nel luogo cit.: tempus et locum coeundi condicunt. 45 Gai.4,19; della data della lex Silia diremo qualcosa infra, intorno alla n. 81.
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salire ancora oltre tale momento, fino alle dodici tavole, che – come si sa – furono redatte giusto alla metà del V secolo a. C., ma l’indizio è tenue, e se lo si osserva da presso finisce col dissolversi nel nulla: si tratta comunque di quanto segue. Una norma della legge decenvirale – e precisamente, secondo Festo 46, quella di tab.2,2 47 – prevedeva delle situazioni che permettevano, anzi imponevano il rinvio dell’udienza davanti al giudice di una legis actio. Il passo di Festo ci è giunto, per vero, in pessimo stato, ma quel che vi si può leggere ci permette di esser sicuri che il contenuto della norma era quello che ho or ora indicato; nel punto di Festo che ci interessa si legge infatti: … in secunda tabula secunda lege, in qua scriptum est: ‘quid horum fuit unum iudici arbitrove reove eo die diffensus esto.’ Della frase sono state proposte diverse correzioni 48 ma io ritengo che la sola essenziale sia quella, che ho segnalata, di restituire a dies la sua s finale; nella norma erano evidentemente elencate prima di queste parole le situazioni rilevanti, sicché poi era scritto: “delle quali (situazioni) se (anche) una sola si verifichi per il giudice o l’arbitro o una parte 49, allora il giorno (dell’udienza) sia rinviato”. Delle situazioni che giustificavano, secondo tab.2,2, il rinvio, ne conosciamo due sole 50; la prima era indicata in tab.2,2 come morbus sonticus, cioè un’infermità seria 51, la seconda è, con ogni verisimiglianza, quella riportata in Cic., de off.1,12,37 – la citazione delle dodici tavole è testuale (indicant duodecim tabulae) – con le parole ‘aut status dies cum hoste’; l’espressione è spiegata da Festo chiarendo che status dies cum hoste è detto il giorno stabilito (da un Romano) con uno straniero per un processo (nel quale, cioè, il Romano e lo straniero sono le par-
46 Fest. reus (L.336), dove, quanto alla notizia che ci interessa, l’autore dice di trarla da Ateio Capitone (il codex Farnesianus reca Capitonactus, ma certo vi si deve leggere Capito Ateius: vedi in LINDSAY la nota a 336,14). 47 Per vero, prima di ‘in secunda tabula secunda lege’ nel codice farnesiano di Festo si legge Numa, ma certo questa menzione dell’antico re risulta da una corruzione (si è supposto l’originale avesse nam: vedi la nota di LINDSAY a 336,15). 48 Se ne veda un resoconto con nuove proposte in RS II, 623. In particolare, io non credo si debba correggere diffensus in diffisus, come si fa abitualmente. I lessici non mi aiutano, perché non mi pare registrano il problema (vedi ad esempio ERNOUT-MEILLET, GAFFIOT e WALDEHOFFMANN), ma sarei propenso a ritenere che diffensus rappresenti il participio passato della forma più antica del verbo composto da dis- e fendo; quest’ultimo verbo (fendo, fendi, fensum, fendere: ERNOUT-MEILLET, p. 224) non è testimoniato in forma semplice; in composizione con dis- darebbe *diffendere (donde diffensus), che rappresenta certo la forma arcaica di defendere, il cui primo significato è quello di “respingere, allontanare”, il che rappresenta un buon punto di partenza per il significato di “rinviare”, anche se in questa direzione la semantica del verbo non ha poi avuto seguito. La forma diffisus – che riterrei più recente – del participio passato di *diffendere è certo essa pure testimoniata, e la usava Ulpiano in D.2,11,2,3 ricordando proprio la norma di tab.2,2. Vedi ancora gli impieghi di diffisio e di iussi diem diffindi rispettivamente in Gell. 14,2,2,1 e 11 (sui quali RONCATI, Caio Ateio Capitone e i Coniectanea, in SDHI 71[2005], 372). 49 L’allusione al reus (reove) può alludere tanto all’una o all’altra delle parti (attore e convenuto: cfr.: Fest. reus L.336 cit.; Ulp. D.2,11,2,3 cit.) o al solo convenuto. Se quest’ultimo fosse il caso, si dovrebbe pensare che l’attore potesse ottenere il rinvio dell’udienza anche in altri casi, magari semplicemente chiedendolo senza fornire motivi: ma non lo credo. La traduzione, che segue nel testo, del resto della frase è fatta ad sensum. 50 Vedi le considerazioni, forse fin troppo scettiche, del PUGLIESE, PCR I, 402. 51 Fest. sonticum morbum (L.372) e anche causa (L.464); Gell.30,1,27; Ulp. D.2,11,2,3 cit.
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ti) 52. Tutto quanto abbiamo detto finora a proposito di tab.2,2 sembrerebbe non avere rapporto alcuno con i nostri problemi relativi alla semantica di condicere; così sarebbe infatti se, nel Curculio di Plauto 53, proprio all’inizio della commedia, il giovane Fedromo, rispondendo allo schiavo Palinuro che gli chiedeva dove se ne andasse col suo codazzo di schiavi in piena notte, non avesse spiegato ch’egli obbediva agli ordini di Venere e Cupido e seguiva gl’impulsi d’Amore, e che così egli faceva quotidianamente da sera a notte fonda, senza che nulla potesse da ciò distoglierlo. Ebbene, per dire quest’ultima cosa Fedromo dice precisamente: Plaut., Curc.5-6: si statu’ condictus cum hoste intercedit dies,/ tamen est eundum quo imperant ingratiis. Cioè: “(anche) se il giorno è quello stabilito con uno straniero (per un processo), si deve andare dove essi comandano, che piaccia o no.” L’allusione allo status dies cum hoste della tab.2,2 parrebbe evidente, ma qui il dies è statu(s) condictus cum hoste. La frase sembra voler dire lo stesso “un giorno stabilito (cioè: concordato) 54 con uno straniero per un processo”, ma appunto, con ciò abbiamo l’impiego di condicere nel senso di “concordare”, perché status condictus non sembra poter significare altro che “stabilito parlando insieme”, cioè “stabilito di comune accordo”. Da ciò si è giunti a desumere che la citazione della norma come fatta nel de officiis (1,12,37) di Cicerone potesse essere lacunosa, e tab.2,2, nel punto che ora ci interessa, recitasse ‘aut status condictus dies cum hoste’ 55. Ma le cose non stanno così. Che Cicerone riportasse in modo impreciso una norma delle dodici tavole è già di per sé difficilmente credibile, ma quel che permette di escludere senza esitazione una simile ipotesi è il fatto che Festo in L.415-416 spiega il lemma ‘status dies’ e non un lemma status condictus dies: e la scelta di Festo è sicura, perché in quella sua stessa voce egli citava anche i versi 5-6 di ‘Plautus in Curculione’ (L. 416), riportandoli nella forma che conosciamo 56; e i due versi di Plauto sono trascritti, senza addurne ragione neppure introducendo la frase con un’opportuna congiunzione o un avverbio, alla fine della trattazione relativa allo status dies, quando Festo era già passato ad occuparsi del fatto che gli antichi chiamavano hostes i peregrini; parrebbe trattarsi dell’indicazione di un testo che non conteneva precisamente l’espressione dalla quale il discorso era partito, come se i versi di Plauto si riferissero a qualcosa di diverso dalla norma di tab.2,2. Ora, in effetti Plauto – il quale, scrivendo i versi che ci interessano, non seguiva comunque il suo modello greco, introducendo invece un’allusione alla vita quotidiana di Roma – non pensava affatto alle norme decenvirali sul rinvio dell’udienza apud iudicem; per rendersene
52 Fest. status dies (L. 414) vocatur qui iudici causa est constitutus cum peregrino; … Festo aggiunge che gli antichi chiamavano hostes i peregrini (gli stranieri): cfr. Cic., de off.1,12,37 cit.; Varr., l.L.5,3; Gai. D.50,16,234 pr. Il testo intero di Festo è riportato infra, n. 56. 53 Ricordo che la vita di Plauto si colloca approssimativamente tra il 250 e il 184 a. C. 54 Del significato di dies status nella tab.2,2 diremo più avanti, dopo la n. 62. 55 A questa conclusione, sebbene dubitativamente, si perviene in RS II, 623. 56 E che ho riportato sopra. Solo Festo – o almeno così è nel codice farnesiano – scrive status, mentre Plauto vi elideva la lettera finale (statu’) onde evitare che la u diventasse lunga; ed inoltre scrive ingratis invece di ingratiis. Per comodità del lettore, in funzione delle considerazioni che farò subito, riporto integralmente Fest. L. 414-416: Status dies vocatur qui iudici causa constitutus est cum peregrino; eius enim generis ab antiquis hostes appellabantur, quod erant pari iure cum populo Romano, atque hostire ponebatur pro aequare. Plautus in Curculione ‘Si status condictus cum hoste intercedit dies, tamen est eundum quo imperant, ingratis’.
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conto basta dare il giusto peso al verso 6. La linea logica del discorso di Fedromo è la seguente: «Dove vado? Vado dove chi ha potere su di me mi ordina di andare; mi tocca andarci comunque, anche se si trattasse di un giorno nel quale avrei una scusa per non andare». È chiaro che la linea logica della norma di tab.2,2 non si attaglia a questa della risposta di Fedromo con la precisione sufficiente per dare, in scena, la necessaria vis espressiva alla battuta: chi deve presenziare ad un’udienza non lo fa perché un potente glielo ordina. Il plautino Fedromo si doveva riferire piuttosto alla situazione del coscritto in occasione del delectus, la leva militare, quando, una volta arruolato, gli veniva stabilito il giorno nel quale egli si sarebbe dovuto presentare per mettersi a disposizione del console 57: ricevuta questa notificazione, il coscritto prestava giuramento di presentarsi (iusiurandum, ut adesset) 58 in quel giorno, e il giuramento stesso prevedeva espressamente una serie di eccezioni (exceptiones) – ne abbiamo questa volta l’elenco completo – e fra di esse vi erano pure il morbus sonticus e il dies previsto per un processo con lo straniero 59. Queste cose le sappiamo da un brano del quinto libro de re militari di Lucio Cincio 60, che scriveva nel primo secolo a. C. ma piuttosto dopo la metà che prima, dicendo di descrivere una prassi antica (quum delectus antiquitus fieret): ma che non era certo antica come le dodici tavole: credo ci siano elementi sufficienti per ritenere che all’epoca in cui scriveva Plauto – un buon secolo e mezzo prima di L. Cincio – il iusiurandum ut adesset dei coscritti fosse in uso 61. Ora, in quel giuramento, l’exceptio consistente nell’appuntamento con lo straniero per un processo era enunciata così: ‘status condictusve dies cum hoste’: precisamente con le parole del verso 5 del Curculio; la sola differenza è quella del suffisso -ve aggiunto a condictus, ma è facile comprendere che Plauto vi ha rinunziato per le esigenze della metrica. Comunque, appare chiaro che al testo di tale giuramento Plauto pensava, e non alla norma di tab.2,2. Se noi però consideriamo l’espressione status condictusve dies con quel -ve disgiuntivo, possiamo desumerne che il participio condictus non aveva ancora in quel testo il senso di “concordato”. Possiamo partire dai seguenti presupposti, che mi sembrano poco discutibili: a) il testo del giuramento col quale il coscritto si impegnava a presentarsi e mettersi a disposizione del
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Gell.16,4,3. Gell.16,4,4. 59 Il soldato, che nel giorno stabilito non si fosse presentato e non avesse giustificato la sua assenza (aberat neque excusatus erat), era considerato renitente (infrequens): Gell.18,4,5. 60 Lucius Cincius, contemporaneo di Cicerone e Varrone, antiquario ma con evidente propensione per le tematiche del diritto pubblico: BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt I, Lipsiae 1896, 252 ss.; GUNDEL, in KP I, 1189 s. (Cincius num.1); BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani2, Napoli 1982, 56 s. ed anche 16 (specialmente sulle opere); WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte I, München 1988, 107 s. Le opere di L. Cincio non ci sono pervenute direttamente; i passi del de re militari che ora ci interessano si trovano riportati testualmente in Gell.16,4 e si possono leggere anche in BREMER I cit., 254 s. 61 Per quanto vedremo in seguito, si deve ritenere che il testo di quel giuramento – al quale per altro, come pure vedremo, Plaut., Curc.5 fa allusione come a cosa nota a chiunque tra il pubblico – fu composto dopo l’introduzione della legis actio per condictionem, il che ci conduce ad un tempo comunque non molto lontano dall’epoca dell’attività letteraria di Plauto. Per una datazione del Curculio non esistono elementi decisivi; le ipotesi considerate nella prefazione all’edizione della commedia a cura di Ettore PARATORE (PLAUTO, Tutte le commedie II, Roma 1992, 297 ss.) – che rappresenta il più recente contributo in materia a me noto – conducono a collocarla fra il 200 e il 190 a. C. 58
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console in un certo giorno, salve alcune cause di giustificazione 62, doveva essere stato formulato in modo molto preciso; b) le scusanti (exceptiones) che conteneva erano state concepite avendo come modello le ragioni di rinvio enumerate nella tab.2,2. Dunque se, come abbiamo potuto stabilire, in tab.2,2 la causa di rinvio che c’interessa era enunciata ‘status dies cum hoste’, l’autore del testo del giuramento del coscritto doveva avere una ragione per modificare l’enunciato corrispondente in ‘status condictusve dies cum hoste’, e questa ragione deve avere a che fare con quel suffisso –ve aggiunto a condictus. Siccome il suffisso è disgiuntivo, il senso della locuzione che compare nel giuramento risulta essere “un giorno status ovvero condictus con uno straniero”: status e condictus devono, perciò, alludere a due modi diversi di determinare quel giorno (dies) 63. In tab.2,2 si parlava solo di dies status cum hoste, e tutto lascia pensare che l’allusione fosse in primo luogo – ma comunque, anche – ad un giorno stabilito con accordo delle parti, accordo stragiudiziale e precedente il processo. La ragione per la quale l’impegno processuale di un cittadino C con uno straniero S doveva giustificare il rinvio dell’udienza alla quale lo stesso cittadino C avrebbe dovuto presenziare in Roma – come giudicante o come parte con un diverso avversario X – doveva consistere essenzialmente 64 nel fatto che il contatto fra i due – C ed S – per informarsi del diverso impegno e concordare una nuova data per il processo previsto fra loro poteva riuscire oltremodo problematico; si tenga presente che il dettato della norma di tab.2,2 comprende tanto il caso che il dies status cum hoste si riferisse ad un processo che lo straniero doveva venire a fare a Roma, quanto ad un processo che il cittadino doveva andare a fare in una città straniera: quando i due si erano accordati sul giorno, avevano scelto un dies che prevedevano idoneo per entrambi; la data del nuovo processo, nel quale C si trovava ad essere iudex o arbiter, ovvero parte, era invece imprevedibile; quando questo nuovo impegno si fosse concretato senza possibilità di evitarlo – proprio come se C si fosse buscato un morbus sonticus – egli rischiava di dover lasciare lo straniero ad attenderlo invano nella sua città o di far fare allo straniero un magari lungo ed oneroso viaggio a Roma per nulla, ovvero di costringerlo a pro62 Che gli avrebbero permesso di presentarsi invece il giorno successivo a quello della cessazione dell’impedimento scusante (postridie quam per eas causas licebit): Gell.18,4,4 in fine. 63 Devo avvertire, in relazione a quanto segue nel testo, che una soluzione, tecnicamente impostata in modo preciso, dei problemi che tratto a questo punto ci è impossibile: noi sappiamo – e lo sappiamo proprio da tab.2,2 e dall’altra norma decenvirale di tab.6,4 sull’aeterna auctoritas adversus hostem (che risulta pure da Cic., de off.1,12,37) – che già al tempo delle legis actiones, per lo meno a partire dall’epoca delle dodici tavole, a Roma si facevano processi fra Romani e stranieri, ma non sappiamo come si facessero (le legis actiones in se stesse erano riservate ai cittadini: se è pensabile che i processi con gli stranieri fossero concepiti in modo analogo, la cosa non è affatto sicura), né quale magistrato ne avesse la competenza, anche se è probabile che tale competenza spettasse allo stesso magistrato competente per le legis actiones: l’innovazione che ebbe luogo nel 242 a. C., quando la lex Plaetoria introdusse il praetor peregrinus competente per i processi con stranieri o fra stranieri (KASER/HACKL, 172 s.), ci si presenta come l’aggiunta di un nuovo magistrato che avrebbe dovuto alleggerire il carico di lavoro del pretore – poi detto urbano – già competente anche per i processi con parte straniera. Per l’epoca nella quale Plauto scriveva il Curculio i processi con gli stranieri erano di competenza del pretore peregrino, e si ritiene giustamente che la sua attività abbia contribuito non poco alla creazione del processo formulare: ma quale fosse in effetti la procedura adottata dal praetor peregrinus agli inizi della sua attività non ci è dato saperlo. 64 Le possibili ragioni della norma sul rinvio dell’udienza per lo status dies cum hoste sono sintetizzate in KASER/HACKL, 116 n. 12: credo però che quella che cerco di illustrare sia almeno la principale. Per la bibliografia vedi anche WIEACKER, Geschichte I cit., 265 n. 138.
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lungare la sua permanenza a Roma oltre il previsto: e tutto ciò poteva risultare economicamente assai oneroso ed avrebbe potuto anche compromettere la buona gestione e soluzione della controversia in corso fra C ed S. Ora, è difficile pensare che, al tempo delle dodici tavole – che rappresenta la data più recente per la concezione della norma di tab.2,2 – la situazione che abbiamo immaginata e descritta non fosse quella alla quale soprattutto si riferiva il legislatore, e tale situazione implicava la fissazione del dies con un semplice accordo fra le parti 65. Se – con la riserva che ho poco fa annotato – prendiamo le legis actiones come modello al quale dovevano essere sufficientemente conformi tutti i processi privati del tempo – almeno quelli che si svolgevano a Roma, ma a questi soprattutto doveva pensare il legislatore romano – non è facile immaginare ipotesi di appuntamenti processuali fra le parti determinati da provvedimento del magistrato o del giudice o da intimazione vincolante di una parte all’altra, che si presentino con connotati che giustifichino la norma che andiamo studiando; si tratta sempre, infatti, di appuntamenti a breve termine: tale certo, per sua natura, era quello necessario nella legis actio sacramento in rem per la convocazione dell’auctor 66; la comperendinatio, cioè l’intimazione reciproca delle parti, dopo ottenuto il giudice, a presentarsi davanti a lui era per il dopodomani 67; al tempo delle dodici tavole non esisteva ancora la legis actio per condictionem con la sua intimazione formale dell’attore al convenuto di ripresentarsi a trenta giorni, e – con ogni probabilità almeno – non era ancora stata promulgata la lex Pinaria che stabiliva che il giudice della legis actio sacramento in personam fosse dato trenta giorni dopo la fine della fase in iure, il che implicava pure un’intimazione a trenta giorni 68. Con ciò non voglio certo dire che la regola di tab.2,2 sul dies status cum hoste non si dovesse riferire anche ai casi – per così dire – di appuntamenti processuali non stabiliti consensualmente: ma solo che il dies status della norma era un “giorno stabilito” in qualunque modo, e ciò avveniva nella più parte dei casi per accordo delle parti. Si può dunque facilmente immaginare che l’espressione dies status sia stata praticamente, nel parlar comune, sentita come allusiva ad un dies concordato dalle parti: l’autore del testo del giuramento della recluta deve almeno aver considerato che tale espressione sarebbe stata troppo poco chiara se vi si volevano comprendere anche i termini intimati – in particolare quelli del tipo previsto dalla lex Pinaria o dalla lex Silia – e che per questo genere di termini l’espressione dies condictus risultava chiara e univoca: scrivendo, nella formula del giuramento, ‘status condictusve dies’ egli intendeva dunque alludere ad “un giorno – d’appuntamento in funzione di un giudizio – tanto se concordato fra le parti quanto se intimato”; cosicché, tanto nel testo del giuramento quanto nel verso 5 del Curculio il dies condictus non era quello dell’appuntamento consensuale, ma ancora quello intimato. Per l’impiego di condicere nel senso di “accordarsi per un appuntamento” – e possiamo tranquillamente qualificare questo impiego come non giuridico 69 – dobbiamo quindi trovare un’altra origine.
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Anche se magari confermato o garantito con stipulazioni o in altro modo. Ne parleremo a suo luogo. 67 Gai.4,15: … postea tamen quam iudex datus esset, conperendinum diem, ut ad iudicem venirent, denuntiabant. … ; Cic., p. Mur.12,27; PUGLIESE, PCR I, 399 s. 68 Gai.4,15 subito dove il testo si fa leggibile dopo la lacuna iniziale. 69 Vi sono anche impieghi letterari di condicere direttamente connessi – in vario modo e con diversa intensità – col senso giuridico; in Liv.1,32,11: Quarum rerum litium causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum, hominibusque Priscis Latinis, … il ‘condixit’ sembrerebbe usato semplicemente nel senso di “parlare insieme con”, ma 66
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Esso ricorre in testi letterari 70, e ne faccio qualche esempio, partendo dai più antichi a noi noti, che sono ancora di Plauto. Plaut., Stich.447 ([446:] Atque id ne vos miremini, homines servolos / potare, amare atque ad cenam condicere = “decidere di andare a cena insieme”; Plaut., Men.124 (dove il senso stesso dell’appuntamento è assai sfumato: hodie ducam scortum ad cenam atque aliquo condicam foras = “oggi porterò una puttana a cena e la inviterò da qualche parte in città”); Cic., Fam.1,9,20 (cum mihi condixisset, cenavit apud me = avendomelo preannunziato, cenò da me); Svet., Tib.42,2 (Sextio Gallo … cenam ea lege condixit, ne quid ex consuetudine immutaret aut demeret … = diede il suo consenso a Cestio Gallo per una cena [a casa di costui] con l’intesa che questi non cambiasse o sopprimesse alcunché delle sue consuetudini [di ospite]) 71, e si aggiunga il già cit. Iust.15,2,16. Ora, quanto alla formazione di questo settore della semantica di condicere, credo che l’insieme del materiale di cui, in questo discorso, abbiamo potuto prender visione conduca a confermare l’ipotesi che già avevo sopra formulata. Possiamo ragionare come segue. L’introduzione della legis actio per condictionem – per quanto già abbiamo visto e per quanto diremo in seguito – rappresentò un evento che non può non avere avuto una notevole rilevanza nell’opinione pubblica: non solo essa sostituì presto la legis actio per iudicis postulationem per la sanzione della sponsio, ma rappresentò il mezzo di tutela di ogni forma di stipulatio di dare e permise altresì l’azionabilità di situazioni nuove, fra le quali in primo luogo il mutuo manuale, dando un respiro tutto nuovo ed estremamente moderno ad un settore, anche mercantile, che l’antico nexum non era in grado di soddisfare. L’azione fu certo subito largamente praticata, ed è facilmente immaginabile che nell’alquanto vasto ambiente dei soggetti che la praticavano o vi assistevano – la fase in iure delle legis actiones aveva luogo normalmente con l’assistenza del pubblico – le parole della sua forma siano divenute familiari, sicché l’espressione caratteristica ‘in diem tricensimum tibi iudicis capiendi causa condico’ abbia preso ad essere anche impiegata scherzosamente per esprimere un invito a data fissa. Abbiamo osservato, negli esempi addotti sopra, l’insistenza dell’impiego di condicere in relazione agli inviti a cena: sembra proprio che all’epoca di Plauto, che non doveva esser lontana da quella dell’introduzione della condictio, l’uso di annunziarsi per una cena con un amico o presso un amico parafrasando l’intimazione giudiziale col dire – se magari l’invito era per il dopodomani – ‘in diem tertium tibi ad cenam condico’ fosse diventato una specie di moda. Nella frase giocosa e in realtà il senso del precedente discorso al quale qui si fa riferimento era quello di un’intimazione a restituire cose e persone entro un termine (cfr. Liv.1,32,6-8 e nel 9: Si non deduntur quos exposcit diebus tribus et triginta – tot enim sollemnes sunt – peractis bellum ita indicit: …); Gell.10,24,9 (Sacerdotes quoque populi Romani, cum condicunt in diem tertium, die perendini dicunt = anche i sacerdoti del popolo Romano, quando convocano per il terzo giorno, dicono die perendini); in Plin., n. h. praef. 6 si fa solo un gioco di parole (quom hanc operam condicerem, non eras in hoc albo: Plinio ha dedicato la sua Naturalis Historia all’imperatore Vespasiano, e dice di temerne il giudizio, da lui stesso per altro, con la dedica, provocato; se non gliel’avesse dedicata avrebbe potuto dire: e perché la leggi? perché ti fai giudice? “quando io ho intrapreso a condicere quest’opera [figura pensata genericamente, nel senso di: ho intrapreso ad esercitare l’azione di comporre quest’opera], tu non figuravi nell’albo dei giudici”). 70 Nei testi giuridici parrebbe esser presente in Pomp. D.18,1,66 pr., ma il condicantur che vi compare nella Florentina è solo un errore per dicantur: ed era già corretto in questo senso nel manoscritto stesso. 71 Vi sono anche due testi di Tertulliano (Q. Septimius Florens Tertullianus) di Cartagine, apologista cristiano (* intorno al 150; † dopo il 220), dove condicere mi pare ricorra nel senso di “esser d’accordo nel dire”: Tert., Marc.2,2; Tert., anim.8.
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confidenziale dell’intimazione era così rimasta solo la forma, e condicere si avviava a prendere il suo posto nella lingua corrente col senso di fissare un appuntamento. Chiunque abbia un poco affrontato i problemi della storia delle lingue sa quanto spesso le mode vi abbiano influito.
A noi, in questo contesto, non interessa la particolarità processuale da cui provenne il nome dell’azione, bensì il fatto che si trattava di un’azione astratta. Riferendoci alle legis actiones ed alla procedura formulare diciamo astratta un’azione se – rispettivamente nel testo della dichiarazione formale dell’attore in iure o nell’intentio della formula – l’enunciato relativo alla pretesa dell’attore non contiene menzione della causa. La distinzione fra azioni causali e azioni astratte è appropriata in modo preciso solo con riguardo alle azioni in personam. Il carattere astratto della legis actio per condictionem risulta evidente confrontando l’affermazione iniziale dell’attore in quest’azione con quello della legis actio per iudicis postulationem 72, che era invece un’azione causale. Nella legis actio per iudicis postulationem l’attore diceva 73: ex sponsione te mihi decem milia sestertiorum dare oportere aio (“affermo che tu mi devi dare 10.000 HS in forza di una sponsio”)
nella legis actio per condictionem, invece, semplicemente: aio te mihi sestertiorum decem milia dare oportere (“affermo che tu mi devi dare 10.000 HS”)
Si comprende l’incidenza di questa diversità fra le due dichiarazioni dell’attore, relative all’oggetto del giudizio, sul suo onere probatorio e sui compiti del giudice. Nella legis actio per iudicis postulationem l’attore, per vincere e cioè ottenere una sentenza di condanna del convenuto a pagargli 10.000 HS, avrebbe dovuto provare che costui gli doveva tale somma in forza di una sponsio, mentre nella legis actio per condictionem l’oggetto del suo onere probatorio era costituito unicamente dall’esistenza del debito di 10.000 HS del convenuto verso di lui, e quindi egli sarebbe uscito vincitore dal giudizio anche se avesse provato l’esistenza di una fonte diversa dalla sponsio per quell’obbligazione. Il compito che la forma della legis actio per condictionem poneva ai giuristi era
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Vedi nel vol. II,1 cap. V § 3.2 (p.71 ss.). Il testo è Gai.4,17a nella numerazione del Kübler (vedi sopra, n. 38). Nel vol. II,1 p. 71 lo riportavo numerandolo secondo quella di FIRA II (p. 153) come Gai.4,17: e nel testo avrei anche fatto meglio a correggere così le parole ai[e]s an neg[a]s. 73
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dunque quello di definire quali fossero i fatti che vi potevano essere invocati come fonte di quel debito (dare oportere) che essa sanzionava. Per capire bene quale fu il lavoro che i giuristi fecero per interpretare, in relazione al problema che abbiamo posto, la forma della legis actio per condictionem si deve tener conto del fatto che tale lavoro essi lo iniziarono con ogni probabilità prima che l’azione fosse introdotta. Questa mia affermazione non è paradossale come parrebbe: quel che intendo dire è solo che la legis actio per condictionem fu introdotta per iniziativa dei giuristi, i quali dunque, quando convinsero il legislatore – diciamo il tribuno Silius – ad introdurre quell’azione indicandogli esattamente che actio doveva introdurre, cioè fornendogli il testo del plebiscito che avrebbe dovuto far approvare dai concilia plebis, avevano in mente una certa operazione innovativa che l’actio avrebbe permesso di attuare, e quindi avevano concepito per l’actio stessa la forma idonea ad essere poi interpretata secondo criteri che essi avevano già elaborato. Lo scopo dei giuristi era infatti quello di permettere il riconoscimento di fonti d’obbligazione diverse dalla sponsio, e ciò equivaleva ad introdurre un’azione idonea ad essere esercitata anche per tali nuove cause. Che questa dovesse essere l’idea di quei giuristi del III secolo a. C., si desume a mio parere da una constatazione. Premettiamo anzitutto che la ragione principale per l’introduzione della legis actio per condictionem non può identificarsi nell’innovazione processuale dell’intimazione a trenta giorni per ottenere il giudice: per questo sarebbe bastato modificare in tal senso la struttura della legis actio per iudicis postulationem o applicare anche ad essa la lex Pinaria; la vera innovazione risiedeva nel carattere astratto della nuova azione. Ma, se l’astrattezza dell’actio non fosse stata pensata per essere sfruttata come poi si fece, essa non avrebbe avuto alcun senso. Si pensi che la nuova azione era ancora una legis actio, e quindi i giuristi la concepirono entro gli schemi retti dai principî di tale sistema processuale. Ora – a partire dal momento in cui entrò in vigore la legge delle dodici tavole, quando le actiones processuali divennero appunto legis actiones – il fondamento legale dei processi non riguardava solo le forme processuali, ma anche la sostanza dei processi: in altre parole, non solo non sarebbe stato concepibile esercitare un’azione in una forma che non fosse prevista da una legge, ma, ancora, l’attore non avrebbe potuto esercitare un’azione se non per far valere una pretesa fondata in una norma di legge. Per le actiones precedenti quella per condictionem la conformità della pretesa dell’attore alla legge era assicurata da un meccanismo tecnico: l’attore agiva sempre enunciando la causa della sua pretesa 74, e questo enunciato doveva essere fatto usando le parole che la legge usava per descrivere la fattispecie corrispondente a tale causa 75. Nella legis actio per condictionem, che era astratta, la causa non veniva nominata,
74 A questo si riferisce – sebbene per un caso con connotati particolari (applicazione della legis actio per iudicis postulationem al caso di arbitri postulatio introdotto dalla lex Licinnia per la divisione di cose comuni) – l’espressione nominata causa di Gai.4,17a (numerazione del Kübler) in fine. 75 Gai.4,11 allude a ciò dicendo che le legis actiones ‘ipsarum legum verbis accommodatae erant’.
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ma ciò naturalmente non comportava che l’attore potesse farvi valere pretese senza fondamento legale: se ciò fosse accaduto, il giudice non avrebbe comunque potuto dargli ragione. Ora, al tempo in cui la legis actio per condictionem fu introdotta, la sola causa prevista dalla legge per un’obbligazione – cioè per quel ‘mihi dare oportere’ che l’attore invocava – era la sponsio, e quindi che l’azione fosse causale o astratta non avrebbe fatto alcuna differenza.
I giuristi avevano in mente di permettere l’individuazione di fonti d’obbligazione alle quali essi avrebbero dimostrato doversi applicare la norma che riconosceva come obbligatoria la sponsio, ma che sponsio non erano e quindi non si sarebbero potute descrivere usando quel vocabolo. A questo serviva un’azione astratta: essa avrebbe permesso di applicare la norma sulla sponsio per analogia, evitando l’ostacolo proveniente – in un sistema di azioni causali – dal fatto che l’analogia non è identità, e quindi una sostanza analoga, se condivide col suo modello le ragioni della tutela, non partecipa della stessa fattispecie. Come si comprende, una simile operazione implicava anzitutto un’analisi precisa della struttura del modello: si doveva stabilire quale realtà, sul piano giuridico, fosse creata dalla sponsio, vale a dire quale fosse il mutamento indotto dal concretarsi di un dare oportere; in altre parole ancora, in quale effetto precisamente si concretasse il sorgere di un’obbligazione. Per scoprire in quale ambito i giuristi collocarono il loro ragionamento, disponiamo di un indizio sicuro: la lex Silia introdusse la legis actio per condictionem unicamente per i debiti di certa pecunia, cioè di una somma determinata di denaro; l’estensione del campo d’applicazione dell’azione a tutti i debiti di certa res – cose determinate nella specie o nel genere – dipese da una lex Calpurnia 76, databile solo come successiva alla lex Silia: non sappiamo di quanto, ma certo non di molto. I giuristi lavorarono comunque dapprima ponendosi i problemi in relazione alle obbligazioni pecuniarie. Un dato semantico ci permette anche di individuare quale sia stata la nozione che costituì il perno dell’operazione dommatica che potremo così ricostruire: si tratta della locuzione ‘aes alienum’. Letteralmente essa significa “denaro 77 altrui”, ma nella lingua latina veniva usato in un senso tutto particolare. Come spiegava ancora Ulpiano: D.50,16,213,1 (Ulp. 1 reg.): ‘Aes alienum’ est, quod nos aliis debemus; … “L’aes alienum è quello che noi dobbiamo ad altri”. Dunque, aes alienum significa “denaro dovuto, denaro oggetto di obbligazione”, insomma “debito di denaro”, ed anche genericamente “debito”; e va tenuto presente che la locuzione fu, in tutta la storia della lingua di Roma, assai diffusa ed impiegata senza che chi l’impiegava pensasse, an-
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Gai.4,19. Della data della lex Calpurnia diremo pure ancora qualcosa infra, intorno alla n. 83. Ancor più letteralmente, aes significa, come sappiamo, “bronzo”, ma, usato nel senso di denaro, esso allude al bronzo impiegato come mezzo di scambio e misura dei valori, che si tratti di bronzo non monetato (in epoca antica) ovvero coniato in monete; in questa accezione aes diviene dunque sinonimo di pecunia, vocabolo che in origine (in epoca ancor più antica) a sua volta alludeva ai capi di bestiame (pecus) usati per effettuare certi pagamenti. Per l’epoca che ora ci interessa (a partire cioè da almeno un secolo prima della dodici tavole) possiamo sempre considerare aes come allusivo al “denaro” in tutte le sfumature dell’accezione propria di questo termine. 77
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che lontanamente, al suo significato letterale; e ciò avviene tanto nelle fonti giuridiche quanto nelle fonti letterarie 78. Ma, se la consideriamo in se stessa, la locuzione aes alienum nel senso di “debito, denaro dovuto” pare assurda: Prendiamo come punto di partenza quel che diceva Ulpiano. Se io devo del denaro ad altri, quel denaro non è affatto dell’altro, proprio perché io glielo devo; lasciando da parte il fatto che il denaro oggetto della mia obbligazione è piuttosto un valore che non una cosa, anche se vogliamo considerare le specifiche monete con le quali io intendo eseguire il pagamento, esse sono mie e non del mio creditore. Da tutto ciò possiamo desumere due conclusioni: anzitutto che la locuzione “aes alienum = debito” deve essere alquanto risalente nel tempo, se noi la troviamo nella lingua latina almeno a partire da Cicerone come acquisita all’uso comune senza traccia di una percezione del suo carattere contraddittorio o comunque alquanto strano; in secondo luogo che la locuzione stessa deve essere legata ad un qualche contesto nel quale aveva un senso alludere al denaro dovuto come denaro altrui.
E torniamo ai giuristi del III secolo a. C. che si ponevano il problema di riconoscere nuove fonti d’obbligazione oltre alla sponsio. Non credo ci allontaniamo dalla realtà pensando che il primo dei loro scopi fosse quello di permettere la tutela mediante azione del prestito (mutuo) di denaro effettuato semplicemente con una traditio delle monete accompagnata da un accordo causale di prestito (causa credendi): infatti come abbiamo visto, la prima legge di cui essi sollecitarono la promulgazione riguardava unicamente le obbligazioni pecuniarie, e nella pratica civile e mercantile la necessità di poter praticare il mutuo di denaro in modo semplice, e non con i gravami di un atto formale come il nexum, che per di più creava una soggezione e non un’obbligazione, si fa naturalmente assai forte in una società con economia in forte sviluppo, com’era in quel tempo a Roma. Comunque, siccome la possibilità di una tutela adeguata del mutuo di denaro fu certo il più importante dei problemi risolti con l’introduzione della legis actio per condictionem, studieremo con riguardo a questo la vicenda intellettuale che c’interessa. Naturalmente, non dobbiamo pensare che il mutuo informale lo abbiano inventato i giuristi che stiamo cercando di vedere all’opera. Esso era certo già presente da tempo nella prassi: quel che gli mancava era una tutela giudiziaria specifica; il mutuatario non risultava obbligato a restituire il denaro ricevuto e quindi il mutuante insoddisfatto non avrebbe avuto contro di lui un’azione per la restituzione. Naturalmente le parti, nel caso concreto, avrebbero potuto rimediare facendo una sponsio, il mutuatario B promettendo cioè al mutuante A una somma (diciamo: 100 HS) pari a quella del mutuo; ma la cosa, a quell’epoca almeno, avrebbe presentato un rischio: se la promessa si fosse fatta prima 78 Mi limito ad alcuni esempi tratti da fonti letterarie: Cic., de off.2,16,56; Cic., de off.2,24,84 (due volte); Cic., II Verr.4,11 (due volte); Cic., in Cat. 2,4 (due volte); Cic., Phil.2,14,36; Sall., Cat.14,2; Sall., Cat.35,3; Caes., Gall.6,13,2; Caes., Civ.3,22,1. Da questo stesso uso di aes proviene anche il vocabolo obaeratus (oppresso dai debiti, carico di debiti, indebitato), che abbiamo incontrato nel vol. II,1 (p.48 s.) leggendo Varr., l.L.7,105; esso pure ricorre con frequenza come aggettivo (ad esempio Liv.26,40,17; Svet., Caes.46), ma è presente anche come sostantivo (aggettivo sostantivato): Cic., rep.2,21,38; Caes., Gall.1,4,2.
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che il denaro venisse consegnato, qualora poi A, ricevuta la promessa, non desse a B i 100 HS, avrebbe tuttavia avuto contro di lui la legis actio per iudicis postulationem per pretendere i 100 HS promessi; come sappiamo, l’exceptio doli all’epoca non esisteva ancora 79. Se le parti avessero invece previsto che B promettesse i 100 HS ad A dopo averli ricevuti, una volta che li avesse in effetti ricevuti nulla poteva obbligarlo a promettere: l’accordo sulla promessa non aveva di per se stesso alcun effetto giuridico, e non esisteva a quel tempo neppure l’actio de dolo. Una garanzia personale non sarebbe potuta essere fornita da B ad A, perché la fideiussio non esisteva ancora e sponsio e fidepromissio erano idonee a garantire solo le obbligazioni nate verbis. Neppure un pegno sarebbe potuto servire, perché anche il pegno è accessorio ad un’obbligazione, e se il mutuo non creava obbligazione neppure il pegno relativo avrebbe prodotto i suoi effetti di garanzia. L’unico rimedio per il mutuante deluso poteva essere – è una soluzione alla quale i romanisti hanno pensato spesso e credo con buone ragioni – l’esercizio dell’actio furti contro il mutuatario che non restituisse; ma si comprende che la conseguenza sarebbe stata sproporzionata alla situazione: se il mutuatario non restituiva quanto ricevuto sarebbe stato condannato al quadruplo in un’azione infamante: in caso di mutuo civile spesso il mutuante non avrebbe osato ricorrervi, in caso di mutuo commerciale la prospettiva di una simile conseguenza avrebbe distolto molti dal ricorrere al prestito.
Naturalmente, se volevano render possibile un’azione del mutuante contro il mutuatario che non restituisse, i giuristi avrebbero potuto semplicemente sollecitare la promulgazione di una legge che prevedesse la relativa fattispecie come causa agendi. Il fatto che essi abbiano invece preferito percorrere la diversa strada dell’introduzione di un’azione astratta mostra che la loro visuale era più ampia e cioè che essi intendevano operare non solo in relazione ad un singolo negozio, ma – nella stessa prospettiva dei pontefici che avevano creato la sponsio per introdurre nel sistema la nozione di obbligazione – ripartire dalla nozione di obbligazione, per svincolarla ormai dal suo legame biunivoco con la sponsio. Creando un’azione sostanzialmente identica alla legis actio che tutelava la sponsio, ma sopprimendovi il richiamo espresso alla sponsio come causa dell’azione, essi intendevano avere un’azione che potesse tutelare l’obbligazione comunque questa si presentasse formata. Si trattava solo di dimostrare che quel che giuridicamente avviene quando si fa una sponsio si riproduce in altri casi anche senza che una sponsio sia stata fatta. La prima cosa da fare era dunque chiarire che cosa precisamente avvenga quando si fa una sponsio. Vediamo dunque di ricostruire come questo problema fu impostato 80. Lo stipulator S chiede «Prometti (spondes) di darmi 100 HS?» al promissor P, che gli risponde «Sì, lo prometto (spondeo)». Il diritto civile stabilisce che al momento della risposta di P il negozio (la sponsio) è concluso e ne nasce un’ob-
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Sulla data dell’actio de dolo e dell’exceptio doli vedi vol. I, p. 21 (in fine) s. In quanto segue cerco di chiarire meglio quanto già avevo esposto nell’articolo Das faktische Vertragsverhältnis oder die ewige Wiederkunft des Gleichen, in SDHI 53(1987), 299 ss. (= Scritti I, 451 ss.). 80
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bligazione di P verso S a dargli 100 HS. Ma, se ci chiediamo che cosa esattamente sia avvenuto, dobbiamo considerare quali modifiche l’effetto del negozio abbia prodotto nei patrimoni di S e di P. Vediamo dunque che cosa ciascuno dei due soggetti dovrebbe scrivere nel proprio bilancio, se volesse aggiornarlo subito dopo compiuta la sponsio. P dovrebbe aggiungervi una posta passiva: 100 HS dovuti a S; S dovrebbe aggiungervi una posta attiva: credito di 100 HS verso P. I 100 HS stipulati, dunque, rappresentano un passivo nel patrimonio di P e un attivo nel patrimonio di S. Ma se i due soggetti controllassero anche, allo stesso momento, i rispettivi registri di cassa, nessuna uscita di 100 HS verrebbe aggiunta nel registro di P, né alcuna entrata di 100 HS in quello di S. Ciò significa che nella cassa di P sono presenti 100 HS che corrispondono ad un passivo di P e ad un attivo di S: in altre parole, P ha 100 HS di S: i 100 HS, che permangono tuttora presso P, sono, per P stesso, aes alienum, denaro altrui e precisamente denaro di S. È ovvio quindi che, quei 100 HS, P deve darli (dare oportere) a S e che, se non glieli dà, S deve avere un’azione a tale titolo contro P. Ma a questo punto si devono fare i conti col fatto che i 100 HS non appartengono a S sotto il profilo della proprietà: se anche volessimo concretare i 100 HS dovuti – che in se stessi non sono che un valore – in una cosa, e quindi pensare alle monete che potrebbero essere impiegate per pagarli, troveremmo che queste monete sono nella cassa di P, la loro proprietà appartiene tuttora a P; in altre parole, i 100 HS sono di S in quanto elemento attivo del suo patrimonio, ma non perché siano suoi, bensì in quanto gli spettano: ne consegue che S non potrà esercitare, per pretenderli, la rei vindicatio, cioè un’azione reale (in rem); è necessario dunque munire S di un’azione personale (in personam) contro P, nella quale gli sarà possibile far valere questa sua spettanza, che si concreta nel dare oportere – l’obbligazione di darglieli – di P. Spiegando in questo modo il meccanismo dell’obbligazione, è possibile trarne una conclusione logica: che la sponsio non produce l’obbligazione di dare quanto promesso e non attribuisce la relativa azione per una qualche forza trascendentale delle parole con le quali è conclusa, ma solo perché il fatto intervenuto – quell’accordo delle parti che ha avuto luogo nel modo che l’ordinamento giuridico ritiene idoneo – ha fatto di una somma di denaro di P un aes alienum, cioè una somma di denaro che spetta a S. Ne consegue direttamente che, in ogni caso nel quale siano intervenuti dei fatti, i quali impongono di individuare nel patrimonio di un soggetto Y un aes alienum rispetto a X, a X spetterà nei confronti di Y la stessa tutela che gli spetterebbe se Y gli avesse fatto una sponsio per la stessa somma. Quando la lex Silia introdusse la legis actio per condictionem, i giuristi erano dunque già pronti ad interpretarla. Il loro compito era già definito, nel senso che si trattava di indicare quali situazioni dovessero essere considerate analoghe, nel senso che abbiamo visto or ora, a quella creata con una sponsio: e ciò
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per decidere che esse pure dovevano considerarsi produttive di un dare oportere e quindi ad esse si doveva applicare la nuova azione astratta; questa, infatti, sanzionando un dare oportere, era per sua natura disponibile per le obbligazioni da sponsio. Possiamo pensare – torneremo sul punto nel prossimo § 4 – che subito essi riconobbero come tale almeno il mutuo di denaro: comunque l’esperimento si considerò riuscito, se non molto tempo dopo con una seconda legge il campo d’applicazione della nuova azione fu esteso a comprendere tutte le obbligazioni di dare una cosa determinata. Che le due leggi siano state cronologicamente vicine l’una all’altra risulta anche dal modo in cui Gaio le menziona, come se si trattasse di una specie di coppia: Gai.4,19: Haec autem legis actio constituta est per legem Siliam et Calpurniam, lege quidem Silia certae pecuniae, lege vero Calpurnia de omni certa re. “Questa legis actio (cioè: la legis actio per condictionem) fu introdotta con la lex Silia e la Calpurnia, con la lex Silia per una somma determinata di denaro, con la lex Calpurnia per qualunque oggetto certo.” Per la datazione delle due leggi non abbiamo dati diretti sufficienti. Come ho già detto sopra, la lex Silia va collocata nel III sec. a. C. 81 Da quel che abbiamo potuto elucubrare sulla base di Plaut., Curc. 5 possiamo affermare che essa precedette la composizione del Curculio di Plauto, il che non rappresenta che una conferma un po’ vaga di quella datazione entro lo spazio di un secolo; possiamo anche dire, sempre sulla base delle mie elucubrazioni citate, che la lex Silia precedette pure la redazione del testo del giuramento del coscritto nota a Plauto quando compose il Curculio, il che ci impone bensì di anticipare ancora di un poco la data della legge rispetto al Curculio, ma siamo sempre nel vago, perché non conosciamo con esattezza né la data del Curculio, né quella della composizione di quella versione del giuramento 82. Quanto alla lex Calpurnia siamo nella stessa situazione 83: ma una vecchia tesi 84, con un certo seguito, aveva proposto di considerare la lex Calpurnia come legge comiziale proposta da C. Calpurnio Pisone durante la sua pretura urbana 85 del 211 a. C., e si tratta di una datazione possibile.
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Per le ipotesi sulla data vedi KASER/HACKL, 111 n. 4. Una conferma del fatto che la lex Silia fosse anteriore al Curculio si potrebbe desumere dalle allusioni, contenute nello stesso Plaut., Curc.496, in Plaut., rud. 13 s. e Plaut., Pers.478 (quest’ultima commedia è, fra le tre, la sola che parrebbe forse databile con una certa precisione a non prima del 197/196 a. C.; vedi PARATORE, Plauto, Tutte le commedie cit. IV, 8 s.) ad un giuramento decisorio deferito dall’attore in iure, e che sembra proprio il precedente – legato alla legis actio per condictionem – dell’analogo giuramento (il cosiddetto “giuramento necessario”) previsto nell’editto pretorio per la condictio certae pecuniae formulare (LENEL, EP, 232 ss.; KASER/HACKL, 112 con la n.17; 268 s.). 83 Per le ipotesi sulla data della lex Calpurnia vedi KASER/HACKL, 111 n.5. 84 L. LANGE, Römische Altertümer II3, Berlin 1879, 667. 85 Una legge col nome di un unico proponente può infatti essere, invece che un plebiscito, una legge comiziale proposta da un pretore. Naturalmente, la gens Calpurnia essendo una gens plebea, Pisone avrebbe anche potuto aver proposto la stessa legge come plebiscito quando fu tribuno, e quindi alquanti anni prima. Va però detto che il solo indizio a favore dell’attribuzione 82
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Quali furono gli esiti dell’interpretatio giurisprudenziale lo vedremo man mano più avanti. Faccio qui ancora solo alcune considerazioni d’ordine generale. Anzitutto si deve notare che l’impostazione stessa che i giuristi avevano dato al lavoro interpretativo li portava, prima che a definire una tipologia di fonti d’obbligazione – cioè un catalogo di fatti obbligatori – a definire dei meccanismi obbligatori: essi individuarono che l’obbligazione da sponsio nasce verbis, ma che essa può nascere anche litteris e re, creando così un sistema di fonti d’obbligazione che, pur assumendo il necessario rigore, non si muoveva con l’impaccio del Typenzwang. È poi ancora da sottolineare il ruolo che nella loro costruzione giocò il punto di partenza, e cioè l’idea dell’analogia con la sponsio. Quest’idea ebbe una rilevante funzione di limite del settore in cui essi operarono ampliando l’applicabilità della condictio. I rapporti che essi riconobbero come tutelabili con la nuova azione dovevano corrispondere a situazioni che si sarebbero potute creare anche con il meccanismo proprio della sponsio. La condictio non divenne, per questo, l’azione generale per tutti i rapporti obbligatori, ma solo l’azione generale per un settore del sistema delle obbligazioni: al di fuori di questo settore i criteri per stabilire la tutelabilità di rapporti obbligatori sarebbero stati diversi e diverse le azioni esperibili. In questo discorso generale mi limito, per ora, ad illustrare quanto detto con due esempi. Le strutture già esistenti come rapporti di soggezione, cioè come causa di manus iniectio, non furono riconosciuti come oggetto di condictio – tanto la legis actio per condictionem quanto la sua versione formulare – anche se ciò fosse astrattamente possibile. Basta osservare che cosa avvenne per le tre ipotesi principali. Il nexum semplicemente decadde, e fu invece costruito il mutuo, che rappresentava una creazione nuova. Al iudicatum – che pure aveva sempre come oggetto una somma determinata di denaro – la condictio non si applicò mai, e fu introdotta l’apposita actio iudicati (che era un’azione causale). Quanto alla damnatio testamentaria, e cioè al legato ad effetto obbligatorio, anche se questo creasse l’obbligazione di dare una somma determinata di denaro o una cosa determinata, la condictio non fu mai applicabile, ma si creò un’apposita azione (causale) formulare (l’actio ex testamento certi). Aggiungo qui che, per altro verso, essendo la condictio un’azione reipersecutoria, le obbligazioni da delitto rimasero sempre estranee al suo campo d’applicazione 86.
Il secondo esempio. Come sappiamo, la sponsio creava un solo rapporto obbligatorio; un creditore e un debitore, che doveva al primo una prestazione, la della legge a C. Calpurnio Pisone (sul quale GUNDEL, in KP I,1020, s. v. Calpurnius num. 13) sta nel suo nome e nella collocazione cronologica opportuna della sua pretura. 86 Dei problemi che suscita Ulp. D.12,1,9,1 – un testo che comunque non può essere stato scritto da Ulpiano nel suo tenore attuale – non è il caso di parlare qui.
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quale a quest’epoca poteva essere solo una prestazione di dare un certum 87. Questo stesso restò il carattere strutturale delle fattispecie per le quali fu ammessa la tutela mediante condictio: non solo quest’azione, anche quando assunse la struttura formulare, mantenne limitata alle obbligazioni di dare la sua applicabilità, ma gli atti obbligatori idonei a creare obbligazioni reciproche fra le parti ne restarono sempre esclusi: in particolare, essa non fu mai applicabile ai contratti consensuali, neanche ad una singola obbligazione di dare nascente da contratto consensuale. Ho aggiunto quest’ultima precisazione per chiarezza: ma è ovvio che la parte che invochi in giudizio un contratto come fondamento della sua pretesa deve dedurre nel giudizio stesso l’intero affare corrispondente a tale contratto, e non una sua parte: anche se agisse con un’azione munita di praescriptio, che gli permette di far valere un singolo diritto componente l’insieme dell’organismo obbligatorio creato dall’atto 88, la sua pretesa sarà pur sempre valutata come elemento dell’intero affare.
Nei paragrafi che seguono cercheremo di osservare come i giuristi abbiano definito i tre genera obligationum rilevanti per la condictio: e dovremo considerarvi quest’azione come un unico istituto, anche se essa, introdotta come legis actio, assunse poi le vesti della condictio formulare. La creazione della condictio formulare, e quindi la corrispondente decadenza della legis actio per condictionem, è certamente alquanto antica. Secondo un orientamento che, negli ultimi decenni, ha incontrato molto seguito e che parte da un famoso articolo pubblicato da Max Kaser nel 1953 89, la lex Aebutia, che si vuol collocare nel II secolo a. C. 90, avrebbe equiparato nel valore e negli effetti alle legis actiones – come spesso si dice, avrebbe «legittimato» o «legalizzato» – la condictio formulare, e questo sarebbe stato il primo caso di riconoscimento legislativo della nuova procedura per formulas. La tesi del Kaser rappresentava un tentativo di sminuire l’importanza e la portata della lex Aebutia rispetto a quella che le attribuì il Wlassak 91, secondo il quale essa avrebbe legittimato, 87 Nelle fonti si fa menzione anche di una condictio incerti, e forse la terminologia non è in se stessa giustinianea, come in genere si ritiene, anche se la sostanza dei passi in cui si presenta la possibilità di condicere un incertum va spesso considerata frutto di approssimazioni non classiche. Ciò non toglie che i giuristi classici – comunque alquanto più tardi dell’epoca alla quale il discorso che stiamo adesso facendo si riferisce – possano avere in certi casi ammesso un’azione, da considerarsi analoga alla condictio, o la condictio stessa con una formula appositamente modificata, per prestazioni che si presentano come un incertum. Vedremo noi stessi a suo luogo il caso della condictio liberationis. Sul problema vedi comunque l’esemplare sintesi del KASER, RPR I, 598 ss. (§ 139 IV.2); RPR II, 424 (§ 270 III.3); letteratura in KASER/HACKL, 312 n. 8a. 88 Vedi l’esempio in Gai.4,131a. 89 KASER, Die lex Aebutia, in Studi Albertario I, Milano 1953, 25 ss. La letteratura in proposito è assai ricca: vedi KASER/HACKL, 159 n. 58 e in particolare PUGLIESE, PCR II,1, 52 ss. 90 Sulla data della lex Aebutia KASER/HACKL, 159 con la n. 59. 91 In particolare WLASSAK, Römische Prozeßgesetze I, Leipzig 1888, 58 ss.; II, Leipzig 1991, 1 s.; 301 s.; 363 s.
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equiparandoli negli effetti alle legis actiones, tutti i processi formulari instaurati a Roma (cioè dei quali fosse fatta a Roma la litis contestatio) fra cittadini romani e da giudicarsi da un giudice unico (cioè non collegiale). Io devo dire che queste tesi non mi sembrano desumibili dalle fonti, perché in esse è del tutto assente l’idea di una legalizzazione della procedura formulare, e la lex Aebutia, che ci è nota solo da Gai.4,30 e Gell.16,10,8, è presentata in entrambi questi testi come un momento di una vicenda di abrogazione delle legis actiones e non di legalizzazione del processo per formulas. Resta però il fatto, che ora ci interessa, che dopo la presunta data della lex Aebutia abbiamo notizia dell’impiego di legis actiones 92 – fino alle leges Iuliae iudiciariae del 17 a. C. che abrogarono definitivamente le legis actiones con pochissime eccezioni 93 –, ma nessuna di queste riguarda la legis actio per condictionem.
2. VERBIS OBLIGARI. – Al tempo nel quale la triade dei ‘genera obligationum’ re-verbis-litteris fu definita in relazione alla legis actio per condictionem, essa aveva un significato diverso da quello che assunse poi: per capirci intanto approssimativamente, diverso da quello che presenta nel contesto della divisio obligationum delle Istituzioni di Gaio, dove non è più una triade autonoma, ma i suoi elementi sono tre dei quattro genera di una quadripartizione. Questa differenza or ora enunciata riguarda il senso della triade nel suo complesso, ma essa stessa dipende da un mutamento nel senso di ciascuno dei suoi membri. Come abbiamo visto sopra 94, la quadripartizione gaiana re-verbis-litteris-consensu è presentata come una diairesi dei contratti, e la fattispecie contrattuale implica come elemento l’accordo delle parti; pertanto, le figure di fonti d’obbligazione classificate da Gaio come re, verbis e litteris obligari – ovvero re, verbis, litteris contrahere obligationem – vengono a corrispondervi a fattispecie contrattuali; il che implica, come pure abbiamo sottolineato, che delle tre fattispecie faccia parte anche un accordo contrattuale delle parti. Ora, quando fu creata la legis actio per condictionem, ed a lungo persino dopo che quest’azione fu sostituita dalla condictio formulare, la nozione di contratto non aveva preso ancora posto nel patrimonio dommatico della giurisprudenza. Come vedremo a suo luogo più avanti 95, una chiara nozione generale di contratto fu concepita la prima volta da Labeone, ed unicamente in relazione ai contratti consensuali, cioè alle obbligazioni che Gaio classificherà come consensu contractae. Su tutto ciò ritorneremo, come ho già premesso: ma per ora dobbiamo tenere ben presente che la divisio delle obbligazioni re-verbis-litteris, che i giuristi elaborarono in relazione alla condictio, non era una classificazione di obbligazioni contrat92
Vedi KASER/HACKL, 160 n. 63. Gai.4,30-31; le eccezioni erano due, ma praticamente si ridussero a quella sola dei processi per i quali era previsto il giudizio dei centumviri. 94 Nella parte finale del § 1 a partire dall’osservazione [B]. 95 In proposito vedi in particolare infra, cap. III § 2. 93
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tuali. Ciò non toglie che il consenso delle parti possa essere in qualche modo implicato nella struttura della fonte: e vedremo anche come ciò avvenga in modo diverso per ciascuno dei tre genera della triade di cui ora ci stiamo occupando. Per quanto riguarda le obbligazioni verbis contractae lo abbiamo già visto, e non ho qui che da rinviare a quanto credo di aver chiarito nel volume precedente 96. L’essenza del rapporto, nella stipulatio, tra i verba e il consenso delle parti è stato colto in modo assai preciso – oltre che eleganter, come diceva Ulpiano 97 citandolo – da Pedio, dicendo che la stipulatio, ‘quae verbis fit, nisi habeat consensum nulla est’: la stipulatio si fa verbis – dicendo delle parole, cioè realizzando la sua forma orale – ma se manca il consenso delle parti essa è nulla; il che non significa altro, se non che l’obbligazione che nasce da stipulatio non nasce consensu, non è prodotta dal consenso delle parti, ma dalla pronunzia delle parole negoziali; tuttavia queste parole sono espressione del consenso delle parti, e quindi se il consenso manca esse non possono essere considerate parole stipulatorie; stipulatio nulla est corrisponde certo alla traduzione che ne ho fatta (“la stipulatio è nulla”), ma letteralmente il senso esatto dell’espressione è “non c’è alcuna stipulatio”. Come abbiamo a suo luogo potuto ampiamente constatare, per i giuristi il contenuto obbligatorio della stipulatio – l’insieme dei suoi effetti obbligatori – era id quod actum est, l’affare che le parti, dicendo quelle parole, avevano inteso realizzare 98: atteggiamento che certo era presente già presso i giuristi che crearono il prototipo di quel negozio, la sponsio, prima delle dodici tavole. Ora, l’accordo necessario alla stipulatio somiglia molto ad un accordo contrattuale, e tale non è unicamente perché esso non è produttivo d’obbligazione. Così veniamo ad evidenziare un’incongruenza della classificazione gaiana: dove la stipulatio è presentata come un’ipotesi di contratto, mentre vi si afferma ancora che l’obbligazione vi si produce verbis e non consensu 99.
3. LITTERIS OBLIGARI. – Diversamente le cose si presentavano in quelle che Gaio indicava come obbligazioni contratte litteris 100, vale a dire con parole
96 Vol. II,1 cap. Va §.1 (p. 87 ss.) e specialmente la sua parte finale, a partire dalla metà di p. 93. Nell’insieme del cap. Va (p. 87-352) il lettore troverà anche una trattazione, che ritengo esauriente, dei problemi relativi all’ipotesi di gran lunga più rilevante di obligatio verbis contracta, e cioè dell’obbligazione da stipulatio. 97 Ulp. Ped. D.2,14,1,3; vol. II,1 p. 96. 98 Vedi in particolare, nel vol. II,1 alle p. 97 ss. Due esempi caratteristici di stipulatio nulla per difetto della volontà delle parti sono in Paul. D.44,7,3,2. 99 Si rileggano attentamente, in particolare, Gai.4,89 e 92. 100 Lett. in KASER, RPR I, 543 ss. in particolare la n. 3; adde: COSTA, Cicerone giureconsulto I, Bologna 1927 (repr. Roma 1964), 164 ss.; come letteratura recente in particolare: BONIFACIO, La novazione nel diritto romano, Napoli 1950, 53 ss. (vedi anche la seconda edizione [1959], 66 ss.,
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scritte: si trattava di certe scritture contabili dette pure nomina transscripticia, ed il negozio che esse concretavano viene dai romanisti denominato expensilatio 101: il significato e la ragione dell’uso di questi termini sarà chiaro dall’esposizione che segue. In quanto segue ci riferiremo in particolare, per l’expensilatio (o nomen transscripticium), alla situazione di cui danno conto le Istituzioni gaiane: l’insieme di Gai.3,128-133; 137 (in fine); 138 rappresenta in effetti per noi la sola esposizione chiarificatrice in materia. Certo non va trascurato quanto possono dirci una serie di allusioni all’istituto che si leggono in fonti letterarie, fra le quali particolare rilevanza rivestono le testimonianze ciceroniane 102. Una certa rilevanza hanno pure alcuni documenti della pratica reperiti negli scavi effettuati tra il 1930 e il 1940 nell’antica Ercolano, in quanto erano presenti in case private di quella città che, come è noto, fu sommersa da una lava di fango nell’anno 79 d. C, per effetto della stessa eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei con una grandine di lapilli ardenti. Dei documenti che riguardano i nomina transscripticia diede in particolare conto Vincenzo Arangio-Ruiz: dapprima in un articolo sull’insieme dei reperti documentali, e poi in uno studio specifico 103. In realtà, per questa materia, le nostre informazioni sono piuttosto carenti. Ciò dipende dal fatto che ai tempi della compilazione giustinianea i nomina transscripticia non si usavano più. Nelle Istituzioni giustinianee la trattazione de litterarum obligatione s’inizia proprio dicendo: I.3,21: Olim scriptura fiebat obligatio, quae nominibus fieri dicebatur: quae nomina hodie non sunt in usu. … “Un tempo l’obbligazione si formava con una scrittura, e si diceva che essa si formava nominibus (cioè: mediante nomina, con il che Giustiniano parrebbe voler alludere alla scrittura in se stessa): i quali nomina oggi non sono più impiegati. …” In coerenza con che non ho potuto consultare); KASER (nella recensione a THIELMANN, Die römische Privatauktion, Berlin 1961, con riguardo alle pp. 109-128), in ZSS 79(1962), 444 ss; GROSSO, Il sistema romano dei contratti3, Torino 1963, 137 ss.; WATSON, The Law of Obligations, Oxford 1965, 18 ss.; TOMULESCU, Der contractus litteris in den tabulae Herculanenses, in Labeo 15(1969), 285 ss.; LIEBS, Contrarius actus, in Sympotica Wieacker, Göttingen 1970, in part. 107 ss.; KNÜTEL, Das Prinzip der formalen Korrespondenz im römischen Recht, in ZSS 88(1971), 82 ss. 101 Il termine expensilatio (o expensi latio) non si trova nelle fonti, se non – per quanto mi risulta – in Gell.14,2,7. Ben testimoniata è però l’espressione verbale, dalla quale il sostantivo viene formato, expensum ferre: la leggeremo nei testi di Gaio e di Cicerone che esamineremo in questo stesso paragrafo; vedi anche: Pap. in Marcian. D.20,4,12,5; Ulp. D.36,1,23,4 in fine; Ulp. D.5,3,25,16; Iav. Lab. Ofil. Casc. D.33,10,10 (expenso ferre); Pap. Vat.329 (acceptum vel expensum fertur). Anche in impiego traslato: Ulp. (Ant. Pius) D. 36,4,3,3; Scaev. D.42,8,24. 102 Alcuni dei testi qui elencati si riferiscono al codex accepti et expensi o alle scritture che vi si potevano fare, e non specificamente ai nomina transscripticia. Plaut., Most.304; Plaut. Truc.7073; Cic., II Verr.1,60-61; Cic. II Verr.4,12; Cic., p. Roscio com.1,1-5,14; Cic., p. Caec.6,16-17; Cic., orat.47,158; Cic., de off.3,14,59; Liv.35,7,2(-3); Plin., ep.2,4,2 in fine. Su Liv.35,7,2-3; Plaut. Truc.70 ss.; Cic., orat.47,158; Cic., de off.3,14,58-60 vedi WATSON, The Law of Obligations cit., 18 ss.; 29 ss. 103 ARANGIO-RUIZ, Les tablettes d’Herculanum, in RIDA 1(1948), 1 ss. (per le tavolette che ora ci interessano, p. 15 s.); ARANGIO-RUIZ, Le tavolette cerate ercolanesi e il contratto letterale, in Studi Redenti I, Milano 1951, 115 ss.
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questa situazione, i compilatori del Corpus Iuris non solo non hanno riportato alcun passo relativo ai nomina transscripticia, ma hanno cancellato da tutti i testi la loro menzione, comprese le indicazioni generali dell’obligatio litteris contracta 104; ne sono rimaste solo alcune tracce smorte: allusioni, nelle quali la terminologia antica è magari stata conservata in quanto può esser letta senza darle il significato tecnico originario 105, ed una menzione isolata, a mio parere almeno, in un caso nel quale ai compilatori la menzione è sfuggita, perché non fatta con la terminologia tecnica. Si tratta di Scaev. D.34,3,31,4, dove si riporta una disposizione testamentaria nella quale viene legata ad un soggetto la liberazione, fra l’altro, da ‘quidquid mihi ... rationibus debitor est’ che, nel linguaggio non rigorosamente tecnico di un documento privato, pare proprio alludere ai nomina, cioè i debiti risultanti “dai conti”, intendendosi con ciò i libri di entrata e uscita. Se si guarda la parafrasi di Teofilo alle Istituzioni imperiali ci si accorge anche che i compilatori giustinianei dell’expensilatio non avevano neppure più un’idea approssimativa. L’autore, nella parafrasi relativa a I.3,21 (Theoph.3,21), proponeva come esempio dell’antico negozio una descrizione della transscriptio a re in personam, concependone il testo – in lingua latina – nei termini seguenti: ‘centum aureos, quos mihi ex causa locationis debes, expensos tibi tuli’, che parrebbe significare, nell’idea di Teofilo, “ti ho pagato i cento aurei che mi devi in forza della locazione?”, perché, secondo il parafraste, la controparte avrebbe scritto subito dopo nello stesso documento: ‘expensos mihi tulisti’, e cioè “me li hai pagati”. Come si vedrà fra poco quando parleremo della transcriptio a re in personam, l’autore è certamente fuori strada, perché pensa ad una scrittura effettuata in forma dialogica, il che in un libro contabile non ha senso alcuno. Se Teofilo non aveva conoscenza diretta dell’istituto, ciò dipendeva dal fatto che i nomina transscripticia – insieme con l’uso di tenere i libri contabili familiari con i quali tali negozi erano inscindibilmente connessi – erano desueti ormai da secoli, con ogni probabilità già dalla fine dell’epoca classica 106. Egli cercava solo di interpretare quanto trovava in Gaio, arrivando così a costruire l’expensilatio come una specie particolare di stipulatio (novatoria) scritta.
Dobbiamo incominciare facendoci un’idea dei codices accepti et expensi 107, cioè dei “libri di entrata e uscita”, che erano libri contabili usuali delle famiglie romane di un certo livello sociale che permettesse, o imponesse, ordine e chia-
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Come si è visto sopra, all’inizio del § 1, leggendo Pomp. Q.Muc. D.46,3,80. Vedi anche il passo di Scevola, di cui si parla subito nel testo. Naturalmente vi sono pure testi nei quali espressioni frequenti nel linguaggio dei nomina sono presenti, ma non è certo se si riferiscano al meccanismo obbligatorio che ci interessa o abbiano diverso valore. Ad esempio: Pomp. D. 35,1,111 (expensum rationibus praescripserit quod non dederat); Scaev. D.2,14,47,1 (si tantum ratio accepti atque expensi esset computata); Scaev. D.34,3,31,1 (Inter cetera liberto ita legavit: ‘et si quid me vivo gessit, rationes ab eo exigi veto’. quaeritur, an chartas, in quibus rationes conscriptae sunt, item reliquas secundum accepta et expensa heredibus reddere debeat). 106 KASER, RPR I, 544 s. con la n.21. 107 La locuzione codex accepti et expensi è presente in Cic., p. Roscio com.1,4 e 2,5; poco sopra, in p. Roscio com.1,2, l’analoga tabulae accepti et expensi. Cicerone usava indifferentemente i due appellativi (ciò è particolarmente evidente in p. Roscio com.1,1, dove per tabulas e in codicem si riferiscono – nel caso, ipotetico – allo stesso oggetto), anche se tabulae si riferirebbe specificamente ad un registro composto di tavolette cerate e codex ad un quaderno di carta (papiro) o pergamena rilegato in costa. 105
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rezza nella gestione del patrimonio familiare 108. Il codex accepti et expensi era un quaderno, composto da una serie di tavolette cerate – più tardi anche da un insieme di fogli rilegati in costa –, e conteneva le scritture relative ai movimenti di cassa; a quanto pare (e comunque, qualunque fosse il materiale scrittorio usato, il documento non poteva differire sostanzialmente da questo modello) lungo tutto il quaderno, in ogni coppia di pagine che si appalesassero alla sua apertura, nella pagina sinistra venivano registrate le entrate (accepta) e nella pagina destra le uscite (expensa). L’uso era di aggiornare il codex alla fine di ogni mese, trascrivendovi in bella copia le annotazioni (adversaria) rilevanti che il titolare aveva fatte via via nel corso dello stesso mese nel suo liber adversariorum. Adversarium (da adversus = contro, davanti, in faccia) allude a “qualcosa che una persona ha sempre davanti”, e quindi – nel nostro caso – il “libro degli adversaria” rappresentava un brogliaccio di annotazioni quotidianamente minutate. Esso era, dunque, redatto in modo analogo al codex accepti et expensi, ma senza la stessa cura – calligrafia, assenza di correzioni e cancellature, ordine rigoroso – ed era destinato ad essere eliminato dopo l’aggiornamento di quello. Vedi Cic., p. Roscio com.2,5-7, dove espressivo è in particolare il § 7: Quid est, quod neglegenter scribamus adversaria? quid est, quod diligenter conficiamus tabulas? Qua de causa? Quia haec sunt menstrua, illae sunt aeternae; haec delentur statim, illae servantur sanctae; haec parvi temporis memoriam, illae perpetuae existimationis fidem et religionem amplectuntur; haec sunt disiecta, illae sunt in ordinem confectae. … Traduco: “Perché mai scriviamo senza cura gli adversaria? Perché mai redigiamo con cura le tabulae (cioè: il codex accepti et expensi)? Dove sta la ragione? Perché questi durano un mese, quelle per sempre; questi vengono tosto cancellati, quelle scrupolosamente conservate; questi contengono memoria di un breve passato, quelle certezza intangibile di credito perenne; questi sono raffazzonati, quelle composte in ordine.”
Per l’expensilatio il discorso si identificherà in buona parte con una ricostruzione, la più approssimativamente esatta possibile, del suo regime, per il quale, come già dicevo, siamo informati soprattutto dalle Istituzioni di Gaio, ed in particolare dal brano seguente: Gai.3,128: Litteris obligatio fit veluti in nominibus transscripticiis. Fit autem nomen transscripticium duplici modo, vel a re in personam vel a persona in personam. 129: A re in personam transscriptio fit, veluti si id quod tu ex emptionis causa aut conductionis aut societatis mihi debeas, id expensum tibi tulero. 130: A persona in personam transscriptio fit, veluti si id quod mihi Titius debet, tibi id expensum tulero, id est si Titius te delegaverit mihi. 131: Alia causa est eorum nominum, quae arcaria vocantur: in his enim rei, non litterarum obligatio consistit, quippe non aliter valet, quam si numerata sit pecunia; numeratio autem pecu108
La pratica dei libri contabili familiari prese piede a Roma seguendo un modello ellenistico; vedi la lett. in KASER, RPR I, 543 n. 4.
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niae rei facit obligationem. qua de causa recte dicemus arcaria nomina nullam facere obligationem, sed obligationis factae testimonium praebere. Nella traduzione che segue (come, più avanti, in quella del prosieguo del testo) ho tenuto conto del fatto evidente che Gaio usa il termine nomen con un significato oscillante: talora il vocabolo è usato nel suo senso di “credito”, significato divenuto comune nell’epoca classica, e che trova probabilmente la sua origine proprio in queste scritture contabili basate sulla registrazione del “nome (nomen)” del debitore; talaltra invece con nomen (plurale: nomina) Gaio indica, in questo contesto, la scrittura, cioè l’atto della registrazione e il testo che ne risulta scritto nel libro contabile. A seconda dell’impiego ho dunque tradotto nomen con “credito” ovvero con “registrazione”. Dunque: “L’obbligazione nasce litteris (da parole scritte) come nel caso dei «crediti trascritti» (nomina transscripticia). Un credito si può trascrivere in due modi, o «da affare 109 a persona» o «da persona a persona». 129: Si ha trascrizione «da affare a persona», se io registro come uscito a tuo conto quanto tu mi devi per effetto di una compera, di una conduzione o di una società. 130: Si ha trascrizione «da persona a persona», se io registro come uscito a tuo conto quanto Tizio mi deve, cioè se Tizio ha delegato te a mio favore. 131: Altra cosa sono le registrazioni che son dette «di cassa» 110: qui l’obbligazione ha natura reale e non letterale 111, infatti non vale altrimenti che se il denaro sia stato pagato, e il pagamento produce un’obbligazione reale. Perciò si dirà correttamente che le trascrizioni «di cassa» non creano alcuna obbligazione, ma solo attestano un’obbligazione già formatasi.” Aggiungo una notazione paleografica, che credo opportuna. Nel presente contesto (§ 131), per indicare l’obbligazione formatasi re, Gaio sembra usasse (secondo alcuni editori 112, e forse con ragione) l’espressione rei obligatio. Per vero, dall’apografo dello Studemund risulta che nei due luoghi che qui interessano il manoscritto veronese reca rispettivamente: ‘in his (e)n(im) reb. n(on) litterarum obligatio’ e ‘numeratio a(u)t(em) p(e)c(uniae) rein facit obligationem’. Nel trascrivere dall’apografo ho separato le parole e sciolto le abbreviazioni sicure, lasciando solo quella ‘reb.’, la quale in se stessa dovrebbe essere un’abbreviazione di rebus; la ‘n’ alla fine di ‘rein’ nel secondo luogo parrebbe
109 Questa traduzione di ‘a re’ con “da affare” trova conferma in quanto detto nella spiegazione contenuta nel successivo § 129, dove le res sono identificate in tre contratti di scambio; quindi il vocabolo res nella locuzione ‘a re in personam’ è chiaramente usato con un significato diverso da quello che esso stesso assume nelle locuzioni ‘re contrahere obligationem’ e ‘re obligari’ di Gai.3,90-91. 110 L’aggettivo arcarius proviene dal sostantivo arca, che significa “cassa”, tanto in senso materiale (ad indicare il mobile) quanto nel suo significato contabile e giuridico: vedi ad esempio Gai. D.3,4,1,1; Pap. D.17,2,82; ‘arcarius’ è anche sostantivo, e come tale significa “cassiere”: Scaev. D.40,5,41,17; anche Ulp. Vat.134; Paul.3,6,72. Vedi ERNOUT-MEILLET, s. v. arca. 111 Cioè: ha natura di obbligazione formatasi re e non litteris: ma si veda la notazione paleografica che segue fra poche righe. 112 Il problema riguarda in particolare la lettura dei due luoghi di Gai.3,131 ai quali mi riferisco nel seguito di questo capoverso. Nel senso ora indicato vedi in particolare KÜBLER7 (1935), p. 161 con la n. 8; p. 162 con la n. 1, seguito da NELSON-MANTHE, Gai Institutiones III 88-181, Berlin 1999, p. 42; 211. KRÜGER-STUDEMUND7 (1923), p. 132 scrivevano ‘rei, non litterarum’ e ‘re facit obligationem’, seguiti da FIRA II (BAVIERA), p. 128 s. Tutti gli autori correggono anche in valent il valet del manoscritto (nel luogo: ‘quippe non aliter valet’; vedi NELSON-MANTHE cit., 211), correzione che mi pare comunque superflua.
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da attribuirsi ad un semplice errore dell’amanuense. Se si volesse mantenere il ‘rebus’ nel primo luogo, ne verrebbe ancora un senso possibile – anche se con un frasare meno elegante di quello con la lettura ‘re’ – ed avremmo così, nel complesso, nella prima parte del § 131, dopo le parole iniziali (Alia causa est eorum nominum, quae arcaria vocantur: = “Altra cosa sono i crediti che son detti di cassa:”), come testo, nel manoscritto, secondo l’apografo: in his (e)n(im) reb(us) n(on) litterarum obligatio consistit q(ui)ppe (n)on aliter valet q(uam) si numerata sit pecunia numeratio a(u)t(em) p(e)c(uniae) rei[n] facit obligationem e cioè: “in questi casi infatti non prende corpo un’obbligazione letterale, infatti non vale altrimenti che se il denaro sia stato pagato, e il pagamento produce un’obbligazione reale.” Va però tenuto presente che a favore della correzione di reb(us) in rei nel luogo iniziale milita un indizio assai forte: l’impiego di litterarum obligatio per l’obligatio litteris contracta vi è sicuro, ed essa rappresenta l’esatto parallelo di rei obligatio per obligatio re contracta.
Possiamo, per ben comprendere il discorso di Gaio, partire da una considerazione generale sul carattere della sua esposizione. Egli distingue nettamente i nomina transscripticia dai nomina arcaria, anche, appunto, nelle denominazioni: io le ho rispettivamente tradotte “crediti trascritti” (sarebbe stato più esatto, ma insopportabile in italiano, «crediti trascrittizî») e «registrazioni di cassa» per cercar di cogliere il senso della terminologia gaiana, che allude con la prima espressione a crediti (nomina) che dipendono dalla scrittura nel libro di cassa del creditore e con la seconda a registrazioni (nomina), la scrittura delle quali descrive un semplice movimento di cassa. Questa distinzione fra nomina transscripticia e nomina arcaria, qualunque sia l’origine – che poteva pur essere contabile – della terminologia che l’esprime, era impiegata dai giuristi ed aveva un senso giuridico. Ciò è confermato dai due paragrafi seguenti del testo, dove Gaio riporta altre deduzioni dei giuristi basate sulla differenza di effetti dei due generi di trascrizioni: Gai.3,132: Unde proprie dicitur arcariis nominibus etiam peregrinos obligari, quia non ipso nomine, sed numeratione pecuniae obligantur; quod genus obligationis iuris gentium est. 133: Transscripticiis vero nominibus an obligentur peregrini, merito quaeritur, quia quodam modo iuris civilis est talis obligatio; quod Nervae placuit. Sabino autem et Cassio visum est, si a re in personam fiat nomen transscripticium, etiam peregrinos obligari; si vero a persona in personam, non obligari. “Per cui bene vien detto che le trascrizioni «di cassa» obbligano anche gli stranieri, poiché essi vengono obbligati non dalla scrittura in sé ma dal pagamento del denaro 113, genere di atto obbligatorio che appartiene al ius gentium. 133: A ragione si discute invece se gli stranieri risultino obbligati dai «crediti trascritti», poiché tale atto obbligatorio è, in un certo modo, di diritto civile, come pensava Nerva. Sabino e Cassio erano piuttosto del parere che anche gli stranieri risultino obbligati se la trascrizione sia fatta «da affare a persona» e non invece se sia fatta «da persona a persona».”
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Ho tradotto letteralmente ‘quia non ipso nomine, sed numeratione pecuniae obligantur’: ma il senso dommatico della frase sarebbe piuttosto “perché non risultano obbligati litteris, ma re”.
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Cominciamo dunque col renderci conto del senso contabile delle scritture in se stesse, ricostruendone il tenore presumibile semplicemente da quel che è scritto nel passo gaiano che si è letto 114. Indicheremo con il pronome di prima persona (io, me) il soggetto che in Gai.3,128-131 è costantemente indicato come ego, e che è il titolare del libro contabile; con Sempronio la sua controparte, cioè il destinatario degli esborsi registrati (che in Gai.3,128-131 è indicato come tu, ma che nella registrazione, effettuata in forma oggettiva, era ovviamente indicato per nome [nomen]); Tizio sarà il terzo, che in Gai.3,130 è indicato appunto come Titius. Un’ultima precisazione preliminare. Nella terminologia dei nomina – arcaria e transscripticia –, e ciò tanto per quel che riguarda il testo delle scrittura, quanto per gli enunciati descrittivi dell’operazione che con le scritture viene registrata, il ruolo principale è sostenuto dal verbo expendo (expendere). Si tratta 115 di un composto del verbo pendo (pendere). La radice pend- ha dato luogo in latino a due verbi: pendeo (di seconda coniugazione), intransitivo, che significa “essere appeso” o “sospeso” (anche in senso figurato: essere in istato di attesa), e pendo (di terza coniugazione), transitivo, che è quello che ora ci interessa. Il senso originario di questo verbo pendo è quello di “pesare”, e chi conosce gli atti giuridici arcaici che si effettuavano per aes et libram 116 (mancipatio 117, solutio 118, nexum 119) comprende facilmente come la semantica di pendo si sia presto estesa al significato di “pagare”. Il prefisso ex- che da pendo forma expendo aggiunge al verbo, nell’ultima accezione descritta, l’idea della compiutezza, dell’integralità: pagare interamente. In un libro contabile, dunque, la registrazione di una somma di denaro come expensa a qualcuno (a favore di qualcuno: il dativo del destinatario è anche dativo di comodo) significa che tale somma, a quel qualcuno, è stata, dall’autore della registrazione, interamente pagata. Naturalmente, tutto ciò comporta anche che l’impiego assoluto di expendo – cioè il suo uso con riguardo unicamente all’oggetto, vale a dire al denaro speso, e non anche al soggetto a favore del quale lo è stato – venga a significare che il denaro “è uscito (per un qualche scopo)”: come nella denominazione del libro di cassa quale codex accepti et expensi, espressione che viene correttamente tradotta con “libro di entrata e uscita”.
E veniamo dunque alle singole scritture.
114 Questo metodo è, in assenza di altri elementi desumibili dalle fonti, il solo corretto: come si sa, Gaio è in genere assai preciso quando riferisce dei dati, ed il modo in cui egli descrive i negozi era certamente basato sulla forma che essi assumevano in una pratica che conosceva bene. Tanto più che egli sta descrivendo, per i discenti che lo leggono, la scripturae proprietas di atti formali (Gai.3,136). 115 Su quanto segue vedi ERNOUT-MEILLET, s. v. pendo. 116 CANNATA, SG I, 62 ss. 117 Vol. I p. 295 ss. 118 Vol. II,1 p. 44 s. 119 Vol. II,1 p. 47 ss.
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Per il nomen arcarium (l’ultimo della serie, ma il più semplice) possiamo proporre, ad esempio: expendi Sempronio sestertia C mutua “versati a Sempronio sesterzi 100 a titolo di mutuo”
Il senso qui è del tutto evidente: si tratta di una registrazione di cassa, che indica l’uscita di 100 HS per un prestito fatto da me a Sempronio. Questa scrittura recherà la data del giorno in cui il pagamento (datio mutui) è stato effettuato. Per la transscriptio a re in personam abbiamo: expendi Sempronio sestertia M quae mihi ex conductione fundi Capenatis debet 120 Cioè: “versati a Sempronio sesterzi 1.000 che mi deve per l’affitto del fondo capenate”,
Questa scrittura 121 può spiegarsi, dal punto di vista della pratica contabile, nel modo seguente. Poniamo 122 che io abbia affittato a Sempronio il fondo agricolo capenate per un canone annuo di 1.000 HS e che l’annata di affitto vada dall’aprile dell’anno 730 a.U.c. al marzo dell’anno 731; ancora, che il termine di pagamento dei canoni sia il primo di marzo 731 e che il raccolto venga effettuato dal colono nell’ottobre 730. A raccolto avvenuto (poniamo il 20 ottobre 730), il credito del canone annuo è interamente entrato nel mio patrimonio di locatore perché la somma relativa mi è interamente e certamente dovuta: ma essa non è ancora esigibile, quindi non mi è stata pagata e dunque non rappresenta ancora un attivo di cassa: pertanto non posso registrarla come ricevuta (cioè come acceptum). Il primo di marzo 731 i canoni sono diventati esigibili, ma Sempronio non mi ha ancora pagato. È a questo punto che io eseguo nel mio libro la scrittura di cui ci stiamo occupando (“pagati a Sempronio 1.000 HS che mi deve – o doveva – per l’affitto del fondo capenate”) con il significato (contabile) seguente: i 1.000 HS in parola dovrebbero essermi pervenuti in cassa e invece Sempronio non me li ha dati; ciò equivale al fatto che egli me li abbia pagati ma io glieli abbia poi ridati senza doverglieli. In pratica ciò può in 120
O debebat: vedi le considerazioni infra, poco più avanti. Queste scritture che propongo sono evidentemente congetturali, ed hanno valore solo per essere aderenti all’esposizione di Gaio: non pretendo certo proporle come vere, ma unicamente come adatte a comprendere il meccanismo del negozio. Come d’altra parte si può constatare, il testo che propongo qui è assai diverso da quello che si legge in Theoph.3,21, ma abbiamo già visto sopra (dopo la n. 105 e attorno alla n. 106) che Teofilo certamente inventava, ed inventava male. 122 L’esempio è costruito con i dati di fatto di Scaev. D.7,1,58 pr. 121
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particolare avvenire perché Sempronio, alla scadenza del termine, mi ha chiesto di pazientare un poco, ed io ho consentito unicamente a condizione che egli a sua volta consentisse alla trascrizione del suo debito nella forma del nomen transscripticium, il che mi permetterà di agire contro di lui – ove egli persista troppo a lungo nel non pagare – con la condictio, azione nella quale verrà dedotto il solo mio credito della somma in questione in quanto basato sulla scrittura, e non (come invece se esperissi l'actio ex locato) l’intero rapporto di locazione-conduzione, nel quale caso egli potrebbe oppormi eventuali domande riconvenzionali o eccezioni con tale rapporto connesse 123. Con l’atto è stata dunque realizzata una novazione con mutazione della causa del rapporto obbligatorio 124: l’obbligazione, che Sempronio aveva verso di me, di pagarmi 1.000 HS ex conducto (= in forza del contratto di affitto) è estinta e sostituita dall’obbligazione, sempre di Sempronio, di pagarmi 1.000 HS in forza dell’expensilatio. Per la transscriptio a persona in personam abbiamo: expendi Sempronio sestertia D quae mihi Titius debet 125 “versati a Sempronio 500 sesterzi che mi deve Tizio”.
Possiamo spiegare anche questa scrittura in modo analogo alla precedente. Io sono creditore di 500 HS nei confronti di Tizio. Tizio, invece di pagarmi, mi assegna (in modo informale) Sempronio come nuovo debitore, cioè delega Sempronio a mio favore 126. Con la scrittura, che assumerà la data del giorno in cui è effettuata la delegazione, io esprimo (contabilmente) l’idea che in tale data io dovrei avere in cassa 500 HS pagatimi da Tizio, ma non li ho perché (dopo che Tizio mi ha pagato) li ho dati a Sempronio senza doverglieli, e quindi Sempronio me li deve. Precisamente si realizza in questo modo una delegazione passiva, vale a dire una novazione soggettiva con mutazione del debitore, dunque trasferimento del rapporto di valuta dal delegante Tizio al delegato Sempronio: in seguito ad essa io perderò dunque la mia azione contro Tizio e acquisterò contro Sempronio la condictio per la stessa somma. Queste scritture erano evidentemente state escogitate dai tecnici della contabilità e non dai giuristi; giuridica è invece la loro interpretazione. Tale interpretazione va intesa nel modo che segue. I giuristi hanno tenuto conto del senso contabile delle scritture, cioè dell’effetto che esse sono dirette a realizzare, 123
Gai.4,61: cfr. I.4,6,30 e 39. Sulla novazione con mutazione della causa vedi nel vol. II,1 a p. 326 ss. 125 O debebat: cfr sopra, la n.120. 126 Sulla delegazione (qui si tratta di delegazione passiva) vedi vol. II,1 p. 329 ss. 124
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che è l’effetto novatorio – novazione oggettiva con mutamento della causa nella transscriptio a re in personam, novazione soggettiva con cambiamento del debitore (delegazione passiva) nella transscriptio a persona in personam –, ed hanno inoltre stabilito che la produzione di tale effetto va ricollegata all’effettuazione della scrittura nel libro contabile del creditore, per cui dunque il negozio novatorio si concreta litteris e l’obbligazione che ne sorge si forma litteris. Perché l’effetto si produca, non è però, ovviamente, sufficiente l’esecuzione della scrittura, che è opera unicamente della parte creditrice; è necessario che l’effettuazione della scrittura, con l’effetto che le è connaturato, corrisponda alla volontà delle parti. La volontà del creditore può risultare dalla semplice effettuazione della scrittura, ma la volontà del debitore dovrà risultare altrimenti: è necessario, in altre parole, che il creditore abbia effettuato la scrittura nel suo codex accepti et expensi col consenso del debitore. Il consenso del debitore potrà essere espresso in qualunque modo, e cioè in modo informale purché chiaro ed univoco, quindi sarà normalmente fornito dal debitore con un iussus, un’autorizzazione ad effettuare la scrittura indirizzato dal debitore al creditore titolare del libro contabile. Questo iussus costituisce dunque il presupposto necessario per la validità e l’efficacia dell’expensilatio. Quanto abbiamo or ora detto deve esser messo a confronto con quanto risulta dalla lettura dall’orazione pro Roscio comoedo di Cicerone, alla quale, del resto, abbiamo già fatto ricorso più volte. Prima di esaminarne la parte che ci interessa, dobbiamo renderci conto dell’insieme della vicenda che portò al processo nel quale Cicerone pronunziò, come avvocato, tale arringa. Lo faremo in questa parte stampata in caratteri piccoli, riprendendo il discorso (in caratteri normali) quando avremo i dati necessari per proseguirlo. I fatti dai quali trasse origine la controversia sfociata nel processo, in atto nel 76 a. C. o giù di lì, davanti al giudice Caio Pisone 127 tra Fannio Cherea 128, attore difeso da P. Saturio 129, e Roscio, convenuto difeso da Cicerone, presero inizio alquanti anni prima, possiamo presumere attorno al 96 a. C. Ne indicherò i momenti rilevanti 130 con una sequenza di lettere maiuscole. (A) Tra Cherea e Roscio venne concluso un contratto di socie-
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Cic., p. Roscio com. 8,22 e 13,37. C(aius) Fannius Cherea (Cic., p. Roscio com.1,3), personaggio altrimenti ignoto. 129 P(ublius) Saturius, avvocato citato da Cicerone anche nell’orazione p. Cluentio (38,107; 65,182). 130 Con la sintetica ricostruzione più recente (BERTOLDI, La lex Iulia iudiciorum privatorum, Torino 2003, 86 ss.) vengono fornite copiose indicazioni bibliografiche. Un vero piacere suscita ancora, in particolare, la lettura del breve articolo del PUCHTA, Ueber der Rede pro Q. Roscio Comoedo zu Grunde liegenden Rechtsfall, in Rheinisches Museum 12(1832), 316 ss., ora in Puchta’s Kleine zivilistische Schriften (RUDORFF ed.), Leipzig 1851, 272 ss. Si tenga sempre presente l’edizione dell’orazione con introduzione e traduzione dell’ARANGIO-RUIZ che si trova nel vol. I (1964) di Tutte le opere di Cicerone (Centro di Studi Ciceroniani) edito da Mondadori. 128
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tà 131, con il quale si prevedeva che Fannio Cherea vi conferisse lo schiavo Panurgo, che era di sua proprietà, e Roscio provvedesse alla formazione dello schiavo stesso come attore di teatro e lo avviasse nella carriera come proprio discepolo 132; nel contratto era anche previsto che la proprietà dello schiavo fosse messa in comune fra le parti (cioè trasformata in comproprietà per quote uguali di Roscio e Fannio Cherea) 133: ciò spiega perché lo scopo economico della società, che era evidentemente quello di ripartire in pari misura fra Roscio e Fannio Cherea i proventi del lavoro di Panurgo come attore teatrale, non venga mai, nell’orazione, specificamente menzionato: esso derivava automaticamente dalla trasformazione della proprietà dello schiavo in comproprietà al 50% fra Roscio e Fannio Cherea. (B) Il contratto venne eseguito: Fannio Cherea trasferì a Roscio una quota di metà della proprietà di Panurgo 134, Roscio lo istruì e Panurgo iniziò con successo l’attività di attore 135. (C) Al tempo in cui era attore noto e ben remunerato, Panurgo venne ucciso da un certo Q. Flavio di Tarquinia 136; per questo fatto, spettava a ciascuno dei condomini l’actio ex lege Aquilia con riferimento alla rispettiva quota di proprietà 137, ma Roscio nominò Cherea cognitor 138, il che permetteva a costui di esercitare l’intera azione, per la metà in nome proprio e per la metà come sostituto processuale di Roscio: il che fece Fannio Cherea, ed il rapporto processuale venne instaurato 139; (D) ma, in pendenza del processo, Roscio fece una transazione con Q. Flavio 140. Questa
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Genericamente già Cic., p. Roscio com.6,16-17. Ciò risulta da Cic., p. Roscio com.10,27-11,31, dove non si parla tanto degli accordi contrattuali fra le parti, ma di quanto avvenne a seguito dell’accordo, e lo si presenta come realizzazione felice di quanto era stato convenuto. In particolare, nella sequenza citata, Cicerone spiega, contraddicendo un’obiezione – o piuttosto una mossa retorica – dell’avvocato avversario, che una società può essere conclusa in modo perfettamente equo anche se i conferimenti consistenti in cose provengono da un solo socio, quando l’altro socio apporti un’attività o anche un’autorità proveniente dalla propria persona – come qui era il caso, perché Panurgo non soltanto apprendeva l’arte scenica da Roscio, ma poi si presentava alla carriera come discepolo di costui – capaci di influenzare il livello degli utili da dividere fra i soci. Così ragionando Cicerone si poteva valere dell’opinione in questo senso del suo amico (vedi CANNATA, SG I, 270 ss.) Servio Sulpicio Rufo, come – certo sinteticamente – ce la ricorda Gai.3,149. 133 Cic., p. Roscio com.10,27. 134 Cic., p. Roscio com.10,27. cit. e anche 11,32 (hunc servum communem), 135 Questo risulta dalla stessa sequenza già citata (Cic., p. Roscio com.10,27-11,31). Una quantificazione del valore che poteva attribuirsi alle prestazioni di Panurgo come attore si trova alla fine di Cic., p. Roscio com.10,28. 136 Cic., p. Roscio com.11,32. 137 Ulp. D.9,2,27,2; vedi BRETONE, Servus communis, Napoli 1958, 161 s. n. 11. 138 Sul cognitor vedi vol. II,1 p.81 s. 139 ‘Lite contestata, iudicio damni iniuria constituto’, si dice nel testo riportato alla n. seguente (n. 140): p. Roscio com.11,32; e ciò precisamente significa: “fatta la litis contestatio, instaurato il processo ex lege Aquilia”. 140 Può suscitare problema, perché non corrisponde agli schemi della procedura formulare che Gaio ci fornisce, il fatto che Flavio Cherea abbia esercitato un’unica azione contro Q. Flavio facendovi valere insieme personalmente i propri diritti e quelli di Roscio come cognitor di costui. Ma certo siamo in presenza di uno dei casi nei quali le informazioni processuali di Gaio sono insufficienti. Quella che ho dato è la sola interpretazione di quanto si legge in Cic., p. Roscio com.11,32 (Cicerone riporta prima come discorso diretto un presunto discorso di Cherea – lo 132
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transazione ebbe luogo quindici anni prima del processo del 76 a. C. 141 (e cioè, con la stessa approssimazione nella data, nel 91 a. C.): il contenuto del negozio è abbastanza chiaro, ma non così la sua portata, perché nel processo del 76 a. C. Cicerone dedica un lungo brano della sua orazione al tema 142, qualificandolo come il pernio della controversia 143. Quel che appare certo è che la transazione fra Roscio e Q. Flavio fu conclusa e che, in forza dell’accordo, Q. Flavio diede a Roscio, trasferendone a lui la proprietà, un fondo 144. Quel che risulta invece controverso dipende dal fatto che Roscio – come riferisce Cicerone – pretende di aver transatto con Q. Flavio unicamente per quanto riguardava i propri diritti, e cioè con riguardo alla metà del valore dello schiavo ucciso, mentre Fannio Cherea pretende che la transazione Roscio l’avesse fatta con riguardo agli interessi della società, e quindi per l’intero valore del povero Panurgo. Ma consideriamo vera la versione di Q. Roscio e procediamo 145. (E) Tre anni prima del processo in corso (quello del 76 a. C., e quindi diciamo nel 79 a. C.) tra Roscio e Fannio Cherea ebbe luogo un arbitrato privato (sulla base di un compromesso) del quale arbitro era Pisone, lo
pongo tra virgolette – e poi parla in prima persona come parlasse il proprio cliente Roscio): … «Panurgum» inquit «hunc servum communem, Q. Flavius Tarquiniensis quidam interfecit. In hanc rem» inquit «me cognitorem dedisti. Lite contestata, iudicio damni iniuria constituto tu sine me cum Flavio decidisti». Utrum pro dimidia parte an pro re tota? planius dicam: utrum pro me an et pro me et pro te? Pro me; potui exemplo multorum; licitum est; iure fecerunt multi; nihil in ea re tibi iniuriae feci. Pete tu tuum, exige et aufer quod debetur; suam quisque partem iuris possideat et persequatur. … Del resto, se Cherea avesse esercitato due azioni distinte, non sarebbe potuto sussistere dubbio alcuno sul fatto che Roscio, transigendo, avesse transatto relativamente alla sua sola parte. 141 Vedi in Cic., p. Roscio com.13,37: … Roscium cum Flavio pro societate decidisse. Quo tempore? Abhinc annis XV. … 142 Dall’Utrum pro dimidia parte di p. Roscio com.11,32 e sino alla fine della parte pervenutaci dell’orazione (18,56). 143 Cic., p. Roscio com.12,34 in fine: Ergo huc universa causa deducitur, utrum Roscius cum Flavio de sua parte an de tota societate fecerit pactionem. Cicerone vuol dire che nel quesito proposto – se cioè la transazione si riferisse solo ai diritti di Roscio o a quelli di entrambi i soci, Roscio e Fannio Cherea – sta il fulcro della ragione e del torto nella controversia fra Roscio e Cherea in generale, e non nello specifico thema decidendum della controversia presente (il processo del 76 a. C.), perché, come vedremo, qui il thema decidendum si poneva in termini puramente tecnici. 144 Si trattava di un fondo agricolo incolto e senza neppure la villa (abitazione per il proprietario o il colono), e la sua proprietà venne trasferita quando il valore degli immobili attraversava un periodo di crisi; ma, migliorata poi la situazione economica, ed avendo Roscio provveduto a farvi costruire l’immobile ed a curarne la coltivazione, la cosa acquistò per Roscio il carattere di un buon affare. Ho riassunto Cic., p. Roscio com.12,33. 145 Dal momento che per la ricostruzione dei fatti ci dobbiamo basare su quanto dice Cicerone, non abbiamo altra scelta se non quella di seguire le sue indicazioni. Per vero, d’altra parte, a sostegno della propria tesi Cicerone sfodera una serie di argomenti alquanto corposi. Il primo consiste nella considerazione del fatto che Q. Flavio non ottenne, anzi non richiese affatto, che Roscio, nel concludere la transazione, gli garantisse che il proprio socio Fannio Cherea non avrebbe avanzato altre pretese in relazione alla morte di Panurgo, e Q. Flavio conosceva benissimo la situazione perché l’azione alla quale la transazione si riferiva gli era stata intentata da Fannio Cherea (Cic., p. Roscio com.12,35-37; 14,40 all’inizio). Gli ulteriori argomenti si desumono dai fatti che menzioneremo di seguito, sotto le lettere E ed F, i quali pure, da quanto risulta nel testo dell’orazione, appaiono sufficientemente provati.
