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Italian Pages XIII,256 [257] Year 2019
ALTRI studi di diritto romano tardoantico
Federico Pergami
ALTRI studi di diritto romano tardoantico
G. Giappichelli Editore
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Indice
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INDICE
pag. Premessa Presentazione di Antonio Palma 1. Il processo privato nella legislazione dell’imperatore Diocleziano
VII IX 1
2. Sistema giudiziario e funzionari imperiali nel processo romano della tarda antichità
21
3. Introduzione al processo civile nell’esperienza romana della tarda antichità
43
4. Itinerario scientifico di Manlio Sargenti
99
5. Difesa delle frontiere dell’impero e attività normativa nella legislazione tardoantica
121
6. Sulla sfera di applicazione dei provvedimenti imperiali nel diritto romano tardoantico
151
7. La patologia negoziale nella tarda antichità
181
8. Il regime del patrimonio immobiliare imperiale nella legislazione del tardo diritto romano
195
Indice delle fonti
217
Indice degli Autori
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Altri studi di diritto romano tardoantico
Il processo privato nella legislazione dell’imperatore Diocleziano
VII
PREMESSA
Con cadenza periodica, come nelle precedenti occasioni (Studi di diritto romano tardoantico, 2011 e Nuovi studi di diritto romano tardoantico, 2014), anche quest’anno ho inteso raccogliere -in un unico volume collettaneo- i risultati degli studi, in parte inediti, che ho dedicato, nel più recente torno di tempo, alla legislazione romana della tarda antichità. Una forte sollecitazione a tale iniziativa è venuta dagli studenti del Corso di laurea in Giurisprudenza dell’Università Bocconi di Milano, che hanno dimostrato piena e matura consapevolezza degli insegnamenti, di metodo e di conoscenza, anche in chiave di professionalizzazione dei loro studi, che possono trarre dall’esperienza giuridica romana, specialmente dell’età tarda, frequentando, con passione e assidua perseveranza, le lezioni dei corsi romanistici del primo anno del loro percorso didattico e formativo, come dimostrano i lusinghieri risultati degli esami di profitto, oltre che la qualità delle tesi di laurea. A ben vedere, altro non ho fatto che cercare di trasmettere loro gli insegnamenti ricevuti, in anni ormai lontani, da Manlio Sargenti, compianto e severo Maestro, il cui itinerario scientifico nell’Accademia Romanistica Costantiniana, cui Egli ha dedicato le migliori energie di studioso e di uomo, ho ripercorso in un contributo del presente volume, come pure da Eva Cantarella, il cui magistero continua ad offrire suggestioni e stimoli di ricerca e di studio. Antonio Palma, studioso particolarmente sensibile alla realtà giuridica del tardo Impero, si è assunto l’onere della lettura del manoscritto: a Lui, anche per questo, la mia riconoscenza affettuosa e sincera. Come sempre, la dedica è per mia moglie Cristina e per i miei figli Edoardo e Vittoria.
F.P. Milano, 31 dicembre 2018
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Altri studi di diritto romano tardoantico
Presentazione
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PRESENTAZIONE
Di che cosa propriamente parliamo, quando parliamo di tardo antico? Che il termine faccia convenzionalmente riferimento ad un periodo di transizione dal mondo antico a quello medievale è circostanza comunemente accreditata, per meglio dire scontata. E che tale arco temporale sia stato oggetto di opposte analisi, come quella pessimistica dello Stilicone che Santo Mazzarino pubblicò nel pieno del II conflitto mondiale, è circostanza sin troppo nota. Se poi volessimo inforcare gli occhiali del giurista di jemoliana memoria allora si manifesterebbe al nostro sguardo un periodo storico che se letto come raccolta delle edictales generalesque constitutiones, cui il programma culturale di Teodosio il Grande era proteso ad imporre, si ridurrebbe ad appendicula della giurisprudenza romana classica, nella quale i giuristi rivestivano (a detta loro) gli abiti curiali di indiscussi sacerdotes iuris. Ma evitando di impantanarsi nel solco tracciato da deformanti interpretazioni di un periodo storico che per la sua stessa onomastica pare connotato da buio e decadenza, Federico Pergami restituisce alla contraddittorietà caratterizzante il IV secolo d.C., che trovò in Ammiano Marcellino, come credeva Arnaldo Momigliano, uno dei suoi cantori più paradossali e per ciò stesso più congeniali, la sua profondità storica. E vi riesce indicando al lettore la corretta prospettiva storiografica con la quale immergerci in una realtà caleidoscopica e in continuo divenire, difficilmente imbrigliabile in periodizzazioni forgiate a tavolino. Se è vero – ed è vero – che la libertas repubblicana rappresentava oramai un lontano ricordo del passato, essendo stata definitivamente schiacciata dalla voluntas principis, non si deve comunque ritenere che il nuovo inafferrabile Volkgeist si manifestasse solo nelle grandiose raccolte legislative ufficiali. Lo spoglio attento compiuto dall’autore delle fonti non solo giuridiche, ma anche letterarie, papirologiche ed epigrafiche dimostra, infatti, l’esatto opposto. Sarebbe, pertanto, del tutto in errore il lettore frettoloso che presumesse di trovarsi tra le mani l’ennesima ricognizione sulla convulsa legislazione del basso Impero. Lo studioso attraverso un respiro dilatato e denso di stimoli, reso possibile
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Altri studi di diritto romano tardoantico
dal connubio tra formazione giuridica e sensibilità storica/filologica, offre una attenta disamina sui problemi dell’impero romano sotto il Dominato, che per la loro eterogeneità assumono profondo interesse non solo per gli storici del diritto, ma anche per gli storici tout court. Ma non solo. Grazie alla sua quotidiana frequentazione delle aule di giustizia come “avvocato di razza”, l’autore giustifica lo studio dell’esperienza giuridica del Tardo Antico come strumento professionalizzante il bagaglio culturale dei giuristi di domani. Sin troppo noto il fatto che proprio allo sviluppo della cognizione straordinaria è da ricondurre il nostro sistema processualistico, penale e civile. Ed infatti la maggior parte del volume è dedicata a dimensioni del giuridico che impegnano tutt’oggi i cultori del diritto positivo: dalla ambigua natura della cognitio extra ordinem come procedura che registra come registi del processo talora le parti in lite tal altra lo iudex, alle categorie della negozialità declinata attraverso le costruzioni moderne della nullità ed inefficacia contrattuale, sino al trattamento giuridico del patrimonio immobiliare. Temi che riversano nell’attualità tutta la loro inesauribile complessità. D’altronde, l’autore, riconosciuto dalla comunità scientifica come una delle voci più autorevoli sulla Tarda Antichità, ha da sempre focalizzato la propria attenzione su argomenti spesso dimenticati dalla dottrina dominante, che, lungi dall’essere sterili curiosità antiquarie, sono stati adoperati quali chiavi di volta per aprire scenari del tutto inediti su aspetti di ermeneutica giuridica che hanno innervato lo sviluppo del diritto. Si pensi ai fondamentali studi sull’appello richiamati nel primo capitolo delle pagine che seguono. Un istituto a cui Federico Pergami ha dedicato riflessioni importanti che rappresentano un punto obbligato di partenza per chi voglia accingersi con simile impervio argomento e i cui risultati offrono densa materia di discussione. A dir poco curioso appare, ad esempio, il fatto che tanto ampli e dettagliati siano stati gli studi in materia di provocatio-appellatio, concetti che seguendo la prospettiva del Mommsen si sarebbero unificati sotto l’Impero, quanto esigui restano i contributi dedicati all’appello nel processo privato, circoscritti essenzialmente alla monografia dell’Orestano risalente ai primi anni ’50, al Princeps iudex del Kelly, o alla trattazione manualistica del Das römische Zivilprozeßrecht di Kaser e Hackl. Orbene, Pergami ha provveduto a colmare simili lacune nel suo L’appello nella legislazione tardo imperiale (Milano, 2000) ed oggi integra le conclusioni ivi raggiunte. Lo fà tesaurizzando le tesi di Wenger e, per certi aspetti, di Riccobono, ed evidenzia con precisione i criteri che informavano il secondo grado di giudizio, che a seguito dell’energico intervento dioclezianeo si era cristallizzato come strumento devolutivo dell’intera controversia da parte del giudice di seconde cure. Questione di
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non poco conto, se si pensa sia che la sentenza di secondo grado poteva aver luogo anche in presenza di impugnazione su decisioni emanate in forza dei diritti locali e che irradiava corposi riflessi di carattere sostanziale oltre il perimetro del singolo giudizio, fissandosi come principio suscettibile di applicazioni diverse; sia che il giudicante investito del gravame in applicazione del diritto romano era inevitabilmente costretto a tenere conto di talune tendenze di origine orientale recepite in chiave etica nell’attività normativa imperiale e ad innalzarle a livello di regula iuris. Appare d’altra parte non poco significativo il fatto che nella romanistica risulta spesso trascurato il fatto che tanto l’affermarsi del rescritto quanto l’incremento del numero di appelli si localizzino storicamente durante i regni di quanti si occuparono della fortificazione delle frontiere. Basti pensare al riguardo al regno di Adriano profondamente accentratore e basato sulla “politica del muro” diretta a separare il mondo romano da quello barbarico, ma indirettamente provvisto dell’effetto di unificare il mondo romano posto all’interno del vallo stesso. Non a caso con Adriano, che assunse appellativi quali Olimpo e Panelleno, si ebbe l’estensione alle classi dirigenti orientali della cittadinanza romana, la concessione del connubium ai veterani, la politica dell’erroris causae probatio e, in linea di massima, la tendenza ad estendere la romanizzazione fino a culminare, nell’età dei Severi, con la Constitutio Antoniniana. In queste pagine Pergami dà atto della unificazione autoritativa di Diocleziano e di Costantino tra loro profondamente diverse (sol che si pensi alla concezione patrimoniale del potere dell’autore dell’editto di Milano), che posero fine al variare tra Adriano ed i suoi successori dei motivi ispiratori sia dei rescritti sia della politica dell’appello. Con questi studi si dimostra come sotto la politica legislativa di Diocleziano si collochi il riassetto definitivo del processo civile anche, ma non solo, in campo probatorio, così illuminando la portata innovativa delle novelle dell’imperatore dalmata, che mirava a «rafforzare una struttura imperiale, squassata da pressioni esterne e forze disgregatrici interne» (p. 20). Ma nell’evidenziare simili aspetti l’autore non ne sottace uno ben diverso ed altrettanto importante: la funzione dello iudex nel processo tardo imperiale, ed in particolare la sua dialettica con le parti in giudizio relativa alla regolamentazione degli impulsi istruttori del processo. Di vivo interesse anche l’attenta ed organica ricostruzione circa la legislazione tardoantica in merito alla difesa frontaliera, nella quale lo studioso indaga i meccanismi e le dinamiche attraverso cui il potere imperiale ha tentato con alterne fortune di fronteggiare la pressione nemica che cercava uno sfondamento sul limes. In particolare, ponendo attenzione a plurimi provvedimen-
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ti della cancelleria imperiale accolti nel Teodosiano e relativi all’erogatio dell’annona ai soldati impegnati nelle campagne militari. Riuscendo a scavare con profitto nella prassi legislativa di allora Federico Pergami torna su un tema a lui caro anche perché ha segnato i suoi primi passi nella romanistica: l’unità o la separazione legislativa nella realtà tardoantica, con particolare riferimento alla correggenza di Valentiniano e Valente. Riprendendo le posizioni espresse al riguardo dal Mommsen e dalla Nagl, i quali individuarono nella politica di Valentiniano una generale volontà unitaria diretta ad evitare uno smembramento dell’Impero, e attraverso una lettura di sintesi delle testimonianze antiche, lo studioso svela punti critici della dottrina che si è interrogata da lunghissimo tempo su tale argomento, ed evidenza come si possa effettivamente identificare in Valentiniano il cardine dell’azione politico-militare di tutto l’Impero, poiché da lui appaiono dipendere le sorti anche della parte governata da Valente. Ciò pare convalidato dal dato per cui tra le oltre quattrocento costituzioni raccolte nel Codice Teodosiano solo poco più di settanta, sia per luogo di emanazione che per destinatario, possono ricondursi alla pars Orientis. La cifra metodologica che da sempre contraddistingue Federico Pergami, come detto, è la sua costante tensione ad una controllata disamina diacronica tra l’esperienza giuridica antica e quella contemporanea. Un controllo e una prudenza nell’interpretazione delle fonti che consentono allo studioso di non cedere a facili e sterili parallelismi tra esperienze giuridiche distanti millenni. Rifuggendo, pertanto, dalla malía esercitata sui ricercatori da una tanto ingenua quanto pericolosa descrizione comparativa tra istituti romani ed attuali, volta a trovare, ad ogni costo, punti di sutura tra le due realtà, lo studioso analizza la patologia negoziale nella tarda antichità, facendo proprie le parole di Antonio Guarino, per il quale «in nessuna epoca del diritto romano si formò mai una consistente dottrina, una compiuta teoria generale del negozio giuridico in quanto tale» (Diritto privato romano, Napoli, 200111, p. 339). Forte di questa prospettiva euristica, e di questo taglio metodologico, l’autore oppone alle categorie dogmatiche di Ungültigkeit e di Unwirksamkeit di formazione pandettistica quella più propriamente romana di inutilitas (invalidità/inefficacia) e nel caso opposto di utilitas. Dopo una preziosa ricognizione sulla teoria generale del negozio giuridico nelle fonti giustinianee, il flusso argomentativo della ricerca sgorga dall’esame di un importante testo di epoca tardo antica che si occupa per l’appunto della disciplina della patologia degli atti negoziali, più precisamente Nov. Theod. 9 (a. 439) parzialmente riportata nel Codice di Giustiniano nel titolo De legibus et constitutionibus principum et edictis (1.14.5). Ben si sottolinea al riguardo come dal corpo della Novella si possa trarre una
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elaborata disciplina che si poneva in contrasto con la rigida alternativa tra validità ed inesistenza che aveva informato tutta la riflessione della giurisprudenza romana in materia. Viene poi messo opportunamente in luce come l’accentramento del potere rese sempre più pressante il tema della gestione del patrimonio immobiliare imperiale, inteso come res privata principis, settore strategico dell’amministrazione centrale, la cui funzione consisteva nella gestione dei beni appartenenti allo Stato e nella riscossione e nell’impiego delle relative rendite. Dall’analisi congiunta delle fonti emerge una legislazione quanto mai contraddittoria che conobbe alterne fortune, ma che testimonia indiscutibilmente la centralità dell’argomento nella riflessione della cancelleria imperiale stante la stringente preoccupazione dei sovrani circa l’afflusso di denaro nelle casse imperiali. Numerosissimi, pertanto, i pregi di questo libro, peraltro in parte già evidenziati, in modo più o meno esplicito, nella rapida ricognizione del suo contenuto. E su tutti risalta la solidità del metodo d’indagine che si sviluppa secondo coordinate euristiche di estremo impatto teorico. Molteplici sono, dunque, le suggestioni e gli stimoli a riflettere sollecitati dalla lettura di quest’opera, che si inserisce appieno e nel migliore dei modi nel solco tracciato da Manlio Sargenti, compianto Maestro di Federico Pergami, di cui l’allievo tratteggia un accorato itinerario scientifico, augurandosi di seguire degnamente il suo esempio. Ebbene, caro Federico, proprio pensando al Tuo Maestro, se chi possiede una autentica autorevolezza illumina la strada non a sé stesso, ma a chi si pone alla sua sequela, ben meritando l’elogio dantesco: Facesti come quei che va di notte / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte (Purg. XXII.67-69), rassicurati del fatto che il percorso che stai tracciando da diversi anni nello studio della Tarda Antichità sta rischiarando la giusta direzione a quanti vogliano dedicarsi con serietà e dedizione a una così affascinante provincia dello ius Romanorum.
ANTONIO PALMA
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Il processo privato nella legislazione dell’imperatore Diocleziano
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1 IL PROCESSO PRIVATO NELLA LEGISLAZIONE DELL’IMPERATORE DIOCLEZIANO
1. Come è stato autorevolmente sostenuto, l’imperatore Diocleziano, a proposito delle riforme che ne hanno caratterizzato l’attività di governo, appare, nello stesso tempo, «restauratore e innovatore» 1 e il suo regno apre, nella storia giuridica di Roma, quello che è stato definito, con espressione divenuta ormai classica per indicarne l’intima contraddizione, «a relatively well illuminated twilight» 2. Nell’ambito dell’attività riformatrice attuata dal sovrano dalmata, un posto predominante occupa la riorganizzazione del processo privato, la cui minuziosa disciplina attesta come, alla fine del III secolo dopo la nascita di Cristo, possa dirsi pienamente realizzato, tramite l’emanazione di una serie di interventi legislativi dedicati all’amministrazione della giustizia, il «trionfo della cognitio extra ordinem» 3.
* Testo della relazione tenuta in occasione del XII Collegio Cedant: Diocleziano: la frontiera giuridica dell’Impero, Pavia 30 gennaio 2014. 1 L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 125. 2 A.H.M. JONES, The Later Roman Empire 284-602. A social economic and administrative survey, I, Oxford 1964, 37. 3 Sono le parole di L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., 298, ove, nel capitolo dedicato al processo privato, ampia discussione e riferimenti bibliografici. Per l’esame delle riforme attuate dall’imperatore Diocleziano, su cui resta fondamentale il lavoro di W. SESTON, Dioclétien et la Tétrarchie. I. Guerres et réformes (284-300), Paris 1946, 17 ss. e il già citato lavoro di A.H.M. JONES, The Later Roman Empire, cit., 61 ss., oltre al saggio di M. SARGENTI, Le strutture amministrative dell’Impero da Diocleziano a Costantino, in AAC, 2, 1976, 199 ss., si veda, più di recente, l’importante monografia di S. CORCORAN, The Empire and the Tetrarchs. Imperial pronuncements and government AD 284-324, Oxford 2000, 19 ss.
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2. In questo quadro normativo, merita particolare attenzione un importante intervento legislativo, emanato nell’anno 294, con cui l’imperatore intese regolare in maniera organica lo svolgimento del giudizio civile 4: si tratta di un provvedimento smembrato in quattro frammenti conservati in differenti titoli del Codice Giustinianeo, il cui insieme verosimilmente neppure rappresenta il testo completo del provvedimento e di cui non è possibile ricostruire i nessi e la struttura d’insieme 5, che costituisce una riforma organica della procedura civile. Vi si affrontano, infatti, tematiche centrali nello svolgimento del processo privato, quali la ripartizione delle competenze fra i giudici delegati dall’imperatore all’esercizio dell’attività giurisdizionale (C. 3.3 De pedaneis iudicibus, 2), lo svolgimento della fase istruttoria del processo di primo grado (C. 3.11 De dilationibus, 1), il ruolo dell’executor post sententiam (C. 7.53 De executione rei iudicatae, 8) nonché, nel frammento relativamente più esteso, un’ampia regolamentazione del giudizio di secondo grado (C. 7.62 De appellationibus et consultationibus, 6) 6. Sotto il profilo formale, i frammenti conservati nel Codice si aprono, dopo l’indicazione dei due Augusti e la sigla dei Cesari (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC.), con la formula «dicunt», cioè quella tipica e tradizionale degli editti 7: circostanza particolarmente significativa, se poniamo mente al 4 Al riguardo, si leggano F. DE MARINI AVONZO, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, II, L’organizzazione giudiziaria di Costantino, in Studi Urbinati, 33, 1965-1966, 198, secondo cui, infatti, Diocleziano emanò nel 294 un editto «con carattere di legge generale sul processo», nonché G. SCHERILLO, Lezioni sul processo. Introduzione alla “cognitio extra ordinem”, Milano 1960, 254 ss. Un cenno in A. CENDERELLI, Ricerche sul “Codex Hermogenianus”, Milano 1965, 34 nt. 38. 5 Sull’editto in generale, si vedano le indagini di G. SCHERILLO, Lezioni sul processo, cit., 252 ss.; F. FERNÁNDEZ BARREIRO, Un edicto general de Diocleciano sobre procedimiento, in Estudios D’Ors, I, Pamplona 1987, 417 ss., nonché i cenni in M. AMELOTTI, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, Milano 1960, 15 nt. 21; A. CENDERELLI, Ricerche, cit., 34, 38 e 73 s.; M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, München 1966, 340 nt. 10; F. DE MARINI AVONZO, La giustizia nelle province, cit., 198. 6 Per un esame dei tre frammenti, G. SCHERILLO, Lezioni sul processo, cit., 254. Si occupano, in particolare, del passo contenuto in C. 3.3.2, F. DE MARINI AVONZO, La giustizia nelle province, cit., 199 s.; M. SARGENTI, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’Imperatore Giuliano, in AAC, 3, 1979, 336 nt. 85 (ora in Studi sul diritto del Tardo Impero, Padova 1986, 222 nt. 85). 7 Il termine edictum indica una dichiarazione o una proclamazione della volontà magistratuale o imperiale, un aliquid sollemniter et cum auctoritate pronuntiare, come si esprime il Thesaurus Linguae Latinae, con riguardo alla forma originariamente verbale di tale dichiarazione. Sul punto, cfr. T. KIPP, Edictum, in PWRE, 5/2, 1905 (rist. 1958), 1940 ss. Fra gli esempi più noti, si segnalano gli editti di Augusto ai Cirenensi (FIRA, I, 403 ss.), l’editto di Claudio de civitate Anaunorum (FIRA, I, 41 ss.), l’editto di Vespasiano de privilegiis medicorum et magistrorum (FIRA, I, 420 ss.), l’edictum Domitiani de privilegiis veteranorum (FIRA, I, 424 ss.), la constitutio Antoniniana de civitate (FIRA, I, 445 ss.), l’editto dello stesso Caracalla de decurionibus coercendis (FIRA, I, 449 ss. e,
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fatto che quello in esame è uno dei pochi casi in cui ciò avviene nei testi delle raccolte ufficiali e uno dei rarissimi esempi per quanto riguarda le costituzioni dioclezianee, costituite, per la maggior parte, da rescritti; l’unico, anzi, in materia processuale 8.
3. Fra le riforme dell’assetto burocratico dell’Impero attuate dall’imperatore Diocleziano, una speciale rilevanza assumerà, per i riflessi che, come subito vedremo, era destinata a produrre sulla ripartizione delle attività attribuite ai funzionari imperiali, l’aumento del numero delle province che, riducendone proporzionalmente l’estensione, ne rafforzava la rilevanza, non soltanto nel settore amministrativo, finanziario e militare ma, per quello che qui particolarmente rileva, anche nella suddivisione delle competenze funzionali nell’esercizio dell’attività giurisdizionale. Una prima e diretta conseguenza di un simile intervento di governo è riflessa nella costituzione contenuta in C. 3.3.2, con cui Diocleziano, per contrastare la tendenza a delegare a iudices pedanei l’esercizio dell’attività giurisdizionale, imponeva ai governatori delle province un controllo diretto ed effettivo sull’attività processuale (de his causis, in quibus, quod ipsi non possent cognoscere, antehac pedaneos iudices dabant), quantomeno sino alla conclusione della fase preliminare del giudizio: il testo in esame, infatti, stabilisce anzitutto che i praesides possano deferire la cognitio a iudices pedanei esclusivamente per il caso in cui siano impediti nello svolgimento dell’attività giurisdizionale per occupationes publicas vel per causarum multitudinem omnia huiusmodi negotia; inoltre, dispone che i governatori dovessero, in ogni caso, mantenere il ruolo di giudici sino all’emanazione della sentenza nelle cause di libertà e di ingenuità 9: fra i testi conservati nei Codici, oltre a quello dei Tetrarchi in esame, CTh. 1.22.4 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Impp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. pars actorum habitorum in consistorio Gratiani A. Gratianus A. dixit); CTh. 4.20.3 (Apud acta Imp. Theodosius A. dixit); CTh. 7.20.2 in cui è riportato un vero e proprio dialogo fra Costantino e i suoi veterani; CTh. 11.39.5 di Giuliano (Pars actorum habitorum aput Imperatorem Iulianum Augustum Mamertino et Nevitta Conss. X Kal. April. Constantinopoli in consistorio adstante Iovio viro clarissimo quaestore, Anatolio magistro officiorum, Felice comite sacrarum largitionum. Et cetera. Imp. Iulianus dixit); CTh. 11.39.8 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Pars actorum habitorum in consistorio aput Imperatores Gratianum, Valentinianum et Theodosium Cons. Syagri et Eucheri die III Kal. Iul. Constantinopoli. In consistorio Imp. Theodosius A. dixit). 8 L’unico altro esempio è quello parzialmente conservato in C. 4.4.17 in tema di impedimenti matrimoniali. Cfr., in proposito, M. AMELOTTI, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, cit., 15 ss. 9 In argomento, ampio commento in M. SARGENTI, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’Imperatore Giuliano, cit., 336 nt. 85 (ora in Studi sul diritto del Tardo Impero, cit., 222 nt. 85, con
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C. 3.3.2: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt. Placet nobis praesides de his causis, in quibus, quod ipsi non possent cognoscere, antehac pedaneos iudices dabant, notionis suae examen adhibere, ita tamen ut, si vel per occupationes publicas vel propter causarum multitudinem omnia huiusmodi negotia non potuerint cognoscere, iudices dandi habeant potestatem (quod non ita accipi convenit, ut etiam in bis causis, in quibus solebant ex officio suo cognoscere, dandi iudices licentia permissa credatur: quod usque adeo in praesidum cognitione retinendum est, ut eorum iudicia non deminuta videantur): dum tamen de ingenuitate, super qua poterant et ante cognoscere, et de libertinitate praesides ipsi diiudicent. D. XV K. Avg. CC. Conss.
Si comprende bene come fosse questo un modo per contrastare la tendenza, evidentemente affermatasi in modo diffuso nella prassi dei tribunali dell’Impero, di attribuire a giudici delegati l’esercizio dell’attività giurisdizionale 10 e per richiamare i governatori delle province al diretto esercizio della delega imperiale, evitando una duplicazione dei compiti e, nella sostanza, un irragionevole prolungamento dei tempi del processo 11, che costituiva, non soltanto nella disposizione normativa in esame 12, bensì in vari interventi dell’attività normativa imperiale, una costante preoccupazione del sovrano 13. giudizio poco lusinghiero sul tenore del frammento: «La costituzione non è, per la verità, un capolavoro di chiarezza»), nonché, più di recente, S. LIVA, Ricerche sul “iudex pedaneus”. Organizzazione giudiziaria e processo, in SDHI, 73, 2007, 166 ss. e S. BARBATI, Studi sui “iudices” nel diritto romano tardo antico, Milano 2012, 634 s. (secondo la cui opinione sarebbero del tutto venute meno, per tale via, le funzioni giurisdizionali dei magistrati municipali, almeno sino all’introduzione del defensor civitatis: la questione, che non può essere affrontata in questa sede, merita, in verità, ulteriori approfondimenti. Basti, qui, per la data di introduzione del defensor civitatis – a cui, secondo Barbati – sarebbe stata assegnata una «modestissima sfera di cognizione processuale» (ibid., 635), F. PERGAMI, Sulla istituzione del “defensor civitatis”, in Studi di diritto romano tardoantico, Torino 2011, 105 ss. 10 Sul mantenimento, da parte di iudices pedanei, di funzioni di natura giurisdizionale, si veda C. 3.3.4 [anno 303], con la quale si disciplinano le conseguenze di impedimenti a svolgere le proprie funzioni (Placuit, quotiens pedanei iudices dati post litem contestatam vel ad aliud iudicium necessario dirigantur vel publicae utilitatis ratione in alias provincias proficiscantur vel diem obierint atque his rationibus negotiis coeptis finis non possit adhiberi, alium in locum eorum iudicem tribui qui negotium examinet, ne eiusmodi casibus intervenientibus impedimentum aliquod in persequendis litibus adferatur). Nello stesso senso, vedi anche la coeva c. 3 h.t., la quale stabilisce che i giudici delegati debbano svolgere direttamente le funzioni giurisdizionali loro affidate, anziché rimettere la causa al iudicium praesidale (provvedimento che TH. MOMMSEN, Codex Iustinianus, ad h.l., propone di postergare all’anno 300, in forza dell’integrazione della subscriptio: D. viii k. April. Antiochiae CC. [CC III] conss.), nonché la più tarda c. 5 h.t. dell’imperatore Giuliano (conservata anche in CTh. 1.16.8 e in due manoscritti: CIL. III.459 e 14198). 11 Sui tempi di svolgimento del processo nella cognitio extra ordinem, mi permetto di rinviare al mio lavoro dal titolo: Sulla “ragionevole durata” del processo nella legislazione tardoimperiale, in Studi di diritto romano tardoantico, Torino 2011, 363 ss. 12 Vedi C. 3.11.1, che detta i limiti previsti per il completamento dell’attività istruttoria. 13 Si legga C. 3.2.2, in cui si conferma che i giudici delegati debbono decidere personalmente la causa, senza rimettere la controversia a giudici delegati.
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4. Nell’identica prospettiva di un riordino del processo civile, con la specifica finalità di rafforzarne l’efficienza e di garantirne una rapida conclusione, si colloca anche il frammento conservato nel titolo De dilationibus, C. 3.11.1, dedicato alla regolamentazione dell’attività istruttoria nel giudizio di primo grado, mediante l’introduzione di termini tassativi alle parti per l’articolazione dei mezzi istruttori, modulando la facoltà della produzione dei documenti o dell’assunzione dei testimoni sulla base di un rigido criterio territoriale: C. 3.11.1: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicunt. Quoniam plerumque evenit, ut iudex instrumentorum vel personarum gratia dilationem dare rerum necessitate cogatur, spatium instructionis exhibendae postulatum dari conveniet. Quod hac ratione arbitramur esse moderandum, ut, si ex ea provincia ubi lis agitur vel persona vel instrumenta poscentur, non amplius quam tres menses indulgeantur: si vero ex continentibus provinciis, sex menses custodiri iustitiae est: in transmarina autem dilatione novero menses computari oportebit. Quod ita constitutum iudicantes sentire debebunt, ut hac ratione non sibi concessum intellegant dandae dilationis arbitrium, sed eandem dilationem, si rerum urguentissima ratio flagitaverit et necessitas desideratae instructionis exegerit, non facile amplius quam semel nec ulla trahendi arte sciant esse tribuendam. Dat. XV K. April. CC. Conss.
Come si vede, l’imperatore ammetteva la possibilità di deduzioni anche successive all’atto introduttivo del giudizio, per evitare il rischio dell’emanazione di una sentenza che, a motivo di un’attività istruttoria non esauriente, potesse costituire oggetto di gravame e incidere negativamente, anche in forza dell’effetto sospensivo dell’appello 14, sulla ragionevole durata del giudizio.
5. Intimamente connesso alla disciplina dei tempi di conclusione del processo, è il tema del giudice dell’esecuzione, l’executor sententiae di cui parla il frammento contenuto nel titolo De executione rei iudicatae, C. 7.53.8: si tratta, precisa in modo non equivoco il provvedimento, dell’organo cui è attribuito il potere di esercitare funzioni giurisdizionali post sententiam […] audita omni et discussa lite. C. 7.53.8: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. Executorem eum solum esse manifestum sit, qui post sententiam, inter partes audita omni et discussa lite, prolatam iudicatae rei vigorem ad effectum videtur adducere. Sine die et consule.
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Al riguardo, W. LITEWSKI, Suspensiveffekt binnen der Frist zur Appellationseinlegung, in ZSS, 113, 1997, 377 ss.
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Il tema del processo esecutivo era stato ampiamente affrontato nella riflessione dei giuristi di età tardoclassica, che avevano delineato con sufficiente chiarezza i ruoli e le funzioni dell’organo incaricato di dare materiale esecuzione ad una pronuncia giudiziaria: particolarmente istruttivo al riguardo è un lungo frammento di Ulpiano (D. 42.1.15), dal contenuto ampio ed articolato: anzitutto, vi si stabilisce che l’attività esecutiva, conseguente all’emanazione di una sententia emessa da iudices dati o da arbitri, doveva essere curata da chi li aveva nominati e in cui si precisa, inoltre, che ai governatori provinciali era affidata la competenza del processo esecutivo anche per le decisioni pronunciate a Roma, si hoc iussi fuerint. Il frammento prosegue delineando una rigida disciplina sulle modalità dell’esecuzione della sentenza, nel caso attuata mediante la pignoris capio ed introducendo, altresì, i criteri per l’individuazione della competenza a decidere su eventuali incidenti procedurali intervenuti nel corso del processo esecutivo, che veniva attribuita ai governatori della provincia, come per il caso, minutamente regolato nella parte conclusiva del frammento, di una controversia sulla proprietà, in cui al iudex qui rem iudicatam exsequitur sono affidati ampi poteri discrezionali (§ 4) 15. Del resto, alla figura di un giudice dell’esecuzione, aveva fatto menzione Ulpiano anche in altro frammento giurisprudenziale, con analogo riferimento all’apprensione di un pegno (D. 27.9.3.1: Pignori tamen capi iussu magistratus vel praesidis vel alterius potestatis et distrahi fundus pupillaris potest), come pure numerosi richiami troviamo in vari provvedimenti dell’imperatore Caracalla: anzitutto, con riferimento ad un ordine magistratuale in due provvedimenti in cui è esplicito il riferimento all’iussus iure sententiam exsequebatur (C. 8.17[18].2) e all’iussus eius, cui ius iubendi fuit (C. 8.22[23].1), nonché in una costituzione, significativamente raccolta nello stesso titolo 7.53 del Codice Giustinianeo, in cui è conservato il frammento in esame, nella quale l’attività esecutiva è attribuita al praeses provinciae, qui rem iudicatam exequi debet (C. 7.53.3). Era questo, del resto, il ruolo attribuito all’exsecutor da Macro che, in un noto passo della sua opera De appellationibus (D. 49.1.4), ne parlava come di colui che interpretandi potestatem habuit, velut praeses provinciae aut procurator Caesaris 16.
6. Alla disciplina del processo di secondo grado è dedicato la lunga disposizione contenuta nel titolo De appellationibus et consultationibus, che si apre 15
Ancora, W. LITEWSKI, Pignus in causa iudicati captum, in SDHI, 40, 1974, 225 ss. B. BIONDI, Appunti intorno alla sentenza nel processo civile romano, in Studi Bonfante, 4, Milano 1930, 86 ss. 16
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con la definizione dei poteri e dei compiti dei giudici qui de appellatione cognoscent ac iudicabunt (C. 7.62.6 pr.): Eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere conveniet, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat, cum salubritas legis constitutae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellatione cogniscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam.
In particolare, nel frammento in esame si afferma la regola in base alla quale, una volta proposto l’appello dopo la decisione della lite, non è consentito rimettere la controversia al primo giudice e si stabilisce che quello competente per la fase d’appello deve decidere omnem causam con la propria sentenza. Nel quadro del sistema processuale delineato da Diocleziano, è certamente significativo rilevare come tale principio venga reiteratamente ribadito più volte, quasi con le stesse parole, tanto da domandarsi la ragione di questo ripetuto insistere sul concetto che la causa debba essere decisa interamente dal giudice ad quem e non rimessa al giudice inferiore. Le fonti a nostra disposizione non ci forniscono sufficienti indicazioni sullo svolgimento del giudizio di appello nell’epoca antecedente e non consentono, quindi, di stabilire se la prassi anteriore all’editto dioclezianeo fosse tale da rendere necessario l’energico intervento del legislatore per modificarla, anche se non può escludersi che i giudici competenti per l’appello tendessero a seguire una prassi analoga, facendo dell’appello una sorta di giudizio di revisione della sentenza da parte del giudice che l’aveva pronunciata. L’editto dioclezianeo reagisce con decisione ad una tale tendenza e fissa così, in termini chiari, la natura del giudizio di appello come strumento di riesame della controversia da parte del nuovo giudice, cui era devoluta la decisione in seconda istanza. Va segnalato come il frammento richiami la salubritas legis constitutae, per sancire come l’effetto devolutivo, che conseguiva alla proposizione del gravame e che comportava la trasmissione degli atti al giudice superiore, fosse un principio già implicito nella natura stessa del giudizio di impugnazione: in realtà, sebbene tale richiamo presupponga un preciso intervento normativo, una lex constituta appunto, di cui parla il frammento in esame, non vi è traccia esplicita di ciò nel regime del giudizio d’appello in epoca anteriore a Diocleziano. Va detto, però, che restituire al giudice inferiore il procedimento per un
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nuovo esame nel merito avrebbe completamente svuotato di significato la funzione e la natura stessa del secondo grado di giudizio, oltre che complicatone ulteriormente il già complesso iter, con il ripetuto passaggio dei fascicoli di causa dalla periferia al centro e viceversa, creando incertezza sulla natura e sul valore della nuova pronuncia del giudice a quo rispetto a quella impugnata e, quindi, sulla sua ulteriore appellabilità 17. Del resto, che il principio dell’effetto devolutivo consacrato nel frammento in esame (C. 7.62.6 pr.) non costituisse una novità assoluta nel sistema processuale della cognitio extra ordinem può ricavarsi da una serie di riferimenti nelle fonti: dapprima, da un richiamo, seppure piuttosto generico, che si rintraccia in un passo di Modestino (D. 50.16.106), in base al quale la causa d’appello è devoluta ad eum qui appellatus est dimittitur; in seguito, da una serie di interventi imperiali che, pur non menzionando esplicitamente l’effetto devolutivo, conseguente alla proposizione del gravame, ad esso mostrano di fare costante riferimento, ribadendo la necessità che gli appelli vengano rimessi al giudice superiore, sia esso il tribunale imperiale o il sacrum auditorium oppure il giudice indicato come colui cui vice nostra cognitio est (CTh. 11.30.21) o, più in generale, i funzionari qui vice nostra consuerunt audire (CTh. 11.30.28). Un’indicazione più precisa in tal senso si ricava, invece, da una disposizione di Costantino (CTh. 11.30.3), nella quale la cancelleria imperiale stabilisce che i giudici di appello esaminino direttamente le controversie a loro affidate in seconda istanza, nel caso mediante la ferma imposizione al proconsole d’Africa Probiano, cui il provvedimento è indirizzato nell’anno 315, di explicare quam maturissime eadem negotia. È interessante notare come una simile esortazione, quale implicita affermazione dell’effetto devolutivo dell’appello, diverrebbe, per quanto particolarmente rileva ai fini della presente trattazione, di grande pregnanza se nell’invito ad audire gli appelli ut edicto quod super appellationes negotiis finiendis iam generaliter constitutum est, contenuto nella costituzione in esame, potesse identificarsi con il frammento in esame dell’editto dioclezianeo, anche perché consentirebbe di corroborare l’ipotesi che, in relazione alla devoluzione al giudice superiore, la cancelleria imperiale di Costantino avesse ben presente l’insistente enunciazione ([…] ut edicto […] constitutum est) del predecessore. Del resto, nel meccanismo del giudizio di impugnazione, il giudice a quo aveva già una propria funzione di accertamento dei presupposti dell’appello, che gli riservava il compito di decidere sulla sua ricevibilità o ammissibilità (appellationem recipere vel non): sarebbe stato incongruo, perciò, rimettergli ancora il processo per una decisione sul merito che egli aveva già espresso con la pronuncia della sentenza impugnata 18. 17 18
Cfr., in proposito, R. ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Torino 19662, 64 ss. L’esame di un frammento di Ulpiano (D. 49.1.13.1) e di un passo delle Sentenze di Paolo
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7. I paragrafi 1 e 2 dell’editto in esame sono dedicati alla disciplina dei nova in appello, cioè alla possibilità o meno di introdurre nuove deduzioni e nuovi elementi di prova nel giudizio di seconda istanza. Anzitutto, l’editto consente alle parti di integrare in sede di appello le allegazioni che fossero state omesse nel giudizio di primo grado, con la deliberata finalità di ottenere la iustitia che costituiva, afferma l’imperatore, la finalità del processo e il votum del suo governo 19: C. 7.62.6 § 1: Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur.
Inoltre, nel paragrafo 2, viene ammessa la possibilità delle parti di richiedere, anche post interpositam appellationem, nuove prove testimoniali che siano utili per l’accertamento della verità, con l’unica condizione che, se questi nuovi mezzi di prova saranno ammessi, sia la parte richiedente a sopportare le spese di viaggio dei testimoni: C. 7.62.6 § 2: Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimavit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit.
La disciplina del processo consente di intravedere una possibilità di articolazione dello stesso giudizio d’appello, con deduzioni anche successive all’atto introduttivo e decisioni interlocutorie del giudice sulla loro ammissibilità 20. (5.35.2) consentono di ricavare come i poteri del giudice a quo fossero di notevole ampiezza, poiché non si esaurivano in un’indagine sull’esistenza dei presupposti dell’impugnazione, ma si estendevano, seppure solo in una certa misura, anche ad un’indagine sul suo fondamento. 19 Sulla possibilità di introdurre nova nel giudizio di secondo grado in età dioclezianea, vedi A. GUARNERI CITATI, Exceptio omissa initio – in integrum restitutio – appellatio, in Studi Perozzi, Palermo 1923, 256; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4, in RIDA, 15, 1968, 224 ss.; A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, 1, Milano 1967, 89 nt. 48; 104 nt. 125; G. BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I (9 luglio 518 – 1 agosto 527), in SDHI, 37, 1971, 176 nt. 78; N. SCAPINI, Il “ius novorum” nell’appello civile romano, in Studi Parmensi, 21, 1978, 54 s. 20 Sulla fase del giudizio che si svolgeva avanti al giudice ad quem, vedi R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 409 ss., il quale riteneva di potere ricostruire, in relazione all’età dei Severi, le linee essenziali di tale procedimento: dall’iscrizione della causa nel ruolo del giudice superiore, alla fissazione dell’udienza, al compimento degli atti istruttori, all’eventuale convocazione delle parti,
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In verità, le fonti a nostra disposizione non consentono di affermare con sicurezza se tale regime sia stato introdotto dall’editto dioclezianeo in esame oppure, al contrario, costituisca la formale attestazione normativa di princìpi che già vigevano nella prassi dei tribunali in epoca anteriore. Come è noto, sul punto, anche la dottrina è divisa: se da alcuni si è sostenuto, anche grazie al tenore letterale di un brevissimo frammento di Paolo (D. 34.9.5.1), concernente un’ipotesi di riforma della sentenza senza l’utilizzo di nuove prove, che l’ampiezza delle motivazioni dell’editto farebbe pensare che le norme in essa sancite costituissero una assoluta novità nel processo civile 21, altri autori, specialmente sulla base di un passo di Ulpiano (D. 49.1.3.3) 22, contenente una generica affermazione della possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo istruttorio che fosse utile al riconoscimento del proprio diritto (persequi provocationem quibuscumque modis), hanno sostenuto che, per lo meno all’epoca dei Severi, nessuna preclusione esistesse alla deduzione di nuovi argomenti difensivi e di nuove prove anche nella seconda fase del giudizio 23. A ben vedere, però, nessuno dei due frammenti offre un appiglio veramente sicuro a favore dell’una piuttosto che dell’altra ipotesi: né il passo di Paolo, che non sancisce esplicitamente il divieto di allegazione di nuove prove nel secondo grado di giudizio, poiché la riforma della sentenza di primo grado, oggetto della fattispecie riferita dal giurista, poteva essere la conseguenza di una diversa valutazione dei profili giuridici, senza necessariamente comportare l’esame di nuovo materiale probatorio non offerto in atti nel primo grado di giudizio; né quello di Ulpiano, che affrontava con un’opinione personale (puto tamen), il diverso problema della modificabilità dei motivi di impugnazione in corso di giudizio e che con l’espressione quibuscumque modis, che ne costituiall’udienza di discussione via via sino alla decisione. Cfr., in proposito, anche W. LITEWSKI, Die römische Appellation, 4, cit., 187 ss. 21 È l’opinione sostenuta, in passato, da M. LAURIA, Sull’“appellatio”, in AG, 97, 1927, 7 (ora in Studii e Ricordi, Napoli 1983, 69): l’autore dichiarava espressamente di essere riuscito a trovare un solo passo relativo all’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello, cioè il testo di Paolo, l. 1 De iure fisci, riportato in D. 34.9.5.12 (Quidam et praesidem indignum putant, qui testamentum falsum pronuntiavit, si appellatione intercedente heres scriptus optinuit), secondo cui sarebbe incorso nell’indegnità il giudice di primo grado, nella fattispecie un praeses provinciae, che aveva dichiarato la falsità di un testamento, se la sua sentenza fosse stata riformata in grado di appello. A parere del Lauria, l’opinione dei quidam, che Paolo riferiva, sarebbe stata concepibile solo in quanto la sentenza del primo giudice fosse stata annullata senza bisogno di nuove prove. 22 D. 49.1.3.3: ULPIANUS libro primo de appellationibus. Quid ergo, si causam appellandi certam dixerit, an liceat ei discedere ab hac et aliam causam allegare? an vero quasi forma quadam obstrictus sit? puto tamen, cum semel provocaverit, esse ei facultatem in agendo etiam aliam causam provocationis reddere persequique provocationem suam quibuscumque modis potuerit. 23 R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 423; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilisachen, 2, in RIDA, 13, 1966, 318 s.; N. SCAPINI, Il “ius novorum”, cit.,56 ss.
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sce il fulcro, ben poteva fare riferimento, più che ai nova, a tutti i mezzi argomentativi che il mutamento dei motivi di gravame poteva comportare. In questo quadro, manca un sicuro e preciso orientamento del pensiero giuridico e della prassi nell’età pre-dioclezianea e la decisione sull’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello era verosimilmente lasciata alla discrezionalità del giudice e alla peculiarità del caso concreto. Per quanto interessa qui rilevare, l’editto di Diocleziano costituisce la prima chiara ed esplicita attestazione normativa dell’ammissibilità in appello dei nova anche in grado d’appello 24.
8. Le disposizioni del paragrafo 3 introducono una serie di regole procedurali nello svolgimento del processo d’appello che troverà i suoi ulteriori sviluppi nella legislazione successiva, ma che l’editto dioclezianeo riferisce alle sole condanne capitali: C. 7.62.6 § 3: Super his vero, qui in capitalibus causis constituti appellaverint (quos tamen et ipsos vel qui pro his provocabunt non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam appellare conveniet), id observandum esse sancimus, ut inopia idonei fideiussoris retentis in custodia reis opiniones suas iudices exemplo appellatoribus edito ac refutatorios eorum ad scrinia quorum interest transmittant, quibus gestarum rerum fides manifesta relatione pandatur, ut meritis eorum consideratis pro fortuna singulorum sententia proferatur.
Il frammento in esame, anzitutto, stabilisce che, nei giudizi criminali, il giudice debba formulare, relativamente all’appello, un’apposita opinio, della quale deve inviare copia all’appellante, il quale, a sua volta, può replicare con i libelli refutatorii: successivamente, tutti gli atti del processo dovevano essere trasmessi, a cura dello stesso giudice, ad scrinia eorum quorum interest 25. 24 Per la legislazione successiva, F. PERGAMI, Effetto devolutivo e “ius novorum” nel processo romano della “cognitio extra ordinem”, in Studi di diritto romano tardoantico, Milano 2011, 377 ss. 25 Anche tale frammento ha attratto l’attenzione degli studiosi, che hanno voluto vedervi l’applicazione di una speciale forma di appello che si svolgeva avanti al tribunale imperiale sulla base degli atti, denominato appello more consultationis, v. M.A. BETHMANN-HOLLWEG, Der römische Civilprozess, III, Bonn 1866 (rist. 1959), 90 nt. 11; 294; 332 s.; T. KIPP, Consultatio, in PWRE, 4/1, 1900, (rist. 1958), 1143; C. BERTOLINI, Appunti didattici di diritto romano. Serie seconda. Il processo civile, III, Torino 1915, 202; L. WENGER, Institutionen des römischen Zivilprozessrecht, München 1925 (trad. it. 1938), 297; G. SCHERILLO, voce Consultatio, in NNDI, 4, 1959, 358; M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 509 s.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, 4, cit., 254 ss.; ID., Consultatio ante sententiam, in ZSS, 99, 1969, 228 s.; G. DE BONFILS, Prassi giudiziaria e legislazione nel IV secolo. Symm, rel. 33, in BIDR, 78, 1975, 170 s.; G.
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La cancelleria di Diocleziano, inoltre, ammette pacificamente, addirittura in forma parentetica, l’appellabilità delle sentenze in materia capitale (… appellare conveniet …), seppure limitando l’applicabilità della disposizione alle pronunce non definitive, non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam. La norma è stata soprattutto studiata dalla dottrina sotto questo specifico profilo ed è stata considerata la formale attestazione legislativa di una evoluzione delineatasi in età anteriore 26: a ben vedere, di tale processo si hanno, nelle fonti a noi note, solo tracce frammentarie e contraddittorie, che non consentono di individuare un indirizzo preciso ed univoco, né, tantomeno, normativamente fissato, anche in considerazione della natura eminentemente casistica delle decisioni giurisprudenziali in materia. Per di più, nessuno dei passi o degli interventi imperiali, che si occupano dell’appellabilità delle sentenze non definitive, riguarda direttamente il processo penale: il passo di Modestino, richiamato dalla dottrina al riguardo, relativo ad una vicenda molto complessa (D. 48.2.18) 27, descrive lo svolgimento di un giudizio criminale di falso testamentario, ma il provvedimento interlocutorio della cui eventuale impugnabilità gli interpreti discutono, a prescindere dalla considerazione se essa sia in effetti desumibile dal testo in questione, non è, comunque, un atto del processo criminale, che in realtà non è mai stato instaurato, bensì del procedimento civile de irrito testamento: D. 48.2.18: Cum Titia testamentum Gaii fratris sui falsum arguere minaretur et sollemnia accusationis non implevit intra tempus a praeside praefinitum, praeses provinciae iterum pronuntiavit non posse illam amplius de falso testamento dicere: adversus quas sententias Titia non provocavit, sed dixit se post finitum tempus de irrito testamento dicere. Quaero, an Titia, quae non appellavit adversus sententiam praesidis, possit ad falsi accusationem postea reverti. Respondit nihil aperte proponi, propter quod adversus sententiae auctoritatem de falso agens audienda sit. BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I, cit., 168 ss.; EAD., L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano 1983, 90 ss. In proposito, si vedano le mie riflessioni critiche: F. PERGAMI, Appellatio more consultationis, in Studi di diritto romano tardoantico, Torino 2011, 259 ss. 26 In questo senso, U. VINCENTI, “Ante sententiam appellari potest”. Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova 1986, 8 ss., in part. 31 e la letteratura citata. 27 Resta fondamentale, al riguardo, il lavoro di M. WLASSAK, Anklage und Streitbefestigung im Kriminalrecht der Römer, in SAWW, 84, 1917, 211 ss., nonché, più di recente, quello di G.G. ARCHI, “Civiliter vel criminaliter agere” in tema di falso documentale. Contributo storicodommatico al problema della efficacia della scrittura, in Scritti in onore di Contardo Ferrini pubblicati in occasione della sua beatificazione, I, Milano 1946, 1 ss., ora in Scritti di diritto romano, 3, Milano 1981, 1600.
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Al contrario, il principio dell’inappellabilità delle pronunce interlocutorie nei processi criminali separatamente dalle sentenze definitive, si ricava, invece, a mio giudizio, dalla forma con cui tale principio è enunciato nell’editto di Diocleziano in discorso, non come oggetto della statuizione normativa – che riguarda le sole formalità procedurali che il giudice deve osservare in seguito alla proposizione dell’appello – ma come un obiter dictum, formulato incidentalmente, addirittura in forma parentetica, a conferma del fatto che, nel sistema del processo di età dioclezianea, doveva trattarsi di un principio in certo modo pacifico, almeno per quanto atteneva ai giudizi capitali, ai quali solo la norma espressamente si riferisce 28. Né paiono rilevanti, in senso contrario, due rescritti dello stesso Diocleziano: non il primo (C. 7.45.7), che dichiara semplicemente privo di effetto estintivo di una verborum obligatio il patto concluso dalle parti su sollecitazione del praeses provinciae, motivando tale principio con il rilievo che non omnis vox iudicis ha l’autorità di cosa giudicata, mentre nessun richiamo o riferimento, neppure implicito, è fatto all’appellabilità di un intervento del governatore che, nella specie, è privo di contenuto decisorio, né dall’affermazione secondo cui non sempre la vox iudicis ha l’autorità di giudicato, può ricavarsi il principio della sua inappellabilità: C. 7.45.7: Ex stipulatione parta actione pacisci proximis personis suadendo praeses provinciae verborum obligationem, quam certo iure tolli tantum licet, extinguere non potest, nec vox omnis iudicis iudicati continet auctoritatem, cum potestatem sententiae certis finibus concludi saepe sit constitutum. Quapropter si nihil causa cognita secundum iuris rationem pronuntiatum est, vox pacisci suadentis praesidis actionem tuam perimere, si quam habuisti, minime potuit.
Analogamente, nessun riferimento al problema dell’appello nelle cause criminali si rinviene nel secondo rescritto (C. 7.45.9), emanato nell’anno 294, che pure nega l’autorità di giudicato ad interventi arbitrali del giudice resi successivamente all’emanazione della sentenza: post sententiam, quae finibus certis concluditur, ab eo qui pronuntiaverat vel eius successore de quaestione, quae iam decisa est, statuta rei iudicatae non obtinent auctoritatem: nam nec de possessione pronuntiata proprietati ullum praeiudicium adferunt nec interlocutiones ullam causam plerumque perimunt.
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Nel senso di un’estensione del principio anche al giudizio civile, U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 29 s.
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9. Nel quadro della “ragionevole durata” dei tempi processuali, che l’imperatore Diocleziano mirava a garantire per la conclusione del giudizio, si colloca anche il paragrafo 4 dell’editto che, infatti, punisce gli appelli temerari, stabilendo la condanna ad una mediocris poena, la cui entità veniva discrezionalmente determinata dal giudice superiore e che il iudex ad quem infliggeva quale constatazione del fatto che il gravame era stato proposto temere ac passim 29: Ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur, arbitramur eum, qui malam litem fuerit persecutus, mediocriter poenam a competenti iudice sustinere.
I termini usati nella costituzione per indicare una simile fattispecie appaiono sinonimici: temere, infatti, si riferisce ad un atto compiuto avventatamente, alla cieca, senza ponderazione 30, mentre passim richiama qualcosa che è compiuto confusamente, senza ordine, in mancanza di una chiarezza nei motivi d’appello 31: entrambi i casi, peraltro, presuppongono l’evidente infondatezza, sotto vari profili, del gravame e connotano ipotesi in cui era possibile esprimere una prognosi negativa sull’esito dell’impugnazione.
10. Il paragrafo 5 dell’editto affronta un altro aspetto fondamentale del giudizio di secondo di grado, cioè i termini per proporre il gravame: esso, infatti, stabilisce che l’impugnazione debba essere proposta eodem die vel altero, se l’appellante agisca in nome proprio oppure entro il terzo giorno si negotium tuetur alienum: C. 7.62.6 § 5: Sin autem in iudicio propriam causam quis fuerit persecutus atque superatus voluerit provocare, eodem die vel altero libellos appellatorios offerre debebit. Is vero, qui negotium tuetur alienum, supra dicta condicione etiam tertio die provocabit.
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Sul punto, W. LITEWSKI, Die römische Appellation, 4, cit., 294. Sul significato delle espressioni, E. FORCELLINI, Lexicon Totius Latinitatis, Patavii 1890, 4, s.v. temere: «Temere est sine ratione, sine consilio, casu, inconsulte, imprudentes; stulte»; A. BERGER, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, Philadelphia 1953, s.v. temeritas: «Rashness, lack of caution, of reflection in starting a lawsuit or accusing a person of a crime»; A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1960, s.v. temere: «“a l’aveuglette”, par suite “inconsidérément, au hasard, a la légère, sans réflection”». 31 Ancora E. FORCELLINI, Lexicon, cit., s.v. passim: «sparsim, sine ordine, omnibus locis, undique»; A. BERGER, Encyclopedic Dictionary, cit., s.v. passim: «Simply, without any further examination of the case under decision. The term is used in the juristic language as ant. to causa cognita, i.e., after a scrupulous examination»; A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique, s.v. pando,-is: «en se répandant çà et là; en désordre». 30
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Tale disciplina non costituiva una novità nel sistema del processo civile, come si può ricavare dall’esame della precedente riflessione giurisprudenziale che, soprattutto di età severiana 32, in un celebre passo tratto dal de appellationibus di Marciano, li aveva fissati in maniera precisa 33: D. 49.1.5.4: Si quis ipso die inter acta voce appellavit, hoc ei sufficit: sin autem hoc non fecerit, ad libellos appellatorios dandos biduum vel triduum computandum est.
Al contrario, va notata la mancanza di una distinzione fra appello orale e appello scritto: l’editto, infatti, prospetta la possibilità di appellare eodem die vel altero, se l’appellante agisce in nome proprio e parla, per entrambe le ipotesi, della necessità di libellos appellatorios offerre, ignorando, quindi, che ipso die si poteva appellare anche oralmente: per una parte della dottrina, doveva trattarsi di una consapevole abolizione da parte di Diocleziano 34, come in effetti sembra ricavarsi dalla successiva legislazione costantiniana che, con una costituzione del 317, espressamente ne riaffermava la possibilità: CTh. 11.30.7: Imp. Constantinvs A. ad Bassvm p(raefectvm) v(rbi). Litigatoribus copia est etiam non conscribtis libellis ilico appellare voce, cum res poposcerit iudicata.
11. L’ultima parte dell’editto affronta la disciplina delle litterae dimissoriae o apostoli, che il giudice inferiore doveva indirizzare al giudice ad quem, per investirlo dell’impugnazione 35: C. 7.62.6 § 6: Apostolos post interpositam provocationem etiam non petente appellatore sine aliqua dilatione iudicem dare oportet, cautione videlicet de exercenda provocatione in posterum minime praebenda.
Fino all’emanazione dell’editto, tale attività era affidata all’appellante, come si ricava da un passo di Marciano: 32
Vedi, in particolare, sui sospetti di interpolazione della seconda parte del passo, R. REGGI, I “libri de appellationibus” di Marciano, in Studi Parmensi, 15, 1974, 46. 33 Cfr., in proposito, R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 237 ss.; M. BIANCHINI, Le formalità costitutive del rapporto processuale nel sistema accusatorio, Milano 1964, 127; M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 403; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, 4, cit., 145 ss., in part. 151. 34 A favore dell’abolizione dell’appello orale dopo l’età severiana, si era pronunciato R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 230 nt. 1. 35 Di litterae dimissoriae parla Marciano in un passo del De appellationibus (D. 49.6.1): Post appellationem interpositam litterae dandae sunt ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, sive principem sive quem alium, quas litteras dimissorias sive apostolos appellant. Sul contenuto delle litterae prosegue Marciano: Sensus autem litterarum talis est: appellasse puta Lucium Titium a sententia illius, quae inter illos dicta est.
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D. 49.6.2: Sufficit autem petisse intra tempus dimissorias instanter et saepius, ut et si non accipiat, id ipsum contestetur: nam instantiam petentis dimissorias constitutiones desiderant. Aequum est igitur, si per eum steterit, qui debebat dare litteras, quo minus det, ne hoc accipeinti noceat.
Il giurista riferisce come sia sufficiente che la richiesta sia stata proposta intra tempus instanter et saepius (sufficit autem petisse intra tempus dimissorias instanter et saepius) e che l’eventuale mancato rilascio sia formalmente contestato dall’appellante (ut et si non accipiat, id ipsum contestetur). L’onere della richiesta delle litterae, prosegue il giurista, era stato imposto da costituzioni imperiali (nam instantiam petentis dimissorias constitutiones desiderant) e il loro rilascio era compito del giudice: l’omissione dell’attività dell’ufficio, peraltro, non poteva nuocere alla parte, purché questa avesse formulato la domanda intra tempus ed eventualmente reiterata instanter et saepius, nonché contestato il loro mancato rilascio: aequum est igitur, si per eum steterit, qui debebat dare litteras, quo minus det, ne hoc accipienti (rectius: appellanti) noceat. Mentre Marciano non indica quale fosse il tempus entro cui le litterae andavano richieste, un’indicazione si ricava da un frammento del Paolo visigotico (5.34.1), nel quale si legge che postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est: PS. 5.34.1: Ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, litterae dimissoriae diriguntur, quae vulgo apostoli appellantur: quorum postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est. 2. Qui intra tempora praestituta dimissorias non postulaverit vel acceperit vel reddiderit, praescriptione ab agendo submovetur et poenam appellationis inferre cogetur.
La formulazione del passo è tutt’altro che perspicua, poiché con un unico termine si indicano due attività, la prima delle quali è attribuita alla parte, la seconda dipende dalla diligenza dell’ufficio ed il passo non precisa le conseguenze dell’inattività del giudice, qualora l’appellante abbia diligentemente adempiuto nel termine stabilito al proprio compito. Ancora meno chiaro è il secondo paragrafo (PS. 5.34.2), per il quale: Qui intra tempora praestituta dimissorias non postulaverit vel acceperit vel reddiderit, praescriptione ab agendo submovetur et poenam appellationis inferre cogetur. Se i tempora praestituta sono ancora i cinque giorni prima indicati, non si vede come sarebbe stato possibile all’appellante non solo postulare ed accipere le litterae, ovviando, non si sa come, all’eventuale inerzia dell’ufficio, ma addirittura reddidere le stesse al tribunale superiore. Se, pur nella imprecisa formulazione del compilatore visigotico, emerge
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che tale attività fosse ancora affidata all’appellante, va detto subito come Diocleziano abbia inteso innovare radicalmente la disciplina di tali formalità, introducendo un regime interamente officioso: al giudice è affidato il compito di rilasciare gli apostoli post interpositam provocationem, anche per il caso di mancata richiesta da parte dell’appellante, etiam non petente appellatore, ma non si accenna alla fase di successiva trasmissione al giudice superiore. Un rescritto degli stessi imperatori Diocleziano e Massimiano (C. 7.62.5) 36 stabilisce che tale compito rimasse affidato alla parte: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Valerio. Praeses provinciae, ad quem appellasti, si non vitio neglegentiae vestrae tempus, quod ad reddendos apostolos praescriptum est, exemptum esse animadverterit, sed ex fatalis casus necessitate, diem functo eo qui eos perferebat, id accidisse cognoverit, iuxta perpetui iuris formam desiderio vestro medebitur.
La cancelleria imperiale, dunque, risolveva affermativamente il dubbio sottopostole dal postulante circa l’accoglibilità di un appello nel caso in cui la mancata consegna al giudice ad quem degli apostoli fosse dipesa non vitio neglegentiae dell’appellante, ma ex fatalis casus necessitate, nella specie la morte della persona incaricata della trasmissione.
12. L’editto di Diocleziano si chiude con l’abolizione delle cautiones processuali (C. 7.62.6 § 6: cautione videlicet de exercenda provocatione in posterum minime praebenda), sul cui uso in epoca anteriore siamo poco informati 37, poiché la loro abolizione ed il diverso sistema di sanzioni a carico dell’appellante temerario, già adombrato, come si è visto sopra, nello stesso editto dioclezianeo e che si svilupperà ulteriormente nella legislazione più tarda, ne hanno fatto scomparire quasi ogni traccia dalla Compilazione giustinianea. In verità, un breve cenno è fatto da Papiniano in tema di petitio fideicommissi, in cui il giurista richiama in proposito un rescritto di Marco Aurelio (D. 36.3.5.1): nella fattispecie in esame, è disposto che eum a quo res fideicommissae petebantur, cum appellasset, cavere vel, si caveat adversarius, ad adversarium 36 Il rescritto è conservato nel Codice di Giustiniano senza data, ma la sua inserzione immediatamente prima dell’editto del 294 consente di considerarlo ad esso pressoché coevo. 37 Cfr. R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 376 ss., il quale scriveva che l’editto dioclezianeo «lascia intravedere un regime anteriore nel quale fosse facoltà del giudice a quo esigere prima della consegna delle litterae una cauzione dall’appellante». Vedi anche lo studio di J. H. OLIVER, Marcus Aurelius: aspects of civil and cultural policy in the East, in Hesperia, Suppl. XIII, 1970, su cui A.H.M. JONES, A new letter of Marcus Aurelius to the Athenians, in ZPE, 8, 1971, 161 ss. e S. GIGLIO, L’epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, in AAC, 4, 1981, 547 ss.
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transferri possessionem debere. In verità, più che di una specifica cautio de excercenda provocatione, si trattava di applicare anche nel giudizio di appello la cautio fideicommissi. Il passo continua, infatti, rilevando: Recte placuit principi post provocationem quoque fideicommissi cautionem interponi: quod enim ante sententiam, si petitionis dies moraretur, fieri debuit, amitti post victoriam dilata petitione non oportuit. L’argomento è ampiamente trattato nelle Sententiae di Paolo (5.33.1-8), in cui si precisa che le cauzioni costituivano la garanzia del pagamento della poena appellationis e se ne illustra il regime, indicando in cinque giorni, decorrenti dal rilascio delle litterae dimissoriae, il termine entro cui queste dovevano essere prestate: Ne liberum quis et solutum haberet arbitrium retractandae et revocandae sententiae, et poena et tempora appellatoribus praestituta sunt. Quod nisi iuste appellaverint, tempora ad cavendum in poeta appellationis quinque dierum praestituta sunt. Igitur morans in eo loco, ubi appellavit, cavere debet, ut ex die acceptarum litterarum continui quinque dies computentur: si vero longius, salva dinumeratione interim quinque dies cum eo ipso quo litteras acceperit computantur. 2. Ne quis in captionem verborum in cavendo incidat, expeditissimum est poenam ipsam vel quid aliud pro ea deponere: necesse enim non habet sponsorem quis vel fideiussorem dare aut praesens esse: et si contra eum fuerit pronuntiatum, perdit quod deposuit. 3. Quotiens in poena appellationis cavetur, tam unus quam plures fideiussores, si idonei sint, dari possunt: sufficit enim etiam per unum idoneum indemnitati poenae consoli. 4. Si plures appellant, una cautio sufficit, et si unus caveat omnibus vincit. 5. Cum a pluribus sententiis provocatur, singulae cautiones exigendae sunt et de singulis poenis spondendum est. 6. Modus poenae, in qua quis cavere debet, specialiter in cautione exprimendus est, ut sit, in qua stipulatio committatur: aliter enim recte cavisse non videtur. 7. Adsertor si provocet, in eius modi tertiam cavere debet, quanti causa aestimata est. 8. In omnibus pecuniariis causis magis est, ut in tertiam partem eius pecuniae caveatur.
Il passo prevede, altresì, che, in luogo della cauzione, possa essere effettuato – ne quis in captionem verborum in cavendo incidat – il deposito della somma a titolo di penale e si specifica, inoltre, che possano essere dati uno o più fideiussori, nonché si stabilisce che se più siano gli appellanti sia sufficiente un’unica cautio, mentre se si appella da più statuizioni, singulae cautiones exigendae sunt e altri particolari 38. Il brano delle Sententiae pone seri e complessi problemi interpretativi: anzitutto, se si dovesse considerare il passo paolino desunto da un’opera ge38
Cfr., per un’ampia disamina del passo, M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, 2, Milano 1973, 753 ss.
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nuina del giurista severiano 39, ci troveremmo di fronte ad una disposizione che non risulta avere sicuri riscontri in fonti dell’epoca e che non si vede da quale statuizione normativa deriverebbe. Ma anche per il caso di attribuzione del frammento al più tardo redattore delle Sententiae, il problema resta ed in certo senso si aggrava: infatti, poiché l’epoca della redazione dell’opera si colloca generalmente proprio in età dioclezianea, non si comprende il contrasto fra il passo in esame, che prevede l’imposizione delle cautiones e ne regola minuziosamente la disciplina, con il paragrafo in esame dell’editto dei Tetrarchi, che tali cauzioni espressamente aboliva (C. 7.62.6 § 6). Che se poi si volesse pensare che il passo delle Sententiae non provenga dalla prima redazione, ma debba attribuirsi ad uno strato successivo di elaborazione dell’opera, il problema resta comunque, perché in nessuna parte della legislazione successiva si incontra una disposizione relativa all’imposizione di una cautio de exsercenda provocatione e poiché, in ogni caso, non si comprenderebbe la ragione per cui il suo redattore non abbia provveduto ad adattarne il contenuto al tenore dell’editto dei Tetrarchi. Le soluzioni proposte dalla dottrina al riguardo non paiono soddisfacenti a risolvere il problema 40 e, alla luce delle fonti a nostra disposizione, possiamo solo affermare che Diocleziano nel quadro della riforma del processo, abolendo l’imposizione di cautiones da parte del giudice a quo, veniva così a facilitare la proposizione del gravame nel sistema della cognitio extra ordinem 41.
13. L’esame della legislazione dioclezianea in tema di processo privato ha consentito di apprezzare la portata innovativa delle riforme imperiali, che si 39 In ordine alla facoltà del giudice a quo di imporre cauzioni all’appellante in età severiana, si ha traccia nel verbale di udienza conservato in P. Oxy. 1408, su cui vedi E. CANTARELLA, La fideiussione reciproca, Milano 1965, 67 s. 40 R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 376 ss., supponeva una permanenza nella prassi postclassica del regime più antico, attribuendo la frase finale della costituzione dioclezianea ad un’interpolazione giustinianea, mentre S. GIGLIO, L’epistola di Corbulone ai Coi, in Raccolta di Scritti in memoria di Angelo Lener, Napoli 1989, 536 ss., in part. 540 nt. 82, riteneva che il differente regime delle cauzioni nell’editto dei Tetrarchi e nelle Sentenze di Paolo costituisse «un importante elemento per pensare che la redazione di quest’opera risalga ad un periodo anteriore all’emanazione di C. 7.62.6 e, presumibilmente, anche al regno di Diocleziano». 41 Secondo W. LITEWSKI, Die römische Appellation, 4, cit., 222, l’imperatore avrebbe così avuto la possibilità di effettuare un maggiore controllo sull’operato dei giudici inferiori: «Der Bruch mit dieser Institution ist wohl damit aufgeklärt, dass die Kaiser zur Zeit des Dominats eine möglichst genaue Kontrolle der Tätigkeit der ihnen (auch mittelbar) unterstellten Richter anstrebten. Deshalb beseitigten sie die cautio, die in der Praxis die Anfechtung von Urteilen auf dem Wege der Appellation beschränkte»: in questo senso cfr., anche, M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale, cit., 756 ss.
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collocano nel più complesso quadro riformatore che l’imperatore dalmata era chiamato a realizzare, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare una struttura imperiale, squassata da pressioni esterne e forze disgregatrici interne 42: anche per tale motivo, certo sorprende che di tali interventi normativi non si faccia più esplicito riferimento nella legislazione successiva, non solo in quella, particolarmente ricca, riportata nel Codice Teodosiano, ma neppure nelle più tarde costituzioni conservate dagli stessi compilatori giustinianei, in cui i testi in esame sono stati raccolti 43. Ai nostri fini, rileva sottolineare come tali provvedimenti testimonino, anche nel settore dell’amministrazione della giustizia, la rilevanza e insieme la complessità degli interventi normativi di Diocleziano e confermino, seppure con le innegabili opacità e con le contraddizioni che pure sono emerse, come il giudizio di Aurelio Vittore sulla grandezza dell’imperatore dalmata, Valerius Diocletianus … magnus vir 44, possa essere pienamente condiviso 45.
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M. SARGENTI, Le strutture amministrative dell’Impero da Diocleziano a Costantino, cit., 239 ss. 43 Un implicito richiamo può intravedersi in una costituzione di Costantino dell’anno 315 (CTh. 11.30.3), in cui si esorta il destinatario, il proconsole d’Africa Probiano, ad attenersi, nell’esame degli appelli, all’edictum, quod super appellationum negotiis finiendis iam generaliter constitutum est. Opinioni diverse esprimono C. DUPONT, La procédure civile dans les constitutions de Constantin, Traits caractéristique, in RIDA, 21, 1974, 193 nt. 12, secondo cui la costituzione alluderebbe ad un editto di età anteriore non conservato, nonché J. GAUDEMET, Constitutions constantiniennes relatives à l’appel, in ZSS, 98, 1981, 58 (ora in Droit et société aux derniers siécles de l’Empire romain, Napoli 1992, 78), per il quale il richiamo farebbe riferimento a quello che viene considerato l’edictum generale del 313 indirizzato a Catullino e riportato nel Codice Teodosiano diviso in vari frammenti (CTh. 9.40.1; 11.30.2; 11.36.1). Ma questo collegamento non sembra appropriato, poiché l’editto di Costantino del 313 non contiene, in realtà, alcuna disposizione sullo svolgimento del giudizio di appello, né sul comportamento del giudice investito del suo esame, nessuna disposizione, cioè, che si potesse dire negotiis finiendis constituta. 44 AUREL. VICT., de Caes. 39.1. 45 Il giudizio sull’impero di Diocleziano da parte degli storici contemporanei è oggetto di indagine approfondita da parte di L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici, cit., 122 ss.
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2 SISTEMA GIUDIZIARIO E FUNZIONARI IMPERIALI NEL PROCESSO ROMANO DELLA TARDA ANTICHITÀ *
1. Nel panorama della letteratura specialistica, mancava uno studio monografico che, attraverso una ricognizione dell’utilizzo dell’espressione iudex nelle fonti giuridiche e letterarie di età tardoantica, delineasse il ruolo dei funzionari imperiali investiti di poteri giurisdizionali nel sistema della cognitio extra ordinem: anche la migliore dottrina, infatti, nelle indagini sul processo di età tarda, ha costantemente privilegiato la ricostruzione dei singoli istituti e lo studio della loro disciplina positiva, omettendo di indagare, se non episodicamente 1, la funzione dell’organo giudicante, che – nella tarda antichità – a motivo delle intrinseche caratteristiche strutturali del processo cognitorio, aveva assunto una posizione di centralità nel corretto svolgimento della vicenda processuale. Il progressivo consolidarsi della struttura burocratica dell’Impero, infatti, dove pure si profila un sempre più spiccato accentrarsi del potere giurisdizionale nella persona dell’imperatore, già teorizzato in epoca severiana in base al principio di un trasferimento dal popolo al principe di omne suum imperium et potestatem (D. 1.4.1 pr.) e dove l’imperatore esercita le funzioni di supremo titolare del potere giurisdizionale, il ruolo dei funzionari imperiali che esercitavano l’attività giurisdizionale in luogo del sovrano assume una diversa e, per certi aspetti, più pregnante rilevanza: se, infatti, nel Principato, e anche prima, già nella Repubblica, la configurazione e l’attribuzione di una competenza giurisdizionale agli organi sottoposti al potere imperiale poteva individuarsi nell’istituto della iurisdictio mandata, con cui i magistrati o promagistrati giusdicenti trasferivano ai loro legati una porzione della potestas iudicandi 2, nella * Koinonia 39 (2015), 664 ss. 1 Vedi, al riguardo, alcune recenti indagini, fra cui, in relazione al diritto classico: N. RAMPAZZO, “Sententiam dicere cogendum esse”. Consenso e imperatività nelle funzioni giudicanti in diritto romano classico, Napoli 2012. 2 Il quadro di tale sviluppo è reso con efficacia da L. FANIZZA, L’amministrazione della giu-
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realtà processuale tarda, il carattere episodico del conferimento di una iurisdictio mandata e il legame quasi personale fra mandante e mandatario venivano a scolorirsi, per assumere la configurazione di un legame funzionale tra il sovrano, titolare del potere, e il funzionario a cui venivano attribuite funzioni giurisdizionali, quale connotato permanente della carica, nella prospettiva della moderna concezione pubblicistica della rappresentanza organica 3. Bene ha fatto, dunque, il giovane Stefano Barbati, forte di una consolidata esperienza nel settore, attestata da precedenti contributi anticipatori 4, ad affrontare un tema così rilevante per una corretta conoscenza del fenomeno processuale della tarda antichità (S. BARBATI, Studi sui “iudices” nel diritto romano tardo antico, Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica, sede di Piacenza, Milano 2012, 1-705).
2. Il volume, particolarmente ponderoso, dopo una premessa introduttiva, finalizzata alla individuazione delle finalità dell’opera («Introduzione e finalità dell’indagine»: pp. 1-64), si compone di due parti: la prima, incentrata sull’esame delle fonti giuridiche e formata da quattro capitoli (cap. 1: «I iudices come complesso dei funzionari giusdicenti»: pp. 67-130; cap. 2: «I iudices quali governatori provinciali»: pp. 131-222; cap. 3: «I iudices quali funzionari diversi dai governatori provinciali»: pp. 223-245; cap. 4: «Problemi esegetici su fonti di interpretazione incerta»: pp. 247-367); la seconda parte, invece, è dedicata alle altre fonti, letterarie (cap. 1: «I iudices nelle fonti letterarie»: pp. 371-513) ed stizia nel Principato. Aspetti, problemi, Roma 1999, 61 ss., preceduta da alcune risalenti (ma utilissime) riflessioni generali di G. SCHERILLO, Lezioni sul processo. Introduzione alla “cognitio extra ordinem”, Milano 1960, 346 ss. Quanto alle fonti, per Papiniano (D. 1.12.1.1), l’attribuzione dei poteri ai mandatari era la conseguenza della mancanza di un loro autonomo potere di giudicare (proprium nihil habet), mentre Ulpiano (D. 4.4.18.3), che utilizza l’espressione vice eius, specificava che l’esercizio dell’attività giurisdizionale dei mandatari era il frutto del conferimento di una specifica attribuzione da parte del mandante (fungetur vice eius qui mandavit, non sua). 3 Una concezione “pubblicistica” di rappresentanza organica non era estranea al pensiero della tarda antichità, come è testimoniato da due passi del Panegirico in onore di Massimino (2.10[11].5), nei quali l’attività amministrativa dei funzionari delegati era considerata come l’estrinsecazione dell’attività dell’imperatore (etiam quae aliorum ductu geruntur, Diocletianus facit, tu tribuis effectum) e come frutto del potere del sovrano (a vobis profiscitur etiam quod per alios administratur). In argomento, F. GRELLE, La forma dell’Impero, in Storia di Roma. 3. L’età tardoantica, 1, Torino 1993, 77; P. CERAMI, Potere e ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, Torino 19963, 207. 4 Segnalo, fra gli altri, il denso saggio: I “iudices ordinarii” nell’ordinamento giudiziario tardoromano, in Jus, 54 2007, 67 ss., nonché il lavoro dal titolo Sugli elenchi degli organi giudiziari in età giustinianea, in Jus, 57, 2010, 37 ss.
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ecclesiastiche (cap. 2: «Le fonti ecclesiastiche»: pp. 515-607). Chiude la monografia un lungo capitolo di osservazioni conclusive («Conclusioni»: pp. 609672), nonché gli indici delle fonti (pp. 673-696) e degli autori (pp. 697-705).
3. La padronanza dei testi, non solo giuridici, da parte di Barbati emerge in limine, già nella parte introduttiva del lavoro, dove l’autore preliminarmente affronta il problema etimologico del sostantivo iudex, che, nelle testimonianze extragiuridiche, ricorre in un duplice e, per certi versi, intrinsecamente contraddittorio, significato: per un verso, quale espressione connaturata al concetto di iustitia, come si ricava da un passo di Ammiano Marcellino (AMM. MARC., Rer. Gest. 30.4.9: iudicum fidem, quorum nomen ex iustitia natum est) 5, da un editto della prima metà del sesto secolo attribuito al prefetto del pretorio Cassiodoro (CASS., Variae 11.40.1: nomen ipsum iudicis dicatum videatur esse iustitiae 6, nonché da un più tardo frammento di Isidoro di Siviglia (ISID., Etym., 9.4.14 = 18.15.6), nel quale si legge, infatti, che non est autem iudex, si non est in eo iustitia 7, ma che pure, per altro verso e contemporaneamente, attribuisce al iudex un secondo e diverso significato, che richiama invece la funzione di ius dicere (iudex dictus quasi ius dicens populo: ISID., Etym., 9.4.14 = 18.15.6) o di iudicare (iure autem disceptare est iuste iudicare: ibid.). In esito a tale rilievo ricostruttivo, che consente di attribuire al iudex del processo cognitorio poteri «sia giusdicenti, sia giudicanti» e che – a dire dell’autore – «riflette dunque a pieno i tratti fondanti del magistrato-funzionario della cognitio, con cui essa identifica il iudex, coerentemente alla situazione giuridica del tempo in cui è elaborata» 8, Barbati, quanto alle fonti giuridiche, previo attento e prudente esame della dottrina, anche risalente 9, delinea il ruolo svolto dai funzionari 5
Sul brano e, in generale, sull’organizzazione giudiziaria in Ammiano, vedi, per tutti, G. DE BONFILS, Ammiano Marcellino e l’imperatore, Bari 1997, 31 ss. 6 Interessanti spunti in F. DE MARINI AVONZO, I vescovi nelle “Variae” di Cassiodoro, in Dall’impero cristiano al medioevo, Goldbach 2001, 41 ss. 7 Sulla rilevanza delle fonti di epoca successiva al tradizionale confine posto dalla ricerca romanistica, di regola identificato con la pubblicazione della raccolta giustinianea, sono importanti le ricerche di Elio Dovere, fra cui spiccano i tre ultimi volumi, accomunati, nel titolo, dall’espressione tratta da una costituzione dell’anno 452, conservata negli atti conciliari calcedoniensi, con cui l’imperatore Marciano attribuiva all’ordinamento giuridico il compito di reprimere il male del diffuso dissenso religioso: Verum quoniam principalis providentiae est omne malum inter initia opprimere et serpentem morbum legum medicina resecare (ACO, 2,3,2,91 [350], 20): E. DOVERE, “Medicina legum”. 1. Materiali Tardoromani e “formae” dell’ordinamento giuridico, Bari 2009; ID., “Medicina legum”. 2. “Formula fidei” e normazione tardoantica, Bari 2011; ID., “Medicina legum”. 3. Credo di Calcedonia e legislazione d’urgenza, Bari 2013. 8 S. BARBATI, Studi sui “iudices” nel diritto romano tardoantico, Milano 2012, 27. 9 Opportunamente enfatizzata l’opera di «importanza imprescindibile» (S. BARBATI, Studi,
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imperiali, cui risultano attribuiti, nel quadro di una articolata struttura burocratica, minuziosamente descritta, ampie funzioni “giusdicenti” 10, cioè administrationis iure nella nota definizione datane da Zenone in un provvedimento del 479 (C. 1.49.1).
4. Nel capitolo d’esordio della prima parte del lavoro, Barbati individua ed elenca diligentemente i testi delle costituzioni di natura processuale che qualificano come iudices il complesso dei funzionari muniti di competenza giurisdizionale, offrendo un quadro ricostruttivo ampio ed esauriente: peraltro, nello svolgimento di tale attività, l’autore si avvede immediatamente della circostanza che tale rassegna, lungi dal potersi esaurire nel perimetro dell’indagine che egli si era prefisso, impone, proprio a motivo del riconosciuto valore generale dei provvedimenti esaminati, incursioni in settori che coinvolgono, in generale, i principi informatori dell’intero sistema processuale tardoantico: costituisce esempio illuminante di tale riflessione la costituzione di esordio, individuata da Barbati in un provvedimento dell’imperatore Costantino. Si tratta della costituzione di apertura del titolo De iudiciis, CTh. 2.18.1 (= C.3.1.9), un’epistula indirizzata nell’anno 321 al praefectus urbi Massimo: Imp. Constantinus A. ad Maximum. Iudicantem oportet cuncta rimari et ordinem rerum plena inquisitione discutere, interrogandi ac proponendi adiciendique patientia praebita ab eo: ut, ubi actio partium limitata sit, contentiones non occorsu iudicis, de satietate altercantium metas compresserint, saepius requiratur et crebra interrogatione iudicis frequentetur, ne quid novi resideat, quod adnecti allegationibus in iudiciaria contentione conveniat, cum ad alterutrum hoc proficiat, sive definienda sit causa per iudicem sive ad nostram scientiam referenda. Nec ad nos mittatur aliquid, quod plena instructione indigeat.
Il provvedimento, seppure formalmente indirizzato al solo prefetto urbano, doveva originariamente essere rivolto anche ad altri funzionari dotati di poteri giurisdizionali, come si ricava dall’intonazione generale e dall’uso del plurale (ad nos): offre a Barbati l’occasione di prendere posizione su un profilo di rilevante importanza nel quadro del sistema processuale della tarda antichità, cioè l’applicazione del principio dispositivo con riguardo alla proposizione di nuovi mezzi istruttori nel corso del giudizio, con particolare riferimento all’esistenza di un principio che autorizzasse il giudice ad in intervento suppleticit., 27 nt. 72) dovuta a A.M. BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess des gemeinen Rechts im geschichtlicher Entwicklung. 1. Der römische Civilprozess, Bonn 1864. 10 S. BARBATI, Studi, cit., 67.
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vo, avente funzioni vicarie rispetto ad eventuali insufficienze o debolezze dell’impianto probatorio predisposto dalle parti. Sull’autorità di due specialisti del settore, quali Fausto Goria 11 e Salvatore Puliatti 12, Barbati, ritiene che il testo in esame imponga «all’organo giudicante di chiedere alle parti tutti i chiarimenti necessari e di suggerire loro eventuali nuove prove di cui proporre l’acquisizione, senza tuttavia abilitarlo né ad assumere d’ufficio prove né a sostituirsi ai contendenti nell’attività volta a definire sia il thema probandum sia il thema decidendum»: una valutazione negativa in ordine ad un eventuale potere di integrazione istruttoria di natura officiosa, dunque, che porta l’autore a concludere con nettezza nel senso che «non è chi non veda come una simile configurazione procedurale sia assolutamente consentanea al principio dispositivo, che si può dire superato unicamente quando il giudice può disporre mezzi istruttori d’ufficio e la sua decisione non è limitata dall’oggetto delle domande e delle eccezioni proposte dalle parti» 13. Il tema dell’esistenza o meno di un potere suppletivo del giudice nella fase dell’istruzione probatoria del processo tardoantico è intimamente connesso con quello relativo alla possibilità per le parti di integrare e modificare l’impianto delle prove in un momento successivo alla proposizione della domanda o addirittura in un grado successivo del giudizio: Barbati, al riguardo, rafforza il pensiero della dottrina più autorevole, che intravede, per l’età costantiniana, una regime rigorosamente restrittivo in materia, che troverebbe la sua origine nell’editto di Diocleziano dell’anno 294 (C. 7.62.6) 14. A ben vedere, però, l’esame dell’importante provvedimento dioclezianeo in tema di processo 15, lascia margini per una meno rigida interpretazione della costituzione di Costantino in esame: l’editto, infatti, nei due paragrafi di apertura, consente di intravedere un’articolazione complessa dello svolgimento del giudizio, con deduzioni e produzioni istruttorie anche successive al momento di proposizione della domanda. In particolare, il primo paragrafo, sul presupposto che tale principio sia utile per la piena attuazione della iustitia, che co11 F. GORIA, Valori e principi del processo civile nella legislazione tardo antica: brevi note, in Atti del Convegno 18-19 giugno 2009, Parma 2010, 11 ss. 12 S. PULIATTI, “Officium iudicis” e certezza del diritto in età giustinianea, in Legislazione, cultura giuridica, prassi dell’Impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro. Atti del Convegno 21-22 maggio 1998 Modena, Milano 2000, 117 ss., ma anche Princìpi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C. Atti del Convegno 18-19 giugno 2009, cit., 103 ss. 13 S. BARBATI, Studi, cit., 70 s. 14 S. PULIATTI, Officium iudicis, cit., 116. 15 A. FERNANDEZ BARREIRO, Un edicto generál de Diocleciano sobre procedimiento, in Estudios de derecho romano en honór de Álvaro D’Ors, 1, Pamplona 1987, 417 ss.
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stituisce, afferma l’imperatore, il votum del suo governo, prevede che, anche in gradi successivi al primo, le parti possano integrare le allegazioni che fossero state inizialmente omesse, in agendo negotio minus se adlegasse litigator: C. 7.62.6.1: Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludendo videatur.
A rafforzare tale indirizzo, Diocleziano, nel secondo paragrafo, autorizza espressamente le parti a chiedere l’ammissione di nuovi testimoni, qualora siano utili all’accertamento della verità, veritatem possit ostendere: Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendos personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimabit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit. Indipendentemente dalla natura innovativa o meno di tali regole processuali, su cui la dottrina non è concorde 16, si può ritenere, con buon fondamento, che l’editto di Diocleziano dell’anno 294 costituisca la prima esplicita statuizione normativa in cui esse venivano affermate e la conferma della possibilità dell’introduzione, durante lo svolgimento del processo, di elementi nuovi e diversi rispetto a quelli offerti in apertura del dibattimento: un regime perfettamente coerente con le caratteristiche generali del processo della cognitio extra ordinem e, in particolare, con la larga discrezionalità che caratterizzava l’attività dei giudici, come peraltro Barbati bene mette in evidenza proprio in relazione alla costituzione costantiniana 2.18.1 in esame.
16 Sul carattere innovativo delle disposizioni dioclezianee, vedi M. LAURIA, Sull’“appellatio”, in AG, 97, 1927, 7, ora in Studii e ricordi, Napoli 1983, 69, soprattutto in base a D. 34.9.5.12, in cui Paolo riferisce che sarebbe incorso in indegnità il giudice di primo grado, la cui decisione in materia di falso testamentario fosse stata riformata in sede di gravame: secondo il Lauria, ciò sarebbe stato possibile solo per il caso di una riforma della sentenza senza necessità di nuove prove. A favore, invece, di una ammissibilità di nuove prove in un momento successivo alla fase introduttiva del giudizio già in età severiana, soprattutto in forza del passo ulpianeo, D. 49.1.3.3, in cui è previsto che sia possibile coltivare la propria domanda giudiziale quibuscumque modis, vedi J.L. LINARES PINEDA, “… persequique provocationem suam quibuscumque modis potuerit”. Apelación plena y apelación limitada en el proceso civil romano, in Estudios Hernandez Tejero, 2, Madrid 1994, 343 ss.
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5. Analoga esigenza di estendere il campo di indagine rispetto alla identificazione dei giudici nel processo cognitorio è opportunamente avvertita dal Barbati anche in relazione alla seconda costituzione esaminata, anch’essa di Costantino. Si tratta della nota c. 11 CTh. 11.30, indirizzata al prefetto urbano Massimo ed emanata a Sirmio il 12 gennaio 321, che, per il suo intrinseco valore generale, conviene riportare per esteso: Imp. Constantinus A. ad Maximum. Post alia: Nemo in refutationem aliquid congerat, quod adserere intentione neglexerit. Quod quidem saepe fit industria, si quod quis probari posse desperet, in praesenti disceptatione dissimulet, certus se esse revincendum, si commenticia et ficta suggesserit. Propter quod cogi etiam singulos oportebit ad proferenda in iudicio universa quae ad substantiam litigii proficere arbitrantur, atque ea ratione urgeri, ut sciant sibi ex auctoritate legis istius non licere refutatoriis tale aliquid ingerere, quod aput iudicem non ausi fuerint publicare. Nam si plena, ut iubemus, adsertio per litigatorem in iudiciis exeratur et integra instructio in consulti ordinem conferatur, stabit ratum ac fidele, quod iudicia nostra rescribserint neque ullus querimoniae locus dabitur nec occasio supplicandi, ut convelli labefactarique iubeamus quae ad relationem eius sanximus, qui neque vera neque universa suggessit. Omnes igitur partium allegationes acta universa scribturarumque exempla ommiun dirigantur. Quod cum universos iudices tum praecipue sublimitatem tuam, qui cognitionibus nostram vicem repraesentas, servare conveniet. Sane etiam ex eo querimoniae litigantium oriuntur, quod a vobis, qui imaginem principalis disceptationis accipitis, appellationum adminicula respuuntur. Quod inhiberi necesse est. Quid enim acerbius indigniusque est, quam indulta quempiam potestate ita per iactantiam insolescere, ut despiciatur utilitas provocationis, opinionis edito denegetur, refutandi copia respuatur? Quasi vero appellatio ad contumeliam iudicis, non ad privilegium iurgantis inventa sit vel in hoc non aequitas idicantis, sed litigantis debeat considerari utilitas. Dat. Prid. Id. Ian Sirmio Crispo II et Constantino II CC. conss.
Il testo normativo offre all’autore l’occasione per affermare, in stretta correlazione con quanto sostenuto a proposito della precedente costituzione costantiniana (CTh. 2.18.1), che il provvedimento, in duplice e reciprocamente interdipendente prospettiva, attesterebbe, per un verso, una nuova configurazione generale del processo di impugnazione; per altro verso, conterrebbe il divieto di proporre, «almeno davanti al tribunale imperiale […] domande, eccezioni e mezzi istruttori nuovi» 17. L’esame della costituzione e, più in generale della normativa costantiniana in tema di impugnazioni, consente, a mio avviso, qualche ulteriore approfon17
S. BARBATI, Studi, cit. 74.
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dimento: anzitutto, va detto come essa sia stata utilizzata dal Gaudemet quale appiglio testuale per sostenere l’esistenza di una forma particolare di impugnazione al tribunale imperiale, che Costantino avrebbe introdotto sul modello della consultatio ante sententiam, l’appellatio more consultationis o per consultationem 18. In realtà, ad una attenta lettura, emerge anzitutto come la costituzione in esame non riguardi il processo d’appello, neppure nella pretesa forma dell’appello more consultationis, bensì la diversa procedura della consultatio ante sententiam. A ben vedere, ciò appare chiaro, oltre che dal suo generale contesto, dalla circostanza che lo strumento di soluzione del caso sottoposto alla decisione imperiale viene qualificato come un rescritto: nell’ipotesi di consultatio ante sententiam 19, infatti, era questa la forma del provvedimento con cui l’imperatore risolveva i dubbi che gli erano sottoposti dal funzionario imperiale in relazione alla norma da applicare al caso concreto, mentre il giudizio di appello si concludeva con una sentenza 20. È pur vero che nel seguito del testo si accenna anche all’appello, ma esclusivamente per stigmatizzare l’atteggiamento ostruzionistico che i giudici, anche di rango superiore, come lo stesso praefectus urbi, cui la disposizione si rivolge, assumono per evitare la rapida conclusione dei processi e che si concretava, nel caso, nel rifiuto di emettere l’opinio e di rilasciarne copia alle parti 21. Per tale motivo, ritengo che le due parti del provvedimento imperiale vadano tenute distinte, poiché hanno diversa importanza e differenti finalità e non credo possibile dedurre, dal discorso sulle impugnazioni nella seconda parte, che anche nella prima si abbia di mira il processo d’appello o addirittura scorgere, come vuole appunto il Gaudemet, nell’espressione “in consulti ordinem” la prova che si trattasse di appello more consultationis. In realtà, la costituzione considera l’ipotesi di una consultatio ante sententiam proposta da un funzionario imperiale al tribunale supremo e si riconnette 18
J. GAUDEMET, Constitutions constantiniennes relatives à l’appel, in ZSS, 98, 1981, 64, ora in Droit et société aux derniers siècles de l’Empire romain, Napoli 1992, 84. 19 W. LITEWSKI, Consultatio ante sententiam, in ZSS, 86, 1969, 251; F. DE MARINI AVONZO, Diritto e giustizia nell’Occidente tardoantico, in La giustizia nell’alto medioevo (sec. V-VIII), 1, Spoleto 1995, 111. 20 W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4, in RIDA, 15, 1968, 262. 21 Sull’obbligo del iudex a quo di esprimere una opinio nel processo d’appello della cognitio extra ordinem, vedi Macro (D. 49.5.6: opinionem suam confestim manifestare) e il paragrafo 3 del già citato editto di Diocleziano dell’anno 294 (C. 7.62.6: opiniones suas iudices exemplo appellatoribus adito ac refutatorias eorum ad scrinia quorum interest transmittant). In argomento, R. ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Genova 1952, 381 ss.
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al testo con cui, in apertura del titolo del Teodosiano in cui la costituzione è collocata (De appellationibus et poenis earum et consultationibus), la cancelleria disciplinava espressamente il procedimento a cui le parti e i giudici dovevano attenersi si in civili negotio cognitis utrisque actionibus (CTh. 11.30.1) 22, per il caso di un dubbio che il funzionario avesse manifestato sull’applicabilità della norma al caso concreto, mediante l’invio degli atti all’imperatore con una relatio: se nella costituzione di esordio si stabilisce che il giudice doveva comunicare alle parti l’exemplum consultationis e che le parti avevano la possibilità di opporvi le preces refutatoriae, nel testo in esame (CTh. 11.30.11), si precisa che tali refutatoriae non possono contenere o invocare argomenti nuovi o diversi rispetto a quelli introdotti in apertura del processo (si noti l’espressione intentio con cui la cancelleria imperiale indica tale momento processuale): quod apud iudicem non ausi fuerint publicare. Il provvedimento imperiale si riferiva, dunque, esclusivamente alle modalità di svolgimento della consultatio ante sententiam, senza fare riferimento, nemmeno implicito, ad un caso di impugnazione della sentenza al giudice superiore. Nel testo, dunque, non si parla di appello ma, al contrario, si specifica che, se tali disposizioni verranno osservate, la decisione imperiale, definita come quod iudicio nostro rescribserint, potrà risultare ferma e definitiva: era questo il rescritto con cui l’imperatore rispondeva al funzionario imperiale che gli aveva sottoposto una consultatio ante sententiam e non la sentenza del tribunale imperiale pronunciata in grado d’appello. Se, dunque, di rescritto imperiale si trattava, come il tenore letterale dei testi consente fondatamente di ritenere, la costituzione 11 CTh. 11.30 non offre alcun elemento da cui ricavare un indirizzo restrittivo in tema di integrazioni istruttorie in un momento successivo all’introduzione della domanda: infatti, se è pur vero che nella disposizione normativa emerge il divieto di proporre nelle refutationes gli argomenti che non fossero stati introdotti con l’intentio, tale divieto non si riferisce all’appello, tantomeno ad un preteso appello more 22 CTh. 11.30.1: Imp. Contantinus A. ad Claudium Plotianum correctorem Lucaniae et Brittior(um). Si in negotio civili cognitis utriusque actionibus pronuntiaveris te ad nostram scientiam relaturum, consultationis exemplum litigatoribus intra decem dies edi aput acta iubeas, ut, si cui forte relatio tua minus plena vel contraria videatur, is refutatorias preces similiter tibi aput acta offerat intra dies quinque, quam illi exemplum consultationis tuae obtuleris. Iam dicationis tuae est omnia, quae aput te vel aput alios gesta fuerint in eo negotio, consultationi tuae cum refutatoriis litigantis adnectere, ita ut scias et decem dies, intra quos edi consultationem oportet, et quinque, intra quos preces refutatoriae offerendae sunt, continuos debere servari. Nam quinque diebus transactis nec offerentem preces refutatorias litigatorem debebis audire, sed sine his, quoniam intra statutum tempus a oblatae non sunt, gesta omnia ad nostram referre scientiam. Et cetera. Dat iii kal. Ian. Trev(iris) Constantino A. III et Licinio III conss.
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consultationis o per consultationis: in realtà, doveva trattarsi di una disposizione di carattere generale, dettata dalla necessità di una “concentrazione” dei tempi processuali, senza alcun specifico riferimento al giudizio di secondo grado o al divieto di nuove deduzioni in questa fase del giudizio. È possibile che, se rigorosamente applicata, la norma abbia avuto riflessi anche sul giudizio di appello, impedendo, a più forte ragione, che in questo si potessero introdurre deduzioni o prove, se già respinte in primo grado: ma non credo possibile che da tale provvedimento normativo possa dedursi una disciplina restrittiva, sfavorevole alla introduzione di nova nei vari gradi di giudizio in cui poteva articolarsi il processo cognitorio, anche considerando il contenuto della sopra richiamata costituzione di apertura del titolo De iudiciis (CTh. 2.18.1), né, tantomeno, una rigorosa coerenza dell’ordinamento e un sicuro inquadramento sistematico delle norme del Teodosiano, in assenza di notizie sul collegamento e sull’eventuale coordinamento anche nella loro originaria formulazione e nella prassi processuale anteriore alla pubblicazione della raccolta legislativa. 6. Il secondo capitolo della prima parte è dedicato, nelle esplicite intenzioni dell’autore, all’esame dei provvedimenti imperiali in cui l’espressione “iudices” è identificata con i governatori delle province, sia per l’attività svolta nell’ambito processuale (§3), sia per quella estranea all’amministrazione della giustizia, quale l’aggiornamento delle liste del censo (§2), di cui si ha traccia esplicita nel provvedimento di Valentiniano e Valente dell’anno 371 (CTh. 13.10.7). Quanto all’identificazione di iudex con il governatore provinciale, assume speciale rilevo l’editto costantiniano del 331, raccolto in CTh. 1.16.6 e 7, nel quale è documentata la sinonimia fra la titolatura di praeses e l’espressione iudex. Anche in questo caso, la portata normativa della disposizione non è limitata alla mera indagine lessicale: se letta in un contesto più generale, la disposizione consente di attestare l’introduzione, nel sistema processuale della tarda antichità, di una funzione diversa da quella usualmente attribuita a tali funzionari imperiali. Il provvedimento sancisce, infatti, che ai prefetti del pretorio era possibile rivolgersi, oltre che nell’ambito dello svolgimento dell’ordinaria attività giurisdizionale, che – nel caso – sarebbe stata relativa alla impugnazione di una sentenza di primo grado in ipotesi di soccombenza, anche per i casi in cui il governatore provinciale non si fosse pronunciato sugli abusi compiuti dai suoi officiales durante lo svolgimento del giudizio. Ciò risulta, con ancora maggiore chiarezza, dalla poco precedente costituzione dell’anno 328, inserita nel medesimo titolo De officio rectoris provinciae, c. 4 23, in cui la cancelleria imperiale stabili23
Sul contenuto del provvedimento, utili informazioni in R. LIZZI TESTA, Senatori, popolo, Papi. Il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004, 244 s.
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sce, per il caso in cui non abbiano reagito all’insolenza di personaggi influenti o non abbiano deciso controversie nelle quali essi avevano avuto parte, che i governatori delle province possano rivolgersi al tribunale dei prefetti del pretorio (o, addirittura, a quello imperiale: …ad nos aut certe ad gravitatis tuae scientiam referre), quo provideatur, qualiter publicae disciplinae et laesis minoribus consulatur 24. In analoga, rilevante prospettiva, si pone l’esame di un altro importante provvedimento, la c. 10 CTh. 1.16, che Barbati ricollega «all’obbligo del iudex di esercitare pubblicamente la giustizia civile e penale» 25. Anche tale disposizione deve essere collocata in un contesto più ampio rispetto al confine nel quale è collocata nel volume in esame: anzitutto, essa va unita alla coeva c. 4 CTh. 9.3, De custodia reorum, praelata l’8 settembre dell’anno 365 26, di cui costituisce parte di un unico intervento normativo; in secondo luogo, deve essere sottolineato come l’intervento normativo nel suo complesso affronti temi di rilevante carattere per una più corretta comprensione del fenomeno processuale tardo: la disposizione, infatti, offre rilevanti spunti di riflessione sul problema, ancora oggetto di fervido dibattito dottrinale, relativo alla natura, accusatoria o inquisitoria, del processo penale della cognitio extra ordinem, che pure Barbati, seppure in altro e differente contesto, dimostra di conoscere 27. Il tema in discussione non è relativo alla possibilità, neppure messa in discussione, che il processo penale possa prendere l’avvio anche da una denuncia presentata da un privato cittadino, bensì attiene alle vicende del successivo sviluppo del giudizio, con particolare riferimento ai poteri attribuiti al giudice durante l’istruttoria: le fonti tarde consentono di ipotizzare, con buon fondamento, che, ancora nel IV secolo, pur di fronte ad un graduale generalizzarsi dell’inquisitio 28, il giudice, nella fase di istruzione probatoria, rimanesse vinco24 Sull’attività di controllo, da parte dei prefetti del pretorio, sul comportamento dei giudici ordinari, si leggano anche le successive cc. 2 CTh. 1.7 di Teodosio, Arcadio ed Onorio e la 10 CTh. 1.5 (= C. 1.26.4) di Valentiniano, Teodosio e Arcadio. 25 S. BARBATI, Studi, cit., 163. 26 La costituzione, come si ricava dalla subscriptio, è stata praelata ad una lettera del vicarius Hispaniarum cui era diretta, che così la rendeva nota. Non è possibile mantenere Verona come località di emanazione, come voleva il Mommsen (ad h.l.), sia perché Verona appare come il luogo in cui la costituzione è stata praelata e non data, sia perché l’imperatore Valentiniano fu a Verona solo di passaggio, nell’ottobre 364, durante il viaggio verso Milano (cfr. CTh. 12.1.68 e 11.31.1). Neppure plausibile la soluzione proposta dal Seeck (Regesten der kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919, rist. Frankfurt 1984, 108), che ipotizza di correggere il luogo di emanazione in Gerona, non essendo possibile provare, allo stato delle nostre conoscenze, che questo fosse già il nome della località spagnola di Gerunda. 27 S. BARBATI, Studi, cit., 80 s. 28 Sono le parole di Mario Lauria nel risalente, ma ancora fondamentale lavoro dal titolo:
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lato alle prove offerte dalla parte, offrendo elementi a favore della conservazione, anche in epoca tarda, di una struttura accusatoria del processo, che ancora ne caratterizzava l’impianto e ne influenzava lo svolgimento 29. Il provvedimento costantiniano in esame si inserisce coerentemente nel quadro di una simile ipotesi ricostruttiva: se, infatti, la c. 10 CTh. 1.16, vieta ai giudici di accettare ulteriori elementi di accusa dopo la conclusione del pubblico dibattimento, postquam se receperint, la c. 4 CTh. 9.3 esclude la valida costituzione del rapporto processuale, cui sarebbe conseguito l’assoggettamento dell’accusato al carcere, se non effettuato mediante il rispetto delle formalità tipiche del processo accusatorio: in codice publico sollemnia incribtionis impleta sint.
7. Di particolare interesse è il terzo capitolo della prima parte, in cui Barbati individua le ipotesi in cui le fonti tendono a distinguere, nel quadro degli addetti all’amministrazione della giustizia, le funzioni esercitate dai iudices rispetto a quelle dei rectores provinciarum, specialmente attraverso l’esame di tre costituzioni imperiali: CTh. 15.1.15 di Valentiniano e Valente, in cui si stabilisce che iudices et rectores provinciarum non possono erigere nuove opere pubbliche prima di avere restaurato quelle esistenti 30; CTh. 12.1.85 = C. 10.32.33 di Graziano, Valentiniano e Teodosio, relativa al divieto, rivolto ad omnes iudices provinciarumque rectores, di proseguire nella prassi di frustare i decurioni e i maggiorenti delle città, nonché, seppure per implicito, CTh. 16.10.10 di Teodosio, da cui si ricava una differente sanzione pecuniaria irrogata ai iudices (quindecim pondo auri) rispetto a consulares, correctores, praesides (quaternas … illorum similem normam aequali sorte dissolvant). L’attenta esegesi dei tre provvedimenti consente all’autore di concludere nel senso che il «differente registro semantico […] nonostante i preposti delle province rientrassero a pieno titolo fra i giudici, vuole indicare che il disposto non si applica soltanto ai governatori provinciali […]. L’esplicita divisio conferma, a contrario, come abitualmente per iudices si intendessero per l’appunto i governatori provinciali e, anzi, gli autori delle norme in questione avvertono l’esigenza di opporre ai iudices i rectores provinciarum proprio al fine di “Accusatio-Inquisitio. Ordo-cognitio extra ordinem-cognitio”: rapporti ed influenze reciproche, in Atti della Regia Accademia di Scienze Morali e Politiche, 56, 1934, 304 (ora in Studii e ricordi, Napoli 1983, 277). 29 Per qualche ulteriore esemplificazione, mi permetto di rinviare a F. PERGAMI, “AccusatioInquisitio”: ancora a proposito della struttura del processo criminale in età tardoantica, in Studi di diritto romano tardoantico, Milano 2012, 349 ss. 30 S. BARBATI, Studi, cit., 243 s.
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chiarire agli operatori che i divieti […] non concernevano i governatori provinciali» 31.
8. La parte della monografia in cui le doti di Barbati emergono con maggiore chiarezza e nella quale si ricava una visione “d’insieme” del quadro dei funzionari imperiali investiti di compiti giurisdizionali, è senz’altro il capitolo quarto, con cui si chiude la prima parte del lavoro: esso è dedicato all’esame delle fonti che mostrano – sono le parole dell’autore – «una notevole ambiguità per l’individuazione dei iudices» e in cui «si staglia con nettezza la problematica della vaghezza di buona parte delle lingua legislativa di epoca tarda» 32. È qui, infatti, che l’identificazione delle varie categorie di iudices viene proposta non quale risultato di un’indagine meramente lessicale dei testi, bensì quale frutto di un’interpretazione sistematica delle raccolte ufficiali, segnatamente in relazione al titolo in cui le disposizioni imperiali sono contenute, oltre che – seppure con maggiori margini di incertezza – in forza di un esame palingenetico dei provvedimenti esaminati. Sotto il primo profilo, l’indagine prende le mosse dalla legislazione in materia fiscale, l’esame della cui copiosissima produzione normativa consente di isolare i provvedimenti normativi relativi alla riscossione dei tributi concernenti l’annona, destinati all’arca prefettizia che, coerentemente al quadro generale di ripartizione delle competenze giurisdizionali, attribuiscono ai rectores provinciarum il potere di exigere l’annona e i ceteri tituli, qui pertinent ad arcam eminentissimae praefecturae (CTh. 10.19.6 di Arcadio ed Onorio dell’anno 398, ma già nella costantiniana CTh. 11.1.3, nella quale gli esattori si qualificano come universi iudices, da intendere quali funzionari preposti alla procedura di accertamento dei tributi, alla cui esazione avrebbero provveduto i rectores provinciarum). Di una identificazione dei iudices indicati nelle costituzioni in materia di riscossione dei tributi con i governatori delle province, si ha peraltro testimonianza, seppure indiretta, anche in relazione alla annona militare e alla collatio lustralis, entrambe destinate alle casse prefettizie. Quanto alla prima ipotesi, ciò è provato soprattutto dalla costituzione CTh. 11.7.16, ancora di Arcadio ed Onorio, emanata nell’anno 401, nella quale gli exactores militaris annonae, sono identificati con i governatori, anche a motivo 31 Si noti che la costituzione richiama un precedente provvedimento non conservato (Lex sancientibus nobis rogata est), su cui F. PERGAMI, La legislazione di Valentiniano e Valente (364375), Milano 1993, ad h.l. 32 S. BARBATI, Studi, cit., 248.
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dell’ambito provinciale in cui attuavano la materiale riscossione del tributo 33, destinato al sostentamento degli eserciti (CTh. 11.7.16, ancora di Arcadio ed Onorio, emanata nell’anno 401). In relazione, invece, alla collatio lustralis, finalizzata a tassare i negotiatores, rileva – in particolare – un provvedimento dell’anno 403, CTh. 12.6.29, con cui Onorio, richiamando una precedente disposizione del 399 (CTh. 13.1.17), dedicata alle modalità di riscossione dell’aurum negotiatorum, come pure il tributo era chiamato, punisce il giudice che ometta il controllo sulle operazioni di incasso: ciò fa pensare, nella fondata ipotesi del Barbati, peraltro sostenuta da autorevole dottrina sin dal Gotofredo, che tale incarico sia stato affidato al governatore provinciale, cui pure, come s’è visto, spettavano poteri di controllo sull’arca prefettizia a livello cittadino.
9. La parte relativa all’individuazione dei iudices attraverso la palingenesi delle costituzioni imperiali si segnala per originalità ed autonomia argomentativa, considerando che l’indagine è svolta sulla legislazione fiscale di Arcadio ed Onorio, priva ancora di una organica sistemazione in dottrina 34. L’autore prende le mosse da una serie di provvedimenti imperiali, destinati a regolare le modalità di riscossione dei tributi a favore dell’erario imperiale, segnatamente con riguardo alle sacrae largitiones e alla res privata: quanto all’incasso dei tituli largitionales, la ricostruzione della disposizione di Onorio del 27 febbraio 401, smembrata, nella versione a noi nota fra Codice Teodosiano (CTh. 1.10.7) e Codice Giustinianeo (C. 1.32.1) e preceduta dall’esame congiunto delle due epistulae indirizzate al praefectus praetorio per Italiam et Africam, Valerio Messalla (CTh. 1.5.12 e 13), consente all’autore, nel tentativo di identificare i giudici competenti in materia fiscale, di formulare una nuova ipotesi ricostruttiva: della disposizione onoriana esisterebbe una seconda versione, identificata nell’epistola indirizzata ad Adriano, successore nella carica di prefetto del pretorio per l’Italia e l’Africa (CTh. 1.10.6). In base all’identità di contenuto fra le due disposizioni normative, entrambe destinate ad imporre ad ogni indictio fiscale, seppure con diversa enfasi, l’invio di due palatini in ciascuna provincia per sollecitare l’esazione da parte dei giudici, a cui è rivolto 33 In argomento, A.H.M. JONES, The Later Roman Empire (284-602), 1, Oxford 1964, che cito nella traduzione italiana di E. PETRETTI, Il Tardo Impero Romano (284-602), 2, Milano 1974, 674 ss. 34 È eccessivamente riduttivo il giudizio espresso dall’autore in relazione al lavoro svolto, nel corso degli ultimi trent’anni, dall’Accademia Romanistica Costantiniana, con la pubblicazione della seconda serie dei Materiali per una palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali (Barbati parla di «primi timidi contributi di aspirazione palingenetica»: Studi, cit., 297).
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il compito, previo controllo dell’attività degli stessi palatini contro eventuali abusi (per singulas provincias palatini dirigantur, ita ut singulorum librarum auri adiutores per singulos multa constringat, si legis nostrae definitiones neglexerit) di inviare alle sacrae largitiones l’oro riscosso, Barbati ipotizza un’identificazione fra i iudices, che nella c. 7 CTh. 1.10, debbono inviare sine ulla dilatione, ad officium palatinum … aurumque exactum ad sacrae largitiones, con i rectores, cui, in CTh. 1.10.6, è pure affidato il compito di vigilare sull’attività di esazione da parte dei palatini (ad hoc enim tantum videntur emitti, ut rectoribus vigilanter immineant). Anche in relazione alla res privata, l’identificazione fra rectores e iudices emerge dalla ricostruzione palingenetica della legislazione onoriana in materia fiscale: la prima parte della disposizione normativa, che è raccolta nel titolo De his quae ex publica collatione illata sunt non usurpandis del Teodosiano, CTh. 12.9.3 (= C. 10.75.3), prevede la punizione, gravissima severitate, per i giudici che stornino dalla res privata fondi ad necessitates alias. Il provvedimento, che si apre con un post alia, che ne connota la sua incompletezza, è conservato, in versione più ampia – contenente anche la prescrizione di esigere i canoni per la concessione in godimento delle terre della res privata (Per omnes provincias patrimonialium fundorum ab ordinariis iudicibus canon exigatur, et quidquid exactum fuerit, dirigatur) – anche nel Codice Giustinianeo (C. 11.65.5): il tenore del provvedimento supera, nell’interpretazione dell’autore, la precedente attribuzione dei poteri di riscossione ai rationales e attesta il definitivo trasferimento ai governatori delle province dei compiti di esazione dei canoni della res privata. 10. La seconda parte della monografia, del pari molto ponderosa, è dedicata all’esame delle fonti letterarie, segnatamente l’Historia Augusta, le Res Gestae di Ammiano Marcellino, le Relationes di Simmaco e le Variae di Cassiodoro, da cui Barbati ricava elementi molto utili alla identificazione dei funzionari investiti di compiti giurisdizionali. Premesso un accenno al dibattito relativo all’epoca di composizione, alle persone degli autori, alle tendenze ideologico-politiche da loro espresse, nonché all’attendibilità delle notizie da loro riferite nelle varie Vitae che compongono l’Historia Augusta, Barbati ipotizza che «il corpus di biografie conosce ora un’estensione generale alla parola iudices, a contrassegnare il complesso dei magistrati-funzionari o anche quelli con funzioni civili contrapposti ai duces militari […] ora un’identificazione specifica dei iudices ivi menzionati, che possono essere lo stesso princeps, oppure singoli funzionari, in specie il praefectus urbi e i governatori delle province» 35. 35
S. BARBATI, Studi, cit., 393.
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Alessandro Severo, in un’ottica di rigorosa politica di repressione dei reati, ricomprende nella prima categoria, con valenza negativa, coloro che commettevano illeciti a fini di lucro (S.H.A., Alex. Sev., 15.1: omnes iudices […] inpurus; 17.1-2: …si umquam furem iudicem vidisset), analogamente equiparati ai fures nella biografia di Claudio (S.H.A., Claud., 2.6: fures iudices) oppure qualificati come soggetti inadeguati allo svolgimento della funzione svolta (S.H.A., Aurel., 43.3-4); al contrario, e in chiave laudativa, i giudici sono indicati come soggetti chiamati, in generale, all’applicazione della lex romana (S.H.A., Prob., 20.5: Romanae leges...iudices nostri). Per una connotazione più specifica, invece, merita un richiamo il riferimento al iudex identificato con il sovrano (S.H.A., Alex. Sev., 28.2: severissimus iudex), con i governatori delle province (S.H.A., Sev., 8.4: a provincialibus iudices), nonché con i praesides o i proconsules (S.H.A., Tac., 15.2: praesidem imponat…proconsulem mittat … omnibus iudicet, ma anche – disgiuntamente – come proconsole in S.H.A., Aurel. 40.4: omnesque iudices…pro consule Asiae … o come preside in S.H.A., Alex. Sev. 42.4: iudices…praesides provinciarum), con il prefetto d’Egitto (S.H.A., Sev. 17.2: Deinde Alexandrinis … dedit … uno iudice contenti, quem Caesar dedisset) o, infine, con il praefectus urbi (S.H.A., Ant. Pius, 8.6: iudici … praefecto urbi). Si tratta, in definitiva, di una ricca antologia di fonti, che consente al Barbati di fondatamente concludere per l’individuazione di un «campo semantico nell’Historia Augusta della parola iudex […] oscillante fra il polo generale dei funzionari civili e quello settoriale dei governatori delle province, figura istituzionale verso la quale il termine sembra spesso propendere» 36. Ferma la qualificazione dei giudici per indicare, in generale, i magistrati (AMM. MARC., Rer. Gest. 15.5.18: ...ad similitudinem iudicum salutatos principes legerimus), intesi come il complesso dei funzionari giusdicenti (AMM. MARC., Rer. Gest. 27.3.7: sed cavendum iudices), il racconto dello storico antiocheno Ammiano Marcellino risulta orientato ad una identificazione dei giudici con funzionari imperiali investiti di specifici compiti giurisdizionali, in qualità di delegati dall’imperatore, particolarmente nel settore criminale, fra cui spicca la qualifica di iudex attribuita specialmente nel settore dell’amministrazione militare, come nel caso del magister equitum, del quaestor sacri palatii e del praepositus sacri cubiculi (AMM. MARC., Rer. Gest. 16.8.3, ma anche, per il primo, seppure in un circoscritto ambito territoriale, in relazione ai magistri equitum regionales, in 14.9.3 e 18.6.12, nonché per l’attribuzione della qualifica di giudici ai comandanti militari in 29.4.5, 29.5.22 e 29.5.49) e del rationalis (28.2.13). Analoghe identificazioni quanto al prefetto del pretorio (16.8.3; 20.8.14; 36
S. BARBATI, Studi, cit., 407.
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21.12.19 e 20), ai governatori provinciali (18.1.1; 31.14.2), al prefetto urbano (15.7.1; 26.3.1; 28.4.2), al comes rei militaris per Italiam (27.7.5), nonché, infine, al governatore della provincia siriana (23.2.3) 37. Anche Simmaco privilegia l’utilizzo dell’espressione iudex per indicare, in generale, il complesso dei magistrati giusdicenti in ambito urbano (Ep., 5.63: iudices quos urbanis potestatibus imperialis praefecti electio, nonché Rell. 1, 2, 28, 39.4 e 5), quali il praefectus urbi (Rell. 16, 19, 21.3, 26.1, 33.3, 34.2, 39.1, ma anche, seppure indirettamente, 15, 21.4, 23.2, 23.10, 35.1), il praefectus annonae ed il praefectus vigilum, ma si rinvengono singole individuazioni per il prefetto del pretorio (Ep., 9.25, ma anche Rel., 31), i governatori delle province africane (iudices Africani: Rell., 18.2; 35.3), oltre ai giudici provinciali (denominati anche iudices provinciarum, provinciales cognitores: Rell., 38.2; 34.7). In un simile contesto, nella quantità di riferimenti giuridici contenuti nelle fonti letterarie, alcuni profili meritano particolare approfondimento, come emerge, per esempio, dalla lettura della Relatio 16, a cui pure Barbati attribuisce speciale rilevanza in relazione all’identificazione dell’espressione iudex con il praefectus urbi nell’opera simmachiana. Per un’esatta comprensione del testo, la relatio va inquadrata nella legislazione imperiale in tema di impugnazione delle sentenze non definitive e consente di formulare alcune ipotesi ricostruttive sull’evoluzione del significato dell’espressione praeiudicium con cui tali pronunce venivano qualificate 38: nel caso in esame, un processo super testamenti iure, Simmaco rimetteva agli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio una decisione sull’appello contro un provvedimento dello stesso prefetto, in materia di attribuzione della bonorum possessio, che la parte soccombente aveva impugnato: nel riferire il caso al tribunale supremo, Simmaco, seppure consapevole che l’impugnazione non sarebbe stata ricevibile, proprio perché avente natura di pronuncia non definitiva, dichiarava di averla accolta verecunde potius quam iure, perché non lo si considerasse offensus della libera, benché prematura, proposizione dell’impugnazione: Profiteor ultro, quod scio clementiam vestram posse rescribere: verecunde potius quam iure suscipi provocationem non extante sententia, ne existimarer offensus liberae quidem sed immaturae vocis obictu, ddd. imppp.
37 Maggiore valorizzazione avrebbero meritato i risultati del lavoro di M. NAVARRA, Riferimenti normativi e prospettive giuspubblicistiche nelle “Res Gestae” di Ammiano Marcellino, Milano 1994. 38 In argomento, per tutti, U. VINCENTI, “Ante sententiam appellari potest”. Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova 1986, 8 ss.
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Ai nostri fini, rileva specialmente considerare che l’officium aveva proposto l’applicazione di una multa praeiudicii, proprio in considerazione dell’irricevibilità dell’appello, ad multam praeiudicii suggerendam, con la conseguenza che con l’espressione praeiudicium Simmaco indica la decisione in tema di bonorum possessio. Ritengo che questo dato letterale consenta di ipotizzare come, nel corso della legislazione tarda, il significato rigorosamente tecnico che l’espressione praeiudicium aveva assunto nel quadro del processo formulare, in cui, come è noto, indicava le azioni di mero accertamento, sia che esse fossero esercitate autonomamente 39, sia che costituissero il presupposto di un’ulteriore pronuncia 40, come nel caso di questioni di stato (D. 2.4.8.1; 22.3.18 pr.: …an libertus sit …; D. 25.3.1.16: … an filius sit …) o di natura patrimoniale (D. 42.5.30: … an iure bona venierint …), abbia gradualmente assunto un significato più ampio, giungendo a qualificare un provvedimento che non riguardava esclusivamente una questione sullo stato, ma che era comunque pregiudiziale alla questione di merito 41. Un processo evolutivo che, del resto, trova conferma testuale nel contenuto della c. 44 CTh. 11.30, che costituisce la risposta alla Relatio 16 di Simmaco: nel provvedimento, infatti, in cui si stabilisce che obiecta appellatione, la causa debba essere rimessa al tribunale imperiale o a quello del cognitor sacri auditorii, l’impugnazione viene esplicitamente definita come interposita a praeiudicio: CTh. 11.30.44: Obiecta appellatione, etiamsi a praeiudicio interposita dicatur, vel ad nos vel ad cognitorem sacri auditorii sollemniter causa mittatur, cum, si ea provocatio adversum leges fuerit emissa, facile post iudicium sacri examinis ab huiusmodi litigatoribus multa possit exculpi.
L’importanza della costituzione in esame, del resto, emerge anche in relazione ad un altro profilo di speciale interesse per lo svolgimento dei giudizi nella tarda antichità: essa, infatti, differentemente da quanto era stato previsto nel processo di età classica, in cui al giudice inferiore, a cui l’impugnazione era rivolta, era affidato un esame preliminare sull’ammissibilità dell’impugnazione 42, prevede che non sia più il iudex a quo a svolgere tale compito, ma etiamsi 39
G. PUGLIESE, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Scritti giuridici scelti. Diritto romano. 2, Napoli 1985, 732 nt. 5. 40 M. MARRONE, L’efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, in AUPA, 24, 1955, 367 ss. 41 Di notevole interesse gli spunti al riguardo in F. DE MARINI AVONZO, Praeiudicium, in NNDI, 13, 1956, 543 s. 42 R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 364 ss.
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appellatione a praeiudicio interposita dicatur, si dovrà attendere l’esame del giudizio di impugnazione per stabilire se l’appello sia stato proposto adversus leges e per eventualmente applicare la relativa sanzione 43. A corroborare tale ipotesi milita la pressoché coeva c. 43 h.t., indirizzata al dux Aegypti Merobaude, nella quale, a proposito degli appelli rivolti all’imperatore contro le sentenze di giudici superiori, ribadisce che le multe agli appellanti possono essere irrogate solo con decisione imperiale 44. Dalle Variae di Cassiodoro, infine, Barbati ricava utili elementi per confermare come il termine iudex sia alternativamente utilizzato per indicare, in generale, la «trama dei funzionari giusdicenti» (3.23; 7.28.2; 9.14.7) ovvero il tribunale del prefetto del pretorio (11.2.5), dei governatori provinciali (5.14.5; 7; 8; 9.18.11) o del quaestor sacri palatii (6.5.1), escludendo, invece, con rilievo che merita speciale attenzione per le conseguenze sottese a tale evidenza documentale, l’uso della qualifica giudiziaria in relazione ai funzionari periferici del fisco, comites largitionum e rationales rei privatae.
11. L’indagine di Barbati è completata dall’esame delle fonti ecclesiastiche, sulla cui importanza per la ricostruzione della realtà giuridica della tarda antichità, la dottrina si è da tempo espressa in maniera non equivoca, nella convinzione che, soprattutto in relazione ai rapporti fra diritto romano e cristianesimo, una serie di fonti quali gli atti conciliari, le storie ecclesiastiche e gli epistolari dei padri della Chiesa costituiscano un indispensabile strumentario per il giusantichista 45. Spiccano, fra gli autori latini, le opere di Arnobio di Sicca, in cui la parola iudex ricorre in un significa astratto, idoneo a qualificare qualunque organo giudiziario investito di funzioni decisorie (Nat., 4.16: quo disceptatore, quo iudice controversias tollemus tantas?), come pure quella del suo allievo Lattanzio, dove la qualificazione assume un significato così generale da ricomprendere anche attività estranee all’esercizio delle funzioni giurisdizionali (De mort. Pers., 15.4: nam iudices per omnia templa dispersi universos ad sacrificia cogebant; 36.4: sed comprehendos suo iure ad sacrificia cogerent vel iudicibus offerent). 43
CTh. 11.30.43: Provocantibus multas nisi ex nostris decretis non patimur inponi. Non è chiaro cosa intenda Barbati quando scrive che i giudici inferiori inoltravano le impugnazioni al giudice superiore «con riserva» (S. BARBATI, Studi, cit., 455). 45 Di grande interesse, al riguardo, le riflessioni di F. AMARELLI, Cristianesimo e istituzioni giuridiche romane: influenze, recuperi, in BIDR, 100, 1997, 453 ss. e di L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardo antico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 20 ss. 44
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Al contrario, nelle opere di S. Ambrogio, l’espressione iudex è riferita a specifiche categorie di funzionari imperiali, quali il magister officiorum (Ep., 45.1) o il governatore provinciale (De exces. Fratr. 1.58) 46, come pure emerge dall’opera dello storico ecclesiastico Sulpicio Severo, che associa il lemma al governatore provinciale o al vicario diocesano (Chron., 2.42.1-3). Particolare interesse assumono, inoltre, le opere di Agostino, nelle quali, se per un verso, in alcuni passi la titolatura giudiziaria non si riferisce ai funzionari cittadini, bensì specialmente ai governatori delle province comprese nella diocesi africana, nei cui territori erano situate le basiliche occupate dagli eretici (Contra litt. Petil. Donatist. 2.102; 3.45; Ep. ad catholic. de secta donatist. 54), per altro verso emerge una considerazione più generale del termine, identificato con la stessa autorità statale, che si concretizza nell’esercizio dell’attività giurisdizionale da parte del proconsole, del vicario e del comes (mi riferisco ai iudices publici di Serm., 392.4). Come pure hanno rilievo i riferimenti ai giudici nelle opere di Orosio, identificati principalmente nei governatori provinciali (Hist. adv. pag. 3.8.5-6; 7.9.10, 7.12.3, 7.22.6; 7.40.5; 7.42.10), nonché quelli relativi alle opere del presbitero Salviano (De gub. Dei, 5.17). Il lavoro si chiude con l’esame di alcuni documenti ufficiali provenienti dalle autorità ecclesiastiche, per la parte in cui esiste menzione di iudices civiles, tralasciando invece ogni riferimento a iudices ecclesiastici, iudices ecclesiae o iudices episcopi, da utilizzare, come opportunamente avverte l’autore, con la massima prudenza per i dubbi sulla genuinità, nonché con gli atti dei martiri 47, dove il riferimento all’autorità giudiziaria è specialmente riferito alla fase dell’esecuzione della condanna, oltre alle biografie dei santi, con specifico riferimento ad Agostino, Ambrogio, Antonio e Martino.
12. Esame paziente delle fonti giuridiche ed extragiuridiche, padronanza della letteratura in materia e ampia prospettiva di indagine sono le qualità maggiori dell’opera di Barbati, che si segnala non soltanto per i risultati raggiunti (qualche volta, in verità, dispersi nelle pieghe della lunga e minuziosa esegesi), ma anche (e soprattutto) per le prospettive di ulteriori ricerche e per 46 Avrebbe giovato alla trattazione (seppure senza diretto riferimento alle fonti citate nel testo) un maggiore utilizzo delle notizie ricavabili dal volume, a cura di M. Sargenti e R.B. Bruno Siola, dal titolo: Normativa imperiale e diritto romano negli scritti di S. Ambrogio. “Epistulae, de officiis, orationes funebres”, Milano 1991. 47 Di grande utilità, in proposito, F. DE MARINI AVONZO, Leggere gli atti dei martiri come documenti processuali, in Filologia e diritto nel mondo antico. Giornata di studio in memoria di Giuliana Lanata (29 ottobre 2009), Genova 2011, 79 ss.
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gli stimoli che la grande quantità di testi valorizzati dall’autore offrono agli studiosi per una più approfondita conoscenza del processo romano di età tarda e per una corretta identificazione dei funzionari imperiali che, con differente ripartizione di funzioni e di ruoli, ne sovraintendevano lo svolgimento.
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3 INTRODUZIONE AL PROCESSO CIVILE NELL’ESPERIENZA ROMANA DELLA TARDA ANTICHITÀ *
1. Anche in relazione alle regole del processo civile romano, la storia dell’ordinamento giuridico tra la fine del terzo e gli inizi del quarto secolo, è influenzata dalla caratteristica fondamentale di questo periodo, che si traduce nell’accentuazione del principio secondo cui la sola fonte del diritto consisteva nella legge imperiale, cioè nella volontà del principe. Un principio destinato a consolidarsi definitivamente in età dioclezianea, poiché l’imperatore dalmata, ancora più dei suoi predecessori, accentrò su di sé, oltre che la funzione legislativa, anche i compiti giurisdizionali 1. Diocleziano, infatti, per molti aspetti «restauratore della romanità» 2, si prefiggeva il compito di riunificare l’ordinamento giuridico, anche contrastando le forze centrifughe degli usi locali che erano sopravvissuti specialmente nella pars Orientis dell’Impero 3. Emerge, infatti, dalla copiosissima produzione normativa, un indirizzo nettamente conservativo che si traduce, seppure nella forma del rescritto imperiale, nel materiale raccolto specialmente nel Codice di Giustiniano 4 e che sottolinea una politica legislativa decisamente orientata alla formale applicazione del diritto romano, specialmente nelle province dell’Impero, attraverso una spinta unitaria ed uniformante che, proprio per il tramite della tipologia di intervento normativo prescelto consentiva, per un verso, un * Testo della relazione tenuta in occasione del IV Seminario dell’Accademia Romanistica Costantininana, Spello 23-24 giugno 2016. 1 S. PULIATTI, Ottenere giustizia. Linee dell’organizzazione giudiziaria dioclezianea, in Ravenna Capitale, Giudizi, giudici e norme processuali in Occidente nei secoli IV-VIII, 1, Santarcangelo di Romagna 2015, 11 ss. 2 L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardo antico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 87. 3 L. DE GIOVANNI, Istituzioni, cit., 87, parla espressamente di «deviazioni e deformazioni». 4 Sul valore del rescritto, vedi ancora L. DE GIOVANNI, Istituzioni, cit., 165.
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contatto diretto tra l’imperatore e i suoi sudditi; per altro verso, e per quanto qui specialmente rileva, una funzione di «uniformazione e controllo dell’operato degli organi giurisdizionali» 5.
2. Un diretto riflesso di tale accentramento del potere nella mani del sovrano si rinviene nella ridotta attività della giurisprudenza, a cui il nuovo assetto costituzionale aveva sottratto la tradizionale funzione interpretativa, ormai svuotata del suo originario significato: le opere dei due unici giuristi di cui vi è traccia nel Digesto, attivi tra il regno di Diocleziano e l’elevazione alla porpora imperiale di Costantino, Ermogeniano e Aurelio Arcadio Carisio, pur di rilevante interesse giuridico, sono quantitativamente ridotte e limitate – ratione materiae – ad alcuni profili, specialmente processuali. In ogni caso, la funzione della giurisprudenza, originariamente orientata in senso elitario, si propone di coordinare la diffusione del patrimonio di conoscenze giuridiche che erano state acquisite nel corso dell’età classica: è in questa prospettiva che, durante il regno di Diocleziano, nascono i Codici Gregoriano ed Ermogeniano, quale strumento per la libera accessibilità alla conoscenza dei principi regolatori dell’ordinamento, come pure la composizione delle cd. Sentenze di Paolo, che si prefiggevano il compito di predisporre nuove ed aggiornate edizioni dei risultati acquisiti dalla riflessione giurisprudenziale, specialmente di età severiana. Del resto, tali opere assolvevano, fra l’altro, alla funzione di costituire indispensabili strumenti pratici, utilizzati dagli operatori nel concreto svolgimento della vicenda processuale.
3. A proposito dell’amministrazione della giustizia nella cognitio extra ordinem, scriveva il Jones, si poteva dubitare, in epoca tardoantica, dell’«eccellenza del diritto romano» per una serie di ragioni, sostanzialmente riconducibili – oltre che alla oscurità ed arretratezza del diritto, reso enigmatico da tecnicismi arcaici – alla eccessiva durata dei processi, in gran parte a causa dell’ampiezza concessa al diritto di appello e dell’elevato costo delle spese di giustizia, specialmente nei tribunali più alti in grado, nonché dagli onorari degli avvocati e dai lunghi viaggi imposti, dalla periferia al centro, per il caso di riesame delle decisioni da parte di un giudice di grado superiore, alle parti e ai testimoni 6. 5
S. PULIATTI, Ottenere giustizia, cit., 15. A.H.M. JONES, The Later Roman Empire (284-602), 1, Oxford 1964, che cito nella traduzione italiana di E. PETRETTI, Il Tardo Impero Romano (284-602), 2, Milano 1974, 685. 6
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Il giudizio severo dello storico merita una diretta verifica sulle fonti. In linea generale, se nell’ordo iudiciorum privatorum «nessun cittadino può venir sottoposto a una sentenza del giudice, se egli stesso non si sia accordato col suo avversario in un libero contratto sulla scelta del giudice» 7, nella cognitio extra ordinem «il iudicium privato anteriore rientra sotto il dominio del diritto pubblico […] adesso si sviluppa il concetto di procedimento civile che è familiare a noi, che è destinato a comporre le controversie di diritto privato e a far trionfare obiettivamente la giustizia» 8. Non sono più, dunque, le parti a scegliere il giudice che dovrà emanare la sentenza a cui le stesse decidono volontariamente e preventivamente di sottoporsi, bensì lo Stato «determina per principio davanti a chi e sotto quali presupposti un suddito può ottenere il suo diritto asserito con un altro suddito» 9. Emergono, così, con chiarezza, le nuove caratteristiche del sistema: la natura pubblica del processo, affidato all’imperatore o a un suo delegato, la conseguente unitarietà del procedimento, non più bipartito fra fase in iure e fase apud iudicem, che inizia con la citazione scritta e il conseguente obbligo di comparizione del convenuto, nonché – si tratta della maggiore novità del nuovo processo – la possibilità di un riesame della sentenza da parte di un giudice superiore, quale riflesso della formazione di un articolato e complesso assetto burocratico di funzionari imperiali, a ciò delegati dal sovrano.
4. Lo svolgimento del processo cognitorio prendeva impulso con la consegna, da parte dell’attore, di un’istanza scritta contenente le proprie pretese (postulatio simplex), la litis denuntiatio, che veniva trasmessa, con la collaborazione dei funzionari imperiali, al giudice competente per un esame preliminare sulla sua ammissibilità: di una simile procedura, vi è traccia in un’importante costituzione di Costantino, contenuta nel Codice Teodosiano, 2.4.2: Denuntiari vel apud provinciarum rectores vel apud eos, quibus actorum conficiendorum ius est, decernimus, ne privata testatio mortuorum aut in diveris terris absentium aut eorum qui nusquam gentium sint, scripta nominibus falsa fidem rebus non gestis adfigat.
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Sono le parole del Wenger, nel trattato di procedura civile romana, L. WENGER, Institutionen des römischen Zivilprozessrecht, München, 1925 (trad. it. 1938), 225. 8 Al riguardo, L. WENGER, Institutionen, cit., 255 nt. 13, cita – seppure erroneamente – C. 7.62.6, su cui ampiamente infra. 9 L. WENGER, Institutionen, cit., 256.
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Nel sistema giustinianeo, le formalità introduttive del processo civile si sostanziano, invece, in una citazione scritta (libellus conventionis), che l’attore consegnava al giudice competente, affinché questi provvedesse a trasmetterne copia alla parte avversa. In entrambi i casi, l’attore assume su di sé la responsabilità per l’incardinamento del giudizio, obbligandosi – apud acta – mediante garanzia o giuramento, a compiere la litis contestatio entro due mesi, a persistere in giudizio sino alla sentenza e, in caso di soccombenza, a sostenere le spese di lite. Il giudice, esaminato sommariamente il contenuto delle pretese attoree, poteva decidere per l’inammissibilità, specialmente per il caso di vizi procedurali, ovvero poteva disporre per la notifica dell’istanza al convenuto, unitamente alla data di prima comparizione davanti al Tribunale: incombente che se in epoca postclassica era affidato all’iniziativa di parte dello stesso attore, con Giustiniano si trasforma in compito dell’ufficio, che avveniva per il tramite di un funzionario imperiale, l’exsecutor, che aveva, tra l’altro, l’effetto di interrompere i termini prescrizionali: C. 7.40.3.3: Sancimus […] qui obnoxium suum in iudicium clamaverit et libellum conventionis ei transmiserit […] videri ius suum omne eum in iudicium deduxisse et esse interrupta curricula […].
A questo punto, il convenuto, a cui il libello è stato consegnato dall’exsecutor, dovrà prendere posizione sull’istanza dell’attore mediante libellus contradictionis, dando contemporaneamente garanzia di comparire all’udienza e di resistere in giudizio sino alla sentenza, mediante cauzione (cautio iudicio sisti) o giuramento (fidejussio iudicio sistendi causa), da fornirsi, sempre per il tramite dell’exsecutor, al giudice, che farà recapitare all’attore le controdeduzioni del convenuto e l’ordine di comparizione. Tra la notificazione dell’istanza dell’attore e il primo termine di comparizione doveva intercorrere un termine non inferiore a 10 giorni, elevato, nel più recente diritto delle Novelle, a 20 giorni (Nov. 53). Dall’obbligo di comparizione davanti al giudice scaturisce la procedura contumaciale, quale ulteriore rilevante novità della cognitio extra ordinem: il mancato rispetto dell’ordine di presentarsi all’udienza viene considerato atteggiamento arrogante e dispregiativo nei confronti dell’autorità 10, che è sanzionato in maniera molto efficace, rendendo possibile un procedimento che conduca alla sentenza, peraltro inappellabile 11, anche senza la presenza del convenuto: 10 A. BELLODI ANSALONI, Ricerche sulla contumacia nelle “cognitiones extra ordinem”, 1, Milano 1998. 11 F. PERGAMI, L’appello nella legislazione del tardo Impero, Milano 2000, 323 ss.
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D. 5.1.73.3: Sciendum est ex peremptorio absentem condemnatum si appellet non esse audiendum, si modo per contumaciam defuit: si minus audietur. C. 3.1.3.4: Cum autem eremodicium ventilatur sive pro actore sive pro reo, examinatio sine ullo obstaculo celebretur. Cum enim terribiles in medio proponuntur scripturae, litigatoris absentia dei praesentia repletur, nec pertimescat iudex appellations obstaculum, cum ei, qui contumaciter abesse noscitur, nulla est provocationis licentia, quod et in veteribus legibus esse statutum manifestissimi iuris est.
Ciò che, ovviamente, non significava che il giudice dovesse necessariamente decidere a favore dell’attore, dovendosi basare sull’esito dell’istruttoria che, peraltro, per il caso dell’assenza dell’avversario offrirà alla parte comparsa, almeno in linea di fatto, opportunità più favorevoli per l’accoglimento della propria domanda: C. 7.43.1: Imp. Titus Aelius Antoninus Publicio. Non semper compelleris, ut adversus absentem pronunties, propter subscriptionis patris mei, qua significavit etiam contra absentes sententiam dari solere. Id enim eo pertinet, ut absentem damnare possis, non ut omnimodo necesse habeas.
5. Dopo la comparizione delle parti in giudizio, il giudice effettuava, sin da subito, una verifica sui presupposti della lite, anche a seguito delle eccezioni reciprocamente sollevate dai contendenti, con riguardo, per esempio – così ci informano le fonti – alla incompetenza del tribunale adìto, alla litispendenza con altra causa fra le stesse parti per la medesima res litigiosa ovvero alla incapacità a stare in giudizio. Due i possibili scenari: accoglimento dell’eccezione e conclusione del processo o apertura del dibattimento. Alla rinnovata struttura processuale, va detto subito e in via preliminare, è congeniale esclusivamente l’obbligo di comparire, ma non quello di difendersi, secondo il principio, cristallizzato da Ulpiano nei libri ad edictum, per cui invitus nemo rem cogitur defendere (D. 50.17.156). È in questa prospettiva, ancora preparatoria dello svolgimento ordinario della vicenda processuale, che si collocano due possibili esiti processuali, alternativi al dibattimento, la confessione e il giuramento. 5.1. La confessio, per quanto siamo venuti dicendo sull’unitarietà del processo, che si svolgeva per intero di fronte al funzionario delegato dall’imperatore, non è più distinta – come nell’ordo – fra confessio in iure e confessio in iudicio, bensì fra la confessione che ammette la pretesa giuridica, mediante il
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riconoscimento del fondamento dell’avversa domanda ovvero una confessione in fatto, con cui una parte riconosce l’avveramento di un accadimento materiale: in entrambi i casi, la sentenza del giudice dovrà fondarsi su tale elemento di prova e condurre alla condanna del responsabile: confessus pro iudicato est, quodammodo sua sententia damnatur, come insegna Paolo in D. 42.2.1) 12. 5.2. Analogamente, assume valore di mezzo di prova il giuramento, che può essere di vario tipo (D. 12.2 De iureiurando sive volutario sive necessario sive iudiciale): volontario (iusiurandum volontarium), che nel sistema cognitorio deve essere inteso come giuramento stragiudiziale, quando è prestato fuori dal processo (D. 12.2.17 pr.: Iusiurandum, quod ex conventione extra iudicium defertur, referri non potest) oppure obbligatorio, a sua volta distinto a seconda che, in qualsiasi momento del processo anteriore all’emanazione della sentenza, esso sia deferito da una parte nei confronti dell’altra (iusiurandum necessarium) oppure sia richiesto su iniziativa del giudice (iusiurandum iudiciale). 5.3. Diocleziano precisa che le eccezioni, in forza delle quali il convenuto, pur ammettendo i presupposti su cui si fonda la pretesa dell’attore, oppone circostanze che ne impediscono, anche parzialmente, l’efficacia, sono perentorie e possono essere fatte valere, in qualsiasi momento, sino all’emanazione della sentenza (C. 8.35.8): Praescriptionem peremptoriam, quam ante contestari sufficit, vel omissam, priusquam sententia feratur, obicere quandoque licet.
Al contrario, quelle dilatorie potevano essere sollevate sino all’inizio del dibattimento, come si legge in una nota costituzione di Giuliano, conservata nel Codice Giustinianeo (C. 8.35.12): Imp. Iulianus A. ad Iulianum comitem Orientis. Si quis advocatus inter exordia litis pretermissam dilatoriam praescriptionem postea voluerit exercere et ab huiusmodi opitulatione submotus nihilo minus perseveret atque praeposterae defensioni institerit, unius librae auri condemnatione multetur. 5.4. Nel caso di apertura del dibattimento e della relativa istruttoria, si conserva ancora il nome di litis contestatio al momento di inizio del procedimento, che consisteva in una narratio dell’attore, cui seguiva la contradictio del convenuto: Res in iudicium deducta non videtur, si tantum postulatio sim12
Si veda anche D. 42.2.6 pr.: Certum confessus pro iudicato erit, incertum non erit.
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plex celebrata sit vel actionis species ante iudicium reo cognita. Inter litem enim contestatam et editam actionem permultum interest. Lis enim tunc videtur contestata, cum iudex per narrationem negotii causam audire coeperit (C. 3.9.1) 13. L’espressione, però, non più riferibile alle finalità assunte nel sistema privatistico, assolve essenzialmente alla funzione di determinare il momento iniziale del procedimento, nella prospettiva di individuazione di una conclusione in termini ragionevoli: Censemus itaque omnes lites…non ultra triennii metas post litem contestatam esse protrahendas (C. 3.1.13.1). 5.5. Ruolo centrale nel raggiungimento del convincimento del giudice hanno le prove, che vengono assunte nel corso del dibattimento, distinte in prove testimoniali e documentali: se in un primo momento dello svolgimento della cognitio ad esse verrà attribuito – almeno sotto il profilo formale – analogo valore, come si ricava da una costituzione dell’imperatore Costantino (C. 4.21.15: In exercendis litibus eandem vim obtinent tam fides instrumentorum quam depositiones testium), anche a motivo dell’influenza orientale, maggiore fides sarà attribuita al documento scritto rispetto alla prova orale, spesso distinta in base al ceto sociale del testimone: C. 4.20.1: Contra scriptum testimonium non scriptum non profertur.
Vi è traccia, inoltre, dell’introduzione, nel sistema processuale cognitorio, di un regime delle presunzioni, consistente nell’imporre al giudice di dedurre dall’accertamento di un fatto noto l’esistenza di un altro fatto non accertato, sino a prova contraria (praesumptiones iuris tantum) oppure senza tale possibilità (praesumptiones iuris et de iure). 5.6. La vicenda processuale, interamente verbalizzata in atti conservati in appositi archivi, si chiudeva con l’emanazione della sentenza, che poteva essere interlocutoria, se aveva pronunciato su questioni preliminari o definitiva, se aveva deciso l’intera controversia. In entrambi i casi, la decisione doveva essere redatta per iscritto e letta alle parti: C. 7. 44.2: Hac lege perpetua credimus ordinandum, ut iudices, quos cognoscendi et pronuntiandi necessitas teneret, non subitas, sed deliberatione habita post negotium sententias ponderatas sibi ante formarent et emendatas statim in libellum secuta fide-
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Cfr. anche C. 3.1.14.1: Cum lis fuerit contestata, post narrationem propositam et contradictionem obiectam.
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litate conferrent scriptasque ex libello partibus legerent, sed ne sit eis posthac copia corrigendi vel mutandi 14.
È bene osservare come la natura pecuniaria, che aveva caratterizzato l’oggetto della condanna nel sistema dell’ordo, è superata dalla possibilità di una condanna in forma specifica (condemnatio in ipsam rem), da preferire alla condanna al pagamento di una somma di denaro: Talem itaque altercationem resecantes miramur, quare iudex, qui praepositus est in praedicta causa, non omnimodo condemnationem in servum, sed in aestimationem eius fecerat, cum ipsius vitium etiam huiusmodi altercationi praebuit occasionem 15.
6. Il regime delle sentenze, interlocutorie o definitive, sotto il profilo dell’eventuale riesame, offre l’occasione per introdurre il tema della maggiore novità del sistema cognitorio, cioè la possibilità di ipotizzare un’appellatio della sentenza sfavorevole. Del resto, nel quadro complessivo della legislazione tardoantica dedicata al fenomeno processuale spicca, per la ricchezza del materiale normativo, quello relativo alla disciplina dell’appello 16. 14 Giustiniano ammette l’emanazione di sentenze parziali, se è possibile scomporre la materia del contendere in più parti, suscettibili di singole decisioni (C. 7.44.3.1). 15 Così, Giustiniano, nelle Istituzioni: Curare autem debet iudex, ut omnimodo, quantum possibile ei sit, certae pecuniae vel rei sententiam ferat, etiam si de incerta quantitate apud eum actum est. 16 La dottrina ha riservato scarsa attenzione a tale ricco materiale normativo: fatti salvi brevi accenni all’argomento, rintracciabili nelle trattazioni manualistiche [A.M. BETHMANN-HOLLWEG, Der römische Civilprozess, III, Bonn, 1866 (rist. 1959), 325 ss.; C. BERTOLINI, Appunti didattici di diritto romano. Serie Seconda. Il processo civile, III, Torino, 1915, 197 ss.; L. WENGER, Institutionen, cit., 296 s.; E. BALOGH, Randbemerkungen zur Frage der Appellation in Studi Riccobono, III, Palermo, 1936, 495 ss.; G. SCHERILLO, Lezioni sul processo. Introduzione alla “cognitio extra ordinem”, Milano, 1960, 261 ss. e nelle voci enciclopediche [T. KIPP, Appellatio, 1, in PWRE, II/1, 1895 rist. 1965, 199 ss.; R. ORESTANO, Appello (Diritto romano), in NNDI, I/1, Torino 1957, 723 ss.; ID., Appello (Diritto romano), in ED, II, Milano, 1958, 708 ss.]. Sottolineano tale lacuna M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, München, 1966, 506 nt. 2; J. GAUDEMET, Constitutions costantiniennes relatives à l’appel, in ZSS, 98, 1981, 47 (ora in Droit et société aux derniers siècles de l’Empire romain, Napoli, 1992, 67); A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, Milano 1967, 7. Anche l’importante lavoro dell’Orestano (L’appello civile in diritto romano2, Torino, 1953) è circoscritto ad un esame cronologicamente limitato all’età dei Severi, mentre quello del Raggi (Studi sulle impugnazioni civili nel processo romano, I, Milano, 1961) accenna solo incidentalmente alla disciplina delle impugnazioni nella legislazione tardoantica. Da segnalare, più recentemente, il lavoro di U. VINCENTI, “Ante sententiam appellari potest”. Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova 1986. Particolarmente interessante, sebbene non specificamente dedica-
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7. In un lavoro pubblicato nel 1960 e dedicato allo studio della forma degli atti giuridici dell’imperatore 17, Aldo Dell’Oro, esaminando i testi di età dioclezianea contenuti nella Collatio legum mosaicarum et romanarum e resi in forma di «exempla litterarum», equiparava questi provvedimenti a «quelle costituzioni di natura generale dello stesso Diocleziano in cui, all’indicazione dei principi statuenti, vien fatta seguire, invece del destinatario, l’espressione dicunt e quindi subito il testo». Fra queste, Dell’Oro segnalava, seppure incidentalmente, tre costituzioni contenute nel Codice Giustinianeo, riportate in 3.3.2, 3.11.1 e 7.62.6, che egli considerava autonomi interventi normativi, privi fra loro di qualsiasi collegamento 18. Un’indagine che sto conducendo sullo svolgimento del giudizio d’appello nella legislazione tardoantica, mi ha offerto l’opportunità di riesaminare tali provvedimenti, riconducibili all’attività normativa di Diocleziano 19 ed emanati nell’anno 294 20, per porre in luce come essi, in realtà, rappresentino, se consito alla legislazione tardoimperiale, lo studio di W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, I, in RIDA, 12, 1965, 347 ss.; II, in RIDA, 13, 1966, 231 ss.; III, in RIDA, 14, 1967, 301 ss.; IV, in RIDA, 15, 1968, 143 ss. 17 A. DELL’ORO, “Mandata” e “litterae”. Contributo allo studio degli atti giuridici del «princeps», Bologna 1960. 18 Così A. DELL’ORO, “Mandata” e “litterae”, cit., 93 nt. 64, per il quale la ricostruzione del Krüger (ad hh. ll.), che per primo aveva considerato i frammenti in esame come parti di un’unica legge, lascia ampio margine al dubbio sul sicuro fondamento dell’ipotesi da lui sostenuta. 19 Sebbene l’inscriptio dei frammenti in esame riporti i nomi degli Augusti, Diocleziano e Massimiano, con la duplice sigla AA. et CC., è probabile che essi siano il prodotto della cancelleria di Diocleziano, che deve avere conservato, specialmente nei primi anni dopo l’introduzione del sistema tetrarchico, una sorta di prevalenza nella produzione normativa. 20 La subscriptio di 7.62.6 reca la dicitura sine die et consule, mentre C. 3.3.2 indica il giorno ed il mese (D. XV K. Aug.), ma non l’anno, del quale è rimasta soltanto la sigla CC. Analoga indicazione emerge in C. 3.11.1, dove però il mese di emanazione è indicato in marzo (XV K. April.). Sappiamo, dunque, che l’editto è stato emesso in un anno in cui il consolato era rivestito congiuntamente dai due Cesari. Ora, negli anni di comune governo di Diocleziano e Massimiano, i Cesari Galerio Massimiano e Costanzo Cloro rivestirono insieme il consolato quattro volte: nel 294 (I), nel 300 (III), nel 302 (IV) e ancora, almeno sino al primo di marzo, nell’anno 305 (V), quando, in seguito all’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, essi stessi vennero elevati alla porpora imperiale. Esiste, è vero, anche un secondo consolato dei Cesari, che essi, però, non rivestirono congiuntamente: quello di Costanzo Cloro con lo stesso Diocleziano nel 296 e quello di Galerio Massimiano con Massimiano Augusto nel 297. In astratto, la costituzione in esame potrebbe, dunque, essere attribuita ad uno qualsiasi degli anni di consolato comune dei due Cesari. La mancanza della cifra di iterazione la riporterebbe al primo di essi, quello del 294: ma non è un criterio veramente sicuro, dato che non sempre la cifra di iterazione è riportata o è riportata esattamente nei Codici. Nel caso dei consolati dei Cesari della Tetrarchia, un solo testo del Codice Giustinianeo, la c. 2 C. 7.22, reca l’indicazione del terzo consolato e può essere, quindi, sicuramente attribuito al 300 (D.K. Iul. Antiochiae Constantio III et Maximiano III CC. conss.). Tutti gli altri, privi come sono della cifra di iterazione, risalirebbero al 294. Non è questo il luogo, naturalmente, per un’indagine
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derati nel loro complesso e insieme a C. 7.53.8, un editto di carattere generale contenente il primo assetto normativo del processo, forse un regolamento organico di questo 21. A questo proposito, è importante sottolineare che i frammenti conservati nel Codice si aprono, dopo l’indicazione dei due Augusti e la sigla dei Cesari sull’esattezza di tale datazione. Ma, per quanto riguarda l’editto che qui interessa, l’attribuzione al 294 è resa plausibile, benché non sicura, dalla collocazione dei frammenti all’interno dei titoli cui appartengono. I dati a nostra disposizione non sono, in verità, tutti soddisfacenti: la 7.53.8, parte anch’essa dell’editto, precede, infatti, un rescritto degli stessi Tetrarchi che appare subscriptum alle none di novembre di un anno consolare dei Cesari senza iterazione. Anche la 7.62.6 è inserita in una serie di testi, alcuni, purtroppo, del tutto privi di subscriptio e quindi non databili (cc. 7, 8, 9), cui segue la c. 10, datata da Viminacio il 30 settembre dell’anno consolare dei Cesari, anch’esso senza iterazione. La 3.11.1 non offre indicazioni utili perché è seguita da una costituzione di Costantino del 314. Qualche elemento interessante per la determinazione dell’anno di emissione dell’editto in esame emerge, al contrario, dalla collocazione della c. 2 all’interno del titolo 3.3 De pedaneis iudicibus. Essa, infatti, è seguita da un exemplum sacrarum litterarum eorundem AA. et CC. ad Serapionem, che figura data ad Antiochia il 25 marzo di un anno consolare dei Cesari. Se nessun utile appiglio può ricavarsi dall’indicazione di Serapione, governatore provinciale nella pars Orientis, che risulta destinatario di una sola altra costituzione datata al 304 (C. 3.28.26), qualche elemento concreto è offerto, al contrario, dalla località di emanazione. Ad Antiochia, infatti, Diocleziano risiedette nell’anno 300, come emerge, con un sufficiente margine di sicurezza, dalla subscriptio della già ricordata c. 2 C. 7.22, datata al 25 luglio di quell’anno. Tale circostanza, posta in relazione all’accertata presenza dell’imperatore nelle province danubiane durante gli anni 293 e 294 e alla sosta a Roma nei primi mesi del 303 e forse anche nel 302, induce verosimilmente a ritenere che la c. 3 C. 3.3, data ad Antiochia il 25 marzo, debba ascriversi all’anno 300. Ma se così è, poiché la precedente c. 2 h.t., parte dell’editto qui considerato, è del 18 luglio di un anno in cui i Cesari rivestirono insieme il consolato, un coordinamento fra i due testi induce a ritenere che quest’ultimo debba essere datato in uno degli anni precedenti e, in particolare, nell’unico altro anno in cui Galerio Massimiano e Costanzo Cloro rivestirono congiuntamente il consolato, cioè il 294. Tale era, in effetti, la datazione proposta dal Mommsen, che è stata adottata nelle successive edizioni del Codice Giustinianeo. Resta, è vero, il problema della divergenza fra il mese di emanazione indicato nella c. 2 C. 3.3 (Aug.) e nella c. 1 C. 3.11 (April.). Ma tale differenza può verosimilmente essere dovuta ad uno scambio tra le sigle aug. e april., attribuibile all’attività degli amanuensi. Non è dato peraltro sapere se l’errore nelle sigle dei due mesi, che ricorre frequentemente anche in altre ipotesi e non solo nelle subscriptiones del Codice Giustinianeo, risalga già all’originale stesura del Codice o, come è più probabile, alla sua tradizione manoscritta; oppure, ancora più esattamente, alla tardiva ricostruzione delle inscriptiones e subscriptiones che durante l’alto Medioevo erano andate perdute. Né è possibile, con sicurezza, escludere che la corruzione della subscriptio riguardi la c. 2 C. 3.3. Ma anche in questo caso la collocazione del testo prima della c. 3 h.t., che abbiamo ipotizzato emessa nell’anno 300, consente di fissare, seppure soltanto congetturalmente, ai primi mesi del 294 la data di emanazione dell’editto dei Tetrarchi in tema di processo. 21 Si erano già espressi in questo senso, F. DE MARINI AVONZO, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, II, L’organizzazione giudiziaria di Costantino, in Studi Urbinati, 33, 1965-1966, 198, secondo cui, infatti, Diocleziano emanò nel 294 un editto «con carattere di legge generale sul processo», nonché G. SCHERILLO, Lezioni sul processo. Introduzione alla “cognitio extra ordinem”, Milano 1960, 254 ss.; A. CENDERELLI, Ricerche sul “Codex Hermogenianus”, Milano 1965, 34 nt. 38.
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(Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC.), con la formula «dicunt», quella tipica e tradizionale degli editti 22: circostanza particolarmente significativa, ponendo mente al fatto che questo è uno dei rari casi in cui ciò avviene nei testi dei Codici e uno dei rarissimi esempi, per quanto riguarda le costituzioni dioclezianee, costituite, per la maggior parte, da rescritti; l’unico, anzi, in materia processuale e di diritto pubblico in genere 23. La parte specificamente dedicata al giudizio di secondo grado, contenuta in C. 7.62.6, si inserisce, dunque, in un contesto più ampio, di cui esistono altri tre frammenti nei titoli: 3.3 De pedaneis iudicibus, 2 24; 3.11 De dilationibus,
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Gli editti dei magistrati, come quelli degli imperatori, si aprono con la formula dicit e quella greca corrispondente, come è dimostrato da numerosi esempi. Ricordiamo gli editti di Augusto ai Cirenensi (FIRA, I, 403 ss.), l’editto di Claudio de civitate Anaunorum (FIRA, I, 41 ss.), l’editto di Vespasiano de privilegiis medicorum et magistrorum (FIRA, I, 420 ss.), l’edictum Domitiani de privilegiis veteranorum (FIRA, I, 424 ss.), la constitutio Antoniniana de civitate (FIRA, I, 445 ss.), l’editto dello stesso Caracalla de decurionibus coercendis (FIRA, I, 449 ss.) e, fra i testi conservati nei Codici, oltre a quello dei Tetrarchi in esame, C.Th. 1.22.4 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Impp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. pars actorum habitorum in consistorio Gratiani A. Gratianus A. dixit); C.Th. 4.20.3 (Apud acta Imp. Theodosius A. dixit); C.Th. 7.20.2 in cui è riportato un vero e proprio dialogo fra Costantino e i suoi veterani; C.Th. 11.39.5 di Giuliano (Pars actorum habitorum aput Imperatorem Iulianum Augustum Mamertino et Nevitta Conss. X Kal. April. Constantinopoli in consistorio adstante Iovio viro clarissimo quaestore, Anatolio magistro officiorum, Felice comite sacrarum largitionum. Et cetera. Imp. Iulianus dixit); C.Th. 11.39.8 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Pars actorum habitorum in consistorio aput Imperatores Gratianum, Valentinianum et Theodosium Cons. Syagri et Eucheri die III Kal. Iul. Constantinopoli. In consistorio Imp. Theodosius A. dixit). Non è detto, però, che il termine sia esclusivo degli editti: lo si trova infatti usato anche per manifestazioni della volontà imperiale di carattere giurisdizionale, come in C. 7.26.6 di Filippo (Imp. Philippus A. cum consilio collocutus dixit); C. 7.62.1 di Settimio Severo (Sententia divi Severi data in persona Marci Prisci idibus Ian. Pompeiano et Avito conss. Severo A. dixit); C. 9.41.3 di Caracalla (Imp. Antoninus A. cum cognitionaliter audisset, dixit). Il termine edictum indica, in realtà, qualsiasi dichiarazione o proclamazione della volontà magistratuale o imperiale, un aliquid sollemniter et cum auctoritate pronuntiare, come si esprime il Thesaurus Linguae Latinae, con riguardo alla forma originariamente verbale di tale dichiarazione. Sul punto, vedi T. KIPP, Edictum, in PWRE, V/2, 1905 (rist. 1958), 1940 ss. 23 L’unico altro esempio è quello parzialmente conservato in C. 5.4.17 in tema di impedimenti matrimoniali. Cfr., in proposito, M. AMELOTTI, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, Milano, 1960, 15 ss. 24
C. 3.3.2: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt. Placet nobis praesides de bis causis, in quibus, quod ipsi non possent cognoscere, antehac pedaneos iudices dabant, notionis suae examen adhibere, ita tamen ut, si vel per occupationes publicas vel propter causarum multitudinem omnia huiusmodi negotia non potuerint cognoscere, iudices dandi habeant potestatem (quod non ita accipi convenit, ut etiam in his causis, in quibus solebant ex officio suo cognoscere, dandi iudices licentia permissa credatur: quod usque adeo in praesidum cognitione retinendum est, ut eorum iudicia non deminuta videantur): dum tamen de ingenuitate, super qua poterant et ante cognoscere, et de libertinitate praesides ipsi diiudicent. D. XV K. Avg. CC. Conss.
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1 25 e 7.53 De executione rei iudicatae, 8 26. Ciò che ne rimane nel Codice, oltre alla parte dedicata all’appello, riguarda la facoltà dei governatori provinciali di affidare la decisione dei processi a iudices pedanei, i limiti dei rinvii da concedere per esigenze istruttorie ed il ruolo dell’executor post sententiam 27. Ma probabilmente neppure questo è il testo completo dell’editto, di cui i quattro brani in esame non consentono di ricostruire i nessi e la struttura d’insieme 28.
8. Nel provvedimento che regolava la disciplina del processo d’appello possono distinguersi diversi piani normativi, corrispondenti al principio e ai successivi paragrafi del testo. 8.1. La prima e più importante statuizione è quella contenuta nel principio, che definisce i poteri ed i compiti dei giudici qui de appellatione cognoscent ac iudicabunt (C. 7.62.6 pr.): Eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere conveniet, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat, cum salubritas legis 25 C. 3.11.1: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt. Quoniam plerumque evenit, ut iudex instrumentorum vel personarum gratia dilationem dare rerum necessitate cogatur, spatium instructionis exhibendae postulatum dari conveniet. Quod hac ratione arbitramur esse moderandum, ut, si ex ea provincia ubi lis agitur vel persona vel instrumenta poscentur, non amplius quam tres menses indulgeantur: si vero ex continentibus provinciis, sex menses custodiri iustitiae est: in trasmarina autem dilatione novero menses computari oportebit. Quod ita constitutum iudicantes sentire debebunt, ut hac ratione non sibi concessum intellegant dandae dilationis arbitrium, sed eandem dilationem, si rerum urguentissima ratio flagitaverit et necessitas desideratae instructionis exegerit, non facile amplius quam semel nec ulla trahendi arte sciant esse tribuendam. Dat. XV K. April. CC. Conss. 26 C. 7.53.8: Idem (Impp. Diocletianvs et Maximianvs) AA. et CC. Executorem eum solum esse manifestum sit, qui post sententiam, inter partes audita omni et discussa lite, prolatam iudicatae rei vigorem ad effectum videtur adducere. Sine die et consule. 27 Per un esame dei tre frammenti, G. SCHERILLO, Lezioni sul processo, cit., 254. Si occupano, in particolare, del passo contenuto in C. 3.3.2: F. DE MARINI AVONZO, La giustizia nelle province, cit., 199 s.; M. SARGENTI, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’Imperatore Giuliano, in AAC, III, 1979, 336 nt. 85 (ora in Studi sul diritto del Tardo Impero, Padova 1986, 222 nt. 85). 28 L’editto ha poco attirato l’attenzione degli studiosi. Più ampiamente di tutti se ne sono occupati G. SCHERILLO, Lezioni sul processo, cit., 252 ss. e, più di recente, A. FERNÁNDEZ BARREIRO, Un edicto general de Diocleciano sobre procedimiento, in Estudios D’Ors, I, Pamplona 1987, 417 ss. Per qualche cenno, cfr., M. AMELOTTI, Per l’interpretazione della legislazione privatistica, cit., 15 nt. 21; A. CENDERELLI, Ricerche, cit., 34 nt. 38; 73 s.; M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 340 nt. 10; F. DE MARINI AVONZO, La giustizia nelle province, cit., 198.
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constitutae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellatione cogniscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam.
Vi si afferma la regola in base alla quale, una volta proposto l’appello dopo la decisione della lite, non è consentito per qualsiasi ragione, rimettere la controversia al primo giudice e si stabilisce che quello competente per la fase d’appello deve decidere omnem causam con la propria sentenza. È significativo che l’affermazione venga ribadita ben tre volte, quasi con le stesse parole: [...] cum appellatio [...] interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum, fas sit [...] post sententiam ab eo qui de appellatione cognoscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant.
Vien fatto di chiedersi il perché di questo ripetuto insistere sul concetto che la causa debba essere decisa interamente dal giudice di secondo grado e non rinviata al giudice a quo. Purtroppo, le fonti non forniscono sufficienti indicazioni sullo svolgimento del giudizio di appello nell’epoca antecedente e non consentono, quindi, di stabilire se la prassi anteriore all’editto dioclezianeo fosse tale da rendere necessario l’energico intervento del legislatore per modificarla. Non è improbabile, però, che i giudici competenti per l’appello tendessero a seguire una prassi analoga, facendo dell’appello una sorta di giudizio di revisione della sentenza da parte del giudice che l’aveva pronunciata. Certo è che l’editto dioclezianeo reagisce con decisione ad una tale tendenza e fissa così, in termini chiari, la natura del giudizio di appello come strumento di riesame della controversia da parte del nuovo giudice, cui era devoluta la decisione in seconda istanza. Esso invoca la salubritas legis constitutae, volendo significare, cioè, sembrerebbe comprendere, che l’effetto devolutivo dell’appello al giudice ad quem fosse un principio già implicito nella natura stessa del giudizio di impugnazione. In realtà, il suddetto richiamo sembra presupporre una precisa disposizione normativa, una lex constituta appunto, di cui, però, non vi è traccia esplicita nel regime del giudizio d’appello in epoca anteriore a Diocleziano. In ogni caso, è certo che restituire al giudice a quo il procedimento per un nuovo esame nel merito avrebbe snaturato completamente la funzione stessa dell’impugnazione, oltre che complicatone ulteriormente il già complesso iter, con il reiterato passaggio degli atti dalla periferia al centro e viceversa, crean-
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do incertezza sulla natura della nuova pronuncia del giudice a quo e, quindi, sulla sua successiva appellabilità. Non va dimenticato, infatti, che nel meccanismo del giudizio di impugnazione, il giudice a quo aveva già una propria funzione di accertamento dei presupposti dell’appello, che gli riservava il compito di decidere sulla sua ricevibilità o ammissibilità (appellationem recipere vel non) 29 e sarebbe stato incongruo, perciò, rimettergli ancora il processo per una decisione sul merito che egli aveva già espresso con la pronuncia della sentenza impugnata. 8.2. Nei successivi paragrafi 1 e 2 si trova affermato l’altro importante principio della possibilità di introdurre nuove deduzioni e nuovi elementi di prova nel giudizio di seconda istanza. Il paragrafo 1 consente, in particolare, ai litiganti di integrare in sede di appello le allegazioni che fossero state omesse nel giudizio di primo grado, perché nel processo possa pienamente attuarsi la iustitia che costituisce, afferma l’imperatore, il votum del suo governo 30: Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur.