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stesso personaggio che fungerà da giudice nel procedimento attuale 146. A quanto pare, questo arbitrato riguardava i rapporti, ancora pendenti e controversi fra le parti, che dipendevano dalla società che Cicerone dice ormai (già al tempo dell’arbitrato) sciolta 147. La decisione dell’arbitro appare chiara: egli, valutando secondo equità, impose a Roscio di pagare a Fannio Cherea la somma di 100.000 HS se e quando Fannio Cherea pagasse a Roscio la metà di quanto avrebbe ottenuto (in seguito, cioè dopo la conclusione di questo arbitrato) da Flavio per la sua parte d’interesse nell’uccisione di Panurgo 148. Ciò lascia pensare che il dibattito fra le parti davanti all’arbitro si sia svolto secondo la linea seguente. Roscio sosteneva di non dover nulla a Cherea perché aveva ricevuto un fondo di modesto valore a saldo dei suoi soli interessi; Cherea sosteneva invece che il fondo ricevuto valeva almeno 200.000 HS, e che lui (Cherea) quindi non sarebbe più riuscito ad ottenere da Flavio una somma analoga. Per giungere ad un’equa distribuzione di quanto Flavio avesse in totale alla fine sborsato, l’arbitro pensò che l’insieme di quanto si sarebbe potuto ottenere doveva essere diviso in parti uguali fra i contendenti. Tecnicamente, questo scopo egli pensò di realizzarlo garantendo a Roscio che Cherea avrebbe usato ogni sua diligenza per ottenere il possibile da Flavio, e garantendo Cherea col far promettere a Roscio che questi gli avrebbe pagato la metà di quanto già ottenuto (e quindi 200.000:2 = 100.000) 149 quando Cherea gli avesse dato la metà di quanto, agendo contro
146 Di questo arbitrato si parla nel cap. 13 dell’orazione (Cic., p. Roscio com.13,37-39 a partire dalla frase ‘Repromittis tu abhinc triennium Roscio,’ del § 37). Tutto quanto se ne può dire si desume da quanto Cicerone espone, anche se non lo fa narrando, ma argomentando, per cui il mio parlare preciso è frutto in buona parte di ricostruzione. Che l’arbitro fosse lo stesso Pisone, giudice del processo in corso (il che risparmia a Cicerone di fornire ulteriori prove in proposito) risulta non tanto dal semplice ‘Attende, quaeso, Piso’ di 13,37, ma in particolare dal brano (13,38) ‘Quis est huius restipulationis scriptor, testis arbiterque? Tu, Piso, tu enim Q. Roscium pro opera ac labore, quod cognitor fuisset, quod vadimonia obisset, rogasti ut Fannio daret HS centum milia (= 100.000) hac condicione, ut, si quid ille exegisset a Flavio, partem eius dimidiam dissolveret.’ 147 Cic., p. Roscio com.13,36: … in societate dissoluta … Cicerone evidentemente considerava la morte di Panurgo come estintiva della situazione societaria, anche se ciò naturalmente non comportava l’estinzione delle obbligazioni già sorte fra le parti in forza del contratto. 148 Il tenore complessivo della decisione dell’arbitro Pisone si desume da Cic., p. Roscio com.13,38, nella parte ‘Tu, Piso, tu enim-dimidiam Roscio dissolveret’, anche se – vedi la n. seg. – Cicerone presenta la cose in modo tendenzioso. 149 Cicerone (p. Roscio com.13.38, nella parte cit. sopra alla n. prec.) interpreta i 100.000 HS che l’arbitro Pisone impose di dare a Cherea come una specie di invito (‘Q. Roscium … rogasti ut Fannio daret), e dà alla rimessa il carattere di compenso per l’opera prestata da Cherea nell’interesse di Roscio quando agì come suo cognitor nel processo contro Fannio, di cui abbiamo parlato sub (C). Colgo l’occasione per avvertire qui il lettore di un particolare tecnico che riguarda la grafia delle cifre – qui si tratta dell’ammontare in sesterzi (HS) delle somme di denaro –, che nel testo dell’orazione p. Roscio com. compaiono ovviamente con le relative espressioni numeriche latine. Siccome per i numeri alti tale grafia latina ha un aspetto assolutamente inusuale per un lettore moderno, non l’userò mai, anche riportando i testi, ed in questi la sostituirò con la dizione in parole latine (ad es. centum milia). Chi volesse vedere la grafia numerica originale (per riprodurre la quale in un documento Word è necessario l’impiego di uno speciale font) la può trovare conservata nel mio articolo Qualche considerazione sui nomina transscripticia (dal quale ho ripreso sostanzialmente tutto il presente paragrafo sui nomina) pubblicato negli Studi Nicosia II (Milano 2007), ed ora anche in CANNATA, Scritti II, 613 ss., dove vedi ad es. p. 624 n. 42; 626 n. 52 e nel testo della p. 629.
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Flavio, avesse incassato 150. Così, se veramente Roscio avesse già ottenuto da Flavio più di quanto Cherea avrebbe potuto averne, entrambi sarebbero stati equamente soddisfatti in rapporto alle possibilità pratiche (poniamo che Cherea, agendo contro Flavio, ottenesse 100.000: allora Roscio, pagando 100.000 a Cherea, ne otterrebbe 50.000; Roscio avrebbe infine 100.000 residui di quanto avuto da Flavio con la proprietà del fondo e 50.000 ricevuti ora da Cherea, per un totale di 150.000; Cherea avrebbe 100.000 da Roscio e tratterrebbe 50.000 dei 100.000 avuti da Flavio, pure per un totale di 150.000). (F) Nel periodo di tre anni che separano l’arbitrato di cui si è detto sub E dal giudizio presente (del 76 a. C.) 151, ma prima della morte di Flavio, che ebbe luogo nello stesso lasso di tempo 152, Fannio Cherea ebbe un processo contro Flavio. Cicerone è molto preciso su questo punto: vi fu un processo, con Fannio come attore, Flavio convenuto e Cluvio come giudice 153: ed in forza di questo processo Flavio pagò a Fannio Cherea 100.000 sesterzi 154 per la faccenda di Panurgo 155. A quanto parrebbe, Saturio, l’avvocato di Cherea nel processo del 76 a. C., negava che un simile pagamento avesse avuto luogo 156, ma Cicerone provò quanto gli interessava producendo una testimonianza scritta dei senatori Tito Manilio e Caio Luscio Ocrea, con la quale i due riferivano una dichiarazione in proposito del giudice Cluvio 157. Questo processo Fannio v. Flavio è identificato da Cicerone, come abbiamo visto, indicando le parti e il giudice, nonché la data approssimativa (che, secondo la datazione che pone nel 76 a. C. il processo in corso quando Cicerone vi pronunziava l’orazione che stiamo seguendo, deve collocarsi intorno al 74 a. C.), non poteva riguardare che la responsabilità di Flavio per la morte di Panurgo; posto ciò, deve ritenersi che si trattasse di una riassunzione, con riguardo ai soli interessi di Cherea, del processo da questi intentato intorno al 91 a. C. (vedi sub C), e che non era – a quanto pare – mai giunto a sentenza: la cosa è possibile, perché a quel tempo non esistevano ancora i termini di estinzione del processo (mors litis dopo 18 mesi dalla litis contestatio)
150 Questa stipulatio fu effettivamente imposta dall’arbitro Pisone a Fannio Cherea: in p. Roscio com. 13,37 Cicerone da lettura di una dichiarazione scritta di Cherea (Tua vox est, Fanni), rilasciata evidentemente da costui a Roscio come documento probatorio scritto dell’avvenuta stipulatio, col testo seguente: ‘quod a Flavio abstulero, partem dimidiam inde Roscio me soluturum spondeo.’ (= “quel che prenderò da Flavio, la metà prometto di pagarne a Roscio”). 151 Vedi Cic., p. Roscio com.14,41: … Si planum facio post hanc recentem stipulationem Rosci (cioè: dopo la stipulatio fatta da Roscio in occasione dell’arbitrato di cui si è detto sub E) HS centum milia a Flavio te (cioè: tu, Cherea) abstulisse … 152 Cic., p. Roscio com.14,42: … Is (= Flavius) iam pridem est mortuus … 153 Cic., p. Roscio com.14,42: … Venerat, ut opinor, haec res in iudicium. Certe. Quis erat petitor? Fannius. Quis reus? Flavius. Quis iudex? Cluvius. … 154 Cic., p. Roscio com. 14,40; 14,41; 14,42 (due volte); 15,43. 155 Cic., p. Roscio com.14,40 (in fine)-41 (inizio). 156 Cic., p. Roscio com.14,41; … «Omnino» inquit (cioè: Saturius) «HS centum milia a Flavio non abstulit neque Panurgi nomine neque cuiusquam». … 157 Il testo di tale testimonium (testimonianza giurata: Cic., p. Roscio com.15,45 prima frase) dei due senatori venne letto da Cicerone in aula, durante la sua arringa, ma non è riportato nel testo che ce ne è pervenuto (Cic., p. Roscio com.14,43). Del contenuto, poi, Cicerone non parla analiticamente, ma esso risulta evidente, nelle sue linee generali, dalla lunga perorazione che Cicerone fa per sostenere che il testimonium non può non essere considerato attendibile, come pure la dichiarazione resa oralmente da Cluvio ai due; Cic., p. Roscio com.14,42 (da ‘Iudicem? Cluvius est.’)-17,51 (fino a ‘ … pars eius dimidia Rosci esset?’).
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introdotti dalla lex Iulia del 17 a. C. 158; e d’altra parte non poteva trattarsi di un nuovo esperimento da parte di Cherea dell’actio ex lege Aquilia contro Flavio, perché questa azione era stata consumata già nel 91 a. C., essendone stata allora fatta la litis contestatio 159. Ancora deve dirsi che questo processo Fannio v. Flavio, se nel 74 a. C. (la data presuntiva che abbiamo scelto) certo finì, non deve essersi concluso neppure allora andando a sentenza, perché, a quanto si ricava dall’orazione di Cicerone, il pagamento di 100.000 HS effettuato da Flavio a Fannio Cherea ebbe luogo a seguito di una transazione fra i due. Ciò si ricava da quanto si legge in Cic., p. Roscio com.16,49 (dic Flavium cum Fannio de Panurgo decidisse) 160 e del resto, se il pagamento avesse avuto luogo a seguito della condanna di Flavio, il giudice non avrebbe potuto testimoniare circa l’effettiva prestazione della somma. Dobbiamo dunque pensare che la transazione sia stata compiuta ed eseguita in corso di giudizio e davanti al giudice e poi l’attore abbia rinunziato a proseguire gli atti del processo. Concentriamoci dunque infine sul processo del 76 a. C., quello, cioè, nel quale l’orazione ciceroniana pro Roscio comoedo fu pronunziata, e che è il processo che in particolare ci interessa. La ricostruzione di tutta la vicenda – come ho cercato di riferirla nella sequenza delle lettere A-F – Cicerone non la fece perché essa risultasse direttamente rilevante ai fini della decisione della causa per la quale egli pronunziava l’arringa. Egli lo dice chiaramente in p. Roscio com.5,15, un paragrafo dal quale il testo dell’arringa viene chiaramente diviso in due parti 161: la prima – dall’inizio a 5,14 – conteneva le argomentazioni utili alla difesa di Roscio nel processo in corso; la seconda – da 6,16 alla fine – è diretta invece a provare che nel complesso della vicenda Roscio si è comportato nel modo più corretto, e che dunque l’azione intentatagli da Flavio Cherea, con le accuse espresse o sottintese di disonestà che contiene, non è solo giuridicamente infondata, perché è la pretesa stessa di Cherea a contenere il tentativo di una frode perpetrata al più onesto degli uomini. Si legga la fine di questo § 15: Cic., p. Roscio com. 5,15: … Illa superior fuit oratio necessaria, haec erit voluntaria, illa ad iudicem, haec ad C. Pisonem, illa pro reo, haec pro Roscio, illa victoriae, haec bonae existimationis causa comparata. “Quel discorso che ho fatto in precedenza è stato necessario, questo che vado a fare lo farò solo perché voglio farlo; quello era diretto al giudice, questo a Caio Pisone, quello era per il convenuto, questo per Roscio, quello aveva per iscopo la sua vittoria nella causa, questo la sua buona reputazione.”
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Vedi vol. I p. 111 ss. Vedi sopra, n. 139 s. 160 Nel luogo citato Cicerone sta sostenendo la veridicità della testimonianza scritta dei due senatori, e precisamente sta illustrando l’assurdità dell’ipotesi che la dichiarazione, ivi raccolta, del giudice Cluvio fosse mendace; Cicerone dice che per pensarla mendace si dovrebbe supporre un’assoluta assurdità, e cioè che Roscio gliel’avesse richiesta come favore, più o meno retribuito, dicendogli appunto: «Mentisci nel mio interesse, davanti a quei personaggi irreprensibili e tuoi amici (cioè, i due senatori che avrebbero testimoniato circa la sua dichiarazione), dicendo che Flavio ha transatto con Fannio riguardo a Panurgo, anche se non ha transatto per niente». 161 Cfr. PUCHTA, Kleine ziv. Schriften cit., 273 ss. 159
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La seconda parte dell’orazione ci interessa, per vero, in questa sede, di meno. Mi limiterò a dire che, da come vi argomenta Cicerone, al suo avversario P. Saturio restavano pochi argomenti da opporgli. Solo due, in effetti, ma il primo, che traspare da p. Roscio com.14,41, e cioè che “Fannio non ha affatto ricevuto 100.000 HS da Flavio, né per la faccenda di Panurgo, né ad alcun altro titolo”, dal che si sarebbe potuto argomentare che non dando nulla a Roscio Flavio gli aveva comunque dato la metà di quanto ricevuto, e quindi Roscio, in forza della stipulatio, gli doveva i 100.000 HS (vedi nella ricostruzione sopra, sub E), è stato cancellato dalla prova che Cicerone ha dato con la testimonianza dei due senatori (vedi sub F); il secondo, era più sottile: Cicerone lo menziona con parole di Saturio stesso 162, che si riferiva alla transazione tra Roscio e Flavio (vedi sub D): “Ammetto che Roscio ha richiesto a Flavio la (sola) sua parte, lasciando immune da pretese ed integra quella di Fannio: ma oppongo che quel che incassò per se divenne (automaticamente) cosa comune all’insieme dei soci”; ma, per quanto sottile, Cicerone demolisce anche questo argomento con obiezioni giuridiche calzanti 163. Ma il fatto è che P. Saturio era forse veramente un veterator 164. Egli si guardò bene dal far esercitare da Fannio contro Roscio un’actio pro socio, dove tutta la vicenda sarebbe stata presa in considerazione 165. L’azione intentata nel 76 a. C. era concepita in modo da lasciare tutto quel che fin qui abbiamo ricordato o ricostruito al di fuori della situazione di fatto che il giudice Pisone poteva considerare. Di questa azione ci occuperemo dunque soltanto, da questo punto in poi 166.
162 Cic., p. Roscio com.17,52: «Petisse» inquit «suam partem Roscium a Flavio confiteor, vacuam et integram reliquisse Fanni concedo; sed, quod sibi exegit, id commune societatis factum esse contendo». 163 La replica di Cicerone occupa la parte finale di quel che ci resta dell’orazione (17.5218,56), che s’interrompe nel corso del § 56. 164 Cic., p. Roscio com.8,22. Il vocabolo allude a qualcuno da lunghi anni incallito nella pratica. 165 A questo proposito si inserisce però un punto oscuro della vicenda, corrispondente al cap. 9 dell’orazione. In p. Roscio com.9,25 ss. Cicerone pare proprio rinfacciare a Fannio di non aver voluto, perché lo temeva, agire contro Roscio con l’actio pro socio, e che a questa azione – e non ad un arbitrato privato – si riferisse Cicerone con le parole ‘Quae cum ita sint, cur non arbitrium pro socio adegeris Q. Roscium quaero’ è fuor di dubbio, non solo per le parole ‘Formulam non noras? Notissima erat’, che seguono immediatamente, ma soprattutto perché l’affermazione, con la quale il § 9,25 si apre, viene enunciata subito dopo – e ad esso legata dalle parole ‘Quae cum ita sint’ – il famoso passo (8,24 in fine) ‘Sunt iura, sunt formulae de omnibus rebus constitutae …’, nel quale, come è notissimo, viene descritto in generale il sistema del processo formulare. Quel che è oscuro è quanto si dice nel seguito del cap. 9, dove si parla di un giudizio che Cherea avrebbe esercitato senza successo contro Roscio, e che non saprei come collocare nell’insieme della vicenda. Riprendendo quanto dicevo all’inizio di questa nota, si deve dire ancora, però, che un’azione pro socio di Cherea contro Roscio poteva risultare impedita dal fatto che le pendenze derivanti fra le parti dal contratto di società erano state oggetto della transazione nella quale sboccò il procedimento arbitrale del 79 a. C. (vedi sopra, sub E). 166 E si tratta anche, come abbiamo visto poc’anzi, dell’azione alla quale si riferisce la prima parte dell’orazione (i primi cinque capitoli, fino a p. Roscio com.5,15). Anche questa parte ci è giunta mutila, in quanto all’inizio del manoscritto che ce l’ha trasmessa (la copia poggiana del Lingonensis) mancano diverse pagine: ma quel che ci rimane è sufficiente per impostare i problemi.
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L’azione che Fannio Cherea, assistito dall’avvocato P. Saturio, intentò, diciamo nel 76 a. C., contro Quinto Roscio Gallo, difeso da Cicerone, era una condictio certae pecuniae 167, e ne possiamo anche redigere con una certa sicurezza la formula 168: Caius Piso iudex esto. Si paret Quintum Roscium Gallum Caio Fannio Chaereae HS centum milia dare oportere, qua de re agitur, Caius Piso iudex Quintum Roscium Gallum HS centum milia Gaio Fannio Chaerae condemnato, si non paret absolvito 169. Che l’azione fosse esercitata per una somma di 100.000 HS risulta chiaro da Cic., p. Roscio com.1,4. Non deve trarsi un argomento contrario dal fatto che altrove, nell’orazione, si parla di 50.000 sesterzi (HS quinquaginta milia), ed in particolare in Cic., p. Roscio com.4,11 170 e nel brano p. Roscio. com.8,22-24, dove Cicerone contesta l’affermazione dell’avvocato avversario, secondo il quale “Q. Roscio ha defraudato Fannio di 50.000 HS” (HS quinquaginta milia Q. Roscius fraudavit Fannium), né si deve pensare che la discordanza dipenda dal fatto che le cifre che esprimono numeri sono spesso nei manoscritti riportate con incongruenze provenienti da errori degli amanuensi o dei copisti 171, perché qui incongruenza non c’è. Almeno secondo Cicerone – ed è lui stesso che enuncia questa tesi della truffa – l’ipotesi di un difetto nel comportamento di Roscio verso Fannio non potrebbe essere presa in considerazione se non per 50.000 HS, perché Roscio non ha bensì pagato a Fannio i 100.000 che gli aveva promesso, ma la promessa relativa era condizionata dal fatto che Fannio gli avesse pagato i 50.000 che rappresentavano la metà di quanto costui aveva – sempre secondo Cicerone – ricevuto da Flavio (vedi sopra, nell’esposizione dei fatti, sub E e F).
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Cic., p. Roscio com.5,14: Pecunia petita est certa, cum tertia parte sponsio facta est. Vedi già sopra, specie presso e con la n. 32: anche la formula di questa azione Cherea-Roscio era dunque accompagnata da altre due formule, relative alla sponsio e restipulatio tertiae partis: si veda comunque ancora Cic., p. Roscio com.4,10. 168 Cicerone vi allude sinteticamente in p. Roscio com.4,11, anche se a quel punto contrappone come tipi la formula che s’impiega per “un iudicium (come il presente)” a quella che si usava porre alla base di un arbitrato privato (a questo certo allude qui col termine arbitrium), e che si basa sul quantum aequius et melius est dari. Il fatto che la formula proposta sia quella di “questo tipo di giudizio” e non quella “di questo preciso giudizio” forse non spiega, di per sé solo, che l’allusione sia riferita ad una pretesa di 50.000 HS e non di 100.000, come era senza dubbio – lo vedremo – il processo in corso. Anche se nel cit. § 4,11 a Cicerone interessava unicamente sottolineare che l’azione si riferiva al debito di una somma determinata di denaro, la scelta della cifra ha una ragione che vedremo tosto. 169 “C. Pisone sia il giudice. Se risulta che Q. Roscio Gallo deve dare 100.000 HS a C. Fannio Cherea, affare di cui si tratta, il giudice C. Pisone condanni Q. Roscio Gallo a 100.000 HS in favore di C. Fannio Cherea, se non risulta lo assolva.” Nella ricostruzione della formula mi sono basato su quella riportata nel vol. I a p. 142, che è del 53 d. C., ma non c’è ragione di pensare che nel frattempo la formula della condictio certae pecunae fosse mutata. 170 Vedi già sopra, nella n. 168. 171 Cfr. sopra n. 149.
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Ed è anche chiaro che la causa, sulla quale Cherea – o per lui il suo avvocato – fondava la sua pretesa era un’expensilatio. Come abbiamo già visto spiegare Cicerone 172, le tre possibili cause dell’obbligazione dedotta in giudizio erano: a) un’obbligazione contratta re, cioè risultante da una precedente rimessa di denaro da Fannio a Roscio a titolo di mutuo o come pagamento d’indebito; b) una expensilatio; c) una stipulatio. La prima delle tre cause (a) non viene affatto in considerazione nel processo, perché l’attore stesso negava di avere effettuato rimesse di denaro a Roscio 173. Quanto alla terza (c), a detta di Cicerone, una stipulatio non può essere presa in considerazione, ma non perché l’attore abbia negato che esista, bensì perché non ha addotto prove in proposito 174: ma, in un processo, la constatazione che l’attore non adduce alcuna prova a sostegno di un’affermazione, la quale rappresenta il fondamento della propria pretesa, è possibile solo se tale fondamento l’attore non l’abbia per nulla invocato 175. Ora, quel che può meravigliare, è il fatto che Cherea – o, se si vuole, Saturio – non abbia preteso i 100.000 HS da Roscio in base alla stipulatio di 100.000 HS che questi gli aveva fatto in occasione dell’arbitrato che abbiamo descritto sub E; è ben vero che, a tale proposito, nell’orazione è presentata come stipulatio solo quella fatta da Cherea a Roscio (sintetizzata nella frase ‘quod a Flavio abstulero, partem dimidiam inde Roscio me soluturum spondeo’), ma Cicerone parla di questa come di una restipulatio 176, ed indica l’insieme del negozio intervenuto allora fra le parti così 177: Tu, Piso, tu … Q. Roscium … rogasti ut Fannio daret HS centum milia hac condicione ut, si quid ille exegisset a Flavio, partem eius dimidiam Roscio dissolveret. Che Roscio avesse promesso i 100.000 HS a Cherea è, del resto, evidente: Cherea non sarebbe stato così sciocco da promettere la sua controprestazione se Roscio non gli avesse prima promesso o pagato i 100.000 HS (e pagati certo non li aveva); e non c’è bisogno di spiegare perché Cicerone eviti di menzionare il termine stipulatio per l’impegno di Roscio. In realtà, comunque, fra le parti dovevano essere intervenute queste due stipulazioni: i) Cherea aveva chiesto a Roscio: “Prometti di darmi 100.000 HS se ti darò la metà di quanto otterrò da Flavio?”; ii) Roscio aveva 172 Cic., p. Roscio com.5,14: Pecunia petita est certa, cum tertia parte sponsio facta est. Haec pecunia necesse est aut data, aut expensa lata, aut stipulata sit. Vedi sopra, nel § 1 di questo stesso capitolo. 173 Cic., p. Roscio com.4,13: …: adnumerasse sese negat; 5,14: Datam non esse Fannius confitetur, … 174 Cic., p. Roscio com. 5,14: … stipulatam non esse taciturnitas testium concedit. Dove con “il silenzio dei testimoni” (taciturnitas testium) si vuole evidentemente alludere al fatto che testi in proposito l’attore non ne aveva forniti. 175 Si legga tutto il passo, da 4,13: … Reliquum est, ut stipulatum sese dicat: praeterea enim quemadmodum certam pecuniam petere possit non reperio. 5,13: Stipulatus es – ubi, quo die, quo tempore, quo praesente? Quis spopondisse me dicit? 5,14: Nemo. … 176 Che significa “stipulatio effettuata dopo una precedente stipulatio, con carattere di reciprocità rispetto ad essa”. Vedi Cic., p. Roscio com.13,37-39. 177 Cic., p. Roscio com.13,38: “Tu, Pisone (che sappiamo era allora l’arbitro ex compromisso), tu a Q. Roscio … chiedesti di dare a Fannio 100.000 HS a questa condizione, che, se egli ottenesse qualcosa da Flavio, ne pagasse la metà a Roscio”.
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chiesto a Cherea: “Prometti di darmi la metà di quanto otterrai da Flavio?”. Così si capisce anche perché Cherea non abbia esercitato la condictio certae pecuniae contro Roscio sulla base della stipulatio nella quale egli era stipulator: tale stipulatio – la i) – era infatti sottoposta alla condizione che Cherea avesse dato a Roscio la metà di quanto ottenuto da Flavio, e quindi essa non forniva azione a Cherea finché questi non avesse pagato a Roscio quanto previstovi, cioè (da quanto risulta dai fatti che ho esposto sub F, che dovevano essere veri) 50.000 HS: ed evidentemente Cherea non era in condizione di farlo, o comunque non lo voleva fare.
Dunque Cherea agiva pretendendo 100.000 HS sulla base di un’expensilatio. L’idea di Saturio doveva essere di sostenere che la stipulatio di Roscio a Cherea era stata novata con una transscriptio a re in personam, sopprimendovi la condizione 178. Così facendo, Cherea, provando l’acceptilatio, avrebbe ottenuto la condanna di Roscio a pagargli 100.000 HS, e se poi in qualunque modo Roscio avesse preteso i 50.000, egli sarebbe stato in condizione di pagarglieli con quanto ricevuto o magari di scontarli al momento del pagamento di Roscio. Da quanto si dice nell’orazione – mutilo almeno qual è il testo nel quale essa ci è pervenuta – non ci è possibile stabilire se l’expensilatio di cui si tratta abbia effettivamente avuto luogo fra le parti ovvero Cherea se la sia fraudolentemente costruita. Ai nostri fini, d’altronde, ciò importa poco. Quel che c’interessa è valutare le argomentazioni difensive che Cicerone sviluppava nella prima parte del suo discorso – p. Roscio com.1,1-5,15, come sappiamo – quando controbatteva gli assunti della controparte nel processo instaurato sul centum milia sestertiorum dare oportere fondato nell’expensilatio. Questa valutazione, che dobbiamo fare, è un po’ delicata, perché Cicerone, quando faceva l’avvocato, si valeva assai, per convincere il giudice, di espedienti con i quali profittava della magari scarsa preparazione giuridica del giudicante stesso, concentrandosi – con fiumi di parole e di argomenti emozionali o giuridici solo in apparenza – su questioni marginali o collaterali, per invece glissare, come si usa dire, sui veri problemi di diritto, trattandoli come fossero cose ovvie, sicché la loro vera essenza ne risulta sommersa dalla marea verbale ed il carattere del problema muta natura. Ma vediamo, comunque, di orientarci.
All’inizio di quel che ci resta dell’orazione 179, Cicerone pare contrastare un’affermazione del suo avversario (che possiamo impersonare nell’avvocato Saturio piuttosto che nella parte Cherea) di questo semplice tenore: “Cherea vanta un credito di 100.000 HS nei confronti di Roscio in forza di un’expensilatio che Cherea stesso ha redatto”, e Cicerone intende quest’affermazione nel senso seguente: “Nei libri contabili (tabulae accepti et expensi) di Cherea è scritta un’expensilatio di 100.000 HS nei confronti di Roscio”. L’affermazione non ci resta, ma la si desume facilmente da come Cicerone la contrasta. I suoi 178 Quest’ultimo effetto – della soppressione della condizione – sarebbe risultato automaticamente dall’operazione novatoria, perché i nomina transscripticia non possono essere sottoposti né a condizione né a termine. Vedi Pap. Vat.329. 179 Cic., p. Roscio com.1,1 e l’inizio di 1,2 fino a et eius qui falsum perscripsit.
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argomenti sono questi: per provare un credito basato su di un’expensilatio non basta produrre i propri registri dove l’expensilatio compare, perché uno, nei suoi registri, può anche aver scritto il falso (falsum perscribere nomen); se Cherea produrrà i suoi registri, Roscio produrrà i propri, e si constaterà così che nei registri di Roscio non c’è l’annotazione corrispondente, e cioè quella dell’autorizzazione, data da Roscio a Cherea, a redigere quell’expensilatio. Possiamo leggere in particolare: Cic., p. Roscio com.1,1: … Quod si ille suas proferet tabulas, proferet suas quoque Roscius. Erit in illius tabulis hoc nomen, at huius non erit. 1,2: Cur potius illius quam huius credetur? Scripsisset ille, si non iussu huius expensum tulisset? Non scripsisset hic quod sibi expensum ferre iussisset? Nam quem ad modum turpe est scribere quod non debeatur, sic improbum est non referre quod debeas. … Traduco: “Se egli produrrà i suoi registri, anche Roscio produrrà i suoi. Nei registri di quello comparirà tale negozio 180, ma nei registri di questo non comparirà. 1.2: Perché si crederà piuttosto (ai registri) di quello che (ai registri) di questo? (Si dirà:) Avrebbe mai quello effettuato la scrittura, se non avesse fatto l’expensilatio col consenso (iussus) di questo? (Ma allo stesso modo si potrebbe dire:) Non avrebbe questo effettuato la scrittura relativa alla sua autorizzazione ad un’expensilatio a suo carico? Perché così come è disonesto scrivere quel che non (ti) è dovuto, altrettanto riprovevole è non riportare quel che tu devi.”
Ma, verso la metà del § 2 Cicerone cambia tono. Evidentemente Saturio doveva aver detto qualcosa 181, dalla quale si desumeva – o magari vi era espressamente dichiarato – che i registri contabili di Cherea non sarebbero stati prodotti: Cicerone comprende subito che l’expensilatio invocata dall’attore non era scritta nei suoi registri, o magari che tali registri non esistevano del tutto: per cui inizia tutta un’argomentazione 182 per sostenere che certo Cherea teneva dei registri accurati, che, se non vuol produrli, è perché la scrittura che interessa
180 Traduco così, perché qui ‘nomen’ sta per nomen transscripticium, indicando quindi l’atto giuridico (scritto). 181 La frequenza di passaggi che presentano un carattere dialogico è caratteristica di questa orazione. Cicerone non solo vi si rivolge spesso, nel suo parlare, a Saturio o a Cherea come si rivolge ad altre persone presenti, fra le quali ovviamente il giudice Pisone. Qui mi riferisco specificamente ai luoghi, come questo che stiamo adesso considerando, nei quali Cicerone ribatte a frasi dette dall’avvocato avversario, qualche volta sintetizzandone anche il tenore. È logico pensare che questi passaggi abbiano subìto, da parte dell’autore, speciali modifiche in occasione della redazione del testo dell’orazione destinato alla pubblicazione. Il testo che veniva pubblicato era normalmente stabilito partendo da quello che un notarius (stenografo) aveva scritto direttamente ascoltando l’arringa dell’orator in udienza, e poi trascritto – interpretando i propri segni stenografici – per renderlo leggibile ad un terzo. 182 Che comincia dal Sed ego copia et facultate causae confisus di p. Roscio com.1,2 e continua fino a 2,4.
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non vi compare, e quindi egli non è in condizione di provare il suo preteso credito di 100.000 HS. A questo punto si inserisce una nuova dichiarazione della controparte, che Cicerone attribuisce direttamente a Cherea, ma che proveniva evidentemente dall’avvocato di costui, Saturio: Cic., p. Roscio com.2,5: Nimium cito ait me indignari de tabulis; non habere se hoc nomen in codicem accepti et expensi relatum confitetur, sed in adversariis patere contendit. Usque eone te diligis et magnifice circumspicis, ut pecuniam non ex tuis tabulis sed adversariis petas? Suum codicem testis loco recitare adrogantiae est: suarum praescriptionum et liturarum adversaria proferre non amentia est? Una traduzione che renda abbastanza bene il senso di questo discorso mi pare la seguente: “Dice che troppo precipitosamente mi scaldo a proposito dei registri; ammette di non aver riportato questo nomen (transscripticium) nel codex accepti et expensi, ma oppone che esso è ben chiaro negli adversaria. Sei dunque presuntuoso e vanesio al punto da pretendere in giudizio del danaro basandoti non sui tuoi registri, ma sugli adversaria? (Se) addurre come prova il testo dei propri registri è (già) arroganza, produrre il brogliaccio (= adversaria) dei propri appunti con cancellature e correzioni non è pazzia?”
Su questo tema, della inidoneità degli adversaria a provare il nomen transscripticium, Cicerone continua a ricamare 183, cercando poi anche di sottolineare come il comportamento che Cherea stesso dice di aver tenuto, e cioè di non riportare nei registri il nomen dopo che fu scritto negli adversaria, si presenti come assai strano e poco verosimile se il nomen fosse stato effettivamente realizzato in modo regolare alla data in cui sarebbe stato annotato negli adversaria 184. Per concludere la prima parte dell’arringa – la parte, come abbiamo visto sopra, che riguarda specificamente i problemi posti dal processo in corso, e che dunque è quella che ci interessa in particolare – Cicerone non ha che da tirare le somme. La sostanza di quanto dice ancora in p. Roscio com.4,10-6,15 – e i passaggi più importanti li abbiamo già, qualcuno più volte, presi in considerazione – può sintetizzarsi come segue. La presente azione è una petitio certae pecuniae 185; due punti della causa sono già esauriti, perché l’attore nega di aver fatto una rimessa di denaro e, non producendo i suoi registri, non adduce neppure un’expensilatio; resterebbe solo la possibilità di una stipulatio 186 – infatti, 183
Cic., p. Roscio com.2,6-3,7. Questo è il senso di quanto detto in p. Roscio com.3,8-9, fino a ‘… cur in adversariis scriptum habebas?’. 185 Cic., p. Roscio com.4,10 (Pecunia tibi debebatur certa, quae nunc petitur per iudicem, in qua legitimae partis sponsio facta est.) e seguenti fino al luogo del § 4,13 che tosto citerò. 186 Cic., p. Roscio com.4,13 (già cit.): iam duae partes causae sunt confectae: adnumerasse sese negat; expensum tulisse non dicit, cum tabulas non recitat. Reliquum est, ut stipulatum sese dicat: praeterea enim quemadmodum certam pecuniam petere possit non reperio. 184
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in caso di petitio certae pecuniae, la somma di denaro pretesa deve essere stata aut data aut expensa lata aut stipulata 187 –, ma la stipulatio neppure risulta provata 188. Dunque, in conclusione: Cic. P Roscio com. 5,14: Datam non esse Fannius confitetur, expensam latam non esse codices Fanni confirmant, stipulatam non esse taciturnitas testium concedit. Non ho bisogno di ritradurre questa frase, che ci è nota, e che vuole precisamente dire: “Circa il fondamento della sua pretesa l’attore non ha fornito prova alcuna”. Dobbiamo invece alfine considerare che cosa può trarsi dall’insieme di quanto abbiamo appreso, scorrendo quest’arringa, sul regime dell’expensilatio. Per trarre indicazioni giuridiche dalle opere di Cicerone si deve sempre tener conto del fatto che egli aveva, come abbiamo già notato nel § 2 di questo stesso capitolo 189, una solida formazione giuridica; ma egli era pur sempre un retore e non un giurista. Qui abbiamo, per giunta, proprio a che fare con una sua orazione: anche se si tratta di un’orazione giudiziale, il suo atteggiamento non è propriamente quello di un giurista. Non soltanto, così, il suo parlare non ha come scopo principale e costante l’impostazione tecnicamente rigorosa dei problemi, bensì quello di convincere il giudice, che pure non era giurista. In ispecie, come credo vedremo, da quel ch’egli dice in tutto il suo discorso diretto al giudice Pisone, traspare l’atteggiamento dell’avvocato, più sensibile ai fatti che non ai principî. Nei Topica, una sua opera filosofica, rivolgendosi al giurista Trebazio al quale essa è dedicata 190, Cicerone stesso racconta che Aquilio Gallo, anch’egli giurista e suo amico, quando veniva consultato da qualcuno per un caso che ponesse unicamente problemi di fatto (si quis ad eum quid tale rettulerat, ut de facto quaereretur), usava rispondergli 191: ‘Nihil hoc ad ius; ad Ciceronem.’ “La scienza giuridica non ha nulla da dirti: vai da Cicerone”. Così, nella p. Roscio com., i problemi dell’expensilatio vengono in genere impostati non come problemi di esistenza o validità del negozio, ma come problemi di prova.
Un punto appare comunque certo. Cicerone parte dall’idea che per la validità di un’expensilatio non è sufficiente che il creditore l’abbia scritta nei suoi libri contabili, ma è anche necessario che l’abbia scritta con l’accordo del debitore, precisamente a seguito di un iussus – un’autorizzazione che non ha esigenze di forma – del debitore 192. Una scrittura fatta senza tale iussus sarebbe nulla. 187 Vedi in già cit. p. Roscio com.5,14, nella parte: Pecunia petita est certa, cum tertia parte sponsio facta est. Haec pecunia necesse est aut data, aut expensa lata, aut stipulata sit. 188 Vedi la frase finale del già pure cit. p. Roscio com.5,13: Stipulatus es: ubi, quo die, quo tempore, quo praesente? quis spopondisse me dicit? 14: Nemo. 189 Parlando di Cic., p. Roscio com.5,14, attorno alla n. 35. 190 Vedi CANNATA, SG I,298 ss. 191 Cic., Top.18,51. 192 Cic., p. Roscio com.1,2: … Scripsisset ille, si non iussu huius expensum tulisset?…
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Anche se Cicerone parla in modo non precisamente tecnico, il senso di quanto esprime è chiaro: un’expensilatio priva di iussus sarebbe ‘falsum perscribere nomen’ 193, “iscrivere nel registro un negozio (un nomen transscripticium) falso”, ovvero ‘scribere quod non debeatur’ 194, “scrivere quel che non è dovuto”, cioè far apparire dovuto quel che non è dovuto: ma si tenga presente che la somma scritta nel nomen sarebbe dovuta per effetto della scrittura, e quindi il senso della frase viene a comprendere l’idea di “effettuare una scrittura atta a creare un debito (altrui) ma che in effetti (mancando il iussus) non lo ha creato”. Un secondo punto suscita invece alquanti problemi. Si tratta di definire un elemento della forma dell’expenstilatio, e precisamente se la scrittura, nella quale il negozio si concretava, dovesse necessariamente – per la validità, anzi l’esistenza stessa del negozio – essere redatta nel codex accepti et expensi del creditore o no. Il problema scaturisce dallo stato delle fonti: e per questo dobbiamo considerarle nel loro complesso, il che implica anche di usare insieme i testi di Cicerone e quelli di Gaio, che cronologicamente sono separati da quasi due secoli e mezzo. Terremo naturalmente conto anche di ciò, ma la convinzione che l’expensum ferre di Cicerone e di Gaio si riferissero alla stessa istituzione giuridica e che questa si presenti in modi del tutto simili presso i due autori mi pare una conclusione inevitabile per un lettore attento 195. Ora, dall’orazione ciceroniana che abbiamo esaminato abbiamo appreso che Fannio Cherea, assistito dal retore P. Saturio, che certo non era l’ultimo degli sprovveduti, intentò contro Roscio una petitio certae pecuniae fondata su di un’expensilatio, dichiarando come cosa del tutto naturale che questa non era stata scritta nel codex accepti et expensi di Cherea, ma risultava dai suoi adversaria 196. Ma v’è di più, ed è il modo nel quale Cicerone reagì a tale affermazione del suo avversario. Come si ricorderà, nel processo, in un primo tempo Cicerone era convinto che la controparte avrebbe prodotto il codex accepti et expensi di Cherea con l’expensilatio in questione 197; ed a ciò egli aveva semplicemente opposto che tale produzione non sarebbe stata sufficiente a provare l’esistenza del credito, perché la scrittura dell’expensilatio non provava che essa avesse avuto luogo con l’accordo di Roscio, ed un indizio – che Cicerone tenta di elevare al grado di prova – nel senso che il iussus nel quale tale consenso di Roscio si sarebbe dovuto concretare non c’era stato, si sarebbe dovuto riconoscere nel fatto che il codex di Roscio non conteneva la scrittura passiva corrispondente all’expensilatio di Cherea; ebbene, quando poi Saturio gli dice che il codex di Cherea non verrà prodotto, ma che non se ne rallegri, perché
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Cic., p. Roscio com.1,1. Cic., p. Roscio com.1,2. 195 La tesi contraria – che cioè tra i nomina di cui parla Cicerone e quelli di cui parla Gaio non vi fosse alcun rapporto – è stata sostenuta in passato soprattutto dallo HECK nell‘AfcP, 116(1918), 128 ss. Vedi la critica dell’ARANGIO-RUIZ, Le tavolette cit., in Studi Redenti I, 118 (le adesioni alla tesi dello Heck vi sono indicate alla n. 10). 196 Cic., p. Roscio com.2,5 cit. 197 Al momento di questa convinzione corrisponde p. Roscio com.1,1-2 fino a falsum perscripsit. 194
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saranno prodotti gli adversaria dove la scrittura è ben chiara 198, Cicerone non si sogna neppure di controbattere che un nomen transscripticium è valido solo se scritto nel codex accepti et expensi e quindi la produzione degli adversaria non gioverebbe affatto; egli si limita invece a impegnare tutta la sua capacità retorica per convincere il giudice che provare un’expensilatio con gli adversaria e non con il codex è un comportamento “pazzesco”, e che il giudice Pisone non si sarebbe mai sognato di andare a pretendere in giudizio del denaro basandosi solo sugli adversaria 199, perché le scritture vi sono disordinate e piene di correzioni e cancellature e quindi non fededegne e via dicendo 200. Si potrebbe dire che quest’impostazione della difesa di Cicerone possa essere messa in relazione con la sua propensione a tradurre tutto in problemi di prova, e dunque semplicemente che il problema di validità del negozio Cicerone non lo vedesse e neppure lo percepisse chiaramente: ma non è così, perché egli, in sede di conclusione, la sua tesi relativa all’expensilatio la formula in termini di esistenza del negozio; a quanto pare, dunque, Cicerone non aveva potuto ragionare, partendo dall’inesistenza della scrittura nel codex di Cherea, se non in termini di prova, ma nelle conclusioni traduce queste sue elucubrazioni sulla prova in termini di validità dell’atto, sperando che i suoi argomenti sull’assenza di prova possano essere intesi come argomenti sull’inesistenza giuridica dell’atto. Le due proposizioni, che conosciamo, ‘expensum tulisse non dicit, cum tabulas non recitat’ (“non dice di aver fatto un’expensilatio, perché non dà lettura delle tabulae”, cioè del codex accepti et expensi) di p. Roscio com.4,13 e ‘expensam latam non esse codices Fanni confirmant’ (“che non vi sia stata expensilatio lo confermano i codices di Fannio) di 5,14 implicano chiaramente l’idea che, se non si prova che il negozio è stato scritto nel codex, non si prova che il negozio è stato concluso: dal che si dovrebbe desumere inevitabilmente che la forma ad substantiam – come diciamo noi – di un nomen transscripticium consistesse nella scrittura effettuata nel codex accepti et expensi del creditore. Se ora passiamo a Gaio, una rilettura del brano ch’egli dedicava alle obligationes litteris contractae – Gai.3,128-134: lo abbiamo esaminato sopra in due riprese – permette di constatare un dettaglio che, comunque lo si consideri, rimane abbastanza strano: non vi si fa mai parola del codex accepti et expensi ed anzi non vi si dice affatto che le scritture in questione – che si tratti di nomina transscripticia o di nomina arcaria – debbano essere redatte su di un supporto particolare. Da tutto ciò parrebbe potersi desumere una duplice conclusione di questo tipo: i) che già all’epoca di Cicerone per la validità di un nomen transscripticium fosse sufficiente la sua redazione negli adversaria, e punto necessaria la trascrizione nel codex accepti et expensi; ii) che ai tempi di Gaio i codices accepti et expensi «erano nell’uso degli affari, ma un nomen transscripticium nasceva ogni volta che col consenso del debitore il creditore scrivesse, su qualsiasi papiro o tavoletta, le frasi necessarie a costituirlo». 201 A me
198 Ciò avviene con chiarezza in p. Roscio com.2,5: ma già prima (da 1,2 a partire da Sed ego copia e fino a tutto il § 4) Cicerone parla essendo convinto che nei registri di Cherea l’expensilatio non era presente, perché lo sfida a produrli, dicendo che, se la scrittura vi compare, egli e Roscio saranno d’accordo che la sentenza sia pronunziata in senso a lui favorevole, senza bisogno che provi altro; il che significa, in sostanza, che se la scrittura vi compariva essi avrebbero rinunziato a pretendere che Cherea provasse il consenso di Roscio. 199 Cic., p. Roscio com.3,7. 200 Gli argomenti si susseguono in p. Roscio com.2.5-3,9 (fino a scriptum habebas?). 201 La frase riportata è dell’ARANGIO-RUIZ, Le tavolette cit., 123. Anche la conclusione i) è proposta dall’autore alla p. 122 s.
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pare che la conclusione i) debba essere accettata, ma ritengo insostenibile la conclusione ii). Sintetizzo qui di seguito le ragioni che mi inducono a concludere così. I nomina hanno forma di scritture contabili, ed in particolare i nomina transscripticia presentano un testo che fuori da un documento contabile non sarebbe coerente. Si tenga presente che il negozio è inteso realizzare un expensum ferre 202; e che, nella triade ‘pecunia data, expensa lata, stipulata’, che rappresenta un enunciato tecnico, la pecunia expensa lata si contrappone non solo a quella stipulata, ma anche a quella data; ai tratta dunque di denaro che non solo non è stato promesso oralmente, ma non è neppure stato speso (expensum) dandolo all’altra parte: la pecunia è stata ‘expensa lata’, vale a dire “portata (= registrata) come spesa (a favore dell’altro)”, ma ciò significa precisamente “registrata fra gli expensa nel registro contabile”. Ora, questo significato la scrittura lo può assumere solo nel contesto di una contabilità: qui essa dice il vero esprimendolo in termini contabili, e l’intervento dei giuristi – cioè dell’ordinamento giuridico –, che le riconosce effetto obbligatorio, non fa che riconoscere l’effetto economico che quanto scritto contabilmente comporta: cioè «che quella certa somma di denaro, benché non sia stata data al Tizio nominato, ha ragione per essere registrata come spesa del titolare del conto a favore di tale Tizio»; e, siccome la scrittura è fatta allo scopo di creare in capo al nominato l’obbligazione di pagare la somma indicata al titolare del conto, l’intervento dei giuristi a riconoscere questa obbligazione comporta da parte loro una precisazione tecnica ed una regola: la precisazione è che l’obbligazione risulta così nata litteris, vale a dire dalla scrittura stessa; la regola è che per la formazione di tale obbligazione si esige che colui che ne risulta debitore abbia consentito alla scritturazione 203. Invece, se scritta su di un supporto qualsiasi, la transscriptio non potrebbe assumere il senso voluto se non con una forzatura o per via di finzione. A meno che, naturalmente, il supporto non fosse sempre un documento contabile, com’erano ancora gli adversaria. Come abbiamo visto, leggendo Gai.3,134 nel § 1 di questo capitolo, Gaio stesso riservava rigorosamente ai diritti stranieri (quod genus obligationis proprium peregrinorum est) il carattere obbligatorio delle singrafi e dei chirografi, cioè di atti nei quali “uno scrive di dovere o che darà”, e precisava “senza che a tale titolo sia stata fatta una stipulatio”: non considerando neppure, in quel luogo, i nomina transscripticia, perché in essi uno non scrive di dovere o che darà. Ora, che senso avrebbe avuto non ammettere per il diritto romano valore obbligatorio di singrafi e chirografi, che consistevano in dichiarazioni scritte chiaramente espressive di un impegno obbligatorio, per riconoscerlo invece a scritture concepite nella forma – contorta se non scritta in un registro contabile – di un nomen transscripticium e che per giunta non consistevano in una dichiarazione del debitore ma del creditore, scritte isolatamente su qualunque pezzo di carta? Ancora Giustiniano, nelle Istituzioni, racconta per le obbligazioni litteris una storia diversa: leggiamo il testo che le riguarda, e che già avevamo incominciato a leggere all’inizio di questo § 2.2: I.3,21: Olim scriptura fiebat obligatio, quae nominibus fieri dicebatur: quae nomina hodie non sunt in usu. plane si quis debere se scripserit, quod numeratum ei non est, de pecunia minime numerata post multum temporis exceptionem opponere non potest; hoc enim saepissime constitutum est. sic fit, ut et hodie, dum queri non potest, scriptura obligetur: et ex ea nascitur condictio, cessante scilicet verborum obligatione. multum autem tempus in 202
Vedi ThlL V,2 (s. v. expendo) col. 1643,57 ss.; 1644,66 ss.; 1645,1-6. Oltre ai testi citati della p. Roscio com. si vedano anche Val. Max.8,2,2 e Bell. Alex. (incerti auctoris; ed. du Pontet, Oxford) 49,2 (Pecuniae locupletibus imperabantur, quas Longinus sibi expensas ferri non tantum patiebetur sed etiam cogebat) dove con pati expensam sibi pecuniam fieri si allude sempre al iussus del debitore. 203
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hac exceptione antea quidem ex principalibus constitutionibus usque ad quinquennium procedebat: sed ne creditores diutius possint suis pecuniis forsitan defraudari, per constitutionem nostram tempus coartatum est, ut ultra biennii metas huiusmodi exceptio minime extendatur. Traduco cercando di chiarire il passo, scritto in modo un po’ faticoso: “Un tempo l’obbligazione si formava con una scrittura, e si diceva che essa si formava mediante nomina: i quali nomina oggi non sono più in uso. Certo però, se uno abbia scritto di dovere quel (= una somma di denaro che aveva preso a mutuo, ma) che non gli è stato versato, trascorso un certo tempo alquanto lungo non può più opporre l’eccezione relativa al denaro non versato (cioè: l’exceptio non numeratae pecuniae); ciò è stato più volte stabilito da costituzioni imperiali. Così avviene che anche oggi, nel periodo di tempo nel quale non può più valersi dell’eccezione, egli è obbligato in forza della scrittura. E da questa nasce la condictio, s’intende, se non vi sia stata stipulatio. Il lungo tempo (di prescrizione) di quest’eccezione durava una volta, per disposto di costituzioni imperiali 204, fino ad un quinquennio: ma, affinché i creditori non possano magari esser defraudati troppo a lungo del loro denaro, il tempo è stato abbreviato da una nostra costituzione 205, in modo che la menzionata 206 eccezione non si protrae oltre il limite di un biennio.” In questo testo i redattori delle Istituzioni imperiali – che erano fra i personaggi più rilevanti di tutta la compilazione giustinianea – dimostrano, con l’incontrollato altalenare dai problemi di sostanza a quelli di prova, la loro insipienza dommatica; comunque per ora ci basta constatare che neppure nel diritto giustinianeo viene ammesso un valore di fonte d’obbligazione al chirografo in se stesso, né si scorge nesso storico alcuno fra i nomina dell’epoca classica e il valore nuovo – vero o preteso che sia – che il documento scritto avrebbe ad un certo punto assunto in ordine alla creazione d’obbligazioni.
Possiamo dunque riassumere quanto le fonti ci hanno permesso di stabilire in ordine alle obbligazioni che si formano litteris nel modo seguente, tenendo presente che quanto diremo trova nelle fonti stesse una base sufficiente per l’epoca che va da quella di Cicerone a quella di Gaio, e cioè, approssimativamente, dal I secolo a. C. al II d. C. Le sole scritture creative d’obbligazione che il diritto romano ammetteva erano i nomina transscripticia. Questi nomina avevano effetto novatorio, in ragione dell’impiego di due forme possibili: si aveva una novazione oggettiva con la transscriptio a re in personam e una novazione soggettiva con la transscriptio a persona in personam. Le scritture, che ne realizzavano la forma e che rappresentavano il fatto costitutivo dell’effetto obbligatorio, erano scritture contabili, e dunque dovevano essere effettuate nel contesto di un documento contabile, cioè nel codex accepti et expensi del soggetto che ne sarebbe risultato creditore, o anche nei suoi adversaria, che di quel codex rappresentavano la minuta. Perché l’effetto obbligatorio del nomen si verificasse, era necessario il consenso del 204 Vedi la cost. del 294, proveniente dal Codex Hermogenianus, riportata in Brev. C.Herm.1,1, con la sua int. 205 C.4,30,14 a. 528. 206 Per vero huiusmodi exceptio significherebbe “l’eccezione cosiffatta”.
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soggetto, che ne risultava debitore, all’effettuazione della scrittura. Tale consenso non rivestiva esigenze di forma, e quindi era normalmente dato mediante iussus del debitore al creditore. La prova del iussus – il problema si poneva evidentemente soprattutto nel processo che il creditore intentasse contro il debitore inadempiente – poteva essere fornita in vario modo. Dall’orazione p. Roscio com. risulta ad esempio che una buona prova sarebbe stata fornita dalla presenza, nel codex accepti et expensi del convenuto (preteso debitore) della scrittura passiva corrispondente a quella attiva fornita dall’attore 207. Ma dalle tavolette ercolanesi che abbiamo già menzionate risulta sicura una prassi, secondo la quale – e deve pensarsi che ciò normalmente avvenisse nel contesto dell’affare in rapporto col quale la registrazione aveva luogo – il creditore si muniva di una dichiarazione scritta del debitore, dalla quale risultava il consenso di costui al nomen. Le tavolette pubblicate si riducono al solo index che costituiva la scriptura exterior, effettuata ad inchiostro, dei documenti lignei; il testo delle parti cerate, che costituiva il documento vero e proprio, è irrimediabilmente perduto, ma, grazie all’index, possiamo saper di che cosa si trattasse. Tale index, che doveva presentar sempre analogo tenore, può essere ricostruito bene sulla base di due tavolette 208, e si presenta secondo il modello seguente 209: Chir(ographum) L. Comini Primi HS …… ex nomine facto Actum Neapoli pr(idie) idus Iulias P. Manlio Torquato Saturnino T. Petronio Nigro co(n)s(ulibus). Abbiamo dunque la data nelle ultime tre righe, l’indicazione in sesterzi della somma dovuta scritta in modo autonomo sulla parte superiore destra della tavoletta e l’indicazione della natura del documento, il quale era poi scritto in una successiva parte cerata: “Chirografo di L. Comino Primo, fatto da un nomen”.
L’obbligazione derivante da un nomen transscripticium poteva essere estinta, 207 Cic., p. Roscio com.1,1 (da quod si ille suas ...)-2. Il COSTA, Cicerone cit., 164-166 tende a costruire l’annotazione corrispondente nel codex del debitore come elemento essenziale – almeno per l’epoca di Cicerone – per l’efficacia obbligatoria della scrittura: elemento che potrebbe essere solo sostituito «da altri segni ed indizi ch’esso abbia lasciato nei registri di terzi» . Ciò equivarrebbe a dire che l’iscrizione reciproca nel codex del debitore sarebbe elemento della forma dell’atto. Ma dalle fonti appare del tutto chiaro che forma del nomen transscripticium è unicamente la scrittura nel registro del creditore, e che gli altri indizi scritti non possono valere che come prova del consenso del debitore. 208 Quelle dei documenti III e X: vedi ARANGIO-RUIZ, Le tavolette ercolanesi cit., 116. Un’edizione completa delle tavolette cerate ercolanesi (a cura dell’Arangio-Ruiz) si trova in BIDR 53/54(1948) 393 ss. L’esempio modello che ricostruisco è basato sul documento III, dove la data è precisa, ma la coppia consolare eponima ci è ignota. 209 L’index è scritto nella pagina 1; nella pagina 4, pure non cerata e che rappresentava l’altra pagina exterior del trittico, erano apposti i sigilli con i relativi nomi: il primo e l’ultimo quelli dell’autore del documento (qui L. Comino Primo) e cioè del debitore, il secondo quello di un testimone.
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oltre che con l’adempimento, anche con un’apposita scrittura remissoria, che i romanisti usano chiamare acceptilatio letterale 210. Possiamo aggiungere, in chiusura, un’annotazione sulla posizione che Gaio dà ai nomina transscripticia nella sua sistematica. Come abbiamo visto, egli pone le obbligazioni litteris contractae fra le obbligazioni da contratto, e quindi i nomina transscripticia fra le figure che egli considera contratti. Nella sua sistemazione il nomen transscripticium rappresenta evidentemente una figura parallela a quella della stipulatio; entrambe implicano l’accordo delle parti, ed entrambe esigono una forma, solo che questa forma è orale per la stipulatio e scritta per il nomen. Che sia questa l’idea di Gaio emerge chiaro da Gai.3,136, dove descrive i contratti consensuali come quelli – lo abbiamo già visto – che creano obbligazione col solo consenso, “perché non vi è richiesta alcuna forma orale o scritta” (quia neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur): il riferimento a stipulatio e nomen come ai due tipi del contratto formale, ed in ciò analoghi essi stessi tra loro, è dunque espresso. Siamo sempre, è vero, nella linea del pensiero di Pedio, come riportato in Ulp. D.2,14,1,3, almeno secondo l’integrazione – per altro ovvia – del testo che abbiamo proposta riportandolo nel vol II,1 211. Non possiamo, però, astenerci dal notare che, impiegando quella prospettiva, Gaio viene ad inserirvi un aspetto in più: individuandolo qui di seguito saremo anche costretti ad esprimere delle riserve. Se la forma orale della stipulatio esprime direttamente l’accordo delle parti circa la creazione dell’obbligazione di cui si tratta, la forma del nomen transscripticium ha tutt’altro tenore ed un senso diverso. Essa consiste in una scrittura contabile e non solo non fa cenno alcuno alla creazione di un’obbligazione, ma dell’obbligazione che crea non parla del tutto. D’altra parte, tale scrittura è affatto inidonea ad esprimere il consenso delle parti, perché corrisponde ad una dichiarazione unilaterale del creditore, e neppure recettizia. Il consenso delle parti al nomen transscripticium non viene dunque espresso in modo formale: esso viene espresso al di fuori della forma e senza esigenze di forma. Con la conseguenza pratica che, se la prova della stipulatio risulta poi normalmente sufficiente a provare che il negozio stipulatorio è avvenuto, la prova del fatto che la scrittura di un nomen ha avuto luogo non è mai di per sé sufficiente a provare che il negozio obbligatorio ha avuto luogo. Se per contratto formale si deve intendere un contratto in cui il consenso delle parti deve rivestire una certa forma, il nomen transscripticium non è dunque un contratto formale. L’equivoco prende inizio dal fatto che Gaio ha voluto impiegare la nozione di contratto per tutte le fonti d’obbligazione ch’egli non classificava fra i delitti: e lo abbiamo già visto in difficoltà con il pagamento d’indebito. Ma è un problema, questo, la cui dimensioni potremo percepire via via, in vari momenti dell’esposizione che seguirà.
4. RE OBLIGARI. – Se è vero quanto abbiamo detto nel § 1, che cioè il primo scopo perseguito dai giuristi che concepirono e sollecitarono l’introduzione del-
210 La menziona Plin., ep.2,4,2 in fine con le parole quidquid mihi pater tuus debuit, acceptum tibi fieri iubebo, con le quali Plinio comunicava a una certa Calvina, per esortarla ad accettare l’eredità paterna, che avrebbe fatto a favore di lei remissione di tutti i debiti che suo padre aveva verso di lui. 211 Alla p. 96: abbiamo già richiamato il luogo qui sopra, nella n. 97.
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la legis actio per condictionem mediante la lex Silia era quello di provvedere di azione il mutuante, la nozione di re obligari rappresentò anche il prodotto principale della costruzione dommatica che essi elaborarono in quell’occasione. Nel re obligari si ritrova, in effetti, in tutta la sua portata, l’idea di aes alienum, nel senso dell’intuizione che l’azione a tutela del credito di cose determinate tutela una spettanza, vale a dire un’appartenenza inconsistente sul piano del diritti reali, ma esistente nelle dimensioni di giustizia dell’ordinamento giuridico, e quindi da tutelarsi con gli strumenti del diritto delle obbligazioni. Ma dobbiamo procedere con ordine. La locuzione caratteristica, che esprime la fonte d’obbligazione di cui stiamo parlando, compare in forme diverse, tutte presenti in Gaio. Possiamo lasciare da parte quella di rei obligatio, che abbiamo incontrato leggendo Gai.3,131: essa 212 è semplicemente un’abbreviazione delle due, propriamente tecniche, costruite con un verbo: re obligari 213 e re contrahere obligationem 214. La res delle due locuzioni è la cosa che, appartenendo ad un soggetto Y ma spettando a X, viene a rappresentare l’oggetto dell’obbligazione di Y di darla a X, e quindi anche l’oggetto della condictio, cioè dell’azione che X, per ottenerla, ha contro Y. In ‘re contrahere obligationem’ l’ablativo re è un complemento di mezzo: “contrarre obbligazione per via di una (ovvero: della) cosa”; in ‘re obligari’ re è invece ablativo di causa efficiente: “essere obbligato per effetto di una (ovvero: della) cosa”. Io sarei propenso a credere che quest’ultima, più semplice e diretta – potremmo pure tradurla “essere obbligato da una (ovvero: dalla) cosa” – sia la locuzione originaria, anche se per la seconda (re contrahere obligationem) la testimonianza di Pomponio ci assicura che essa era già familiare a Quinto Mucio 215. Ciò non ha comunque grande importanza: quel che dobbiamo invece stabilire con precisione è il significato che, nell’una o nell’altra forma, all’espressione davano, impiegandola, i giuristi. Credo che il modo migliore per giungere a questo chiarimento sia di studiare le applicazioni che della nozione di re obligari i giuristi hanno costruito, incominciando dunque dal mutuo 216, e
212 Vedi anche sopra, intorno alla n. 109. L’espressione rei obligatio, naturalmente, non ha nulla a che fare con l’espressione obligatio rei che i romanisti talora impiegano per denominare il pegno (come nel titolo del libro del BISCARDI, cit. nel vol. I, p. 320 n. 237) per rendere un’idea dei giuristi, che in realtà è diversa e da loro diversamente espressa: vedi nel vol. I, la n. 254 a p. 324. 213 Ad esempio Gai.3,91. 214 Ad esempio Gai.3,90. 215 Pomp. D.46,3,80, riportato all’inizio del § 1. 216 Per la bibliografia ed un’attenta trattazione complessiva rinvio a GIUFFRÉ, Mutuo (storia), in EdD XXVI (1977), 415 ss., con il complemento dell’interessante corso dello stesso GIUFFRÉ, La datio mutui, Napoli 1989. Si veda sempre, naturalmente, KASER, RPR I, 530 ss., e ora anche RONCATI, Il principio consensualistico nella vicenda del mutuo etc., in REINOSO BARBERO, Principios generales etc., Madrid 2014, 541 ss.
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dalla breve trattazione che se ne legge nelle Istituzioni di Gaio. Il testo lo conosciamo già 217, ma lo riporto con la sua traduzione per comodità del lettore: Gai.3,90: Re contrahitur obligatio velut mutui datione. proprie in his [-] rebus contingit quae pondere numero mensura constant, qualis est pecunia numerata, vinum, oleum, frumentum, aes, argentum, aurum. Quae res aut numerando aut metiendo aut pendendo in hoc damus, ut accipientium fiant et quandoque nobis non eadem, sed aliae eiusdem naturae reddantur. Unde etiam mutuum appellatum est, quia quod ita tibi a me datum est, ex meo tuum fit. La traduzione: “L’obbligazione si contrae re come nel caso in cui si dia a mutuo. Il dare a mutuo ha luogo esclusivamente con riguardo alle cose che vengono in considerazione per il peso, il numero o la misura, quali denaro, vino, olio, granaglie, bronzo, argento, oro 218. Contandole, misurandole o pesandole, queste cose le diamo con l’intesa che esse passino in proprietà di colui che le riceve e che in un momento successivo ci vengano restituite, non esse stesse, ma altre di ugual natura. Questa è anche la ragione per la quale (questo negozio) è stato chiamato mutuo, in quanto quel che da me ti è stato dato da mio diventa tuo 219.” Parlando di altre cose “della stessa natura” (eiusdem naturae) Gaio dice la stessa cosa che con idem genus, “lo stesso genere”, esprimerà Paolo in D.12,1,2 pr., sottolineando anche che l’obbligo di restituzione deve riferirsi al genere e non alla specie perché altrimenti non si tratterebbe di mutuo, ma di comodato o deposito, e che pure non si tratterebbe di mutuo se per le cose da restituire fosse indicato un genere diverso: Mutuum damus recepturi non eandem speciem quam dedimus (alioquin commodatum erit aut depositum), sed idem genus: nam, si aliud genus, veluti ut pro tritico vinum recipiamus, non erit mutuum. È ovvio che dicendosi che il debitore è tenuto a restituire “cose dello stesso genere e non le specie ricevute” non significa che il debitore non possa liberarsi restituendo le stesse cose. Il mutuatario di 100 HS si libererà anche restituendo le stesse monete che ha ricevuto, mentre il mutuatario di un dozzina di uova non si libererà restituendo le stesse uova ormai marce. Nel linguaggio ormai usuale ai civilisti, l’oggetto dell’obbligo di restituzione del mutuatario viene indicato come il ‘tantundem eiusdem generis et qualitatis’ 220; l’espressione proviene da: D.12,1,3 (Pomp. 27 ad Sab.): Cum quid mutuum dederimus, etsi non cavimus, ut aeque bonum nobis redderetur, non licet debitori deteriorem rem, quae ex eodem genere sit, redde217 Vedi sopra, nel cap. I, all’inizio del § 2: si tengano presenti anche le note che là ho fatto alla traduzione e che ora non riprendo. 218 Cfr. Ulp. fr. Vindob. II,1 (FIRA II, p. 305): reddis, quae accepisti, sed aliam pecuniam eiusdem quantitatis. Mutuae autem dari possunt res non aliae, quam quae pondere numero mensura continentur. 219 Cfr. Paul. D.12,1,2,2. 220 Che, ad esempio, l’Art. 312 OR traduce letteralmente (Rückerstattung von Sachen der nämlichen Art in gleichen Menge und Güte) e l’art. 1813 CCit[1942], che proviene dall’art. 1892 CCfr, rende invece con «restituire altrettante cose della stessa specie e qualità» («en rendre autant de même espèce et qualité» nel CCfr), dove l’impiego di «specie» al posto di «genere» non vuole esprimere un’idea diversa: la variante è conforme all’uso linguistico delle scienze naturali, nelle quali con «specie» non si indica un individuo, ma un tipo specifico compreso in un genere.
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re, veluti vinum novum pro vetere: nam in contrahendo quod agitur pro cauto habendum est, id autem agi intellegitur, ut eiusdem generis et eadem bonitate solvatur qua datum sit 221.
Se analizziamo gli elementi dei quali è composta la fattispecie che Gaio riassume nelle parole datio mutui, le quali vogliono approssimativamente descrivere il negozio nel suo complesso e che potremmo rendere 222 dicendo “trasferimento di proprietà in prestito a consumo”, possiamo dire che esso consta di una traditio e di un accordo di restituzione. Ma con questa descrizione – ci se ne accorge subito meditandoci un poco – si descriverebbe tanto il mutuo quale esso si presenta a noi oggi o, se vogliamo, quello che i giuristi hanno costruito in relazione all’applicazione della condictio interpretando la lex Silia, e la lex Calpurnia, quanto il mutuo della prassi precedente quelle leggi, cioè il mutuo non ancora fornito di azione. Quello che voglio sottolineare è che dalla descrizione fatta non risulta se un obbligo di restituire le cose mutuate sussista o no, e, se si vuol dire che esiste, da dove provenga. Cerchiamo dunque di osservare le cose in modo più penetrante. Il mutuo si conclude trasferendo al mutuatario la proprietà degli oggetti mutuati; siccome oggetto possibile ne sono unicamente le cose fungibili – cioè cose che vengono in considerazione per il loro numero, peso o misura – la traditio è il solo atto appropriato a trasferirne la proprietà 223. La proprietà degli oggetti deve passare al mutuatario, perché il mutuo realizza un prestito a consumo, e quindi il mutuatario deve poter disporre pienamente delle cose, in particolare deve poterle consumare. Siccome la traditio è un negozio causale, essa deve essere preceduta da un accordo causale delle parti, che giustifichi il trasferimento della proprietà. Il contenuto dell’accordo di mutuo viene identificato come causa credendi 224, ed in Gai.3,90 è descritto con le parole ‘quae res aut numerando 221 La traduzione: “Quando abbiamo dato qualcosa a mutuo, anche se non ci siamo fatti promettere con una stipulatio di garanzia che ci si rendano cose della stessa bontà, il debitore non potrà restituire una cosa dello stesso genere ma di qualità inferiore, come vino nuovo invece di vecchio: infatti, quando si conclude un contratto, quel che si è concordato deve considerarsi garantito, e (nel caso del mutuo) s’intende che sia stato concordato che vengano date in pagamento cose dello stesso genere e della stessa bontà di quelle che erano state date”. 222 Ma si tenga conto di quanto osservato nel cap. I § 1, alla n. 13. 223 Naturalmente, la traditio può anche essere effettuata nella forma, come si dice, smaterializzata detta brevi manu (vol. I p. 198 s.): Nerv. Proc. Marcell. Ulp. D.19,1,9,9; Afr. D.17,1,34 pr. verso la metà (… si pecuniam apud te depositam convenerit ut creditam habeas, credita fit, quia nummi qui mei erant tui fiunt …). Vedi anche Ulp. D.12,1,4 pr. e D.12,1,10. Anche in altri casi può individuarsi una traditio, benché la consegna delle cose non sia stata effettuata: si veda tutto il problematico Afr. D.17,1,34 pr. or ora cit., nonché la parte finale del pure già cit. Ulp. D.12,1,15, e anche Ulp. Nerv. D.12,1,11 pr. 224 Vedi nel vol. I, p. 309. L’espressione credendi causa dare è caratteristica nelle fonti, anche se non frequentissima: vedila in Gai.3,124 (vol. I, p. 266; cfr. p. 165 con le n. 280 e 281); Iul. D.12,1,19,1 ultima frase. Essa allude sempre alla mutui datio, e non risente dell’ambiguità del
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aut metiendo aut pendendo in hoc damus, ut accipientium fiant et quandoque nobis non eadem, sed aliae eiusdem naturae reddantur’: delle cose viene fatta la traditio con l’intesa che esse passino in proprietà del mutuatario e vengano poi restituite per equivalente. Ma questo accordo va analizzato attentamente. Di primo acchito le cose potrebbero apparire assai semplici. Potrebbe infatti pensarsi che, siccome il mutuo consiste in un trasferimento di proprietà con un’obbligazione di restituire il tantundem – così oggi siamo abituati ad esprimerci 225 – di quanto trasferito, l’accordo descritto si debba considerare come in realtà l’insieme di due accordi: quello sul trasferimento della proprietà, che funziona come iusta causa della traditio delle cose e le permette di realizzarne l’effetto traslativo, e quello sulla restituzione del tantundem, che rappresenta la fonte dell’obbligazione di restituire. Ma così non può proprio essere. Un accordo sul trasferimento della proprietà non sarebbe sufficiente a dotare la traditio di una iusta causa sul piano dei diritti reali, perché l’accordo causale deve stabilire la ragione del trasferimento. L’accordo sulla restituzione non può essere fonte dell’obbligazione di restituire: per affermare ciò potremmo limitarci a dire che al tempo dell’interpretazione della lex Silia non esistevamo ancora i contratti consensuali e neppure l’idea che un’obbligazione potesse nascere dal consenso informale delle parti; ma, dopo aver letto la classificazione gaiana delle fonti delle obbligazioni, abbiamo potuto constatare che in piena epoca classica, quando il sistema del contratti consensuali era del tutto compiuto, l’obbligazione del mutuatario di restituire il tantundem delle cose mutuate non era considerata formarsi consensu, bensì re. Del resto, anche nei nostri diritti codificati, nei quali il meccanismo del re obligari, anche se tecnicamente del tutto presente ed operante, è male percepito, sicché il mutuo viene talora legislativamente costruito come contratto consensuale 226 e dove comunque dottrina e giurisprudenza tendono a costruirlo così, l’obbligazione del mutuatario è sempre un’obbligazione di restituire, e quindi non può formarsi se il mutuatario non ha ricevuto le cose 227.
L’accordo di mutuo è un accordo unitario, ed esso prevede la ragione del trasferimento della proprietà dal mutuante al mutuatario delle cose mutuate, termine credere (e creditum), il quale può essere anche inteso come verbum generale (come nella rubrica edittale de rebus creditis: LENEL, EP, 231 s.) e così riferito a qualunque consegna effettuata in vista di restituzione, e quindi comprendere anche comodato e pegno (Ulp. Cels. D.12,1,1,1; ALBANESE, Per la storia del creditum, estr. da AP 32[1971]). Paolo (D.12,1,2,1) riservava però anche il credere al solo mutuo, dicendo che solo dando delle cose fungibili un soggetto può ire in creditum: Mutui datio consistit in his rebus, quae pondere numero mensura [consistunt] (HALOANDER), quoniam eorum datione possumus in creditum ire, [quia] (HALOANDER) in genere suo functionem recipiunt per solutionem quam specie: (trad.; “… perché possiamo ire in creditum [= sostituire alla proprietà un credito] soltanto con l’attribuzione della proprietà delle cose che traggono la loro funzionalità al pagamento dalla loro appartenenza ad un certo genere piuttosto che non dalla loro specie”; cfr. DTuÜ III e Alf. Paul. D.19,2,31) nam in ceteris rebus ideo in creditum ire non possumus, quia aliud pro alio invito creditori solvi non potest. (Di conseguenza il § 3 dello stesso testo risulta essere, così com’è scritto, spurio). 225 Vedi sopra, la parte tra le note 219 e 222, senza dimenticare Ulp. Q. Muc. D.46,3,80. 226 Cfr. art. 312 OR. 227 Ma questo è un punto sul quale dovremo tornare, perché la realità del mutuo riveste un carattere assai diverso e più pregnante di quella di deposito, comodato e pegno.
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ragione che consiste nell’affare in funzione del quale la traditio traslativa ha luogo: le cose sono trasferite credendi causa, vale a dire perché il mutuatario possa disporne e poi ne restituisca altre della stessa natura, o, se si vuol dire così, dello stesso genere e qualità. Ora, questo accordo, come accordo causale della traditio, opera sul terreno dei diritti reali permettendo alla traditio stessa di produrre il suo effetto reale, e cioè il trasferimento della proprietà delle cose mutuate al mutuatario; ma, sul piano dei diritti reali, la funzione di tale accordo è così interamente esaurita: la previsione della restituzione non può avervi alcuna rilevanza non solo perché l’obbligazione di restituire non sorge sul piano dei diritti reali, ma perché un trasferimento di proprietà non può essere limitato in alcun modo che non sia quello della deductio di un diritto reale frazionario: esso non può essere sottoposto a termine finale né a condizione risolutiva, ed è comunque definitivo; e non solo è così in generale, ma è anche chiaro che il caso del mutuo non costituisce un’eccezione: il trasferimento è tanto definitivo, che è precisamente previsto che il nuovo proprietario consumerà le cose. L’obbligazione di restituire non ha assolutamente alcun rapporto con la proprietà trasferita con la datio mutui, al punto che l’obbligazione di restituire, quando si formerà, avrà ad oggetto cose diverse (o, comunque, diversamente definite) da quelle che il mutuante ha trasferito al mutuatario. La vicenda obbligatoria ha inizio solo dopo che il trasferimento è avvenuto: il suo primo presupposto è, infatti, costituito dal fatto che il mutuatario abbia acquistato la proprietà delle cose mutuategli. Il mutuo viene inquadrato dai giuristi romani nella loro visione sistematica del diritto privato come una fonte d’obbligazione. Lo abbiamo visto nelle Istituzioni di Gaio 228, dove la sistematica prende anche corpo come ordine della materia in un’esposizione istituzionale; ma la cosa risulta chiara in ogni luogo delle fonti dove la trattazione dei problemi del mutuo implichi considerazioni dommatiche; esso viene comunque in considerazione come ipotesi d’impiego della condictio, che delle azioni in personam rappresenta il modello parametrico. Ma la fattispecie del mutuo come fonte d’obbligazione comprende, come elemento essenziale, il fatto che il mutuatario acquisti la proprietà delle cose mutuate. Il carattere essenziale di questo acquisto della proprietà è anche messo in evidenza da quell’etimologia, fantasiosa o popolare fin che si vuole, del vocabolo mutuum da ‘ex meo tuum’ che abbiamo visto usata da Gaio come appendice pertinente e in certo modo illuminante della sua definizione del negozio 229, ma che verrà ripresa anche da Paolo, in una breve frase dove il carattere essenziale dell’acquisto della proprietà da parte del mutuatario in funzione del sorgere dell’obbligazione è evidenziato con vigore particolare: D.12,1,2,2 (Paul. 28 ad ed.): Appellata est autem mutui datio ab eo, quod de meo tuum fit: et ideo, si non fiat tuum, non nascitur obligatio. 230 228
Gai.3,90 nel contesto di Gai.3,88-225. Vedi i testi nel cap. I § 2. Gai.4,90. 230 “La mutui datio è così detta dal fatto che (la cosa mutuata) da mia diviene tua: e dunque, se non diventa tua, non nasce l’obbligazione”. 229
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In coerenza con ciò i giuristi sottolineavano 231 che il mutuante deve essere proprietario delle cose mutuate 232 e deve avere la capacità di alienarle 233. In una serie di testi si considera il caso, nel quale l’accipiens non abbia acquistato la proprietà perché la datio mutui era stata effettuata con denaro altrui o da un soggetto incapace di alienare, ma in seguito il danaro consegnatogli sia stato consumato e quindi non possa più essere rivendicato: al dans è accordata bensì la condictio, ma non basata sul mutuo, bensì a titolo di arricchimento ingiustificato 234: Iul. D.12,1,19,1; Pomp. Iul. D.12,1,12; Ulp. D.12,1,11,6 235; Paul. D.46,1,56,2. Il principio secondo il quale le cose mutuate devono appartenere al mutuante non impediva però che un soggetto potesse effettuare un mutuo delegando un proprio debitore a pagare al mutuatario: Afr. D.17,1,34 pr. (… si a debitore meo iussero te accipere pecuniam, credita fiet: id enim benigne receptum est. …); Ulp. D.12,1,15, dove pure la soluzione è presentata come eccezionale ed è caratterizzata da un’evidente economicità 236. Ma la giurisprudenza riconobbe anche che un mutuo potesse essere effettuato da un soggetto A ad un soggetto B, dando mandato ad un terzo T di dare denaro proprio a B, con la conseguenza che la condictio contro B per la restituzione era acquistata da A 237; Giuliano presentava il caso come estremamente frequente nella prassi: D.12,1,9,8 (Ulp: 26 ad ed.): Si nummos meos tuo nomine dedero velut tuos absente te et
231 Su quanto segue vedi la chiara sintesi di C. LONGO, Corso di diritto romano. Il mutuo, Milano 1947, 13 ss. 232 Senza che ciò impedisca che un filius familias o uno schiavo possano dare a mutuo cose appartenenti al loro peculio, perché in tali casi è come se le cose vengano date per volontà del pater familias, ed è a lui che si acquista la condictio (si tenga presente che i beni peculiari erano in proprietà del pater): Paul. D.12,1,2,4; vedi anche Ulp. D.12,1,11,2. Ma vedi la diversa soluzione di Giuliano alla n. seguente. Sul mutuo effettuato dal socio con denaro proprio o denaro comune Paul. D.12,1,16; per il caso del denaro comune diversa era la soluzione di Pap. D.46,3,94,1. Quanto al principio che il mutuante deve essere proprietario, esso risulta ribadito in C.4,2,7 a. 293: a meno che non si segua le lezione dei manoscritti deteriores, che inseriscono ut dopo si (si ut propriam numeravit), nel qual caso il testo verrebbe a significare che non ha rilevanza che il denaro dato a mutuo fosse del mutuante, ma solo che egli lo abbia dato come fosse suo. 233 Quindi il pupillo non può dare a mutuo senza l’auctoritas del tutore: I.2,8,2 (cfr. il lacunoso Gai.2,82 e Iul. D.12,1,19,1; LONGO, Mutuo cit., 14 s.; 16); Ulp. Iul. D.14,6,3,2 (mutua pecunia non fit, quam sine tutoris auctoritate pupillus dat); nello stesso testo si cita un parere di Giuliano, secondo il quale un filius familias, munito di peculio e della libera administratio dello stesso, non può dare a mutuo denari peculiari “perché la libera administratio non permette di perdere il peculio”, e quindi, se li dia, il pater potrà rivendicarli. 234 Come ha ben sottolineato il LONGO, Mutuo cit. 18 ss., criticando una costruzione, che risale ai Commentatori e che vedeva in quei casi un’ipotesi di convalida del mutuo nullo. Dell’arricchimento ingiustificato si parlerà fra non molto e vi rivedremo questi problemi. 235 Dove non considererei necessariamente interpolata la menzione dell’actio ad exhibendum, come vorrebbe il LONGO, Mutuo cit., 21 s. e già 14 a proposito di I.2,8,2. 236 Come ha ben sottolineato il LONGO, Mutuo, 25 s. 237 Nel testo di Paolo cit. alla n. 233 (D.12,1,2,4) la possibilità che un sottoposto (filius o schiavo) dia denaro a mutuo acquistando la condictio a favore dell’avente potestà (pater o dominus) è giustificata mediante l’analogia col caso del mutuo effettuato da un mandatario, sottolineandosi che in quest’ultimo caso i nummi mutuati non sono neppure del mutuante: … id enim tale est, quale si voluntate mea tu des pecuniam: nam mihi actio adquiritur, licet mei nummi non fuerint.
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ignorante, Aristo scribit adquiri tibi condictionem: Iulianus quoque de hoc interrogatus libro decimo scribit veram esse Aristonis sententiam nec dubitari, quin, si meam pecuniam tuo nomine voluntate tua dedero, tibi adquiratur 238 obligatio, cum cottidie credituri pecuniam mutuam ab alio poscamus, ut nostro nomine creditor numeret 239 futuro debitori nostro. “Se ho dato come tue monete mie in nome tuo in tua assenza e senza che tu lo sapessi, Aristone scrive che si acquista a te la condictio; anche Giuliano interrogato in proposito scrive nel decimo libro (dei Digesta) che il parere di Aristone è giusto e di non aver dubbio alcuno che, se io abbia dato denaro mio a tuo nome per tua volontà, il credito 240 si acquisti a te, dal momento che quotidianamente, quando ci accingiamo a fare un mutuo, chiediamo ad un altro che come mutuante in nostro nome 241 effettui lui il versamento al nostro futuro debitore.” Questa soluzione non è, dunque, presentata dai giuristi come eccezionale: in effetti si tratta semplicemente di un impiego del meccanismo della rappresentanza diretta 242.
L’obbligazione di restituire nasce dunque dopo che il mutuatario è diventato proprietario delle cose: e non nasce per le cose stesse, ma per la loro entità come elemento del patrimonio del mutuatario. Essa non nasce dalla datio mutui, la quale semplicemente trasferisce la proprietà al mutuatario, ma dalla presenza delle cose nel patrimonio di costui, e nasce perché le cose, se pur sono divenute sue, non spettano a lui, ma al mutuante. Solo dobbiamo individuare la ragione per la quale esse spettano al mutuante. E la ragione, in se stessa, è ovvia: le parti erano d’accordo nel senso che le cose sarebbero state restituite nella stessa quantità e natura. Ricordiamo quel che abbiamo letto in Pomp. D.12,1,3: ‘nam in contrahendo quod agitur pro cauto habendum est, id autem agi intellegitur, ut eiusdem generis et eadem bonitate solvatur qua datum sit’, “quando si conclude un contratto, quel che si è concordato deve considerarsi garantito, e (nel caso del mutuo) s’intende che sia stato concordato che vengano date in pagamento cose dello stesso genere e della stessa bontà di quelle che erano state date”. Pomponio, come Gaio, considera questo accordo come un accordo contrattuale, cosa che i giuristi del III e II secolo a. C. non erano ancora giunti a fare (è un punto sul quale torneremo), ma 238 La lezione adquiratur è dei manoscritti che il Mommsen indica come S; la Fiorentina ha adquiritur. 239 Anche la lezione numeret è dei manoscritti S. Vedi la nota in proposito nell’editio minor. 240 Per chiarezza traduco con “credito” obligatio, che qui significa genericamente “rapporto obbligatorio”. 241 Credo che questa sia la sola traduzione esatta; non mi pare abbia senso quella di DTuÜ III. Il luogo va inteso tenendo conto del rapporto fra ‘credituri’ e ‘creditor’: ‘credituri pecuniam mutuam’ = “abbiamo l’intenzione di dare a mutuo”; ‘nostro nomine creditor numeret’ = (l’alius) “effettui il versamento (in qualità di) mutuante in nostro nome”. 242 Essa può dunque meravigliare solo i romanisti che continuano a credere che la rappresentanza diretta fosse ignota ai giuristi romani. La spiegazione che ne dà il LONGO, Mutuo cit., 26 s. è inutilmente complicata. Particolare è solo la soluzione di Aristone, che riconosce un potere di rappresentanza diretta ad un gestore d’affari.
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per Pomponio e Gaio rimaneva pur sempre chiaro che l’accordo qui rilevante non era l’insieme dell’accordo causale della traditio, ma solo la parte di quell’accordo che prevedeva la restituzione. Abbiamo visto che l’accordo sulla restituzione non aveva rilevanza in ordine all’attribuzione di proprietà, ma esso assume rilevanza per qualificare la situazione che il trasferimento di proprietà ha creato. La traditio ha dato luogo alla presenza delle cose nel patrimonio del mutuatario, e questa presenza è qualificata da un impegno del mutuatario verso il mutuante alla restituzione: ciò permette di dire che quell’entità del patrimonio del mutuatario spetta al mutuante, e quindi la fattispecie realizzata è quella della fonte di un’obbligazione re del mutuatario alla restituzione al mutuante. Le cose mutuate, in quanto presenti nel patrimonio del mutuatario, e, dato il tenore dell’accordo, non importa se presenti fisicamente, ma comunque presenti per l’entità economica che vi hanno aggiunto entrandovi, esigono la restituzione al mutuante, e quindi egli avrà a disposizione la condictio per pretenderle. Un certo numero di romanisti, in modo più o meno critico 243, ritiene che per «obbligazione che si forma re» debba intendersi la nascita di un’obbligazione «come effetto della consegna, nel senso del trasferimento, di una cosa», trasferimento in proprietà nel diritto classico, trasferimento anche in semplice detenzione o in possesso – nei casi di deposito, comodato e pegno – per il diritto postclassico e giustinianeo. Questa prospettiva evidentemente, nel suo complesso, confonde la nozione di contratto reale, nella quale la consegna della cosa è un elemento della fattispecie conclusiva di un contratto, con la nozione di re obligari, che è quella di un meccanismo produttivo di un’obbligazione che può anche non essere un’obbligazione da contratto. Ma sulla genesi, che è epiclassica, della nozione di contratto reale vedremo in seguito. Per ora vorrei soltanto sottolineare che identificare l’obbligazione re contracta come l’obbligazione prodotta dalla datio rei non solo è erroneo, ma ha rappresentato storicamente la ragione dell’insensibilità dei giuristi moderni rispetto ad un particolare modo di formazione dell’obbligazione, che opera ancor oggi nel diritto privato in modo assai importante. Infatti, come abbiamo visto, l’obbligazione si forma re per effetto della presenza di una cosa nel patrimonio del soggetto che ne risulta obbligato. Siccome normalmente – non proprio in tutti i casi, ma nella gran maggioranza – l’appartenenza della cosa ad un soggetto B – anzi, la sua nuova appartenenza, perché l’obbligazione è suscitata da un cambiamento intervenuto nella situazione precedente – risulta dal fatto che B ha ottenuto la cosa in seguito ad un atto di attribuzione di un soggetto A, altrettanto normalmente la formazione re dell’obbligazione ha come presupposto una datio della cosa da A a B: sicché, specialmente nei testi casistici, la descrizione dei fatti risulta spesso sintetizzata con riferimento alla datio ed al sorgere dell’obbligazione. Esempi di questo genere ne
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In materia di re obligari gli autori che continuano a considerare tale obbligazione come effetto della consegna della cosa si richiamano – più o meno espressamente – in particolare al pensiero del BETTI, come da lui espresso nelle Istituzioni di diritto romano II.1, Padova 1962, 97 ss. In realtà, a mio modo di vedere, in quelle pagine non è tanto che l’autore dica cose assai diverse da quanto qui espongo: solo che la nozione di re obligari che egli usa non viene fatta da lui oggetto di un approfondimento dommatico.
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abbiamo incontrati e ne incontreremo 244, ma ne incontreremo di più numerosi nei quali, sol che il profilo dommatico del fenomeno descritto venga in evidenza, è il fatto della presenza che s’individua come produttivo d’obbligazione e non la datio, anche se necessariamente avvenuta. In ogni caso non ci si deve mai fermare alle apparenze: ed una lezione in questo senso l’abbiamo da un testo, non casistico ma definitorio, che conosciamo bene. Abbiamo visto che dall’insieme di Gai.3,90 risulta chiaro che l’obbligazione del mutuatario è ricondotta al suo acquisto della proprietà delle cose mutuate, eppure egli iniziava la sua descrizione del mutuo dicendo ‘Re contrahitur obligatio velut mutui datione’. Si può essere tentati, questa frase, di tradurla “l’obbligazione si contrae re come dalla (= per effetto della) datio delle cose mutuate”, identificando dunque il re contrahere obligationem con il mutuum dare. Ma, solo riflettendovi un attimo, si vede subito che con questa interpretazione della sua frase si farebbe dire a Gaio una sciocchezza, perché chi contrae l’obbligazione è il mutuatario e chi dà le cose è il mutuante 245. Con mutui datione Gaio descriveva invece, sinteticamente, l’insieme del negozio, e lo descriveva bene perché esso, come spiegava poi, ha il suo perno in un trasferimento di proprietà, ma il mutuatario ne risulta obbligato perché diviene proprietario con un accordo di restituzione. La sua frase significa dunque: “L’obbligazione si contrae re, come nel caso del mutuo”, solo che la fattispecie del mutuo viene descritta, nel linguaggio usuale dei giuristi romani, come mutui datio; la frase risulta dunque pensata in questi termini: “L’obbligazione si forma re come nel caso in cui (delle cose) siano date a titolo di mutuo”.
Vediamo infine come si collochi il mutuo nella classificazione gaiana delle fonti d’obbligazione. Per Gaio l’obbligazione del mutuatario nasce senza dubbio da contratto, come del resto abbiamo visto, leggendo sopra D.12,1,3, era anche per Pomponio. Che per Gaio l’obbligazione nascesse da contratto non risulta solo dalla sua collocazione tra le obbligazioni che nascono ex contractu, perché essa è ribadita in Gai.3,91, dove – come abbiamo visto e rivedremo ancora – le viene contrapposta quella risultante dal pagamento d’indebito, appunto perché questa non proviene da contratto. Tuttavia Gaio è perfettamente cosciente che l’obbligazione del mutuatario non nasce consensu ma re; essa dunque, nel caso del mutuo, implica – o presuppone – il consenso delle parti, ma non ne è l’effetto. Fino a questo punto, cioè per quanto concerne la collocazione del mutuo, il suo sforzo sistematico regge: altro dovremo dire per l’insieme delle obbligazioni che si formano re, nel paragrafo seguente. Per ora mi limiterò ad aggiungere che comunque l’accordo di mutuo era praticamente considerato dei giuristi classici come un accordo contrattuale 246: beninteso un accordo informale, in 244
Vedi ad esempio: Gai.3,132; Pomp. D.46,2,7 (obligationem numeratione nasci). Nel testo contrahitur obligatio significa senza dubbio “si contrae un’obbligazione” nel senso che “si risulta obbligati”, e non nel senso che “si forma un rapporto obbligatorio”; solo per l’obligatio re contracta Gaio si esprimeva in questo modo, come per l’indebito in Gai.3,81 (qui non debitum accepit … re obligatur). A proposito delle obbligazioni verbis e litteris (Gai.3,92; 128) scriveva ‘obligatio fit’ (= si forma) e a proposito di quelle consensu (§ 135) ‘fiunt obligationes’. 246 Il che però, si deve notare, non implica che il mutuo sia considerato necessariamente un 245
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quanto l’elemento reale, comunque lo si concepisca, non costituiva un requisito di forma del negozio 247. In coerenza con la considerazione dell’accordo di mutuo come accordo contrattuale si deve probabilmente considerare la possibilità che vi si potessero anche inserire clausole come la previsione di un termine per la restituzione e di un luogo nel quale effettuarla 248. Come si è visto dal testo citato nell’ultima nota (Iul. Sab. D.12,1,22), la possibilità di aggiungere clausole particolari ad un mutuo datava almeno dall’epoca di Sabino, cioè dal primo secolo d. C. e, se vogliamo riconnettere tale possibilità con il riconoscimento della natura di contratto a tale negozio, possiamo chiederci come simili previsioni potessero effettuarsi prima. Ma il problema, potrebbe dirsi, non sussiste, perché nella prassi romana l’impiego del mutuo fu sempre connesso con quello della stipulatio, nel senso che – tranne, dobbiamo pensare, per i mutui strettamente amichevoli e di modesto valore – il contenuto dell’accordo di restituzione era spesso ripreso in una stipulatio opportuna; del tutto si redigeva poi un documento scritto (chirografo), il quale aveva, come già sappiamo, un semplice valore di mezzo di prova. Nella stipulatio, naturalmente, potevano così essere previste con valore vincolante tutte le clausole che le parti volessero, anche al tempo in cui non era ancora possibile prevederle in modo informale nell’accordo di mutuo 249. Va notato che la stipulatio risultava del tutto necessaria se si volesse concludere un mutuo con interessi 250. Infatti, l’obbligazione di restituire nascendo re, essa non poteva avere come contenuto se non l’entità economica entrata, a seguito della datio mutui, nel patrimonio del mutuatario 251. Va però, a questo proposito, notato che in un rescritto della tarda epoca classica 252, pur riaffermandosi il principio secondo il quale non c’è azione per pretendere interessi pattuiti senza stipulatio, tuttavia non v’è neppure
contratto. Leggendo i tre noti testi, dove il carattere contrattuale dell’accordo di mutuo emerge con chiarezza (Paul. D.44,7,3,1; Ulp. Iul. D.12,1,18 pr.-1), si nota subito che nel primo l’accordo di mutuo è messo a confronto con l’accordo di donazione, e la donazione, nel diritto classico, non era considerata un contratto. 247 Si ricorderà che in Gai.3,136 (che abbiamo letto sopra, nel cap. I § 2), nel menzionare le forme contrattuali dalle quali i contratti consensuali sono esenti, si menzionavano solo la verborum e la scripturae proprietas. 248 Iul. Sab. D.12,1,22, dove si tratta di un mutuo di vino e sono riportate due risposte di Sabino, un responso – quello sul termine – dato in occasione di un processo, e la risposta – che implica la possibilità della previsione di un luogo per la restituzione – ad una domanda del suo allievo Minicio (LENEL, Pal. I, 699 n, 1). Vedi KASER, in Eranion Maridakis I, Atene 1963, 155 ss. Si legga pure Ulp. D.12,1,7, che però può risultare da un compendio compilatorio (quello che ha toccato l’inizio della presentazione della condictio nel libro 26 di Ulp. ad ed. (se ne riparlerà nel paragrafo seguente: § 4.1, nella parte in carattere piccolo con le note 271-273). 249 Qualche esempio di mutuo ripreso con stipulatio: Scaev. D.45,1,122 pr. § 1 (dove si tratta di un mutuo marittimo, mutua pecunia nautica o fenus nauticum, o pecunia traiecticia, che aveva un regime particolare: KASER, RPR I, 532 s.); Paul. D.45,1,126,2 dove è riportato il chirografo, come pure in Paul. D.12,1,40. 250 Vedi l’affermazione di Giuliano (respondit pecuniae quidem creditae usuras nisi in stipulationem deductas non deberi) contenuta nel complesso Afr. D.19,5,24. 251 Vedi ad esempio Ulp. Proc. D.12,1,11,1. 252 C.4,32,3, emanato dagli imperatori Settimio Severo e Caracalla nell’anno 200.
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azione per ripeterli come indebiti se siano poi stati pagati. Ma in alcuni testi del Digesto troviamo anche soluzioni più avanzate, in particolare quella di: D.22,1,41,2 (Mod. 3 resp.): Ab Aulo Agerio Gaius Seius mutuam quandam quantitatem accepit hoc chirographo: ‘ille scripsi me accepisse et accepi ab illo mutuos et numeratos decem , quos ei reddam kalendis illis proximis cum suis usuris placitis inter nos’: quaero, an ex instrumento usurae peti possint et quae. Modestinus respondit, si non appareat de quibus usuris conventio facta est, peti eas non posse. Traduco, con qualche chiarimento tra parentesi o in nota, evidenziando anche il carattere notarile del chirografo trascritto nel testo, e completandolo anche, nei punti abbreviati dal giurista nel riportarlo: “Gaio Seio ricevette a mutuo da Aulo Agerio una certa quantità (di denaro) con questo chirografo: «Io Gaio Seio 253 ho scritto di avere ricevuto ed (in effetti) ho ricevuto da Aulo Agerio a titolo di mutuo e (effettivamente) versati(mi) 10.000 HS 254, che gli renderò alle prossime calende di aprile 255 con i relativi interessi pattuiti fra noi». Chiedo se sulla base del documento possa agirsi per gli interessi e quali. Modestino rispose che, se non risulti quali interessi siano stati convenuti, questi non possono essere richiesti in giudizio.” Il caso sottoposto a Modestino è evidentemente un caso reale, ed il responso del giurista è, malgrado le apparenze, abbastanza sottile. Il cliente gli chiedeva semplicemente se poteva agire per ottenere il pagamento degli interessi producendo il chirografo, non avendo avuto luogo la relativa stipulatio e, in caso positivo, quali interessi 256 potesse chiedere. La risposta di Modestino ha il senso seguente: se come prova della convenzione relativa agli interessi non disponi che di questo chirografo, non puoi certo agire, perché l’entità delle usure qui non è determinata. Dunque Modestino – che, non va dimenticato, è l’ultimo in ordine di tempo dei giuristi classici – non nega la validità del patto relativo agli interessi, ma neppure attribuisce al chirografo più che un valore probatorio; solo dice che dal documento risulterebbe un patto nullo per indeterminatezza dell’oggetto, e quindi se il cliente intende agire per gli interessi deve procurarsi altre prove – magari dei testimoni – per dare un senso preciso a quell’allusione ai “relativi interessi pattuiti fra noi” (cum suis usuris placitis inter nos). Non potrebbe proporsi, come interpretazione del testo che eviti di attribuire a Modestino una soluzione che ammette la possibilità di un debito d’interessi pattuiti e non stipulati, quella di pensare che Modestino riconoscesse valore obbligatorio al chirografo perché il mutuo era stato concluso fra due stranieri 257. Anzitutto, come si è visto, il giurista non dà affatto valore obbligatorio al chirografo in sé, ma al patto; in secondo luogo il caso era presentato, nei libri responsorum di Modestino, come avvenuto fra parti romane. I nomi
253 Nel contesto della trascrizione del chirografo le parti sono indicate con ille … ab illo, ma si tratta di una semplice abbreviazione; si può vedere l’inizio di un chirografo interamente riportato in Paul. D.12,1,40. 254 Il testo parla di dieci sesterzi, ma Modestino usava qui una somma fittizia ed esprimendola, come già abbiamo visto altrove, menzionando come unità le migliaia. 255 Anche qui il testo ha ille (kalendis illis proximis) in luogo della precisazione del mese, che ho fatto scegliendo a caso. 256 Ci attenderemmo che il cliente chiedesse non “quali interessi” potesse pretendere, ma in che misura li potesse chiedere. Ma la formulazione ‘quae (usurae)’ risulta più appropriata, perché qui, dato il tenore vago del documento, si tratta del tutto di stabilire con quale criterio gli interessi possano essere determinati. 257 Il mutuo era, in effetti, un negozio del ius gentium (Gai.3,132), e l’obbligazione da chirografo era propria dei peregrini (Gai.3,134).
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che egli impiegava per identificare i protagonisti del caso sono evidentemente fittizi, ma sono altrettanto evidentemente fra i più caratteristici nomi che i giuristi impiegavano per presentare, nei loro testi, dei cittadini romani. Quello che il testo prova è una cosa diversa: e cioè che alla fine dell’epoca classica il mutuo era ormai definitivamente considerato come un contratto, perché il valore obbligatorio del patto relativo alle usurae Modestino lo considera obbligatorio in quanto patto aggiunto in continenti al contratto di mutuo 258. Un atteggiamento analogo, lo troviamo espressamente adottato in Paul. D.12,1,40, dove si considera una convenzione relativa agli interessi, che aveva avuto luogo in modo informale in occasione di un mutuo confermato con stipulatio, e il giurista la considera un patto aggiunto alla stipulatio, anch’essa ormai percepita come un contratto formale: … dicebam, quia pacta in continenti facta stipulationi inesse creduntur, perinde esse, ac si per singulos menses certam pecuniam stipulatus, quoad tardius soluta esset, usuras adiecisset … Il problema or ora esaminato ci suggerisce di trattare qui anche un tema più generale. Ove il mutuo fosse confermato con una stipulatio, sorgeva un problema particolare nel caso in cui i due atti, cioè il mutuo – la datio accompagnata dal suo accordo causale – e la stipulatio avessero luogo, come dicevano i giuristi, ex (ovvero in) continenti, locuzione avverbiale che significa “in stretta sequenza, in un unico contesto”. Il problema è posto nelle fonti solo per i mutui di denaro, ed assume particolare evidenza se si supponga che con la stipulatio venga promessa unicamente la somma mutuata, cioè se A dia a mutuo 100 HS a B e gli chieda: ‘Spondes mihi centum sestertios dari?’, al che B risponda ‘Spondeo’. Così si vede subito che le parti hanno effettuato due atti obbligatori, e sembrerebbe doversene dedurre che B ne risulti gravato da due obbligazioni di dare 100 HS ad A: 100 HS in forza del mutuo e 100 HS in forza della stipulatio. Ma questa conseguenza, che evidentemente sarebbe contraria alla volontà delle parti, può essere semplicemente evitata se solo si consideri, appunto, la volontà delle parti – l’id quod actum est – considerazione che, sebbene non esplicitata, è chiaramente alla base di: D.46,2,6,1 (Ulp. 46 ad Sab.): Cum pecuniam mutuam dedit quis [sine stipulatione] 259 et ex continenti fecit stipulationem, unus contractus est. idem erit dicendum et si ante stipulatio facta est, mox pecunia numerata sit. “Quando uno ha dato del denaro a mutuo [-] e subito dopo ha fatto la stipulatio, il contratto è uno solo. Lo stesso è a dirsi anche se la stipulatio sia stata fatta per prima, e il denaro sia stato versato immediatamente dopo.” Nel caso la stipulatio venga fatta dopo il versamento, essa assumerebbe facilmente una forma del tipo “prometti di darmi i 100 HS che ti ho dato a mutuo?”, e quindi considerarsi come una novazione dell’obbligazione già sorta dal mutuo. Ma già Pomponio aveva precisato in proposito: D.46,2,7 (Pomp. 24 ad Sab.): Cum enim pecunia mutua data stipulamur, non puto obligationem numeratione nasci et deinde eam stipulatione novari, quia id agitur, ut sola stipulatio teneat, et magis implendae stipulationis gratia numeratio intellegenda est fieri. “Quando, infatti, ci facciamo promettere del denaro che abbiamo dato a mutuo, non credo che l’obbligazione nasca dal versamento e poi venga novata con la stipulatio, perché l’affare è gestito nel senso che la sola stipulatio abbia consistenza, e il versamento debba considerarsi piuttosto aver luogo come elemento dell’affare gestito con la stipulatio 260.”
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Del valore dei patti aggiunti ai contratti tratteremo nel cap. III. Credo che sine stipulatione sia un innocuo ma sciocco glossema: pertanto non lo tradurrò. 260 A chiarimento delle parole magis implendae stipulationis gratia, che credo di aver reso intendendone precisamente il senso, il SEGRÉ, Mutuo e stipulazione nel diritto classico e nel diritto 259
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Questa idea – che beninteso si riferisce unicamente al caso nel quale mutuo e stipulatio abbiano avuto luogo in un unico contesto negoziale, perché evidentemente è ben possibile novare un mutuo con una stipulatio effettuata successivamente in modo autonomo – era ius receptum alla fine dell’epoca classica; come tale la troviamo addotta in un testo di Paolo 261 che leggeremo interamente fra breve, dove essa è enunciata così: … quotiens pecuniam mutuam dantes eandem stipulamur, non duae obligationes nascuntur, sed una verborum. 262 Ma questa soluzione, che rappresenta una limpida interpretazione tipica di una prassi negoziale, ha preoccupato i romanisti, in relazione soprattutto al problema seguente, che enuncio con parole di Carlo Longo 263: «La conseguenza pratica dell’esistenza, in tal modo ammessa, del solo contratto verbale era nel diritto classico questa: che, se la stipulazione era nulla, il creditore rimaneva privo di ogni azione contrattuale per ottenere la restituzione del denaro versato al debitore promittente, non potendo egli istituirla in base alla stipulazione perché essa era nulla e non potendo istituirla in base al mutuo perché questo si considerava non mai venuto in essere. Ma deve inoltre dirsi che il creditore doveva adattarsi a perdere definitivamente il denaro che aveva dato?» 264. Questo problema evidentemente non esiste, sol che si pensi che, se un mutuo è accompagnato da stipulatio, esso è assorbito, come si è visto, da questa, ma se la stipulatio è nulla il mutuo non è più accompagnato da stipulatio, e quindi resta un mutuo puro e semplice 265. Il fatto è che ad incrementare il problema che si è visto è stata la considerazione di un testo di Paolo, che invece a me pare chiarire interamente le cose, purché lo si intenda correttamente. Io credo si tratti, cioè, di un puro problema di traduzione, e propongo di seguito quella che mi pare corretta: D.45,1,126,2 (Paul. 3 quaest.): ‘Crysogonus Flavii Candidi servus actor scripsi[t], coram subscribente et adsignante domino meo, accepisse eum a Iulio Zosa, rem agente Iulii Quintilliani absentis, mutua denaria mille. quae dari Quintilliano heredive eius, ad quem ea res pertinebit, kalendis Novembribus, quae proximae sunt futurae, stipulatus est Zosas libertus et rem agens Quintilliani, spopondit Candidus dominus meus. sub die supra scripta si satis eo nomine factum non erit, tunc quo post solvetur 266, usurarum nomine denarios octo praestari stipulatus est Iulius Zonas, spopondit Flavius Candidus dominus giustinianeo (ex Studi Simoncelli, 1915-16), in Scritti vari di dir. rom., Torino 1952, 143 n. 10, adduce l’expleta est numeratione substantia obligationis di Scaev. D.14,6,6 (da leggersi nel contesto dei frr. Ulp. Scaev. Paul. D.14,6,3-6), ma non sono sicuro che il parallelo sia calzante. 261 D.45,1,126,2. 262 “Quando, nel dare denaro a mutuo, ce lo facciamo promettere, non nascono due obbligazioni, ma una sola verbis (= da stipulatio).” 263 LONGO, Mutuo cit., 8. 264 A questo problema Gino Segré ha dedicato il notevole articolo – come al solito ricco ed acuto anche se di lettura un po’ faticosa (da quest’ultimo carattere degli scritti di quel grande autore era stato, al suo tempo, creato l’aggettivo «segreginoso») – Mutuo e stipulazione cit., il quale giungeva però alla soluzione assurda, che il creditore non avesse rimedio, la quale già fu criticata dallo stesso LONGO, Mutuo, 8, che sosteneva invece che il creditore disponesse della condictio, ma basata sull’arricchimento ingiustificato della controparte. Vedi la letteratura in KASER, RPR I, 532 n. 22. 265 Cfr. Ulp. D.12,1,9,4-5-6. Caso e soluzione del § 4 sono le stesse che vedremo in Paul. D.45,1,126,2. La motivazione ‘quasi-non potui’ in D.12,1,9,4 può essere insiticia (vedi PERNICE, Parerga IV, in ZSS 13[1892], 255 nonché Ind. itp., col. 159 e suppl. col. 178 ad h. l.). 266 L’aggiunta di mense è del MOMMSEN, che richiama in proposito Pomp. D.45,1,90.
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meus’. subscripsit dominus. respondi: per liberam personam, quae neque iuri nostro subiecta est neque bona fide nobis servit, obligationem nullam adquirere possumus. plane si liber homo nostro nomine pecuniam daret vel suam vel nostram, ut nobis solveretur, obligatio nobis pecuniae creditae adquireretur: sed quod libertus patrono dari stipulatus est, inutile est, ut nec ad solutionem proficiat adiectio absentis, cui principaliter obligatio quaerebatur. superest quaeramus, an ex numeratione ipse qui contraxit pecuniam creditam petere possit: nam quotiens pecuniam mutuam dantes eandem stipulamur, non duae obligationes nascuntur, sed una verborum. plane si praecedat numeratio, sequatur stipulatio, non est dicendum recessum a naturali obligatione. sequens stipulatio, in qua sine adiectione nominis usuras stipulatus est, non eodem vitio laborat (neque enim maligne accipiendum est eidem stipulatus usuras, cui et sortem, videri), ideoque in liberti persona valet stipulatio usurarum et cogitur eam patrono cedere. plerumque enim in stipulationibus verba, ex quibus obligatio oritur, inspicienda sunt: raro inesse tempus vel condicionem ex eo, quod agi apparebit, intellegendum est: numquam personam [nisi expressa sit]. “«Io Crisogono, schiavo agente di Flavio Candido, ho scritto, in presenza del mio dominus che pure sottoscrive e pone il suo sigillo 267, che egli ha ricevuto da Giulio Zosa, che trattava l’affare per Giulio Quintilliano assente, mille denari a mutuo. La quale somma Zosa, liberto di Quintilliano e gestore per lui dell’affare, ha stipulato che sia data a Quintilliano o al suo erede, al quale la cosa spetterà, alle prossime future calende di novembre, e Candido mio dominus ha promesso. A far tempo dalla data suddetta, se non sarà stata data soddisfazione, per ogni mese di ritardo nel pagamento, Giulio Zona ha stipulato che vengano pagati a titolo d’interessi otto denari 268, e Flavio Candido mio dominus ha promesso». Il dominus ha sottoscritto. Ho dato il seguente responso: Per il tramite di una persona libera, che non sia soggetta alla nostra potestà né sia di fatto in buona fede in situazione di nostro schiavo, non possiamo acquistare alcun credito 269. (D’altra parte) è chiaro che se una persona libera dia in nostro nome del denaro suo o nostro, perché poi sia restituito a noi 270, si acquisterebbe a noi il credito da mutuo; ma quel che il liberto ha stipulato che si dia al suo patrono, è invalido, al punto che la menzione dell’assente aggiunta nella stipulato non ne fa neppure una persona semplicemente legittimata a ricevere il pagamento, perché essa vi era prevista come creditore principale 271. Ci resta da vedere se quello stesso soggetto che ha concluso il contratto possa agire con l’actio certae creditae pecuniae sulla base del versamento fatto 272: (il problema può
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Cfr. il ‘praesente et adsignante eo’ di Iul. D.30,92. Una somma mensile di 8 denari per un capitale di 1.000 denari corrisponde – se non calcolo male – ad un tasso annuo del 9,6%. 269 Il testo dice obligatio, ma è chiaro che si riferisce alla situazione del soggetto attivo del rapporto obbligatorio, come è per l’obligatio pecuniae creditae della frase immediatamente successiva. 270 Il testo ha “perché sia pagato a noi”; ho tradotto come sopra solo per chiarezza. Questo punto del testo riprende la soluzione che abbiamo visto in Ulp. Arist. Iul. D.12,1,9,8. 271 La frase ut-quaerebatur è scritta in modo assai sintetico e un po’ oscuro, e l’ho tradotta con una certa libertà nella speranza di chiarirla. Paolo vuol dire che dalla stipulatio in questione, del liberto a favore del patrono, non può risultare per questi neppure la qualità di adiectus solutionis causa (che è il caso IV dell’esposizione che si trova nel vol. II,1, p. 124 ss.). 272 A questo punto, come inizio della frase successiva, il MOMMSEN proponeva di inserire qualcosa come sed magis est ne possit, cioè: “ma si deve piuttosto pensare che non possa”; ma io credo che da quest’idea sia scaturito il fraintendimento della soluzione di Paolo. La traduzione 268
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porsi perché,) in effetti quando, dando del denaro a mutuo, ce lo facciamo anche promettere, non nascono due obbligazioni, ma una sola verbis. Ma è chiaro che, se il versamento viene fatto prima e la stipulatito dopo, non si deve dire che (stipulando) le parti abbiano inteso abbandonare l’obbligazione (da mutuo) sorta naturalmente dai fatti 273. La seconda stipulatio, con la quale (Giulio Zosa) si è fatto promettere gli interessi senza più menzionare il capitale, non è toccata da queste difficoltà [-] 274, e dunque la stipulazione degli interessi è valida con riguardo alla persona del liberto (Zosa), ed egli sarà costretto a cederla al patrono (Quintilliano). Nella maggioranza dei casi, infatti, nelle stipulazioni si deve aver riguardo alle parole dalle quali nasce l’obbligazione; raramente deve dedursi dall’affare che si è voluto concludere che vi è implicito un termine o una condizione: non mai, però, una persona [se non se ne fa parola] 275. La comprensione del testo esige una piccola premessa: la negazione della possibilità di rappresentanza diretta nell’acquisto del credito, che apre il responso di Paolo, riguarda unicamente la stipulatio (stipulazione a favore di terzo): infatti subito dopo la rappresentanza diretta è ammessa par l’acquisto del credito da mutuo in caso di versamento (con accordo causale) effettuato da un terzo, secondo il meccanismo che abbiamo già visto 276. Lo schema del discorso di Paolo è dunque il seguente: a) la stipulatio effettuata tra Zosa (stipulator) e Candido (promissor) a favore di Quintilliano è nulla e priva di qualunque effetto; b) il mutuo effettuato da Zosa in nome di Quintilliano a Candido è valido; c) la validità del mutuo di cui sub b non è compromessa dalla stipulazione nulla di cui sub a, perché, quando le parti che hanno compiuto validamente un mutuo lo riprendono poi con una stipulatio, esse vogliono continuare lo stesso negozio completandolo in un altro modo e non abbandonare quello che già hanno fatto, per cui, se quello che poi fanno è nullo, resta quello che avevano fatto prima se era già valido ed efficace; d) la stipulatio relativa ai soli interessi moratori è stata fatta da Zosa (stipulator) e Candido (promissor) senza menzione di terzo, ed è quindi valida; essendo stata fatta da Zosa per conto di Quintilliano, questi potrà pretendere da Zosa la cessione; la frase finale vuol solo sottolineare che non può sorgere dubbio che la stipulazione degli interessi non sia a favore di terzo, perché Quintilliano in essa non è stato menzionato 277. Resta da considerare il caso nel quale, senza che i due atti abbiano avuto luogo ex continenti, la stipulatio abbia preceduto il versamento del denaro. In quest’ipotesi un che propongo è di segno opposto e le parole che aggiungo tra parentesi non rappresentano una proposta d’integrazione del testo, che d’integrazione a questo punto non ha bisogno: le ho scritte solo per evidenziarne meglio il senso. 273 Come si vede, la mia traduzione, più che non libera, tenta di chiarire la densissima espressione ‘non est dicendum recessum a naturali obligatione’. 274 La frase, scritta a questo punto nel testo e che gli editori mettono fra parentesi, è di solito considerata un glossema. Io propendo per la stessa soluzione, ma solo per ragioni di forma, in particolare perché stipulatus è scorretto, in quanto il verbo da impiegare sarebbe stato promittere: come in D.12,1,9,3, che certo non è stato scritto da Ulpiano. La traduzione sarebbe: “(e non si venga a cavillare tirando in ballo che risulta che gli interessi sono stati promessi allo stesso al quale è stato anche promesso il capitale)”. 275 Si considera un glossema, perché inelegantemente superfluo, ‘nisi expressa sit’. 276 Sopra, in questo stesso paragrafo, leggendo Ulp. D.12,1,9,8. 277 Questa considerazione di Paolo lascia il dubbio che la frase parentetica che abbiamo cancellato come glossema sia in effetti di Paolo, e dunque non sia affatto parentetica: essa parrebbe infatti porre, sebbene in modo un po’ maldestro, il problema che Paolo elimina con la sua considerazione finale.
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problema rilevante sorge solo se il mutuante S, dopo avere ricevuto da P la promessa di pagargli la somma del mutuo, non desse al promissor-mutuatario P il denaro che era previsto gli prestasse, perché evidentemente P risultava comunque obbligato in forza della stipulatio a pagare a S la somma in questione e S aveva contro di lui, a questo titolo, la condictio. La soluzione di questo problema fu trovata dalla giurisprudenza classica nell’exceptio doli che P, se convenuto in giudizio da S, avrebbe potuto opporgli; ma un secondo rimedio venne introdotto, riconoscendo a P la possibilità di condicere a S la propria liberazione, cioè pretendere la remissione del debito da stipulatio. Di questi due rimedi parleremo fra non molto. Un terzo rimedio si affermò verso la fine dell’epoca classica, forse nella prassi del processo extra ordinem, con l’introduzione dell’exceptio non numeratae pecuniae 278, la quale, rispetto all’exceptio doli, presentava il vantaggio di invertire l’onere della prova, gravando lo stipulator-mutuante attore S dell’onere di provare il versamento del denaro. Ma sembra potersi stabilire che, ad un certo punto, l’opposizione, nella situazione che ci interessa, di una qualunque delle due eccezioni, desse luogo in pratica sempre al regime dell’exceptio non numeratae pecuniae, finché l’impiego dell’exceptio doli non vi cessò del tutto 279. Un’ultima informazione relativa più che altro alla dottrina romanistica. Si trova talora asserito, e non solo nella letteratura dell’epoca dell’Interpolationenjagd 280, che, sulla base delle soluzioni classiche che andiamo esaminando, i compilatori avrebbero costruito la figura dommatica, giudicata mostruosa, del contratto re et verbis. In realtà, i testi che si adducono in proposito non sono che due. Nel primo – D.12,1,9,3, che corrisponde all’inizio della trattazione de condictione nel libro 26 ad edictum di Ulpiano – la mano dei compilatori è certo ampiamente intervenuta ed è certo da condividere il giudizio già del NABER (vedi, Mnem. 20(1892), 182 ss.; cfr. Ind. itp. ad l.), che condannava il pr. e i § 1-3: in tutto il frammento, i compilatori devono aver preso la casistica presentata da Ulpiano e malamente condensato il suo inquadramento dommatico della materia. Però, se è vero che nel § 3 è scritto qualcosa che potrebbe far pensare ad un contratto re et verbis (sive re fuerit contractus factus, sive verbis, sive coniunctim), si tratta di troppo poco per pensare ad una costruzione dommatica, tanto più che subito dopo, nel § 4, spiegandovisi un caso (che è quello stesso che conosciamo per averlo letto in Paul. D.45,1,126,2), l’idea del contratto re et verbis è dissolta (quasi duobus contractibus intervenientibus, uno qui re factus est, id est numeratione, alio qui verbis …), e ciò proprio nella parte che più decisamente si suppone interpolata. Il secondo testo appartiene alla divisio obligationum di Modestino, e non c’è proprio ragione di considerare il passo interpolato, ma quel che vi è scritto non può essere riferito all’idea di un contratto re et verbis, perché Modestino non vi usa affatto la nozione di contratto come categoria classificatoria 281.
278 Il tema è alquanto complicato, ma è trattato in modo compiuto ed assai intelligente nel libro di Maria Rosa CIMMA, De non numerata pecunia, Milano 1984. Data la complessità del lavoro – per altro assai chiaro – mi permetto di suggerire anche l’esposizione riassuntiva contenuta nella mia recensione in Iura 35(1984), 102 ss. 279 C.4,30,3 a. 215: CIMMA, De non numerata cit., 54 ss.; 91; 98. 280 La tesi fa comunque capo a PERNICE, Parerga IV. Das sogenannte Realverbalcontract (già cit. più sinteticamente), in ZSS 13(1892), 246 ss. 281 D.44,7,52 pr. (Mod. 2 reg.): Obligamur aut re aut verbis aut simul utroque aut consensu aut lege aut iure honorario aut necessitate aut ex peccato. 1: Re obligamur, cum res ipsa intercedit. 2:
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4.1. L’arricchimento ingiustificato. – Una volta definito il meccanismo della produzione re dell’obbligazione del mutuatario, i giuristi avevano aperto la via all’impiego della condictio per l’insieme delle fattispecie che vennero poi individuate come casi di arricchimento ingiustificato 282: e tutto lascia pensare che la prima delle ipotesi elaborate in questo settore sia stata quella del pagamento d’indebito. Non abbiamo una prova del fatto che questa elaborazione innovativa si sia iniziata proprio col caso dell’indebito, ma solo l’argomento che può desumersi dalla simiglianza strutturale fra la situazione di chi riceve un pagamento indebito e quella del mutuatario, la quale è affermata espressamente in Gai.3,91 283, dove si legge che chi abbia ricevuto un pagamento indebito è “anch’egli” (‘is quoque’: e il riferimento espresso con il quoque è al mutuatario, del quale Gaio aveva parlato appena prima) obbligato re e contro di lui è esperibile la condictio “come se avesse ricevuto un mutuo” (‘proinde ei condici potest … ac si mutuum accepisset’) 284 ed è facile pensare che Gaio riprendesse così un atteggiamento tradizionale nell’insegnamento istituzionale 285 dei giuristi. Ma abbiamo indizi più forti da considerazioni storico-dommatiche che le fonti, nel loro complesso, permettono. Come vedremo, le ipotesi di arricchimento ingiustificato possono verificarsi in seguito ad attribuzioni patrimoniali fornite di causa ovvero ad attribuzioni patrimoniali sfornite di causa (sine causa), ed è evidente che l’idea dell’arricchimento sine causa non è quella originaria; per l’antichità dell’ipotesi d’arricchimento in seguito a datio ob turpem causam abbiamo una prova sufficiente in Ulp. Sab. vet. Cels. D.12,5,6 e per quella della datio ob rem re non secuta in Pomp. (Q. Muc.) D.12,6,52: e non parrebbe verosimile che tali ipotesi siano state individuate prima di quella dell’indebito.
Verbis, cum praecedit interrogatio et sequirur congruens responsio. 3: Re et verbis pariter obligamur cum et res interrogationi intervedit, consentientes in aliquam rem. 4: … Sulla divisio obligationum di Modestino vedi CANNATA, Materiali per un corso di fondamenti del diritto europeo II, Torino 2008, 92 ss. 282 La storia e la dommatica dell’arricchimento ingiustificato sono state sintetizzate, con ampia bibliografia, da Berthold KUPISCH nella voce Arricchimento nel diritto romano, medioevale e moderno, pubblicata in Digesto delle discipline privatistiche I, Torino 1987, 423 ss., un densissimo riepilogo che citerò riferendomi alla versione originale in tedesco, pure pubblicata col titolo: Ungerechtfertigte Bereicherung. Geschichtliche Entwicklungen, Heidelberg 1987. La parte romanistica di questo contributo del Kupisch rappresenta, a mio parere, un deciso superamento dell’insieme della dottrina precedente, sicché quanto esposto qui di seguito ha sostanzialmente adottato i suoi risultati come punto di partenza, anche dove mi sono sentito di discostarmene. Come altre trattazioni generali dell’argomento mi limito a citare, anche per la sapiente puntualità delle fonti citate e la bibliografia, quelle del KASER, RPR I, 592 ss. e di KUNKEL/HONSELL, Römisches Recht, Berlin-Heidelberg-New York-London-Paris-Tokyo 1987, 350 ss. 283 Vedi il testo sopra, nel cap. I § 2. 284 Cfr. aur. (res cott.) D.44,7,5,3 (obligatur quidem quasi ex mutui datione et eadem actione tenetur, qua debitores creditoribus: “… è tenuto dalla stessa azione dalla quale sono tenuti i mutuatari rispetto ai mutuanti”); I.3,27,6 (… is qui accepit obligatur, ac si mutuum illi daretur, et ideo condictione tenetur). 285 Sull’insegnamento del diritto a Roma devo rinviare a CANNATA, Qualche considerazione etc., in Cunabula iuris (Studi Broggini), Milano 2002, 73 ss.
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La fattispecie del pagamento indebito viene descritta, come già abbiamo visto, in Gai.3,91 osservando il fenomeno dal punto di vista del soggetto che riceve il pagamento: is quoque, qui non debitum accepit ab eo qui per errorem solvit, re obligatur: “risulta obbligato re anche il soggetto che ha ricevuto qualcosa che non gli è dovuto da un altro soggetto che ha pagato per errore”. Come si vede, la situazione fa perno su di un pagamento, e va subito detto che qui – voglio dire in materia di pagamento indebito – con il termine pagamento (solutio) 286 s’intende, in senso stretto 287, la prestazione eseguita per estinguere un’obbligazione di dare, cioè di trasferire la proprietà di una cosa 288. Anche il pagamento, come il mutuo, consiste in una datio, cioè in un atto negoziale traslativo della proprietà di una cosa, o di cose; ma, quanto ai possibili oggetti di tale datio, il campo è qui più vasto rispetto al mutuo, il quale può farsi solo di cose fungibili 289: possibili oggetti del pagamento sono gli oggetti possibili di un’obbligazione di dare, quindi qualunque cosa: il che comporta che si possa anche pagare trasferendo la proprietà di una res mancipi, e quindi la datio debba avvenire con mancipatio e non con la semplice traditio. Resta però il fatto statisticamente rilevante che i casi più frequenti di pagamento sono quelli di res nec mancipi; la casistica che incontriamo nelle fonti si riferisce poi in gran parte al pagamento di debiti di denaro, e questo si concreta nel trasferimento di specie monetarie (nummi): per cui l’atto col quale la datio viene effettuata a titolo di pagamento è, nella normalità dei casi, una traditio, come per il mutuo. Ora, il pagamento deve trasferire la proprietà dei mezzi di pagamento impiegati, perché esso ha luogo in funzione della liberazione del debitore da un’obbligazione di dare, dove la liberazione del debitore ha luogo con l’acquisto, da parte del creditore o della persona comunque legittimata a riceverlo, della proprietà dei mezzi di pagamento impiegati 290. Ora, se la traditio solutoria deve trasferire la proprietà, essa deve avvenire sulla base di una iusta causa 291: e 286 Naturalmente, per la renitenza della lingua latina ad impiegare sostantivi astratti, nelle fonti ricorrono più spesso espressioni costruite con il verbo solvere (pagare). Due esempi che si collocano all’inizio della rispettiva trattazione della materia in Gaio e Ulpiano: Gai.3,91 (non debitum … solvit); Ulp. D.12,6,1 (Nunc videndum de indebito soluto. et quidem si quis indebitum ignorans solvit …). 287 Si può rivedere il discorso generale sull’adempimento nel vol. II,1 p. 273 ss. 288 Vedi vol. I p. 310 s.; vol. II,1 p. 193 ss. 289 Vedi sopra, presso la n. 224. 290 Il principio – pacifico –, che il soggetto obbligato a dare si libera quando il destinatario del pagamento acquista la proprietà del mezzo di pagamento impiegato, discende direttamente dalla nozione di adempimento: sulla quale vedi vol. II,1 p. 273 ss. ed anche p. 193 ss. (sull’obbligazione di dare come obbligazione di risultato). Sulle persone, diverse dal creditore, legittimate a ricevere il pagamento vedi vol. II,1 p. 128: inoltre: Ulp. D.46,3,12 (anche l’interessante Pomp. D.46,3,11). 291 Le informazioni necessarie per comprendere quanto segue nel testo, sono già state fornite:
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la causa, in questo caso, è la causa solutionis, che si concreta pertanto in un accordo delle parti sulla destinazione della prestazione, che si esegue, “a pagamento”. Un punto si deve avere ben chiaro: l’accordo solutorio viene in considerazione unicamente come il fatto che le parti destinano quella traditio di cose ad un pagamento: l’obbligazione da estinguersi non viene per nulla in considerazione. Naturalmente, perché si verifichi l’effetto liberatorio, il pagamento andrà imputato ad un certo debito, e le parti possono aver previsto una certa sua imputazione o non averla prevista, nel qual caso, se vi siano diversi debiti ai quali il pagamento può essere imputato, esistono delle regole che permettono di destinarlo con precisione 292; ma per la validità del pagamento come tale è unicamente necessario e sufficiente che l’accordo delle parti fosse nel senso d’intendere la rimessa come pagamento. In altre parole, decisiva ai fini della formazione di una causa solutionis che permetta alla traditio di operare il trasferimento di proprietà è unicamente la volontà delle parti di dare e ricevere a titolo di pagamento; l’obbligazione da estinguere non fa parte degli elementi della fattispecie della solutio. Ciò ha come conseguenza che un pagamento d’indebito – solutio indebiti o, come noi diciamo anche, pagamento indebito – è un pagamento valido, nel senso, in particolare, che esso trasferisce all’accipiens la proprietà delle cosa, di cui si è fatta la traditio come mezzo di pagamento 293. Ma, come si desume pure da quanto abbiamo letto in Gai.3,91, perché il pagamento d’indebito funzioni come fonte dell’obbligazione di restituire, è necessario che esso abbia avuto luogo per errore del solvens. Tale errore deve consistere nella sua convinzione di essere obbligato ad eseguire il pagamento di cui si tratta 294. La distinzione, usuale nella dottrina moderna, fra indebito oggettivo e indebito soggettivo ha le sue radici in un testo di Paolo: D.12,6,65,9 (Paul. 17 ad Plautium): Indebitum est non tantum, quod omnino non debetur, sed et quod alii debetur, si alii solvatur, aut si quod alius debebat alius quasi ipse debeat solvat. Come si vede, Paolo non classifica, ma indica tre fattispecie: “È indebito non solo quel che non è dovuto del tutto, ma anche quel che è dovuto ad uno, se venga pagato ad un altro, o se uno paghi come debito proprio quel che doveva un altro”. La prima situazione corrisponde a quella dell’indebito oggettivo: l’obbligazione di eseguire la prestasui problemi generali della traditio e in particolare sulla iusta causa traditionis vedi vol. I cap. IVb § 6 (p. 304 ss.), § 6.1 (p. 308 ss.); sull’accordo solutorio vol. II,1 p. 285 ss. (p. 290 ss. in particolare sull’imputazione del pagamento). 292 Testi nel vol. II,1 p. 291 ss. 293 Vedi ancora vol. I p. 310 ss. 294 I giuristi avevano cura di precisare che indebita era pure una prestazione dovuta iure civili, se il debitore disponesse di un’eccezione perentoria opponibile nella relativa azione, qualora il creditore gliel’intentasse: Ulp. Vat.266 = D.12,6,26,3. Per converso, l’esistenza di una semplice obbligazione naturale ne rendeva irripetibile il pagamento: Tryph. D.12,6,64.
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zione eseguita non esisteva affatto. La seconda corrisponde all’indebito soggettivo: il solvens era bensì obbligato ad eseguire la prestazione eseguita, ma non nei confronti dell’accipiens, bensì di un terzo. La terza situazione 295 è diversa da entrambe le precedenti: il solvens paga un debito altrui considerandolo un debito proprio 296.
Possiamo leggere anche: D.12,6,1,1 (Ulp. 26 ad ed.): Et quidem si quis indebitum ignorans solvit, [per hanc actionem] 297 condicere potest: sed si sciens se non debere solvit, cessat repetitio. “E dunque se uno ha pagato l’indebito ignorando (cioè: ignorando di non dovere), può esercitare la condictio: ma se ha pagato sapendo di non dovere, la possibilità di ripetere non sussiste.” 298. Una volta che si sia definito che il pagamento indebito ripetibile è solo quello che il solvens ha eseguito per errore, ne consegue necessariamente che l’indebito pagato consapevolmente non è ripetibile. La ragione di ciò è puramente tecnica: la traditio solutionis causa ha attribuito all’accipiens la proprietà delle cose e quindi l’accipiens ne è proprietario, e la titolarità della proprietà è di per se stessa definitiva. Per fondare l’obbligazione di restituire bisogna che, sul piano delle obbligazioni, si verifichi la situazione che costituisce la fonte di tale specifica obbligazione. Di conseguenza, non c’è alcun bisogno di individuare una ragione speciale, per la quale il solvens consapevole di pagare un indebito non ha la condictio: in tale caso l’obbligazione di restituire non si è formata perché la fattispecie della sua fonte, in quanto comprendeva l’error solventis, non si è verificata. Va dunque considerata scorretta l’idea, abbastanza diffusa presso i romanisti, secondo la quale la ragione dell’irripetibilità del pagamento indebito consapevole starebbe in un’interpretazione tipica della situazione, nel senso che il solvens avrebbe in tal caso effettuato una traditio donationis causa 299. Invano, del resto, si potrebbe basare sulle fonti una simile conclusione: i testi principali, entrambi di Paolo, che di solito si adducono possono semmai essere considerati come diretti a definire come effettuati donationis causa dei pagamenti consapevolmente indebiti, partendo dalla premessa che sono irripetibi-
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Ce ne siamo già occupati nel vol. II,1 alla p. 280 s. Da come quest’ultimo caso è enunciato in Ulp. D.5,3,31 pr. parrebbe potersi desumere che il pagamento di un debito altrui possa considerarsi pagamento d’indebito non solo quando il solvens lo ritenesse un debito proprio, ma comunque se egli abbia effettuato il pagamento facendolo a suo nome e non espressamente a nome del vero debitore. Vedi nel vol. II,1 la n. 682 di p. 280. 297 Dobbiamo considerare interpolato per hanc actionem: esso richiama la rubrica del tit. 12,6 del Digesto, che indica come argomento de condictione indebiti. Come vedremo meglio più avanti, gli impieghi speciali della condictio risultano trasformati in specifiche condictiones dalla dottrina bizantina. Qui Ulpiano si riferiva certamente alla condictio in generale, cioè considerata come un’unica azione. 298 Vedi anche Pomp. D.12,6,50. Non ha rapporto con questo tema Pomp. D.12,6,24, che si riferisce alla condictio liberationis, di cui si dirà poi (la n. 20 che nell’editio minor è richiamata all’inizio di questo testo, va riferita invece al fr. 25). 299 Vedi la lett. in KASER, RPR I, 596 n. 36. 296
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li, e non per giustificarne l’irripetibilità. Si tratta di Paul. D.50,17,53, frasetta estrapolata ed isolata da non sappiamo quale contesto, nel quale poteva assumere diversi significati 300, e di Paul. D.46,2,12, dal quale si ricava solo che un debitore protetto da un’eccezione, se accetti dal suo creditore A di essere delegato a pagare o a promettere ad un terzo B creditore di A, deve essere considerato aver rinunziato donationis causa all’eccezione di cui disponeva.
La consapevolezza dell’accipiens ha pure la sua rilevanza, ma su di un piano diverso: se egli sapesse dell’inesistenza del debito che gli viene pagato e avesse profittato dell’errore del solvens, commetterebbe furto, il che gli impedirebbe di diventare proprietario dei nummi che riceve 301 e lo renderebbe soggetto anche all’actio furti penale; per la restituzione di quanto pagato per errore il solvens disporrebbe sempre della condictio, ma la esperirebbe ex causa furtiva. Nel caso di dolo dell’accipiens, la situazione che ne risulta non può essere considerata come arricchimento ingiustificato in quanto, non potendo il ladro diventar proprietario della refurtiva, nulla è entrato nel suo patrimonio e quindi egli non si è arricchito. Pensiamo, ad esempio, al pagamento indebito di una somma di denaro ricevuto da un accipiens cosciente dell’inesistenza del proprio credito. I suoi nummi, il dans potrebbe anche rivendicarli: ma in pratica la rei vindicatio risulterebbe normalmente impossibile perché la rivendica può farsi solo di cose individuabili nella specie, e il denaro è presto confuso con altre specie analoghe. Siccome, per effetto di questa confusione, il dominus derubato viene a perdere la rei vindicatio delle sue cose, perdendo l’azione ne perde anche la proprietà. A questa perdita non corrisponde l’acquisto della proprietà da parte del ladro, ma resta il fatto che la perdita è avvenuta a suo profitto, e ciò per i giuristi romani giustificava la sua soggezione alla condictio del precedente proprietario, se esperita ex causa furtiva: il che – beninteso – significava non l’esperimento di un tipo di condictio particolare, ma della comune condictio 302, purché l’attore invocasse il furto di cose sue come fondamento dell’obbligazione di restituirgliele. La condictio ex causa furtiva non è dunque azione d’arricchimento, anche se fa pur sempre parte del law of restitution romano.
Se, fino a questo punto, quanto abbiamo visto del regime del pagamento d’indebito può giustificare l’analogia strutturale che i giuristi vi scorsero con quella del mutuo (si tratta sempre di una datio rei munita di una causa che giustifica il trasferimento della proprietà, ma proprio in forza di questa proprietà che ha acquistato l’accipiens si trova gravato da un’obbligazione di restituire), la 300
Cuius per errorem dati repetitio est, eius consulto dati donatio est. In ogni caso la frase non vuol giustificare l’assenza della condictio per il consulto datum, ma solo definirne la causa. Se, come pensava il LENEL, Pal. I, 1052 (Paul. fr. 597) il testo va riferito alla trattazione dell’actio Fabiana o Calvisiana, quanto ho detto viene confermato. 301 Scaev. Pomp. D.13,1,18 ; Ulp. D.47,2,43 pr. (… nec nummi eius fient). 302 Ciò risulta estremamente chiaro da Gai.4,4. Nel caso di furto di denaro non viene dunque in diretta considerazione il fatto che la condictio ex causa furtiva è eccezionalmente esperibile anche per la restituzione di cose proprie: Gai.4,4; Ulp. D.13,3,1,1; Ulp. D.7,9,12 in fine; anche Ulp. D.13,1,1.
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divergenza si appalesa quando si voglia individuare la ragione per la quale, nell’uno e nell’altro caso – cioè quello del mutuo e quello del pagamento d’indebito – le cose trasferite vadano restituite: in altre parole, per restare aderenti al fatto che tale obbligazione si forma re, quando si voglia stabilire quale sia il criterio che permette di considerare che le cose trasferite e così giunte nel patrimonio dell’accipiens vadano considerate spettare tuttavia al solvens, con la conseguenza di concedergli la condictio per la loro restituzione. Pensando, come all’esempio più semplice e caratteristico, ad un versamento di denaro, nel caso del mutuo il denaro versato veniva qualificato aes alienum per volontà delle stesse parti, in quanto nel loro accordo di mutuo era prevista la restituzione; ma è chiaro invece che un simile fondamento dell’obbligo di restituzione non esiste nel caso di pagamento indebito. La traditio solvendi causa trasferisce all’accipiens la proprietà dei nummi e una ragione che permetta di considerarli aes alienum ai fini di un dovere dell’accipiens, sul piano delle obbligazioni, alla loro restituzione non è desumibile dalla volontà delle parti. Come ebbe a precisare Celso 303, ‘accidit, ut extra id quod ageretur tacita obligatio nascatur, veluti cum per errorem indebitum solvendi causa datur’: l’obbligazione di restituire quel che è stato dato per errore come pagamento si forma ‘tacita’ ed ‘extra id quod ageretur’, e cioè “al di fuori di qualunque dichiarazione delle parti”, anzi, del tutto “al di fuori dell’affare che è stato tra di esse gestito”. Del resto, anche Gaio 304, sebbene in modo assai meno penetrante, dirà che ‘qui solvendi animo dat, magis distrahere vult negotium quam contrahere’: col pagamento, le parti non intendevano concludere un affare, cioè creare nuove obbligazioni fra loro, ma por fine ad un altro affare che già avevano concluso in precedenza, cioè eliminare obbligazioni già esistenti fra loro. Ora, è evidente che la ragione che impone la restituzione di quanto, per errore, pagato indebitamente risiede nel semplice fatto che esso è stato pagato senza esser dovuto: ma il quesito al quale il giurista deve rispondere consiste appunto nel precisare il fondamento di un’obbligazione di restituire quanto indebitamente ricevuto: perché, come abbiamo visto, il carattere indebito della prestazione eseguita come pagamento non viene in considerazione nelle strutture del negozio solutorio. La risposta che i giuristi diedero è pure apparentemente assai semplice, ma essa consiste nella recezione come regola positiva di un principio di equità naturale, o – se si vuole – di giustizia distributiva. La deter303 Cels. in Pomp. D.13,6,13,2. Sul testo CANNATA, Das faktische Vertragsverhältnis oder die ewige Wiederkunft des Gleichen, in SDHI 53(1987), 303 s. La mia trattazione del testo nell’articolo citato ha uno scopo più ampio di quello per il quale lo menziono qui, ed è a tali aspetti più generali che si riferiscono le critiche che mi fece il compianto amico BURDESE, Su alcune testimonianze celsine, in Mél. Cannata, Bâle-Genève-Munich 1999, 5 ss. (con attenzione anche alla letteratura precedente). 304 Nel già più volte richiamato Gai.3,91.
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minazione che i giuristi ne fecero ebbe carattere assai fecondo, perché servì a fondare tutto il regime dell’obbligazione da arricchimento ingiustificato e non solo quello risultante da pagamento indebito: essa consistette nel definire una certa situazione, nell’acquisirne il carattere ingiusto, nel prendere atto che le regole sui diritti reali sono impotenti a porvi rimedio, e nel dedurre da ciò che, il rimedio dovendo sussistere, lo si doveva affidare al diritto delle obbligazioni, la sede naturale per la soluzione dei problemi di giustizia 305. La formulazione, che noi possediamo, di tutto ciò è relativamente tarda, ma certo Pomponio, che ne è l’autore, non l’aveva inventata: D.50,17,206 (Pomp. 9 ex variis lectionibus 306): Iure naturae aequum est neminem cum alterius detrimento et iniuria fieri locupletiorem. “Per diritto di natura è equo che nessuno si arricchisca con detrimento e iniuria di un altro.” Si vede subito che l’enunciato è quello di un principio d’equità naturale 307: e si tenga presente che per i Romani l’aequitas non è solo la giustizia del caso singolo, ma anche – come evidentemente qui – la giustizia distributiva 308, e il ius naturae, piuttosto che il senso innato del diritto, è la coscienza giuridica comune a tutte le genti. La situazione dell’arricchimento è precisata da Pomponio in modo analitico: essa concerne due personaggi; un arricchito, quello di cui si dice ‘fieri locupletiorem’, che significa “farsi più ricco”, cioè aumentare il proprio patrimonio, ed un depauperato, cioè il soggetto cum detrimento del quale, cioè alle cui spese l’arricchimento del primo ha avuto luogo; ed in questa situazione arricchimento e depauperamento, così come arric-
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Vol. II,1 p. 16 ss. Le Variae lectiones erano certo un’opera originale di Pomponio e comprendevano almeno 41 libri (vedi Ulp. D.8,5,8,6): LENEL, Pal. II, 151 n. 2; KRÜGER, Geschichte der Quellen und Literatur des röm. Rechts2 , Leipzig 1912, 193 con la n. 17. Del passo citato esiste un’altra versione (Pomp. D.12,6,14), precedente in quanto tratta dal libro 21 ad Sabinum, che recita: Nam hoc natura aequum est neminem cum alterius detrimento fieri locupletiorem. Sull’enunciato generale di Pomponio è costruita la motivazione della soluzione casistica di Ulp. D.2,15,8,22 … in id quod factus sit locupletior aequissimum erit in eum dari repetitionem: nec enim debet ex alieno damno esse locuples. L’inizio del tratto riportato presenta problemi di lettura (vedi l’apparato nell’editio minor) ma a me sembra che nella Florentina – esaminata l’edizione di Corbino e Santalucia – si possa leggere in id quod, che comunque dovrebbe essere la sola lezione esatta. 307 La stessa prospettiva, agganciata magari a valori leggermente diversi o solo diversamente enunciati (naturalis aequitas, bonum et aequum, ius gentium ed anche bona fides), è adottata in vari testi, di diversi autori: vedi KUPISCH, Ungerechtfertigte Bereicherung cit., 1 con la n. 1; 26. 308 Come in Ulp. Cels. D.1,1,1 pr. In questo senso l’aequitas coincide con un’accezione di iustitia (quella di Ulp. D.1,1,10 pr.). Per il significato che l’espressione bonum et aequum aveva per Celso si leggano Cels. D.12,1,32 (lo vedremo più avanti) e Paul. Cels. Iul. D.45,1,91,3. Non va dimenticato, in proposito, CERAMI, La concezione celsina del ius, Palermo 1985 (passim, e ad esempio 96 ss.). 306
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chito e depauperato, sono posti in rapporto diretto, sottolineandosi che l’arricchimento di cui si tratta viene in considerazione unicamente se gli corrisponda un detrimento altrui; ed ancora si chiarisce che questo spostamento patrimoniale, rispettivo incremento e decremento dei due patrimoni, viene in rilevanza se abbia avuto luogo iniuria. Questo ablativo iniuria va specialmente studiato, perché di tutta la situazione rappresenta il perno 309. Come ho cercato di chiarire nella traduzione, anche iniuria dipende da cum ed è specificato da alterius: l’arricchimento ottenuto da un soggetto a spese di un altro risulta ingiustificato se comporta iniuria per quest’altro; ciò significa precisamente che il carattere ingiusto dell’arricchimento di A dipende dal fatto che B ne sopporta ingiustamente le spese. La parola iniuria non significa “in modo contrario al diritto”, come invece l’intese un maldestro glossatore postclassico, quando intervenne per chiarire – in realtà contraddicendola – un’affermazione che Ulpiano fece riferendosi all’ablativo iniuria presente nella lex Aquilia, a proposito del primo capo della quale egli spiegava: Coll.7,3,4 (Ulp. 18 ad ed.) 310: Iniuriam autem accipere hic nos oportet non, quemadmodum et circa iniuriarum actionem, contumeliam quandam, sed quod non iure factum est, 311 … “Iniuria la dobbiamo qui intendere non nel senso di offesa, come a proposito dell’actio iniuriarum, ma come quel che è fatto senza diritto …”. Iniuria è certo termine polisemico 312, ma quando, accanto ad alcuni impieghi specifici e divenuti magari denominazioni tecniche, come per il delitto di iniuria, viene impiegato in modo che ne emerga il suo significato etimologico, esso viene ad alludere all’assenza, in una specifica situazione, dei valori di giustizia che l’ordinamento ha assunti come propri: come quando Ulpiano 313 osservava che, se qualcuno è stato giudicato ingiustamente, lo si dice aver subito iniuriam dal giudice, e che questo fatto è qualificato iniuriam ‘quod iure et iustitia caret, quasi non iuriam’.
La condictio, accordata al depauperato X contro l’arricchito Y, ha dunque come fondamento il carattere ingiusto della presenza, nel patrimonio di costui, 309 Se l’allusione all’iniuria non è espressa nel cit. Pomp. D.12,6,14 e Ulp. D.2,15,8,22, essa vi è evidentemente implicita, e la sua assenza dipendeva dal rispettivo contesto (che conosciamo solo per il passo di Ulpiano). 310 Il testo compare anche in D.9,2,5,1, sostanzialmente identico (solo hic vi è posto prima di accipere). Io mi sono qui permesso di riportare il dettato secondo la Collatio, ma indicando la sua provenienza secondo il Digesto. La Collatio lo dice tratto da Ulpianus libro VIII ad edictum sub titulo ‘si quadrupes pauperiem dederit’, evidentemente solo perché il suo compilatore postclassico escerpiva da un’edizione autonoma, corrente al suo tempo, di una parte dei libri ad edictum del giurista severiano. 311 A questo punto è il glossema di cui parlavo; il testo prosegue infatti: [hoc est contra ius], id est si culpa quis occiderit. È chiaro che non iure e contra ius esprimono due idee del tutto diverse: si legga, a conferma, l’inizio di Ulp. D.47,10,1, di un’altra parte del quale mi valgo qui immediatamente di seguito. 312 Si veda in proposito il cit. Ulp. D.47,10,1 pr. 313 Sempre Ulp. D.47,10,1 pr.
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dell’entità arricchente – che può essere una cosa materiale in proprietà di Y ovvero essere ridotta ad un valore, entità non meno materiale di quella di una cosa in proprietà –. L’obbligazione di restituire nasce re, cioè dalla presenza dell’entità arricchente 314 e da una sua qualificazione d’ingiusta, vale a dire ingiustificata alla stregua dei valori che l’ordinamento giuridico adotta come parametri della propria giustizia distributiva 315. Se ora torniamo ad osservare il pagamento indebito, possiamo vedere come le considerazioni generali ora fatte sulla base del testo di Pomponio possano trovarvi la loro specifica applicazione. Dal pagamento il solvens risulta depauperato nella misura della prestazione eseguita pagando; l’accipiens ne risulta corrispondentemente arricchito, e l’entità arricchente – come cosa o come valore (se ad esempio il pagamento fosse stato eseguito in denaro, e le specie monetarie siano state confuse con altre dell’accipiens o questi le abbia spese) – è presente nel patrimonio dell’accipiens. Constatato tutto ciò, resta solo, per accordare al solvens la condictio di quanto pagato, stabilire che l’arricchimento dell’accipiens, cioè la presenza nel suo patrimonio di quanto ricevuto, è ingiusta. Se, per far ciò, adottassimo la nozione di ingiustizia (iniuria) del glossatore di Ulp. Coll.7,3,4 (= D.9,2,5,1), che la identificava con la contrarietà rispetto alle strutture dell’ordinamento (contra ius), vedremmo subito che la presenza delle entità pagate presso colui che le ha ricevute è esente da qualunque obiezione: esse sono state ricevute in pagamento, e tutte le regole che il diritto detta in materia di pagamento sono state osservate, come prova inequivocabilmente il fatto che i mezzi di pagamento in questione sono passati in proprietà dell’accipiens. Ma se ci poniamo nella prospettiva della giustizia distributiva o dell’equità, il torto si evidenzia subito. Il pagamento è un istituto concepito in funzione di una “notwendige Entgeltlichkeit”, in quanto gli è connaturale lo scopo di trasformare una situazione economica equilibrata ma insoddisfacente in una situazione soddisfacente dotata dello stesso equilibrio economico: un soggetto X è debitore di 100 verso Y che dei 100 è creditore; X, pagando, si priva di 100 ma acquista la liberazione dal debito di 100; Y, ricevendo il pagamento, acquista 100 e perde il credito di 100. Se il rapporto obbligatorio (credito-debito) di 100 non esisteva, e X abbia ugualmente pagato a Y, risulta solo che X perde 100 e Y le acquista; con il che l’equilibrio dei due patrimoni è alterato senza giustificazione: la bilancia pende dalla parte di Y mentre dovrebbe essere in equilibrio, e quel che così la fa pendere è il peso di 100 nel patrimonio di Y. Con la condic-
314 È chiarissimo, in questo senso, il modo in cui si esprimono moltissimi testi in materia di arricchimento ingiustificato, come ad esempio: Afr. Iul. D.12,1,23; Ulp. Sab. vet. Cels. D.12,5,6; Pap. D.12,6,66; Ulp. Iul. D.19,1,11,6 in fine; Afr. D.23,3,50 pr. in fine; Gai. D.24,1,6; Iul. D.37,6,3,5. 315 Che è il suum cuique tribuere di Ulp. D.1,1,10 pr.-1 (cfr. I.1,1 pr.; I.1,1,3).
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tio, X riotterrà i 100 e l’equilibrio sarà così ristabilito 316. Se è vero che, come dicevo dianzi, l’ipotesi del pagamento indebito fu la prima delle ipotesi di arricchimento ingiustificato elaborate dai veteres, ad essa seguì senza dubbio l’insieme della casistica legata a quella che si denominò, in genere, datio ob rem ovvero datio ob causam. Si tratta sempre, come la denominazione stessa rivela, di attribuzioni patrimoniali munite di causa, che risultano talora, cioè in certe circostanze, ripetibili mediante condictio. In questo caso, la risalenza ai veteres è direttamente provata dai testi. Abbiamo anzitutto un passo del commento di Pomponio ad Quintum Mucium, e che Pomponio vi riferisse, testualmente o no, pensiero del pontifex è certo, in quanto vi si stabilisce una diairesi fra datio ob causam e datio ob rem, mentre per i giuristi classici le due espressioni – lo constateremo noi stessi leggendo via via qualche testo – erano sostanzialmente equivalenti 317: D.12,6,52 (Pomp. 27 ad Q. Muc.): Damus aut ob causam aut ob rem: ob causam praeteritam, veluti cum ideo do, quod aliquid a te consecutus sum vel quia aliquid a te factum est, ut, etiamsi falsa causa sit, repetitio eius pecuniae non sit; ob rem vero datur, ut aliquid sequatur, quo non sequente repetitio competit. “Diamo o ob causam (= per una causa) o ob rem (= per una cosa): ob causam (se questa) appartiene al passato, come quando io do perché ho avuto qualcosa da te o perché tu hai fatto qualcosa, di modo che, anche se la causa risulti falsa, non vi sia pretesa alla restituzione del denaro che ho dato; invece si dà ob rem in vista di qualcosa che segua, e se ciò poi non segua compete la ripetizione.” Come ho anticipato, per i giuristi classici le espressioni dare ob causam e dare ob rem sono fungibili, nel senso che possono riferirsi entrambe ad attribuzioni patrimoniali effettuate in vista di un evento futuro. Del resto, l’ipotesi muciana della datio ob causam (praeteritam) non presentava, in pratica, se non un interesse marginale: da come viene presentata nel testo, essa si riferiva alle erogazioni di modeste somme di denaro effettuate come mancia, cioè compenso non dovuto per modesti omaggi o servizi di impegno poco rilevante già eseguiti e, una volta stabilita le regola che di tali erogazioni non v’è comunque ripetizione, anche se poi risultasse che il dono o il servizio non erano stati re-
316 Benché non riguardi esattamente il punto che qui si sto trattando, possiamo aggiungere che, se il solvens fosse consapevole dell’inesistenza del suo debito, la presenza dell’entità pagata nel patrimonio dell’accipiens risulterebbe conforme alla volontà del solvens, e ciò toglierebbe a tale presenza il carattere ingiusto. Cfr. il secundum voluntatem dantis che, sebbene ad altro proposito, si legge in Ulp. Iul. D.12,1,18 pr. (il punto non deve considerarsi alterato: forse i compilatori lo hanno abbreviato sopprimendo qualcosa). 317 Per vero, esse risultano ancora distinte in una delle sintesi dommatiche (un poco schematiche, come ci è già avvenuto di notare) di Paolo, questa volta relativa a quel ch’egli presenta come il “law of restitution” romano (In summa, ut generaliter de repetitione tractemus …). Si tratta di Paul. D.12,6,65, dove la diairesi è (pr.) tra dari ob transactionem aut ob causam aut propter condicionem aut ob rem aut indebitum. Nello stesso testo ricorre un esempio della fungibilità fra causa e res nel senso che abbiamo individuato (vedi il quia causa, propter quam dedi, non est secuta e il nam hoc casu secuta res est ripetitivamente alla metà e alla fine del § 3), a meno che la prima delle locuzioni non sia interpolata, come pensava il PERNICE (vedi Ind. itp., col. 188, sub D.12,6,65,3). Si veda ancora Paul. D.12,5,1 pr.-1 rispetto al § 2.
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si, non potevano sorgere problemi degni di nota 318. La datio ob rem, come vedremo, rivestì ben altra importanza: e fu ad essa che i giuristi classici applicarono anche, indifferentemente, la denominazione di datio ob causam. Un secondo testo, di Ulpiano ma con una serie di citazioni che dimostrano la continuità dell’interesse alla cosa, riguarda un caso particolare di datio ob rem, che vedremo poi essere variamente indicato come datio ob turpem causam ovvero ob iniustam causam, o anche ob rem inhonestam, e che qui Ulpiano, riferendosi non alla datio ma alla presenza della cosa nel patrimonio dell’accipiens, individua come ex iniusta causa apud aliquem esse: D.12,5,6 (Ulp. 18 ad ed.): Perpetuo Sabinus probavit veterum opinionem existimantium id, quod ex iniusta causa apud aliquem sit, posse condici: in qua sententia etiam Celsus est. “Sabino approvò sempre l’opinione dei veteres, i quali ritenevano che possa esercitarsi la condictio di quanto si trovi presso (= sia in proprietà di) qualcuno in forza di una causa ingiusta: e tale è anche il parere di Celso.”
Dare ob rem significa attribuire la proprietà di qualcosa in vista di un fatto futuro. Si allude dunque ai casi nei quali un soggetto effettui a favore di un altro un atto di attribuzione patrimoniale sulla base di un accordo causale che prevede come ragione dell’attribuzione il verificarsi di un certo evento. Per presentare con chiarezza questa materia, è opportuno esporne in modo analitico la tipologia, che presenta tre ipotesi distinte (i; ii; iii) secondo il carattere dell’evento previsto. i) L’accordo causale può prevedere l’esecuzione, da parte dell’accipiens, di una prestazione a favore, o comunque nell’interesse del dans, questa prestazione essendo considerata dalle parti come una controprestazione rispetto alla datio. La regola, per questi casi, l’abbiamo già letta in Pomp. Q. Muc. D.12,6,52 (ob rem vero datur, ut aliquid sequatur, quo non sequente repetitio competit) 319: essa è nel senso che l’accipiens risulterà obbligato a restituire al dans quanto ricevuto nel caso la controprestazione non venga eseguita. Naturalmente, l’azione di cui il dans disporrebbe in tal caso sarebbe la condictio. Leggiamo però questo testo di Ulpiano: D.12,4,1 pr. (Ulp. 26 ad ed.): Si ob rem non inhonestam data sit pecunia, puta ut 320 filius emanciparetur vel servus manumitteretur vel a lite discedatur, causa secuta repetitio cessat.
318 Vedi però Paul. D.12,6,65,2, dove il compenso è dato da un soggetto che riteneva che un altro gli avesse facilitato certi affari (quod negotia mea adiuta ab eo putavi), e Paolo esclude la ripetizione anche nel caso in cui la convinzione del dans fosse erronea (quamvis falso mihi persuaserim) interpretando la causa della datio come una donazione (quia donare volui). 319 Cfr. Paul. D.12,5,1,1, che leggeremo sub ii. 320 La lezione – corretta – puta ut è dei manoscritti deteriores; la Fiorentina ha solo ut.
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“Se sia stata data una somma di denaro in vista di un fatto che non sia disonesto 321, per esempio perché (dall’accipiens) venga emancipato un proprio figlio o liberato un proprio schiavo, o perché (dall’accipiens stesso) venga abbandonata una lite 322, se il fatto poi viene realizzato vien meno la possibilità di ripetere (quanto dato).” Come si vede, Ulpiano enuncia la regola in un modo che potrebbe apparire strano, perché invece di dire che causa (o re) non secuta il dans avrà la condictio per la ripetizione di quanto dato – come nei testi di Pomponio e Paolo che abbiamo citati – afferma invece che la condictio vien meno causa secuta 323. Ora, l’enunciato di Ulpiano, così come è scritto, sembrerebbe da intendersi nel senso che l’effetto di una datio ob rem fosse nel senso che, una volta effettuata la datio, il dans potesse esperire la condictio per la restituzione subito a partire dal momento della datio stessa e fino a che il fatto previsto nell’accordo non avesse avuto luogo: il che implicherebbe dunque che il dans, re non secuta, potesse sempre ritornare sulla sua decisione (paenitere) chiedendo la restituzione del datum. Nella casistica della datio ob rem contenuta nel tit. D.12,4 questa ipotesi della paenitentia compare, se non ho visto male, solo in testi di Ulpiano e con riferimento a dationes nel cui accordo causale era prevista la manumissione di uno schiavo (Ulp. D.12,4,3,2-3; Ulp. D.12,4,5,1-2) con l’eccezione di Ulp. D.12,4,5 pr., dove il caso considerato è ‘si pecuniam ideo acceperis, ut Capuam eas’ (“se hai ricevuto del denaro con l’accordo che ti saresti recato a Capua”). La critica interpolazionistica ha considerato tutti questi passi come interpolati 324, sulla base soprattutto di una trattazione assai approfondita del problema dovuta al Pernice 325. Il problema che così si pone non è facilmente solubile. Si tratterebbe cioè di stabilire se, nel caso di datio ob rem, e precisamente quando il fatto, in vista del quale la datio è avvenuta, sia da considerare una controprestazione di quanto è stato dato, al dans spetti il potere di recedere dal negozio semplicemente pretendendo la restituzione del datum: in altre parole, se il dans possa subito, dal momento della datio, e poi sempre fino al momento in cui la controprestazione prevista sia stata eseguita, esercitare la condictio invocando il fatto che la controprestazione non è stata eseguita (re non secuta), senza attendere che l’accipiens debba in qualche modo considerarsi in ritardo nell’esecuzione di quanto, in base all’accordo che accompagnava la datio, si attendeva da lui. Va detto che questa soluzione, che possiamo denominare “del ius paenitendi” – diritto del dans di pentirsi del negozio concluso –, non sarebbe affatto stupefacente: la datio ob rem non è un contratto, né l’accordo sul quale si basa è un accordo contrattuale, ma solo l’accordo causale di una traditio o di un altro negozio traslativo di proprietà, così come l’attività 321
La precisazione che il fatto “non sia disonesto” serve a distinguere quest’ipotesi da quella della datio ob turpem (iniustam) causam, che tratteremo sub ii. 322 Ulpiano allude al caso nel quale tra l’accipiens (attore) e il dans (convenuto) sia già pendente un processo e già incominciato il giudizio (fase apud iudicem). Il caso nel quale si preveda la rinunzia al giudizio non ancora incominciato, anche se la lite sia già stata contestata, è diverso, e si presenta come una transazione: vedilo in Ulp. D.12,4,3 pr.: Dedi tibi pecuniam ne ad iudicem iretur. quasi decidi. … (“Ti ho dato del denaro perché non si andasse davanti al giudice: è come se avessi fatto una transazione”). 323 Su questa differenza, con altri testi citati, e sul problema che essa suscita vedi PERNICE, Labeo III,1, Halle 1892, 260 s. con le n. 1 e 2 di p. 261. 324 Vedi l’Ind. itp. ai singoli passi. 325 In PERNICE, Labeo III,1 cit., la trattazione dell’insieme della problematica del ius paenitendi (Reurecht) è posta all’inizio (p. 261-270, ma vedi ancora oltre passim) delle pagine dedicate alla cosiddetta condictio causa data causa non secuta (p. 259 ss.).
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che si attende dall’accipiens, anche se dal punto di vista economico considerata come controprestazione della datio, non solo giuridicamente non è una controprestazione contrattualmente dovuta, ma non è del tutto dovuta e il dans non ha azione per pretenderla. La datio ob rem consisteva nel fatto che A aveva dato a B 100 HS dicendogli: «Prendi questi 100 HS e va a Capua», e la paenitentia consiste nel fatto che poi A dica ancora a B «No, ridammi i miei 100 HS e non facciamone nulla». Applicare alla prestazione i criteri appropriati alla valutazione di una prestazione contrattuale, come quelli del ritardo nell’adempimento, non è affatto ovvio. Sembra dunque naturale pensare che al tempo nel quale la datio ob rem fu riconosciuta come tutelabile mediante condictio sotto il profilo dell’arricchimento ingiustificato re non secuta, il regime sia stato appunto quello che implicava un ius paenitendi assoluto per il dans. Ma ci sono anche forti ragioni per pensare che le cose siano cambiate in seguito. Le situazioni che corrispondono alla casistica della datio ob rem, quando la res a seguire è concepita come controprestazione, concretano, per la natura stessa del negozio, uno scambio: ed appare certo che la struttura della datio ob rem venne impiegata proprio per i casi nei quali un accordo di scambio non poteva trovare tutela con azioni contrattuali perché lo scambio concordato non corrispondeva ad alcuno dei contratti tipici per i quali l’editto del pretore prevedeva azioni. Quando poi – come vedremo a suo luogo – verso la fine del I secolo a. C. fu introdotta, per iniziativa di Labeone, l’azione contrattuale generale e quindi fu riconosciuta la protezione mediante azione civile agli accordi contrattuali atipici (i cosiddetti contratti innominati), la conclusione di una datio ob rem dava luogo a due possibilità di protezione, in concorso alternativo: per parlare ora della situazione del dans, che sola ci interessa, questi avrebbe avuto a propria disposizione contro l’accipiens che non avesse eseguito quanto si attendeva da lui, tanto la condictio per la restituzione del datum, quanto l’azione contrattuale generale (actio in factum civilis) per ottenere la controprestazione o il risarcimento del danno da inadempimento; nel contesto dell’azione contrattuale, la res non secuta veniva così in considerazione come prestazione contrattuale ineseguita. Se ciò non portò certo a confondere i due regimi – la tutela contrattuale e la tutela extracontrattuale come caso di arricchimento ingiustificato (ad esempio, di una datio ut Stichum manumittas: A dà 100 a B perché questi manometta lo schiavo Stico) restarono sempre ben distinte –, deve però aver condotto i giuristi a ritenere che il comportamento dell’accipiens (che dei due soggetti interessati era il solo dal quale si attendeva una prestazione, il dans avendo già eseguito la sua) non dovesse essere considerato come atteso in modo diverso nelle due azioni in cui il fatto che l’attesa si era rivelata vana poteva avere rilevanza. Di ciò abbiamo nelle fonti diversi indizi: presento alcuni esempi significativi. Nei testi che trattano della datio ut Stichum manumittas si parla talora di mora dell’accipiens nell’eseguire la manumissione dello schiavo (Ulp. D.12,4,5,4); in due casi questa nozione viene messa in relazione col fatto che nell’accordo che accompagnava la datio fosse previsto un termine entro il quale l’accipiens avrebbe dovuto manomettere; ora, i testi sono certo in genere alterati, ma lasciano trapelare una soggiacente idea originaria secondo la quale la paenitentia non sarebbe stata accettabile in pendenza del termine: meno chiaramente in Ulp. D.12,4,5,1, ma assai chiaramente in: D.12,4,3,3 (Ulp. 26 ad ed.): Quid si ita dedi, ut intra certum tempus manumittas? si nondum tempus praeteriit, inhibenda erit repetitio [nisi paeniteat]; quod si praeteriit, condici poterit. sed si Stichus decesserit, an repeti quod datum est possit? Proculus ait, si post id temp[ori]s 326 decesserit, quo manumitti potuit, repetitionem esse, si minus cessare 327.
326 327
Questa correzione è mia: temporis mi pare proprio l’errore di un copista. “Che dire, se ti ho dato (qualcosa) perché tu manometta (il tuo schiavo Stico) entro un cer-
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Dove il carattere insiticio, già da tempo riconosciuto, delle parole ‘nisi paeniteat’ balza agli occhi, ma dove è ancor più importante notare che con l’espressione ‘inhibenda erit repetitio’ non può che alludersi ad una denegatio actionis 328 alla quale il dans andrebbe incontro se intendesse esercitare la condictio del datum prima della scadenza del termine previsto per la manumissione. Per la natura della soluzione e la sua funzionalità agli interessi in gioco, si tenga conto che la denegatio actionis è un rimedio pretorio e che un’azione denegata non è con ciò consumata, e rimane dunque ancora esperibile se, scaduto il termine, alla manumissione l’accipiens non abbia provveduto. Ma il testo più interessante è forse quello che riguarda la datio ut Capuam eas: D.12,4,5 pr. (Ulp. 2 disp.): Si pecuniam ideo acceperis, ut Capuam eas, deinde parato tibi ad proficiscendum condicio temporis vel valetudinis impedimento fuerit quo minus proficiscereris, an condici possit, videndum: et cum per te non steterit, potest dici repetitionem cessare: sed cum liceat paenitere ei qui dedit, procul dubio repetetur id quod datum est, nisi forte tua intersit non accepisse te ob hanc causam pecuniam. nam si ita se res habeat, ut, licet nondum profectus sis, ita tamen rem composueris, ut necesse habeas proficisci, vel sumptus, qui necessarii fuerunt ad profectionem, iam fecisti, ut manifestum sit te plus forte quam accepisti erogasse, condictio cessabit: sed si minus erogatum sit, condictio locum habebit, ita tamen, ut indemnitas tibi praestetur eius quod expendisti. “Se tu hai ricevuto del denaro perché ti recassi a Capua e poi, essendo tu pronto a partire, ragioni dipendenti dalle condizioni atmosferiche o dalla tua salute ti abbiano impedito la partenza, si deve vedere se si possa esercitare (contro di te) la condictio. Ora, dal momento che la cosa non dipese da te, può dirsi che la ripetizione vien meno. Ma, siccome a chi diede è riconosciuta la possibilità di paenitere (= recedere unilateralmente dal negozio) senza dubbio si ripeterà (= si potrà chiedere in giudizio la restituzione di) quel che è stato dato, a meno che tu abbia interesse a non aver ricevuto denaro per questo scopo (= a meno che tu non subisca un danno per il fatto di aver ricevuto denaro a questo scopo). In effetti, se le cose stiano così, cioè, ad esempio, benché tu non sia ancora partito, tu abbia arrangiato le cose in funzione della partenza prevista come necessaria, oppure se tu hai già effettuato le spese che erano necessarie per la partenza, sicché risulti evidente che tu hai magari speso più di quanto hai ricevuto, la condictio verrà meno: ma se hai speso di meno, la condictio avrà luogo, nel senso tuttavia che ti sia riconosciuta un’indennità per quanto hai speso.” In questo testo – che non può certo essere considerato una costruzione compilatoria, anzi: neppure dà adito al sospetto di ritocchi marginali né soppressioni – si riconosce chiaramente al dans il ius paenitendi, ma gli si costruisce intorno tutto un regime contrattuale, proteggendosi l’accipiens dai danni che l’esercizio del ius paenitendi da parte del dans potrebbe cagionargli. E noterò che anche qui, dato che si ammette il ius paenitendi del dans e si afferma espressamente che la condictio, di per se stessa, su questa base gli spetta, si devono intendere come allusioni ad una denegatio di tale azione le espressioni con le quali si dice che essa vien meno (cessare); la frase finale, in particolare, deve essere intesa nel senso che “la condictio non verrà
to lasso di tempo? Se il tempo non sia ancora trascorso, la ripetizione dovrà essere impedita [,se non si penta]; se invece il tempo sia trascorso, si può esercitare la condictio. Ma se Stico sia morto, si potrà ripetere quanto dato? Proculo dice che vi è ripetizione se (Stico) sia morto dopo trascorso il tempo entro il quale poteva essere manomesso, altrimenti (la ripetizione) vien meno.” Con ‘id tempus … quo manumitti potuit’ il giurista indica “il lasso di tempo che l’accipiens aveva a sua disposizione per effettuare la manumissione”: si tratta dunque sempre del certum tempus di cui all’inizio del testo. 328 Come in Ulp. D.12,4,3,1.
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denegata, ma concessa accordando all’accipiens convenuto il diritto di valersi della ritenzione di quanto avuto e di opporre nella condictio stessa l’eccezione di dolo”, in modo che l’accipiens convenuto sarà condannato alla restituzione solo se l’attore gli dia o gli garantisca un’indennità per le spese sostenute 329.
ii) La fattispecie, che i giuristi individuavano come datio ob rem turpem o inhonestam, o come datio ob iniustam causam, rappresentava un caso particolare di datio ob rem. In proposito abbiamo già letto sopra Ulp. Sab. vet. Cels. D.12,5,6; i passi che seguono, sempre tratti dal titolo 12,5 del Digesto, con un’inquadratura sistematica di Paolo ed un po’ di casistica essenziale, li ho scelti e disposti in modo che se ne possano ottenere le informazioni necessarie per cogliere le linee essenziali di quest’ipotesi d’impiego della condictio come azione di restituzione di un arricchimento ingiustificato. A questo scopo li tradurrò anche tutti insieme alla fine: D.12,5,1 (Paul. 10 ad Sab.): Omne quod datur aut ob rem datur aut ob causam, et ob rem aut turpem aut honestam: turpem autem, aut ut dantis sit turpitudo, non accipientis, aut ut accipientis dumtaxat, non etiam dantis, aut utriusque. 1: Ob rem igitur honestam datum ita repeti potest, si res, propter quam datum est, secuta non est. 2: Quod si turpis causa accipientis fuerit, etiamsi res secuta sit, repeti potest: D.12,5,2 (Ulp. 26 ad ed.): ut puta dedi tibi ne sacrilegium facias, ne furtum, ne hominem occidas. in qua specie Iulianus scribit, si tibi dedero, ne hominem occidas, condici posse; 1: Item si tibi dedero, ut rem mihi reddas depositam apud te vel instrumentum mihi redderes. D.12,5,3 (Paul. 10 ad Sab.): Ubi autem et dantis et accipientis turpitudo versatur, non posse repeti dicimus: veluti si pecunia detur, ut male iudicetur. D.12,5,8 (Paul. 3 quaest.): … porro autem si et dantis et accipientis turpis causa sit, possessorem potiorem esse et ideo repetitionem cessare … D.12,5,4,3 (Ulp. 26 ad ed.): Sed quod meretrici datur, repeti non potest, ut Labeo et Marcellus scribunt, sed nova ratione, non ea quod utriusque turpitudo versatur, sed solius dantis: illam enim turpiter facere, quod sit meretrix, non turpiter accipere, cum sit meretrix.
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Questo meccanismo processuale, che permetteva al convenuto di far valere nell’azione intentata contro di lui una domanda riconvenzionale, è ben noto: vedi in sintesi (con una trattazione limitata alla materia dei giudizi di buona fede) CANNATA, Buona fede e strutture processuali, (in Studi Burdese 2003), ora in Scritti scelti III, in particolare 186 ss.
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La traduzione: “[Paul., fr. 1 pr.-2] Tutto quel che viene dato, viene dato o ob rem o ob causam, e se ob rem (= in vista di un fatto futuro, cioè di uno scopo) per uno scopo disonesto o per uno scopo onesto; se lo scopo è disonesto, la disonestà può essere del dans e non dell’accipiens, o del solo accipiens e non anche del dans, o di entrambi. 1: Dunque, quel che viene dato per uno scopo onesto può essere ripetuto se lo scopo, per il quale si è dato, non si è realizzato. 2: Nel caso invece in cui lo scopo disonesto appartenesse all’accipiens, può ripetersi anche se lo scopo si sia realizzato: [Ulp., fr. 2 pr.-1] per esempio se ti ho dato qualcosa perché tu non commetta un sacrilegio o un furto, o perché tu non uccida uno schiavo. Con riguardo al quale ultimo caso Giuliano scrive che, se ti ho dato qualcosa perché tu non uccida uno schiavo, si può esercitare la condictio (per ottenere la restituzione di quanto dato) 330. 1: Ancora, se ti ho dato qualcosa perché tu mi renda una cosa che ho depositato presso di te o un documento (che mi devi restituire) 331. [Paul., fr. 3] Quando invece la disonestà appartiene tanto al dans quanto all’accipiens, diciamo che non può ripetersi: come nel caso in cui si dia del denaro (ad un giudice) perché giudichi male 332. [Paul., fr. 8] 333 … se la causa disonesta è tanto del dans quanto dell’accipiens, il possessore è preferito 334 e quindi non c’è ripetizione … [Ulp., fr. 4,3] Ma quello che viene dato ad una meretrice non può essere ripetuto, come scrivono Labeone e Marcello, ma per una ragione diversa (cioè: nuova rispetto a quella che di solito si era addotta in precedenza), e non perché la turpitudine appartenga ad entrambi, ma al solo dans: la donna, infatti, si comporta in modo turpe in quanto è una meretrice, ma non riceve il denaro in modo disonesto, dal momento che è una meretrice 335.”
330 Probabilmente Giuliano presentava come problematico il caso di chi avesse ricevuto denaro per astenersi dall’uccidere uno schiavo, perché si riferiva al caso di uccisione di uno schiavo proprio: cosa che non avrebbe rappresentato un illecito giuridico, almeno fino ad una costituzione di Antonino Pio (Gai.1,53; Gai. D.1,6,1,2; I.1,8,2). L’uccisione dello schiavo altrui, oltre che prevista come delitto privato dalla lex Aquilia, era equiparata all’uccisione di un uomo libero dalla lex Cornelia de sicariis dell’81 a. C. (Ulp. Coll.1,3,2). Va però notato che il carattere turpis della causa non era dai giuristi ravvisato unicamente nell’illiceità giuridica del comportamento considerato, ma anche nella sua riprovevolezza sul piano morale o del buon costume: nel caso della meretrice (vedi poco dopo, nel fr.4.3 di Ulpiano) il comportamento del cliente è considerato turpis. 331 Vedi anche Ulp. Cels. D.12,5,4,2, con l’esempio ‘si tibi dedero, ne mihi iniuriam facias’ e tutta la casistica di Paul. Pomp. D.12,5,9 (pr.-1). 332 Un altro esempio di turpitudo che riguarda entrambe le parti in Ulp. D.12,5,4,1. Il caso nel quale una parte paghi il giudice perché le riconosca la ragione che aveva (ut secundum me in bona causa iudex pronuntiaret) è considerato in Ulp. D.12,5,2,2 (la parte ha la condictio ma, avendo corrotto il giudice, ha commesso un reato, e perderà il processo secondo C.7,49,1 a. 212: cfr. Ulp. D.3,6,1,3, dove la costituzione di Caracalla è citata con un destinatario diverso da quello che essa reca nel Codex). 333 Per la comprensione della quaestio che Paolo esponeva nell’insieme di questo testo difficile, che la critica interpolazionistica non ha capito (vedi la lett. in Ind. itp. I e supplementum), si veda la limpida traduzione che si legge in DTuÜ III. 334 Cfr. Paul. D.50,17,128 pr.; anche Ulp. D.50,17,154. 335 In quest’ultimo passo ho tradotto turpitudo e turpiter rispettivamente “turpitudine” e “in modo disonesto”, perché così mi pare meglio chiarito il senso del parere di Ulpiano e Marcello. In precedenza avevo usato sempre l’aggettivo “disonesto” per tradurre turpis, che è il termine usato in questi testi.
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La causa turpis è pur sempre una causa di scambio, come quella delle altre dationes ob rem nelle quali il fatto previsto rappresenta una controprestazione del datum, perciò la traditio che ne sia munita è idonea a trasferire la proprietà di quanto è stato dato; il carattere ingiusto di tale causa non rileva dunque sul piano dei diritti reali. Il fatto, però, che l’attribuzione patrimoniale che ne consegue risulti ingiusta produce l’obbligazione dell’accipiens alla restituzione. Se si osserva la casistica proposta nei testi, si conclude facilmente che un’attribuzione patrimoniale proveniente da una causa ingiusta – ex iniusta causa, come leggendo D.12,5,6 sembra si esprimessero i veteres – venga in considerazione come arricchimento ripetibile mediante condictio unicamente nel caso in cui la datio abbia avuto luogo con lo scopo di ottenere che l’accipiens tenga un comportamento che giuridicamente è già obbligato a tenere; l’ingiustizia della presenza del datum nel patrimonio dell’accipiens proviene dunque dal fatto che esso rappresenta il compenso per una prestazione che non va compensata. iii) L’evento previsto nell’accordo causale può consistere in un fatto che non rappresenta una controprestazione della datio; si tratta in genere di fatti che neppure potrebbero esserlo, e che neanche consistono in comportamenti dell’accipiens, anche se talora possono implicarlo. Il discorso sarà più chiaro partendo da un esempio, come quello di: D.12,4,1,1 (Ulp. 26 ad ed.): Si parendi condicioni causa tibi dedero decem, mox repudiavero hereditatem vel legatum, possum condicere 336. Il caso – che espongo aggiungendo qualche dettaglio irrilevante, al solo scopo di renderlo più evidente – è questo 337: nel proprio testamento il testatore T ha lasciato il proprio cavallo bianco al legatario L, sottoponendo però il lascito alla condizione che L dia 200 HS a V, un vecchio amico di T. Morto T, L si reca da V e gli paga i 200 HS, ma poi – non ce ne interessano le ragioni: si tratta di una decisione che spetta soltanto a lui 338 – L decide di rifiutare il legato e dichiara espressamente di rifiutarlo. Ulpiano dice che in questo caso gli spetta la condictio per recuperare da V i 200 HS.
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La traduzione: “Se ti ho dato dieci allo scopo di conformarmi ad una condizione, e poi ho rifiutato l’eredità o il legato, posso esercitare la condictio”. 337 In realtà, nel testo si presentano due varianti del caso, considerandosi tanto l’ipotesi dell’istituzione d’erede quanto quella del legato, e quest’ultima è presentata genericamente, sicché può riferirsi tanto ad un legato ad effetto reale (legatum per vindicationem) quanto ad un legato ad effetto obbligatorio (legatum per damnationem). Io lo espongo solo con riguardo al legato per vindicationem, perché di questo si è già dato sufficientemente conto nel vol. I, p. 302 ss. 338 Sui problemi – di soluzione non pacifica tra i giuristi – relativi all’acquisto di un legato per damnationem (acquisto ipso iure con possibilità di successivo rifiuto o acquisto solo mediante accettazione) vedi Gai.2,195; anche Paul.3,6,7.
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Ma gli esempi più importanti sono quelli che si concretano in due negozi che, nel diritto romano almeno, erano dotati di una loro tipicità. Si tratta della datio dotis e della donatio mortis causa. La dote (dos) consisteva in un’insieme di beni che, in occasione di un matrimonio, venivano attribuiti al marito dalla moglie o da altri nell’interesse di lei 339, come contributo ai gravami economici della vita familiare 340. A noi qui interessa la costituzione di dote 341 effettuata con un atto – od una serie di atti – ad effetto reale, che si usa denominare appunto datio dotis, e poteva essere effettuato non solo dalla donna stessa o dal suo paterfamilias, ma da chiunque 342. Siccome la costituzione della dote avveniva di solito prima della conclusione del matrimonio, la datio dotis veniva a costituire una datio ob rem, nella quale l’evento previsto era la conclusione del matrimonio: per cui, se poi il matrimonio non avesse luogo – diciamo più precisamente, anche se l’espressione risulta un po’ volgare, se il matrimonio andasse a monte –, i beni trasferiti al mancato marito 343 il dans avrebbe potuto ripeterglieli con la condictio 344. Della donatio mortis causa (donazione a causa di morte) prenderemo qui in considerazione solo una specie 345: quella nella quale il donante effettui l’atto di attribuzione patrimoniale, nel quale la donazione si concreta, trovandosi in pericolo di vita – in particolare perché ammalato o perché in procinto di intraprendere attività pericolose – e accompagni l’atto di attribuzione con un accordo col donatario, nel senso che le cose donate passino immediatamente in proprietà del donatario, che però le restituirà se e quando il pericolo di morte del donante sia cessato 346; in questo caso la datio con la quale è effettuata la dona339
Ulp.6,1. La destinazione funzionale dei beni dotali a sustinere onus (od onera) matrimonii è affermata in vari testi: ad esempio Paul. Serv. Lab. Fragm. Bodl. I (FIRA II, p. 423, cfr. Paul. D.17,2,65,16); Ulp. D.10,2,20,2; Paul. Scaev. D.10,2,46. 341 Per modi di costituzione della dote vedi Ulp.6,1-2. 342 Ulp.6,2 in fine. 343 Cioè al fidanzato (o qui, ex-fidanzato), che non può essere denominato, come si trova talora in qualche libro, sponsus, perché dall’atto – o rito – degli sponsalia (= fidanzamento: Flor. D.23,1,1) sola la donna risultava sponsa. La terminologia proviene da quella della stipulatio, perché in antico con tale atto la donna veniva promessa in moglie (Ulp. D.23,1,2). Comunque effettuata, la promessa di matrimonio tese a perdere effetti giuridici rilevanti, anche se solo patrimoniali, già prima della fine della repubblica; sul piano personale essa produceva solo certi impedimenti al matrimonio (Ulp. D.23,2,12,1; Paul. D.23,2,14,4 alla fine; I.1,10,9: Iul.). Vedi KASER, RPR I, 312 ss. 344 Iav. D.12,4,10; Paul. D.12,4,9 pr. Sui due testi dovremo ritornare fra poco. 345 Le diverse specie di donatio mortis causa sono individuate – in modo un poco diverso – in Ulp. Iul. D.39,6,2; Iul. Marcell. D.39,6,13; Paul. D.39,6,35,4. 346 Le altre specie non ci interesserebbero comunque qui: analogo al caso considerato sarebbe quello nel quale il donante non si trovi in concreto pericolo di vita, ma consideri unicamente i limiti della vita umana (cum quis nullo praesentis periculi metu conterritus, sed sola cogitatione mortalitatis donat: Iul. in Ulp. D.39,6,2), mentre non darebbe luogo ai problemi dei quali discu340
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zione rappresenta una datio ob rem nella quale l’evento previsto è la morte del donante: sicché, se questa non avvenga a seguito della situazione pericolosa considerata 347, il donante potrà esercitare la condictio di quanto ha dato 348. Cerchiamo di valutare esattamente gli elementi in gioco in tutte queste ipotesi. La causa di attribuzione della datio non è qui un accordo di scambio, perché l’attribuzione (diciamo di A a B) è sempre gratuita, anche se solo nel caso della donatio mortis causa si tratta di una donazione (causa donationis = liberalità). La causa dotis della datio dotis è una causa tipica particolare, la quale si realizza bensì con un accordo che prevede esso stesso – analogamente all’accordo di mutuo – una restituzione in caso di scioglimento del matrimonio, eventuale se ciò avesse luogo per morte della moglie 349, in ogni caso se a seguito del divorzio 350: ma è chiaro che queste regole sulla restituzione della dote connesse con la natura e la funzione del regime dotale non hanno a che fare con il problema di cui stiamo discutendo, che riguarda il sorgere dell’obbligazione di restituire i beni costituiti in dote prima che questi diventino propriamente beni dotali. I beni attribuiti con la datio dotis, se il matrimonio cessi di essere previsto, vengono ad essere beni destinati ad essere dotali che non possono diventare beni dotali, e per questo stesso fatto la loro presenza nel patrimonio di un marito che non è e non potrà più esser tale, cose che è ingiusto che costui ritenga, perché spettano ad altri, e precisamente al soggetto, chiunque questo sia, che glieli ha dati. E va bene inteso che anche qui, per fondare la restituzione, il problema deve essere posto sul piano delle obbligazioni: la causa dotis è una iusta causa di trasferimento della proprietà, e di per se stessa dà luogo ad un’attribuzione definitiva. Che, malgrado il regime, connaturato con la dote stessa, della restituzione in caso di scioglimento del matrimonio – che del resto funziona anch’esso con meccanismi del diritto delle obbligazioni –, la causa dotis costituisca una causa perpetua, è persino affermato espressamente in un testo di Paolo 351.
tiamo il caso nel quale la donazione, effettuata in istato di pericolo, sia realizzata con un atto sottoposto alla condizione sospensiva della morte del donante. 347 Secondo i giuristi, non si era verificata la morte del donante nel senso previsto dall’accordo negoziale della donazione mortis causa, se comunque il donatario fosse morto prima del donante: vedi ad esempio Iul. D.12,1,19 pr. (si donator convaluisset aut is qui accipiebat prior decessisset). 348 Vedi, con diverse situazioni, Paul. Cassiani D.39,6,35,3; Iul. D.12,1,19 pr.; Iul. D.39,6,18,1; Paul. D.12,4,12. 349 Se la moglie morisse in costanza del matrimonio, la dote costituitale dal paterfamilias (dos profecticia: Ulp.6,3) doveva, salvo un diritto di ritenzione (retentiones), spettante al marito, nella misura di un quinto per ogni figlio, essere restituita a costui se ancora in vita (Ulp.6,4), e la dote costituita da altri (dos adventicia) doveva essere restituita, salve le stesse retentiones, al costituente solo se costui se ne fosse fatto promettere la restituzione (dos recepticia: Ulp.6,3 e 5). 350 In caso di divorzio, la moglie aveva diritto alla restituzione della dote, salvo un complesso regime di eventuali retentiones del marito (Ulp.6.9-13); a tutela di questo suo diritto alla restituzione, la donna disponeva dell’actio rei uxoriae; se essa fosse ancora in potestate del proprio pater, l’azione veniva esercitata da costui ma, indipendentemente dal fatto che si trattasse di dos profecticia o adventicia, adiecta filiae persona (Ulp.6,6), cioè con un’intentio nella quale veniva menzionato il dovere del convenuto di restituire al pater o a lei (patri filiaeve reddi oportere: cfr. Ulp. D.24,3,22,9; il LENEL, EP, 306, pensava che la formula potesse recitare filiaeque, ma credo a torto). 351 Paul. D.23,3,1: Dotis causa perpetua est, [et] cum voto eius qui dat ita contrahitur, ut semper apud maritum sit.
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Per la donatio mortis causa la situazione è in qualche modo simile. Qui l’accordo causale della datio è un semplice accordo di donazione, solo che – mi riferisco sempre al solo caso che abbiamo deciso di osservare da vicino – è accompagnato da un patto, il quale prevede la restituzione se il donante sopravviva al rischio di morte o – su questa formulazione paiono piuttosto insistere i testi – se il donatario muoia prima del donante. In sostanza, la volontà, che il donante esprime nel patto aggiunto all’accordo causale di donazione, è nel senso che egli, i beni che dà, preferisce tenerseli lui stesso se continui a vivere, ma se muore preferisce che vadano al donatario piuttosto che al suo proprio erede 352. La morte del donante non è qui dunque un evento sperato, ma solo un evento considerato a certi fini; ed in rapporto alla restituzione è considerato in modo negativo: possiamo pensare che, normalmente almeno, il donante speri di non morire, e quindi speri anche nella restituzione dei beni: ma da ciò risulta che la donazione stessa è fatta, per così dire, contro voglia, nella speranza che essa possa – parlando in modo non tecnico – venire revocata. L’evento sperato è la sopravvivenza, ed è questa che, se accada, darà ai beni pervenuti al donatario il loro carattere di beni la cui presenza nel patrimonio di costui non si giustifica più. Qui, come nel mutuo, la qualifica delle cose date come di cose “la cui presenza nel patrimonio di B non si giustifica rispetto ad A” proviene direttamente dalla volontà delle parti; e come nel mutuo, l’accordo delle parti sulla restituzione non può di per sé fondare l’obbligo di restituzione, che nasce re e non consensu, ma serve solo a fornire il criterio di giustizia che permette di qualificare come ingiusta la presenza della res nel patrimonio di B. L’ipotesi di Ulp. D.12,4,1,1 è alquanto diversa. Abbiamo già detto che qui la causa della datio non è una causa di scambio 353, ma neppure è una causa di donazione. Considerando il caso come l’ho presentato sopra, subito dopo aver riportato il testo: L non dà a V i 200 HS in ispirito di liberalità, ma per un proprio interesse, quello di produrre il verificarsi della condizione alla quale è sottoposto il legato disposto a suo favore, vale a dire quello di diventare proprietario del cavallo bianco. Per far ciò, L ha bisogno della collaborazione di B, ma B non accetta il versamento per rendere questo servizio a L, bensì unicamente per l’interesse che ha ai 200 HS. La causa della datio non è neppure una causa solutionis, perché i 200 HS non sono dovuti da L a B, ma non per questo il loro versamento può considerarsi indebito, perché è giustificato da un accordo causale di diversa natura: questo accordo si forma semplicemente perché L e V sono titolari di due interessi diversi – avere il cavallo bianco e ricevere 200 HS – che non possono essere soddisfatti se non lo sono entrambi, e il negozio attributivo dei 200 HS da L a V è il solo mezzo per realizzare questo scopo. Ora, questa situazione trova la sua origine nell’esistenza del legato condizionato disposto nel testamento di Lucio Tizio, per cui l’esistenza e l’efficacia di tale legato rappresenta il fatto in vista del quale il negozio di attribuzione (dei 200 HS da L a V) ha luogo, e quindi la presenza dei 200 HS nel patrimonio di V diventa ingiusta per V rispetto a L se il legato risulti nullo o se L, non accettandolo, lo renda inefficace.
L’espressione, che si legge nelle fonti, più appropriata per indicare il venir meno dello scopo in vista del quale sono eseguite le attribuzioni patrimoniali ob 352 Marcian. D.39,6,1 pr., con nel § 1 l’elegante citazione di Odyss.17,78-83, che giuridicamente non mi sembra però del tutto pertinente, perché la dichiarazione di Telemaco è piuttosto quella di una donazione con effetto post mortem, come quella, anche se assai diversa nelle circostanze, di Ettore in Il.7,77-78. 353 Si veda la precisazione quia non contrahendi animo dederim di Paul. D.12,6,75,3.
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rem (ob causam) nelle quali il fatto previsto come scopo dell’attribuzione non rappresenta una controprestazione della datio, è quello di causa finita: la causa, intesa come scopo, ha cessato di esistere. Va detto tuttavia che i giuristi impiegavano indifferentemente la terminologia della causa non secuta anche per questi casi 354, sicché la regola sulla restituzione della datio ob rem, re non secuta può essere enunciata in modo unitario, beninteso precisando che la datio ob turpem causam ne resta però esclusa 355. E veniamo infine alle attribuzioni effettuate sine causa, fattispecie di definizione assai tecnica, ma di per sé semplicissima. È infatti chiaro che, se A abbia attribuito a B un bene compiendo con lui un negozio di attribuzione sfornito di causa, qualora il bene sia entrato nel patrimonio di B esso vi si troverà senza giustificazione rispetto ad A, e questi avrà la condictio per ottenerne la restituzione. Facciamo un esempio semplice. A ha venduto a B un certo asino, ma v’era disaccordo sul prezzo: le trattative sono state animate, ed alla fine A era convinto di aver venduto per 700 HS mentre B era convinto di aver comprato per 600. Il contratto è anche stato interamente eseguito, senza che il disaccordo sul prezzo venisse in evidenza: A ha fatto a B la mancipatio dell’asino, ma l’ha fatta nummo uno, per la somma simbolica di un nummo; B ha pagato il prezzo nella misura di 600 HS, ma avendolo pagato ad un procurator di A legittimato a riscuoterne i crediti, A ha conosciuto l’imputazione del pagamento solo da quanto gli riferiva B dandogli il denaro. La nullità della vendita per mancato accordo sul prezzo viene in evidenza solo quando il procurator informa A dell’avvenuta riscossione e le parti, incontratesi ancora, decidono di non riprendere le trattative. Si pone dunque il problema della reciproca restituzione delle prestazioni eseguite. Le nostre parti A e B si restituiranno tutto amichevolmente, ma a noi interessa sapere a che titolo ciascuno potrebbe agire contro l’altro se questi non restituisse. L’azione sarà sempre la condictio, ma per ciascuno dei due il titolo sarà diverso. Il compratore B ha pagato un debito pecuniario inesistente credendo erroneamente nella sua esistenza, e quindi i 600 HS che ha dato rappresentano un pagamento indebito: la sua supposta obbligazione essendo un’obbligazione di dare, la traditio del denaro, da lui eseguita, era stata fatta pro soluto, la proprietà delle specie monetarie era passata ad A e quindi egli non può pretenderle se non esercitando la condictio dell’indebitum solutum. Per la prestazione eseguita da A – che è quella che ora particolarmente ci interessa – le cose stanno diversamente: come vedremo a suo luogo 356, nella compravendita romana il venditore non è obbligato a trasferire al compratore la proprietà della merce, ma solo a trasferirne il possesso, ad effettuare l’atto traslativo di proprietà idoneo a trasferirla, e ad assumersi la responsabilità per l’evizione: dunque, facendo la mancipatio dell’asino, A non adempiva un’obbligazione di dare, bensì di facere, e quindi tale atto non era un pagamento; esso non aveva luogo pro soluto, bensì sulla base della compravendita (emptio venditio); A mancipava pro vendito e B riceveva pro empto; ma la vendita essendo nulla, tale mancipa-
354
Vedi ad esempio Paul. D.12,6,65,3, dove si espongono gli stessi casi di Ulp. D.12,4,1,1. Vedi Paul. D.12,5,1,1-2. 356 Ma vedi già nel vol. II,1, p.194 s. 355
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tio risultava sine causa, “priva di causa”. Siccome però, come sappiamo, la mancipatio è un negozio astratto 357 e quindi produce i suoi effetti indipendentemente dall’esistenza di una causa, la proprietà dell’asino è ugualmente passata a B, cosicché, per ottenerne la restituzione A non potrà valersi che della condictio, facendo valere l’arricchimento di B a sue spese, arricchimento che corrisponde alla presenza sine causa dell’asino nel patrimonio di B 358.
Come è chiaro, un’attribuzione patrimoniale sine causa è facilmente immaginabile solo se l’atto di attribuzione sia un negozio astratto, e nel diritto romano negozi astratti erano la mancipatio, l’in iure cessio e la stipulatio. Tuttavia, un’attribuzione patrimoniale sine causa – e quindi anche un arricchimento sine causa – poteva risultare anche da un trasferimento di proprietà effettuato con traditio sfornita di causa, quando le cose trasferite fossero perite una volta giunte presso l’accipiens. Come esempio evidente pensiamo al caso in cui l’oggetto consegnato da A a B fosse una somma di denaro e, dopo la traditio, effettuata senza causa, i nummi (cioè: le specie monetarie) ricevuti dall’accipiens siano stati da costui consumati, cioè spesi, o comunque confusi con altri nummi in modo che la rei vindicatio – che non può farsi se non di cose precisamente individuate – non ne sia più possibile. Siccome il dans, perdendone la rei vindicatio, ne ha perso la proprietà 359, potrà recuperarli con la condictio 360. Va detto però che i giuristi non risultano avere espressamente qualificato questo caso come quello di un acquisto sine causa. Il testo che più chiaramente ne parla presenta, come atto di attribuzione sfornito di causa, il mutuo o il pagamento effettuato da un pupillo senza l’auctoritas tutoris 361, e Giuliano, che ne è l’autore, si limita a dire che, se il denaro è stato consumato, il pupillo – rispettivamente, nei due casi – ha la condictio o è liberato 362. Ma abbiamo un caso, nel quale da Ulpiano viene espressamente qualificato, se non sine causa, però ‘quasi sine causa datum’ – cioè: “come fosse dato senza causa” – il risultato di una traditio di denaro, la quale risulta però traslativa della proprietà: almeno secondo l’interpretazione che mi sembra doversi dare, e che qui propongo, del testo seguente:
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Vedi nel vol. I cap. IVb il § 4.1 (p. 287 s.) e il § 5.1 (p. 295 ss.). Se, invece di una res mancipi (come l’asino: Gai.1,120; Ulp.19,1; cfr. Pap. Vat.259), oggetto della vendita fosse stata una res nec mancipi (come un cane), il trasferimento della proprietà avrebbe avuto luogo mediante traditio, che è un negozio causale, e quindi inidoneo a trasferire la proprietà se non assistito da una iusta causa (vol. I, p. 304 ss.). Dunque, il cane, trasferito con traditio basata su di una vendita nulla, non sarebbe pervenuto in proprietà del compratore, il quale non si sarebbe così arricchito. Il venditore, rimasto proprietario, per recuperare il possesso del cane potrebbe di conseguenza esercitare contro B la rei vindicatio. 359 Lo osservavamo già sopra, a diverso proposito (in particolare intorno alla n. 303). 360 KUPISCH, Ungerechtfertigte Bereicherung cit., 5; 10. 361 È certo superfluo che noti che un pagamento effettuato senza l’auctoritas tutoria non è un pagamento indebito, ma una traditio sine causa; come è inutile che spieghi perché esso non dia luogo a condictio, ma semplicemente alla liberazione del pupillo dal debito che ha, pur se invalidamente, pagato. 362 Iul. D.12,1,19,1: Si pupillus sine tutoris auctoritate crediderit aut solvendi causa dederit, consumpta pecunia condictionem habet vel liberatur non alia ratione, quam quod facto eius intellegitur ad eum qui acceperit pervenisse: … 358
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D.12,7,2 (Ulp. 32 ad ed.): Si fullo vestimenta lavanda conduxerit, deinde amissis eis domino pretium ex locato conventus praestiterit posteaque dominus invenerit vestimenta, qua actione debeat consequi pretium quod dedit? et ait Cassius eum non solum ex conducto agere, verum condicere domino posse: ego puto ex conducto omnimodo eum habere actionem: an autem et condicere possit, quaesitum est, quia non indebitum dedit: nisi forte quasi sine causa datum sit 363 putamus condici posse: etenim vestimentis inventis quasi sine causa datum videtur. “Se un fullone ha preso in locazione degli abiti per lavarli, poi, avendoli perduti, convenuto in giudizio ne abbia prestato al proprietario il prezzo, e in seguito il proprietario abbia trovato gli abiti, con quale azione (il fullone) dovrà perseguire il prezzo che ha dato? Dice Cassio che egli non solo potrà agire ex conducto 364, ma anche esercitare la condictio contro il proprietario. Io ritengo che egli abbia comunque l’azione ex conducto; se possa anche esercitare la condictio, è discusso, perché non ha pagato un indebito: a meno che non si ritenga che la prestazione sia stata effettuata come senza causa: infatti, una volta ritrovati gli abiti, essa appare come effettuata 365 senza causa.” 366. Che il versamento di una somma pari al prezzo (= valore venale) degli abiti non costituisse pagamento indebito, è chiaro: essa non costituiva un pagamento, né era indebita; infatti quel denaro non è stato dato da F a D pro soluto perché F, in forza del contratto di locazione, non aveva alcuna obbligazione di pagare a D il valore degli abiti; la somma è stata data da F a D a titolo di risarcimento per l’inadempimento dell’obbligazione di restituire gli abiti, e la causa di una prestazione a titolo di risarcimento (effettuata per evitare la condanna, anche se magari ad una somma dello stesso ammontare) trova la sua causa in un accordo transattivo 367; e tale versamento non era neppure indebito, perché quando è stato fatto la responsabilità di F per l’inadempimento dell’obbligazione di restituire era stata accertata dal giudice e, se non avesse pagato il prezzo, F sarebbe stato condannato. Se Ulpiano vede nel versamento di F a D “qualcosa come una datio sine causa”, ciò pare risiedere nel fatto che, benché la transazione, in quelle circostanze (fatta in corso di giudi-
363 Preferisco questa lettura (sit) invece del sic dell’editio minor, dove si riferiscono le diverse letture della Fiorentina e dei manoscritti S (quia sine causa datum sit). Il senso è comunque quello della traduzione. 364 L’actio ex conducto è l’azione contrattuale che spetta al conduttore in base al contratto di locazione. Aggiungo una precisazione sulla professione del personaggio che nel caso qui proposto è il conduttore, cioè il fullo, che ho tradotto “fullone” (la parola esiste in italiano anche nella forma “follone”, ed in francese nella forma “foulon”). Nel mondo romano si trattava di un lavandaio, specializzato nel trattamento dei tessuti di lana con una soluzione di acido urico e sottoponendoli a pressione (in francese si dice ancora “fouler les tissus” ed in italiano “follare i tessuti”) allo scopo di dare ad essi la consistenza del feltro. In italiano, con specifico riguardo alla sua specializzazione, tale artigiano (ma più precisamente l’operaio adibito a compiere materialmente il lavoro) viene denominato “gualchieraio”. 365 S’intenda bene la frase, che è precisa nel senso che la prestazione del prezzo appare come essere stata effettuata senza causa fin dall’inizio. 366 Credo opportuna una piccola precisazione sul fatto: quanto al ritrovamento degli abiti, il testo non dice semplicemente che questi sono stati ritrovati, ma che sono stati ritrovati dal proprietario (dominus invenerit vestimenta), il che sembra voler dire che il ritrovamento è avvenuto nella casa di costui:; il fullone, dunque, non aveva trovato gli abiti da restituire perché questi, a sua insaputa, erano già stati riportati a casa del proprietario. Nella spiegazione che segue indicherò le parti con le lettere F (fullo, il fullone) e D (dominus, il proprietario degli abiti). 367 Ad ‘id quod transactionis nomine datur’ fa cenno Paul. D.12,6,65,1.