Nel paragrafo 2, poi, viene considerata la facoltà delle parti di richiedere, anche post interpositam appellationem, nuove prove testimoniali che siano utili per l’accertamento della verità, con l’unica condizione che, se questi nuovi mezzi di prova saranno ammessi, sia la parte richiedente a sopportare le spese di viaggio dei testimoni: 29 Una delle caratteristiche fondamentali del processo d’appello, infatti, è rappresentata dalla competenza riconosciuta, per la fase preliminare del giudizio, al giudice che ha pronunciato la sentenza di primo grado: è a questi che si propone l’appello ed è a lui che è demandato un esame preliminare sull’ammissibilità del gravame. Cfr., in proposito, R. ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Torino 19662, 64 ss., per il quale, dall’esame di un frammento di Ulpiano (D. 49.1.13.1) e di un passo delle Sentenze di Paolo (5.35.2), i poteri del giudice a quo erano di notevole ampiezza, non esaurendosi in un’indagine sull’esistenza dei presupposti dell’atto di appello, ma si estendevano, seppure solo in una certa misura, anche ad un esame sul suo fondamento. 30 Sulla possibilità di introdurre nova nel giudizio di secondo grado in età dioclezianea, vedi A. GUARNERI CITATI, Exceptio omissa initio – in integrum restitutio – appellatio, in Studi Perozzi, Palermo 1923, 256; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, IV, in RIDA, 15, 1968, 224 ss.; A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, I, Milano 1967, 89, nt. 48 e p. 104, nt. 125; G. BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I, in SDHI, 37, 1971, 176 nt. 78; N. SCAPINI, Il “ius novorum” nell’appello civile romano, in Studi Parmensi, 21, 1978, 54 s.
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Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimavit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit.
Il tenore dei due paragrafi lascia, così, intravedere una possibilità di articolazione dello stesso giudizio d’appello, con deduzioni anche successive all’atto introduttivo e decisioni interlocutorie del giudice sulla loro ammissibilità 31. Se questa costituisca un’innovazione introdotta dall’editto dioclezianeo o la consacrazione normativa di principi che già vigevano nella prassi, è fortemente controverso. Da un lato, il Lauria ha osservato che il tenore della costituzione dell’anno 294 farebbe arguire che le norme in essa sancite costituissero delle novità «altrimenti esse non avrebbero avuto bisogno di così lunghe giustificazioni» 32. L’autore dichiarava espressamente di essere riuscito a trovare un solo passo relativo all’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello: sarebbe il testo di Paolo, l. 1 De iure fisci, riportato in D. 34.9.5.12 33, secondo cui sarebbe incorso nell’indegnità il giudice di primo grado, nella fattispecie un praeses provinciae, che aveva dichiarato la falsità di un testamento, se la sua sentenza fosse stata riformata in grado di appello. A parere del Lauria l’opinione dei quidam, che Paolo riferiva, sarebbe stata concepibile solo in quanto la sentenza del primo giudice fosse stata annullata senza bisogno di nuove prove. Il che può essere esatto, benché il passo non lo dica esplicitamente, ma non significa che in generale le nuove prove non potessero essere ammesse: la riforma di una sentenza di primo grado, infatti, non deriva necessariamente dall’utilizzo di nuovo materiale probatorio, ma può essere anche la conseguenza di una diversa valutazione delle risultanze istruttorie della prima fase o di una diversa interpretazione ed applicazione dei principi giuridici attinenti alla materia. Viceversa, sulla base di un passo di Ulpiano (D. 49.1.3.3) 34, nonché di altre 31
Sulla fase del giudizio che si svolgeva avanti al giudice ad quem, vedi R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 409 ss., il quale riteneva di potere ricostruire, in relazione all’età dei Severi, le linee essenziali di tale procedimento: dall’iscrizione della causa nel ruolo del giudice superiore, alla fissazione dell’udienza, al compimento degli atti istruttori, all’eventuale convocazione delle parti, all’udienza di discussione via via sino alla decisione. Cfr., in proposito, anche W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 187 ss. 32 M. LAURIA, Sull’“appellatio”, in AG, 97, 1927, 7 (ora in Studii e Ricordi, Napoli 1983, 69). 33 D. 34.9.5.12: PAULUS libro primo de iure fisci. Quidam et praesidem indignum putant, qui testamentum falsum pronuntiavit, si appellatione intercedente heres scriptus optinuit. 34 D. 49.1.3.3: ULPIANUS libro primo de appellationibus. Quid ergo, si causam appellandi cer-
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considerazioni sulla libertà di valutazione delle prove da parte del giudice e sulla sua sempre più attiva partecipazione allo svolgimento del processo per la ricerca della verità, si è sostenuto che, per lo meno già all’epoca dei Severi, nessuna preclusione esistesse alla deduzione di nuovi argomenti difensivi e di nuove prove. In questa direzione cominciò a muoversi l’Orestano il quale riteneva che «l’appellante, non essendo tenuto a dichiarare nell’atto di appello i motivi dell’impugnazione, non rimanesse affatto legato a quelli che vi avesse eventualmente enunciati. Egli certo poteva avere interesse ad esporli, per ottenere più facilmente che la sua appellatio venisse recepta, tuttavia poteva in corso di giudizio mutarli e svolgere qualunque attività processuale che fosse utile al riconoscimento del suo diritto (persequi provocationem suam quibuscumque modis potuerit) 35. A tale opinione hanno aderito, più recentemente, il Litewski 36 e lo Scapini; secondo quest’ultimo, in particolare, il passo ulpianeo consentirebbe ai litiganti l’esercizio di «ogni più ampia attività defensionale, come nuove deduzioni o produzioni e opposizione di nuove eccezioni» 37. Anche il passo di Ulpiano non consente, però, una conclusione così netta. Il problema che il giurista affrontava era, in verità, tutt’altro, cioè quello della modificabilità dei motivi di impugnazione in corso di giudizio, che è la tesi a cui Ulpiano aderisce, riconoscendo all’appellante la facoltà di aliam causam provocationis reddere e di perseguire il fine dell’appello quibuscumque modis. È questa l’espressione che ha fatto ritenere che il giurista intendesse ammettere anche la possibilità di introdurre in appello nuovi e diversi mezzi di prova. Ma si deve convenire che essa non si presta ad una così univoca interpretazione: con il quibuscumque modis si potevano intendere tutti i mezzi argomentativi che il mutamento dei motivi di appello poteva comportare e non necessariamente la deduzione di nuove prove. L’appiglio è, insomma, troppo debole per consentire di attribuire ad Ulpiano un’affermazione così precisa. Va notato, inoltre, che la soluzione prospettata da Ulpiano è presentata come una sua opinione personale, con un puto tamen che lascia supporre l’esistenza di una opinione contraria che, evidentemente, i compilatori giustinianei hanno eliminato. L’opinione di Ulpiano, perciò, anche a voler ammettere il significato ad essa attribuito dall’Orestano e dagli altri studiosi, non rappresentava l’espressiotam dixerit, an liceat ei discedere ab hac et aliam causam allegare? an vero quasi forma quadam obstrictus sit? puto tamen, cum semel provocaverit, esse ei facultatem in agendo etiam aliam causam provocationis reddere persequique provocationem suam quibuscumque modis potuerit. 35 R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 423. 36 W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, in RIDA, 13, 1966, 318 s. 37 N. SCAPINI, Il “ius novorum”, cit., 12.
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ne di un principio pacifico e, tanto meno, normativamente accettato. Sarà solo nella Compilazione giustinianea che, eliminata ogni opinione contraria, essa assumerà tale significato. Si deve concludere, pertanto, che mancava un sicuro e preciso orientamento del pensiero giuridico e della prassi nell’età pre-dioclezianea. Probabilmente la decisione sull’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello era lasciata alla discrezionalità del giudice ed alla singolarità del caso. L’editto dei Tetrarchi è, perciò, la prima chiara ed esplicita attestazione normativa di tali principi. 8.3. Il successivo paragrafo 3 è dedicato ad un particolare aspetto del processo d’appello ed introduce una normativa che non sembra avere precedenti nella disciplina anteriore: Super his vero, qui in capitalibus causis constituti appellaverint (quos tamen et ipsos vel qui pro his provocabunt non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam appellare conveniet), id observandum esse sancimus, ut inopia idonei fideiussoris retentis in custodia reis opiniones suas iudices exemplo appellatoribus edito ac refutatorios eorum ad scrinia quorum interest transmittant, quibus gestarum rerum fides manifesta relatione pandatur, ut meritis eorum consideratis pro fortuna singulorum sententia proferatur.
Esso stabilisce, infatti, che nelle cause capitali il giudice, relativamente all’appello, debba formulare un’apposita opinio, della quale deve comunicare copia all’appellante; questi, a sua volta, può replicare all’opinio del giudice con i libelli refutatorii, dopodiché tutti gli atti del processo dovranno essere trasmessi, a cura dello stesso giudice, ad scrinia eorum quorum interest. Comincia a delinearsi, così, una specifica ed articolata disciplina del procedimento di appello, che troverà i suoi ulteriori sviluppi nella legislazione successiva, ma che nell’editto dioclezianeo sembra limitata ai processi capitali. Per il Litewski questa disposizione dell’editto sarebbe «der früheste Fall der Anwendung zu einem Appellationsverfahren der Normen, die consultatio ante sententiam betrafen» e darebbe luogo ad un procedimento che si sarebbe svolto avanti al tribunale imperiale in assenza delle parti, sulla base dell’opinio del giudice a quo e delle conseguenti preces refutatoriae dell’appellante 38. Ma tutto questo non ha alcuna base nel testo considerato, poiché da esso non solo non si può ricavare che il procedimento si svolgesse avanti al tribunale imperiale sulla base degli atti, ed anzi l’espressione generica ad scrinia eorum quorum interest si riferisce chiaramente a qualsiasi giudice competente per 38
W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 256.
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l’appello, ma anche perché esso presupporrebbe l’avvenuta introduzione di un appello more consultationis già alla fine del III secolo 39. Incidentalmente, addirittura in forma parentetica, questa parte del provvedimento, consente, poi, di gettare lo sguardo su un altro importante aspetto del procedimento d’appello. Essa, infatti, dà per pacifica l’appellabilità delle sentenze in materia capitale, ma precisa anche che l’appello può essere proposto non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam: col che sembra escludere l’appellabilità delle pronunce non definitive. È sotto questo profilo che la norma è stata soprattutto considerata, quasi come il punto di arrivo di un processo svoltosi nell’età precedente 40. In realtà, di tale processo si hanno, nelle fonti a noi note, solo tracce frammentarie e contraddittorie che non consentono di individuare un indirizzo preciso ed univoco, né, tantomeno, normativamente fissato, anche in considerazione della natura eminentemente casistica delle decisioni giurisprudenziali in materia. Per di più, nessuno dei passi o degli interventi imperiali, che si occupano dell’appellabilità delle sentenze non definitive, riguarda direttamente il processo penale 41. Il passo di Modestino, solitamente richiamato al riguardo (D. 39
È noto, infatti, che gli studiosi del processo, sin dal fondamentale contributo del Bethmann-Hollweg (Der römische Civilprozess, III, Bonn 1866 [rist. 1959], 90 nt. 11; 294; 332 s.), attribuiscono alla legislazione di Costantino l’introduzione di una nuova forma di appello, che si sarebbe modellata sulla procedura della consultatio ante sententiam ed avrebbe, perciò, preso il nome di appello per consultationem o more consultationis. Conformi, T. KIPP, Appellatio, in PWRE, 2/1, (1895, rist. 1965), 206 ss.; ID., Consultatio, in PWRE, 4/1, (1900, rist. 1958), 1143; C. BERTOLINI, Appunti didattici di diritto romano. Serie seconda. Il processo civile, III Torino, 1915, 202; L. WENGER, Institutionen, cit., 297; G. SCHERILLO, voce Consultatio, in NNDI, 4, 1959, 358; M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 509 s.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 254 ss.; ID., Consultatio ante sententiam, in ZSS, 99, 1969, 228 s.; G. DE BONFILS, Prassi giudiziaria e legislazione nel IV secolo. Symm, rel. 33, in BIDR, 78, 1975, 170 s.; G. BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I, cit., 168 ss.; EAD., L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano 1983, 90 ss. 40 Vedi, in proposito, da ultimo, U. VINCENTI, “Ante sententiam appellari potest”. Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova, 1986, 8 ss., in part. 31, e la letteratura citata. 41 I passi comunemente citati, anche nella letteratura più recente, riguardano, infatti, fattispecie diverse e mostrano una notevole disparità di opinioni e di decisioni. Così Gaio dà per sicura l’appellabilità della sentenza di un arbitro ad fideiussores probandos constitutus (D. 2.8.9), ma Paolo rileva che la questione era, in realtà, controversa e mostra una certa propensione a ritenere non utilizzabile l’appello (D. 49.2.2). La possibilità dell’appello ante sententiam è affermata con decisione da Scevola di fronte ad una decisione del tutto abnorme, quella di applicare la tortura in civili negotio o anche in criminali, si contra leges (D. 49.5.2). E lo stesso indirizzo si desume da un passo di Paolo (D. 48.18.20). Viceversa, Macro riteneva inammissibile l’appello contro una decisione interlocutoria che aveva negato la sospensione del giudizio, in attesa dell’emanzione di un rescritto imperiale (D. 49.5.4). Analogamente Scevola dichiarava
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48.2.18) 42, prende, è vero, in esame una fattispecie complessa, nell’ambito della quale si configura anche l’ipotesi di un giudizio criminale di falso testamentario, ma il provvedimento interlocutorio della cui eventuale impugnabilità gli interpreti discutono, a prescindere dalla considerazione se essa sia in effetti desumibile dal testo in questione (il che non sembra), non è, comunque, un atto del processo criminale, che in realtà non è mai stato instaurato, bensì del procedimento civile de irrito testamento. Che le pronunce interlocutorie in processi capitali non fossero assoggettabili ad impugnazione separatamente dalla sentenza definitiva, si ricava, però, a inappellabile la decisione interlocutoria di un governatore provinciale in materia di minore età (D. 4.4.39). E così Ulpiano negava l’appellabilità della decisione di un giudice di proporre una consultatio all’imperatore (D. 49.1.1-2). Esattamente R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 267, riteneva che da questi passi non potesse trarsi un’indicazione precisa sullo stato del diritto in età classica. Dello stesso avviso era G. PROVERA, Recensione a U. Vincenti, “Ante sententiam appellari non potest”, in SDHI, 53, 1987, 491. 42 D. 48.2.18: MODESTINUS libro septimo decimo responsorum. Cum Titia testamentum Gaii fratris sui falsum arguere minaretur et sollemnia accusationis non implevit intra tempus a praeside praefinitum, praeses provinciae iterum pronuntiavit non posse illam amplius de falso testamento dicere: adversus quas sententias Titia non provocavit, sed dixit se post finitum tempus de irrito testamento dicere. Quaero, an Titia, quae non appellavit adversus sententiam praesidis, possit ad falsi accusationem postea reverti. Respondit nihil aperte proponi, propter quod adversus sententiae auctoritatem de falso agens audienda sit. Il giurista si trovava invitato a valutare, come si vede, le conseguenze di una vicenda processuale vertente sulla validità di disposizioni testamentarie, in cui l’attrice, dopo aver dichiarato di voler impugnare di falso il testamento ed aver ottenuto dal giudice un termine entro il quale proporre l’impugnazione, non avendolo osservato, è stata dichiarata decaduta con un secondo provvedimento che essa non ha impugnato. Il quesito sottoposto a Modestino riguardava la possibilità che l’attrice riprendesse l’iniziativa del processo criminale, ad falsi accusationem reverti e la risposta del giurista sembra negativa. Ma il problema che qui interessa riguarda l’oggetto della possibile impugnazione che l’attrice non ha proposto e nasce dal fatto che nell’esposizione dei fatti si usa il plurale adversus quas sententias Titia non provocavit. Se ne desume che Tizia avrebbe potuto e dovuto impugnare non solo il provvedimento che la dichiarava decaduta dalla possibilità di proporre una impugnazione di falso, ma anche quello che le assegnava un termine per farlo. Non si vede, in verità, quale sarebbe stato l’interesse dell’attrice ad impugnare un provvedimento che le assegnava un termine per proporre l’impugnazione che essa stessa aveva dichiarato di voler proporre. Ma, indipendentemente da questa considerazione, il tema del quesito proposto a Modestino è chiaramente quello delle conseguenze della mancata impugnazione della sententia praesidis (e qui si usa il singolare), cioè della decisione di decadenza dall’impugnazione di falso. È questa che fa nascere il problema della ulteriore proponibilità dell’impugnazione stessa. Non è il caso di indugiare qui a chiedersi se il primo plurale sia, per avventura, frutto di un errore dell’amanuense o di un’imprecisione nell’esposizione dei fatti. Per l’esatta comprensione del testo di Modestino, occorre rifarsi all’esegesi di M. WLASSAK, Anklage und Streitbefestigung im Kriminalrecht der Römer, in SAWW, 84, 1917, 211 ss., cui aderisce G.G. ARCHI, “Civiliter vel criminaliter agere” in tema di falso documentale. Contributo storicodommatico al problema della efficacia della scrittura, in Scritti in onore di Contardo Ferrini pubblicati in occasione della sua Beatificazione, I, Milano 1946, 1 ss., ora in Scritti di diritto romano, III, Milano 1981, 1600.
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mio avviso, dalla forma in cui il principio è enunciato nell’editto, non come oggetto della statuizione normativa – che riguarda le sole formalità procedurali che il giudice deve osservare in seguito alla proposizione dell’appello – ma come un obiter dictum, formulato addirittura in forma parentetica: il che dimostra che si trattava di un principio in certo modo pacifico, almeno per quanto atteneva ai giudizi capitali, ai quali solo la norma espressamente si riferisce 43. 8.4. Il paragrafo 4 dell’editto prende in esame il problema della temerarietà degli appelli e, partendo dal principio che non deve essere ammesso appellare temere ac passim, stabilisce che chi abbia coltivato una mala lis debba essere condannato ad una mediocris poena: Ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur, arbitramur eum, qui malam litem fuerit persecutus, mediocriter poenam a competenti iudice sustinere.
Nell’economia dell’editto sembra evidente che questa sanzione venga applicata dal giudice dell’appello, come conseguenza della constatazione che questo è stato proposto temere ac passim e che la posizione dell’appellante è chiaramente infondata 44. Sul significato dei due termini usati nella costituzione, si può osservare che la linea di demarcazione fra i due concetti appare molto tenue. Temere si riferisce, infatti, ad un atto compiuto alla cieca, sconsideratamente, avventatamente 45; passim, invece, a qualcosa che è compiuto senza ordine, confusamen43 Non mi sembrano rilevanti in proposito i due rescritti richiamati in argomento dal Vincenti (Ante sententiam appellari potest, cit., 29 s.), il primo dei quali (C. 7.45.7) dichiara semplicemente privo di effetto estintivo di una verborum obligatio il patto concluso dalle parti su sollecitazione del praeses provinciae, motivando tale principio con il rilievo che non omnis vox iudicis ha l’autorità di cosa giudicata. Nessun richiamo o riferimento, neppure implicito, è fatto all’appellabilità di un intervento del governatore che, nella specie, è privo di contenuto decisorio; né mi sembra che dall’affermazione secondo cui non sempre la vox iudicis ha l’autorità di giudicato, possa ricavarsi il principio della sua inappellabilità. Analogamente, nessun riferimento al problema trattato nel testo è fatto nel secondo rescritto (C. 7.45.9), che pure nega l’autorità di giudicato ad interventi arbitrali del giudice resi successivamente all’emanazione della sentenza. 44 Sul punto, W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 294. 45 Vedi, sul punto, E. FORCELLINI, Lexicon Totius Latinitatis, Patavii, 1890, IV, s.v. temere: «Temere est sine ratione, sine consilio, casu, inconsulte, imprudentes; stulte»; A. BERGER, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, Philadelphia, 1953, s.v. temeritas: «Rashness, lack of caution, of reflection in starting a lawsuit or accusing a person of a crime»; A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1960, s.v. temere: «“a l’aveuglette”, par suite “inconsidérément, au hasard, a la légère, sans réflection”».
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te 46. Il primo termine indica, quindi, propriamente la temerarietà, il secondo la mancanza di chiarezza dei motivi; ma entrambi, in definitiva, stanno a significare l’evidente infondatezza, sotto i vari profili, dell’appello stesso. La costituzione non stabilisce in che cosa debba consistere la pena, la cui determinazione era evidentemente lasciata alla discrezionalità del giudice. 8.5. Il paragrafo 5 dell’editto si occupa dei termini per la dichiarazione della volontà di appellare, stabilendo che l’impugnazione deve essere proposta eodem die vel altero se l’appellante agisca in nome proprio oppure entro il terzo giorno si negotium tuetur alienum: Sin autem in iudicio propriam causam quis fuerit persecutus atque superatus voluerit provocare, eodem die vel altero libellos appellatorios offerre debebit. Is vero, qui negotium tuetur alienum, supra dicta condicione etiam tertio die provocabit.
Questi termini non rappresentano una novità, come risulta da tutta la precedente elaborazione giurisprudenziale che, perlomeno in età Severiana 47, li aveva ormai fissati in maniera precisa 48. Se una novità c’è, e non certo positiva, è nella mancanza di uno specifico richiamo alla distinzione fra appello orale ed appello scritto. L’editto, infatti, prospetta la possibilità di appellare eodem die vel altero, se l’appellante agisca in nome proprio e parla, per entrambe le ipotesi, della necessità di libellos appellatorios offerre. Sembra ignorare, quindi, che eodem die si poteva appellare anche oralmente. Si tratta di una voluta omissione della possibilità di appello orale? Questa sembrava essere l’opinione dell’Orestano, il quale scriveva che la disposizione dell’editto testimonierebbe la decadenza dell’appello orale dopo l’età dei Severi 49. 46 Ancora E: FORCELLINI, Lexicon, III, s.v. passim: «sparsim, sine ordine, omnibus locis, undique»; A. BERGER, Encyclopedic Dictionary, s.v. passim: «Simply, without any further examination of the case under decision. The term is used in the juristic language as ant. to causa cognita, i.e., after a scrupulous examination»; A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique, s.v. pando,-is: «en se répandant çà et là; en désordre». 47 Vedi, in particolare, D. 49.1.5.4: MARCIANUS libro primo de appellationibus. Si quis ipso die inter acta voce appellavit, hoc ei sufficit: sin autem hoc non fecerit, ad libellos appellatorios dandos biduum vel triduum computandum est. Sui sospetti di interpolazione della seconda parte del passo, cfr. R. REGGI, I “libri de appellationibus” di Marciano, in Studi Parmensi, 15, 1974, 46. 48 Cfr., in proposito, R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 237 ss.; M. BIANCHINI, Le formalità costitutive del rapporto processuale nel sistema accusatorio, Milano 1964, 127; M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 403; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 145 ss., in part. 151. 49 R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 230 nt. 1.
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E che comunque potesse nascere il dubbio circa la possibilità del ricorso all’appello orale potrebbe ricavarsi anche da una successiva costituzione di Costantino, che, espressamente, ne riaffermava la possibilità (c. 7 C.Th. XI.30) 50. 8.6. Il paragrafo 6, che chiude il frammento dell’editto relativo all’appello, contiene due importanti novità: Apostolos post interpositam provocationem etiam non petente appellatore sine aliqua dilatione iudicem dare oportet, cautione videlicet de exercenda provocatione in posterum minime praebenda.
La prima riguarda la formalità delle litterae dimissoriae o apostoli, che il giudice a quo doveva indirizzare al giudice ad quem per investirlo dell’impugnazione 51. Dai pur scarsi elementi conservati nelle fonti giustinianee risulta che la richiesta delle litterae era, fino a Diocleziano, onere dell’appellante e doveva essere effettuata entro un termine stabilito. Lo attesta implicitamente Marciano (D. 49.6.1), quando precisa che basta che la richiesta sia stata proposta intra tempus instanter et saepius e che l’eventuale mancato rilascio sia formalmente contestato dall’appellante ed aggiunge: nam instantiam petentis dimissorias constitutiones desiderant. Aequum est igitur, si per eum steterit, qui debebat dare litteras, quo minus det, ne hoc accipienti (rectius: appellanti) noceat. L’onere della richiesta delle litterae era stato imposto, dunque, da costituzioni imperiali. Il loro rilascio era compito del giudice e l’omissione dell’attività dell’ufficio non poteva nuocere alla parte, purché questa avesse formulato la domanda intra tempus ed eventualmente reiterata instanter et saepius, nonché contestato il mancato rilascio. Queste cautele dovevano essere state precisate, probabilmente, dall’interpretazione giurisprudenziale e dalla prassi. Marciano non indica quale fosse il tempus entro cui le litterae andavano richieste. Lo indica uno dei frammenti del Paolo visigotico (V.34.1) 52, nel quale 50 C.Th. 11.30.7: Idem (Imp. Constantinvs) A. ad Bassvm P(raefectvm) V(rbi). Litigatoribus copia est etiam non conscribtis libellis ilico appellare voce, cum res poposcerit iudicata. Dat. VIII Ivn. Sirmio Gallicano et Basso Conss. 51 Cfr. D. 49.6.1: MARCIANUS libro secundo de appellationibus. Post appellationem interpositam litterae dandae sunt ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, sive principem sive quem alium, quas litteras dimissorias sive apostolos appellant. Sul contenuto delle litterae prosegue Marciano: Sensus autem litterarum talis est: appellasse puta Lucium Titium a sententia illius, quae inter illos dicta est. 52 Paul. Sent. 5.34.1: Ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, litterae dimissoriae diriguntur, quae vulgo apostoli appellantur: quorum postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est. 2. Qui intra tempora praestituta dimissorias non postulaverit
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si legge che postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est. La formulazione del passo è, come si vede, molto approssimativa: un unico termine è indicato per due attività, la prima delle quali è propria della parte, la seconda dipende dalla diligenza dell’ufficio ed il passo non precisa, come ben faceva Marciano, che se la parte ha adempiuto nel termine stabilito al proprio onere, non può nuocerle l’eventuale inattività dell’ufficio. Ancora più improprio è il seguito del testo; nel quale si afferma addirittura che: Qui intra tempora praestituta dimissorias non postulaverit vel acceperit vel reddiderit, praescriptione ab agendo submovetur et poenam appellationis inferre cogetur. Se i tempora praestituta sono ancora i cinque giorni prima indicati, non si vede come sarebbe stato possibile all’appellante non solo postulare ed accipere le litterae, ovviando, non si sa come, all’eventuale inerzia dell’ufficio, ma addirittura reddidere le stesse al giudice ad quem. A prescindere da queste aporie, che vanno senza dubbio addebitate al poco accurato redattore delle Sententiae, il passo testimonia, comunque, anch’esso un regime che attribuiva all’appellante l’onere della richiesta delle litterae e gli assegnava un termine, probabilmente quello di cinque giorni, che nell’imprecisa formulazione del compilatore è divenuto un termine cumulativo per la postulatio, l’acceptio e la redditio del documento. L’editto dioclezianeo innova radicalmente su questo regime, stabilendo che il giudice debba emettere gli apostoli post interpositam provocationem etiam non petente appellatore sine aliqua dilatione. Il rilascio delle litterae dimissoriae diviene, dunque, interamente compito dell’ufficio e non è sottoposto più ad un termine dilatorio. L’editto non parla della successiva trasmissione degli atti al giudice superiore. Che questo rimanesse compito della parte, si evince da un rescritto degli stessi imperatori Diocleziano e Massimiano (C. VII.62.5) 53, riportato nel Codice purtroppo senza data, ma che, essendo inserito immediatamente prima dell’editto del 294, si deve ritenere a questo pressoché contemporaneo. Con esso, la cancelleria imperiale risolveva affermativamente il dubbio sottopostole dal postulante circa l’accoglibilità di un appello nel caso in cui la mancata consegna al giudice ad quem degli apostoli fosse dipesa non vitio neglegentiae dell’appellante, ma ex fatalis casus necessitate, nella specie la morte della persona incaricata della trasmissione. vel acceperit vel reddiderit, praescriptione ab agendo submovetur et poenam appellationis inferre cogetur. 53 C. 7.62.5: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Valerio. Praeses provinciae, ad quem appellasti, si non vitio neglegentiae vestrae tempus, quod ad reddendos apostolos praescriptum est, exemptum esse animadverterit, sed ex fatalis casus necessitate, diem functo eo qui eos perferebat, id accidisse cognoverit, iuxta perpetui iuris formam desiderio vestro medebitur.
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La seconda novità di questa parte dell’editto consiste nell’abolizione delle cautiones. Sull’uso di queste cautiones nel diritto vigente in precedenza siamo assai poco informati 54: la loro abolizione ed il diverso sistema di sanzioni a carico dell’appellante temerario, già adombrato, come si è visto sopra, nello stesso editto dioclezianeo e che si svilupperà ulteriormente nella legislazione più tarda, ne hanno fatto scomparire quasi ogni traccia dalla Compilazione giustinianea. Ne è rimasto cenno solo in un passo di Papiniano in tema di petitio fideicommissi, che richiama in proposito un rescritto di Marco Aurelio (D. 36.3.5.1). Questi aveva disposto che eum a quo res fideicommissae petebantur, cum appellasset, cavere vel, si caveat adversarius, ad adversarium transferri possessionem debere. Ma più che di una specifica cautio de exercenda provocatione, si trattava, qui, di applicare anche nel giudizio di appello la cautio fideicommissi. Il passo continua, infatti, rilevando: Recte placuit principi post provocationem quoque fideicommissi cautionem interponi: quod enim ante sententiam, si petitionis dies moraretur, fieri debuit, amitti post victoriam dilata petitione non oportuit. Un’ampia illustrazione dell’argomento si trova, invece, nelle Sententiae di Paolo (5.33.1-8) 55, nelle quali si precisa che le cauzioni costituivano la garan54
Cfr. R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 376 ss., il quale scriveva che l’editto dioclezianeo «lascia intravedere un regime anteriore nel quale fosse facoltà del giudice a quo esigere prima della consegna delle litterae una cauzione dall’appellante». Sull’uso di queste cautiones ha gettato qualche maggiore luce un’iscrizione pubblicata nel 1970 dall’Oliver (J.H. OLIVER, Marcus Aurelius: aspects of civil and cultural policy in the East, in Hesperia, Suppl. XIII, su cui vedi A.H.M. JONES, A new letter of Marcus Aurelius to the Athenians, in ZPE, 8, 1971, 161 ss.), contenente, in una lettera di Marco Aurelio agli Ateniesi, una serie di decisioni dello stesso imperatore su appelli proposti contro pronunce di giudici e tribunali della città. Alle righe 47 ss. del lungo testo, si dispone la restituzione delle cauzioni che erano state fornite dagli appellanti ed in un caso anche dall’appellato (Valerio Mamertino). Il documento, a cui ha dedicato uno studio S. GIGLIO, L’epistula di Marco Aurelio agli Ateniesi, in AAC, IV, 1981, 547 ss., merita di essere ripreso in esame, per chiarire meglio il meccanismo della cautio e la sua funzione in rapporto all’esito dell’appello, oltre che presentare un grande interesse per la natura degli appelli di cui in concreto si tratta (quasi tutti in materie di natura pubblicistica) e per i rapporti tra ordinamenti cittadini e provinciali (nella specie quelli di Atene e della Grecia) e potere imperiale. Ma non è, ovviamente, questo il luogo per affrontare tali argomenti. Osserverò di sfuggita che appare abbastanza interessante la coincidenza fra l’ampio uso delle cauzioni nel processo d’appello sotto Marco Aurelio e la notizia data da Papiniano sul rescritto dello stesso imperatore che prescriveva l’applicazione della cautio fideicommissi anche nel giudizio d’appello in questa materia (D. 36.3.5.1). 55 Paul. Sent. 5.33.1: Ne liberum quis et solutum haberet arbitrium retractandae et revocandae sententiae, et poena et tempora appellatoribus praestituta sunt. Quod nisi iuste appellaverint, tempora ad cavendum in poeta appellationis quinque dierum praestituta sunt. Igitur morans in eo loco, ubi appellavit, cavere debet, ut ex die acceptarum litterarum continui quinque dies computentur: si
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zia del pagamento della poena appellationis e se ne illustra il regime, indicando in cinque giorni, decorrenti dal rilascio delle litterae dimissoriae, il termine entro cui queste dovevano essere prestate. Ma si prevede, altresì, che, in luogo della cauzione, possa essere effettuato – ne quis in captionem verborum in cavendo incidat – il deposito della somma a titolo di penale. Si specifica, inoltre, che possono essere dati uno o più fideiussori, che se più siano gli appellanti sia sufficiente un’unica cautio, mentre se si appella da più statuizioni, singulae cautiones exigendae sunt e altri particolari 56. Il brano delle Sententiae pone all’interprete seri problemi. Infatti, se si dovesse considerare il passo paolino desunto da un’opera genuina del giurista severiano 57, ci troveremmo di fronte ad una disposizione che non risulta avere sicuri riscontri in fonti dell’epoca e che non si vede da quale statuizione normativa deriverebbe. Ma anche se il passo va attribuito al più tardo redattore delle Sententiae, il problema resta ed in certo senso si aggrava. Poiché l’epoca della redazione dell’opera si colloca generalmente proprio in età dioclezianea, come spiegare l’evidente contrasto del passo, che prevede l’imposizione delle cautiones e ne regola minuziosamente la disciplina, con il paragrafo in esame dell’editto dei Tetrarchi, che tali cauzioni espressamente abolisce? Che se poi si volesse pensare che il passo delle Sententiae non provenga dalla prima redazione, ma debba attribuirsi ad uno strato successivo di elaborazione dell’opera, il problema resta comunque, perché in nessuna parte della legislazione successiva si incontra una disposizione relativa all’imposizione di una cautio de exercenda provocatione e poiché, in ogni caso, non si comprenderebbe la ragione per cui il suo redattore non abbia provveduto ad adattarne il contenuto al tenore dell’editto dei Tetrarchi. vero longius, salva dinumeratione interim quinque dies cum eo ipso quo litteras acceperit computantur. 2. Ne quis in captionem verborum in cavendo incidat, expeditissimum est poenam ipsam vel quid aliud pro ea deponere: necesse enim non habet sponsorem quis vel fideiussorem dare aut praesens esse: et si contra eum fuerit pronuntiatum, perdit quod deposuit. 3. Quotiens in poena appellationis cavetur, tam unus quam plures fideiussores, si idonei sint, dari possunt: sufficit enim etiam per unum idoneum indemnitati poenae consoli. 4. Si plures appellant, una cautio sufficit., et si unus caveat omnibus vincit. 5. Cum a pluribus sententiis provocatur, singulae cautiones exigendae sunt et de singulis poenis spondendum est. 6. Modus poenae, in qua quis cavere debet, specialiter in cautione exprimendus est, ut sit, in qua stipulatio committatur: aliter enim recte cavisse non videtur. 7. Adsertor si provocet, in eius modi tertiam cavere debet, quanti causa aestimata est. 8. In omnibus pecuniariis causis magis est, ut in tertiam partem eius pecuniae caveatur. 56 Cfr., per un’ampia disamina del passo, M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, II, Milano 1973, 753 ss. 57 In ordine alla facoltà del giudice a quo di imporre cauzioni all’appellante in età severiana, si ha traccia nel verbale di udienza conservato in P. Oxy. 1408, su cui vedi E. CANTARELLA, La fideiussione reciproca, Milano 1965, 67 s.
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Orestano, sottolineando tale contrasto, ipotizzava di risolvere il problema o col supporre una permanenza nella prassi postclassica del regime più antico o con l’attribuire la frase finale della costituzione dioclezianea ad un’interpolazione giustinianea 58. Al contrario, Giglio ritiene che il differente regime delle cauzioni nell’editto dei Tetrarchi e nelle Sentenze di Paolo costituisca «un importante elemento per pensare che la redazione di quest’opera risalga ad un periodo anteriore all’emanazione di C. VII.62.6 e, presumibilmente, anche al regno di Diocleziano» 59. Entrambe queste ipotesi, però, lasciano ampio margine a dubbi, prive come sono di qualunque riscontro testuale, e il problema rimane, in realtà, senza una soluzione sicura. Comunque sia di ciò, non vi è dubbio che Diocleziano, abolendo l’imposizione di cautiones da parte del giudice a quo, veniva così a facilitare la proposizione dell’appello 60. 9. Dei titoli che il Codice Teodosiano dedica all’appello 61, due risultano particolarmente ampi: l’11.30, De appellationibus et poenis earum et consultationibus, costituito da sessantotto provvedimenti che regolano l’assetto positivo dell’appellatio e l’11.36 Quorum appellationes non recipiantur, le cui trentatré costituzioni disciplinano le ipotesi di inammissibilità del gravame. Ma un esame analitico di questi due titoli, e specialmente del primo, mostra che alla dovizia quantitativa non corrisponde un’organica e completa disciplina dell’istituto. Il titolo 11.30 del Teodosiano raggruppa provvedimenti eterogenei, unendo, come indica la sua stessa rubrica, la materia dell’appello con la procedura 58
R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 376 ss. S. GIGLIO, L’epistola di Corbulone ai Coi, in Raccolta di Scritti in memoria di Angelo Lener, Napoli 1989, 536 ss., in part. 540 nt. 82. Più in generale, sulle cautiones de exercenda provocatione, vedi, dello stesso Autore, L’epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, 547 ss., cui rinvio anche per i riferimenti bibliografici. 60 Secondo il Litewski (Die römische Appellation, IV, cit., 222), l’imperatore avrebbe così avuto la possibilità di effettuare un maggiore controllo sull’operato dei giudici inferiori: «Der Bruch mit dieser Institution ist wohl damit aufgeklärt, dass die Kaiser zur Zeit des Dominats eine möglichst genaue Kontrolle der Tätigkeit der ihnen (auch mittelbar) unterstellten Richter anstrebten. Deshalb beseitigten sie die cautio, die in der Praxis die Anfechtung von Urteilen auf dem Wege der Appellation beschränkte»: in questo senso cfr., anche, M. BRUTTI, La problematica del dolo processuale, cit., 756 ss. 61 Sono i titoli 11.30 De appellationibus et poenis earum et consultationibus; 11.31 De reparationibus appellationum; 11.32 De secundo labsu; 11.33 De dilationibus ex consenso; 11.34 De his, qui per metum iudicis non appellaverunt; 11.35 Si pendente appellatione mors intervenerit; 11.36 Quorum appellationes non recipiantur, 11.37 Si de momento fuerit appellatum; 11.38 De possessione ab eo, qui bis provocaverit, transferenda. 59
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della consultatio 62 ed anche con misure relative ad impugnazioni che si possono considerare, nella sostanza, di natura amministrativa, contro le nomine ad uffici o cariche pubbliche. Le costituzioni riguardanti propriamente l’appello sono poi dedicate soprattutto a reprimere un fenomeno che doveva essere molto diffuso, a giudicare dall’attenzione dedicatagli dal legislatore: il fenomeno, cioè, della renitenza dei giudici inferiori ad ammettere gli appelli ed a fare seguire loro il debito corso. Manca, in definitiva, una vera ed organica disciplina del procedimento e, in particolare, l’indicazione dei termini per proporre l’impugnazione. Infatti, il titolo si apre con una costituzione di Costantino 63 che fissa termini molto precisi per la comunicazione alle parti di atti del processo e per l’eventuale presentazione di scritti refutatorii; ma si tratta della procedura di consultatio, non di appello. Di termini per la presentazione di un’impugnazione si occupa un’altra costituzione di Costantino (la c. 10 h.t.): ma anche questa non riguarda l’appello, bensì la provocatio contro un provvedimento di nomina a cariche municipali o nomine pubbliche in genere 64. Ed anche in 62 La procedura per consultazione o per relazione (consultatio o relatio), che, a differenza dell’appello, non richiedeva, quale presupposto essenziale, l’avvenuta risoluzione della controversia mediante la emanazione di una sentenza, consentiva – come è noto – che le parti o lo stesso giudice deferissero alla cognizione dell’imperatore la decisione di una lite già in corso. Sul punto A.M. BETHMANN-HOLLWEG, Der römische Civilprozess, cit., 90 ss. e 294 ss.; T. KIPP, Consultatio in PWRE, IV/1, 1900 rist. 1958, 1142 ss.; W. LITEWSKI, Consultatio ante sententiam, in ZSS, 86, 1969, 227 ss. Vedi, anche, A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 21 s.; C. BERTOLINI, Appunti didattici di diritto romano, cit., 202 s.; N. SCAPINI, Il “ius novorum” nell’appello civile romano, in Studi Parmensi, 21, 1978, 34 ss.; R. ORESTANO, Appello, in ED, cit., 710 s.; S. GIGLIO, L’epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, in AARC, IV, Perugia 1981, 549 ss.; J. GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, cit., 83 ss.; G. BASSANELLI SOMMARIVA, L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano 1983, 72 ss. Sull’uso e sugli effetti della consultatio ad principem nelle fonti letterarie e, in particolare, nelle Res gestae di Ammiano Marcellino vedi: Riferimenti normativi e prospettive giuspubblicistiche nelle ‘Res gestae’ di Ammiano Marcellino, a cura di M. NAVARRA, Milano 1994, 99 ss. 63 C.Th. 11.30.1: Imp. Constantinvs A. ad Claudivm Plotianvm correctorem Lvcaniae et Brittior(um). Si in negotio civili cognitis utrisque actionibus pronuntiaveris te ad nostram scientiam relaturum, consultationis exemplum litigatoribus intra decem dies edi aput acta iubeas, ut, si cui forte relatio tua minus plena vel contraria videatur, is refutatorias preces similiter tibi aput acta offerat intra dies quinque, quam illi exemplum consultationis tuae obtuleris. Iam dicationis tuae est omnia, quae aput te vel aput alios gesta fuerint in eo negotio, consultationi tuae cum refutatoriis litigantis adnectere, ita ut scias et decem dies, intra quos edi consultationem oportet, et quinque, intra quos preces refutatoriae offerendae sunt, continuos debere servari. Nam quinque diebus transactis nec offerentem preces refutatorias litigatorem debebis audire, sed sine his quoniam intra statutum tempus oblatae non sunt, gesta omnia ad nostram referre scientiam. Et cetera. Dat. III kal. Ian. Trev(iris) Constantino A. III et Licinio III Conss. Ampio commento sul contenuto della costituzione in GOTOFREDO, Codex Theodosianus cum commentariis, 6 voll., Mantuae, 1740-1750, ad h.l. Cfr., sul punto, anche J. GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, cit., 74 s. 64 C.Th. 11.30.10: Imp. Constantinvs A. ad Crispinvm. Si quis per absentiam nominatus ad provocationis auxilium cucurrerit, ex eo die interponendae appellationis duorum mensum tempora
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quelle costituzioni in cui si accenna a termini processuali, essi sono riferiti ai tempi richiesti per la trasmissione degli atti al giudice superiore, quali, ad esempio, le cc. 29 e 30 di Giuliano 65. In conclusione, la disciplina dell’appello, in quasi tutti gli aspetti più rilevanti resta affidata, per tutta l’età postclassica, all’editto dell’anno 294 66, che ei conputanda sunt, ex quo contra se celebratam nominationem didicisse se monstraverit. Nam praesenti, qui factam nominationem cognovit et appellare voluerit, statim debet duorum mensum spatium conputari. Dat. VIII id. Iul. Constantino A. VI et Constantino C. Conss. Cfr., in particolare, GOTOFREDO, ad h.l., «De appellatione a nominatione est haec Constantini M. lex. nominatis seu evocatis scilicet ad Curiam, seu ad Duumviratum, aliorumque honorum insulas vel manus aliquod ... appellare quoque licet». 65 C.Th. 11.30.29: Imp. Ivlianvs A. ad Hymetivm Vic(arivm) Urb(is). Omnes legitimae appellationes, quaecumque fuerint contra audientiam tuae gravitatis interposita, indubitanter suscipiantur et post latam sententiam intra triginta dies universa, quae in eiusmodi negotio geruntur, cum refutatoriis precibus seu libellis ad nostrum comitatum mittantur, strenuo videlicet officiali ex his qui tibi parent, ad hanc sollicitudinem electo, ita ut publicis monumentis confectis dies, quo gerulis gesta tradantur, fideliter designetur. Nam X librarum auri multae constituetur officium obnoxium, si statuta nostra aliqua fuerint dissimulatione violata. Dat. X kal. Octob. Antiochiae Mamertino et Nevitta Conss. C.Th. 11.30.30: Imp. Ivlianvs A. ad Germanianvm P(raefectvm) P(raetori)o. His qui tempore conpetenti non appellant, redintegrandae audientiae facultas denegetur. Omnes igitur, qui contra praefectos urbi seu proconsules seu comites Orientis seu vicarios sub specie formidinis provocationem non arbitrantur interponendam, a renovanda lite pellantur. Nobis enim moderantibus rem publicam nullum audebit iudex provocationis perfugium iurgantibus denegare. Qui vero vim sustinuerint, contestatione publice proposita intra dies videlicet legitimos, quibus appellare licet, causas appellationis evidenti adfirmatione distinguant, ut hoc facto tamquam interposita appellatione isdem aequitatis adminicula tribuantur. Emissa XV kal. Ian. Mamertino et Nevitta Conss. Sul contenuto delle costituzioni, per tutti, M. SARGENTI, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano, in AARC, III, Perugia 1979, 368 ss. (ora in Studi sul diritto del Tardo Impero, Padova 1986, 224 ss.); J. GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, cit., 68 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 165 s. 66 C. 7.62.6: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt: Eos qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere conveniet, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat cum salubritas legis constitutae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellatione cognoscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam. Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur. Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimabit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit. Super his vero, qui in capitalibus causis constituti appellaverint (quos tamen et ipsos vel
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viene conservato nel Codice Giustinianeo, smembrato, come detto, in vari frammenti 67 e che ancora nel sistema della Compilazione è quello che regola sostanzialmente la materia 68. È esso che indica i termini entro i quali l’appellante doveva offerre i libelli appellationis, fissati nello stesso giorno dell’emanazione della sentenza o in quello successivo qualora l’appellante fosse parte in giudizio proprio nomine; o, nel caso in cui patrocinasse alieno nomine un affare altrui, entro il terzo giorno dalla decisione 69. E questi termini così rigorosi restequi pro his provocabunt non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam appellare conveniet), id observandum esse sancimus, ut inopia idonei fideiussoris retentis in custodia reis opiniones suas iudices exemplo appellatoribus edito ac refutatorios eorum ad scrinia quorum interest transmittant, quibus gestarum rerum fides manifesta relatione pandatur, ut mentis eorum consideratis pro fortuna singulorum sententia proferatur. Ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur, arbitramur eum, qui malam litem fuerit persecutus, mediocriter poenam a competenti iudice sustinere. Sin autem in iudicio propriam causam quis fuerit persecutus atque superatus voluerit provocare, eodem die vel altero libellos appellatorios offerre debebit. Is vero, qui negotium tuetur alienum, supra dicta condicione etiam tertio die provocabit. Apostolos post interpositam provocationem etiam non petente appellatore sine aliqua dilatione iudicem dare oportet, cautione videlicet de exercenda provocatione in posterum minime praebenda. Sine die et consvle. Sul contenuto della costituzione: M. LAURIA, Sull’“appellatio”, in AG, 97, 1927, 7 s. (ora in Studii e ricordi, Napoli 1983, 69 s.); R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 239 nt. 1; G. SCHERILLO, Lezioni sul processo, cit., 25 ss.; M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 340 s.; M. AMELOTTI, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, Milano 1960, 15 nt. 21; A. CENDERELLI, Ricerche sul “Codex Hermogenianus”, Milano 1965, 34 nt. 38; 74 nt. 25; F. DE MARINI AVONZO, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, II, L’organizzazione giudiziaria di Costantino, in Studi Urbinati, 34, 1965-1966, 198 nt. 86; G. BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I (9 luglio 518-1 agosto 527), in SDHI, 37, 1971, 175 ss. In proposito, si veda, peraltro, la diversa opinione di A. DELL’ORO, “Mandata” e “litterae”. Contributo allo studio degli atti giuridici del “princeps”, Bologna 1960, 93 s. 67 C. 3.3.2; 3.11.1; 7.53.8. 68 L’appellatio, quale mezzo giudiziario tipico della prassi processuale del principato, appare del resto delineata – almeno nelle sue linee essenziali – già nel II secolo d.C., come testimoniano le dettagliate elaborazioni giurisprudenziali dell’età dei Severi, quali le opere De appellationibus di Ulpiano, Paolo, Marciano e Macro. Cfr. R. ORESTANO, Appello, in NNDI, cit., 724; ID., Appello, in ED, cit., 710 s.; U. VINCENTI, Per uno studio degli appelli “ante sententiam”, in BIDR, 86-87, 1984, 90 (e la bibliografia in nt. 65); ID., Ante sententiam appellari potest, cit., 127 nt. 3 e la bibliografia ivi citata. Sull’opera del giurista Marciano, cfr., in particolare, R. REGGI, I libri “De appellationibus” di Marciano, in Studi Parmensi, 15, 1974, 35 ss. 69 C. 7.62.6.5: Sin autem in iudicio propriam causam quis fuerit persecutus atque superatus voluerit provocare, eodem die vel altero libellos appellatorios offerre debebit. Is vero, qui negotium tuetur alienum, supra dicta condicione etiam tertio die provocabit. M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 404; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 151. R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 230 nt. 1, sottolinea che il passo confermerebbe la decadenza, dopo i Severi, dell’appello orale. Sul punto, anche M. BIANCHINI, Le formalità costitutive del rapporto processuale nel sistema accusatorio romano, Milano 1964, 127. Cfr., per l’ipotesi dei minores legittimati a proporre appello, W. LITEWSKI, Il significato del termine “remedium” in Cons. 5.6, in IVRA, 23, 1972, 124; A. CENDERELLI, Il “remedium” menzionato in Cons. 5.6 e gli effetti della “pluris petitio” in danno di minori, in Studi Grosso, II, Torino 1968, 385 ss., anche per la letteratura precedente.
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ranno in vigore fino al 536, quando, con la Novella 23, Giustiniano, lamentando la acerbitas delle anteriores leges ed il rischio che i termini, rispettivamente di due o tre giorni, potessero nuocere, a motivo della loro brevità, agli interessi degli appellanti 70, stabilisce che il gravame possa essere interposto intra decem dierum spatium a recitatione sententiae 71. Ma oltre, e ben più, che per la determinazione dei termini per il gravame, l’editto dioclezianeo è di fondamentale importanza per altri aspetti della disciplina dell’istituto anche per l’età successiva. Vi si trova sancito, come s’è visto, il principio dell’effetto devolutivo dell’appello, per cui eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, non debbono né possono rimettere la causa al primo giudice, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat 72. Vi si trova affermata l’ammissibilità del 70 Nov. 23: De appellationibus et intra quae tempora appellari. Imp. Ivstinianvs Avg. Triboniano Illvstri magistro officiorvm et qvaestori sacri palatii. (Praefatio). Anteriorum legum acerbitati plurima remedia impotentes et maxime hoc circa appellationes facientes et in praesenti ad huiusmodi beneficium pervenire duximus esse necessarium. Antiquitati etenim cautam erat ut, si quis per se litem exercuerit et fuerit condemnatus, intra duos dies tantummodo licentiam appellationis haberet; sin autem per procuratorem causa ventilata sit. Et in triduum proximum eam extendi. Ex rerum autem experientia invenimus hoc satis esse damnosum: plures enim homines ignaros legum subtilitatis et putantes in triduum esse provocationes porrigendas in promptum periculum incidisse et biduo transacto causas perdidisse. Unde necessarium duximus huiusmodi rei competenter mederi. Sul punto, B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, III, Milano 1954, 517; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 152. 71 Nov. 23.1: Et sancimus omnes appellationes, sive per se sive per procuratores seu per defensores vel curatores et tutores ventilentur, posse intra decem dierum spatium a recitatione sententiae numerandum iudicibus ab his quorum interest offerri, sive minores sunt (excepta videlicet sublimissima praetoriana praefectura): ut liceat homini intra id spatium plenissime deliberare, sive appellandum ei sit sive quiescendum. Ne timore instante opus appellatorium frequentetur, sed sit omnibus inspectionis copia, quae et indiscussos hominum calores potest refrenare. Cfr. C. BERTOLINI, Appunti didattici di diritto romano, cit., 199 (testo e nt. 4); R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 239 nt. 1; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, III, cit., 325 e IV, 152. Occorre sottolineare che la Lex Romana Burgundionum (33.3) fissa un termine di cinque giorni per la interposizione di un appello: «Appellationis sane tempora haec sunt, ut pendente sententia quisque appellare voluerit, inter dies quinque per libellos, id est data petitione, appellat, contestans, sed ad audientiam principis provocare». Sul punto, M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 507 nt. 16. In realtà, un confronto con un passo delle Pauli Sententiae (5.34.1) induce a pensare che vi sia stata una confusione con il termine fissato per la trasmissione delle litterae dimissoriae: «Ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, litterae dimissoriae diriguntur, quae vulgo apostoli appellantur: quorum postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est». 72 C. 7.62.6 pr.: Eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere conveniet, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat, cum salubritas legis constitutae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellations cognoscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit
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ius novorum, dell’introduzione di allegazioni omesse nel giudizio di primo grado, perché possa pienamente attuarsi nel processo la iustitia che costituisce, afferma l’imperatore, il votum del suo governo 73. Viene altresì considerata la facoltà delle parti di richiedere, anche post interpositam appellationem, nuove prove testimoniali che fossero state omesse in primo grado, con l’unica condizione che sia la parte richiedente a sopportare le spese di viaggio dei testimoni 74. Sebbene in modo generico, senza determinarne l’ammontare, viene pure sancita l’irrogazione di una mediocris poena per coloro che abbiano proposto temerariamente l’appello, ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur 75. Per tutti questi aspetti la costituzione dioclezianea resta, dunque, la base della legislazione in tema di appello 76. I successivi interventi imperiali conservati nelle raccolte ufficiali, oltre che regolare la procedura della consultatio (e di essi qui ci occupiamo solo nei limiti in cui i due istituti interferiscono tra loro), concernono, come già detto, soprattutto due aspetti del processo d’appello: la renitenza dei giudici minori, provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam. Sul contenuto W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 285 ss. 73 C. 7.62.6.1: Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur. Sul tema del ius novorum: N. SCAPINI, Il “ius novorum”, cit., 3 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 224 ss.; A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 89 (testo e nt. 48) e 104 nt. 125. 74 C. 7.62.6.2: Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimabit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit. Cfr. N. SCAPINI, Il “ius novorum”, cit., 40 ss.; A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 89 (testo e nt. 48) e 104 nt. 125. 75 C. 7.62.6.4: Ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur, arbitramur eum, qui malam litem fuerit persecutus, mediocriter poenam a competenti iudice sustinere. Sul tema W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 294; A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 81 (testo e nt. 18). 76 Sulla disciplina dell’appello nel Codice Ermogeniano e sulla diversa collocazione dei titoli nei Codici Ermogeniano e Giustinianeo cfr. A. CENDERELLI, Ricerche, cit., 121 s.; G. SCHERILLO, Teodosiano, Gregoriano, Ermogeniano, in Studi Ratti, Milano 1934, 303 ss. (ora in Scritti Giuridici, I, Milano 1992, 263 ss.). In generale, sui rapporti tra i codici di età dioclezianea ed il Codice di Giustiniano, cfr. anche M. AMELOTTI, Per l’interpretazione, cit., 9 ss.; G. ROTONDI, Studi sulle fonti del Codice Giustinianeo, in Scritti giuridici, I, Milano 1922, 211 ss.
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a carico dei quali venivano previste severe sanzioni 77, nonché la disciplina delle ipotesi di inappellabilità 78. Su questo duplice piano comincia a muoversi già Costantino con una costituzione del 314 (C.Th. 11.30.2) che denuncia una situazione veramente paradossale: l’appellante, una volta presentati i libelli appellatorii in civili negotio, veniva addirittura sottoposto ad ogni sorta di soprusi, aut carceris cruciatus aut cuiuslibet iniuriae genus seu tormenta vel etiam contumelias. Ed è contro questi eccessi che l’imperatore interviene, dichiarandone l’illiceità ed affermando che gli appelli vanno ricevuti, con l’avvertenza che non si tratti di appelli a praeiudicio aut etiam ante causam examinatam et determinatam sed universo negotio peremptoria praescribtione finito 79. Vengono così fissati due criteri fondamentali, che rimarranno alla base della legislazione successiva: la piena liceità dell’appello, ma l’esclusione di esso contro i praeiudicia e le sentenze non definitive. Il testo del provvedimento riportato nel Codice Teodosiano e riprodotto, con lievi aggiunte sulle quali non è il caso di soffermarsi, anche nel Codice 77 Si tratta delle costituzioni contenute nel titolo C.Th. 11.30 De appellationibus et poenis earum et consultationibus = C. 7.62 De appellationibus et consultationibus. Sulla renitenza dei giudici minori ad accogliere ed inoltrare un atto di appello, cfr. M. SARGENTI, Aspetti e problemi, cit., 223 ss.; cfr. inoltre: N. SCAPINI, Principio del «doppio grado di giurisdizione» e inappellabilità di alcune sentenze nel diritto giustinianeo, in Studi Sanfilippo, V, Milano 1984, 682 ss.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 47 ss. 78 Si tratta delle costituzioni contenute nel titolo C.Th. 11.36 = C. 7.65 Quorum appellationes non recipiantur. Sul problema, cfr. anche N. SCAPINI, Principio del «doppio grado di giurisdizione», cit., 684 ss. Sull’ipotesi particolare dell’inappellabilità delle sentenze rese dal prefetto del pretorio cfr. M. BALESTRI FUMAGALLI, Il divieto di appello contro le sentenze dei prefetti del pretorio (C.Th. 11.30.16), in Atti del II seminario Romanistico Gardesano, Milano 1980, 213 ss. e la bibliografia citata. 79 C.Th. 11.30.2: Imp. Constantinvs A. ad Catvllinvm. Post alia: minime fas est, ut in civili negotio libellis appellatoriis oblatis aut carceris cruciatus aut cuiuslibet iniuriae genus seu tormenta vel etiam contumelias perferat appellator, absque his criminalibus causis, in quibus, etiamsi possunt provocare rei, eum tamen statum debent obtinere, ut post provocationem in custodia perseverent. Ea custodita moderatione, ut eorum provocationes recipiantur, qui easdem non a praeiudicio interposuisse noscantur aut etiam ante causam examinatam et determinatam, sed universo negotio peremptoria praescribtione finito vel per cuncta membra decurso contra iudicem interpositae esse noscantur. Et cetera. Dat. III non. Nov. Trev(iris), acc. XV kal. Mai. Hadrvmeto Volvsiano et Anniano Conss. Sul contenuto, GOTOFREDO, ad h.l.; M. SARGENTI, Aspetti e problemi, cit., 224. In generale, sulle misure processuali introdotte da Costantino, cfr. F. DE MARINI AVONZO, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero. I principi generali del processo in un editto di Costantino, in Studi Urbinati, 31, 1962-1963, 293 ss. (ora in Synteleia Arangio Ruiz, II, Napoli 1964, 1037 ss.); EAD., La giustizia nelle province, cit., 171 ss.; C. DUPONT, La procédure civile dans les constitutions de Constantin. Traits caracteristiques, in RIDA, 21, 1974, 191 ss.
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Giustinianeo 80, è indirizzato a Catullino 81, all’epoca governatore della Bizacena, ed è stato ricevuto ad Adrumeto. Ciò non significa, peraltro, che le norme in esso contenute, che andavano al di là della parte a noi tramandata 82, come è provato dal post alia e dall’et cetera che aprono e chiudono il testo, si riferiscano solo alla provincia africana. Trattandosi di principi generali, è presumibile che essi fossero enunciati per tutti i territori dell’Impero, quelli all’epoca governati da Costantino, e che i compilatori del Teodosiano abbiano utilizzato un testo rinvenuto negli archivi africani, che non indicava la data ed il luogo di 80 C. 7.62.12: Imp. Constantinvs A. ad Catullinvm. Minime fas est, ut in civili negotio libellis appellatoriis oblatis aut carceris cruciatus aut cuiuslibet iniuriae genus seu tormenta vel etiam contumelias perferat appellator, absque his criminalibus causis, in quibus, etiamsi possunt provocare, eum tamen statum debent obtinere, ut post provocationem in custodia, si fideiussoris idonei copiam non habeant, perseverent. D. III non. Nov. Treviris. Acc. XV k. Mai. Hadrvmeto Volvsiano et Anniano Conss. 81 A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, The Prosopography of the Later Roman Empire (260-395), I, Cambridge 1975, 187, Aco Catullinus, 2. 82 Al frammento in esame vanno, infatti, unite la c. 1 C.Th. 9.40: Imp. Constantinvs A. ad Catvllinvm. Qui sententiam laturus est, temperamentum hoc teneat, ut non prius capitalem in quempiam promat severamque sententiam, quam in adulterii vel homicidii vel maleficii crimen aut sua confessione aut certe omnium, qui tormentis vel interrogationibus fuerint dediti, in unum conspirantem concordantemque rei finem convictus sit et sic in obiecto flagitio deprehensus, ut vix etiam ipse ea quae commiserit negare sufficiat. Dat. III non. Nov. Trev(iris), acc. XV kal. Mai. Hadrvmet(o) Volvsiano et Anniano Conss., nonché la c. 1 C.Th. 11, 36: Imp. Constantinvs A. ad Catvllinvm. Moratorias dilationes frustratoriasque non tam appellationes quam ludificationes admitti non convenit. Nam sicut bene appellantibus negari auxilium non oportet, ita his, contra quos merito iudicatum est, inaniter provocantibus differri bene gesta non decet. Unde non homicidam vel adulterum vel maleficum vel veneficum, quae atrocissima facinora sunt, confessio propria vel dilucida et probatissima veritatis quaestio probationibus atque argumentis detexerit, provocationes suscipi non oportet, quas constat non refutandi spem habere quae gesta sunt, sed ea potius differre temptare. Qui de variis litibus causisque dissentiunt, nec temere nec ab articulis praeiudiciisque nec ab his, quae iuste iudicata sunt, provocare debebunt. Quod si reus in homicidii vel maleficii vel adulterii vel veneficii crimine partem: pro defensione sui ex testibus quaestioneque proposita possit arripere, parte vero obrui accusarique videatur, tunc super interposita appellatione ab eodem, qui sibi magis, quae pro se faciant, testimonia prodesse debere adfirmat, quam ea, quae adversus ipsum egerint, nocere, deliberationi nostrae plenum arbitrium relinquatur. Dat. IIII non. Nov. Trev(iris); acc. XV kal Mai. Hadrvmeti Volvsiano et Anniano Conss. Su tale problema, GOTOFREDO, ad C.Th. 11.30.2: «Jungenda autem ei lex 1 sup. de poenis et lex 1 inf. quorum appel. non recip.». Sul contenuto del provvedimento, cfr. J. GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, cit., 69 ss. (che parla di «edictum generale»); A. PIGANIOL, L’empereur Constantin, Paris 1932, 107 s.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 41 ss. Su C.Th. 11.40.1 v., in particolare, C. DUPONT, Le droit criminel dans les constitutions de Constantin. Les Peines, Lille 1955, 25 ss. Per la datazione, cfr. O. SEECK, Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919 (rist. 1984), 57 e 161; TH. MOMMSEN, Theodosiani libri XVI cum constitutionibus Sirmondianis. Prolegomena, Berolini 1905 (rist. 1970), CCX; C. PHARR, The Theodosian Code and Novels and the Sirmondian Constitutions, Princeton 1952, ad h.l.
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pubblicazione, ma solo quello in cui era stato acceptum 83. Non si può escludere, tuttavia, che il fenomeno della renitenza dei giudici ad accettare gli appelli contro le proprie sentenze fosse particolarmente accentuato in Africa e che gli eccessi denunciati nel provvedimento del 314 si fossero verificati proprio in quella provincia. Un indizio in questo senso è offerto dalla successiva costituzione 15 h.t. dello stesso Costantino 84, indirizzata al concilium provinciae Africae e di cui i compilatori teodosiani hanno pure utilizzato un esemplare pubblicato a Cartagine il 29 luglio 329. Anche in questo provvedimento si ribadisce che non recte iudices iniuriam sibi fieri existimant, si litigator a principali causa provocaverit e si prescrive ne appellatores vel in carcerem redigant vel a militibus faciant custodiri, mostrando che la situazione non era molto migliorata rispetto a quella di quindici anni prima. Né doveva essersi molto modificata in seguito, se nel 343 Costanzo e Costante dovevano ancora intervenire ammonendo i governatori provinciali, naturali giudici di primo grado, ut ... iuxta morem ordinemque legum accipiant libellos ... nec appellantes iniuriarum adflictatione deterritos a suffragio necessariae defensionis expellant. A questo punto, la reazione normativa si faceva più rigorosa: non bastando più gli ammonimenti, gli imperatori stabilivano una multa di dieci libbre d’oro per il giudice qui suscipere neglexerit e di quindici libbre per il suo officium 85. Neppure questa misura dovette dimostrarsi sufficiente, visto che di nuovo nel 355 Costanzo, rimasto ormai solo alla testa dell’Impero dopo l’uccisione del fratello, ripetendo che iudices ordinarii provocationes aestimant respuendas, elevava la multa a trenta libbre d’oro sia per il giudice sia per il suo officium 86. 83
Sul valore e sull’efficacia normativa delle costituzioni imperiali nella seconda metà del IV secolo, si vedano le puntuali osservazioni del Cenderelli nella recensione al mio lavoro La legislazione di Valentiniano e Valente, in AG, 213, Milano 1993, 457 ss. 84 C.Th. 11.30.15: Imp. Constantinvs A. ad Concilivm provinciae Afric(ae). Non recte iudices iniuriam sibi fieri existimant, si litigator, cuius negotium sententia vulneratum est, a principali causa provocaverit, quod neque novum neque alienum a iudiciis est. Ideoque post negotium principale discussum litigatori liceat litem iuris remedio sublevare, et iudices observare debebunt, ne appellatores vel in carcerem redigant vel a militibus faciant custodiri. P(ro)p(osita) IIII kal. Avg. Karthag(ine) Constantino A. VIII et Constantino C. IIII Conss. Cfr. GOTOFREDO, ad h.l.; M. SARGENTI, Aspetti e problemi, cit., 224; J. GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, cit., 89 ss.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 55 ss. 85 C.Th. 11.30.22: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Scylacivm. Omnes praesides moneantur, ut, si quis provocatione sibi opus esse cognoscit., iuxta morem ordinemque legum accipiant libellos et ad eos qui consuerunt audire transmittant, nec appellantes iniuriarum adflictatione deterritos a suffragio necessariae defensionis expellant. Inponimus enim praesentis multae fascem, ut iudex, qui suscipere neglexerit, auri libras X et officium eius quindecim pendat. P(ro)p(osita) Cyzico VI kal. Mart. Placido et Romvlo Conss. Cfr. M. SARGENTI, Aspetti e problemi, cit., 224. 86 C.Th. 11.30.25: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Lollianvm p(raefectvm) p(raetori)o.
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Dieci anni più tardi, Valentiniano e Valente dovevano ritornare sul tema 87. Il Codice Teodosiano conserva due loro costituzioni in materia: la c. 32 e la c. 33 h.t., la prima delle quali, indirizzata all’ordo civitatis Karthaginis, sarebbe stata emanata a Milano il 4 febbraio 364 88; la seconda, indirizzata al vicarius Africae Draconzio il 12 settembre 364, ad Aquileia 89. Come ho avuto modo di mettere in luce nella ricostruzione dell’attività normativa dei due imperatori 90, la data attribuita alla prima costituzione è siQuoniam iudices ordinarii provocationes aestimant respuendas, placet, ut, si quis appellationem suscipere recusaverit, quae non ab exsecutione vel a praeiudicio, sed a sententia iurgium terminante fuerit interposita, XXX pondo auri cogatur fisco inferre, triginta alias libras auri officio eius itidem soluturo. Dat. VIII kal Aug. Messadensi; p(ro)p(osita) Capvae Arbitione et Lolliano Conss. Sul contenuto: GOTOFREDO, ad h.l.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 60. Sul significato di officium, cfr. G. CERVENCA, Il processo privato romano. Le fonti, Bologna 1983, 231 nt. 87, per il quale il termine «è qui adoperato nel significato di “staff”, indica cioè il personale posto alle dipendenze del magistrato». 87 A.H.M. JONES, The Later Roman Empire (284-602), I, Oxford 1964 (trad. it. Milano, 1974), 698. 88 C.Th. 11.30.32: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. salvtem dicvnt ordini civitatis Karthaginis. Iudicibus non solum appellationis suscipiendae necessitas videtur inposita, verum etiam triginta dierum spatia definita sunt, intra quae negotii merita ad mansuetudinis nostrae scrinia conveniat destinari, iudice et officio, si statuta fuerint aliqua parte mutilata, multae subiacente. Dat. prid. non. Feb. Med(iolano) divo Ioviano et Varroniano Conss. 89 C.Th. 11.30.33: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. AD Dracontivm vic(arivm) Afric(ae). Quicumque iudicum adversus auctoritatem legis appellationes neglexerit, protinus officio tuo, non rationalis, imminente ad viginti librarum auri exsolvendam multam cogetur, ita ut et officium eius triginta simili celeritate dissolvat. Dat. prid. id. Sept. Aquil(eiae); acc(epta) XVIII kal. Dec. Tacapis divo Ioviano et Varroniano Conss. 90 La inscriptio della costituzione, infatti, reca i nomi di Valentiniano e Valente, ma la data indicata nella subscriptio – 4 febbraio 364 – è incompatibile con l’attribuzione ai due Augusti, poiché anteriore alla loro elevazione alla porpora imperiale, avvenuta il 26 febbraio (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.1.5) per il primo ed il 28 marzo (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.3) per il secondo. Se la data fosse esatta, la costituzione risulterebbe emanata da Gioviano, morto il 16 febbraio 364. Una simile attribuzione, però, non è priva di difficoltà, non foss’altro che per il riferimento a Milano, località dove mai Gioviano si trattenne nel corso del suo breve regno e dove in quel momento non si trovava, del resto, alcun imperatore (cfr. TH. MOMMSEN, ad h.l.; C. PHARR, ad h.l.). Anche per queste ragioni, sia il Gotofredo (ad h.l.) che il Seeck (Regesten, cit., 220) hanno ritenuto opportuno uno spostamento della datazione, conservando così l’attribuzione ai due imperatori indicati nella inscriptio: il primo proponeva di modificare la subscriptio da PRID. NON. FEB. in PRID. NON. NOVEMBR., sciogliendo la sigla MED. non in Mediolanum bensì in Mediana – sobborgo di Naisso dove Valentiniano e Valente avevano fissato le loro comitivae (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.1) nell’estate 364 – e che, riteneva il Gotofredo, etiam Valenti ad orbem suum redeunti Constantinopolim (transitum) praebuit. Il Seeck, dal canto suo, posticipava il testo al febbraio 365, ipotizzando che nella subscriptio la data fosse stata indicata con il post-consolato dell’anno precedente, che i compilatori del Codice Teodosiano avrebbero poi sostituito, volutamente o per errore, con il corrispondente consolato (O. SEECK, Regesten, cit., 70).
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curamente errata, dato che nel febbraio 364 né Valentiniano né Valente erano ancora al potere e nessuno di essi poteva trovarsi a Milano. La costituzione va riportata, pertanto, al febbraio 365, quando Valentiniano aveva raggiunto effettivamente Milano, ed è, quindi, successiva a quella del 12 settembre 364, emanata da Valentiniano ad Aquileia, dove si trovava durante il viaggio dall’Oriente all’Italia, dai compilatori teodosiani erroneamente posposta all’altra 91. Conviene soffermarsi brevemente sulle due costituzioni per chiarirne la portata ed i rapporti. Preliminarmente deve essere evidenziata la destinazione dei due testi, indirizzati entrambi – come i precedenti interventi di Costantino – al territorio africano, a conferma che il fenomeno della renitenza dei giudici minori nell’accogliere o nell’inoltrare il gravame avverso una loro sentenza doveva essere, in quei territori, particolarmente accentuato. Prova ne sia la capillare diffusione dei provvedimenti imperiali, come risulta dalla località in cui la c. 33 sarebbe stata accepta: Tacapis, l’odierna Gabes, città periferica situata nella zona meridionale della diocesi. Ma il contenuto del provvedimento induce a qualche ulteriore riflessione: la c. 33, infatti, prevede che il giudice a quo, che adversus auctoritatem legis appellationes neglexerit, fosse punito con una multa di venti libbre d’oro, mentre al suo ufficio dovesse essere irrogata la più grave sanzione di trenta libbre (come già fissata nella precedente c. 25 h.t. di Costanzo), da destinare non più alla cassa del rationalis ma all’ufficio del vicarius Africae 92. Oltre a considerazioni generali sulla politica legislativa di Gioviano (cfr. F. PERGAMI, Rilievi sulla produzione normativa dell’imperatore Gioviano, in Testimonium amicitiae, Milano 1992, 257 ss.), ragioni paleografiche e storiche inducono a privilegiare l’ipotesi avanzata dal Seeck: è infatti discutibile, e comunque non suscettibile di alcun riscontro, che alla radice dell’errore di datazione sia un Novembr. quod in pridie non. febr. facile migravit. È ancora più discutibile che la costituzione possa essere stata emanata, nel novembre 364, da Valente nel sobborgo di Naisso. In quella località, secondo Ammiano Marcellino, Valentiniano e Valente si trovarono insieme nel giugno di quell’anno, durante il viaggio da Costantinopoli verso l’Occidente, e nel sobborgo di Mediana si trovavano i loro comites. Ma non è per nulla sicuro che quel luogo figurasse nelle costituzioni emanate a Naisso e, tanto meno, è provato che Valente vi si trovasse di nuovo, nel novembre: esistono, anzi, indizi contrari, poiché da Sozomeno (Hist. Eccl. 6.7.8) risulta la presenza dell’imperatore ad Eraclea proprio nell’autunno 364. Su detti problemi e sulla necessità di unire a tale frammento la c. 15 C.Th. 11, 36, cfr. GOTOFREDO, ad h.l.: «Est vero huic conjungenda lex 15 inf. quorum appell. non recip.»; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 61 ss. Sull’intero problema vedi F. PERGAMI, La legislazione, cit., 156 s. 91 La costituzione 33, a differenza della precedente c. 32 h.t., non presenta problemi di datazione, anzi è una delle poche la cui subscriptio conserva entrambe le date e le località, di emanazione ad Aquileia e di ricezione in Africa. 92 La circostanza è sottolineata da GOTOFREDO, ad h.l.: «Secundo h.l. notandum quod Valentinianus poenam exigi jubeat, non ab Officio Rationalis, ut antea sub Constantino M. leg. 8 supr.
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Tale disposizione, che ribadisce uno dei principi fondamentali del processo d’appello nel Basso Impero, consente, da un lato, di escludere che la costituzione avesse esclusivamente tale destinazione particolare e di ipotizzare, dall’altro, che essa, verosimilmente emanata in più esemplari, fosse stata diramata in tutta la provincia d’Africa. Valore e contenuto diverso assume, invece, la c. 32, riportata in forma di missiva all’ordo civitatis Karhaginis. Essa è priva di un autonomo valore normativo e, sebbene inviti genericamente i giudici di primo grado ad accogliere i reclami contro le proprie sentenze (Iudicibus ... appellationis suscipiendae necessitas inposita), tratta, in sostanza, delle regole procedurali e dei termini entro i quali i giudici minori, ricevuto l’appello da parte del soccombente, erano tenuti a predisporre ed a consegnare, ad mansuetudinis nostrae scrinia e nel termine di trenta giorni 93, tutto quanto riguardasse gli estremi della controversia (merita negotii), pena la sottoposizione ad una sanzione pecuniaria – qui non specificata nel suo ammontare – da irrogare nei confronti sia del giudice che dell’ufficio (iudice et officio, si statuta fuerint aliqua parte mutilata, multae subiacente). Sebbene il testo intenda esporre l’esistenza di un indirizzo normativo, richiamando espressamente gli statuta in materia, non si rinvengono nel codice precedenti interventi di Valentiniano e Valente, mentre qualche notizia in merito può rintracciarsi nelle cc. 1 94 e 8 95 di Costantino e nelle cc. verum ab Officio Vicarii sub cujus dispositione erant judices: et sic ab illius judicis Officio, ad quem judex factam appellatione respuit: sane enim a Rectoribus ad Vicarios appellatum, qui et ideo vice sacra judicabant». 93 Una prescrizione più generica era prevista dall’editto di Diocleziano del 294, per cui il giudice era tenuto a trasmettere gli atti e la relazione al giudice superiore «sine aliqua dilatione» (C. 7.62.6.6). Cfr. M. BIANCHINI, Le formalità costitutive, cit., 133 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 183 ss. 94 C.Th. 11.30.1: Imp. Constantinvs A. ad Clavdivm Plotianvm correctorem Lvcaniae et Brittior(vm). Si in negotio civili cognitis utrisque actionibus pronuntiaveris te ad nostram scientiam relaturum, consultationis exemplum litigatoribus intra decem dies edi aput acta iubeas, ut, si cui forte relatio tua minus plena vel contraria videatur, is refutatorias preces similiter, tibi aput acta offerat intra dies quinque, quam illi exemplum consultationis tuae obtuleris. Iam dicationis tuae est omnia, quae aput te vel aput alios gesta fuerint in eo negotio, consultationi tuae cum refutatoriis litigantis adnectere, ita ut scias et decem dies, intra quos edi consultationem oportet, et quinque, intra quos preces refutatoriae offerendae sunt, continuos debere servari. Nam quinque diebus transactis nec offerentem preces refutatorias litigatorem debebis audire, sed sine his, quoniam intra statutum tempos oblatae non sunt, gesta omnia ad nostram referre scientiam. Et cetera. Dat. III kal. Ian. Trev(iris) Constantino A. III et Licinio III Conss. 95 C.Th. 11.30.8: Imp. Constantinvs A. ad Bassvm P(raefectvm) V(rbi). Manente lege, qua praescribtum est, intra quot dies opinionis sive relationis exemplum privatis iudex debeat exhibere
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29 96 e 30 97 di Giuliano, che fissano – rispettivamente – in 10 o 20 giorni ed in 30 giorni i termini per la consegna del materiale processuale al tribunale superiore. Di tali formalità si occupa anche un’altra costituzione, la 35 h.t., destinata al prefetto del pretorio d’Oriente Modesto 98. A tacere dell’importanza del provvedimento, che dimostra, una volta ancora, la ricezione in Oriente di un indirizzo normativo elaborato nella cancelleria occidentale, esso, utilizzando una terminologia analoga a quella della c. 24 C. 7.62, specifica in modo analitico il contenuto del materiale (gesta) da trasmetet refutatorii libelli intra quot dies rursum iudicibus offerendi sint, tam in privatis quam etiam in fiscalibus causis ex eo die, quo fuerit quaestio terminata vel ex quo relationem iudex per sententiam promiserit, intra vicensimum diem quaecumque ad instructionem pertinent causae, ad comitatum nostrum properantissime volumus adferri. Quod nisi factum fuerit, ab universo officio viginti transactis diebus, quos post latam sententiam placuit supputari, intra viginti alios dies qui sequuntur tantum fisco nostro praecipimus inferri, quanti per aestimationem rationalis emolumentum litis, cuius subpressa fuerat instructio, fidelissime potuerit aestimari. Cui capitale supplicium imminebit, si rigorem legis quocumque modo mollire temptaverit. Eadem poena officio imminente, si quando appellatione vel consultatione pendente vel post decisas nostris responsionibus causas ei, quod ullo modo fuerit impetratum, damnabilem voluerit coniventiam commodare. Nam decreta nostra debet ingerere iudicanti ut ipso etiam dissimulante iudice reluctari et tamquam manibus iniectis eos de iudicio producere ac rationum officio traditos statuti prioris nexibus obligare, quorum desideriis violari nostras prospexerit sanctiones. P(ro)p(osita) IIII Kal. April. Rom(ae) Constantino A. V et Licinio C. Conss. 96 C.Th. 11.30.29: Imp. Ivlianvs A. ad Hymetivm Vic(arivm) Urb(is). Omnes legitimae appellationes, quaecumque fuerint contra audientiam tuae gravitatis interpositae, indubitanter suscipiantur et post latam sententiam intra triginta dies universa, quae in eiusmodi negotio geruntur, cum refutatoriis precibus seu libellis ad nostrum comitatum mittantur, strenuo videlicet officiali ex his, qui tibi parent, ad hanc sollicitudinem electo, ita ut publicis monumentis confectis dies, quo gerulis gesta tradantur, fideliter designetur. Nam X librarum auri multae constituetur officium obnoxium, si statuta nostra aliqua fuerint dissimulatione violata. Dat. X kal. Octob. Antiochiae Mamertino et Nevitta Conss. 97 C.Th. 11.30.30: Imp. Ivlianvs A. ad Germanianvm P(raefectvm) P(raetori)o. His, qui tempore competenti non appellant, redintegrandae audientiae facultas denegetur. Omnes igitur, qui contra praefectos urbi seu proconsules seu comites Orientis seu vicarios sub specie formidinis provocationem non arbitrantur interponendam, a renovanda lite pellantur. Nobis enim moderantibus rem publicam nullum audebit iudex provocationis perfugium iurgantibus denegare. Qui vero vim sustinuerint, contestatione publice proposita intra dies videlicet legitimos, quibus appellare licet, causas appellationis evidenti adfirmatione distinguant, ut hoc facto tamquam interposita appellatione isdem aequitatis adminicula tribuantur. Emissa XV kal. Ian. Mamertino et Nevitta Conss. 98 C.Th. 11.30.35: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Modestvm P(raefectvm) P(raetori)o. Cuncta instrumenta, quae iudiciis offerentur, subiecta consultationi gesta continere debebunt. Sed et acta, quae sint ante habita, et monumenta transmittenda sunt, hisque adnectenda sunt testimonia vel confessiones partium et omnia huiusmodi, in quibus causa consistit et habere exitum videatur. Dat. kal. Avg. Marcianop(oli) Val(entini)ano et Valente AA. Conss. Una dettagliata disamina di tali formalità nel commento di GOTOFREDO, ad h.l.
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tere alla delibazione del giudice superiore, che deve comprendere tutti i documenti e gli atti processuali (instrumenta et acta) già sottoposti all’indagine del giudice minore, comprese le risultanze dell’attività istruttoria esperita, quali le dichiarazioni dei testimoni e le confessioni delle parti (testimonia vel confessiones partium) 99. Poiché il provvedimento si riferisce espressamente alla consultatio, si ha la prova testuale che, per molti aspetti, il complesso delle regole di trasmissione degli atti dal giudice minore a quello superiore, sia esso il naturale giudice ad quem o direttamente l’imperatore, abbia comune efficacia sia per l’appellatio che per la consultatio, rimedi spesso trattati unitariamente nelle costituzioni imperiali 100. La circostanza, del resto, sembra armonizzare sia con gli intendimenti dei compilatori che, sensibili al principio del doppio grado di giurisdizione, hanno raccolto sotto un unico titolo la disciplina dell’appellatio e quella della consultatio, sia con criteri di logica e di economia processuale che consigliavano, in entrambe le ipotesi ed al fine di garantire un’equa e corretta delibazione, di porre il giudice ad quem nella condizione di conoscere puntualmente gli estremi della controversia già istruita in primo grado ed ora sottoposta al suo esame. Anche gli imperatori successivi a Valentiniano e Valente furono costretti ad affrontare il grave problema della renitenza dei giudici minori ad accogliere gli appelli contro le proprie sentenze. 99 Il Seeck (Regesten, cit., 71) colloca questa costituzione nel 369, considerando che nessuno dei due consolati imperiali compatibili con la prefettura del pretorio di Modesto, il 370 ed il 373, si concilia con la località di Marcianopoli, dove Valente soggiornò durante le campagne contro i Goti (367-69), ma che lasciò per Costantinopoli al principio del 370 (l’anno 373 in particolare è escluso da C. PHARR, ad h.l., il quale precisa appunto che «373 is excluded by the fact that this constitution was issued at Marcianopolis»). La data sarebbe stata, dunque, indicata con il post-consolato del 368, il secondo dei due imperatori. Questa ipotesi, a parte che è poco verosimile la datazione con il postconsolato in epoca così avanzata, non tiene conto del fatto che C.Th. 10.23.1, datata con l’indictio XII e indirizzata al predecessore di Modesto, Auxonio, mostra che questi era ancora in carica dopo l’1 settembre 369; e non è escluso che lo fosse anche più tardi, come appare da C.Th. 5.1.2, del 29 dicembre 369. Più probabile è, dunque, che la costituzione sia, in realtà, dell’agosto 370 (questa è la prima ipotesi avanzata da C. PHARR, ad h.l.). Nell’agosto di quell’anno Valente non era, è vero, a Marcianopoli, ma a Ierapoli. Ma non è detto che la data conservata nella subscriptio sia quella dell’emanazione e non quella della pubblicazione. Anzi, il contenuto della costituzione, di portata generale, attinente, com’è, alla disciplina degli atti processuali, induce a ritenere che, come in tanti altri casi, i compilatori teodosiani abbiano utilizzato un esemplare diretto al prefetto del pretorio d’Oriente e pubblicato nel territorio di sua giurisdizione, ma che si riferiva a tutto l’Impero. 100 Sul punto, per tutti, R. ORESTANO, Appello, in ED, cit., 710 s., secondo il quale la consultatio «si diffuse enormemente e moltissime costituzioni dell’età post-classica ne trattano promiscuamente all’appello, stabilendo per vari aspetti una regolamentazione comune, tanto che non sempre è facile stabilire ciò che riguarda l’una o l’altro». Su questo problema, anche G. BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I, cit., 169 ss.