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zio e seguendo il parere del giudice) fosse valida, mancava pur sempre la materia su cui transigere, per cui, anche se (formalmente) una causa esisteva, (sul piano della sostanza) era come se non esistesse. Di conseguenza, se l’esistenza della causa formale permetteva l’effetto traslativo della traditio, il difetto sostanziale della causa rende sine causa la presenza dei nummi nel patrimonio di D, giustificando così la condictio di F.
Ora, nel diritto giustinianeo, degli antichi atti d’attribuzione patrimoniale astratti non sopravviveva che la stipulatio: la mancipatio risultava abrogata insieme all’abrogazione della differenza tra res mancipi e res nec mancipi 368, e la in iure cessio era ormai desueta del tutto; il solo atto idoneo a trasferire tra vivi la proprietà che un testo della compilazione giustinianea potesse prendere in considerazione era la traditio, ma questa non era, neppure per Giustiniano, un negozio astratto 369. È, così, facile pensare che nel titolo de condictione sine causa i compilatori avessero abbastanza scarso materiale da inserire. In funzione del proseguimento di questo discorso risulta necessaria una precisazione, che riguarda il diritto giustinianeo. Alla materia dell’arricchimento ingiustificato i compilatori del Digesto hanno dedicato la serie dei titoli dal 4 al 7 del dodicesimo libro, e nella rubrica di ciascuno di essi si fa allusione ad un tipo di condictio specificata come azione funzionale alla ripetizione di una specie d’arricchimento: D.12,4: de condictione causa data causa non secuta; D.12,5: de condictione ob turpem vel iniustam causam; D.12,6: de condictione indebiti; D.12,7: de condictione sine causa. Si tratta del frutto di un’impostazione dei giuristi orientali, che dalla condictio della tradizione classica, dove essa era un’unica azione 370 anche se con qualche variante nella relativa formula 371, trassero tutta una serie di condictiones tipizzate con riferimento a un carattere della pretesa 372.
In effetti, il titolo de condictione sine causa è l’ultimo della serie di quelli dedicati alla condictio come azione d’arricchimento o meglio – usando termini corrispondenti alla prospettiva giustinianea – l’ultimo di quelli dedicati alle condic368
C.7,31,1,5 a. 531. Vol. I, p. 550. Il suo carattere causale era affermato in D.41,1,31 (vedilo nel vol. I, p. 306). 370 Vedi KUPISCH, Ungerechtfertigte Bereicherung cit., 2 ss. 371 Le varianti principali erano solo due, quella della condictio certae pecuniae (actio certae creditae pecuniae) e quella della condictio certae rei, che doveva servire tanto per le pretese certe relative a cose determinate nel genere quanto per quelle di cose determinate nella specie: vedi in sintesi vol. II,1, p. 203 ss., con i necessari riferimenti a LENEL, EP3, 231 ss. Qualche ulteriore variante formulare poteva esistere, come per la cosiddetta condictio liberationis, alla quale accenneremo fra non molto. 372 Così ancora, fuori della materia dell’arricchimento, incontriamo nel Digesto le rubriche relative alla condictio furtiva (D.13,1: vedi il diverso modo in cui si esprime in proposito Gai.4,4); alla condictio ex lege (D.13,2) e alla condictio triticaria (D.13,3); cfr. i tit. C.4,5-9. Il fenomeno è stato esaurientemente esaminato di recente dal SACCOCCIO, Si certum petetur. Dalla condictio dei veteres alle condictiones giustinianee, Milano 2002, in part. 549 ss. Sulla distribuzione della materia operata dai compilatori nei titoli del Digesto vedi sempre anche KUPISCH, Ungerechtfertigte Bereicherung cit., 22 s. 369
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tiones che sanzionano l’arricchimento ingiustificato, ed ha tutta l’aria di essere concepito come un titolo di chiusura, che riguarda, cioè, fattispecie d’arricchimento residuali rispetto all’insieme di quelle considerate prima. Ma un’idea più precisa dell’operazione che i compilatori hanno eseguito componendo il titolo D.12,7 possiamo farcela con la lettura del suo inizio: D.12,7,1 (Ulp. 43 ad Sab.): Est et haec species condictionis, si quis sine causa promiserit vel si solverit quis indebitum. qui autem promisit sine causa, condicere quantitatem non potest quam non dedit, sed ipsam obligationem. 1: Sed et si ob causam promisit, causa tamen secuta non est, dicendum est condictionem locum habere. 2: Sive ab initio sine causa promissum est, sive fuit causa promittendi quae finita est vel secuta non est, dicendum est condictioni locum fore. 3: Constat id demum posse condici alicui, quod vel non ex iusta causa ad eum pervenit vel redit ad non iustam causam. “Questa specie di condictio ha luogo se uno abbia promesso senza causa o se uno abbia pagato l’indebito. Per altro, chi abbia promesso senza causa non può pretendere con la condictio una quantità (di cose) che non ha dato 373, ma (potrà pretendere la restituzione del)l’obbligazione stessa. 1: Ma anche se ha promesso ob causam, ma la causa non è seguita, deve dirsi che la condictio ha luogo. 2: Sia che si sia promesso senza causa fin dall’inizio, sia che vi fosse una causa della promessa che poi è venuta meno o non si è realizzata, deve dirsi che la condictio avrà luogo. 3: Risulta precisamente che quel che può pretendersi da qualcuno con la condictio è quel che gli è pervenuto in assenza di una giusta causa, o è riconducibile ad una causa ingiusta.” Questo testo è notevole per svariati aspetti, ed è bene che li individuiamo tutti, senza molto preoccuparci dell’ordine in cui lo facciamo, prima di poter sintetizzare le conclusioni che ci interessano. Dovremo anche cercar di distinguere quanto, nel dettato, appartiene ad Ulpiano da quanto è frutto dell’intervento dei compilatori del Digesto; e quanto è di Ulpiano, come pure vedremo, forse non compariva tutto nell’originale lì dove adesso lo si legge. Di fattura compilatoria è certamente la prima frase del principium (fino a indebitum). Essa si inizia presentando la condictio di cui si parla nel titolo – cioè la condictio sine causa: ma senza menzionarla, solo facendo riferimento al tenore della rubrica che, come sappiamo, è ‘de condictione sine causa’ – come una “specie della condictio”, cioè come una species del genus ‘condictio’, secondo l’impostazione bizantina di cui già ho brevemente dato conto sopra, poco prima di riportare il testo. Ma, se questo è del tutto naturale in un testo giustinianeo, quel che segue subito dopo non può non suscitare qualche meraviglia. Vi si dicono infatti due cose: che la condictio sine causa s’impiega in caso di promessa effettuata sine causa e in caso di pagamento d’indebito. La prima delle due affermazioni, per vero, potevamo attendercela, pensando che l’arricchimento senza causa
373 Con la locuzione condicere quantitatem nel testo (questo punto appartiene certo ad Ulpiano) si vuol dire “pretendere in giudizio (la restituzione) delle cose promesse nella quantità in cui sono state promesse”.
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– e quindi, nel diritto giustinianeo, la condictio sine causa – ai tempi di Giustiniano aveva perso i suoi normali punti di riferimento nei negozi traslativi astratti della mancipatio e della in iure cessio; certo, però, non ci attenderemmo che i compilatori, nel presentare l’azione, ignorassero del tutto la casistica delle attribuzioni effettuate mediante traditio sine causa, perché questa casistica interessava anche i tempi della compilazione del Digesto, ed anzi l’esempio del fullo e degli abiti perduti che abbiamo letto in D.12,7,2 è collocato in questo stesso titolo, subito dopo quanto abbiamo da ultimo riportato. Per tale lacuna forse è inutile cercare una spiegazione; analoghe negligenze dei compilatori non sono certo infrequenti: ma in qualche modo dovremo pur spiegarci invece il fatto, veramente stupefacente, che poi costoro vengano a dirci che la condictio sine causa serve in caso di pagamento d’indebito. Già strano è il fatto che i compilatori, nel comporre la frase che stiamo considerando, dimenticassero che la traditio che realizza un pagamento indebito è una traditio munita di causa; l’errore che costoro facevano evidentemente, di far dipendere l’assenza di causa dall’assenza dell’obbligazione da estinguere, sarà lo stesso – e perché non magari originato da questo stesso passo? – che ripeteranno i Glossatori medievali, quando furono indotti ad ammettere la rilevanza della causa putativa per salvare insieme la causalità della traditio e la condictio indebiti 374. Ma quel che veramente fa specie, è che Triboniano e i suoi collaboratori inserissero nel titolo 12,7 del Digesto un testo nel quale è scritto che all’autore di un pagamento indebito spetta la condictio sine causa quando avevano dedicato invece il titolo 12,6, cioè quello immediatamente precedente, alla condictio indebiti, nel primo frammento del quale, sempre in un passo tratto da Ulpiano (D.12,6,1,1, Ulp. 23 ad ed.), era scritto: ‘Et quidem si quis indebitum ignorans solvit, per hanc actionem condicere potest’, dove per hanc actionem, ancora una volta, richiama l’indicazione della rubrica, questa volta ‘de condictione indebiti’. Ciò non si spiega se non pensando che i giuristi che compilavano il Digesto fossero già fuorviati dall’idea, che continuerà – e del tutto a torto – a serpeggiare fino ad oggi nella dommatica dell’arricchimento ingiustificato, secondo la quale l’arricchimento stesso proverrebbe sempre, in buona sostanza, da un acquisto patrimoniale sfornito di causa, e sarebbe quindi da intendersi in generale come arricchimento senza causa. I casi sanzionati con la condictio ob turpem vel iniustam causam (D.12,5) potevano facilmente essere compresi in tale nozione, solo considerando che una causa turpis vel iniusta non è una causa giuridicamente ammissibile: per i casi residui li aiutava la stessa costruzione di Ulpiano nel testo che ora stiamo esaminando, come ci accingiamo a vedere. Il resto di D.12,7,1, cioè il principium a partire da qui autem promiserit e i paragrafi 1 e 2, sono certo sostanzialmente di Ulpiano: e certo Ulpiano vi parlava anche della condictio liberationis. Degli stessi problemi parlava infatti lo stesso Ulpiano nel libro 76 del suo commentario ad edictum (abbiamo già letto il testo 375: si tratta di D.44,4,2,3-5), anche se lì la condictio liberationis non era considerata, perché la casistica della stipulatio sine cau-
374 Con il che però la causalità della traditio non la salvavano affatto, perché ammettere l’efficacia della traditio con causa putativa conduce direttamente a costruire la traditio astratta. La vicenda passa per la glossa iusta causa a D.41,1,31 pr., il commentario di Baldo degli Ubaldi super C.4,50,6, il passo di DONELLUS, Comm. IX,16 § 9 , quello di POTHIER, Traité de l’action condictio indebiti n° 178 e le pagine 256 ss. del SAVIGNY nel II vol. (1853) dell’Obligationenrecht. Si vedano già gli accenni nel vol. I, p. 306 ss. (in particolare la n. 196 di p. 511) e KUPISCH, Ungerechtfertigte Bereicherung cit., 34 con le n. 52 e 53; più estesamente CANNATA, Uni., 77 ss., dove i testi sopra menzionati sono riportati e tradotti per esteso. 375 Nel vol. II,1, p. 32.
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sa veniva inquadrata sotto il diverso profilo dell’impiego dell’exceptio doli. Vediamo di impostare questa problematica. Il caso della stipulatio, di cui parla Ulpiano in D.12,7,1 pr.-2, presenta la particolarità che il giurista vi sottolinea. Per chiarire le cose, partiamo da un esempio, che costruisco modificando leggermente quello già incontrato in Ulp. D,12,7,2 del fullo e dei vestiti smarriti, supponendo ora che sia stato il dominus (D) stesso ad andare a ritirare gli abiti lavati, e che il fullo (F), non trovandoli e non potendoli restituire, gli abbia seduta stante promesso con una stipulatio – e non dato – 100 HS a titolo di risarcimento; quando, in seguito, D ritrova gli abiti a casa sua, perché qualcuno li aveva già ritirati per lui prima che egli andasse a richiederli, la stipulatio da lui conclusa col promissor F appare essere, ed essere stata fin dalla sua conclusione, priva di causa. Ma, siccome l’assenza di causa non tocca la validità della stipulatio, che è un negozio astratto, F, constatato che gli abiti sono pervenuti a D, non paga. A questo punto D potrà agire contro di lui con una condictio certae pecuniae per i 100 HS, ma da quest’azione F potrà uscire assolto valendosi del rimedio pretorio dell’eccezione di dolo 376. Questa tutela pretoria – la quale implica che F non paghi nella speranza che D non gli chieda, e se questi agisca contro di lui egli si valga dell’eccezione – era certo la sola difesa a disposizione di un soggetto che si trovasse nella situazione del nostro F finché, come ci spiega Ulpiano, la giurisprudenza non giunse a mettere a disposizione del promissor di una stipulatio sine causa un rimedio civile, più semplice ed immediato ed evidentemente più economico. A tale rimedio si poteva giungere solo con un ragionamento che considerasse i valori economici implicati nella struttura giuridica della stipulatio: la stipulatio è bensì un atto ad effetto obbligatorio, e quindi non procura allo stipulator la proprietà di qualcosa, ma unicamente il credito che permetterà poi di pretendere tale proprietà; ma il credito è pur sempre un diritto ed un’entità con un valore economico; adottando questo punto di vista, il creditore da stipulatio può esser considerato arricchito e, date le circostanze del nostro caso, arricchito senza causa: di conseguenza a F spetterà la condictio contro D. La difficoltà che si presenta a questo punto è sottolineata da Ulpiano: nel patrimonio di D, a seguito della stipulatio, non c’è la quantitas, cioè il denaro o il suo valore, perché un pagamento non ha avuto luogo; di ciò si prende atto, ma solo per concluderne che, non essendoci il denaro ma il credito, la condictio si farà per la restituzione del credito (condicere ipsam obligationem = esercitare la condictio del rapporto obbligatorio), il che significa che il debitore agirà per la remissione del proprio debito. Ciò comportava evidentemente anche di costruire una condictio con formula appropriata a questa funzione. Ma su questo punto non possiamo che esercitare l’ars ignorandi: lo stesso Lenel 377 non è riuscito, anche se ci ha provato, a ricostruire la formula, e tutto quanto di certo ha potuto stabilire è che questa condictio liberationis o, come talvolta è denominata nelle fonti 378, condictio incerti non era presente nell’editto pretorio. Non ci è neppure possibile stabilire se la somma di denaro alla quale il creditore veniva condannato se rifiutasse la remissione fosse pari all’entità del credito ovvero potesse essere diversa, come la denominazione di condictio incerti potrebbe suggerire 379.
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Vedi Gai.4,116a; Ulp. D.44,3,2,3 (Corso II,1, 32 ss.); (I.4,13,1-2). EP, 156 ss. 378 Ovvero a tale nozione ricondotta come ad un tipo di azione con carattere generale. Sul problema della condictio incerti e la sua appartenenza al diritto classico: KASER, RPR I2, 599 s.; RPR II2, 424; KASER/HACKL, RZP, 312 n. 8a. 379 La condictio liberationis è denominata condictio incerti in Iul. D.12,7,3. 377
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Ma torniamo ora ai problemi esegetici di D.12,7,1. Nel principium Ulpiano aveva presentato il regime, che abbiamo or ora descritto, dell’arricchimento proveniente da stipulatio sine causa e della relativa condictio liberationis; nel § 1 egli afferma che lo stesso regime si applica in caso di stipulatio ob rem, re non secuta 380; nel § 2 si riassume il tutto dicendosi: “Tanto se si sia promesso senza causa fin dall’inizio, quanto se vi fosse una causa della promessa che poi è venuta meno o non si è realizzata, deve dirsi che la condictio avrà luogo”. Il discorso sull’arricchimento da stipulatio sembrerebbe con ciò esaurito: del resto, quanto detto in Ulp. D.12,7,1 fino a questo punto (pr.-2) corrisponde alla casistica trattata, con riferimento all’exceptio doli, nel citato Ulp. D.44,4,2,3 381. Invece, in D.12,7,1, dopo la frase, che abbiamo detto apparire conclusiva, del § 2, si legge ancora un § 3, di tenore – lo abbiamo letto sopra – inatteso: “Risulta precisamente che quel che può pretendersi da qualcuno con la condictio è quel che gli è pervenuto (quod … ad eum pervenit) in assenza di una giusta causa, o è riconducibile ad una causa ingiusta”. Una seconda frase conclusiva, ma che opera un salto logico sotto due profili: a) il primo consiste in ciò, che la frase non è più scritta con riferimento al solo arricchimento da stipulatio, bensì in termini generali per ogni ipotesi di arricchimento da attribuzione sine causa o da attribuzione ob rem causa non secuta o causa finita: anzi, a voler sottilizzare, il riferimento a quod … ad eum pervenit parrebbe persino più adatto ad indicare l’arricchimento consistente in un acquisto di proprietà che non quello consistente nell’acquisto di un credito; b) il secondo profilo sta nel fatto che in questo § 3 Ulpiano effettua un’operazione dommatica che, se presa realmente come tale, risulta del tutto scorretta: egli riconduce infatti la sostanza delle attribuzioni patrimoniali ob rem causa non secuta e causa finita a quella dell’attribuzione sine causa, assimilazione invero assurda, perché per definizione le attribuzioni ob rem sono munite di causa al contrario dell’attribuzione sine causa. Perciò, quanto detto or ora sub a) non ci permette certo di concluderne che il § 3 sia frutto di interpolazione, perché se la frase fosse stata scritta dai compilatori non si vede perché essi non avrebbero continuato a riferirsi all’arricchimento da stipulatio; si potrebbe pensare ad un glossema, ma non siamo abituati a riconoscer glossemi in proposizioni scritte in modo così raffinato; è più facile pensare che i compilatori abbiano trascritto a questo punto una frase che si trovava in qualche altro luogo nell’opera di Ulpiano, magari altrove negli stessi libri ad Sabinum, o nei libri ad edictum 382. Comunque sia di ciò, se dobbiamo attribuire ad Ulpiano l’affermazione che ‘Constat id demum posse condici alicui, quod vel non ex iusta causa ad eum pervenit, vel redit ad non iustam causam’ avremmo la prova che già al tempo di questo giurista aveva incominciato a far capolino l’atteggiamento che considera l’attribuzione patrimoniale senza causa come il parametro principale dell’idea dell’arricchimento ingiustificato 383.
380 Come esempio possiamo adottare il seguente: P, mediante stipulatio, ha promesso 100 HS a S sulla base di un accordo (al quale non si fa espresso riferimento nei verba stipulationis) secondo il quale S si sarebbe recato a Capua entro una certa data (e poi S a Capua non ci è andato). 381 Dove poi, nel § 4, si passa ad altra tematica. Ricordo ancora che il passo è riportato nel vol. II,1 alla p. 32. 382 Può darsi, e sembra anzi probabile, che la cosa dipenda dal rimaneggiamento che i compilatori hanno operato del passo di Ulpiano. Se questi, infatti, nel luogo escerpito parlava delle attribuzioni sine causa, egli doveva parlare anche di quelle provenienti da mancipatio (e in iure cessio; e magari anche di quelle provenienti da remissione di un debito: vedi Iav. D.12,4,10; Ulp. D.12,4,4); se i compilatori hanno soppresso tutto ciò, riducendo il tractatus all’ipotesi dell’arricchimento da stipulatio, la frase che ora ci interessa può rappresentare un residuo di quanto essi hanno tolto. 383 Spunti, alquanto precedenti, in questo senso possono essere scorti in Iav. D.12,4,10 cit.
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Come si vede, e ci se n’accorge ancor di più ove si legga interamente questo breve tit. D.12,7, sotto la rubrica de condictione sine causa, i compilatori del Digesto avevano solo più ipotesi alquanto particolari da inserire: ma essi sembrano avergli comunque attribuito un ruolo importante, proprio per il fascino che l’idea dell’arricchimento “senza causa” veniva – per altro abusivamente – assumendo come parametro dell’arricchimento ingiustificato 384. Le ipotesi di arricchimento ingiustificato delle quali abbiamo parlato finora – cioè quelle dipendenti da pagamento d’indebito, da attribuzioni patrimoniali ob rem se si trattasse di una res turpis o se l’evento in funzione del quale sono state effettuate non si sia poi verificato (causa non secuta) ovvero lo scopo che le motivava abbia cessato di esistere (causa finita), nonché le attribuzioni sfornite di causa – si presentavano, nel diritto classico, come un sistema organico. Esso era interamente sanzionato mediante condictio, la cui applicazione in materia di arricchimento riguardava obbligazioni sorte re, quando la res provenisse da un soggetto X e fosse, per effetto di un negozio concluso dallo stesso X con una altro soggetto Y, pervenuta nel patrimonio di costui costituendovi un arricchimento che doveva considerarsi ingiustificato, nel senso di ingiusto, rispetto ad X. Si sarà notato che, definendo il sistema come ho fatto or ora, se ne desume che la condictio, come azione appropriata a pretendere la restituzione dell’entità arricchente, risulta esperibile solo se l’arricchimento provenga da un negozio intervenuto fra arricchente e arricchito. Questa esigenza del negotium contractum costituiva in effetti un elemento essenziale della fattispecie dell’arricchimento ingiustificato; possiamo leggere, in proposito, un testo di Giuliano : D.12,6,33 (Iul. 39 dig.): Si in area tua aedificassem et tu aedes possideres, condictio locum non habebit, quia nullum negotium inter nos contraheretur: nam
(dove una acceptilatio evidentemente causa finita è qualificata sine causa) e in Afr. D.12,7,4. Una diversa valutazione esigono i testi seguenti, nei quali appare detto che, a seguito di un’attribuzione ob rem, una volta che la causa non sia seguita o sia venuta meno, la cosa appare ormai presente sine causa presso l’accipiens: può in effetti trattarsi giusto della valutazione che ha permesso l’assimilazione che abbiamo visto in Ulp. D.12,7,1,3: Ulp. in Ulp. Iul. D.19,1,11,6 (dove per un anulus dato arrae nomine e non restituito dopo la conclusione ed esecuzione della vendita si pone il problema se esso condicatur, quasi ob causam datus sit et causa finita sit, per poi rispondere che condici poterit, quia iam [= ormai] sine causa apud venditorem est anulus); Afr. D.23,3,50 pr. (dove si descrive un’ipotesi di causa finita dicendo quasi sine causa penes maritum esse coeperit, condicatur); Iul. D.37,6,3,5 (analogamente, dicendosi omissa enim bonorum possessione, incipit pecunia sine causa esse apud heredem). Questi stessi testi sono citati anche dal KUPISCH, 24 n. 35 (con lett.) e quello di Giavoleno 28 n. 40, anche se la sua valutazione dell’espandersi, in epoca classica, del richiamo alla nozione di sine causa è un poco diversa da quella da me proposta. 384 Come si sa, anche nel CCit[1942] tutti i casi di arricchimento sanzionato con l’azione generale di arricchimento (e cioè l’actio de in rem verso), vale a dire tutti i casi, salvo quello del pagamento d’indebito (art. 2033-2040), sono presentati come casi di arricchimento senza causa (art. 2041-2042).
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is, qui non debitam pecuniam solverit, hoc ipso aliquid negotii gerit; cum autem aedificium in area sua ab alio positum dominus occupat, nullum negotium contrahit. sed et si is, qui in aliena area aedificasset, ipse possessionem tradidisset, condictionem non habebit, quia nihil accipientis faceret, sed suam rem dominus habere incipiat. et ideo constat, si quis, cum existimaret se heredem esse, insulam hereditariam fulsisset, nullo alio modo quam per retentionem impensas servare posse. “Se io abbia costruito su di un terreno di tua proprietà e tu abbia preso possesso dell’edificio, non ci sarà condictio, perché tra noi non sarebbe stato concluso 385 alcun negozio: infatti, colui che paga denaro non dovuto, con ciò stesso (= effettuando il pagamento) gestisce un certo negozio, mentre quando il proprietario occupa un edificio collocato da altri nel suo terreno, non conclude negozio alcuno. Ma, anche se colui che ha costruito sul terreno altrui abbia lui stesso effettuato la traditio del possesso (al proprietario del terreno), non avrà la condictio, perché non avrebbe (con ciò) trasferito nulla in proprietà dell’accipiens, ma semplicemente il proprietario acquisterebbe il possesso di una cosa (già) sua. Per questa ragione è pacifico 386 che se uno, credendosi erede, abbia puntellato un palazzo facente parte dei beni ereditari, non potrà recuperare le spese sostenute in altro modo che mediante la ritenzione (del possesso del palazzo in questione).” Dal testo non si ricava solo che l’esercizio della condictio per recuperare l’arricchimento è possibile unicamente se fra l’arricchente e l’arricchito sia intercorso un negozio, ma ancor più precisamente che l’arricchimento deve trovare la sua base nel negozio stesso; ciò è chiarito nella seconda delle ipotesi considerate, dove non ha avuto luogo solo la costruzione sul suolo altrui – che certo non è un negozio – e non ha avuto luogo l’autonoma presa di possesso dell’edificio da parte del proprietario del terreno – che pure non va considerata un negozio, e comunque non sarebbe un negozio concluso fra le parti –, ma c’è stata una traditio (trasferimento consensuale del possesso) – la quale è certo, invece, un negozio intervenuto tra le parti –, ma il proprietario del terreno ha acquistato la proprietà dell’edificio per accessione 387 con la costruzione che ne è stata fatta sul suo suolo, e quindi al momento di quella traditio l’edificio era già suo. Il caso finale esposto in D.12,6,33, se lo consideriamo attentamente, ci offre lo spunto per osservare un settore particolare della problematica romana dell’arricchimento ingiustificato. 385 Traduco, qui come più avanti, negotium contrahere con “concludere un negozio”, ma il verbo latino contrahere contiene precisamente l’idea del “concludere (un negozio) con l’altro”. 386 Con il ‘constat’ Giuliano richiama una soluzione casistica incontroversa. 387 Sull’accessione vedi vol. I, p. 272 ss.
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Ripresento qui i fatti esposti da Giuliano, che abbiamo conosciuto leggendo il testo, arricchendoli di qualche dettaglio per renderli più evidenti. Un soggetto, che possiamo chiamare Lucio Tizio, era proprietario del fondo corneliano, sicché, essendo egli defunto, tale fondo fa parte dei beni della sua eredità. Un altro soggetto, che indicheremo come P, era l’unico fratello di Lucio Tizio, e siccome questi non aveva discendenti e P riteneva che fosse morto intestato, era anche convinto di esserne l’unico erede legittimo. Perciò P prende possesso dei beni ereditari di Lucio Tizio, realizzando in questo modo anche l’accettazione dell’eredità mediante pro herede gestio. Entrato in possesso dei beni, subito P si accorge che l’edificio che si trova nel fondo corneliano mostra segni evidenti di decrepitezza tanto da essere pericolante; perciò provvede immediatamente a farlo puntellare da un’impresa edile. In realtà Lucio Tizio non era morto intestato: aveva fatto testamento, e vi aveva istituito come unico erede un amico, che denominiamo A, il quale si manifesta e accetta con l’atto formale della cretio l’eredità. La situazione a questo punto è la seguente: A è divenuto erede di Lucio Tizio e quindi anche proprietario del fondo corneliano; P, che non era affatto chiamato all’eredità in quanto la delazione testamentaria prevale su quella legittima, non ha invece acquistato nulla: egli è solo – almeno per quanto ci interessa – possessore di buona fede del fondo corneliano. P prende atto della situazione e non contesta nulla: solo che, quando A viene da lui a chiedergli la restituzione del fondo corneliano, P gli fa presente la propria esigenza di essere rimborsato delle spese sostenute per provvedere alla conservazione dell’edificio sito nel fondo corneliano: facendolo puntellare a proprie spese egli ha sopportato un sacrificio economico che non gli giova per nulla, mentre invece giova certo ad A, che all’intervento di sostegno dei muri avrebbe comunque dovuto provvedere e magari, senza il tempestivo intervento di P, l’edificio in questione sarebbe persino, almeno in parte, crollato. Siamo certo in presenza di un arricchimento di A, da valutarsi nell’ammontare delle spese sostenute da P nella bisogna. Ma A non intende pagare nulla. A questo proposito, Giuliano ci dice che P non ha a disposizione la condictio contro A perché, anche se quello risulta arricchito a sue spese, alla base di tale arricchimento non esiste alcun negozio intervenuto fra i due. Però, siccome per sua fortuna P non ha ancora dismesso il possesso del fondo corneliano e questo possesso è di buona fede avendolo P acquistato nella convinzione di non ledere diritti altrui, un rimedio esiste a sua disposizione, e precisamente il seguente: che P non abbandoni il possesso del fondo ed attenda che A eserciti contro di lui la rei vindicatio; chiamato in giudizio da A a questo titolo, nell’udienza in iure davanti al pretore, dopo che A ha formulato al magistrato la sua richiesta di rivendica, P sollevi l’eccezione di dolo: egli non contesta che il fondo appartenga ad A, ma contesta che questi agisce in mala fede pretendendo di recuperarne il possesso senza rimborsare a P le spese sostenute per puntellare l’edificio. A questo punto, se A insista nel chiedere l’azione senza pagare le spese in questione a P – o anche, semplicemente, se A voglia contestare l’ammontare delle spese richiestegli, o magari anche le parti siano semplicemente d’accordo nel senso che tale ammontare sia determinato dal giudice – il pretore accorderà bensì ad A la rei vindicatio, ma inserendo nella formula l’exceptio doli, per effetto della quale il giudice ordinerà poi a P di restituire il fondo ad A solo se A gli abbia pagato le spese nella misura da lui stesso giudice stabilita, o abbia prestato idonea garanzia del pagamento futuro 388.
388 Questa soluzione, che suppone il possessore che ha aumentato a sue spese il valore della cosa fosse possessore di buona fede e che Papiniano (D.6,1,48) motivava aequitatis ratione, è nota anche da altre fonti: Paul. Proc. D.6,1,27,5 + Gai. eod. 28 + Pomp. eod. 29 + Gai. eod. 30; Pap.
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Si tratta certo di un caso di arricchimento ingiustificato, anche se esso si presenta con connotati particolari; ma questi connotati particolari dipendono giusto dal fatto che, se il depauperamento del possessore di buona fede del fondo (il soggetto che nell’esame effettuato qui sopra avevamo chiamato P) dipende da un suo esborso – le spese sostenute per puntellare l’edificio pericolante – l’arricchimento del proprietario del fondo stesso non dipende in modo diretto dall’attribuzione del denaro pagato da A; insomma, non solo l’arricchimento di A non dipende da un suo negozio concluso con P, ma tra A e P non è intercorso negozio alcuno. Per questo la protezione di P nei confronti di A non può trovarsi negli strumenti di sanzione dell’arricchimento ingiustificato: la soluzione di Giuliano si vale dell’impiego dell’eccezione di dolo e viene così ottenuta trasferendo il problema nell’ambito della nozione dell’abuso di diritto 389. Tuttavia, se a questo punto passiamo ad analizzare la soluzione così impostata, scorgiamo subito che la ragione, per la quale il proprietario che rivendica un proprio fondo il cui valore è aumentato a spese del possessore di buona fede deve essere considerato in dolo e così costretto a restituire al possessore le spese fatte, risiede pur sempre nel fatto che l’aumento di valore del fondo costituisce un suo arricchimento ingiustificato. Ora, non è questo il solo caso nel quale l’idea dell’arricchimento fonda soluzioni non raggiunte impostando i problemi in termini di restituzione dell’arricchimento, ma inserendo l’idea dell’arricchimento in una problematica posta diversamente. L’impiego stesso dell’exceptio doli era frequentemente suggerito da considerazioni d’arricchimento, e talora rappresentava un autentico pendant della condictio. Si pensi al caso, che si trova nel citato Paul. D.44,4,2,3 390, dove colui che è creditore in forza di una stipulatio sine causa o causa non secuta, prima di subire la condictio liberationis del suo promissor eserciti contro di lui la condictio per la somma promessagli. Possiamo aggiungere la prima ipotesi considerata da Pomponio in D.46,3,66: il pupillo P deve del denaro al creditore C, e delega al pagamento il proprio debitore D, ma la delegazione è fatta senza l’auctoritas del tutore, cosicché, quando D paga a C il dovuto, P risulta liberato nei confronti di C, ma D resta obbligato nei confronti di P: ma se P esperisca la sua azione contro D, questi gli potrà opporre l’eccezione di dolo 391. In quest’ultimo caso è anche chiaro che l’arricchimento di P, sul quale si fonda la concessione a D dell’eccezione di dolo contro di lui, non deriva affatto da un negozio intervenuto fra il
D.6,1,65 pr.; Paul. D.19,1,45,1; Paul. D.44,4,14. Vedi in proposito, brevemente, CANNATA, Bona fides e strutture processuali, in GAROFALO (ed.), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea (Atti del convegno in onore di A. Burdese [2001]) I, Padova 2003, 2264 ss. (= Scritti III, 186 ss.). 389 Vol. II,1 p.21 ss. 390 Il testo è riportato nel vol. II,1, p. 32. 391 Cfr. Gai.2,84.
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pupillo arricchito e il suo debitore che, senza l’exceptio doli, ne farebbe le spese: fra di loro è intercorsa solo la delegazione, ma questa era nulla per l’assenza dell’auctoritas tutoris.
Se passiamo a considerare qualche esempio al di fuori del campo d’applicazione dell’exceptio doli, questo meccanismo dell’arricchimento che viene in considerazione al di fuori del campo d’applicazione della condictio impiegata come azione di restituzione assume un profilo più definito. Possiamo incominciare considerando il secondo caso esposto in Pomp. D.46,3,66, che rappresenta una variante del primo, che abbiamo già visto. Il pupillo P, che senza l’auctoritas tutoris effettua una delegazione di pagamento del debito che ha verso C, delega un soggetto T che non è suo debitore: benché il testo non lo precisi espressamente, si deve ritenere che T si creda debitore di P e anche P lo ritenga tale. Ora, una volta che T abbia pagato, si trova sfornito di azione; contro il pupillo egli non può agire con l’actio mandati che, come delegatario che ha eseguito, egli avrebbe contro il delegante P; il testo non ne parla neppure perché non può esservi mandato di un pupillo senza l’auctoritas tutoria, ma lo stesso difetto dell’auctoritas, secondo Pomponio 392, impedisce anche la condictio indebiti che T avrebbe contro P; ed anche la condictio indebiti contro C gli è preclusa, perché T non ha pagato a C un indebito, ma il debito di P; il problema è insolubile sul terreno del diritto civile, e viene risolto mediante un’azione pretoria, che Pomponio qualifica utilis, ma sembrerebbe solo per dire che sarà un’azione che può avere buon fine, perché tecnicamente non vedo come si possa pensare se non ad un’azione in factum: quel che in ogni modo ci interessa è la motivazione che il giurista ne dà: D.46,3,66 (Pomp. 6 ex Plautio): … si autem debitor pupilli non fuerat, nec pupillo condicere potest, qui sine tutoris auctoritate non obligatur, nec creditori, cum quo alterius iussu contraxit: sed pupillus in quantum locupletior factus est, utpote debito liberatus, utili actione tenebitur. L’azione pretoria, che dunque non è una condictio, concessa a T contro P è espressamente presentata come fondata nell’arricchimento di P consistente nella sua liberazione da un debito: ed è concessa a T perché di tale arricchimento ha fatto le spese, senza che sia reperibile alcun negotium valido intervenuto fra i due.
Se proseguiamo nella ricerca di casi di questo genere, troviamo ancora, ad esempio, Pap. D.17,2,82, il cui dettato fu letteralmente inserito nel vecchio testo dell’art. 1864 del Code civil 393 : ‘Iure societatis per socium aere alieno socius
392 Il quale evidentemente era fra i quidam che professavano l’opinione contraria a quella professata da Gai.3,91. 393 Con una piccola aggiunta (que ceux-ci … pouvoir, ou) perché la norma unisce due diverse regole. Il vecchio testo dell’art. 1864 CCfr recitava : «La stipulation que l’obligation est contractée pour la compte de la société ne lie que l’associé contractant et non les autres, à moins que ceux-ci ne lui aient donné pouvoir, ou que la chose n’ait tourné au profit de la société».
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non obligatur, nisi in communem arcam pecuniae versae sunt.’, nonché la soluzione di: D.12,1,27 (Ulp. 10 ad ed.): Civitas mutui datione obligari potest, si ad utilitatem eius pecuniae versae sunt: alioquin ipsi soli qui contraxerunt, non civitas, tenebuntur. “Una città può essere obbligata per effetto di un mutuo, se il denaro è stato messo a suo profitto; altrimenti saranno tenuti solo quelli che hanno concluso il contratto, e non la città.” Una città (civitas) è persona giuridica di diritto pubblico, ed agisce in materia di diritto privato nella persona dei suoi organi ovvero per mezzo di rappresentanti o gestori di affari: Ulpiano chiarisce che, chiunque abbia ricevuto denaro a mutuo per conto della città, risulta personalmente obbligato alla restituzione; l’azione sarà esperibile direttamente contro la città – cioè la città come persona giuridica risulterà obbligata alla restituzione – soltanto se il denaro mutuato sia stato “versato a suo profitto”, vale a dire se, ed evidentemente anche nella misura in cui, essa sia stata arricchita per effetto di quella prestazione. Come si vede, l’eventuale azione del mutuante contro la città, anche se sarà pur sempre in questo caso una condictio, non sarà un’azione per la restituzione dell’arricchimento; si tratta sempre della condictio spettante al mutuante in forza del mutuo e quindi viene esercitata a questo titolo: l’arricchimento viene in considerazione solo per giustificare la legittimazione passiva dell’azione da mutuo contro una persona diversa dal mutuatario. E il caso precedente (Pap. D.17,2,82) si spiega allo stesso modo: sarà sempre la specifica azione contrattuale in questione a poter essere esperita anche contro un socio non gestore in caso di arricchimento comune dei soci dipendente dal versamento nella cassa sociale 394. Il concetto che sta alla base di queste soluzioni casistiche, e che nei due ultimi testi esaminati viene esplicitamente materializzato con l’impiego del verbo vertere, era ben noto al linguaggio giuridico romano, perché compariva nella formula dell’actio de peculio, e vi compariva nella compiuta locuzione di ‘vertere in rem’ 395. Con la denominazione di “peculio” (peculium) i Romani facevano allusione ad un insieme di beni 396 che un pater familias metteva a disposizione di un proprio schia-
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Mi esprimo così, perché nel diritto romano la società veniva normalmente in considerazione unicamente come contratto fra i soci, e la società come tale non aveva personalità giuridica. Vedi, per ora, brevemente vol. I p. 82. 395 Gai.4,74 (de peculio et de in rem verso agitur); I.4,7,4b (an in rem domini versum sit). 396 In Ulp. D.15,1,5,3 si propone l’etimologia (in sostanza corretta: vedi ERNOUT-MEILLET, s. v.) di peculium da pusilla pecunia, cioè “piccolo quantità di beni apprezzabili in denaro”. Si deve però sapere che a Roma esistevano schiavi con peculio notevolmente copioso, talora anche deci-
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vo 397, permettendogli di tenerne una propria contabilità, separata dalle ‘rationes dominicae’, cioè dalla contabilità dei beni familiari propri del pater familias stesso 398. I beni peculiari – anche quelli acquistati dallo schiavo nella gestione del proprio peculio, e che quindi venivano a farne parte – naturalmente restavano in proprietà del pater familias che era dominus dello schiavo 399, ma la concessione da lui fatta implicava la sua autorizzazione a che lo schiavo ne disponesse a suo grado 400. Il calcolo dell’ammontare del peculio in un certo momento si faceva calcolando l’entità presente della sua consistenza (cose peculiari + crediti peculiari), nonché aggiungendovi i crediti e sottraendo i debiti che lo schiavo avesse nei confronti del suo dominus 401: i debiti e crediti fra il dominus e il suo schiavo non avevano esistenza giuridica in se stessi, ma solo venivano in considerazione, di fatto, a questo fine del calcolo – quando risultasse la necessità di farlo – dell’ammontare del peculio. Non potevano esistere debiti peculiari verso terzi, perché uno schiavo, non avendo capacità giuridica, non può obbligarsi, e, se acquistando diritti li acquista bensì al suo dominus, non gli acquista i debiti 402: di conseguenza, dagli affari conclusi dallo schiavo nella gestione del peculio non possono, sul terreno del diritto civile, nascere debiti dello schiavo stesso, né del suo dominus: se lo schiavo compisse con un terzo una stipulatio come stipulator, acquistava il credito al suo dominus, se la compisse come promissor, nessuna obbligazione ne sarebbe sorta; se lo schiavo concludesse una compravendita come compratore, avrebbe acquistato al suo dominus la proprietà della merce che il venditore, eseguendo la vendita, gli avesse trasferito con mancipatio o con traditio, ma il debito di pagare il prezzo non sorgeva in capo ad alcuno. Se il pretore non fosse intervenuto a sanare questa situazione, la concessione del peculio avrebbe perso pressoché tutto il suo senso, perché nessuno avrebbe negoziato con schiavi muniti di peculio se non per piccoli affari che potevano concludersi a contanti. Per questo il pretore intervenne 403, creando un’apposita azione, l’actio de peculio appunto, la cui formula si presentava come la seguente;
samente ricco, come testimonia l’esistenza di servi vicarii, vale a dire schiavi di schiavi, cioè – almeno di solito – di schiavi facenti parte del peculio di un altro schiavo. Su questa situazione vedi REDUZZI MEROLA, Servo parere, Napoli 1990. 397 O anche di un proprio filius o altra persona sottoposta alla sua potestà; ma il caso del peculio degli schiavi, del quale solo parleremo, resta il più importante. Il regime era, comunque, in linea di massima il medesimo. 398 Ulp. Tub. Cels. D.15,1,5,4. 399 Conseguenza evidente di ciò è che il dominus può in ogni momento e a sua intera discrezione revocare la concessione del peculio (adimere peculium: Marcian. D.15,1,40,1; Paul. D.15,1,45), avocandone a se stesso i beni. 400 Essenzialmente con due limiti: per alienare le cose peculiari (diverse dal denaro e, si deve ritenere, di un certo valore) lo schiavo doveva avere ottenuto dal dominus, oltre la concessione del peculio, una specifica, generale, libera administratio peculii (Ulp. D.15,1,7,1 in fine; Paul. D.15,1,46; Paul. D.15,1,48); neppure la libera administratio permetteva però allo schiavo di effettuare atti di liberalità a favore di terzi. Si vedano ad esempio Ulp. D.6,1,41,1; Gai. Iul. D.2,14,28,2. 401 Vedi Gai.4,73; I.4,7,4c. Ma vedi oltre ancora, ad esempio, Pomp. D.15,1,49 e tutta la sequenza Ulp. D.15,1,9-17. 402 Vol. I, p. 79 s. 403 LENEL, EP, 273 ss.
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l’esempio 404 è redatto ipotizzando che la controversia riguardasse un caso nel quale l’attore Aulo Agerio (che poi abbrevierò, come al solito, in AA) abbia concluso con Stico, schiavo del convenuto Numerio Negidio (poi NN), un contratto di deposito, e che l’azione esercitata sia l’actio depositi con formula di buona fede 405: Quod Aulus Agerius apud Stichum, qui in Numerii Negidii potestate est, mensam argenteam deposuit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Stichum, si liber esset ex iure Quiritium, Aulo Agerio dare facere oporteret ex fide bona, eius iudex Numerium Negidium Aulo Agerio dumtaxat de peculio et si quid dolo malo Numerii Negidii factum est, quo minus peculii esset, vel si quid in rem Numerii Negidii inde versum sit, condemnato, si non paret absolvito. “Quanto al fatto che AA ha depositato presso Stico, che si trova in potestà di NN, un vassoio d’argento, affare di cui si tratta, (stabilito) tutto quanto a cagione di tale affare Stico, se fosse libero secondo il diritto dei Quiriti 406, dovrebbe dare e fare secondo buona fede a favore di AA, a ciò (= ad una somma di denaro equivalente) il giudice condanni NN a favore di AA, nei limiti dell’ammontare del peculio e se alcunché è stato fatto per dolo di NN affinché l’entità del peculio fosse minore, o se alcunché in conseguenza di tale affare sia pervenuto nel patrimonio di NN, altrimenti lo assolva.” Come si vede, questa actio de peculio era un’azione pretoria, precisamente di un’actio utilis, costruita secondo il meccanismo che i romanisti usano impropriamente chiamare “trasposizione di soggetti” 407 e munita di una fictio 408. L’editto pretorio prevedeva per l’azione un’unica formula, tanto per la pretesa basata sul peculio (de peculio) quanto per quella basata sull’arricchimento (si quid in rem … versum sit) 409: ma, leggendo Gai.4,72a, parrebbe potersene dedurre che, nella causae cognitio che precedeva la concessione dell’azione, il pretore potesse comporre la formula facendo unicamente allusione al peculio, se la menzione dell’arricchimento risultasse superflua. Conviene che leggiamo l’intero passo gaiano, come risulta integrato secondo P.Oxy. 2103:
404 Presento la formula come ricostruita dal LENEL, EP, 282. Altrettanto accettabile è la leggermente diversa ricostruzione del MANTOVANI, Le formule del processo privato romano2, Padova 1999, 81 s. (formula numero 99). Il Lenel non conosceva P.Oxy. 213 (edito nel 1927), che contiene tutto il brano da Gai.4,68 (seconda parte) a Gai.4,72a, e quindi in particolare la seconda metà del § 72 e tutto quanto ora possiamo conoscere del § 72a, illeggibili nel manoscritto veronese, anche se il loro contenuto poteva essere ricostruito sulla base di I.4,7,3,4-4b. 405 Gai.4,47. Vedi vol. I, p. 135 s. 406 Questa clausola (si liber esset ex iure Quiritium), che introduce una fictio di libertà dello schiavo, ha il senso seguente: siccome l’azione è costruita in modo da addossare a NN le conseguenze dell’inadempimento di un’obbligazione del suo schiavo, è necessario supporre che lo schiavo, negoziando con AA si sia obbligato, e cioè si sia obbligato come si sarebbe obbligata una persona libera comportandosi come egli si è comportato. Sulla fictio in generale vedi vol. I, p. 146 s. Abbiamo incontrato un altro esempio di fictio nel vol. I, p. 539 ss. 407 Che qui consiste nel fatto che, mentre l’intentio menziona lo schiavo come parte passiva del rapporto dedotto in giudizio (cioè lo menziona nel luogo della formula dove normalmente è indicato il convenuto), la condemnatio è poi formulata a carico di un soggetto diverso. Vedi, per il tenore in proposito del testo edittale, LENEL, EP, 275 ss. 408 Come già si è detto alla n. 406. 409 Gai.4,74: … eadem formula et de peculio et de in rem verso agitur.
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Gai.4,72a: Est etiam de peculio et de in rem verso actio a praetore constituta. licet enim negotium ita gestum sit cum filio servove, ut neque voluntas neque consensus patris dominive intervenerit, si quid tamen ex ea re, quae cum illis gesta est, in rem patris dominive versum sit, quatenus in rem eius versum fuerit, eatenus datur actio. [versum autem quid sit eget plaena interpretatione.] at si nihil sit versum, praetor dat actionem ‘dumtaxat de peculio’: et edictum utitur his verbis, quod edictum loquitur et de eo, qui dolo malo peculium ademerit. si igitur verbi gratia ex HS X quae servus tuus a me mutua accepit, creditori tuo HS V solverit aut rem necessariam, puta familiae cibaria HS V emerit et reliqua V quolibet modo consumpserit, pro V quidem in solidum damnari debes, pro ceteris vero V eatenus, quatenus in peculio sit. ex quo scilicet apparet si tota HS X in rem tuam versa fuerint, tota me HS X consequi posse. Traduzione: “Dal pretore è stata anche 410 introdotta un’azione de peculio et de in rem verso (= con riguardo al peculio ed all’arricchimento). Anche se, infatti, un affare sia stato gestito con un filius o uno schiavo senza che fosse intervenuta la volontà del pater o dominus né il suo assenso 411, tuttavia, se dall’affare gestito con costoro qualcosa sia pervenuto (versum sit) nel patrimonio del pater o dominus, un’azione è accordata nei limiti di quanto sia pervenuto. [ 412] Ma se nulla sia pervenuto, il pretore dà l’azione «nei limiti del peculio»: anche l’editto impiega queste parole, il quale editto parla anche di colui che abbia fatto con dolo un’ademptio peculii 413. Se dunque, per esempio, il tuo schiavo, di 10 HS che ha ricevuto a mutuo da me, ne abbia pagati 5 ad un tuo creditore ovvero ne abbia comperato cose necessarie, come 5 HS di alimenti per gli schiavi della casa e i restanti 5 li abbia spesi in non importa che modo, tu devi essere condannato interamente per i 5 HS, per i restanti 5 invece nei limiti dell’ammontare del peculio. Dal che risulta evidente che se tutti i 10 HS siano pervenuti nel tuo patrimonio, io potrò ottenere tutti i 10 HS.” In corrispondenza di questo punto finisce quanto leggibile in P. Oxy. 2103, ma certo Gaio aveva scritto altro prima di quello che si può ora leggere in Gai.4,73. Credo
410 Gaio sta trattando – così egli dice all’inizio del discorso che parte da Gai.4,69 – delle azioni reipersecutorie concesse per realizzare una rispondenza del pater o dominus in ordine ai negozi compiuti da filii familias o schiavi. In realtà, egli non si occupa solo delle azioni che corrisponderebbero a questa nozione e che erano raccolte sotto la rubrica edittale ‘quod cum eo, qui in aliena potestate est, negotium gestum esse dicetur’ (LENEL, EP, 273 ss.: si tratta delle azioni de peculio et de in rem verso e quod iussu), ma anche delle altre azioni previste prima di queste nello stesso titolo edittale (XVIII nella ricostruzione del Lenel), le quali avevano formula in qualche modo analoga, ma potevano essere esperite contro un paterfamilias anche per atti compiuti da un estraneo (actio exercitoria, institoria e tributoria: LENEL, EP, 257 ss.). Si tratta dunque dell’insieme delle azioni che i romanisti usano denominare – in modo un po’ cervellotico – actiones adiecticiae qualitatis. L’etiam (“anche”) del testo inserisce l’actio de peculio et de in rem verso nell’insieme, precisamente all’ultimo posto, dell’enumerazione fatta da Gaio. 411 Con l’allusione alla volontà (voluntate) dell’avente potestà Gaio si riferisce all’actio quod iussu (Gai.4,70), con l’allusione all’assenso (consensus) alle azioni exercitoria e institoria (Gai.4,71), nonché all’actio tributoria (Gai.4,72). 412 La frase tra parentesi quadre, che ometto di tradurre, è un glossema evidente. 413 Con ciò Gaio fa allusione alla sequenza di parole che sopra abbiamo letto nella formula (‘dumtaxat de peculio et si quid dolo malo Numerii Negidii factum est, quo minus peculii esset’) con le quali vi si indica, come limite per la possibile condanna del convenuto, l’ammontare del peculio non tenendo conto della revoca (ademptio) totale o parziale che il dominus convenuto ne abbia fatto in mala fede, cioè proprio allo scopo di restringere la misura della propria rispondenza.
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sia comunque ragionevole l’ipotesi corrente, cioè che quel che vi era scritto contenesse, o contenesse anche, quanto – magari con qualche variante nella forma –, sul modo di procedere del giudice quando l’azione fosse de peculio et de in rem verso, si legge in: I.4,7,4b: … licet enim una est actio, qua de peculio deque eo, quod in rem domini versum sit, agitur, tamen duas habet condemnationes. itaque iudex, apud quem ea actione agitur, ante dispicere solet, an in rem domini versum sit, nec aliter ad peculii aestimationem transit, quam si aut nihil in rem domini versum intellegatur aut non totum. “… anche se, infatti, una sola è l’azione con la quale si agisce in relazione al peculio e a quel che sia pervenuto nel patrimonio del dominus, tuttavia essa ha due condemnationes (clausole di condanna) 414, cosicché il giudice, davanti al quale si esercita quell’azione, è solito considerare per prima cosa se qualcosa sia pervenuto nel patrimonio del dominus (in rem domini versum sit), e non passa all’apprezzamento del peculio se non qualora si debba ritenere che nel patrimonio del dominus nulla, o non tutto, sia pervenuto.”
La locuzione ‘vertere in rem’, che letteralmente significa “far entrare, immettere 415 nel patrimonio” (di qualcuno), esprime il concetto di arricchimento in termini puramente economici, anzi come amava sottolineare il Kupisch 416, addirittura esclusivamente contabili, e quando una soluzione è basata sulla versio essa dipende dalla prova dell’arricchimento, indipendentemente dal fatto che esso sia giusto o ingiusto, e soprattutto dal fatto che esso dipenda o non dipenda da un negozio intervenuto fra arricchente e arricchito. Naturalmente, che esso sia considerato ingiusto risulterà dall’insieme del contesto in cui l’espressione è inserita, perché essa viene usata appunto per giustificare una soluzione favorevole al depauperato e a scapito dell’arricchito, ma il fatto che la versio provenga da un negozio fra le parti non è proprio preso in considerazione. Un’espressione equivalente a in rem versum è ‘id, quod ad eum pervenerit’ 417, di vasta applicazione nel campo del processo, ed in particolare impiegata a proposito delle azioni reipersecutorie pretorie che vengono concesse contro l’erede dell’autore di un delitto nei limiti dell’arricchimento. Come si comprende, in tutti questi casi di azioni date sulla base del versum in rem o per l’id quod ad eum pervenerit, l’arricchimento funziona tanto come fondamento della pretesa quanto come limite della possibile condanna del convenuto. Delle soluzioni che abbiamo or ora esaminate, alcune – come quelle in id quod ad eum pervenerit date contro l’erede del legittimato passivo ad un’azione 414 Gli autori delle Istituzioni giustinianee parlano di una duplice condemnatio, ma in realtà la condemnatio dell’azione di cui si tratta è unica; duplice è la taxatio (Gai.4,51-52), cioè il limite espresso nella condemnatio al suo stesso possibile ammontare. 415 Il verbo vertere ha come significato transitivo di base quello di “dirigere verso, orientare in direzione di”. 416 Si trattava di un atteggiamento proprio al suo stesso insegnamento. 417 Ad esempio: Gai. D.4,2,19; Gai. D.4,3,26 e 28; Ulp. D.14,4,7,5; Ulp. D.43,16,1,48.
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penale, o l’actio utilis (in factum) di Pomp. D.45,3,66 – sfociavano in azioni per la restituzione di un arricchimento; ma quest’azione non era mai la condictio nel suo impiego di azione di arricchimento: se si trattava di condictio, essa era esperita ad altro titolo, come nel caso di Ulp. D.12,1,27, dove si trattava dell’azione per la restituzione del denaro mutuato. Se tutto ciò rende palese che il sistema di sanzione dell’arricchimento ingiustificato, basato sulla condictio impiegata come azione di restituzione dell’arricchimento, era stato costruito secondo certe linee ben definite, la nozione di arricchimento nella sua nuda materialità – come versio in rem, o id quod ad aliquem pervenerit – era però considerata in dimensioni più vaste, e quindi adatta ad agevolare soluzioni opportune ed eque in settori specifici, come quello della responsabilità dell’erede di un soggetto obbligato ex delicto, ovvero, soprattutto, in una serie di situazioni casisticamente determinate. Quel che distingueva soprattutto i due campi stava nella circostanza che l’arricchimento, che veniva in considerazione come oggetto di condictio perché proveniente da pagamento d’indebito, attribuzioni patrimoniali sine causa, datio ob rem (honestam) causa non secuta o causa finita, o ancora da datio ob iniustam causam, era sanzionato con tale azione solo se fosse stato prodotto da un negozio intervenuto tra le parti. Questo requisito era evidentemente sentito come opportuno per contenere entro confini definiti la portata del principio che lo regge, evitando che la pretesa alla restituzione potesse sfuggire al controllo dell’ordinamento. Il limite posto dall’esigenza del negotium contractum era assai severo, ma si preferì non rinunziarvi modificando i principî, bensì solo affidandolo ad una casistica controllata dal pretore o dai giuristi. Solo si deve notare che i giuristi, nelle loro deroghe casistiche, lavorarono anche entro il campo del sistema d’arricchimento rigorosamente definito, nel senso che talora essi sono giunti ad accordare la condictio come azione d’arricchimento in casi nei quali l’arricchimento stesso non aveva rapporto alcuno con un negozio concluso fra le parti interessate. Gli interventi di questo genere sono stati sicuramente assai prudenti, e quelli di cui abbiamo notizia appartengono in particolare ai due maggiori giuristi dell’epoca adrianea. Anzitutto, riferiteci da Africano, abbiamo due soluzioni di Giuliano. La prima: D.12,1,23 (Afr. 2 quaest.): Si eum servum, qui tibi legatus sit, quasi mihi legatum possederim et vendiderim, mortuo eo posse te mihi pretium condicere Iulianus ait, quasi ex re tua locupletior factus sim. La traduzione: “Se lo schiavo che ti è stato legato, io l’abbia posseduto come fosse stato legato a me e l’abbia venduto, Giuliano dice che, lui morto, tu puoi fare a me la condictio del prezzo, come se io mi fossi arricchito a scapito del tuo patrimonio.” Riespongo il caso, esplicitandone qualche dettaglio. In un testamento era disposto a favore di Tu un legato per vindicationem, cioè ad effetto reale, avente ad oggetto lo schiavo Stico, per cui, al momento dell’apertura della successione del testatore defunto, Tu diventa
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proprietario di Stico; Ego – che deve supporsi in buona fede – ha preso possesso dello schiavo come se fosse stato lasciato a lui stesso e lo ha anche venduto, riscuotendone dal venditore il prezzo; Stico poco dopo muore, sicché nessuna pretesa che lo concerna sussiste più: Tu ha perso la rei vindicatio dello schiavo e una responsabilità di Ego verso il compratore per l’evizione non può più formarsi. Giuliano riconosce a favore di Tu la condictio per il prezzo dello schiavo, che deve intendersi come il prezzo effettivamente ricevuto da Ego in occasione della vendita; è questo prezzo, infatti, l’entità che arricchisce Ego: la prima e la sola che sia entrata nel patrimonio di Ego: prima della vendita, lo schiavo Stico era bensì presso Ego, ma non in sua proprietà, e quindi Ego non ne era arricchito.
Come si vede, qui non c’è stato alcun negozio tra Ego e Tu: il giurista fa riferimento unicamente – possiamo ben impiegare questi termini – alla versio in rem ovvero a id, quod pervenerit ad Ego, e si preoccupa solo di sottolineare che questo arricchimento di Ego è avvenuto a scapito del patrimonio di Tu: ma l’azione accordata è una condictio per la restituzione dell’arricchimento. L’uso del quasi (ex re tua locupletior etc.) lascia solo ritenere che Giuliano pensasse ad un’applicazione non diretta, ma per analogia delle regole sull’arricchimento ingiustificato. La seconda è una quaestio che fa parte di un contesto abbastanza complesso, ma la possiamo isolare senza difficoltà. Anche qui Giuliano accorda una condictio come azione di arricchimento, ed ancora lo fa ragionando per analogia: D.19,1,30 pr. (Afr. 8 quaest.): Servus, quem de me cum peculio emisti, priusquam tibi traderetur, furtum mihi fecit … si nummos, quos servus iste mihi subripuerat, tu ignorans furtivos esse quasi peculiares ademeris et consumpseris, condictio eo nomine mihi adversus te competet, quasi res mea ad te sine causa pervenerit. Espongo direttamente il caso: Tu ha comprato da Ego lo schiavo Stico insieme con il peculio di cui era munito e Stico, bricconcello, prima di essere consegnato al compratore e quindi mentre ancora si trovava presso Ego, gli ha rubato del denaro, che poi, una volta trasferitosi presso Tu, si è portato con sé. La proprietà del denaro, essendo stato rubato e non facendo parte del peculio che è stato venduto assieme allo schiavo, è rimasta a Ego, ma Tu, che non sapeva niente del furto e credeva che quei soldi facessero parte del peculio di Stico, vedendo che il peculio del suo nuovo schiavo era, a suo giudizio, eccessivamente abbondante, li toglie dal peculio (ademit) e li spende. Giuliano riconosce a Ego la possibilità di condicere la somma corrispondente a quel denaro, espressamente motivando con un’assimilazione del caso a quello di un’attribuzione sine causa: precisamente egli pensa che in quel che è accaduto può ravvisarsi una situazione analoga a quella di una traditio sine causa di quella somma poi consumata dall’accipiens. Gli elementi che Giuliano sembra avere impiegato per stabilire l’analogia sono impeccabili: i nummi erano di Ego, sono pervenuti presso Tu senza che ci fosse una ragione per questo cambiamento di possesso, ma il cambiamento di possesso è avvenuto, come se fosse stata fatta una traditio, perché prima del furto Ego i nummi li possedeva come proprî, dopo il furto e finché Stico è rimasto in suo possesso egli li possedeva perché il suo schiavo pos-
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sedeva per lui, dopo la traditio dello schiavo a Tu il possesso dello schiavo è passato a Tu e così il possesso dei nummi che egli aveva con sé; poi, anche se lo schiavo è divenuto di Tu o questi lo ha ricevuto in bonis, Tu ha continuato a possederli fino a quando non li ha spesi. La sola differenza fra tutto ciò e una traditio sine causa sta giusto nel fatto che una traditio dei nummi fra Ego e Tu non è mai avvenuta, né vi è stato altro negozio fra i due che potesse riguardare quel denaro: non la vendita, che aveva per oggetto lo schiavo e il peculio, perché i nummi non facevano parte del peculio, e non la traditio dello schiavo e del suo peculio, perché almeno il dans certo non sapeva nulla di quei soldi e non intendeva consegnarli al compratore; e tanto meno poteva riferirsi ai nummi la mancipatio dello schiavo, la quale, se pur c’è stata, si riferiva allo schiavo e non al denaro che lo schiavo avesse con sé.
Ma fra questi testi, che ammettono la condictio per un arricchimento non riconducibile ad un negozio, il più interessante, oltre che il più famoso, è certamente il seguente, che risale a Celso, il quale non solo motivava la soluzione, ma la corredava di ragionamenti assai chiari: D.12,1,32 (Cels. 5 dig.): Si et me et Titium mutuam pecuniam rogaveris et ego meum debitorem tibi promittere iusserim, tu stipulatus sis, cum putares eum Titii debitorem esse, an mihi obligaris ? Subsisto, si quidem nullum negotium mecum contraxisti: sed propius est ut obligari te existimem, non quia pecuniam tibi credidi (hoc enim nisi inter consentientes fieri non potest): sed quia pecunia mea ad te pervenit, eam mihi a te reddi bonum et aequum est. Il testo merita di essere attentamente tradotto: “Se tu hai sollecitato un mutuo di denaro a me e a Tizio, e io abbia ordinato ad un mio debitore di prometterti la somma, e tu hai stipulato con lui, ritenendo che egli fosse debitore di Tizio, risulti obbligato verso di me ? Esito 418, dal momento che 419 con me non hai concluso alcun negozio: ma è più corretto ritenere 420 che tu sia obbligato, non per la ragione che io ti ho dato il denaro a mutuo (questo, infatti, non può accadere se non fra i soggetti che hanno concluso il relativo accordo 421): ma siccome è mio il denaro che è pervenuto presso di te, è giusto che questo, da te, sia reso a me.” Un’osservazione preliminare mi sembra opportuna, dal punto di vista esege418 Il verbo subsisto significa «mi fermo», con riferimento al parlare «mi interrompo»; qui dunque vuole esprimere un’idea come: devo pensarci un attimo. 419 La congiunzione si quidem (siquidem) ha qui il senso nel quale l’ho tradotta (se è vero che, poiché), come in Cic. Tusc.1,23,54 (…, si quidem necesse est a principio oriri omnia); 3,4,8 (Ne ista gloriosa sapientia non magno aestimanda est, siquidem non multo differt ab insania). 420 L’avverbio propius è comparativo (assoluto) di prope, e quindi propius est ut existimem significa qui: che io ritenga che … è cosa più vicina (= alquanto aderente) al vero. 421 Cioè fra le parti che hanno concluso l’accordo di mutuo: Celso dà qui rilevanza al solo accordo negoziale del mutuo, e non anche a chi abbia effettuato la traditio dell’oggetto.
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tico. Il responso che Celso riportava nei suoi digesta sembra essere stato dato – da lui stesso, questo è certo – su di un caso reale, perché contiene un particolare che, per una discussione teorica del problema che pone, risulta superfluo: l’Ego, che vi compare fra i protagonisti del caso, effettua una delegatio promittendi, che complica un poco le cose, senza cambiarne la sostanza, tanto è vero che poi, nella parte finale del discorso, dove si illustra la soluzione scelta dopo la pausa di meditazione (Subsisto, si quidem nullum negotium mecum contraxisti), si parla come se si fosse trattato di una delegatio solvendi e il debitore delegato avesse direttamente dato il denaro al Tu delegatario. Per questo, onde comprendere esattamente quel che Celso intende dire, dobbiamo metterci anche noi in questa prospettiva. Celso esclude che fra Ego e Tu sia stato concluso un contratto di mutuo perché non ha avuto luogo il relativo accordo; l’accordo contrattuale di mutuo funziona anche come causa della traditio del denaro: l’offerta di Ego a Tu ha bensì avuto luogo, ma Tu l’ha accettata ricevendo il denaro dal delegato, pensando che l’offerta stessa provenisse da Tizio. Una volta escluso l’accordo di mutuo fra Ego e Tu, nessun negotium risulta concluso fra i due con riguardo a quel denaro 422. Se si vuole accordare ad Ego una condictio contro Tu, questa non potrà, di conseguenza, essere che un’azione per la restituzione dell’arricchimento di Tu: questo arricchimento indubbiamente c’è stato, perché il denaro ad te pervenit, ma resta la difficoltà proveniente dal fatto che non vi è stato negozio fra Ego e Tu. L’esigenza del negotium contractum è considerata da Celso come assai rilevante, e precisamente come un serio ostacolo a considerare sorta l’obbligazione di Tu verso Ego (Subsisto, si quidem nullum negotium mecum contraxisti); ma è tutto celsino l’argomentare che scioglie i suoi dubbi. Con la sua frase lapidaria (sed quia pecunia mea ad te pervenit, eam mihi a te reddi bonum et aequum est) egli sembra esclamare: non c’è costruzione teorica che tenga: se Tu ha avuto del denaro che veniva da Ego, giustizia vuole che Tu debba restituirlo a Ego. Come aveva scritto in un’altra occasione 423: esse enim hanc quaestionem de bono et aequo: in quo genere plerumque (troppo spesso!) sub auctoritate iuris scientiae, inquit, erratur. 422 L’accordo di mutuo, che Celso esclude, viene escluso perché Tu era convinto che il delegato fosse debitore di Tizio e non di Ego: il che implica che, se Tu fosse stato consapevole della realtà, e cioè del fatto che il delegato era debitore di Ego, l’accordo di mutuo fra Ego e Tu si sarebbe invece concretato. Quest’idea è conforme con altre soluzioni dei giuristi classici. In Paul. D.12,4,9,1 una donna ha delegato un soggetto che essa riteneva proprio debitore e che tale si credeva, a promettere a titolo di dote al proprio fidanzato; seguite le nozze, il delegato (che non ha difesa contro il marito: vedi nel vol. II,1, p. 339) avrà contro la donna, se abbia pagato, la condictio indebiti, se non abbia ancora pagato, la condictio liberationis. Analogamente Tryph. D.23,3,78,5 (KUPISCH, 27 n. 39 cita erroneamente 68,5). Vedi anche il cit. Pomp. D. 46,3,66; è la seconda ipotesi che qui più specialmente ci interessa, dove la condictio contro il pupillo è esclusa solo perché questi agiva senza l’auctoritas tutoris, ma la lacuna viene colmata con un’azione pretoria. 423 Paul. Cels. D.45,1,91,3.
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Il testo di Celso ebbe una notevole importanza presso la dottrina medievale, specie quella dell’Usus modernus, nella vicenda che portò alla creazione dell’actio de in rem verso come azione generale di arricchimento. Per vero da Cels. D.12,1,32 non fu desunta precisamente quella che poi verrà chiamata actio de in rem verso (Versionsklage), ma comunque qualcosa di alquanto simile: una condictio, detta per la sua provenienza da Celso condictio Iuventiana, esperibile per qualunque arricchimento ingiustificato, indipendentemente dalla sua base in un negozio concluso fra le parti, sulla semplice base dell’asserzione celsina ‘quia pecunia mea ad te pervenit, eam mihi a te reddi bonum et aequum est’, che presso Celso non rappresentava invece altro che una giustificazione equitativa per l’impiego della condictio in quel caso concreto. L’origine dall’actio de in rem verso è invece legata ad un’interpretazione che il commentatore Roffredo fece di un rescritto emanato a Bisanzio dall’imperatore Diocleziano l’8 aprile dell’anno 293 424: C.4,26,7,3: Ei, qui servo alieno dat mutuam pecuniam, quamdiu superest servus, item post mortem eius intra annum de peculio contra dominum competere actionem vel, si in rem domini haec versa sit quantitas, post annum etiam esse honorariam non est ambigui iuris. 1: Quapropter si quidem in rem domini versa pecunia est, heredes eius convenire potes de ea summa, quae in rem ipsius processit. 2: Si vero hoc probari non potest, consequens est, ut superstite quidem servo dominum de peculio convenias vel, si iam servus rebus humanis exemptus est vel distractus seu manumissus nec annus excessit, de peculio quondam adversus eum experiri possis. 3: Alioquin si cum libero rem agente eius, cuius precibus meministi, contractum habuisti et eius personam elegisti, pervides contra dominum nullam te habuisse actionem, nisi vel in rem eius pecunia processit vel hunc contractum ratum habuit. Il rescritto è indirizzato ad un certo Crescens, che evidentemente era l’attore nel processo in corso, e nei primi tre paragrafi l’imperatore sembra dargli istruzioni sull’esercizio dell’actio de peculio et de in rem verso. Li traduco: “Non v’è dubbio alcuno che a chi dia denaro a mutuo ad uno schiavo altrui, finché lo schiavo rimane in vita, e così pure entro l’anno dopo la sua morte 425, competa l’azione de peculio contro il dominus ovve-
424 Spesso di ritiene che questo rescritto di Diocleziano trovi uno specifico precedente in un altro rescritto della tarda epoca classica, dell’anno 194, dovuto agli imperatori Settimio Severo e Caracalla, C.8,15,1, ma il problema vi è diversamente impostato: Procurator citra domini voluntatem domum pignori frustra dedit. si tamen pecuniam creditoris in rem domini versam constabit, non inutilis erit exceptio dumtaxat quod numeratum est exsolvi desideranti. A me pare che caso e decisione debbano ricostruirsi come segue (P = procurator, che supponiamo pure senza rappresentanza; D = dominus di P; C = creditor): P ha preso denaro a mutuo da C nell’interesse di D, e come garanzia ha dato a pegno (con trasferimento del possesso) un immobile di D senza averne il potere; D rivendica l’immobile a C; C solleva l’eccezione di dolo opponendo il pegno; la sua eccezione va presa favorevolmente in considerazione se C sia disposto a restituire l’immobile ove D gli paghi quanto del mutuo gli è pervenuto (pecuniam in rem di D versam). Il problema che gli Imperatori considerano è unicamente quello del pegno, che è invalido ma ha tuttavia, di fatto, creato una situazione favorevole a C, dalla quale non sarebbe giusto prescindere. La soluzione pare dunque essere basata sulla considerazione, unicamente d’equità, che C deve pur giovarsi della situazione, che di fatto si è creata, nei limiti dell’arricchimento che D ha avuto a sue spese. 425 Allusione alla cosiddetta actio de peculio annalis (Ulp. D.15,2,1,1), cioè l’actio de peculio che era prevista nell’editto pretorio (Ulp. D.15,2,1 pr.; LENEL, EP, 277) contro il dominus (o pater) se lo schiavo (o il filius) che aveva negoziato fosse morto, fosse stato manomesso o emancipato, o (se schiavo: Ulp. D.15,2,1,4) fosse stato alienato. L’azione era annalis, nel senso che era esperibile entro l’anno dal momento in cui il suo esercizio fosse stato possibile (Ulp. D.15,2,1,23).. Questa azione era prevista solo de peculio, perché la rispondenza de in rem verso del dominus,
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ro, se tale denaro sia pervenuto nel patrimonio del dominus, anche dopo l’anno vi sia l’azione pretoria. 1: Per cui, se il denaro sia pervenuto nel patrimonio del dominus, potrai agire contro i suoi eredi per la somma che era pervenuta nel patrimonio di lui. 2: Invece, se ciò non può essere provato, ne consegue che, se lo schiavo è ancora vivo, agirai contro il dominus con riguardo al peculio (de peculio) oppure, se lo schiavo è già passato a miglior vita o è stato venduto o manomesso e un anno da questi fatti non è ancora trascorso, tu potrai agire contro di lui con riguardo al peculio che esisteva prima 426 (de peculio quondam).” Tutto ciò non c’interessa ora in modo speciale; ma vediamo il § 3, dove l’imperatore considera una diversa ipotesi: “3: Altrimenti, se tu hai concluso il tuo contratto con un libero, che gestiva gli affari di colui che hai menzionato nella tua istanza e hai scelto la sua persona (= hai concluso il contratto con lui stesso come controparte, e non con lui come rappresentante di un altro) 427, sta bene attento che contro l’interessato 428 tu non hai acquistato alcuna azione, a meno che il denaro (mutuato) non sia pervenuto nel suo patrimonio o egli abbia ratificato questo contratto.” In fondo, la soluzione che Diocleziano dava a quest’ultimo problema non era nuova: essa, in particolare, somiglia assai a quella che abbiamo letto in Ulp. D.12,1,27 sul mutuo fatto a persona che contraeva nell’interesse di un comune (civitas). Ma nel contesto del rescritto, subito dopo quella specie di piccolo tractatus dell’actio de peculio e de in rem verso, la frase finale, nell’avvertire in sostanza il destinatario che egli era titolare di un’azione se il denaro era pervenuto al soggetto nell’interesse del quale il mutuo era stato concluso dal gestore d’affari (… si … in rem eius pecunia processit), sembrava introdurre una novità: un’actio de in rem verso contro un soggetto A, arricchito in conseguenza di un negozio compiuto da un soggetto B che non era un suo sottoposto (e non aveva potere di rappresentarlo), spettando l’azione al un soggetto C, a scapito del quale l’arricchimento di A si era prodotto. In sostanza, dunque, un’actio de in rem verso utilis, in quanto modellata sull’actio de in rem verso edittale, ma modificata per essere adatta alla diversa situazione caratterizzata dal fatto che l’autore del negozio arricchente non era persona soggetta alla potestà dell’arricchito. Così appunto intese il testo Roffredo: Roffredus (ad C.4,26,7,3) 429: Quaestio: sed illud quaeritur: pone quod aliquis liber non essendo legata all’esistenza del peculio, non era toccata dalla morte, manumissione o alienazione dello schiavo. 426 Cioè il peculio che lo schiavo aveva – prima della morte, manumissione o alienazione dello schiavo stesso – presso il dominus che tu devi chiamare in giudizio (che era anche il dominus dello schiavo quando questi compì gli atti negoziali che nel processo devono venire in considerazione). 427 Con questa precisazione si vuole stabilire che il gestore di affari, concludendo il mutuo con Crescente (il destinatario del rescritto) e ricevendo il denaro mutuato, aveva agito in proprio nome e non a nome del soggetto che poi, dal seguito del testo, risulterà essere il beneficiario della datio mutui. 428 L’interessato è indicato nel testo come dominus: il termine è usato nel senso di dominus negotii, cioè la persona in funzione degli interessi della quale il negozio ha luogo. Qui, dunque, si tratta del dominus del negozio gestito dal gestore d’affari. 429 ROFFREDUS BENEVENTANUS, Solemnis atque aureus tractatus libellorum, Argentorati 1592, pars 1 fol. 18. Vedi KUPISCH, Die Versionsklage. Ihre Entwicklung von der gemeinrechtlichen Theorie des 17. Jahrhunderts bis zum österreichischen Allgemeinen Bürgerlichen Gesetzbuch, Heidelberg 1965, 13 s.; anche Ungerechtfertigte Bereicherung cit., 37. Roffredo fu un noto glossatore medievale vissuto dal 1170 circa a poco dopo il 1243 (vedi LANGE, Römisches Recht im Mittelalter I: Die Glossatoren, München 1997, 314 ss.).
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homo gerebat negotia tua et pecuniam sibi 430 mutuavi: et illam expendit in tuam utilitatem: utrum possim agere contra te actione de in rem verso. Respondeo: potes: quia utilis de in rem verso competit: quia sententia concordat: licet verba deficiant. “Questione: ma questo si chiede: poni che un uomo libero gestiva i tuoi affari e io gli ho dato denaro a mutuo: ed egli l’ha speso a tuo profitto: se 431 io possa agire contro di te con l’actio de in rem verso. Rispondo: puoi: perché (ti) spetta (l’actio) utilis de in rem verso: perché il pensiero (dell’autore del rescritto) è in questo senso, benché non lo si dica espressamente 432”. In questo modo, Roffredo aveva creato l’actio de in rem verso utilis, con funzione integrativa rispetto all’actio de in rem verso edittale; e questa fu l’azione destinata a trasformarsi in azione generale di arricchimento con la semplice denominazione di actio de in rem verso (la qualifica di utilis aveva un valore solo per l’interpretazione esegetica del Corpus iuris, ma non più in pratica dopo che l’actio de in rem verso per i negozi gestiti da schiavi e filii familias non vi rivestiva più interesse rilevante). Di un’azione generale di arricchimento essa aveva, del resto, già il carattere, che poteva rivelarsi pienamente quando si prescindesse dalla sua connessione, nel caso del rescritto dioclezianeo, con la gestione d’affari altrui. In effetti, il legame con la gestione d’affari è ancora presente nella sua recezione nell’ALR prussiano del 1794 e, anche se solo come posizione sistematica, nell’ABGB austriaco del 1811. Comunque, come azione generale di arricchimento, l’actio de in rem verso prevalse facilmente sulla condictio Iuventiana e divenne, presso i giuristi che l’accettarono, un’alternativa all’applicazione della condictio. In questo modo, al tempo delle codificazioni moderne, la tradizione romanistica del diritto comune offriva due diversi sistemi di sanzione dell’arricchimento: quello delle condictiones (si ricorderà che il Corpus iuris non presentava un’unica condictio, ma una serie di diverse condictiones tipiche) 433 e quello dell’actio de in rem verso. I due sistemi si differenziano essenzialmente per due caratteri: quello delle condictiones sanziona solo gli arricchimenti che provengono da un negozio intervenuto fra le parti, e la condictio che ne risulta esperibile non ha carattere sussidiario 434. L’actio de in rem verso si applica invece a qualunque arricchimento ingiusto, ed ha carattere sussidiario: carattere che le rimane dal fatto di provenire dagli interventi giurisprudenziali correttivi dell’eccessivo rigore del sistema della condictio, interventi che, per loro natura, avevano luogo per proteggere situazioni altrimenti sfornite di rimedio. Così, nei nostri codici civili sono stati accolti due diversi sistemi di sanzione dell’arricchimento: e i due sistemi sono stati recepiti, in parte almeno, come alternativi. La situazione, descritta nelle sue grandi linee e riferendomi solo ai codici che pos-
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La grammatica latina vorrebbe ei. Questa proposizione (utrum possim agere contra te actione de in rem verso) va direttamente connessa con sed illud quaeritur (“ma questo si chiede:”) dell’inizio. 432 Letteralmente: “benché le parole manchino”. 433 Per il Digesto, abbiamo già osservato il tenore delle rubriche D.12,4-7; si vedano anche quelle di C.4,5-9. 434 Ad esempio, nel caso di una datio ob rem, se il comportamento previsto per l’accipiens rivesta carattere di controprestazione, qualora l’accordo causale possa essere considerato anche un accordo contrattuale innominato, nel caso l’accipiens non lo esegua (re non secuta) il dans avrà contro di lui, in concorso esclusivo, tanto la condictio fondata nell’arricchimento ingiustificato quanto l’azione contrattuale generale (actio praescriptis verbis). 431
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siamo considerare i principali 435, è nel senso seguente. Il pagamento d’indebito è previsto in tutti i codici, con una norma particolare; un’azione generale di arricchimento corrispondente all’actio de in rem verso è prevista nell’ABGB austriaco, nel CCit[1942] e nel WB[1992] 436; il sistema delle condictiones è previsto nel BGB tedesco e nell’OR svizzero. Il diritto francese rappresenta un caso particolare: nel CCfr non è prevista alcuna azione generale d’arricchimento, ma l’actio de in rem verso è stata recepita, sulla base di una particolare ed assai interessante vicenda dottrinale, con una sentenza del 1892 437. Un’ultima osservazione. Nel diritto romano classico vi era un solo sistema di sanzione dell’arricchimento, quello risultante dall’applicazione della condictio alla materia, e si trattava di un sistema rigorosamente contenuto entro limiti d’applicabilità opportunamente ristretti dall’esigenza della provenienza dell’arricchimento da un negozio concluso fra le parti; ai problemi che tale rigore poteva suscitare, si suppliva mediante deroghe casistiche controllate dunque dalla giurisprudenza, o con interventi pretori, dal magistrato stesso pure controllati, come la concessione di particolari azioni IN ID QUOD AD NN PERVENERIT. L’actio de in rem verso proveniente dall’esegesi di Roffredo, che assorbì pure le aperture della condictio Iuventiana, fu costruita nell’epoca intermedia sulla base dei testi romani che riconoscevano le deroghe di cui si è detto, e in tale epoca tese a lungo a rimanere uno strumento d’integrazione del sistema delle condictiones; ma, siccome questa azione, considerata in se stessa, proprio per la sua funzione di servire come azione di arricchimento anche nei casi in cui una condictio non sarebbe stata applicabile perché l’arricchimento non proveniva da un negozio fra le parti, finì con l’assumere un carattere di azione generale d’arricchimento, ed a questo punto le condictiones diventavano inutili, il loro campo d’applicazione risultando invaso da quello dell’actio de in rem verso. Al tempo delle codificazioni moderne, i due sistemi, quello delle condictiones e quello dell’actio de in rem verso, furono dunque considerati come alternativi, sicché i legislatori scelsero l’uno o l’altro: col risultato di trovarsi poi ciascuno o con un sistema troppo ristretto senza possibilità di integrazioni casistiche, ovvero con un sistema troppo dilatato. Nei singoli paesi, lo sforzo della rispettiva dottrina e giurisprudenza per correggere il relativo sistema è ovunque palese, ma evidentemente ormai alquanto difficile nella misura in cui nelle strutture generali dei nostri ordinamenti risulta pure difficile una gestione autenticamente casistica dei problemi del diritto privato.
435 Nel senso che in qualche modo possono essere considerati frutto di un lavoro di codificazione autonomo. 436 In quest’ultimo codice civile non si fa parola del carattere sussidiario dell’azione di arricchimento. 437 Il famoso arrêt Boudier (Cass.-Req. 15 juin 1892; la sentenza confermava una decisione del tribunale civile di Châteauroux del 2 dicembre 1890). Vedi, sull’insieme della vicenda francese, CANNATA Materiali per un corso di fondamenti del diritto europeo I, Torino 2005, 125 ss.; nello stesso lavoro ho riepilogato (p. 116 ss.) tutta questa vicenda della codificazione moderna delle regole sull’arricchimento ingiustificato; ma si vedano anche, oltre all’opera del Kupisch più volte citata (Ungerechtfertigte Bereicherung), il suo libro (anch’esso citato) Die Versionsklage, nonché, in particolare sulla codificazione austriaca: KUPISCH, Franz v. Zeiller und die Eingriffskondiktion des § 1041 ABGB, in (AA VV.) Forschungsband Franz v. Zeiller, Wien-Graz-Köln 1980, 134 ss. In generale, sul tema arricchimento ingiustificato nelle codificazioni moderne, vedi anche COING, Europäisches Privatrecht II, München 1989, 499 ss.
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III INTRODUZIONE GENERALE AI CONTRATTI CONSENSUALI SOMMARIO: 1. Premessa. – 1.1. L’edictum de pactis. – 1.2. I modi del consenso. – 2. I contratti consensuali. – 2.1. Contratti consensuali nominati (tipici) e innominati (atipici). – 2.2. Il sistema dei contratti consensuali nominati. – 2.3. Il riconoscimento delle figure di contratti innominati. – 3. Le azioni contrattuali.
1. PREMESSA. – Come abbiamo visto nel primo capitolo, Gaio definiva i contratti consensuali individuandoli come quelli nei quali le obbligazioni delle parti si formano per effetto del consenso intervenuto fra queste: Gai.3.136: Ideo autem istis modis consensu dicimus obligationes contrahi, quia neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur, sed sufficit eos qui negotium gerunt consensisse. Se dobbiamo, dunque, studiare specificamente questo tipo di fonte d’obbligazione, non possiamo esimerci da un chiarimento della nozione stessa di consenso (consensus): e lo faremo illustrando il pensiero, in proposito, dei giuristi romani. Questo modo di procedere risulta particolarmente opportuno perché nella dommatica dei giuristi romani l’idea del consenso non solo trovava applicazione – come del resto è anche nel nostro pensiero giuridico attuale – ben più vasta di quella che le è propria in materia contrattuale, ma anche perché nel loro diritto delle obbligazioni esisteva una precisa costruzione della figura del patto (pactum, talora semplicemente denominato conventio, e cioè “accordo” come tale), la quale si contrapponeva spesso a quella del contratto, per essere un accordo bensì attinente al diritto delle obbligazioni, ma che fonte d’obbligazioni non poteva essere. Questa figura era anche espressamente prevista in una clausola dell’editto del pretore urbano, che si denomina usualmente come edictum de pactis, e con riguardo alla quale i giuristi elaborarono le loro teorie sul consenso in generale.
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1.1. L’edictum de pactis. – Nell’editto del pretore urbano, e alquanto verso l’inizio, subito dopo le clausole de edendo 1, compariva un editto de pactis et conventionibus, il cui tenore ci è riferito da: D.2,14,7,7 (Ulp. 4 ad edictum): Praetor ait: ‘Pacta conventa, quae neque dolo malo neque adversus leges plebis scita senatus consulta edicta decreta principum neque quo fraus cui eorum fiat facta erunt, servabo’. “Il pretore dice: «Terrò conto (servabo) dei patti conclusi d’accordo 2 (fra le parti), i quali non siano stati fatti né con dolo 3, né in contrasto con leggi, plebisciti, senatoconsulti, editti o decreti dei principi, né in frode ad uno di questi (= di queste fonti del diritto) 4.».” Il significato dei termini pactum e conventio – il sostantivo del verbo convenire, che nel testo edittale è presente nella forma del participio conventa – è spiegato in un noto testo di Ulpiano, che ci è già avvenuto più volte di citare 5, e che ora riporto per intero, insieme alla laudatio edicti che lo apre, perché si tratta appunto della affermazione dell’utilità e dell’opportunità dell’emanazione di questo editto relativo ai patti: essa è brevissima, ma – per Ulpiano, ai tempi del quale l’editto de pactis esisteva da più di tre secoli almeno – tanto evidente da non richiedere altre parole: D.2,14,1 (Ulp. 4 ad edictum): Huius edicti aequitas naturalis est. quid enim tam congruum fidei humanae, quam ea quae inter eos placuerunt servare? 1: Pactum autem a pactione dicitur (inde etiam pacis nomen appellatum est) 2: et est pactum duorum pluriumve in idem placitum et consensus. 3: Conventionis verbum generale est ad omnia pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi 1 Che riguardavano soprattutto l’editio dell’azione e quella degli instrumenta (documenti che si intendono produrre), cioè atti richiesti all’attore che abbia esercitato con successo la chiamata in giudizio del convenuto e che egli deve compiere a favore del convenuto presente prima dell’inizio della fase in iure. Vedi vol. I p. 104; LENEL, EP, 59 ss. 2 Con “conclusi d’accordo” traduco ‘conventa’. 3 Sul patto concluso con dolo vedi Ulp. Ped. Lab. D.2,14,7,9-11 (i verba edicti ’neque fiat’ di cui parla Ulpiano nel § 11 non sono menzionati come appartenenti all’edictum de pactis; si tratta di parole presenti nell’exceptio doli, richiamata nello stesso paragrafo; vedi vol. II,1 p. 32). 4 La nozione di frode alla legge – applicabile a qualunque fonte normativa – è definita in Ulp. D.1,3,30. L’elenco delle fonti che compariva nell’editto corrisponde a quello di Gai.1,3-5 (vol. I p. 20 ss.). Il testo di Ulpiano non contiene, nella Fiorentina, la menzione dei decreta, ma questa va senza dubbio aggiunta, ed è presente nei codici del Digesto che il Mommsen indica come codici S (= secundi ordinis), oltre ad essere presente nello scolio 20 di B.11,1,7,7 (Heimb. I, p. 569; Sch. B I, p.198 num. 19). 5 Ad esempio nel vol. II,1 p. 96.
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motibus in unum consentiunt[, id est in unam sententiam decurrunt]. adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat Pedius nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum nulla est. 4: Sed conventionum plaeraeque in aliud nomen transeunt: veluti in emptionem, in locationem, in pignus vel in stipulationem. “Questo editto è espressione dell’equità naturale 6: che c’è, infatti, di più congruente con l’affidabilità degli uomini del rispettare ciò che essi 7 hanno concordemente accettato? 1: Del resto, patto (pactum) si dice da pacisci (= accordarsi), da cui proviene anche il vocabolo «pace» 8 2: e il patto (pactum) è l’accettazione consensuale 9 di una stessa cosa da parte di due o più persone. 3: Il termine conventio ha carattere generale ed è appropriato per tutto ciò su cui consentono coloro che trattano insieme per concludere un negozio o fare una transazione: infatti, come si dice che «convengono» coloro che da luoghi diversi vengono a trovarsi insieme 10 in un solo luogo, così pure (lo si può dire di) coloro che muovendo da diversi atteggiamenti dell’animo consentono in un’unica attitudine comune. Il termine conventio è veramente generale, sicché Pedio ha potuto con eleganza dire che non vi è contratto, anzi, non vi è atto obbligatorio alcuno 11 che non implichi una conventio (= un accordo delle parti), anche se abbia luogo re o verbis: infatti anche la stipulatio, che si fa verbis, se manca del consenso è nulla. 4: Ma la più parte delle conventiones (= degli accordi) vengono ad assumere un’altra denominazione, come quella di vendita, di locazione, di pegno o di stipulatio.” Come si vede, dal tenore dell’editto Ulpiano prende lo spunto per costruire un discorso sul consenso in generale, come fenomeno del diritto privato. La frase finale (§ 4) mette bene in evidenza quel che già veniva espresso nel para6 Il senso è questo, ma la traduzione letterale sarebbe: “L’equità di questo editto è naturale”. Per vero, la frase potrebbe anche intendersi: “L’equità di questo editto è affatto evidente”. 7 La traduzione mi è facilitata dall’aver dovuto prima rendere ‘fidei humanae’ (= “la fides umana”, espressione che in italiano non è riducibile ad un’espressione veramente equivalente) con “affidabilità degli uomini”. Nel testo latino, mancando il sostantivo homines, le parole inter eos restano senza referente espresso, sicché si potrebbe anche essere tentati d supporre che Ulpiano vi avesse invece scritto inter nos (= fra noi). 8 Traducendo letteralmente si farebbe torto ad Ulpiano, perché dal testo sembra che egli faccia derivare pactum da pactio, mentre sarebbe piuttosto vero l’inverso; ma con pactio (pactione all’ablativo nel testo) Ulpiano voleva intendere “il fatto del mettersi d’accordo” e non l’accordo come risultato di tale azione. 9 Va considerata, placitum et consensus, un’endiadi: placitum esprime l’idea che una certa cosa placet (= “piace” nel senso che “va bene, sta bene”) alle persone, che appunto rispetto a tale oggetto consentiunt (nutrono un sentimento coincidente, e se lo esprimono l’uno all’altro). 10 Anche colliguntur et veniunt è un’endiadi. 11 Su questo punto della traduzione vedi infra, intorno e con la n. 94.
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grafo precedente mediante la citazione da Pedio, e cioè che come tipologia istituzionale del consenso si considerano non solamente i patti e tutti i contratti, ma tutti gli atti conclusi dalle parti per crearsi obbligazioni, inclusi quelli che hanno luogo re e verbis: dobbiamo anzi pensare che nell’originale, alla fine del § 3, Ulpiano avesse scritto sive re sive verbis fiat, e che la menzione degli atti obbligatori litteris sia stata soppressa dai compilatori giustinianei, per le ragioni che sappiamo 12. Su questa citazione di Pedio, che Ulpiano riporta, dovremo tornare ancora nel § 2, quando ci occuperemo della nozione romana di contratto, e metteremo questo testo in relazione con Ulp. Lab. D.50,16,19 e Ulp. D.2,14,7,1. Per ora mi limito, anche a futura memoria, ad un solo chiarimento esegetico. Nella frase, che afferma “non esservi atto obbligatorio alcuno che non implichi un accordo delle parti”, il termine obligatio, che ho tradotto con “atto obbligatorio”, significa precisamente “atto (negoziale) diretto alla creazione di obbligazioni”; con il che l’affermazione risulta limitata nel senso che la presenza di un accordo delle parti non va ravvisata in tutti i fatti giuridici produttivi di obbligazione, perché ne restano esclusi quelli dai quali l’obbligazione si forma senza rapporto con la volontà negoziale delle parti, come avviene nel caso delle obbligazioni da delitto e in molti dei casi di arricchimento ingiustificato 13. Questa precisazione vale, naturalmente, tanto per il pensiero di Pedio, quanto per quello di Ulpiano.
Del resto, come avevamo già avvertito, i giuristi classici, nei loro libri ad edictum, avevano posto nel commentario all’edictum de pactis la sedes materiae della dottrina del consenso in generale, e tale dottrina si riferiva ovviamente a tutte le manifestazioni negoziali del consenso: è anche probabile che questa soluzione espositiva fosse già presente nei libri ad edictum praetoris urbani di Labeone, dato che la famosa definizione labeoniana del contractus Ulpiano (D.50,16,19) diceva di leggerla in Labeo libro primo praetoris urbani 14. Tutto ciò non deve tuttavia lasciare adito all’equivoco di pensare che l’edictum pretorio de pactis debba essere posto in relazione con la genesi dei contratti consensuali e delle relative azioni contrattuali. La tesi orientata nel senso contrario a questa mia affermazione fu proposta da André Magdelain nel 1958 15, e negli anni recenti essa è stata ripresa soprattutto da Filippo Gal-
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I.3,21: vedi sopra, cap. II § 3, dopo la n. 103. Vedi ad esempio, per il pagamento d’indebito, Gai.3,91 in fine; Cels. in Pomp. D.13,6,13,2 (li abbiamo considerati, sotto questo profilo, nel capitolo precedente). 14 Labeone scrisse tanto un commentario all’editto del pretore urbano quanto un commentario all’editto del pretore peregrino; quest’ultima opera constava di almeno trenta libri (CANNATA, SG I, 312 s.), ma è del tutto giustificata l’idea, che il commentario all’editto urbano fosse alquanto più breve (LENEL, Pal. I, 501 n.2) e perciò la trattazione de pactis vi appartenesse già al libro iniziale. Della definizione labeoniana del contratto parleremo alquanto, più avanti. 15 MAGDELAIN, Le consensualisme dans l’édit du préteur, Paris 1958. 13
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lo 16: ma non si deve dimenticare la recensione di Mario Talamanca 17 al libro del Magdelain, dove ogni argomento ed ogni aspetto della tesi generale sono puntualmente confutati.
Con ciò non voglio neppur dire che la cosa sia impossibile, ma soltanto che dalle fonti un fenomeno del genere non risulta affatto, e che nell’impostazione dei giuristi classici la nozione di patto, i suoi effetti e la sua tutela sono del tutto distinti dalla nozione, dagli effetti e dalla tutela del contratto, senza tracce di residui di una precedente situazione diversa. Che l’edictum de pactis fosse già noto a Cicerone può desumersi con sufficiente certezza da Cic., de off.3,24,92 18. Certo il testo edittale non era allora quello che abbiamo visto presso Ulpiano; è ovvio, fra l’altro, che nell’epoca repubblicana non poteva comparirvi l’allusione agli edicta et decreta principum e, d’altra parte, dal passo ciceroniano citato parrebbe doversi desumere che alla menzione del dolo fosse allora premessa quella della vis (‘pacta conventa, quae nec vi nec dolo malo …’) e che questa sia stata in seguito ritenuta superflua 19; ma nulla ci assicura che l’edictum de pactis fosse molto più antico del tempo di Cicerone, il quale nacque – come si sa – nel 106 a. C. Una cosa si può dire con sufficiente certezza: che l’introduzione dell’editto de pactis precedette quella dei rimedi pretori contro il dolo, che avvenne in vita di Cicerone, per opera di Aquilio Gallo, intorno all’80 a. C., come Cicerone stesso ricorda 20; se l’editto de pactis, che dava fondamento all’exceptio pacti, fosse stato introdotto anch’esso in vita di Cicerone, difficilmente questi vi avrebbe alluso come fece nel passo citato del de officiis, senza rilevarne affatto la novità. Questa considerazione concorre a svalutare interamente l’argomento dal quale il Magdelain partiva per tutta la sua costruzione, e cioè quello di un’intrinseca contraddizione nella struttura stessa dell’edictum de pactis in quanto, se questo avesse avuto alla sua origine la sola portata che esso aveva all’epoca classica, sarebbe stato un po’ come la montagna che partorisce il topolino, perché si tratta del solo caso 21 nel quale l’editto pretorio presenta un edictum 22 introdotto soltanto per prevedere un’eccezione; e 16 GALLO, Synallagma e conventio nel contratto I, Torino 1992, 38 ss. (con la n.40 a p. 39) ed in particolare p. 56 ss.; ora anche BISCOTTI, Dal pacere ai pacta conventa. Aspetti sostanziali e tutela del fenomeno pattizio dall’epoca arcaica all’editto giulianeo, Milano 2002 (il libro propone tutta una revisione della materia dei pacta). 17 TALAMANCA, La storia dell’edictum de pactis, in Labeo 6(1960), 268 ss. Critico ora anche CASCIONE, Consensus, Napoli 2003, 205 ss. (in particolare 207 ss.), che ricorda anche (p. 208 con le n. 162 e 163) una parziale, successiva autocritica del Magdelain. 18 Vedi TALAMANCA, La storia cit., 280. 19 Nel senso che un patto estorto con minacce (vi) deve naturalmente considerarsi anche estorto con dolo. 20 Vol. II,1 p. 22. 21 Per affermare quanto segue, il Magdelain si rifà a Lenel, ma il luogo che ne cita (LENEL, EP, 20 n. 1) egli lo interpreta in modo, per così dire, tendenzioso (vedi MAGDELAIN, Le consensualisme cit., 77 con la n. 164; 78 con la n. 165). Vedi anche TALAMANCA, La storia cit., 282 ultimo capoverso. 22 Sull’impiego del termine editto (edictum) per indicare tanto l’editto magistratuale nel suo complesso quanto le singole clausole che annunziavano l’impegno del magistrato a concedere particolari rimedi, vedi vol. I p. 26.