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Già nel 380, Graziano, in un breve frammento 101 indirizzato al prefetto del pretorio Siagrio 102, ribadiva l’ammissibilità dell’appello contro ogni sentenza di condanna, diversamente dalla corrispondente versione giustinianea (C. 7.62.25), che circoscriveva la fattispecie a quelle che irrogavano una multa 103. Analogo contenuto riveste la successiva c. 51 h.t. di Teodosio, Arcadio ed Onorio del 393 104: essa è indirizzata ad Apodemio, prefetto del pretorio dell’Illirico, e risulta emanata a Costantinopoli. Anche in questa ipotesi, i dati ricavabili dalla lettura della inscriptio, che reca un destinatario occidentale, e della subscriptio, che indica nella capitale d’Oriente la località di emanazione della costituzione, sono incompatibili. Due appaiono le possibili soluzioni: Costantinopoli deve intendersi quale località di pubblicazione, ipotizzandosi un errore nella subscriptio tra l’indicazione della sigla di emanazione (dat.) e quella di pubblicazione (pp.); oppure deve ritenersi esatta la provenienza del testo, emesso in Oriente, che – per l’importanza del suo contenuto – deve essere stato diramato a tutti i prefetti del pretorio, compreso quello dell’Illirico, la cui versione i compilatori avrebbero casualmente conservato nel Codice. È questa l’ipotesi più probabile, data la ben nota prevalenza nel governo di Teodosio sui suoi due figli. Il testo, che conferma i rapporti tra le due partes Imperii a livello normativo, sancisce, fra l’altro, un inasprimento delle sanzioni, ora fissate in trenta libbre d’oro per il giudice e in cinquanta libbre d’oro per l’ufficio che avessero rifiutato l’accoglimento e l’inoltro di un atto di appello. La gravità della situazione e l’inosservanza delle precedenti misure indussero anche Arcadio ed Onorio ad intervenire sul tema: la c. 60 h.t. 105, indirizzata 101 C.Th. 11.30.38: Imppp. Gr(ati)anvs, Val(entini)anvs et Theod(osivs) AAA. ad Syagrivm P(raefectvm) P(raetori)o. Post alia: In condemnationibus appellationes iubemus admitti. Dat. XIIII kal. Ivl. Gr(ati)ano V et Theod(osio) I AA. Conss. 102 A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit., 862, Flavius Syagrius, 3. 103 C. 7.62.25: Imppp. Gratianvs, Valentinianvs et Theodosivs AAA. ad Syagrivm PP. et in multis ab iudicibus inferendis appellationes iubemus admitti. D. XIIII k. Iul. Gratiano V et Theodosio AA. Conss. 104 C.Th. 11.30.51: Idem AAA. Apodemio p(raefecto) p(raetori)o Illyrici et Ital(iae) II. Quibus causis non est provocatio respuenda, iubemus respuentem iudicem XXX librarum auri, obsecundantem officii gratiam quinquaginta esse feriendam. Dat. V id. Ivn. Constantinop(oli) Theod(osio) A. III et Abundantio Conss. L’Idem AAA. dell’inscriptio farebbe riferire la costituzione, tenendo conto della successione dei testi nel Teodosiano, a Valentiniano, Teodosio ed Arcadio. Ma è evidente l’errore, in quanto Valentiniano era già morto ed il collegio imperiale era ormai formato da Teodosio, Arcadio ed Onorio. Sul contenuto e, in particolare, sull’entità della sanzione, cfr. GOTOFREDO, ad h.l.: «Respuenti appellantem judici ejusque officio multa gravissima hac Theodosii M. constitutione imponitur». 105 C.Th. 11.30.60: Impp. Arcad(ivs) et Honor(ivs) AA. Pompeiano Proc(onsvli) Afric(ae).
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al proconsole d’Africa Pompeiano, ribadisce, infatti, i principi e l’autorità delle precedenti disposizioni (statuta veterum) sia in ordine alla generale ammissibilità di un gravame ab iniusta sententia, sia in ordine all’irrogazione di una pena – per il giudice e per l’ufficio – in caso di loro violazione.
10. L’altro settore rispetto al quale i legislatori postclassici si mostrarono particolarmente sensibili – sia per alleggerire il lavoro dei magistrati superiori, sia per evitare le eccessive lungaggini del procedimento causate dalla proposizione di appelli a scopo dilatorio 106 – fu, come si è detto, quello della disciplina minuziosa delle varie ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado. L’editto dioclezianeo, come s’è visto, sancisce solo incidentalmente il principio del divieto di appello a proposito delle sentenze non definitive (post sententiam dictam appellare conveniet), trattando dei giudizi capitali (in capitalibus causis), in ordine ai quali, interposto gravame, la custodia del reo era mantenuta solo per inopia idonei fideiussoris 107. La mancanza di una compiuta disciplina di tale importante settore del processo nella costituzione di Diocleziano del 294 contrasta con il ricco materiale normativo contenuto nel Codice Teodosiano, che all’argomento dedica infatti un apposito titolo, l’11.36, Quorum appellationes non recipiantur. Già nella costituzione di apertura, Costantino ribadisce il principio, affermato nella c. 1 C.Th. 11.36 dell’inappellabilità a praeiudicio e ab articulis 108. Cum de appellationibus recipiendis necne promulgatarum legum sufficiat auctoritas atque his, qui rite ab iniusta sententia provocantes erudire noluissent, sit poena proposita, poena etiam officio constituta, sive in criminalibus sive in civilibus causis fuerit iudicatum, attamen nostro etiam motu decernimus, ut veterum statuta serventur, quae nullum patimur umquam inpune violare. Dat. kal. Ivn. Med(iolano) Stilichone et Avreliano Conss. GOTOFREDO, ad h.l.: «De recipiendis, vel non, appellationibus; quaenam inquam appellationes recipiendae sint, quae non item, de respuentium Justam appellationem Judicum poenis, anteriores leges hac Honorii constitutione per Africam Proconsularem confirmantur». 106 G.I. LUZZATTO, Recensione a R. Orestano, L’appello civile in diritto romano, in Iura, 4, 1953, 61. 107 C. 7.62.6.3: Super his vero, qui in capitalibus causis constituti appellaverint (quos tamen et ipsos vel qui pro his provocabunt non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam appellare conveniet), id observandum esse sancimus, ut inopia idonei fideiussoris retentis in custodia reis opiniones suas iudices exemplo appellatoribus edito ac refutatorios eorum ad scrinia quorum interest transmittant, quibus gestarum rerum fides manifesta relatione pandatur, ut meritis eorum consideratis pro fortuna singulorum sententia proferatur. Sul punto, A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 96 (testo e nt. 84); W. LITEWSKI, Die römische Appellation, IV, cit., 256 s.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 29 ss. 108 C.Th. 11.36.1: Imp. Constantinvs A. ad Catvllinvm. Moratorias dilationes frustatoriasque
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L’inosservanza di tali divieti comportava l’irrogazione, a carico dell’appellante, di una sanzione nella misura di trenta folli, fissata nelle successive costituzioni 2 e 3 dello stesso Costantino. La misura della pena non dovette rivelarsi idonea a scoraggiare la interposizione di appelli vietati se Costanzo, in una costituzione del 341 109, sentì l’esigenza di elevarla, almeno nell’ipotesi di appello a praeiudicio, a trenta libbre d’argento. Minuziosa e dettagliata risulta, in questo settore, la produzione normativa non tam appellationes quam ludificationes admitti non convenit. Nam sicut bene appellantibus negari auxilium non oportet, ita his, contra quos merito iudicatum est, inaniter provocantibus differri bene gesta non decet. Unde cum homicidam vel adulterum vel maleficum, quae atrocissima facinora sunt, confessio propria vel dilucida et probatissima veritatis quaestio probationibus atque argumentis detexerit, provocations suscipi non oportet, quas constat non refutandi spem habere quae gesta sunt, sed ea potius differre temptare. Qui de variis litibus causisque dissentiunt, nec temere nec ab articulis praeiudiciisque nec ab his, quae iuste iudicata sunt, provocare debebunt. Quod si reus in homicidii vel maleficii vel adulterii vel veneficii crimine partem pro defensione sui ex testibus quaestioneque proposita possit arripere, parte vero obrui accusarique videatur, tunc super interposita appellatione ab eodem, qui sibi magis, quae pro se faciant, testimonia prodesse debere adfirmat, quam ea, quae adversus ipsum egerint, nocere, deliberationi nostrae plenum arbitrium relinquatur. Dat. IIII non. Nov. Trev(iris); Acc. XV kal. Mai. Hadrvmeti Volvsiano et Anniano Conss. Sul significato di praeiudicium nella legislazione tardoimperiale cfr., per tutti, F. DE MARINI AVONZO, Praeiudicium, in NNDI, XIII, Torino 1966, 540 ss., in particolare 543 anche per la bibliografia precedente. Cfr. anche J. TRIANTAPHYLLOPOULOS, Praeiudicium, in Labeo, 8, 1962, 73 ss., in particolare 90 ss.; G. PUGLIESE, La “cognitio” e la formazione dei principi teorici sull’efficacia del giudicato, in Studi Biondi, II, Milano 1965, 141 ss.; ID., Giudicato civile (storia), in ED, XVIII, Milano 1969, 752 ss.; U. ZILLETTI, Studi sul processo civile giustinianeo, Milano 1965, 226 ss.; M. KASER, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 496 ss.; A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 47 s.; M. MOLÉ, Sentenza (Diritto romano), in NNDI, XVI, Torino 1969, 1097 ss.; G. BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I, cit., 206 ss.; F. DE ROBERTIS, Sull’accezione di “interlocutio” in CIL. VI.266 (“Lis fullonum”), in Studi Scherillo, I, Milano 1972, 165 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 244 nt. 48; C. HACKL, “Praeiudicium” im klassischen römischen Recht, Salzburg 1976, 27 nt. 1; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 44. Sul significato del divieto di appello ab articulo, cfr. anche GOTOFREDO, ad C.Th. 11.36.2 e 3; C. PHARR, ad C.Th. 11.36.3, parla di «appeal from a special point»; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 44 e 55, sebbene ritenga che i sostantivi articulus e praeiudicium siano «promiscuamente usati nelle costituzioni tardo-imperiali», specifica che, strictu sensu, «articulus significa decisione (istruttoria o di merito) su di un singolo punto della causa proposta». Sul contenuto delle costituzioni 2 e 3 C.Th. 11.36 cfr., per tutti, J. GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, cit., 75 ss.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 44 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 248 ss. 109 C.Th. 11.36.5: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Albinvm Vic(arivm) Hispaniar(vm). Cum maior substantia litigi sit, a praeiudicio provocans XXX librarum argenti pondere plectatur: in minoribus etiam negotiis quindecim pondo argenti exsolvat. Dat. VII id. April. Marcellino et Probino Conss. Sul contenuto cfr., da ultimo, U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 57 ss.
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di Valentiniano e Valente 110, rivolta, da un lato, ad ampliare i casi di inappel110 Cfr., sul punto, R. ANDREOTTI, Incoerenza della legislazione dell’imperatore Valentiniano I, in NRS, XV, 1931, 476 ss.: «ma dove Valentiniano introdusse una riforma sistematica, fu nella delicatissima materia dell’appello»; R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, Catania 1971, 210 s. Completano il quadro delle ipotesi di inammissibilità del gravame introdotte da Valentiniano e Valente il divieto per gli officiales di appellare contro le sentenze di condanna emesse dai loro giudici naturali (C.Th. 11.36.17: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Modestvm P(raefectvm) P(raetori)o. Nulli officialium a sententia proprii iudicis provocatio tribuatur nisi in eo tantum negotio, quod ratione civili, super patrimonio forsitan, aput proprium iudicem inchoarit, scilicet ut in eo tantum negotio a sententia eius cui paret iudici quisquis velit officialis appellet, quod per procuratorem persequi iure tribuitur Dat. IIII id. Ivn. Cyzico Valentiniano et Valente AA. Conss.); l’inappellabilità delle sentenze di condanna per i crimini confessati (C.Th. 11.36.18.3) e dei provvedimenti resi in forza della procedura per interdictum quorum bonorum, a motivo delle finalità cautelari e del carattere provvisorio di tale procedura (C.Th. 11.36.22: Impp. Val(entini)anvs, Valens et Gr(ati)anvs AAA. ad Clavdivm P(raefectvm) U(rbi). In interdicto quorum bonorum cessat licentia provocandi ne, quod beneficio celeritatis inventum est, subdatur iniuriis tarditatis. Dat. XII kal Ivn. Trev(iris) Gr(ati)ano A. III et Eqvitio Conss.). Su tale divieto, cfr. W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 299. Va tuttavia sottolineato che la rigida legislazione posta in essere dagli imperatori Valentiniano I e Valente nel periodo di comune governo non impedì la contestuale previsione, nell’ambito delle costituzioni già esaminate, di numerose eccezioni (M. LEMOSSE, A propos du régime des exceptions dans le procès postclassique, in Studi Sanfilippo, I, Milano 1982, 241 ss.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 65 s.), riconducibili a tre fattispecie generali [sulla genuinità di tali ipotesi cfr. O. GRADENWITZ, Weitere Interpolationen im Theodosianus, in ZSS, 38, 1917, 47]: A) casi di ammissibilità dell’appello ante definitivam sententiam (C.Th. 11.36.18). La c. 18 C.Th. 11.36 ammette, in casi determinati, la possibilità di impugnare una sentenza non definitiva. Si considerano, in particolare, le seguenti ipotesi: 1) la proposizione della domanda e la instaurazione della lite in foro non competente (si tamen in iudicio conpetenti negotio fuerit inchoatum); 2) la proposizione di una eccezione (exceptio obponitur); 3) la mancata possibilità di ottenere un locus ad agendum (ad agendum locus poscitur); 4) la mancata concessione di un rinvio (dilatio) al fine di produrre nuovi documenti (instrumenta) o per assumere prove testimoniali (testes) [sul valore meramente esemplificativo di tali mezzi istruttori, W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 260 nt. 100]. In tutti i casi, fatta salva l’ipotesi di incompetenza, il gravame è ammesso a condizione che il diniego da parte del giudice sia stato motivato da inpatientia vel iniquitas [su tale espressione cfr. A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 53 nt. 35]. B) Ammissibilità dell’appello ab exsecutione (C.Th. 11.36.18). Anche le pronunce passate in giudicato possono essere impugnate dal soccombente ove siano intervenuti vizi nella modalità di esecuzione della sentenza (si tamen exsecutoris vitio minime modus sententiae), fermo restando il valore definitivo del dispositivo, che non può essere soggetto a nuovo ed ulteriore sindacato da parte del giudice di seconda istanza [sul punto W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 239 e nt. 32]. C) Ammissibilità dell’appello contro le sentenze di condanna degli officiales (C.Th. 11.36.17). Analoga eccezione al principio generale di inappellabilità delle sentenze di condanna degli officiales si applica nelle ipotesi in cui esse scaturiscono da negozi che coinvolgono il patrimonio (nisi in eo tantum negotio, quod ratione civili super patrimonio forsitan aput proprium iudicem incoharit). Ogni officiale, dunque, anche a mezzo di un procuratore (quod per procuratorem persequi iure tribuitur), potrà appellare le sentenze che decidano in ordine a cause civili, rimanendo tassativamente escluso il principio del doppio grado di giurisdizione e, pertanto, la facoltà di impugnativa delle sentenze penali. Su tali eccezioni, in generale, cfr. W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 260 ss.; L. RAGGI, Studi sulle impugnazioni civili, cit., 168 s.
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labilità delle sentenze e, dall’altro, ad un ulteriore inasprimento delle sanzioni. Fra i vari interventi legislativi, particolarmente significativa risulta la c. 16 C.Th. 11.36, che sancisce, oltre al divieto dell’appello a praeiudicio, l’inammissibilità di quello ab exsecutione 111. Tale divieto, più volte sancito nella legislazione tardoantica, aveva quale presupposto logico e cronologico l’avvenuto passaggio in giudicato di una sentenza di primo grado ed era rivolto ad evitare che si eludessero gli effetti di una decisione che, non impugnata nei termini di legge, aveva acquistato il carattere della definitività 112. La costituzione 16 in esame, emanata in exordio imperii, prevedeva pure l’elevazione della pena pecuniaria nella misura di cinquanta libbre d’argento, da destinare alle casse del fisco, che veniva irrogata non solo all’appellante, ma, per la prima volta in tale ipotesi, anche nei confronti dell’ufficio, qualora non avesse rifiutato l’inoltro di un appello inammissibile (quod non renuntiarit). E anche il giudice che avesse permesso di coltivare una lite radicata in forza di un’impugnazione non consentita incorreva in una responsabilità personale, assimilata ai casi di litem suam facere. Al pari della precedente ipotesi di sanzioni irrogate nei confronti di giudici renitenti ad accogliere l’appello, anche per il divieto di impugnazione a 111
C.Th. 11.36.16: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Symmachvm P(raefectvm) U(rbi). Interpositas appellationes a praeiudicio vel ab exsecutione damnantes et eum, qui ab istiusmodi titulis provocaverit, et officium, quod non renuntiarit, quinquagenas argenti libras fisco nostro iubemus inferre, litem suam faciente iudice qui recepit. Dat. VIII id. Octob. Altino; Acc(epta) XVI kal. Nov. Divo Ioviano et Varroniano Conss. Il Gotofredo (ad h.l.) voleva unire questa costituzione alla precedente c. 7 De poenis ed alle successive cc. 7 De pistoribus et catabolensibus e 1 De nautis Tiberinis. In proposito cfr. M. BIANCHINI, Caso concreto e lex generalis: per lo studio della tecnica e della politica normativa da Costantino a Teodosio II, Milano 1979, 60 nt. 103; 68 nt. 128. Il Seeck (Regesten, cit., 218) si limita a riunire questa e la successiva 14.21.1. Ma la diversità di contenuto, e per la 9.40.7 anche di destinatario, rende poco probabile che si tratti di un unico provvedimento. Sul significato del divieto di appello ab exsecutione cfr. GOTOFREDO, ad C.Th. 11.36.3: «Peculiaris autem ratio, cur ab exsecutione appellare fas non sit, haec redditur, quod sera sit haec appellatio, cum a sententia facultas appellandi peteret. Qui sententiae semel acquievit, non appellando, ubi ad eius exsecutionem venturo est, iam sero appellat; et sibi imputet, qui facultate appellandi in tempore usus non est». O. GRADENWITZ, Weitere Interpolationen, cit., 38 ss.; L. RAGGI, Studi sulle impugnazioni civili, cit., 148 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 235 ss. In generale, sulla giurisdizione d’appello del praefectus urbi, per tutti, A. CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Rome sous le Bas Empire, Paris 1960, 130 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, V, Napoli 1975, 343 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 285. 112 Sulla nozione di giudicato: M. MARRONE, Effetto normativo della sentenza, Palermo 1960, nonché G. PUGLIESE, Giudicato civile, cit., 752 ss.; ID., Due testi in materia di “res iudicata”, in Studi Zanobini, V, Milano 1962, 489 ss. Si veda anche B. BIONDI, Appunti intorno alla sentenza nel processo civile romano, in Studi Bonfante, IV, Milano 1930, 55 ss. in part. 95 ss.
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praeiudicio o ab exsecutione, Valentiniano e Valente intesero comunicare tale rigido indirizzo normativo all’ordo civitatis Karthaginis 113. Il testo, sebbene collocato dai compilatori prima della già esaminata c. 16, deve, in realtà, ascriversi ad un momento cronologicamente successivo e, in particolare, al febbraio 365 114: prova ne sia l’uso del verbo al passato (decrevimus) con cui gli imperatori, nel diramare il testo al territorio africano, presuppongono come già avvenuta l’emanazione del provvedimento di carattere generale. La comunicazione conferma l’esistenza di una normativa che, sancita la generale ammissibilità dell’appello, vieta l’impugnazione contro le sentenze a praeiudicio e ab exsecutione, pena la sottoposizione dell’appellante ad una multa di cinquanta libbre d’argento. Contenuto precettivo autonomo sembra assumere, invece, la c. 18 h.t. 115: l’anno consolare indicato nella subscriptio è quello del primo consolato di Valentiniano e Valente, il 365, ma la costituzione non può essere stata emanata a Milano nel dicembre di quell’anno, poiché Valentiniano si trovava, già dall’autunno, a Parigi e Simmaco, destinatario del provvedimento, non era più praefectus urbi. Rinviando a quanto scritto nella ricostruzione dell’attività normativa dei 113 C.Th. 11.36.15: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. salvtem dicvnt ordini civitatis Karthaginiensivm. Post alia: Ab executione vel a praeiudicio provocantes decrevimus non admitti, in tantum, ut contra definita facientes quinquaginta libras argenti condemnatione feriantur. Dat. prid. non. Feb. Med(iolano) Divo Ioviano et Varroniano Conss. 114 II frammento, da unire a C.Th. 11.30.32 (su cui TH. MOMMSEN, Prolegomena, cit., CCXXXVIII), secondo la subscriptio, dovrebbe essere datato al 4 febbraio 364 e sarebbe stato emanato a Milano: datazione e località inaccettabili, poiché né Valentiniano né Valente erano ancora al potere il 4 febbraio 364 e tanto meno si trovavano a Milano. Anche il Pharr, ad h.l., precisa che «Valentinian was not at Milan on this date» e propone, in alternativa, il 364 e il 365. Il Gotofredo (ad h.l.) suggeriva di modificare la subscriptio in prid. non. nov., per le stesse ragioni addotte a proposito della coeva 10.1.8, sulla quale cfr. F. PERGAMI, Rilievi, cit., 270 ss. La correzione sembra, però, paleograficamente difficile. Più accettabile l’ipotesi del Seeck (Regesten, cit., 71 s.) secondo il quale la costituzione deve essere riportata al febbraio del 365, trattandosi di uno dei casi in cui l’anno veniva indicato con la formula del postconsolato: P.C. Divi Ioviani et Varroniani. Sul contenuto, da ultimo, U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 62 ss. 115 C.Th. 11.36.18: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Symmachvm P(raefectvm) V(rbi). Post alia: Nullum audiri provocantem ante definitivam sententiam volumus, si tamen in iudicio conpetenti negotium fuerit inchoatum, salva scilicet iuris antiqui moderatione atque sententia, cum vel exceptio obponitur vel ad agendum locus poscitur vel dilatio instrumentorum causa aut testium postulatur atque haec inpatientia vel iniquitate iudicum denegantur. Similiter ne ab exsecutione quidem provocantem admitti convenit, si tamen executoris vitio minime modus sententiae transeatur. In fiscalibus quoque vel manifestis debitis et criminalibus confessis negotiis nec non etiam praeiudiciis omnis prava repugnantium amputetur intentio. Postremo universas appellationes, quas iura inprobant, non oportet audiri. Dat. XIII kal. Ian. Med(iolano) Val(entini)ano et Valente AA. Conss.
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due imperatori per la risoluzione dei problemi palingenetici 116, interessa qui sottolineare come il complesso provvedimento sia il primo, fra quelli a noi noti, che stabilisce espressamente il divieto generale di impugnazione delle sentenze non definitive (Nullum audiri provocantem ante definitivam sententiam volumus) 117. Una vicenda particolare offre nuovamente ai sovrani l’occasione di occuparsi del divieto di appello con l’emanazione di c. 20 C.Th. 11.36, di difficile interpretazione ed oggetto di disputa dottrinale in ordine al suo contenuto 118: Imppp. Val(entini)anvs, Valens et Gratianvs AAA. ad Clavdivm P(raefectvm) V(rbi). Quoniam Chronopius ex antistite idem fuit in tuo, qui fuerat in septuaginta episcoporum ante, iudicio et eam sententiam provocatione suspendit, a qua non oportuit provocare, argentariam multam, quam huiusmodi facto sanctio generalis inponit, co116 Il Seeck (Regesten, cit., 85) vorrebbe retrodatare la costituzione al dicembre 364: ipotesi che potrebbe essere accettata supponendo che nella subscriptio sia caduta l’indicazione dell’anno consolare di emissione e sia rimasta quella dell’anno successivo in cui la costituzione sarebbe stata pubblicata a Milano. Considerando il contenuto di questa costituzione e della precedente C.Th. 11.31.2, pure in materia di appello e indirizzata allo stesso praefectus urbi Simmaco, si può anche affacciare l’ipotesi che qui non sia corrotta l’indicazione dell’anno consolare, ma quella del mese (che TH. MOMMSEN, Prolegomena, cit., CCXLV, indica dubitativamente) e del giorno, e che il testo riportato dai compilatori sotto il titolo Quorum appellationes non recipiantur sia tutt’uno con quello di C.Th. 11.31.2. A favore di questa ipotesi sta anche il «post alia» che apre questo frammento. C. PHARR, ad h.l., propone entrambe le date (364 e 365). Sul punto, cfr. F. PERGAMI, La legislazione, cit., 122. 117 Sul significato degli appelli ante sententiam nell’età dei Severi, si veda R. ORESTANO, L’appello civile, cit., 266 ss.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 18 ss. Per il Tardo Impero, in particolare, cfr. B. BIONDI, Intorno alla romanità del processo civile moderno, in BIDR, 42, 1934 (ora in Scritti Giuridici, cit., II, 369 ss.); U. VINCENTI, Per uno studio, cit., 65 ss.; ID., Ante sententiam appellari potest, cit., 33 ss. Per la letteratura più risalente, P. COLLINET, La procédure par libelle, Paris 1932, 329 ss. Sulla frequenza del ricorso all’imperatore ante sententiam nelle fonti letterarie, cfr. D. VERA, Commento storico alle “Relationes” di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa 1981, 128 ss. (per la relatio 16); 203 ss. (per la relatio 28); 247 ss. (per la relatio 33); M. NAVARRA, Riferimenti normativi, cit., 98 ss. Sulle Relationes di Simmaco in tema di appello cfr., per tutti, G. DE BONFILS, Prassi giudiziaria e legislazione nel IV secolo (Symm., rel. 28), in RISG, 17, 1973, 146 ss.; ID., Prassi giudiziaria e legislazione nel IV secolo. (Symm., rel. 33), in BIDR, 78, 1975, 285 ss.; ID., Sulla “relatio” 33 di Simmaco, in Atti Seminario Romanistico Gardesano (19-21 maggio 1976), Milano 1976, 139 ss. Da ultimo, dettagliato esame della dottrina in ordine alle sentenze non definitive, S. SERANGELI, Diritto romano e “Rotae provinciae Marchiae”, Torino 1994, 179 ss. 118 Sul contenuto si veda, ampiamente, GOTOFREDO, ad h.l.; M. BIANCHINI, Caso concreto, cit., 58 ss. e la bibliografia ivi citata, nonché la recensione di F. DE MARINI AVONZO, in IVRA, 30, 1979, 146 s.; B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, I, cit., 429 s.; J. GAUDEMET, La formation du droit séculier et du droit de l’Église au IVe et Ve siècle, Paris 1975, 194 nt. 1; CH. PIETRI, “Roma christiana”. Recherches sur l’Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), I, Roma 1976, 747 nt. 1; A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 58 nt. 53; 80 nt. 17; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 118 s.
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gatur expendere. Hoc autem non fisco nostro volumus accedere, sed his qui indigent fideliter erogari. Quod in hac causa et in ceteris ecclesiasticis fiat. Dat. VIII Id. Ivl. Val(entini)ano N.P. et Victore V. C. Conss.
Essa, che configura, tra l’altro, un interessante esempio dei rapporti intercorrenti fra la giurisdizione civile e quella ecclesiastica, risulta indirizzata al praefectus urbi Claudio. Poiché questi, però, rivestì la carica solo nell’anno 374, il destinatario deve verosimilmente identificarsi in quel Petronius Claudius che fu proconsole d’Africa dal 368 al 370 119. Per quanto interessa la presente nota, la comunicazione prevede l’irrogazione di una multa argentaria 120 quale sanctio generalis per il clericus che avesse interposto appello contro una sentenza a qua non oportuit provocare. Tale circostanza ha indotto la dottrina a considerare l’ipotesi in esame quale esempio del divieto di impugnare i singoli atti esecutivi (ab exsecutione) 121. Invero, la lettura del testo non sembra autorizzare tale conclusione. L’inap119 Se è esatta la data risultante dalla subscriptio non può, infatti, trattarsi del praefectus urbi Claudio (o Clodio) Ermogeniano Cesario, che rivestì quella carica nel 374, come risulta, oltre che dalle notizie di Ammiano (AMM. MARC., Rer. Gest. 27.3.2; 29.6.17) dall’iscrizione di un altare a lui dedicato (CIL 6.499 = Dessau 4147) e da un’altra costituzione a lui indirizzata, contenuta nello stesso titolo del Teodosiano (11, 36, 22 del 21 maggio 374). Deve trattarsi, invece, di quel Petronius Claudius che fu proconsole d’Africa dal 368 al 370 [v., in proposito 16.2.18 del 17 febbraio 365 (ma 370), nonché 14.3.12 del 1 dicembre 368 (?), 12.12.6 del 2 febbraio 369, 13.1.8 del 26 aprile 370]. Conformi: O. SEECK, Regesten, cit., 236; C. PHARR, ad h.l., il quale scrive che il destinatario «should be: Proconsul of Africa». In tale senso, anche M. BIANCHINI, Caso concreto, cit., 59. Vedi anche A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit., 208, Petronius Claudius 10, in cui si precisa che il destinatario della costituzione sarebbe stato «wrongly styled p.u.». Da ultimo, cfr. anche R. SORACI, Il “privilegium christianitatis” e i “fisci commoda” durante il regno di Valentiniano I, in Quad. Cat. cultura class. e mediev., II, 1990, 278 nt. 129 (=Studi Mazzarino, III, Catania 1993, 278 nt. 129). 120 Sul significato di multa argentaria, che «désigne une amende en métal argent et non point en monnaie d’argent», cfr. J. ANDREAU, La vie financière dans le monde romain. Les métiers de manieurs d’argent (IVe siècle av. J.C.-IIIe siècle ap. J.C.), Roma 1987, 62, nt. 4; A. PIGANIOL, L’empire chrétien (325-395), Paris 1947, 368; J. GAUDEMET, L’Église dans l’Empire romain (IVe-VIe siècles), Paris, 1958, 293. 121 Per tutti, M. BIANCHINI, Caso concreto, cit., 67 s., la quale ritiene che «l’istanza sia stata respinta in quanto diretta contro l’esecuzione della pronuncia ...»; A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 80 nt. 17: «la sanzione ... punisce verosimilmente l’appello ab exsecutione ...». In tale senso anche R. SORACI, Il “privilegium christianitatis”, cit., 278 nt. 129, secondo il quale «l’imperatore, ritenendo irricevibile l’appello del vescovo Chronopius ... assoggetta il chierico appellante sia ab exsecutione ... sia ante definitivam sententiam ... ad una multa pecuniaria di cinquanta libbre d’argento a favore dei poveri». Diversa interpretazione propone B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, III, cit., 430: «Perché l’appello era inammissibile? Non perché le sentenze del prefetto del pretorio fossero inappellabili, giacché, a parte che qui si tratta del praefectus urbi, questi interviene solo per dare esecuzione alla decisione dei 70. La ragione può essere questa: la decisione dei 70, resa esecutiva dal praefectus urbi è inappellabile, in quanto l’imperatore non può entrare in merito alla decisione dei vescovi». Vedi, da ultimo, U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 118 s.
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pellabilità parrebbe derivare, piuttosto, dall’intrinseco valore di una sentenza emessa dal proconsul Africae Petronio Claudio che, in tale veste, poteva avere giudicato il caso del vescovo Cronopio vice sacra, e, quindi, con pronuncia inappellabile (a qua non oportuit provocare) 122. È interessante notare che i compilatori giustinianei 123, nel recepire il provvedimento originario, ne hanno completamente modificato la portata, eliminando ogni riferimento al caso particolare 124 e facendone un divieto di appello ante definitivam sententiam 125. Reiterati, successivi interventi ribadirono tali divieti, anche a motivo della loro inosservanza, confermando le sanzioni che, in tale identica misura, dapprima Valente (c. 25 del 378) 126 e poi Graziano (c. 30 del 385) 127 intesero irro122 Sulla giurisdizione vice sacra del proconsul Africae, per tutti, F. DE MARTINO, Storia della costituzione, cit., V, 487. 123 C. 1.4 De episcopali audientia et de diversis capitulis, quae ad ius curamque et reverentiam pontificalem pertinent, 2: Impp. Valentinianvs, Valens et Gratianvs AAA. ad Clavdivm P(raefectvm) V(rbi). Si clericus ante definitivam sententiam frustratoriae dilationis causa ad appellationis auxilium convolaverit, multam quinquaginta librarum argenti, quam contra huiusmodi appellatores sanctio generalis imponit cogatur expendere. Hoc autem non fisco nostro volumus accedere, sed pauperibus fideliter erogari. D. VIII id. Ivl. Valentiniano n.p. et Victore Conss. 124 In tal senso, S. SOLAZZI, Ancora glossemi e interpolazioni nel Codice Teodosiano, in SDHI, 13-14, 1947-1948, 207 (ora in Scritti di diritto romano, V, Napoli 1972, 51): «Giustiniano con la c. 1.4.2 (= C. 7.65.4a) ha meritatamente sepolto nell’oblio le disavventure di Cronopio e tratto dalla costituzione dell’a. 369 la regola generale che assoggetta i chierici alla sanzione comune»; F. DE MARINI AVONZO, Recensione a M. Bianchini, Caso concreto, cit., 147: «anche qui possiamo seguire le varie tappe sul corso della composizione «sistematica» di un istituto». Per R. SORACI, Il “privilegium christianitatis”, cit., 278, l’estensione del disposto particolare a regola generale risulta dalla chiusa della stessa versione teodosiana (quod in hac causa et in ceteris ecclesiasticis fiat). 125 Sull’inappellabilità della sentenza ante definitivam sententiam nella versione giustinianea, cfr. B. BIONDI, Appunti, cit., 47 ss.; E. BALOGH, Beiträge zum Justinianischen Libelprozess, in Studi Riccobono, II, Palermo 1936, 517; W. LITEWSKI, Sulle impugnazioni civili, in Labeo, 11, 1965, 230 ss. 126 C.Th. 11.36.25: Imppp. Valens, Gr(ati)anvs et Val(entini)anvs AAA. ad Thalassivm Proc(onsvlem) Afric(ae). Post alia: Ab exsecutione appellari non posse satis et iure et constitutionibus cautum est, ita ut appellantem etiam nostris sanctionibus statuta multa compescat, nisi forte executor sententiae modum iudicationis excedat. A quo si fuerit appellatum, executione suspensa decernendum putamus, ut, si res mobilis est, ad quam restituendam exsecutoris opera fuerit indulta, appellatione suscepta possessori res eadem detrahatur et idoneo collocetur reddenda ei parti, pro qua sacer cognitor iudicaverit. Quod si de possessione vel fundis exsecutio concessa erit et eam suspendent provocatio, fructus omnes, qui tempore interpositae provocationis capti vel postea nati erunt, in deposito conlocentur, iure fundi penes eum qui appellaverit constituto. Sciant autem se provocatores vel ab exsecutione appellantes vel ab articulo ex his dumtaxat causis, ex quibus recipi iussimus provocationem, si eos perperam intentionem cognitoris suspendisse claruerit, quinquaginta librarum argenti animadversione multandos. Dat. III kal. Feb. Trev(iris) Valente VI et Val(entini)ano II AA. Conss. Sul contenuto, ampiamente, GOTOFREDO, ad h.l.; U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 69 ss. 127 C.Th. 11.36.30: Impp. Gratianvs, Val(entini)anvs et Theod(osivs) AAA. ad Florentinvm
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gare a carico di coloro che avessero interposto gravame a praeiudicio o ab exsecutione. Anche per un’altra categoria di sentenze e, in particolare, per le decisioni che coinvolgevano la utilitas publica 128 o il publicum commodum 129 i legislatori postclassici sancirono la regola dell’inappellabilità. Nella normativa tardo-antica, infatti, non era ammessa la proposizione di un gravame da parte di coloro che fossero stati condannati ad una prestazione, in denaro o in natura, a favore dello Stato e ciò, evidentemente, anche a motivo dell’intrinseco valore di tali decisioni, che contribuivano a soddisfare il fabbisogno finanziario dell’Impero. Si spiegano così le numerose costituzioni, raccolte nei Codici, rivolte alla disciplina minuziosa di tali fattispecie: Costanzo, per primo, con la c. 6 del titolo 11.36 130 vietò la proposizione dell’appello nelle cause fiscali (in fiscalibus), perché in contrasto con la utilitas fisci o in quelle che avessero coinvolto quel settore importante dell’amministrazione finanziaria conosciuto come la res privata principis (in rei privatae causis) 131. com(item) s(acrarvm) l(argitionvm). Saepe cautum est evidentissimos debitores appellantes audiri nullatenus oportere, deinde ab exsecutione adeo posse neminem provocare, ut, si hoc forte temptaverit ut postea a praeiudicio appellans, ad quinquaginta librarum argenti multam iure retinendus sit. Et cetera. Dat. VII kal. Dec. Aquil(eiae) Arc(adio) A. I et Bavtone Conss. 128 C.Th. 11.36.12. Preme qui rilevare come nella c. 26 C.Th. 11.30, parte verosimilmente di un’unica costituzione (GOTOFREDO, ad h.l.: «lex 12 infr. quor. appellat., quae huic coniungenda et h.l.: emittenda est»; O. SEECK, Regesten, cit., 201; TH. MOMMSEN, Prolegomena, cit., CCXXXI), sia ammesso l’appello per le sentenze, quae pertinent ad bona vacantia, et caduca et ad ea quae indignis legibus cogentibus auferuntur. Cfr. R. ASTOLFI, I beni vacanti e la legislazione caducaria, in BIDR, 68, 1965, 323 ss. Sull’inappellabilità delle sentenze che coinvolgessero «die Interessen des Aerarium, sondern des Fiskus, im der res privata Caesaris», cfr. W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 301 ss. 129 C.Th. 11.36.8. Sulla giurisdizione d’appello dei comites, cfr. R. DELMAIRE, Largesses sacrées et “res privata”. L’“aerarium” et son administration du IVe au Ve siècle, Roma 1989, 85 ss. 130 C.Th. 11.36.6: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Leontivm. In civilibus causis appellationis beneficium saepe sanximus non oportere differri. In fiscalibus vero vel rei privatae causis, hoc est ob debitum rennuendum vel munera respuenda, si quis appellare voluerit contra utilitatem fisci vel rei privatae, appellationem oblatam cessare oportet nec libellos huiusmodi suscipi, qui in damna fiscalia commodum sententiae latae aut dilatione suspendant aut terrore detorqueant. Dat. V id. Mai. Antiochiae Constantio III et Constante II AA. Conss. Sul contenuto, cfr. W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 305; P. CERAMI, Contrahere cum fisco, in AUPA, 34, 1973, 277 ss., in particolare 309 ss. 131 Sulla consistenza della res privata principis cfr., per tutti, A. MASI, Ricerche sulla “res privata” del “princeps”, Milano 1971, 55 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione, cit., V, 430 ss.; R. DELMAIRE, Largesses sacrées, cit., 21 ss.; P. VOCI, Nuovi studi sulla legislazione romana del tardo impero, Padova 1989, 27 ss. Cfr. anche la recensione al lavoro del Voci di M. SARGENTI, in SDHI, 56, 1990, 487 ss. Per una visione d’insieme: U. COLI, voce Fisco (Diritto romano), in NNDI, VII, 1961, 381 ss.; A. BURDESE, voce Fisco, in ED, 17, 1968, 673 ss.
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Analogo contenuto è ribadito nelle successive cc. 8 132 e 9 133: l’una è dedicata esclusivamente all’inappellabilità dei debiti a favore del fisco; l’altra è rivolta a vietare l’interposizione di un gravame da parte dei debitores rei privatae nostrae. Evidentemente tali divieti non riuscirono a raggiungere lo scopo che Costanzo si era prefissato, poiché l’imperatore fu costretto ad imporre, con la c. 10 h.t. 134, una sanzione di cinquanta libbre d’argento nei confronti del giudice che avesse accolto una provocatio frustratoria contra commodum fisci ed in seguito, con la c. 13 h.t. 135, dovette irrogare, anche a carico dell’ufficio che avesse consentito l’inoltro di un appello contro un debito fiscale, la più grave sanzione di trenta libbre d’oro. Un minuzioso riesame dell’intero settore sarà effettuato, qualche anno più tardi, da Valentiniano e Valente 136, imperatori sensibili ai problemi finanziari dell’Impero, che sarebbero divenuti particolarmente pressanti dopo la sconfitta di Giuliano 137. Fin dalla fase di comune governo, infatti, i due Augusti, con la c. 18 h.t. 138, 132
C.Th. 11.36.8: Impp. Constantivs et Constans AA. Theodoro Cons(vlari) Syriae Coeles. In fiscalibus debitis nullius provocationem tua gravitas censeat admittendam. Nec enim commodum publicum fas est diuturna frustratione suspendi nec eludendi licentiam callidis fraudatoribus relaxari. Dat. VIII id. Mart. Ancyrae Evsebio et Rvfino Conss. 133 C.Th. 11.36.9: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Cerealem P(raefectvm) V(rbi). Calliditatis auxilio perspicui debitores rei privatae nostrae solutionem cupiunt evitare frustratoriis provocationibus interpositis. Ideoque decrevimus minime convenire huiuscemodi vocem appellationis admitti. Dat. X kal. Avg. Constantio A. VI et Constante C. Conss. 134 C.Th. 11.36.10: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Proclianvm Procons(vlem) Afric(ae). Placuit quinquaginta pondo argenti fisco inferre prudentiam tuam, si frustratoriam provocationem contra commodum fisci susceperis solutionemque vitanti praebueris culpabilem coniventiam. Dat. XV kal. Feb. Consta(nti)nop(oli); Acc. X kal. Avg. Karthag(ine) Constantio A. VII et Constante Caes. Conss. 135 C.Th. 11.36.13: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Probvm Proc(onsvlem) Afric(ae). Cum constet iam dudum esse nostra sanctione praeceptum, ne aliquis, cum fiscale debitum postulatur, audeat provocare, proconsulare officium, si patientiam commodaverit, XXX pondo auri fisco cogatur inferre. Dat. VIIII kal. Ivl. Sirmio Datiano et Cereale Conss. 136 R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 476 ss. Il problema dei fisci commoda sotto il regno di Valentiniano e Valente è affrontato, da ultimo, dal SORACI, Il “privilegium christianitatis”, cit., 276 ss., cui rinvio anche per le indicazioni bibliografiche. 137 In questo senso, F. FASOLINO, L’imperatore Valentiniano I. L’impero e i problemi storiografici, Napoli 1976, 30. 138 C.Th. 11.36.18: Impp. Val(entin)anvs et Valens AA. ad Symmachvm P(raefectvm) V(rbi). Post alia: Nullum audiri provocantem ante definitivam sententiam volumus, si tamen in iudicio conpetenti negotium fuerit inchoatum, salva scilicet iuris antiqui moderatione atque sententia, cum vel exceptio obponitur vel ad agendum locus poscitur vel dilatio instrumentorum causa aut testium postulatur atque haec inpatientia vel iniquitate iudicum denegantur. Similiter ne ab exsecutione quidem provocantem admitti convenit, si tamen executoris vitio minime modus sententiae transeatur. In fi-
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ribadirono solennemente il divieto di appello (omnia prava repugnantium ... intentio) contro le sentenze di condanna nelle cause fiscali (in fiscalibus), cui equipararono – almeno sotto il profilo procedurale – quelle aventi ad oggetto i debiti manifesti (in debitis manifestis). Sebbene l’esatta individuazione di tale seconda categoria di sentenze non appaia agevole e la dottrina – sin dal Gotofredo – non abbia affrontato, ex professo, il problema 139, una certa luce può venire dalla lettura della stessa costituzione, in quanto la categoria dei debiti manifesti è posta accanto, oltre che ai debiti fiscali, ai crimini confessati 140, per i quali è pure prevista l’inappellabilità. Non può escludersi che l’effetto della confessione abbia efficacia analoga anche nei giudizi civili, in cui l’ammissione del convenuto, rendendo certo il debito, sarebbe d’ostacolo al gravame contro la sentenza che lo riconosce proprio su quella base 141. Risponde, infatti, ad un identico principio logico, oltre che ad un criterio di economia processuale, evitare – nelle ipotesi di riconoscimento da parte del convenuto o dell’imputato del proprio inadempimento – che la controversia, pacifica per lo stesso condannato, sia sottoposta al riesame di un giudice di seconda istanza 142. scalibus quoque vel manifestis debitis et criminalibus confessis negotiis nec non etiam praeiudiciis omnis prava repugnantium amputetur intentio. Postremo universas appellationes, quas iura inprobant, non oportet audiri. Dat. XIII Kal. Ian. Med(iolano) Val(entini)ano et Valente AA. Conss. L’anno consolare indicato nella subscriptio è quello del primo consolato di Valentiniano e Valente, ma la costituzione non può essere stata emanata a Milano nel 365, poiché Valentiniano si trovava, già dall’autunno, a Parigi (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.8) e Simmaco non era più praefectus urbi, essendo stato sostituito da Volusiano sin dall’aprile di quell’anno (C.Th. 1.6.5). Seeck (Regesten, cit., 85) vorrebbe retrodatare il provvedimento all’anno 364: ipotesi che potrebbe essere accettata, supponendo che nella subscriptio sia caduta l’indicazione dell’anno consolare di emissione e sia rimasta quella dell’anno successivo in cui la costituzione sarebbe stata emanata a Milano. Sui rapporti tra questa costituzione e la c. 11.31.2, cfr. F. PERGAMI, La legislazione, cit., 122. 139 Anche A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 44 e 70, parla di debiti manifesti senza chiarirne il significato e C. PHARR, ad h.l., traduce semplicemente con «manifest debts». Poco concludente ciò che osserva il Litewski (in Labeo, 19, 1973, p. 222) nella recensione al volume di Padoa Schioppa, ove si legge che per debito manifesto deve intendersi una particolare categoria «del genere dei debiti fiscali, per i quali non era ammesso il ricorso in appello (appunto per i debiti manifesti). A prova di tale interpretazione esiste un argomento di notevole importanza: se, infatti, si ammettesse che con riguardo ai debita manifesta il divieto di ricorrere in appello sia senza eccezione, non si capirebbe per quale ragione in molte fonti questa proibizione venga messa in rilievo proprio nelle cause fiscali». 140 GOTOFREDO, ad C.Th. 11.36.1, equipara i crimini confessati a quelli «convicti», cioè quelli dai quali emergerebbe una «dilucida et probatissima vel exploratissima veritas». 141 A favore di tale interpretazione la lettura di PS. 5, 35, 2: «Moratorias appellationes et eas, quae ab exsecutoribus et confessis fiunt, recipi non placuit». Contra, seppure dubitativamente, A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 44 nt. 5: «Non sembra invece che l’appello sia stato escluso dopo una sentenza civile fondata sulla confessione di una parte». Critico verso tale ultima tesi W. LITEWSKI, Recensione a A. Padoa Schioppa, cit., 223; ID., Die römische Appellation, III, cit., 369 ss. 142 Sull’esistenza di un principio generale che prevede l’inappellabilità delle sentenze fondate
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In un successivo intervento, la c. 19 h.t., Valentiniano amplierà le ipotesi per le quali era prevista l’inappellabilità delle sentenze: Imppp. Val(entini)anvs, Valens et Gr(ati)anvs AAA. ad Olybrivm P(raefectvm) V(rbi). Abstinendum prorsus appellatione sancimus, quotiens fiscalis calculi satisfactio postulatur aut tributariae functionis sollemne munus exposcitur aut publici vel etiam privati, dummodo evidentis atque convicti, redhibitio debiti flagitatur, ut necessario in contumacem vigor iudiciarius excitetur. P(ro)p(osita) Rom(ae) XV kal. Sept. Val(entini)ano et Valente II AA. Conss.
La costituzione, indirizzata al praefectus urbi Olibrio e proposita a Roma il 18 agosto 368, conferma, innanzitutto, il divieto di impugnazione delle decisioni che abbiano per oggetto debiti di natura fiscale o tributaria 143, cui vengono equiparati i debiti publici e privati, a condizione che questi ultimi siano evidentes atque convicti 144. Sulla nozione di debiti pubblici e privati, in quanto distinti da quelli di natura fiscale, manca pure una chiara ed uniforme indicazione. Il Gotofredo ritiene che i debiti privati siano quelli verso la res privata principis, ma non chiarisce quali sarebbero i debiti pubblici, che, identificandosi con i munera publica, andrebbero a confluire, a quanto sembra di comprendere dal suo commento, nella più generale categoria dei debiti verso lo Stato 145. Tra i moderni, un cenno al problema si trova nella monografia del Padoa Schioppa, il quale ritiene più verosimile che i debiti privati siano quelli contratti fra privati e che siano i debiti pubblici ad indicare quelli verso la res privata 146. Né l’una né l’altra interpretazione sembra convincente. Non la prima, perché la res privata principis è, in realtà, una delle branche dell’amministrazione sulla confessione, cfr. C. FADDA, voce Appello penale romano, in DI, IV, 1, Torino 1896, 56 nt. 9. Contra: N. SCAPINI, Principio del «doppio grado di giurisdizione», cit., 691 nt. 25. Considera l’appello, civile o penale che sia, un istituto unitario, pensando che esso si «diversifica soltanto per il diverso campo in cui si attua», M. CAMPOLUNGHI, Gli effetti sospensivi dell’appello in materia penale. A proposito di Scaev., D. 26.7.57.1, in BIDR, 75, 1972, 151 nt. 2. 143 Accenna al significato di functio tributaria, menzionata pure in C.Th. 13.10.8 e C.Th. 13.11.4, A. CERATI, Caractère annonaire et assiette de l’impôt foncier au Bas Empire, Paris 1975, 29 ss.; C. PHARR, ad h.l.: «customary payment of tribute». 144 Secondo N. SCAPINI, Principio del «doppio grado di giurisdizione», cit., 701, l’espressione dovrebbe essere riferita al solo debito fiscale «manifesto e irrefutabilmente provato». Al contrario, A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 70 nt. 93 ritiene che il requisito in esame si riferisca ai soli debiti privati. 145 GOTOFREDO, ad h.l.: «Publicum debitum accipio de muneribus publicis ordinariis [...]. Tandem privati debiti appellatione intelligo causas rei privati Principis». 146 A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 44, nt. 5 e 70 nt. 92.
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finanziaria dell’Impero, spesso equiparata all’aerarium o al fisco, ed è quindi più probabile che le somme dovute a questa rientrino nell’ambito dei fiscales calculi e dei munera tributaria. Neppure la seconda, perché il termine publicus indica piuttosto, nel linguaggio di quest’epoca, i beni di competenza delle città: riterrei, pertanto, più corretto ipotizzare che per debiti pubblici debbano intendersi quelli contratti verso le amministrazioni cittadine 147. In conclusione, da questa costituzione emerge che è vietato l’appello contro le sentenze relative a debiti verso il fisco o verso le città, nonché a debiti fra privati, purché questi ultimi siano evidentes atque convicti. Qualche anno più tardi, però, lo stesso Valentiniano sembra avere attenuato il rigore di tali divieti 148, estendendo il requisito della certezza, come presupposto per l’inammissibilità dell’appello, anche ai debiti fiscali. Tale sembra essere, infatti, il senso di un breve frammento riportato in C.Th. 11.36.21 149, secondo cui: a discussoribus observari iubemus, ut manifesti debitores provocationis suffragio minime subleventur. In esso si prevede, dunque, che i discussores 150, organi della giurisdizione tributaria, qui debitores fiscales excutiunt 151, dichiarino inammissibile l’appello, ma solo nell’ipotesi in cui i debitori fossero manifesti 152, cioè nel caso in cui i debiti, oggetto della pronuncia, come detto a proposito della c. 18 h.t., siano stati incontestabilmente accertati. Dopo tale pronuncia di Valentiniano, seguirono ulteriori conferme di una tendenza volta ad evitare che esistessero sentenze che, per il solo fatto di coinvolgere interessi pubblici, non potessero essere appellate 153. Si spiega, così, dapprima l’intervento di Graziano, Valentiniano e Teodosio che, con la c. 27 147 Sui beni appartenenti alle città, vedi, M. SARGENTI, Le “res” nel diritto del Tardo Impero, in Atti del Convegno in memoria di Gaetano Scherillo (Milano, 22-23 ottobre 1992), Milano, 1994, 177 ss., nonché il mio lavoro, pubblicato nello stesso volume di Atti, Rilievi sulla appartenenza dei “fundi rei publicae” alla “res privata principis” nella legislazione tardo-imperiale, 129 s. 148 In tal senso, A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 71 ss. 149 La costituzione va unita alla 11.29.5 e alla 11.30.36: essa è stata pubblicata probabilmente a Roma, data la carica rivestita dal destinatario e deve essere stata emanata a Treviri nel 373 e, più precisamente, nel secondo semestre di quell’anno, posto che il predecessore di Eupraxio, Principio, è attestato ancora in carica nell’aprile 373 (C.Th. 13.3.10). Sul punto, cfr. A. CHASTAGNOL, Les Fastes de la Préfecture de Rome au Bas Empire, Paris 1962, 190 s. 150 Su tali funzionari, per tutti, O. SEECK, Discussor, in PWRE, IV, 1900 (rist. 1958), 1142. 151 Così, testualmente, GOTOFREDO, ad h.l. 152 C. PHARR, ad h.l., traduce con «delinquent taxpayers». 153 A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 71 nt. 96: «All’affermazione di Valentiniano I (C.Th. 11, 36, 21 del 374) seguirono le conferme di Teodosio in Oriente (c. 27 eod. del 383) e in Occidente (c. 30 eod. del 385: riguarda i debitori del fisco)».
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h.t. 154, ribadiscono il divieto di impugnazione da parte dei debitori pubblici a condizione che siano «manifestissimi»; e che, con la c. 30 h.t. 155, di nuovo, circoscrivono la legittimazione ad appellare le sentenze nelle cause fiscali a coloro che siano debitori «evidentissimi» 156. Si tratta di una serie di interventi legislativi che, consentendo l’appello anche a proposito di decisioni che coinvolgessero gli interessi pubblici 157, mostrano che la facoltà per il soccombente di ottenere il riesame della sentenza di primo grado doveva costituire, nella legislazione del Tardo Impero, un vero e proprio ius appellandi 158.
10. La puntuale ed articolata normativa tardoimperiale in tema di appello conferma l’importanza della materia processuale, cui gli imperatori del IV secolo dedicarono numerosi provvedimenti legislativi rivolti, da un lato, ad una precisa individuazione delle ipotesi in cui fosse possibile interporre appello per ridurre e semplificare il lavoro dei giudici di seconda istanza, il cui intervento doveva attuarsi solo in casi ragionevolmente fondati e determinati in modo tassativo; dall’altro, tesi a reprimere la renitenza dei giudici minori ad accogliere ed inoltrare gli appelli e ad evitare i possibili, frequenti abusi da parte dei magistrati inferiori. 154
C.Th. 11.36.27: Imppp. Gr(ati)anvs, Val(entini)anvs et Theodosivs AAA. Hypatio P(rae)f(ecto) Avg(vsta)li. Universi, quos in publicis contractibus manifestissimos debitores cognitio inquisitioque convicerit, statim ut sententia fuerit promulgata, obnoxii redhibitioni teneantur nec illis aliquid ad excogitandas fraudes et versutias exerendas morae ac temporis relaxetur. Dat. VIII id. Mai. Constantinop(oli) Merob(avde) II et Satvrnino Conss. Sul significato di debitores manifestissimi, cfr. W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 302 nt. 214 e 215. 155 C.Th. 11.36.30: Imppp. Gr(ati)anvs, Val(entini)anvs et Theodosivs AAA. ad Florentivm com(item) s(acrarvm) l(argitionvm). Saepe cautum est evidentissimos debitores appellantes audiri nullatenus oportere, deinde ab exsecutione adeo posse neminem provocare, ut, si hoc forte temptaverit ut postea a praeiudicio appellans, ad quinquaginta librarum argenti multam iure retinendus sit. Et cetera. Dat. VII kal. Dec. Aqvil(eiae) Arc(adio) A. I et Bavtone Conss. Sul contenuto della costituzione, da unire a C.Th. 11.30.46, cfr., da ultimo, U. VINCENTI, Ante sententiam appellari potest, cit., 83 ss. Sul significato di debitores evidentissimi, cfr. W. LITEWSKI, Die römische Appellation, II, cit., 302 nt. 214 e 215. 156 GOTOFREDO, ad h.l.: «Debitorum appellatione speciatim intelligenti debitores fiscales, ut etiam huius leg. inscriptio docet». 157 A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche, cit., 71: «il principio introdotto alla fine del secolo in entrambe le parti dell’impero ... era in grado di comporre in modo più soddisfacente l’interesse del fisco e quello dei privati». 158 Sull’esistenza di uno ius appellandi nella legislazione post-classica, G. PROVERA, Prova-sentenza-appello in diritto romano, in Atti del Colloquio romanistico-canonistico (febbraio 1978), Roma 1979, 397 ss.
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I sovrani del IV secolo, dunque, sebbene pressati da gravi ed impellenti problemi di politica interna ed internazionale, non trascurano di promuovere – tanto in sede civile che nel delicato settore delle controversie criminali – il regolare e corretto funzionamento della giustizia, considerato una premessa indispensabile per garantire l’attuazione dei principi di uguaglianza fra i cittadini 159.
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In tal senso, per tutti, A.H.M. JONES, The Later Roman Empire, cit., 697 ss.
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4 ITINERARIO SCIENTIFICO DI MANLIO SARGENTI *
1. La coincidenza cronologica della celebrazione del XXII Convegno Internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana con il centenario della nascita del prof. Manlio Sargenti 1 è apparsa, fin da subito, l’occasione ideale per ricordare lo straordinario e costante impegno, scientifico ed umano, che il Maestro ha voluto profondere a favore dell’attività della nostra istituzione e rappresenta la favorevole opportunità di onorarne la memoria a Spello, in un luogo a Lui molto caro, a pochi anni dalla scomparsa, avvenuta a Milano nel dicembre del 2012: è per questo che ho accolto con gratitudine, pari ad una mai sopita tristezza e malinconia per l’assenza del Maestro, l’affettuoso invito, per cui rinnovo la mia sincera riconoscenza agli amici Maria Campolunghi e Stefano Giglio, di tratteggiare, ripercorrendone le tappe salienti, il legame fra Manlio Sargenti e l’Accademia Costantiniana. Un legame forte e duraturo, destinato a perpetuarsi nel tempo, come testimonia, in modo tangibile, la presenza di tanti colleghi ed amici in questa occasione celebrativa. Anzitutto, mi sia consentita in limine, una notazione di carattere personale per giustificare le ragioni dell’attribuzione al sottoscritto del privilegio di questo ricordo del Maestro, quando altri – e ben più autorevolmente – avrebbero potuto attendere a tale compito: sono trascorsi molti anni da quando, una sera d’estate, venni convocato da Franco Pastori, Direttore di quello che ancora si chiamava Istituto di diritto romano dell’Università Statale di Milano – anch’egli sostenitore delle iniziative dell’Accademia Costantiniana –, sotto la cui guida stavo elaborando la tesi di laurea, per conoscere la mia disponibilità a collaborare con Manlio Sargenti – studioso che conoscevo esclusivamente attraverso la sua produzione scientifica – che aveva manifestato l’intenzione di * AA.VV., Ai confini del Tardoantico. Itinerari di Studio. Tavola Rotonda (Spello 24-25 giugno 2016), in preparazione del XXII Convegno Internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana, Perugia 2017, 115 ss. 1 Manlio Sargenti nacque a Isernia il 9.12.1915.
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avvalersi dell’aiuto di un giovane ricercatore che potesse coadiuvarlo nel progetto di riattivare, sotto l’egida dell’Accademia Romanistica Costantiniana e in collaborazione con le Università di Pavia, Perugia, Siena, Genova e Macerata, seppure con un orizzonte cronologico più limitato, l’ambiziosa ricerca, iniziata prima del secondo conflitto mondiale, dall’Accademia d’Italia e finalizzata alla Palingenesi delle costituzioni tardoimperiali, emanate da Costantino a Teodosio II. Accolsi con entusiasmo l’invito e incontrai il professore: in quel momento, eravamo all’inizio degli anni ottanta dello scorso secolo, Egli era un eminente romanista della facoltà giuridica dell’Università di Pavia dove, dopo una carriera accademica senza sconti 2, esercitava il proprio magistero, impartendo l’insegnamento delle Istituzioni e delle Pandette, dalla cui cattedra ha formato intere generazioni di studenti grazie a una non comune capacità didattica. Ho già detto di quel primo incontro 3, angosciante per il mio senso di inadeguatezza di fronte allo studioso che ammiravo per notorietà scientifica e sulle cui opere a stampa avevo iniziato a studiare i problemi della realtà giuridica dell’epoca tarda, di cui rimane indelebile il ricordo di un uomo che, all’apparenza molto più giovane della Sua età, volle, con tratto signorile, ma fermo, coinvolgermi nell’iniziativa di collaborare alla ricostruzione della legislazione imperiale dei secoli quarto e quinto dopo la nascita di Cristo. Si trattava, nelle intenzioni del Maestro, di dare nuova linfa alle iniziative dell’Accademia Romanistica Costantiniana, che Mario De’ Dominicis aveva fondato nel 1973, grazie al sostegno prezioso del Rettore dell’Università di Perugia, prof. Giuseppe Ermini, fissando la sede nel Palazzo Civico di Spello, con il deliberato scopo di creare un’istituzione che riunisse periodicamente specialisti della tarda antichità, giuristi e storici, anche per rinverdire i fasti della ormai storica XXII sessione della SIHDA, tenutasi nel settembre 1967 in quella sede univer2 Il magistero di Manlio Sargenti si svolse interamente presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, dove, dapprima come incaricato, divenne straordinario e, infine, ordinario solo nel 1983, praticamente a fine carriera: Egli pagò la mai rinnegata adesione alla Repubblica Sociale, nella quale svolse un ruolo primario quale Capo di Gabinetto del Ministro dell’Economia Corporativa, Angelo Tarchi. In particolare, Sargenti fu l’estensore della carta sulla socializzazione delle imprese (Decreto legislativo del Duce 375/12 del febbraio 1944, su cui M. SARGENTI, Socialismo o socializzazione in Repubblica sociale, 1944, nonché R. BONINI, La Repubblica Sociale Italiana e la socializzazione delle imprese. Dopo il Codice Civile del 1942, Torino 1993, 70 ss.). Al termine del secondo conflitto mondiale, fu tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano, nella cui file svolse anche il ruolo di Consigliere Comunale di Milano. Nel 1995, fu nominato Presidente d’onore del Movimento Sociale Fiamma Tricolore. In proposito, si veda V. MAROTTA, Roma, l’Impero e l’Italia nella letteratura romanistica degli anni 30, in Retoriche dei giuristi e costruzione dell’identità nazionale, Bologna 2013, 425 ss., in part. 429 nt. 11. 3 F. PERGAMI, Manlio Sargenti (1915-2012), in INDEX 42, 2014, 693 ss.
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sitaria, che era divenuta – in quell’occasione – il centro di tutta la romanistica nazionale e internazionale 4. Iniziò, così, un legame mai interrotto di stima e di affetto, una consuetudine quotidiana, durata oltre trent’anni, di studio e di lavoro, alle cui regole rigorosissime, che Egli imponeva soprattutto a se stesso, dovetti presto adattarmi, come quando, nell’immediata imminenza del mio matrimonio, a cui Egli accettò di essermi accanto come testimone, mi convocò nell’elegante Studio di Viale Bianca Maria a Milano, dove svolgeva con successo anche la professione forense, in una città deserta e infuocata dal sole, un venerdì quattordici agosto per discutere dell’interpretazione di una costituzione del Codice Teodosiano, che avevo proposto in un articolo in corso di stampa, ma che Egli non condivideva, invitandomi a presentare, non più tardi della mattina successiva (il giorno di Ferragosto, appunto), la versione riveduta del mio contributo, mettendo, così, a serio repentaglio il mio futuro consortium. Era un modo, Egli amava ripetere, di rispettare la prima regola della ricerca scientifica, mutuata dall’insegnamento pliniano, per cui nulla dies sine linea 5, a cui non volle mai venire meno.
2. Era ormai qualche anno, infatti, che il Maestro era tornato allo studio dei problemi giuridici della tarda antichità, a cui aveva dedicato la tesi di laurea, discussa nel 1938 all’Università di Roma –con lode e dignità di stampa– sotto la guida di Emilio Albertario e da cui aveva tratto, in quello stesso anno, in sostanziale contestualità con il lavoro della collega e amica Clémence Dupont 6, la prima monografia sulla legislazione privatistica dell’imperatore Costantino 7. Un argomento che, all’epoca, doveva apparire pioneristico, ma che Manlio Sargenti, sebbene indotto in seguito a privilegiare altre fasi di sviluppo dell’ordinamento giuridico romano da impellenti esigenze concorsuali e dall’improvvisa scomparsa del Suo maestro, non abbandonò mai e a cui rimase, come vedremo, sempre fedele nel corso della Sua intera esperienza scientifica. 4
Il progetto di istituire l’Accademia Romanistica Costantiniana, infatti, nacque proprio in quell’anno, a margine di una serie di lezioni di un seminario romanistico internazionale, che trovarono compiuto esito in un Convegno del 1971 (cfr. Atti del Convegno Internazionale 11-14 ottobre 1971). 5 Plin., nat. hist. 35,84. 6 C. DUPONT, Les constitutions de Constantin et le droit privé au début du IV siécle. Les personnes, Lille 1937. 7 M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Persone e famiglia, Roma 1938.
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Fu, infatti, il primo convegno dell’Accademia Costantiniana, allora “Centro di studi storico-giuridici costantiniani del Basso Impero”, itinerante, come sempre in origine, fra Spello, Foligno e Perugia, tenutosi tra il 18 e il 20 settembre del 1973 e a cui venne dato, ex post, il titolo Introduzione alla storia del Basso Impero, ad offrire al Maestro l’occasione di tornare su quella tematica, con un contributo, pubblicato negli Atti nel successivo 1975 8, che è in realtà una vera e propria ricerca monografica di speciale impegno, intitolato “Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Problemi e prospettive nella letteratura dell’ultimo trentennio” 9: scrive, infatti, il Maestro: «In un Convegno che si propone di studiare gli aspetti della legislazione del Basso Impero e che segna l’inizio dell’attività dell’Accademia storico-giuridica intitolata al nome di Costantino, non poteva mancare che si parlasse della legislazione di questo imperatore ed in particolare di quella che segna per tanti aspetti un momento di passaggio e di trasformazione, talvolta di radicale trasformazione, degl’istituti e del sistema del diritto privato romano. Perciò, e ricordando con comprensibile nostalgia che a questo argomento fu dedicato il mio primo studio romanistico, mi sono proposto di riesaminare ciò che è stato scritto negli ultimi trent’anni su questo tema, i risultati raggiunti da questi studi, i problemi affrontati ed ancora aperti, le questioni di sostanza e di metodo che essi suscitano» 10. Fu proprio questo lavoro a dare l’avvio, nella romanistica non solo italiana, ad un rinnovato interesse nello studio della realtà giuridica dei secoli IV e V, culminato in quella che, con espressione divenuta ormai classica, è stata definita l’«esplosione di tardoantico» 11. 8
Atti del I Convegno Internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana, Perugia 1975, dove in apertura, nella “Cronaca dei lavori”, ad opera di Felix Wubbe, si legge: «Le but principal de l’académie sera la promotion de la recherche et la publication d’ouvrages concernant l’époque de Constantin». 9 M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Problemi e prospettive nella letteratura dell’ultimo trentennio, in AAC, 1, 1975, 229 ss. 10 M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, cit., 231. Vedi, anche in senso analogo, la Premessa al volume: Studi sul diritto del tardo Impero, Padova 1986, nel quale il contributo è ripubblicato (p. 1 ss.): «Gli scritti raccolti in questo volume hanno segnato, nel corso degli ultimi anni, il ritorno ad una tematica che aveva ispirato, nel lontano 1938, l’inizio della mia attività di ricerca e dalla quale mi ero poi per lungo tempo allontanato, attratto da altri interessi. Un ritorno cui ha dato occasione ed impulso l’attività dell’Accademia Romanistica Costantiniana e che, in ragione della varietà dei temi da questa via via proposti all’attenzione degli studiosi nei suoi periodici convegni, è andato articolandosi in una serie di contributi relativi a svariati aspetti della legislazione e del diritto del tardo impero romano». 11 A. GIARDINA, Esplosione di tardoantico, in G. MAZZOLI-F. GASTI, Prospettive sul Tardoantico. Atti del Convegno di Pavia (27-28 novembre 1997), Como 1999, 9 (= in Studi Storici 40 [1999], 157). Più di recente, L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici. Alle radici di
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Il contributo di Sargenti, infatti, merita speciale attenzione non solo perché rappresenta una pregevolissima trattazione di oltre cento fittissime pagine in tema di persone e famiglia nella legislazione di Costantino, attraverso una ricognizione della precedente letteratura in materia 12, ma – soprattutto e specialmente – perché propone un vero e proprio rovesciamento dell’indirizzo metodologico con cui affrontare lo studio delle fonti della tarda antichità, una nuova modalità di impostare la disamina delle costituzioni tardoimperiali, che costituirà la premessa per i risultati lusinghieri raggiunti dall’Accademia. Si trattava, si badi, di un rovesciamento di quella stessa prospettiva sistematica che il Maestro aveva utilizzato oltre trent’anni prima, nella redazione della monografia d’esordio, nella quale Egli si era proposto una ricostruzione sistematica della legislazione privatistica di Costantino: emerge qui, limpidamente, il calibro dello studioso, nient’affatto preoccupato di dovere mettere in discussione, voglio dire in radicale discussione, i risultati cui egli stesso era in precedenza pervenuto, nella consapevolezza che ciò avrebbe comportato un avanzamento dei nostri studi. Scrive, infatti, il Maestro: «Ci si può chiedere oggi se la prospettiva sistematica allora adottata fosse la più adatta per affrontare criticamente lo studio della legislazione costantiniana. È inutile dire che io personalmente me lo sono chiesto più volte negli anni successivi e che lo scetticismo insorto in me sulla bontà di quel metodo non è stato l’ultimo dei motivi che mi hanno indotto a non proseguire l’opera che avevo intrapreso» 13. Si era allora nella fase, precisa il Maestro, in cui molti dei problemi metodologici discussi ed approfonditi nei decenni successivi non si erano ancora posti, per lo meno in tutta chiarezza, quando non era soprattutto delineata quella che Sargenti chiama la «visione della storicità», non solo degli istituti giuridici e della loro disciplina positiva, ma anche delle categorie dogmatiche e dei raggruppamenti sistematici, in un momento in cui l’attenzione degli studiosi era attratta ancora essenzialmente dal problema delle trasformazioni introdotte, in un determinato momento storico, nella disciplina degli istituti, una nuova storia, Roma 2007, IX, scrive: «Nell’ultimo trentennio, la ricerca sulla tarda antichità ha avuto, come è ben noto, un’accelerazione impressionante. Intere aree di indagine sono state scoperte e indagate, nuovi problemi sono venuti alla luce, categorie interpretative che sembravano punti fermi della storiografia sono state ridiscusse o sovvertite; si può ben dire che non v’è nessun segmento di quest’epoca che non sia stato profondamente rivisitato, utilizzando tutte le tecniche che le scienze relative al mondo antico propongono oggi all’attenzione dello studioso». 12 Mi piace ricordare le parole usate da Arnaldo Biscardi, che, ripercorrendo l’attività svolta dall’Accademia nell’ultimo ventennio, parlava, a proposito di tale saggio, come di una «puntuale enunciazione prospettica»: cfr. Discorsi di saluto, in AAC, X Convegno Internazionale, Perugia 1995, 17. 13 M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, cit., 232.
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concepiti, peraltro, come schemi in certo senso universali ed astratti, piuttosto che essi stessi storicamente determinati 14. Del resto, a proposito dell’imperatore Costantino, la tendenza doveva essere ancora più spiccata, considerando il numero e l’importanza degli interventi normativi emanati dall’imperatore in materia di persone e famiglia, da cui scaturiva la, per certi versi comprensibile, propensione di ordinare sistematicamente il ricco materiale nei grandi schemi tradizionali in cui, sino ad allora, erano stati classificati i temi e i settori fondanti il diritto di famiglia: le persone, la schiavitù, il matrimonio. Da qui, la svolta: «Oggi, ripeto, tale criterio appare assai meno legittimo […] ora possiamo renderci conto che collocare le costituzioni di Costantino in un quadro sistematico, ricostruire un quadro unitario del diritto delle persone e della famiglia come di qualsiasi altra partizione del diritto dell’epoca costantiniana non può dare risultati soddisfacenti, almeno sino a che non siano risolti i numerosi problemi di datazione, di collocazione territoriale, di destinazione, di provenienza e di ispirazione dei singoli provvedimenti, nonché i problemi critici inerenti alla loro trasmissione attraverso il Codex Theodosianus, il Codex Iustinianus o altre raccolte, sino a che, insomma, non si sia restituita ed indagata, fin dove possibile, la specifica individualità e collocazione storica di ogni singolo provvedimento prima di farne la tessera di un mosaico unitario» 15. Era questo, cioè, l’avvio del «programma operativo» 16 delle attività dell’Accademia, prima fra tutte il riordino cronologico delle costituzioni di Costantino, che il Maestro invitava ad iniziare con un lavoro di gruppo che, partendo dalle indagini complesse del Seeck e degli editori del Teodosiano, potesse lumeggiare come i problemi palingenetici influissero, e in maniera notevole, sulla valutazione sostanziale di singoli provvedimenti e, più in generale, sulla politica legislativa dei sovrani via via succedutisi alla porpora imperiale. 3. Per dare ragione e sostanza a tali propositi, che avevano stimolato l’interesse della romanistica specialmente, ma non solo italiana 17, il Maestro presenterà, in occasione del secondo Convegno biennale dell’Accademia, tenutosi 14
M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, cit., 233. Cfr. S. SOLAZZI, Glossemi e interpolazioni nel Codice Teodosiano [ora in Scritti di diritto romano, 4], 473 ss. 15 M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, cit., 234. 16 M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, cit., 332. 17 Nella cronaca dei lavori del relativo volume di atti (Atti del II Convegno Internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana, Perugia 1976), sempre ad opera del Wubbe, si dà conto del fervore degli studi in materia: «…J. Gaudemet […] dans une conférence substantielle et elégante, comment la recherche peut s’orienter et arriver à des résultats neufs…».
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tra Spello, Isola Polvese sul Trasimeno e Montefalco (18-20 settembre 1975), un contributo d’insieme, anche questa volta di taglio monografico, dal titolo Le strutture amministrative dell’Impero da Diocleziano a Costantino, dedicato alle profonde trasformazioni intervenute nelle strutture costituzionali dell’Impero nel periodo intercorrente fra la Tetrarchia dioclezianea e l’ascesa al potere di Costantino, una sorta di lavoro preparatorio delle successive ricerche. Dando dimostrazione dei risultati cui era possibile pervenire grazie alla ricerca palingenetica, l’autore, con la consueta acribia argomentativa, idonea a rendere particolarmente convincente l’esposizione, pur senza rinnegare del tutto l’interpretazione in chiave antagonistica dell’esperienza che conduce da Diocleziano a Costantino, specialmente caratterizzata quest’ultima da un progressivo consolidamento del potere imperiale, ne minava, almeno in parte, il fondamento, evidenziando, proprio in forza della nuova luce che la rinnovata metodologia di indagine aveva offerto per l’esatta comprensione del tenore e della successione dei provvedimenti imperiali, l’esistenza, anche in epoca tetrarchica, di un forte sistema centralizzato: ciò che traeva linfa dall’esistenza della figura predominate, per anzianità e prestigio, dell’imperatore dalmata sugli altri correggenti, idonea a corroborare l’idea del mantenimento, anche nel sistema tetrarchico, di un unico centro di potere dell’intero sistema imperiale 18. Si trattava, in sostanza, della prima dimostrazione dei risultati, in certo senso singolarmente innovativi, cui potevano aspirare le nuove ricerche sulle fonti della realtà giuridica tardoantica, coniugando il rigore del metodo nello studio palingenetico dei provvedimenti normativi coevi, mediante la analitica ricostruzione delle carriere dei singoli funzionari imperiali e la creazione dei nuovi officia ed utilizzando, ove possibile, i dati ricavabili dalle inscriptiones e dalle subscriptiones, con la visione d’insieme dell’organizzazione amministrativa e dell’assetto costituzionale dell’Impero.
4. Nel rispetto delle scelte tematiche dei convegni biennali, profilo in ordine al quale Manlio Sargenti censurava dispersioni non coerenti con gli argomenti prescelti, in occasione del terzo Convegno Internazionale (Perugia-Trevi-Gualdo Tadino, 28 settembre – 1 ottobre 1977), dal titolo Impero e Cristianesimo dopo la morte di Costantino: la politica di Giuliano l’Apostata e di Teodosio I, presentò un densissimo lavoro su Giuliano 19, nel quale, dopo un’anali18 Il dato può considerarsi definitivamente acquisito in dottrina: per tutti, L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici, cit., 132. 19 M. SARGENTI, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano, in AAC, 3, 1979, 323 ss.
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si minuta dei provvedimenti normativi conservati nel Codice Teodosiano, cronologicamente relativi all’attività di governo del sovrano, successivi alla morte di Costanzo ed all’ingresso in Costantinopoli quale unico Augusto, individuava la cifra caratteristica dell’attività di governo dell’Apostata: la restaurazione e la difesa dei valori dell’ellenismo, che l’imperatore vedeva indissolubilmente legati ai principi della religione ed alle manifestazioni del culto pagano. Ma l’importanza del contributo non si limita ai rilevanti risultati, palingenetici e ricostruttivi insieme, la cui validità, a distanza di molti lustri, non è posta in discussione dalla scienza romanistica, bensì è dato da un altro fondamentale elemento, intimamente connesso all’attività dell’Accademia e ai risultati che, come vedremo, ne scaturiranno: lo studio su Giuliano, infatti, offre al Maestro l’occasione di riflettere sull’effettivo contributo del Codice Teodosiano alla ricostruzione della realtà giuridica del Tardo Impero, considerando un aspetto sino ad allora trascurato, cioè la considerazione che altre fonti, come – in particolare – l’epistolario dell’Imperatore 20 e le notizie provenienti dai suoi contemporanei, Ammiano Marcellino su tutti, consentissero di delineare un’attività normativa molto più ricca e varia, nella sostanza e nelle forme, di ciò che il massimario della raccolta ufficiale lasciava intravedere. Era questa, non è difficile individuarla, la seconda svolta metodologica nell’avanzamento dei nostri studi: l’utilizzo delle fonti letterarie, quale corollario indispensabile per la ricostruzione dell’attività normativa imperiale. Opzione particolarmente proficua per l’Apostata, autore di un ricco e documentatissimo epistolario, ma applicabile anche per la ricostruzione dell’attività normativa di altri imperatori e che costituirà la premessa per la pubblicazione della prima serie dei Quaderni dell’Accademia.
5. Il quarto convegno si tenne nel 1979 (Perugia-Spello-Bettona-Todi 1-4 ottobre 1979) e fu dedicato all’epoca dei Teodosii (Aspetti giuridici, economico-sociali, religiosi e culturali dell’impero dal primo al secondo Teodosio): Sargenti, nel relativo volume di Atti, pubblicato nel 1981 e dedicato al Prof. De’ Dominicis, nel frattempo scomparso 21, pubblicò un contributo, dedicato spe20
Non era trascorso troppo tempo dalla ristampa dell’opera di J. BIDEZ, L’empereur Julien. Oeuvres complétes. Lettres et fragments, Paris 19602. 21 Fu per questa ragione che il volume, particolarmente corposo, si compone di due parti: una prima che raccoglie, come di consueto, i contributi dei partecipanti al Convegno e una seconda parte (Altri Studi: pagg. 431-873), contenente i contributi, anche su temi estranei al Convegno, di coloro che vollero onorarne la figura (il IV volume degli Atti è infatti “in onore di Mario De Dominicis”, nonostante l’improvvisa scomparsa del maestro: sulle ragioni di non trasformare il volume in “Studi in memoria”, si legga la commossa motivazione di A. Biscardi, divenuto medio tempore Presidente dell’Accademia, nella Prefazione).
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cificamente alla palingenesi, anche nella prospettiva dell’individuazione del valore territoriale degli interventi normativi imperiali (per usare un’espressione di Gaudemet, il tema del partage législatif) delle costituzioni di Teodosio II e Valentiniano III, CTh. 3.7.3 e 4.6.7, nelle quali, come è noto, sono affrontati vari problemi di importanza centrale per la ricostruzione del quadro normativo della tarda antichità: forma e struttura del matrimonio, unitamente al tema, peraltro intimamente connesso, dei liberi naturales. In chiave critica rispetto ai risultati dell’indagine dell’Orestano 22, Sargenti concludeva per l’inverosimiglianza della preesistenza di una norma generale sulla forma del matrimonio, che né i compilatori teodosiani, né quelli giustinianei avrebbero tralasciato di conservare, anche considerando il silenzio – ecco l’applicazione pratica della volontà di estendere l’indagine al di fuori dei confini strettamente “normativi” – il silenzio degli autori ecclesiastici 23. Il – relativamente – breve contributo e la natura solo apparentemente circoscritta dell’indagine, rispetto ai precedenti lavori, aveva una forte e ben giustificata motivazione: era in piena fase di preparazione, in quello stesso torno di tempo, il primo volume della prima serie dei Materiali per una palingenesi delle costituzioni tardo imperiali, di cui è stato Direttore scientifico e infaticabile sostenitore, quello dedicato alla ristampa anastatica del contributo di Otto Seeck sulla datazione dei provvedimenti imperiali dell’imperatore Costantino, che l’illustre autore tedesco aveva pubblicato nel 1889, nel decimo volume della Zeitschrift der Savigny Stiftung für Rechtsgeschichte. In una prefazione, che non esito a definire il manifesto programmatico della futura attività scientifica dell’Accademia Costantiniana, Sargenti esemplifica le ragioni di una ristampa del lavoro del Seeck, nonostante le critiche severe del Mommsen, che attendeva, in quel momento, al completamento dell’edizione del Teodosiano 24 e la pubblicazione, vent’anni più tardi, ad opera dello stesso Seeck, dei suoi Regesten 25: «… è avvenuto più volte a chi scrive di trovarsi dinanzi a datazioni dei Regesten assai meno convincenti e plausibili di quelle proposte in Zeitfolge …» 26. Ecco, perché, proseguiva il Maestro, «l’Accademia Costantiniana ha ritenu22 R. ORESTANO, Consenso e solennità nella legislazione matrimoniale teodosiana, in Scritti in onore di C. Ferrini pubblicati in occasione della sua beatificazione, 2, Milano 1947, 160 ss. In senso analogo, ID., La struttura giuridica del matrimonio dal diritto classico al diritto giustinianeo, Milano 1951, 454 ss. 23 M. SARGENTI, Il matrimonio nella legislazione di Valentiniano e Teodosio, in AAC, 4, 1981, 203 ss. 24 TH. MOMMSEN, Das Theodosische Gesetzbuch, in ZSS, 21, 1900, 149 ss. 25 O. SEECK, Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919. 26 M. SARGENTI (cur.), Otto Seeck, Die Zeitfolge der Gesetze Constantins, Milano 1983, VI.
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to opportuno ripubblicare il testo dello studio del Seeck, per renderne più agevole la consultazione e l’uso, come strumento indispensabile a quella palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali (prime le costituzioni costantiniane) che l’Accademia si è proposta di avviare. Anche se non sempre accettabili, le idee dell’illustre studioso per la datazione di quelle costituzioni vanno sicuramente tenute presenti e raffrontate con quelle più tarde. Esse costituiscono, in ogni caso, un prezioso stimolo alla revisione critica del materiale costantiniano ed al suo riordinamento cronologico» 27.
6. I risultati di tale impegno non si fecero attendere: fra gli esempi di insoddisfacente collocazione cronologica proposta nei Regesten dal Seeck vi era, primo per l’importanza che comportava in relazione alla nuova disciplina della compravendita, il problema della datazione di Fr. Vat. 35 e CTh. 3.1.2, cui Sargenti, infatti, dedicò il proprio contributo in occasione del quinto Congresso Internazionale, tenutosi nell’ottobre 1981 tra Spello, Perugia, Bevagna e Sansepolcro, dedicato al tema: Il Codice Teodosiano e le sue fonti: problemi critici e ricostruttivi, che dava documentale conto degli specifici interessi dell’autore, grazie al cui contenuto il Maestro si proponeva di risolvere il problema di come giustificare, di fronte ad una pressoché totale identità di contenuto, un divario cronologico di quasi un quarto di secolo fra la versione dei Frammenti Vaticani (313) e quella raccolta nell’edizione del Teodosiano (337) 28. Si tratta del primo banco di prova della fecondità del nuovo metodo di studio delle fonti tardoimperiali e i toni dell’argomentare sono particolarmente vibrati: «Non sembri strano se dirò che questi problemi non sono stati sistematicamente studiati e che su di essi non esiste, checché se ne pensi, un orientamento uniforme e neppure chiarezza di idee. Qualche autore ha ravvisato, è vero, l’opinione dominante nella datazione della costituzione al 337 … mentre altri ha adottato questa data come la più verosimile, senza discuterla e senza neppure porsi il problema dei rapporti fra Vat. Fr. 35 e CTh. 3.1.2 …». Nulla, quindi che consenta, sono ancora parole del Sargenti, di «poterci acquetare dinanzi ad un’opinione consolidata» 29: al contrario, grazie ad una serratissima esegesi e facendo tesoro dei risultati della riedizione dell’opera del Seeck, il Maestro conclude per la conservazione della autonomia dei due te27
M. SARGENTI (cur.), Otto Seeck, Die Zeitfolge der Gesetze Constantins, cit., XII. M. SARGENTI, Contributo ai problemi della palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali (Vat. Fr. 35 e CTh. 3.1.2), in AAC, 5, 1983, 311 ss. 29 M. SARGENTI, Contributo ai problemi della palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali (Vat. Fr. 35 e CTh. 3.1.2), cit., 313. 28
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sti, il frammento vaticano emanato nel 313 e intitolato a Costantino e Licinio, di provenienza orientale; il testo teodosiano, del solo Costantino ed emanato nel 337, con ciò tacciando di «impresa ermeneuticamente disperata» il tentativo di salvare, con vari accorgimenti interpretativi, l’unità sistematica di queste norme 30.
7. Il sesto Convegno Internazionale (Spello 12-15 ottobre 1983), dedicato a Politica ecclesiastica e legislazione religiosa dopo l’editto teodosiano del 380, conferma l’interesse del Maestro ai temi oggetto di specifica e assidua cura in quel torno di tempo, come si ricava dal titolo del Suo saggio: Contributi alla Palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali. Momenti della normativa religiosa da Teodosio I a Teodosio II: un lavoro solo apparentemente circoscritto a temi specifici, cioè l’esame dell’epistula indirizzata al prefetto del pretorio d’Oriente, probabilmente nell’anno 384, dagli imperatori Valentiniano II, Arcadio e Teodosio e non conservata nel Codice Teodosiano e relativa alla controversia ariana, raccolta nella Collectio Avellana ovvero il contenuto della costituzione Sirmondiana 6, che illumina un momento rilevante dell’azione repressiva contro i Pelagiani, ma che offre però al Maestro l’occasione per sottolineare l’importanza delle fonti escluse dalle raccolte ufficiali.
8. Il settimo Convegno (Spello-Perugia-Norcia 16-19 ottobre 1985), dedicato al tema: Matrimonio e filiazione nel diritto tardo-imperiale romano da Costantino a Teodosio II. Influssi religiosi e fattori sociali impegnerà il Maestro, in coerenza con la scelta tematica, con un saggio su “Matrimonio cristiano e società pagana” 31, pubblicato nel 1988 e dedicato all’esame delle reciproche e non del tutto indagate influenze fra istituti giuridici del mondo ellenistico-romano e il matrimonio cristiano, la cui comprensione Egli auspicava avvenisse anche tramite lo studio delle massime tratte dagli scritti dei Padri della Chiesa, le cui opere avrebbero potuto gettare nuova luce sulle conoscenza, in generale, della 30
Sono ancora le parole del Sargenti, a pag. 313. Gli atti di questo quinto Convegno Internazionale sono significativi anche per un altro motivo: essi, infatti, offrono l’occasione a Paolo Silli di pubblicare un’anticipazione dei risultati della ricerca iniziata nel solco indicato dal Maestro: mi riferisco all’indagine sui documenti della cancelleria imperiale di Costantino, conservati nelle fonti letterarie che, completata qualche anno dopo, sfocerà nella pubblicazione del secondo Quaderno della Serie Seconda dei Materiali per una Palingenesi delle costituzioni tardoimperiali, dal titolo Testi costantiniani nelle fonti letterarie (Milano 1987). 31 M. SARGENTI, Matrimonio cristiano e società pagana, in AAC, 8, 1988, 49 ss.
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normativa imperiale: un proposito che Egli volle subito realizzare, dando alle stampe il quarto volume della prima serie dei Quaderni dell’Accademia, nel quale, con l’ausilio di Rosa Bianca Bruno Siola, prematuramente e tragicamente scomparsa, sono raccolti gli accenni, diretti o indiretti, a provvedimenti normativi rinvenibili in un gruppo di opere di S. Ambrogio (De officiis, Epistulae, Orationes funebres), che Gli erano apparse particolarmente significative per la possibile ricostruzione dell’attività legislativa della cancelleria imperiale 32. I risultati dell’indagine, quantitativamente non sovrabbondanti, erano peraltro tangibili: il provvedimento di Valentiniano I, concernente la giurisdizione ecclesiale in causa fidei vel ecclesiastici alicuius ordinis (Ep. 75), la relatio Romani concilii ad Gratianum et Valentinianum imperatores directa (Ep. Extra coll. 7), il provvedimento inserito nei Gesta episcoporum Aquileiae adversum haereticos Arianos o nel De officiis (2.29) a proposito di una vicenda che vede in contrasto autorità civili e autorità ecclesiastiche sullo sfondo di una controversia in materia di proprietà ovvero, ancora, nel passo dell’orazione funebre per Valentiniano II, pronunciata da Ambrogio nell’estate del 392 (De obitu Valentiniani), dove si rievoca, a proposito della pietas del de cuius, un intervento imperiale a favore di un ignoto personaggio, accusato di lesa maestà, nel corso del relativo processo: dapprima con un responsum, che dispone l’interruzione del processo durante i sancti dies del periodo pasquale; quindi, in funzione decisoria, per qualificare calunniosa l’accusa e ordinare che l’accusato venga posto in libertà vigilata; infine, con un rinvio al giudice per la decisione definitiva.
9. Dopo una nuova prova dei risultati che si possono ottenere tramite la palingenesi della normativa imperiale, specialmente costantiniana, nel saggio 33, pubblicato negli Atti dell’VIII Convegno Internazionale, tenutosi a Spello e Perugia tra il 29 settembre e il 2 ottobre 1987 e dedicato, nel solco del precedente, ad un tema eminentemente “privatistico” (Problemi della persona nella società e nel diritto del Tardo Impero), gli interventi del Maestro, coerentemente con la centralità e l’elevatissimo prestigio personale e scientifico che Egli era andato assumendo, anche a livello formale, in seno al Consiglio Direttivo dell’Accademia, ebbero un taglio nuovo e completamente diverso: sin dal IX Convegno tenutosi tra Spello, Perugia e Città di Castello tra il 2 e il 5 ottobre 32 M. SARGENTI-R.B. BRUNO SIOLA, Normativa imperiale e diritto romano negli Scritti di S. Ambrogio. “Epistulae-De officiis-Orationes funebres”, Milano 1991. 33 M. SARGENTI, Costantino e la condizione del liberto ingrato nelle costituzioni tardoimperiali, in AAC, 8, 1990, 181 ss.
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1989, dedicato ai Problemi dell’appartenenza dei beni nella società e nel diritto del tardo Impero, infatti, al prof. Sargenti fu affidata la relazione di sintesi 34, nella quale, prendendo spunto dal programma dei lavori, ribadirà con forza il Suo pensiero: «Certo noi conosciamo bene le intenzioni della cancelleria imperiale di Teodosio II nel programmare la compilazione del Codice, ma sappiamo ancora poco su come quel programma si (o non si) è realizzato. Ad ogni parziale sondaggio vien fatto di constatare che la realizzazione è stata quanto mai imperfetta, che l’idea di raccogliere solo generales constitutiones è stata intesa in maniera molto approssimativa, che molte costituzioni presenti nel Codice non avevano affatto, in origine, una portata generale […]. Ma questi sondaggi vanno estesi e sistematicizzati, per rendere chiara la tecnica di redazione ed i suoi risultati. E, d’altra parte, va ricostruito indipendentemente, con una paziente opera palingenetica, il corpus normativo dei singoli imperatori, per ricollocare le loro costituzioni nell’originario contesto storico e comprenderne l’originario significato e l’originaria funzione». Come di consueto, la tenacia e la concretezza del professore nel perseguire gli obiettivi prefissati non si fecero attendere: in sostanziale contestualità, infatti, fu pubblicato il primo volume della Collana della serie seconda, quella specificamente dedicata alla ricostruzione della normativa imperiale, a cui il Maestro si dedicò, con appassionata abnegazione e coerenza indomita, per tutta la vita, pur perfettamente consapevole dell’incertezza e della provvisorietà dei risultati che sarebbero stati raggiunti: basti leggere la prefazione al primo volume della Collana, dedicato alla palingenesi delle costituzioni degli imperatori Valentiniano e Valente, per la redazione del quale aveva ritenuto non inutile il mio, pur modesto, contributo: «La seconda serie dei materiali per una palingenesi delle costituzioni tardo imperiali – che solo per motivi contingenti si apre con questo quarto volume, dedicato alla legislazione di Valentiniano e Valente – vuole offrire il quadro, cronologicamente ordinato, dell’attività legislativa dei singoli imperatori attraverso la ricostruzione palingenetica del materiale normativo conservato nei Codici, nelle raccolte non ufficiali e nelle epigrafi […]. Non sarà mai abbastanza ripetuto che quello di cui si dà in questo volume un primo saggio vuole essere solo l’abbozzo di un’opera assai più impegnativa, quale dovrà essere, nel risultato finale, la palingenesi delle costituzioni tardo imperiali. E solo con la consapevolezza di questi suoi limiti lo presentiamo agli studiosi» 35. 34
M. SARGENTI, Tra rappresentazioni tradizionali e nuove prospettive. Considerazioni conclusive, in AAC, 9, 1993, 385 ss. 35 F. PERGAMI (cur.), La legislazione di Valentiniano e Valente (364-375), Milano 1993. Della stessa serie, P. CUNEO (cur.), La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1997.
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Preceduto da una presentazione, nel luglio del 1993, presso l’Università Statale di Milano, il volume, come è noto, fu accolto da una recensione ferocemente negativa: Sargenti, consapevole dell’impegno che, per anni, Egli aveva personalmente profuso e del progetto, anche metodologico, che ne costituiva l’architrave, molto se ne dispiacque e solo dopo una lunga meditazione decise di non replicare a quel giudizio tanto severo, confidando che il tempo potesse consentire alla comunità scientifica di apprezzare la fecondità della Sua intuizione: così, in effetti, fu. A quel primo esperimento, seguì, sempre nella medesima serie, la pubblicazione di un secondo volume, quello dedicato alla legislazione dei figli di Costantino, a cura di Paola Cuneo, pubblicato nel 1997 36 e, nella prima serie, il lavoro di Marialuisa Navarra sulle Res Gestae di Ammiano Marcellino 37.
10. Per il X Convegno (Spello, Perugia, Gubbio 7-10 ottobre 1991), come peraltro risulta anche dal tenore del titolo, Il Tardo Impero. Aspetti e significati della realtà sociale nei suoi riflessi giuridici, il Consiglio Direttivo optò per una sorta di “messa a punto”, nel senso che, come risulta dalle parole dell’allora Presidente dell’Accademia, Arnaldo Biscardi, a cui i relativi Atti sono dedicati, fu decisa una “pausa di riflessione”, per consentire la integrale messa a fuoco dei problemi sino ad allora affrontati 38. Anche in questa caso, la relazione conclusiva fu affidata al Maestro e il risultato fu particolarmente felice: a distanza di vent’anni dall’esordio del primo convegno, il saggio delinea la realtà tardoimperiale in una triplice e reciprocamente interdipendente prospettiva: il limite cronologico del tardo Impero, il rapporto fra economia e società, alla luce dei riflessi giuridici e il ruolo del fattore religioso, specialmente del pensiero e dell’organizzazione ecclesiale cristiana, ma anche dei residui elementi pagani, nella vita dell’Impero, in relazione ai profili giuridicamente rilevanti. Una messa a punto magistrale, che nel dare conto dei risultati raggiunti e degli obiettivi prefissati, apriva la strada per la futura e rinnovata attività di ricerca e di studio 39.
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P. CUNEO (cur.), La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), cit. M. NAVARRA, Riferimenti normativi e prospettive giuspubblicistiche nelle “Res Gestae” di Ammiano Marcellino, Milano 1994. 38 A. BISCARDI, in Discorsi di saluto, in AAC, X Convegno Internazionale, cit., 21. 39 M. SARGENTI, Il significato del Tardo Impero. Considerazioni conclusive, in AAC, X Convegno Internazionale, cit., 707 ss. 37
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11. La seconda fase dell’Accademia Costantiniana si apre con l’undicesimo convegno, tenutosi fra Perugia, Spello e Gubbio fra l’11 e il 14 ottobre 1993, dedicato al tema dell’amministrazione della giustizia (Amministrazione della giustizia ed esperienze processuali nella tarda antichità), i cui relativi Atti, pubblicati nel 1996, sono stati dedicati al vicepresidente, prof. Felix Wubbe. Se la presentazione fu affidata, causa l’assenza forzata del Presidente Biscardi per motivi di salute, al segretario scientifico dell’Accademia, prof. Giuliano Crifò, cui intendo rivolgere un grato pensiero, che dava conto della recente costituzione della Associazione Accademia storico-giuridica costantiniana, anche in questo caso la sintesi fu ancora di Sargenti: con un contributo densissimo, il Maestro, prendendo atto della preferenza accordata ai temi del processo criminale, rispetto a quelli del processo civile, tratteggiava, con la consueta maestria, i temi di fondo dell’attività giurisdizionale in età tarda: la struttura, accusatoria o inquisitoria, del processo, il sistema delle pene, i processi definiti “speciali”, da quello fiscale alla giurisdizione militare ed ecclesiastica, il riesame della decisione di primo grado, sottolineando, in limine, la centralità, per l’avanzamento dei nostri studi, del tema dell’amministrazione della giustizia per l’esatta comprensione della realtà giuridica tarda 40. Ancora una volta, dalle parole ai fatti: due degli argomenti qualificati come centrali a conclusione del convegno, costituiranno, infatti, l’oggetto dei volumi della terza serie dei Quaderni dell’Accademia, quella dedicata ai lavori di taglio monografico: il primo, licenziato contestualmente alla pubblicazione degli Atti, frutto dell’opera di Stefania Pietrini e dedicato all’iniziativa nel processo criminale 41 e il secondo, dedicato dal sottoscritto al tema dell’appello 42.
12. La decisione del Consiglio Direttivo di dedicarGli il volume di Atti del XII convegno (Perugia-Spello 11-14 ottobre 1995), sul tema Finanza e attività bancaria tra pubblico e privato nella tarda antichità. Definizione, normazione, prassi, lo indusse, con la modestia che Gli era congeniale, ad astenersi, almeno formalmente, dalla redazione della relazione conclusiva: dico formalmente, poiché la lettura del contributo del Maestro, dal titolo Economia e finanza tra pubblico e privato nella normativa del Tardo Impero, costituisce una miniera di informazioni su una tematica che, prendendo spunto dal rapporto fra la sfera dell’attività privata e quella dell’economia e della finanza pubblica, offre al let40 M. SARGENTI, Il processo nel Tardo Impero. Considerazioni conclusive, in Atti Accademia Romanistica Costantiniana. XI Convegno Internazionale, Perugia 1996, 689 ss. 41 S. PIETRINI, Sull’iniziativa del processo criminale romano (IV-V sec.), Milano 1996. 42 F. PERGAMI, L’appello nella legislazione del tardo Impero, Milano 2000.
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tore la chiave interpretativa dei rapporti, in generale, fra sfera pubblica e sfera privata nelle fonti normative del tardo Impero 43.
13. Nessuno avrebbe potuto, né voluto immaginare che gli Atti del XIII convegno dell’Accademia, dedicati alla memoria di André Chastagnol, avrebbero accolto, per l’ultima volta, un contributo scientifico di Manlio Sargenti: l’incontro, tenutosi a Perugia dall’1 al 4 ottobre 1997 e dedicato a Centralismo e autonomie nella tarda antichità. Categorie concettuali, lo vedrà di nuovo protagonista, non soltanto perché, in qualità di vicepresidente, Egli aprì i lavori in un’Umbria sfregiata dal terremoto 44, ma perché – come ormai era divenuta consuetudine – fu l’autore della relazione di sintesi 45. Anche in questa occasione, la riflessione non rimase circoscritta ad un commento delle relazioni presentate durante i lavori congressuali, ma si estese ai temi di fondo che la scelta dell’argomento aveva dischiuso, cioè la riflessione sull’applicazione o, al contrario, sul rifiuto delle categorie dogmatiche moderne nello studio dei fenomeni giuridici del mondo antico, nell’alternarsi, linguistico prima ancora che concettuale, delle espressioni “autonomia” e “centralismo”. Mettendo in guardia dalla tentazione, suggerita da un diverso lessico delle fonti, di separare nettamente l’esperienza del mondo classico da quello del tardo Impero, nonché dal pericolo, ancora più incombente, di enfatizzare il carattere sacro che la figura dell’imperatore assume, divenendo forma e mezzo di legittimazione del potere, Sargenti concentra le proprie indagini, anzitutto, sul problema della unità o della separazione dell’Impero, non già esclusivamente – avverte il Maestro – in senso territoriale o di pluralità di titolari del potere, bensì in termini giuridici ovvero, più precisamente, sotto il profilo del regime normativo. Le riflessioni di Sargenti, al termine della serrata indagine, inclinano a favore della unitarietà, non sulla base di visioni astrattamente totalizzanti o aprioristiche, bensì all’esito di un esame particolareggiato del materiale normativo nei vari periodi di pluralità di titolari del potere, per cercare di stabilire se l’attività normativa espressa in quel materiale, fosse o no destinata a tutto l’Impero. Ne costituisce, del resto, il riflesso concreto un dato testuale di fondamentale rilievo, la frase di Orosio, per il quale, come noto, all’epoca dell’usurpazione di 43 M. SARGENTI, Economia e finanza tra pubblico e privato nella normativa del Tardo Impero, in Atti Accademia Romanistica Costantiniana. XII Convegno Internazionale, Napoli 1998, 33 ss. 44 M. SARGENTI, Discorsi di saluto, in Atti Accademia Romanistica Costantiniana. XIII Convegno Internazionale, Napoli 2001, 18 ss. 45 M. SARGENTI, Centralismo o autonomia nella tarda antichità? Posizioni attuali e prospettive future, in Atti Accademia Romanistica Costantiniana. XIII Convegno Internazionale, cit., 801 ss.
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Gildone, commune imperium divisis tantum sedibus 46, nonché – in linea generale – la considerazione che non sarebbe stato possibile alla classe dirigente che circondava Teodosio II concepire e realizzare il Codice che porta il suo nome se non fosse stata viva la coscienza dell’unità del materiale normativo che si voleva raccogliere. Ma il tema, osserva Sargenti, impone indagini sull’accentramento o sul decentramento nella struttura dell’impero, sull’assetto, in particolare, dell’organizzazione amministrativa e burocratica dei funzionari imperiali e della ripartizione delle reciproche competenze, sul ruolo e sull’importanza degli organismi locali e sui loro rapporti con il governo centrale, anche nella prospettiva delle organizzazioni sovracittadine, a livello provinciale o diocesano, tramite l’istituto dei concilia ovvero sui profili, singolarmente contradditori, nel senso di conformazione all’organizzazione statale piuttosto che in senso antagonistico, delle comunità ecclesiali. Una serie di problemi che «di fronte all’ampiezza e alla complessità del fenomeno storico proposto all’attenzione degli studiosi, non consente di sicuro soluzioni lineari ed univoche». La strada indicata dal Maestro era, però, tracciata: occorre «un lavoro di analisi del materiale normativo ancora tutto da compiere, e da compiere valutando il contenuto delle costituzioni non in un’astratta prospettiva normativistica, ma in rapporto ai problemi concreti che, riportate al loro originario contesto, esse consentono di individuare» 47.
14. Manlio Sargenti partecipò, per l’ultima volta, anche al XIV Convegno (Perugia-Spello 30 settembre-2 ottobre 1999), dedicato alla Critica del testo nello studio delle fonti giuridiche tardoantiche, durante il quale presentò la relazione centrale, di cui non conserviamo il testo a stampa, a causa della malattia, che nel frattempo, l’aveva colpito, ma esclusivamente la trascrizione, non rivista dall’autore, dell’intervento tenuto in apertura della giornata inaugurale del congresso: era questa la sua ultima traccia scritta, l’ultimo contributo all’avanzamento degli studi dell’Accademia Costantiniana. Sentiamo ancora risuonare la Sua voce e i Suoi insegnamenti, l’indirizzo metodologico propugnato con fiera decisione: «Ecco, dunque, la ragione fondamentale di questo nostro convegno: richiamare alla necessità di una riflessione e di una possibilmente diversa lettura delle fonti che noi chiamiamo normative imperiali e che in gran parte normative, nella loro originaria stesura e destinazione, non era46
Oros., Hist. adv. Pag. 7.36.1. M. SARGENTI, Centralismo o autonomia nella tarda antichità? Posizioni attuali e prospettive future, in Atti Accademia Romanistica Costantiniana. XIII Convegno Internazionale, cit., 824 s. 47
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no» e, dopo una ragionata esemplificazione, l’auspicio finale, che può certamente essere considerata la sua eredità scientifica: «Ecco, cari amici, una serie, certamente non completa di considerazioni e di proposte, che l’Accademia Costantiniana ha voluto e vuole sottoporre alla vostra attenzione, perché si possa avviare il mondo degli studiosi della tarda antichità e soprattutto dei giovani studiosi della tarda antichità ad un modo nuovo e diverso di lettura delle fonti. Non consideratele più come un tutt’uno, come un insieme sistematico, organico, coordinato, ma consideratele in queste loro sfaccettature, in questa loro problematicità, in questa necessità di studiarne analiticamente la struttura, la natura, l’origine, la collocazione. Da questo convegno vorremmo che nascesse, e scusate se il progetto è troppo ambizioso, vorremmo che nascesse, che perlomeno fosse avviato, un nuovo modo di affrontare lo studio delle fonti giuridiche della tarda antichità» 48.
15. Da allora, pur sollecitato da amici e colleghi non volle più tornare in Umbria, preferendo lasciare di sé, me lo confessò più volte, il ricordo dei suoi giorni migliori. Pur sentendo avvicinarsi il tramonto, Egli, seppure con le forze declinanti, continuava, indomito, a leggere, a scrivere, a studiare. Ne sono prova l’assidua cura con cui aveva seguito le nuove pubblicazioni dei Quaderni dell’Accademia, nel cui seno, nel frattempo, era stato designato Presidente d’onore: il volume di Stefania Pietrini sull’epistolario di Leone Magno nella prima serie 49, il lavoro di Antonio Banfi in tema di giurisdizione ecclesiastica nella terza 50. In una conversazione privatissima, mi confessò che la condizione di parziale infermità Gli aveva offerto l’occasione di attendere, con la dovuta pazienza e la necessaria attenzione, all’opera che considerava, senza alcun dubbio, la più importante di tutto il Suo percorso scientifico, quella a cui teneva maggiormente e che si rammaricava di non avere ancora completato: la palingenesi delle costituzioni dell’imperatore Costantino. Nella sua bella casa, dove tutti i pomeriggi ci incontravamo per lavorare, Egli raccoglieva le schede dei provvedimenti imperiali, che mi consegnava perché io, dopo averle ordinate cronologicamente, annotassi a margine le Sue 48 M. SARGENTI, La critica del testo nello studio delle fonti giuridiche tardoantiche (trascrizione della relazione), in Atti Accademia Romanistica Costantiniana. XIV Convegno Internazionale, Napoli 2003, 25 ss. 49 S. PIETRINI, “Religio” e “Ius Romanorum” nell’epistolario di Leone Magno, Milano 2002. 50 A. BANFI, “Habent illi iudices suos”. Studi sull’esclusività della giurisdizione ecclesiastica e sulle origini del “privilegium fori” in diritto romano e bizantino, Milano 2005.
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osservazioni e i Suoi commenti. E così fece sino alla fine. Pochi giorni prima del Natale del suo novantasettesimo compleanno, in una Milano imbiancata dalla neve, la malattia lo riprese fra i suoi artigli, ponendo fine al Suo percorso umano e professionale e, insieme, a una stagione straordinaria di studio e di ricerca.
16. L’itinerario scientifico di Manlio Sargenti testimonia la fedeltà dello Studioso ad un metodo di indagine e di ricerca, esemplare per rigore e coerenza, rivelatosi particolarmente proficuo nel contemperare efficacemente l’esegesi serrata e minuziosa dei testi, non solo giuridici, ma anche letterari 51 ed epigrafici 52, di cui era profondo conoscitore, con il respiro ampio del loro inquadramento nel sistema generale dell’ordinamento della realtà tardoantica, non disgiunto da una straordinaria conoscenza della letteratura storico-giuridica 53. Non è difficile individuare il valore del contributo che Manlio Sargenti ha dato per una più corretta e completa conoscenza della realtà giuridica del tardo Impero: esso, infatti, si distingue per la costante attenzione alle fonti, che il Maestro ha indagato con speciale acribia e per la rilevanza scientifica dei risultati, usualmente connotati da soluzioni originali ed autonome, nient’affatto ripiegate sull’opinione consolidata della dottrina, anche la più autorevole. Queste brevi riflessioni intendono, dunque, testimoniare lo straordinario apporto che il Maestro ha dato, nel corso di un lunghissimo e proficuo impegno scientifico, all’avanzamento qualitativo e, lo voglio sottolineare, in forza di una indomita capacità di lavoro, anche quantitativo, dell’attività dell’Accademia Romanistica Costantiniana: non v’è dubbio, e la nostra presenza qui ne costituisce la prova tangibile, che l’auspicio «verso mete scientifiche senza al51 R.B. BRUNO SIOLA-S. GIGLIO-S. LAZZARINI (curr.), Auctores latini et graeci tardae aetatis (saec. IV-VI a.D.) quorum scripta ad propositum opus utilia videntur, Milano 1985 (sotto la direzione di M. Sargenti), rist. Milano 2000 (cur. G.M. Facchetti). 52 Vedi, al riguardo, M. SARGENTI, La disciplina urbanistica a Roma nella normativa di età tardo repubblicana e imperiale, in La città antica come fatto di cultura, Como 1983 (= Scritti, 1017 ss.), in cui sono esaminati tre testi epigrafici in materia edilizia: lex Municipii Tarentini, lex Coloniae Juliae; lex Municipii Malacitani. 53 Fu Sua, con l’ausilio di Giorgio Luraschi e di Maria Pia Piazza, l’iniziativa di pubblicare, in tempi lontani dall’utilizzo degli strumenti informatici, l’Index Ticinensis. Operum ad ius Romanum pertinentium quae ab anno MCMLXX edita sunt, Pavia 1978, con cui «novum instrumentum parere vult, quo facilior investigatio fiat operum, quae copiosissima his proximis annis edita sunt … volumina hodie edita triginta annorum spatium, ab anno MCMXL usque ad MCMLXX complectuntur» (poi aggiornato con l’edizione del 1984: «Opus, quod iam dudum inchoavimus scripta ad ius Romanum pertinentia inde ab anno MCMXL usque ad annum MCMLXX exhibentes, nunc his novis voluminibus, quae scripta usque ad annum MCMLXXX edita colligunt, perficere conamur»).
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cun dubbio feconde» 54, che il Maestro esprimeva, a proposito dell’avvio dell’attività dell’Accademia, nel primo intervento del 1973, abbia dato i frutti sperati. Molti, infatti, sono i meriti che debbono esserGli riconosciuti in termini di impegno costante e di passione per la ricerca, trasmessa soprattutto ai giovani che ne hanno seguito l’insegnamento, nonostante il rammarico, che spesso lo affliggeva, del non sempre immediato riconoscimento, in sede concorsuale e di avanzamento di carriera degli allievi, dei lavori di palingenesi. Parlando di meriti, non mi riferisco esclusivamente al lavoro, di cui tutti noi siamo testimoni, svolto interno dell’Accademia Costantiniana, le cui finanze pure Egli anche concretamente sosteneva, grazie alle “anonime” erogazioni liberali, che come tali Sargenti imponeva fossero iscritte a bilancio, ma in termini di straordinario avanzamento delle nostre conoscenze sulle fonti della realtà tardoimperiale, solo considerando il differente ruolo assunto dal nostro settore di studi nella comunità scientifica, non solo nazionale, rispetto agli esordi: dai profili terminologici, che oggi ci fanno parlare di “tarda antichità” e non più di “basso impero” (come il rettore Ermini, nella presentazione del primo volume di atti, oltre quarant’anni fa, designava invece l’oggetto delle indagini dell’Accademia, allora qualificata come Centro Studi storico-giuridici costantiniani e sul Basso Impero), alla intervenuta – e unanimemente riconosciuta – estensione dei capisaldi temporali dell’epoca considerata, che ha allargato i propri confini rispetto agli angusti limiti dell’origine, alla influenza, ormai considerata concordemente imprescindibile per l’avanzamento dei nostri studi, dei testi extragiuridici e delle testimonianze dei Padri della Chiesa, per una più completa ed esatta ricostruzione del sistema giuridico della realtà tardoantica: il tutto in forza della nuova impostazione metodologica che Sargenti bene aveva indicato sin dai primi lavori pubblicati negli atti dei periodici convegni, i cui risultati, unanimemente apprezzati in Italia e all’estero, sono oggi sotto i nostri occhi. Queste, dunque le cose fatte. Delle molte che ancora restano da fare 55, 54
M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, cit., 332. Vedi, anche in senso analogo, la Premessa al volume: Studi sul diritto del tardo impero, Padova 1986, nel quale il contributo è ripubblicato (p. 1 ss.): «Gli scritti raccolti in questo volume hanno segnato, nel corso degli ultimi anni, il ritorno ad una tematica che aveva ispirato, nel lontano 1938, l’inizio della mia attività di ricerca e dalla quale mi ero poi per lungo tempo allontanato, attratto da altri interessi. Un ritorno cui ha dato occasione ed impulso l’attività dell’Accademia Romanistica Costantiniana e che, in ragione della varietà dei temi da questa via via proposti all’attenzione degli studiosi nei suoi periodici convegni, è andato articolandosi in una serie di contributi relativi a svariati aspetti della legislazione e del diritto del tardo impero romano». 55 Meritano speciale attenzione le parole di L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica,
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l’opera scientifica ed umana di Manlio Sargenti costituisce viatico irrinunciabile e prezioso per chi verrà dopo di noi e per le future generazioni ancora: solo seguendo il Suo esempio e rimanendo fedeli ai Suoi insegnamenti, potremo, nell’unico modo in cui egli avrebbe davvero voluto, onorarne degnamente la memoria.
codici, cit., X: «In sintesi, possiamo forse dire di essere alla vigilia di una nuova svolta nelle indagini sulla tarda antichità, a testimonianza dell’eccezionale vigore che ancora caratterizza questa fase di studi: come già accaduto per altre grandi questioni, il dibattito sembra di nuovo riaprirsi proprio nel momento in cui si riteneva che esso avesse raggiunto alcune mete in modo definitivo».
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5 DIFESA DELLE FRONTIERE DELL’IMPERO E ATTIVITÀ NORMATIVA NELLA LEGISLAZIONE TARDOANTICA *
1. Nella seconda metà del IV secolo d.C., la pressione nemica su tutti i confini dell’Impero romano era divenuta sempre più grave e minacciosa, tanto da costringere i titolari del potere ad una serie di controffensive, che li vedrà costantemente impegnati per tutta la durata del periodo di governo: ad Occidente, soprattutto nella difesa della frontiera del Reno contro gli Alamanni e del Danubio contro i Sarmati e i Quadi; ad Oriente, nella campagna contro i Goti e nella ricorrente minaccia della Persia. La contingenza bellica era destinata a condizionare, sotto vari e reciprocamente interdipendenti profili, l’attività normativa imperiale, non soltanto in relazione all’oggetto e al contenuto degli interventi legislativi che, con frequenza non casuale, come vedremo, erano dedicati all’efficienza dell’esercito e all’organizzazione militare, ma anche, persino con maggiore rilievo, in riferimento alla regolamentazione dei rapporti fra i titolari del potere, con riferimento al problema dell’unitarietà o della divisione dell’Impero, in un periodo nel quale il fenomeno della ripartizione territoriale delle competenze, seppure con caratteristiche nient’affatto uniformi, si era già ripetutamente verificato – con Costantino e Licinio fra il 313 e il 324, poi con i figli di Costantino fra il 337 e il 350 – anche prima della formale divisione dei comites fra Valentiniano e Valente, avvenuta, come ci narra Ammiano, a Mediana nell’anno 364: Principes, unus nuncupatione praelatus, alter honore specie tenus adiunctus, percursis Thraciis Naessum advenerunt, ubi in suburbano, quod appellatum Mediana a civitate tertio lapide disparatur, quasi mox separandi partiti sunt comites 1.
* AA.VV., Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana XXII, Questioni della terra. Società, economia, normazioni, prassi. In onore di Mariagrazia Bianchini, Napoli 2017, 491 ss. 1 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.1.
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Del resto, proprio la nomina di Valente quale compartecipe del potere imperiale, a cui affidare il governo della pars Occidentis, era stata il frutto di una decisione che l’imperatore Valentiniano aveva assunto sotto pressante volontà dell’esercito 2, con la deliberata volontà di indurre il fratello a prendere le armi contro i Goti, che avevano sostenuto l’usurpazione di Procopio: Valens enim ut consulto placuerat fratri, cuius regebatur arbitrio, arma concussit in Gothos ratione iusta permotus, quod auxilia misere Procopio civilia bella coeptanti 3.
2. Non può, dunque, essere considerato casuale il dato, in certo senso impressionante per la rilevanza statistica rispetto all’intera produzione normativa imperiale, che, in quel torno di tempo, gli imperatori, nel compiere il massimo sforzo per regolare, nei suoi molteplici aspetti, la vita dell’Impero, attribuirono speciale attenzione ai problemi dell’organizzazione militare, nel cui ambito, infatti, si rinviene una ricca gamma di interventi normativi, dedicati, per esempio, alle modalità di reclutamento dei soldati, all’obbligatorietà del servizio militare per i figli dei veterani, ai benefici che a questi erano concessi, nonché alle norme penali per le diserzioni, per le automutilazioni, per i tentativi di sottrarsi al servizio, accedendo – suffragiorum ambitione – a indebitos honores, fino alle disposizioni relative al trattamento di viaggio dei congedati o, infine, alla minuziosa disciplina, al cui esame il presente contributo è specialmente dedicato, della distribuzione dell’annona ai militari.
3. In questo quadro normativo, assume speciale rilevanza, in linea generale, l’attenzione posta dagli imperatori alla soluzione dei problemi economici che, nel momento della massima pressione del nemico alle frontiere e della conseguente necessità di afflusso di denaro alle casse imperiali, che tale situazione imponeva, presupponeva l’emanazione di una serie di interventi volti a disciplinare, in modo serrato, le regole dell’imposizione fiscale, in modo da renderla più redditizia per le finanze statali, nonché, con finalità analoghe, destinati ad una rigorosa ed oculata gestione di beni pubblici, fondi enfiteutici e patrimoniali e della res privata ovvero disposizioni che miravano ad assicurare l’efficienza delle pubbliche manifatture e dei servizi, con il deliberato obiettivo di migliorare, in generale, l’efficienza dell’apparato amministrativo. 2 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.2.3: Eoque, ut expeditius loqueretur, brachium exertante, ob murmuratio gravis exoritur concrepantibus centuriis et manipulis cohortiumque omnium plebe urgentium destinate, confestim imperatorem alterum declarari. 3 AMM. MARC., Rer. Gest. 27.4.1.
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4. In particolare, con riguardo al settore dell’erogatio dell’annona ai soldati impegnati nelle campagne militari, va subito osservato come, ancora prima della divisione dei territori dell’Impero tra pars Orientis e Occidentis, avvenuta, come accennato, nel giugno dell’anno 364 4, la cancelleria imperiale si era occupata della materia, con una costituzione, raccolta nella sedes materiae, il titolo 7.4 del Teodosiano De erogatione militaris annonae, c. 9, formalmente attribuita nell’inscriptio a Gioviano, ma di incerta paternità: Imp. Iovianus A. Secundo p(raefecto) p(raetorio). E vicensimo non amplius lapide milites sibi iubemus paleas convectare. Dat. v kal. Oct. Aedesa Ioviano et Varroniano conss.
Prima di occuparci del suo contenuto, è importante cercare di chiarire la data di emanazione del provvedimento: infatti, nonostante il Mommsen, nella sua edizione del Teodosiano, attribuisce a Gioviano (Iovinus nel manoscritto) l’intervento normativo, indicando, seppure dubitativamente, quale data di emanazione, il 27 settembre 364 5, nella versione del Codice di Giustiniano (C. 12.37[38].2), il provvedimento è stato attribuito ai suoi successori (Impp. Valentinianus et Valens AA. Secundo PP.) e datato da Edessa con il consolato del 364 (D. v K. Oct. Edessa Ioviano et Varroniano conss.). Alcuni elementi depongono a favore della più risalente paternità: anzitutto, come notava, in linea generale, il Seeck 6, nelle costituzioni dell’anno 364, il nome di Gioviano risulta essere stato sostituito con quello di Valentiniano e Valente, mentre è stato conservato, oltre che nella costituzione in esame, nella sola CTh. 9.25.2 (Imp. Iovianus A. ad Secundum praefectum praetorio), sicché la circostanza che sia stato mantenuto dà all’indicazione maggiore autorità di quanta ne abbiano, di regola, i nomi degli imperatori conservati nelle inscriptiones. Va notato, poi, come l’attribuzione all’imperatore Gioviano sia ulteriormente confermata dall’assenza della qualificazione, nella subscriptio, dell’appellativo di divus, come – di regola – nelle costituzioni dell’anno 364 7: circostanza che consente di fondatamente ipotizzare che l’intervento norma4
AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.2. TH. MOMMSEN, Theodosiani Libri XVI cum constitutionibus Sirmondianis. Prolegomena, Berolini 1905 [rist. 1970], ad h.l. 6 O. SEECK, Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919 [rist. 1984], 84. 7 Per una ricostruzione delle subscriptiones delle costituzioni imperiali dell’anno 364, rinvio alle riflessioni contenute nel quarto volume della seconda serie dei Quaderni dell’Accademia Romanistica Costantiniana, La legislazione di Valentiniano e Valente (364-375), Milano 1993, XV ss. 5
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tivo sia stato emanato quando l’imperatore era ancora in vita. A bene vedere, del resto, come supponeva il Krüger, l’attribuzione a Valentiniano e Valente è frutto di un errato emendamento dei compilatori del Codice e la costituzione va correttamente attribuita a Gioviano (ad h.l: Imp. Iovianus A. Th. recte) 8: certo è che essa, però, non può essere stata emanata nel settembre dell’anno 364, quando Gioviano era già morto da molti mesi, né, per vero, in quello stesso torno di tempo, ad Edessa, dove nessun imperatore si trovava: si deve supporre che l’emanazione risalga al settembre dell’anno precedente e che dopo l’indicazione di Edessa sia caduto il propositum (o l’acceptum), che riportava – correttamente – il consolato dell’anno successivo, considerando i tempi necessari – di regola qualche mese – all’invio ai destinatari delle costituzioni imperiali. Nel merito, non si tratta di una costituzione di carattere generale, bensì di un provvedimento d’ordine, finalizzato a disciplinare la distribuzione dell’annona ai soldati, che riprende il contenuto di un analogo provvedimento di Giuliano, emanato nell’anno precedente 9: in entrambi i casi, gli interventi normativi sono privi della natura di edictales generalesque constitutiones che, secondo il programma divisato nel 435, avrebbe dovuto caratterizzare tutte le leggi da ricomprendere nel Codice Teodosiano 10. Si tratta, come è noto, di un fenomeno frequente nel quadro normativo della tarda antichità, in cui alla dovizia di produzione normativa non corrisponde sempre e necessariamente un giudizio positivo del suo contenuto e della sua qualità: l’interesse del potere centrale, infatti, si soffermava spesso su aspetti meritevoli, al più, di una qualificazione di ordine amministrativa e che, invece, specialmente nel IV secolo, vengono ritenuti degni di ripetuti e solenni interventi imperiali: al contrario, solo un numero estremamente esiguo, nella massa di costituzioni emanate in questo torno di tempo, assume la veste formale di edictum.
5. Analogamente di carattere meramente esecutivo è la disposizione successiva, c. 10 CTh. 7.4, anch’essa anteriore alla spartizione dei territori dell’Impero fra i due fratelli Valentiniani: CTh. 7.4.10: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Symmachum p(raefectum) 8
P. KRÜGER, Codex Theodosianus, Berolini 1923, ad h.l. CTh. 7.4.7: Imp. Iulianus A. Sallustio p(raefect)o p(raetori)o. Milites ad vicensimum lapidem capitum petere iussimus. Dat. vii id. Mamertino et Nevitta conss. 10 L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 341 ss. 9
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u(rbi). Protectores fori rerum vanalium iuxta veteris moris observantiam in annonarum suarum conmoda pretia consequantur. Dat. x kal. Mai. Antiochiae divo Ioviano et Varroniano conss.
Se non esistono dubbi sulla data di emanazione, il 22 aprile 364, è l’indicazione nella subscriptio della località di emanazione ad Antiochia a creare i maggiori problemi ricostruttivi, poiché nella città siriana i due augusti non potevano trovarsi in quel torno di tempo. Se, per un verso, Gotofredo 11 ipotizzava potesse trattarsi di Insula Antiochia, località vicina a Costantinopoli, Seeck 12 supponeva di sostituire il luogo di emissione con Pantichium, piccola stazione di sosta sul Mar di Marmara, anch’essa non lontana da Costantinopoli, dove gli imperatori potrebbero essersi recati per riaversi dalle febbri da cui, stando al racconto di Ammiano Marcellino 13, erano stati assaliti nella primavera di quell’anno: i compilatori del Teodosiano, dunque, avrebbero equivocato, forse per la caduta della lettera “P” nei manoscritti, scambiando [P]antichium con Antiochia. A rendere verosimile una datazione anteriore alla divisione dell’Impero fra i Valentiniani, piuttosto che al 27 dicembre 364 14, come formalmente indicato nella subscriptio, della successiva costituzione 12 CTh. 7.4, riportata con sostanziali modifiche nel Codice Giustiniano (C. 12.37[38].3) 15, è la località da cui il provvedimento risulta emanato, Bonamansio, che era una stazione sulla tratta tra Filippopoli, dove gli imperatori si trovavano a fine maggio di quell’anno, come risulta da CTh. 8.5.19, CTh. 15.1.11 e CTh. 6.37.1 16 e Serdica, dove, dalla subscriptio di CTh. 12.12.3, risulta risiedessero il successivo 30 maggio: 11
GOTOFREDO, Codex Theodosianus, ad h.l. SEECK, Regesten, cit., 109. 13 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.4. 14 Mette conto di rilevare come il Mommsen (Codex Theodosianus, ad h.l.), pur annotando nell’apparato critico: «scr. vi kal. Iun. similiterve secundum alteram ibidem datam», mantiene la data del 26 novembre 364, mentre, stando alla lettera della subscriptio, la costituzione dovrebbe essere stata emanata il 27 dicembre (vi kal. Ian.). 15 Il testo giustinianeo corrisponde nella sostanza, ma differisce notevolmente nella formulazione: Cenaticorum nomine milites et eorum superstantes nihil penitus a provincialibus accipere audeant. Sciant enim milites, quod oportet eos commoda sua, quae in annonarum perceptione adispicuntur, accipientes extrinsecus detrimentis provinciales non adficere. L’“eorum superstantes” potrebbe derivare, secondo il Mommsen (ad h.l.), da una lettura genuina del testo originario “a quorum superstantibus”, corrotta in “a quibus superstatutorum” della tradizione manoscritta. 16 Sul contenuto delle tre costituzioni, dedicate alla regolamentazione del cursus publicus e alla gestione delle opere pubbliche a Roma, nonché sul loro legame, indipendentemente da lievi differenze nelle subscriptiones, qualche rilievo in F. PERGAMI, La legislazione, cit., 38 s. 12
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CTh. 7.4.12: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Victorem mag(istrum) mil(ilitum). In provinciis statione militum adfici possidentes Ursicini comitis suggestione cognovimus, a quibus superstatutorum grave atque inusitatum quoddam nomen cenaticorum fuerit introductum. Quod magnifica auctoritas tua missis conpetentibus litteris in omnibus provinciis iubebit aboleri, ut milites recordentur commode sua, quae in annonarum perceptione adipiscuntur, extrinsecus detrimentis provincialium non esse cumulanda. Dat. vi kal. Ian. Bonamansione divo Ioviano et Varroniano conss.
6. Il più rilevante intervento normativo in materia è rappresentato dall’editto indirizzato ad populum, costituito dalla c. 13 CTh. 7.4: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad populum. Actuarii per singulos vel ut multum binos dies authentica pittacia prorogent, ut hoc modo inmissis pittaciis species capitum annonarumve ex horreis proferantur. Quod nisi fuerit custoditum, actuarius et susceptor, sed et officium iudicantis, quod non institerit huic iussioni, statutae obnoxium tenebitur. Dat kal. Oct. Aqvileia Valentiniano et Valente AA. Conss.
Rilevano, anche in questo caso, prima ancora gli aspetti contenutistici, i problemi prosopografici: il consolato indicato nella subscriptio (Valentiniano et Valente AA.) condurrebbe ad attribuire questa costituzione al 365 17, se non fosse che Valentiniano non fu più ad Aquileia, dove la costituzione risulta emanata, dopo la sosta nell’anno 364, durante il viaggio verso Milano 18: la co17
Sono noti i gravi e complessi problemi che si pongono all’interprete nella individuazione della data delle costituzioni imperiali emanate durante i consolati imperiali, tanto da indurre il Mommsen a parlare di «difficultates insolitae …et insuperabiles» (TH. MOMMSEN, Prolegomena, Berlino 1905, rist. 1970, CCXLI). Gli imperatori Valentiniano e Valente ricoprirono insieme il consolato quattro volte: nel 365, nel 368, nel 370 e nel 373. In molti casi, la mancanza della cifra di iterazione potrebbe indurre ad attribuirle tutte al primo, cioè al 365. Ma tale attribuzione, a tacere della sua intrinseca inverosimiglianza, incontra spesso l’ostacolo di altri dati contrastanti che emergono dal tenore delle inscriptiones e delle subscriptiones delle stesse costituzioni: infatti, a volte, il luogo in cui queste risultano emanate non si concilia con quanto sappiamo da altre costituzioni o da fonti diverse, specialmente extragiuridiche, oppure è la persona del destinatario o la sua qualifica, come ampiamente vedremo, che risultano incompatibili con quella datazione. A volte, addirittura, i due elementi si combinano tra loro e si intersecano con i profili di carattere sostanziale del testo, rendendo ancora più ardua la soluzione del problema. 18 Grazie alle notizie fornite dal racconto di Ammiano Marcellino, siamo in grado di ricostruire gli spostamenti degli imperatori subito dopo l’assunzione del potere: al momento della sua elezione, Valentiniano era ad Ancyra (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.1.5), per poi raggiungere Nicea, dove fu proclamato imperatore (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.1.7). Il 1 marzo era a Nicomedia (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.2), dove nominò tribunus il fratello Valente e il successivo giorno 28 dello stesso mese fu a Costantinopoli, dove lo proclamò Augusto (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.3). Dopo avere trascorso l’inverno in quella città, i due imperatori si diressero in Occidente, raggiungendo Naisso attraverso la Tracia, dove separarono i comites, per giungere a
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stituzione, dunque, deve essere riportata all’anno 364 e inserita nel quadro dei provvedimenti emanati per fronteggiare, sotto vari punti vista, le emergenze militari dell’epoca, come sembra confermato dal fatto che nei mesi successivi appaiono emanate diverse costituzioni dirette ai prefetti del pretorio (7.4.11 del 13 dicembre e 7.4.16 pubblicata a Sirmio l’8 aprile 365 19), che suonano quali misure attuative delle direttive di massima enunciate in questo editto ad populum. Per avere conferma di ciò, si può anzitutto supporre che il consolato di Valentiniano e Valente indicasse in origine la data in cui la costituzione, emanata nell’anno 364, fosse stata accepta o proposita al principio dell’anno successivo e che, caduti nella subscriptio gli elementi intermedi, sia rimasto ad indicare la data di emanazione. Anche l’indicazione del 1 ottobre non è esatta, perché Valentiniano aveva lasciato Aquileia per Altino, dove si trovava già il 30 settembre, come risulta dalla subscriptio della pressoché coeva costituzione 1 CTh. 9.30 (dat. prid. Kal. Octob. Altino divo Ioviano et Varroniano conss.). La costituzione, dunque, va riportata ad uno dei giorni precedenti, come ritiene il Seeck 20, supponendo che nella subscriptio sia caduta prima del “kal.” la cifra che lo indicava. Più drasticamente, il Gotofredo riteneva errata l’inscriptio, proponendo la correzione da “ad populum” in “ad po.praefectum”, «quia si ad Provinciales haec lex pertineret, ita ea inscriberetur, ad Provinciales, vel ita plenius, ad Provinciales et Possessores. Cum enim ad Populum lex emittitur, intelligitur Popolus urbis Romae» 21.
7. Sotto il profilo del contenuto, la costituzione, nella forma solenne dell’editto, si prefiggeva l’intento di moralizzare e rendere meno gravosa la gestione delle spese militari e bene si coordina con la successiva costituzione sopra richiamata, la c. 11 h.t. che, infatti, suona come misura attuativa del principio annunciato ad populum nella c. 13 che, solo per un errore nella collocazione è stata inserita nella raccolta Teodosiana, dopo di questa, che impartiva al prefetto del pretorio Mamertino precise istruzioni affinché nessuna erogatio Sirmio, dove – diviso palatio (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.4) – Valentiniano partì verso Milano, mentre Valente alla volta di Costantinopoli. 19 La data di pubblicazione all’aprile del 365 rende verosimile, in considerazione dell’usuale tempo necessario per l’esecuzione di tale incombente, la emanazione del provvedimento alla fine del 364. 20 SEECK, Regesten, cit., 216. 21 GOTOFREDO, Codex Theodosianus, cit., ad h.l.
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di species annonariae fosse effettuata prima della consegna, da parte degli actuarii, del diurnium pittacium: CTh. 7.4.11: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Mamertinum p(raefectum) p(raetori)o. Susceptor antequm diurnum pittacium authenticum ab actuariis susceperit, non eroget. Quod si absque pittacio facta fuerit erogatio, id quod expensum est damnis eius potius subputetur. In qua re officium gravitates tuae in speculis esse debebit, non sine detrimento propri[arum] facultatum id futurum sciens, si neglexerit, ut praescribtae formae tenor custodiatur; nec pri[us] de horreis species proferantur et maxime capitationis, quam, ut dictum est, ad diem pittacia authentica fuerint prorogate. Dat. id. Dec. Trev(iris) divo Ioviano et Varroniano conss.
La data di questa disposizione attuativa, dunque, merita una rettifica, poiché, come per molte costituzioni dell’anno 365 anche per questa, che sarebbe stata emanata il 13 dicembre 364 a Treviri, il luogo non si concilia con la data, poiché non risulta che nell’anno 364 Valentiniano abbia soggiornato a Treviri e la precedente c. 62 CTh. 12.1 comprova che il 10 dicembre di quell’anno, l’imperatore si trovava a Milano. Né è corretto ipotizzare, nel caso, una datazione successiva, poiché il prefetto del pretorio Mamertino, destinatario della costituzione, cessò la carica tra la fine del mese di aprile e di giugno dello stesso 365, come è dimostrato dall’ultima costituzione a lui indirizzata nell’aprile di quell’anno (CTh. 8.5.26) e la prima CTh. 9.30.3 indirizzata, nel giugno 365, al suo successore Vulcacio Rufino. Di fronte a tali aporie, il Seeck ipotizzava un’originale soluzione prosopografica, rammentando l’esistenza, a sole ventitré miglia da Milano, una località denominata Tres Tabernae, dove «mögen die Kaiser eine Villa besessen haben, die sie oft besuchten» 22 e ipotizzava che l’ablativo Tribus Tabernis potesse essere stato facilmente scambiato, specialmente se abbreviato, con Triberis, a sua volta spesso rappresentato dalle sigle Trev. o Triv.: così, leggendo Trib(us) Tabernis invece di Trev(iris) si concilierebbero facilmente luogo, data e destinatario. A ben vedere, però, una simile ipotesi si presta a considerazioni critiche: se, per un verso, è vero che la località Tres Tabernae è effettivamente indicata nell’Itinerarium Hierosolimitanum o Burdigalense come una stazione per il cambio (mutatio) dei cavalli, otto miglia dopo Laus Pompeia, sulla strada per Piacenza 23, per altro verso, non si hanno evidenze archeologiche o notizie di altra natura circa l’esistenza in quella località di una villa imperiale o anche solo di una dimora destinata a servire da residenza imperiale. È noto che, nel Me22 23
SEECK, Regesten, cit., 09. O. CUNTZ, Itineraria Romana, Lipsiae 1929, 102, ma anche CCL 75, Turnholti 1965, 25.
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dioevo, esisteva nella zona un ospedale denominato Sancti Michaelis Atastaverna 24, che potrebbe riflettere nel nome una corruzione del romano Tres Tabernae. Addirittura, si potrebbe forse scorgere, in queste indicazioni, un indizio dell’esistenza, in località Tres Tabernae, di un più antico insediamento di qualche importanza, sul quale avrebbe trovato posto il convento ed ospizio medioevale. Si tratta, però, di indizi troppo deboli e soprattutto non suffragati da appigli sicuri 25, considerando che anche ricerche più recenti, svolte sotto il vaglio della Soprintendenza delle antichità della Lombardia, non offrono testimonianze attendibili dell’esistenza, nella zona in esame, di ville signorili, adatte, seppure in via temporanea, a divenire residenze imperiali 26. Inoltre, sotto il profilo prosopografico, è quantomeno discutibile che l’ablativo Tribus Tabernis fosse abbreviato in Trib., mentre la sigla di Treviri è usualmente abbreviata in Triv. oppure in Trev. Sembra, dunque, più corretto ipotizzare che la spiegazione più plausibile per giustificare l’indicazione di Treviri nella subscriptio del testo in commento sia da attribuire al luogo in cui la costituzione, emanata qualche mese prima del 13 dicembre 364, è stata accepta o proposita in quella data: nella subscriptio, dunque, come in molti altri casi, sarebbe caduta l’indicazione della data e del luogo di emanazione – da ipotizzare, nel caso, in Milano – con la conseguenza che data e luogo della pubblicazione del provvedimento sarebbero stato confusi con quelli. Tale ipotesi ricostruttiva, del resto, appare suffragata soprattutto dal contenuto del provvedimento in esame, considerando lo stretto legame con la sopra richiamata costituzione 13 CTh. 7.4, emanata ad Aquileia nel settembre 364 ed indirizzata al prefetto del pretorio Mamertino, che, come accennato, prevedeva come nessuna erogatio di species annonariae fosse effettuata prima della consegna, da parte degli actuarii, del diurnium pittacium: essa, dunque, come accennato, suona quale disposizione attuativa del principio generale, solennemente annunciato ad populum nella c. 13 h.t.: l’emanazione di tale provvedimento attuativo, del resto, che – sotto il profilo del contenuto risulta perfettamente coerente con la volontà imperiale di moralizzare e rendere meno gravosa la gestione delle spese militari 27 – bene si colloca nello stesso torno di 24 P. FRACCARO, La via romana da Milano a Piacenza, in Miscallanea Galbiati, Milano 1951 (= Opuscola 3, Pavia 1957), 232 ss. 25 G. CORRADI, Le strade romane dell’Italia occidentale, Torino 1968. 26 L. GUARAGNI, Contributi topografici per una carta archeologica del Basso Lodigiano, Milano 1988 (tesi di laurea). 27 R. ANDREOTTI, Incoerenza della legislazione di Valentiniano I, in NRS, 15, 1931, 468.
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tempo, cioè fra il settembre e l’ottobre dell’anno 364, il che rende plausibile la pubblicazione a Treviri nel dicembre successivo.
8. Una seconda disposizione attuativa del principio generale in tema di erogatio delle species annonariae sancito in CTh. 7.4.13, è rappresentata dalla c. 7.4.16: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Probum p(raefectum) p(raetori)o. Actuarii nisi expleto triginta dierum spatio pittacia authentica confestim tradiderint, species, quas ex fiscalibus conditis dissimularint excludere vel numero, cuius ratiocinia pertractant, supersederint erogare, de propriis facultatibus vel militibus ipsis vel fiscalibus horreis adigantur inferre. Dat vi id. April. Sirmio Valentiniano et Valente AA. conss.
Anche in questo caso, il provvedimento, indirizzato al prefetto del pretorio Probo, non può essere stato emanato a Sirmio nell’anno 365, né in alcuno dei consolati successivi, poiché in quella località i due sovrani si trovarono, in occasione della divisione dell’apparato burocratico dell’impero – partiti sunt comites, scrive Ammiano 28 – solo nell’estate dell’anno 364: la località indicata nella subscriptio non può, dunque, che essere il luogo di pubblicazione, pur restando incerto, in considerazione della compatibilità dei consolati imperiali con la prefettura di Probo, quale sia la data più plausibile: basti osservare, a rendere ancora più complicata la ricostruzione della normativa imperiale, che nessuna delle quattro prefetture da lui ricoperte durante la sua lunga carriera, cade nel 365: è, quindi, escluso che le numerose costituzioni indirizzategli, sia da Treviri sia da altre località, datate con l’indicazione del consolato imperiale senza iterazione, siano state emanate in quell’anno. Ma oltre questa considerazione negativa non è possibile andare: quella che, sulla scorta delle notizie fornite da Ammiano Marcellino 29 e di una parte del materiale epigrafico, viene comunemente considerata la prima delle prefetture di Probo, si estende dagli ultimi mesi del 367, quando egli succedette nella carica al predecessore Vulcacio Rufino, fino all’anno 376 e comprende, quindi, tutti i consolati imperiali di quel periodo, successivi al 365, sicché resta per lo più incerto a quale dei tre anni – fra il 368, il 370 e il 370 – le costituzioni vadano attribuite. Al riguardo, del resto, è stato autorevolmente scritto che la prefettura del pretorio di Sesto Petronio Probo costituisce, anche a motivo del rinvenimento 28 29
AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.1. AMM. MARC., Rer. Gest. 27.11.1 e 30.5.4.
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di relativamente recenti testimonianze epigrafiche a Capua 30, «uno dei nodi più intricati della ricerca prosopografica tardoantica» 31. Certo è che, senza tale ostacolo, la costituzione in esame potrebbe essere agevolmente accostata, in ragione del suo contenuto, con la costituzione 11 h.t. del dicembre 364, di cui – senza dubbio – condivide un’identica ratio di politica legislativa e con cui si concilierebbe bene la data della pubblicazione a Sirmio indicata nella subscritptio.
9. Il problema della datazione del provvedimento 6 CTh. 7.14 in tema di distribuzione dell’annona ai militari, di natura non esclusivamente palingenetica, coinvolge, come accennato, una problematica più complessa, cioè l’esatta ricostruzione cronologica della legislazione indirizzata a Probo, che, anche per le connessioni con il tema in esame, merita una più approfondita analisi. S’è detto che Sesto Petronio Probo ricoprì la carica di prefetto del pretorio almeno quattro volte: ne sono chiara testimonianza due iscrizioni dedicategli dai figli dopo la morte, nelle quali l’insigne esponente della classe senatoria è qualificato quale praefectus praetorio quater Italiae Illyrici Africae Galliarum 32, come pure è confermato dalle testimonianze epigrafiche che parlano di lui come di praefectus praetorio quater 33, praefectus quarto 34, bis gemina populus praefectus sede gubernans 35. Un’altra indicazione proviene da una iscrizione, precisamente datata all’anno 378 – dedicata iv idus aug. DD.NN. Valente vi et Valentiniano ii AA. conss. – nella quale Petronio Probo è qualificato semplicemente come prefetto del pretorio di Illirico, Italia e Africa (praefectus pretorio per Illyricum Italiam et Africam), che indica come, verosimilmente, questa fosse l’unica prefettura ricoperta sino a quel momento 36. E analoghe notizie provengono dal racconto di Ammiano Marcellino 37, il quale attesta espressamente come Probo sia stato 30 S. MAZZARINO, Sulla carriera prefettizia di “Sex. Petronius Probus”, in Antico, tardoantico ed èra costantiniana, Bari 1974, 334 ss.; A. CHASTAGNOL, L’inscription de Petronius Probus à Capoue, in Tituli 4 (1982), 547 ss. [= Scripta Varia, Lille 1987, 339 ss.]; A. CAMERON, Polionomy in the late roman aristocracy: the case of Petronius Probus, in JRS 75 (1985), 164 ss. 31 A. GIARDINA, Lettura epigrafica e carriere aristocratiche: il caso di Petronio Probo, in RFC, 111, 1983, 171. 32 CIL. VI.1752 e 1753. 33 AE. 1934, 160. 34 CIL. VI.1756a. 35 CIL. VI.1756b. 36 CIL. VI.1751. 37 AMM. MARC., Rer. Gest. 27.11.1: ad regendam praefecturam praetorianam.
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chiamato a reggere la prefettura di Roma alla metà del 367 in sostituzione di Vulcacio Rufino 38, morto durante la carica 39, a cui è ancora indirizzata un’ultima costituzione, la 4 CTh. 10.15 40. Lo storico, inoltre, mostra di considerare proprio questa, in sostituzione del predecessore defunto, la prima delle sue prefetture, quando, narrando le vicende dell’anno 375, descrive Petronio Probo come praefecturam tunc primitus nanctus 41. Su tali basi, la dottrina prevalente ha affermato che la prima prefettura di Probo sia quella iniziata nell’anno 367 sotto il regno dell’imperatore Valentiniano e proseguita sino all’elevazione alla porpora imperiale del figlio Valentiniano II 42, come è pure attestato da un passo di Rufino 43. Ma la soluzione proposta dalla dottrina, anche la più autorevole, non appare affatto sicura, solo considerando il tenore di un’iscrizione veronese, da cui si ricava una successione temporale della carriera prefettizia del personaggio che, infatti, ad una prima prefettura dell’Illirico, sarebbe seguita una seconda delle Gallie e una terza dell’Italia e dell’Africa, coincidente con il momento in cui l’iscrizione veniva dedicata: praefectus praetorio Illyrici praef. praet. Galliarum II praef. Italiae atque Africae III 44. Già il Mommsen 45, su tali basi e in forza dell’esame della costituzione del Teodosiano, 11.1.15 del maggio 366, su cui dovremo espressamente tornare, ha infatti ipotizzato, con parere conforme, più di recente, del Jones 46, di rico38 A.H.M. JONES in A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, The Prosopography of the later roman Empire, Cambridge 1971, 783, Rufinus 25. 39 AMM. MARC., Rer. Gest. 27.11.1. 40 CTh. 10.15.4: Impp. Val(entini)anus et Valens AA. ad Rufinum p(raefectum) p(raetori)o. Vicarios praefecturae ordinariosque rectores praecelsa sinceritas tua istius sanctionis auctoritate commoneat, ut privatae rei nostrae, quotienscumque aliquas vel denuntiaverit vel exceperit actiones, idoneos tribuant advocatos. Dat. xiiii kal. Iun. Remis Lupicino et Iovino conss. 41 AMM. MARC., Rer. Gest. 30.5.4. 42 Così, dapprima J.R. PALANQUE, Essai sur la préfecture du prétoire du Bas-Empire. Les préfectures de Probus, Paris 1933, 109 ss. e, in seguito, S. Mazzarino, che già si era occupato del problema nel classico volume dal titolo Stilicone. La crisi imperiale dopo Teodosio, Milano 1942, 14 ss. (rist. Milano 1990); ID., Sulla carriera prefettizia di “Sex. Petronius Probus”, riprodotto in Antico, tardoantico ed èra costantiniana, 1 (1974), 328 ss., con un’aggiunta del 1973, relativa all’allora recente rinvenimento dell’iscrizione di Capua, di cui s’è detto nel testo; A. GIARDINA, Lettura epigrafica e carriere aristocratiche, cit., 171 ss.; A. CAMERON, Polionomy in the late roman aristocracy, cit., 178 ss. 43 RUF., Hist. Eccl. 11.12. 44 CIL. V.3344. 45 TH. MOMMSEN, Prolegomena, CLXVIII (ma v. la nota alla costituzione). 46 A.H.M. JONES, Collegiate Prefectures, in JRS, 54, 1967, 85 ss.; ID., Prosopography, cit., 736 ss., Sex. Claudius Petronius Probus 5.
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struire differentemente la carriera prefettizia di Probo, che si sarebbe articolata in quattro differenti incarichi, il primo del 364 per il solo Illirico, il secondo, relativo all’anno 366, per le Gallie, il terzo, di durata più lunga, tra il 367 e il 375 e il quarto, per il biennio 383-384, congiuntamente per Italia, Africa ed Illirico. Ma anche tale risultato non convince, per la mancanza di appigli sicuri a cui agganciarlo: anzitutto, è di ostacolo alla ipotizzata prima prefettura dell’Illirico di Sesto Petronio Probo nel corso dell’anno 364, il racconto di Ammiano, che parla per la prima volta di un incarico prefettizio del personaggio solo quale successore di Vulcacio Rufino, cioè successivamente all’anno 367 e lo dice ancora praefecturam tunc primitus nanctus nell’anno 375 ma, soprattutto, nell’elencare l’organigramma delle cariche imperiali per l’anno 365, non lo nomina affatto e indica, invece, Mamertino quale prefetto del pretorio d’Italia, d’Africa e dell’Illirico 47. Di fronte a tali insuperabili evidenze, il Jones ipotizza che Probo, nominato prefetto del pretorio dell’Illirico nel 363 o nel 364 da Giuliano o da Gioviano, si sia dimesso alla fine del 365: ma neppure tale ipotesi può essere accolta, poiché contro di essa militano non soltanto il racconto dello storico antiochiano, che narra dell’assunzione della carica di prefetto del pretorio da parte di Mamertino già nel 361, nel momento dell’investitura a console 48, ma soprattutto una nota iscrizione di Colonia Julia Concordia, anteriore alla morte di Giuliano, che già lo qualifica prefetto del pretorio d’Italia e dell’Illirico 49: con il che, l’assetto delle più alte cariche imperiali all’inizio dell’anno 365 non pare ragionevolmente lasciare spazio per un’autonoma prefettura del pretorio dell’Illirico di Probo assunta prima della morte del predecessore Vulcacio Rufino. S’è detto sopra che il Mommsen, per giustificare la successione cronologica delle quattro prefetture di Probo, di cui la prima risalirebbe addirittura all’anno 364, ha richiamato, oltre alle fonti epigrafiche, segnatamente l’iscrizione proveniente da Verona sopra richiamata, la costituzione 15 CTh. 11.1: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Probum p(raefectum) p(raetori)o. Unusquisque annonarias species pro modo capitationis et sortium praebiturus per quaternos menses
47 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.5: Et Orientem quidem regebat potestate praefecti Sallustius, Italiam vero cum Africa et Illyrico Mamertinus et Gallicas provincias Germanianus. 48 AMM. MARC., Rer. Gest. 21.12.25: Tunc ut securitatem trepidis rebus adferret et obedientium nutriret fiduciam, Mamertinum praefectum praetorio per Illyricum designavit consulem, et Nevittam, qui nuper ut primum augendae barbaricae vilitatis auctorem inmoderate notaver Constantium. 49 CIL. V.8978.
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anni curriculo distributo tribus vicibus summam conlationis implebit. Si vero quisque uno tempore omnia sua debita optat expendere, proprio in adcelerandis necessitatibus suis utatur arbitrio. Dat. xiii kal. Iun. Remis Gr(ati)ano et Dagalaifo conss.
Ai nostri fini, rileva soprattutto il destinatario del provvedimento, il prefetto del pretorio Probo, in relazione alla data di emanazione, avvenuta con certezza – in considerazione della non confondibilità del consolato (Gratiano et Dagalaifo conss.) – nell’anno 366, come è pure confermato dal luogo di provenienza, poiché l’imperatore Valentiniano, come ci narra Ammiano, si era in effetti stabilito nel territorio dei Remi per tutto quell’anno e per parte del 367 50. Come giustificare la datazione all’anno 367 con l’indirizzo a Probo, già qualificato come prefetto del pretorio? In passato, la dottrina aveva ipotizzato un errore nel nome del destinatario, erroneamente indicato in Probo, anziché in Rufino che, come sopra ricordato, ricoprì la carica di prefetto del pretorio almeno sino al 19 maggio 367 (CTh. 10.15.4): soluzione non accolta con favore 51, considerando, soprattutto, la maggiore attendibilità delle inscriptiones rispetto alle subscriptiones delle costituzioni del Teodosiano. In verità, il Mommsen, che in un primo momento, annotando la costituzione di apertura del titolo De defensoribus civitatum, CTh. 1.29, sulla quale dovremo tornare, aveva escluso la possibilità di attribuirla all’anno 364, rilevando che a tale datazione ostat, quod Probum tam Ammianus quam leges reliquae testantur praefectum factum esse a demum 368 52, a proposito del provvedimento in esame, al contrario, ipotizzava di conservare la data del 366, precisando: neque (ut errore dixi obstare ad 1.29.1) obstat, quod teste Ammiano Probus praefectus praetorio factus est a. 368; id enim spectat ad praefecturam maiorem Italiae, ante quam constat ex titulo Veronensi C.I.L. V. 3344 Probus administravisse praefecturas duas, alteram Illyrici, alteram Galliarum 53. Ipotesi, quest’ultima, collegata alla attendibilità di una prefettura del pretorio delle Gallie di Probo in quell’anno, cui hanno aderito il Jones 54 e, più di recente, il Cameron 55. 50
AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.14. Specialmente critico, al riguardo: J.R. PALANQUE, Essai sur la préfecture du prétoire, cit., 114 nt. 27. 52 TH. MOMMSEN, Codex Theodosianus, ad C.Th. 1.29.1. 53 TH. MOMMSEN, Codex Theodosianus, ad C.Th. 11.1.15. 54 A.H.M. JONES, Collegiate Prefectures, cit., 87; ID., Prosopography, cit., 737, Probus 5. 55 A. CAMERON, Polionomy in the late roman aristocracy, cit., 180. 51
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Al contrario, il Seeck proponeva di postergare la data di emissione del provvedimento al 18 giugno 367, quando, come detto, è provato che Probo avesse assunto la carica, dopo la morte del precedente prefetto del pretorio Vulcacio Rufino. Nessuna delle soluzioni sopra avanzate appare, in verità, condivisibile, specialmente quella del Seeck, poiché resta senza giustificazione l’ipotizzata alterazione della subscriptio, nella quale al consolato dell’anno 366 (Gratiano et Dagalaifo conss.) si sarebbe sostituito quello dell’anno successivo (Lupicino et Iovino conss.) e, soprattutto, dal momento che non convince l’ipotesi di una – voluta o casuale – sostituzione in consolato di una originaria indicazione con il postconsolato, soprattutto considerando l’inverosimiglianza dell’utilizzo di un accorgimento – adatto alle ipotesi di mancata conoscenza della coppia consolare o di abitudine nella menzione del consolato precedente in esordio d’anno – poco consono ad una datazione, come quella qui in commento (dat. xiii kal. Iun.), piuttosto avanzata. Ma quello che non convince dell’ipotizzata datazione all’anno 367 deriva, soprattutto, dall’esame della costituzione CTh. 5.15, De omni agro deserto et quando steriles fertilibus imponantur, 20, sicuramente datata al 19 maggio 366 ed indirizzata al comes sacrarum largitionum Germaniano 56, il cui contenuto, molto simile alla costituzione in esame, induce a considerare che l’emanazione dei due testi sia avvenuta nel quadro di un unico disegno normativo di carattere unitario, relativo alla rateazione delle imposte, attuato, per un verso, nella gestione dei fondi enfiteutici e patrimoniali, per altro verso, nella riscossione delle species annonariae 57: 56
Alla luce delle testimonianze a nostra disposizione, esiste una notevole incertezza sulla successione dei comites sacrarum largitionum fra il 365 e il 366 e sulla correlativa datazione delle costituzioni dirette a tali funzionari imperiali. Per il nostro caso, va detto che, nel febbraio 365, la carica era sicuramente ricoperta da Fiorenzo, il quale è ancora destinatario della costituzione 11 CTh. 12.6, datata 17 settembre 366, mentre, contemporaneamente e subito dopo, altre costituzioni risultano indirizzate a Germaniano (nel 365, quella in esame, del 28 luglio; C. 11.62.3 del 24 settembre; nel 366, la c. 20 CTh. 5.15 e la c. 2 C. 1.56 e nel 367 CTh. 10.19.4 e 12.6.13, nonché C. 11.63.2). Il problema, che non può essere risolto in questa sede, è affrontato ex professo dal Jones (The Later Roman Empire [284-602] Oxford 1964, 3, App. 1, 345 ss., nonché in Prosopography, cit., 391, Germanianus 1), dal Seeck (Regesten, cit., 31 ss.), dal Voci (Nuovi studi sulla legislazione romana del tardo Impero, Padova 1989, 73 ss.). Ampia discussione nel merito in R. DELMAIRE, Largesses sacrées et res privata. L’aerarium impérial et son administration du IV au VI siècle, Paris 1989, 70 ss. 57 Le costituzioni in esame e, più generale, le riforme fiscali attuate da Valentiniano sono state oggetto di speciale attenzione da parte degli studiosi non soltanto della storia giuridica della seconda metà del IV secolo (R. ANDREOTTI, Legislazione, cit., 468 s.; R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, Catania 1971, 155), ma anche di storia economica (L. CRACCO RUGGINI, Economia e società nell’Italia annonaria, Milano 1961, 235 nt. 85; C. ALZON, Problèmes relatifs à la location des entrepôts en droit romain, Paris 1965, 353 nt. 1765).
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CTh. 5.15.20: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Germanianum c(omitem) s(acrarum) l(argitionum). Placuit, ut (enfyteuticorm) fundorum patrimonialiumque possessores, quo voluerint, quo potuerint te(m)pore et quantum habuerint pensionis paratum, dummodo non amplius quam in tribus per singulos annos vicibus, officio rationalis adsignet ac de suscepto ab eode(m) securitatem eodem die pro more percipiant, modo ut intra Ianuarium iduum diem omnis summa ratiociniis publicis inferatur: gravissimae poenae subdendo officio, si cuiquam quolibet anni tempore, dummodo nequaquam numerum trinae inlationis excedat, solutionem facere gestienti negaverit susceptionis officium vel si moram fecerit in chirografo securitatis edendo. Super quo possessores apud curatores vel magistratus aut quicumque in locis fuerit, qui conficiendorum actorum habeat potestatem, conveniet contestari, ut (et) de officii insolentia constet, in quod exercenda vindicta es(t, et) his possit esse consultum. Dat. xiii k. Iun. Remis Grat(iano) n.p. et Dagala(ifo conss.).
Infine, va pure considerato che la successiva c. 16 CTh. 11.1, sulla cui datazione – in verità – sorgono gravi dubbi e complessi problemi prosopografici 58, ma che è certamente successiva alla c. 15 h.t., ribadisce il principio della 58 A corroborare tale conclusione contribuisce il rilievo del Seeck, il quale ritiene addirittura che tale provvedimento sia «eine andere Ausfertigung» della precedente costituzione in esame (CTh. 11.1.15), di cui considera esatta la datazione al 25 ottobre 367. Ma si tratta, a ben vedere, di una soluzione che solleva anch’essa forti dubbi, per una serie di ragioni fra loro reciprocamente interdipendenti, fra cui spicca, in generale, la scarsa probabilità dell’indicazione del postconsolato in un periodo così avanzato dell’anno. È utile riprodurre il testo della costituzione: CTh. 11.1.16: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Dracontium. Provinciales nostri tributa fiscalia per anni curriculum tripertita satisfactione restituant. Dat. viii kal. Nov. Nicomediae post cons. Gr(ati)ani A. et Dagalaifi. L’indicazione della località di emanazione nella subscriptio è sicuramente errata, non potendo il provvedimento provenire da Nicomedia, sia perché Valente non si trovava in quella località nell’ottobre 367, sia – soprattutto – perché il destinatario Draconzio, qui non qualificato, rivestiva all’epoca la carica vicarius Africae (A.H.M. JONES, Prosopography, cit., 271). Quanto al luogo di emanazione, per superare tali gravi problemi, dapprima il Gotofredo aveva proposto di sostituire a Nicomedia la località di Nicromedium, prendendo spunto dalle notizie di Ammiano Marcellino (Rer. Gest. 28.2.2), che narra di un’attività dell’imperatore Valentiniano per deviare il corso del fiume Neckar, con lo scopo di rendere più sicura la residenza fortificata che egli aveva fatto costruire qualche anno prima. Al contrario, più recentemente, il Seeck (Regesten, cit., 107), sul rilievo che la presenza dell’imperatore fosse attestata a Treviri il 13 ottobre 366 (cfr. C. 6.4.2) e ancora il successivo 18 novembre (cfr. CTh. 6.35.7), ha ipotizzato che Valentiniano avesse visitato medio tempore una città della Gallia, Novesia, il cui nome non differisce né graficamente, né foneticamente, da Nicomedia. Quanto, invece, alla datazione, oltre ai problemi relativi all’indicazione del postconsolato ancora alla fine di ottobre, va rilevata l’errata indicazione della titolatura di Graziano, che nel 366 non era ancora stato associato dal padre alla porpora imperiale e aveva rivestito, in quell’anno, il consolato in qualità di nobilissimus puer. L’ipotesi più probabile, dunque, pare quella di considerare la costituzione emessa effettivamente nell’ottobre 366 in località non conosciuta e a Nicomedia pubblicata nei primi mesi dell’anno successivo: il che renderebbe, tra l’altro, plausibile
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tripertita satisfactio dei tributa fiscalia, presupponendo, evidentemente, una norma che tale principio aveva sancito 59. Ancora più problematica, per quanto specialmente rileva ai nostri fini, cioè alla ipotizzata risalenza cronologica della costituzione CTh. 7.4.16 per inserirla nel quadro normativo destinato a razionalizzare le spese militari per disporre delle necessarie risorse per la difesa dell’Impero, è la costituzione di apertura del titolo del Teodosiano, De defensoribus civitatum, 1.29, sopra indicata dal Mommsen per escludere, almeno in prima battuta e salvo un più meditato ripensamento, l’attribuzione della costituzione all’anno 364: CTh. 1.29.1: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Probum p(raefectum) p(raetori)o. Admodum utiliter edimus, [ut] plebs omnis Inlyrici officiis patronorum contra potentium [d]efendatur iniurias. Super singulas quasque praedictae dioeceseos civitates aliquos idoneis moribus quorumque vita anteacta lau[d]atur tua sinceritas ad hoc eligere curet officium, qui aut provin[ci]is praefuerunt aut forensium stipendiorum egere militiam [a]ut inter agentes in rebus palatinosque meruerunt. Decurionibus ista non credat; his etiam, qui officio tui culminis vel ordinar[iis] quibuscumque rectoribus aliquando paruerint, non committat hoc mun[us]; referatur vero ad scientiam nostram, qui in quo oppido fuerint ordinati. Dat. v kal. Mai. divo Ioviano et Varroniano conss.
Sebbene la subscriptio dell’importante provvedimento normativo, istitutivo della figura del defensor civitatis nel quadro della legislazione tardoimperiale 60, apparentemente ineccepibile, attribuisca la data di emissione della costituzione al 27 aprile 364, tanto da indurre il Jones a scrivere che «the first date is difficult to emend without violence», il testo presenta due ordini di problemi: quello, già sopra esaminato, della qualifica del destinatario e della ricostruzione della carriera burocratica di Probo, nonché quello, che qui specialmente interessa indagare, dei tempi della introduzione nella normativa imperiale della nuova figura di funzionario. Sotto tale ultimo aspetto, occorre anzitutto domandarsi se la creazione della figura di quello che comunemente viene indicato quale defensor civitatis, ma l’indicazione della data del propositum al 367 con il postconsolato dell’anno precedente (PP. Nicomediae post cons. Gratiani e Dagalaifi). Su tale soluzione, F. PERGAMI, La legislazione, cit., 338. 59 Un provvedimento analogo, che autorizzava il pagamento rateale dei canoni enfiteutici, era stato emanato da Valentiniano nei primi mesi di governo, forse limitatamente ai fondi africani: v. al riguardo, CTh. 11.19.3. Sui problemi di datazione e di coordinamento con altre costituzioni, tutte emanate da Aquileia e indirizzate ad provinciales Byzacenos (CTh. 5.15.16, 8.5.20, 10.10.9, 11.30.33, 12.1.59-60, 16.2.17), cfr. F. PERGAMI, La legislazione, cit., 78 ss. 60 Sul tema, in generale, F. PERGAMI, Studi di diritto romano tardoantico, Torino 2012, 212 ss.