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per di più, «alors qu’il parle des pacta conventa en général, il ne trouve pas d’autre application que l’exception pacti conventi» 23. La cosa non potrebbe spiegarsi, secondo il Magdelain, se non pensando che, all’epoca della sua introduzione, l’edictum de pactis avesse una portata ben più vasta, e che questa si sia poi ridotta, a causa di una complessa evoluzione, alla limitata funzione di fondare l’eccezione di patto. Ma tutto ciò non tiene conto dell’enorme importanza pratica che nel diritto romano rivestiva l’exceptio pacti, e questa importanza aumenta considerevolmente se si pensa che al tempo dell’introduzione dell’edictum de pactis non esisteva ancora l’exceptio doli: per i casi nei quali i giuristi registreranno un concorso fra exceptio doli ed exceptio pacti 24, a quel tempo l’exceptio pacti costituiva il solo rimedio. Che l’edictum de pactis fosse concepito come il semplice impegno del pretore a “tener conto dei patti conclusi d’accordo fra le parti” (‘pacta conventa … servabo’), senza indicazione di specifici rimedi predisposti, lascia supporre – questo lo si deve ammettere 25 – che il pretore che lo concepì non intendeva limitare la sua possibilità d’intervento alla sola concessione di un’exceptio, e che i suoi successori che continuarono a mantenerlo nell’edictum perpetuum non pensarono di modificarne questo aspetto formale. Di rimedi diversi dall’exceptio pacti, concessi sulla base dell’edictum de pactis verso gli inizi della sua applicazione, non abbiamo notizia, ma potremmo immaginarne: un esempio particolarmente appropriato sarebbe quello dell’actio fiduciae 26. Si trattava di un’azione che sanzionava un patto (pactum fiduciae) ed era una actio in factum, che i giuristi considerarono un’azione di buona fede per ragioni sostanziali e non per la struttura della sua formula, e che può ben essere stata collocata nel titolo edittale de bonae fidei iudiciis solo in epoca assai più tarda di quella della sua introduzione, quando si decise di farne – senza cambiare il tenore della formula – un’azione edittale. Ma è difficile pensare che la stessa o comunque analoga vicenda sia toccata, come invece vorrebbe il Magdelain 27, a tutti i bonae fidei iudicia contrattuali. Ci sarebbero anche, per ammettere quest’ipotesi, da risolvere problemi cronologici non indifferenti, perché essa implicherebbe di far risalire l’introduzione dell’edictum de pactis al III secolo a. C. E se si volesse poi anche, come pensa il Gallo 28, sostenere che il sistema contrattuale prodotto dall’applicazione dell’edictum de pactis non subisse il limite della tipicità (Typenzwang), non si potrebbe poi spiegare l’intervento di Labeone con l’introduzione dell’azione contrattuale generale 29. Qui di seguito presenterò il regime che il pactum aveva in epoca classica, e vedremo che il discorso dovrà giusto partire dall’affermazione della sua inettitudine a generare un’azione, e quindi escluderlo, come tale, dal novero delle fonti d’obbligazione. Ma si vedrà pure che, ciò non ostante, l’impiego pratico del patto non era certo limitato, e meritava certamente, esigeva anzi, una previsione edittale specifica.
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MAGDELAIN, Le consensualisme cit., 76 ss. Vedi ad esempio Ulp. D.44,4,2,4, nel vol. II,1 p. 32 s. 25 E questa era semplicemente l’idea espressa dal LENEL nella citata n. 1 di EP, 20. 26 Vol. I p. 319 s. 27 Vedi in particolare MAGDELAIN, Le consensualisme cit., 109 ss. 28 GALLO, Synallagma I cit., 65 ss. 29 O, per spiegarlo, si sarebbe costretti a lavorare di pura fantasia, come fa appunto il GALLO, Synallagma I cit., 66 ss. (e poi ancora passim, fino alla fine del volume), costruendo un atteggiamento di Augusto, appoggiato da giuristi a lui fedeli, nel senso di una introduzione della tipicità. 24
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La trattazione fondamentale del patto è escerpita, nel Digesto, dal quarto dei libri ad edictum di Ulpiano, a partire dal luogo nel quale si iniziava il commentario all’edictum de pactis 30. Abbiamo già letto sopra il frammento iniziale (D.2,14,1) di questa sequenza, vedendo come il giurista vi riportasse la nozione di pactum a quella più generale di conventio. Nei frammenti immediatamente successivi 31 egli partiva dalla nozione di conventio, facendone una diairesi, che è annunziata in tre species, ma poi viene enunciata come diairesi in due genera, dei quali uno suddiviso in due species. Come già suggerivo sopra traducendo D.2,14,1, userò in italiano il termine “accordo” come equivalente del latino ‘conventio’. Potrei anche usare il pressoché omonimo “convenzione”, ma “accordo” ha il vantaggio di essere il vocabolo più corrente in questo senso nel linguaggio giuridico italiano attuale.
D.2,14,5 (Ulp. 4 ad edictum): Conventionum autem tres sunt species. aut enim ex publica causa fiunt aut ex privata: privata aut legitima aut iuris gentium. publica conventio est quae fit per pacem quotiens inter se duces belli quaedam paciscuntur. Gli accordi (conventiones) di diritto pubblico (ex publica causa) appartengono, come si vede, al diritto internazionale pubblico, e sono quelli che intervengono fra due comandanti militari in guerra fra loro (duces belli), per concludere un armistizio (per pacem) 32; gli accordi di diritto privato (ex privata causa) possono essere previsti da una legge (legitima coventio) o appartenere al ius gentium (conventio iuris gentium) 33. A quest’ultima contrapposizione corrisponde anche una contrapposizione ius civile-ius gentium, perché un accordo previsto e regolato in una legge appartiene al ius civile della comunità politica che ha emanato tale legge, mentre come “accordi appartenenti al diritto delle genti” vengono qui considerati gli accordi informali conclusi in modo impegnativo dalle parti, atto che i giuristi romani consideravano come un istituto giuridico conforme alla ragion naturale e perciò comune a tutti i popoli civili 34. Possiamo qui lasciar da parte le conventiones legitimae 35, in quanto quelli che ora ci inte30
Vedi LENEL, Pal. II, 431 ss. (Ulp. fr. 240 ss.). Che sono, nella Palingenesia del LENEL, i fr. Ulp. 241 e 242, cioè D.2,14,5 e D.2,14,7. 32 Un’esegesi approfondita di Ulp. D.2,14,5 insieme con Paul. D.2,14,6 e Ulp. D.2,14,7 si legge in KASER, Ius gentium, Köln-Weimar-Wien 1993, 134 ss. 33 Sulla nozione di ius gentium e il senso della contrapposizione ius civile-ius gentium vedi vol. I p. 32 s. 34 Si ricorderà Gai.1,1, che abbiamo letto nel vol. I a p. 20 s. 35 Per le quali non abbiamo la spiegazione di Ulpiano, perché i compilatori del Digesto hanno preferito inserirvi quella di Paolo (3 ad edictum, D.2,14,6), che agli accordi considerati in una 31
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ressano sono gli accordi iuris gentium, per i quali disponiamo della trattazione di Ulpiano. Essa s’inizia con questa affermazione: D.2,14,7 pr. (Ulp. 4 ad edictum): Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam exceptiones. “Degli accordi di diritto delle genti alcuni generano azioni, alcuni eccezioni”. Nei successivi paragrafi 1-3 Ulpiano fa un discorso assai importante, dicendo in sostanza che gli accordi che generano azione sono i contratti, e questi possono essere o contratti nominati – cioè quelli per i quali l’azione è specificamente (cioè designandoli con una denominazione contrattuale come emptio venditio, locatio conductio, commodatum, depositum e via dicendo) prevista nell’editto del pretore – o contratti innominati, che consistono in accordi informali per i quali l’azione non è specificamente prevista nell’editto e quindi non assumono una denominazione tecnica particolare, ma che sono muniti di una causa che li rende meritevoli di tutela mediante azione contrattuale. Ma si tratta di una problematica che per ora dobbiamo lasciare in sospeso, perché la tratteremo espressamente più avanti 36. Continuiamo dunque con quel che Ulpiano scriveva degli accordi che non producono azioni, e quindi non sono contratti. Come vedremo subito, questi accordi sono qualificati accordi “nudi”: nel testo che leggeremo si dice anzitutto ‘nuda pactio’, ma, come vedremo nel seguito del discorso di Ulpiano, come equivalente di questa espressione si usa il semplice termine pactum, o anche conventio. Con ciò si vuole indicare un accordo puro e semplice, ovvero l’accordo come tale. Preciso: a) pactum (o conventio) significa “un accordo puro e semplice” quando con la parola si vuole concretamente alludere ad un accordo – su di un certo oggetto – che non può essere munito di azione, perché né è previsto nell’editto pretorio come contratto tipico (vendita, locazione, mandato, comodato etc.), né è stato adottato dalle parti nella forma della stipulatio, né risulta fornito dei requisiti (in particolare, una causa idonea) atti a meritargli la tutela come contratto innominato mediante l’azione contrattuale generale. Insomma, per pactum o conventio come “un accordo puro e semplice” s’intende un accordo che non trova altra tutela se non quella offerta dall’edictum de pactis, tutela che si concreta nella sola concessione all’interessato dell’exceptio pacti: il che precisamente significa che in giudizio un simile accordo non può essere fatto valere se non dal convenuto; b) pactum (o, spesso, conventio) significa “l’accordo in se stesso” quando nel con-
legge assimila quelli considerati in un senatoconsulto e, per entrambe le figure, dice in sostanza che ad essi si applica il regime stabilito nella fonte nomativa che li prevede, sicché essi possono, ai sensi di questa, anche produrre azione. 36 Nel paragrafo 2 e suoi sottoparagrafi di questo stesso capitolo.
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testo il termine allude all’accordo delle parti considerato prescindendo dalla sua ulteriore natura o dai suoi effetti (creazione o meno di obbligazioni, tipo di tutela che gli spetta etc.), ma unicamente per designarne la struttura, come strumento per concretare un accordo delle parti. Naturalmente, tutta la materia che risulta sintetizzata nella frase che precede sarà oggetto di trattazione nel seguito di questo capitolo. Per ora continuiamo a leggere Ulpiano concentrandoci sui §§ 4 e 5 della sequenza in esame, tenendo conto che qui egli scriveva avendo sùbito prima parlato degli accordi muniti di causa idonea a dar loro veste contrattuale e quindi effetto obbligatorio: D.2,14,7,4 (Ulp. 4 ad edictum): Sed cum nulla subest causa, propter conventionem hic 37 constat non posse constitui obligationem: igitur nuda pactio obligationem non parit, sed parit exceptionem. 5: Quin immo interdum format ipsam actionem, ut in bonae fidei iudiciis; solemus enim dicere pacta conventa inesse bonae fidei iudiciis. sed hoc sic accipiendum est, ut si quidem ex continenti pacta subsecuta sunt, etiam ex parte actoris insint; si ex intervallo non inerunt, nec valebunt, si agat, ne ex pacto actio nascatur: ut puta post divortium convenit, ne tempore statuto dilationis dos reddatur, sed statim: hoc non valebit, ne ex pacto actio nascatur: idem Marcellus scribit; et si in tutelae actione convenit, ut maiores quam statutae sunt usurae praestentur, locum non habebit, ne ex pacto nascatur actio. ea enim pacta insunt, quae legem contractui dant, id est quae in ingressu contractus facta sunt. idem responsum scio a Papiniano, et si post emptionem ex intervallo aliquid extra naturam contractus conveniat, ob hanc causam agi ex empto non posse propter eandem regulam, ne ex pacto actio nascatur. quod et in omnibus bonae fidei iudiciis erit dicendum. sed ex parte rei locum habebit pactum, quia solent et ea pacta, quae postea interponuntur, parere exceptiones. La traduzione: “Ma quando non sussiste alcuna causa, in tal caso è pacifico che in forza dell’accordo non può formarsi un’obbligazione: dunque un patto nudo (= un semplice accordo come tale) non genera obbligazione, ma genera un’eccezione. 5: Però, in certi casi viene a determinare la portata dell’azione stessa, come nei processi di buona fede; infatti siamo abituati a dire che gli accordi conclusi sono inerenti nei processi di buona fede. Ma questo deve intendersi nel senso che, se i patti (pacta) hanno avuto luogo nel contesto (della conclusione del negozio che rappresenta l’oggetto dell’azione) 38, essi sono inerenti 37 Lo HUSCHKE (vedi nell’editio minor la nota ad l.) proponeva di considerare l’hic come lo scioglimento erroneo, effettuato dai compilatori (cfr. Deo auctore, 13), dell’abbreviazione ‘ic’ = iure civili. Il problema non ha comunque grande rilevanza, perché il senso della frase non è in questione. 38 L’espressione “si … ex continenti pacta subsecuta sunt” significa letteralmente “se i patti si sono aggiunti subito”, ed ex continenti si contrappone al successivo ex intervallo, che significa “dopo un certo lasso di tempo”.
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anche dal lato dell’attore; se invece (hanno avuto luogo) dopo un certo tempo (dalla conclusione del negozio che rappresenta l’oggetto dell’azione), non saranno inerenti né avranno valore qualora sia l’attore che li invoca, affinché dal patto (pactum) non nasca un’azione: per esempio, dopo il divorzio ci si è accordati che la dote non venga restituita entro la dilazione stabilita 39, ma subito: questo (accordo) non varrà 40, perché dal patto non nasca azione; la stessa cosa scrive Marcello; e se, in rapporto all’actio tutelae 41, ci si sia accordati nel senso che vengano pagati degli interessi superiori a quelli che furono stabiliti, (questo patto) non avrà efficacia, affinché dal patto non nasca un’azione. I patti che ineriscono, in effetti, sono quelli che introducono delle clausole che riguardano il regime del contratto che si sta concludendo 42, e cioè quelli che sono stati adottati al momento della conclusione del contratto. Conosco un responso di Papiniano che dice la stessa cosa 43, e (aggiunge) che se il compratore abbia concluso un accordo un certo tempo dopo la conclusione della compravendita 44 su qualcosa di estraneo alla natura del contratto, fondandosi su di esso
39 È possibile che tempore statuto dilationis dipenda, come voleva il Cuiacio (vedi ind. itp. I ad h. l.) da un’interpolazione giustinianea che voleva fare riferimento a C.5,13,1,7-7b (a. 530) con il nuovo regime per i termini di restituzione della dote: Ulpiano avrebbe invece fatto specifico riferimento al regime classico della restituzione dei beni dotali consistenti in cose fungibili (annua bima trima die), perché gli altri beni dovevano essere restituiti statim: cfr. lo stesso C.5,13,1,7, nonché Ulp.6.8 (annua bima trima die = in tre rate di un anno ciascuna); vedi anche Paul. D.23,4,14; 15 (Gai.); 16. 40 Se sia la donna che esercita l’actio rei uxoriae per ottenere la restituzione immediata della dote. 41 L’actio tutelae (che si esercitava con un iudicium bonae fidei), estesa poi ad ogni tipo di tutela, fu con ogni probabilità creata per il caso della tutela atiliana (introdotta con una lex Atilia, plebiscito collocabile nel 210 a. C.; Gai.1, 185-187; la si denomina spesso anche tutela dativa, ma impropriamente: Gai.1,154; Ulp.11,14; Mod. D.46,6,7), cioè quando il tutore fosse nominato da un organo pubblico per un impubere che non avesse un tutore testamentario o legittimo. L’azione era esperibile alla fine della tutela (Paul. D.27,3,4 pr.) contro il tutore che avesse gestito male il proprio ufficio e dovesse quindi rispondere dei danni cagionati al pupillo. LENEL, EP, 318 s.; KASER, RPR I, 365 ss.; anche 361. 42 Questa traduzione di ‘pacta … quae legem contractui dant’ è un po’ macchinosa, ma è la sola esatta. Con lex contractus i giuristi indicavano soprattutto il testo di un contratto (in particolare quando questo fosse concluso per iscritto, il che avveniva – come può comprendersi – assai spesso per i contratti consensuali di una qualche complessità). Dicendosi “patto che dà legge ad un contratto” si allude dunque propriamente ad “un patto che costituisce una clausola particolare che si scrive nel contesto di un contratto” quando lo si conclude, cioè quando se ne determina in modo compiuto e definitivo il complessivo tenore. 43 Questa citazione di Papiniano può forse riferirsi a Pap. D.18,1,72 pr., che vedremo più avanti; ma quel che del discorso di Papiniano è riportato nel Digesto non contiene l’affermazione per la quale Ulpiano parrebbe citarlo, in quanto in D.18,1,72 pr. cit. si parla solo dei pacta ex intervallo. 44 Con questo “ovvero” traduco il vel che ho aggiunto nel testo e che – se la mia traduzione è corretta – risulta necessario. Cercherò di darne giustificazione infra, nel prossimo brano in carattere piccolo (quello che contiene la n. 45).
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egli non può agire ex empto in ragione della stessa regola, che non deve ammettersi che un’azione nasca da un patto: il che deve dirsi per tutti i iudicia bonae fidei. Invece il patto (aggiunto ad un contratto) avrà (comunque) valore a favore del convenuto, perché (anche) i patti conclusi dopo (il contratto) producono generalmente un’eccezione.” Come si vede, l’intero testo è basato su di una netta contrapposizione tra due modi di essere dell’accordo: l’accordo che costituisce o comunque fa parte di un contratto e l’accordo che resta un semplice patto. A questa contrapposizione fra contratto e patto corrisponde la parallela contrapposizione fra la tutela giudiziaria completa mediante azione e la tutela giudiziaria limitata alla possibilità di opporre un’eccezione. Ed è quest’ultima tutela, la quale si realizza unicamente mediante opposizione di un’eccezione, ad avere la sua base nell’edictum de pactis. Tutela mediante eccezione significa tutela che spetta al solo convenuto: di un patto che dà soltanto luogo ad eccezione potrà valersi soltanto il soggetto che nel processo, nel quale concretamente il contenuto del patto viene in considerazione, si trovi a rivestire il ruolo di convenuto. Se il processo di cui si tratta è un processo di buona fede (iudicium bonae fidei), la proclamata inerenza dell’exceptio pacti nei iudicia bonae fidei ha già qui una propria rilevanza: siccome un processo è di buona fede perché l’intentio della formula sulla base della quale lo si esperisce attribuisce al giudice il compito di stabilire “che cosa il convenuto debba dare o fare a favore dell’attore secondo buona fede (ex fide bona)”, e siccome lo sgravio delle sue obbligazioni concordato nel pactum è considerato inerente al criterio della buona fede, il convenuto potrà valersi dell’eccezione sulla base dell’intentio stessa della formula, senza aver preventivamente chiesto in iure l’inserzione nella formula dell’exceptio, cioè dell’apposita clausola che permetterebbe al convenuto di valersi dell’eccezione: il convenuto, dunque, potrà direttamente sollevare l’eccezione apud iudicem. La gamma di casi nei quali un patto può essere fatto valere anche dall’attore, e quindi risulta essere protetto da azione, costituiscono solo apparentemente una deroga al sistema descritto: ciò perché si tratta di casi nei quali il patto in questione non era in realtà un nudum pactum, un accordo isolato ed autonomo, bensì esso altro non rappresentava che un elemento dell’insieme degli accordi contrattuali: sicché il soggetto che agisca in un caso del genere, anche se agisca invocando specificamente il contenuto del patto, non deduce in giudizio il patto come fondamento della propria azione, ma l’intero contratto; il patto viene dunque dedotto ed invocato in giudizio come una delle clausole delle quali il contratto consiste. Ciò implica che sia chiaro quando un patto può considerarsi perder la sua natura di patto per confluire nell’insieme degli accordi contrattuali: ed i criteri per decidere questo punto sono ben precisi. Il primo criterio è assai semplice e di facile verifica in pratica: un patto può essere considerato come clausola di un contratto se è stato concluso insieme al contratto (ex continenti).
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Ma un secondo criterio è altrettanto rilevante: anche se il patto sia stato concluso insieme al contratto – magari, al limite, se il contratto sia stato concluso per iscritto, il patto compaia nel bel mezzo del suo testo – esso non apparterrà al contratto se quel che dispone non abbia rapporto con l’affare gestito dalle parti in quel contratto e con la sua disciplina. Quest’ultimo principio risulta enunciato in Ulp. D.2,14,7,5 dopo il vel che ho proposto di inserirvi, e risulta chiaramente inserito proprio per l’aggiunta di quella congiunzione avversativa. Devo dunque dimostrare la correttezza di tale inserzione, anzi: la sua necessità. Potrebbe infatti dirsi che il passo correrebbe benissimo senza il vel, solo che avrebbe un significato diverso. Incominciamo considerando quel che si legge nel § 5 – prescindendo per ora dall’esemplificazione –, prima che Ulpiano citasse Papiniano. Ulpiano proponeva uno schema assai semplice (che presento parafrasando il dettato ulpianeo): “Siamo in materia di processi di buona fede, dove si usa dire che gli accordi pattizi sono inerenti; ma bisogna intendersi: ci sono patti inerenti anche per l’attore (e che quindi formant ipsam actionem) e patti inerenti solo per il convenuto (e che quindi generano solo eccezione); i patti inerenti anche per l’attore sono quelli ex continenti, i patti inerenti solo per il convenuto sono quelli ex intervallo; infatti solo i pacta ex continenti legem contractui dant (fanno parte della disciplina propria del contratto) e quindi quelli ex intervallo no”. Ma poi Ulpiano aggiunge di avere presente un luogo di Papiniano in cui si dice la stessa cosa, però non si limita, come ci si attenderebbe, a questo rinvio, ma precisa quanto diceva Papiniano: responsum scio a Papiniano, et si post emptionem ex intervallo aliquid extra naturam contractus conveniat, ob hanc causam agi ex empto non posse propter eandem regulam, ne ex pacto actio nascatur. quod et in omnibus bonae fidei iudiciis erit dicendum. Dunque Papiniano (prescindo ora dal vel) avrebbe detto: “la regola secondo la quale non può ammettersi che da un patto nasca azione impedisce di considerare inerenti anche per l’attore i patti conclusi ex intervallo il cui contenuto è estraneo alla natura del contratto”. Ora, se Papiniano avesse scritto questo, Ulpiano non avrebbe potuto addurlo a conferma del proprio enunciato, perché Papiniano avrebbe scritto che i patti non inerenti per l’attore sono quelli che, conclusi ex intervallo, hanno contenuto estraneo alla natura del contratto, dal che si desumerebbe pure che i patti estranei alla natura del contratto genererebbero azione se fatti in continenti. Il che è tutto evidentemente assurdo. Inserendo il vel l’assurdità è evitata, e il problema pare ridursi a questo: Ulpiano, con la citazione di Papiniano, confermava effettivamente quanto egli stesso aveva detto prima (si post emptionem ex intervallo aliquid ... conveniat, ob hanc causam agi ex empto non posse), ma riportando la citazione completa aggiungeva un’ulteriore precisazione regolare di Papiniano (si ... aliquid extra naturam contractus conveniat, ob hanc causam agi ex empto non posse). Se così stavano le cose, Ulpiano deve certo avere notato la cosa e giustificato o semplicemente valutato l’ulteriore aggiunta di Papiniano, ma i compilatori hanno soppresso tutto ciò, e preso la citazione fatta da Ulpiano come semplicemente confirmatoria. Naturalmente questo principio, che nel testo è espresso con le parole che seguono il vel che abbiamo dovuto aggiungere – e che per lo meno non contrasta con Pap. D.18,1,72 pr. – sul patto aggiunto, anche in continenti, ma che riguardi materia estranea alla natura del contratto (extra naturam contractus), può dare luogo a problemi interpretativi. Facciamo l’ipotesi seguente (che costruisco interamente io stesso, e quindi è abbastanza banale): in un contratto di vendita redatto per iscritto è detto: «A vende a B il
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fondo corneliano per la somma di 500.000 HS. A si impegna a dare immediatamente, alla conclusione del presente contratto, 250.000 HS a mutuo a B con un termine di un anno per la restituzione. B pagherà il prezzo immediatamente alla conclusione del presente contratto». Se applichiamo i criteri interpretativi che abbiamo or ora stabilito circa l’appartenenza del patto al contratto, dovremmo dire che il patto sul mutuo è estraneo alla natura del contratto di vendita, e quindi senza effetto: il compratore non potrebbe pretenderne il rispetto esercitando l’actio empti, né d’altra parte esso avrebbe valore come contratto autonomo: si tratta di un accordo preliminare di mutuo, e un simile accordo non ha valore se non fatto in forma di stipulatio 45. Però, se si legge la clausola in questione avendo di vista l’insieme dell’affare concluso dalle parti, si vede che essa può interpretarsi come espressiva della volontà delle parti nel senso che il pagamento del prezzo vada effettuato in due rate: metà alla conclusione del contratto e metà nel termine di un anno successivo.
Possiamo individuare anche un terzo criterio: che un patto – effettuato immediatamente di seguito ad un contratto o dopo un certo tempo – con il quale si modifichi un elemento essenziale del contratto non può considerarsi far parte dello stesso contratto. Ma per questo è bene che leggiamo la nota di Paolo ad un testo di Papiniano. Leggeremo l’intero passo, perché tutto riguarda i temi che stiamo trattando: D.18,1,72 pr. (Pap. 10 quaest.): Pacta conventa, quae postea facta detrahunt aliquid emptioni, contineri contractu 46 videntur; quae vero adiciunt, credimus [hoc] 47 non inesse. quod locum habet in his, quae adminicula sunt emptioni, veluti ne cautio duplae praestetur aut ut cum fideiussore cautio duplae praestetur. sed quo casu agente emptore non valet pactum, idem vires habebit iure exceptionis agente venditore. an idem dici possit aucto postea vel deminuto pretio, non immerito quaesitum est, quoniam emptionis substantia [constitit] 48 ex pretio. PAULUS notat: si omnibus integris manentibus de augendo vel deminuendo pretio rursum convenit, recessum a priore contractu et nova emptio intercessisse videtur. “I patti conclusi dopo il contratto, i quali sottraggono qualcosa al (contenuto del)la compravendita, appaiono far parte del contratto 49; quelli che invece 45
Come in Paul. D.45,1,68, che abbiamo letto nel vol. II,1 p. 207. Vedi infra, n. 49. 47 La correzione è dello SCHULTING (vedi Dig. Mil. ad h. l.); potrebbe anche correggersi scrivendo hoc. 48 La correzione (consistit invece di constitit) mi pare necessaria. Vedi infra, n. 51. 49 Devo modificare un po’ la forma della traduzione letterale, che darebbe: “I patti conclusi, i quali, se intervenuti dopo, sottraggono qualcosa alla compera, appaiono far parte del (o: dipendere dal) contratto”. Alla fine della frase, ho scelto la lezione contineri contractu (ablativo), mentre il MOMMSEN adottava quella di ‘contineri contractui’, dove contractui è dativo: ma non si com46
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(vi) aggiungono, crediamo che non gli appartengano. Questo (problema) si pone per i (patti che costituiscono dei) complementi (adminicula) della compravendita, come che (= come il patto secondo il quale) «non si presti la cautio duplae 50», o che «la stipulatio duplae si presti munita di un fideiussore». Ma, nel caso in cui il patto non vale perché chi agisce in giudizio è il compratore, lo stesso (patto) avrà valore per fondare un’eccezione nel caso sia il venditore ad agire. Non a torto è controverso, se lo stesso possa dirsi nel caso in cui, (mediante un patto concluso) dopo il contratto, il prezzo sia stato aumentato o diminuito, poiché è la sostanza (stessa) della vendita che prende consistenza dal prezzo 51. PAOLO annota: Se (dopo conclusa la compra-vendita), nessun atto di esecuzione avendo ancora avuto luogo 52, ci si sia accordati una seconda volta per aumentare o diminuire il prezzo, risulta che si sia receduto dal precedente contratto e sia intervenuta una nuova compra vendita.”. Papiniano – riferendosi solo alla casistica relativa alla compravendita – esponeva qui unicamente l’insieme degli effetti del patto concluso ex intervallo (questo è il senso dell’espressione pacta conventa … postea facta). La sua impostazione del discorso è un po’ diversa da quella di Ulpiano, ma è facile constatare che l’orientamento sostanziale è il medesimo. A detta di Papiniano, dunque, questi patti successivi possono essere considerati validi se non attribuiscono diritti, ma ne tolgono, e quindi possono giovare solo al convenuto, che potrà difendersi opponendo l’exceptio pacti all’attore che avanzi una pretesa eliminata dal patto. L’esempio calzante a questa affermazione è quello del patto che esclude l’assunzione della garanzia per evizione mediante cautio duplae da parte del venditore. Esempio del patto che, invece, aggiunge qualcosa è quello del patto che esige la garanzia per evizione sia prestata con stipulatio duplae munita di fideiussione. Sulla base di questo patto nessuno potrà agire: né il compratore, per la regola che non vuole che un patto possa fondare un’azione, né il venditore perché non vi ha interesse (il patto ha prende la sua scelta per -ui tra -u e -ui, perché la Fiorentina non dà elementi per decidere ed il resto delle testimonianze manoscritte lascia, a quanto mi pare, il dubbio; la scelta dell’ablativo s’impone a mio avviso perché i lessici non permettono di giustificare la costruzione col dativo per il verbo contineri (composto di cum) nel senso che esso ha in questo luogo. La costruzione col dativo è invece, sebbene raramente, testimoniata per continens: (vedi ad esempio CIL 2.1964.3.62: quae … ei oppido continentia aedificia erunt; cit. in Oxford Latin Dict. [1968] s. v. continens 3b). Ammettendo questa lettura (contractui) si potrebbe pensare che Papiniano l’avesse adottata pensando a imperio contineri che, detto del iudicium, è impiegato – come espressione corrente nel linguaggio giuridico – in Gai.4,103; 105, dove imperio deve pure bensì essere ablativo, ma che poteva essere percepito come dativo per l’affinità con l’espressione parallela (iudicium) imperio continens (Gai.4,106: vedi vol I p. 111 ss.), dove imperio potrebbe essere un dativo in effetti. 50 Non si presti la garanzia da evizione mediante la stipulatio che la stabilisce nel doppio del prezzo. 51 Cioè: la definizione del prezzo (l’accordo sul prezzo) è elemento essenziale del contratto di compravendita, e non un suo ‘adminiculum’ (un complemento del suo regime). Ho preferito sostituire consistit (presente) a constitit (perfetto) considerando la variante un errore nella tradizione manoscritta del passo, perché l’affermazione ha carattere generale. 52 Questo inciso si riferisce ad una regola in materia di risoluzione consensuale del contratto; vedi infra, fra poco.
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contenuto per lui svantaggioso). La frase successiva (sed quo casu agente emptore non valet pactum, idem vires habebit iure exceptionis agente venditore) si riferisce ancora ad un caso in cui il patto sia favorevole al compratore, e sembrerebbe che si riprenda il tema per sottolineare l’indipendenza del diritto del compratore di difendersi mediante eccezione dal fatto che egli per la stessa cosa non abbia azione: per esempio, se il patto successivo fosse stato nel senso che veniva concesso al compratore di pagare il prezzo invece che in unica soluzione immediata dopo la conclusione del contratto, in due rate, una alla consegna della merce e l’altra sei mesi dopo, il compratore non potrà agire per ottenere che il venditore gli faccia una novazione dell’obbligazione di pagare il prezzo conformandola al regime previsto nel patto; ma se il venditore agisca per il pagamento in contrasto col patto, il compratore potrà difendersi opponendo l’eccezione.
Quel che del passo ora ci interessa di più è l’ultima parte, con poi la nota di Paolo: posto e motivato da Papiniano come problema, e risolto da Paolo, vi abbiamo letto il terzo fra i criteri che permettono di stabilire quando un patto possa essere considerato idoneo a valere come clausola di un contratto: esso non deve contraddire il contratto modificandone un elemento essenziale, come – nel caso della vendita – l’ammontare del prezzo o, possiamo aggiungere, l’identità della merce. Già da quanto abbiamo detto finora ci siamo – penso – resi conto del fatto che la portata pratica dell’edictum de pactis non era affatto secondaria, e che la rilevanza della sua tutela mediante la sola eccezione non può per questo essere sottovalutata, perché l’eccezione permette di far valere non un singolo fatto precisamente definito, ma un modello di accadimento giuridico al quale corrisponde una varietà tipologica illimitata. Certo, l’eccezione è solo uno strumento difensivo, e non anche aggressivo; ma se ciò consente di dire che la tutela del patto è più limitata di quella del contratto, essa non cessa di avere dimensioni più che rispettabili. Del resto, si può facilmente constatare che il riconoscimento degli effetti giuridici del patto conseguito alla introduzione della sua tutela mediante exceptio ha consentito la creazione di veri e propri istituti giuridici, che hanno perfettamente funzionato nel diritto romano pur mantenendo la loro natura di patti puri e semplici: si tratta in particolare della remissione consensuale del debito, della transazione e della risoluzione consensuale del contratto. Della remissione consensuale dell’obbligazione abbiamo già detto (essa ha permesso di estendere ad ogni obbligazione il meccanismo creato per l’obbligazione da stipulatio, solo trasferendone l’efficacia dal terreno del ius civile a quello del ius honorarium), come anche della transazione 53. Ci resta da dire qui della risoluzione consensuale. Un accenno alla risoluzione consensuale del contratto l’abbiamo scorto da 53
Nel vol. II,1 di questo Corso si vedano: per la risoluzione consensuale p. 306; per la transazione p. 318 s.
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poco nella nota di Paolo che chiude D.18,1,72 pr., ed altri se ne potrebbero facilmente incontrare 54; ma conviene ora concentrarsi su di un testo particolarmente importante in materia, che per altro non è che il seguito dell’ultimo frammento di Ulpiano che abbiamo considerato da poco: D.2,14,7,6 (Ulp.4 ad ed.): Adeo autem bonae fidei iudiciis pactiones 55 postea factae, quae ex eodem sunt contractu, insunt, ut constet [in emptione ceterisque bonae fidei iudiciis] 56 re nondum secuta posse abiri ab emptione. si igitur in totum potest, cur non et pars eius pactione mutari potest? et haec ita Pomponius libro sexto ad edictum scribit. quod cum est, etiam ex parte agentis pactio locum habet, ut et ad actionem proficiat nondum re secuta, eadem ratione. nam si potest tota res tolli, cur non et reformari? ut quodammodo quasi renovatus contractus videatur. quod non insuptiliter dici potest. unde illud aeque non reprobo, quod Pomponius libris lectionum probat, posse in parte recedi pacto ab emptione, quasi repetita partis emptione. sed cum duo heredes emptori extiterint, venditor cum altero pactus est, ut ab emptione recederetur: ait Iulianus valere pactionem et dissolvi pro parte emptionem: quoniam et ex alio contractu paciscendo alter ex heredibus adquirere sibi potuit exceptionem. utrumque itaque recte placet, et quod Iulianus et quod Pomponius. La traduzione: “E che i patti conclusi dopo (un contratto), i quali attengono allo stesso contratto, siano inerenti nei iudicia bonae fidei (che sanzionano il medesimo contratto) è tanto vero, che è pacifico che [-] è possibile recedere dalla compra vendita quando nessun atto di esecuzione del contratto abbia ancora avuto luogo. Se dunque è possibile (risolvere il contratto) integralmente, perché non dev’essere possibile che ne venga mutata solo una parte? E Pom54
Uno, ad esempio, lo abbiamo letto nella parte attribuibile a Pomponio del ben noto Pomp. Q.Muc. D.46,3,80. 55 La lezione pactiones è dei manoscritti deteriores, perché quella comune negli altri manoscritti e conforme ai Basilici è exceptiones; che però è certamente scorretta. Il Ferrini (vedi Dig. mil.), per accettare la lezione exceptiones, proponeva di proseguire così: exceptiones ex pactionibus postea factis. 56 Che le parole ‘in emptione ceterisque bonae fidei iudiciis’ provengano da un glossema è chiaro. Un lettore tardo voleva precisare che quel che Ulpiano dice sulla possibilità di risolvere una vendita mediante un patto vale anche per gli altri contratti consensuali: e faceva anche bene, nel senso che ciò era certo sottinteso da Ulpiano stesso, che ragiona sulla vendita solo perché praticamente si tratta del solo caso di vasta rilevanza, anche per la ragione che, l’accordo risolutorio essendo efficace solo se nessuna prestazione sia stata ancora eseguita, negli altri contratti ciò può praticamente verificarsi assai più di rado e non può verificarsi affatto nei contratti reali (in senso moderno). Ma il glossatore si esprimeva anche con imprecisione, perché la sua frase – che nella traduzione ometterò del tutto – significa: “nella compra vendita e negli altri iudicia bonae fidei”, mentre avrebbe dovuto scrivere “nella compra vendita e negli altri (contratti protetti da) iudicia bonae fidei”.
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ponio scrive questo nel sesto dei suoi libri ad edictum. Quando ciò avvenga, il patto ha rilevanza anche per l’attore, cosicché, sempre se nessun atto di esecuzione abbia già avuto luogo, serva da fondamento anche all’azione, per la stessa ragione 57. In effetti, se l’intero affare può essere eliminato, perché non deve poter essere anche modificato? In modo che il contratto appaia come rinnovato. Ciò può dirsi non senza raffinatezza. Per cui non rifiuto neppure quel che Pomponio dice nei libri lectionum, e cioè che si può recedere con un patto da una compravendita, come si fosse rifatta la compravendita di una parte (della compravendita precedente). Ma poniamo il caso che siano succeduti due eredi al compratore, e il venditore abbia pattuito con uno dei due il recesso dalla compravendita: dice Giuliano che il patto è valido e che la compravendita si scioglie per una parte; perché patteggiando sull’altro contratto (cioè, meglio: sull’altra parte del contratto), l’altro erede poteva acquistarsi l’eccezione. E così ritengo corretto accettare entrambe le opinioni, quella di Giuliano e quella di Pomponio.” Trovo difficile capire che cosa volesse dire Ulpiano con le parole ‘eadem ratione’ (che, presso la n. 57, ho tradotto con “per la stessa ragione”), con le quali il giurista sembra voler giustificare il fatto che l’accordo risolutorio parziale può anche essere invocato dall’attore. Può anche darsi che Ulpiano si spiegasse più chiaramente, e che il testo sia stato, dai compilatori, riassunto. Comunque sia di ciò, esiste ed è ben chiara la ragione per la quale l’accordo risolutorio integrale può essere opposto – secondo la regola generale – dal solo convenuto mediante eccezione, mentre l’accordo risolutorio parziale deve poter essere invocato anche dall’attore in giudizio. Se il patto di risoluzione è stato integrale, esso funziona perfettamente con la sola possibilità del convenuto di eccepirlo. Se invece il patto era di risoluzione parziale, l’attore deve potere già nella propria domanda chiedere le prestazioni ridotte nella misura risultante dal patto. Poniamo per esempio il caso che si tratti di una compravendita nella quale V ha venduto a C una coppia di buoi per 6.000 HS: a) se sia intervenuto un patto di risoluzione integrale e C poi agisca per ottenere la prestazione dei buoi, ove V risponda opponendo la risoluzione del contratto, la cosa finirà con l’assoluzione di V, cioè nel senso della risoluzione; se invece V non opponga l’eccezione ma faccia valere il suo diritto a prestare i buoi solo se C offra l’intero prezzo, le parti risulteranno semplicemente essersi comportate nel senso di voler ridare vita al contratto com’era stato concluso, rinunziando concordemente alla risoluzione; b) se invece la risoluzione è stata parziale, per esempio con un patto successivo si sia risolto il contratto per quanto concerne il secondo bove e 3.000 HS 58, C, se vuole valersi del patto, deve poter agire con la sua actio ex empto pretendendo uno solo dei buoi; se fosse costretto a pretenderli entrambi, V, non opponendo l’eccezione, potrebbe costringerlo a rispettare l’originario contratto integrale, pretendendo da lui l’offerta dell’intero prezzo. La soluzione, che con questo esempio ho giustificato da un punto di vi-
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Vedi la spiegazione che è inserita, in corpo piccolo, subito dopo la traduzione. In questo modo, in realtà, le parti hanno receduto dal contratto di compravendita della coppia di buoi (cosa collettiva) per sostituirle la compravendita di uno dei buoi considerato in se stesso, e non come elemento di una cosa collettiva. 58
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sta pratico, si inquadra anche dommaticamente, ove si consideri che un patto di risoluzione parziale effettuato dagli stessi contraenti, viene a consistere sempre nell’insieme di una risoluzione del contratto precedente e nella conclusione di un nuovo contratto: e questo nuovo contratto può evidentemente essere invocato da entrambe le parti. Tutto ciò, detto in questi termini, si riferisce ai casi ordinari, e deve subire i necessari adattamenti per l’ipotesi proposta, nel passo che abbiamo letto, da Giuliano, dove il patto di risoluzione non interviene fra le parti del contratto originario, ma fra una di tali parti e uno degli eredi dell’altra. La valutazione di quest’ultima situazione presenta aspetti particolari, che qui non è il luogo per trattare: ma il lettore possiede tutti gli elementi per farla da sé 59.
Come si è visto, il testo di Ulpiano – forse rimaneggiato ancor più che con il glossema che ho segnalato – risulta scritto in un modo un po’ faticoso. Ma in sostanza se ne ricava che un patto aggiunto che modifichi un elemento essenziale del contratto è sempre un patto di risoluzione totale ed insieme l’accordo conclusivo di un nuovo contratto; potremmo anche formulare il risultato in termini più generali dicendo che un patto che modifichi il regime di un precedente contratto in modo da toccarne l’equilibrio sinallagmatico va sempre considerato contenere la conclusione di un nuovo contratto. In modo limpidissimo è invece scritto il testo seguente, che completa la trattazione della materia, e dove non si può non ammirare il modo nel quale una penetrante presentazione dommatica della soluzione viene esposta con la più classica semplicità; come del resto era facile attendersi da un passo di Nerazio che si ricollega ad un precedente di Aristone: D. 2,14,58 (Ner. 3 membr.): Ab emptione venditione, locatione conductione ceterisque similibus obligationibus quin integris omnibus consensu eorum, qui inter se obligati sint, recedi possit, dubium non est. Aristoni hoc amplius videbatur: si ea, quae me ex empto praestare tibi oporteret, praestitissem et cum tu mihi pretium deberes, convenisset mihi tecum, ut rursus praestitis mihi a te in re vendita omnibus, quae ego tibi praestitissem, pretium mihi non dares, tuque mihi ea praestitisses, pretium te debere desinere, quia bonae fidei, ad quam omnia haec rediguntur, interpretatio hanc quoque conventionem admittit. nec quicquam interest, utrum integris omnibus, in quae obligati essemus, conveniret, ut ab eo negotio discederetur, an in integrum restitutis his, quae ego tibi praestitissem, consentiremus, ne quid tu mihi eo nomine praestares. illud plane conventione, quae pertinet ad resolvendum id quod actum est, perfici non potest, ut tu quod iam ego tibi praestiti contra praestare mihi cogaris: quia eo modo non tam hoc agitur, ut a pristino negotio discedamus, quam ut novae quaedam obligationes inter nos constituantur. 59 Tenendo presente il principio secondo il quale le obbligazioni del defunto si dividono fra i suoi eredi (tab.5,9 richiamata in C.3,36,6 [imp. Gord. 238-244]; anche Paul. D.10,2,2,5; D.10,2,25,1 e 13; C.22,3,26 a. 294): vedi anche nel vol. II,1 p. 297 ss.
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“Non c’è dubbio che mediante il consenso dei soggetti che si erano reciprocamente obbligati, sia possibile, finché nessun atto di esecuzione abbia avuto luogo, recedere da una compravendita, una locazione conduzione e dagli altri negozi obbligatori del genere. Aristone riteneva che si possa andare anche più in là: (vale a dire ammettere) che se io avessi eseguito le prestazioni, che dovevo eseguire a favore di te compratore e, mentre tu mi dovevi (ancora) il prezzo, sia intervenuto fra me e te un accordo, nel senso che, dopo aver restituito di nuovo a me tutte le prestazioni che in esecuzione della vendita io ti avevo prestato, tu non mi paghi il prezzo, e tu mi abbia effettuato le dette prestazioni, tu cessi di dovermi il prezzo, perché l’interpretazione secondo buona fede, alla quale tutta questa materia è ricondotta, ammette anche questo accordo. E non ha alcuna rilevanza se l’accordo di recedere da quel negozio abbia avuto luogo finché non si era eseguita alcuna delle obbligazioni esistenti fra noi (integris omnibus, in quae obligati essemus), ovvero se abbiamo convenuto che tu non mi dia nulla a tale titolo dopo che mi sia stato restituito tutto quello che io ti avessi prestato. Deve solo esser chiaro (plane) questo (illud): che con l’accordo che riguarda la risoluzione del negozio concluso non può stabilirsi che tu sia tenuto a restituirmi (contra praestare) quel che io ti ho già prestato: perché in questo modo non si concluderebbe un recesso dal precedente negozio, ma piuttosto si creerebbero fra noi certe nuove obbligazioni.” Non ci resta che trarre le fila di quanto abbiamo letto nei due ultimi brani: ed occupiamoci dapprima della risoluzione dell’intero negozio. La terminologia relativa alla risoluzione consensuale dell’intero negozio, come si è potuto osservare, varia: contractus dissolvitur (Pomp. Q.Muc. D.46,3,80), recedere ab emptione venditione etc. (Ner. D.2,14,58), a negotio discedere (Ner. Arist. D.2,14,58), resolvere id quod actum est (Ner. Arist. D.2,14,58), abire ab emptione (Ulp. D.2,14,7,6) ed anche tota res tollitur (Ulp. Pomp. D.2,14,7,6). Ciò corrisponde a quell’atteggiamento dei giuristi romani – in questo corso abbiamo qua e là già avuto occasione di notarlo – i quali si esprimevano anche nella individuazione dei dogmi con gli strumenti del linguaggio comune, senza inclinazione alcuna alla stereotipizzazione dei termini tecnici. Le regole, in proposito, erano invece affatto precise. Una risoluzione mediante il semplice consenso è pensabile solo per i contratti consensuali 60 e l’accordo estintivo sarà dunque un pactum. Che esso sia un patto e non un contratto è necessario, in quanto la funzione dell’accordo risolutorio non è quella di creare obbligazioni, ma solo di impedire l’esercizio delle azioni che sanzionano le obbligazioni che già esistono. Per questo, come spiegava Nerazio, la risoluzione del contratto
60 I rapporti obbligatori formatisi re, verbis o litteris potranno eliminarsi solo con l’adempimento o con l’appropriata acceptilatio, o anche, con effetto sul piano del ius honorarium, mediante un pactum de non petendo.
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può intervenire solo se nessuna delle obbligazioni create dal contratto che si vuole risolvere sia stata ancora eseguita: una risoluzione a prestazioni eseguite implicherebbe l’obbligazione di restituire quanto ottenuto con esse, e per creare un’obbligazione il patto sarebbe insufficiente: non è che la cosa non si possa fare, solo non la si potrà fare semplicemente risolvendo il precedente contratto, perché si dovrà invece mantenerlo concludendone un’altro oppure concludendo magari un patto, ma connesso con altri atti opportuni ad effetto obbligatorio, come quando si fa una transazione. Aristone aveva indicato la via per adottare il semplice patto risolutorio anche a prestazioni parzialmente eseguite: si tratta di pattuire non solo la risoluzione, ma anche la preventiva restituzione di tutte le prestazioni già eseguite; ciò vuol dire, in sostanza, concludere un patto di risoluzione sottoposto alla condizione della restituzione delle prestazioni già eseguite, con il che l’accordo avrà efficacia solo quando tali restituzioni abbiano in effetti avuto luogo. Questa via ideata da Aristone ha evidentemente senso solo se le prestazioni dovute in base al contratto dal quale le parti ora intendono recedere siano state eseguite solo in parte (magari, anche, tutte quelle di una parte e non quelle dell’altra); se tutte le prestazioni fossero state eseguite il rapporto contrattuale ne risulterebbe estinto (perché interamente adempiuto), e quindi il problema della sua risoluzione non si porrebbe più.
Un discorso alquanto diverso si deve fare sulla risoluzione parziale, che Ulpiano (D.2,14,7,6) esponeva basandosi su di una trattazione di Pomponio ed una di Giuliano: ma le ipotesi di risoluzione parziale corrispondenti al pensiero di questi due ultimi giuristi sono, in realtà, assai diverse. L’ipotesi di risoluzione parziale proveniente da Pomponio è bensì descritta come un patto intervenuto fra le parti nondum re secuta – prima che siano stati effettuati atti di esecuzione del contratto – e se ne giustifica la possibilità sottolineando che si tratterebbe di un intervento risolutorio di minor portata di quello di un recesso integrale; ma poi, quando lo si descrive, non lo si descrive affatto come una risoluzione, ma come una mutazione del contratto precedente: la terminologia è infatti ‘pars eius (cioè: contractus) mutare’, ‘rem reformare’ in contrapposto a ‘totam rem tollere’, e vi si parla di contratto che appare in qualche modo “rinnovato” (quodammodo quasi renovatus contractus videatur), con terminologia prossima a quella che Ulpiano stesso impiegava per descrivere la novazione come meccanismo di estinzione del rapporto obbligatorio e di contestuale creazione di un nuovo rapporto al posto del vecchio 61, ed ancora si descrive il fenomeno dicendo – qui l’espressione pare provenire letteralmente da Pomponio – che con la risoluzione parziale si recede mediante patto dalla vendita “come rifacendola riprendendone (solo) una parte” (‘quasi repetita par61
Vedi Ulp. D.46,2,1 pr. nel vol. II,1 p.309.
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tis emptione’). Da tutto ciò sembra risultare evidente che questo patto risolutorio è concepito dai due giuristi come un nuovo contratto, il quale estingue il precedente e gliene sostituisce uno nuovo: un meccanismo, in sostanza, che viene a costituire proprio una novazione consensuale del precedente contratto con mutazione del suo contenuto, restandone ferma la causa e i soggetti. A questa concezione corrisponde l’idea, sempre di Pomponio e Ulpiano, secondo la quale questo accordo parzialmente risolutorio, una volta concluso, è munito di azione (quod cum est, etiam ex parte agentis pactio locum habet, ut et ad actionem proficiat nondum re secuta), e quindi produce obbligazioni: per cui si tratta di un contratto. Ora, quel che alla fin fine si trae da tutto questo discorso, è che qui si sta parlando di un accordo col quale si modifica un contratto precedente – ed in particolare una compravendita – in qualche punto, senza dire affatto che il punto modificato non deve corrispondere ad uno degli elementi essenziali di tale contratto; il che non può non essere inteso nel senso che anche la modifica di un elemento essenziale può essere presa in considerazione. La figura che abbiamo così di fronte viene ad essere quella che avevamo incontrato, descritta da Papiniano e Paolo, in D.18,1,72 pr. La cosa è del tutto chiara per il caso nel quale si sia modificato un punto essenziale, perché nel testo or ora citato Paolo descriveva l’accordo col quale si modifica il prezzo di vendita esattamente come Ulpiano e Pomponio descrivono il loro patto di risoluzione parziale: il ‘recessum a priore contractu et nova emptio intercessisse videtur’ di Paolo è infatti il ‘quasi renovatus contractus videatur’ di Ulpiano e Pomponio. Il caso, invece, che Papiniano descriveva come quello di un patto che aggiunge qualcosa alla vendita (pacta … quae vero adiciunt), dicendo che questi patti, se fatti dopo il contratto, non risultano inerenti nel iudicium bonae fidei relativo (credimus … non inesse), è dubbio se possa essere compreso nella nozione di “rinnovamento del contratto effettuata ripetendo una parte della vendita” costruita da Pomponio e Ulpiano. Il problema dipende dal senso esatto che si dia alla locuzione ‘repetita partis emptione’, perché essa potrebbe voler dire due cose diverse: a) “riprendendo la vendita di una (sola) parte (di ciò che si è precedentemente venduto)”, cioè modificando in senso restrittivo l’oggetto della vendita precedente; b) “rinnovando la vendita precedente quanto ad una parte del suo contenuto negoziale”, cioè che il secondo contratto ha luogo riprendendo identica una parte del primo, e modificandolo invece per il resto. Se il senso fosse quest’ultimo, per Pomponio e Ulpiano anche un patto che aggiunga qualcosa al regime della vendita precedente (come in Pap. D.18,1,72 pr. l’ipotesi del patto che preveda ut cum fideiussore cautio duplae praestetur) avrebbe insieme effetto come patto di risoluzione e come nuovo contratto: le parti rifanno la vendita, ed il loro riferimento alla vendita precedente è interpretato nel senso che con la conclusione del nuovo contratto essi intendono recedere dal vecchio; con la conseguenza che fra le parti stesse nascono le azioni basate sul nuovo contratto e le eccezioni opponibili da ciascuna parte all’altra che agisca sulla base del vecchio contratto.
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L’ipotesi di Giuliano (in Ulp. D.2,14,7,6) è diversa: si tratta semplicemente di un patto di risoluzione, solo complicato da una situazione di fatto particolare a causa della quale la risoluzione integrale non può risultare se non dalla somma – per così dire – di due risoluzioni parziali. Quel che, della citazione di Giuliano, interessava Ulpiano, era soprattutto l’affermazione secondo la quale ciascuna delle due risoluzioni parziali del caso proposto è valida di per se stessa. La vendita è stata conclusa tra il venditore V e il compratore C; nessun atto di esecuzione ha avuto luogo, ed in costanza di questa situazione il compratore C muore lasciando H1 e H2 come eredi. Come sappiamo, i rapporti obbligatori si dividono fra i coeredi 62. V ha pattuito con H1 la risoluzione della vendita: questo patto è valido, ma evidentemente esso riguarda la sola parte della vendita nella quale è succeduto H1; l’altra parte della vendita potrà essere risolta con un nuovo patto tra V e H2.
1.2. I modi del consenso. – Una tematica caratteristica che riguarda “il consenso in se stesso”, come l’abbiamo definita nel paragrafo precedente, è quella del modo in cui il consenso delle parti possa venire manifestato. Nelle Istituzioni di Gaio questa tematica è soltanto – vedremo come – sfiorata. I giuristi se ne occupavano, come già accennavo, nei commentari alla clausola edittale de pactis, il pactum essendo per loro appunto riconducibile alla nozione di consenso delle parti come tale, e questa materia non è fatta oggetto di specifica trattazione nelle Institutiones: è probabile che Gaio se ne occupasse nel proprio commentario ad edictum 63. Un esempio, forse il più chiaro che il Digesto ci offra, e che proprio tratta dei modi del consenso, è il seguente, che contiene pen-
62 Faccio un nuovo esempio, sempre, per semplicità, che con l’ipotesi di una vendita non ponga problemi di indivisibilità delle prestazioni: si pensi ad una vendita avente per oggetto 1000 anfore di vino determinato nel genere, per un prezzo complessivo di 20.000 HS (cfr. Pap. Vat. 16: … si mille amphoras certo pretio corpore non demonstrato vini vendidit). Ricordo che l’amphora era un’unità di misura (poco più di 26 litri). 63 Che Gaio abbia composto un commentario all’editto del pretore urbano è certo, non solo perché esso è stato impiegato nel Digesto giustinianeo, ma anche perché l’autore stesso lo menzionava nelle Institutiones (Gai.1,188; 3,33 e forse anche in Gai.3,54, se qui l’allusione non è al suo commentario alla lex Iulia et Papia). Nel Digesto è però più frequente l’impiego di un commentario gaiano ad edictum provinciale, con questo titolo difficilmente spiegabile, ma che dal materiale escerpito dai compilatori non sembra distinguersi molto da un commentario all’editto urbano. Ricordo che lo Scherillo mi esprimeva spesso la sua convinzione che il testo usato dai compilatori del Digesto dovesse provenire da una riedizione postclassica del commentario gaiano all’editto urbico. Anche se a me pare ben possibile, non è certo questa, però, l’opinione comune. Vedi comunque per tutti SANTALUCIA, L’opera di Gaio «ad edictum praetoris urbani», Milano 1975 (in particolare sull’opera ad edictum provinciale p. 39 ss.) I passi gaiani escerpiti nel titolo de pactis del Digesto (D.2,14,18; 20; 30) sono tutti (tranne il fr. 48, che proviene dal commento alle dodici tavole) indicati come provenienti dal primo dei libri ad edictum provinciale, ma nessuno tratta della tematica generale della quale stiamo discorrendo.
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siero di Labeone riportato da Paolo, e pertanto ci assicura di una costante continuità, in materia, dei giuristi classici: D.2,14,2 (Paul. 3 ad ed.): Labeo ait convenire posse vel re; vel per epistulam vel per nuntium inter absentes quoque posse. sed etiam tacite [consensu] 64 convenire intellegitur: 1: et ideo si debitori meo reddiderim cautionem, videtur inter nos convenire ne peterem, profuturamque ei conventionis exceptionem placuit. “Labeone dice che si può anche accordarsi con un fatto 65; si può anche accordarsi fra assenti per mezzo di una lettera o di un messaggero. Ma è anche possibile accordarsi senza dir nulla; 1: e dunque se io abbia reso al mio debitore la ricevuta 66, si considera che fra noi ci si sia accordati nel senso che io non avrei preteso il pagamento, e quindi gli gioverà l’eccezione basata sull’accordo.” L’inizio del testo è certamente corrotto perché, se – come abbiamo annotato – il vel re di Labeone si riferiva al consenso espresso mediante fatti concludenti, la cosa che vi si dice è la stessa di cui si parla poi come di tacite convenire; sembrerebbe dunque che Labeone avesse proposto una specie di diairesi dei modi di convenire (= accordarsi) 67, che veniva poi da lui stesso o da Paolo commentata e illustrata; i compilatori devono avere, del passo, se esso era così, riportato soltanto qualche particolare. A noi comunque – e forse anche ai compilatori – interessa soprattutto la descrizione del tacite convenire, cioè l’accordo concluso
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La parola consensu è già stata espunta dal Naber: essa va certo semplicemente cancellata. Traduco re “con un fatto”: in questo contesto re significa evidentemente qualcosa di simile a quello che noi esprimiamo dicendo “con un comportamento concludente”. Questo impiego di re non ha dunque alcun rapporto con le locuzioni (che conosciamo) re obligari e re contrahere obligationem. 66 Il testo usa il termine cautio, alludendo al documento rilasciato dal debitore (in particolare da un mutuatario) al creditore, nel quale il debitore riconosce di aver ricevuto quanto ha ricevuto e a quale titolo; il documento aveva lo scopo di fornire al creditore una prova da poter produrre nell’eventuale giudizio. Si tratta di quella che, ad esempio in Paul. D.44,7,29 è descritta per esteso come cautio pecuniae creditae, “documento cautelare per denaro dato a mutuo”; dal tenore stesso di questa cautio si comprende che il testo del documento veniva normalmente predisposto dal creditore, per essere poi firmato (signatum) dal debitore. 67 La diairesi di Labeone poteva essere nel senso che convenire posse vel re, dove beninteso i tre ablativi non hanno nulla a che fare con la triade re-verbis-litteris che ci è ben nota come elemento essenziale della classificazione delle obbligazioni sanzionate dalla condictio. Come pure nella descrizione labeoniana dei modi in cui si può commettere il delitto di iniuria, che apprendiamo da Ulp. Lab. D.47,10,1,1 (Iniuriam autem fieri Labeo ait aut re aut verbis: re, quotiens manus inferuntur; verbis autem, quotiens non manus inferuntur […]), quel che qui viene in considerazione è un profilo particolare della semantica di res e della sua contrapposizione a verbum, che è ben individuata da ERNOUT-MEILLET, s. v. res, p. 571, nel passaggio: Res, désignant des biens concrets, a pu servir à exprimer ce qui existe, la chose, «la réalité» (cf. reapse); re a pris ainsi la valeur du gr. œrg‚ … en opposition à verbum, vox, opinio, spes, umor etc. Vedi anche ERNOUT-MEILLET, s. v. verbum, p. 723: … S’oppose à res «chose, réalité». … 65
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senza parole, o con parole di una sola parte. L’esempio del testo è quello di una remissione consensuale di debito (pactum de non petendo) 68, effettuata dal creditore restituendo al debitore il documento che le parti stesse avevano predisposto – nell’interesse del creditore – a prova dell’obbligazione fra di esse creata: remissione accettata dal debitore ricevendo il documento stesso. Ma anche con riguardo ai contratti consensuali si possono costruire esempi analoghi: si pensi ad un’offerta di vendita che il compratore accetti offrendo a sua volta al venditore, senza affatto parlare, il prezzo da lui indicato per la merce 69. Avevo scritto poco sopra che questa tematica del consenso in generale Gaio soltanto la sfiorava nelle sue Istituzioni. In effetti egli ne tratta un aspetto importante, ma in modo assai sintetico e riferendosi specificamente al consenso contrattuale. Leggiamo – rileggiamo anzi 70 – il passo relativo: che ci servirà anche come introduzione alla materia del successivo paragrafo 2: Gai.3,135: Consesu fiunt obligationes in empionibus venditionibus, locationibus conductionibus, societatibus, mandatis. 136: Ideo autem istis modis consensu dicimus obligationes contrahi, quia neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur, sed sufficit eos qui negotium gerunt consensisse. Unde inter absentes quoque talia negotia contrahuntur, veluti per epistulam aut per internuntium; cum alioquin verborum obligatio inter absentes fieri non possit. Dopo aver precisato, con spirito definitorio, che dicendo che le obbligazioni si contraggono consensu si vuol dire che per crearle è (non solo necessario ma anche) sufficiente il solo consenso, e non anche un elemento (proprietas) di forma orale o scritta, Gaio ne trae la conseguenza che queste obbligazioni consensuali – nel senso precisato – possono anche contrarsi fra assenti, vale a dire quando il consenso che le crea – cioè il negozio nel quale l’accordo obbligatorio si concreta – ha luogo fra le parti quando queste non sono in presenza l’una dell’altra, perché il consenso possono anche realizzarlo per esempio scambiandosi delle lettere (per epistulam) ovvero facendo, ciascuna, riferire all’altra la propria volontà tramite un messaggero, un internuntius o nuntius, come più spesso lo denominano le fonti 71; ma, come si vede, per questa conseguenza Gaio riduce il suo confronto, contrapponendo ai contratti consensuali la sola stipulatio.
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Vedi, per ora, nel vol. II,1 alla p. 306. Si veda Paul. D.45,1,35,2 riportato nel vol. II,1 a p. 97. 70 La traduzione si legge sopra, nel paragrafo 2 del primo capitolo. 71 Paul. Lab. D.2,14,2 cit.; Paul. D.18,1,1,3. 69
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Queste cose che dice Gaio devono essere chiarite e precisate. Si deve anzitutto notare che la produzione fra assenti – nel senso sopra precisato – delle obbligazioni litteris e re non è esclusa. Quanto alle obbligazioni litteris, in Gai.3,138 è scritto espressamente ‘sed absenti expensum ferri potest, etsi verborum obligatio cum absente contrahi non potest’: può darsi che la frase provenga da un glossema 72, ma essa comunque non è inesatta, perché è evidente che la forma scritta dell’expensilatio, e cioè la scrittura del creditore nei propri libri contabili, è atto – non recettizio – del creditore stesso, e non solo non esige, ma neppure comporta affatto la contemporanea presenza del debitore; il tenore di questa frase è del resto coerente con la menzione, nella frase finale di Gai. 3,136, della sola stipulatio come struttura obbligatoria da contrapporre ai contratti consensuali. Ma anche un’obbligazione che nasca re può formarsi tra assenti: se mutuo e pagamento d’indebito hanno una struttura che implica la presenza di entrambe le parti perché la presenza, creativa d’obbligazione, della cosa nel patrimonio del debitore si verifica al momento della datio 73 nella quale tanto il mutuo quanto il pagamento, come negozi, si realizzano, così può non essere per certe fattispecie dell’arricchimento ingiustificato, quando esse non implichino un negozio tra le parti, ovvero il negozio che implicano possa essere concluso fra assenti: ma va detto che la materia dell’arricchimento Gaio, nelle sue Istituzioni, non la prendeva in considerazione se non per il pagamento d’indebito. Tuttavia, quel che Gaio voleva dire non è affatto irrilevante, e non solo perché la sua osservazione è ben fondata quanto al confronto dei contratti consensuali con la stipulatio, ma perché quella di poter essere conclusi fra assenti rappresenta una caratteristica costante e generale dei primi.
Ma, dicendo queste cose, Gaio non coglie ancora la differenza fondamentale, sotto il profilo del consenso, fra le figure obbligatorie che si formano consensu e quelle che si formano re-verbis-litteris. Per questa tematica è fondamentale, sebbene estremamente sintetico, il successivo § 137: Gai. 3,137: Item in his contractibus alter alteri obligatur de eo, quod alterum alteri ex bono et aequo praestare oportet, cum alioquin in verborum obligationibus alius stipuletur, alius promittat, et in nominibus alius expensum ferendo obliget, alius obligetur. Quel che ora dobbiamo leggere in questo testo è una duplice affermazione: a) anzitutto si dice che per determinare il contenuto di un rapporto d’obbligazione creato consensu è necessario il ricorso ad un criterio particolare, che Gaio indica come un criterio d’equità (quod ... ex bono et aequo praestare oportet); b) e si dice altresì che il rapporto d’obbligazione che nasce consensu comprende obbligazioni per entrambe le parti (alter alteri obligatur), e non solo per una verso l’altra, come invece i rapporti che si formano re-verbis-litteris. 72
Vedi sopra, cap. I n. 8. È ovvio che il fatto che concretamente al posto del dans o dell’accipiens intervenga un loro rappresentante non cambierebbe affatto i termini di questo discorso. 73
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Si tratta di due osservazioni fondamentali, che dobbiamo valutare con attenzione: [Ad a)] Dagli atti che producono obbligazioni re, verbis o litteris – e possiamo subito tener conto, secondo quanto risulterà da b, che essi producono una sola obbligazione – il contenuto dell’obbligazione che ne sorge viene esaurientemente determinato dalla struttura stessa dell’elemento di fatto che la produce. Il debitore di una obligatio re contracta è tenuto a dare al creditore un’entità economica corrispondente alla res che si viene a trovare nel suo patrimonio come res aliena (nel senso che abbiamo visto a suo luogo). Così, ad esempio, il mutuatario è tenuto a restituire al mutuante cose fungibili in quantità pari e di genere e qualità corrispondenti a quelle che ha ricevuto. In una stipulatio, che è contratta verbis (con parole dette), il promissor è tenuto a fornire allo stipulator quanto lo stipulator gli ha richiesto nella domanda stipulatoria, alla quale egli ha (sempre nella realizzazione della forma negoziale) aderito con la sua risposta. In un atto concluso litteris (con parole scritte, come l’expensilatio) il debitore è tenuto a pagare al creditore la somma di denaro che risulta (come expensa lata) nella scrittura effettuata dal creditore nei propri libri contabili. Per le obbligazioni contratte consensu, le cose non possono presentarsi nello stesso modo. Il consensus, cioè l’accordo delle parti, che qui è anche l’elemento obbligante, è di per se stesso inespressivo del contenuto delle obbligazioni che sorgono. Anche volendo prescindere dalla considerazione (esatta, ma che potrebbe considerarsi troppo teorica) che il consenso in se stesso è l’incontro delle volontà delle parti e non l’insieme delle dichiarazioni delle parti, resta pur sempre il fatto che tali dichiarazioni non possono essere pressoché mai esaurienti come indicazioni determinanti il contenuto obbligatorio dell’atto che si conclude. Facciamo l’esempio di una compravendita. Il consenso che le parti devono esprimere con le loro dichiarazioni negoziali (e si ricordi che queste possono anche essere tacite) deve riguardare, oltre il fatto che è appunto una compravendita che le parti vogliono concludere, solo l’identità della cosa che si vende e l’ammontare del suo prezzo; ma dalla vendita nasceranno una serie di altre obbligazioni: il prezzo, dal compratore, deve essere pagato e il compratore ha l’obbligazione di pagare al venditore interessi moratori in caso di ritardo nel pagamento del prezzo, la cosa venduta deve essere consegnata dal venditore al compratore, ma il venditore non ha l’obbligazione di trasferirne la proprietà, il venditore ha l’obbligazione di garantire il compratore per il caso di evizione della cosa e risponde per i vizi occulti che ne diminuiscano il valore. Ora, nelle loro dichiarazioni negoziali le parti possono non avere fatto allusione alcuna ai singoli punti di questo regime, anzi, potevano anche ignorare del tutto che certune di queste obbligazioni fossero implicate nel regime della vendita, ma esse risultano ugualmente una volta che sia intervenuto il loro consenso sul carattere
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di vendita del negozio che concludono, sull’identità dell’oggetto e sull’ammontare del prezzo. Come si vede, la determinazione delle obbligazioni non trova una base sufficiente nel consenso delle parti: è necessario, per determinarle, il ricorso a quel principio che Gaio identifica nel bonum et aequum: come vedremo a suo luogo, ci si sarebbe piuttosto atteso che Gaio parlasse invece del principio di buona fede: perché l’idea di cui qui ci occupiamo era espressa così nelle azioni nascenti dai contratti consensuali, dove l’intentio indicava i doveri del convenuto esprimendoli come quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona. Si deve comunque ritenere che Gaio pensasse, con quel che ha scritto, proprio al principio di buona fede, e il fatto che egli lo indicasse come impiego di un criterio di giustizia distributiva – questo sembra il senso nel quale usava l’espressione bonum et aequum, come faceva Celso in Ulp. D.1,1,1 pr. – ne costituisse la sua interpretazione istituzionale. [Ad b)] Per questo punto Gai. 3,137 è esplicito e preciso: nei contratti consensuali le obbligazioni sono reciproche, vale a dire che, a quelle obbligazioni che sub a abbiamo visto essere determinate ex bono et aequo (o ex fide bona), ciascuna parte è obbligata verso l’altra (o verso ciascuna delle altre, come vedremo eventualmente ricorrere nel contratto di società): in altre parole, il consensus risulta produttivo di obbligazioni reciproche (in his contractibus alter alteri obligatur de eo, quod alterum alteri ex bono et aequo praestare oportet); e ciò si contrappone agli effetti obbligatori degli atti che si compiono re, verbis e litteris, ciascuno dei quali produce una sola obbligazione di una parte verso l’altra, e dunque i loro effetti consistono unicamente nella creazione di un debitore e un creditore (cum alioquin in verborum obligationibus alius stipuletur, alius promittat, et in nominibus alius expensum ferendo obliget, alius obligetur). Ma a ciò si deve subito aggiungere una cosa che nel discorso di Gaio era evidentemente implicita: e cioè che le obbligazioni reciproche create dai contratti consensuali sono anche interdipendenti: vale a dire che l’insieme delle obbligazioni dell’una delle parti rappresenta, nella struttura sostanziale del negozio, la ragion d’essere giuridica delle obbligazioni dell’altra. Questo, come vedremo, è quello che si usa chiamare il carattere sinallagmatico dei contratti consensuali.
2. I CONTRATTI CONSENSUALI. – Esaminando, nel primo capitolo, la classificazione gaiana delle obbligazioni, abbiamo visto che l’autore faceva rientrare la triade delle obbligazioni che si formano re, verbis e litteris nella quaterna delle obbligazioni contrattuali 74, vale a dire delle obbligazioni che si formano sulla 74
Si riveda in particolare nel I cap. § 2.
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base del consenso delle parti. Ma nella sua stessa classificazione il rapporto fra le fonti dei primi tre generi (re-verbis-litteris) e il consenso delle parti risulta ben diverso da quello che col consenso stesso hanno le obbligazioni del quarto genus. Del resto, nell’approfondimento analitico che abbiamo potuto fare relativamente alle obbligazioni re-verbis-litteris, abbiamo potuto constatare che, nell’ambito delle fonti d’obbligazione della triade legata alla condictio, una connessione compiuta e costante col consenso può ravvisarsi solo per la sponsiostipulatio. La contrapposizione, dal punto di vista che abbiamo qui adottato, fra le obbligazioni contratte re-verbis-litteris e quelle contratte consensu emerge già dal modo in cui Gaio le definisce: se le prime, ammesso anche che tutte implichino il consenso delle parti, nascono comunque dal verificarsi di un particolare evento diverso dal consenso come tale – dal fatto che certe parole sono dette o scritte, cioè con la realizzazione di una forma orale o scritta, ovvero dalla presenza di una res nel patrimonio dell’obbligato –, le ultime nascono direttamente dal consenso delle parti 75. Ora 76, per il discorso che a questo punto dobbiamo intraprendere sulla concezione del contratto presso la giurisprudenza romana, è importante che ci rendiamo conto che l’impostazione dommatica, adottata da Gaio nei §§ 88 ss. del terzo libro delle sue Istituzioni, dipende da una sua scelta sistematica evidentemente funzionale agli scopi didattici del manuale che scriveva: la sua impostazione era certo ispirata a talune posizioni giurisprudenziali – che egli ben conosceva – ma il risultato è venuto infine a far smarrire il senso dommatico della Begriffsbildung della tradizione giuridica che egli voleva pur sempre riprendere. In questa nostra sede, che a sua volta assume un carattere istituzionale, mi limiterò ad illustrare tutto ciò valendomi direttamente di tre soli, fondamentali testi di Ulpiano, la cui rapida esegesi credo sia sufficiente: nel primo l’autore riportava il pensiero di Labeone (Ulp. Lab. D.50,16,19), nel secondo – già lo conosciamo – riportava il pensiero di Pedio (Ulp. D.2,14,1,3), nel terzo Ulpiano non menzionava altri giuristi, ma la frase che vi compare era evidentemente scritta impiegando nozioni che l’autore maneggiava come naturalmente e indiscutibilmente acquisite (Ulp. D.2,14,7,1).
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Gai.3,135: Consensu fiunt obligationes … Per la materia che segue in questo capitolo mi riferirò soprattutto a tre miei lavori recenti, che ho redatto col preciso scopo di rivedere questa materia, sulla quale esiste una letteratura fattasi, negli ultimi decenni, un po’ intricata: La nozione di contratto nella giurisprudenza romana dell’epoca classica, in PICHONNAZ (éd.), Autour du droit des contrats. Contributions de droit romain en l’honneur de F. Wubbe, Genève/Zurich/Bâle 2009, 19 ss. (abbreviato in CANNATA, La nozione); L’actio in factum civilis, in Iura, 57(2008/2009), 9 ss. (abbr. CANNATA, L’actio); Labeone, Aristone e il sinallagma, in Iura,58(2010), 33 ss. (abbr. CANNATA, Labeone). I tre lavori si leggono anche in Scritti III, 3-113. 76
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Anzitutto dovremo riconoscere che nella tradizione giurisprudenziale romana, prima e dopo Gaio, il termine contractus era, almeno quando impiegato con consapevole rigore dommatico, riservato alle sole figure dei contratti consensuali. In secondo luogo dovremo capire che anche i contratti di deposito, comodato e pegno, per la conclusione dei quali era necessaria, oltre al consenso delle parti, la consegna della cosa oggetto del contratto, non cessavano per questo di essere contratti consensuali: l’idea moderna di “contratto reale”, la quale funziona come categoria che accomuna questi contratti al mutuo, non ha nulla a che fare con l’idea classica del re contrahere obligationem, ed è stata creata dall’autore epiclassico delle res cottidianae, verso la fine del terzo secolo d. C. Incominciamo col leggere il notissimo 77: D.50,16,19 (Ulp. 11 ad edictum): Labeo libro primo praetoris urbani definit quod quaedam ‘agantur’, quaedam ‘gerantur’, quaedam ‘contrahantur’: et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci sun£llagma vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem; gestum rem significare sine verbis factam. Del testo è necessaria una traduzione attenta e il più possibile precisa. Tre premesse al testo come tale ed alla traduzione che segue: a) L’aggiunta nella citazione iniziale che Ulpiano faceva dell’opera di Labeone, dalla quale traeva il discorso che fa seguire, non vuole essere una vera e propria integrazione del dettato ulpianeo rispetto alla sua versione compilatoria: è ben possibile che Ulpiano si limitasse a menzionare il solo libro dell’opera che citava, perché questa egli l’usava, nei suoi propri commentari con titolo analogo, ad ogni piè sospinto. Faccio l’aggiunta solo per chiarezza ed in omaggio ad una certa tradizione. A mio modo di vedere dovrebbe piuttosto pensarsi (ma la cosa non ha, ovviamente, alcuna importanza) che, rispetto all’originale, i compilatori non abbiano soppresso ‘ad edictum’, bensì aggiunto ‘praetoris urbani’, per precisare una citazione ulpianea abbreviata, ma che, isolata nel Digesto, risultava indeterminata. Integrerei dunque l’inizio del testo così: Labeo libro primo definit quod ... b) L’aggiunta dell’allusione ai nomina transscripticia ( e ) rappresenta invece l’integrazione di una sicura interpolazione compilatoria, operata mediante soppressione della menzione a quell’istituto, che i commissari giustinianei operarono con costanza, come già si è chiarito a suo luogo. Quel che resta arbitrario, nella mia integrazione, è l’uso del termine expensilatio, che non ci è direttamente testimoniato dalle fonti (su quanto precede vedi sopra, nel cap. II, con citazione di I.3,21, le n. 101 e 104). c) Per comodità del lettore, a partire da questo punto, traslitterò la parola greca sun£llagma in synàllagma.
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Sul quale la letteratura è sterminata, per cui devo qui limitarmi a rinviare alla breve trattazione che ne ho fatta da ultimo nei cit. (vedi la n. prec.) La nozione, 30 ss.; Labeone, 42 ss.
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“Labeone, nel primo libro del commentario all’editto del pretore urbano, definisce che vi sono «atti», «gesti» e «contratti» 78: e quello di «atto» è termine generale, in quanto un atto può realizzarsi sia verbis, sia re, come nella stipulatio o con un pagamento: il contratto invece è un modo di obbligarsi reciproco, quello che i Greci chiamano synàllagma, come compravendita, locazione-conduzione, società; «gesto» significa cosa fatta senza parole.” Bisogna anzitutto constatare che il contenuto del passo che consideriamo appartiene interamente a Labeone: Ulpiano si limitava a precisare la citazione (dicendo di riportare parole di Labeone e precisando dove le leggeva: Labeo libro primo ... definit), ma a partire dal quod le proposizioni sono tutte dipendenti da Labeo definit, e sono proposizioni oggettive, la prima costruita, alla greca, in dipendenza da quod, le altre con accusativo e infinito, fino all’ultima (gestum ... significare ...). Il testo labeoniano può, naturalmente, essere stato riportato da Ulpiano condensandolo o riassumendolo, ma si deve credere senz’altro che tutte le espressioni di cui è composto e il suo senso complessivo appartenessero a Labeone, salva l’ovvia variazione formale dipendente dalla circostanza che Ulpiano impiegava, citando, il discorso indiretto. Labeone presentava una divisio 79, ma l’oggetto di questa operazione dialettica – che certamente doveva essere enunciato nel suo contesto originale, per lo meno presso Labeone – qui non viene esplicitato, e stabilirlo con precisione non sembra possibile. Per quel che ci interessa, siccome a noi – come ai compilatori del Digesto – il passo interessa per la posizione in cui Labeone collocava il contratto nell’insieme dei comportamenti leciti rilevanti sul piano delle obbligazioni, possiamo, senza tema di equivocare, considerare la diairesi come operata in relazione a tali comportamenti. Non si può fare a meno di notare un dettaglio nella terminologia impiegata da Labeone nello spiegare la sua diairesi. La divisio è, come si sa, divisione in generi e specie, e quindi (seguendo il modo della traduzione che ho fatto) atti, contratti e gesti costituiscono i generi della divisione che abbiamo di fronte; ma solo uno di essi (l’actus) viene
78 In realtà Labeone – secondo la citazione fatta da Ulpiano – faceva la sua enumerazione (o meglio: enunciava la sua diairesi) impiegando i verbi, e non i sostantivi corrispondenti, per cui la frase latina si presenta con un andamento molto diverso; letteralmente sarebbe: “Labeone ... definisce che vi sono cose che «si agiscono», cose che «si gestiscono» e cose che «si contraggono» (ovvero «si contrattano»), il che in lingua italiana risulterebbe non solo impreciso ma anche insopportabile. Se ne deve tenere conto, però, per capire che nel successivo uso che Labeone faceva di actum, contractum e gestum, che io tradurrò con dei sostantivi, questi vocaboli in latino possono essere intesi come participi passati di genere neutro e caso accusativo o come sostantivi (actus, contractus, gestum in caso accusativo). Questa ambiguità è inerente nel dettato labeoniano, ma non compromette il senso del discorso, che resta ben reso usando in italiano – come faccio nella mia traduzione – senz’altro i sostantivi “atto”, “contratto” e “gesto”. 79 Che si tratti di una divisio (divisione in genera e species) e non di una partitio (divisione in partes) deve ritenersi, malgrado i dubbi di qualche autore, sicuro: CANNATA, La nozione, 31 n. 34.
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qualificato da Labeone come verbum generale (= termine generale, cioè termine che funziona nella divisio stessa come genere). Ciò dipende dal fatto che solo questo termine corrisponde nella divisio – come è costruita – ad un’entità poi suddivisa in species. Questo, ovviamente, non significa che «contratto» e «gesto» non possano in assoluto essere divisi in specie, perché tutte le entità appartenenti ad una diairesi sono aperte ad eventuali suddivisioni: Labeone voleva dire che, mentre le suddivisioni del «contratto» e del «gestum» portano direttamente sulla tipologia finale delle rispettive figure (come per il contractus quella rappresentata dagli esempi con i quali il testo si chiude: compravendita, locazione, società etc.), le suddivisioni dell’«atto» vi portano solo mediante la loro divisione in species (atti conclusi re, verbis, litteris; ad esempio, la stipulatio non è direttamente un tipo dell’actus, ma un tipo dell’actus concluso verbis, come il mutuo è un tipo dell’actus concluso re), e pertanto la divisione in genera dell’actus appartiene alla struttura stessa della diairesi presentata 80. Questo che stiamo dicendo ci conduce a porci un’ulteriore domanda, che ci permetterà di semplificare il discorso che segue: viene infatti naturale chiederci quale sia la tipologia del gestum, e quindi anzitutto a chiederci quale sia la nozione di gestum qui impiegata da Labeone 81. La dottrina romanistica mostra stranamente una tendenza a ritenere che Labeone pensasse ai gesta per aes et libram, cioè ai negozi che implicavano l’impiego della pesata (ormai simbolica) del bronzo (in particolare mancipatio e solutio per aes et libram). Ma quest’idea non corrisponde affatto a quel che è detto nel passo, né all’oggetto della diairesi, che abbiamo potuto, anche se con una certa approssimazione, individuare. Labeone definiva gestum rem significare sine verbis factam: ora, nessuno dei gesta per aes et libram era fatto sine verbis, perché si trattava di atti formali, per la forma dei quali erano certo previsti dei gesti, ma in un contesto che implicava parole come esigenza della forma stessa; per di più, quanto agli effetti di questi atti, essi furono creati quando la nozione di obbligazione non era ancora stata introdotta nel patrimonio concettuale del diritto romano e, anche all’epoca in cui ciò avvenne, la loro appartenenza al diritto delle obbligazioni restò sempre ambigua (meno per la solutio che per la mancipatio: quest’ultima restò essenzialmente un atto ad effetti reali, mentre la solutio, quando le strutture di soggezione che essa estingueva vennero ad essere considerate strutture obbligatorie 82, venne accettata come modo di estinzione di tali obbligazioni). La soluzione del problema che abbiamo posto è invece un’altra. Labeone, con gestum, non alludeva a
80 Per intendere il chiarimento che qui ho cercato di fare (riprendendo le considerazioni svolte sopra, nel cap. I § 2, in particolare nel brano che incomincia attorno alla n. 20), si tenga conto che in una diairesi la prima divisione in genera produce dei genera che potranno poi essere divisi ciascuno o (se considerato verbum generale) in genera, ovvero in species. Le suddivisioni finali (cioè quelle all’ultimo livello) della diairesi saranno sempre species (nel nostro caso lo saranno dunque i tipi finali come: stipulatio, expenstilatio, mutuo, compravendita). Così, per esempio, (posto che possiamo individuare il “comportamento obbligatorio” come oggetto della diairesi) alla stipulatio si giunge per la via seguente: “comportamento obbligatorio” – (1) atto (genus, ma verbum generale) – (2) atto concluso verbis (species dell’atto ma genus per la stipulatio) – (3) stipulatio (species); alla compravendita si giunge invece per la via: “comportamento obbligatorio” – (1) contratto (genus) – compravendita (species). 81 Vedi CANNATA, La nozione, 32 s., dove noto anche certi precedenti dottrinali della posizione che qui assumo, e cito in proposito Ulp. Lab. D.3,5,9,1. 82 Sulla vicenda dell’introduzione della nozione di obbligazione nel diritto privato romano e la sorte, dopo questo evento, dei precedenti rapporti di soggezione rinvio alla ricostruzione che ne ho fatto nel vol. II,1 di questo Corso, p.38-74.
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quel che noi intendiamo con la parola “gesto”, ma con l’idea della “gestione”, e dunque pensava ad atti obbligatori che consistono in attività e vengono attuate con dei fatti: sine verbis nel senso che in esse non vengono in considerazione dichiarazioni negoziali come tali, e comunque la loro valutazione fa capo essenzialmente a quel che è stato fatto: la tipologia esemplificativa si concreta dunque in particolare nelle figure del gerere utiliter gli affari altrui e del gerere tutelam. Questa precisazione, come dicevo, ci permette di prescindere dal genere del gestum per le riflessioni che dobbiamo fare sul contratto, perché quella che c’interessa è solo la contrapposizione labeoniana fra actus e contractus.
E concentriamo quindi la nostra attenzione sulla contrapposizione fra actus e contractus 83, la quale risulta posta da Labeone in modo esplicito e diretto. Infatti è intorno ad un autem – congiunzione tipicamente avversativa – che egli descriveva questi due termini della sua diairesi: et actum quidem ... contractum autem. In una diairesi la contrapposizione fra i genera si esprime nella differenza tra le definizioni delle entità che vi corrispondono, e nel nostro caso la contrapposizione fra actus e contractus risulta particolarmente sottolineata da un dettaglio: il contratto e il gestum vi sono espressamente definiti (rispettivamente ‘ultro citroque obligatio’ e ‘res sine verbis facta’), mentre l’actus risulta unicamente – in forza del summenzionato autem – definito per la sua contrapposizione con il contractus: l’actus è una obligatio che non è ultro citroque. Questa conclusione ha bisogno di una precisazione. Dal testo risulta chiaro che il termine obligatio è qui impiegato nel suo senso di “atto realizzato dalle parti con l’intento di creare obbligazioni” 84. Se questo è sicuro, ne deriva che certamente per Labeone (e Ulpiano) tanto gli actus quanto i contractus sono obligationes. D’altra parte, questo risultato non ci permette tuttavia di precisare che la diairesi labeoniana avesse ad oggetto l’obligatio in quel senso, perché il gestum (così almeno come io l’ho interpretato) parrebbe non corrispondere a tale nozione di obligatio, in quanto l’intento di creare obbligazione (si pensi per esempio alla negotiorum gestio) non è necessaria neppure per il gestore affinché le obbligazioni sorgano fra le parti.
Per comprendere dunque il pensiero di Labeone, dobbiamo partire dalla sua definizione esplicita del contractus, e desumerne la definizione dell’actus cercando di cogliere il senso della contrapposizione, che egli ne faceva, all’altra. Dobbiamo dunque anzitutto comprendere che cosa intendesse Labeone affermando che il contratto è una ‘ultro citroque obligatio’ 85.
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Vedi già CANNATA, La nozione, 33 s. Vedi CANNATA, La nozione, 33 con la n. 39, dove mi valgo dell’analoga valutazione (ivi, 29 n. 31 e 32) della menzione di obligatio che compare in Ulp. Ped. D.2,14,3. 85 Già prima che in CANNATA, La nozione, 33 ss.; 35 ss. e CANNATA, Labeone, 47, ho cercato di chiarire questo punto nel mio già cit. contributo Der Vertrag, in AA.VV., Collatio iuris Romani (Etudes Ankum) I, Amsterdam 1995, 64 s. 84
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In proposito, la dottrina romanistica è divisa fra la due interpretazioni di coloro che pensano Labeone alludesse, con tale espressione, al carattere bilaterale del contratto come negozio, cioè al fatto che il contratto si conclude con l’accordo delle parti, e quella di coloro che vogliono invece che Labeone alludesse alla bilateralità sostanziale del contratto, al fatto cioè che esso produrrebbe obbligazioni in capo ad entrambe le parti per prestazioni reciproche. Certo nell’una e nell’altra tesi c’è magari del vero, ma entrambe sono – e mi pare evidente – lontane da quel che Labeone esprimeva. Accenno solo alle critiche più semplici. Labeone non poteva contrapporre contractus e actus sulla base del carattere consensuale del contractus, perché tale carattere rivestono anche gli actus, e in particolare la stipulatio, della quale è consensuale la forma stessa. Né egli avrebbe potuto dire che il contractus è un negozio dal quale nascono obbligazioni di entrambe le parti, perché vi sono contratti nei quali ciò non è vero: in particolare, per i contratti che noi chiamiamo imperfettamente bilaterali (come il mandato), nei quali dalla conclusione del contratto una sola parte risulta obbligata (le obbligazioni dell’altra possono – eventualmente – nascere da atti di esecuzione del contratto). La conferma che gli autori che aderiscono a questa tesi vogliono trarre dal fatto che Labeone usava per spiegare la sua nozione di contratto il vocabolo greco synàllagma non ha, per altro, fondamento 86. Neppure la serie degli esempi di contratto che il testo contiene (compravendita, locazione, società) può considerarsi in alcun modo probante, anche se essa è composta solo di esempi di contratti sinallagmatici perfetti; ma l’elenco è sicuramente solo esemplificativo, e la sua consistenza stessa può essere facilmente stata abbreviata da Ulpiano o dai compilatori giustinianei; ma anche considerandola come concepita da Labeone come ridotta all’essenziale, essa deve essere considerata pensata come composta dagli esempi nei quali la definizione di contratto nel testo proposta si rivela in modo più evidente. Per Ulpiano abbiamo, del resto, un altro elenco, più ricco ma espressamente presentato come esemplificativo, in Ulp. D.2,14,7,1, che leggeremo più avanti, e che s’inizia proprio con le stesse figure menzionate nel nostro D.50,16,19: ... ut emptio venditio, locatio conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri similes contractus.
Dicendo che il contratto è ultro citroque obligatio, Labeone diceva anzitutto che il contratto è un atto negoziale obbligatorio, ed è quindi come tale che esso viene precisato come ultro citroque, cioè come atto reciprocamente obbligatorio: ma ciò comporta che il punto di vista adottato non sia quello degli effetti dell’atto, bensì quello dell’atteggiamento delle parti al momento della sua conclusione. Questo significa precisamente che il contratto non è visto come un atto con un effetto obbligatorio reciproco, ma come atto di impegno reciproco. E siccome il contratto è un accordo su di un affare, le parti, nel concluderlo, si impegnano reciprocamente alla conclusione, tra loro, di quell’affare. Il contratto, essendo un atto negoziale, produrrà le obbligazioni di entrambe le parti ne86 Tornerò brevemente sul punto, ma una dimostrazione compiuta credo di averla data in CANNATA, Labeone, 43 ss., dove ho cercato di spiegare la ragione per la quale Labeone si sia valso del riferimento a quella voce greca.
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cessarie alla realizzazione di tale negozio, e le produrrà là dove esse sono necessarie: quindi potrà produrle in capo ad entrambe subito alla conclusione del negozio, ovvero alla conclusione del negozio produrne in capo ad una parte sola, ma resterà comunque aperto al sorgere delle altre obbligazioni che la vicenda dell’esecuzione del negozio possa esigere. Dunque, secondo Labeone il contratto è un negozio di impegno reciproco: ma il giurista precisa che “ciò è quello che i Greci chiamano synàllagma” 87. E qui è da chiedersi se con ciò Labeone intendesse aggiungere qualcosa alla definizione che aveva dato: il che significa piuttosto chiedersi che cosa con quel richiamo alla voce greca volesse aggiungere, perché certo egli non era aduso ad infiorare le sue affermazioni dommatiche con preziosismi puramente ameni 88. La dottrina romanistica ha già raggiunto in proposito un risultato che credo sicuro 89. Labeone voleva precisare che, definendo il contratto come una obligatio ultro citroque, egli intendeva spiegare che esso consiste in un accordo su di un affare con il quale si vuole realizzare uno scambio (economico) tra le parti, e ricorreva al greco perché nella lingua latina non trovava un vocabolo adatto ad esprimere l’idea dello “scambio” 90, mentre da Aristotele, ed in particolare da un passo dell’Etica nicomachea 91, poteva desumersi l’impiego appropriato di synàllagma. La ricerca or ora esposta lascia dunque già concludere che Labeone con ultro citroque obligari voleva dire che il contratto è accordo su di un affare che realizza uno scambio, e ricorreva al termine greco perché lo trovava (basandosi su Aristotele) adatto a esprimere questo concetto. Ma qui è opportuno tener conto di un fatto, che emergerà chiaro più avanti però credo opportuno anticipare già qui: in tutta questa operazione dommatica Labeone cercava una definizione di contratto che potesse permettergli di giustificare l’obbligatorietà di contratti atipici; per questo egli, precisamente, intendeva costruire una nozione di contratto che potesse funzionare come categoria generale san-
87 In CANNATA, Labeone, 43 s. mi pongo problemi collaterali, come se il quod di ‘quod Graeci ...’ debba considerarsi pronome relativo o dimostrativo e se con l’allusione al greco synàllagma Labeone intendesse spiegare contractum ovvero ultro citroque obligationem (a questo proposito pervenendo semplicemente alla conclusione che con synallagma egli voleva spiegare la parola latina contractum, ma in quanto definita come ultro citroque obligatio). 88 Su questo specifico punto vedi CANNATA, Labeone, 34; per la spiegazione del rinvio labeoniano al synàllagma e l’esame di Aristot., EN V,2,12 vedi poi, nello stesso articolo, le p. 42-51 (cioè tutto il § 3). 89 I punti essenziali della ricerca (per la quale sono particolarmente importanti le recenti precisazioni della BISCOTTI, ivi cit. ed alla quale rinvio per l’ulteriore letteratura in proposito) sono indicati nel § 3 del mio articolo citato nella nota precedente. 90 Il solo vocabolo latino adatto ad esprimere l’idea dello scambio poteva forse essere permutatio, ma esso aveva già nel linguaggio giuridico romano un impiego preciso d’altro genere: CANNATA, Labeone, 50 s. 91 Aristot., EN V,2,12 cit.
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zionabile con un’azione contrattuale generale – che intanto, come anche vedremo poi, inventava – in concorso con le azioni contrattuali tipiche, e il suo insistere sullo scambio sarebbe anche provato se l’esemplificazione finale fosse quella che Ulpiano trovava in Labeone. Per questo, fra l’altro, Labeone non si preoccupava di contratti come comodato e deposito, dei quali non poteva curarsi la sua definizione, perché si trattava di contratti tipici, e dunque per la loro tutela esisteva già la rispettiva azione edittale. Sarà poi Aristone a precisare il punto, escludendo esplicitamente il negozio gratuito dall’ambito dei contratti di scambio. Queste ultimissime considerazioni, che ho aggiunto in caratteri piccoli, fanno capire che del passo esaminato (D.50,16,19) dovremo occuparci ancora; ma intanto completiamo il discorso che stavamo facendo, sulla contrapposizione che esso presenta, fra contractus e actus.
Il fatto che il contractus sia un negozio obbligatorio per la conclusione di un impegno reciproco e quindi adatto alla produzione di obbligazioni reciproche lo differenzia profondamente dai negozi che appartengono alle species dell’actus. Si tratta di due meccanismi obbligatori molto diversi; e la diversità è più complessa di quel che possa apparire ad una considerazione superficiale. Il punto va approfondito, e lo faremo partendo da nozioni che già abbiamo acquisito in precedenza. Già, in particolare, abbiamo notato che nel contratto l’accordo delle parti rappresenta tanto un elemento della struttura negoziale quanto il fatto produttivo delle obbligazioni; invece, in un actus, il consenso è pur sempre un elemento della struttura negoziale ma non rappresenta il fatto produttivo dell’obbligazione: per esempio, se due soggetti concludono fra di loro una compravendita, il loro accordo sulla vendita, la merce e il prezzo realizza il contratto di compravendita e produce le obbligazioni relative, mentre se essi concludono fra loro una stipulatio, il loro accordo concorre a realizzare la stipulatio stessa, ma non produce le obbligazioni: queste sorgeranno dalla pronunzia dei verba stipulationis, in cui l’accordo si deve, per esigenza di forma, concretare. Così è per tutti gli actus: mentre in un contratto le obbligazioni nascono tutte consensu (dall’accordo delle parti), in un actus le obbligazioni nasceranno – a seconda del genere cui l’atto appartiene – verbis (dalla pronunzia delle parole che rappresentano la forma negoziale), litteris (dalla scrittura delle parole che rappresentano la forma negoziale) o re (dalla presenza di una cosa come res aliena nel patrimonio del debitore, cioè dal fatto giuridico che ve l’ha posta). Labeone identificava le tre fattispecie produttive delle obbligazioni da actus nella stipulatio, nell’expensilatio (se è corretta la mia integrazione), e nella numeratio (egli pensava qui al mutuo, dove il versamento del denaro contato è appunto il fatto che ne trasferisce la proprietà al mutuatario, facendone presso di lui una res aliena: e questo fatto non è qui, beninteso, un elemento formale, ma una numeratio). Questo spiega perché il contratto si contrapponga agli actus come ultro citroque obligatio: esso consiste in un meccanismo adatto all’impegno reciproco,
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mentre nessun actus è adatto a contenere un programma obbligatorio che possa prevedere il sorgere di più d’una sola obbligazione 92. Tornando ora all’affermazione dalla quale il presente discorso era partito – cioè che presso i giuristi classici la denominazione rigorosa di contractus era riservata ai contratti consensuali –, leggendo Ulp. Lab. D.50,16,19 abbiamo potuto constatare che così era presso Labeone. Un altro passo di Ulpiano ci conferma che dopo Labeone anche Pedio impiegherà la stessa terminologia (e ciò implica, in questo caso, che impiegasse anche la stessa dommatica). Conosciamo già il passo, che abbiamo considerato nel § 1.1 di questo stesso capitolo, sicché per ora ci basta leggerne la fine del § 3, nel quale Ulpiano illustrava il carattere generale del termine conventio (accordo), e concludeva con la citazione di Pedio che ora c’interessa, e che riporto con la sua traduzione: D.2,14,1,3 (Ulp. 4 ad edictum): ... Adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat Pedius nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem sive re sive verbis fiat. nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum nulla est. “... Il termine conventio è veramente generale, sicché Pedio ha potuto con eleganza dire che non vi è contratto, anzi, non vi è atto obbligatorio alcuno 93 che non implichi una conventio (= un accordo delle parti), anche se abbia luogo re o verbis : infatti anche la stipulatio, che si fa verbis, se manchi del consenso è nulla.” La conferma di quel che abbiamo detto sopra, e cioè che la contrapposizione labeoniana tra la nozione di contratto come contratto consensuale e gli atti che generano obbligazioni verbis, litteris e re, è evidente alla semplice lettura, purché si chiarisca un equivoco esegetico assai diffuso nella dottrina romanistica 94. Non sono pochi invero gli autori che hanno voluto considerare “nullum ... contractum, nullam obligationem” come un’endiadi, che starebbe a significare “nessuna obbligazione nascente da contratto”: ma questa idea non vedo proprio su che cosa possa basarsi: già è alquanto difficile individuare la forma di un’endiadi nel costrutto impiegato dall’autore del passo (fosse esso Ulpiano o Pedio: ma la citazione ha l’aria di essere letterale); comunque, se così fosse, questo autore verrebbe a dire che “non vi è obbligazione da contratto che non
92 Per la stipulatio (pacifico comunque restando che essa non può generare che obbligazioni di una sola parte) i dubbi che essa possa creare più obbligazioni dello stesso debitore sono fugati da Ulp. D. 45,1,28 pr. 93 Su questo punto della traduzione ritorneremo subito. 94 Con quanto dirò su questo punto sciolgo la riserva formulata sopra, alla n. 11. Vedi già CANNATA, La nozione cit., 29 s. con la n. 33; CANNATA, Labeone, 56 ss.