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che nella costituzione in esame, nonché in quelle successive (c. 3 61 e 4 62 h.t.) è denominato patronus plebis o defensor plebis, sia consentanea con il periodo storico in esame. In un risalente lavoro 63, seppure in via fortemente dubitativa, avevo sottolineato la problematicità di mantenere la datazione all’anno 364, ipotizzando una postergazione al 368: ma le riflessioni effettuate a proposito della legislazione d’emergenza in tema di gestione delle risorse militari nella seconda metà del quarto secolo mi inducono, re melius perpensa, ad avanzare una differente ipotesi ricostruttiva, facendomi inclinare a favore di una datazione più risalente della costituzione in esame e, più in generale, ad una anteriorità della prima prefettura del pretorio di Probo rispetto alla precedente ricostruzione: ciò anche considerando che, diversamente ragionando, si dovrebbe ipotizzare, seppure senza alcun appiglio testuale a sostegno di tale soluzione, una erronea indicazione del nome del destinatario rispetto a quella risultante dall’inscriptio (Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Probum praefectum praetorio) che, alla luce del tenore del provvedimento, dovrebbe essere Mamertino. Militano, a favore di tale revirement, ragioni di forma e di sostanza. Anzitutto, un dato esteriore, seppure rilevante: la subscriptio della costituzione non offre formalmente obiettive ragioni di dubbio per modificarne la datazione e per fondatamente ipotizzare una datazione più tarda, al 365 o addirittura al 368, poiché ciò implicherebbe una non giustificata – per giunta massiccia – alterazione dell’indicazione del consolato del 364 (Divo Ioviano et Varroniano) a favore del primo (Valentiniano et Valente aa. conss.) o del secondo (Valentiniano et Valente II aa. conss.) consolato imperiale, ipotizzabile solo a motivo di una, per vero necessariamente generica, considerazione sulla frequente alterazione delle subscriptiones nel Codice Teodosiano 64. 61 CTh. 1.29.3: Impp. Valentinianus et Valens AA. Probo p(raefecto) p(raetori)o. Cum multa pro plebe a nobis studiose sta[tu]ta sint, nihil providisse nos credidimus, nisi defensor[es] idoneos dederimus. Igitur non ex decurionum corpore, [sed] ex alio videlicet ex administratoribus, qui vel consulares f[ue]rint administratione vel praesides, aut ex palatinis vel ag[en]tibus in rebus vel his, qui principatus culminis vestri vicarior[um]que gesserunt, vel ex scholasticis huic officio deputantur. Dat. (iii) non. nov. Val(entini)ano et Valente aa. conss. 62 CTh. 1.29.4: Impp. Valentinianus, Valens et Gratianus AA. ad Probum p(raefectum) p(raetori)o. Qui ex schola a[gen]tum in rebus sedi culminis vestri munere principatus no[s]tro quodammodo nomine paruerint, inter ceteros hono[ra]tos iussione nostra diversarum urbium plebibus constit[uan]tur patroni, ita ut, si quos ex his auctoritas tua putaverit el[igen]dos, eadem his tutela mandetur, ab his aut[e]m eos repraese[ntet] inmunes. Dat. viii id. nov. Trev(iris) Val(entini)ano et Valente ii aa. conss. 63 F. PERGAMI, La legislazione, cit., 27: «è difficile conservare alla costituzione in esame la data del 27 settembre 364». 64 In verità, lo stesso Jones (Collegiate Prefectures, cit., 85 ss.) ipotizza una grave alterazione
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Sotto il profilo sostanziale, inoltre, non appare, anzitutto, decisamente probante a favore dell’alterazione della data di emissione del provvedimento la considerazione, avanzata in passato dalla dottrina, che aveva ritenuto come estremamente problematica la collocazione all’esordio dell’avvento al potere di Valentiniano di un progetto politicamente impegnato, quale era quello della istituzione di un organo a difesa della plebs contra potentium iniurias, come testualmente riferisce la costituzione, seppure in via sperimentale per il solo Illirico 65: ciò che non apparirebbe coerente con l’iniziale indirizzo di politica legislativa della cancelleria imperiale, orientata piuttosto ad acquistare il favore della classe senatoria, come risulterebbe, tra l’altro dal tenore della costituzione del Teodosiano, CTh.1.28.2 del 6 marzo 364, con cui si confermava la facoltà per i senatori di nominare, nelle province, defensores dei loro interessi, bensì con il successivo orientamento antisenatorio, compatibile con una datazione più tarda del provvedimento 66. A ben vedere, però, il testo della costituzione 2 CTh. De defensoribus senatus 67, 1.28, utilizzata a favore della attribuzione di una datazione all’anno 368 non si presta ad un’interpretazione tanto sicura: 1.28.2: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Clearchum vic(arium) Asiae. Habeant senatores [p]otestatem deligendi ex corpore suo singulos vel binos per singulas quasque provincias, [q]ui omnium patrimonia optentu sui ac munitione defendant, de[p]ensae quoque capitationis relevatione. Nam commodum principalem [d]ivalis Iuliani quod ad solos decuriones per gratiam iudicum pe[r]venisse dicitur, non ad curiales tantum, sed ad cunctarum lassas [g]entium utilitates iubemus communi lege transire. Dat. Prod. non. Mai. Nic(omedia) divo Ioviano et Varroniano conss.
Per un’esatta collocazione del provvedimento in esame nel quadro della politica legislativa dei Valentiniani in esordio della carica imperiale, mette conto di rilevare subito come la data di emissione, come risulta dalla subscriptio, il 6 maggio 364, non si concilia né con la località della Bitinia, Nicomedia, che è fuori dalla rotta verso l’Occidente, né con Adrianopoli in particolare, dove i due della subscriptio di due costituzioni dell’anno 380, CTh. 6.28.2 e 6.35.10, per negare l’attendibilità di una prefettura di Probo in quell’anno. 65 A. HÖPFFNER, Un aspect de la lutte de Valentinien I contre le Senat. La creation du “defensor plebis”, in RH 182, 1938, 229. 66 Seguono l’impostazione di Höppfner, R. SORACI, L’imperatore Valentiniano, cit., 95 e V. MANNINO, Ricerche sul “defensor civitatis”, Milano 1984, 13 nt. 2, sulla scia del Mommsen (Codex Theodosianus, ad h.l.) e del Seeck (Regesten, cit., 92). 67 Questo titolo era conservato esclusivamente nel Codice Torinese senza numero e la rubrica è incerta: nell’Indice Parisino era indicata nel seguente modo: De officio defensoris senatorum.
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fratelli, dopo avere trascorso l’inverno a Costantinopoli, attraverso la Tracia 68 si recarono nei primi giorni di maggio del 364 69. In verità, neppure si concilia con Nicea, che non si trovava sull’itinerario fra Costantinopoli e Adrianopoli, come invece propongono di leggere, in luogo di Nicomedia, sia il Mommsen 70 che il Seeck 71. Al contrario, l’imperatore Valentiniano era effettivamente a Nicomedia il 1 marzo di quell’anno, nel viaggio verso Costantinopoli da Nicea, dove, come ci racconta con sufficiente precisione Ammiano 72, era stato elevato alla porpora imperiale: tali rilievi, dunque, consentono di fondatamente ipotizzare che la costituzione sia stata effettivamente emanata a Nicomedia, ma non il 6 maggio, bensì il 6 marzo 364, considerando il facile scambio, nella tradizione manoscritta, fra Mai. e Mart 73. Per quanto specialmente interessa rilevare, il testo sarebbe dunque uno dei primi interventi normativi di Valentiniano, ancora solo alla testa dell’Impero ed è considerato dalla dottrina 74, come ho sopra accennato, una testimonianza della politica filosenatoria adottata dall’imperatore, con cui si volevano estendere le prerogative dei defensores senatus, creati nel 361 da Costanzo con la c. 1 h.t. 75, affinché potessero compiutamente difendere gli interessi dei senatori contro il fisco. S’è detto, però, di come tale ipotesi ricostruttiva meriti di essere attentamente riconsiderata: il contenuto della costituzione, infatti, come risulta dal suo tenore letterale, non è del tutto chiaro e non risulta incontrovertibilmente che la sua portata originaria fosse proprio quella che i compilatori vi hanno conferito, inserendola nel titolo De defensoribus senatus. Del resto, non si può fare a meno di notare che, mentre la prima parte sembra effettivamente ricalcare la precedente disposizione di Costanzo, rinnovando ai senatori la potestas eligendi loro rappresentanti in ogni provincia, già in essa non è chiaro, però, se i patrimonia omnium che essi debbono defendere, siano da intendere come omnium senatorium o omnium civium. E il dubbio è rafforzato dalla seconda 68
AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.1. Il dato si ricava dalle subscriptiones di CTh. 13.5.10 dell’8 maggio; di CTh. 8.4.8, 8.5.18, 11.7.9 e di CTh.12.1.58 del 13 maggio. 70 TH. MOMMSEN, Prolegomena, cit., CCXXXIX. 71 O. SEECK, Regesten, cit., 215. 72 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.2.3. 73 Così, seppure dubitativamente, già P. KRÜGER, Codex Theodosianus, ad h.l. 74 Per tutti, A. HÖPFFNER, Un aspect de la lutte de Valentinien I contre le Senat, cit., 229. 75 In argomento, P.O. CUNEO, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337361), Milano 1997, ad h.l. 69
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parte del testo, in cui, rifacendosi ad un provvedimento di Giuliano 76, che sarebbe stato applicato solo a favore dei decurioni, si dispone che esso debba esserlo, invece, communi lege, non ad curiales tantum, sed ad cunctarum lassas gentium utilitates. Non è, dunque, affatto sicuro che le cunctae gentes siano i senatori e il contesto generale, al contrario, depone a favore dell’interpretazione che quello in esame non sia un provvedimento esclusivamente a favore del Senato, ma piuttosto una generale misura di difesa, affidata sì ai membri dell’ordine senatorio, ma di tutti i cittadini – e non solo dei componenti del consesso – nei confronti del fisco: ipotesi che, sotto il profilo del contenuto, renderebbe coerente il tenore di questa costituzione con quella relativa alla istituzione del defensor civitatis e, quanto alla datazione, armonizzerebbe con la emanazione, da parte di Valentiano, di entrambi i provvedimenti in exordio imperii, cioè nel corso dei primi mesi dell’anno 364. Ad una datazione più tarda, del resto, osta anche la CTh. 1.29.2 del 27 giugno 365 che, quantomeno nella versione giustinianea, C. 1.55.1, qualifica il nuovo organo come defensor, generalmente inteso come defensor civitatis e destinatario di istruzioni imperiali sull’esercizio del suo ufficio, la cui carica doveva essere stata istituita già in epoca anteriore: CTh. 1.29.2: Impp. Valentinianus et Valens AA. Senecae. Si quis de tenuioribus ac minusculariis interpell(an)dum te esse crediderit, in minoribus causis acta conficias: scil(i)cet ut, si quando quis vel debitum iustum vel servum qui pe(r) fugam fuerit elapsus vel quod ultra delegationem dederi(t) postulaverit vel quodlibet horum tua disceptatione rest(itu)tas; ceteras vero, quae dignae forensi magnitudine videb(un)tur, ordinario insinuato rectori. Et cetera. Dat. v k. Iul. Tyr[] Valentiniano et Valente conss. C. 1.55.1: Impp. Valentinianus et Valens AA. Senecae defensori. Si quis de tenuioribus ac minusculariis interpellandum te esse crediderit, in minoribus causis id est usque ad quinquaginta solidorum summam, acta iudicialia conficias, scil(i)cet ut, si quando quis vel debitum iustum vel servum, qui per fugam fuerit elapsus, vel quod ultra delegationem dederit postulaverit vel quodlibet huiusmodi, tua disceptatione restitutas. Ceteras vero, quae dignae forensi magnitudine videbuntur, ordinario insinuato rectori. Dat. v k. Iul. Tyrici Valentiniano et Valente AA. conss.
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Sull’identificazione del precedente provvedimento di Giuliano, v. C. PHARR, The Theodosian Code and Novels and the Sirmondian constitutions, Princeton 1952, ad h.l.; E. PACK, Städte und Steuern in der Politik Julianus. Untersuchungen zu den Quellen eines Kaiserbildes, Bruxelles 1985, 129 nt. 245.
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Sia i compilatori teodosiani, che quelli giustinianei hanno inserito un frammento della costituzione indirizzata a Seneca nel titolo De defensoribus civitatum e, nella versione giustinianea, il destinatario è espressamente qualificato come defensor. I testi presentano complessi problemi in relazione alla datazione e al luogo di emanazione, che divengono ancora più gravi con riguardo al contenuto delle disposizioni normative. Sotto il primo profilo, la specifica indicazione del ruolo del destinatario, quantomeno nel testo conservato nel Giustinianeo, unitamente al fatto che un altro frammento della stessa costituzione 77, da individuarsi nella c. 4 De administrantibus vel publicum officium gerentibus distracta sunt vel donata, CTh. 8.15, indirizzata allo stesso Seneca e ugualmente datata 27 giugno 364, che richiama al rispetto e all’applicazione di una precedente disposizione normativa, ha indotto il Seeck, almeno nella prima fase della sua riflessione in materia 78, ad individuare il riferimento, qua proxime constitutum est, nella costituzione 3 h.t., emanata l’11 aprile 364 e, di conseguenza, ad attribuire l’intero provvedimento all’anno 365, peraltro in aderenza all’indicazione del primo consolato imperiale risultante dalla subscriptio di entrambi i testi (Valentiniano et Valente conss.) 79: CTh. 8.15.4: Impp. Valentinianus et Valens AA. Senecae Post alia. Vim illius legis aspicito eique pareto, qua proxime constitutum est, ut publicum munus agitantes nihil in suscepto mercarentur officio. Dat. v kal. Iul. Valentiniano et Valente aa. conss.
Anche il luogo di emanazione è fortemente problematico: la subscriptio di CTh. 8.15.4 non lo indica, mentre in CTh. 1.29.2, essa è mutila, Tyr. Al contrario, come s’è visto, nella versione giustinianea, il nome della località di emissione del provvedimento è indicata per intero, Tyricum, che è però luogo sconosciuto negli itinerari a nostra disposizione. Il Seeck, conformemente alla proposta datazione al primo consolato imperiale, proponeva di leggere l’indicazione del luogo in Ticinum, dove l’impera77
Sul punto, v. F. PERGAMI, La legislazione, cit., 230 ss. S’è detto dell’originaria inclinazione dello studioso a favore di una prima prefettura di Probo all’anno 364, quantomeno per l’Illirico (O. SEECK, Defensor civitatis, in PWRE, IV.2, 1901, coll. 2366), poi superata a favore di una datazione più tarda (O. SEECK, Regesten, cit. 92). 79 In coerenza con quanto sostenuto a proposito dell’introduzione, nella legislazione tardoantica, della figura del defensor civitatis a partire dall’anno 368, come per la prefettura di Probo, l’Höppfner (La création du “defensor plebis”, cit., 230 ss.) ha ipotizzato che il precedente normativo, richiamato dalla costituzione 8.15.4, vada individuato nella c. 5 h.t., che risulta emanata il 3 agosto 368 (sui gravi e complessi problemi di datazione, v. F. PERGAMI, La legislazione, cit., 253 ss.). 78
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tore può esservi occasionalmente recato, considerando, come è noto dal racconto di Ammiano, che Valentiniano soggiornò nella vicina Milano sino all’autunno 365 80. Le difficoltà aumentano se si passa a considerare il contenuto dei provvedimenti in esame: CTh. 1.29.2 attribuisce a Seneca il potere di decidere le controversie di minore importanza che gli siano deferite, rimettendo le altre, quelle dignae forensi magnitudine, all’esame del governatore, mentre la c. 4 CTh. 8.15, come s’è detto, si riferisce ad un precedente provvedimento, qua proxime constitutum est, che vietava ai titolari di publica munera di mercari in suscepto officio che, a seconda della proposta datazione di CTh. 1.29.2 e, più in generale, in base alla ipotizzata prima prefettura di Probo al 364 o in epoca successiva, viene rispettivamente identificato nella precedente c. 3 h.t. 81, emanata l’11 aprile 364 a Costantinopoli ed indirizzata al praefectus urbi Constantinopolitanae 82, che infatti aveva prescritto ai funzionari degli officia di astenersi a conparationibus per provincias, in quibus militant (CTh. 8.15.3) ovvero, al contrario, nella successiva c. 5 h.t. 83, che risulta emanata a Sirmio 80 In proposito, V. MANNINO, Ricerche sul “defensor civitatis”, cit., 35, opta per la provenienza orientale del provvedimento e ipotizza che in quella pars Imperii debba trovarsi la sconosciuta località, peraltro non identificata. 81 CTh. 8.15.3: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Iovinum p(raefectum) u(rbi): Princeps cornicularius commentariensis numerarius et ordinarii per singula officia possessionum adque aedium nec non etiam mancipiorum comparationem sciant sibi esse praeclusam. Sive igitur in ipsis provinciis, in quibus memorata officia sustinere noscuntur, constiterit eos esse progenitos seu in aliis, omni modo a praedictis conparationibus per provincias, in quibus militant, temperare debebunt. Solas tamen res paternas memoratos mercari posse praecepimus, ita ut apud rectorem provinciae non minoribis pretiis, quam ratio aequitatis exposcit, venditio celebretur. Dat. iii id. April. Const(antino)p(oli) divo Ioviano e Varroniano conss. 82 Il destinatario è erroneamente indicato in Iovinum anziché Iovium, sulla cui carriera, G. DAGRON, Naissance d’une capitale. Constantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris 1971, 244; G. DE BONFILS, Il “comes et quaestor” nell’età della dinastia costantiniana, Napoli 1981, 203 s. 83 CTh. 8.15.5: Omnis se turpibus nundinis administrator abstineat: idem sibi altior iudex, idem mediae dignitatis, idem quicumque vel minimus putet esse praescribtum. Nemo in provincia quam tuetur, donec in eadem commorabitur, aliquid conparandi sumat adfectum: similiter administrantium socii adque participes, quaedam enim uniuscuiusque portio videtur adsessor. Patronos etiam fisci ab his contractibus iubemus inhiberi et qui principatum officiorum gerunt seu corniculum quique commentariensium nomine exosa miseris claustra custodiunt; tabularios quoque provinciarum et urbium singularum pari condicione constringimus; identitem numerarii praefecturae vel vicariae potestatis observent. Praeterea officiales adque municipes, qui exactiones quascumque susceperint, eos etiam, quibus vel discussionis indago vel negotium censuale mandatur, insuper principales, a quibus distributionum omnium forma procedit, curatores etiam lex ista contineat. Verum si qui ex his medio muneris sui tempore vel privatim aliquid e[miss]e vel publice detegetur, in inritum gesta revocentur, comparatores autem contra in[terdic]ta…mati non modo his, quae per semet [ipsos vel per aliam fue]rint empta personam, sive ag[ri sint sive domus sive] mancipia seu
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il 4 agosto 365 84, contenente un più generale divieto di attività commerciali per ogni administrator, fosse egli altior iudex, mediae dignitatis vel minimus. A ben vedere, le due costituzioni non accennano alle funzioni del defensor plebis che, seppure in modo sommario, appaiono delineate nella costituzione di apertura del titolo del Codice Teodosiano, CTh. 1.29.1, che, come s’è visto, non attribuisce, quantomeno nella versione a noi nota del provvedimento, funzioni giurisdizionali o attività di sorveglianza dei funzionari imperiali e l’eventuale applicazione, nei loro confronti, del divieto di mercari in suscepto officio: sono, però, ragioni testuali che consentono fondatamente di superare tale ostacolo e di ipotizzare l’inserimento della costituzione a Seneca in un quadro legislativo unitario e sistematico, finalizzato a delineare le funzioni e l’ambito di attività della nuova figura di funzionario imperiale. Sono decisive, a mio giudizio, due considerazioni, fra loro reciprocamente interdipendenti, la prima delle quali è costituita dall’inserimento del provvedimento nel titolo De defensoribus civitatum di entrambe le raccolte normative, ma soprattutto l’espressa qualifica attribuita al personaggio nella versione giustinianea del provvedimento: è pur vero, come s’è più volte ricordato, che non possa essere attribuita piena affidabilità alle inscriptiones e alle subscriptiones del Codice di Giustiniano, frutto per lo più di ricostruzioni medioevali, ma non può essere sottaciuta la circostanza, paleograficamente rilevante, che il titolo di defensor è attribuito a Seneca nei due codici del XII secolo, il Cassinense e il Berlinese 85. Se, dunque, la costituzione 2 CTh. 1.29 pare riferirsi all’epoca di introduzione, nel sistema burocratico dell’Impero, del nuovo funzionario denominato defensor plebis o defensor civitatis e, soprattutto, se l’altro frammento della stessa costituzione, CTh. 8.15.4, richiama, come ho sopra ipotizzato, la precedente costituzione 3 h.t. 86, datata 11 aprile 364, allora l’intero provvedimento quaecumque mobilia, sed etia[m ea pecu]niae taxatione, quam dederint, exuantur. Nec [ullus] inquirat, ultrum civiliter rem actam constet an [tur]bide. Nec obsit propria reposcenti vel venditio interiecta vel largitas vel mentio ulla legati, nam utcumque in alterum res fuerit a conparatore translate, quam emi in officio non oportuit, liberum corporis persequendi praestamus arbitrium. Adiungimus autem, ut, si domini corporum venditorum, postquam emptores coeperint esse privati, quinquiennio integro in repetitione cessaverint, continuo sibi fiscus usurpet, quae contra hoc vetitum vendita docebuntur. Dat. iii non. Aug. Sirmio Valentiniano et Valente AA. conss. 84 Sui dubbi relativi alla data di emissione e alla località di emanazione, che non può essere Sirmio (più verosimilmente si tratta del luogo di pubblicazione del provvedimento, emanato qualche mese prima: cfr. F. PERGAMI, La legislazione, cit. 254), v. TH. MOMMSEN, ad h.l.; O. SEECK, Regesten, cit. 234; A.H.M. JONES, Prosopography, cit., 738, Probus 5. 85 P. KRÜGER, Codex Theodosianus, ad h.l. Il titolo di defensor non compare nella Summa Perusina, che reca, come nel Teodosiano, la sola indicazione del nome del destinatario, corrotto in Senice. 86 Non posso nascondere che esistono elementi contenutistici anche a favore dell’identifica-
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in esame può fondatamente collocarsi al 27 giugno 365 ed offrire ulteriore conferma dell’attribuzione all’anno precedente della c. 1 CTh. 1.29, nonché, per quello che mette conto specialmente di rilevare, della risalenza cronologica all’esordio dell’azione di governo di Valentiniano della prima prefettura di Probo. Soluzione che, fra l’altro, consentirebbe di risolvere, confermando il dato testuale emergente dalla subscriptio a favore di una datazione al 3 agosto 365, senza dovere ipotizzare una postergazione della c. 5 CTh. 8.15 al secondo consolato imperiale del 368 87, con utile appiglio per corroborare l’idea di un organico disegno normativo, attuato da Valentiniano nei primi anni di regno. Tornado alla datazione di CTh. 7.4.16, è dunque a favore di una datazione all’anno 364 che ritengo, in definitiva, di inclinare, pur nella consapevolezza che, in considerazione della speciale complessità della vicenda e dei dati a nostra disposizione, qualunque soluzione adottata per la datazione dei provvedimenti imperiali in relazione alla carriera di Probo sia destinata a lasciare un’ombra di incertezza sull’esatta determinazione della successione delle cariche rivestite dal personaggio. Del resto, già in passato tale problematica aveva suscitato, come ho accennato, gravi dubbi e ripensamenti repentini: basti considerare che il Mommsen 88 nel commento alla costituzione di apertura del titolo De defensoribus civitatum annotava: subscriptioni et huic et alteri XI.1.15 obstat, quod Probum tam Ammianus (27.11.1) quam leges reliquae testantur praefectum factum esse a demum 368, mentre nei Prolegomena 89 inclinava a favore di una datazione più alta della prima prefettura del personaggio, unitamente al fatto che, da parte sua, il Seeck ipotizzava una collocazione al 368 90, seppure dopo una originaria propensione per il 364 91. In conclusione, l’esame della legislazione imperiale nella seconda metà del terzo secolo, anche per l’affinità di contenuto fra l’editto generale ad populum (CTh. 7.4.13) con le successive disposizioni attuative (cc. 11 e 16), offre, spezione con la c. 5 CTh. 8.15: la c. 3 h.t., come s’è detto, è una disposizione limitata a determinati funzionari e alla disciplina di determinati atti (in particolare, l’acquisto di immobili e di schiavi), mentre la c. 5 h.t. detta una disciplina più generale, con la conseguenza che la frase “nihil in suscepto officio mercari”, riferito nella c. 4 a tutti i titolari di publica munera, potrebbe far propendere per una soluzione opposta a quella individuata nel testo. 87 A tale soluzione avevo aderito nella precedente fase di studio: cfr. F. PERGAMI, La legislazione, cit., 254. 88 TH. MOMMSEN, Codex Theodosianus, ad h.l. 89 TH. MOMMSEN, Prolegomena, cit., CLXVIII. 90 O. SEECK, Regesten, cit., 92. 91 O. SEECK, Defensor civitatis, cit., col. 2366.
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cialmente in relazione alla seconda delle due, qualche ulteriore rilevante indizio a favore della risalenza cronologica della prima prefettura di Probo all’anno 364: si tratta, a ben vedere, di un risultato contenutistico che costituisce il frutto del riordino cronologico dell’attività legislativa dei singoli imperatori succedutisi alla porpora imperiale, attraverso la ricostruzione palingenetica del materiale normativo conservato nei Codici e nelle fonti extragiuridiche, offrendo ulteriore conferma della fecondità del metodo che, attraverso l’esame dei singoli provvedimenti imperiali, consente una migliore e più corretta ricostruzione, anche sotto il profilo degli aspetti contenutistici, della politica legislativa tardoantica.
10. È tempo di tornare alla legislazione d’urgenza, destinata ad affrontare le emergenze militari della seconda metà del quarto secolo e, al riguardo, conviene esaminare le costituzioni 14 e 15 CTh. 7.4, entrambe dedicate al vettovagliamento delle truppe di frontiera. Il primo provvedimento è una breve disposizione, indirizzata al prefetto del Pretorio Secondo, che risulta accepta a Calcedone il 1 dicembre 365: effettivamente, in quella località, all’epoca nelle mani dei partigiani di Procopio, si trovava negli ultimi mesi dell’anno Valente che, come sappiamo dal racconto di Ammiano, ne aveva intrapreso l’assedio 92, per essere poi costretto a ritirarsi, perché minacciato dalla truppe nemiche, uscite da Nicea 93: si deve, dunque, supporre che la costituzione sia stata emanata prima della proclamazione di Procopio, ma resta inspiegabile come possa essere stata ricevuta a Calcedone il 1 dicembre 94: CTh. 7.4.14: Impp. Valentinianus et Valens AA. Secundo p(raefecto) p(raetori)o. Riparienses milites mensibus novem in ipsa specie consequantur annonam, pro tribus pretia percipiant. Acc. kal. Dec. Calchedone Valentiniano et Valente AA. conss.
La seconda costituzione, immediatamente successiva nella raccolta teodosiana, c. 15 h.t., pure dedicata all’approvvigionamento dei soldati, risulta identicamente riportata nel Codice di Giustiniano (C. 12.37[38].4): Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Auxonium p(raefectum) p(raetori)o. Sicut fieri 92
AMM. MARC., Rer. Gest. 26.8.2. AMM. MARC., Rer. Gest. 26.8.3. 94 O. SEECK, Regesten, cit., 33 ipotizza che la costituzione sarebbe stata emessa il 1 dicembre, durante l’assedio della città, per essere ricevuta lo stesso giorno dal prefetto del pretorio, che doveva trovarsi nelle vicinanze. 93
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per omnes limites salubri prospectione praecipimus, species annonarias a vicinioribus limiti provincialibus ordinabis ad castra conferri. Et in vicinioribus castris constituti milites duas alimoniarum partes ibidem de conditis sumant nec amplius quam tertiam partem ipsi vehere cogantur. Dat. v non. Mai. Marcianopoli Valentiniano n.p. et Victore conss.
Si tratta, a ben vedere, di mere istruzioni esecutive o interpretative di precedenti disposizioni, quasi atti di natura amministrativa, destinati a regolare situazioni di carattere contingente, piuttosto che norme di carattere generale, dalle quali poter ricavare informazioni utili sulle linee generali di politica legislativa, dettate per fronteggiare, nella seconda metà del quarto secolo, gli attacchi nemici a difesa dei confini dell’Impero. Del resto, che quella che noi conosciamo attraverso le disposizioni riportate nelle raccolte ufficiali non rappresenti neppure la rassegna completa degli interventi imperiali in materia di distribuzione dell’annona ai soldati nella seconda metà del IV secolo, è confermato da disposizioni successive che richiamano, in modo esplicito, precedenti provvedimenti normativi, di cui non è rimasta traccia nelle fonti a nostra disposizione. Spiccano fra queste due costituzioni dell’anno 396 indirizzate al prefetto del pretorio Ilario, attribuite ad Arcadio ed Onorio, le cc. 22 e 23 CTh. 8.4: CTh. 7.4.22: Impp. Arcadius et Honorius AA. Hilario p(raefectum) p(raetori)o. Neque scholae neque vexillationes comitatenses aut palatinae neque legiones ullae auxilia, qualeslibet ad provincias delegatorias de specierum praebitione pertulerint, audiantur, si pretia poscant ultra ea, quae generali lege divi patris senioris Valentiniani constituta sunt. Nec enim fas est, ut exigendis annonis militum nostrorum servientes nova possessoribus pro arbitrio proprio indicant. Sine mentione etiam pretiorum nullam delegationem valere praecipimus. Dat. iii kal. Iun. Med(iolano) Arcadio iiii et Honorio iii AA. conss.
Il provvedimento, emanato a Milano il 30 maggio, richiama espressamente – generali lege divi patris senioris Valentiniani constituta sunt – una disposizione de specierum praebitione, non conservata 95, con cui Valentiniano, per arginare gli eccessivi lucra degli esattori, aveva fissato un calmiere per l’aderazione richiesta dai soldati nella riscossione dell’annona militare 96. 95 Sulle tracce del Gotofredo (Codex Theodosianus, cit., ad h.l.), il Pharr (The Theodosian Code, cit., ad h.l.) ipotizza che la costituzione richiamata nel testo in esame vada identificata nella precedente c. 10 h.t.: in realtà, la difformità di contenuto e la mancanza di precisi riferimenti testuali rende l’ipotesi meramente congetturale. 96 Sul contenuto della costituzione, S. MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo, cit., 193; ID., Sulla politica tributaria di Valentiniano I. A proposito di un’epigrafe di Casamari, in Antico, tar-
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La successiva costituzione, c. 23 h.t., è riportata pressoché identicamente nel Codice Giustinianeo (C. 12.37[38].8): CTh. 8.4.23: Impp. Arcadius et Honorius AA. Hilario p(raefectum) p(raetori)o. Provincialium commodis nos convenit subvenire. Ad omnium utique numerorum sive vexillationum aut etiam scholarum tribunos per viros inl(ustres) com(ites) sublimitas tua faciat pervenire, ut meminerint faenum militibus isdem capitibus praestandum iuxta legem divi Valentiniani de quinta decima indictione nec tamen ad oppidum deferendum. Dat. xvi kal. Iul. Arcadio iiii et Honorio iii AA. conss.
La disposizione, emanata il successivo 16 giugno 396, richiama anch’essa una legge dell’imperatore Valentiniano (iuxta legem divi Valentiniani), che non risulta conservata nelle raccolte ufficiali. Si tratta, a ben vedere, di un fenomeno frequente nella legislazione imperiale di età tardoantica, dal cui esame è possibile verificare l’esistenza di costituzioni raccolte nei Codici che, a loro volta, richiamano precedenti disposizioni, delle quali costituiscono la conferma, l’estensione o la rettifica, ma che i compilatori non hanno conservato e che, in definitiva, contribuisce ad allargare ulteriormente l’orizzonte dell’indagine sul disegno normativo imperiale.
11. La disamina dei provvedimenti normativi della seconda metà del quarto secolo in tema di distribuzione dell’annona militaris, emanati per garantire l’efficienza dell’esercito in un momento storico in cui la pressione nemica su tutti i confini dell’Impero imponeva alla cancelleria imperiale il massimo impegno, ha offerto sicura conferma dell’utilità della ricerca palingenetica, i cui risultati, seppure parziali e provvisori, lungi dall’essere confinati alla – pure utilissima – soluzione dei problemi prosopografici, hanno consentito di gettare qualche, seppur modesta, luce sul contenuto dei provvedimenti imperiali e sulle linee di politica legislativa, anche in settori, quali quello del corretto funzionamento dell’apparato burocratico-amministrativo e della soluzione dei problemi di natura economico-sociale, che, seppure formalmente estranei all’emergenza bellica, rientravano a pieno titolo nel disegno complessivo del programma di governo finalizzato alla massima efficienza dell’apparato statale. Un metodo di indagine che, in ogni caso, non ha potuto prescindere dalla consapevolezza che il fenomeno giuridico della tarda antichità non si esaurisce nella raccolta delle edictales generalesque constitutiones che il programma teodoantico ed èra costantiniana, 1 (1974), 316 ss.; ID., Stilicone, cit., 360 nt. 17; A. GIARDINA in A. GIARDINA-F. GRELLE, La tavola di Trinitapoli: una nuova costituzione di Valentiniano I, in MEFR, 1983, 276.
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dosiano mirava a realizzare, ma deve essere ricercato in una serie di manifestazioni della volontà imperiale estranee alle raccolte giuridiche ufficiali, grazie agli ulteriori, possibili apporti ricavabili dallo spoglio delle fonti letterarie, papirologiche, epigrafiche, nonché, dallo studio di tutta una serie di fonti, quali gli atti conciliari, le storie ecclesiastiche e gli epistolari dei padri della Chiesa e quel materiale storiografico e documentario, non ancora sistematicamente sfruttato, perché tradizionalmente estraneo all’abituale strumentario del romanista 97. È noto, del resto, come sia stato autorevolmente sostenuto che sebbene il sistema normativo imperiale poggi certamente sulla volontà imperiale, esso, però, si completi in virtù di una serie di manifestazioni “diffuse”, espresse in ogni momento della vita del complesso organismo amministrativo, che la letteratura non giuridica può contribuire a fare meglio conoscere allo studioso della realtà giuridica della tarda antichità 98. Resto convinto che solo seguendo tale metodo, per il molto che ancora resta da fare, sarà possibile conseguire una migliore e più approfondita conoscenza dell’attività normativa della tarda antichità.
97 F. AMARELLI, Cristianesimo e istituzioni giuridiche romane: contaminazioni, influenze, recuperi, in BIDR, 100, 1997, 453 ss. 98 M. SARGENTI, Studi sul diritto romano del Tardo Impero, Padova 1986, 407 ss.
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6 SULLA SFERA DI APPLICAZIONE DEI PROVVEDIMENTI IMPERIALI NEL DIRITTO ROMANO TARDOANTICO *
1. Sono particolarmente grato a Elio Dovere, a cui esprimo tutta la mia sincera e affettuosa riconoscenza, per avermi voluto annoverare fra coloro che hanno inteso onorare uno studioso del calibro di Giovanni de Bonfils, il cui prezioso lavoro, ormai definitivamente acquisito dalla comunità scientifica non solo nazionale, ha indiscutibilmente favorito, grazie a contributi scientifici divenuti ormai “classici”, una migliore e più approfondita conoscenza della realtà giuridica della Tarda Antichità. Ho, dunque, accolto con entusiasmo l’invito a contribuire al presente volume per i sentimenti di profonda e sincera stima che mi legano all’onorato. Non posso nascondere, però, che il mio rapporto con Giovanni de Bonfils ebbe un esordio – a dir poco – burrascoso: è nota, infatti, la vicenda relativa alla recensione, a lui affidata da Index, del mio primo lavoro monografico, il quarto volume dei Materiali per una palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali, pubblicato sotto l’egida dell’Accademia Romansitica Costantiniana, dedicato alla legislazione degli imperatori Valentiniano I e Valente 1, frutto di un assiduo e pluriennale impegno accanto al mai troppo compianto prof. Manlio Sargenti, che costituiva il primo risultato, per vero provvisorio, del progetto, destinato a riattivare, in collaborazione con le Università di Pavia, Perugia, Siena, Genova e Macerata, ma con un orizzonte cronologico più limitato, la ricerca avviata, alla metà del secolo scorso, dall’Accademia d’Italia, che si prefiggeva l’ambizioso obiettivo, bruscamente interrotto dall’avvio del secondo conflitto mondiale, di realizzare la palingenesi delle costituzioni imperiali emanate da Costantino a Teodosio II. Nonostante Manlio Sargenti, nella Presentazione, precisasse che «la seconda serie dei Materiali per una Palingenesi delle costituzioni tardoimperiali, che * E. DOVERE (a cura di), Signa amicitiae. Scritti offerti a Giovanni de Bonfils, Bari 2018, 155 ss. 1 F. PERGAMI, La legislazione di Valentiniano e Valente (364-375), Milano 1993.
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solo per motivi contingenti si apre con questo volume quarto, dedicato alla legislazione di Valentiniano e Valente, vuole offrire il quadro, cronologicamente ordinato, dell’attività legislativa dei singoli imperatori attraverso la ricostruzione palingenetica del materiale normativo conservato nei Codici, nelle raccolte e nelle epigrafi» e contemporaneamente ammonisse, per un verso, che «s’intende che un quadro palingenetico veramente completo richiederebbe l’inserimento di altri dati sull’attività normativa imperiale, in particolare di quelli ricavabili dalle opere della letteratura, laica e religiosa, di questi secoli» e, per altro verso, che «non sarà mai abbastanza ripetuto che quello di cui si dà, in questo volume, un primo saggio, vuole essere solo l’abbozzo di un’opera assai più impegnativa, quale dovrà essere, nel risultato finale, la Palingenesi delle costituzioni tardo imperiali. E solo con la consapevolezza di questi suoi limiti lo presentiamo agli studiosi» 2, Giovanni de Bonfils stroncò, senza appello, il metodo e i risultati di quel lavoro. E lo fece con toni perentori: in primo luogo in relazione all’utilizzo delle fonti letterarie, Ammiano fra tutti: «Il Pergami sembra ignorare quella letteratura che ha mostrato quali siano le chiavi di lettura delle Res Gestae e che costituisce un momento fondamentale, obbligato, qualora ci si voglia accostare in modo corretto ad esse. Per contro si lascia prendere da quella cattiva abitudine di citare le frasi di un’opera storica come fossero commi di un articolo del codice … la tesi di F. Pergami è frutto di una analisi che porta ad una grande semplificazione dei problemi del IV secolo, ma lascia trasparire una scarsa sensibilità per i processi storici … a questa affermazione non seguono prove, ma una sbrigativa analisi …» 3; ma anche con riguardo ai profili giuridici: «Veniamo ai dati normativi del periodo 364-375. È necessario chiarire quanto la posizione qui espressa sia lontana da ciò che F. Pergami scrive nella sua introduzione» 4. 2. La recensione, in particolare, diede a Giovanni de Bonfils l’occasione per tornare sulla vexata quaestio dei rapporti legislativi fra le due partes Imperii: come è noto, il valore normativo delle costituzioni imperiali contenute nel Codice Teodosiano e quello, specularmente connesso, relativo alla loro sfera di applicazione, continua ad alimentare un acceso dibattito fra gli studiosi della tarda antichità 5, divisi fra coloro che ritengono che, quantomeno dall’ascesa 2 M. SARGENTI, Presentazione di F. PERGAMI, La legislazione di Valentiniano e Valente (364375), Milano 1993, vi ss. 3 G. DE BONFILS, La legislazione di Valentiniano e Valente, in INDEX, 24, 1996, 394. 4 G. DE BONFILS, La legislazione di Valentiniano e Valente, cit., 396. 5 Sulle contrastanti opinioni cfr. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, 5, Napoli
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al trono di Costantino, vigesse un vero e proprio dualismo legislativo 6 e chi, al contrario, sostiene che ogni costituzione imperiale, indipendentemente dall’attribuzione e dalla formale paternità, avesse vigore in tutto l’Impero 7. 1975, 475 s. Anche di recente, L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 346 ss., dà conto del «dibattito suscitato da questa problematica» (ibidem, nt. 95). Ampia ed aggiornata rassegna bibliografica in P. LEPORE, Un problema ancora aperto: i rapporti legislativi tra Oriente ed Occidente nel tardo Impero romano, in SDHI, 66, 2000, 343 ss. 6 J. GAUDEMET, nell’affermare che «le débat est ouvert depuis longtemps» (Le partage législatif au Bas-Empire d’après un ouvrage récent, in SDHI, 1955, 319, riteneva che proprio con l’avvento al potere di questi due imperatori, si sarebbe realizzata in maniera definitiva una divisione dell’Impero e che, di conseguenza, sotto il profilo normativo, «le partage législatif divient habituel» e precisava che, in relazione alle leges emanate nella seconda metà del IV secolo, dovesse valere il principio tassativo della «spécialité législative», in base al quale «les constitutions de la fin du IVème siècle n’avaient normalment elles aussi qu’un champ d’application limité» (Le partage législatif dans la seconde moitié du IV siècle, in Studi De Francisci, 2, Milano 1974, 345 [ora in Études de droit romain 1, Napoli 1979, 157]): circostanza che troverebbe testuale conferma non solo nel carattere eminentemente regionale di molti provvedimenti – muniti di una efficacia territorialmente circoscritta – ma anche da un contrasto che si ravviserebbe nei differenti indirizzi normativi delle due partes Imperii: «Oevres d’empereurs différents et qui n’ont entre eux que des contacts rares, préparées par des chancelleries distinctes, adressées à des fonctionnaires qui ne relèvent que d’un des Augustes et dont la compétence territoriale est limitée». Ciò sebbene lo stesso Gaudemet rilevasse che, in altri periodi in cui si sarebbe realizzato un fenomeno di partizione legislativa e territoriale «dans certain cas, malgrè le partage de seige, l’unité législative reprend ses droits» poiché la «suprematie» di un imperatore «s’impose à son collegue» (cfr. ancora, Le partage législatif, cit., 349, in cui l’autore sostiene che l’esempio più evidente di tale situazione si sarebbe verificato durante il periodo di governo di Valentiniano II e Teodosio I, in cui l’influenza preponderante di quest’ultimo avrebbe impresso un carattere unitario a molti aspetti dell’attività normativa. Sul punto, cfr. J.R. PALANQUE, Collégialité et partage dans l’Empire romain aux IV e V siècles, in Revue des Études Anciennes, 44, 1944, 47 ss.). Nel senso di una netta divisione fra le due partes Imperii, anche R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, Catania 1971, 35 nt. 85: «Per quanto riguarda in particolare il problema amministrativo e legislativo, va precisato, però, che le esigenze diverse delle due parti dell’Impero portarono a una sempre più sostanziale divisione amministrativa e legislativa di questo»; A. PIGANIOL, L’Empire chrétien (325-395), Paris 1972, 150 ss.; G. CERVENCA, Lineamenti di storia del diritto romano (sotto la direzione di M. TALAMANCA), Milano, 1989, 597, ha sostenuto che «il separatismo burocratico instauratosi tra le due partes Imperii sin dall’epoca dell’ascesa al trono dei figli di Costantino crea, quale necessaria conseguenza, una situazione di dualismo legislativo tra l’Oriente e l’Occidente». In tale senso, A. BURDESE, Manuale di diritto pubblico romano, Torino 1987, 220 e V. MANNINO, Ricerche sul «defensor civitatis», Milano 1984, 9 nt. 18 e la bibliografia citata. A favore di tale ipotesi, per quanto specialmente interessa evidenziare, G. DE BONFILS, Commune imperium divisis tantum sedibus: i rapporti legislativi tra le partes Imperii alla fine del IV secolo, in AAC, 13, 2001, 107 ss., ove bibliografia, nonché, dello stesso autore, CTh. 12.1.157-158 e il prefetto Flavio Mallio Teodoro. Appunti per un corso di lezioni, Bari 1994, 29 ss. 7 Così, A. GUARINO, Storia del diritto romano9, Napoli 1993, 530, scrive che «ogni lex generalis, fosse essa emanata dall’imperatore d’Oriente o da quello di Occidente, aveva vigore per tutto il territorio dell’impero». Vedi, più di recente, S. PIETRINI, Sui rapporti legislativi fra Oriente e
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Con nettezza, de Bonfils aveva aderito alla prima ipotesi ricostruttiva 8, a cui, per vero, anche di recente, la dottrina più autorevole si è allineata, come si ricava dalle parole di Lucio De Giovanni che, nella sua recente ed importante monografia sulla realtà giuridica dell’età tardoantica, ha sostenuto che «le costituzioni emanate in una pars Imperii, pur essendo formalmente intestate a tutti gli Augusti regnanti, non valevano meccanicamente anche nell’altra pars» 9. Al contrario, nell’Introduzione al volume sui Valentiniani, premessa la considerazione che il problema dovesse essere affrontato in relazione ai differenti momenti storici e alle specifiche espressioni dell’attività legislativa, in intima connessione con le differenti modalità di assetto del potere, avevo inclinato, relativamente al dodicennio di comune governo degli imperatori Valentiniano e Valente, a favore di una supremazia, anche a livello normativo, del fratello maggiore, il quale, nonostante la formale divisione dell’Impero e dei suoi apparati burocratico-legislativi, aveva continuato a rivestire un ruolo preponderante nell’azione di governo, la cui influenza aveva consentito di imprimere un indirizzo unitario a molti aspetti dell’attività normativa: una visione che confinava Valente, particolarmente nei primi anni di governo, a figura marginale e limitata, sotto il profilo dell’impegno nell’attività normativa, anche in considerazione dei gravosi impegni militari legati alla campagna militare sul Danubio 10.
3. Con il presente contributo, intendo tornare sul tema dell’unità o della separazione legislativa nella realtà tardoantica, con particolare riferimento alla correggenza di Valentiniano e Valente. Non è inutile ribadire, anzitutto e in linea generale, che il problema, lungi Occidente, in SDHI 64 (1998), 519 ss., la quale, per sostenere la tesi dell’unità, parla di “principi costituzionali” (ibid. 520), sulla scia di T. HONORÉ, The making of the Theodosian Code, in ZSS, 103, 1986, 177 e E. DOVERE, Corpus Theodosiani: segno di identità e offerta di appartenenza, in Vetera Christianorum, 44, 2007, 80, ma già in Ius principale e catholica lex, Napoli 19992, 121 ss. 8 G. DE BONFILS, La legislazione di Valentiniano e Valente, cit., 396 «Si accetta senza dubbio il principio che ogni imperatore del IV secolo provvedesse a legiferare per il territorio posto sotto il suo controllo in modo autonomo rispetto al collega, o ai suoi colleghi». Analogo ordine di idee anche in lavori più recenti: G. DE BONFILS, Commune imperium divisis tantum sedibus, cit., 119 ss., per il quale, nel racconto dello storico, «non vi è un riferimento tecnico ad una unità legislativa che non entra in alcun modo nel racconto orosiano». 9 Così, L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., 347. 10 Un analogo ordine di idee avevo ribadito in F. PERGAMI, Rilievi sul valore normativo delle costituzioni imperiali nel tardo Impero romano: Oriente e Occidente nella legislazione di Valentiniano I e Valente, in Il diritto romano canonico quale diritto proprio delle comunità cristiane dell’Oriente Mediterraneo (IX Colloquio Internazionale Romanistico Canonistico), Roma 1994, 137 ss.
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dal presentarsi in termini univoci, si pone con differenti modalità nei diversi momenti storici dello svolgimento dell’attività normativa e nei singoli settori della disciplina positiva 11, nel quadro di una realtà istituzionale che si adatta alle caratteristiche e alle esigenze connesse al vario articolarsi dell’assetto del potere 12. Sotto il profilo della struttura costituzionale dell’Impero, merita anzitutto di essere ricordata l’opinione di coloro che hanno individuato, nella politica di Valentiniano, una generale volontà unitaria diretta ad evitare uno smembramento dell’Impero in due tronconi: sia il Mommsen 13 che la Nagl 14, infatti, pur consapevoli dell’esistenza di legislazioni differenti ed autonome sotto il profilo amministrativo e militare, ritenevano che sintomi significativi di una tendenza unitaria potessero essere rappresentati dalla titolatura collegiale, presente in ogni decreto, epistola o iscrizione, nonché dalla adozione del solido come moneta d’oro in entrambe le parti dell’Impero. Del pari, a favore della unità costituzionale dell’Impero, almeno a livello burocratico, si schierava anche il De Dominicis, che individuava nella ritrasmissione delle costituzioni, ad opera dei destinatari delle medesime, nelle località dell’altra pars Imperii, la prova di una comunicazione legislativa tra Oriente ed Occidente 15. 11 M.A. DE DOMINICIS, Il problema dei rapporti burocratico-legislativi tra «Occidente ed Oriente» nel Basso Impero Romano alla luce delle inscriptiones e subscriptiones delle costituzioni imperiali, in RIL, 87, 1954, 337: «Mi sono inoltre preoccupato di prendere in esame le singole costituzioni in relazione alle epoche cui appartengono; perché soltanto in base a questa impostazione cronologica si potrà apprezzare il diverso atteggiarsi del sistema burocratico legislativo tra Occidente ed Oriente in rapporto ai diversi aspetti che l’ordinamento costituzionale dell’Impero assume nei diversi momenti»; J. GAUDEMET, Rec. di M.A. De Dominicis, Le comunicazioni legislative nel Basso Impero (“subscriptiones mutilae” di costituzioni imperiali e loro ricostruzione. Trasmissione di costituzioni dal luogo di emissione alla località d’arrivo ed il calcolo del tempo impiegato dalle costituzioni), in RIL, 83, 1950, in Revue de Droit Français et Etranger 30, 1952, 255: «Le courants doivent être envisagés séparément pour chaque période d’histoire, non pas globalment pour un siècle et demi plein de vicissitudes»; B. BIONDI, La “L. 12 Cod. de Aed. Priv. 8, 10” e la questione delle relazioni legislative tra le due parti dell’impero, in BIDR, 44, 1937, 363, [ora in Scritti Giuridici 2, Milano 1965, 27]: «Posto che le relazioni legislative non possono essere che in funzione dei rapporti politici tra quelle che furono le duae partes dell’impero, e degli ordinamenti statuali che si delineano in Occidente in confronto dell’impero d’Oriente, se si considera che questi rapporti sono quanto mai mutevoli, è chiaro che non solo bisogna distinguere le varie parti dell’Occidente, ma altresì i vari momenti storici». 12 M. SARGENTI, Centralismo o autonomie nella tarda antichità? Posizioni attuali e prospettive future, in AAC, 13, Napoli 2001, 809 (con specifico riferimento alla correggenza di Arcadio ed Onorio). 13 TH. MOMMSEN, Die Inschrift von Hissarlik und die römische Sammtherrschaft in ihrem titularen Ausdruck, in Gesammelte Schriften 4, Berlino 1910, 314. 14 A. NAGL, Valentinianus, in PWRE, 7, 1948, col. 2165. 15 M.A. DE DOMINICIS, Il problema dei rapporti burocratico legislativi, cit., 399 s.: «il “sepa-
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In relazione all’assetto burocratico e amministrativo del regno nel dodicennio di correggenza ed ai rapporti tra i due Augusti, informazioni preziose si ricavano dall’esame delle fonti letterarie coeve e, in particolare, da Ammiano Marcellino, il cui racconto corrobora la posizione di supremazia di Valentiniano sul fratello Valente: quando Valentiniano, pressato dalla volontà dell’esercito e dalla magnitudo urgentium negotiorum 16, decide di associare alla porpora imperiale il fratello, lo fa con l’intento di averlo participem quidem legitimum potestatis, sed in modum apparitoris morigerum 17. Lo storico esprime analogo ordine di idee sia narrando della spartizione dei comites fra Valente e Valentiniano – cuius arbitrio res gerebatur 18 – sia, più tardi, scrivendo della divisione del palatium, verificatasi ut potiori placuerat 19. Anche le vicende della campagna di Valente contro i Goti offrono l’occasione di ribadire che Valens enim ut consulto placuerat fratri, cuius regebatur arbitrio, arma concussit in Gothos 20 e di confermare che ogni iniziativa di carattere militare, comprese quelle relative alla pars Orientis, proveniva, in ultima analisi, da Valentiniano. Un’altra serie di indicazioni in ordine alla superiorità di Valentiniano si ricava dalle vicende riguardanti l’elevazione alla porpora imperiale del giovane Graziano, la cui designazione risulta essere il frutto della iniziativa del solo Valentiniano, il quale, nel presentare all’esercito il proprio successore come compartecipe del potere imperiale – ut patris patruique collega 21 – mostra di effettuare una scelta, a garanzia della stabilità dinastica, in grado di vincolare anche Valente e la pars Orientis 22. Il ruolo di Valentiniano, cui paiono affidate le sorti dell’Impero, emerge, ratismo” tra le due partes Imperii nel campo legislativo coesiste, giacché conciliabile, con il perdurare di “comunicazioni legislative” che si rendono possibili tra queste due partes a mezzo del sistema burocratico proprio dell’ordinamento costituzionale amministrativo del Basso Impero ... l’unità costituzionale dell’Impero ... faceva ancora sentire i suoi riflessi nell’ambito burocratico legislativo». 16 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.2. 17 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.2.3; 26.4.3. 18 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.2. 19 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.4. 20 AMM. MARC., Rer. Gest. 27.4.1. 21 AMM. MARC., Rer. Gest. 27.6.12. 22 Valentiniano associa alla porpora imperiale il figlio Graziano, dopo la grave malattia da cui era stato colpito e in seguito alla confusa situazione creatasi, che aveva scatenato le ambizioni e gli intrighi dei capi militari e degli ambienti di corte (AMM. MARC., Rer. Gest. 27.6.4-13). Vedi anche Socr., Hist. Eccl. 4.11; Zos., Hist. Nova 4.12.2. In ordine alla supremazia di Valentiniano, si legga A. NAGL, Valens, in PWRE, 7A.2, 1948, 2098 ss. e G. DE BONFILS, Ammiano Marcellino e l’imperatore, Bari 1986, 18.
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del resto, anche dall’esame di altre vicende risalenti al medesimo periodo. Si consideri, a titolo esemplificativo, la linea di condotta assunta dall’imperatore in seguito all’usurpazione di Procopio: Valentiniano, pur volendo accorrere in aiuto del fratello per fronteggiare la crisi scoppiata in Oriente, tanto grave da coinvolgere tutto l’Impero 23, si trova invece costretto ad occuparsi della campagna contro gli Alamanni che minacciavano l’Occidente 24 e che rappresentavano un pericolo totius orbis Romani 25, mostrando così di intendere l’Impero come un’unica realtà: in seguito, dopo la sconfitta e l’uccisione di Procopio, la testa dell’usurpatore – segno tangibile della vittoria – venne inviata a Parigi a Valentiniano 26 che, evidentemente, rappresentava il potere legittimo. I dati esaminati e le osservazioni svolte, sebbene preliminari e frammentarie, se lette nel loro complesso, inducono ad identificare in Valentiniano il cardine dell’azione politico-militare di tutto l’Impero, poiché da lui appaiono dipendere le sorti anche della parte governata da Valente. Né, a ben vedere, una vera e propria spartizione, risulta dalle fonti in relazione all’apparato burocratico 27, che, al contrario, secondo Ammiano, si sarebbe attuata a Naisso (partiti sunt comites: AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.1), prima della definitiva separazione dei due fratelli (diviso palatio) 28: innanzitutto, perché di spartizione sembra potersi parlare non già per l’intera categoria dei funzionari imperiali, ma solo per i comites rei militaris 29; in secondo luogo, 23 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.11. La circostanza è confermata dalle misure militari adottate per l’Illirico con la nomina di Equizio a magister militum e l’incarico di provvedere alla difesa della Pannonia contro eventuali tentativi di invasione, memore della precedente esperienza di Giuliano, da parte del nemico: His cognitis Valentinianus eodem Aequitio aucto magisteri dignitate repedare ad Illyricum destinabat, ne persultatis Thraciis perduellis iam formidatus invaderet hostili excursu Pannonias. 24 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.12: ardens ad redeundum eius impetus molliebatur consiliis proximorum, suadentium et orantium ne interneciva minantibus barbaris exponeret Gallias, neve hac causatione provincias desereret egentes adminiculis magnis. 25 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.13: hostem suum fratrisque solius esse Procopium, Alamannos vero totius orbis Romani. 26 AMM. MARC., Rer. Gest. 27.2.10: Et post heac redeunti Parisios post claritudinem recte gestorum imperator laetus occurrit, eumque postea consulem designavit, illo videlicet ad gaudii cumulum accedente, quod isdem diebus Procopii susceperat caput a Valente transmissum. 27 Sul problema della duplicazione della struttura amministrativa alla seconda metà del IV secolo, si leggano le ancora attualissime indagini di G. DAGRON, Naissance d’une capitale. Costantinople et ses institutions de 330 à 451, Parigi 1974, 213 ss. 28 Da Costantinopoli, ove gli imperatori trascorsero i primi mesi del 364, giunsero a Naisso attraverso la Tracia (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.1) e successivamente a Sirmio: qui, diviso palatio ... Valentinianus Mediolanum Constantinopolim Valens discessit. Vedi, anche, AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.4, nonché Zos., Hist. Nova, 4.3.2. 29 Ammiano Marcellino, infatti, specifica che a Valentiniano furono assegnati Giovino, magi-
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perché mancano sicure indicazioni riguardo ad una duplicazione, nelle due partes Imperii, delle altre cariche dell’apparato burocratico e governativo. La carica di magister officiorum risulta, infatti, ricoperta dapprima da Ursazio 30 – che appartiene al periodo di governo comune dei due Augusti – successivamente da Remigio 31 – funzionario della pars Occidentis, in quanto destinatario della c. 2 CTh. 7.8 emanata a Treviri (AMM. MARC., Rer. Gest. 29.9.2; 28.6.8; 29.5.2) – infine da Leone 32, in carica negli anni 371-372, come attesta lo stesso Ammiano (30.2.10). Ma non vi è traccia di alcun funzionario omologo per la pars Orientis, ad eccezione di Eufrasio che – come riferisce lo stesso Ammiano 33, senza precisare, però, se in sostituzione di un precedente titolare indicato da Valente – sarebbe stato nominato magister officiorum da Procopio 34. Quanto al comes sacrarum largitionum, è possibile ricostruire la successione dei titolari dell’ufficio con maggiore precisione: Fiorenzo rivestiva la carica nel 364 35, Germaniano dal 366 al 368 36, Archelao nel 369 37, Felice nel 370 38, Filemazio negli anni 371 e 372 39 e, infine, Taziano nel 374 40. Ma i dubbi di naster armorum per Gallias e Dagalaifo, militiae rector, mentre al seguito di Valente compaiono Vittore ed Arinteo (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.2). È pure interessante sottolineare come lo storico, descrivendo l’assetto amministrativo dell’Impero al momento della separazione dei due Augusti, indichi distintamente solo i titolari delle prefetture che, essendo ormai grandi ripartizioni amministrative, esistevano anche nei momenti di governo unitario dell’Impero e non possono rappresentare, dunque, un indice di divisione territoriale (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.5). 30 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.4. 31 AMM. MARC., Rer. Gest. 27.9.2; 28.6.8; 29.5.2. 32 AMM. MARC., Rer. Gest. 30.2.10. 33 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.7.4. 34 Dalla corrispondenza di Libanio si conosce un agens in rebus molto influente a Corte, Decenzio, che avrebbe ricoperto la carica negli anni 364-365, ma che non è mai indicato come tale nelle fonti (A.H.M.JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, The Prosopography of the Later Roman Empire, Cambridge 1975-1980, 244, Decentius, 1); da alcune lettere di Basilio si è desunto che Sofronio (A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit., 847, Sophronius, 3), notarius al tempo della usurpazione di Procopio, avrebbe rivestito la carica di magister officiorum, di cui, però, Ammiano Marcellino non fa menzione (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.7.2). Da un’unica lettera di Basilio si desume la qualifica di magister officiorum per Imerio nel 378 (A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit.,437, Himerius, 5). Cfr. A. GIARDINA, Aspetti della burocrazia nel basso Impero, Roma 1977, 40 ss. 35 CTh. 5.17.3; CTh. 11.12.3 (C. 4.61.6); CTh. 12.6.11 (C. 10.72[70].4); CTh. 13.1.6. 36 CTh. 5.15.19; CTh. 5.15.20 (C. 11.65[64].4); CTh. 7.7.1; CTh. 10.19.4 (C. 11.7[6].2); CTh. 12.6.13 (C. 10.70[72]. 5); C. 11.62[61].3; C. 11.63[62].2. 37 CTh. 9.21.7; CTh. 10.21.1 (C. 11.9[8].1). 38 CTh. 10.17.2 (C. 10.3.6). 39 CTh. 10.20.5; CTh. 10.20.7 (C. 11.8[7].5). 40 CTh. 9.21.8; CTh. 10.20.8; CTh. 10.22.1; C. 4.63.2.
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tura paleografica che i provvedimenti pongono impediscono di individuare con certezza in quale pars Imperii tali funzionari operassero 41. Sebbene, infatti, da una iscrizione greca risulti che Taziano abbia svolto tutta la sua carriera in Oriente 42 e sebbene dall’esame di CTh. 6.9.1 43 emerga chiaramente l’esistenza, almeno per l’anno 372, di due separati comites sacrarum largitionum, non possiamo ricavare altri elementi dalla circostanza che in Oriente fossero emanate o pubblicate le costituzioni indirizzate ad Archelao, a Felice e a Taziano. Come è noto, infatti, tale criterio non appare affatto decisivo, solo considerando che la pubblicazione di un provvedimento in Oriente non implica necessariamente la provenienza orientale e, tanto meno, la sua destinazione ad un funzionario della pars Orientis. Resta, al contrario, un dato incontestabile: anche a voler ammettere la duplicazione di tale ufficio nelle due parti dell’Impero, emergono gravissime lacune nella successione dei comites. La ricostruzione della carriera e dell’ufficio del quaestor sacri palatii nelle due partes Imperii offre all’interprete rilevanti spunti di riflessione, in virtù dell’importanza che il funzionario rivestiva nell’ambito dell’attività normativa: se, infatti, in Occidente, Vivenzio risulta in carica nel 364 44, Euprassio negli anni fra il 367 e il 370 45, più tardi Claudio Antonio 46 e, infine, nel 375, Ausonio 47, assai dubbia è l’esistenza di un quaestor sacri palatii in Oriente, poiché 41
Sulle incertezze in ordine alla successione dei comites sacrarum largitionum, cfr. F. PERLa legislazione, cit., 245 ss. e la bibliografia ivi citata. 42 A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit., 876, Tatianus, 5. 43 CTh. 6.9.1: Imppp. Valentinianvs, Valens et Gratianvs AAA. ad Ampelium praefectum urbi. Post alia: Eorum honores, qui sacrario n(os)tro explorata sedulitate oboediunt, hac volumus o(bser)vatione distingui, ut quaestor atque officiorum m(agis)ter nec non duo largitionum comites proconsula(rium) honoribus praeferantur. Et cetera. Dat. iii non. Ivl. N(aso)naci, Acc. iii non Sept. Modesto et Arintheo Conss. Sul contenuto del provvedimento, parte di un testo più ampio, che stabilisce il rango degli alti funzionari, cfr. A. CHASTAGNOL, La Préfecture urbaine à Rome sous le Bas Empire, Parigi 1960, 433; R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 119 ss.; R. ANDREOTTI, Incoerenza della legislazione dell’imperatore Valentiniano I, in NRS, 15, 1931, 463 ss.; D. VERA, Alcune note sul “quaestor sacri palatii”, in Hestìasis. Studi Calderone (Studi tardo-antichi), 1, 1986, 27 ss.; R. DELMAIRE, Largesses sacrées et “res privata”. L’“aerarium” imperial et son administration du IVe au VIe siècle, Parigi-Roma 1989, 39; P. GARBARINO, Ricerche sulla procedura di ammissione al Senato nel Tardo Impero Romano, Milano 1988, 313 ss. 44 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.4; 27.3.11. 45 AMM. MARC., Rer. Gest. 27.6.14; 27.7.6; 28.1.25. T. HONORÉ, The making of the Theodosian Code, cit., 133 ss. 46 A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit., 77, Antonius, 5. 47 A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit., 140, Ausonius, 7; T. HONORÉ, The making of the Theodosian Code, cit., 133 ss. GAMI,
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Aburgio è ricordato esclusivamente quale uomo influente a corte, senza alcuna indicazione della copertura di un ruolo ufficiale 48.
4. Sotto il profilo della produzione normativa, va immediatamente evidenziato un dato impressionante per la sua rilevanza statistica, rappresentato dal divario esistente tra il numero dei provvedimenti che, per quanto risulta dalle fonti, appaiono di provenienza occidentale e quelli di più o meno sicura provenienza orientale 49. Fra le oltre quattrocento costituzioni contenute nel Codice Teodosiano – cui vanno aggiunte quelle raccolte nella Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, nei Fragmenta Vaticana e nella Collectio Avellana – solo poco più di settanta, sia per il luogo di emanazione in cui risultano emanate, sia per il destinatario a cui risultano indirizzate, possono ricondursi, seppure in via di prima approssimazione, alla sfera orientale. Ma vi è di più: il già ridotto numero delle leges che risultano emanate in Oriente è destinato a diminuire ulteriormente, non solo perché non tutte le attribuzioni alla pars Orientis sono sicure e affidabili, ma soprattutto perché molti dei provvedimenti attribuiti alla cancelleria imperiale di Valente non hanno il valore di norma di carattere generale – valore, per intendersi, di edictales generalesque constitutiones, che secondo il programma del 435 avrebbe dovuto caratterizzare tutte le leges da ricomprendere nel Codice Teodosiano – bensì consistono in interventi di secondaria importanza, con valore limitato al ristretto ambito locale e con efficacia territorialmente circoscritta, dettati da esigenze contingenti ed aventi la natura più di atti amministrativi, che di provvedimenti normativi in senso stretto 50. Si tratta, a tutta prima, di un dato davvero sorprendente, perché non è plausibile ipotizzare che la cancelleria della parte orientale dell’Impero presentasse un così ridotto impegno normativo, pur di fronte alla tradizionale volontà di incidere nella sfera economica e sociale, tipica dell’Oriente ellenistico. Per rendersi conto di ciò, sarà sufficiente una breve esemplificazione: alcuni provvedimenti riguardano esclusivamente la città di Costantinopoli, come 48 A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography cit., 5, Aburgius, 8; T. HONORÉ, The making of the Theodosian Code, cit., 133 ss. 49 R. ANDREOTTI, Incoerenza della legislazione dell’imperatore Valentiniano I, cit., 458. 50 E. VOLTERRA, Intorno alla formazione del Codice Teodosiano, in BIDR, 83, 1980, 134 ss.; ID., Sul contenuto del Codice Teodosiano, in BIDR, 84, 1981, 90 ss.; G.G. ARCHI, Le codificazioni post-classiche, in Atti del Convegno di Pavia, 26-27 aprile 1985, «La certezza del diritto nella esperienza giuridica romana» (curr. M. SARGENTI, G. LURASCHI), Padova 1987, 157 ss.; M. BIANCHINI, Caso concreto e “lex generalis”, Milano 1979, 147 ss.
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quello, pure solennemente indirizzato al Senato, che determina l’assegnazione di cavalli ai pretori per la loro editio (CTh. 6.4.19: Satos de Frygiae gregibus equos quattuor subiugandos quadrigis, hoc est simul octo, duobus maximarum editionum praetoribus dari sancimus. Dat. id. April. Antiochiae Modesto ed Arintheo conss.); altre costituzioni, seppure di portata più ampia, appaiono anch’esse territorialmente circoscritte, come quella che vieta l’abusivo commercio delle species annonariae distribuite alla popolazione (CTh. 14.17.7: Vendendi de reliquo popularibus annonam consuetudinem derogamus, ut huiusmodi celebrata venditio omni careat firmitate. Verum si quis urbe abeundum esse crediderit, panes ceteraque quae percipit in horreorum conditis reserventur, poscentibus iuxta legem eiusdem ordinis hominibus deferenda. Quin lege proposita etiam quae fuerint fortasse distractae, ad originem propriam iusque revocamus, si quidem iustum est, ut in perpetuum suum quisque detineat et per succedaneas vices proprius ordo teneat, ut palatinus palatini, militis vero militaris, popularem annonam popularis exposcat nec alter alterius sibi expetens diversorum ordinum valeat miscere rationem) oppure la disposizione che conferma la concessione del ius italicum alla città (CTh. 14.13.1: Italici iuris auxilium arbitra aequitate renovamus. Concessi igitur gratia beneficii publicis actibus intimetur et incisa tabulis debita sollemnitate permaneat). Altri provvedimenti riguardano la domus imperiale, come quello che reprime le derivazioni abusive dell’acqua destinata al palazzo imperiale di Dafne (CTh. 15.2.2: Aquaeductus, qui Dafnensi palatio usum aquae praestat, quorundam aviditate tenuatur adpositis maioribus fistulis, quam ex imperiali largitate meruerunt. Consensu igitur omnium in tribus locis conceptacula reparentur et singulorum nomina modusque servandus tabulis adscribatur, et si ultra licitum aliquem usurpasse constiterit, per singulos obolos librae unius auri dispendiis ingravetur. Et si sacri tenore rescribti aliqui certum modum aquae meruisse noscetur, non prius eidem accipiendi potestas aliquatenus tribuatur, nisi adito rectore ex ipso conceptaculo quantitatem quam meruit possit adipsci) oppure quello relativo agli sgravi fiscali per i coloni della res privata (CTh. 10.1.11: Ut perspicue colonorum utilitatibus consulatur, decima indictione singulas tantum dependant centesimas, qui reditus domui nostrae debitos quodannis iuxta consuetudinem arcariis tradunt; ita tamen, ut singularum quoque centesimarum ratio semper evidens scientiae tuae digesta referatur; videlicet ut erogationibus cunctis aperta instructione patefactis reliquorum ratio ex centesima possit agnosci e CTh. 12.6.14: Singulas tantum dependant centesimas, qui reditus domui nostrae debitos arcariis quotannis iuxta consuetudinem tradunt, ita tamen, ut earum quoque singularum centesimarum ratio semper evidens scientiae tuae digesta referatur, ut erogationibus cunctis aperta instructione patefactis reliquorum ratio ex eadem centesima possit agnosci) o, infine, quello che stabilisce l’esenzione della domus
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nostra dall’exhibitio tironum ordinata nelle singole province (CTh. 7.13.2: Domum nostram ad exhibenda tironum corpora per eas provincias, a quibus corpora flagitantur, nolumus perurgueri: ceterum sinimus conveniri, in quibus pretia postulantur, ita ut ex certa praebitione redituum vicem concessionis istius repensemus). Hanno pure carattere strettamente locale il provvedimento che conferma isolita privilegia concessi da Diocleziano ai cohortales della Siria (CTh. 8.4.11: Solita cohortalibus Syriae privilegia, quae a divo Diocletiano porrecta sunt adque concessa, nos quoque porreximus ac iubemus eos non ad sollicitudinem bastagae, non ad functionem naviculariam devocandos, non invitos curialibus coetibus adscribendos, verum peracto labore militiae, pastus primipili competenti sedulitate functione transacta praerogativam his recusationis offerimus); quello che disciplina la sorte dei figli dei primipilari dell’Osroene (CTh. 12.1.79: Quicumque per Osdroënam primipilarium maiore laetatur numero filiorum, unum loco suo veluti hereditario iure substituat, alterum pro amore patriae Edessenae curiae tradat obsequiis, ceteris quam voluerit militiam provisurus. Sin autem duos tantum procreaverit, cohorti satisfacere cogatur et curiae. Quod si unum procreaverit, eundem ordini patriae restituat, nullo contra hanc formam beneficio valituro. Damus sane licentiam tam patribus eorum quam ipsis, qui huius legis auctoritate civitatum obsequio adgregantur, ut, si quos curiales patrocinio principalium invenerint excusari, in medium proferant, ut et ipsi similibus officiis deputati pareant imperatis); la disposizione che attribuisce al prefetto del pretorio la competenza per l’impiego della classis Seleucena (CTh. 10.23.1: Classem Seleucenam aliasque universas ad officium, quod magnitudini tuae obsequitur, volumus pertinere, ut classicorum numerus ex incensitis vel adcrescentibus conpleatur et Seleucena ad auxilium purgandi Orontis aliasque necessitates Orientis comiti deputetur) o, ancora, il provvedimento che ordina il completamento del corpus naviculariorum delle province orientali 51, demandando al prefetto del pretorio di determinarne il numero, tam intra Orientem quam intra Aegypticas partes (CTh. 13.5.14: Iuxta eum tenorem, quem a divo principe Constantio datum Musoniani clarissimae memoriae praefecti praetorio executione constat esse robora51 Il provvedimento, che espressamente si riferisce ai navicularii intra Orientales provincias, richiama una precedente disposizione di Costanzo, che non è conservata, poiché nel Codice Teodosiano non esiste alcun provvedimento relativo al riordino del corpus naviculariorum (L. DE SALVO, Economia privata e pubblici servizi nell’Impero romano. I “corpora naviculariorum”, Messina 1992). Non è, dunque, possibile stabilire l’esatto contenuto del provvedimento richiamato, di cui si dice solo che fosse stato applicato dal prefetto del pretorio d’Oriente Musoniano. In argomento, P. CUNEO, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante, Milano 1997, 434; EAD., Economia di mercato e dirigismo nella normativa di Costanzo II, in AAC, 12, Napoli 1999, 203 ss.
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tum, intra Orientales provincias naviculariorum corpus impleri iubemus, ea videlicet statutorum ratione servata, ut per eminentiam tuam numerus naviculariorum designetur tam intra Orientem quam intra Aegyptiacas partes, qui praesenti possit indictione conpleri, excusandis videlicet pro denum milium modiorum luitione quinquagenis numero iugis in annonaria praestatione dumtaxat, ita ut vestes adque equi ceteraeque canonicae species ab indictione eadem non negentur. Ad conficienda vero competentia navigia a provincialibus cunctis primitus materiae postulentur, reparationem deinceps per singulos annos isdem naviculariis ex concessa iugorum inmunitate curaturis. Eorundem autem naviculariorum ex fide nobis nomina loca substantiae nuntientur brevibus duplici ratione conscribtis, quot videlicet de veteribus quotque sint et quales recenti adsociati delectu. His autem naviculariis, qui fuerint instituti, servari privilegia Africana decernimus, ita ut facultatibus propriis per succedaneas hereditatum vices perpetuo sint obnoxii functioni. Et sunt corpora, de quibus navicularii ex indictione quinta decima constituendi sunt iuxta sacram iussionem ita: ex administratoribus ceterisque honorariis viris praeter eos, qui intra palatium sacrum versati sunt, de coetibus curialibus et de veteribus idoneis naviculariis et de ordine primipilario. Et de senatoria dignitate ut, si qui voluerint freti facultatibus, consortio naviculariorum congregentur). Analogo ambito territorialmente limitato alla pars Orientis hanno le costituzioni contenute in CTh. 12.1.63 e in CTh. 12.18.1, due disposizioni prive di autonomo valore normativo, finalizzate ad impedire la fuga dei curiali verso deserta loca 52: la prima, infatti, ha lo scopo di impartire semplici istruzioni al comes Orientis affinché i fuggiaschi siano ricondotti ad munia patriarum subeunda (CTh. 12.1.63: Quidam ignaviae sectatores desertis civitatum muneribus captant solitudines ac secreta et specie religionis cum coetibus monazonton congregantur. Hos igitur atque huiusmodi – intra Aegyptum – deprehensos – per comitem Orientis – erui e latebris consulta praeceptione – mandavimus – atque ad munia patriarum subeunda revocari aut pro tenore nostrae sanctionis familiarium rerum carere inlecebris, quas per eos censuimus vindicandas, qui publicarum essent subituri munera functionum); la seconda contiene l’invito al rispetto delle frequentes leges che vietano l’esodo dalle città (CTh. 12.18.1: Iudiciario omnes vigore constringes, ne vacuatis urbibus ad agros magis, quod frequenti lege prohibetur, larem curiales transferant familiarem). Parimenti relativa alla sfera orientale è la costituzione contenuta in CTh. 13.1.9, indirizzata al consolare della Fenicia, con uno specifico riferimento ai conchylioleguli di quella regione, probabilmente quale risposta ad un dubbio 52
Sulle origini e sullo sviluppo del monachesimo orientale, vedi, per tutti, G. BARONE ADEortodosso d’Oriente e diritto romano nel tardo antico, Milano 1990.
SI, Monachesimo
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dello stesso funzionario sui privilegi da accordare in materia di conlatio lustralis (CTh. 13.1.9: Si quis navicularius naufragium sustinuisse adfirmat, provinciae iudicem, eius videlicet, in qua res agitur, adire festinet ac probet aput eum testibus eventum relatioque ad sublimissimam referatur praefecturam, ita ut intra anni spatium veritate relata remedium ex indulgentia consequatur. Quod si per huiusmodi neglegentiam praefinitum anni spatium fortasse claudatur, supervacuas serasque actiones emenso anno placuit non admitti). Ancora risultano, senza dubbio, meri atti di natura amministrativa 53, limitati alle specifiche esigenze orientali, le costituzioni contenute in CTh. 10.20.6 e 8, finalizzate a vietare lo storno di mano d’opera impiegata in aziende tessili statali da parte di imprese private (CTh. 10.20.6: Opifices vesti linteae contexendae in usum erogationum nostrarum operam dantes sollicitatos a plurimis esse cognovimus. Igitur et eos, penes quos sunt, et textores ipsos terna auri pondo thesaurorum commodis inferre praecipimus; quin etiam opifices ipsos textrinis linteae vestis vindicari conveniet. Quod si aliquis detegetur in eadem insolentia permanere et iugiter opificem detinuerit, non iam multam, ut praeterito tempore iusseramus, sed proscribtionem subire debebit; CTh. 10.20.8: Intra kalendarum Augustarum diem qui linteones retentare dicuntur, antiquis eos condicionibus reddant aut se pro ingentis audaciae contumacia quinis auri libris per singulos eorum poenae nomine sciant esse feriendos: non minore circa eos etiam multae comminatione proposita, qui obnoxios Scytopolitanos linyfos publico canoni in posterum suscipere conabuntur); la costituzione di apertura del titolo De vestibus holoveris et auratis del Teodosiano (10.21), che proibisce che si producano, per uso privato, auratas ac sericas paragaudas auro intextas tam viriles quam muliebres: Auratas ac sericas paragaudas auro intextas tam viriles quam muliebres privatis usibus contexere conficereque prohibemus et in gynaeceis tantum nostris fieri praecipimus. E, ancora, in apertura del titolo De fabricensibus (CTh. 10.22), il provvedimento con cui si disciplina, in modo minuzioso, la produzione di elmi dorati e argentati tam aput Antiochiam quam aput Constantinopolim: Cum senae per tricenos dies ex aere tam aput Antiochiam quam aput Constantinop(olim) a singulis barbaricariis cassides, sed et bucculae tegerentur, octo vero aput Antiochiam cassidas totidemque bucculas per dies triginta et tegerent argento et deaurarent, aput Constantinop(olim) autem tres solas, statuimus, ut Constantinopoli quoque non octonas singuli cassidas per tricenos dies, sed senas sic pari numero buccularum auro argentoque condecorent. Sono, infine, disposizioni meramente esecutive o interpretative di prece53 Sull’intervento dello stato nelle attività imprenditoriali private, si leggano le interessanti riflessioni di P. CUNEO, Economia di mercato e dirigismo nella normativa di Costanzo II, cit., 206 ss.
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denti disposizioni, soprattutto in materia finanziaria, quelle che fissano la somma di aderazione per la conlatio equorum (CTh. 11.17.1: Viceni et terni solidi per singulos equos, qui a colonis atque ab obnoxiis exiguntur, ipsi magis iugiter, quam fraude procuratorum nostrorum equi, offerantur); che disciplinano la riscossione del canon vestis (CTh. 7.6.2: Omnem canonem vestium ex kalendis Sept. ad kal. April. nostris largitionibus tradi praecipimus, proposita rectori provinciae vel eius officio condemnationis, quae tuae iustitiae videbitur, poena) o, ancora, le costituzioni che stabiliscono tempi e modalità di vettovagliamento per i militari di frontiera, cc. 14 e 15 CTh. 7.4 (CTh. 7.4.14: Riparienses milites mensibus novem in ipsa specie consequantur annonam, pro tribus pretia percipiant; CTh. 7.4.15: Sicut fieri per omnes limites salubri prospectione praecipimus, species annonarias a vicinioribus limiti provincialibus ordinabis ad castra conferri. Et in vicinioribus castris constituti milites duas alimoniarum partes ibidem de conditis sumant nec amplius quam tertiam partem ipsi vehere cogantur).
5. Il contenuto di tali provvedimenti mette indubbiamente in discussione l’dea di un’autonoma legislazione della cancelleria orientale e corrobora l’ipotesi, certo congetturale, ma bene ancorata alle fonti, che all’attività legislativa della cancelleria di Valente vadano in prevalenza ricondotti interventi non soltanto con efficacia territoriale espressamente circoscritta alla pars Orientis, bensì anche aventi natura secondaria e marginale, in qualche caso, addirittura con valenza meramente interpretativa e anche solo esecutiva di precedenti disposizioni: circostanza che suggerisce, pertanto, estrema prudenza nel valutare il periodo di comune governo di Valentiniano e Valente come il riflesso, per usare un’efficace espressione di Gaudemet, di un netto partage législatif dell’Impero. Come ho accennato, su tali ipotesi soprattutto si appuntarono le critiche di de Bonfils, il quale, dopo avere chiarito la ferma contrarietà ad una simile ricostruzione, esponeva con nettezza la propria opposta posizione: «Si accetta senza dubbio il principio che ogni imperatore del IV secolo provvedesse a legiferare in modo autonomo rispetto al collega, o ai suoi colleghi. Anche in età di Valentiniano e Valente si richiedeva un atto formale perché una legge avesse valore nell’altra parte dell’Impero. Dal 364 si determina una effettiva divisione tra le due partes Imperii» 54. A sostegno di tale affermazione, l’illustre autore richiamava, anzitutto, la costituzione conservata in CTh. 10.19.5, destinata a coordinare la ricerca dei 54
G. DE BONFILS, La legislazione di Valentiniano e Valente, cit., 396: «quanto la posizione qui espressa sia lontana da ciò che F. Pergami scrive nella sua introduzione».
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metallari fuggitivi, qui incolunt latebras et quos domus nostrae secreta retinent, da cui si ricaverebbe che l’iniziativa normativa sia partita dall’Oriente, poiché la successiva c. 7 h.t., espressamente richiamata da Valentiniano, estendeva un’analoga disciplina all’Illirico e alla Macedonia: CTh. 10.19.5: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. Fortunatiano comiti rerum privatarum. Nullam partem Romani orbis credidimus relinquenda, ex qua non metallarii, qui incolunt latebras, producantur, et quos domus nostrae secreta retinent. Et in comprehendis eis investigatores eorum rectores congruis auxiliis prosequantur. Dat. prid. Kal. Mai. Antiochiae Valentiniano NB. P. et Victore conss. CTh. 10.19.7: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Probum praefectum praetorio. Quemadmodum dominus noster Valens per omnem Orientem eos, qui ibidem auri metallum vago errore sectantur, a possessoribus cunctis iussit arceri, ita sinceritas tua universos per Illyricum et dioecesim Macedonicam provinciales edicto conveniat, ut nemo quemquam Thracem ultra in possessione propria putet esse celandum, sed ut singulos potius regredi ad solum genitale conpellant, quos inde venisse cognoscunt. Alioquin gravis in eum aniimadversio proferetur, qui latebram huiusmodi hominibus post haec interdicta praebuerit. Dat. xiiii kal. April. Treviris Valentiniano et Valente AA. conss.
Al riguardo, si impongono, però, alcune considerazioni: anzitutto, va detto non soltanto che si tratta dell’unico caso in cui sappiamo con certezza che l’iniziativa di una disposizione normativa sia partita da Valente, ma soprattutto occorre sottolineare che, anche in questo caso, si tratta di un provvedimento di natura amministrativa, reso verosimilmente necessario da situazioni particolari ad alcune zone circoscritte dell’Impero, come si ricava da un’estensione territorialmente limitata dell’efficacia del provvedimento da parte di Valentiniano ai soli territori dell’Illirico e della Macedonia, non già a tutto l’Occidente. Anche gli altri esempi, elencati dal recensore lasciano ampio margine a dubbi sull’effettiva esistenza di un partage législatif nella seconda metà del IV secolo: fra questi, un ruolo centrale occupa la costituzione di apertura del titolo 8.11 del Teodosiano, Ne quid publicae laetitiae nuntii ex describtione vel ab invitis accipiant: CTh. 8.11.1: Impp.Valentinianus et Valens AA. ad Eugrammimum. Cum anni exordia certis inchoanda consulibus nuntiantur, a tenuioribus, sportulae specie, conlationis necessitas separetur, ne scilicet discribtione facta pro capitatione aut iugatione quicquam isdem veluti legitimi muneris exprimatur. Iubemus tamen, ut viri per provincias emerito iam honore pollentes, praeterea curiales, quos his gradus honore et in conlationibus honestate functionis convenit esse finitimos, arbitratu suo tribuant,
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quantum putaverint largiendum: porro tenuioribus ab hac sorte iniuriosae necessitatis alienis, quod quidem interdicti severitate fieri vetamus in posterum, ut rectores provinciarum vicenis auri lib(ris), porro officia quadragenis constituamus esse multanda, si quicquam pauperes hac adscribtione praebuerint vel his extorqueri quicquam passi fuerint aut aeque, quos contra vetitum fecisse cognoverint, taciturnitate alicuius dissimulationis aboleverint. Dat. xvii kal. Ian. Constantinopoli Divo Ioviano et Varroniano conss.
Si tratta, a dire del de Bonfils, di un’importante conferma del fatto che, dopo un periodo di regno congiunto e in seguito alla divisione dell’esercito e della corte, «ognuno prese la propria strada, il primo per l’Italia, mentre Valente tornò a Costantinopoli», con la conseguenza che «l’attività legislativa di Valentiniano continua senza interruzione alcuna, quella di Valente […] è sicuramente attestata a Costantinopoli dal dicembre» 55. Il tema, in verità, merita, a mio parere, ulteriori approfondimenti, per i legami che il testo presenta con altri provvedimenti coevi: la costituzione, effettivamente emanata da Costantinopoli il 16 dicembre 364, vieta l’esazione di sportulae a carico dei tenuiores in occasione dell’annuncio dell’entrata in carica dei consoli, ammettendo che i personaggi influenti delle province ed i curiali possano arbitratu suo tribuere, quantum putaverint largiendum. La successiva costituzione dello stesso titolo, emanata a Milano il giorno 11 gennaio 365, nella forma di un solenne editto ai provinciali, ripete ed amplifica lo stesso divieto (CTh. 8.11.2: Si quando victoriae, si quando laetitiae publicae nuntiantur vel novorum consulum nomina perferuntur, conlationi nullus locus, nulla sit licentia; nihil quisquam exigat, nihil audeat postulare), mentre ancora il 13 febbraio successivo, sempre da Milano, la norma veniva ripetuta in un testo indirizzato a Mamertino (c. 3 h.t.): CTh. 8.11.3: Impp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Mamertinum praefectum praetorio. Si quando faustorum nuntiorum gaudia provincialibus intimantur quotiensque qui per terrarum orbe disseminatur, seu militum illustres victoriae seu strages hostium aut nostri triumphi perferuntur vel hi quos geremus aut deferimus consulatus, nulli publica distributione et arbitrio iudicis munera, quae vocant sportulas, deputentur. Ceterum si quis iudicum vim decretorum nostrorum violaverit, eius rei, quae viritim distributa fuerit et coacta, duplicem poenam subibit aut officium quoque, quod ei paruerit, in quattuor partibus multa exaggerata constringat. Honorati vero et urbibus suis eminentes ex arbitrio suo, quantum mens tulerit, lar55 G. DE BONFILS, La legislazione di Valentiniano e Valente, cit., 397, sulla scia di O. SEECK, Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919 (rist. 1984), 219.