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implichi una conventio (= un accordo delle parti), anche se abbia luogo re o verbis”, con il che si viene a togliere a obligatio il senso di “atto obbligatorio”, senso che è essenziale al significato della frase: tutto il passo di Ulpiano (dal principium a § 4) disquisisce degli atti, e non delle obbligazioni che possono nascerne. Mi pare dunque lampante che il luogo, così come l’ho tradotto (“Pedio ha potuto con eleganza dire che non vi è contratto, anzi, non vi è atto obbligatorio alcuno”), contiene la medesima contrapposizione fra il contratto (consensuale) e gli actus (senza che Pedio usasse questo termine) che si compiono verbis, o re, come conferma l’esemplificazione di Pedio (o almeno l’unica che ci rimane), che “nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum nulla est”. La serie dei testi rilevanti per stabilire la nozione classica si conclude con un altro testo di Ulpiano, senza citazioni questa volta. Il giurista, partendo dalla nozione di conventio iuris gentium, che sappiamo alludere agli accordi informali rilevanti sul piano delle obbligazioni, vi distingue fra i contratti e i patti, cioè fra gli accordi che generano azione e quelli che generano eccezioni, e per i primi allude alla serie dei contratti nominati (dei contratti innominati parlerà poi, come vedremo a suo luogo), esemplificandoli con una serie di tipi che si presentano in un modo diverso, più compiuto dell’enumerazione che avevamo visto presso Labeone. Che Ulpiano volesse completare quell’enumerazione labeoniana è reso verosimile dal fatto che anche l’altra ci era riferita da Ulpiano (in D.50,16,19), ed essa si iniziava con le stesse tre figure dalle quali parte ora Ulpiano, come se volesse proprio arricchire quell’esemplificazione, o darle un carattere di maggiore compiutezza. D.2,14,7 (Ulp. 4 ad edictum): Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam exceptiones. 1: Quae pariunt actiones, in suo nomine non stant, sed transeunt in proprium nomen contractus; ut emptio venditio, locatio conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri similes contractus. “Degli accordi del diritto delle genti alcuni generano azioni, altri eccezioni. 1: Quelli che generano azioni non rimangono sotto la loro denominazione (di «accordi»), ma passano ad una denominazione specifica come contratti, per esempio la compravendita, la locazione-conduzione, la società, il comodato, il deposito e gli altri contratti simili.” Il confronto con Ulp. Lab. D.50.16,19 (vedi in particolare qui ‘transeunt in proprium nomen contractus; ut emptio venditio, locatio conductio, societas’, e nel fr. 19 ‘contractum autem ultro citroque obligationem, ... veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem’) ci suggerisce che Ulpiano aveva in mente il testo labeoniano che conteneva la definizione e l’esemplificazione dei contratti, e che egli, quanto all’esemplificazione, o riprendeva quella che
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trovava in Labeone stesso (e che là da lui o dalla vicenda del testo fino alla compilazione giustinianea era stata abbreviata), ovvero la completava con gli esempi del comodato e del deposito. Comunque sia, egli enumerava una serie di contratti che per lui erano contratti consensuali. Che nel luogo citato si tratti dei soli contratti consensuali è provato dal fatto che la nozione di partenza (fr. 7 pr.) è quella delle conventiones iuris gentium, che sono in ogni caso figure di puri e semplici accordi informali. Che si tratti di una esemplificazione risulta espressamente detto nella chiusa: et ceteri similes contractus. L’enumerazione è, per altro, assai ricca, perché nell’ambito dei contratti nominati (di cui si sta parlando: transeunt in proprium nomen contractus) l’enumerazione è pressoché completa: non mancano che mandato e pegno.
Ora, è chiaro che secondo Ulpiano la serie dei contratti propriamente detti (secondo la terminologia che abbiamo visto da Ulpiano stesso assegnata alla tradizione che partiva da Labeone e passava per Pedio) comprendeva anche il comodato e il deposito, malgrado per la conclusione di questi contratti fosse necessaria la consegna dall’una parte all’altra della cosa oggetto del contratto. Ma questa circostanza non aveva alcuna rilevanza dommatica per Ulpiano, né certo per alcun giurista classico, nel senso che essa potesse far pensare che queste figure contrattuali – come del resto è pure per il pegno – non appartenessero al genere dei contratti consensuali, ed in particolare dovessero collocarsi nella categoria del re obligari. Come sappiamo, quest’ultimo meccanismo obbligatorio non riguarda il modo di concludere un contratto, ma considera il fatto della presenza di una cosa nel patrimonio di un soggetto (e quindi in sua proprietà) come cosa che spetta ad un altro soggetto, e quindi non può applicarsi a situazioni nelle quali l’oggetto del contratto, anche se è consegnato da una parte all’altra, non le è trasferito in proprietà. L’obbligazione del comodatario e del depositario (come anche quella del creditore pignoratizio) di restituire la cosa comodata o deposta (o pignorata) non nasce re, ma consensu: dall’accordo con il quale le parti hanno definito l’affare che del contratto rappresenta la causa. La necessità che in questi casi le obbligazioni delle parti nascano solo quando la cosa è stata consegnata non dipende dal meccanismo obbligatorio adottato, ma dalla specifica disciplina che la giurisprudenza romana ha voluto dare alle singole figure 95. Anche per lo stesso Gaio era ben chiaro che deposito, comodato e pegno non avevano nulla a che fare con il re obligari. D’altra parte, egli si trovò in difficoltà a causa della de-
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In particolare, dal fatto che non si voleva che i tre contratti in parola comprendessero – rispettivamente – l’obbligazione del comodante, del deponente e del debitore a consegnare la cosa: vedi la spiegazione che, ragionando in particolare sul comodato, si trova in CANNATA, La nozione, 40 s.
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scrizione dei contratti consensuali che aveva fatto in Gai.3,136, dove scriveva bensì esattamente che per la loro conclusione non era necessaria alcuna forma orale o scritta (neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur), ma poi sintetizzando la sua idea col dire che “per concluderli il solo consenso è sufficiente” (sed sufficit eos qui negotium gerunt consensisse): frase che sembra proprio significare che per la conclusione di quei contratti non solo non esistono requisiti di forma, ma neppure altra esigenza al di fuori di quella dell’accordo. È molto probabile che Gaio questa difficoltà l’abbia proprio avvertita, perché nella divisio obligationum di Gai.3,88 ss. (quella che abbiamo letto nel primo capitolo di questo volume, e che divideva le obbligazioni in obbligazioni da contratto e obbligazioni da delitto, e le obbligazioni da contratto nei generi delle obbligazioni che si formano re, verbis, litteris, consensu) i contratti di comodato, deposito e pegno non trovano posto: perché – potremmo credo spiegare – escluso a priori che essi si formino verbis o litteris, non si formano certo re, ma, data la sua rigida definizione, non possono dirsi neppure contratti consensuali. Quel che conferma questa mia interpretazione del pensare di Gaio è il fatto che per lui certamente comodato, deposito e pegno erano contratti: trattandoli come tali nelle stesse Istituzioni li menzionava, altrove, in diversi luoghi più volte 96. Questa particolarità dell’esposizione gaiana fu chiaramente avvertita come un difetto delle Istituzioni dal rielaboratore epiclassico dell’opera, perché questi provvide a correggerla, nella sua opera, che circolò con il titolo di Res cottidianae o Aurea. Egli risolse il problema creando la nozione moderna di contratto reale connettendola con l’idea del re contrahere obligationem, e concependola come l’insieme dei contratti che per la loro conclusione necessitano della consegna di una cosa (indifferentemente se trasferita in proprietà o solo data in possesso o detenzione), con notevole intelligenza sistematica, ma col costo della perdita dommatica della nozione classica del re obligari, credendo di compensarla con la creazione di una categoria abbastanza inutile dove il mutuo viene messo sullo stesso piano del comodato. E le Istituzioni giustinianee accolsero interamente tale costruzione 97.
Abbiamo potuto dunque vedere che la giurisprudenza classica adottava una nozione rigorosa di contractus coincidente con l’idea del contratto consensuale ed esclusiva delle figure di atti obbligatori che hanno luogo re, verbis, litteris. Anche se con ciò non si deve certo escludere che il termine contractus si trovi nelle fonti talora impiegato in un senso più generico 98, che può considerarsi anche connesso in qualche modo con la posizione di Gaio: ma quella di questo autore mi pare l’unica a noi nota nella quale l’impiego più largo è sostenuto da una espressa presa di posizione sistematica 99. 96 Si vedano i passi menzionati in CANNATA, Materiali II, 88 n. 231, in un contesto dove il tema qui trattato è esposto in modo più ampio (ivi, p. 86 ss.). 97 I testi relativi alla vicenda qui descritta sono: Res cott. D.44,7,1,2-6; I. 3,14 pr.; 2-4. Vedi diffusamente in CANNATA, Materiali II, 107 ss.; 128. 98 Fra i testi che abbiamo già letto si può vedere Ulp. D.19,1,9,3 (citato alla fine del § 4 nel cap. II dopo n. 280). Non credo invece che possa senza molte riserve addursi Ulp. D.12,1,1,1, per quel che dico in CANNATA, Labeone, 58 s. 99 La posizione di Gaio, prescindendo per ora dalle ragioni che hanno indotto l’autore a costruirla (ragioni che è facile credere riposassero sulla preoccupazione didattica più che non dommatica del suo discorso), sembra per altro proprio pensata come rielaborazione della dottrina di Labeone. Basta vedere come in Gai.3,137, malgrado non si contrappongano i contratti agli actus ma la
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2.1. Contratti consensuali nominati (tipici) e innominati (atipici). – La distinzione tra contratti 100 nominati e contratti innominati è in genere considerata propria dei diritti moderni; ma essa è stata costruita sulla base di Ulp. D.2,14,1,4 101 e Ulp. D.2,14,7,1 in contrapposto con Ulp. Arist. Cels. Iul. Mauric. D.2,14,7,2 102. Con riguardo ai diritti codificati moderni si parla di contratti nominati e innominati ovvero di contratti tipici e atipici, ma le due distinzioni hanno lo stesso senso. I contratti nominati o tipici sono quelli espressamente previsti nella legge, mentre i contratti innominati o atipici sono quelli conclusi dalle parti al di fuori della tipologia legislativa, e che l’ordinamento riconosce sulla base di norme come quella – espressa – dell’art. 1322 comma 2 CCit [1942]. Per vero, esistono alcuni pseudopuristi che, prendendo la terminologia nel suo senso letterale e non per la semantica che la storia le ha dato, distinguono fra contratti nominati e contratti tipici: quelli previsti espressamente nella legge sarebbero i contratti tipici, perché nominato sarebbe un contratto che ha un nome, indipendentemente dal fatto che esso sia o non sia previsto dalla legge. Così, ad esempio, il leasing, figura contrattuale del common law recepita nei paesi di civil law, sarebbe presso di noi un contratto atipico ma nominato, perché non è previsto dalla legge ma possiede una denominazione specifica. Ma questo terreno è assai sdrucciolevole, perché identifica una categoria di contratti sulla base di una considerazione affatto esteriore, senza alcuna rilevanza dommatica. Va piuttosto notato che nel common law queste distinzioni non hanno praticamente alcuna rilevanza, perché in quegli ordinamenti l’entità giuridica considerata è solo quella del contratto in generale (contract), mentre le denominazioni specifiche (come sale, rent, leasing, factoring etc.) non indicano il contratto, ma l’affare, l’operazione economica gestita mediante un contratto. Per quanto riguarda il diritto romano, nei testi citati si parla semplicemente di accordi che transeunt in proprium nomen contractus, cioè che “vengono ad assumere una specifica denominazione come contratti”, ma con ciò non si fa riferimento all’uso comune, bensì al fatto che tali accordi si riferiscono ad affari, i quali vengono indicati con termini specifici nelle clausole edittali che prevedono per essi le relative azioni contrattuali 103. Per queste ipotesi noi parleremo qui di contratti nominati, contrapponendoli ai nozione di contractus copra tutto l’insieme considerato, i contratti consensuali siano ancora contrapposti in prospettiva labeoniana ai negozi che producono obbligazioni re, verbis e litteris. 100 Parlando, di qui in poi, di “contratti” mi riferisco, per il diritto romano, ai contractus nel senso proprio che abbiamo visto definito nei testi esaminati che ci riportano il pensiero di Labeone, Pedio e Ulpiano: cioè, in sintesi, parlo dei contratti consensuali. Nelle allusioni, poi, al diritto moderno, le cose sono ancora più semplici, perché, nel nostro modo di vedere in generale, tutti i contratti sono contratti consensuali, cioè concepiti come fonti d’obbligazione che producono obbligazioni per il consenso delle parti: la distinzione fra contratti consensuali, formali, reali etc. serve solo (la radice, come abbiamo visto, si trova presso Gaio) a distinguere come contratti consensuali propriamente detti i contratti per la conclusione dei quali il consenso delle parti è sufficiente, senza altri requisiti di forma o altro, all’interno di una categoria giuridica nella quale il meccanismo obbligatorio è pur sempre quello dell’accordo delle parti. 101 Lo abbiamo letto sopra, verso l’inizio del § 1.1. 102 I due ultimi testi li esamineremo poi (nel § 2.3), parlando dei contratti innominati. 103 Vedi la precisazione in CANNATA, Labeone, 63 (nel contesto di un discorso che incomincia alla p. 60, discutendo le considerazioni che fa il DALLA MASSARA nei luoghi ivi cit. del libro Alle origini della causa del contratto, Padova 2004).
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contratti innominati, come a quelli non previsti nell’editto, ma protetti con l’azione contrattuale generale (actio praescriptis verbis o actio in factum civilis) introdotta da Labeone e non prevista nell’editto pretorio. E va notato che l’esistenza di un nome per le operazioni economiche corrispondenti a questi contratti innominati non li trasformava affatto in contratti nominati: il caso chiaro è quello della permuta, operazione contrattuale perfettamente individuata con una propria denominazione (permutatio: tit. D.19,4; C.4,64; Paul. Sab. Cass. Nerv. Proc. D.18,1,1 pr.-2), ma non prevista nell’editto pretorio. Un dubbio – senza alcuna rilevanza pratica, e che non afflisse certo i giuristi romani – potrebbe sussistere per l’aestimatum, il quale fu previsto nell’editto, ma attribuendogli tutela mediante l’azione contrattuale generale (Ulp. D.19,3,1 pr.): si tratta dunque di un contratto nominato in quanto menzionato nell’editto, ma che il pretore menzionò per dire che lo avrebbe trattato come un contratto innominato, e la clausola edittale relativa era d’altra parte la sola che nell’editto stesso veniva così a prevedere l’azione contrattuale generale 104.
2.2. Il sistema dei contratti consensuali nominati. – Come sistema dei contratti consensuali nominati – ovvero, dunque, tipici – intendo quindi l’insieme dei contratti consensuali per i quali l’editto del pretore urbano prevedeva specifiche azioni. Quelle di individuare questo insieme e di considerarlo un sistema sono operazioni storico-dommatiche che la struttura della materia impone di effettuare, per delle buone ragioni. La prima sta nel fatto che il modo come l’insieme dei contratti consensuali fu costruito, tipo dopo tipo, obbedisce ad una certa logica che si rivela consapevole già nel fatto che all’idea del contratto innominato si giunse precisamente quando si poté constatare che la serie dei contratti nominati già creati era sufficiente e non valeva la pena di arricchirla, cioè non era più opportuno prevedere espressamente nuove azioni contrattuali specifiche. E che questa chiusura e apertura (se posso esprimermi così: Labeone, che l’operò, creò l’azione contrattuale generale avendo evidentemente in testa che non c’era più ragione per insistere nella creazione tipologica e i problemi del contratto potevano essere meglio risolti con un’azione sola per tutelare tutte le figure atipiche) che questa chiusura e apertura, dicevo, sia stata consapevolmente decisa, è provato dall’eccezione che si verificò assai più tardi, certo nel II secolo d. C., quando si introdusse l’editto de aestimato: perché – come riferisce Ulp. D.19,3,1 pr. – questo fu precisamente fatto in quanto l’aestimatum, che era frequentemente praticato, dava luogo ad incertezze quando si dovesse agire in giudizio, essendo considerato come l’impiego di un contratto nominato, ma oscillandosi nell’identificarne la natura e quindi nella scelta dell’azione appropriata, tra l’actio venditi, l’actio locati, l’actio conducti e l’actio mandati: e, 104
Vedi ancora verso l’inizio del prossimo § 2.2. Sull’esistenza e il tenore della clausola edittale de aestimato non possono più sussistere i dubbi che in proposito aveva LENEL, EP, 300 ss., il quale condivideva l’idea – che sappiamo ormai essere falsa, ma ai suoi tempi si andava vieppiù affermando – della non classicità dell’actio praescriptis verbis (azione contrattuale generale).
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per risolvere il problema, nell’editto si precisò che per il caso dovesse usarsi l’azione contrattuale generale. Ciò significava, appunto, risolvere il problema nel senso di non incrementare la serie delle azioni contrattuali edittali – cioè la serie dei contratti tipici –, pur determinando, e con l’autorità di una clausola edittale, l’azione appropriata alla situazione in esame. La seconda considerazione consiste nella constatazione che i tipi contrattuali nominati sono in diritto romano assai pochi, precisamente sette in tutto, e fra questi ne è identificabile un primo gruppo di quattro, che si presenta come concepito con l’intenzione di prendere in considerazione tutte le transazioni economiche (gli affari) d’impiego generale, concependone ciascuna nel modo più generale possibile, aggiungendo poi le altre tre solo perché in tali schemi generali queste non potevano rientrare. Insomma, l’insieme dei contratti consensuali – la serie dei tipici e l’apertura agli atipici – risultò da una serie di valutazioni economico-giuridiche che non rivestirono carattere episodico: esse ci si lasciano scorgere come la graduale e meditata realizzazione di un disegno rimasto coerente anche se si realizzò nell’arco di più due secoli. Perché, infatti, la vicenda può essere collocata tra la metà del III secolo a. C. e il tempo della maturità di Labeone, la quale si colloca all’epoca di Augusto. La data finale va fatta coincidere con l’introduzione dell’azione contrattuale generale, e Labeone non poteva compiere un’operazione del genere – senza intervento pretorio e quindi basata sulla sua sola autorità – prima di aver raggiunto un’età a ciò sufficiente nella sua vita che si colloca tra il 50 a. C. circa ed un anno fra il 15 e il 20 d. C. La linea evolutiva – quindi storica – e la coerenza sistematica – quindi dommatica – dell’insieme dei contratti consensuali sono dunque reciprocamente connesse: e per apprezzarne il significato dobbiamo procedere considerando dapprima i singoli tipi contrattuali nominati e poi la sua chiusura con la definizione della nozione generale di contratto, che apre la via alla considerazione dei contratti innominati e della loro tutela mediante l’azione contrattuale generale. In questo discorso introduttivo vorrei ancora preliminarmente accennare ad un carattere della materia dei contratti consensuali, che magari, in linea di massima, può anche essere considerato un carattere comune a molte delle istituzioni del diritto privato, e forse non solo a queste, ma che per i contratti consensuali viene in evidenza in modo particolarmente chiaro e significativo. La creazione dei singoli tipi contrattuali non rappresentò pressoché mai nella storia – e non solo nella storia del diritto romano – una creazione radicalmente nuova, ma solo la costruzione di strutture nuove – nuove, almeno, per l’ordinamento giuridico nel quale vengono costruite o magari recepite – per inquadrare affari che già venivano praticati nella vita economica; questa prassi precedente aveva talora una struttura giuridica diversa, talora non ne aveva alcuna, e i precedenti pratici, se non del tutto ignoti al diritto, erano presi in considerazione da parte
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dell’ordinamento secondo parametri diversi, senza considerazione alcuna della volontà e degli scopi specifici che le parti avevano nel compierli. Si pensi, ad esempio, che prima del riconoscimento di deposito e comodato come contratti, il fatto che il depositario o il comodatario non restituissero la cosa che avevano ricevuto poteva venire in considerazione soltanto come furto. Nel diritto romano, per i contratti consensuali si trattò, di volta in volta, per ciascun tipo, della creazione, ad opera della giurisprudenza, di una struttura obbligatoria – cioè un meccanismo costruito sfruttando la nozione di obbligazione che da poco prima delle dodici tavole era stata introdotta 105 – adatta ad inquadrare nel diritto delle obbligazioni la realizzazione di un determinato tipo di affare. I contratti consensuali sono tutti strutture causali: a fronte della stipulatio, meccanismo astratto per la creazione di un’obbligazione in se stessa, ciascun contratto consensuale rappresenta una struttura obbligatoria creativa dell’insieme delle obbligazioni necessarie a dare realtà giuridica alla realizzazione disciplinata di un certo affare economicamente definito. Di queste prassi precontrattuali vorrei dare qui come modello – ma si tratta di modelli singoli, che non possono interpretarsi come esempi generali – due esempi che le fonti suggeriscono. Si tratta di esempi diversi, perché il primo consiste solo nel richiamo di un’antica norma nella quale è ravvisabile la semplice radice di un’idea che animerà poi una struttura contrattuale, il secondo invece consiste nella storia, tracciata da un giurista dell’epoca dei Severi e quindi verso la fine dell’epoca classica, della vicenda economica che ad un certo punto culminerà nella costruzione di un tipo contrattuale. Il primo esempio ci è suggerito dalla lettura di un testo che i compilatori del Digesto trassero dal commentario di Gaio alla legge delle dodici tavole: D.47,22,4 (Gai. 4 ad legem XII tab.): Sodales sunt, qui eiusdem collegii sunt: quam Graeci ἑtaire…an vocant. his autem potestatem facit lex pactionem quam velint sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. sed haec lex videtur ex lege Solonis tralata 106 esse. nam illuc ita est:, ™¦n dÁmov À fr£torev À ƒerîn Ñrg…wn mhnutaˆ À sÚssitoi À ÐmÒtafoi À qiasîtai À ™pˆ le…an eῤcÒmenoi À ™mpor…an diaqîntai ti prÕv ¢ll»louv, kÚrion eŒnai, ™¦n m¾ ¢pagoreÚῃ dhmÒsia pr£gmata. Il temine latino sodalis, come il corrispondente greco ἑta…rov, significa “compagno” nel senso più ampio, per cui una sodalitas, o ἑtaire…a, risulta essere un insieme di persone unite da un elemento di colleganza, determinato da una situazione comune, come 105
Vedi Corso II,1, 61 ss. (per tutta la vicenda, 38 ss.). La Fiorentina ha tranlata, che certo è un errore, perché il verbo corrispondente ha in latino due forme, transferre e traferre, che al participio passivo femminile darebbero o translata o tralata. 106
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nel caso dei residenti in uno stesso piccolo centro, o da un intento comune, come per i cacciatori che operano in una certa zona o per i soggetti che esercitano una stessa attività commerciale. Una sodalitas acquista significato giuridico come collegium quando i suoi membri intendano dare in qualche modo delle regole al proprio comportamento in modo di favorirne l’efficienza a vantaggio di tutti, costituendo così una sorta di associazione, la quale si manifesta nel fatto che i sodales si accordano per coordinare e disciplinare il loro agire collettivo. Questi concetti implica il testo che abbiamo letto, e che possiamo tradurre come segue 107.
“I sodales sono coloro che appartengono allo stesso collegium, quella che i Greci chiamano etaireia (in italiano: eterìa). La legge (delle dodici tavole) accorda a costoro la facoltà di darsi (una disciplina mediante) gli accordi che vogliono, purché non contrastino in alcun modo con la legge pubblica. Ma questa norma (delle dodici tavole) appare essere la traduzione di una legge di Solone 108. Infatti ivi (= nelle leggi di Solone) è scritto cosi: «Se una popolazione 109 o i membri di una fratrìa 110 o gli annunziatori di banchetti sacri o coloro che si associano per una mensa comune 111 o un sepolcro comune, o i tiasoti 112, o co107 Per il testo della legge di Solone, che Gaio citava, abbiamo un solo, incerto, confronto testuale nello scolio al testo dei Basilici che corrisponde a D.47,22,3: si tratta dello scolio 1 a B.60,32,3 (Heimb. V, p. 669; ma qui mi valgo di Sch. B IX, p. 3620), dove il testo ha alcune varianti, che mi sembrano migliori ripetto al dettato del Digesto (forse lo scoliaste greco ricordava la legge di Solone in modo più preciso di Gaio), sicché sopra ho riportato tale lettura, alla quale si riferirà la mia traduzione. Le differenze più rilevanti sono le seguenti: a) invece di mhnuta… la Fiorentina (e così l’editio maior del Mommsen e l’editio minor di Mommsen-Krüger) ha À naàtai, che certo è errato (il Mommsen proponeva di sostituirlo con qÚtai, con buone ragioni filologiche, ma il senso viene così ad essere pressoché lo stesso di quello della lezione dello scolio); b) invece di ™rcÒmenoi la Fiorentina (come gli editori) ha ÑicÒmenoi; c) invece di ¢pagoreÚῃ la Fiorentina (come gli editori) ha ¢pagoreÚsῃ; d) invece di pr£gmata la Fiorentina (come gli editori) ha gr£ mmata; e) lo scolio prosegue alla fine, dopo virgola, con toutšsti e altre otto parole Su D.47,22,4 ed in particolare sulla legge di Solone che vi è citata, si veda (con bibliografia) F. SARTORI, Il diritto di associazione nell’età soloniana ed una notizia di Gaio (D.47,22,4), in Iura 9 (1958), 100 ss. Sulla norma decemvirale della quale si occupava Gaio, vedi DE ROBERTIS, Storia delle corporazioni e del regime associativo nel mondo romano I, Bari s. d. (ma prefazione del 1971), 41 ss. 108 Solone visse dal 640 al 561 a. C. Sul problema – e la realtà – di una consapevole attenzione alla legislazione greca, e in particolare a quella attica incentrata sui testi di Solone, nel lavoro di concezione e redazione delle dodici tavole vedi CANNATA, SG I, 97 s. 109 Il termine dÁmov (pronuncia: dēmos) se riferito a persone indica l’insieme dei liberi cittadini di uno Stato democratico; qui probabilmente si riferisce piuttosto all’insieme dei membri di una piccola comunità locale, come un villaggio. 110 La fratria (fratr…a) era originariamente la comunità familiare dei discendenti da un capostipite comune, ma poi il termine venne ad indicare genericamente – come qui – un’associazione o lega religiosa o politica; in epoca romana si usò anche per indicare ciascuna delle trenta curie nelle quali erano divise le tribù dei Ramni, Tizî e Luceri. 111 Il termine sÚssitoi può tradursi in italiano con “sissizî”. 112 I tiasoti erano i membri di un tiaso (q…asov), confraternita per la celebrazione, specie con processioni, canti, danze, del culto di Dioniso.
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loro che praticano la caccia ovvero un commercio, qualunque cosa abbiano stabilito fra di loro sia vincolante, purché non contrasti con la cosa pubblica 113»”. Quel che si legge in questo testo non ha certo nulla a che fare con i contratti consensuali e neppure con le obbligazioni: esso si riferisce all’epoca di Solone ed alla legge delle dodici tavole. All’epoca delle dodici tavole la nozione di obbligazione era, come sappiamo, già stata introdotta, pur se da non molto 114, ma essa aveva vigore unicamente come effetto della sponsio: dei contratti consensuali non esisteva ancora neppure il sospetto. La struttura di cui Gaio parla in D.47,22,4, e cioè il collegium (o sodalitas) romano e la precedente eteria greca, non erano certo in origine istituzioni giuridiche; il fatto che la legge ne considerasse l’esistenza e permettesse che gli associati concordassero una disciplina interna non aveva lo scopo di fornire agli associati la tutela giurisdizionale dello Stato per il suo rispetto; si voleva solo, in una prospettiva di diritto pubblico, sancire la liceità di simili associazioni, ed allo stesso tempo stabilire l’illiceità di regolamenti associativi contrari al diritto positivo; ma con ciò si intendeva anche chiarire che l’ordinamento giuridico lasciava interamente all’associazione ed ai suoi associati la gestione dei loro affari e pure delle loro controversie interne. A Roma, i collegia, cioè questo tipo di associazioni, non divenne mai un’istituzione del diritto privato: essi si evolsero in dimensione pubblicistica, e l’aspetto anche privatisticamente più rilevante fu solo quello di stabilire quando e in quali limiti a tali enti potesse essere riconosciuta una personalità giuridica 115. Nel riportare, dunque, il testo di Gaio, il mio scopo era un altro: quello di mostrare come di fatto, già al tempo delle dodici tavole, fosse acquisita in Roma l’idea che le persone possono associarsi e vincolarsi pattiziamente, cioè con accordi informali, sulla disciplina del loro agire comune. Ciò significa constatare che l’idea, sulla quale più tardi fu costruito l’istituto giuridico del contratto di società, era già presente nella prassi sociale. La futura elaborazione del contratto di società consisterà nella definizione, in un settore particolare della prassi associativa, di una struttura giuridica, la quale adottava in una dimensione squisitamente economica e per uno scopo definito in modo particolare, l’idea, nata in tale antica prassi, rielaborandola con l’opportuno rigore. Il secondo esempio ci è offerto dal passo nel quale il giurista Paolo delinea la storia della vendita come fenomeno puramente economico: così facendo egli ne
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Il plurale (t¦) dhmÒsia pr£gmata indica gli affari di Stato, l’amministrazione pubblica, la politica pubblica: in sostanza quello che in italiano si esprime bene col singolare “la cosa pubblica”. 114 Vedi sopra, n. 105. 115 Vedi, sulle associazioni romane, Kaser, RPR I, 307 ss. (nel § 72 sub V, 1-4).
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scorge le origini in un’epoca di risalenza indeterminata, assoluta, per così dire. Paolo non pensava forse neppure alla sola storia di Roma, ma alla storia dell’umanità e, benché scrivesse in un contesto dove trattava del contratto consensuale di compravendita, non è di questo che fa la storia, bensì dell’operazione economica che gli corrisponde, partendo dai tempi nei quali tale operazione si attuava in modi assai diversi da quelli del contratto che era sua intenzione illustrare: D.18,1,1 pr. (Paul. 33 ad edictum): Origo emendi vendendique a permutationibus coepit. olim enim non ita erat nummus, neque aliud merx, aliud pretium vocabatur, sed unusquisque secundum necessitatem temporum ac rerum utilibus inutilia permutabat, quando plerumque evenit, ut quod alteri superest alteri desit. sed quia non semper nec facile concurrebat, ut, cum tu haberes quod ego desiderarem, invicem haberem quod tu accipere velles, electa materia est, cuius publica ac perpetua aestimatio difficultatibus permutationum aequalitate [quantitatis] subveniret. eaque materia forma publica percussa usum dominiumque non tam ex substantia praebet quam ex quantitate, nec ultra merx utrumque, sed alterum pretium vocatur. Questo testo, malgrado sia assai noto, non mi risulta sia mai stato studiato in modo sufficientemente analitico 116. In particolare non si è fatto tesoro dei risultati, che l’acume filologico del Beseler avrebbe dovuto già da tempo suggerire, anche se l’autore stesso non li aveva compiutamente pensati: forse mai come in questo caso, infatti, la grande intelligenza esegetica del principe della Interpolationenjagd si rivela soverchiante rispetto ai suoi esiti interpolazionistici. I rilievi del Beseler 117 erano i seguenti: a) nella prima frase egli propone un’aggiunta: non ita , il che è indubbiamente esatto, e certo si deve pensare che Paolo abbia scritto o almeno sottinteso tali parole; b) nella seconda frase propone una soppressione: non semper [nec facile] concurrebat, correzione magari elegante, ma inutile: Paolo voleva evidentemente dire che la coincidenza, di cui parlava, non solo non aveva luogo sempre, ma non si deve neppur ritenere che si trattasse di una coincidenza facile. Ma i due interventi ulteriori – che il Beseler motivava anche espressamente – sono particolarmente significativi: c) alla fine della stessa frase, il Beseler espunge [aequalitate quantitatis] dicendo che tale espressione «stoßt sich mit publica et perpetua aestimatio», cioè contrasta con tali parole, a meno che, egli aggiunge, non si debba leggere iuncta aequalitate quantitatis; in questo caso il Beseler ha avvertito una contraddizione nel testo, ma non l’ha individuata esattamente, perché in realtà aequalitate quantitatis urta con il non tam ex substantia … quam ex quantitate della frase successiva: il denaro, come bene, si rivela adatto a risolvere i problemi in questione perché viene in rilevanza per la sua quantitas, mentre la sua qualitas, cioè la sua substantia, è irrilevante in relazione al suo impiego economico; da ciò risulta chiaro che nel testo è entrato bensì un errore, ma questo consiste nel fatto che un editore, il quale non capiva la frase 116 Malgrado le interessanti pagine che gli ha dedicato da ultimo il MELILLO, Categorie economiche dei giuristi romani, Napoli 2000, 46 ss. 117 BESELER, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen. Drittes Heft, Tübingen 1913, 13.
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che stava dettando o scrivendo, ha scritto aequalitate quantitatis invece che aequalitate qualitatis 118; d) nell’ultima frase il Beseler propone una cancellazione: usum [dominiumque] non tam ex substantia praebet etc., dicendo che (traduco) «Dominium è superfluo, perché anche senza va da sé che l’uso che si menziona è quello del proprietario. Perciò io penso che dominiumque sia stato aggiunto da un lettore, il quale erroneamente intendeva usum in senso tecnico-giuridico». Ma bisogna andare un pochino più in là: neanche dominium è impiegato in questo luogo nel suo significato tecnico-giuridico, perché Paolo – lo abbiamo visto fin dall’inizio – non sta facendo un discorso giuridico, ma economico: sicché con usus dominiumque del denaro si allude alla sua rilevanza in dimensione economica rispettivamente come strumento operativo (mezzo di scambio) e oggetto di capitalizzazione (ricchezza come tale). Possiamo dunque tradurre il testo così:
“Il comprare e vendere prese origine dalle permute. Un tempo, infatti, non esisteva così come oggi la moneta, e non si individuavano distintamente merce e prezzo, ma ciascuno scambiava con cose utili le inutili secondo quel che tempi e realtà imponessero: dal momento che per lo più avviene che quel che uno ha superfluo manchi ad altri. Ma siccome il fatto che tu disponessi di quel che io ricercavo non coincideva sempre né facilmente col fatto che per converso io avessi quel che tu desideravi, fu scelta una materia, il cui apprezzamento generale e costante ponesse rimedio, grazie all’indifferenza della sua qualità, alle difficoltà delle permute. E tale materia, una volta coniata in forma pubblica, non presenta più utilità e valore in ragione della sua sostanza, ma solo in ragione della sua quantità, sicché a partire d’allora (in relazione ad uno scambio) non si parla più indifferentemente di merce (alludendo alle cose che vengono scambiate), ma una delle due viene a chiamarsi prezzo.” Dunque, secondo Paolo, il prototipo dello scambio di cosa contro cosa è rappresentato dalla permuta, la quale, con l’introduzione della moneta, genera quel tipo particolare di scambio nel quale una delle due cose scambiate è sempre la stessa, perché consiste nel bene scelto come mezzo di scambio; questo tipo di scambio si evolve ulteriormente quando il bene che funge da mezzo di scambio diviene moneta, per il fatto di essere coniato a cura dello Stato, che con la coniazione gli dà ufficialmente veste di mezzo di scambio e gli attribuisce anche il carattere di misura dei valori: a partire da questo momento è nata la compravendita. Ma essa è nata – questo è quanto Paolo intende spiegare – come operazione economica. La sua veste giuridica cambierà ancora, e dapprima assumerà in particolare la forma della mancipatio, e solo in seguito darà luogo alla struttura, più moderna e destinata a restare definitiva, della compravendita consensuale obbligatoria. Sugli ultimi aspetti di questa vicenda dovremo ovviamente tornare, a suo tempo e luogo, in seguito. Per ora ci interessa soltanto constatare che per i due 118
Per questo ho sopra proposto nel testo la corrispondente modifica. Aequalitas ha qui il senso di “indifferenza”, come in Cic., leg.1,38.
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contratti consensuali, che dobbiamo considerare i più antichi, una prassi esisteva già nelle strutture socio-economiche, e la giurisprudenza, creando i rispettivi contratti, elaborò soltanto strutture appropriate per la loro gestione come fenomeni obbligatori. Come la creazione del contratto di società non rappresentò la conversione in contratto consensuale obbligatorio delle situazioni corrispondenti all’antico collegium, perché i collegia continuarono ad esistere, come già abbiamo accennato sopra, così la creazione della vendita consensuale non eliminò la prassi della permuta: i nuovi contratti ebbero una loro definizione precisa più limitata ed al contempo più feconda. Ma se la società restò comunque poi sempre un negozio a se stante, il modello della vendita rappresentò il punto di partenza per la creazione di nuovi tipi contrattuali, che vennero a coordinarsi in sistema. La storia della vendita prese inizio con l’introduzione della moneta coniata, ed il relativo contratto, quando alla fine fu introdotto – come vedremo, si deve collocare l’evento nel III secolo a. C. – venne concepito come veste giuridica della realizzazione di un affare consistente nello scambio di cosa contro prezzo, cioè di cosa e di denaro: e ciò significava precisamente che l’operazione economica corrispondente consisteva nella realizzazione dello scambio di due proprietà: la proprietà di una cosa diversa dal denaro e la proprietà di una certa quantità di specie monetarie di valore corrispondente. Allo schema della compravendita si accostò presto quello della locazione, che corrispondeva all’idea dello scambio di un servizio contro denaro; il mandato, che si aggiunse più tardi, dava corpo contrattuale alla prestazione di un servizio senza retribuzione, e quindi non era un contratto di scambio. Le altre figure contrattuali più recenti costituiscono ancora tutte varianti di queste ultime figure: il deposito può essere visto come una locazione senza mercede o come un mandato, nel quale però la circostanza che viene concluso esclusivamente nell’interesse del mandante determina un regime particolare; il comodato è visto come una locazione gratuita che non può essere considerata mandato perché nella sua fattispecie fa difetto proprio il mandatum, e cioè l’incarico. Queste figure sono entrambe caratterizzate dal fatto che la cosa oggetto del contratto deve essere consegnata da un soggetto all’altro perché il contratto possa considerarsi concluso. Ad esse va aggiunto il pegno, la più antica di tutte queste ultime figure, per la quale la consegna della cosa è necessaria solo nel caso esso assuma la forma del pegno manuale 119.
2.3. Il riconoscimento delle figure di contratti innominati. – Per impostare il problema del riconoscimento dei contratti innominati nel diritto romano, ed 119
Sul pegno vedi già nel primo volume di questo Corso, p. 317 ss.
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anche veder delineata la storia della relativa dottrina, credo la cosa migliore sia leggere per intero un testo che già abbiamo parzialmente considerato: D.2,14,7 (Ulp. 4 ad edictum): Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam exceptiones. 1: Quae pariunt actiones, in suo nomine non stant, sed transeunt in proprium nomen contractus: ut emptio venditio, locatio conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri similes contractus. 2: Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem. ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc sun£llagma esse et hinc nasci civilem obligationem. et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a praetore dandam: ille ait civilem incerti actionem id est praescriptis verbis sufficere: esse enim contractum, quod Aristo sun£llagma dicit, unde haec nascitur actio. Preferisco presentare, del testo, una traduzione non tanto libera, ma che possa renderne più chiaramente il senso 120, aggiungendo anche fra parentesi alcuni chiarimenti: “Degli accordi di diritto delle genti (cioè: degli accordi puri e semplici) alcuni generano azioni, altri eccezioni. 1: Quelli che generano azioni abbandonano la loro denominazione (generica di «accordi»), per passare ad una denominazione specifica come contratti, per esempio la compravendita, la locazione-conduzione, la società, il comodato, il deposito e gli altri contratti simili. 2: Ma anche qualora l’accordo non venga (nel modo or ora visto) a corrispondere ad un contratto (nominato), ma gli sussista una causa, Aristone rispose con eleganza a Celso che vi è obbligazione. Per esempio: io ti ho dato una cosa con l’accordo che tu me ne dessi un’altra, ovvero io ti ho dato una cosa con l’accordo che tu faccia alcunché; in entrambi i casi siamo di fronte ad un synàllagma, e ne nasce un rapporto d’obbligazione civile. Per cui ritengo che Giuliano sia stato correttamente ripreso da Mauriciano con riguardo al caso seguente: io ti ho dato lo schiavo Stico con l’accordo che tu manometta il tuo schiavo Panfilo; tu lo hai manomesso, e Stico ti è stato evitto. Giuliano scrive 120
Non rinunzio, comunque, alla traduzione anche formalmente fedele. Verso la fine del § 2 sono già stati riportati e tradotti il pr. e il § 1. Aggiungo qui la traduzione letterale del § 2: “Ma anche se la cosa non passi in un altro contratto, sussista tuttavia una causa, Aristone ha elegantemente risposto a Celso che v’è obbligazione. Per esempio: ti ho dato una cosa perché tu me ne dia un’altra, ti ho dato perché tu faccia: questo è un synàllagma e ne nasce obbligazione civile. E dunque ritengo che Giuliano sia stato correttamente ripreso da Mauriciano in questo: io ti ho dato Stico perché tu manometta Panfilo; tu hai manomesso e Stico ti è stato evitto. Giuliano scrive che dal pretore deve darsi un’azione in factum; egli (invece) che basta l’actio civilis incerti, cioè l’actio praescriptis verbis: si tratta infatti di un contratto, quello che Aristone chiama synàllagma, per cui nasce questa azione”.
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che il pretore deve accordarti (contro di me) un’azione in factum; Mauriciano dice invece che c’è già per il caso l’azione appropriata: l’actio civilis incerti, cioè l’actio praescriptis verbis; l’accordo di cui si tratta è un contratto, quello che Aristone chiama synàllagma, per cui ne nasce tale azione.” Come dicevo, in questo testo è sintetizzata tutta la storia della problematica romana del riconoscimento dell’efficacia obbligatoria dei contratti innominati, dalla sua origine fino ad Ulpiano. Cercherò di illustrarne i singoli punti, in una sequenza ordinata con le prime lettere dall’alfabeto. a) L’inizio, come già sappiamo, appartiene a Labeone. Nel testo, che leggiamo, di Labeone non si parla, ma la presenza del suo pensiero è evidente: l’opinione di Aristone, che funziona da base per tutta la discussione che Ulpiano riferisce, era basata sull’idea del contratto come ultro citroque obligatio espressa con l’impiego della denominazione greca di synàllagma: e la lettura di Ulp. (11 ad edictum) D.50,16,19, che abbiamo fatto poc’anzi, ci ha informato che si trattava di una costruzione labeoniana. Se Ulpiano, per questo concetto, nel quarto libro dei suoi stessi commentari all’editto pretorio (D.2,14,7) faceva riferimento solo ad Aristone, ciò dipendeva evidentemente dal fatto che il suo discorso concretamente partiva dalla polemica fra Aristone e Celso, e quindi quando parlava del “contratto, quello che Aristone chiama synàllagma, per cui ne nasce tale azione”, si riferiva a quel che Aristone scriveva nel testo della sua risposta a Celso, che Ulpiano aveva sotto gli occhi. Del resto, quella “tale azione”, che il giurista severiano menzionava nello stesso luogo, era l’actio praescriptis verbis (o actio civilis incerti, o actio in factum civilis), e si trattava proprio dell’azione contrattuale generale che – come vedremo a suo luogo – era stata proposta da Labeone come appropriata, fra l’altro, alla tutela delle convenzioni atipiche. E a Labeone non si deve attribuire solo, in proposito, la démarche teorica riferita da Ulpiano in D.50,16,19, perché le fonti ci forniscono esempi di sue concrete soluzioni pratiche: ne riporto ora uno solo, chiarissimo 121, che sempre ci è riferito da Ulpiano nell’undicesimo libro ad edictum, come lo stesso D.50,16,19: D.18,1,50 (Ulp. 11 ad edictum): Labeo scribit, si mihi bibliothecam ita vendideris, si decuriones Campani locum mihi vendidissent, in quo eam ponerem, et per me stet, quo minus id a Campanis impetrem, non esse dubitandum, quin praescriptis verbis agi possit. ... 122 121 Vedi anche Ulp. Lab. Pomp. D.19,5,17,1; Ulp. Lab. D.19,5,20 pr. (e Ulp. Mela D.19,5,20 1: Mela era contemporaneo di Labeone). La più ricca raccolta di testi (non soltanto di Labeone, naturalmente) su questo problema si trova in SANTORO, Il contratto nel pensiero di Labeone, Palermo 1983 (estr. da AP 37). 122 Tralascio la fine del passo, nella quale Ulpiano enunciava l’opinione che, in concorso alternativo con l’actio praescriptis verbis prevista da Labeone, nel caso proposto fosse anche esperi-
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Nel testo 123 Ulpiano riporta l’esposizione di un caso (che ha l’aria di essere il resoconto di un accadimento reale, e non un esempio costruito come una quaestio: ma ciò non ha molta importanza) con la soluzione di Labeone: e dichiara di trascrivere tutto ciò fedelmente. Ego (compratore) ha concluso con Tu (venditore) la compravendita di una biblioteca, e il contratto è stato concluso sotto condizione: l’efficacia della vendita veniva subordinata al fatto che le autorità comunali del municipio campano, nel quale (si direbbe) Ego abitava, gli vendessero un qualche luogo (o un certo luogo) nel quale collocare la biblioteca stessa. Poi, Ego non concluse con la città la compera del luogo, ma si precisa che ciò dipese da Ego stesso: può pensarsi, semplicemente, che l’autorità comunale avrebbe senz’altro effettuato la vendita a prezzo conveniente, ma che Ego non fece le proprie diligenze per concludere con essa il relativo contratto. La soluzione di Labeone è nel senso che Ego deve rispondere di ciò verso Tu, e che questi potrà – per ottenere il risarcimento dei danni relativi – esercitare contro di lui l’actio praescriptis verbis, cioè l’azione contrattuale generale. Analizziamo tutto ciò. Fra le parti (Ego e Tu) è stato concluso un contratto di compravendita, ma, essendo questo sottoposto a condizione sospensiva, tale contratto si sarebbe perfezionato solo al verificarsi della condizione; precisamente, secondo la dommatica dei giuristi romani, solo col verificarsi della condizione il contratto sarebbe venuto in esistenza 124. Dunque, al momento in cui Tu lamenta l’inadempimento della vendita, fra le parti non esiste vendita alcuna. Ma, secondo Labeone, quello che era già avvenuto fra le parti corrispondeva pur sempre ad un inadempimento contrattuale di Ego verso Tu: perché le parti si erano reciprocamente impegnate, in quanto, interpretando il loro comportamento alla luce dei principi della buona fede, si deve concludere che nella compravendita condizionata dal fatto che Ego ottenesse dalla città il luogo per porvi la biblioteca, era implicito che egli poi facesse quanto dipendeva da lui per ottenerlo. Nell’insieme del comportamento delle parti doveva già ravvisarsi, anche in pendenza della condizione, una ultro citroque obligatio, e cioè un sy-
bile l’actio empti (... ego etiam ex vendito agi posse puto quasi impleta condicione, cum per emptorem stet, quo minus impleatur). Il principio che permetteva tale soluzione alternativa, e cioè quello della finzione del verificarsi della condizione quando il suo venir meno dipenda da fatto della parte a ciò interessata, risale a Pomponio (Pomp. D.18,1,8 pr.). Vedi lett. in CANNATA, Contratto e causa, 195 n. 7 (così cito, secondo la ripubblicazione nella raccolta curata dal BURDESE, Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, Padova 2006, 189 ss., il mio contributo Contratto e causa nel diritto romano, originariamente apparso in VACCA [ed.], Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica. Atti congresso ARISTEC 1995, Torino 1997, 35 ss.: lo si legge ora anche nei miei Scritti II, 301 ss.). 123 Rinunzio, dandone invece un’esposizione più analitica, alla traduzione del passo, sul quale vedi già CANNATA, Contratto e causa cit., 194 s. 124 CANNATA, Contratto e causa cit., 195 n. 6.
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nallagma, un contratto, anche se questo non poteva essere una vendita, né corrispondeva ad alcuna altra figura contrattuale tipica. b) Il secondo giurista che s’inserisce in questa vicenda è Aristone, ed il suo ruolo vi risulta, per più versi, notevolmente rilevante. Da Ulp. D.2,14,7,2 apprendiamo di una sua polemica con Celso, polemica che il testo stesso presenta in questi termini: contro Celso, Aristone affermava che qualora un accordo non venga ad identificarsi con un contratto nominato, ciò non significa senz’altro che esso non produca obbligazioni perché, se gli sussista una causa, esso ha effetto obbligatorio, e ciò direttamente sul piano del diritto civile: il rapporto d’obbligazione che nasce sarà dunque protetto senza necessità di ricorrere ad un’azione pretoria, concessa appositamente dal pretore, ma sarà applicabile l’azione civile appropriata (che è l’actio praescriptis verbis: anche se questa precisazione non risulta nel testo fatta da Aristone stesso, la cosa può considerarsi implicita; la contrapposizione fra azione pretoria e actio praescriptis verbis Ulpiano l’enuncia poco dopo, chiarendo l’altra polemica tra Giuliano e Mauriciano, ma evidentemente egli seguiva in ciò l’impostazione complessiva del discorso che stava facendo). Ora, è chiaro che con ciò Aristone parrebbe semplicemente affermare nozioni labeoniane contro Celso che le rifiutava, ma le cose non potevano stare semplicemente così, per due ragioni: l’una che crea solo un sospetto, e cioè che l’esemplificazione dei casi di synàllagma che poi faceva Aristone in D.2,14,7,2 (sono fattispecie di do ut des e do ut facias) non corrisponde per nulla a quella che risulta (da Ulp. D.50,16,19) facesse Labeone; e l’altra che fornisce una certezza: noi sappiamo che Celso non rifiutava affatto la costruzione labeoniana, perché accettava l’impiego dell’azione contrattuale generale 125. Per fortuna, in questo caso noi siamo precisamente informati, perché con riguardo alla polemica fra Aristone e Celso abbiamo un testo specifico 126: Cels. D.12,4,16 (Cels. 8 127 digestorum): Dedi tibi pecuniam ut mihi Stichum dares: utrum id contractus genus pro portione 128 emptionis et venditionis est an nulla hic alia obligatio est quam ob rem dati re non secuta? in quod proclivior sum: et ideo, si mortuus est Stichus, repetere possum quod ideo tibi dedi, ut mihi Stichum dares. finge alienum esse Stichum, sed te tamen eum [tradidisse] 129: repetere a te pecuniam potero, quia hominem accipientis non feceris: et rursus, si tuus est Stichus et [pro evictione eius promittere] non vis, non liberaberis, quo minus a te pecuniam repetere possim. Nel tradurre il testo aggiungo, fra parentesi, qualche precisazione 130: “Ti ho dato una somma di denaro perché (= con l’accordo che) tu mi dessi (lo schiavo) Stico: è, questo 131, una sorta di contratto, in quanto partecipa in una certa porzione della natura della compravendita (e quindi a tale contratto si deve in misura corrispondente applicare il regime della compravendita), ovvero qui non nasce alcuna obbligazione se non quella che dipende dal dare ob rem re non secuta (cioè l’obbligazione, sanzionata con la condictio, che nasce dall’arricchimento ingiustificato 132)? Io propendo per quest’ultima alternativa. E dunque, se Stico è morto (dopo che abbiamo concluso l’accordo e ti ho dato il denaro) posso ripetere quel che io ti ho dato perché tu mi dessi Stico; poni il caso che Stico appartenesse ad un terzo, ma tu me ne abbia ciononostante fatta la mancipatio: potrò ripeterti il denaro, perché non hai trasferito all’accipiente (= a me che ho partecipato alla mancipatio come mancipio accipiens) la proprietà dello schiavo; e ancora, se Stico è tuo e non vuoi farmene la mancipatio, non ti sottrarrai dalla conseguenza che io possa ripeterti il denaro (che ti avevo dato)”. Non possiamo senz’altro azzardare l’ipotesi che questo sia proprio il testo di Celso che rappresentava il suo parere nella polemica con Aristone menzionata in D.2,14,7,2, ma rileggendo i termini, nei quali tale polemica era colà esposta, appare certo che l’opinione di Celso era quella che ora leggiamo in D.12,4,16, ed anche che in quest’ultimo testo il suo interlocutore era Aristone; perché in D.2,14,7,2 Ulpiano attribuiva ad Aristone l’affermazione che “qualora l’accordo non venga a corrispondere ed un contratto (nominato), ma gli sussista una causa, Aristone rispose con eleganza a Celso che vi è obbligazione. Per esempio: io ti ho dato una cosa con l’accordo che tu me ne dessi un’altra, ovvero io ti ho dato una cosa con l’accordo che tu faccia alcunché; in entrambi i casi siamo di fronte ad un synàllagma, e ne nasce un rapporto d’obbligazione civile”: e qui, in Cels. D.12,4,16, l’accordo di cui si parla non solo è un accordo munito di causa, ma lo è perché corrisponde ad uno dei tipi espressamente menzionati 129 Questa interpolazione è usuale nelle fonti giustinianee, dove venne sempre operata in attuazione della riforma che sopprimeva la differenza fra res mancipi e res nec mancipi: C.7,31,1,5 (a. 531); CANNATA, Corso I, 550. 130 In corrispondenza delle interpolazioni segnate, traduco il testo nella sua (presunta) struttura originaria: le integrazioni che ho accettato sono quelle del LENEL (luogo cit. sopra alla n. 127) e possono considerarsi sicure. Per la più delicata ([pro-promittere] ) vedi CANNATA, Labeone, 41. 131 Vedi CANNATA, Labeone, 36 n. 11. 132 Vedi sopra, nel cap. II § 4.1 (la parte che s’inizia intorno alla n. 319).
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in D.2,14,7,2 come oggetto del dissenso tra Celso e Aristone: in D.12,4,16 (Celso) il caso è dedi tibi pecuniam ut mihi Stichum dares, in Ulp. D.2,14,7,2 il pensiero di Aristone riguardava proprio lo stesso caso, solo espresso come fattispecie più generale (dedi tibi rem ut mihi aliam dares) e reso ancora più generale dall’aggiunta della fattispecie analoga del dedi ut aliquid facias. La polemica fra Celso ed Aristone si capisce così benissimo: essa non riguardava in generale l’applicabilità delle idee di Labeone – abbiamo già visto che così non poteva essere –, bensì specificamente la loro applicabilità alle fattispecie consistenti nel fatto che un soggetto A abbia trasferito la proprietà di qualcosa a B con l’accordo che B eseguisse una prestazione (di dare o fare) a favore di A. Per questi casi un problema effettivamente si poneva. Ed è facile capirlo. Infatti: le fattispecie, che possiamo individuare come quelle di do ut des e do ut facias, già alquanto prima che Labeone aprisse la tutela contrattuale ai contratti innominati mediante la creazione dell’azione contrattuale generale, avevano una loro tutela mediante condictio, quando alla prestazione di dare effettuata da A non seguisse quella alla quale B si era impegnato a suo favore con l’accordo che aveva accompagnato il dare di A a B: si trattava della condictio ob rem dati re non secuta (o, se vogliamo, causa data causa non secuta) come ripetizione dell’arricchimento di cui lucrava B non dando – o non facendo – dopo aver ricevuto. Labeone – probabilmente – in materia non si era espresso, ma un problema si poneva. Gli accordi do ut des e do ut facias corrispondevano certamente, come accordi di scambio, alla nozione labeoniana di synàllagma, ma essi avevano già una propria tutela (mediante condictio), e quindi poteva ben dubitarsi se fosse opportuno estendervi la tutela mediante l’actio praescriptis verbis in concorso cumulativo con quella che già esisteva. A favore della soluzione positiva di questo dubbio giocava evidentemente un argomento. La già esistente tutela mediante condictio era puramente restitutoria: nel caso in cui B non avesse dato o fatto quel che avrebbe dovuto, A poteva unicamente pretendere la restituzione di quanto gli aveva dato; nel caso invece che la fattispecie fosse considerata un contratto A, mediante l’actio praescriptis verbis, avrebbe potuto pretendere da B il risarcimento del danno per la mancata controprestazione, valutato alla stregua del principio di buona fede. Ora, dai testi che abbiamo letto, appare chiaro che in proposito Celso sosteneva l’inapplicabilità della tutela contrattuale agli accordi di cui stiamo discorrendo, mentre Aristone sosteneva la tesi opposta. L’argomento di Aristone è chiaramente espresso in Ulp. D.2,14,7,2: un accordo do ut des o do ut facias è un synàllagma, e quindi l’actio praescriptis verbis spetta inequivocabilmente alla parte che abbia sofferto danno da inadempimento. L’opinione negativa di Celso non si limitava ad un diniego: una lettura attenta di Cels. D.12,4,16 133 rivela 133
Sintetizzo qui il più diffuso esame del testo che si può leggere in CANNATA, Labeone, 39 ss.
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che la sua idea era alquanto più complessa: nell’esporla ragionerò in relazione alla fattispecie del do ut des, in cui il datum da A è una somma di denaro e il dovuto da B è uno schiavo determinato nella specie, come si fa nel testo or ora citato. Diceva dunque Celso: Aristone afferma che un accordo concluso da A, contestualmente dando a B una somma di denaro, con B che s’impegna a dare come controprestazione un certo schiavo, è simile ad una vendita, e quindi va trattato come un contratto, che sarà protetto – non essendo propriamente una vendita – con l’actio praescriptis verbis, nella quale dovrà essere applicato per analogia, nei limiti del possibile e dell’opportuno, il regime della vendita; ma questo non è vero: e non è vero soprattutto perché la parte, che nel do ut des corrisponderebbe al venditore (cioè B), risulta gravata dall’obbligazione di trasferire la proprietà della cosa oggetto del contratto (dare Stichum), obbligazione che è estranea alla struttura della compravendita. Per cui, se confrontiamo il regime del do ut des con il regime della compravendita, troviamo due regimi del tutto diversi; e appunto il discorso di Celso in D.12,4,16 consiste nella presentazione di un insieme di situazioni che differenziano il regime di un do ut des, considerato nell’ambito della tutela mediante condictio sotto il profilo dell’arricchimento, da quello (il termine di paragone è ovviamente sottinteso) della vendita. La conseguenza – pure sottintesa, ma chiarissima – è, da un lato, che è assurdo offrire allo stesso caso due diverse tutele concorrenti che in effetti si contraddicono, e d’altro canto, se le parti hanno concluso un do ut des e non una compravendita, questa era la loro volontà e se ne deve semplicemente prendere atto. Un primo intervento di Aristone in relazione alla teoria labeoniana del synàllagma consistette dunque nella estensione della sua applicazione alle fattispecie di do ut des e do ut facias: e l’opinione di Aristone rimase, in seguito, definitiva. Ma gli interventi di Aristone non si limitarono certo a questo: ne possiamo individuare, credo, due altri con una certa sicurezza. Quanto al primo, dobbiamo partire da un chiarimento sulla stessa dottrina labeoniana, come appare enunciata in Ulp. D.50,16,19. Se quel che appare in tale testo lo si pone in relazione col fatto che Labeone introdusse anche l’azione contrattuale generale (cosa che, come vedremo a suo luogo, è sicura), l’operazione che Labeone fece, col definire il contratto in generale così come lo definì, appare avesse soprattutto lo scopo di costruire il fondamento dommatico della possibilità di offrire tutela civile agli accordi obbligatori innominati. Per spiegarmi più chiaramente, Labeone definiva il contratto in generale come ultro citroque obligatio e synàllagma – cioè accordo avente come oggetto un affare che realizzasse uno scambio, vale a dire che interessasse entrambe le parti – per proporre questa nozione di contratto come parametro per la valutazione concreta di un accordo (anche se innominato) come degno di tutela contrattuale. Ciò spiega anche un punto dell’esposizione labeoniana che sopra, nel contesto dell’esegesi di Ulp. D.50,16,19, avevamo già trattato, ma forse in modo un po’
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vago. L’elenco esemplificativo dei contratti che corrispondono alla nozione di ultro citroque obligatio era limitata alle figure della compravendita, della locazione e della società: non solo il mandato, ma anche deposito e comodato, che poi almeno Ulpiano includerà tranquillamente nella categoria, non vi erano menzionati. La ragione per la quale Labeone aveva limitato la sua esemplificazione alla serie tipica dei contratti perfettamente bilaterali doveva risiedere – ciò sembra evidente – nel fatto che solo questi contratti rappresentavano modelli di contratti di scambio, i quali potevano servire come parametri per misurare il carattere di synàllagma di un accordo atipico, quando ci si ponesse il problema di decidere se lo si dovesse munire della tutela contrattuale mediante l’azione contrattuale generale. In pratica, anche pensando (come credo si debba pensare) che per Labeone mandato, deposito e comodato fossero contratti – perché erano accordi dai quali le obbligazioni delle parti nascevano consensu, ed erano fonti d’obbligazione aperte ad una eventuale produzione di obbligazioni reciproche – questa ambiguità nel discorso del giurista (vendita, locazione e società non erano i soli contratti definibili come ultro citroque obligatio, ma erano i soli che corrispondessero bene alla nozione di synàllagma) non dava luogo a problemi in ordine alla disciplina dei contratti innominati, perché i contratti che non erano autenticamente di scambio erano tutti contratti nominati. Ne risultava dunque – pensiamo all’insieme del discorso sui contratti che abbiamo letto soprattutto nei testi di Ulpiano – che una conventio iuris gentium viene munita di azione civile se è nominata (cioè fornita espressamente di azione nell’editto pretorio) oppure se ha per oggetto un affare di scambio: dunque, mandato, comodato e deposito (possiamo aggiungere il pegno, ma questo sembra avesse tutela unicamente pretoria) sono protetti perché contratti tipici, un do ut des innominato è protetto come synàllagma. Ma il problema che Labeone non aveva visto (e cioè che in pratica il problema della tutelabilità si ponesse per accordi che si presentassero come aperti alla bilateralità, ma non corrispondessero a fattispecie nominate né avessero ad oggetto affari propriamente di scambio) poteva porsi in pratica. Un caso del genere 134 venne risolto da Aristone, come si legge in: D.19,5,16,1 (Pomp. 22 ad Sabinum): Permisisti mihi, ut sererem in fundo tuo et fructus tollerem; sevi nec pateris me fructus tollere. nullam iuris civilis actionem esse Aristo ait: an in factum dari debeat, deliberari posse; sed erit de dolo. “Mi hai permesso di seminare nel tuo fondo e di prenderne i frutti; ho seminato e non mi permetti di prendere i frutti. Aristone dice che non c’è (a mio favore) alcuna azione di diritto civile: se si deva concedere (da parte del pretore) 134
Su tutta questa tematica, che qui tento di chiarire meglio, vedi già – con la citazione di numerose altre fonti – il cit. CANNATA, Contratto e causa, 210 ss.
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un’azione in factum è discutibile; ma (comunque) ci sarà l’azione di dolo 135.” Dicendo che, per il caso, manca un’azione civile, Aristone intendeva soprattutto escludere l’actio praescriptis verbis: compiutamente, egli voleva dire che non era disponibile né un’azione contrattuale tipica (neppure applicandola per analogia), né l’azione contrattuale generale. La base dommatica della soluzione compare chiara in un altro testo, dove il pensiero di Aristone è pure riferito con l’intermediazione di Pomponio, che sembra essersi attentamente occupato del pensiero di Aristone relativo alla tematica che stiamo trattando: D.39,5,18 pr. (Ulp. 71 ad edictum): Aristo ait, cum mixtum sit negotium cum donatione, obligationem non contrahi eo casu, quo donatio est, et ita [et] 136 Pomponius eum existimare refert. “Aristone dice che, quando un negozio sia misto con donazione (= contenga elementi di una donazione), non ne nasce obbligazione nel caso in cui esso sia (in effetti) una donazione, e che egli così pensasse lo riferisce Pomponio.” Il senso esatto di questa affermazione di Aristone è il seguente: che quando le parti abbiano concluso un negozio relativo ad un affare in cui prevale il carattere della gratuità, questo affare non può essere preso in considerazione come contratto innominato. Sembra proprio che con queste decisioni Aristone abbia inteso chiarire il punto che nell’elaborazione di Labeone restava non precisamente definito, e che proprio sulla base del pensiero di Labeone possa definirsi come una sorta di regola quel che presso di lui era solo implicito: cioè che la gratuità dell’affare concluso da due parti pone il relativo accordo al di fuori della nozione di synàllagma ai fini della sua tutelabilità civile mediante l’azione contrattuale generale; la sua tutela potrà dunque essere solo pretoria (a meno, naturalmente, che la fattispecie sia riconosciuta nell’editto pretorio con la concessione di un’azione civile tipica). All’inizio della presente sezione, indicata con la lettera b), scrivevo che Aristone affermava che un accordo innominato può tuttavia produrre obbligazioni – e ciò direttamente sul piano del diritto civile – “se gli sussista una causa” (subsit tamen causa). L’impiego, per spiegare dommaticamente il fenomeno così descritto, del termine causa (comune al latino e all’italiano) rappresenta l’ultimo contributo di Aristone al perfezionamento della dottrina labeoniana del contratto, che intendo qui sottolineare. Come tutti sanno, nel linguaggio giuridico
135 Sull’azione di dolo, che pure era azione pretoria e poneva il caso nell’ambito della sanzione dell’abuso di diritto, vedi in questo Corso II,1, 21 ss. Si tenga conto del fatto che l’actio de dolo era azione sussidiaria, e pertanto l’ammissibilità, per il caso considerato, di un’altra azione ne avrebbe impedito l’impiego. 136 L’et è – ragionevolmente – cancellato dal Krüger.
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tanto romano quanto successivo, fino al nostro attuale, il termine causa è polisemico: per cui dobbiamo cercar di chiarire in che modo qui Aristone lo impiegasse. A questo fine credo il modo migliore sia di evitare un discorso pedantemente filologico. Incominciamo dunque con l’osservare che per tradurre l’espressione subsit causa in una frase come quella che ora c’interessa, e che possiamo sintetizzare così: “un accordo innominato può considerarsi un contratto se subsit causa”, noi saremmo portati a specificare ulteriormente il termine causa dicendo “un accordo innominato può considerarsi un contratto se gli sussista una causa idonea a permettere ciò”, con l’intento di ricondurre il senso di quel che si dice a qualcosa di equivalente a quanto si legge nel secondo comma dell’articolo 1322 del nostro codice civile, il quale recita: “Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. In questa frase, al subsit tamen causa di Aristone corrisponde precisamente (nella struttura della frase, se non anche nella sua precisa portata normativa) tutta la proposizione “purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Ora, se per Aristone la sola menzione della causa era sufficiente ad esprimere il concetto che voleva, ciò non può ovviamente significare che egli considerasse contratto un accordo innominato se era munito di una qualunque causa, e neppure, per converso, che esso dovesse essere munito di una causa già riconosciuta nell’ordinamento come una causa contrattuale. Siccome Aristone (non credo vi sia ragione di spendere parole per dimostrarlo) usava qui il termine causa nel senso di causa finalis, cioè di scopo del negozio, e quindi, nel suo contesto, causa faceva allusione all’affare che le parti intendano, con il negozio stesso, concludere, nel primo caso la sua proposizione verrebbe a proporre che l’accordo su qualsivoglia affare sarebbe sempre un contratto obbligatorio; nel secondo caso la stessa frase verrebbe a limitare il campo degli accordi innominati, riconoscibili come obbligatori, a quelli relativi agli affari che già vengono riconosciuti come oggetto dei contratti tipici. In entrambi i casi, dunque, il chiarimento di Aristone, invece di dare ausilio alla problematica delle convenzioni atipiche, ne eliminerebbe – in modo, per altro, grottesco –, rispettivamente per eccesso e per difetto, del tutto il problema.
Si deve, così, necessariamente pensare che Aristone con il termine causa richiamasse semplicemente l’idea labeoniana del contratto come accordo avente ad oggetto un affare di scambio (synàllagma), e che dunque egli esprimesse l’idea di Labeone dicendo che un accordo (innominato) era degno di tutela sul piano del ius civile se riguardasse un affare che realizzava uno scambio economico 137: come dallo stesso testo (D.2,14,7,2) risulta, dopo l’esemplificazione, 137
Si ricordi Aristone in Ulp. D.2,14,7,2: sed si in alium contractum res transeat, subsit tamen causa ...
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egli stesso dicesse: hoc sun¦llagma esse et hinc nasci civilem obligationem. Quest’uso terminologico del segno ‘causa’ deve considerarsi una creazione propria di Aristone, e se ne deve anche riconoscere il valore: non solo per l’effetto che essa ebbe nel linguaggio giuridico successivo, fino a noi, ma per il suo intrinseco valore dommatico. Essa esprimeva un concetto assai importante: che il fulcro della nozione di contratto risiede nella nozione di causa, come lo scopo economico perseguito dalle parti; con il che tutta la teoria labeoniana – che Aristone interpretava – veniva resa enunciabile in un modo semplice e preciso, che possiamo riassumere così: tutti i contratti consensuali sono contratti causali, vale a dire che derivano il loro effetto obbligatorio, oltre che dal consenso delle parti, dalla loro causa, e non da meccanismi come quelli che si esprimono con le locuzioni re, verbis e litteris. Per i contratti tipici (nominati) la causa è essa pure tipica (cioè prevista dall’ordinamento in una sua fonte autoritativa), per i contratti atipici la causa consiste nel loro carattere di synàllagma, e cioè nel fatto che essi sono diretti a realizzare un affare di scambio. Le considerazioni di Aristone sulla gratuità, di cui abbiamo parlato sopra, si inseriscono perfettamente in questa elaborazione che egli fece delle idee che propose Labeone. Possiamo concludere che la dottrina del contratto del diritto romano classico trovò nel pensare congiunto di questi due grandi giuristi (che operarono a più o meno un secolo di distanza l’uno dall’altro) la sua struttura dommatica compiuta 138. c) Ma questa dottrina, che possiamo dunque attribuire a Labeone e Aristone, e che già sappiamo essere stata accolta da Ulpiano, dallo stesso D.2,14,7,2 apprendiamo non solo che fu seguita anche da Mauriciano, ma che essa fu osteggiata da Giuliano. Come abbiamo infatti visto, Ulpiano, dopo avere esposto il parere, che egli stesso accoglieva, di Aristone, vi scriveva: “Per cui ritengo che Giuliano sia stato correttamente ripreso da Mauriciano con riguardo al caso seguente: io ti ho dato lo schiavo Stico con l’accordo che tu manometta il tuo schiavo Panfilo; tu lo hai manomesso, e Stico ti è stato evitto. Giuliano scrive che il pretore deve accordarti – contro di me – un’azione in factum; Mauriciano dice invece che c’è già per il caso l’azione appropriata: l’actio civilis incerti, cioè l’actio praescriptis verbis; l’accordo di cui si tratta è un contratto, quello che Aristone chiama synàllagma, per cui ne nasce tale azione.” Riporto ancora la parte del testo di cui ora ho ripetuto la traduzione, aggiungendovi un altro testo che serve a chiarire meglio la posizione di Giuliano: 138 Con questo accolgo la posizione del DALLA MASSARA, senza tuttavia giungere a condividere la sua idea (che aleggia, a partire almeno dal terzo capitolo, p. 61 ss., in tutto il suo importante volume Alle origini della causa del contratto, Padova 2004) di attribuirvi ad Aristone il ruolo principale. Questo, invece, va lasciato a Labeone: ed Aristone stesso ne era evidentemente, come abbiamo potuto vedere, consapevole.
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Ulp. D.2,14,7,2: ... et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a praetore dandam: ille ait civilem incerti actionem id est praescriptis verbis sufficere: esse enim contractum, quod Aristo sun£llagma dicit, unde haec nascitur actio. D.19,5,5,2 (Paul. 5 quaest.): ... sed si dedi tibi servum, ut servum tuum manumitteres, et manumisisti et is quem dedi evictus est, si sciens dedi, de dolo in me dandam actionem Iulianus scribit, si ignorans in factum civilem. Traduco l’ultimo testo, aggiungendo una giustificazione dell’integrazione che vi ho inserito: “... ma se io ti ho dato uno schiavo con l’accordo che tu manomettessi un tuo schiavo, e tu lo hai manomesso, e (poi) quello che io ti avevo dato (ti) sia stato evitto, se io te l’avevo dato scientemente (cioè: sapendo che lo schiavo apparteneva ad un terzo), Giuliano dice che (il pretore) deve accordarti (contro di me) l’actio de dolo, se (io te l’ho dato) ignorando (che lo schiavo apparteneva ad un terzo, il pretore deve accordarti un’azione) in factum civilem.” Quanto all’integrazione finale: quel che si attribuisce a Giuliano nella frase dove si legge che nel caso egli riconoscesse l’impiego dell’azione contrattuale generale (qui indicata come actio in factum civilis) è stato da lungo tempo considerato impossibile, naturalmente già da quando tale azione si considerava una novità del diritto giustinianeo; ma anche dopo che tale idea è tramontata, risulta impossibile che qui Giuliano ne proponesse l’impiego, perché ciò sarebbe in insanabile contradizione con tutto il suo pensiero che – come vedremo subito – traspare dal testo. Io ho adottato la correzione che ho proposto qualche anno fa 139, pensando che il difetto del testo sia più facilmente spiegabile come errore di un copista della Fiorentina che come interpolazione effettuata dai compilatori: l’errore, io credo, deve essere stato ingenerato dall’omoioteleuton ‘in factum’. In questo modo il significato della chiusa del testo corrisponde bene al pensiero di Giuliano, che risulta dai due passi che qui leggiamo, ma anche alla posizione che vedremo essere quella di Paolo.
Il caso considerato nei due testi è un tipico esempio di do ut facias: Ego ha trasferito a Tu la proprietà dello schiavo Stico con l’intesa che, in cambio, Tu manometta il proprio schiavo Panfilo 140. L’accordo è stato eseguito da entrambe le parti: Ego ha fatto la mancipatio di Stico a Tu contestualmente con l’accordo stesso, e Tu ha poi tempestivamente effettuato la manumissio di Panfilo (cioè l’atto appropriato per fare di Panfilo una persona libera). Ma in seguito l’affare rivela un difetto grave: lo schiavo Stico non apparteneva a Ego, ma ad un terzo, che perciò ha esercitato contro Tu – possessore attuale – l’azione di 139 Vedi CANNATA, Der Vertrag cit., 68 n. 85; anche CANNATA, Labeone, 82 s. con (in particolare) la n. 130. 140 Si pensi, per rendersi conto del senso materiale del negozio, che Panfilo fosse figlio naturale di Ego, nato da una schiava di Tu.
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rivendicazione della proprietà (rei vindicatio), e naturalmente l’ha vinta, sicché Tu non ha potuto che rendere a tale terzo il suo schiavo. La soluzione adottata dai due giuristi, che in ciascuno dei due testi – cioè rispettivamente Mauriciano (la cui opinione era seguita da Ulpiano in D.2,14,7,2) e Paolo (in D.19,5,5,3) – consideravano il pensiero di Giuliano, era nel senso che il problema andava risolto impiegando l’azione contrattuale generale (che vi è indicata come actio civilis incerti, actio praescriptis verbis, actio in factum civilis). Invece, Giuliano non pensava affatto a tale azione: che Giuliano non prevedesse per nulla il suo impiego risulta chiarissimo dal fatto che in entrambi i testi i suoi critici gli rimproverano proprio questo difetto; ma che proprio Giuliano escludesse l’impiego dell’azione contrattuale generale nel caso considerato è provato da un particolare della sua stessa soluzione. Nel testo di Paolo si dice che Giuliano prevedeva l’esperimento dell’actio de dolo da parte di Tu contro Ego, per il caso in cui Ego avesse compiuto l’atto traslativo (mancipatio) dello schiavo Stico a favore di Tu con dolo (e cioè ben sapendo che Stico apparteneva ad un terzo, e che quindi egli, con tale atto, non ne rendeva affatto Tu proprietario). Ora, come sappiamo, l’actio de dolo era un’azione sussidiaria 141, vale a dire che essa poteva essere esperita unicamente nel caso in cui l’attore non disponesse di alcun altro rimedio giudiziario per ottenere tutela in relazione ai fatti che deduceva in giudizio. Ciò significa dunque che Giuliano non vedeva possibile alcuna altra azione per quel caso. Nell’altra ipotesi (cioè se Ego non si fosse comportato con dolo, perché ignorava l’altruità di Stico) Giuliano preferiva proporre un’azione in factum costruita dal pretore sui dati di fatto del caso concreto, semplicemente perché in tal caso l’azione di dolo non sarebbe stata esperibile mancando il dolo del convenuto, ma anche l’actio in factum sarebbe stata, per Giuliano, il solo rimedio possibile 142. Si sarà notato come Mauriciano (in D.2,14,7,2) si esprimeva contro Giuliano, dicendo che l’actio praescriptis verbis ‘sufficit’ 143, cioè questa azione “è sufficiente”, nel senso che non c’è bisogno di crearne un’apposita in factum: è proprio il contrario di quel che Giuliano pensava: per Giuliano l’azione contrattuale generale non esisteva, e quindi se ne doveva creare una apposita. Giuliano appare dunque non ammettere per nulla l’azione contrattuale generale. E non credo si possa neppur pensare che egli fosse semplicemente restio in questi casi, perché essi trovavano già tutela mediante condictio: cioè che egli seguisse l’impostazione che abbiamo visto propria di Celso.
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Vedi in questo Corso II,1, 24 s. Infatti, se – come abbiamo potuto stabilire – Giuliano non poteva ammettere l’actio praescriptis verbis per il caso di dolo del venditore, non si vede come potesse ammetterla nel caso in cui il venditore non fosse in dolo. 143 Sul significato di sufficit vedi in CANNATA, Der Vertrag cit., l’ultima nota dell’articolo. 142
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Una linea a favore di quest’idea sarebbe, per vero, reperibile. Possiamo, per individuarla, partire da un dato, che appare certo. Giuliano non poteva non ammettere la protezione delle fattispecie di do ut des e do ut facias mediante condictio del datum, re (causa) non secuta: ma il fatto è che il caso proposto non era solubile mediante l’impiego della condictio: perché la condictio (che sarebbe la condictio ob rem dati re non secuta) era prevista a favore del dans (Ego) e non dell’accipiens del datum, che nel caso non avrebbe neppure avuto alcunché da condicere: non certo il suo schiavo manomesso, perché la manumissione era irrevocabile. Perciò, si potrebbe pensar che Giuliano proponesse i suoi rimedi (tutti pretori) e non ricorresse all’azione contrattuale generale solo perché nel campo del do ut facias questa non era esperibile. Ma preferisco non seguire quest’idea. Poniamo (per assurdo) che Giuliano ammettesse l’azione contrattuale generale, ma non la sua applicazione ai casi già tutelati con la condictio, e qui l’ammettesse solo perché nel caso specifico la condictio non poteva servire, sicché per questo specifico caso egli proponeva l’actio in factum (pretoria). Ora, questa azione in factum sarebbe stata sostanzialmente identica all’azione contrattuale generale, solo formulata in termini pretori (vale a dire con un’intentio in factum invece che una demonstratio); il che vorrebbe dire che egli avrebbe adottato una soluzione caratterizzata da un formalismo estremo, che per un giurista romano sarebbe stato insopportabile; in altre parole, sarebbe stato logico che Giuliano decidesse per l’applicazione dell’actio praescriptis verbis, piuttosto che non dire che essa non doveva applicarsi per costruirne invece un’altra che le equivaleva. La costruzione di un’apposita azione in factum per un singolo caso non avrebbe senso per un giurista che nello stesso caso riconoscesse ammissibile un’azione che egli già ammetta per altri casi.
d) Se ora esaminiamo il pensiero di Paolo, forse troviamo anche una possibilità di chiarire quello di Giuliano. Come vedremo dai testi che ora passiamo ad esaminare, Paolo non si inseriva, o non si inseriva interamente, nella linea di pensiero di Labeone e Aristone. Dobbiamo partire da un testo, che riporto per intero, anche se il principium non riguarda la tematica che stiamo studiando, ma che è utile leggere (senza che poi gli prestiamo particolare attenzione) per comprendere l’impostazione complessiva del discorso. Il principium pone un confronto tra il regime della compravendita e quello della permuta, nell’ottica di quel che abbiamo già letto in D.18,1,1 pr. (Paul. 33 ad edictum) nel paragrafo 2.2 di questo stesso capitolo.
Leggiamo dunque: D.19,4,1 (Paul. [32] 144 ad edictum): Sicut aliud est vendere, aliud emere, alius emptor, alius venditor, ita pretium aliud, aliud merx. at in permutatione discerni non potest, uter emptor vel uter venditor sit. 145 multumque differunt
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La correzione, senz’altro esatta, è del LENEL, Pal. II, col. 1034 n. 2. Modifico la punteggiatura di Mommsen-Krüger, mettendo qui un punto invece della virgola e poi, dopo praestationes, i due punti invece del punto. 145
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praestationes: emptor enim, nisi nummos accipientis fecerit, tenetur ex vendito, venditori sufficit ob evictionem se obligare, possessionem tradere et purgari dolo malo, itaque, si evicta res non sit, nihil debet: in permutatione vero si utrumque 146 pretium est, utriusque rem fieri oportet, si merx, neutrius. sed cum debeat [et] 147 res et pretium esse, non potest 148 inveniri, quid eorum merx et quid pretium sit, nec ratio patitur, ut una eademque res et veneat et pretium sit emptionis. 1: Unde si ea res, quam acceperim vel dederim, postea evincatur, in factum dandam actionem respondetur. 2: Item emptio ac venditio nuda consentientium voluntate contrahitur, permutatio autem ex re tradita initium obligationi praebet: alioquin si res nondum tradita sit, nudo consensu constitui obligationem dicemus, quod in his dumtaxat receptum est, quae nomen suum habent, ut in emptione venditione, conductione, mandato. 3: Ideoque Pedius ait alienam rem dantem nullam contrahere permutationem. 4: Igitur ex altera parte traditione facta si alter rem nolit tradere, non in hoc agemus ut res nostra illam rem accepisse, de qua convenit: sed ut res contra nobis reddatur, condictioni locus est quasi re non secuta. La traduzione: “Come una cosa è vendere, altra cosa comprare e un venditore non è un compratore, così il prezzo è altro dalla merce. Invece nella permuta non può distinguersi chi (fra le due parti) sia compratore o chi venditore. (Nella compravendita) sono anche molto diverse le prestazioni: infatti il compratore, se non ha reso proprietario dei denari l’altro che li riceve, è tenuto con l’actio ex vendito, (laddove) al venditore è sufficiente obbligarsi per il caso di evizione, trasferire il possesso e astenersi dal comportarsi con dolo, sicché, se la cosa non venga evitta, non deve null’altro; invece nella permuta, se l’uno e l’altro oggetto rappresentano un prezzo, ciascuna cosa deve pervenire in proprietà di ciascuna parte; se rappresentano una merce né l’una né l’altra devono pervenire nella proprietà di alcuno 149. Ma siccome (ciascuna) cosa dovrebbe essere anche prezzo, la permuta non può essere compravendita, perché non
146 Nella Fiorentina è scritto utrimque come correzione di utrumque, lettura che invece è ripresa in Mommsen-Krüger. 147 Suggerirei di cancellare questo et, senza beninteso cambiare senso alla frase (solo ne risulta che res è il soggetto espresso della proposizione, eliminando quindi la necessità di supporvi un soggetto sottinteso). 148 Integrazione fatta da Mommsen seguendo i Basilici (anche qui si tratta di omoioteleuton: potest). Così è pure del Mommsen la necessaria integrazione operata più avanti, nel § 4 del testo. 149 La faticosa traduzione di quest’ultima frase vuol solo cercar di rendere il senso di quel che si legge nel testo, che è già contorto, in quanto esprime solo un’elucubrazione ipotetica, fatta per assurdo, e che viene del tutto superata da quel che è scritto subito dopo. Si sarebbe tentati di considerare la frase stessa come proveniente da un glossema.
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può stabilirsi quale di esse sia la merce e quale il prezzo, né ragionevolmente può ammettersi che una sola medesima cosa sia venduta e (nel contempo) sia prezzo della stessa vendita. 1: Per cui, se la cosa che io abbia ricevuto o dato venga poi evitta, si risponde (= vi sono responsi nel senso) che si debba concedere un’azione in factum. 2: Ancora: la compravendita si contrae con il puro consenso delle parti (lett.: con la nuda volontà di coloro che si accordano), mentre la permuta produce l’inizio del rapporto d’obbligazione a partire dalla tradizione (= dal trasferimento di proprietà) di una cosa (= una delle due cose oggetto dell’accordo): altrimenti, se una cosa non sia ancora stata trasferita, verremmo a dire che il rapporto d’obbligazione nasce dal nudo consenso, il che è ammesso solo per gli accordi che hanno un proprio nome (= i contratti nominati), come è per la compravendita, la locazione-conduzione e il mandato. 3: E per questo Pedio dice che colui che dà una cosa altrui non contrae alcuna permuta. 4: Dunque, quando una parte ha fatto la traditio, se l’altro non voglia trasferire la cosa (che spetterebbe a lui di trasferire) non agiremo (in giudizio) per ottenere la restituzione di quel che noi abbiamo trasferito, ma per (ottenere il valore) del nostro interesse a ricevere quella cosa sulla quale ci si è accordati: ma per ottenere la restituzione della cosa (che noi avevamo prestata) vi sarà la condictio in quanto re non secuta (cioè: la condictio fondata nell’arricchimento).” Dobbiamo in particolare osservare quale sia il regime, che risulta da questo testo, della permuta (permutatio), che sappiamo consistere in un accordo di scambio di cosa contro cosa, e che dunque nella tradizione che si precisò con Aristone (Ulp. D.2,14,7,2) veniva considerata, in quanto synàllagma, un contratto innominato con effetto civile. Invece, la prospettiva che adotta Paolo è del tutto diversa: l’accordo di permuta, come tale, è un nudo patto, e quindi non può produrre obbligazioni; ciò è detto a chiarissime lettere nel § 2 del testo di Paolo: “la compravendita si contrae con il puro consenso delle parti, mentre la permuta produce l’inizio del rapporto d’obbligazione a partire dal trasferimento in proprietà di uno dei suoi oggetti: altrimenti, se la cosa non sia ancora stata trasferita, verremmo a dire che il rapporto d’obbligazione nasce dal nudo consenso, il che è ammesso unicamente per i contratti nominati”. Con ciò si ammette che il patto nudo in questione può essere “vestito” (usando la terminologia che sarà dei Glossatori) con l’esecuzione di una delle prestazioni previste per le parti. Così si viene bensì a riconoscere l’effetto obbligatorio ad una delle figure che Aristone considerava synàllagma (do ut des), ma senza riconoscerle anche l’effetto sul piano del diritto civile: infatti, nel § 1 del testo è precisato (casisticamente) che la tutela dell’accordo in questione ha luogo mediante azione in factum. Questo punto, delle azioni disponibili, viene precisato nel § 4: la tutela civile esiste, ma è unicamente propria del caso in cui una parte abbia eseguito la propria prestazione e l’altra rifiuti di eseguire la propria, e l’azione è
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la condictio (ob rem dati re non secuta), cioè non un’azione contrattuale, ma basata sull’arricchimento ingiustificato; nei casi in cui la condictio non serva, o anche in concorso con questa (nel caso cioè che l’uno abbia dato e l’altro non dia) un’azione contrattuale è ammessa (“non per ottenere la restituzione di quel che noi abbiamo trasferito, ma per far valere il nostro interesse a ricevere la cosa sulla quale ci siamo accordati”), che ha bensì un contenuto che si pone in dimensione simile a quello dell’azione contrattuale generale, ma non è denominata come tale, per cui si deve desumere che si tratta sempre di un’actio in factum come quella di cui Paolo parlava nel § 1: solo diversa da essa perché, essendo un’azione in factum pretoria avrà un’intentio con la descrizione dei concreti fatti che nel caso si sottopongono al giudice (là l’evizione, qui la mancata controprestazione) e non, com’era per l’actio in factum civilis, un’intentio che richiamava in genere il criterio ermeneutico della buona fede ed una demonstratio che come factum descriveva tutto l’affare concluso dalle parti, qualunque fosse poi lo specifico punto che sarebbe dovuto essere dibattuto nel processo. Come vedremo fra poco, il confronto con altri testi ci induce a ritenere che questo, che Paolo esponeva in D.19,4,1 (Paul. 33 ad edictum) non corrispondesse interamente al suo pensiero; e possiamo anche arrivare ad una congettura ragionevole sull’individuazione delle sue fonti. Nel § 3 egli citava Pedio per riferire che questi affermava che se, concludendo un accordo di do ut des, il dans dava una cosa altrui (e quindi non ne trasferiva la proprietà), la permuta non risultava conclusa, il che permette di dedurne che anche per Pedio l’accordo di permuta in se stesso era un patto nudo. Ma questo è per noi meno interessante di quanto si legge nel § 1, dove per la concessione di un’actio in factum (pretoria) per il caso in cui una delle cose permutate venga poi evitta, si richiamano genericamente dei responsi (in factum dandam actionem respondetur): ma noi sappiamo che questo era pensiero di Giuliano (Paul. D.19,5,5,2; Ulp. D.2,14,7,2). Per il pensiero sicuramente di Paolo abbiamo già una traccia in D.19,5,5,2, che già abbiamo esaminato, ma una più completa conferma – anche dell’integrazione che prima avevamo proposto – si deve trarre dall’intero frammento D.19,5,5 (Paul. 5 quaestionum). Dico subito quale sarà la conclusione generale desumibile da questi testi. Paolo condivideva il fondamento dommatico del pensiero di Giuliano (che sostanzialmente, come mi è parso di vedere, egli esponeva in D.19,4,1, Paul. 33 ad edictum), e dunque vedeva in un puro accordo, anche se di scambio, un nudo patto; ne derivava che per lui, come per Giuliano, l’ambito degli accordi di scambio protetti da azione era limitato nel senso che questi accordi potevano produrre obbligazioni solo se una delle prestazioni previste fosse stata eseguita; però egli accettava un particolare della tradizione labeoniano-aristoniana, adottando per la protezione degli accordi cosiffatti (che egli sintetizzava nella tipologia do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias) l’azione contrattuale generale (actio praescriptis verbis o actio in factum civilis o
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actio civilis incerti), riconoscendo dunque a tali accordi l’appartenenza al ius civile e dunque la produzione di effetti in tale ambito. Il lungo frammento dei libri quaestionum di Paolo, che ora passiamo a leggere, ha certo subito dei guasti 150, ma questi non possono certo comprometterne il significato complessivo.
D.19,5,5 (Paul. 5 quaestionum): Naturalis meus filius servit tibi et tuus filius mihi: convenit inter nos, ut et tu meum manumitteres et ego tuum: ego manumisi, tu non manumisisti: qua actione mihi teneris, quaesitum est. in hac quaestione totius ob rem dati tractatus inspici potest. qui in his competit speciebus: aut enim do tibi ut des, aut do ut facias, aut facio ut des, aut facio ut facias: in quibus quaeritur, quae obligatio nascatur. 1: Et si quidem pecuniam dem, ut rem accipiam, emptio et venditio est: sin autem rem do, ut rem accipiam, quia non placet permutationem rerum emptionem esse, dubium non est nasci civilem obligationem, in qua actione id veniet, non ut reddas quod acceperis, sed ut damneris mihi, quanti interest mea illud de quo convenit accipere: vel si meum recipere velim, repetatur quod datum est, quasi ob rem datum re non secuta. sed si scyphos tibi dedi, ut Stichum mihi dares, periculo meo Stichus erit ac tu dumtaxat culpam praestare debes. [explicitus est articulus ille do ut des.] 2: At cum do ut facias, si tale sit factum, quod locari solet, puta ut tabulam pingas, pecunia data locatio erit, sicut superiore casu emptio: si rem do, non erit locatio, sed nascetur vel civilis actio in hoc quod mea interest vel ad repetendum condictio. quod si tale est factum, quod locari non possit, puta ut servum manumittas, sive certum tempus adiectum est, intra quod manumittatur idque, cum potuisset manumitti, vivo servo transierit, sive finitum non fuit et tantum temporis consumptum sit, ut potuerit debueritque manumitti, condici ei potest vel praescriptis verbis agi: quod his quae diximus convenit. sed si dedi tibi servum, ut servum tuum manumitteres, et manumisisti et is quem dedi evictus est, si sciens dedi, de dolo in me dandam actionem Iulianus scribit, si ignorans in factum civilem. 3: Quod si faciam ut des et posteaquam feci, cessas dare, nulla erit civilis actio et ideo de dolo dabitur. 4: Sed si facio ut facias, haec species tractatus plures recipit. nam si pacti sumus, ut tu a meo debitore Carthagine exigas, ego a tuo Romae, vel ut tu in meo, ego in tuo solo aedificem, et ego aedificavi et tu cessas,
150 Non mi occuperò, se non per il puro necessario, di questo tipo di considerazioni esegetiche, limitandomi a rinviare il lettore a quanto, a proposito di Paul. D.19,5,5, consideravo in CANNATA, Labeone, 80 ss. 151 Per la correzione della fine del paragrafo 2 del testo vedi sopra, presso la n. 139. Invece di competere, come ho fatto nel luogo or ora citato, ho usato qui (il forse meno preciso) dandam, perché, trattandosi ora solo della ricostruzione di questo testo di Paolo, mi pare più conforme con la terminologia usata in esso anche altrove.
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in priorem speciem mandatum quodammodo intervenisse videtur, sine quo exigi pecunia alieno nomine non potest: quamvis enim et impendia sequantur, tamen mutuum officium praestamus et potest mandatum ex pacto etiam naturam suam excedere (possum enim tibi mandare, ut et custodiam mihi praestes et non plus impendas in exigendo quam decem): et si eandem quantitatem impenderemus, nulla dubitatio est. sin autem alter fecit, ut et hic mandatum intervenisse videatur, quasi refundamus invicem impensas: neque enim de re tua tibi mando. sed tutius erit et in insulis fabricandis et in debitoribus exigendis praescriptis verbis dari actionem, quae actio similis erit mandati actioni, quemadmodum in superioribus casibus locationi et emptioni. 5: Si ergo haec sunt, ubi de faciendo ab utroque convenit, et in proposita quaestione idem dici potest et necessario sequitur, ut eius fiat condemnatio, quanti interest mea servum habere quem manumisi. an deducendum erit, quod libertum habeo? sed hoc non potest aestimari. Alla traduzione aggiungo qualche chiarimento tra parentesi o in nota: “Un mio figlio naturale è tuo schiavo e un tuo figlio mio schiavo: tra di noi è intercorso un accordo nel senso che tu manomettessi il mio e io il tuo 152; io ho effettuato la manumissione, tu non hai effettuato la manumissione: la quaestio (= il problema che si dibatte) è: da quale azione tu sia tenuto verso di me. In questa quaestio si può scorgere tutta la problematica del datum ob rem (= studiando questo problema dibattuto può vedersi profilata tutta la trattazione degli accordi, accompagnati dal trasferimento della proprietà di una cosa con l’intesa che l’altra parte trasferisca in cambio la proprietà di un’altra cosa). E questa problematica si pone con riguardo alle fattispecie seguenti: infatti o io ti do perché tu dia, o do perché tu faccia, o faccio perché tu dia, o faccio perché tu faccia; nelle quali il problema è di sapere che obbligazione ne nasca. 1: E certo, se io ti dia del denaro per ricevere una cosa, questa è una compravendita; se invece ti do una cosa per ricevere una cosa, siccome non si ritiene che la permuta di cose sia una compravendita, non v’è dubbio che ne nasca un’obbligazione civile, e nell’azione relativa 153 verrà in considerazione non che tu renda quel che hai ricevuto, ma che tu sia condannato a mio favore al valore del mio interesse a che io abbia ciò che era previsto nell’accordo; oppure, se io voglio la restituzio-
152 Cioè, evidentemente, che ciascuno di noi manomettesse quello che era schiavo presso di lui. Ricordo che la manumissio era l’atto (del dominus) che aveva l’effetto di rendere lo schiavo persona libera e – salve certe eccezioni – cittadino romano; il manomesso veniva così a trovarsi in posizione di liberto (libertus) presso colui che lo aveva manomesso, il quale perciò si trovava ad essere suo patrono (patronus): questa situazione – che non aveva i caratteri di una soggezione – aveva conseguenze personali, ed anche economiche, pur se alquanto limitate, favorevoli al parens manumissor. 153 La traduzione sarebbe “nella quale azione”: traducendo diversamente evito il passaggio brusco dall’obbligazione all’azione, che forse deriva solo da un guasto del testo.
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ne del mio, si agisca in ripetizione di quel che è stato dato, come ob rem datum re non secuta (cioè, esperendo la condictio basata sull’arricchimento ingiustificato). Ma se io ti ho dato delle coppe perché tu mi dia lo schiavo Stico, lo schiavo Stico sarà a mio rischio, e tu dovrai solo rispondere per colpa. [Qui finisce la trattazione della tematica del do ut des] 154. 2: Ma se io do perché tu faccia, se il da farsi consiste in un’attività che è usuale come oggetto di un contratto di locazione, per esempio che tu dipinga dei quadri, col pagamento del denaro si ha una locazione, come nel caso precedente una vendita 155: se io do una cosa (diversa dal denaro), non sarà locazione, ma ne nascerà o un’azione civile per il mio interesse (= per farti condannare nella misura del mio interesse) o la condictio in ripetizione (di quanto ti ho dato). Se invece il da farsi è un’attività che non può essere oggetto di locazione, per esempio che tu manometta un tuo schiavo, tanto nel caso in cui si sia aggiunto un termine preciso entro il quale lo si manometta e questo termine sia trascorso mentre lo si poteva manomettere ed egli era in vita, quanto nel caso in cui il termine non sia scaduto e sia passato un lasso di tempo (tale) che esso si sarebbe potuto e dovuto manomettere, può esercitarsi contro di lui la condictio o agire praescriptis verbis: il che concorda con quanto detto sopra. Ma se ti ho dato uno schiavo perché tu manomettessi un tuo schiavo, e tu lo hai manomesso e (poi) quello che ti avevo dato (ti) è stato evitto, Giuliano dice che, se te l’avevo dato scientemente, (ti) deve essere data contro di me l’actio de dolo, se ignorando(ne l’altruità), un’azione in factum. civilis. 3: Invece, se io faccia perché tu dia e dopo che io ho fatto tu non provveda a dare, non vi sarà alcuna azione civile, e verrà data l’actio de dolo. 4: Ma se io faccio perché tu faccia, questa fattispecie viene trattata in diversi modi. Infatti, se ci siamo accordati nel senso che tu esiga da un mio debitore a Cartagine, io da un tuo a Roma, o che tu edifichi su di un mio terreno, io in un tuo, e io ho edificato mentre tu non provvedi, nella prima specie risulta che sia in qualche modo intervenuto un mandato, senza il quale non è possibile che si esiga denaro a nome altrui; benché, infatti, anche se abbiano poi luogo delle spese, tuttavia ci prestiamo un servizio reciproco, e un mandato può anche oltrepassare la sua propria natura in forza di un patto (io posso, infatti, darti mandato prevedendo che tu mi risponda della custodia e che non spenda per l’esazione più di dieci);
154 Questa frase rappresenta certamente un glossema di un lettore di Paolo. Il glossatore può anche aver voluto dire: “Con quanto detto fin qui, la problematica del do ut des (che, da quanto detto sopra, pareva la sola proposta) è già esaurita (quel che segue riguarda il do ut facias etc.)”. 155 È difficile che Paolo abbia scritto così questa frase: la locazione e la vendita sono contratti tipici, e anche per Paolo quindi la loro conclusione non aveva bisogno che una prestazione fosse eseguita. Comunque, qui si vuole solo affermare che un do pecuniam ut rem des e un do pecuniam ut aliquid facias sono rispettivamente una compravendita e una locazione anche se conclusi con la prestazione pecuniaria fatta al momento dell’accordo in vista della controprestazione.
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e se le spese che ciascuno di noi faccia per l’altro abbiano lo stesso ammontare, non sorgono dubbi. Se invece uno (dei due) abbia fatto in modo che anche qui si debba ritenere che sia intervenuto un mandato, nel senso che ci rimborsiamo reciprocamente le spese: non ti do, infatti, mandato per quel che riguarda te stesso 156. Ma è più sicuro, e nel caso della costruzione degli edifici e nel caso dei debitori da escutere, dare l’actio praescriptis verbis, la quale azione sarà simile all’azione di mandato, come nei casi trattati sopra lo era all’azione di locazione e di vendita. 5: Se le cose stanno in questo modo, nel caso in cui ci si sia accordati su di un fare reciproco, anche nella quaestio proposta sopra 157 può dirsi la stessa cosa, e necessariamente ne segue che la condanna sia all’ammontare dell’interesse a che io abbia il servo che ho manomesso. Bisognerà dedurne il valore del fatto che io risulto avere un liberto? Ma questo non è apprezzabile in denaro.” L’impostazione del frammento può sembrare abbastanza strana, tanto che si sarebbe tentati di pensare che la sua stranezza dipenda da vicende del testo dei libri quaestionum di Paolo nell’epoca che separa la sua scrittura originaria e l’inserzione del passo nel Digesto giustinianeo. Ma tale impostazione è invece del tutto coerente con la struttura del testo, sicché la sua sostanza almeno deve ritenersi risalire a Paolo stesso. Nel principium viene presentato un caso (Naturalis meus filius servit tibi et tuus filius mihi: convenit inter nos, ut et tu meum manumitteres et ego tuum: ego manumisi, tu non manumisisti: qua actione mihi teneris, quaesitum est.), ma non se ne dà subito la soluzione; questa risulta dall’ultimo paragrafo dell’intero passo (§ 5: in proposita quaestione [cioè: nella quaestio proposta nel principium] idem dici potest [cioè quello che si è già detto per i casi ubi de faciendo ab utroque convenit nel § 4: praescriptis verbis dari actionem] et necessario sequitur, ut eius fiat condemnatio, quanti interest meum servum habere quem manumisi). E questa stranezza – della separazione, nel contesto della quaestio, dell’enunciato del caso da quello della sua soluzione – è spiegato dall’autore, dicendo che l’esame della quaestio proposta viene ad aprire la prospettiva su tutta la problematica del datum ob rem. A questo punto sembra veramente esserci un salto logico, che tuttavia, osservato con attenzione, può facilmente riconoscersi come un volo pindarico di Paolo 158. Paolo, infatti, pone come problema generale, che scaturirebbe dallo studio del caso, il problema del datum ob rem, il quale nella terminologia che poi egli stesso impiega, corrisponderebbe alle fattispecie di do ut des e do ut facias, mentre la fattispecie del caso 156
Vedere Ulp. D.17,1,6,5. Cioè nella quaestio enunciata nel principium del frammento. 158 Siccome, lo vedremo, si tratta solo dell’omissione di un passaggio nel ragionamento, la cosa potrebbe anche derivare da un taglio operato dai compilatori del Digesto. Ma credo che pensare a questo sia inutile. 157
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proposto è un facio ut facias. Ma sembra evidente che Paolo intendesse indicare con le parole datum ob rem l’insieme della quaestio relativa agli accordi di scambio con una prestazione eseguita, alla quale probabilmente nelle discussioni fra i giuristi si alludeva sinteticamente così. Si tratterebbe dunque fondamentalmente della discussione iniziatasi relativamente alle fattispecie per le quali abbiamo visto essersi proposto il dissenso tra Celso ed Aristone (Ulp. D.2,14,7,2; Cels. D.12,4,16), qui ripresa, nella più ampia dimensione di ius controversum sulla disciplina degli accordi innominati, dopo gli interventi di Aristone e Giuliano e gli altri, fino a Ulpiano e lo stesso Paolo.
In poche parole, scrivendo che in hac quaestione totius ob rem dati tractatus inspici potest Paolo vuol dire che ad una chiara soluzione del caso proposto può giungersi solo inserendolo in una compiuta visione “dell’intera trattazione (totus tractatus) della problematica che si è accesa intorno alla datio ob rem”. Che poi, per Paolo, questo argomento fosse proprio quello della riconoscibilità degli accordi di scambio innominati (cioè del synàllagma di Labeone, Aristone, Mauriciano e Ulpiano) risulta chiaro dal fatto che egli enumera le fattispecie in gioco come quelle di do ut des, do ut facias, facio ut des e facio ut facias, che corrispondono a tutte le possibili relazioni di scambio; inoltre, che egli si ponesse nella prospettiva di Giuliano (che esigeva per la loro tutela l’esecuzione di una prestazione), risulta dal modo stesso nel quale egli enunciava le fattispecie; ma, come vedremo tosto, egli, discostandosi da Giuliano ed avvicinandosi all’opposta corrente di pensiero, riconosceva, anche se con certi limiti, l’impiego dell’azione contrattuale generale. Per Paolo restava comunque fermo che un accordo di scambio non trovava – come invece si esprimeva in particolare Aristone – il suo vestimentum nella causa, ma come tale restava un nudo patto: se l’accordo non fosse rafforzato dall’esecuzione di una prestazione, esso restava quindi comunque sfornito di tutela con azione civile; perciò, se questa mancanza di tutela suscitasse particolari problemi che esigevano la possibilità di ricorrere ad un processo, l’azione relativa non poteva aver luogo che sul piano del diritto onorario. Vediamo analiticamente. Do ut des (§ 1). Innanzitutto Paolo isola, in questo genere di fattispecie, quella che consista nel dare una somma di denaro per avere in cambio una cosa diversa dal denaro (si quidem pecuniam dem, ut rem accipiam), recuperandola come compravendita e quindi mantenendola come fattispecie contrattuale tipica del diritto civile, protetta con le azioni ex vendito ed ex empto. Con ciò egli mutava la concezione che abbiamo visto Aristone opponeva a Celso (Ulp. Arist. D.2,14,7,2; Cels. D.12,4,16), portandola alle sue conseguenze estreme 159. Noterò ancora che questa operazione di parziale recupero del do ut des come contratto tipico Paolo la compie (almeno per come egli descrive i casi: ma come vedremo si deve pensare che il giurista fosse incline a pensare in questo senso) solo nel caso in cui la prima prestazione eseguita fosse quella pecuniaria. Per lo scambio, in-
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Sul punto, CANNATA, Labeone cit., 42.
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vece, di cosa contro cosa (rem do, ut rem accipiam), Paolo lo individua come permutatio, e (come si era visto in Paul. D.19,4,1 pr.) afferma che questa non può considerarsi (per comune opinione dei giuristi: non placet) compravendita, ma afferma anche – in questo scostandosi dal pensiero che io credo, come si è detto, di Giuliano – che “non v’è dubbio” che dalla permuta nasca un rapporto obbligatorio civile (dubium non est nasci civilem obligationem), che sarà protetto con un’azione contrattuale 160, con la quale la parte che ha eseguito la prima prestazione potrà chiedere il risarcimento del danno cagionatole dalla mancata esecuzione della controprestazione, ovvero con la condictio restitutoria dell’entità arricchente, che risulta comunque un datum ob rem re non secuta. 161 E va notato che il primo di questi rimedi è qui presentato come azione civile, e quindi va anche identificato con l’azione contrattuale generale (actio praescriptis verbis), e non, com’era in Paul. D.19,4,1,4 (cfr. D.19,4,1,1), dove Paolo esponeva ancora il pensiero di Giuliano, come un’azione in factum pretoria. Do ut facias (§ 2). Anche questa fattispecie viene parzialmente recuperata nell’ambito di un contratto tipico del diritto civile, ed in espressa analogia con la precedente operazione di parziale recupero del do ut des (sicut superiore casu emptio). Anche qui parrebbe che Paolo pensasse solo al caso nel quale la prima prestazione eseguita fosse pecuniaria, e dunque le condizioni del recupero sono le seguenti: che una delle prestazioni sia pecuniaria (pecunia data), che il facere in cui consiste la controprestazione consista in un’attività idonea ad essere oggetto di locazione (si tale sit factum, quod locari solet, puta ut tabulam pingas): a queste condizioni, il do ut facias è dunque locazione (locatio erit). Non lo sarà se invece del denaro io do una cosa (diversa dal denaro: si rem do, non erit locatio), e non lo sarà se il facere non consista in un’attività che possa essere oggetto di locazione. Nel primo di questi casi (rem do ut facias un’attività che può essere locata) la fattispecie sarà protetta da un’azione civile ovvero darà luogo alla condictio in ripetizione del dato; nel secondo (do ut facias quod locari non possit, puta ut servum manumittas) 162 condici ei potest vel praescriptis verbis agere: la soluzione è dunque la stessa del caso precedente, ma qui l’azione civile che concorre con la condictio (che pure, non lo si dimentichi, era azione civile) è precisamente individuata come actio praescriptis verbis, cioè l’azione contrattuale generale labeoniana. Ciò, come può notarsi, non era avvenuto per l’azione prevista nel § 1 per la permuta, ma abbiamo sufficienti ragioni per concludere, non solo che si debba pensare che anche nel contesto del § 1 la sostanza del discorso fosse la stessa, ma anche che Paolo vi si fosse espresso allo stesso modo. Si noti anzitutto che alla soluzione del § 2 Paolo aggiunge ‘quod his quae diximus convenit’, ma v’è di più. Nel § 1 stesso esiste un’evidente lacuna che suggerisce, o meglio impone, un’integrazione nel senso che c’interessa. Là, nel luogo dove si parlava delle azioni, era scritto: sin autem rem do, ut rem accipiam, quia non placet permutationem rerum emptionem esse, dubium non est nasci civilem obligationem, in qua actione id veniet, non ut reddas quod acceperis, sed ut damneris mihi, quanti interest mea illud de quo convenit accipere ... 160
Sulla probabile corruzione del testo in questo punto, vedi subito di seguito, nella trattazione del do ut facias. 161 Ometto, in questa sintesi generale, le considerazioni casistiche che Paolo aggiungeva nel passaggio ‘sed si scyphos tibi dedi, ut Stichum mihi dares, periculo meo Stichus erit ac tu dumtaxat culpam praestare debes’. 162 Ometto, in questa sintesi generale, le considerazioni casistiche che Paolo aggiungeva nel passaggio ‘sive certum tempus adiectum est, intra quod manumittatur idque, cum potuisset manumitti, vivo servo transierit, sive finitum non fuit et tantum temporis consumptum sit, ut potuerit debueritque manumitti’.
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con il che, tra ‘nasci civilem obligationem’ e ‘in qua actione id veniet’ risulta un incongruente salto dall’obligatio all’actio, che esige un’integrazione che non posso certo pretendere di comporre con precisione assoluta, ma comunque non può pensarsi se non di questo genere: sin autem rem do, ut rem accipiam, quia non placet permutationem rerum emptionem esse, dubium non est nasci civilem obligationem , in qua actione id veniet, non ut reddas quod acceperis, sed ut damneris mihi, quanti interest mea illud de quo convenit accipere ... Con questa integrazione concorda anche perfettamente la frase finale del § 2, con l’integrazione che sopra ne avevo suggerita: Paolo viene a confrontare esplicitamente il proprio pensiero con quello di Giuliano, per il caso in cui lo schiavo dato sia stato evitto, confermando il proprio impiego dell’actio civilis in factum (che è sempre l’actio praescriptis verbis) diversamente dalla tutela puramente pretoria che proponeva il suo predecessore. Facio ut des (§ 3). In questo caso Paolo nega qualunque tutela civilistica al rapporto, limitandosi a prevedere l’impiego dell’actio de dolo, il quale risulta pressoché automatico per un rapporto sfornito di qualunque altra tutela: da ciò si desume che Paolo non considerava neanche la possibilità di un’azione in factum pretoria. Certo sembra che qui egli seguisse integralmente la posizione di Giuliano; ma qualche considerazione possiamo comunque farla. Anzitutto, nulla vieta che in pratica, dopo concluso un accordo di scambio di facere contro il trasferimento della proprietà di una cosa (o magari anche una somma di denaro), la prima prestazione eseguita sia quella di dare. Ma Paolo, evidentemente, non considera affatto questa ipotesi, perché, se così avvenisse, i fatti avvenuti concreterebbero un do ut facias, e quindi verrebbero assoggettati alla disciplina descritta sopra. Più difficile è comprendere perché Paolo non pensi affatto in questo caso alla possibilità di recuperare il rapporto – alle stesse condizioni viste sopra per il do ut facias – come locazione: ma ciò sembrerebbe dipendere dal fatto che nel facio ut des la prestazione iniziale – quella eseguita nel contesto della conclusione dell’accordo – non era la prestazione pecuniaria. È invece facile capire perché Paolo escludesse qui la tutela mediante condictio: l’ipotesi in parola si concreta nel caso in cui, dopo che io ho fatto (posteaquam feci), tu cessas dare, e quindi l’arricchimento ingiustificato consisterebbe nel risultato economico del facere, che non è ripetibile con la condictio. Più difficile è capire perché Paolo non faccia alcuna allusione all’azione contrattuale generale (actio praescriptis verbis), ma se si passa dal pensare teorico a quello pratico, la cosa si può chiarire. Se la prestazione di dare fosse pecuniaria e quella di fare fosse un’attività suscettibile di essere locata, le parti – che una prestazione fosse eseguita o no – avrebbero comunque concluso una locazione (io ti dipingo il ritratto perché tu mi dia 1.000 HS; io ti permetto di abitare nel tale mio immobile per un anno perché tu mi dia 300 HS). Nei casi residui (quelli in cui l’accordo non si potrebbe interpretare come locazione) un accordo di facio ut des sarebbe risultato del tutto impensabile per i Romani: “io manometto (nel tuo interesse, perché è tuo figlio naturale) il mio schiavo Stico perché tu mi dia 10.000 HS” si sarebbe più semplicemente concluso con una stipulatio: “Prometti di darmi 10.000 se manometterò il mio schiavo Stico?” ovvero “Prometti di manomettere il tuo schiavo Stico se ti darò 10.000 HS?”; oppure: “Prometti di darmi il tuo cavallo bianco se ti avrò fatto il ritratto?”; “Prometti di farmi il ritratto se ti avrò dato il mio cavallo bianco?”. In sostanza, Paolo sembrava considerare inutile una tutela del facio ut des – come tale – che andasse al di là del sussidio-limite dell’actio de dolo. Facio ut facias (§ 4-5). Qui Paolo parte da due casi (si pacti sumus, ut tu a meo debitore Carthagine exigas, ego a tuo Romae, vel ut tu in meo, ego in tuo solo aedificem), che esamina per stabilire se possano essere ricondotti nell’ambito di una fattispecie contrat-
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tuale tipica; in realtà, nello stato attuale del testo tale disamina ci resta solo per il primo caso (tu escuti per me a Cartagine e io per te a Roma), nel quale si ravvisa la presenza di un mandato: ma per concludere comunque che in entrambi i casi è più sicuro l’impiego dell’actio praescriptis verbis: e qui abbiamo anche la conferma definitiva che l’azione civile (diversa dalla condictio) menzionata da Paolo nei paragrafi precedenti era sempre l’azione contrattuale generale, perché qui egli scrive: ‘sed tutius erit et in insulis fabricandis et in debitoribus exigendis praescriptis verbis dari actionem, quae actio similis erit mandati actioni, quemadmodum in superioribus casibus locationi et emptioni. Dicendosi che qui l’azione praescriptis verbis sarà simile all’azione di mandato, come nei casi di cui sopra a quelle di locazione e vendita 163, si comprendono tutte le menzioni dell’azione contrattuale civile fatte prima – e quindi anche a quella che riguardava il do ut des – esprimendo l’idea che si tratta di un’azione unica, che non corrisponde all’azione per ciascuno dei contratti tipici di volta in volta somiglianti agli atipici in questione, ma che darà luogo all’applicazione, nel relativo processo, di una disciplina modellata sui relativamente corrispondenti contratti tipici. Questo viene probabilmente da Aristone (Paul. Arist. D.19,4,2; Cels. D.12,4,16 164). Alla fine, nel § 5, Paolo precisa che quella descritta è la disciplina generale della fattispecie di facio ut facias (haec sunt, ubi de faciendo ab utroque convenit), e che quindi (si ergo haec sunt) essa va applicata anche nel caso proposto (et in proposita quaestione idem dici potest), che è, come già abbiamo potuto stabilire, quello (convenit inter nos, ut et tu meum [filium/tuum servum] manumitteres et ego tuum [filium/meum servum]) proposto nel principium del passo, come premessa a tutto il tractatus: e se ne desume come necessaria conseguenza (et necessario sequitur) che nell’azione relativa la sentenza sarà nel senso della tua condanna calcolata nella misura del mio interesse alla proprietà dello schiavo che ho manomesso 165. Il che significa, possiamo ormai dirlo con certezza, che l’azione in parola sarà l’azione contrattuale generale.
Paolo, dunque, sintetizzava la problematica della tutela degli accordi atipici di scambio in una costruzione che intendeva conciliare la posizione di Giuliano con la tradizione del pensiero di Labeone ed Aristone. Forse sarebbe più esatto dire che egli accettava il punto di partenza dommatico del pensiero di Giuliano (un accordo puro e semplice di scambio non è di per se stesso che un nudo patto), accettando però insieme l’impiego dell’actio praescriptis verbis di Labeone e Aristone, se l’accordo fosse “vestito” con l’esecuzione di una prestazione. Con ciò, gli accordi di scambio, dopo l’esecuzione di una prestazione, se non fossero già inseribili nella tutela del ius civile in quanto reinterpretabili come contratti nominati, vi venivano recepiti, ma solo, appunto, se “vestiti” dall’esecuzione di una prestazione. Fu così, e solo in seguito a questa operazione di Paolo, che la nozione di contratto innominato venne a corrispondere a quella di “contratto di scambio di cui una prestazione sia stata eseguita”, la cui nozione recepiva 163 Certo locationi et emptioni sono errori per locati et empti. Probabilmente si tratta di abbreviazioni mal sciolte dagli scribi del Digesto. 164 Vedi CANNATA, Labeone cit., 37 s. 165 Non interessa questa sintesi generale l’annotazione finale, secondo la quale deve considerarsi irrilevante in ordine alla misura del mio interesse il fatto che, dall’insieme della vicenda, io venga ad acquistare il patronato sulla persona libera del manomesso.
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bensì l’idea che i contratti innominati sono, come i nominati, strutture causali, ma dando all’impiego pratico della nozione un limite assolutamente antieconomico. La costruzione di Paolo piacque ai compilatori del Digesto, come si comprende dal fatto che nella compilazione, malgrado siano contenuti molti frammenti di ispirazione labeoniano-aristoniana, quelli di Paolo D.19,4,1 e D.19,5,5 hanno un’evidenza particolare per la loro posizione, ed il secondo anche per la sua ampiezza e per il fatto di contenere una trattazione generale della materia. Se a ciò si aggiunge il fatto che la lettura di questi due testi ha condotto facilmente gli interpreti successivi della compilazione giustinianea a ritenere che anche Ulp. D.2,14,7,2 con la sua esemplificazione basata su do ut des e do ut facias si riferisse al complesso del problema dei contratti innominati – invece che, come abbiamo visto essere in realtà, intendesse inserire quelle strutture nel problema generale del synàllagma, la cui disciplina era dunque la premessa del discorso – si viene facilmente a comprendere come già i glossatori medievali siano poi pervenuti a costruire il contratto innominato come contractus realis (che per loro significava contratto la cui conclusione esige l’esecuzione di una delle prestazioni previste) e come anche la letteratura romanistica moderna sia a lungo stata indotta ad attribuire la stessa idea a tutta la giurisprudenza romana dell’epoca classica, Labeone ed Aristone compresi. Anzi, questa idea è oggi ancora ampiamente dominante, anche se è stata più volte tenacemente avversata 166.
3. LE AZIONI CONTRATTUALI. – Le azioni contrattuali – cioè, precisamente, le azioni per la tutela, sul piano del ius civile, dei rapporti d’obbligazione prodotti da un contratto consensuale – erano azioni di buona fede, e quindi nel processo formulare venivano esercitate in base ad una formula con demonstratio 167 e intentio incerta in quidquid dare facere oportet ex fide bona. Come si ricorderà, la formula processuale consisteva in un decreto del pretore, che questi pronunziava in iure (cioè nel suo tribunale) alla presenza delle parti, che vi si trovavano a seguito della chiamata in giudizio (in ius vocatio) che l’attore aveva fatto al convenuto, e lo pronunziava in seguito alla richiesta che l’attore gli aveva fatto. Nel decreto in questione il pretore nominava il giudice, attribuendogli il potere-dovere di giudicare fra le suddette parti relativamente alla materia del loro contendere (la res qua de agitur = res de qua agitur = la cosa – nel senso generale della “materia”, possiamo dire anche “i fatti” – di cui si tratta [nel presente giudizio]), indicandogli con precisione quale fosse questa materia nonché i provvedimenti che il giudice poteva prendere per risolvere la controversia, va166 167
Purtroppo, con le ultime parole di questa frase faccio invero solo dell’autobiografia. Vedi in generale CANNATA, Corso I, 134 ss.
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le a dire i contenuti che la sua sentenza avrebbe potuto avere. Un’alternativa era sempre l’assoluzione del convenuto, l’altra era quella della sua condanna, e per questa nella formula stessa era previsto il tenore che essa poteva avere nel caso concreto. La sentenza di condanna, come si sa, aveva sempre ad oggetto una somma di denaro e, nelle formule delle azioni incerte, com’erano quelle di cui stiamo parlando, la clausola che la prevedeva (condemnatio) era pure incerta, vale a dire che la somma di denaro non era precisata: sarebbe stata determinata, a seguito dei vari atti processuali che egli o le parti avrebbero compiuto sotto la sua direzione, dal giudice in base ai criteri e agli elementi che il complesso della formula stessa gli indicava in proposito. Questa descrizione sommaria risulterà più chiara dall’analisi dei concreti modelli di formule che faremo tra poco. È solo opportuno aggiungere in generale che nelle azioni di buona fede i poteri del giudice erano particolarmente ampi, ed ampia era pure la sua discrezionalità. Ciò risultava particolarmente necessario in relazione alle azioni contrattuali, in quanto queste si riferivano a rapporti d’obbligazione che potevano contenere obbligazioni reciproche, e quindi interdipendenti, di entrambe le parti e comunque risultavano da un impegno reciproco (synàllagma), per cui il giudice avrebbe di regola potuto decidere tenendo conto del comportamento di entrambe le parti nella fase seguente la conclusione del contratto. La frase con cui Gaio giustifica il potere del giudice di operare compensazioni nei iudicia bonae fidei può ben considerarsi il punto di emersione di un principio più ampio del suo ufficio (officium) in questi processi (Gai.4,61: ... ut habita ratione eius quod invicem actorem ex eadem causa praestare oportet, in reliquum eum cum quo actum est condemnare = “tenuto conto di quel che l’attore reciprocamente deve prestare per la stessa causa, [deve] condannare il convenuto nella misura del rimanente”). Nelle istituzioni gaiane stesse viene, ad altro proposito e qui con valore generale, enunciato il principio secondo il quale nei iudicia bonae fidei l’officium del giudice è “libero” (Gai.4,114: in eiusmodi iudiciis liberum est officium iudicis). Tutto ciò si manifesta variamente nella procedura, vuoi per l’effetto diretto che l’allusione al principio di buona fede comportava sulla sostanza della disciplina applicabile ai rapporti che vi erano dedotti, vuoi per le conseguenze processuali che l’applicazione pratica di questa disciplina comportava, onde munire il processo degli strumenti necessari alla sua gestione. Così ad esempio: quanto alle eccezioni con le quali venissero addotti fatti che i giuristi consideravano direttamente contrastanti con i valori della bona fides – e cioè in particolare le eccezioni di dolo e di patto (exceptio doli ed exceptio pacti conventi) –, non era necessario che il convenuto ne chiedesse la menzione nella formula prima della litis contestatio, ma potevano essere da lui direttamente opposte in iudicio (cioè nella procedura davanti al giudice) 168; ancora: il giudice poteva imporre speciali oneri (processuali) ad una parte nei confronti dell’altra 169. 168
Un esempio pratico: D.19,1,13,9. Vedi ad esempio D.19,1,13,8: Offerri pretiuum ab emptore debet, cun ex empto agitur, et ideo si pretii partem offerat, nondum est ex empto actio; venditor enim quasi pignum retinere potest eam rem quam vendidit. Dal testo si desume che, se il compratore agisca contro il venditore, lamentando che (per esempio) egli non gli ha consegnato la merce, e nel corso del giudizio risulti che nessuna delle parti ha eseguito le proprie prestazioni, il giudice – prima di pronunziare la sentenza – imporrà al compratore (attore) l’onere di offrire al convenuto (venditore) il prezzo (non di pagarglielo!): con 169
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Passando ora concretamente alle formule, una premessa generale risulta opportuna. La dommatica moderna distingue, sotto il profilo del loro contenuto obbligatorio, i contratti unilaterali e i contratti bilaterali (o sinallagmatici), e questi in contratti bilaterali perfetti e imperfetti (sinallagmatici perfetti o imperfetti): i contratti unilaterali producono obbligazioni di una sola parte verso l’altra; i contratti bilaterali perfetti creano, dal momento della loro conclusione, obbligazioni di entrambe le parti; i contratti bilaterali imperfetti creano, al momento della loro conclusione, obbligazioni di una sola parte, ma nel corso della loro esecuzione possono sorgere anche obbligazioni dell’altra parte verso la prima. I giuristi romani non hanno mai creato una terminologia per esprimere questi concetti, ma il loro diritto contrattuale ne era strutturalmente permeato in modo anche più incisivo del nostro. Già sappiamo che nel diritto romano non esistevano contratti consensuali unilaterali, perché questi erano in ogni caso impegni reciproci; le figure obbligatorie unilaterali venivano realizzate re, verbis o litteris, e quindi, secondo la classificazione di Labeone, erano actus e non contractus. Quanto ai contratti consensuali, se si trattava di quelli che noi usiamo denominare bilaterali perfetti (o sinallagmatici perfetti) e se si trattava di contratti nominati, l’editto del pretore prevedeva per ciascuno due azioni, una per ciascuna parte; si aveva così un’azione a favore del venditore contro il compratore (actio venditi) e un’azione a favore del compratore contro il venditore (actio empti), un’azione per il locatore contro il conduttore (actio locati) e viceversa un’azione per il conduttore contro il locatore (actio conducti); diversa era la situazione per il contratto di società (l’unico che potesse avere anche più di due parti), per il quale l’actio pro socio era unica, e poteva essere esperita da ciascun socio contro ciascuno degli altri. Per ciascuno dei contratti bilaterali imperfetti, l’azione era unica: essa spettava alla parte che risultava creditrice con la conclusione del contratto, ma restava a disposizione anche dell’altra parte (come actio contraria) per le obbligazioni che eventualmente si formassero a suo favore: così l’actio mandati spettava al mandante contro il mandatario, che però, se divenisse anch’egli creditore – ad esempio per il rimborso delle spese sostenute nell’esecuzione del mandato – aveva a disposizione l’actio mandati contraria. L’azione contrattuale generale (actio praescriptis verbis o actio in factum civilis o anche actio civilis incerti) 170 era un’azione unica, ma – come vedremo tosto – con impostazione casistica. Le azioni contrattuali romane erano tutte azioni causali, ma la menzione delciò, in sostanza, egli avverte l’attore (compratore) che solo dopo la sua offerta del prezzo all’altro egli condannerà costui (venditore convenuto) al risarcimento per la mancata prestazione della merce. Se l’attore non adempirà il suo onere, il giudice assolverà il convenuto. 170 Che queste diverse denominazioni alludessero alla medesima azione credo di aver dimostrato nell’articolo L’actio in factum civilis, in Iura 57(2008-2009), 9 ss. (di qui in avanti citato CANNATA, L’actio cit.).
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la causa agendi non compariva nell’intentio, che era un’intentio incerta sempre della forma ‘quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona’ (= checché 171 per questa cosa Numerio Negidio debba dare o fare a favore di Aulo Agerio secondo buona fede), ma nella demonstratio che la precedeva (nella forma introdotta da quod ...). All’enunciato causale contenuto nella demonstratio l’intentio faceva però diretto riferimento con le parole ob eam rem (= per questa cosa), ad indicare che quel che l’intentio stessa indica come il complesso delle obbligazioni del convenuto (cioè quello che costui deve dare o fare a favore dell’altro) egli lo deve “per la cosa (= in forza della causa) testé enunciata nella demonstratio”. Passeremo ora a esaminare cinque modelli di formule, che comprendono tutti i tipi possibili di azioni contrattuali civili (di buona fede). Ricordo il significato dei nomi propri che vi sono presenti: L. Calpurnius (= L(ucio) Calpurnio): è il nome del giudice, che consideriamo nominato dal pretore per il concreto processo per il quale la formula viene composta; il nome è scelto da me (senza particolari ragioni: ho solo voluto, per semplicità, usare un nome caratteristico di un cittadino romano). Nei modelli edittali delle formule, a quanto risulta, il luogo destinato ad essere riempito col nome del giudice era lasciato in bianco. Aulus Agerius e Numerius Negidius rappresentano i nomi delle parti (rispettivamente, l’attore e il convenuto), e quindi nelle formule concrete in loro luogo venivano scritti i nomi effettivi di queste. I nomi citati, abbreviati probabilmente in AA e NN, erano presenti nei modelli edittali delle formule 172. Una considerazione generale sulla struttura delle formule che leggeremo. Alla fine della demonstratio compare la proposizione ‘qua de re agitur’ che significa “materia del presente processo”, ma letteralmente si tradurrebbe “della qual cosa si agisce” (cioè “per la qual cosa si esercita la presente azione”). Nella frase, quindi, si precisa che “la cosa (res) per la quale si fa questo processo (res de qua agitur)” o, se si vuole, “si esercita questa azione” è l’affare descritto nella demonstratio. A questa stessa enunciazione dell’oggetto dell’azione si riferisce il successivo ‘ob eam rem’ (per questa cosa). Abbiamo così lo schema logico seguente di tutta la formula: il pretore dice al giudice: AA ha concluso il tale contratto con NN (questo è l’oggetto del processo); tu giudice dovrai stabilire che cosa, in base a questo (in base a tale oggetto), NN deve ad AA secondo buona fede; (fatto ciò) condanna in conseguenza NN a favore di AA nell’ammontare di tot sesterzi; se invece risultasse che no(n deve nulla) assolvilo. Per compiutezza (ma se ne riparlerà a suo luogo nel seguito di questo corso) devo precisare che oltre alla azioni contrattuali civili, l’editto del pretore prevedeva alcune azioni contrattuali in factum pretorie. Ma la loro presenza non turba affatto il sistema e la loro presenza nell’editto pretorio ha come fondamento ragioni puramente storiche. Si
171 Per tradurre ‘quidquid’ devo valermi dell’ormai disusato “checché”, per evitare – traducendo “qualunque cosa” – l’impiego del vocabolo “cosa”, che nel testo ricorre subito dopo con l’impiego del vocabolo latino ‘res’. Tradurrò invece con “cosa” ‘res’ non solo qui, ma anche nelle numerose altre occasioni che queste formule ci offrono: si tenga sempre presente che in questi impieghi i termini latino e italiano «res/cosa» sono impiegati nel senso più generico a loro proprio. 172 Sulle ragioni di questa scelta dei nomi edittali delle parti, vedi in questo Corso I, 127 s.
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tratta fondamentalmente di tre casi. Per i contratti di deposito e comodato nell’editto erano previste, per ciascuno, due formule: quella civile di buona fede ed un’altra formula in factum (vedi Gai.4,47); per il pegno è dubbio se le cose stessero in modo analogo ovvero la sua tutela fosse puramente pretoria 173.
Vediamo 174 anzitutto le azioni previste nell’editto per la compravendita. Per quanto si è detto poco sopra, la compravendita essendo un contratto bilaterale perfetto, l’editto pretorio prevedeva due azioni. Un’actio venditi per il venditore e un’actio empti per il compratore. ACTIO VENDITI: L. Calpurnius iudex esto. Quod Aulus Agerius Numerio Negidio hominem Stichum vendidit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius L. Calpurnius iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato si non paret absolvito. “L. Calpurnio sia il giudice. [Demonstratio] Quanto al fatto che Aulo Agerio ha venduto lo schiavo Stico a Numerio Negidio, cosa di cui si tratta (nel presente giudizio), [Intentio] checché per questa cosa Numerio Negidio deva dare o fare in base a buona fede a favore di Aulo Agerio, [Condemnatio] a tanto (= in misura corrispondente) il giudice L. Calpurnio condanni Numerio Negidio a favore di Aulo Agerio; altrimenti lo assolva.” ACTIO EMPTI: L. Calpurnius iudex esto. Quod Aulus Agerius de Numerio Negidio hominem Stichum emit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius L. Calpurnius iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato si non paret absolvito. “L. Calpurnio sia il giudice. [Demonstratio] Quanto al fatto che Aulo Agerio ha comprato lo schiavo Stico da Numerio Negidio, cosa di cui si tratta (nel presente giudizio), [Intentio] checché per questa cosa Numerio Negidio deva dare o fare in base a buona fede a favore di Aulo Agerio, [Condemnatio] a tanto (=
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Vedi in questo Corso I, 322 n. 245. Nella traduzione delle singole formule, prima della traduzione di ciascuna clausola (tranne l’iniziale nomina del giudice, che non era una clausola della formula come tale, ma un diverso provvedimento contenuto, prima della formula, nello stesso decreto che la concedeva), indicherò la natura della clausola stessa (demonstratio; intentio; condemnatio). Si tenga conto del fatto che quanto segue la nomina del giudice è poi dal pretore scritto come ordine al giudice stesso. 174
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in misura corrispondente) il giudice L. Calpurnio condanni Numerio Negidio a favore di Aulo Agerio; altrimenti lo assolva.” Le formule, qui proposte, delle due azioni relative alla compravendita si differenziano solo per il tenore della demonstratio, e dunque per l’enunciato della causa, cioè del tipo d’affare che ha creato il rapporto d’obbligazione tra le parti. Il tipo di affare è lo stesso nelle due azioni (una compravendita), ma il suo enunciato vi è diverso, perché nell’azione esercitata dal venditore l’attore (Aulo Agerio) è indicato come chi ha venduto (vendidit), mentre nell’azione esercitata dal compratore Aulo Agerio è chi ha comprato (emit). Noterò (e ciò vale per tutte le formule che leggeremo) che l’alternativa assolutoria, che è scritta alla fine della condemnatio, è enunciata in modo assai generico 175: ciò dipende dal fatto che essa vuole riferirsi a tutti i casi nei quali quanto è scritto in precedenza non corrisponda alla realtà: e quindi non solo per il caso in cui non risultino comportamenti del convenuto che possano considerarsi violazioni del modello del comportamento di buona fede e in quanto tali abbiano cagionato danno all’attore, ma anche per il caso nel quale il contratto invocato dall’attore non possa del tutto essere preso in considerazione (perché nullo o inefficace).
Actio mandati (diretta) L. Calpurnius iudex esto. Quod Aulus Agerius Numerio Negidio mandavit ut fundum Cornelianum emeret, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius L. Calpurnius iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato si non paret absolvito. “L. Calpurnio sia il giudice. [Demonstratio] Quanto al fatto che Aulo Agerio ha dato mandato a Numerio Negidio di comperare il fondo corneliano, cosa di cui si tratta (nel presente giudizio), [Intentio] checché per questa cosa Numerio Negidio deva dare o fare in base a buona fede a favore di Aulo Agerio, [Condemnatio] a tanto (= in misura corrispondente) il giudice L. Calpurnio condanni Numerio Negidio a favore di Aulo Agerio; altrimenti lo assolva.” Actio mandati contraria L. Calpurnius iudex esto. Quod Aulus Agerius de Numerio Negidio mandatum suscepit ut fundum Cornelianum emeret, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Numerim Negidim Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius L. Calpurnius iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato si non paret absolvito.
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L’ARANGIO-RUIZ (Le formule con demonstratio e la loro origine, in Rariora, Roma 1946, 28 s.) ha sottolineato che la forma di tale enunciato (si non paret absolvito) non concorderebbe grammaticalmente con la struttura del resto della formula, essendo in realtà appropriata solo per le formule (le più numerose) che s’iniziano con un’intentio in ‘si paret ...’. Ma io credo che il rilievo non sia giustificato, e che lo si deva superare intendendo l’enunciato come qui propongo, e traducendolo come proporrei di tradurlo.
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“L. Calpurnio sia il giudice. [Demonstratio] Quanto al fatto che Aulo Agerio ha ricevuto da Numerio Negidio mandato di comperare il fondo corneliano, cosa di cui si tratta (nel presente giudizio), [Intentio] checché per questa cosa Numerio Negidio deva dare o fare in base a buona fede a favore di Aulo Agerio, [Condemnatio] a tanto (= in misura corrispondente) il giudice L. Calpurnio condanni Numerio Negidio a favore di Aulo Agerio; altrimenti lo assolva.” Secondo il LENEL EP, 295 ss., seguito anche dal MANTOVANI, Le formule del processo privato romano2, Padova 1999, 55, la formula dell’actio mandati contraria era: Quod Numerius Negidius Aulo Agerio mandavit, ut ..., q. d. r. a., quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius iudex Numerium Negidium Aulo Agerio c. s. n. p. a. Come si vede, per questi autori le formule dell’actio mandati diretta e contraria erano del tutto identiche, salvo che per “lo scambio nella demonstratio dei nomi delle parti” 176. Probabilmente questi autori hanno ragione, e non prova a favore della mia versione il testo (Ulp. D.17,1,12,7) dal quale ho tratto la terminologia che propongo, del resto solo per ragioni di eleganza.
Azione contrattuale generale (Actio in factum civilis o actio praescriptis verbis, o anche actio civilis incerti) L. Calpurnius iudex esto. Quod Aulus Agerius Numerio Negidio hominem Stichum dedit ut Numerius Negidius hominem Pamphilum manumitteret, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius L. Calpurnius iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato si non paret absolvito. “L. Calpurnio sia il giudice. [Demonstratio] Quanto al fatto che Aulo Agerio ha dato a Numerio Negidio lo schiavo Stico perché Numerio Negidio manometta lo schiavo Panfilo, cosa di cui si tratta (nel presente giudizio), [Intentio] checché per questa cosa Numerio Negidio deva dare o fare in base a buona fede a favore di Aulo Agerio, [Condemnatio] a tanto (= in misura corrispondente) il giudice L. Calpurnio condanni Numerio Negidio a favore di Aulo Agerio; altrimenti lo assolva.” Questa formula era evidentemente appropriata per entrambe le parti (con eventuali varianti analoghe a quella che abbiamo notato per l’actio mandati contraria rispetto all’azione diretta). L’ho costruita valendomi di uno degli esempi di convenzione innominata che abbiamo incontrato nei testi letti trattando quel tema.
Sull’azione contrattuale generale è opportuno aggiungere qualche osservazione, e prendiamo le mosse dalla formula. Come si vede dall’esempio or ora addotto, la demonstratio della formula 176
MANTOVANI cit., 55 n.150.
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dell’azione contrattuale generale si differenziava da quella delle altre azioni che stiamo considerando: la res de qua agitur, cioè la descrizione dell’affare dedotto in giudizio, aveva carattere casistico. Nella demonstratio delle altre azioni contrattuali l’analoga descrizione faceva perno su di un termine che esprimeva un istituto giuridico del ius civile (vendidit, emit, mandavit), mentre la demonstratio dell’azione contrattuale generale descriveva l’affare dedotto in giudizio né più né meno che come un accadimento. Naturalmente, in questa descrizione potevano anche ricorrere termini allusivi ad atti giuridici (come nell’esempio fatto la manumissio), ma l’accordo contrattuale in se stesso non veniva sintetizzato nell’allusione ad un istituto – qui, ad un contratto tipico, come vendita o mandato – ma indugiava nella descrizione di un accadimento (“AA ha dato lo schiavo Stico allo scopo che NN manomettesse lo schiavo Panfilo”). Questa circostanza fa sì che l’azione in parola rappresenti un’actio in factum, analogamente alle numerose azioni pretorie che venivano date in factum, cioè costruite su di un’intentio che non alludeva ad una situazione giuridica del ius civile, bensì a dei fatti concretamente accaduti. Però, mentre le azioni in factum pretorie non erano azioni civili (cioè strumenti giudiziari del ius civile) ma, appunto, azioni pretorie (cioè strumenti processuali del ius honorarium), l’azione contrattuale generale era un’azione civile. Lo si comprende bene perché la differenza fra azioni pretorie e azioni civili è determinata dal carattere dell’intentio (che costituisce il luogo d’enunciazione della causa petendi 177), e nelle azioni in factum pretorie la descrizione dell’oggetto del giudizio come sequenza di fatti compariva appunto nell’intentio (queste azioni non avevano demonstratio); invece nell’azione contrattuale generale l’intentio era espressa in termini puramente di ius civile (essa era infatti basata sul verbo oportere, tecnico per l’enunciato di un’obbligazione civile), mentre la descrizione in factum vi era premessa nella demonstratio, che dell’intentio rappresentava bensì una premessa, ma le era separata. L’idea, che questa combinazione rappresentava, era quella di un ordine, dato dal pretore al giudice, in questo senso: “considera questi fatti (quod etc.), e (qualunque essi siano) stabilisci i loro effetti che sul piano del diritto civile provengono dall’applicazione ad essi dei principi della buona fede (quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona). Come si vede, lo strumento che permette qui la sussunzione di fatti nella tutela civile è la decisione della loro assoggettabilità (stabilita dai giuristi e resa operativa dal magistrato giusdicente con l’ordine, che egli dà al giudice di giudicare 177
L’espressione causa petendi (come locuzione tecnica, contrapposta a quella di petitum) è propria piuttosto della terminologia giuridica moderna (anche in italiano) che non di quella romana, ed è nel suo senso moderno che qui la uso: la causa petendi è la situazione giuridica sulla quale l’attore basa le sue pretese, mentre il petitum è il provvedimento che l’attore richiede al giudice. Come si capisce, applicando questa terminologia al processo formulare romano, l’intentio viene a rappresentarvi il luogo della causa petendi, mentre il luogo del petitum è la condemnatio.
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così) ai criteri di giudizio connessi col principio della buona fede 178. A questo, che abbiamo detto, corrisponde esattamente la denominazione dell’azione contrattuale generale come ‘actio in factum civilis’: azione in factum, ma non pretoria, bensì civile. Questa denominazione dell’azione parrebbe certamente risalire a Labeone stesso, che l’introdusse. È molto probabile che Labeone abbia creato quest’azione proprio in funzione della sua apertura alla tutela delle convenzioni atipiche; ciò nondimeno la sua actio in factum civilis era veramente un’azione contrattuale generale. Si legge in un testo di Papiniano (D.19,5,1,1) che Labeone aveva indicato l’actio in factum civilis come appropriata per il caso seguente. Il proprietario di certe merci le ha affidate ad un magister navis (il commissario di bordo di una nave oneraria) perché fossero trasportate per mare in un certo luogo 179; poi, il proprietario delle merci voleva agire in giudizio contro il magister navis (lamentando, supponiamo, che le merci erano state danneggiate durante il trasporto o si erano perdute); nel caso, si presentava un problema, perché il proprietario delle merci non era sicuro dell’esatta natura del contratto che aveva concluso col magister e quindi del tipo di azione appropriata. Precisamente: non c’era dubbio che il contratto fosse una locatio conductio, ma l’oggetto della locazione poteva essere stato l’insieme delle merci stesse (locatio mercium vehendarum, cioè locazione delle merci da trasportare: modernamente contratto di trasporto delle merci) o la nave che le avrebbe trasportate (locatio navis, cioè locazione della nave, modernamente contratto di noleggio della nave). Ora, nel caso in cui oggetto della locazione fossero le merci, il proprietario di queste sarebbe stato locatore e il magister conduttore, per cui l’azione esperibile dal proprietario sarebbe stata l’actio ex locato; nel caso, invece, che oggetto della locazione fosse la nave, il locatore sarebbe stato il magister, e quindi conduttore il proprietario delle merci, per cui l’azione da costui esperibile sarebbe stata l’actio ex conducto. Il problema aveva una notevole rilevanza pratica perché, nel sistema processuale romano, chi esperisse un’azione tipica inappropriata l’avrebbe necessariamente perduta. Descrivo – per chiarezza – con un esempio, come nel nostro caso si sarebbe in pratica svolto il processo. Poniamo che AA (attore, proprietario delle merci) esperisse l’actio ex locato, ottenendo perciò dal magistrato una formula con una demonstratio del tenore seguente: ‘Quod As As No No merces vehendas locavit, qua de re agitur’. Poi, davanti al giudice, nell’istruzione probatoria, risulta che il contratto non era una locazione delle 178 Quanto detto non contrasta con l’idea (spesso ribadita soprattutto dal Talamanca) che ai tempi della loro origine (che doveva essersi delineata ai tempi dei fundatores) le azioni di buona fede fossero considerate azioni in factum pretorie. Non posso però tacere che quell’idea mi lascia qualche dubbio, soprattutto perché mi sembra difficile pensare che il criterio della bona fides – una volta individuato – possa mai essere stato considerato estraneo ai valori del ius civile. 179 Per chiarezza del caso, s’intenda che le merci di quel proprietario costituissero nel caso il solo carico della nave e ne occupassero praticamente per intero le stive.
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merci, bensì una locazione della nave: in questo caso la demonstratio dell’azione risultava non appropriata ad identificare i fatti dedotti in giudizio, per cui il giudice avrebbe dovuto pronunziarsi nel senso che il contratto invocato dall’attore non esisteva, e quindi le obbligazioni da lui pretese a carico del convenuto non si erano prodotte. Questa conclusione escludeva qualunque considerazione istruttoria ulteriore, sicché il giudice sarebbe direttamente passato a emettere la sentenza di assoluzione del convenuto.
Come si vede, in questa applicazione dell’actio civilis in factum non si tratta per nulla di un problema di tutela delle convenzioni atipiche. In gioco è un contratto tipico, e il problema che si pone dipende solo dall’incertezza sull’azione concretamente esperibile fra le due azioni, anch’esse tipiche, alle quali quel contratto può dare luogo. Nello stesso testo di Papiniano, nel paragrafo seguente (D.19,5,1,2), si espone un altro esempio di impiego dell’actio in factum civilis, e qui per una convenzione atipica: un tale ha consegnato ad un altro una cosa perché questi potesse apprezzarne il valore di scambio (si quis pretii explorandi gratia rem tradat), in vista evidentemente della futura, eventuale conclusione di una vendita (fra gli stessi due soggetti o da parte del secondo soggetto ad un terzo), e Papiniano scriveva che per eventuali controversie fra le parti (poniamo che il soggetto che aveva ricevuto la cosa l’avesse danneggiata o rifiutasse tanto di comprarla egli stesso o venderla ad un terzo nonché di restituirla), si sarebbe dovuta impiegare l’actio in factum civilis, perché i fatti non corrispondevano né ad un comodato né ad un deposito. Comodato e deposito rappresentano infatti le sole due ipotesi possibili di contrattazioni tipiche che possano astrattamente prendersi in considerazione in rapporto ai fatti avvenuti; e siccome esse devono essere entrambe escluse, la convenzione resta atipica, e quindi l’azione sarà l’actio in factum civilis (neque depositum neque commodatum erit, sed non exhibita fide [se risulta un comportamento non conforme ai principi della buona fede] in factum civilis subicitur actio). Da questo accostamento casistico effettuato da Papiniano risulta ben chiara la natura di azione contrattuale generale dell’actio in factum civilis, che abbiamo anche visto più volte nei testi denominata actio praescriptis verbis (denominazione che significava “azione con demonstratio”) e veniva anche detta talora actio civilis incerti (che significava “azione civile con intentio in quidquid ...”). Si trattava di un’azione contrattuale (quindi azione civile di buona fede) sussidiaria alle azioni contrattuali tipiche, nel senso che essa doveva essere concessa dal pretore nei casi in cui nei fatti dedotti in giudizio dovesse ravvisarsi un rapporto giuridico contrattuale assoggettabile al regime civilistico degli accordi contrattuali di buona fede, se un’azione tipica non potesse essere impiegata ovvero vi fosse un fondato dubbio sull’identità dell’azione tipica applicabile. La creazione pretoria dell’edictum de aestimato, di cui abbiamo detto in precedenza, fu frutto di questa concezione dell’actio praescriptis verbis, e in quell’editto si ri-
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solveva specificamente un dubbio sulla scelta fra azioni contrattuali tipiche. Riporto il testo di Ulpiano che tratta della vicenda ed è del tutto esauriente, sicché basterà tradurlo, con qualche chiarimento parentetico: D.19,3,1 pr. (Ulp. 32 ad edictum): Actio de aestimato proponitur tollendae dubitationis gratia: fuit enim magis dubitatum, cum res aestimata vendenda datur, utrum ex vendito sit actio propter aestimationem, an ex locato, quasi rem vendendam locasse videor, an ex conducto, quasi operas conduxissem, an mandati. melius itaque visum est hanc actionem proponi: quotiens enim de nomine cotractus alicuius ambigeretur, conveniret tamen aliquam actionem dari, dandam [aestimatoriam] praescriptis verbis actionem: est enim negotium civile gestum et quidem bona fide 180. quare omnia et hic locum habent, quae in bonae fidei iudiciis diximus. “L’azione de aestimato viene proposta (nell’editto del pretore) allo scopo di eliminare un dubbio: si dubitò infatti alquanto, quando si dà da vendere una cosa stimata, se l’azione opportuna sia poi quella ex vendito in ragione della stima, ovvero quella ex locato come se la cosa sia data in locazione allo scopo di essere venduta, o l’azione fosse quella ex conducto come se io avessi preso in locazione le opere (cioè l’attività consistente nella stima della cosa) o l’azione di mandato. Così si preferì proporre questa azione (cioè l’actio de aestimato, che non è che un impiego specifico dell’actio praescriptis verbis): infatti, quando vi è controversia sul nome di un qualche contratto (cioè sull’appartenenza di un certo contratto, concretamente concluso, all’uno o all’altro tipo contrattuale previsto nell’editto pretorio), ma risulti comunque conveniente dare una qualche azione, si deve dare l’actio praescriptis verbis; è stato infatti concluso un negozio appartenente al diritto civile, e precisamente un negozio di buona fede, perché anche qui ricorre tutto quanto abbiamo detto a proposito dei giudizi di buona fede.” 181.
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Tutta la frase da quotiens a bonae fidei è stata in passato considerata interpolata dal GRA(vedi Ind. itp.) con un costante seguito per tutta l’epoca della Interpolationenjagd: ma noi non possiamo più battere queste strade. Deve forse invece vedersi un glossema nella parola ‘aestimatoriam’, perché l’enunciato ulpianeo – in questo preciso punto – ha carattere generale. 181 Lo stesso problema è trattato brevemente in Ulp. (31 ad edictum) D.17,2,44, nonché (ma in modo che parrebbe assai diverso) in Ulp. (30 ad Sabinum) D.19,5,13 pr. Vedi KASER, RPR I, 581 con n. 8-9. DENWITZ
IV INTRODUZIONE GENERALE ALLE OBBLIGAZIONI DA DELITTO SOMMARIO: 1. Le obbligazioni da delitto. – 2. Le azioni nossali.
1. LE OBBLIGAZIONI DA DELITTO. Come abbiamo visto leggendo i testi nel primo capitolo, nella divisio obligationum delle Istituzioni Gaio contrapponeva, all’insieme delle obbligazioni che nascono ex contractu, quelle che nascono ex delicto (Gai.3,88), e chiariva poi (Gai.3,182) che queste ultime, al contrario delle prime le quali conoscono una distinzione in quattro genera, constano di un unico genus, che comprende quattro fattispecie: quelle del furto (furtum), della rapina (bona rapere), del danneggiamento (damnum dare) e dell’iniuria (l’aggressione personale). In questo modo la distinzione tra obbligazioni da contratto (ex contractu) e obbligazioni da delitto (ex delicto) viene a corrispondere a quella che usiamo fare oggi tra le obbligazioni da fatto lecito e quelle da fatto illecito 1. Per il fatto illecito viene dunque impiegata nel linguaggio romano la denominazione di delictum, che era tecnica nell’epoca classica; le fonti però usano anche, con lo stesso senso, il termine maleficium 2. Fra i codici moderni solo il CCfr impiega ancora il termine “délit” (art. 1370 ultimo comma; rubrica del chapitre che s’inizia con l’art. 1382). Negli altri codici moderni la denominazione dei delicta fa in generale riferimento alla nozione di “atto illecito” o “fatto illecito”. In particolare: A) ATTO ILLECITO: Vedi, nel BGB, la rubrica del Titel che s’inizia con il § 823 (Unerlaubte Handlungen) e nell’OR la rubrica che precede l’Art. 41 (… unerlaubte Handlungen: nella traduzione italiana “atti illeciti”, “actes illicites“ nella traduzione francese). Il WB[1992] 6:162 (e rubrica del relativo titel) usa “onrechtmatige
1 Ciò è possibile dirlo, anche se Gaio non comprende nella sua classificazione le obbligazioni da fatto lecito che non provengono da contratto. Per esempio, l’obbligazione da pagamento d’indebito, di cui pur tratta come di obligatio re contracta, essendo al tempo stesso da lui esclusa come obbligazione da contratto (Gai.3,91), risulta priva di un posto nella classificazione. 2 Un esempio lo vedremo più avanti, in Gai.4,75. Nelle fonti tarde maleficium tende a soppiantare delictum come termine tecnico: Res. cott. D.44,7,1 pr.; D.44,7,4; I.3,13,2; I.4,1 pr. (ma nelle Institutiones giustinianee la rubrica del titolo ha ex delicto).
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daad”, dove “daad” corrisponde al tedesco “Tat”, e cioè propriamente al latino ‘factum’, ma nel senso di “fatto dell’uomo”, e quindi “atto” 3. Anche il CC spagnolo adotta la nozione di atto, ma nell’espressione “actos y omisiones ilicitos” (art. 1088; cfr. art.1902), dove evidentemente con “acto” si allude solo al contegno positivo; ma nella rubrica del capitulo che precede il cit. art. 1902 la nozione di atto illecito è – in modo per lo meno curioso – ricondotta a quella delle “obligaciones que nacen de culpa o negligencia”. L’ABGB austriaco adotta una sistematica ed una terminologia tutte particolari: come “fondamento (= fonte) delle obbligazioni” (Grund der persönlichen Sachenrechte: § 859) si indica, accanto alla legge e al negozio giuridico (Gesetz e Rechtsgeschäft, nel testo attualmente in vigore, modificato con le Teilnovellen del 1914-1916: il testo originale menzionava a questo punto la legge e il contratto), il “danneggiamento sofferto” (eine erlittene Beschädigung), nozione che corrisponde tanto al danno proveniente da inadempimento contrattuale quanto a quello da fatto illecito (vedi il § 1295.1; a chiarimento anche il § 1294), costruzione che non manca di un suo specifico valore dommatico 4. B) FATTO ILLECITO: Come si sa, è il caso del CCit[1942]: rubrica dell’art. 1043 e del titolo che lo contiene. Si deve però notare che la scelta della denominazione “fatto illecito” invece di quella “atto illecito” va unicamente ricondotta alla propensione dei redattori di quel codice a riservare il termine “atto” al negozio giuridico (anche se non mancano le eccezioni: vedi in particolare l’art. 833: atti d’emulazione).
Il termine delictum alludeva, nel linguaggio dei giuristi romani, ai delitti privati, cioè perseguibili mediante azione privata; così esso si contrappone al termine crimen, proprio dei reati, cioè dei delitti perseguiti con azione penale pubblica. La terminologia 5 non è del tutto rigorosa. Per quel che ora ci interessa possiamo notare che nelle Istituzioni di Gaio tre volte il furto viene detto crimen 6. Invece lo stesso Gaio contrappone altrove (Gai.3,213), parlando della lex Aquilia, crimen come delitto pubblico al privato: Cuius autem servus occisus est, is liberum arbitrium habet vel capitali crimine reum facere eum qui occiderit, vel hac lege damnum persequi 7. Nel Digesto, se
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Si tenga presente che in tedesco esiste anche il termine “Akt”, che corrisponde a “Handlung” (usato nel senso, che abbiamo visto sopra, di menschliche Handlung = comportamento umano), e questo senso il vocabolo mantiene anche nella forma “Rechtsakt”, che di per se stessa precisa solo trattarsi di un comportamento giuridicamente rilevante; tuttavia “Rechtsakt” viene impiegato anche nel senso di atto negoziale, e cioè negozio giuridico (Rechtsgeschäft). 4 Come ho da ultimo sottolineato nel mio contributo (il capitolo Sulle fonti delle obbligazioni, p. 29 ss.) a VISINTINI, Trattato della responsabilità contrattuale I: Inadempimento e rimedi, Padova 2009, 70 s. (= Scritti III, 259 s.). 5 Sui due termini si veda quanto scriveva il MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899 (repr. Graz 1955), 9 ss. (crimen); 11 s. (delictum). 6 Gai.3,197 (furti crimen) e 208, dove, sempre parlando del furto, si dice obligari eo crimine: e si noti che subito dopo, nel § 209, in tema di rapina, presentandola come un furto aggravato in quanto il rapinatore ‘improbum furem esse’ (“è un ladro scellerato”), l’autore informa che propriam actionem eius delicti nomine praetor introduxit (“il pretore introdusse un’azione speciale per tale delictum”). Il terzo luogo è Gai.4,178 (furti crimen). 7 “Colui il cui schiavo è stato ucciso può scegliere liberamente di accusare l’uccisore di reato
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non vedo male, crimen non è mai usato per delitti privati, tranne che (in modo per altro non chiarissimo) in res cott. D.44,7,1,5 alla fine, in una frase che comunque è certamente spuria 8. Io credo che la cosa debba spiegarsi nel modo seguente 9. Il punto di partenza deve essere la constatazione che se, dal punto di vista della sostanza, la contrapposizione fra il reato (come delitto pubblico, sanzionato mediante processo penale pubblico) e il delitto privato, sanzionato mediante processo privato, è netta, la terminologia relativa si avvale di vocaboli che non solo non sono costruiti l’uno come contrapposto dell’altro, ma neppure hanno tra loro alcun rapporto, né nell’etimo né nel significato: a) Il modello greco di crimen è kr‹ma, connesso con kr…nein (separare, distinguere, scegliere, giudicare) come crimen con cernere. Crimen è costruito sulla base di cernere come semen sulla base di serere: come il semen (= seme), dunque, è “un oggetto da serere (= da seminare)” il crimen è qualcosa da giudicare, cioè che deve essere fatto oggetto di un processo. b) Delictum è invece il participio passato neutro – sostantivato – di delinquo (de-linquo = far difetto, mancare), e quindi esprime l’idea di una mancanza, di un errore. Assai chiaro in proposito è Fest. delinquere (L.64,17) 10: Delinquere est praetermittere, quod non oportet praeteriri; hinc deliquia et delicta. Riassumendo quanto ci suggerisce l’insieme di questi rilievi e riconducendolo alla prospettiva giuridica che ci interessa: come si vede e già avevo avvertito sopra, crimen e delictum corrispondono a due modi diversi di considerare l’illecito; tuttavia, se si vogliono contrapporre i segni linguistici che ne derivano, si scorge che caratteristica in crimen è l’idea che un certo fatto può essere qualificato così perché esso deve assolutamente esser fatto oggetto di un processo; invece il delictum è una mancanza riprovevole, sicché anche il diritto può considerarla tale 11, ma il termine in se stesso non dice poi nulla di più.
Un delitto privato risulta, come dicevo, perseguibile con azione privata. Ciò comporta diverse conseguenze di notevole rilevanza pratica. In particolare: la legittimazione attiva all’azione spetta naturalmente al soggetto che dal delitto è stato leso; dipenderà dunque da costui la decisione stessa circa l’esercizio dell’azione e, se egli intenda esercitarla, saranno a suo carico tutte le attività necessarie a che l’esperimento sia possibile ed abbia esito positivo – individuazione (crimen) capitale ovvero di chiedere il risarcimento del danno in base a questa legge”. Sull’alternativa vedi MOMMSEN, Römisches Strafrecht cit., 616 con la n. 3, nonché SANTALUCIA, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, Milano 1998, 261 con la n. 278 (Ulp. Coll.1,3,2; Gai. 3,213; Ulp. D.9,2,23,9; D.47,10,7,1; Marcian. D.48,8,1,2). 8 Vedi Ind. itp., 350 (relativamente al tratto “magnam-fin” di D.44,7,1,5). 9 In questo tentativo di chiarimento mi valgo degli spunti offerti da quanto scrisse, nel luogo citato, il MOMMSEN, oltre che di quanto si legge nelle voci crimen (cerno) e delictum (delinquo) dei lessici. 10 Vedi ERNOUT-MEILLET, s. v. linquo. Traduzione del passo di Festo: “Delinquere è tralasciare (trascurare, omettere) quel che non deve essere tralasciato (trascurato, omesso), donde (prendono nome) deliquia e delicta”. Deliquium (plurale deliquia) significa “mancanza, assenza”; vedi Fest. deliquium solis (L.64,15): Deliquium solis a delinquendo dictum, quod delinquat in cursu suo. Cioè: “L’eclissi di sole prende nome da delinquere, perché (esso) viene a mancare nel suo corso”. 11 L’impiego di delictum risulta naturale anche per fatti considerati mancanze magari gravissime e duramente sanzionate, ma senza che qualifica né sanzione siano necessariamente rapportate o rapportabili a valori giuridici o procedimenti giudiziari. Ad esempio: Cic., p. Mur.29,61; Cic., p. Marcell.6,18; Caes., Gall.7,4.
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dell’autore del delitto, se ignoto, raccolta delle prove sui fatti e sulla colpevolezza del convenuto nonché sull’entità della lesione prodotta dal comportamento delittuoso –; ed infine, la sentenza con la quale il processo verrà concluso, se di condanna del convenuto, sarà sempre pecuniaria e verrà pronunziata a favore dell’attore. Ma, d’altra parte, ciò non toglie che i delicta privati e i crimina pubblici rappresentino pur sempre, se si osserva il fenomeno dal punto di vista della politica del diritto, due strumenti per la soluzione dello stesso problema politico, che è quello della repressione della delinquenza, sicché anche dal punto di vista strettamente giuridico essi presentino certi principî comuni o assumano strutture che rivelano – più o meno chiaramente, e la chiarezza varia talora d’intensità nel corso della storia – la complementarietà dell’uno rispetto all’altro. Questa tematica è troppo complessa per essere trattata esaurientemente in questa sede 12, sicché mi limito ad illustrarla con una serie di esempî. Possiamo partire dalla constatazione che per i giuristi romani la sanzione, tanto dei reati (crimina) quanto degli atti illeciti di diritto privato (delicta), ha sempre natura di pena (poena): si tratta dunque di una sanzione che riveste carattere punitivo 13. Questo carattere della pena comporta che essa non può essere comminata se non da una legge, e che la previsione legislativa non può essere applicata per analogia; va detto però che in materia di delitti privati il pretore derogò alquanto in questa materia, usandovi gli strumenti giurisdizionali di cui disponeva per completare o correggere il ius civile, e il suo intervento giunse alla creazione di nuove figure delittuose, introducendo azioni penali – tutte azioni pretorie in questo caso, ed espressamente previste nell’editto – a sanzione di fattispecie che non erano affatto previste come delitti dal diritto civile. Constateremo tutto ciò parlando, a suo luogo, del furto, dell’iniuria e del danneggiamento aquiliano, ma preferisco, a titolo di chiarimento, anticiparne subito qualche esempio: Gai.3,192 (determinazione pretoria dell’ammontare della pena per il furtum prohibitum, nel silenzio della legge); Gai.4,37 (concessione analogica dell’actio furti, che aveva fondamento legale solo fra cittadini romani, a e contro un peregrinus, operata mediante l’inserzione nella formula di una fictio, cioè ordinando al giudice di giudicare come se lo straniero fosse cittadino romano); Gai.3,219 (concessione di actiones utiles, probabilmente da interpretarsi come azioni in factum, in analogia con le previsioni della lex Aquilia: secondo la giurisprudenza, tale legge poteva applicarsi solo ai casi nei quali il danneggiamento fosse stato causato da un comportamento fisico diretto del colpevole; le azioni pretorie venivano concesse in casi nei quali tale nesso causale diretto mancasse); Gai.3,233-234 (riforma integrale del sistema di sanzione penale del delitto di iniuria rispetto al regime
12 Ricordo ancora qui (vedi già nel vol. II,1 di questo Corso, p. 12 con la n.4) quel modello di discorso sui problemi generali del diritto delle obbligazioni che, anche se sintetico, è tanto ricco da meritare ancora un’attenta rilettura anche se risale ormai a più di un secolo e mezzo fa. Parlo, naturalmente della trattazione generale contenuta in SAVIGNY, Das Obligationenrecht. 13 Il vocabolo poena, proveniente dal greco poin» (dorico poin£) e non direttamente connesso con il verbo punire, ha quello del “castigo” come significato originario: il suo impiego giuridico era già presente nelle dodici tavole (tab.8,4 FIRA; 1,15 RS). Solo nel I sec. a. C., a quanto pare, assunse anche il senso di “sofferenza, dolore”. Vedi ERNOUT-MEILLET, 518 (s. v. poena).
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delle dodici tavole, realizzata mediante l’introduzione di una nuova azione generale – civile! –); Gai.4,46 (azione penale in factum prevista nell’editto pretorio a favore del patrono, contro il liberto che lo abbia chiamato in giudizio in violazione delle prescrizioni edittali stesse). Altro principio fermo nel diritto civile è quello del carattere personale della responsabilità penale. Come vedremo fra poco, a tale principio si conforma la disciplina dei delitti con la regola secondo la quale l’azione penale non solo non è esperibile se non contro l’autore del fatto delittuoso, ma la relativa legittimazione passiva non si trasmette ai suoi eredi. Una conseguenza della natura di pena della sanzione di crimina e delicta lascia tracce chiare nei diritti moderni. Si tratta di questo. In un processo penale l’accusatore, cioè chi sostiene che ad un soggetto – processualmente, il convenuto – va applicata la pena, deve provare tutti i fatti che consentono di giungere a tale esito (è quel che attualmente chiamiamo presunzione d’innocenza del prevenuto), ed in particolare egli ha l’onere di provare non solo che il fatto delittuoso è stato commesso e il convenuto ne è l’autore, ma anche che le conseguenze lesive della sua condotta gli sono imputabili alla stregua del criterio soggettivo di volta in volta richiesto (dolo o colpa): pertanto, in un’azione penale privata, la prova della colpevolezza del convenuto è onere dell’attore, mentre in un’azione reipersecutoria, come un’azione contrattuale, è il convenuto gravato della relativa prova liberatoria. Due osservazioni sono ancora, in proposito, necessarie ed una terza sarà forse utile. La prima (I), più rilevante, giunge a relativizzare in qualche misura una delle stesse premesse del discorso che qui abbiamo svolto; la seconda (II) vi introduce semplicemente una ben circoscritta eccezione: I) Il carattere esclusivamente punitivo della pena per i delicta privati subì una decisiva attenuazione per effetto della promulgazione della lex Aquilia – perché la pena, prevista da questa legge per il danneggiamento, ha anche una chiara funzione risarcitoria – e poi ancora per effetto dell’introduzione nell’editto pretorio dell’actio iniuriarum (aestimatoria) 14. II) Quanto sopra affermavo, che la legittimazione attiva alle azioni penali private spetta naturalmente al soggetto leso dal delictum commesso, conosce un’eccezione nella presenza delle azioni penali dette azioni popolari (actiones populares): si tratta di azioni che possono essere esperite da chiunque, sebbene in caso di esercizio da parte di più persone, il pretore dia seguito alla domanda del soggetto che vi abbia specifico interesse 15. I casi più noti sono quelli delle azioni per la violazione di un sepolcro (actio de sepulchro violato) 16 e dell’azione data contro colui che abitasse in un appartamento per i danni prodotti da cose gettate o cadute da tale appartamento in un luogo (pubblico o privato) adiacente dove vi fosse passaggio o sosta (actio de deiectis et effusis) 17. Entrambe queste azioni erano pretorie, ma se dobbiamo ritenere fosse popularis anche l’azione introdotta dalla lex Laetoria contro chi avesse raggirato un
14 Mi limito per ora a rinviare a quanto della pena aquiliana scrivevo in CANNATA, Sul problema, 8 ss. (con, in particolare, la n. 44). 15 Paul. D.47,23,2; Ulp. D.47,23,3 pr.-1. Su queste azioni si veda sempre il fondamentale libro del CASAVOLA, Studi sulle azioni popolari romane. Le actiones populares, Napoli 1958. 16 D.47,12,3 pr. L’azione (CASAVOLA, Studi cit., 23 ss.) era data a quicumque agere volet solo in via sussidiaria (vedi anche Iul. D.47,12,6; CASAVOLA, Studi cit., 35 ss.), cioè se un soggetto interessato (ad quem rem pertineat) non esistesse, ovvero esistesse ma non volesse agire (si nemo erit, ad quem res pertineat, sive agere nolet). 17 Ulp. D.9,3,1 pr. e § 2. CASAVOLA, Studi cit., 149 ss.
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minore di 25 anni 18, avremmo un esempio di azione popolare appartenente al ius civile. III) Dicendo sopra che la pena, irrogata dal giudice al reo in un processo ex delicto è sempre pecuniaria, mi riferivo alle azioni penali della procedura formulare; nell’antico sistema delle legis actiones abbiamo, a suo luogo 19, visto che ancora nella legge delle dodici tavole erano previste ipotesi nelle quali potevano applicarsi pene corporali o comunque non pecuniarie. Tutto ciò resterà estraneo alla procedura formulare, nella quale il caso della verberatio 20 dello schiavo che abbia commesso iniuria non rappresenta neppure un’eccezione, perché non si tratta di una pena a carico del convenuto. L’ipotesi è la seguente: lo schiavo di NN ha – per esempio – dato uno schiaffo ad AA; costui potrà esercitare l’actio iniuriarum contro NN come azione nossale; il convenuto con un’azione nossale – lo vedremo tra breve – aveva la possibilità di sottrarsi alla condanna dando a nossa il proprio schiavo autore del delitto; ma se l’azione esperita era l’actio iniuriarum il convenuto aveva una possibilità in più per liberarsi senza pagare la pena né perdere la proprietà dello schiavo colpevole 21: egli poteva infatti servum verberandum exhibere, vale a dire offrire all’attore la possibilità di soddisfarsi effettuando la verberatio dello schiavo; se l’attore avesse accettato questa soluzione, il giudice avrebbe provveduto ad indicare i limiti entro i quali l’esecuzione avrebbe potuto aver luogo (modum verberum imponat); se l’attore avesse accettato la soluzione della verberatio, eseguendola avrebbe perso ogni ulteriore pretesa relativa ai fatti in questione (iniuriam suam remisit).
Dicendo che nell’ordinamento romano l’insieme dei crimina e dei delicta rappresenta, dal punto di vista politico, la soluzione di un unico problema, viene spontaneamente da chiedersi perché mai, e da epoca alquanto antica, tale insieme si sia articolato in due settori distinti, ed in particolare perché ciò sia avvenuto attribuendo l’uno di tali settori al diritto privato: la repressione della delinquenza riveste infatti tutta, senza alcun dubbio, un interesse pubblico di grande rilevanza. Continuiamo a considerare tutto l’insieme dei fatti illeciti penali, cioè i comportamenti che la coscienza comune ritiene opportuno sanzionare con una pena (pubblica o privata che sia) 22. Tra questi fatti, accanto a fattispecie la lesione prodotta dalle quali offende soprattutto la comunità politica nel suo insieme o l’ordinamento giuridico (se vogliamo: lo Stato) come tale – è il caso, ad esempio, delle figure romane della proditio (alto tradimento), della perduellio (atten-
18 Di quest’azione sappiamo invero assai poco, perché le fonti classiche si occupano ormai solo dei più economici ed efficaci rimedi che il pretore introdusse interpretando lo spirito delle vecchia legge, che fu promulgata all’inizio del II sec. a. C. Vedi vol. I, p.69 ss. 19 Nel cap. V § 2.2 (Residui di un’epoca primitiva) del vol. II,1, alla p. 56 (ultimo capoverso) ss. 20 Il termine verberare significa “picchiare (qualcuno) facendogli male” (cfr. Ulp. D.47,10,5,1: … verberare est cum dolore caedere …): la verberatio è quindi una bastonatura o una flagellazione. 21 Ulp. D.47,10,17,4-6. L’azione nossale di iniuria era una creazione pretoria: Gai.4,7. 22 E senza dare per ora rilevanza al fatto che essi producano o no altre conseguenze giuridiche: è chiaro, ad esempio, che un ladro dovrà anche restituire il mal tolto, e per questo saranno esperibili contro di lui anche le opportune azioni reipersecutorie, come la condictio ex causa furtiva.
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tato alle istituzioni repubblicane o cattivo uso dei poteri pubblici) 23 e dell’omicidio –, altre ve ne sono le quali, pur se considerate come fenomeno sociale sono lesive per tutta la civitas o la res publica, se osservate nel singolo concretarsi in un caso particolare producono una lesione risentita in primo luogo come relativa ad un interesse privato, com’è il caso del già menzionato furto. Queste considerazioni sono sufficienti per suggerire, per questi ultimi delitti, lo stralcio, per così dire, dal coacervo delle figure affidate alla sanzione pubblica, affidandole ad un processo penale privato, opportunamente costruito. Le considerazioni che seguono riguardano dunque la contrapposizione fra reati (crimina pubblici) e fatti illeciti di diritto privato (delicta). La prima considerazione riguarda l’iniziativa alla promozione della procedura sanzionatoria. Si tenga presente che – secondo la concezione romana originaria – nel caso venga commesso un delitto che in se stesso concreta anzitutto la lesione di un interesse privato, il privato leso è il solo soggetto appropriato per stabilire se il colpevole meriti veramente di essere processato e punito ovvero se, in concreto, non ne valga la pena 24. È lo stesso interesse pubblico che qui è condizionato da quello privato: perché lo Stato dovrebbe preoccuparsi di usare la costosa macchina della giustizia se il fatto in questione non è stato sufficientemente risentito come lesivo dal soggetto che ne risulta toccato? E con quale profitto pubblico lo Stato provvederebbe a giudicare un aggressore, se l’aggredito preferisce semplicemente che tutto venga dimenticato? Il solo interesse pubblico coinciderebbe alla fin fine con lo scopo di evitare l’impiego della vendetta privata, ma in un ordinamento sufficientemente maturo, che possiede mezzi per sanzionare efficacemente la ragion fattasi quando esistono strumenti giudiziari che possono tutelare quella stessa ragione, una simile preoccupazione perde consistenza. Lasciare dunque alla parte interessata l’iniziativa alla sanzione dei delitti che ledono in modo più immediato un interesse privato significa attribuire a tale parte interessata un’azione – cioè il diritto di far valere le proprie ragioni facendo muovere gli organi pubblici 25 – e togliere invece la possibilità di promuovere il processo a coloro che – magistrati o privati che siano 26 – hanno il dovere o la possibilità di agire solo pensando all’interesse pubblico 27. Nella scelta di affidare alla parte lesa la persecuzione e la sanzione dei delitti di prevalente interesse privato gioca anche un calcolo economico. Se l’accusatore si trasforma in attore di un processo privato, egli sarà così naturalmente gravato da tutti gli oneri che
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Sulla nozione di perduellio vedi SANTALUCIA, Diritto e processo cit., 19; 80 ss. È la stessa considerazione che, in tempi più recenti, ha condotto ad isolare una serie di reati come punibili solo a querela di parte. 25 Ricalco la definizione di actio che abbiamo in Cels. D.44,7,51 (= I.4,6 pr.). 26 Indico questa alternativa in quanto il processo penale pubblico può aver luogo tanto per iniziativa di un organo pubblico – com’era a Roma nel più antico processo inquisitorio davanti ai comizi: SANTALUCIA, Diritto e processo cit., 84 s. – quanto sulla base di un’accusa proposta e sostenuta da un qualunque cittadino, com’era nel più recente processo accusatorio delle quaestiones: SANTALUCIA, 165 ss. 27 E, se anche pensassero a propri interessi, questi, nel processo, non verrebbero comunque in considerazione e possono, quindi, di considerazione essere persino indegni. Vedi SANTALUCIA, Diritto e processo cit., 166. 24
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l’accusa comporta. Supponiamo 28 che a Tizio sia stato rubato un porcello: se egli intenda far punire il ladro, dovrà prima identificarlo e scovarlo, ma prima di chiamarlo in giudizio per esercitare contro di lui l’actio furti dovrà raccogliere le prove per sostenere la sua accusa; siccome la pena del furto era commisurata al valore della cosa rubata, Tizio dovrà anche provare che il porcello rubato aveva un certo valore, il che può essere problematico se il porcello non è più reperibile, perché magari il ladro se l’è già mangiato. Tutto ciò comporta attività e spese, che lo Stato risparmia interamente se il processo è privato, cioè concepito come un’azione che il derubato esercita nel proprio interesse e per far valere un proprio diritto. Se il nostro discorso si fermasse a questo punto, non avremmo ancora la risposta agli interrogativi che ci siamo posti, perchè il meccanismo che abbiamo descritto parrebbe non servire a nulla. Non servirebbe alla vittima del delitto, perché il processo, avendo lo scopo di punire il ladro, non riguarda i risarcimenti e le restituzioni alle quali il derubato ha interesse e diritto: per questi infatti egli possiede le opportune azioni reipersecutorie, in particolare la condictio ex causa furtiva per la restituzione del porcello rubatogli o del suo valore; il nostro Tizio, in sostanza, non avrebbe interesse ad agire con l’actio furti contro il ladro, il che gli toglierebbe del resto anche la possibilità di esercitare l’azione, perché – come sappiamo – l’esercizio di un’azione è accordata solo a chi vi abbia interesse. La riduzione a processo privato dello strumento giudiziario sanzionatorio dei delitti con prevalente interesse privato parrebbe dunque non soddisfare affatto l’interesse pubblico alla punizione degli autori di tali infrazioni. Ma la soluzione di quest’ultimo problema la conosciamo già: siccome il nostro Tizio, derubato del porcello, esercita una propria azione contro il presunto ladro, qualora questi venga condannato a pagare la somma di denaro corrispondente alla pena, verrà condannato a favore dell’attore. Lucrando la pena, senza con ciò perdere la possibilità di esercitare ulteriormente l’azione per il recupero delle cose sottrattegli col furto, egli viene ampiamente compensato del suo impegno e delle sue spese per il processo. Questo punto del discorso – è opportuno notarlo subito – vale così come l’ho fatto praticamente solo per il caso del furto, perché la relativa pena non aveva carattere risarcitorio ma solo punitivo, ed era alquanto consistente, in quanto si calcolava, a seconda dei casi come vedremo, in una somma tra il doppio e il quadruplo del valore della cosa rubata. Quanto alle azioni che portavano ad una condanna con carattere anche risarcitorio – come l’azione aquiliana e l’actio iniuriarum – l’esercizio dell’azione doveva, in linea di principio, esaurire tutte le pretese dell’attore relative ai fatti oggetto del processo, per cui il concorso di altre azioni – ad esempio quello fra actio ex lege Aquilia e actio ex locato – aveva carattere esclusivo: ma – come abbiamo già occasionalmente notato – potevano sussistere parziali eccezioni, come quello di poter esperire l’azione concorrente con quella già esperita per la differenza che l’azione concorrente avrebbe potuto procurare. Tutto ciò dava luogo ad una casistica, di cui vedremo qua o là – specie nel prossimo volume – degli esempi.
Con un’azione ex delicto, dunque, il soggetto leso dal comportamento delittuoso fa valere il suo diritto soggettivo ad ottenere dall’autore di tale comportamento la somma di denaro corrispondente alla pena prevista per la commis28
Si tenga conto del fatto che nel processo romano – almeno nel processo formulare - era assente la nozione del gravame delle spese processuali a carico di una parte (che fosse l’attore o la parte soccombente). Vi erano bensì sanzioni processuali, ma queste venivano pagate da una parte all’altra.
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sione del delitto in questione. Queste azioni 29 – che identifichiamo abitualmente come azioni penali (actiones poenales) 30, in contrapposto alle azioni reipersecutorie (actiones reipersecutoriae) – sono appunto quelle con le quali poenam persequimur 31, “perseguiamo una pena”, cioè quelle che esercitiamo facendo valere la nostra pretesa a che l’autore di un delitto (delictum) paghi a noi la pena alla quale egli soggiace in conseguenza del delitto commesso. L’idea sostanziale, che soggiace a questa impostazione processuale, viene identificata da Gaio nella nozione di obbligazione da delitto 32: il fatto della commissione di un delitto obbliga il suo autore a pagare al soggetto che dal delitto risulta leso una somma pari all’ammontare della pena che l’ordinamento giuridico prevede come sua punizione. Ai tempi di Gaio questa costruzione dommatica era ormai da lunga pezza consolidata e pacifica: ma essa non è affatto ovvia, e neppure è antica quanto l’idea del delitto privato. Ci sono buone ragioni per ritenere che essa sia stata introdotta dalla legge aquilia che disciplinò il danneggiamento di cose altrui, e quindi intorno al 200 a. C. Come abbiamo potuto stabilire 33, la nozione di obbligazione fu introdotta dalla giurisprudenza pontificale non molto prima della promulgazione della legge delle dodici tavole, insieme alla creazione della sponsio e dell’azione – la legis actio per iudicis postulationem – che la sanzionava. Con l’introduzione della legis actio per condictionem, che possiamo collocare nel III secolo a. C., altre fonti d’obbligazione furono individuate, in modo che se ne poté formulare una divisio nei tre genera delle obbligazioni che si formano verbis, re e litteris 34; si trattava sempre di obbligazioni da inadempimento. Questa operazione giurisprudenziale di interpretazione della condictio (legis actio per condictionem e successiva condictio formulare) rivela, col fatto che l’azione non fu ritenuta applicabile al legatum per damnationem, che quest’ultima figura non era considerata ancora, a quel tempo, fonte di un’obbligazione, ma solo produttiva di una soggezione, sanzionata com’era con la manus iniectio. Nella lex Aquilia la sanzione, concepita senza dubbio come una pena, viene disposta con l’espressione damnas esto dare, che è la stessa con la quale si disponeva il legatum per damnationem, ma il danneggiato, ai sensi della legge aquilia, non aveva certamente la manus iniectio contro il danneggiante, ma un’azione formulare di cognizione. Ciò permette di dedurne che nel frattempo il legatum per damnationem era stato considerato fonte d’obbligazione, e l’actio ex testamento che ormai lo sanzionava era considerata fondata in un’obbligazione, e che la lex Aquilia, usando la stessa locuzione per esprimere la soggezione di un soggetto alla pena che prevede29 In relazione a quanto segue (e in particolare sulle azioni con le quali rem et poenam persequimur) si riveda anche quanto è scritto a proposito di Gai.4,6-9 nel cap. I § 2 di questo volume, sub [C], nella parte composta in caratteri piccoli, a partire dal luogo dove è riportato il testo ora cit. 30 Ad esempio Gai.4,112. 31 Gai.4,6 e 8. 32 Gai.3,88; 3,182. 33 Vol. II,1 p. 61 ss. 34 Vedi sopra, nel cap. II § 1, a partire dal contesto della n. 72.
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va, considerava tale soggetto come gravato dall’obbligazione di pagare la pena al danneggiato. Questa costruzione dommatica, che l’ideatore della lex Aquilia inserì nel suo testo, era perfettamente coerente con la sostanza della legge, perché la pena aquiliana ha una funzione squisitamente risarcitoria, anche se singolarmente combinata col suo carattere punitivo. Ma con ciò si era creata l’idea che una pena può ben essere dovuta, e non soltanto sopportata come castigo: un’idea assai feconda, che permetteva di costruire in termini squisitamente privatistici una realtà già esistente, ma giustificata solo sul piano processuale. La realtà di cui parlo è quella delle azioni da delitto, già esistenti nel sistema delle legis actiones con la legis actio sacramento in personam, ma difficile da giustificare in termini di dommatica sostanziale: sul piano processuale il diritto positivo può ben stabilire che la sentenza, la quale conclude un processo con una condanna ad una pena pecuniaria, disponga anche che la relativa somma sia pagata all’attore, ma l’analisi concettuale della corrispondente sostanza può difficilmente giustificare il fatto che la multa irrogata ad un soggetto che ha turbato l’ordine della civitas paghi il suo scotto ad un privato invece che all’erario della res publica. La nozione di obbligazione da delitto permette invece di costruire la situazione nel senso che la sanzione che lo Stato infligge a certi delinquenti non è una multa, perché non consiste nella somma di denaro prevista, ma nell’obbligazione a pagarla. Se il reo fosse punito con una multa di 100 HS, dovrebbe pagare 100 HS all’erario, se invece è punito con l’obbligazione di dare 100 HS a Tizio, la sentenza che lo condanna avrà semplicemente accertato che tale obbligazione esiste e che dunque egli deve pagare 100 HS a Tizio.
Le azioni penali private sono dunque le strutture processuali adatte a tutelare la pretesa or ora descritta: pretesa nascente da un delitto altrui, e che a partire dal II secolo a. C. venne costruita come pretesa connessa con un’obbligazione da delitto della controparte. L’individuazione del genus di queste azioni, con le quali ‘poenam persequimur’ (azioni penali), contrapposto al genus delle azioni con le quali ‘rem persequimur’ (azioni reipersecutorie), non può essere più antica dell’epoca dei fundatores, e quindi è stata elaborata dalla giurisprudenza con riferimento alla procedura formulare. Nell’elaborarla, i giuristi individuarono alcune regole, o principî caratteristici delle azioni che del genus fanno parte. Si tratta, dunque, di caratteri delle azioni, e quindi le regole che vi corrispondono sono regole processuali: ma, come vedremo enumerandoli, essi dipendono dalla struttura del rapporto sostanziale che mediante l’azione penale viene dedotto in giudizio. A) In materia di delitti avviene spesso in pratica che il fatto illecito sia stato commesso con il concorso di due o più persone: correi o complici, come si usa dire. Il carattere punitivo della pena impone, in questi casi, che la sanzione sia applicata per intero a ciascuno dei complici 35. Ne consegue che il soggetto che
35 Una bella disquisizione di Giuliano in proposito: Iul. D.9,2,51,2: CANNATA, Qualche considerazione sull’ambiente della giurisprudenza romana al tempo delle due scuole, in Cunabula iuris (studi Broggini), Milano 2002, 68.
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possiede la legittimazione attiva all’azione penale ha il diritto di esperirla per l’intero della pena contro ciascuno dei complici. Nella formula dell’actio furti 36 l’intentio stessa prevedeva la possibilità dell’esercizio dell’azione contro diversi soggetti. Essa era infatti concepita nei termini seguenti 37: ‘Si paret Aulo Agerio a Numerio Negidio opeve consilio Numerii Negidii furtum factum esse paterae aureae, quam ob rem Numerium Negidium pro fure damnum decidere oportet, …’, e cioè: “Se risulta che ad Aulo Agerio da Numerio Negidio ovvero con l’attività o per istigazione di Numerio Negidio è stato effettuato il furto di una patera 38 d’oro, per la qual cosa Numerio Negidio deve comporre il danno come ladro, … 39 ”. Come si sarà notato, il fatto (delitto) che viene indicato come fonte dell’obbligazione dedotta in giudizio 40, viene descritto come un furtum fatto da Numerio Negidio, ovvero ope consilio di lui. Ope è l’ablativo di un termine 41 che qui viene impiegato nel senso di “aiuto, assistenza”; consilio è l’ablativo di consilium, che esprime l’idea di “decisione, piano, progetto, consiglio, istigazione”. Possiamo dunque dire che l’intentio formulare che stiamo leggendo prevede che il convenuto dell’azione di cui si tratta debba essere condannato se risulti provata una di queste tre ipotesi: i) il furto è stato fatto da lui (si paret a NN furtum factum esse), cioè NN ha operato, nel farlo, da solo; ii) il furto è stato comunque eseguito da lui, anche se in quest’attività egli operava con altri, ovvero se il furto è stato progettato o preparato da lui ma eseguito da altri (si paret ope NiNi furtum factum esse); iii) il furto è stato eseguito da altri che hanno operato in base a sue indicazioni o su sua istigazione (si paret consilio NiNi
36 L’azione, alla quale si riferiscono gli elementi che permettono la ricostruzione che presento di seguito, era precisamente l’actio furti nec manifesti (azione per il caso di furto non flagrante), che le dodici tavole prevedevano (tab.8,16 FIRA 1,21 RS II, 618 s.) con la sanzione del duplum (Gai.3,190; Gell.11,19,15). 37 La base della ricostruzione è in Gai.4,37, ma vedi LENEL, EP,328. 38 La patera (il vocabolo latino ha la e breve, e quindi dal corrispondente italiano differisce solo per la posizione dell’accento tonico) era un vaso o coppa sacrificale (anche oggi la s’impiega come oggetto liturgico), aperto e alquanto appiattito, specialmente al bordo: serviva per spandere il vino sull’altare e sulla testa della vittima. ERNOUT-MEILLET, s. v. (p. 488). 39 La mia traduzione di damnum decidere oportet è approssimativa. L’indicazione del contenuto dell’obbligazione del convenuto è fatta con riferimento alla norma delle dodici tavole (tab.8,16), che doveva esprimersi con parole del tipo duplione damnum decidito. Come già si è visto (vol. II,1 p. 54 s.), l’espressione decenvirale damnum decidere era tecnica per indicare l’esecuzione di una pena il cui ammontare doveva essere calcolato nella misura di un multiplo (qui duplione: il doppio) del valore di qualcosa (qui della cosa rubata). 40 Spiego in questo modo, tenendo conto del fatto che colui che compose la formula dell’azione formulare per il furtum nec manifestum considerava ormai tutto il problema in termini di obbligazione: il furto risulta così essere la fonte di un’obbligazione, il cui oggetto è il ‘pro fure damnum decidere’ che significa in sostanza “pagare la pena prevista dalla legge delle dodici tavole per questo fatto”, e viene espresso con i termini della legge – che dovevano essere gli stessi impiegati nel formulario orale della legis actio sacramento in personam quando venisse esercitata sulla base di tab.8,16 (Gai.4,11) –, i quali, come sappiamo, non potevano affatto essere stati concepiti come relativi ad un rapporto obbligatorio. 41 Il termine è ops (genitivo opis: il nominativo non è attestato): vedi ERNOUT-MEILLET, s. v. *ops, p. 463 s. Il senso parte da quelli di “abbondanza, ricchezza, forza”, per giungere a quello, rimasto come l’accezione principale del termine nella lingua aurea, di “aiuto”, che qui ci interessa.
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furtum factum esse). E dal tenore dell’intentio si apprende pure che, se sia provata una qualunque delle tre ipotesi, il convenuto NN deve essere considerato fur (ladro) e come tale gli si applicherà la pena prevista dalla legge per il ladro: con la conseguenza finale che veniva poi espressa nella condemnatio della formula, che certo era in questo senso 42: ‘quanti ea res fuit, cum furtum factum est, tantae pecuniae duplum iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato, si non paret absolvito’ (“stabilito il valore che la cosa aveva quando il furto fu commesso, al doppio di tale somma il giudice condanni Numerio Negidio a favore di Aulo Agerio; se non risulta lo assolva”). Ora, se supponiamo che il furto della patera d’oro sia stato progettato da un soggetto A che ne ha affidata l’esecuzione ai suoi complici B e C, vediamo subito che la vittima del furto potrà esperire l’azione basata sulla formula che abbiamo letto sia contro A, sia contro B, sia contro C, facendo condannare ciascuno dei tre al doppio del valore della patera.
Se osserviamo la situazione dal punto di vista della sostanza, ci rendiamo conto che, se un delitto sia stato commesso da una pluralità di persone, ciascuna di queste risulterà interamente gravata dalla relativa obbligazione: si tratta di una pluralità di obbligazioni, e non di un’obbligazione solidale, perché né l’esperimento dell’azione contro uno dei debitori estingue le azioni esistenti contro gli altri, né la transazione che uno dei correi faccia col derubato, anche se in tale contesto gli paghi una somma equivalente a quella alla quale potrebbe venir condannato, libera gli altri correi 43. B) Abbiamo già ricordato che il principio, secondo il quale la responsabilità penale è personale, si manifesta come carattere dell’azione penale, in quanto questa non può essere esercitata se non contro l’autore – o, come abbiamo visto sub A, gli autori – del delitto. Come esempio semplice dell’applicazione di questa regola possiamo citare un caso che riportava Alfeno, con un responso probabilmente dato dal suo maestro Servio 44. Il caso: X è proprietario di certe mule, che dà in locazione a Y, e nel contratto di locazione viene inserita una clausola che prevede un certo limite di peso per il carico che il conduttore può imporre alle mule; il conduttore Y le ha caricate oltre il limite, e gli animali ne sono risultati fiaccati. La domanda di X al giurista: che azione è possibile esperire contro Y? Il responso: X potrà esperire o l’azione ex lege Aquilia (azione penale) o l’azione ex locato (azione contrattuale, reipersecutoria), ma l’azione ex lege Aquilia potrà esercitarsi soltanto contro la persona che si occupava delle mule quando queste sono state caricate in eccesso e quindi fiaccate, mentre l’azione ex locato potrà essere esperita contro il conduttore Y, anche se fosse stato un altro a sovraccaricarle.
42 Per ricostruire la condemnatio di questa formula non abbiamo una traccia testuale specifica, ma vedi LENEL, EP, 328. 43 Mi sono espresso in questo modo un po’ tortuoso, perché non avrei potuto semplicemente dire che l’adempimento effettuato da uno dei correi non libera gli altri: come, infatti, vedremo a suo luogo, non è corretto applicare alle obbligazioni da delitto la nozione di adempimento. 44 Alf. Paul. D.19,2,30,2.
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Una conseguenza importante della regola che stiamo esaminando, è quella della intrasmissibilità passiva dell’azione penale: con la morte dell’autore del delitto l’azione cessa di essere esperibile, e quindi ai suoi eredi non si trasmette la relativa legittimazione passiva 45. Questa regola riguarda beninteso l’esercizio dell’azione. Qualora l’azione penale sia stata esercitata – cioè ne sia stata fatta la litis contestatio – contro il reo in vita di questi, la situazione rientra nel campo di applicazione della regola generale, secondo la quale qualunque azione, una volta che il rapporto processuale sia stato instaurato, non risente più dell’estinzione per prescrizione, o decadenza o per la morte di una parte 46. Forse non è inutile chiarire che, qualora l’azione penale sia stata esercitata contro l’autore del delitto, e questi muoia dopo la sentenza, l’actio iudicati che spetta all’attore vittorioso potrà essere senza problemi esperita contro gli eredi del reo: l’actio iudicati, infatti, da qualunque azione provenga il giudicato che essa è destinata a far valere, è un’azione reipersecutoria 47.
C) Senza con ciò derogare al principio del carattere personale della responsabilità penale, l’azione generata da un delitto commesso da un potestati subiectus venne assoggettata ad un regime particolare. Ma a questo tema è meglio dedicare un paragrafo particolare.
2. LE AZIONI NOSSALI. – Un problema, infatti, si poneva, e si poneva allo stesso modo, per i sottoposti liberi e gli schiavi. Come sappiamo 48, né le persone libere che si trovino sotto la potestà (patria potestas) del loro pater familias – cioè i filii familias di entrambi i sessi – né gli schiavi (servi, sempre di entrambi i sessi), i quali sono assoggettati alla potestà (potestas dominica) del loro proprietario (dominus), erano dotati di capacità giuridica. Se dunque un potestati subiectus commettesse un delitto a danno di un terzo estraneo alla famiglia alla quale apparteneva, non potendo egli risul45 Gai.4,112: … Est enim certissima iuris regula, ex maleficiis poenales actiones in heredem nec competere nec dari solere, veluti furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, damni iniuriae. … (cfr. I.4,12,1). Con nec competere nec dari solere (“né spettano, né si suole accordarle”) Gaio alludeva, con ogni probabilità, rispettivamente alle azioni civili (che spettano al loro titolare) e alle azioni pretorie (che non spettano, ma solo vengono “date” – cioè concesse, accordate – dal magistrato). Le azioni, che il pretore soleva accordare alla parte, lesa da un delitto, contro l’erede del reo nei limiti dell’arricchimento dell’erede stesso non erano azioni penali, ma reipersecutorie (vi si è alluso nel cap. II § 4.1, intorno alla n. 417). 46 Gai. D.50,17,139 pr.: Omnes actiones, quae morte aut tempore pereunt, semel inclusae iudicio salvae permanent. Cfr. Call. D.44,7,59. Con specifico riguardo alle azioni penali e alla morte del reo: Paul. D.50,17,164. 47 Ulp. D.42,1,6,3. 48 Sulle nozioni implicate in questo discorso si veda nel vol. I, p. 51 ss., in particolare il § 3 (p. 54 s.).
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tarne personalmente obbligato a causa del proprio difetto della capacità di obbligarsi 49, e non potendo risultarne obbligato neppure il suo pater o dominus – per il principio che l’atto di un potestati subiectus non può peggiorare la situazione del soggetto che ha potestà su di lui – il terzo leso dal delitto si sarebbe trovato privo di azione. La soluzione di questo problema viene descritta con molta chiarezza in un passo delle Istituzioni di Gaio: Gai.4,75: Ex maleficiis filiorum familias servorumque, veluti si furtum fecerint aut iniuriam commiserint, noxales actiones proditae sunt, uti liceret patri dominove aut litis aestimationem sufferre aut noxae dedere. Erat autem iniquum nequitiam eorum ultra ipsorum corpora parentibus dominisve damnosam esse. 76: Constitutae sunt autem noxales actiones aut legibus aut edicto praetoris: legibus, velut furti lege XII tabularum, damni iniuriae lege Aquilia; edicto praetoris, velut iniuriarum et vi bonorum raptorum. 77: Omnes autem noxales actiones caput secuntur. Nam si filius tuus servusve noxam commiserit, quamdiu in tua potestate est, tecum est actio; si in alterius potestatem pervenerit, cum illo incipit actio esse; si sui iuris coeperit esse, directa actio cum ipso est et noxae deditio extinguitur. Ex diverso quoque directa actio noxalis esse incipit. Nam si pater familias noxam commiserit, et is se in adrogationem tibi dederit aut servus tuus esse coeperit, quibusdam casibus accidere primo commentario tradidimus, incipit tecum noxalis actio esse quae ante directa fuit. 78: Sed si filius patri aut servus domino noxam commiserit, nulla actio nascitur; nulla enim omnino inter me et eum qui in potestate mea est obligatio nasci potest. 50 … 79: Cum autem filius familias ex noxali causa mancipio datur, diversae scholae auctores putant ter eum mancipio dari debere, quia lege XII tabularum cautum sit, 51 exeat, quam si ter fuerit mancipatus; Sabinus et Cassius ceterique nostrae scholae auctores sufficere unam mancipationem crediderunt, et illas tres legis XII tabularum ad voluntarias mancipationes pertinere.
49 Anche qui espongo i problemi impiegando la nozione di obbligazione, com’era l’impostazione della giurisprudenza degli ultimi due secoli della repubblica e dell’epoca classica: ma il sistema delle azioni nossali – di queste, come vedremo tosto, sto parlando – è assai antico. Gaio – questo pure lo vedremo subito – menziona le dodici tavole come punto d’inizio, ma certo la soluzione, almeno con riguardo al furto, era già presente nei mores precedenti. Inoltre: prescindo qui dall’evoluzione, che fu nel senso che i filiifamilias, in particolare se di sesso maschile, vennero nella storia del diritto romano acquistando vieppiù la capacità di obbligarsi personalmente. A questa evoluzione si farà riferimento solo verso la fine del presente paragrafo. 50 Tralascio il resto del § 78 perché tratta di un problema particolare, che qui non ha molta importanza. Abbiano già letto e considerato attentamente il testo nel vol. I p.377 ss., parlando del dogma della quiescenza dei rapporti giuridici. 51 L’integrazione è del Goeschen.