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giantur. Missa a praefecto praetorio die id. Feb. Med(iolano) Valentiniano NB. P. et Victore V.C. conss.
Il testo, inviato il 13 febbraio al prefetto del pretorio Mamertino, costituisce, a ben vedere, la semplice comunicazione ufficiale del provvedimento solennemente emanato un mese prima (missa a praefecto praetorio), con lo scopo di portare il suo contenuto a conoscenza dei diversi funzionari, affinché ne tenessero debito conto e ne curassero l’applicazione nella rispettiva sfera di competenza. Al contrario, la costituzione emanata un mese prima di quella occidentale non si lascia costringere nello stesso schema interpretativo: essa, infatti, ha un contenuto più ristretto, dal momento che considera esclusivamente le sportulae pretese per l’entrata in carica dei nuovi consoli e non per le altre publicae laetitiae, cui si riferisce, invece, la costituzione del gennaio 365; inoltre, differisce da questa anche nella sanzione, che è stabilita nella somma fissa di venti libbre d’oro per il governatore provinciale e di quaranta per il suo officium, mentre la c. 2 la prevede (e la c. 3 ripete) rispettivamente nel duplum e nel quadruplum della somma illecitamente pretesa. Di fronte a tali aporie, la soluzione più verosimile suggerisce di ipotizzare, dapprima, l’emanazione di una norma, di portata più limitata, seguita – un mese più tardi – da quella più ampia e solenne: ma non si può dire con certezza se la prima sia il frutto di un’iniziativa autonoma di Valente, recepita ed ampliata poco più tardi dal fratello nella pars Occidentis o l’applicazione in Oriente di un indirizzo normativo, come dimostrano le cc. 2 e 3 CTh. 8.11, fortemente voluto da Valentiniano. Del resto, la c. 1 è indirizzata ad uno sconosciuto Eugrammimo, il cui nome non offre alcuna notizia circa la provenienza e la destinazione del provvedimento e lascia aperto l’àdito sia all’ipotesi che l’iniziativa sia stata presa, in questo caso isolato, da Valente, sia a quella, più probabile nel contesto generale, che si sia trattato di un primo passo, comune a tutto l’Impero, del quale è rimasta traccia nel Codice Teodosiano, come sempre casualmente, attraverso un testo circolante in Oriente, diretto allo sconosciuto funzionario Eugrammimo.
6. Un altro settore nel quale de Bonfils intravede, nei primi mesi governo comune, una divergenza fra legislazione occidentale ed orientale è quello concernente le norme sull’accesso dei curiali al Senato 56, segnatamente le costituzioni del titolo De decurionibus, emanate dal 364: fra queste, la c. 57 CTh. 12.1 56
G. DE BONFILS, La legislazione di Valentiniano e Valente, cit., 397.
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del 7 maggio 364, che aveva disposto come nessuno potesse accedere all’ordo senatorius prima di avere adempiuto a tutti i munera municipalia e che fosse cancellato dall’albo senatorio, fino a che non li avesse adempiuti, chi vi fosse pervenuto in violazione della legge: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Mamertinum praefectum praetorio. Nemo ad ordinem senatorium ante functionem omnium munerum municipalium senator accedat. Cum autem universis transactis patriae stipendia fuerit emensus, tum eum ita ordinis senatorii complexus excipiet, ut reposcentium civium flagitatio non fatiget. Ii autem, qui legem nostram neglexerint, exempti senatorio albo, quoad municipalibus necessitatibus satisfaciant, non capiant cassi honoris argumentum. Nam qui cupiunt incrementum honoris adipisci, perfunctos se esse muneribus actis debent ordinarii iudicis adprobare, in locum suum scilicet filiis subrogatis, si eos successio familiae ad exsequendam universam legis nostrae mentem docebitur adiuvare. Dat. non. Mai. Divo Ioviano et Varroniano conss.
La successiva c. 58, che secondo il testo del Teodosiano sarebbe stata emanata solo sei giorni dopo la prima, ma che, in realtà, è da ritenere parte dello stesso complesso normativo, mentre confermava l’inefficacia (fructu careat) della nomina del curiale a senatore ante completa munera patriae, specificava che una volta conseguita la dignità senatoria, questa spettasse anche ai figli nati successivamente, i quali non sarebbero stati muneri decurionum obnoxii: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Mamertinum praefectum praetorio. Qui curiali ortus familia ante completa munera patriae senator factus est, fructu careat, quousque muneribus absolvatur: quibus expletis si velit sumptuosum ordinem senatorium vitare, renuntiet dignitati; si permanserit, liberos quos post ediderit habeat senatores praetores iam quaestoresque, non muneri decurionum obnoxius. Militia vero nullus gradus, nulla diuturnitas defendet, eum, qui curialem contrahens originem repetetur. Sed et qui nexum curialem nascendi opportunitate vitaverit, nisi cum duodeviginti annos expleverit militiam exerceat, per quam parentibus eius immunitatis quesita est, securus esse non poterit propter sortem originis. Dat. iii id. Mai. Hadrianopooli Divo Ioviano et Varroniano conss.
La c. 69 deroga, in parte, a queste disposizioni, ammettendo che la dignità senatoria venga conservata dai curiali che l’abbiano ottenuta praematura cupiditate, ma stabilendo che essi siano tuttavia tenuti ad assolvere gli obblighi quos patriae nondum reddiderunt e che questi siano estesi ai figli quos ante senatoriam dignitatem quisque suscepit. Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Auxonium vicarium dioeceseos Asianae. Universi, qui prematura cupiditate senatorios coetus honoribus patriae praetulisse no-
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scuntur, habeant quidem incolumen statum senatoriae dignitatis, verum fungatur his honoribus, quos patriae nondum reddiderunt. Quin etiam liberos suos indicent, quos ante senatoriam dignitatem quisque suscepit. Dat. prid. Non. Oct. Valentiniano et Valente conss.
Anche a questo proposito, va detto subito come non è per nulla sicuro che le due costituzioni esprimano un diverso indirizzo normativo e che la seconda non contenga, piuttosto, un’attenuazione generale del regime troppo rigoroso adottato l’anno precedente. Anzitutto, non vi è traccia sicura che le costituzioni 57 e 58 siano da considerare limitate, nella loro sfera di applicazione, all’Occidente. Esse (o essa) sono state emanate nel maggio 364, quando i due fratelli si trovavano insieme ad Adrianopoli e governavano ancora congiuntamente. Per le costituzioni di questo periodo non v’è ragione di supporre distinzioni e limitazioni di ambiti territoriali: né in questo, come in altri casi, è lecito desumere una limitazione della destinazione del provvedimento dal fatto che esso appaia indirizzato a Mamertino, prefetto del pretorio per l’Italia, l’Africa e l’Illirico. Se ciò fosse probante, anche in questo caso, come vedremo oltre per CTh. 12.6.7, si dovrebbe giungere a considerare esclusa dalla sfera di applicazione della norma anche la prefettura delle Gallie e, dunque, buona parte dell’Occidente. Ma, in realtà, l’indicazione del destinatario nei testi del Codice Teodosiano non prova, o per lo meno non prova sempre, che la norma fosse destinata ad un ambito territoriale delimitato. Nella specie, a mio giudizio, i compilatori possono avere utilizzato un esemplare della costituzione proveniente dall’archivio della prefettura d’Italia, Africa ed Illirico o, comunque, recante la destinazione a Mamertino. Ma non è detto che la costituzione non fosse indirizzata e diramata anche agli altri prefetti del pretorio: anzi, considerando che il suo contenuto poteva riguardare la formazione non solo del Senato di Roma, ma anche di quello di Costantinopoli, e riguardava, soprattutto, i curiali di tutto l’Impero, è fondato supporre che la norma fosse destinata ad un’applicazione generale e fosse comunicata a tutti i supremi responsabili delle grandi circoscrizioni amministrative, quali erano ormai le prefetture del pretorio. Si potrebbe anzi supporre, sempre sottolineando l’interesse che il provvedimento presentava per l’ordine senatorio, che esso fosse indirizzato proprio al Senato, ma che i compilatori teodosiani disponessero solo dell’esemplare diramato al prefetto del pretorio, e che di questo, perciò, si siano serviti 57. 57
Non sembra accettabile l’idea, prospettata in dottrina (R. ANDREOTTI, Legislazione, cit., 492 e J. GAUDEMET, Partage législatif, cit., 332 s.), che la c. 57 CTh. 12.1 sia stata male interpretata e applicata, tanto da dovere essere “renouvelée” più volte, in primis con la c. 58 h.t.: non solo, fra la data di emissione dei due provvedimenti (7 maggio 364 – 13 maggio 364) non vi sa-
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In secondo luogo, e per analoghe considerazioni, non si può affermare con sicurezza che la c. 69 fosse limitata all’Oriente e frutto di un indirizzo normativo diverso da quello occidentale 58. Il testo del Codice Teodosiano appare diretto al vicario della diocesi Asiana, Auxonio, che sarà più tardi prefetto del pretorio d’Oriente. Ma ancora una volta va rilevato che questo indirizzo è puramente accidentale, dipendente dall’esemplare di cui i compilatori hanno potuto disporre: data la natura del provvedimento, non è pensabile che esso fosse destinato alla sola diocesi d’Asia, per quanto importante essa fosse. Potrebbe, anche in questo caso, essere stato indirizzato al Senato, della cui composizione trattava: ma certamente dovrà essere stato inviato al praefectus urbi, che della composizione e del funzionamento del Senato era responsabile, nonché al prefetto (o ai prefetti) del pretorio e non solo ad un funzionario subordinato e con una limitata competenza territoriale, quale il vicario di una diocesi. Dalla qualifica del destinatario, dunque, ancor meno che in altri casi, si è autorizzati a desumere la provenienza e la destinazione esclusivamente orientali della costituzione e a concludere che questa offra un esempio importante di divergenza tra la normativa occidentale e quella orientale. Potrebbe trattarsi, come s’è detto, di una modifica comune a tutto l’Impero della norma più rigorosa emanata l’anno precedente. Non posso nascondere, in verità, che le successive costituzioni di provenienza occidentale (CTh. 12.1.70 59 e 12.1.73 60), la seconda specialmente, semrebbe stato neppure il tempo per applicare la prima e constatarne gli effetti, ma neppure di fare giungere al destinatario Mamertino la prima e pubblicarla. In proposito, vedi P. GARBARINO, Ricerche sulla procedura di ammissione al Senato nel tardo Impero romano, cit., 110 nt. 69. Neppure ritengo accettabile l’idea di J. GAUDEMET (Partage législatif, cit., 333), sulla scia di Mommsen e Seeck, accolta dal Garbarino, il quale riteneva che la c. 58 CTh. 12.1 sarebbe parte di un “grand édit sur les fonctionnaires et l’armée”. In proposito, F. PERGAMI, La legislazione di Valentiniano e Valente, cit., 31 (in nota a CTh. 7.1.5). 58 La data di emanazione della costituzione è indicata dubitativamente dal Mommsen (Codex Theodosianus, ad h.l.), il quale sottolinea come il provvedimento segua una disposizione, indirizzata a Mamertino, del 30 gennaio 365 (CTh. 12.1.70, si cui, ampiamente, infra). L’attribuzione ad uno dei consolati imperiali successivi al primo è da escludere, poiché Auxonio, a cui la costituzione è indirizzata in qualità di vicarius dioeceseos Asianae, alla fine del 367 (o nei primi mesi del 368), ricoprì la carica di prefetto del pretorio (cfr. CTh. 1.16.19) fino alla morte, avvenuta nel 369. Per la datazione agli anni successivi al 365, vedi O. SEECK, Regesten, cit., 34 e A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit., 142, Auxonius, che propone il 366. 59 CTh. 12.1.70: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Mamertinum praefectum praetorio. Quisquis ex hoc corpore, quod susceptioni deputatum est, honorem quemlibet suffragio meruit, etiamsi nostras purpuras adoravit, meritis careat dignitatis. Dat. iii kal. Feb. Val(entini)ano et Valente AA. conss. 60 CTh. 12.1.73: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. Ad Symmachum proconsulem Africae. Qui nullo administrationis honore fultus, nullis vel palatini laboris insignibus vel me-
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brano indicare che in Occidente si insisteva sull’applicazione della norma più rigorosa, ma non è, però, del tutto chiara l’incidenza dei due provvedimenti: se essi, cioè, vogliano colpire la prematura ammissione al Senato dei curiali o la mancanza dei requisiti di carriera: «nullo administrationis honore fultus, nullis vel palatini laboris insignibus vel meritis iustis militiae», come si esprime la c. 73. 7. L’esame di ulteriori interventi normativi sembra confermare i rilievi svolti, offrendo all’interprete utili elementi per verificare l’efficacia generale delle costituzioni riconducibili alla cancelleria di Valentiniano e, in ultima analisi, per ipotizzare l’unità legislativa dell’Impero nel corso del IV secolo d.C. Possiede, al riguardo, speciale importanza la costituzione contenuta in CTh. 9.16.7: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Secundum praefectum praetorio. Ne quis deinceps nocturnis temporibus aut nefarias preces aut magicos apparatus aut sacrificia funesta celebrare conetur. Detectum enim atque convictum conpetenti animadversione mactari perenni auctoritate censemus. Dat. v id. Septemb. Divo Ioviano et Varroniano conss.
Sebbene la costituzione con cui si vietano, nocturnis temporibus, pratiche magiche, sacrifici e preghiere del culto pagano 61, risulti indirizzata ad un funzionario d’Oriente, il prefetto del pretorio Secondo 62, essa viene espressamente attribuita a Valentiniano da Zosimo 63, che la indica successivamente abrogata dallo stesso imperatore in seguito alle rimostranze degli ambienti pagani presentategli da Pretestato, allora proconsole d’Acaia. Saremmo, dunque, di fronte ad un provvedimento che, formatosi in Occidente, sarebbe poi stato trasmesso anche alla pars Orientis e indirizzato ad un funzionario competente per quella parte dell’Impero 64. ritis iustis militiae in consortium senatus nititur pervenire, missa in hanc rem legatione revocetur eique reddatur curiae, quam voluit declinare. Dat. prid. Kal. Dec. Treviris Valentiniano et Valente iiii AA. conss. 61 R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 502 ss., in part. 506; A.A. BARB, La sopravvivenza delle arti magiche. Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino 1968, 100 ss.; R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 167 ss. 62 Secundus Sallutius (o Sallustius), cui la costituzione è indirizzata, era prefetto del pretorio d’Oriente nel 364, come già in precedenza sotto Giuliano (AMM. MARC., Rer. Gest. 22.3.1; 25.5.5). Cfr. G. DE BONFILS, Il “comes et quaestor” nell’età della dinastia costantiniana, Napoli 1981, 164 ss. 63 Zos., Hist. Nova, 4.3.2. 64 La dottrina è generalmente orientata ad attribuire la costituzione a Valente, con efficacia territorialmente limitata alla pars Orientis: O. SEECK, Regesten, cit., 217; R. ANDREOTTI, Incoe-
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Come detto, occorre anzitutto ribadire che la persona del destinatario, così come indicata nelle inscriptiones dei provvedimenti contenuti nel Codice Teodosiano, non sempre costituisce un indice sicuro dell’ambito territoriale di applicazione, poiché i compilatori possono avere usato esemplari destinati ad un singolo funzionario, senza che ciò debba escludere una destinazione più ampia. Nel caso specifico, la portata generale del provvedimento e le notizie ricavate dalle fonti letterarie inducono a ritenere che la costituzione dovesse avere efficacia in tutto l’Impero e fosse stata adottata d’intesa fra i due Augusti, o dal solo Valentiniano 65, il quale, fra l’altro, si mostra maggiormente sensibile ai problemi religiosi. Un altro esempio significativo di comunicazione legislativa fra le due partes Imperii emerge dell’esame della c. 5 CTh. 12.6: CTh. 12.6.5: Impp. Valentinianvs et Valens AA. ad Secundvm praefectum praetorio. Perpenso prospeximus studio, ut susceptores et praepositi horreorum ex praesidali officio, qui per diversa officia militiae sacramenta gestarunt, congrua ratione crearentur. Sed quoniam praeses Ciliciae adseruit deesse ex his corporibus quibus possit haec sollicitudo committi, ne in praesens tempus lisci nostri seu publica emolumenta vaccillent, excellentia tua, ubi eos deesse perviderit, quos susceptores ac praepositos creari scitis prioribus iusseramus, vetustum morem consuetudinemque sectabitur, scilicet ut ex eo ordine constituantur, ex quo ante consueverant ordinari, modo ut ipse Ciliciae praeses et ceteri magnitudinis tuae litteris urgeantur, ut idoneos ex diversis officiis tota sagacitate vestigent eosque gerere praestitutam scitis nostrae mansuetudinis sollicitudinem faciant. Nam si qui per gratiam fuerint praetermissi, necesse habet exigere publica commoditas ultionem. Nec enim dubium est eos officiales, qui nunc diversis officiis obsecundant, plurimos praetermittere, quorum si qui in huiusmodi fuerint arte deprehensi, dabunt poenas, facultatibus traditis curiis, etiam capitis ac salutis. Dat. iiii non. Ivl. Caesarea Valentiniano et Valente AA. conss.
Il provvedimento, indirizzato anch’esso al prefetto del pretorio d’Oriente, Secondo, ed emanato a Cesarea 66, muove dal richiamo di una norma generale, renza, cit., 459 nt. 5; J. GAUDEMET, Le partage législatif, cit., 139, il quale, però, ritiene che la disposizione normativa sia stata applicata anche in Occidente e suppone che Valentiniano possa avere adottato una misura analoga (con provvedimento non conservato nelle raccolte ufficiali). 65 In tal senso GOTOFREDO, Codex Theodosianus cum commentariis, Mantova 1740-1750, ad h.l., nonché, fra i moderni, R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 194; A. NAGL, Valentinianus, cit., 2199 ss. 66 Il Seeck (Regesten cit., 33) posticipa la data della costituzione al 2 novembre 365 (conforme S. MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo, Roma 1951, 139), considerando che Valente si trovasse a Costantinopoli ancora il 30 luglio, come è dimostrato dalla data della successiva c. 8 h.t., e che Secundus Sallustius doveva essere stato sostituito come prefetto del pretorio da Nebridio. Ma una soluzione del genere contrasta con le notizie ricavabili dal racconto di Ammiano Marcellino sul
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con cui perpenso studio è stato disposto che i susceptores delle imposte ed i praepositi horreorum siano scelti tra i funzionari dell’officium praesidale, qui per diversa officia militiae sacramenta gestarunt. Ma poiché, si aggiunge, il praeses Ciliciae adseruit deesse ex his corporibus quibus possit haec sollicitudo committi, per evitare che la carenza di personale comprometta il gettito dei publica emolumenta, il prefetto del pretorio ubi eos deesse perviderit, quos susceptores ac praepositos creari scitis prioribus iusseramus, è autorizzato a consentire che, seguendo il vetustum morem consuetudinemque, susceptores e praepositi continuino ad essere scelti eo ordine ex quo ante consueverant ordinari, invitando contestualmente il praeses Ciliciae e gli altri governatori ut idoneos ex diversis officiis tota sagacitate vestigent per indurli ad assumere il compito assegnato dalla precedente disposizione. La norma in esame, occasionata da contingenti esigenze locali, presuppone una disposizione di carattere generale alla quale essa deroga temporaneamente, pur confermandone la validità. La norma generale può identificarsi nella c. 7 dello stesso titolo del Teodosiano 67: viaggio di Valente: l’imperatore aveva lasciato Costantinopoli già alla fine dell’inverno (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.6.11: consumpta hieme), aveva attraversato la Bitinia, dove aveva ricevuto notizia della minaccia gotica sulla Tracia (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.6.11: iamque fines Bithynorum ingressus docetur relationibus ducum gentem Gothorum ea tempestate intactam ideoque saevissimam conspirantem in unum ad pervadenda parari conlimitia Thraciarum). Durante l’estate si era fermato in Cappadocia, per evitare il caldo eccessivo della Cilicia, e si trovava ancora a Cesarea alla fine di settembre, in procinto di proseguire verso Antiochia, vaporatis aestatibus Ciliciae iam lenitis (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.7.2). La datazione a Cesarea il 4 luglio 365 collima, dunque, con il racconto di Ammiano, mentre non risulta corretta la data del 30 luglio da Costantinopoli della successiva c. 8 h.t., che – in quella città – può solo essere stata pubblicata [sul punto, cfr. F. PERGAMI, La legislazione, cit., 249]. Quanto al destinatario, è vero che al momento del colpo di stato di Procopio (28 settembre 365) a Costantinopoli si trovava come prefetto del pretorio Nebridio, che Ammiano dice recens promotus in locum Sallusti e che fu arrestato per ordine dell’usurpatore (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.7.4; Zos., Hist. Nova, 4.6.2): a bene vedere, il “recens promotus” riferito alla fine di settembre non esclude che Sallustio fosse in carica ancora all’inizio di luglio, per essere la sua sostituzione avvenuta più tardi. 67 Il provvedimento, posposto nel Codice Teodosiano alla c. 5 h.t., perché apparentemente emesso in data successiva, è – nella realtà – di qualche mese anteriore. La costituzione, infatti, non può essere stata emanata a Sirmio il 4 agosto 365, sia perché in quel mese dell’anno 365 Valentiniano e Valente non erano più in quella città, dove avevano sostato nel luglio dell’anno precedente (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.4), sia perché Mamertino non era più prefetto del pretorio, per essere stato sostituito nella carica da Vulcacio Rufino (CTh. 9.30, 3; CTh. 12.1.66). Nonostante tali incongruenze, alcuni studiosi conservano la data del 365 (E. MEYER, Kaiser Valentinianus in Zurich?, in ZSS, 23, 1943, 288; M.A. DE DOMINICIS, Il problema dei rapporti burocratico legislativi, cit., 346); mentre altri, pure senza giustificare una difficile modifica paleografica da «Divo Ioviano et Varroniano» a «Valentiniano et Valente», riportano la costituzione
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CTh. 12.6.7: Impp. Valentinianvs et Valens AA. ad Mamertinum praefectum praetorio. Ad susceptionem specierum veniant, qui ante omnia sciant se decuriones non esse. Ex corpore igitur diversorum officiorum quisquis idoneus repperitur tam moribus quam facultatibus, veluti matriculae per singulas provincias nomen suum adscribat, ut hac ordinatione dispositi annuas susceptiones peragant, ita ut nihil praeterea muneris pertimescant, atque expleta susceptione erogationibusque perfectis transacto illo officio cum aput iudicem fidele obsequium conprobarint, iudicii nostri digna praemia consequantur. Adiungi autem ad hoc corpus debent etiam illi, qui ex officiis singulis sint, hoc est ex tabulariis et numerariis similibusve officiis eorum officiorum, de quorum ordine hoc corpus constitui volumus. Quicumque vero ex his ad honores potiores per suffragium pervenerint, susceptionis munus perfungantur ita, ut salva sit dignitas quam habent, nec ex hac ordinatione curiale consortium pertimescant. Dat. Prid. Non. Avg. Sirmio Val(entini)ano et Valente AA. conss.
Tale intervento normativo stabilisce che i decurioni vengano esclusi dalla susceptio specierum e che venga creato nelle singole province un ruolo di esattori scelti ex corpore diversorum officiorum, cui affidare anno per anno la susceptio. Si tratta, in sostanza, di una riforma del sistema della riscossione dei tributi, che viene sottratta alle curie per essere affidata ad un corpo scelto di funzionari 68: il tenore solenne del provvedimento e il confronto con la c. 5 h.t., che mostra come il principio fosse stato recepito anche nella pars Orientis, inducono, però, ad escludere che la c. 7 CTh. 12.6 godesse – nonostante l’indirizzo al prefetto del pretorio d’Occidente – di una efficacia territorialmente circoscritta ad una sola parte dell’Impero. Essa appare verosimilmente espressione di un indirizzo legislativo comune a tutto l’Impero che, sebbene elaborato dalla sola cancelleria di Valentiniano, verrà confermato da Valente e applicato anche nella parte orientale 69. all’anno 364 (J.R. PALANQUE, Essai sur la préfecture du pretoire du Bas-Empire. Appendice A. Les Préfectures de Probus, Paris 1933, 42 nt. 39; J. GAUDEMET, Le partage législatif, cit., 138 nt. 8; S. MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo, cit., 187; R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 92 nt. 38). Pare più corretta l’ipotesi del Mommsen (ad h.l.), il quale riteneva che Sirmio fosse il luogo di pubblicazione del provvedimento, che doveva essere stato emanato qualche mese prima, ma ancora nel 365. L’anno consolare, esattamente indicato, sarebbe privo, perché verosimilmente caduta, della indicazione della data e del luogo di emanazione. In argomento, PERGAMI, La legislazione cit., 255 s. 68 S. PULIATTI, Nota sulla evoluzione del condono fiscale da Costantino a Giustiniano, in Studi Guarino, Napoli 1984, 1723; S. MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo, cit., 187 ss.; A. GIARDINA-F. GRELLE, La Tavola di Trinitapoli: una nuova costituzione di Valentiniano I, in MEFR, 1983, 273 ss. 69 In tal senso, S. MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo, cit., 139, che considera la costituzione come un esempio dell’adeguamento della politica di Valente all’indirizzo del fratello, «dopo un’incertezza che si protrae sin verso il novembre 365». L’Andreotti (Incoerenza cit., 458 nt.
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A nostri fini, significativa appare pure la c. 6 CTh. 4.12 ad senatus consultum Claudianum del 4 aprile 366: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Secundum praefectum praetorio. Si apud libi(di)nosam mulierem plus valuit cupiditas quam libertas, ancil(la f)acta est non bello, non praemio, sed conubio, ita ut eius (fili iu)go servitutis subiaceant. Manifestum est enim an(cil)lam esse voluisse eam, quam liberam esse paenituit. Dat. id. non. April. Triv(eris) Grat(iano) N. P. et Dagalaifo conss.
Il provvedimento, che ribadisce il principio già sancito dal senatoconsulto Claudiano 70, reca una subscriptio che indica in Treviri la località di emanazione, in apparente contrasto con il destinatario, che risulta essere un funzionario orientale, il prefetto del pretorio Secondo 71. La inconciliabilità tra questi due dati, ricavati dall’esame palingenetico, viene generalmente risolta proponendo modifiche relative al luogo di emanazione 72: ma, a tacere della dubbia fondatezza di tali soluzioni, risulta più corretto ritenere che una norma, di carattere così generale, come quella che ribadiva le gravi conseguenze per la donna e per i suoi figli in caso di unione con uno schiavo, avesse efficacia territoriale per tutto l’Impero e fosse stata, dunque, trasmessa a tutti i prefetti del pretorio. Anche in questa ipotesi, dunque, i compilatori avrebbero riportato nel codice l’esemplare indirizzato al funzionario orientale, casualmente rinvenuto negli archivi e di cui potevano più facilmente disporre 73. Un altro esempio di rilievo, volto a confermare l’efficacia generale dei provvedimenti imperiali nella seconda metà del IV secolo, proviene dall’esame di un testo che nel Teodosiano risulta smembrato in due frammenti (CTh. 6.4.18 e CTh. 12.1.67): CTh. 6.4.18: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Volusianum praefectum urbi. Legem divae memoriae Constan[ti]ni, qua editores munerum sive ludorum, si editio5) e il Gaudemet (Le partage législatif, cit., 144 nt. 7) considerano, al contrario, questa costituzione quale esempio della divergenza tra normativa orientale ed occidentale regolante la medesima materia. 70 Sul contenuto della costituzione, cfr. B. BIONDI, Vicende post-classiche del Sc. Claudiano, in IVRA, 3, 1952, 142 ss. (ora in Scritti giuridici, cit., 142 ss.); W. WALDSTEIN, Schiavitù e cristianesimo da Costantino a Teodosio II, in AAC, 8, Napoli 1990, 137 nt. 59. 71 TH. MOMMSEN, ad h.l.: «Cum ad Secundum PPO Orientis rescriptum dari non potuerit Treviris, aut inscriptio corrupta est aut inscriptio et subscriptio male coniunguntur». 72 Il Seeck (Regesten, cit., 109) suggerisce che la località indicata nella subscriptio vada corretta in Thyatira, dove l’imperatore Valente, cui andrebbe attribuita la costituzione, si trovava nella primavera del 366, impegnato nella campagna contro l’usurpatore Procopio (Zos., Hist. Nova 4.8.1). 73 Così, seppure isolato, M.A. DE DOMINICIS, Il problema dei rapporti burocratico-legislativi, 387 ss.
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nis [te]mpore abesse voluissent, condemnari pro dignitatis [gra]du certa tritici quantitate praecepti sunt, fixam at[que in]violabilem volumus permanere. Sinceritas tua igi[tur abs]que his, quibus liberum conmeatum dementia no[stra] concesserit, in omnes reliquos promulgatam legem extendat. Data Mediolano, [Ac]cepta iii kal. Iul. Constantinopoli Valentiniano et Valente AA. conss. CTh. 12.1.67: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Volusianum praefectum urbi. Nullus exceptis palatinis qualibet praerogativa fultus a debitis muneribus habeatur immunis. Dat. iiii kal. Iul. Med(iolano) Val(entini)ano et Valente AA. conss.
La subscriptio della prima costituzione, che ribadisce l’obbligo dei magistrati di rango senatorio di essere presenti in città per la editio munerum sive ludorum, sotto comminatoria di una multa frumentaria 74, è priva della data di emanazione ed il 28 giugno 365 figura come data in cui la norma sarebbe stata accepta a Costantinopoli. Il contrasto fra la destinazione a Volusiano, magistratus urbis Romae, e la ricezione nella capitale orientale, ha suscitato negli interpreti forti dubbi sulla attendibilità di tale subscriptio 75 e la propensione a considerare più corretta quella riportata dal secondo provvedimento 76. Ma un rilievo di natura paleografica, finora ingiustamente trascurato, attesta come sia la subscriptio di CTh. 6.4.18 la più esatta: nell’unico codice, il Parisinus 9643, in cui la costituzione è conservata, esiste una lacuna dopo la parola finale promulgatam e fino a Mediolano, proprio nello spazio, cioè, in cui doveva trovarsi la data di emissione, uno spazio diverso e precedente rispetto a quello in cui è contenuta l’indicazione “accepta”. La circostanza permette di accertare come entrambe le date figurassero nell’esemplare usato dai compilatori e come la prima sia scomparsa per una lacuna del manoscritto a noi pervenuto. Pertanto, poiché la costituzione è stata ricevuta a Costantinopoli il 28 giugno 365, essa deve essere stata emanata qualche mese prima: rilievo compatibile con la destinazione a Volusiano, la cui presenza nella carica di praefectus urbi è attestata sin dall’aprile di quell’anno (CTh. 1.6.5). Nessun contrasto emerge dalla circostanza che la costituzione, emanata a Milano, fosse successivamente stata pubblicata nella capitale d’Oriente, in quanto interessava non 74 La sanzione è contenuta in una lex divae memoriae Constantini, che Valentiniano dichiara di mantenere fixa atque inviolabilis, ma non riportata nel Teodosiano: esso, invece, contiene due disposizioni che la presuppongono, in quanto esonerano dalla condemnatio frumentaria i designati alla questura intra annum sextum decimum (CTh. 6.4.1) e, più in generale, tutti i designati alla magistratura prima dei venti anni (CTh. 6.4.2). 75 J. GAUDEMET, Le partage législatif, cit., 326. 76 TH. MOMMSEN (ad h.l.): cum praesertim pugnent inter se magistratus urbis Romae et subscriptio Constantinopolitana.
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solo il Senato di Roma, ma anche quello di Costantinopoli 77. Analoghe considerazioni possono, infine, essere avanzate a proposito della c. 8 CTh. 7.1: Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Equitium comitem et magistrum militum. Omnibus omnino veteranis auctoritas tua denuntiet, quod, si quis filium suum armorum honore condignum non propria voluntate militiae, quam ipse sudarit, ob [tu]lerit, nostrae sit legis laqueis inplicandus. Dat.viii kal. Oct. Heracleae Valentiniano et Valente AA. conss.
Il provvedimento, che figura emanato il 24 settembre 365 ad Eraclea, risulta indirizzato ad Equizio. Poiché, però, è certo che nel settembre di quell’anno Valente non potesse trovarsi ad Eraclea – per essere la sua presenza attestata a Cesarea in Cappadocia (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.7.2) 78 – gli interpreti hanno ritenuto errata l’indicazione dell’anno consolare, anticipando l’emanazione al 364 79. Senonché, Equizio nel 364 era solo comes rei militaris per Illyricum (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.3), non già magister militum, carica che assunse più tardi, in seguito all’usurpazione di Procopio. Tali incongruenze paiono potersi superare assumendo che la costituzione, indirizzata ai vari comandanti militari, tra i quali lo stesso Equizio, fosse stata emanata nel 365 in Occidente e non già ad Eraclea, dove può solo essere stata pubblicata 80. La circostanza è confermata dal contenuto del provvedimento, che investe le esigenze militari di tutto l’Impero e che richiama l’applicazione di una norma più generale sugli obblighi dei figli dei veterani, già sanciti, in modo congiunto, da Valentiniano e Valente nei primi anni del loro governo comune 81. 77
M.A. DE DOMINICIS, Le comunicazioni legislative, cit., 41 s.; ID., Il problema dei rapporti burocratico-legislativi, cit., 398; P. GARBARINO, Ricerche sulla procedura di ammissione al Senato, cit., 102 nt. 54; P. VOCI, Il diritto ereditario romano nell’età del Tardo Impero, in Studi Sanfilippo 2, Milano 1982, 723. 78 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.7.2: Valentem a Caesarea Cappadocum iam profecturum ut vaporatis aestatibus Ciliciae iam lenitis ad Antiochiae percurreret sedes. 79 O. SEECK, Regesten, cit., 85; R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 459 nt. 3. Riportano la costituzione al 366, A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, Prosopography, cit., 282, Equitius, 2. Ad Eraclea, Valente si sarebbe trovato nel 364 secondo Sozomeno: Hist. Eccl., 6, 7, 8. 80 TH. MOMMSEN, ad h.l., il quale rileva che l’anno 365 è reso plausibile dall’ordine delle costituzioni del Teodosiano (maggio 365 la c. 7; gennaio 367 la c. 9 h.t.): Annum determinat lex quae sequitur a. 367. 81 La norma generale pare potersi identificare nella c. 5 h.t.: Impp. Valentinianvs et Valens AA. Eorum liberos, qui armis inhaeserunt, ad usum bellicum et castra revocantes [ei]s quoque eorum stipendiorum copiam deferemus, qui alterius gradus militia salutarem maxime rei publicae operam, persecuntur. Quod si quosdam aut imbecillitas valitudinis aut habitudo corporis [a]ut me-
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8. Dall’esame del quadro normativo sopra delineato, è emerso come l’attività legislativa di maggiore rilievo fosse rappresentata dall’insieme delle costituzioni della cancelleria occidentale, da cui proviene la parte più consistente e qualitativamente più rilevante dei provvedimenti di carattere generale, che affrontano i temi centrali dell’Impero, dall’assetto amministrativo all’ordinamento giudiziario e allo svolgimento del processo, dal reclutamento dell’esercito alla riscossione delle imposte, sino alla gestione del patrimonio pubblico. Del resto, non è possibile sostenere, non solo per ragioni statistiche, che tali norme di portata generale, benché indirizzate a funzionari occidentali, fossero destinate ad una applicazione limitata e circoscritta ai territori di quella sola parte dell’Impero: se così fosse, dato l’esiguo numero e la scarsa rilevanza di contenuto delle costituzioni riconducibili alla cancelleria di Valente, ne deriverebbe che per il dodicennio considerato, sarebbe in pratica mancato in Oriente un efficace impulso normativo e che i grandi problemi dell’Impero sarebbero stati affrontati solo in Occidente e per l’Occidente. Vero è che esiste un certo numero di provvedimenti emanati sicuramente in Oriente, a Costantinopoli, Antiochia, Marcianopoli: ma si tratta di un numero troppo esiguo rispetto alla mole dell’attività normativa degli anni di governo comune per trarne una conclusione di carattere generale, soprattutto considerando che molto spesso i provvedimenti provenienti dalle località orientali si occupano, come s’è visto sopra, di problemi locali e sono destinati a risolvere situazioni contingenti della pars Orientis. Anche quelle che investono problemi più generali, peraltro, non si può dire abbiano contenuto autonomo e del tutto indipendente dalla analoga diciplina della materia nella parte occidentale 82. Credo dunque di potere sostenere, con buon fondamento, che l’attività normativa di maggiore rilievo fosse quella riconducibile alla cancelleria di Valentiniano, da cui proviene la quasi totalità delle disposizioni di carattere generale del dodicennio di correggenza: per questo, ritengo ancora oggi forse eccessivamente drastica l’affermazione in base alla quale l’ipotesi di una supremazia, sotto il profilo della produzione normativa, di Valentiniano sul fratello nel dodiocritas proceritatis ab armatae militiae con[d]icione submoverit, eos iubemus in officiis ceteris militare. Nam si post definitam a nobis aetatem ignobile otium adamaverint, curiis obnoxii erunt sine controversia pro virium qualitate, ita ut ii, quos debilitas fortuita aut morbus et corporis valitudo confecta ita enervaverit, ut ad usum castrorum militiaeque idonei esse non possint, vacationem perpetuam depulsis curialium munerum sollicitudinibus consequantur. Et cetera. Dat. III K. Mai. Hadrianop(oli) Divo Ioviano et Varroniano Conss. 82 Un’indicazione significativa in tale direzione, del resto, emerge dalle parole di Orosio, che all’inizio del V secolo, a proposito del periodo di correggenza di Arcadio ed Onorio, scriveva che i sovrani commune imperium divisis tantum sedibus tenere coeperunt, per indicare una gestione unitaria del potere, anche sotto il profilo legislativo: Or., Hist. adv. Pag., 7.36.1.
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dicennio di governo comune, che avevo avanzato or sono venticinque anni, debba considerarsi una “invenzione” 83 e resto convinto che meriti ulteriori approfondimenti la ricostruzione in base alla quale le costituzioni elaborate dalla cancelleria occidentale avessero vigore generale e prevedessero, pertanto, un’applicazione in entrambe le partes Imperii, indipendentemente dal formale indirizzo ricavabile dalla inscriptio, che, il più delle volte, rappresentava un dato del tutto casuale, legato alla provenienza del materiale utilizzato dai compilatori delle raccolte ufficiali. Un approfondimento che potrà essere davvero proficuo, seguendo l’esempio di rigore e di metodo, a cui il Maestro che oggi onoriamo ci ha indirizzati nel corso di un lungo e fecondo percorso scientifico, i cui risultati costituiscono viatico imprescindibile per l’avanzamento dei nostri studi sul diritto della tarda antichità.
83 G. DE BONFILS, La legislazione di Valentiniano e Valente, cit., 396: «… questa invenzione è ricavata dal rilievo che per questo periodo non vi sarebbero sicure indicazioni dell’apparto governativo, ad Occidente e ad Oriente. A questa affermazione non seguono prove ...».
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7 LA PATOLOGIA NEGOZIALE NELLA TARDA ANTICHITÀ
1. Il tema della patologia degli atti negoziali nella disciplina dell’ordinamento giuridico romano, con particolare riguardo ai profili dell’improduttività degli effetti del regolamento di interessi fra privati, è stato elaborato, come è noto, in mancanza di una concezione matura e compiuta della categoria astratta del negozio giuridico, preferendo utilizzare, al contrario, il concetto della inutilità dell’atto negoziale: sulla base della riflessione romanistica, infatti, premessa la rilevanza di ogni azione umana che si concretizzasse in un negozio giuridico, se questo serviva effettivamente a produrre effetti giuridici, era efficace e veniva qualificato utile, pur se invalido, mentre se il negozio giuridico era inefficace, perché inidoneo a produrre gli effetti tipici ad esso ricollegati dall’ordinamento, veniva qualificato inutile. Era questo, del resto, il pensiero di Antonio Guarino, per il quale, infatti, «in nessuna epoca del diritto romano si formò mai una consistente dottrina, una compiuta teoria generale del negozio giuridico in quanto tale», con la conseguenza che si attuò, in relazione al delinearsi dei concetti di validità e di efficacia del negozio, una lenta e mai soddisfacentemente completa progressione: su tali concetti prevalse quello, «più semplicistico e approssimativo, dell’utilità giuridica del negozio» 1: il negozio efficace proseguiva l’autore, «pur potendo essere, al limite, anche talvolta invalido, era, pertanto, qualificato utile; il negozio inefficace (valido o invalido che fosse) era invece qualificato inutile, inane, nullius momenti» 2. Analogamente, Vincenzo Giuffrè, nel censurare la tradizionale attitudine degli storici del diritto a ragionare in termini di invalidità e di inefficacia e pur nella consapevolezza che «l’aspetto della patologia negoziale è quello più ingarbugliato nelle fonti antiche», afferma che i Romani, per 1 2
A. GUARINO, Diritto privato romano, Napoli 200112, 339. A. GUARINO, Diritto privato romano, cit., 341.
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lungo tratto, ragionarono semplicemente nel senso che un negozio, se riusciva a produrre i suoi effetti, era utilis, mentre se non ne produceva era inutilis 3.
2. Ho avuto modo di sottolineare 4 come tali conclusioni abbiano avuto il merito di incrinare la rigida impostazione elaborata dalla dottrina tradizionale, più o meno recente, ma pressoché unanime, in base alla quale, per ius civile, l’unica alternativa possibile era quella tra atto negoziale valido ed efficace, che dispiega – per questo – regolarmente i propri effetti e, viceversa, atto nullo, cioè quello, poiché vulnerato ab initio, irrimediabilmente inefficace e improduttivo, per tale motivo, di qualsiasi efficacia 5. Una rigidità concettuale nient’affatto coerente con la vastissima gamma di espressioni e con la varietà di significati con cui il linguaggio della giurisprudenza indica il complesso fenomeno della mancata produzione di effetti nel settore negoziale, ricondotto, in sostanza, ad una netta alternativa fra una totale improduttività dell’atto, la nullità appunto, in contrapposizione ad una meno rilevante sanzione sul piano giuridico, a motivo della relativa capacità del regolamento di interessi annullabile di incidere sull’ordinamento giuridico e sugli effetti dell’atto negoziale. Le ragioni di tale fenomeno risiedono essenzialmente nel fatto che la dottrina tradizionale, formatasi tra la fine dell’800 ed i primi anni del secolo successivo, operava, a proposito della tematica dell’invalidità, utilizzando, quale modello operativo, le categorie e gli schemi elaborati dalla Pandettistica ed ereditati come tali dalla dogmatica dei diritti positivi 6, sacrificando inevitabilmente, la metodologia interpretativa della giurisprudenza e costringendo, in quegli schemi dogmatici, una realtà estremamente variegata e fluida ed una riflessione teorica che ad essa aveva cercato di adeguarsi 7. L’impostazione, in 3
V. GIUFFRÈ, Il diritto dei privati nell’esperienza romana, Napoli 19882, 155. F. PERGAMI, “Quod initio vitiosum est non potest tractu temporis convalescere”. Studi sull’invalidità e sulla sanatoria degli atti negoziali nel sistema privatistico romano, Torino 2012, 2 ss. 5 F. SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934 (trad. it. a cura di V. ARANGIO-RUIZ, I principi del diritto romano, Firenze 1946), 66: «Un negozio giuridico è valido o nullo: la nullità relativa è ignota al diritto classico». 6 Per i rapporti fra Pandettistica e tradizione civilistica, restano fondamentali i lavori di A.B. SCHWARZ, Zur Entstehung des modernen Pandektensystem, in ZSS, XLVII (1921), 578 ss.; P. KOSCHAKER, Europa und das römische Recht, München-Berlin, 1953, 254 ss.; R. ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano, Torino 1961, 103 ss.; F. WIEACKER, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit, Göttingen 1967, 348 ss., nonché la sintesi in M. BRUTTI, Invalidità, in Enciclopedia del Diritto, XXII, Milano 1972, 560 ss. 7 In questo senso, si leggano le efficaci pagine di M. BRUTTI, Invalidità, cit., 561: «Tale metodo (scil.: della Pandettistica) serve a manipolare i dati testuali e si differenzia nettamente dai 4
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chiave pandettistica, del problema della patologia degli atti negoziali, si trova riflessa, in modo paradigmatico, nei risultati delle complesse ricerche del Windscheid, il quale, nel suo commentario alle Pandette, parlava, in generale, di invalidità (Ungültigkeit) con riguardo all’atto che «non risponde a tutti i requisiti del diritto […] ossia quello al quale il diritto non accorda la forza di produrre quella conformazione dei rapporti, cui esso intende […]. Il concetto della invalidità, quindi, è più ristretto di quello di inefficacia (Unwirksamkeit)», perché, proseguiva l’autore, «un negozio giuridico può essere inefficace, anche senza che da un suo difetto resti paralizzata la sua potenza» 8. La rigida impostazione sistematica emergeva con ancora maggiore nettezza a proposito della più significativa ed importante contrapposizione che, nel quadro dell’istituto dell’invalidità, induceva il Windscheid a distinguere fra la nullità (Nichtigkeit) e l’annullabilità (Anfechtbarkeit), nel senso che, precisava l’autore, «un negozio giuridico è invalido in guisa che non produce l’effetto giuridico a cui mira, proprio come se mai fosse stato concluso … o un negozio giuridico è invalido in guisa che genera bensì l’effetto giuridico a cui mira, ma questo si appalesa inetto a produrre od a conservare quello stato di fatto che gli corrisponde» 9. A tale insegnamento, come ho sopra accennato, si era uniformata, recependone il rigoroso schematismo dogmatico, la dottrina romanistica tradizionale che aveva affrontato, fra la fine del secolo XIX e l’inizio del successivo, il tema della improduttività degli atti negoziali. Illuminanti di quel metodo e di quella impostazione sono, del resto, le parole con cui Vittorio Scialoja, apriva, nel suo corso sul negozio giuridico, il camodi di procedere della giurisprudenza romana». A tale proposito, vedi G. GANDOLFI, I testi romani sul trattamento della conversione attraverso il filtro della Pandettistica, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, IV, Perugia 1981, 653 ss. 8 B. WINDSCHEID, Lehrbuch des Pandektenrechts, Frankfurt 1862, 423 (tr. it., Diritto delle Pandette, a cura di C.C. FADDA e P.E. BENSA, I, Torino 1930, 264). Il tema dell’invalidità degli atti negoziali era già stato affrontato, con particolare riferimento alla eterogeneità delle espressioni utilizzate dai giuristi romani per indicare il fenomeno dell’improduttività degli atti giuridici, in un precedente lavoro dal titolo: Die Lehre des Code Napoléon von der Ungültigkeit der Rechtsgeschäfte, Düsseldorf 1847, 290. Per un’impostazione in chiave pandettistica del tema della patologia degli atti negoziali, cfr. anche O. KARLOWA, Das Rechtsgeschäft und seine Wirkung, Berlin 1877, (rist. anast. 1968), 116 ss.; O. WENDT, Lehrbuch der Pandekten, Jena 1888, 164 ss.; F. REGELSBERGER, Pandekten, I, Liepzig 1893, 541 ss. Per originalità di indagine, finalizzata a contrastare la rigida sistematica delle trattazioni pandettistiche, si segnala, nello stesso torno di tempo, il lavoro di S. SCHLOSSMANN, Zur Lehre vom zwange. Eine civilistiche Abhandlung, Leipzig 1874, 7 ss., per il quale i concetti di Nichtigkeit e di Anfechtbarkeit indicherebbero, rispettivamente, fattispecie giuridicamente irrilevanti e atti negoziali improduttivi o solo parzialmente produttivi di effetti giuridici. 9 B. WINDSCHEID, Diritto delle Pandette, cit., 265 s., sulla scia degli autorevoli precedenti di G.F. PUCHTA, Pandekten, Leipzig 1838, 105 ss. e di F.C. VON SAVIGNY, System des heutigen Römischen Rechts, IV, Berlin 1841, 536 ss.
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pitolo dedicato al fenomeno della invalidità: «Il primo nostro compito è di stabilire alcune categorie in astratto, fissando anche una terminologia» 10: proposito che l’autore si prefiggeva di realizzare, individuando una generale categoria di invalidità, comprendente, in prima linea, il negozio nullo, concepito come quello in cui il difetto che lo vizia «arriva al massimo grado, ossia è tale che del negozio giuridico relativamente agli effetti che esso sarebbe destinato normalmente a produrre, noi non abbiamo altro che l’apparenza, senza la sostanza»: nullità, dunque, come equivalente di incapacità di produrre effetti, senza escludere, con questo, l’esistenza di una fattispecie concreta operante nella realtà. Non a caso, infatti, lo studioso escludeva recisamente l’equiparazione del negozio nullo al negozio inesistente, poiché – egli sosteneva – essendo anche i negozi nulli dei fatti, «l’apparenza molte volte non solo esiste, ma può produrre gravissimi effetti giuridici, sebbene indirettamente» 11. Anche il Betti partiva da un concetto latissimo di inefficacia, intesa come inidoneità del negozio a spiegare almeno «in guisa durevole» tutti gli effetti suoi propri e identificata con il concetto espresso dai Romani con il termine inutilis, ma era poi indotto, con un ritorno alla tradizionale bipartizione ed un sostanziale abbandono di una visione che privilegiasse la nozione romana di utilitas, a distinguere tra invalidità e inefficacia in senso stretto, a seconda che, nella concreta fattispecie negoziale, mancasse – o fosse comunque viziato – taluno dei presupposti o degli elementi essenziali della categoria cui esso apparteneva oppure intervenissero circostanze estrinseche, tali da impedire la produzione degli effetti tipici 12. L’invalidità così intesa veniva, a sua volta, a distinguersi nelle categorie della nullità e dell’annullabilità: vero è che il Betti avvertiva che questa suddivisione era connaturata alla dogmatica moderna e, in quanto tale, non immediatamente utilizzabile nel diritto romano, il cui ordinamento giuridico non conosceva azioni di annullamento e non concepiva che un negozio giuridico, di per sé valido, potesse essere posto nel nulla e tradursi in atto improduttivo di effetti: ma la dicotomia riemergeva sotto altro profilo, quando l’Autore ammetteva che si dovesse tuttavia riconoscere che un problema pratico, analogo a quello risolto nei sistemi giuridici moderni attraverso l’istituto dell’annullamento, si presentava anche per il diritto romano, segnatamente nella contrapposizione fra ius civile e ius honorarium, il cui sistema attribuiva al pretore i 10 V. SCIALOJA, Negozi giuridici. Corso di diritto romano, Roma 1893, 233 (che cito nella terza ristampa, con prefazione di S. Riccobono, pubblicata a Roma). 11 V. SCIALOJA, Negozi giuridici, cit., 234. 12 E. BETTI, Istituzioni di diritto romano, I, Padova 1942, 175 ss.
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mezzi e gli strumenti idonei a paralizzare l’efficacia di un negozio che sarebbe stato valido secondo i rigorosi principi civilistici 13. 3. Tale tendenza, del resto, è riflessa nelle opere manualistiche, sia italiane che straniere, nelle quali, pur talvolta sottolineando la pluralità di espressioni con cui la giurisprudenza romana ha qualificato i casi di improduttività giuridica degli atti negoziali invalidi, non emergono indagini specificamente finalizzate a delineare ovvero a distinguere il possibile differente significato che tali locuzioni, in genere accomunate fra loro in modo indifferenziato, possono avere singolarmente assunto nel concreto e sfaccettato delinearsi del fenomeno giuridico dell’invalidità negoziale nell’esperienza giuridica romana. Al contrario, va detto che anche la dottrina più autorevole considera pacifico, tanto da non doversi ampiamente soffermare sul tema, che il fenomeno dell’invalidità negoziale degli atti giuridici nell’esperienza del diritto romano e quello, specularmente connesso, della loro possibile sanatoria, debba ricollegarsi, risolvendosi, più o meno consapevolmente, nella duplice prospettiva riflessa nella contrapposizione fra sistema civilistico e pretorio, alle moderne categorie dogmatiche della nullità e dell’annullabilità 14, così come delineate dalla elaborazione della Pandettistica e recepite dal sistema del diritto positivo: con l’inevitabile conseguenza pratica che, per ius civile, un atto giuridico poteva presentarsi perfettamente valido e produttivo degli effetti ad esso ricollegati dall’ordinamento oppure totalmente ed irrimediabilmente privo di effetti giuridici, mentre un eventuale recupero della fattispecie poteva esclusivamente attuarsi, in ipotesi, mediante i rimedi pretori approntati a tal fine dall’ordinamento onorario 15. 4. Lo sfaccettato e multiforme articolarsi della realtà del sistema giuridico romano in tema di patologia degli atti negoziali è riflesso nella varietà del dato terminologico, ricavabile dall’esame delle fonti che, anche ad una prima e sommaria valutazione esteriore, evidenziano l’assenza di un impianto sistematico e la difficoltà di attribuire alle diverse espressioni un significato unitario ed univoco 16. 13
E. BETTI, Istituzioni, cit., 179. Segnalo, al riguardo, per l’acutezza dell’indagine in chiave comparatistica, con importanti pagine dedicate alla riflessione romanistica, A. GUARNERI, L’azione di nullità (riflessioni sistematiche e comparatistiche), in Scritti scelti, Napoli 2017, 105 ss. 15 V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano, Napoli 198314, 97 s. Così, anche B. BIONDI, Istituzioni di diritto romano, Milano 1972 (ristampa inalterata della IV edizione), 218 ss. 16 Si leggano, con specifico riferimento alla mancanza di un disegno sistematico nelle fonti, 14
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Una simile considerazione muove dalla constatazione che la mancata produzione di effetti giuridici di un atto negoziale è indicata con una gamma amplissima ed eterogenea di termini, non organizzati in una precisa e coerente struttura classificatoria 17, fra i quali spiccano corrumpere, effectum non habere, frustra facere, imperfectum esse, inane esse, inefficax esse, infectum esse, infirmare(i), inutile esse, irritum esse, locum non habere, nihil agere (facere), non consistere (subsistere), non contrahi, non esse, non intellegi, non iure fieri, non posse, non recte fieri, non valere, non videri factum, nullas vires habere, nullius momenti esse, nullum effectum habere, nullum esse, pro non facto haberi ac si factum non esse, pro nihilo esse, pro nihilo haberi, ratum non esse, ratum non haberi, vitiosum esse (vitiari) 18.
5. In un precedente lavoro 19, avevo sostenuto la necessità di approfondire l’indagine in una duplice prospettiva che, prendendo avvio da una ricerca di carattere terminologico, superasse un rigido schematismo dogmatico, per esaminare il significato delle varie espressioni che indicano, in generale, l’improduttività degli effetti giuridici di un atto negoziale e per verificare, in secondo luogo, l’eventuale esistenza, nel concreto atteggiarsi del pensiero e della riflessione della giurisprudenza romana, di un principio di conservazione degli effetti di un negozio, pur in presenza di situazioni che ne inficino, per qualche ragione, la validità. Muovendo dai due passi giurisprudenziali riportati nel Digesto che, pressoché unanimemente, sono stati considerati, specialmente il primo, i capisaldi di una riflessione generale sulla validità e sull’invalidità degli atti negoziali nell’esperienza giuridica del diritto romano e tali da rappresentare la pacifica attestazione di un principio di irrecuperabilità dei negozi, ritenuti per qualche ragione, improduttivi di effetti giuridici per l’ordinamento, D. 50.17.29 di Paolo (8 ad Sab.: Quod initio vitiosum est, non potest tractu temporis convalescere) e 50.17.210 di Licinio Rufino (2 reg.: Quae ab initio inutilis fuit institutio, ex postfacto convalescere non potest), ho ipotizzato una diversa ricostruziole pagine del B. WINDSCHEID, Die Lehre des Code Napoleon von der Ungültigkeit, cit., 290 e di O. GRADENWITZ, Die Ungültigkeit obligatorischer Rechtsgescäfte, Berlin 1887, 6 ss. 17 Sottolinea questo profilo V. SCIALOJA, Negozi giuridici, cit., 233. 18 Il catalogo delle numerose fonti si trova in F. PERGAMI, Quod initio vitiosum est non potest tractu temporis convalescere, cit., 29 ss. Sull’ampia gamma di espressioni utilizzate dai giureconsulti romani, si leggano le riflessioni di M. BRUTTI, Invalidità, in ED 22 (1972), 565 ss. e di M. TALAMANCA, Inesistenza, nullità ed inefficacia dei negozi giuridici nell’esperienza giuridica romana, in BIDR 101-102 (1998-1999), 15 ss. 19 F. PERGAMI, Quod initio vitiosum est non potest tractu temporis convalescere, cit., 37 ss.
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ne del fenomeno della patologia negoziale nel diritto romano: in particolare, ho cercato di superare la consolidata opinione in base alla quale l’espressione vitiosus di D. 50.17.29, al pari di inutilis, impiegata in D. 50.17.210, riferita ad un atto giuridico, coinciderebbe con il moderno concetto di nullità, intesa quale totale improduttività di effetti del regolamento negoziale. Ho sostenuto tale ipotesi, rilevando, anzitutto, che nella Palingenesia del Lenel, il passo contenente l’affermazione dell’insanabilità della iniziale invalidità del negozio, del quale, peraltro, non è indicata la natura, è collocato successivamente ad altri tre frammenti, uno dei quali proveniente dai Frammenti Vaticani (Frg. Vat. 1) 20, l’altro riportato in D. 18.1.27 21 ed un terzo estratto da D. 26.8.3 22. I primi due passi (Frg. Vat. 1 e D. 18.1.27) concernono, entrambi, gli effetti della compravendita conclusa, rispettivamente, da una donna e da un pupillo senza l’auctoritas tutoris o in forza di auctoritas interposta da un falsus tutor; il terzo frammento (D. 26.8.3), invece, afferma la validità di un negozio per il quale l’auctoritas tutoris sia stata espressa in maniera informale, con la semplice dichiarazione di approvare id quod agitur. Esaminata la connessione fra i frammenti, ho evidenziato come, più che soffermarsi sulle ragioni che possono avere indotto Proculo e Celso, il cui pensiero era condiviso da Paolo, ad ammettere, nel caso di specie e sia pure in diversa prospettiva, la validità del possesso in capo al compratore (possessio pro emptore) e Giuliano addirittura a prospettare l’usucapibilità del bene 23, importa piuttosto rilevare che la mancanza di auctoritas tutoris oppure il suo rilascio a ministero di un soggetto non legittimato a farlo – vuoi nel caso di acquisto di un bene di una donna, riferito nel passo di apertura della Collezione Vaticana, vuoi per l’ipotesi del bene di un pupillo, oggetto del corrispondente testo raccolto nel Digesto – non inficiava immediatamente, almeno da un certo momento dello sviluppo del pensiero della giurisprudenza, la 20 Frg. Vat. 1 (Paul. 8 ad Sab. ?): sine tutoris auctoritate sciens res mancipi emit vel falso tutore autore quem scit non esse, non videtur bona fide emisse; itaque et veteres putant et Sabinus et Cassio scribunt. Labeo quidam putabat nec pro emptore eum possedere, sed pro possessore, Proculus et Celso pro emptore, quod est verius: nam et fructus suos facit, quia scilicet voluntate dominae percipit et mulier sine tutoris auctoritate possessionem alienare potest. Iulianus propter Rutilianam constitutionem eum, qui pretium muliebri dedisset, etiam usucapire et si ante usucapionem offerta mulier pecuniam, desinere eum usucapire. 21 D. 18.1.27 (Paul. 8 ad Sab.): Qui a quolibet rem emit, quam putat ipsius esse, bona fide emit: at qui sine tutoris auctoritate a pupillo emit, vel falso tutore auctore, quem scit tutorem non esse non videtur bona fide emere, ut et Sabinus scripsit. 22 D. 26.8.3 (Paul. 8 ad Sab.): Etiamsi non interrogatus tutor auctor fiat, valet auctoritas eius, cum se probare dicit quod agitur: hoc est enim auctorem fieri. 23 Sulle posizioni possessorie indicate nel testo dei Frammenti Vaticani, vedi, B. ALBANESE, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano, Palermo 1985, 91 ss.
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compravendita, quantomeno sotto quel particolare profilo che, per il diritto romano, ne costituiva l’effetto tipico, cioè la trasmissione, da parte del venditore, della pacifica disponibilità della cosa (possessionem tradere) e la garanzia per l’evizione (ob evictionem se obligare) et purgari dolo malo 24, quale conseguenza del pagamento del prezzo da parte dell’acquirente (nummos accipientis facere debet) 25. Nel pensiero giuridico romano, dunque, quantomeno all’epoca di Paolo, in cui, come detto, va riferito l’insieme dei passi considerati e di cui fa parte anche il frammento raccolto in D. 50.17.29, da cui ho preso le mosse, la mancanza di una valida interposizione dell’auctoritas da parte del tutore non impediva, tanto nel caso di alienazione effettuata da una donna, quanto nell’ipotesi di vendita da parte del pupillus, che la compravendita producesse ugualmente il suo effetto tipico, rappresentato dal trasferimento del possesso della res, in forza del quale essa poteva dirsi validamente compiuta e realizzata. Ho così ipotizzato che Paolo, con l’espressione “vitiosus” riferita all’atto traslativo della res del pupillo o della donna, in quanto avvenuta sine tutoris auctoritate vel falso tutore auctore intendesse sottolineare come neppure il decorso del tempo, elemento in sé idoneo, in astratto, a far acquistare la proprietà del bene, comportasse, nella fattispecie considerata, l’effetto di far usucapire la res – non potest tractu temporis convalescere – non per il difetto del titolo, ché la compravendita, nella prospettiva del ius civile, si era perfezionata, bensì per la mancanza della buona fede in capo all’acquirente. In questo quadro ricostruttivo, dunque, l’espressione vitiosus appare riferita all’atto traslativo che, lungi dall’essere totalmente improduttivo di effetti, si era validamente compiuto, con l’unico limite, quantomeno nella riflessione giurisprudenziale di Paolo, dell’inusucapibilità del bene, anche dopo il decorso il tempo necessario per il suo verificarsi, proprio a motivo dell’assenza di buona fede in capo all’acquirente della res 26. Analogamente, dall’analisi del passo di Licinio Rufino D. 50.17.210 (Quae 24
Parla di «esecuzione della prestazione qualificante di possessionem tradere e di ob evictionem se obligari», R. FERCIA, Il contratto annullabile e la sua “ombra”: invalidità, processo e autonomia privata tra storia e sistema, in “Actio in rem” e “Actio in personam”. In ricordo di M. Talamanca (cur. L. Garofalo), Padova 2011, 568. 25 S. CRISTALDI, Il contenuto dell’obbligazione del venditore nel pensiero dei giuristi dell’età imperiale, Milano 2007, 13, per il quale «occorre tuttavia ricordare che l’assenza di un obbligo per il venditore romano di trasferire la “proprietà” della cosa venduta appare tuttavia, di per sé, in contrasto con una serie di circostanze, le quali sembrerebbero invece orientare l’interprete proprio nella direzione opposta a quella tracciata dalla dottrina». 26 Sulla necessità del requisito della bona fides per la possessio ad usucapionem, B. ALBANESE, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano, cit., 97 ss. (in particolare, 99 nt. 359, ove – a tale fine – sono espressamente citati Frg. Vat. 1 e D. 18.1.27).
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ab initio inutilis fuit institutio, ex postfacto convalescere non potest) è possibile ipotizzare che la massima inserita nelle Regulae iuris del giurista non fosse, in origine, l’enunciazione di un principio assoluto 27, bensì riguardasse esclusivamente un’ipotesi particolare relativa alla irrecuperabilità ex postfacto di una istituzione di erede, inutilis ab initio, che aveva attratto l’attenzione del giurista 28: per tale motivo, è pertanto difficile immaginare, in mancanza di sicuri riscontri testuali, che tale frammento costituisse, insieme a D. 50.17.29, il caposaldo di una riflessione sulla validità e sull’invalidità, in generale, degli atti giuridici romani 29.
6. L’esame di un importante testo di epoca tardoantica, che si occupa della disciplina della patologia degli atti negoziali, offre utili elementi a conferma della ipotizzata ricostruzione di una concezione della nullità che, nel diritto romano, non fosse incompatibile con l’esistenza, sul piano giuridico, di un atto negoziale e con la produzione degli effetti che l’ordinamento ad esso ricollegava. Si tratta della Novella Teodosiana 9 dell’anno 439 (Nov. Theod., Ne curialis praedium alterius conducat aut fideiussor conductoris existat), parzialmente riportata nel Codice di Giustiniano nel titolo De legibus et constitutionibus principum et edictis (1.14.5). 27 Nel senso della introduzione di un principio generale, come suggerito dalla natura dell’opera da cui il frammento è tratto, F. MILLER, The Greek east and roman law: the dossier of M. Cn. Licinius Rufinus, in JRS 89 (199), 103. 28 Le difficoltà ricostruttive sono acuite dalla circostanza che, né dell’autore del passo, Licinio Rufino, né dell’opera da cui il frammento è tratto, il Liber Regularum, né –infine– della possibile collocazione del testo considerato, si hanno notizie sicure per comprendere a quale contesto possa essere attribuita l’ipotesi riferita nel Digesto: al libro secondo delle Regulae appartengono altri due testi, D. 28.5.75 (Si ita quis heres institutus fuerit: “excepto fundo, excepto usu fructu heres esto” perinde erit iure civili atque si sine ea re heres institutus esset, idque auctoritate Galli Aquilii factum est) e D. 22.5.6 (Idonei non videntur esse testes, quibus imperari potest, ut testes fiant), il cui contenuto, peraltro, non consente di intravedere fra gli stessi frammenti un apparente nesso logico, con la conseguenza che non è possibile stabilire a quale specifica situazione si riferisse, in origine, l’affermata insanabilità della istituzione di erede. Sull’opera di Licinio Rufino, si leggano le approfondite osservazioni di F. NASTI, M. Cn. Licinnius Rufinus e i suoi “Regularum libri”, in INDEX 33 (2005), 263 ss. 29 Ho trovato conforto nelle parole di Giuffrè, nella recensione critica al mio volume “Quod initio vitiosum est non potest tractu temporis convalescere”. Studi sull’invalidità e sulla sanatoria degli atti negoziali nel sistema privatistico romano, Torino 2012, in IVRA, 62 (2014), 401 ss. e, in particolare, 409: «Certamente gli squarci dei due giuristi, nel contesto loro originario, risolvevano soltanto due (diversi) casi pratici (che tra l’altro non conosciamo nei loro particolari). E usavano terminologie allusive, se si vuole espressive, ma mai consolidatesi nell’uso tecnico. Anche questo è convincente».
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Il testo, che la dottrina ha specialmente studiato in relazione ai criteri di interpretazione del diritto nell’epoca tardoimperiale 30, si apre con la netta condanna – poi specialmente reiterata, come vedremo, nel testo giustinianeo – contro gli espedienti utilizzati dai cittadini per aggirare il contenuto precettivo della norma giuridica, mediante il fraudolento utilizzo dei verba dei testi legislativi 31: Nov. Theod. 9 pr.: Non dubium est in legem committere eum, qui verba legis amplexus contra legis nititur voluntatem: nec poenas insertas legibus evitabit, qui se contra iuris sententiam scaeva praerogativa verborum fraudulenter excusat.
L’occasione dell’intervento normativo, premessa la censura sull’interpretazione meramente letterale delle norme, ove utilizzata per raggiungere a qualunque costo il risultato che l’ordinamento si prefigge di evitare 32, muove dalla volontà di ribadire il divieto, introdotto da una costituzione di Graziano, Valentiniano e Teodosio dell’anno 382, C.Th. 12.1.89, con cui la cancelleria imperiale aveva vietato l’amministrazione, da parte dei curiali, di beni altrui, pena la loro confisca e la deportazione 33: C.Th. 12.1.89: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Floro p(raefecto) p(raetori)o. Si quis procurationem facultatum suarum curiali crediderit 30 P. GARBARINO, Aspetti e problemi dell’interpretazione del diritto dopo l’emanazione del Codice Teodosiano (Osservazioni su “Nov. Theod. 9” e “Nov. Marc. 4”), in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, Napoli 1997, 259 ss. 31 Per il significato di contrarietà alle leggi (il contra voluntatem legis della novella), è istruttivo un noto passo di Paolo, D. 1.3.29, tratto dal l. sing. ad legem Cinciam: Contra legem facit, qui id facit quod lex prohibet, in fraudem vero, qui salvis verbis legis sententiam eius circumventet. In argomento, oltre ai classici lavori di E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano 1949, 153 ss. e di G.G. ARCHI, La donazione, Milano 1960, 13 ss., il lavoro di L. FASCIONE, “Fraus legi”. Indagini sulla concezione della frode alla legge nella lotta politica e nella esperienza giuridica romana, Milano 1983, 192 ss. 32 Sull’interpretatio ex verbis e sui collegamenti fra la novella di Teodosio e la riflessione ulpianea [D. 1.3.30 (Ulp. 4 ad ed.)], ancora L. FASCIONE, Fraus legi, cit., 199 s., ove bibliografia. 33 Il testo è riportato anche nel titolo De decurionibus et filiis eorum et qui decuriones habentur quibus modis a fortuna curiae liberentur, 10.32, del Codice Giustinianeo, c. 34: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Floro pp. Si quis procurationem facultatum suarum curiali crediderit esse mandandam, totius dignitatis exceptione depulsa gravissima poena plectetur. Ille vero, qui immemor libertatis et generis infamissimam suscipiens vilitatem existimationem suam servili obsenducatione damnaverit, tradatur exilio. Dat. X k. Nov. Constantinopoli Antonio et Syagrio conss. (a. 382). Rispetto alla versione teodosiana, la confisca è sostituita con una gravissima poena per il proprietario dei beni e la deportazione con l’esilio (tradatur exilio). In argomento, si veda anche C. 4.65.30: Curialis neque procurator neque conductor alienarum rerum nec fideiussor aut mandator conductoris existat. Alioquin nullam obligationem neque locatori neque conductori ex huiusmodi contractu competere sancimus (Theod. et Valent. a. 439).
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esse mandandam, totius dignitatis exceptione depulsa patrimonium eius quod crediderat curiali proscribtio fiscalis invadat. Ille vero, qui immemor libertatis et generis infamissimam suscipiens vilitatem existimationem suam servili obsenducatione damnaverit, deportationis incommodo subiugetur. Dat. X kal. Nov. Constant(ino)p(oli) Antonio et Syagrio conss.
La Novella Teodosiana intende censurare l’abitudine, evidentemente invalsa nella prassi, di aggirare tale divieto mediante la stipulazione fraudolenta (in fraudis) di contratti di locazione, precisando come già la norma di riferimento avesse specificamente previsto un espresso diniego in relazione alla locatio conductio: conductionem namque speciem esse procurationis certissimum est. In ogni caso, per evitare qualunque dubbio interpretativo, la disposizione ribadisce il generale divieto per i curiali di condurre in locazione fondi altrui (hac perpetuo lege valitura sancimus conducendi quoque fundos alienos licentiam curialibus amputari): Nov. Theod. 9.1: Curiales ne ad procurationem rerum alienarum accederent, cautum est providentissima sanctione, cuius in fraudem conducendi eos sibimet usurpare licentiam sublimitatis tuae suggestione conperimus. Quos licet pristinae legis laqueis inretiri cernamus – cunductionem namque speciem esse procurationis certissimum est – adtamen ne sub fraudis suae velamine legis lateant contemptores neve eis fucata suae calliditatis excusatio relinquatur, hac perpetuo lege valitura sancimus conducendi quoque fundis alienos licentiam curialibus amputari, locatas res fisci viribus vindicari.
Non solo: a rafforzare la valenza giuridica della disposizione in esame, la Novella esclude qualsiasi tipo di tutela in campo processuale. La stipulazione di simili atti giuridici, infatti, non attribuisce ai contraenti alcuna tutela (conductor itaque locatori vel contra locator conductori contra hanc legem nulla tenebitur actione: § 2), precisando che è pure vietata la prestazione di garanzie personali 34: Nov. Theod. 9.4: Sed quo omne fraudis semen per hanc legem curialibus radicitus amputetur, nec fidem suam pro conductoribus fundorum interponere concedimus curiales. Cur enin conductio prohibetur, si conductionis periculum vel sollicitudo per-
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Su tale profilo, in particolare, si sofferma l’Interpretatio: Nullus curialium in fiscali vel in privato agro conductor accedat nec pro aliquo conductore fideiussor existat. Quod si quis curialem in agro suo susceperit conductorem aut pro alio conductore fideiussorem acceperit curialem, actionem suam noverit in omnibus vacuari. Nam et ager ipse, qui a possessore curiali conductus est, fisci viribus vindicentur. Curialis vero pro supra scriptis condicionibus, etiamsi cautionem emiserit, non teneatur.
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mittitur? Secundum praedictam itaque regulam, quam ubique servari factum lege prohibente censuimus, certum est nec stipulationem eiusmodi tenere nec mandatum ullius esse momenti nec sacramentum admitti nec actionem quolibet pacto adversus eum fideiussorem conpetere locatori, Florenti p(arens) k(arissime) a(tque) a(mantissime). Inlustris itaque et magnifica auctoritas tua providentissime constituta edictis propositis ad omnes provincias perferri parecipiat.
7. In tale contesto, si colloca la disposizione di gran lunga più significativa sul piano giuridico, contenuta nel corpo della Novella (segnatamente nella seconda parte del secondo e nel terzo paragrafo) ed estrapolata, non a caso, dai compilatori giustinianei (C. 1.14.5 del 439) 35, relativa alle sanzioni che, nonostante l’insistito accento sul divieto, conseguono alla stipula di atti giuridici fraudolenti in violazione del precetto normativo: Nov. Theod. 9.2: Nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere prohibente. 3. Quod ad omnes etiam legum interpretationes tam veteres quam novellas trahi generaliter imperamus, ut legis latori quod fieri non vult tantum prohibuisse sufficiat, cetera quasi expressa ex legis liceat voluntate colligere: hoc est, ut ea quae lege fieri prohibentur, si fuerint facta, non solum inutilia, sed pro infectis etiam habeantur, licet legis lator fieri prohibuerit tantum nec specialiter dixerit inutile debere esse quod factum est. Sed et si quid fuerit subsecutum ex eo vel ob id quod interdicente factum est lege, illud quoque cassum atque inutile esse praecipimus.
Prendendo spunto dalla disciplina del caso concreto, la Novella elabora un principio generale, particolarmente significativo in considerazione dell’allora 35 C. 1.14.5: Impp. Theodosius et Valentinianus AA. Florentio pp. Non dubium est in legem committere eum, qui verba legis amplexus contra legis nititur voluntatem: nec poenas insertas legibus evitabit, qui se contra iuris sententiam scaeva praerogativa verborum fraudulenter excusat. Nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere prohibente. Quod ad omnes etiam legum interpretationes tam veteres quam novellas trahi generaliter imperamus, ut legis latori, quod fieri non vult, tantum prohibuisse sufficiat, cetera quasi expressa ex legis liceat voluntate colligere: hoc est ut ea quae lege fieri prohibentur, si fuerint facta, non solum inutilia, sed pro infectis etiam habeantur, licet legis lator fieri prohibuerit tantum nec specialiter dixerit inutile esse debere quod factum est. Sed et si quid fuerit subsecutum ex eo vel ob id, quod interdicente factum est lege, illud quoque cassum atque inutile esse praecipimus. Secundum praedictam itaque regulam, quam abique servari factum lege prohibente censuimus, certum est nec stipulationem eiusmodi tenere nec mandatum ullius esse momenti nec sacramentum admitti. D. vi id. April. Constantinopoli Theodosio A. xvii et Festo conss. Per L. FASCIONE, Fraus legi, cit., 198 nt. 31: «La costituzione originariamente riguardava i praedia dei curiales e il divieto di ammettere i curiali all’amministrazione dei beni altrui. Il testo, evidentemente, è stato sezionato dai giustinianei per trarne il principio generale in ordine alla fraus legi».
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recente entrata in vigore del Codice Teodosiano, che si prefigge lo scopo di evitare interpretazioni fraudolente tanto delle veteres quanto delle novellae leges: la disposizione proibitiva doveva essere applicata nel senso più ampio possibile, con conseguenze automatiche, anche per il caso in cui non fosse espressamente prevista la sanzione 36, sia sul piano sostanziale, sia sul piano processuale 37. Nel caso in esame, la sanzione consisteva nella nullità del contratto posto in essere dalle parti, in violazione del divieto normativo: in sostanza, si considerava improduttivo di effetti il regolamento di interessi effettivamente concluso fra i contraenti. Per quanto specialmente interessa sottolineare, la Novella dichiarava nullo (nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum), ciò che era esistente, perché effettivamente stipulato fra le parti (qui contrahunt lege contrahere prohibente): una disciplina che si poneva in contrasto con la rigida alternativa tra validità e inesistenza che, nella tradizionale impostazione della patologia degli atti negoziali, aveva informato tutta la riflessione della giurisprudenza romana in materia. Un risultato, a ben vedere, tutt’altro che innovativo per l’età tardoantica, se letto nel quadro delle proposte riflessioni sulla possibilità, rivelata in particolare dal passo di Paolo sopra riportato (D. 50.17.29), che l’atto vulnerato e la relativa nullità, lungi dal coincidere con l’atto inesistente e, dunque, in radice improduttivo di effetti, possa riguardare atti esistenti e, ove non colpiti dalla sanzione, produttivi degli effetti giuridici ad essi ricollegati dall’ordinamento. Da tali rilievi, dunque, sembra emerge la possibilità di rafforzare l’ipotesi di quanto osservato, relativamente al diritto classico, a proposito della riflessione in materia e, in particolare, di escludere, come pure autorevolmente sostenuto, che il testo della Novella 9 in esame rappresenti una «svolta concettuale e normativa» 38: al contrario, la disposizione teodosiana sembra consenti36 Scrive al riguardo L. FASCIONE, Fraus legi, cit., 201: «Nel § 1, essi hanno dettato i canoni di comportamento tanto dell’estensore quanto, e soprattutto, dell’interprete, in modo da chiarire che è sufficiente al legislatore avere espresso il desiderio di proibire un certo negozio che intende raggiungere determinati fini, perché questo debba ritenersi, se fatto, nullo, anche se ciò non è stato detto espressamente. In questo caso infatti è ammesso dedurre la nullità dell’atto, non esplicitamente comminata, dalla volontà del legislatore da cui si trae quella sanzione come se fosse stata detta espressamente». 37 Sull’equiparazione, che la Novella opererebbe, fra leges imperfectae, minus quam perfectae e perfectae, sono fondamentali le osservazioni di G. BAVIERA, Leges imperfectae, minus quam perfectae e perfectae, in Scritti Giuridici, I, Palermo 1909, 224 ss. In argomento, anche A. MASI, Il negozio utile o inutile in diritto romano, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», XCIII (1959-1962), 63 ss.; S. DI PAOLA, Contributi ad una teoria della invalidità e della inefficacia in diritto romano, Milano 1966, 94 ss. 38 L. RAGGI, La restitutio in integrum nella cognitio extra ordinem. Contributo allo studio dei
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re l’individuazione di un armonico sviluppo fra il regime classico e quello tardoantico, peraltro attestato anche in età giustinianea (C. 1.14.5), nel cui alveo è possibile intravedere come la rigida alternativa tra negozio giuridico valido ed efficace da un lato, e negozio inidoneo ab initio a produrre effetti giuridici, in quanto nullo, dall’altro, tradizionalmente posta a sostegno della teoria dell’invalidità nell’esperienza romana, suggerisca una differente lettura, più aderente all’insegnamento delle fonti. Secondo la disposizione teodosiana, infatti, la sanzione della nullità contro il regolamento di interessi concluso in violazione della norma di legge (nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere prohibente) colpiva un negozio giuridico che, sino a quel momento, era perfettamente idoneo a produrre gli effetti giuridici che l’ordinamento ricollegava alla fattispecie: anzi, era proprio a motivo della validità dell’atto e della sua utilità giuridica, seppure illecita, che la cancelleria imperiale si era determinata ad intervenire con tanta severità per caducarne definitivamente gli effetti.
rapporti tra diritto pretorio e diritto imperiali in età classica, Milano 1965, 276: «In questo modo si esce dai limiti della tradizionale alternativa tra inesistenza e validità…ed è significativo che tale svolta concettuale e normativa trovi le proprie condizioni di possibilità sulla scia della diffusione del principio di nullità contra legem: un principio, cioè, ch’è proprio e tipico…della normativa imperiale».
Il regime del patrimonio immobiliare imperiale nella legislazione del tardo diritto romano 195
8 IL REGIME DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE IMPERIALE NELLA LEGISLAZIONE DEL TARDO DIRITTO ROMANO
1. Nel panorama normativo tardoimperiale, un posto centrale occupa il tema della gestione del patrimonio immobiliare imperiale, fundi rei privatae, fundi patrimoniales e fundi rei publicae 1, ricompreso nella res privata principis 2, settore strategico dell’amministrazione centrale, la cui funzione, come è noto, consisteva nella gestione dei beni appartenenti allo Stato e nella riscossione e nell’impiego delle relative rendite 3, in un momento storico nel quale il problema finanziario della esazione dei tributi costituiva una delle maggiori preoccupazioni degli imperatori.
2. Particolarmente articolate e complesse sono le vicende relative alla di1 P. VOCI, Nuovi studi sulla legislazione romana del tardo impero, Padova 1989, 18 ss.; F. BURDEAU, L’administration des fonds patrimoniaux et emphytéotiques au Bas Empire Romain, in RIDA, 20, 1973, 285 ss.; R. DELMAIRE, Largesses sacrées et “res privata”. L’“aerarium” impérial et son administration du IVe au VIe siècle, Roma 1989, 641 ss. 2
A.H.M. JONES, Il Tardo Impero Romano (284-602 d.C.), 2, Milano 1974, 619 ss.; A. MASI, Ricerche sulla “res privata” del “princeps”, Milano 1971, 55 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, 5, Napoli 1975, 430 ss.; P. VOCI, Nuovi studi sulla legislazione romana del tardo impero, Padova 1989, 18 ss.; R. DELMAIRE, Largesses sacrées et “res privata”, cit. 25 ss. Seppure risalente, resta fondamentale R. HIS, Die Domänen der Römischen Kaiserzeit, Leipzig, 1896, 33 ss. Aggiornata messa a punto della struttura finanziaria del tardo Impero in L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 223 ss. (in part. 228 nt. 166). 3
E. KORNEMANN, Domänen, in PWRE, supp. IV, 1924 (rist. 1962), 261 ss.; R. ANIncoerenza della legislazione dell’imperatore Valentiniano I, in NRS, 15, 1931, 486; A.H.M. JONES, Il Tardo Impero Romano, cit., 623 ss.; A. SCHULTEN, Zwei Erlasse des Kaisers Valens über die «Provinz Asia», in Jahreshefte des österr. Archäol. Institutes in Wien, Band IX, 1906, 46.