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La traduzione: “Dai delitti dei filii familias e degli schiavi, per esempio se avessero effettuato un furto o commesso iniuria, sono state costruite 52 le azioni nossali, in modo che al pater o dominus fosse possibile o sottomettersi alla litis aestimatio (= o affrontare lui stesso il processo e subire la condanna che il giudice gli infliggerà dopo aver valutato in denaro l’oggetto della lite) 53 o dare a nossa (il suo sottoposto colpevole). Era infatti (considerato) ingiusto che la loro nequizia potesse danneggiare i loro padri 54 o i loro padroni (domini) al di là (del valore) dei loro corpi 55. 76: Le azioni nossali sono state introdotte o da leggi o con l’editto del pretore: da leggi, come quella per il furto dalla legge delle dodici tavole e quella per il danneggiamento colpevole 56 dalla legge aquilia; con l’editto del pretore, come quella per l’iniuria e per la rapina. 77: Tutte le azioni nossali seguono la persona (dell’autore del delitto) 57. Infatti, se un tuo figlio o un tuo schiavo abbia commesso un delitto 58, finché egli sia sotto la tua potestas, l’azione sarà esercitata contro di te; se egli sia pervenuto in potestà di un altro, da quel momento l’azione sarà esercitata contro costui; se (il sottoposto) diventi sui iuris, l’azione verrà esercitata contro di lui personalmente come azione diretta e il carattere nossale vien meno 59. Anche, reciprocamente, un’azione diretta può diventare nossale. Infatti, se un pater familias abbia commesso un delitto
52 Non è chiaro che cosa volesse esattamente dire Gaio con ‘proditae sunt’. Il verbo prodo, prodere ha come significato fondamentale quello di “porre avanti” o “davanti”, e quindi presentare e offrire, consegnare, donde tradire o abbandonare, ma anche svelare e trasmettere. Suppongo che Gaio volesse dire qualcosa come “Dal problema dei delitti dei sottoposti sono venute fuori (= sono state avanzate) le azioni nossali”. 53 Sulla litis aestimatio vedi vol. I, p. 116 intorno alla n. 119 e, con riferimento alle azioni reali, p. 425 ss. (il § 4 con i suoi sottoparagrafi). 54 Il testo ha parentes, termine che allude non solo ai genitori, ma a tutti coloro ai quali può rapportarsi l’esistenza in vita di un soggetto: ciò perché l’azione nossale era data contro il pater familias del filius familias autore del delitto, e il pater familias poteva essere suo padre, ma anche il suo nonno paterno e magari oltre, se un ulteriore ascendente per linea maschile fosse ancora in vita. 55 Bisogna intendere che con ciò Gaio (al suo tempo) volesse dire: “al di là del valore che la presenza fisica del filius o dello schiavo presso di loro rappresentava rispettivamente per il parens o il dominus”. Dico questo riferendomi alla breve conclusione di tutto questo paragrafo, ove cito (nella n. 110) la mia ricerca Su alcuni problemi in materia di azioni nossali, e lo dico riferendomi all’ultimo paragrafo di tale articolo (nei miei Scritti III, p. 322). 56 Perché traduco con l’aggettivo “colpevole” l’ablativo iniuria sarà spiegato a suo luogo nel prossimo volume; per ora vedi comunque Gai.3,211. 57 Vedi anche Ulp. D.47,1,1,2; Ulp. D.47,2,41,2. 58 Il testo ha – e ancora più avanti nello stesso paragrafo e nel successivo § 78 – noxam committere, che qui significa semplicemente connettere un delitto; del termine noxa diremo comunque fra breve. 59 Ho tradotto ad sensum per chiarezza. Letteralmente sarebbe: “c’è un’azione diretta (che si esperisce) contro lui stesso e la (possibilità di fare la) noxae deditio vien meno”.
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e (poi) si sia dato a te in adrogatio 60 o sia diventato tuo schiavo – abbiamo informato nel primo libro che in certi casi ciò può accadere 61 – l’azione diretta che prima esisteva contro di te diventa nossale. 78: Ma se un filius abbia commesso il delitto contro il pater che lo ha in potestà o uno schiavo contro il suo dominus, non nasce alcuna azione: nessuna obbligazione può infatti nascere fra me e chi si trova sotto la mia potestà. … 79: Quando un filius familias viene mancipato (per esser dato a nossa), gli autori dell’altra scuola (= i giuristi della scuola proculiana) ritengono che egli debba essere mancipato tre volte, per la ragione che sarebbe disposto dalla legge delle dodici tavole 62 che un filius non esca altrimenti dalla potestas del padre; Sabino e Cassio, nonché gli altri autori della nostra scuola (i Cassiani) ritennero sufficiente una sola mancipatio, e che quelle tre della legge delle dodici tavole riguardassero le mancipazioni volontarie 63.” Come si sa, Gaio amava intagliare di tanto in tanto delle feritoie, che permettessero di far entrare nella sua costruzione sistematica qualche raggio storico. I primi due paragrafi del discorso sulle azioni nossali li pensò evidentemente in tale dimensione: nel § 75 egli presenta il problema come un problema antico, come prova l’insistere su verbi coniugati a tempi passati per la descrizione della soluzione (proditae sunt, uti liceret) e del motivo che la determinò (erat enim iniquum); il § 76 enumera le fonti che hanno introdotto le azioni nossali, e lo fa seguendo l’ordine storico: le dodici tavole, la lex Aquilia, l’editto del pretore. Certo Gaio conosceva bene, meglio di noi, le cose di cui parlava; ciò non
60 L’adrogatio era l’adozione di una persona sui iuris, che così diventava filius familias dell’arrogatore: Gai.1,99-107; Gai.3,83-84; vol. I p.62 s.; CANNATA, SG I, 20 ss.; KASER, RPR I, 66 s.; 347 s. 61 Ai tempi di Gaio i casi nei quali un uomo libero potesse diventare schiavo erano assai rari. Il luogo del rinvio che egli fa qui al primo libro delle Istituzioni può essere identificato con Gai.1,160, dove si menzionavano – parrebbe – tre casi. Il primo è quello della vendita pubblica dell’incensus (il cittadino che si sia dolosamente sottratto all’iscrizione nelle liste del censo; vol. I p.60); alla descrizione di questa ipotesi, segue nel manoscritto veronese una frase assai lacunosa, che secondo un’acuta integrazione del MOMMSEN (vedila in FIRA II, p. 40 nella nota al passo), diceva che la pratica prima descritta era ormai desueta, ed introduceva una seconda ipotesi, quella dei dediticii ex lege Aelia Sentia (schiavi di grave e provata turpitudine che siano stati manomessi: cfr. Gai.1,13; 25-26) se, in violazione della stessa legge, abbiano preso domicilio a Roma (vedi già Gai.1,27); la terza ipotesi è quella del senatoconsulto claudiano (la donna libera dalla nascita e cittadina romana o latina, che perseverasse in una relazione di tipo matrimoniale con uno schiavo altrui, diventava schiava del dominus che le avesse invano intimato di smetterla; vol. I p.60 con la n. 44). Un elenco compiuto delle ipotesi di perdita della libertà si trova in KASER, RPR I, 291 ss. (§ 68 III, sub 1. i casi più antichi non più in vigore nell’epoca classica, sub 2. quelli introdotti durante il principato); anche vol. I p. 59 (in fine) ss. Sulla prigionia di guerra vedi però Ulp. Pomp. D.47,2,41,3. 62 La norma in questione è quella di tab.4,2b FIRA (tab. 4,2 RS). 63 Cioè le mancipationes che venivano effettuate nel contesto della emancipatio, il negozio che aveva lo scopo di liberare un filius dalla patria potestas, rendendolo dunque sui iuris. Vedi vol. I, p. 63 s. e CANNATA, SG I, 126 ss. In proposito vedi anche vol. I p. 64 n. 57 (Gai.1,132).
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toglie che la sua esposizione sia ingannevole. Egli fa incominciar tutto con le dodici tavole, attribuendo però a queste la sola introduzione dell’actio furti nossale. Possiamo non obbiettargli il fatto che con ogni probabilità in materia i redattori della legge decenvirale non crearono, ma ripresero soluzioni consuetudinarie già prima definite ed elaborate dai pontefici – del resto, di questa maggiore antichità di tali istituti non abbiamo prove positive –; ma il fatto è che la norma decenvirale sull’azione nossale noi la conosciamo, ed essa non si riferiva soltanto al furto: Tab. 12,2: Si servus furtum faxit noxiamve noxit, . La posizione della norma in tab.12,2 è praticamente comune a tutti gli editori moderni. Per la ricostruzione si veda da ultimo RS II, 716 s. La prima parte della norma (Si servus-noxit) compare testualmente, come riportata da Giuliano, in Ulp. Cels. Iul. Marcell. D.9,4,2,1 (va solo sostituito con l’antica forma noxit il ‘nocuit’ del Digesto, come fa la generalità degli editori). Quanto alla seconda parte, dall’esposizione ad sensum che della norma faceva Celso secondo il cit. Ulp. D.9,4,2,1 (si servus sciente domino furtum fecit vel aliam noxam commisit, servi nomine actio est noxalis) si potrebbe dedurre che essa parlasse dell’azione (in questa direzione potrebbero interpretarsi anche Gai.4,75-76 e Pomp. D.44,7,56): è ben possibile pensare così, a patto però di ritenere che nelle dodici tavole le norme fossero due: una sulla noxae deditio e una sull’azione nossale, perché la presenza nelle dodici tavole di una norma che impone di dare a nossa è indubitabile per quanto scritto in Fest. noxia (L.180) e Fest. (Pauli exc.) noxia (L.181): … cum lex iubet noxae dedere. Scegliendo l’ipotesi dell’unica norma, e pensando dunque che nella legge delle dodici tavole l’azione nossale risultasse implicita nella norma sulla noxae deditio, nella ricostruzione della dizione legislativa corrispondente non mi sento di seguire quella di RS I, 717 (noxiae datus esto), per le ragioni seguenti: a) dai due passi citati di Festo (noxia L.180 e L.181) risulta certo che l’imperativo della norma era di dare ‘noxae’ e non ‘noxiae’; b) e dagli stessi passi risulta anche che per “dare” era impiegato il verbo ‘dedere’ e non il verbo ‘dare’ 64; c) del tutto inaccettabile è datus esto: un participio passato con l’imperativo (futuro, ma usato anche come presente per il difetto della forma corrispondente dell’imperativo presente) assume nel linguaggio normativo delle dodici tavole un significato riferito al passato, come è chiaro in tab.8,12, dove ‘iure caesus esto’ significa “sia (considerato) essere stato ucciso iure” 65. A prima vista parrebbe costruito come il nox[i]ae datus esto proposto in RS il tenore della norma di tab.2,2 dove
64 Come si è visto sopra, in entrambi i luoghi di Festo è scritto ‘lex iubet noxae dedere’; i miei due argomenti a) e b) sono confermati anche da Gai.4,75 – che abbiamo letto – dove certo Gaio teneva presente la norma decenvirale scrivendo ‘veluti si furtum fecerint aut iniuriam commiserint, noxales actiones proditae sunt, uti liceret patri dominove aut litis aestimationem sufferre aut noxae dedere’. Il verbo dedo significa “dare in modo definitivo, senza prevedere una restituzione”: ERNOUT-MEILLET, s. v. do, p.179 (in fine) s. 65 Si tratta della norma (che RS II colloca come tab.1,17) sull’uccisione del ladro notturno (vedila nel vol. II,1, p. 56 con la n. 174): si nox furtum faxit, si (RS: ast) im occisit, iure caesus esto = “se (uno) faccia un furto di notte, se (qualcuno) lo abbia ucciso, sia (come fosse) stato ucciso iure”.
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dice: ‘eo dies diffensus esto’ 66. Di questo versetto – lacunoso e di non sicura ricostruzione – abbiamo già parlato altrove 67, dicendovi anche che la traduzione allora data del contesto delle parole or ora riportate (che avevo accettate, con una piccola necessaria correzione, nel tenore in cui le riferisce Fest. reus L. 336: ‘quid horum fuit unum iudici arbitrove reove eo die diffensus esto.’) era fatta ad sensum 68 e rimandavo al luogo presente per una traduzione precisa. Dunque, tenendo conto del senso che nel versetto decenvirale può darsi al verbo *diffendere, di cui diffensus è il participio passato 69, una traduzione letterale sarebbe: (premesso che certe situazioni, come una malattia seria, o che l’udienza per un processo con uno straniero si sia fissata in coincidenza con la data dell’udienza del processo in corso) “di tali (situazioni) se (anche) una sola si verifichi per il giudice o l’arbitro o una parte, allora il giorno (dell’udienza prevista per il presente processo) sia (considerato essersi) allontanato” 70. Devo ancora giustificare le due ulteriori differenze della mia ricostruzione della parte finale di tab.12,3. Malgrado il ben noto stile della scrittura della legge decenvirale, stringato fino ad un impiego estremo dei sottintesi, non credo possa essere stato omesso nella norma in questione il pronome (im) che allude all’oggetto del noxae dedere 71. E riterrei pure che sia preferibile, anche se non proprio necessario, pensare che il dominus – soggetto della seconda parte della frase, della cui prima parte soggetto (espresso) è il servus – fosse pure menzionato, nella forma arcaica erus 72.
Dunque, tab. 12,2 disponeva: ”Se uno schiavo abbia commesso un furto o noxiam noxit, il padrone lo dia a nossa”. Appare quindi chiaro che le dodici tavole non prevedevano la noxae deditio per il solo caso del furto, ma anche per altri casi. Prima di continuare questo discorso, che anzitutto implica l’individuazione di tali casi ulteriori, dobbiamo chiarire il meglio possibile il significato dei termini noxa e noxia 73.
66 In RS II, p. 623, pure attribuita alla tab.2,2, la norma è ricostruita, nella parte che c’interessa: die diffsus esto. 67 Nel cap. II § 1, il brano che s’inizia intorno alla n. 46. 68 La traduzione era: “delle quali (situazioni) se (anche) una sola si verifichi per il giudice o l’arbitro o una parte, allora il giorno (dell’udienza) sia rinviato”. 69 Vedi sopra, nel luogo richiamato nella n. 67. 70 Così il senso originale della norma acquisterebbe anche una maggiore coerenza, in se stessa ed in relazione con quanto possiamo immaginare circa la procedura apud iudicem nelle legis actiones dell’epoca delle dodici tavole; essa non stabilirebbe che il giudice deve necessariamente disporre il rinvio avendo notizia dell’impedimento previsto o in atto, ma solo che l’assenza della parte dovuta ad una delle cause previste sarebbe comunque da considerarsi giustificata, e la nuova udienza sarebbe fissata dopo che l’impedimento sia cessato. 71 Ho scelto la forma im perché essa pare testimoniata con certezza per tab.8,12 (si im occisit) e tab.10,8, ed è conforme a Fest. (Pauli exc.) im (L.92), anche se a tenore di Fest. (Pauli exc.) eum (L.67) dovrebbe scriversi en o piuttosto em; cfr. anche Porph., ad Hor., Sat I,9,77, con riguardo a tab.1,1. Ma che im debba accettarsi come la sola forma arcaica dell’accusativo di is deve considerarsi pressoché sicuro: vedi sinteticamente RS II,585 sub (2). 72 Particolarmente appropriata per indicare il proprietario di schiavi: vedi CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà I (cit. nel vol. I p.154 n.5),414 ss. 73 In ERNOUT-MEILLET la voce noxa, nella quale si tratta anche di noxia, si trova in appendice
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A questo fine teniamo anzitutto presenti i due passi di Festo che già avevamo sfruttato in precedenza 74, e precisamente l’originale di Festo (II sec.) e la sintesi che ne fece Paolo Diacono (IX sec.). Possiamo partire dall’asserzione di Festo, secondo la quale noxa significa anzitutto peccatum, e cioè il delitto in se stesso (at noxa peccatum), dove l’at (= “ma; invece”) introduce il discorso su noxa in opposizione a quello su noxia, che lo precede. A conferma di tale asserzione sembrerebbe addotto il verso di Stazio 75, che Festo aggiungeva alla fine; mentre la citazione di Accio e quella tratta da tab.12,2 vengono addotte come prova di quel che Festo (così come il suo epitomatore Paolo) aggiungeva alla suddetta definizione di noxa, e cioè che il senso di noxa si estende a quello di “pena per il delitto (commesso)”. La citazione di Accio possiamo trascurarla 76; ci interessa invece osservare come Festo intendesse la locuzione noxae dedere. Partendo dalla sua premessa egli scrive: “quando la legge ordina di dare a nossa, ordina che si dia per il delitto (pro peccato)” (cum lex iubet noxae dedere, pro peccato dedi iubet). Siccome in pro peccato il pro è evidentemente impiegato nel suo senso di “in luogo di” 77 o “in cambio di; come contropartita di” 78, il senso preciso del ragionamento di Festo appare essere il seguente: dare a nossa (noxae dedere) = dare a riparazione del delitto (pro peccato dedere = come contropartita del delitto), cioè dare come pena (pro peccato dedere = in luogo della pena), e dunque noxae = poenae, quindi noxa = poena. L’ultimo passaggio del ragionamento – se l’ho colto bene – potrebbe sembrare non del tutto giustificato: infatti, posto che noxae è il dativo di noxa, si tratta di quell’impiego del dativo che indica lo scopo o l’effetto al quale un’azione è diretta o che con l’azione si consegue 79, per cui qui l’equivalenza tra noxae e poenae è legato al fatto che i vocaboli compaiono al dativo di scopo. L’equivalenza è tra “a titolo di nossa” e “a titolo di pena” ed ancor meglio, in sostanza, l’equivalenza è tra “pagare la pena” e “dare a nossa” (= “fare la noxae deditio”). Comunque sia di ciò, anche se non si vuole ammettere che Festo arrivasse a dimostrare che noxa è usato nel senso di pena, si deve accettare che egli arrivava a stabilire che la noxae deditio (il dare lo schiavo a nossa) funziona come surrogato della pena.
alla voce nex, necis, con la voce noceo, nocere e dopo quest’ultima, dunque alla p. 440; vedi anche p. 822 (nelle additions et corrections). 74 Presento i due testi integralmente, riservandomi la traduzione delle parti che più ci interesseranno: Fest. (L.180): No>xia, ut Ser. Sulpicius Ru apud poetas autem, et oratores ponitur pro culpa; at noxa peccatum, aut pro peccato poenam, ut Accius in Melanippo: ‘Tete esse huic noxiae obnoxium.’ Item, cum lex iubet noxae dedere, pro peccato dedi iubet. Caecilius in Hypobolinaeo Chaerestrato: ‘Nam ista quidem noxa muliebrest, magis quam viri.’ Le due citazioni si riferiscono rispettivamente ad una tragedia di L. Accio (*170; † non prima dell’86 circa a.C.) e ad una commedia di Cecilio Stazio (†168 a. C.). (Pauli exc. L.181): Noxia apud antiquos damnum significabat, sed a poetis ponitur pro culpa: noxa ponitur pro peccato aut pro peccato poena, cum lex iubet noxae dedere pro peccato. 75 Che significa: “Infatti questa è una noxa (delitto, peccato) da donna più che da uomo”. 76 La citazione di Accio consiste in una proposizione oggettiva (all’accusativo + infinito), la quale significa: “che tu sei soggetto (obnoxius) a questa noxa”. Ma negli scrittori può trovarsi anche l’espressione delicto obnoxius (Sall., Cat.52,21). 77 L’impiego è assai noto. Vedi ad esempio: Cic., ad Att.2,5,1; Caes., Gall. 1,26,3. 78 Cic., de orat.2,351; Caes., Gall.6,16,3. 79 Come nelle locuzioni dare alicui muneri o dono = “dare a qualcuno in dono”. Vedi MADWIG, Grammatica della lingua latina (trad. it. anonima), Milano etc. 1945, § 213 (p. 175).
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Quanto a noxia, possiamo trascurare qui l’uso che Festo attribuisce ai poeti, e concentrarci sul pensiero, che egli cita all’inizio, di Servio: “Nelle dodici tavole, come dice Servio Sulpicio Rufo, noxia significa danno (damnum)”. Un chiarimento di Servio relativo al linguaggio delle dodici tavole non può, ovviamente, essere messo in discussione. Ma lo si deve capire esattamente: per quanto ci è possibile – va subito detto – perché il nostro tentativo soffre di un notevole handicap già alla partenza; Servio conosceva interamente la legge decenvirale, e quindi aveva presenti tutti i testi nei quali si leggeva la voce noxia, mentre noi ne conosciamo – se non vedo male – soltanto cinque, e per di più, di questi, uno solo ci è noto, per la parte che contiene il vocabolo che c’interessa, nel testo originale: si tratta di tab.12,2, quello dal quale tutto questo discorso è incominciato. Comunque, l’esame degli altri quattro testi ci permette, alla fin dei fini, di constatare che Servio aveva indubbiamente ragione. Possiamo redigere questa specie di inventario: i) In due testi troviamo la locuzione noxiam sarcire. Si tratta di Gai. (4 ad legem XII tab.) D.47,9,9, dove si informa che nella legge (tab.8,10 FIRA; 8,6 RS), se uno abbia senza dolo dato fuoco ad una casa o ad un mucchio di frumento posto presso una casa, gli è imposto di noxiam sarcire; e di Gell.11,18,8, nel quale si dice che i decenviri, autori delle dodici tavole, nel caso di furto flagrante commesso da fanciulli impuberi, vollero (tab.8,14 FIRA; 1,19 RS) che costoro fossero fustigati a discrezione del pretore e che noxiam ab his factam sarciri. L’espressione noxiam sarcire 80, che i due autori impiegano, era certamente contenuta nei testi decenvirali dei quali riferivano il contenuto. Al suo proposito Festo ci fornisce ancora un chiarimento di Servio, che è scritto con allusione al verbo sarcire, ma si riferisce con evidenza all’intera locuzione: Fest. (L.430): sarcito in XII Ser. Sulpicius ait significare damnum solvito, praestato. “Servio Sulpicio dice che nelle dodici (tavole) ‘sarcito’ significa «paghi il danno, risponda (del danno) 81». Dunque, per Servio noxiam sarcire significava “riparare il danno”. Già sappiamo che per Servio noxia significa “danno”; quanto a ‘sarcire’ è pure certo che il verbo significa 82 “riparare”: il suo significato originario era quello di “ricucire”, donde riparare nel senso di (ri)aggiustare, per quindi passare al riparare in senso traslato (pagare lo scotto) fino a risarcire. È probabile che Servio avesse in mente quest’ultimo concetto, familiare ormai ad un giurista del suo tempo. Ma nel linguaggio delle dodici tavole il senso di noxiam sarcire doveva essere quello di “fornire riparazione del pregiudizio (prodotto con l’illecito nella singola norma sanzionato)”. La riparazione – intendo precisamente dire – non era un risarcimento, ma una pena riparatoria, però una pena calcolata sulla base del valore del danno cagionato ed irrogata in simplum. Infatti, come già avevamo visto, noxiam sarcire si contrapponeva nel linguaggio dei decenviri a damnum decidere 83. La contrapposizione diretta sembrerebbe essere stata presente in 80 Nel testo di Gellio il verbo compare in forma passiva (sarciri), perché nel discorso dell’autore la proposizione che la contiene è oggettiva e noxam ne è il soggetto. 81 Del vario e difficile significato del verbo praestare nell’uso dei giuristi ho discorso a lungo in CANNATA, Sul problema, 123 ss. Il significato di “rispondere” risulta comunque quello più generale. 82 Vedi ancora: Fest. sarte (L.428): … sarcire est integra facere. Cfr. Fest. (Pauli exc.) sarte (L.429). ERNOIT-MEILLET, s. v. sarcio (p. 594). 83 Sempre nel senso della condanna ad un multiplo del valore del danno, l’espressione damnum decidere è testualmente testimoniata solo per tab.12,3 da Fest. vindiciae L.518, ma essa è sicura anche per la norma sul furtum manifestum (tab.9,16; 1,21 RS): ogni argomentazione contraria (da ultimo quelle, non certo limpide per altro, di RS II, p. 618 s.) è destinata ad infrangersi
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tab. 8,9 FIRA (8,5 RS), se per la ricostruzione ci affidiamo interamente al passo di Plinio il vecchio (Plin., n.h.18,3,12), che rappresenta la sola fonte di cui disponiamo in proposito, nella quale l’autore della Naturalis historia descriveva il contenuto di una norma delle dodici tavole riprendendone certamente la terminologia. La fattispecie è la seguente: ‘frugem … aratro quaesitam furtim noctu pavisse ac secuisse’, e cioè il fatto di “aver fatto oggetto di pascolo 84 o aver tagliato furtivamente di notte cereali 85 prodotti da seminagione 86”; dopo aver detto che, se l’autore del fatto fosse stato un soggetto pubere, la pena era capitale ed averne descritto l’esecuzione par impiccagione intesa come sacrificio alla dea Cerere, aggiunge la speciale disposizione legislativa per il caso nel quale l’autore ne fosse un impubere: ‘inpubem praetoris arbitratu verberari noxiamve duplionemve decerni’. Da questa frase si dedurrebbe che Plinio leggesse nelle dodici tavole una norma nella quale si attribuiva al magistrato il compito di far fustigare il colpevole, ovvero di decidere per la sua condanna ad una somma pari al valore del danno, ovvero ancora per la condanna al doppio di tale valore; per la pena pecuniaria Plinio si esprime ellitticamente, indicando l’alternativa come ‘noxiam … duplionemve’, ma si deve pensare che la legge esprimesse l’alternativa con noxiam sarcire e duplione damnum decidere. Per vero, i romanisti e i filologi hanno spesso dubitato che la norma fosse in questo senso, con la tendenza a credere che per l’impubere le dodici tavole prevedessero la sola alternativa fra la bastonatura e la condanna in duplum ovvero, senza alcuna alternativa, il cumulo delle due condanne. In effetti è possibile accettare l’intelligente ricostruzione congetturale di RS II, p. 684 87, che riesce a sintetizzare tutto il testo di Plinio – comprese le parti che non ho qui riportato letteralmente – ricondotto al senso dell’ultima ipotesi che ho or ora riferito, con la seguente, brevissima frase di perfetto stile decenvirale: ‘si nox segetem 88 paverit secueritve, Cereri suspensus esto. si impubes verberato duplionemque damnum decidito’. ii) In tab.12,2 abbiamo trovato la locuzione ‘noxiam nocere’. Il verbo nocere, che significa “nuocere”, aveva alla sua origine 89 il senso di “cagionare, o causare, la morte a”, così ha conservato la costruzione col dativo (nocere alicui). Negli scrittori classici lo si trova usato come verbo transitivo e dunque con un complemento oggetto all’accusativo contro il fatto che la formula dell’actio furti nec manifesti indicava l’oggetto dell’obbligazione dedotta in giudizio come pro fure damnum decidere (Gai. 4,37), parole inspiegabili se non come un rinvio alla corrispondente norma decenvirale. 84 La traduzione italiana risulta contorta perché il verbo pascere (pavisse), che significa “far pascolare, portare al pascolo” è costruito con la pastura come complemento oggetto (frugem pascere = mettere i cereali a pascolo): costruzione che al tempo di Plinio era ormai soltanto più usata dai poeti: ad esempio Verg., Aen.11,319. 85 Frux (nella lingua classica usato di solito solo al plurale fruges) indica i cereali in quanto prodotti dalla terra; il termine è usato anche per le messi, ma, come nel testo esaminato, in sé allude al vegetale ancora radicato in terra ed a qualunque stadio della sua crescita. 86 Letteralmente (frux) ‘aratro quaesitam’ significa (cereali: ma in latino è singolare femminile) “ottenuta mediante aratura del terreno”. 87 Per la letteratura vedi anche FIRA I, p. 56 n. 9.A. 88 Il vocabolo segetem (nominativo: seges) ha anche un significato equivalente a fruges, ma è certo parola decenvirale: tab.8,8a FIRA (8,4 RS); Servius, in Verg. ecl.8,99. 89 L’etimologia viene infatti identificata nella radice *nek- , che tal quale ha generato il verbo necare (uccidere), e con la finale causativa eye/o- e il vocalismo o nok-eo = noceo. Nel senso di “produrre la morte” noceo si trova ancora raramente in autori classici, come in Cic., p. Caec.21,60 e Lucan.8,305.
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solo se quest’oggetto è un pronome neutro (aliquid, quippiam) o nihil, nel senso di “nuocere in qualcosa” o “in nulla” 90. Queste costruzioni particolari possono spiegare il noxiam nocere di tab.12,2 91, perché qui, come negli esempi con il pronome neutro o il nihil come oggetto, tale oggetto non indica il destinatario del nocumento, ma determina qualcosa come un limite entro il quale il nuocere opera o, come nel nostro caso, è preso in considerazione. Ciò perché il ‘si servus … noxiam ... noxit’ di tab.12,2 vuol dire “se uno schiavo ha nuociuto causando una noxia”, vale a dire: se lo schiavo ha nuociuto (a qualcuno) cagionando uno dei danni che costituiscono una noxia”. È difficile dire se questo limite all’applicazione della norma sul noxae dedere fosse o no concepito in modo formale: a prima vista si sarebbe tentati di credere che secondo i decenviri la soluzione dell’alternativa nossale fosse in effetti riservata ai casi nei quali le dodici tavole irrogavano una pena espressa con la locuzione noxiam sarcire, ma è praticamente difficile pensare che ne restassero escluse le ipotesi dei delitti sanzionati con pene pecuniarie fisse 92 o con pene pari ad un multiplo del danno (damnum decidere). iii) Un ultimo testo che può dirci qualcosa è: D.9,1,1 pr. (Ulp. 18 ad edictum): Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur, actio ex lege duodecim tabularum descendit: quae lex voluit aut dari id quod nocuit, [id est animal quod noxiam commisit,] aut aestimationem noxiae offerre 93. 1: [Noxia autem est ipsum delictum.] Ulpiano presenta qui la pauperies. Si tratta del danno cagionato da un animale 94 senza colpa del proprietario né di un terzo 95: e per questo caso le dodici tavole prevedevano una responsabilità nossale – o forse è meglio dire analoga a quella nossale – del proprietario. Scriveva dunque Ulpiano: “Se si asserisca che un quadrupede ha fatto pauperies (= ha cagionato un danno), l’azione proviene dalla legge delle dodici tavole: la qual legge volle che o sia dato ciò che ha cagionato il danno, [cioè l’animale che ha commesso il fatto dannoso,] o offrire la valutazione pecuniaria del danno. 1: [Noxia è infatti il delitto stesso.] Ho riportato questo testo solo per esaminare la terminologia impiegata, perché certo Ulpiano, nel redigerlo, aveva presente la norma decenvirale 96. Tuttavia quel che se ne
90 Vedi ad esempio: Cic., p. Mur.28,58 (ne quid L. Murenae dignitas illius … noceat); vedi però anche Cic., Nat.3,86 (con cuipiam); in Cic., ad Att.12,47 nella frase ‘de quo nihil nocuerit si aliquid cum Balbo eris locutus’ il nihil (indeclinabile) può però essere considerato soggetto. 91 Il verbo nocere compare anche in tab.7,8, ma, a quanto pare, vi era usato in senso assoluto, senza oggetto espresso (Si aqua pluvia nocet …; vedi Pomp. Lab. D.40,7,21 pr.). 92 Ad esempio quella di tab.8,11 (1,16 RS) che puniva il taglio degli alberi altrui con una pena di 25 assi per albero, e secondo Plin, n.h.17,1,1 diceva solo che tale somma il reo doveva pagare; lo stesso sarebbe se la legge si esprimesse ‘XXV poenae sunto’, come vorrebbe, ma senza fondamento, RS II, p. 609. 93 Nel Digesto è scritto offerre (o offerri come recano i manoscritti deteriores): ma è probabile che Ulpiano avesse scritto sufferre come Gai.4,75 che abbiamo letto sopra. 94 Fest. pauperies (L.246). 95 Vedi i testi rilevanti in CANNATA, Sul problema, 22 s. con la n. 100 (p. 44 s.). 96 Che si colloca in tab.8,6 FIRA (8,2 RS), ma che non si ritiene possibile ricostruire. Ma forse a questo fine non si è sufficientemente sfruttato Ulp. D.9,1,1,11, dove si riporta un’opinione di Q. Mucio con le parole ‘aut noxam sarcire aut in noxam dedere’ che dovevano dipendere dal dettato di tab.8,6 (8,2 RS), e non capisco perché le due citate ricostruzioni delle dodici tavole non se ne valgano; vedi invece BRUNS, p. 30 n.6. Se nel Digesto la frase riportata di Scevola reca noxa
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può trarre è assai poco. Il testo è anche certamente corrotto; la precisazione ‘id est animalcommisit’, che vuole esplicitare ‘id quod nocuit’ è già di per sé tanto superflua da essere ridicola, ma per di più fa di un animale un soggetto che può commettere un delitto, ed in più usando noxia nel senso di delitto in se stesso, il che sappiamo essere contrario al pensiero di Servio, che Ulpiano non poteva ignorare e che del resto doveva essere acquisito presso tutti i giuristi anche ai tempi di Ulpiano. La frase in questione è dunque certamente uno sciocco glossema, che deve essere all’origine del secondo glossema che costituisce il § 1 del testo, e nel quale si afferma direttamente che noxia è il delitto stesso. Del resto, che Ulpiano non possa aver scritto tutte queste cose risulta lampante dal § 3 dello stesso frammento, paragrafo certo di mano del giurista a commento della rubrica edittale 97, e nel quale egli afferma che 98 “la pauperies è un danno prodotto senza colpa 99 del suo autore: non può infatti avere agito con colpa un animale, il quale manca di comprendonio”: nella pauperies si tratta dunque di danno prodotto, non di “delitto”; e nulla è “commesso”. Il testo di Ulpiano ci dice solo, per quanto ora ci interessa, che nelle dodici tavole la voce noxia, e sempre nel senso di danno, era impiegata anche per il caso della pauperies, che aveva connotati particolari non essendo un danno prodotto con un delitto, anche se generava una responsabilità del proprietario dell’animale che lo aveva cagionato.
Riprendiamo il problema al punto in cui l’avevano lasciato prima di quest’ultimo excursus. Se teniamo presente che Gaio conosceva le dodici tavole – e le conosceva assai bene, avendole fatte oggetto di un accurato commentario 100 – egli sapeva perfettamente che cosa disponeva la norma sulla noxae deditio, dalla quale abbiamo visto risultare che il regime nossale riguardava non solo il furto, ma anche altri casi, indicati come noxiam nocere, e che noi, malgrado lodevoli sforzi – non mi riferisco evidentemente solo ai miei – non siamo riusciti a individuare esattamente. Ma possiamo dire anche di più. Fra i passi gaiani del commentario alla legge decenvirale riportati nel Digesto c’è il seguente: D.50,16,238,3 (Gai. VI ad leg. XII tab.): ‘Noxiae’ appellatione omne delictum continetur. invece di noxia, ciò proviene sicuramente da un errore di qualche amanuense: vedi già LENEL, EP,196 con la nota 4, anche se l’argomento addotto è difettoso, perché basa la correzione anche su D.9,1,1,1, che certo è un glossema, come vedremo subito. 97 ‘Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur’. LENEL, EP, 195. 98 Ait praetor ‘pauperiem fecisse’. pauperies est damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse, quod sensu caret. 99 La nozione che qui è in gioco è quella della capacità di un individuo di comportarsi in modo colpevole (riprovevole anche senza volontà di nuocere), nozione che si impiegava in particolare con riguardo al grado di maturità di una persona. Ora, il soggetto capace di tale comportamento si trova indicato nelle fonti, dove si parla dei problemi connessi con la lex Aquilia, tanto con l’espressione iniuriae capax (Ulp. Peg. Lab. D.9,2,5,2), quanto con quella culpae capax (Ulp. Iul. Lab. D.47,2,23). 100 Il commentario di Gaio alle legge delle dodici tavole – al quale, si sarà notato, abbiamo anche già attinto, da ultimo con Gai. (4 ad legem XII tab.) D.47,9,9 – era in 6 libri: così è menzionato, col titolo tradotto in greco, nell’Index Florentinus del Digesto (duodekadšltou bibl…a ›x), e da tanti i compilatori hanno escerpito i 28 frammenti riportati nel Digesto stesso. Vedili in LENEL, Pal. I, 242 ss.
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I compilatori di Giustiniano, collocandolo nel titolo de verborum significatione, pensato come una specie di dizionario di termini rilevanti o frequenti nel parlare giuridico, e isolando questa frase dal suo contesto, l’hanno certo intesa come se essa volesse dire che noxia è termine equivalente a delictum in generale 101; ma noi sappiamo, per tutto quanto abbiamo visto poco sopra, che Gaio non poteva pensare qualcosa del genere. Usiamo invece gli indizi che il passo stesso ci suggerisce, premettendo che è certo che il commentario di Gaio alle dodici tavole seguiva l’ordine del testo della legge 102. Ora, D.50,16,238,3 appartiene al sesto libro, cioè l’ultimo, dei sei del commentario, e la norma decenvirale sulla noxae deditio è collocata da tutti gli studiosi moderni nella dodicesima tavola, cioè l’ultima della legge. Siccome tanto in tab.12,2 quanto in Gai. D. 50,16,238,3 compare il termine noxia, e siccome tale termine non doveva essere particolarmente frequente nella dodicesima tavola 103, diviene logico verificare se sia possibile supporre che il passo di Gaio possa appartenere al suo commento di tab.12,2. Ma, se poniamo i testi in relazione, un’ipotesi tutt’altro che peregrina prende corpo: Tab. 12,2: Si servus furtum faxit noxiamve noxit, . Gaius, libro VI ad leg. XII tab.: ‘Noxiae’ appellatione omne delictum continetur. Il commento di Gaio si attaglia perfettamente al testo della legge; e supponendo allora che Gaio vi spiegasse quella norma, egli verrebbe a dire che in essa “con la denominazione di noxia si fa allusione a tutti i delitti”. Cioè, a tutti gli altri delitti oltre al furto. In altri termini, Gaio avrebbe così risposto alla domanda che noi ci eravamo posti, senza potervi rispondere, ed egli pensava che la norma decenvirale sulla nossa introducesse tale sistema, oltre che per il furto, per tutte le situazioni delittuose che le dodici tavole prevedevano. Questa, naturalmente, resta un’ipotesi, e sono le conseguenze di questa ipotesi che ora intendo esaminare. Sopra, dopo aver riportato la sequenza di Gai.4,75-79, avevo rilevato che l’inizio del-
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Infatti, anche nelle Istituzioni giustinianee si fa analogamente del vocabolario in I.4,8,1, per dir due cose evidentemente erronee entrambe: Noxa autem est corpus quod nocuit, id est servus, noxia ipsum maleficium, veluti furtum, damnum, rapina, iniuria. Cioè: “Noxa invero è l’entità fisica (corpus è usato per evitare un termine che attribuisse all’autore dell’illecito una qualunque forma di personalità, trattandosi di uno schiavo) che ha nuociuto, cioè lo schiavo, noxia il delitto stesso, ad esempio il furto, il danno (aquiliano), la rapina, l’iniuria”. 102 Vedi in RS II, p. 564 ss. 103 Sul contenuto della dodicesima tavola tutte le ricostruzioni moderne sono praticamente concordi; vedi la tavola delle concordanze in RS II, 576 che mette a confronto SCHOELL, BRUNS, FIRA ed RS stesso. Per le notizie (anche) su queste edizioni vedi DILIBERTO, Bibliografia ragionata delle edizioni a stampa della legge delle XII tavole (secoli XVI-XX), Roma 2001.
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la sua trattazione delle azioni nossali – § 75 e 76 – aveva carattere storico, e precisamente che nel § 75 egli parlava degli inizi della vicenda e nel § 76 enumerava una serie di momenti nei quali delle azioni nossali sono state introdotte, e dicevo anche che dall’insieme di quel ch’egli scrisse risulta che tutto si fosse iniziato con l’introduzione dell’azione nossale da furto con le dodici tavole. Ma avevo anche rilevato che la sua esposizione è, in qualche modo, ingannevole. Infatti, essa contiene anzitutto una contraddizione. Se è vero – e non credo si possa dubitarne – che nel § 75 Gaio parlava degli inizi, quel discorso doveva essere riferito alle dodici tavole, ma come casi iniziali egli adduce non il solo furtum facere di un filius familias o di uno schiavo, ma anche l’iniuriam committere, e per di più li menziona facendoli precedere da velut, che li lascia intendere come esempi di una gamma più ricca; ma poi, nel § 76, Gaio attribuisce l’introduzione dell’actio iniuriarum nossale al pretore, cosa che non può essere avvenuta se non molto tempo dopo. Con quanto ho esposto in seguito, credo risulti provato che Gaio conosceva bene la norma decenvirale sulla noxae deditio (e quindi sull’azione nossale). Il fatto è che, quando Gaio scriveva quei due paragrafi, doveva esporre – il carattere elementare e sintetico del suo manuale lo imponeva – una vicenda complessa. Egli sapeva che tab.12,2 aveva introdotto il sistema della nossa come soluzione generale: anzi, stando a quel che ci rimane del commento a tab.12,2 nel sesto dei suoi libri ad legem XII tabularum, egli attribuiva alle parole noxiamve nocuit una portata (omne delictum continetur) che – a me almeno – sembra eccessiva; ma d’altra parte egli sapeva anche che delle azioni nossali in uso al suo tempo – e per i giovani discenti d’allora egli scriveva le Institutiones – a nessuna più, se non all’actio furti nossale poteva riconoscersi un fondamento nella legge decenvirale. Così si spiega perché egli abbia parlato dell’introduzione dell’azione nossale da furto e di altre descrivendo l’inizio della vicenda, ma poi enumerando i fondamenti autoritativi delle varie azioni riconducesse alle dodici tavole solo quella da furto. Resta solo da spiegare ancora perché nel § 75 come casi iniziali egli menzioni solo, accanto al furto, quello dell’iniuria. Io credo che la ragione risieda nel fatto che la generalità delle figure delittuose diverse dal furto, che erano previste nelle dodici tavole e per le quali era ammissibile l’applicazione della noxae deditio ove fossero realizzate da un potestati subiectus, corrispondesse ai tempi di Gaio a fattispecie d’iniuria o di danneggiamento aquiliano. Ora, è chiaro che Gaio, parlando degli inizi nel § 75, non avrebbe potuto dire che a quel tempo furono introdotte azioni nossali «per il furto, l’iniuria e il damnum iniuria datum», perché, comunque egli avesse determinato l’ultima ipotesi, al suo tempo l’azione nossale in questione sarebbe stata l’actio noxalis ex lege Aquilia, che avendo fondamento nella legge aquilia non poteva essere inserita in un discorso sulla situazione al tempo delle dodici tavole se non con una complessa spiegazione che il carattere del suo manuale non permetteva affatto. La soluzione che egli trovò era forse, fra le soluzioni semplici, la più appropriata: prima di si furtum fecerint aut iniuriam commiserint egli scrisse velut, “per esempio”, borbottando forse all’indirizzo dei suoi immaginari, futuri giovani lettori : «Questo lo capirete quando sarete più grandi».
Quanto al regime della nossa, credo la lettura, che abbiamo fatto, di Gai.4,77-29 sia sufficiente per fornirne un’idea. Aggiungerò solo qualche precisazione. L’alternativa, della quale beneficiava il pater familias del filius o dello schiavo autore del delitto, fra il sottomettersi al pagamento della litis aestimatio e il dare a nossa il sottoposto, durava finché una delle due soluzioni non fosse stata adottata. Ciò significa, in particolare, che se il pater avesse affrontato l’azione,
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cioè vi avesse assunto il ruolo del convenuto in difesa del subiectus, non solo conservava la possibilità di abbandonare il procedimento in qualunque stadio del giudizio facendo la noxae deditio ma, anche quando il processo si fosse concluso con una sentenza di condanna, gli restava la scelta tra noxae dedere e pagare la somma di denaro indicata nella sentenza. L’idea che stava alla base di questa soluzione era che la facoltà di fare la noxae deditio invece di sottomettersi alla litis aestimatio ha un fondamento nella legge – e cioè in tab.12,2 – sicché l’esercizio dell’azione non la può togliere. La menzione della facoltà di noxae dedere nella sentenza – che alcuni giudici solevano, a quanto pare, effettuare – era da considerarsi non corretta e perciò inutile: la sentenza rappresenta infatti unicamente la conclusione della vicenda processuale e, se essa è di condanna, il giudice non ha che il potere di condannare al pagamento della somma di denaro che rappresenta la litis aestimatio: se egli vi aggiunga l’alternativa della noxae deditio non direbbe nulla di falso, ma direbbe cosa estranea al suo officium 104. Se poi l’attore, ottenuta la sentenza favorevole, eserciti l’actio iudicati 105, l’eserciterà solo con riguardo alla condanna pecuniaria: il pater familias condannato potrà ancora evitare l’actio iudicati facendo la noxae deditio. Ma si deve ritenere che, una volta contestata la lite dell’actio iudicati, la condanna che egli subirà in questa azione potrà essere solo quella pecuniaria; si direbbe che con ciò il convenuto possa però sempre liberarsi facendo la noxae deditio quando l’attore poi metta ad esecuzione la sentenza. Ciò, almeno, mi pare possa dedursi dal testo fondamentale in materia, anche se non ne sono del tutto sicuro: D.42,1,6,1 (Ulp. 66 ad ed.): Decem aut noxae dedere condemnatus iudicati in decem tenetur: facultatem enim noxae dedendae ex lege accipit. “Chi sia stato condannato a dieci o a fare la noxae deditio è tenuto a titolo di giudicato per dieci: infatti, la facoltà di fare la noxae deditio gli proviene dalla legge.” Ancora una breve precisazione sulla noxae deditio come atto. La noxae deditio aveva lo scopo di mettere il sottoposto autore del delitto presso la parte lesa nella stessa situazione nella quale egli si trovava presso il suo pater o dominus: perciò essa veniva eseguita mediante mancipatio 106. La mancipatio dello schiavo realizzava integralmente questo effetto; quanto alla mancipatio di un filius familias 107 – che, come abbiamo visto leggendo Gai.4,79 aveva posto pro104 Invece la menzione della noxae deditio (ut noxae dedere[t]) doveva figurare nel testo (intentio) della formula: Paul. D.47,2,42 pr.; LENEL, EP, 330 con la n.1. 105 Sull’actio iudicati vedi nel vol. I, p. 120. 106 Sulla mancipatio delle cose – com’era lo schiavo – vedi nel vol. I, p. 295 ss. 107 Sulla mancipatio dei liberi e le persone in causa mancipii vedi nel vol. I, p. 61 s.
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blemi di forma – essa non avrebbe potuto avere che l’effetto speciale di porlo in causa mancipii presso il mancipio accipiens. Va infine avvertito che tutto il discorso che abbiamo fatto su questo tema della noxae deditio e delle azioni nossali si riferiva alla situazione originaria dalla famiglia romana, nella quale i sottoposti alla potestà del pater familias erano del tutto privi della capacità giuridica, che essi fossero liberi o schiavi. Ma anche Gaio impostava il discorso allo stesso modo, perché al suo tempo i principî non erano cambiati. Ma si deve tener conto che la tendenza, che si manifestò a partire dagli inizi del principato, a riconoscere ai filii familias, di sesso maschile almeno, zone di capacità giuridica vieppiù estese, non può non avere inciso sulla pratica in materia. Si deve anche pensare in generale che, sempre sul piano pratico, la noxae deditio dei sottoposti liberi non avesse luogo se non eccezionalmente, e di fatto mai negli ambienti delle classi sociali elevate. Questa vicenda è sintetizzata, sommariamente ma abbastanza bene, nelle Istituzioni giustinianee, alla fine del titolo dedicato alle azioni nossali, tutto impostato con riguardo unicamente alla noxae deditio degli schiavi, mentre quella dei filii vi è considerata interamente abrogata 108: I.4,8,7: Sed veteres quidem haec et in filiis familias masculis et feminis admiserunt, nova autem hominum conversatio huiusmodi asperitatem recte respuendam esse existimavit et ab usu communi haec penitus recessit: quis enim patitur filium suum et maxime filiam in noxam alii dare, ut paene per corpus pater magis quam filius periclitetur, cum in filiabus etiam pudicitiae favor hoc bene excludit? Et ideo placuit in servos tantummodo noxales actiones esse proponendas, cum apud veteres legum commentatores invenimus saepius dictum ipsos filios familias pro suis delictis posse conveniri. “Gli antichi ammisero tutto ciò anche con riguardo ai filii familias maschi e femmine, ma il rinnovarsi della mentalità degli uomini ha fatto giustamente ritenere che una tale durezza si dovesse rifiutare, e tale pratica sparì ovunque interamente; chi mai, in effetti, sarebbe disposto a dare a nossa ad altri il proprio figlio e soprattutto la propria figlia, con la conseguenza che per questa consegna fisica il padre stesso rischierebbe quasi più del figlio, e che per le figlie anche l’interesse alla loro castità impedisce decisamente di ricorrervi? E dunque si addivenne all’idea di proporre le azioni nossali unicamente con riguardo agli
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Nel leggere il passo si tenga presente che nei testi giustinianei con il termine veteres spesso non si allude ai personaggi che i giuristi classici chiamavano veteres, e cioè i giuristi della repubblica, anteriori a Labeone, bensì o in generale a “gli antichi” o, se riferito a giuristi, ai giuristi repubblicani e classici nel loro insieme, dai fundatores a Modestino.
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schiavi, tanto più che presso gli antichi giuristi si legge alquanto di frequente che i filii familias possono essere convenuti in giudizio personalmente essi stessi per i propri delitti 109”. Devo aggiungere solo una piccola considerazione di ordine puramente storico. In un articolo 110 abbastanza recente – nel quale ho soprattutto cercato di ricostruire il probabile tenore delle norme in materia di noxae deditio e azioni nossali nelle dodici tavole e nella legge aquilia –, basandomi in particolare su di un’esegesi di Ulp. D.9,4,2 nonché sulla prima frase di I.4,8,7 testé riportato 111, mi è parso di poter anche aggiungere un’ipotesi che a me sembra decisamente degna di considerazione (l’ho chiamata appunto per questo “una conclusione non conclusiva”), e cioè che il regime della nossalità fosse in origine limitato al campo dei delitti degli schiavi, e che solo dopo la lex Aquilia sia stato, per opera della giurisprudenza dei veteres, esteso a quello dei delitti compiuti dai filii familias.
109 Vi sono in effetti testi classici in questo senso, che parrebbero indicare un’evoluzione: a partire dall’idea che il filius può difendersi da solo se il pater non assume la sua difesa (Iul. D.9,4,34; Pomp. D.9,4,33), fino alla generale legittimazione diretta del filius all’azione penale per un suo delitto (Gai. D.44,7,39; Ulp. D.5,1,57). 110 Pubblicato nel Liber amicorum Christoph Krampe, Berlin 2013 (ripubblicato nei miei Scritti scelti III, 283 ss.) con titolo Alcuni problemi in materia di azioni nossali (già cit. sopra, n. 55). 111 Intendendolo, malgrado quanto ho scritto qui sopra alla n. 109, come allusivo ai veteres nel senso usuale per i giuristi classici.
V LA ‘PERPETUATIO OBLIGATIONIS’ SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il dogma della ‘perpetuatio obligationis’.
1. PREMESSA. – Non è affatto usuale inserire una trattazione della perpetuatio obligationis in un discorso sulle fonti delle obbligazioni, come quello che ora stiamo facendo: ed in effetti il meccanismo giuridico della perpetuatio non rappresenta, come tale, una fonte d’obligatio, né esso fu mai, né dai giuristi romani né dopo, elencato nei corrispondenti elenchi. La ragione che m’induce a comportarmi qui in modo diverso è puramente dommatica. Come avremo modo di vedere studiando il problema della perpetuatio obligationis, essa rappresenta un meccanismo per il quale un rapporto obbligatorio già esistente (perché sorto sulla base di una delle fonti usuali) viene trasformato in un rapporto obbligatorio di natura diversa e del tutto particolare, sicché esso, alla fin fine, viene a dar luogo ad una nuova struttura: e questo rappresenta pur sempre una vicenda creativa d’obbligazione. Naturalmente tutto ciò sarà comprensibile solo dopo che avremo stabilito bene di che cosa stiamo parlando: il che andrà fatto molto attentamente, in quanto quello della perpetuatio obligationis è un meccanismo giuridico raramente inteso in modo corretto, tanto che raramente se ne percepisce l’importanza dommatica e storica, la quale è, sotto entrambi i profili – non esito a dirlo –, enorme. Esso venne individuato dai veteres, cioè i giuristi romani tra i fundatores e Servio Sulpicio Rufo, come risulta da un testo di Paolo, che al suo tempo indugiava a spiegarlo. D.45,1,91,3 (Paul. 17 ad Plautium): Sequitur videre de eo, quod veteres constituerunt, quotiens culpa intervenit debitoris, perpetuari obligationem, quemadmodum intellegendum sit ... “Vediamo ora quel che i veteres hanno stabilito, (e cioè che) quando sia intervenuta la colpa del debitore l’obbligazione è perpetuata, come sia da intendere ...”.
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Come si vede, in questo testo si parla di perpetuare obligationem, impiegando il verbo perpetuare e non il sostantivo (deverbativum) ‘perpetuatio’; nelle fonti romane è sempre così; l’impiego (anche esprimendosi in latino) del sostantivo rappresenta solo un uso – comprensibile e perfettamente naturale – dei romanisti moderni.
2. IL DOGMA DELLA ‘PERPETUATIO OBLIGATIONIS’. – E cerchiamo ora di capire in che cosa consistesse l’idea della “perpetuazione dell’obbligazione”. Perché quel che diremo possa essere chiaro fin dall’inizio, prenderemo le mosse da un semplice esempio pratico. Poniamo dunque che Tizio e Caio abbiano concluso la stipulatio seguente: Tizio (stipulator): ‘Spondes mihi servum Stichum dari?’ [Prometti di darmi lo schiavo Stico?] Caio (promissor): ‘Spondeo.’ [Sì, lo prometto.] Come sappiamo, l’effetto di quest’atto consiste nel sorgere in capo a Caio dell’obbligazione di dare lo schiavo di nome Stico a Tizio (cioè, precisamente, di trasferirgliene la proprietà). In altre parole, con riguardo allo schiavo Stico (che è la cosa oggetto del rapporto obbligatorio creato da quella stipulatio) Tizio risulta creditore di Caio, e Caio (che supponiamo proprietario dello schiavo) risulta debitore di Tizio. Pensiamo ancora che a questo punto, prima che il debitore Caio abbia adempiuto la sua obbligazione (cioè prima che egli abbia trasferito a Tizio la proprietà dello schiavo) lo stesso Caio cagioni la morte di Stico con un proprio comportamento colpevole (per esempio, egli imponga a Stico – del quale era ancora proprietario ed al quale poteva dunque comandare qualunque cosa – di compiere un lavoro estremamente pericoloso, sicché nell’eseguirlo Stico muoia). E veniamo ora a precisare come la situazione or ora descritta si presentasse dal punto di vista giuridico all’epoca in cui operarono i veteres, prima che venisse individuato il dogma della perpetuatio obligationis. Potremo così stabilire (I) l’esistenza, per l’interpretazione del caso, di una regola certa e (II) richiamare una senz’altro antica considerazione dommatica, che fa chiaramente apparire come problematica la situazione che abbiamo di fronte. (I) La regola certa (e che già esisteva sicuramente fin dall’epoca della creazione della sponsiostipulatio 1) era quella 2 secondo la quale un’obbligazione non può sussistere se 1 Non possiamo dubitare dell’antichità di tale regola, ma ai nostri fini presenti basta notare che in sua assenza la definizione del dogma della perpetuatio obligationis non avrebbe avuto senso. 2 Vedi in proposito nel vol. II,1 p. 222 ss.
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la prestazione che ne è oggetto è impossibile (vale a dire non può oggettivamente essere eseguita); ne consegue la nullità di un atto obbligatorio diretto a creare un’obbligazione impossibile, nonché (è quel che ci interessa nel nostro caso) l’estinzione di un’obbligazione (già validamente creata) per la sopravvenuta impossibilità del suo oggetto. Nel nostro caso, dunque, la prestazione dovuta era il trasferimento da Caio a Tizio della proprietà di Stico, e siccome Stico è morto nulla è più dovuto da Caio a Tizio: in altri termini, il debitore Caio dev’essere considerato liberato. (II) Alla soluzione cui condurrebbe il ragionamento fatto sub (I) si deve però opporre una considerazione, che si basa – e certo si basava nella mente dei veteres – sulla nozione stessa dell’obligatio: il debitore dispone di un unico atto autonomo per liberarsi dalla sua obbligazione, e quest’atto è l’adempimento. Nel nostro caso, dunque, le affermazioni I e II sono in conflitto. Non può dirsi (I) che l’obbligazione sorta nella stipulatio Tizio-Caio obblighi più Caio; né può dirsi (II) che cagionando la morte di Stico Caio si sia liberato dall’obbligazione di darlo a Tizio. Ora, come vedremo subito, l’intelligenza dommatica dei veteres permise loro di costruire un dogma che non consisteva se non nel prendere in considerazione gli elementi dell’analisi del caso e descrivere la soluzione in essi implicita. L’affermazione di partenza è la (II): è vero che Caio, cagionando la morte dello schiavo Stico, non può essersi liberato: per conseguenza bisogna dire che Caio, con il suo atto, ha bensì reso impossibile la prestazione, ma non ha estinto l’obbligazione; l’obbligazione che rimane non può dunque più essere adempiuta, e quindi essa per il debitore risulta inestinguibile: ciò significa precisamente che, uccidendo Stico, Caio ha perpetuato la propria obbligazione di darlo. Siccome – infine – l’obbligazione perpetuata sussiste, Tizio è ancora titolare dell’azione generata da tale obbligazione: sarà Tizio che, esperendo l’azione, provocherà e l’estinzione dell’obbligazione perpetuata e insieme la condanna di Caio a suo favore. La spiegazione, che ho così dato del fenomeno della perpetuatio obligationis, è testualmente confermata nel suo punto essenziale, e precisamente in questo: la “perpetuazione” dell’obbligazione del debitore che per sua colpa abbia prodotto il perimento dell’oggetto dovuto, cioè abbia causato l’impossibilità della relativa prestazione, non corrisponde ad una speciale regola che l’ordinamento imponga per questo caso, ma è piuttosto una conseguenza logica del comportamento del debitore nel caso concreto: in altre parole, non è l’ordinamento giuridico a “perpetuare”, nel caso, l’obbligazione del debitore, ma è il debitore stesso che, cagionando la morte dello schiavo, “ha perpetuato la sua obbligazione di darlo”. Leggiamo l’affermazione che si legge all’inizio di questo testo di Paolo: Paul. D.45,1,91,4: Nunc videamus in quibus personis haec constitutio locum habeat. quae inspectio duplex est, ut primo quaeramus, quae personae efficiant
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perpetuam obligationem, ... utique autem principalis debitor perpetuat obligationem: ... “E vediamo ora quali persone riguardi questa constitutio. Quest’indagine ha due aspetti, ed innanzitutto chiediamoci quali siano le persone che rendono perpetua l’obbligazione ... e in ogni caso è soprattutto il debitore principale colui che perpetua l’obbligazione ...” Riportando solo queste poche righe ho voluto richiamare l’attenzione sull’affermazione essenziale a questo punto del nostro discorso sulla perpetuatio obligationis, ma una precisazione generale è subito necessaria. Il testo è, naturalmente, assai più tardo dei tempi dei veteres, ma Paolo, che ne è l’autore ci informa espressamente che sta spiegando quod veteres constituerunt. Infatti, Paul. D.45,1,91,4 appartiene alla sequenza relativa alla perpetuatio obligationis che i compilatori del Digesto leggevano nel libro 17 del commentario di Paolo ad Plautium 3. Questa sequenza, che s’inizia in D.45,1,91,3 (ed è appunto aperta dalla frase ‘Sequitur videre de eo, quod veteres constituerunt, quotiens culpa intervenit debitoris, quemadmodum intellegendum sit.’), prosegue sino a D. 43,1,91,6, dove Paolo la conclude passando a trattare dell’effectus huius constitutionis. Copierò qui l’intera sequenza, non soltanto perché il lettore si renda ben conto del contesto nel quale si trova inserita l’affermazione che abbiamo detto qui interessarci, ma anche perché vi vengono spiegati aspetti del regime della perpetuatio che non potremo spiegare altrove. Come si vedrà, molti di questi aspetti sono illustrati da Paolo con il pensiero di giuristi di epoca assai vicina alla sua (Pomponio soprattutto e Giuliano). Infatti, il dogma della perpetuatio obligationis resterà in vigore nel diritto romano in modo definitivo nella materia della responsabilità per l’inadempimento delle obbligazioni, ma con limitazione al settore del suo impiego originario, che si limitava al regime delle azioni seguenti: Actio ex stipulatu certi (formula: s. p. Nm Nm Ao Ao ex sponsione servum Stichum dare oportere); Actio ex testamento certi: (s. p. Nm Nm Ao Ao ex testamento Li Ti servum Stichum dare oportere); Condictio certae rei (s. p. Nm Nm Ao Ao servum Sticum dare oportere). In queste azioni la perpetuatio veniva in considerazione nel caso in cui la prestazione fosse divenuta impossibile e l’impossibilità risultasse imputabile al convenuto stesso o fosse, come vedremo, da porre a suo rischio in quanto intervenuta durante la mora. Leggiamo dunque la sequenza paolina: D.45,1,91,4 (Paul. 17 ad Plautium): Nunc videamus in quibus personis haec constitutio locum habeat. quae inspectio duplex est, ut primo quaeramus, quae personae efficiant perpetuam obligationem, deinde quibus eam producant. utique autem principalis debitor perpetuat obligationem: accessiones an perpetuent, dubium est. Pomponio perpetuare placet: quare enim facto suo [fideiussor] suam obligationem tollat? cuius sententia vera est: itaque perpetuatur obligatio tam ipsorum quam successorum eorum. Accessionibus quoque suis [, id est fideiussoribus,] perpetuant obligationem, quia in totam causam spoponderunt. 5: An filius familias, qui iussu patris promisit, occidendo servum producat patris obligationem, videndum est. Pomponius producere putat, scilicet quasi accessionem intellegens eum qui iubet. 6: Effectus huius constitutionis ille est, ut adhuc homo peti possit: sed et acceptum ei posse ferri creditur et [fideiussorem] accipi eius obligationis
3
Plauzio fu giurista della stessa epoca di Pegaso, attivo nella seconda metà del I secolo d. C.
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nomine. novari autem an possit haec obligatio, dubitationis est, quia neque hominem qui non est neque pecunia quae non debetur stipulari possumus. ego puto novationem fieri posse, [si hoc actum inter partes sit,] 4 quod et Iuliano placet. Alla traduzione, che seguirà munita di altre precisazioni parentetiche o in nota, premetto alcune considerazioni di carattere generale. Come si vedrà, ho conservato nella traduzione il termine latino ‘constitutio’, con il quale Paolo qualifica l’idea giuridica della perpetuatio obligationis. Tale vocabolo possiede in latino diversi significati e quelli che qui possono in particolare venire in considerazione sono quelli di “definizione, disposizione, istituzione” o anche quello specifico che, come si sa, ha nell’espressione ‘constitutio principis, constitutiones imperatoris); però qui il suo preciso equivalente nel linguaggio giuridico italiano sarebbe “dogma”, che io non uso soltanto perché il suo impiego non è ancora, a questo proposito, sufficientemente diffuso nel linguaggio dei romanisti. Non oso impiegarlo, dunque, nella traduzione di un passo, anche se ho già qualificato, e continuerò a farlo, come dogma quello della perpetuatio obligationis. Nel nostro passo si alternano, per indicare il fenomeno giuridico che c’interessa, il verbo ‘perpetuare’ (che tradurrò con “perpetuare”) e il verbo ‘producere’ (che tradurrò con “prolungare”). Il significato letterale è lo stesso, ma l’alternativa, nello scrivere di Paolo, si comprende in questo senso: egli usa producere per alludere ai casi nei quali colui che uccide lo schiavo promesso perpetua l’obbligazione di una persona diversa da lui stesso (nel concreto della sua esemplificazione poi il caso è uno solo, quello del filius, nel § 5, che perpetua l’obbligazione del padre iubens); si può però intendere – data l’indicazione generale nel § 4: quibus eam producant – che egli pensi anche ai casi nei quali colui che prolunga l’obbligazione di un altro abbia anche perpetuato la propria. Riportando sopra il testo, vi ho segnato come frutto d’interpolazione tutte le menzioni del fideiussor, sostituendole con quella dello sponsor. La mia giustificazione è la seguente. Partiamo dalla premessa che le stipulazioni di garanzia erano di tre specie nel diritto classico (sponsio, fidepromissio e fideiussio: Gai.3,115 ss.) e che mentre le prime due potevano accedere soltanto ad un’obbligazione contratta con stipulatio (la fidepromissio si differenziava dalla sponsio in quanto questa era riservata ai cittadini romani), la terza poteva accedere a qualunque obbligazione (in particolare essa era usuale e necessaria per le obbligazioni sorte da contratto consensuale) e, come si sa 5, nell’epoca giustinianea soltanto la fideiussio era ancora in uso, sicché nel Digesto tutte le menzioni delle stipulazioni di garanzia compaiono come menzioni della fideiussio (cfr. I. 3,20), per cui – per quello che ora ci interessa – i vocaboli fideiussio e fideiussor sono sempre stati sostituiti dai compilatori a sponsor e sponsio nei testi classici dove comparivano. Ora, che nel passo dei libri di Paolo ad Plautium che stiamo esaminando la stipulazione di garanzia menzionata fosse certo la sponsio (e tanto più che così fosse nel luogo risalente ai veteres che Paolo, magari attraverso Plauzio, seguiva) risulta per diverse ragioni. Anzitutto l’intero ragionamento fattovi per illustrare la perpetuatio obligationis si basa su di un semplice esempio di stipulatio certae rei concepita fra cittadini romani (il caso di partenza, che è quello stesso da me proposto all’inizio di questo discorso, è esposto in Paul. D. 45,1,91 pr.), per il quale la garanzia mediante sponsio era del tutto naturale; a ciò va aggiunto 4 Queste ultime parole tra parentesi quadre provengono certamente da un insipiente glossema (può anche darsi da un altrettanto insipiente interpolazione, come pensava il LENEL). Le ometterò nella traduzione. 5 Vedi in sintesi KASER, RPR, 457.
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che la fideiussio è la più tarda delle obbligazioni di garanzia 6, il che rende difficilmente credibile che i veteres, nel caso dell’esempio parametrico (che si deve ritenere risalga a loro) la menzionassero. Ma c’è un ulteriore argomento: gli esempi di accessiones che compaiono in Paul. D.45,1,91 funzionano bene, nei termini delle spiegazioni che vi si leggono, se la stipulazione di garanzia in gioco avesse lo stesso oggetto della stipulazione garantita, e ciò vale solo per sponsio e fidepromissio e non per la fideiussio 7. E ora la traduzione. “4: Vediamo ora quali persone riguardi questa constitutio. Questa indagine è duplice: dobbiamo anzitutto chiederci quali siano le persone che rendono perpetua l’obbligazione, e poi a quali persone 8 (coloro che la rendono perpetua) la prolunghino. In ogni caso, il debitore principale perpetua l’obbligazione; se i debitori accessori (accessiones) la perpetuino, è dubbio. Pomponio è del parere che la perpetuino: come potrebbe, in effetti, il garante (sponsor) estinguere con un fatto proprio la sua obbligazione 9? Il parere di Pomponio è giusto. Così dunque viene perpetuata tanto l’obbligazione di loro stessi, quanto (quella) dei loro successori. Ed anche ai loro garanti essi perpetuano l’obbligazione perché (questi) hanno risposto alla stipulatio riferendosi all’intero affare 10. 5: Vediamo se un filius familias, il quale abbia promesso per iussus del suo pater, uccidendo lo schiavo (promesso) prolunghi l’obbligazione del padre. Pomponio ritiene che la prolunghi, nel senso che si deve intendere che colui che dà il iussus sia un debitore accessorio (quasi accessionem). 6: L’effetto di questa constitutio è questo: che lo schiavo può ancora essere preteso in giudizio (malgrado sia morto): ma si crede che di esso (cioè: dello schiavo morto) possa anche farsi l’acceptilatio e si possa anche assumere un garante (sponsor) per l’obbligazione (perpetuata) di cui egli è oggetto. Ma se questa obbligazione possa anche essere novata è dubbio, perché (questa è la ragione che si adduce avanzando quel dubbio) non può essere fatto oggetto di stipulatio (novatoria) né uno schiavo (homo) che non esiste né denaro che non è dovuto. Io penso (tuttavia) che la novazione può farsi [-], ed anche Giuliano lo ritiene. 6
Sulla datazione della fideiussio vedi CANNATA, Corso II,1, 164 s. Se i veteres conoscevano già la fideiussio, è tuttavia ragionevole ritenere che essa, che fu introdotta anzitutto per permettere una garanzia stipulatoria alle obbligazioni nascenti da contratto consensuale, abbia anche avuto, nell’epoca più antica, un campo d’applicazione limitato. 7 Il punto è trattato nel vol. II,1 di questo Corso, e posso qui ormai affermare che la precisazione da me fatta ivi, nella n. 2 di p. 148 (dove pensavo ad un errore dell’amanuense del manoscritto veronese di Gaio) in effetti non consiste in un errore dello scriba ma in una cattiva lettura del suo testo. La mia proposta di correzione di Gai.3,116 è stata confermata essere in effetti conforme al manoscritto originale dall’indagine spettrale effettuata dal BRIGUGLIO, di cui vedi Il codice veronese in trasparenza, Bologna 2012, p. X n. 7, nonché, più estesamente, l’articolo Un puntino denso di significati ... dello stesso autore richiamato nel luogo or ora cit. 8 Si trova talora tradotto “a favore di quali persone”: ma si tratta di un’interpretazione errata. 9 Il ragionamento di Pomponio sembra essere questo: lo sponsor ha prestato la sua garanzia nel modo seguente: a) STIPULAZIONE PRINCIPALE: (domanda del creditore principale:) ‘spondes mihi servum Stichum dari?’ – (risposta del debitore principale:) ‘spondeo’. STIPULAZIONE ACCESSORIA: (domanda del creditore principale al garante:): ‘idem dari spondes? [= prometti di darmi la stessa cosa?] – (risposta del garante:) ‘spondeo’. Nel caso il garante uccida lo schiavo dovuto, se si dovesse decidere che egli con ciò ha solo reso impossibile la prestazione del debitore principale (perché in questo caso lo schiavo sarebbe morto senza colpa di costui), ne risulterebbe liberato anche il garante, perché venendo meno l’obbligazione garantita si estinguerebbe anche l’obbligazione del garante. E questo non è ammissibile perché così il garante avrebbe estinto la propria obbligazione con un fatto proprio (diverso dall’adempimento). 10 Quest’ultima frase pare riferirsi tanto al debitore principale quanto alle accessiones.
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Quando, nel § 6 del testo che abbiamo testé letto, Paolo passava all’effetto della perpetuatio, si esprimeva in un modo molto significativo. Infatti, scrivendo ‘effectus huius constitutionis ille est, ut adhuc homo peti possit’, egli dice nel modo più chiaro che quella della perpetuatio obligationis non è una regola, bensì una constitutio (dogma) dalla quale si desume (effectus huius constitutionis) una regola (‘ut adhuc homo peti possit’). È chiaro, naturalmente, che anche qui, come avviene d’ordinario, i giuristi individuarono il dogma giusto per dare fondamento razionale alla regola pratica che avrebbe permesso loro di dare a sua volta fondamento razionale alla soluzione opportuna del caso che si erano posti, ma ciò non toglie nulla al carattere intrinseco delle strutture del pensiero giuridico in gioco. Quanto alla regola, che in D.45,1,91,6 è espressa in una forma estremamente sintetica, la troviamo più dettagliatamente in particolare in un altro testo, questa volta di Pomponio: D.45,1,23 (Pomp. 19 ad Sabinum 11): Si ex legati causa aut ex stipulatu homimem certum mihi debeas, non aliter post mortem eius tenearis mihi, quam si per te steterit, quo minus [vivo eo] 12 eum mihi dares: quod ita fit, si aut interpellatus non dedisti aut occidisti eum. “Se tu mi debba un certo schiavo per causa di legato o per una stipulatio, dopo la sua morte non sarai più tenuto dall’obbligazione di darmelo, a meno che dipenda da te che tu non me ne abbia trasferito la proprietà quando era vivo: il che avviene se, avendo tu ricevuto l’intimazione di darmelo, non me lo abbia dato ovvero tu lo abbia ucciso.” La regola è qui enunciata in modo compiuto, completata anche con il caso della mora. Ciò risulta del tutto naturale perché nell’enunciato di Pomponio la colpa del debitore nell’aver cagionato l’impossibilità della prestazione dovuta è enunciata con la frase, di carattere assai generale, ‘si per te steterit, quo minus vivum eum mihi dares’, letteralmente “se sia dipeso da te (il fatto) che tu non me lo dessi quando era vivo”, con la quale non si comprende solo il caso in cui il debitore abbia cagionato per colpa la morte dello schiavo (solo se c’è colpa del debitore può dirsi che la morte dello schiavo dipenda da lui!), ma anche il caso nel quale il debitore avrebbe dovuto adempiere quando lo schiavo era vivo (perché l’adempimento poteva essere preteso ed è stato in effetti perentoriamente richiesto o era previsto un termine per l’adempimento e questo è scaduto), ma non ha adempiuto e poi lo schiavo è morto (anche senza colpa del debitore nella morte in se stessa). In altri termini, il ritardo del debitore nell’adempiere (cioè la sua ‘mora’) è equiparato alla colpa. 11 La Florentina reca ‘libro nono ad Sabinum’, ma va forse seguita la diversa numerazione (libro nono decimo) dubitativamente proposta dal LENEL, Pal. I, 111 n. 1 (Pomp. Fr. 553 in fine). 12 Correzione (probabile) del MOMMSEN; il senso, comunque, non cambia.
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È facile pensare che quella descritta – dico di applicare la perpetuatio anche al caso della mora, modificando l’enunciato della regola da ‘si culpa inervenerit debitoris’ a ‘si per debitorem steterit quo minus res detur’ – sia frutto di un’operazione di interpretazione estensiva del dogma (constitutio), effettuata dalla giurisprudenza qualche tempo dopo la sua prima determinazione. Se essa non ha per nulla mutato né la sostanza della dogma, né quella della regola, è utile che comunque, per l’ulteriore tentativo di chiarimento che mi accingo a fare, ci riferiamo soltanto alla situazione originaria. Quel che vorrei ora cercar di mettere in evidenza è la possibilità, che le fonti e la datazione degli eventi suggeriscono, di un elemento (insieme equitativo e sistematico) che può avere influenzato il pensiero dei veteres nella loro concezione del dogma della perpetuatio obligationis. Incominciamo con una notazione cronologica. L’attività dei veteres s’iniziò con quella dei fundatores intorno, possiamo dire con approssimazione, al 150 a. C. Con altrettanta approssimazione, possiamo dire che intorno al 200 a. C. venne promulgata la lex Aquilia, che si colloca dunque all’epoca dominata dalla figura di Sesto Elio, che fu console nel 198 e di Publio Elio, suo fratello, che fu console nel 201 a. C. Come abbiamo già visto nel capitolo precedente – e vedremo meglio nel prossimo volume –, la legge aquilia aveva introdotto, con norme di grande precisione dommatica, l’obbligazione da delitto a carico di colui che avesse, senza giustificazione giuridica (cioè: iniuria), distrutto la cosa altrui. Riporto qui il testo del primo capitolo di questa legge, e per il discorso che intendo fare ci basterà il suo esame, perché è in tale norma che si prospetta il caso dello schiavo ucciso, che sappiamo essere stato il caso parametrico anche per la riflessione dei veteres sulla perpetuatio. (lex Aquilia, caput I) 13: Si quis servum servamve alienum alienamve vel pecudem alienam iniuria occiderit, quanti is homo vel ea pecus eo anno plurimi fuit, tantum aes ero dare damnas esto. Traduco anzitutto: “Se uno abbia ucciso iniuria lo schiavo o la schiava altrui ovvero una pecus altrui, sia tenuto (damnas esto) a dare al proprietario una somma di denaro equivalente al maggior valore che quello schiavo o quella pecus ebbero in quell’anno.” 14.
13 Per la ricostruzione del primo capitolo delle legge aquilia vedi in particolare Il testo originale della lex Aquilia: premesse e ricostruzione del primo capo (1992), in Scritti II, 1 ss. 14 Qualche precisazione sulla traduzione: a) Nel testo si precisano, tenendo distinto il sesso, schiavo o schiava, per cui si replicano anche i sessi nel relativo aggettivo “altrui” (alienum o alienam), ma in italiano “altrui” non cambia nei due casi. b) Ho lasciato in latino ‘pecus’, sostantivo femminile che non ha un preciso corrispondente italiano; esso designa qualunque animale che, allo stato naturale, viva in gregge o in branco (quindi cavalli, asini, muli e bardotti, pecore e capre, ma non cani, gatti etc. Cfr. Gai. D.9,2,2,2).
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Ho lasciato in latino la parola iniuria (che è all’ablativo) e che significa in se stessa “senza ius”, cioè “senza averne diritto” o meglio “senza che vi sia giustificazione fornita dal diritto”; la legge dunque sanziona l’uccisione dello schiavo o dell’animale altrui che non fosse giustificata; per esempio, risulterà giustificata l’uccisione di uno schiavo che mi aggredisca, o di un animale pericoloso, o comunque se io agisca col consenso del proprietario. Ma quel che più importa ai nostri fini, è che la parola iniuria usata nella lex Aquilia fu poi (e presto) intesa come equivalente a culpa, anzi fu alla radice della costruzione, da parte della giurisprudenza romana, della nozione di colpa nell’insieme della materia della responsabilità nel diritto privato e precisamente come indicazione generale (comprensiva anche del dolo) della riprovevolezza dell’azione ai fini dell’individuazione dell’elemento soggettivo della condotta dannosa 15. Dopo queste premesse, passiamo ad una considerazione casistica. Il caso proposto sarà il solito che conosciamo, e ne proporremo due varianti, relative a fatti che supponiamo avere avuto luogo dopo che la stipulatio (che nel nostro caso è prevista avere avuto luogo tra le parti) era stata validamente conclusa. Ciò faremo per rispondere poi alla domanda seguente: come avrebbe potuto risolvere i due casi, così proposti, un giurista romano operante dopo la promulgazione della legge aquilia e prima della definizione del dogma della perpetuatio obligationis? Dunque: Stipulazione avvenuta: Tizio si è fatto promettere da Caio, il quale è proprietario dello schiavo Stico, di dargli (= trasferendogliene la proprietà) lo schiavo Stico stesso. Prima variante: Caio adempie la sua obbligazione (facendo a Tizio la mancipatio dello schiavo). Dopo di che Caio uccide Stico. Soluzione: Tizio potrà agire contro Caio con l’azione basata sul primo capo della legge aquilia (actio ex lege Aquilia), ad esito della quale il giudice condannerà Caio a pagare a Tizio una somma di denaro pari al valore dello schiavo (valore calcolato secondo i criteri stabiliti nel primo capitolo della legge). Motivo della decisione: trasferendo a Tizio lo schiavo Stico, Caio ha reso Tizio proprietario dello schiavo; la legittimazione attiva all’actio ex lege Aquilia spetta al proprietario (erus = dominus) dello schiavo ucciso e colui che lo ha ucciso ne ha la legittimazione passiva. Seconda variante: Caio, prima di adempiere la sua obbligazione (cioè prima di trasferire la proprietà dello schiavo a Tizio), uccide lo schiavo Stico. Soluzione: Tizio non dispone di alcuna azione contro Caio. Motivo della decisione: Caio, quando ha ucciso Stico, ne era ancora proprietario, e pertanto non può esservi azione ex lege Aquilia contro di lui; così, parallelamente, l’azione aquiliana non può spettare a Tizio, che dello schiavo ucciso non era proprietario. Come si vede, dal confronto fra le due varianti del caso emerge una disar15
Di ciò vedremo a suo luogo, nel prossimo volume. Per ora si legga comunque Gai. 2,211.
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monia fra le due soluzioni. Considerando il profilo dell’equità, non si può non accorgersi che il fatto di Caio che uccide lo schiavo quando ancora lo doveva produce a Tizio un danno dello stesso genere di quello che gli produrrebbe uccidendo lo schiavo dopo avere adempiuto. E ciò rappresenta anche una disarmonia sistematica; alla tutela del proprietario non corrisponde una parallela tutela del creditore di una res certa, quando il credito di una res certa rappresenta una situazione che costituisce una premessa giuridicamente compiuta alla proprietà. Che i veteres abbiano scorto questa disarmonia è già reso assai probabile dal fatto stesso che la perpetuatio obligationis fu escogitata appunto per eliminarla. Ma vi sono anche, della cosa, indizi abbastanza precisi. Già non è senza valore il fatto che, come già abbiamo potuto notare, l’esempio che ricorre all’inizio della trattazione giurisprudenziale della perpetuatio è quello dello schiavo ucciso, che corrisponde alla prima fattispecie della casistica aquiliana, e precisamente si tratta, entrambe le volte, dello schiavo ucciso con colpa; per giunta, vi sono testi in materia di perpetuatio nei quali si allude all’uccisione dello schiavo parlando di factum (debitoris), con una terminologia dunque appropriata piuttosto per il fatto punito dalla legge aquilia; si possono vedere, ad esempio, Pomp. in Paul. D.45,1,91,4 (che ben conosciamo), Paul. D.46,1,58,1, che è parallelo del testo precedente, e che il lettore è in grado di apprezzare in tutta la sua interezza (Cum facto suo reus principalis obligationem perpetuat, etiam [fideiussoris] durat obligatio, veluti si moram fecit in Sticho solvendo et is decessit), dove, fra l’altro, il factum debitoris – cioè il factum suum del debitore che uccide – è contrapposto alla mora, che pure è mora del debitore, ma non è un factum nel senso aquiliano, cioè il fatto di avere cagionato materialmente il perimento della cosa 16. Ma si aggiungano in particolare Paul. D.45,1,91 pr. nella parte (che sopra non abbiamo considerato) dove il giurista precisa che la colpa del promissor che ha ucciso lo schiavo deve essere una colpa commissiva e non solo omissiva, e ciò rappresenta una caratteristica anche del fatto commesso in violazione della legga aquilia (... an culpa, quod ad stipulationem attinet, in faciendo accipienda sit, non in non faciendo? quod magis probandum est, quia qui dari promisit, ad dandum, non faciendum, tenetur). E leggiamo infine un passo, che proviene dalle Pauli sententiae e del quale – siccome lo rileggeremo poco più avanti – possiamo per ora limitarci a riportare le sole parole più significative: Paul.5,7,4: Cum facto promissoris res in stipulatum deducta intercidit, perinde agi ex stipulatu potest ...: ideoque promissor aestimatione eius punitur ...: cioè:
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E, per apprezzare del tutto questo testo, si tenga presente quanto abbiamo potuto dire sopra, che cioè il perimento, anche casuale, della cosa intervenuto durante la mora del debitore è stato aggiunto alla casistica della perpetuatio per via interpretativa dopo l’epoca della prima determinazione del dogma.
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“quando la cosa dedotta in una stipulatio è perita per fatto del promissor, si può allo stesso modo esperire l’azione basata sulla stipulatio ... e con ciò il promissor viene punito con una somma corrispondente al valore della cosa.” Nell’ultimo testo si afferma che il promissor, il quale per fatto suo abbia cagionato il perimento della cosa promessa e perciò subisca l’azione basata sulla stipulatio, viene “punito con una somma di denaro corrispondente al valore della cosa”. Qui, come si vede, la terminologia impiegata sembrerebbe decisamente aquiliana: l’azione basata sulla stipulatio non è un’azione penale, ma un’azione reipersecutoria, e quindi l’idea della “punizione” sembra proprio derivarvi dall’analogia fra sanzione aquiliana e sanzione mediante perpetuatio obligationis per le due situazioni dell’uccisore dello schiavo altrui e quella dell’uccisore dello schiavo proprio dovuto ad altri. A questo punto possiamo formulare una conclusione a questo lungo discorso, dando risposta ad un problema che ci eravamo posti, forse senza l’aria di porcelo veramente come problema, all’inizio del presente capitolo, e cioè chiarire in che senso abbiamo ritenuto di porre la nozione della perpetuatio obligationis nella tipologia delle fonti d’obbligazione. Il fatto è che i veteres, immaginando il dogma della perpetuatio obligationis, hanno – per la prima volta, ma in modo dommaticamente definitivo – creato la nozione di obbligazione al risarcimento del danno per inadempimento. Alcune necessarie precisazioni terminologiche. Quando si parla di responsabilità nel diritto privato si devono soprattutto distinguere le due nozioni della responsabilità da delitto e della responsabilità da inadempimento. Se parlare di responsabilità da delitto (ex delicto) è perfettamente appropriato per il diritto romano, per il diritto moderno risulta corretto solo riferendosi alla terminologia del Code civil francese, dove il fatto illecito extracontrattuale è pure denominato delitto (délit), mentre per la generalità degli altri linguaggi giuridici nazionali europei si usa di solito (data la specifica terminologia dei codici, che denominano i delitti privati come fatti, o atti, illeciti) un’espressione del tipo “responsabilità da fatto (atto) illecito”, alla quale si aggiunge normalmente la parola “extracontrattuale”: e questa aggiunta è, in realtà necessaria, perché altrimenti l’espressione rimane equivoca, in quanto anche l’inadempimento è un illecito. Quanto alla responsabilità da inadempimento (sottintendendo “della prestazione dovuta”), nel diritto moderno si trova talora usata l’espressione “responsabilità da fatto lecito”, la quale è francamente scorretta, in quanto, come si diceva, anche l’inadempimento è un fatto illecito: una responsabilità da fatto lecito non può esistere. L’alternativa moderna è quella di responsabilità contrattuale, in sé troppo approssimativa, e inesatta anche perché tale responsabilità si riferisce pure a fattispecie che non sono contrattuali (come appunto i fatti leciti obbligatori che non sono contratti, quali la gestione d’affari altrui e simili). La nostra terminologia generale in materia sarà dunque, rispettivamente, quella di “responsabilità da delitto” e “responsabilità da inadempimento”.
Naturalmente, numerose situazioni di responsabilità erano previste anche nel diritto romano arcaico, molto prima che fosse promulgata la legge aquilia o
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che fosse definito il dogma della perpetuatio, ma solo con questi ultimi eventi si pervenne ad una costruzione dommatica precisa della fattispecie. L’obbligazione al risarcimento del danno da delitto fu formulata chiaramente soltanto dalla lex Aquilia: ne abbiamo riportato sopra il primo capitolo, dal quale si vede già che la sanzione prevista per il delitto ivi sanzionato non è semplicemente il pagamento di una pena, ma invece il sorgere, in capo al reo, di un’obbligazione a pagare il risarcimento del danno cagionato. Confrontiamo – per chiarire quel che dico in un modo assai semplice – l’enunciato della legge aquilia (Si quis servum ... alienum ... iniuria occiderit, quanti is homo ... eo anno plurimi fuit, tantum aes ero dare damnas esto) con il testo che nelle dodici tavole comminava la pena pecuniaria fissa per il delitto di iniuria semplice, e cioè: tab.8,4: Si iniuriam faxit, viginti quinque poenae sunto 17. Questo confronto mostra chiaramente che all’enunciato della norma decenvirale soggiace l’idea della soggezione del colpevole alla pena, laddove nella norma aquiliana il reo è gravato dall’obbligazione di pagare una somma di denaro 18. Sempre di pena si tratta, perché la legge aquilia prevedeva un delitto privato: ma (se passiamo a pensare alla perpetuatio obligationis nella sua connessione genetica con la fattispecie aquiliana) questo lascia intendere che con il meccanismo della perpetuatio obligationis i veteres intesero proprio trasferire l’idea della creazione di una sanzione risarcitoria dal campo dell’obbligazione da delitto alla materia dell’inadempimento. La definizione che ne sgorga della responsabilità per inadempimento è quella, dunque, di un meccanismo sanzionatorio (non penale) del fatto dell’inadempimento di una prestazione dovuta e divenuta impossibile per colpa del debitore, che vede estinta, per la sopravvenuta impossibilità della prestazione, l’obbligazione originaria e la sostituisce con l’obbligazione, dello stesso debitore inadempiente verso lo stesso creditore, al risarcimento del danno. Questa struttura, dommaticamente così definita dai veteres (insieme a quella, parallela, della responsabilità da delitto), resterà definitiva, malgrado gli adattamenti e le varianti che la toccheranno nello stesso diritto romano e fino a noi (si pensi, per fare qualche esempio, ai casi di responsabilità per fatto altrui, alle fattispecie nelle quali il criterio di responsabilità non è quello della colpa, ma si tratta, in particolare, di responsabilità oggettiva etc.). Fra le considerazioni che la struttura originaria permette, ne ricordo qui una sola, perché è fondamentale, e dai giuristi moderni non viene sempre sufficientemente apprezzata. Si tratta di questo. Il problema della responsabilità da inadempimento si 17
Traduzione “Se alcuno faccia iniuria (ad un altro), la pena sia di venticinque (assi).” Sul ‘damnas esto’ (che nella traduzione fatta sopra del primo capo della lex Aquilia ho tradotto “sia tenuto”) rileggere anche (per ora) nel cap. IV il luogo che s’inizia intorno alla n. 34. 18
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pone solo ove la prestazione dovuta sia divenuta impossibile: finché la prestazione sia possibile il debitore che non l’esegua non sarà gravato da responsabilità per inadempimento, perché l’obbligazione originaria continua a sussistere, e l’azione del creditore avrà per iscopo quello di ottenere l’esecuzione della prestazione e non avrà per oggetto la pretesa al risarcimento del danno. Il ritardo nell’adempimento non altera l’obbligazione originaria: esso costituisce di per se stesso un illecito (l’inesecuzione dell’obbligazione alla tempestività dell’adempimento, che potrà dar luogo, da parte del creditore, alla pretesa al risarcimento dei danni da ritardo, in quanto il ritardo, man mano che avviene, rende impossibile, per il tempo trascorso, la tempestività della prestazione). Aggiungerò una sola considerazione finale. Credo che, in quel che abbiamo detto, sia emersa chiaramente l’importanza che nella storia della dommatica (e cioè del pensiero giuridico), riveste la costruzione, da parte dei veteres, della perpetuatio obligationis. Ma, di ciò, non è possibile rendersi conto se tale struttura non venga intesa correttamente: e troppo spesso avviene, magari anche leggendo le trattazioni romanistiche della materia 19, ma spessissimo ascoltando i civilisti attuali 20 che ne parlano, scoprire che la perpetuatio obligationis viene falsamente intesa, soprattutto perché si ritiene che la perpetuatio fosse concepita dai giuristi romani come il permanere dell’obbligazione originaria (cioè il debito del promissor di dare lo schiavo Stico), e di conseguenza, che quella della perpetuazione dell’obbligazione consisterebbe in una finzione. Queste due storture dommatiche meritano una confutazione precisa. Che la perpetuatio obligationis non consista nel permanere dell’esistenza dell’obbligazione originaria era già evidente da quel che abbiamo potuto chiarire in precedenza, dove in particolare abbiamo visto che il problema della perpetuatio sorge proprio dalla constatazione che l’obbligazione originaria è estinta. L’obbligazione originaria del debitore essendo quella di dare lo schiavo Stico, essa non può più sussistere dopo la morte dello schiavo, la quale ne ha resa impossibile l’esecuzione. Dopo la morte di Stico non è dunque concepibile che il debitore lo debba ancora dare, perciò l’obbligazione perpetuata non può identificarsi con una nuova fase dell’obbligazione originaria; e infatti così non è, perché l’obbligazione perpetuata ha appunto un oggetto diverso da quello dell’obbligazione originaria. Il promissor, che doveva lo schiavo, ora deve il risarcimento del danno cagionato al creditore uccidendolo. E non ha alcuna rilevanza il fatto che l’azione esperibile dal creditore (stipulator) contro il debitore sia la stessa nei due casi (si tratterà sempre di una condictio certae rei basata sul-
19 Da questa accusa non posso escludere neppure me stesso. Sulla natura della perpetuatio obligationis ho cominciato a capire qualcosa solo quando scrissi il mio contributo (Quod veteres constituerunt, ora in Scritti II, 439 ss.) alla Festschrift per Theo Mayer-Maly, pubblicata nel 2002. 20 Che, insieme ai comparatisti, dovrebbero essere, di noi romanisti, i partner naturali.
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la stipulatio intervenuta fra le parti) e neppure che la somma di denaro alla quale sarà infine condannato il convenuto sia (eventualmente) 21 identica tanto nel caso in cui tale condictio sia esperita semplicemente perché il debitore non adempia potendo adempiere, ovvero perché il debitore ha reso per sua colpa impossibile la propria prestazione del dovuto. In sintesi – e forse più precisamente – possiamo esprimerci così: quella che viene perpetuata è bensì l’obbligazione originaria, ma quando essa è perpetuata non è più l’obbligazione originaria: essa è diventata l’obbligazione al risarcimento del danno causato dall’estinzione, imputabile al debitore, dell’obbligazione originaria. L’idea che la perpetuatio obligationis consista in una finzione esige un discorso diverso. Incominciamo col dire che, quando abbiamo cercato di chiarire che quello della perpetuatio obligationis è un dogma (cioè una costruzione giuridica razionale per l’interpretazione giuridica di certi fatti), siamo per ciò stesso lontani dalla possibilità di pensare ad una finzione, perché la finzione non è uno strumento dommatico. I giuristi romani conoscevano bensì l’impiego di finzioni, ma si trattava della fictio processuale, quella cioè inserita nell’intentio delle formule di alcune azioni per imporre – sul piano dello ius honorarium – l’applicazione analogica di certe soluzioni del ius civile 22. D’altra parte, si deve riconoscere che quello della perpetuatio obligationis è un meccanismo di limpida semplicità in se stesso, ma difficile da capire per un profano o anche un giurista non compiutamente esperto. Per restare nell’ambito del diritto romano si ricordi che nell’antica Roma i normali operatori del diritto – in particolare i giudici, gli avvocati e gli stessi magistrati – non erano, se non in sporadiche eccezioni, giuristi, ed a costoro si doveva pur spiegare, non tanto la perpetuatio in sé, ma la regola che ne derivava. Abbiamo visto sopra che Paolo, nei suoi libri ad Plautium, la sintetizzava così: ‘effectus huius constitutionis ille est, ut adhuc homo peti posssit’ (Paul. D.45,1,91,6), ma questa frasetta, per un profano che la considerasse in modo isolato perché non ne comprendeva le premesse esplicative presenti nel contesto, non risolveva i dubbi che le premesse medesime potevano avergli suscitato, se solo ne avesse tentato la lettura.
21 La condemnatio della condictio certae rei era in ‘quanti ea res est’ (cfr. Gai. D.13,3,4), e quindi ad una somma pari al valore della res al momento della litis contestatio dell’azione. Nell’azione diretta ad ottenere l’adempimento ancora possibile tale valore era evidentemente quello che aveva avuto lo schiavo in quel momento; nell’azione basata sulla perpetuatio la res era invece il valore del danno sofferto in tale momento dal creditore per la perdita definitiva della cosa. I due valori potevano non coincidere, ma nel campo delle actiones strictae (com’erano tutte la azioni basate sulla stipulatio) esse facilmente coincidevano, perché non vi si considerava l’eventuale danno da ritardo nell’adempimento. 22 Per una comparazione tra le fictiones romane e le finzioni di cui si è sempre valso il Common law inglese vedi CANNATA, Finzioni, in Scritti scelti III, 177 ss.
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È opportuno cercar di comprendere il senso della frase di Paolo, che ora abbiamo isolato dal brano sopra riportato, più precisamente di come esso poteva risultare dalla traduzione che già ne avevamo fatto: cercando soprattutto di individuare la funzione di quell’adhuc, che ne costituisce il perno logico, e che qui è impiegato nel senso di “ancora non ostante [qualcosa]”. Il senso che la frase aveva per Paolo si raggiunge bene, esplicitando i sottintesi che in conseguenza ne risultano evidenziati (e che pongo qui fra parentesi): “La portata di questo dogma è la seguente: che lo schiavo (malgrado sia morto e quindi non possa più essere preteso) può tuttavia essere fatto oggetto di azione (per il suo valore)”.
Ebbene, nelle fonti è attribuito a Paolo un altro passo, che leggiamo nell’operetta denominata Pauli sententiae, che però si ritiene in genere composta (diciamo verso la fine del terzo secolo) con brani provenienti dalle opere di quel giurista, e che non c’è seria ragione per non ritenere in genere fedeli ai rispettivi originali (che l’operetta però non precisa). Il passo delle Sententiae (che già abbiamo usato sopra, ad altri fini ed ora riportiamo integralmente) è questo: Paul.5,7,4: Cum facto promissoris res in stipulatum deducta intercidit, perinde agi ex stipulatu potest, ac si ea res extaret: ideoque promissor aestimatione eius punitur[, maxime si in dolum quoque eius concepta fuerit stipulatio]. Tralasciando di tradurre le parole finali, che hanno qui l’aria di un inutile glossema (ma forse possono dipendere dal fatto che il testo originale di Paolo era connesso con la soluzione di un caso specifico che le giustificava), abbiamo questa traduzione: “Quando una cosa dedotta in una stipulatio è perita per fatto del promissor, in base a ciò si può agire sulla base della stipulatio come se quella cosa esistesse (ancora): e dunque il promissor viene punito con il valore della cosa.” Leggiamo subito anche quest’altro passo di Ulpiano: D.45,1,82,1 (Ulp. 78 ad edictum): Si post moram promissoris homo decesserit, tenetur nihilo minus, proinde ac si homo viveret. 2: Et hic moram videtur fecisse, qui litigare maluit quam restituere. Il testo è qui evidentemente casistico. Il caso riguardava una situazione nella quale il promissor, che doveva lo schiavo Stico 23 allo stipulator, ha preferito farsi chiamare da costui in giudizio invece di eseguire subito la prestazione, allo scopo di dilazionare l’esecuzione stessa per il tempo necessario al processo. La tra23 Al fatto che nel testo si impieghi il verbo restituere invece di dare non va attribuita una rilevanza particolare. Ulpiano lo ha scelto probabilmente perché guardava i fatti dal punto di vista processuale, e in tale contesto il fatto di dare lo schiavo avrebbe realizzato la restitutio che, a partire dal momento della litis contestatio, avrebbe impedito la condanna del convenuto (Gai.4,114; vol. I, 148 e, per la terminologia, p. 129 ss.).
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duzione: “Se lo schiavo (promesso) sia morto dopo che il debitore sia divenuto moroso, costui è nondimeno tenuto come se lo schiavo fosse vivo. 2: E in questo caso si considera essere in mora colui che ha preferito impegnarsi in un processo piuttosto che restituire.” Nei due testi compaiono rispettivamente le espressioni ‘agi ex stipulatu potest, ac si ea res extaret’ (Paolo) e ‘tenetur nihilo minus, proinde ac si homo viveret’ (Ulpiano), che parrebbero entrambe formulare appunto una finzione: ma tutto il discorso che sulla base dei testi precedenti abbiamo potuto fare sulla perpetuatio obligationis permetterà certo al lettore di rendersi conto del carattere non solo assolutamente atecnico di tali frasette, ma proprio – come si diceva – del fatto che esse furono, dai giuristi che qui le scrissero, formulate così per chiarire a dei profani un meccanismo giurisprudenziale riducendone le dimensioni in modo che chiunque potesse farsene un’idea “praticamente praticabile”. Questo sforzo di Paolo e Ulpiano ci permette anche di guardare con indulgenza a coloro che si pongono in questa dimensione ai nostri tempi, che rispetto a quelli di Paolo e Ulpiano, distano dai veteres assai secoli in più 24.
24
E si deve riconoscere che, in particolare proprio basandosi sui due testi che da ultimo abbiamo letto, vi furono anche dei romanisti che sostennero, almeno, che la perpetuatio obligationis implicasse una finzione. Si veda la breve rassegna nel mio articolo Quod veteres constituerunt, in CANNATA, Scritti scelti II cit., 446 s., a partire dal luogo che segue la n. 27. Il VON LÜBTOW, Beiträge zur Lehre von der condictio nach röm. und gelt. Recht, Berlin 1952, 81, giunse all’estremo di sostenere che l’impiego processuale della perpetuatio obligationis comportasse l’inserzione nella formula di un’apposita fictio (per la recisa critica che di quest’idea fece il KASER, vedine la citazione nei miei Scritti II, 447 n. 29).
INDICE
pag. Nota introduttiva
V
Abbreviazioni
VII
Repertorio dei giuristi citati
XI
I LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI 1. La nozione di fonte d’obbligazione 2. La classificazione delle Istituzioni di Gaio
1 2
II I GENERI RELATIVI ALLA CONDICTIO 1. 2. 3. 4.
I generi relativi alla condictio Verbis obligari Litteris obligari Re obligari 4.1. L’arricchimento ingiustificato
25 51 52 79 96
III INTRODUZIONE GENERALE AI CONTRATTI CONSENSUALI 1. Premessa 1.1. L’edictum de pactis 1.2. I modi del consenso 2. I contratti consensuali
143 144 164 169
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pag. 2.1. Contratti consensuali nominati (tipici) e innominati (atipici) 2.2. Il sistema dei contratti consensuali nominati 2.3. Il riconoscimento delle figure di contratti innominati 3. Le azioni contrattuali
182 183 190 216
IV INTRODUZIONE GENERALE ALLE OBBLIGAZIONI DA DELITTO 1. Le obbligazioni da delitto 2. Le azioni nossali
227 239
V LA ‘PERPETUATIO OBLIGATIONIS’ 1. Premessa 2. Il dogma della ‘perpetuatio obligationis’
255 256
LA ‘PERPETUATIO OBLIGATIONIS’
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Finito di stampare nel mese di marzo 2017 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220