DREOTTI,
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sciplina dei fundi rei publicae 4, la ricostruzione del cui regime incontra numerosi ostacoli a causa della scarsità e della frammentarietà delle fonti a nostra disposizione, che mostrano un differente trattamento del patrimonio immobiliare da parte dei sovrani succedutisi alla porpora imperiale. In coerenza con le fonti letterarie coeve, segnatamente Ammiano Marcellino 5 e Libanio 6, vi è traccia di un’originaria confisca dei fundi rei publicae da parte della cancelleria di Costantino 7, che avrebbe incorporato nella res privata le terre cittadine appartenenti ai santuari degli Dei pagani 8, i fundi templorum, le cui rendite erano destinate a sostenere le spese di culto in onore di quelle divinità 9. Di ciò, sotto il profilo normativo, si ha un’indiretta conferma dalla costituzione di Costanzo II, che, dando conto, nell’anno 358, di precedenti disposizioni del predecessore, ne avrebbe ampliato la portata, confiscando tutti i possedimenti delle città: 4
Sui fondi appartenenti alle città, vedi R. GANGHOFFER, L’évolution des institutions municipales en occident et en orient au Bas-Empire, Paris 1962, 136; R. DELMAIRE, Largesses sacrées, cit., 645 ss.; P. VOCI, Nuovi studi, cit., 95 ss. 5 Ammiano (25.4.15) narra, infatti, che Giuliano avrebbe restituito alle città le terre e i tributi: ... vectigalia civitatibus restituta cum fundis absque his, quos velut iure vendidere praeteritae potestates [...]. Al riguardo, cfr. M. SARGENTI, Recensione a P. VOCI, Nuovi studi, cit., 490. 6 Lib., Or. 13.45; 16.19; 30.6; 30.37. 7 C. BERNARDI, The Economic Problems of the Roman Empire at the Time of its Decline, in SDHI, 31, 1965, 140; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., 430; P. VOCI, Nuovi studi, cit., 95; A.H.M. JONES, Il Tardo Impero Romano, cit., 981; A. CHASTAGNOL, La législation sur les biens des villes au IVe siècle à la lumière d’une inscription d’Ephèse, in Atti Accademia Romanistica Costantiniana, IV, Napoli 1986, 86 ss.; A. SCHULTEN, Zwei Erlasse, cit., 60. In senso contrario, C. LEPELLEY, Les cités de l’Afrique romaine au Bas Empire, 1, La permanence d’une civilisation municipale, Paris 1979, 69 nt. 41. 8 A rendere ancora più problematica l’ipotesi di una originaria confisca da parte della cancelleria costantiniana, milita la c. 3 C.Th. 4.12 dello stesso imperatore, in cui, almeno in relazione a una fattispecie particolare, si riaffermano i diritti delle civitates: Imp. Constantinvs A. ad populum. Cum ius vetus ingenuas fiscalium servorum contubernio coniunctas ad decoctionem natalium cogat nulla vel ignorantiae venia tributa vel aetati, placet coniunctionum quidem talium vincula vitari, sin vero mulier ingenua vel ignara vel etiam volens cum servo fiscali convenerit, nullum eam ingenui status damnum sustinere, subolem vero, quae patre servo fiscali, matre nascetur ingenua, mediam tenere fortunam, ut servorum liberi et liberarum spurii Latini sint, qui, licet servitutis necessitate solvantur, patroni tamen privilegio tenebuntur. Quod ius et in fiscalibus servis et in patrimoniorum fundorum originariis et ad emphyteuticaria praedia et qui ad privatarum rerum nostrarum corpora pertinent servari volumus. Nihil enim rebus publicis ex antiquo iure detrahimus nec ad consortium huius legis copulamus urbium quarumcumque servitia; volumus ut civitates integram teneant nec [imminutam] interdicti veteris potestatem. Si vel error improvidus vel simplex ignorantia vel aetatis infirmae lapsus in has contubernii plagas depulerit, haec nostris sanctionibus sit excepta. Dat. VI Kal. Sept. Serdicae Constantino A. VII et Constantio Conss. 9 R. DELMAIRE, Largesses sacrées, cit., 41 ss.
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C.Th. 4.13.5: Imp. Constantius A. ad Martinianum vic(arium) Afric(ae). Divalibus iussis addimus f[irmi]tatem et vectigalium quartam provincialibus et urbibus Af[rica]nis hac ratione concedimus, ut ex his moenia publica res[tau]rentur vel sarcientibus tecta substantia ministretur. [...] Epistula ad v(irum) c(larissimum) vic(arium) prid. id. Iul. Cilio Datiano et Cere[ale conss.].
Con tale provvedimento, che sembra presupporre l’appartenenza dei fondi cittadini al patrimonio imperiale, l’imperatore concedeva ai provinciali e alle città d’Africa un quarto dei vectigalia, cioè degli introiti derivanti dai dazi e dalle imposte indirette, per il restauro degli edifici pubblici 10. Ve detto subito che il testo che leggiamo nel Teodosiano, di difficile interpretazione 11 e piuttosto tormentato sotto il profilo palingenetico 12, non è quello della costituzione imperiale originaria, ma di una semplice epistula inviata al vicario d’Africa Martiniano con l’esplicita finalità di ordinare l’applicazione dei divalia iussa, che avevano impoverito le casse municipali 13.
3. In ogni caso, si trattò di disposizioni di breve durata: infatti, l’imperatore Giuliano, nel quadro di un più generale piano di riforma economica e amministrativa 14, ne dispose la revoca già nel 362, con la costituzione del 13 marzo 15: 10
A. CHASTAGNOL, La législation, cit., 85 ss.; R. DELMAIRE, Largesses sacrées, cit., 650 ss.; A.S. LEWIN, Il dossier di Publio Ampelio, in AAC, 13, 2001, 625 s., che afferma: «recenti studi hanno sostenuto che per un certo periodo nel corso del IV secolo (con ogni probabilità dall’epoca di Costantino fino al 358) le città vennero private delle proprie entrate consistenti nei vactigalia civici e nel ricavato degli affitti di terre cittadine; in base ad una disposizione imperiale tali entrate vennero incamerate dalla amministrazione centrale. Accettando questa interpretazione dovremmo ammettere che fu solo negli ultimi anni del regno di Costanzo II che le città poterono ottenere un quarto delle loro entrate a condizione di utilizzarlo per il restauro del proprio patrimonio edilizio». 11 Sul significato dell’espressione “divalibus iussis addimus firmitatem”, cfr. P.O. CUNEO, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1997, 367 s. 12 Sulla lacuna nella subscriptio, vedi TH. MOMMSEN, ad h.l. A ciò si aggiunga che non è possibile determinare se la data indicata sia quella di spedizione dell’epistula o quella della sua ricezione in Africa. 13 In verità, Libanio (Or. 31.16), descrive la città di Antiochia come se ancora possedesse, alla seconda metà del quarto secolo, grandi estensioni di terra civica: ma non si può escludere che la città, sede abituale dell’imperatore, godesse di un regime diverso e privilegiato rispetto alle altre. 14 R: ANDREOTTI, L’opera legislativa ed amministrativa dell’imperatore Giuliano, in NRS, 14, 1930, 351. 15 Al riguardo, si legga CTh. 12.1.50 = 13.1.4: Imp. Iulianus A. Secundo p(raefecto)
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C.Th. 10.3.1: Imp. Iul(i)anus A. Secundo P(raefecto) P(raetori)o. Post alia: Possessiones publicas civitatibus iubemus restitui ita, ut iustis aestimationibus locentur, quo cunctarum possit civitatium reparatio procurari. P(ro)p(osita) id. Mart. Constantinop(oli) Mamertino et Nevitta conss.
La disposizione prevedeva che le terre confiscate fossero restituite alle città, «possessiones publicas civitatibus restitui», unitamente alle tasse civiche 16, perché si provvedesse alla reparatio delle stesse 17. Si trattava, del resto, di un provvedimento non isolato, il cui contenuto, infatti, verrà ribadito, seppure in modo indiretto, nelle prime due costituzioni del titolo 11,70 del Codice Giustinianeo, De diversis praediis urbanis et rusticis templorum et civitatum et omni reditu civili 18: C. 11.70.1: Imp. Iul(i)anus A. Atarbino. Pro aedibus, quas nonnulli in solo rei publicae extruxerunt, placitam praestare pensionem cogantur
in cui si prevede che i superficiari, che avessero costruito in solo rei publicae, dovessero continuare a versare il relativo canone (pensio) alla città (pro aedibus), nonché la c. 2 h.t.: Imp. Iul(i)anus A. Secvndo PP. Pamphyliae etiam civitates et quaecumque aliae quidquid sibi adquirant, id firmiter habeant
con cui si garantiva, per il futuro, alle civitates la titolarità dei beni (quidquid) acquistati.
4. Particolarmente significativa, sotto il profilo che qui interessa specialmente esaminare, è la legislazione dei Valentiniani in tema di appartenenza dei p(raetori)o. Post Alia: Decuriones, qui ut Christiani declinant munia, revocentur. Et ab auri atque argenti praestatione, quod negotiatoribus indicitur, curiae immunes sint, nisi forte decurionem aliquid mercari constiterit, ita ut ordines civitatum ex huiusmodi reliquis sarcinarum, ut iam diximus, amoveantur. Et quoniam ad potentium domus confugisse quosdam relatum est curiales, ut tam foeda perfugia prohibeantur, multam statuimus, ut per singula capita singulos solidos dependat, qui ad potentis domum confugerit et tantundem qui receperit multae nomine inferat. Nam si servus inscio domino susceperit, capite punietur, et ingenuus, qui invito patrono hoc fecerit, deportabitur. P(ro)p(osita) iii id. Mar. Const(antino)p(oli) Mamertino et Nevitta conss. 16 Così, anche AMM. MARC., Rer. Gest. 25.4.15: Vectigalia civitatibus restituta cum fundis. 17 P. VOCI, Nuovi Studi, cit., 95 ss.; ANDREOTTI, L’opera legislativa, cit., 351; GANGHOFFER, L’évolution, cit., 136; nonché Lib., Or. 13.45. 18 P. VOCI, Nuovi Studi, cit., 96. Per O. SEECK, Regesten, cit., 210, CTh. 10.3.1 e CTh.11.7.2 erano parte, in origine, di un unico intervento normativo.
Il regime del patrimonio immobiliare imperiale nella legislazione del tardo diritto romano 199
fundi rei publicae alla res privata, caratterizzata da due provvedimenti, la c. 8 C.Th. 10.1 e la c. 3 C.Th. 5.13, il cui coordinamento – ipotizzate le plausibili soluzioni ai problemi di datazione e di attribuzione – consente di valutarne appieno il reale valore normativo. La prima costituzione è contenuta in C.Th. 10.1.8: Impp. Val(entini)anus et Valens AA. ad Caesarium com(item) rerum privatarum. Universa loca vel praedia, quae nunc in iure templorum sunt quaeque a diversis principibus vendita vel donata sunt retracta, ei patrimonio, quod privatum nostrum est, placuit adgregari. Dat. prid. non. Feb. Med(iolano) divo Ioviano et Varroniano conss.
La norma consente di delineare la disciplina dei fundi templorum che, dopo la confisca operata da Costantino e dai suoi figli, erano stati in parte venduti o donati (universa loca vel praedia…vendita vel donata) 19, per essere restituiti, con Giuliano, in favore dei templi (nunc in iure templorum), debbono rientrare a fare parte del patrimonium, quod privatum nostrum est, cioè della res privata 20. Il provvedimento – di grande importanza, essendo plausibile che anche la confisca di tutti gli altri beni urbani «sia avvenuta contemporaneamente a quella dei patrimoni dei templi» 21 – ha posto all’interprete gravi e complessi problemi palingenetici. Sebbene la inscriptio rechi, infatti, i nomi dei due imperatori (Impp. Valentinianvs et Valens), la subscriptio indica una data, il 4 febbraio 364 (Prid. Non. Feb.), che ricondurrebbe il provvedimento a Gioviano: ipotesi, quest’ultima, incompatibile con l’investitura dei due Augusti alla porpora imperiale, avvenuta solo successivamente, il 26 febbraio per Valentiniano 22 e il 28 marzo per Valente 23. La dottrina, a cui non è sfuggita tale incongruenza, è sostanzialmente divi24 sa e solo alcuni rilievi, sia di natura sostanziale che di carattere palingenetico, 19 Così, Ammiano (25.4.15): vectigalia civitatibus cum fundis absque his, quos velut iure vendidere praeteritae potestates. 20 A. MASI, Ricerche, cit., 31, nonché, più in generale, F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., 432 nt. 118. 21 R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 494. 22 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.1.5: Valentinianus nulla discordante sententia numinis adspiratione caelestis electus est. 23 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.3: quintum Kalendas Aprilis ... Valentem ... Augustum pronuntiavit. 24 Gotofredo propone di correggere, nella subscriptio, Prid. Non. Feb. con Prid. Non. Novemb., attribuendo la costituzione a Valentiniano (Codex Theodosianus, ad h.l.), mentre il Mom-
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contribuiscono ad orientare verso la soluzione, che ritengo più attendibile e che depone a favore di un’attribuzione della paternità del provvedimento all’imperatore Valentiniano. In primo luogo, non appare verosimile che i compilatori del Teodosiano abbiano annoverato fra quelle di Valentiniano e Valente costituzioni di cui conoscevano la differente attribuzione e risulta eccessivamente drastica l’affermazione del Seeck 25 in base alla quale nessun valore dovrebbe attribuirsi alle inscriptiones del Codice Teodosiano, poiché l’indicazione dei nomi degli imperatori sarebbe stata completa solo quando essi apparivano per la prima volta, mentre sarebbero stati sostituiti da un idem nei frammenti successivi. Questo è vero per le raccolte di costituzioni, ma non vi è motivo di credere che gli esemplari d’archivio delle leges, utilizzati dai compilatori per la stesura del codice, non recassero le indicazioni degli autori e dei destinatari in forma anche più completa di quella conservata nelle raccolte ufficiali. Si aggiunga, tra l’altro, che, con riferimento al caso in esame, nel libro 10, la c. 8 De iure fisci è la prima attribuita a Valentiniano e Valente, i cui nomi sono, dunque, indicati per esteso e non con un idem 26. Anche l’affermazione in base alla quale i compilatori avrebbero generalmente indicato i nomi degli imperatori tenendo conto del consolato dell’anno non risulta sempre fondata: se, infatti, è verosimile che il criterio possa valere – seppure entro certi limiti – per le costituzioni emanate dopo la morte di un imperatore 27, è assai meno probabile che esso operi msen (ad h.l.) si limita ad annotare l’esistenza di una subscriptio dubia, poiché «eo die imperatores non fuerunt Mediolani». O. SEECK, Regesten, cit., 214, mantenendo ferma la data del 4 febbraio, attribuisce, al contrario, la costituzione a Gioviano, ipotizzando di individuare il luogo di emanazione in Mnizus, località tra Ancyra e Dadastana: soluzione cui aderisce, seppure dubitativamente, A. PIGANIOL, L’Empire Chrétien (325-395)2, Paris 1972, 166 nt. 2, il quale segue, infatti, l’impostazione del Seeck, «mais en hésitant beaucoup». Anche la dottrina successiva non ha raggiunto posizioni univoche: ne sono esempi le osservazioni di R. SORACI, L’imperatore Gioviano, Catania 1968, 59 nt. 37; A.H.M. JONES, Il Tardo Impero Romano, cit., 981; A. MASI, Ricerche, cit., 28 ss., il quale, ritenendo corretta la inscriptio, riferisce la costituzione «alla parte orientale dell’impero» e di R. DELMAIRE, Problèmes de dates et de destinataires dans qualques lois du Bas Empire, in Latomus, 44, 1987, 832 che propone «de respecter le nom des empereurs et la date de l’année, ainsi que le lieu d’émission, mais de corriger le mois en écrivant Ivn. au lieu de Feb., soit le 4 Juin 364; en ce cas Med. ne designerait pas Mediolanum mais Mediana», per l’attribuzione a Valentiniano e Valente; di P. VOCI, Nuovi studi, cit., 29, 96, 158 e di G. BONAMENTE, Sulla confisca dei beni mobili dei templi in epoca costantiniana, in Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico [Macerata 1820 dicembre 1990], Macerata, 1992, 177, per una attribuzione a Gioviano. 25 O. SEECK, Regesten, cit., 111. 26 Infatti, la c. 7 C.Th. 10.1 è attribuita a Costanzo e Giuliano: Imp. Constantinus A. et Iulianus CC. 27 Ne sono prova convincente le costituzioni emanate, alla fine dell’anno 363, dopo la morte di Giuliano, che, pure dovendosi ragionevolmente ascrivere a Gioviano, continuano a recare,
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a ritroso, facendo attribuire all’imperatore non ancora elevato alla porpora le costituzioni emesse al principio dell’anno. A prescindere, poi, da questi rilievi di carattere generale, anche considerazioni di natura sostanziale fanno propendere per una attribuzione a Valentiniano, piuttosto che a Gioviano. Infatti, senza giungere a rappresentare quest’ultimo come una nullità 28 e senza ritenere che nessuna delle leggi a lui ascritte dai compilatori gli appartenga 29, deve nutrirsi qualche dubbio sulla circostanza che l’imperatore abbia voluto intervenire per abrogare i provvedimenti di Giuliano in tema di attribuzione delle terre ai templi, mediante la emanazione di norme, frutto di una matura e consapevole linea di politica legislativa, volte a correggere le tendenze anticristiane e filopagane del predecessore 30. L’imperatore, infatti, eletto fortunosamente in un periodo caratterizzato da una difficile situazione internazionale, pur ricalcando la legislazione di Giuliano in tema di burocrazia statale, preferì – per una scelta consapevole, finalizzata al rafforzamento del proprio potere personale – non prendere posizione né sul fronte della riorganizzazione amministrativa e fiscale, né sul fronte religioso 31. Sono, però, i profili di carattere palingenetico che rendono incompatibile un’attribuzione all’imperatore Giovano del testo in esame: escluse le, seppure autorevoli, difficili modifiche paleografiche proposte in dottrina (da Dat. Prid. Feb. a Dat. Prid. Novemb. 32; Med. in Mnizus 33; da Dat. Prid. Non. Feb. a Dat. nelle inscriptiones, il nome dell’imperatore defunto (C.Th. 1.22.3; 8.5.16; 14.4.3; 12.1.56; 10.19.2; 11.20.1; 8.1.8). 28 A.H.M. JONES, The Later Roman Empire (284-602). A Social Economic and Administrative Survey, 1, Oxford 1964, 138: «Jovian, a genial and popular young man of little over thirty, who was no more than the senior member of the corps of domestici et protectores, ... a nonentity»; SORACI, L’imperatore Gioviano, cit., 6: «Gioviano, un imperatore che ci appare come schiacciato, nella sua mediocrità, fra la figura storicamente suggestiva di Giuliano e la personalità vigorosa e decisa di Valentiniano»; SOLARI, La elezione di Gioviano, in Klio, 25, 1933, 331: «Era certo egli impari al peso del governo, per il quale si richiedevano ben altre spalle». Scrive, del resto, Ammiano Marcellino (25.5.4): Iovianus eligitur imperator, domesticorum ordinis primus, paternis meritis mediocriter conmendabilis. 29 A. SOLARI, La elezione di Gioviano, cit., 334. 30 M. SARGENTI, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano, in Atti III Convegno Internazionale Accademia Romanistica Costantiniana, Perugia 1979, 194 ss. (ora anche in Studi sul diritto del tardo impero, Padova 1986, 177 ss.); F. FASOLINO, L’imperatore Valentiniano I, L’impero e i problemi storiografici, Napoli 1976, 10; P. MELONI, in M.A. LEVI, L’impero romano dalla battaglia di Azio alla morte di Teodosio I, Torino 1963, 606. 31 Sul punto, F. PERGAMI, Rilievi sulla produzione normativa di Gioviano, cit., 276 ss. 32 GOTOFREDUS, Codex Theodosianus, ad h.l. 33 SEECK, Regesten, cit., 214.
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Prid. Non. Ivn.) 34, una simile soluzione contrasta pure con l’indicazione del luogo di emanazione, Milano, che non accolse mai l’imperatore durante il suo breve governo, né ospitò altri imperatori nel febbraio 364. Inoltre, la stessa subscriptio indica il consolato unendo al nome dell’imperatore la qualifica divus (Divo Ioviano et Varroniano), circostanza da cui sembra doversi dedurre che la c. 8 C.Th. 10.1 – come tutte le successive dello stesso anno – sia stata emanata quando Gioviano era già morto 35. La conferma della validità di un simile ordine di idee emerge, poi, dall’esame di un altro provvedimento in tema di appartenenza alla res privata principis dei fundi rei publicae, la c. 3 C.Th. 5.13: Impp. Val(entini)anvs et Val(ens) AA. ad Mamertinvm p(raefectvm) p(raetori)o. Uni[versa, quae] ex patrimonio nostro per arbitrium divae me[moriae Iul]iani in possessionem sunt translata templorum, [sollicitudi]ne sinceritatis tuae cum omni iure ad rem privat[am nostram] redire mandamus. Dat. X Kal. Ian. Med(iolano) divo Iovian[o et Varr(oniano) Conss.].
La costituzione, emanata a Milano il 23 dicembre 364, prevede, analogamente alla precedente, ma con una formulazione più netta e categorica, che tutti i beni (universa) alienati a favore dei templi «per arbitrium memoriae Iuliani» 36 fossero fatti rientrare nella titolarità e disponibilità della res privata. Ve detto subito che se una simile misura fosse stata adottata qualche mese prima, nel febbraio 364, da Gioviano, il suo successore in Occidente ne avrebbe, in qualche modo, dovuto fare menzione, mentre la C.Th. 5.13.3 appare, nella versione conservata nel Codice Teodosiano, come un’assoluta novità. La dottrina 37 ha cercato di spiegare in vario modo l’esistenza di queste due 34
R. DELMAIRE, Problèmes de dates, cit., 832. A. SOLARI, La elezione di Gioviano, cit., 334. 36 Cfr. C.Th. 10.3.1. 37 Si legga, per tutti, A. MASI, Ricerche, cit., 28 ss. (e la bibliografia citata), il quale ritiene che datazione e destinatario diversi sarebbero da attribuire alla suddivisione dell’impero e che, pertanto, la c. 8 C.Th. 10.1 – accogliendo le correzioni del Gotofredo in ordine alla datazione (Prid. Non. Novemb.) e al luogo di emanazione (Mediana) – sarebbe da riferire alla pars Orientis, cioè a Valente (ma, contra, TH. MOMMSEN, Prolegomena, CXXL, che ritiene il destinatario un comes rerum privatarum occidentale). A ben vedere, però, è poco probabile che la costituzione possa essere stata emanata in novembre da Valente, nel sobborgo di Naisso. È vero che nel giugno dell’anno 364 gli imperatori, nel viaggio da Costantinopoli verso l’Occidente, avevano stabilito in tale località le loro comitivae (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.1: «percursis Thraciis Naessum advenerunt, ubi in suburbano, quod appellatum Mediana a civitate tertio lapide disparatur»), ma non esiste alcun elemento che consenta di provare che l’apparitor Valente (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4.3) vi si trovasse ancora in autunno, esistendo – al contrario – una testimonianza di Sozomeno (Hist. Eccl., 8.7.8) che lo indica ad Eraclea. Inoltre, è difficile pensare che una norma 35
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costituzioni di identico contenuto, ma di datazione e destinatario diversi, prospettando soluzioni che, però, non paiono compatibili né con rilievi di natura palingenetica, né, a più forte ragione, con considerazioni di portata più generale, relative al vigore normativo dei provvedimenti imperiali nelle due partes Imperii 38. Sembra, pertanto, più corretto ipotizzare che la norma avente contenuto e portata generale fosse la c. 3 C.Th. 5.13, emanata a Milano e indirizzata, nell’esemplare conservato nel Teodosiano, al prefetto del pretorio Mamertino, senza che ciò dovesse implicare una sua validità territorialmente circoscritta alla sola pars Occidentis. Esistono, infatti, nel Codice, provvedimenti di indubbia portata generale, validi per entrambe le partes Imperii, che risultano, però, destinati – nell’esemplare raccolto dai compilatori – ad un singolo prefetto del pretorio, quando non a funzionari di grado inferiore o addirittura locali: eventualità, quest’ultima, legata all’uso che i compilatori hanno fatto degli esemplari d’archivio, pur non potendosi escludere che il provvedimento, nel suo originale non conservato, fosse indirizzato anche ad altri o che avesse una portata generale. La costituzione 10.1.8 è indirizzata ad un funzionario avente una competenza specifica, il comes rerum privatarum Cesario, perché si attenga al dettato della norma generale contenuta in C.Th. 5.13.3 del dicembre 364: norma che, pertanto, deve presumersi già emanata, come sembra risultare anche dall’utilizzo del verbo al passato: ei patrimonium placuit adgregari. Se, dunque, le osservazioni svolte sono esatte, la costituzione 8 De iure fisci è successiva alla costituzione 3 C.Th. 5.13 e il problema della sua datazione si risolve, così, senza ricorrere a forzate modifiche paleografiche, riportandola all’anno 365, il cui consolato era originariamente indicato nella subscriptio con la sigla del post-consolato, poi trasformatosi, volutamente o per errore, in consolato. Una soluzione, quest’ultima, che consente anche di sciogliere la sigla Med. in Mediolani, località ove Valentiniano soggiornò nell’inverno tra il 364 e il di grande importanza, come è la c. 8 C.Th. 10.1, possa avere avuto una portata territorialmente circoscritta alla parte orientale, né sembra corretto ipotizzare che una linea di politica legislativa – e per di più in un settore tanto delicato – fosse adottata prima da Valente, nel novembre 364, e poi da Valentiniano, il 23 dicembre, atteso il rapporto di subordinazione dell’uno nei confronti dell’altro (AMM. MARC., Rer. Gest. 26.4. 3; 26.5.2-4; Soz., Hist. Eccl., 4.6.2; R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 36 nt. 86; G. DE BONFILS, Ammiano Marcellino e l’imperatore, Bari 1986, 17. 38 In ordine alla sfera di applicazione delle costituzioni imperiali, cfr. F. PERGAMI, Sulla sfera di applicazione dei provvedimenti imperiali nel diritto romano tardoantico, Bari 2018, 155 ss.
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365, come è attestato dal racconto di Ammiano Marcellino 39 e dalle costituzioni coeve, recanti per esteso il luogo di emanazione 40. Del resto, per quanto qui specialmente rileva mettere in luce, una simile ipotesi consente altresì di ribadire, in definitiva, come la linea di politica legislativa volta a correggere i provvedimenti di Giuliano in tema di appartenenza dei fondi cittadini ai templi 41 fosse opera di Valentiniano, che, tra i primi interventi legislativi (dopo la separazione da Valente), emanò non solo la norma generale del 23 dicembre 364 (C.Th. 5.13.3), ma anche le disposizioni attuative del 4 febbraio 365 (C.Th. 10.1.8). Fu, infatti, con tale imperatore che i fondi cittadini, originariamente alienati in favore dei templi, rientrarono nella piena e completa disponibilità della res privata principis, cui doveva pure spettare l’amministrazione e la gestione delle rendite ad essi relative 42. 39 AMM. MARC., Rer. Gest. 26.5.4: Et post heac cum ambo fatres Sirmium introissent, diviso palatio, ut potiori placuerat, Valentinianus Mediolanum. 40 Per tutte, cfr. C.Th. 2.1.4. 41 Sulla diversa concezione della res privata tra Giuliano e Valentiniano, R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 154 ss.; R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 487 ss. 42 Una conferma in ordine al generale atteggiamento di Valentiniano di conservare alla res privata tutte le categorie di immobili pubblici si ha leggendo C.Th. 5.15.19: Impp. Valentinianvs et Valens AA. ad Germanianvm C(omitem) S(acrarvm) L(argitionvm). Fundi enfyteutici patrimonial[is]que iuris in antiquum ius praestationemque redeant, ne quoqu[o modo] exempti ab enfyteutico patrimonialique titulo veluti priv[a]to iure teneantur, rectoribus provinciarum et rationalib[us] monendis, ut sciant contra commoda largitionum nost[ra]rum specialia non admittenda esse rescripta, his tantu[m]modo exceptis, quos in re privata nostra secundum leg[em] datam iam dudum in hoc nomine manere praecepimus. D[at.] V.K. Avg. Val(entini)ano et Valente AA. Conss. Sul contenuto della costituzione, cfr. F. BURDEAU, L’administration des fonds patrimoniaux, cit., 292 ss.; ID., Le «ius perpetuum» et le régime fiscal des «res privatae» et des «fonds patrimoniaux», in Iura, 23, 1972, 6 ss. La costituzione, come C.Th. 7.7.1 e 5.15.19, presenta notevoli difficoltà di datazione e di attribuzione a causa della incertezza nella successione di comites sacrarum largitionum fra il 365 e il 366 (cfr. F. PERGAMI, La legislazione, cit., 226 ss.). Nel provvedimento in esame si impartiscono ai comites sacrarum largitionum disposizioni perché i «fundi enfyteutici patrimonialisque iuris in antiquum ius praestationemque redeant» e si richiama espressamente una lex iam dudum data, con cui si era stabilito che i fondi della res privata dovessero conservare la loro condizione (in hoc nomine manere praecipimus). La lex iam dudum data può essere identificata nella c. 17 h.t.: [Impp. Valentinianvs et Valens] AA. ad Mamertinvm P(raefectvm) P(raetori)o. Super fundis enfyteuticis seu patrimonialibus divus Iulianus legem consultissimam dedit, scilicet ut, qui ex his vel ad privatorum iura transissent vel minuto canone condicionis fisco locationibus tenerentur, ad statum retraherentur antiquum. Hanc legem quidam iudicum interpretati pravius sunt quam utilitas publica postulabat, ut eiusmodi praedia ex rebus privatis nostris eruentes ibi tantummodo satisfacerent legi, ubi non intererat fisci vectigalibus, utrumne privato iure an enfyteutico possideret. Quamquam igitur animadvertimus esse consultius in eodem statu fundi maneant, in quo ante legem divi Iuliani fuerant, de quibus tamen nihil specialiter statuit, ab his, quibus omnia deinceps erogata sunt, auctoritas tua redhiberi eos maturo iubebit auxilio. Erga ceteros sane fundos, quos recentium principum effusio aut perpetuo iure donavit aut deminuto canone con-
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5. I primi interventi dei Valentiniani relativi alla gestione del patrimonio immobiliare imperiale subirono, nel corso del dodicennio di correggenza, però, un brusco e significativo revirement: infatti, una parte delle rendite, ricavate dalla gestione dei fondi cittadini appartenenti alla res privata, nonostante le difficoltà incontrate per rendere le terre redditizie 43, furono restituite alle città per la ricostruzione e la conservazione degli edifici pubblici 44. Notizie preziose, in ordine alle modifiche del regime dei fundi rei publicae, si possono ricavare dall’esame dell’epigrafe, rinvenuta a Efeso nel 1904, in cui è riportata una costituzione dell’imperatore Valente. Si tratta di un provvedimento, privo di subscriptio e di data incerta, che deve presumibilmente essere collocato negli anni 371-372, quando il destinatario, Eutropio, resse il proconsolato d’Asia 45: D.d.d. n.n.n. avggg. Valentinia[nvs, Valens], Gratianvs hav(e), Evtropi car(issim)e Nobis. [Quod ex red]itibus fundorum iuris re[i publicae quo]s intra Asiam diversis quibusque civitatibus ad instaurand[am mo]enium fac[iem ... pr]o certis [partibu]s habita aestimatione concensimus capere quidem urb[e]s singulas beneficii nostri uberem fruetum et pro [temporum r]efers felici[tate nostror]um a foedo [prioru]m squalore ruinarum in antiquam sui faciem nova reparatione consurgere, verum non integram gra[tiam] concessi ad [ur]bes singulas beneficii [perv]enire si quidem pro particessit enfyteuticariis obtinendos, edictum conprehensi principis auctoritas tua valere praecipiat. Dat. et P(ro)p(osita) Rom(ae) VI K. Nov. Divo Ioviano et Varroniano Conss. Il provvedimento è di incerta interpretazione (cfr. P. VOCI, Nuovi studi, cit., 72 ss. e 159 ss.), ma dal suo esame sembra emergere chiaramente l’intento imperiale di conservare alla res privata i fundi enfyteutici seu patrimonialibus (su cui cfr. P. VOCI, Nuovi studi, cit., 20 ss. e 45 ss.) che la prava interpretatio di una consultissima lex di Giuliano tenderà, invece, ad eruere. Sul contenuto di tale costituzione cfr. F. BURDEAU, L’administration des fonds patrimoniaux, cit., 289 ss.; ID., Le “jus perpetuum” et le régime fiscal des “res privatae”, cit., 6 ss. in part. 11. 43 R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 487: «Un conto era ammassare terre; un altro renderle redditizie per lo Stato, tant’è vero che si dovette persino dichiarare obbligatoria l’accettazione di fondi della res privata, perché non si trovavano braccia sufficienti per lavorarli». 44 D. VERA, Forme e funzioni della rendita fondiaria nella tarda antichità, in Società romana e Impero tardoantico, I, Bari 1986, 396. Sulla urgenza della ricostruzione degli edifici pubblici, A. CHASTAGNOL, La législation, cit., 88; C. LEPELLEY, Les cités de l’Afrique romaine au Bas Empire, cit., 91; R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 494 nt. 2. 45 A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J. MORRIS, The Prosopography of the Later Roman Empire, Cambridge 1975-1980, 317, Eutropius, 2; O. SEECK, Die Briefe des Libanius zeitliche geördnet, Leipzig 1906, 151 ss.; A. SCHULTEN, Zwei Erlasse, cit., 43 (CIL 13619, 13621). Sulla data di restituzione alle città delle rendite dei fondi cittadini, cfr. R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 494 nt. 2, secondo il quale tale restituzione, dettata dalla «necessità di riprendere il ritmo delle opere pubbliche, almeno più urgenti, deve essere avvenuta dopo parecchi anni dalla confisca, giacché il governo, sempre a corto di quattrini, non poteva fare a meno di cercare di tenere tutti i beni urbani sino al limite del possibile, e, d’altra parte, sarebbe stato ridicolo che, appena confiscatili, subito ne restituisse una parte».
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bus praestitis reditus civitatibus potius q[ua]m ipsi cum reditibus fundi fuerint restitu[end]i et ministrandi, idem reditus ab acto[ri]bus [pr]ivatae rei nostrae et diu miserabiliterque poscantur et vix aegr«a»eque tribuantur adque id quod amplius e[x i]sdem fundis super statutum canonem [c]olliga«n»tur, et isdem civitatibus pereat eorundemqu«a»e actorum fraudibus devoratum nihil tamen aerario nostro adiciat augmenti possitque a curialibus vel exultione maiore vel propensione diligentia nonnullus praestitionis cumulus ad gratiam concessionis accedere, igitur cuncta diligenti coram investigatione perspeximus.
Analizzato dal punto di vista del contenuto 46, il testo, che espone la particolare situazione dell’Asia, prevede che una parte delle rendite dei fundi rei publicae (linea 2) debba essere restituita alle città: «pro partibus praestitis reditus civitatibus ... restituendi» (linea 5), affinché si possa provvedere alla manutenzione delle mura e degli edifici pubblici («ad instaurandam moenium» – linea 2 –). L’importo da rimborsare non viene specificato nel suo ammontare, dipendendo di volta in volta dalle esigenze delle singole città («pro certis partibus» – linee 3 e 5 –): ma la titolarità e l’amministrazione dei fundi rei publicae, in ossequio alle rigide disposizioni di Valentiniano I (C.Th. 10.1.8 e 5.13.3), paiono continuare a fare capo alla res privata («partem reditum, non fundorum»: linea 10), i cui funzionari («ab actoribus privatae rei nostrae»: linea 6) – habita aestimatione (linea 3) – sono tenuti a effettuare i versamenti alle città, cui spetta la reliqua summa (linea 18): Et primum Efesenae urbi, quae Asiae caput est, missa ad nos dudum legationem poscent[i p]artem redituum non fundorum advertimus fuisse concessam; unde illi interim quam esse omnium maximam nulla dubitatio est, in parte co[ncessa] cum eo fundo quem Leucem nomine nostra iam liberalitate detentat, tra[di] centum iuga promulgata sanctione mandavimus, ut eius exemplo quid adhoc ista in reparandis moenibus profecerit intuentes an reliquis praestandum sit similia, decernamus. Hac sane quia ration[e] plenissima, quod intra Asiam rei publicae iu[g]a esse videantur cuiusque qualitatis quantumve annua praestatione dependant, mansuetudo nostra instructa [c]ognovit, offerendam experentiae tu[ae] credidimus optionem, ut, si omnem hanc iugationem quae est per omnem diffusa«m» provinciam, id est sex milia septingenta triginta sex semis opim[a] adque idonea iuga, quae praeter vinum solidorum ad fixum semel canonem tria milia extrinsicus solidorum annua praestare referuntur, sed et septingenta tr[ia deserta] et iam defecta [a]c sterilia iuga quae p[e]r illa quae idonea dixi-
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Sulla ricostruzione del testo, A. SCHULTEN, Zwei Erlasse, cit., 40 ss. e, da ultimo, A. CHALa législation, cit., 77 ss. (con traduzione francese). Sul completamento della lacuna alla linea 2: fundorum iuris re […] in rei publicae, già effettuato da R. HEBERDAY, Jahreshefte des österr. Archäol. Institutes in Wien, Band IX, 1906, 184, cfr. FIRA, 1, 511, nonché A. CHASTAGNOL, La législation, cit., 86. Completa la lacuna con r[ei privatae]: A. SCHULTEN, Zwei Erlasse, cit., 40. STAGNOL,
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mus sustinentur, suscipere propria praestatione non abnuis, petitis maiestas nostra consen[tiat] s[c]ili[c]et u[t] arbitrio tuo per curias singulas omni iugatione dispersa retracto eo redituum modo quem unicuique civitatum propria largitate concen[simus r]eliquam summam per officium tuum rei privatae nostrae inferre festines, ut et omnem usuram diligentia«m» avidis eripiamus actoribus et si quid extrinsi[cus] [luc]ri est, cedat rationibus civitatum. Sane quia rerum omnium integram cupimus habere notitiam et ex industria nobis tuam expertam diligen[ti]a[m pollic]emur, plena te volumus ratione disquirere per omnem Asiam provinciam fundos iugationemque memoratam, qui in praesentem diem [habita licitati]one possideant et quantum per iura singula rei privatae nostrae annua praestatione dependant, qui etiam opimi adque utiles fundi [...]o gr[... si]ngulis quibusque potentissimis fuerit elocati et qui contra infecundi ac steriles in damnum rei nostrae paenes actores fuerint d[erelicti s]cilicet ut omni per idoneos ratione discussa ac confectis quam diligentissime brevibus mansuetudini nostrae veri fidem nunt[i]es, u[t inst]ructi super omnibus amplissimum efficacis industria praestantiae tuae testimonium deferamus.
6. Tale regime trova conferma – ed ulteriore precisazione – anche in due provvedimenti conservati nel Codice Teodosiano, che fissano in un terzo la quota di rendite dei fundi rei publicae da assegnare alle città, dapprima di ammontare indeterminato. Rileva, anzitutto, la c. 18 C.Th. 15.1: Imppp. Val(entini)anus, Valens et Gr(ati)anus aaa. ad Probum p(raefectum) p(raetori)o. Rectores provinciarum quodcumque opus inchoandum esse necessario viderint in aliqua civitate, id arripere non dubitent. Si civitatis eius res republica tantum in tertia pensionis parte non habeat, quantum coeptae fabricae poscat inpendium, ex aliarum civitatum rei publicae canone praesumant, tertiae videlicet portionis. P(ro)p(osita) vii kal. Feb. Sirmio Gr(ati)ano a. iii et Equitio conss.
Il testo reca una subscriptio incompleta, con la sola indicazione della data (26 gennaio 374) e del luogo di pubblicazione (Sirmio) e deve pertanto presumersi emanata negli ultimi mesi del 373. Analizzato dal punto di vista del contenuto, il provvedimento prevede una sorta di «solidarietà» tra le singole civitates, perché consente l’utilizzo, da parte di una città che ne necessiti, di un terzo delle rendite dell’altra 47. È, però, evidente che una simile disposizione abbia, quale indispensabile premessa logica e cronologica, l’avvenuta emanazione del principio generale contenuto nella c. 7 C.Th. 4.13 48, indirizzata dal proconsole d’Africa, Costanzo: 47 P. VOCI, Nuovi studi, cit., 97 s.; A. SCHULTEN, Zwei Erlasse, cit., 57; A. CHASTAGNOL, La législation, cit., 100; R. DELMAIRE, Largesses sacrées, cit., 653. 48 A. BERNARDI, The Economic Problems of the Roman Empire, cit., 140; A. SCHULTEN, Zwei Erlasse, cit., 56.
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Imppp. Val(entini)anus, Val(ens) et Grat(ianus) aaa. ad Constantivm proc(onsvlem) Afric(ae). Ex reditibus rei publicae o[m]niumque titulorum ad singulas quasque pertinentium c[ivita]tes duae partes totius pensionis ad largitiones nostras [perve]niant, tertia probabilibus civitatum deputetur expensis. [Dat.] vii Id. Sept. Mogontiaci p.c. Grat(iani) a. iii et Eqviti v.c. Conss.
Essa, presupponendo confiscati i fundi di ogni genere 49, dispone, con un’affermazione netta e categorica, che una quota fissa delle rendite – nella misura di un terzo e non più in percentuale variabile – venga attribuita alle città 50, mentre i rimanenti due terzi siano lasciati alla res privata 51. A ben vedere, però, la data di emanazione del provvedimento (7 settembre 375) è successiva a quella di emissione di C.Th. 15.1.18 (ultimi mesi del 373): circostanza che, come è ovvio, impone un generale riesame dell’intero problema di datazione dei due testi. In primo luogo, va detto che la data di emissione della c. 7 C.Th. 4.13 è incompatibile sia con il luogo di emanazione che con il destinatario: la subscriptio, infatti, indicata come per tutte le altre costituzioni del 375 con il postconsolato di Graziano III ed Equizio 52, non si concilia né con la località di Mogontiacum, essendo l’imperatore Valentiniano – nell’autunno di quell’anno – sul Danubio a combattere i Quadi e i Sarmati 53, né, tantomeno, con il destinatario, Costanzo, che rivestì il proconsolato d’Africa nell’anno 374 54 e che risulta essere morto il 6 luglio 375 55, cioè prima della data indicata nella subscriptio del provvedimento: circostanza, quest’ultima, indirettamente confermata dall’esame di C.Th. 12.6.6, indirizzata al suo successore Chilone, che rivestiva l’incarico già nell’aprile 375. 49
Per P. VOCI, Nuovi studi, cit., 98, gli omnes tituli potrebbero indicare i fundi templorum (su cui, supra, nt. 9) e i fondi agonothetici (fondi cittadini le cui rendite erano destinate a finanziare giochi pagani: cfr. F. REISCH, in PWRE, 1, 1893 [1958], 870 ss., nonché D. 10.2.20.7; 50.4.18.17; 50.12.10). 50 R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 494, nt. 2; P. VOCI, Nuovi studi, cit., 98; A. CHASTAGNOL, La législation, cit., 99 ss.; A. PIGANIOL, L’Empire Chrétien, cit., 209; R. DELMAIRE, Largesses sacrées, cit., 277 e 653. Contra, seppure dubitativamente, A.H.M. JONES, Il Tardo Impero Romano, cit., 981: «a partire dal 374 una parte fissa delle rendite delle terre ... un terzo, fu concesso alle città ... e sembrerebbe che le terre stesse fossero poste sotto l’amministrazione delle città». 51 Sul rapporto res privata-privatae largitiones cfr. P. VOCI, Nuovi studi, cit., 34. 52 C.Th. 12.6.16 = C. 10.72 [70].6; C.Th. 7.13.7; C.Th. 13.6.7; C.Th. 9.1.12; C.Th. 12.1.79 = C. 12.57 [58].5. 53 AMM. MARC., Rer. Gest. 30.5.13: Valentinianus Acincum propere castra commovit, navigiisque ad repentinum casum coniunctis, et contabulato celeri studio ponte, per partem aliam transiit in Quados. 54 A.H.M. JONES-J.R. MARTINDALE-J.MORRIS, Prosopography, cit., 227, Paulus Constantius. 55 CIL 3.9506.
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A ben vedere, un’anticipazione – oltre un certo limite – della datazione di C.Th. 4.13.7 a un momento anteriore alla emissione di C.Th. 15.1.18, non è paleograficamente, né storicamente corretta a causa dell’esistenza di una costituzione, la c. 73 C.Th. 12.1, indirizzata al predecessore di Costanzo, Simmaco, il quale risulta rivestire il proconsolato d’Africa ancora nel novembre 373. La dottrina, da tempo, ha affrontato i seri problemi di natura palingenetica che i due testi sottendono: il Mommsen, seguito dal Pharr 56, ipotizzando uno scambio tra la sigla del post-consolato con quella del consolato, attribuiva la c. 7 C.Th. 4.13 all’anno 374 57, mentre il Voci 58 ne perfezionava l’intuizione, completando la lacuna della subscriptio con la sigla del propositum e anticipando di qualche mese, per tale via, la probabile data di emanazione del provvedimento. Una ipotesi più articolata è proposta dal Seeck 59, il quale riteneva che il post-consolato di Graziano ed Equizio indicasse, nel provvedimento in esame, la data di pubblicazione della costituzione e che, nella subscriptio, fosse caduta l’indicazione del luogo e della data del propositum: il provvedimento, emanato a Mogontiacum il 7 settembre 374, sarebbe stato pubblicato nei primi mesi dell’anno successivo, ma non oltre il 9 aprile, data di emanazione di C.Th. 12.6.6, indirizzata al proconsole d’Africa Chilone, successore di Costanzo nella carica. Tale ipotesi risulta paleograficamente e storicamente quella più plausibile, anche perché confortata dall’utilizzo dell’indicazione della località di emissione del provvedimento, Mogontiacum, ove l’imperatore Valentiniano effettivamente risiedette nell’autunno 374, impegnato nella campagna contro gli Alamanni 60. Soluzione che pare anche trovare conferma nella circostanza che l’unica altra costituzione indirizzata a Costanzo risulta emanata, con una datazione pacifica, nel 374 61. Se, dunque, la c. 7 C.Th. 4.13 può fondatamente considerarsi emanata nel settembre 374, un coordinamento con C.Th. 15.1.18 può raggiungersi ipotizzando – per quest’ultimo provvedimento – una lieve modifica della subscrip56
C. PHARR, The Theodosian Code, ad h.l.: «Hence, read: in the year of consulship (374)». TH. MOMMSEN, Codex Theodosianus, cit., ad h.l., completa la subscriptio con la sigla DAT. annotando, in calce al testo, che «probabile est in subscriptione pro postconsulatu substituendum esse consulatum». Analoga soluzione in Prolegomena, cit., CCLII. 58 P. VOCI, Nuovi studi, cit., 97. 59 O. SEECK, Regesten, cit., 86. 60 AMM. MARC., Rer. Gest. 30.3.4: Haec memorantes addentesque utilia, reduxere eum in meliorem sententiam, statimque, ut conducebat rei communi, prope Mogontiacum blandius rex ante dictus accitur, proclivis ipse quoque ad excipiendum foedus, ut apparebat. 61 Tale ipotesi ricostruttiva è corroborata dal rilievo che l’unica altra costituzione indirizzata a Costanzo risulta emanata, con una datazione pacifica, il 10 luglio 374 (CTh. 8.5.33). 57
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tio: originariamente essa avrebbe contenuto la indicazione del post-consolato di Graziano ed Equizio, poi trasformatosi – volutamente o per errore – in consolato. Tale soluzione, plausibile per essere la costituzione datata nei primi mesi dell’anno, consente di fissare al 26 gennaio 375 la data di pubblicazione di C.Th. 15.1.18: la presumibile emanazione, pertanto, può ipotizzarsi avvenuta qualche mese prima, nell’ultima parte dell’anno 374, ma certo non prima del 7 settembre, data di emanazione di C.Th. 4.13.7. Si tratta di un’ipotesi idonea a ricostruire, con la maggiore coerenza possibile, la legislazione imperiale di Valentiniano in tema di appartenenza dei fundi rei publicae alla res privata, mediante il coordinamento degli elementi formali e sostanziali della normativa imperiale coeva 62: ribadito il principio della gestione statale, in ossequio ai provvedimenti emanati subito dopo la suprema investitura (C.Th. 10.1.8 e 5.13.3), l’imperatore stabiliva dapprima, con C.Th. 4.13.7 del settembre 374, che un terzo delle rendite, indipendentemente da necessità contingenti e senza una destinazione specifica, dovesse essere restituito alle città, precisando inoltre, con C.Th. 15.1.18, di qualche mese successiva – quale momento di attuazione e di perfezionamento – che tali somme, qualora inutilizzate, potessero essere acquisite dalle altre civitates in base ai bisogni contingenti. Il contenuto di una simile scelta legislativa fu dettata, anzitutto, dalla precaria situazione economica del regno nella seconda metà del quarto secolo 63: il dissesto in cui versava l’impero dopo la sconfitta di Giuliano in Persia, efficacemente testimoniato dal racconto ammianeo (Ita hic quoque post procinctus Parthici clades magnitudine indigens inpensarum, ut militi supplementa suppeterent et impendium, crudelitati cupiditatem opes nimias congerendi miscebat) 64, era aggravato dall’aumento delle spese belliche per fronteggiare i barbari e dal dispendio dovuto a una doppia amministrazione in Oriente e in Occidente 65. Fu per tale impellente urgenza che Valentiniano, immediatamente dopo l’elevazione alla porpora imperiale, emanò le due costituzioni contenute in C.Th. 10.1.8 e in C.Th. 5.13.3, con cui si riassorbivano tutti i beni cittadini nella res privata, cioè nel patrimonio imperiale 66, con l’obiettivo di potere soddisfa62 R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 155: «Questo vivo interesse di Valentiniano I per i problemi della res privata ha un significato politico oltre che economico». 63 L. VÁRADY, Contribution to the Late Roman Military Economy and Agrarian Taxation, in Acta Archaelogica Academiae Scientiarum Hungaricae, 14, 1962, 407 ss. 64 AMM. MARC., Rer. Gest. 30.8.8. 65 S. MAZZARINO, Sulla politica tributaria di Valentiniano I (A proposito di un’epigrafe di Casamari), in Antico, tardoantico ed èra costantiniana, 1, Città di Castello 1986, 100. Cfr. anche, W. HEERING, Kaiser Valentinianus, I, Jena 1927, 59; R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 483. 66 R. GANGHOFFER, L’évolution, cit., 136; R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 487; R. DELMAIRE, Largesses sacrées, cit., 643.
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re, con tale drastica misura, grazie alla riscossione dei tributi, i bisogni finanziari del regno. Misure che, però, indipendentemente dalle difficoltà di gestione di un simile ingentissimo patrimonio immobiliare 67, non impediranno l’emanazione di provvedimenti volti al soddisfacimento delle contingenti necessità economiche delle singole civitates, rimaste prive di qualsiasi risorsa 68: accertata, mediante aestimatio, l’urgenza della manutenzione degli edifici pubblici, fu stabilito, infatti, come attestato dalla costituzione di Valente contenuta nell’epigrafe di Efeso, il rimborso alle città di una parte delle entrate ricavabili dalla gestione dei fondi pubblici. Dapprima l’ammontare fu variabile; in seguito, sia a causa delle lamentele delle città, che ricevevano – e solo dopo lunghi indugi – la quota fissata, senza più beneficiare di pagamenti straordinari 69, sia, soprattutto, perché l’imperatore voleva potersi liberare dell’onere della gestione delle opere pubbliche nelle province 70, fu stabilito che la quota di un terzo delle rendite dei beni cittadini, indipendentemente dall’accertamento delle effettive necessità contingenti, venisse, in via automatica e in misura fissa, corrisposto alle civitates, (C.Th. 4.13.7), che, tra loro, potevano reciprocamente beneficiare delle rispettive concessioni non utilizzate (C.Th. 15.1.18). Per quanto specialmente interessa mettere in luce, la politica legislativa di gestione del patrimonio immobiliare da parte dei Valentiniani 71, evidenzia come la res privata principis abbia mantenuto la titolarità e la gestione dei fundi rei publicae, che non hanno mai cessato di appartenerle, nell’ottica, è stato autorevolmente scritto, di accrescere la consistenza patrimoniale dell’impero «non solo per ragioni di prestigio personale e rapacità, ma per rafforzare al massimo il potere statale contro le spinte disgregatrici» 72. Né può escludersi che negli 67 R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 487; S. PULIATTI, Nota sulla evoluzione del condono fiscale da Costantino a Giustiniano, in Studi Guarino, 4, Napoli 1984, 1723. 68 R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 494. 69 Tali pagamenti vengono ora intascati dagli actores rei privatae (A.H.M. JONES, Il Tardo Impero Romano, cit., 981). 70 S. PULIATTI, Nota sulla evoluzione del condono fiscale, cit., 1723. 71 R. ANDREOTTI, Incoerenza, cit., 487, il quale ritiene che l’avere attribuito nuovamente i fondi pubblici alla res privata non era una «delle misure più felici»; e prosegue (p. 495) osservando che «la tardiva provvidenza di concedere un terzo delle entrate alle città, verso la fine del regno, è il tacito riconoscimento di un gravissimo errore, ed una incomprensione economica funesta nei suoi risultati»; S. PULIATTI, Nota sulla evoluzione del condono fiscale, cit., 1723: «la loro politica fiscale fu meno equa e controllata di quella di Giuliano, anzi su certi problemi contraddittoria ... la confisca delle terre e dei tributi della città si dimostrò tutt’altro che salutare per la vita amministrativa delle comunità». 72 R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 156 e 159. Contra, M. SARGENTI, Le “res” nel diritto del tardo Impero, in Gaetano Scherillo. Atti del Convegno – Milano 22-23 ottobre 1992, Milano 1994, 179: «Il fatto che in tutti i testi normativi a noi noti, anche più tardi, si continui a
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intendimenti dell’imperatore vi fossero pure implicazioni di carattere religioso: l’attenzione di Valentiniano, posta, specialmente all’inizio del regno, su una categoria particolare di fondi cittadini, i fundi templorum, sembra mostrare una decisa reazione alla politica anticristiana e filopagana del predecessore Giuliano 73.
7. Un regime analogo, caratterizzato dalla conferma della appartenenza dei fondi al patrimonio imperiale e dalla sola concessione di un terzo delle rendite alle civitates, troverà esplicita conferma anche alla fine del quarto secolo, come dimostrano con chiarezza alcuni interventi normativi di Arcadio ed Onorio 74. Fra questi, spicca, anzitutto, la costituzione contenuta in: C.Th. 15.1.32: Impp. Arcad(ius) et Honor(ius) AA. Eusebio com(iti) s(acrarum) l(argitionum). Ne splendidissimae urbes vel oppida vetustate labantur, de reditibus fundorum iuris rei publicae tertiam partem reparationi publicorum moenium et thermarum subustioni deputamus. Dat. xi kal. Iul. Med(iolano) Olybrio et Probino conss. C.Th. 15.1.33: Impp. Arcad(ius) et Honor(ius) AA. Have, Vincenti, K(arissime) Nobis. Praecipua nobis cura est, ne aut provinciales nostri superindictionibus praegraventur aut opera publica pereant vetustate conlabsa. Singuli igitur ordines civitatum ad reparationem moenium publicorum nihil sibi amplius noverint praesumendum praeter tertiam portionem eius canonis, qui ex locis fundisque rei publicae quotannis conferri solet, sicut divi parentis nostri Valentiniani senioris deputavit auctoritas. Dat. iii non. Iul. Med(iolano) Olybrio et Probino conss.
parlare di praedia rei publicae (CTh. 5.14.3, 10.3.2), di rei publicae loca (10.3.5), di loca publica civitatis (15.1.22), di ergasteria publica, quae ad ius pertinent civitatis (15.1.9), che si continui a vietare ai curiali di conducere i praedia et saltus rei publicae (CTh. 10.3.2 del 372) e che le stesse costituzioni nelle quali si ordina l’attribuzione alle città di una parte dei redditi parlino di reditus fundorum iuris rei publicae, di reditus fundorum iuris rei publicae, tutto ciò induce a pensare che non si sia avuta una vera e propria espropriazione di quei beni, che essi siano rimasti, in linea di diritto, propri delle città, ma che la loro gestione sia stata sottratta a queste e attribuita agli amministratori del patrimonio imperiale», sulla scia di A. CHASTAGNOL, La législation sur les biens des villes au IVe siécle à la lumiere d’une inscription d’Ephèse, in AAC, 6, 1986, 86 ss. 73 Dissenziente, al riguardo, R. SORACI, L’imperatore Valentiniano I, cit., 171. In senso favorevole, R. DELMAIRE, Problèmes de dates, cit., 832: «On doit à Valentinien au début de son règne une abondante législation sur les domaines impériaux et cette loi (10.1.8) fait partie de la remise en ordre par laquelle sont abolies les mesures de Julien». 74 Sul punto, in dottrina, A. SCHULTEN, Zwei Erlasse, cit., 61; A. BERNARDI, The Economic Problems of the Roman Empire, cit., 140; P. VOCI, Nuovi studi, cit., 98; A. CHASTAGNOL, La législation, cit., 100 ss.; R. DELMAIRE, Largesses sacrées, cit., 277 e 653.
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C.Th. 5.14.35: Impp. Arcad(ius) et Hon(orius) AA. Hadriano c(omiti) s(acrarum) l(argitionum). Restaurationi moen(ium) publicorum tertiam portionem eius canonis, qui ex lo(cis fun)disve rei p(ublicae) annua praestatione confertur, certum (est sa)tis posse sufficere. De vectigalibus itaque publicis, quae [sem]per ex integro nostri aerarii conferebant expens[as, nih]il omnino decerpi nomine civitatum permittim[us. Dat.] viii id. Avg. Olybrio et Probino conss.
I tre provvedimenti normativi, tutti dell’estate 395, ribadiscono la rigida politica legislativa della cancelleria imperiale relativa alla concessione alle città esclusivamente di un terzo delle rendite dei fundi rei publicae, con un richiamo esplicito, effettuato dalla c. 33 C.Th. 15.1, alla precedente legge di Valentiniano (c. 18 h.t.): divi parentis nostri Valentiniani senioris deputavit auctoritas. Solo qualche anno più tardi, Onorio dovette cedere alle insistenti richieste delle città: la c. 5 C.Th. 10.3, emanata a Milano il 26 novembre del 400, infatti, disponeva che i terreni e gli edifici cittadini – tranne quelli de iure templorum aut per diversos petita aut aeternabili domui fuerit congregata, vel civitatum territoriis ambiuntur – fossero attribuiti, a titolo di ius perpetuum salvo canone, alle città o alle corporazioni che in esse vi si trovavano: C.Th. 10.3.5: Impp. Arcad(ius) et Honor(ius) AA. Messalae p(raefecto) p(raetori)o. Aedificia, hortos adque aedium publicarum et ea rei publicae loca, quae aut includuntur moenibus civitatum aut pomeriis sunt conexa, vel ea quae de iure templorum aut per diversos petita aut aeternabili domui fuerint congregata, vel civitatum territoriis ambiuntur, sub perpetua conductione, salvo dumtaxat canone, quem sub examine habitae discussionis constitit adscriptum, penes municipes, collegiatos et corporatos urbium singularum conlocata permaneant omni venientis extrinsecus atque occulte conductionis adtemptatione submota. Officia etiam palatina decem librarum auri multae subiaceant, si cui adversus praecepta huius sanctionis venienti aditum adsentatione praestiterint. Dat. vi kal. Dec. Med(iolano) Stilichone et Aureliano conss.
Ancora più ampia la disciplina contenuta nella successiva costituzione 41 C.Th. 15.1, emanata il 4 luglio 401, con la quale la cancelleria imperiale, nel ribadire la concessione alle curie e alle corporazioni degli edifici cittadini, comprendeva anche gli aedificia iuris templorum, quae tamen nullis censibus patuerit obligata. Il titolo della concessione, più che una piena titolarità, va inteso come ius perpetuum, non solo per coerenza con il testo emanato pochi mesi prima, ma anche considerando il seguito del provvedimento che, seppure in modo congetturale, è stato autorevolmente interpretato nel senso di una revoca delle precedenti concessioni effettuate a favore dei privati, se utili alle città, con l’at-
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tribuzione, invece, delle sole aree vacanti, purché non destinate a pubblica utilità 75. Quanto ai canoni, per il caso in cui i beni fossero concessi in locazione, dovevano essere versati alle città, per essere invece destinati alle casse imperiali per il caso di arretrati. Un regime, quello dei beni che potevano essere donati ai privati per il caso di mancanza di pubblica utilità, che troverà una corrispondenza in Oriente, come è attestato dalla coeva costituzione di Arcadio, C.Th. 15.1.40 del dicembre 398, che ci testimonia come ciò potesse avvenire per i beni «diruta penitusque destructa» 76: C.Th. 15.1.40: Impp. Arcadius et Honorius AA. Eutychiano p(raefecto) p(raetori)o. Si aliquando operum publicorum petitores emergant, non nisi diruta penitusque destructa et quae parum sint usui civitatum petitoribus adsignetur. Dat. Id. Dec. Honorio A. iiii et Eutychiano conss.
8. Un orientamento di maggiore ampiezza è testimoniato dagli interventi imperiali di Valentiniano III, che, con la c. 13 C. 4.61, emanata a Ravenna nel 431 77, nel ribadire il vigore del precedente regime, trasferiva alle casse imperiali tutti i vectigalia e i 2/3 delle rendite dei fondi cittadini, disponendo che alle città venissero assegnati in proprietà 1/3 dei fondi, che le stesse potevano gestire in piena autonomia: C. 4.61.13: Impp. Theodosius et Valentinianus AA. Flaviano pp. Exceptis his vectigalibus, quae ad sacrum patrimonium nostrum quocumque tempore pervenerunt, cetera rei publicae civitatum atque ordinum aestimatis dispendiis, quae pro publicis necessitatibus tolerare non desinunt, reserventur, cum duas portiones aerario nostro conferri prisca institutio disposuerat: atque hanc tertiam iubemus adeo indicione urbium municipumque consistere, ut proprii compendii curam non in alieno potius quam in suo arbitrio noverint constitutam. Designatae igitur consortium portionis eatenus iuri ordinum civitatumque obnoxium maneat, ut etiam locandi quanti sua interest licentiam sibi noverint contributam.
75 In senso analogo, si legga C.Th. 15.1.43, che conferma come i loca publica, se non utili per le città, possono essere donati dall’imperatore ai privati: Impp. Arcadius et Honorius … Patentibus. 76 Relativa alla sola città di Eudoxiopolis, è la costituzione 42 C.Th. 15.1, emanata a Costantinopoli il 14 luglio 404 da Arcadio: Eudoxiopolitanae civitatis cives pro oblata no … suam patriam ergasteria condonamus: Ne quis igitur ergasteria memorata a nostra serenitate deinceps petere moliatureaque ratione civium, quorum censum cupimus ampliari, iuyra perturbet. 77 Per P. VOCI, Nuovi studi, cit., 100, la data si ricava da C. 11.75.5 (= CTh. 11.1.36), poiché le due costituzioni avrebbero fatto parte, in origine, di un unico contesto normativo.
Il regime del patrimonio immobiliare imperiale nella legislazione del tardo diritto romano 215
9. L’assetto dei fondi cittadini nella legislazione del tardo impero è attestato, in via generale, dalla celebre novella 23 di Teodosio II dell’anno 443, in forza della quale, sotto il controllo del prefetto del pretorio e del magister officiorum, i terreni rustici e urbani venivano restituiti alle città (praedia tam urbana quam rustica nec non etiam tabernae, quae ad ius civile pertinent): unica eccezione per quelli che erano stati posseduti dai privati per almeno trent’anni e quelli che fossero stati volontariamente ceduti dalle civitates tramite un procurator divinae domus o da un comes rerum privatarum. Un regime, per vero, non definitivo, solo considerando che appena pochi anni più tardi, Marciano, con la novella 3 del 451, tornerà sull’argomento, disciplinando due distinte ipotesi: quella relativa ai fondi restituiti alle città con la Novella 23 di Teodosio II, in cui era imposto, a partire dall’anno 450, il pagamento di un canone a favore delle città, nonché quella relativa all’ipotesi di fondi che non erano stati restituiti e che erano rimasti appannaggio della res privata 78: in tal caso, i privati che avevano continuato a possedere tali fundi, dovevano pagare un canone direttamente alla corona imperiale 79: un regime, quest’ultimo, che, a buona ragione, poteva considerarsi definitivo, se consideriamo che Giustiniano, nella sua compilazione, inserirà la Novella 3 di Marciano, escludendo invece quella di Teodosio.
10. L’esame della legislazione imperiale in tema di gestione del patrimonio immobiliare, segnatamente di fundi rei publicae, testimonia una riflessione giuridica di rilevante significato, anche a livello pubblicistico, da parte delle cancellerie imperiali, con risultati alterni, spesso fra loro contraddittori, destinati a comprovare la centralità del tema in un momento storico nel quale l’afflusso di denaro alle casse imperiali costituirà la preoccupazione costante dei sovrani, pure di fronte all’esigenza di salvaguardare l’autonomia delle città e l’esigenza, particolarmente sentita, della manutenzione degli edifici pubblici.
78
Per il Voci, tali terreni dovevano identificarsi con i fundi templorum (P. VOCI, Nuovi studi,
102). 79
Sebbene per un’ipotesi particolare, tale regime troverà applicazione con la c. 6 C. 11.70 dell’anno 480.
216
Altri studi di diritto romano tardoantico
Indice delle fonti
INDICE DELLE FONTI (Il numero si riferisce alla pagina in cui la fonte è citata; di seguito, l’eventuale nota)
A.C.O. (ACTA CONCILIORUM OECUMENICORUM) (Schwartz) 2.3.2.91[350].20
23.7
AE. (ANNÉE ÉPIGRAPHIQUE) 1934.160
131.33
AMBROSIUS (Mediolanensis episcopus) Chronica 2.42.1-3
40
Contra litteras Petiliani Donatistae libri tres 2.102 3.45
40 40
De excessu fratris sui Satyri Libri duo 1.58
40
De officiis 2.29
110
Epistula ad catholicos de secta donatista 54
40
Epistulae extra collectionem (Zelzer) 7 45.1
110 40
217
218
Altri studi di diritto romano tardoantico
Historia adversos paganos 3.8.5-6 7.9.10 7.12.3 7.22.6 7.40.5 7.42.10
40 40 40 40 40 40
Sermones 392.4
40
AMMIANUS MARCELLINUS Rerum Gestarum libri XXXI (Clark-Traube-Heraeus) 14.9.3 15.5.18 15.7.1 16.8.3 18.1.1 18.6.12 20.8.14 21.12.19 21.12.20 21.12.25 23.2.3 25.4.15 26.1.5 26.1.7 26.2.3 26.3.1 26.4.2 26.4.3 26.4.4 26.5.1 26.5.2 26.5.3 26.5.4 26.5.5 26.5.11
36 36 37 36 37 36 36 37 37 133.48 37 196.5, 198.16, 199.19 77.90, 126.18, 199.22 126.18 122.2, 140.72, 156.17 37 126.18, 156.16 77.90, 126.18, 156.17, 199.23, 202.37 125.13, 158.30, 159.44 77.90, 121.1, 130.28, 140.68, 157, 157.28, 202.37 123.4, 156.18, 158.29, 203.37 178, 203.37 127.18, 156.19, 157.28, 174.67, 203.37, 204.39 133.47, 158.29 157.23
Indice delle fonti
26.5.12 26.5.13 26.5.14 26.7.2 26.7.4 26.8.2 26.8.3 27.2.10 27.3.7 27.4.1 27.6.4-11 27.6.12 27.6.13 27.7.5 27.9.2 27.11.1 28.2.13 28.4.2 28.6.8 29.4.5 29.5.2 29.5.22 29.5.49 29.9.2 30.2.10 30.3.4 30.4.9 30.5.4 31.14.2
157.24 157.25 134.50 158.34, 174.66, 178, 178.78 158.33, 174.66 146.92 187, 187.22 157.26 36 122.3, 156.20 156.22 156.21, 156.22 156.22 37 158.31 130.29, 131.37 36 37 158, 158.31 36 158, 158.31 36 36 158 158, 158.32 209.60 23 130.29, 132.41 37
ARNOBIUS Adversus Nationes 4.16
39
AURELIUS VICTOR De Caesaribus 39.1
20.44
219
220
Altri studi di diritto romano tardoantico
CASSIODORUS (AURELIUS) Variarum Libri (Mommsen) 3.23 5.14.5 6.5.1 7 7.28.2 8 9.14.7 9.18.11 11.2.5 11.40.1
39 39 39 39 39 39 39 39 39 23
CIL [CORPUS INSCRIPTIONUM LATINARUM] (Mommsen) 3.459 3.9506 3.14198 5.3344 5.8978 6.266 6.499 6.1751 6.1752-1753 6.1756a 6.1756b 13619 13621
4.10 208.55 4.10 132.44, 134 133.49 84.108 89.119 131.36 131.32 131.34 131.35 205.45 205.45
CODEX THEODOSIANUS (Mommsen) I. Theodosiani Libri 1.5.10 1.5.12 1.5.13 1.6.5
31.24 34 34 177
Indice delle fonti
1.10.6 1.10.7 1.16.6 1.16.7 1.16.8 1.16.10 1.16.19 1.22.4 1.28.2 1.29 1.29.1 1.29.2 1.29.3 1.29.4 1.32.1 2.1.4 2.4.2 2.18.1 3.1.2 3.7.3 4.12.3 4.12.6 4.13.5 4.13.7 4.20.3 5.1.2 5.13.3 5.15 5.15.16 5.15.19 5.15.20 5.17.3 6.4.1 6.4.2 6.4.18 6.4.19 6.9.1 6.28.2 6.35.7 6.35.10 7.1.5 7.1.7 7.1.8
34, 35 34 30 30 4.10 31, 32 171.58 3.7 139 134, 137, 145 134.52, 137, 144 141, 142, 143 138, 138.61 138, 138.62 34 204.40 45 24, 26, 27, 30 108, 108.28, 108.29 107 196.8 176 197 209, 210, 211 3.7, 53.22 81.99 199, 202, 203, 204, 206, 210 135, 135.56 137.59 158.36, 204.42 135, 136, 158.36 158.35 177.74 136.58, 177.74 176, 177 161 159, 159.43 139.64 136.58 139.64 171.57, 178.81 178.80 178
221
222 7.1.9 7.4.7 7.4.9 7.4.10 7.4.11 7.4.12 7.4.13 7.4.14 7.4.15 7.4.16 7.4.22 7.6.2 7.7.1 7.8.2 7.13.2 7.14.6 7.20.2 8.4.8 8.4.11 8.4.23 8.5.18 8.5.19 8.5.20 8.5.26 8.5.33 8.11 8.11.1 8.11.2 8.11.3 8.15.3 8.15.4 8.15.5 9.3.4 9.16.7 9.21.7 9.21.8 9.25.2 9.30.1 9.30.3 9.40.1 10.1.7 10.1.8 10.1.11
Altri studi di diritto romano tardoantico
178.80 124.9 123 124 127, 128 126 130, 145 146, 165 165 127, 130, 137, 145 147 165 158.36, 204.42 158 162 131 3.7 140.69 162 148 140.69 125 137.59 128 209.61 166 166 167, 168 167, 168 143, 143.81 142, 142.79, 144 143.83 31, 32 172 158.37 158.40 123 127 128 20.43, 75.82 200.26 199, 200, 202, 202.37, 203, 203.37 161
Indice delle fonti
10.3.1 10.3.2 10.3.5 10.10.9 10.15.4 10.17.2 10.19.4 10.19.5 10.19.6 10.19.7 10.20.5 10.20.6 10.20.7 10.20.8 10.21 10.21.1 10.22 10.22.1 10.23.1 11.1.3 11.1.15 11.1.16 11.1.36 11.7.2 11.7.9 11.7.16 11.12.3 11.17.1 11.29.5 11.30 11.30.1 11.30.2 11.30.3 11.30.7 11.30.8 11.30.10 11.30.11 11.30.15 11.30.21 11.30.22 11.30.25 11.30.26 11.30.28
198, 198.18, 202.36 212.72 212.72, 213 137.59 132.40, 134 158.38 135.56, 158.36 165, 166 166 166 158.39 164 158.39 164, 158.40 164 158.37 164 158.40 162, 81.99 33 132, 134.53, 136.58 136.58 214.77 198.18 140.69 33, 34 158.35 165 95.149 27, 29, 68, 68.61, 74.77 29, 29.22, 69.63, 79, 79.94 20.43, 74, 74.79, 75.82 8, 20.43 15, 64, 64.50 79, 79.95 69, 69.64 29 76.84 8 76.85 76.86, 78 91.128 8
223
224 11.30.29 11.30.30 11.30.32 11.30.33 11.30.35 11.30.36 11.30.38 11.30.43 11.30.44 11.30.60 11.31 11.31.1 11.31.2 11.32 11.33 11.34 11.35 11.36 11.36.1 11.36.2 11.36.3 11.36.5 11.36.6 11.36.8 11.36.9 11.36.10 11.36.12 11.36.13 11.36.15 11.36.16 11.36.17 11.36.18 11.36.18.3 11.36.19 11.36.20 11.36.21 11.36.22 11.36.25 11.36.27 11.36.30 11.37 11.38 11.39.5
Altri studi di diritto romano tardoantico
70, 70.65, 80, 80.96 70, 70.65, 80, 80.97 77, 77.88, 78.91, 79, 87.114 77, 77.89, 78, 78.91, 137.59 80.98 95.149 82.101 39.43 38 82, 82.105 68.61 31.26 88.116, 93.138 68.61 68.61 68.61 68.61 68, 68.61, 74.78, 83 20.43, 75.82, 83, 83.108, 93.140 84.108 84.108, 86.111 84.109 91, 91.130 91.129, 92, 92.132 92, 92.133 92, 92.134 91.128 92, 92.135 78.90, 87, 87.113 86, 86.111, 87 85.110 85.110, 87, 87.115, 92.138, 95 85.110 94 88 95, 95.153 85.110 90, 90.126 95, 96.154, 95.153 90, 90.127, 95.153, 96, 96.155 68.61 68.61 3.7
Indice delle fonti
11.39.8 11.62.3 11.63.2 12.1.50 12.1.56 12.1.57 12.1.58 12.1.59 12.1.60 12.1.62 12.1.63 12.1.66 12.1.67 12.1.68 12.1.69 12.1.70 12.1.73 12.1.79 12.1.85 12.1.89 12.1.157 12.1.158 12.6.5 12.6.6 12.6.7 12.6.11 12.6.13 12.6.14 12.6.16 12.6.29 12.9.3 12.12.3 12.12.6 12.18.1 13.1.6 13.1.9 13.1.17 13.3.10 13.5.10 13.5.14 14.13.1 14.17.7 15.1.11
3.7, 53.22 135.56 135.56 13.1.4, 197.15 201.27 168, 170, 170.57 140.69, 169, 170, 171.57 137.59 137.59 128 163 174.67 176, 177 31.26 169 171, 171.58, 171.59 171, 171.60, 172, 209 162, 208.52 32 190 153.6 153.6 173, 174.67, 175 208, 209 170, 174, 175 135.56, 158.35 135.56, 158.36 161 208.52 34 35 125 89.119 163 158.35 163, 164 34 95.149 140.69 162 161 161 125
225
226
Altri studi di diritto romano tardoantico
15.1.15 15.1.18 15.1.32 15.1.33 15.1.40 15.1.41 15.1.42 15.1.43 15.2.2 16.2.17 16.10.10
32 207, 208, 209, 210, 211, 213 212 212, 213 214 213 214.76 214.75 161 137.59 32
II. Constitutiones Sirmondianae 6
109
III. Leges Novellae (Meyer) Theodosii 9 9 pr. 9.1 9.2 9.3 9.4
189 190 191 192 192 191
CORPUS IURIS CIVILIS I. Codex Iustinianus (Krüger) 1.4 1.4.2 = 7.65.4a 1.14.5 1.26.4 1.32.1 1.49.1 1.55.1 1.56.2 3.1.9 3.1.3.4 3.1.13.1 3.1.14.1
90.123 90.124 189, 192, 192.35, 194 31.24 34 24 141 135.56 24, 26, 27, 30, 163 47 49 49.13
Indice delle fonti
3.2.2 3.3.2 3.3.3 3.3.4 3.9.1 3.11.1 3.28.26 4.4.17 4.21.15 4.61.6 4.61.13 4.63.2 4.65.30 5.4.17 6.4.2 7.22 7.22.2 7.40.3.3 7.43.1 7.44.3.1 7.45.7 7.45.9 7.53.3 7.53.8 7.62.5 7.62.6 7.62.6 pr. 7.62.6.1 7.62.6.2 7.62.6.3 7.62.6.4 7.62.6.5 7.62.6.6 7.62.7 7.62.8 7.62.9 7.62.10 7.62.6.1 7.62.6.2 7.62.6.3 7.62.6.6
227
4.13 2.6, 3, 4, 51, 51.20, 52.20, 53, 53.24, 54.27, 71.67 52.20 4.10 49 4.12, 5, 51, 51.20, 54.25, 71.67 52.20 3.8 49 158.35, 214 214 158.40 190.33 53.23 136.58 51.20 52.20 46 47 50.14 13, 62.43 13, 62.43 6 5, 52, 52.20, 54.26, 71.67 17, 65, 65.53 19.40, 25, 51, 28.21, 45.8, 51.20, 53, 68, 70.66 7, 8, 54, 72.72 9, 73.73 9, 73.74 11, 83.107 73.75 14, 71.69 15, 17, 19, 51, 79.93 52.20 52.20 52.20 52.20 26, 73.73 73.74 83.107 79.93
228 7.62.24 7.62.25 7.62.51 7.65 7.65.4a 8.17[18].2 8.22[23].1 8.35.8 10.3.6 10.32.33 10.32.34 10.72[70].4 10.72[70].6 10.75.3 11.7[6].2 11.8[7].5 1.9[8].1 11.62[61].3 11.63[62].2 11.65[64].4 11.65.5 11.70.1 11.70.2 11.70.6 11.75.5 12.37[38].2 12.37[38].3 12.37[38].4 12.37[38].8
Altri studi di diritto romano tardoantico
80 82, 82.103 82 74.78 90.124 6 6 48 158.38 32 190.33 158.35 208.52 35 158.36 158.39 158.37 158.36 158.36 158.36 35 198 198 215.79 214.77 123 125 146 148
II. Digesta (Mommsen-Krüger) 1.4.1 pr. 2.4.8.1 2.8.9 4.4.39 12.2 12.2.17 pr. 22.3.18 pr. 25.3.1.16 27.9.3.1 34.9.5.1 34.9.5.12
21 38 60.41 61.41 48 48 38 38 6 10 10.21, 26.16, 57, 57.33
Indice delle fonti
36.3.5.1 42.2.1 42.2.6 pr. 42.5.30 48.2.18 48.18.20 49.1.1 49.1.2 49.1.3.3 49.1.4 49.1.5.4 49.1.13.1 49.2.2 49.5.2 49.5.4 49.6.1 49.6.2 50.16.106
17, 66, 66.54 48 48.12 38 12, 61, 61.42 60.41 61.41 61.41 10, 10.22, 26.16, 57, 57.34 6 15, 63.47 8.18, 56.29 60.41 60.41 60.41 15.35, 64, 64.51 16 8
III. Novellae (Schöll-Kroll) 23 23.1 53
72, 72.70 72.71 46
IV. Institutiones (Krüger) 4.6.32
50.15
ISIDORUS (Hispalensis episcopus) Etymologiarum sive Originum libri (Lindsay) 9.4.14 = 18.15.6
23
LACTANTIUS De mortibus persecutorum 15.4 36.4
39 39
229
230
Altri studi di diritto romano tardoantico
LIBANIUS Orationes (Förster) 13.45 16.19 30.6 30.37 31.16
196.6, 198.17 196.6 196.6 196.6 196.6
PAULUS OROSIUS Historia adversus paganos 3.8.5-6 7.9.10 7.12.3 7.22.6 7.36.1 7.40.5 7.42.10
40 40 40 40 115.46, 179.82 40 40
P. OXY. [THE OXHYRYNCHUS PAPYRI] 1408
19.39, 67.57
PLINIUS MAIOR Naturalis historia (Jan-Mayhoff) 35.84
101.5
RUFINUS Historia Ecclesiastica 11.12
132.43
Indice delle fonti
SALVIANUS (presbyter Massiliensis) De gubernatione Dei (Schanz) 5.17
40
S.H.A. (SCRIPTORES HISTORIAE AUGUSTAE) 2.6 8.4 8.6 15.1 15.2 17.1 17.2 20.5 28.2 40.4 42.4 43.3-4
36 36 36 36 36 36 36 36 36 36 36 36
SENTENTIAE RECEPTAE PAULO TRIBUTAE (Baviera) 5.33.1 5.33.2-8 5.34.1 5.34.2 5.35.2
18, 66, 66.55 18, 66 16, 64.52, 72.71 16 9.18, 56.29
SOCRATES CONSTANTINOPOLITANUS Historiae Ecclesiasticae (Schmid-Stählin) 4.11
156.22
231
232
Altri studi di diritto romano tardoantico
SOZOMENUS Historia Ecclesiastica (Bidez-Hansen) 4.6.2 6.7.8 8.7.8
203.37 78.90 202.37
SYMMACUS QUINTUS AURELIUS Relationes ad principes (Barrow) 1 2 5 15 16 18.2 19 21.3 21.4 23.2 23.10 26.1 28 31 33.3 34.2 34.7 35.1 35.3 38.2 39.1 39.4 39.5
37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37
Epitome 5.63 9.25
37 37
Indice delle fonti
VATICANA FRAGMENTA (Mommsen) 1 35
187, 187.20, 188.26 108
ZOSIMUS Historia Nova (Paschoud) 4.3.2 4.6.2 4.8.1 4.12.2
157.28, 172.63 174.66 176.72 156.22
233
234
Altri studi di diritto romano tardoantico
217
Indice degli Autori
INDICE DEGLI AUTORI (Il numero si riferisce alla pagina in cui l’Autore è citato; di seguito, l’eventuale nota)
A ALBANESE, 187.23, 188.26 ALZON, 135.57 AMARELLI, 39.45, 149.97 AMELOTTI, 2.5, 3.8, 53.23, 54.28, 71.66, 73.76 ANDREAU, 89.120 ANDREOTTI, 85.110, 92.136, 129.27, 135.57, 159.43, 160.49, 170.57, 172.61, 172.64, 175.69, 178.79, 195.3, 197.14, 198.17, 199.21, 204.41, 205.43, 205.44, 205.45, 208.50, 210.65, 210.66, 211.67, 211.68, 211.71 ARANGIO-RUIZ, 182.5, 185.15 ARCHI, 12.27, 61.42, 160.50, 190.31 ASTOLFI, 91.128
B BANFI, 116, 116.50 BALESTRI FUMAGALLI, 74.78 BALOGH, 50.16, 90.125 BARB, 172.61 BARBATI, 4.9, 22, 23, 23.8, 23.9, 24, 24.10, 25, 25.13, 26, 27, 27.17, 31, 31.25, 31.27, 32, 32.30, 33, 33.32, 34, 34.34, 35, 35.35, 36, 36.36, 39, 39.44 BARONE ADESI, 163.52 BASSANELLI SOMMARIVA, 9.19, 11.25, 56.30, 60.39, 69.62, 71.66, 81.100 BAVIERA, 193.37 BELLODI ANSALONI, 46.10
BENSA, 183.8 BERGER, 14.30, 14.31, 62.45, 63.46 BERNARDI, 196.7, 207.48, 212.74 BERTOLINI, 11.25, 50.16, 60.39, 69.62, 72.71 BETHMANN HOLLWEG, 11.25, 24.9, 50.16, 60.39, 69.62 BETTI, 184, 184.12, 185.13, 190.31 BIANCHINI, 15.33, 63.48, 71.69, 79.93, 86.111, 88.118, 89.121, 160.50 BIDEZ, 106.20 BIONDI, 6.16, 86.112, 88.117, 88.118, 89.121, 90.125, 155.11, 176.70, 185.15 BISCARDI, 103.12, 106.21, 112, 112.38 BONAMENTE, 200.24 BONINI, 100.2 BRUNO SIOLA, 40.46, 110, 110.32, 117.51 BRUTTI, 18.38, 19.41, 67.56, 68.60, 182.6, 182.7, 186.18 BURDEAU, 195.1, 204.42 BURDESE, 91.131, 153.6
C CAMERON, 131.30, 132.42, 134, 134.55 CAMPOLUNGHI, 94.142 CANTARELLA, 19.39, 67.57 CENDERELLI, 2.4, 2.5, 52.21, 54.28, 71.66, 71.69, 73.76, CERAMI, 22.3, 91.130 CERATI, 94.143 CERVENCA, 77.86, 153.6 CHASTAGNOL, 45.9, 86.111, 95.149, 114, 131.30, 159.43, 196.7, 197.10, 205.44, 206.46, 208.50, 212.72, 212.74
236
Altri studi di diritto romano tardoantico
COLI, 91.131 COLLINET, 88.117 CORCORAN, 1.3 CORRADI, 129.25 CRACCO RUGGINI, 135.57 CRISTALDI, 188.25 CUNEO, 111.35, 112, 112.36, 140.75, 162.51, 164.53, 197.11 CUNTZ, 128.23
D DAGRON, 143.82 DE BONFILS, 11.25, 23.5, 60.39, 88.117, 143.82, 151, 152, 152.3, 152.4, 153.6, 154, 154.8, 156.22, 165.54, 167, 167.55, 168.56, 172.62, 180.83, 203.37 DE DOMINICIS, 155.11, 155.15, 174.67, 176.73, 178.77 DE GIOVANNI, 1.1, 1.3, 20.45, 39.45, 43.2, 43.3, 43.4, 102.11, 105.18, 118.54, 124.10, 153.5, 154, 154.9, 195.2 DELL’ORO, 51, 51.17, 51.18, 71.66 DELMAIRE, 91.129, 91.131, 135.56, 195.1, 195.2, 196.4, 196.9, 197.10, 200.24, 202.34, 207.47, 208.50, 210.66, 212.73, 212.74 DE MARINI AVONZO, 2.4, 2.5, 2.6, 23.6, 28.19, 38.41, 40.47, 52.21, 54.27, 54.28, 71.66, 74.79, 84.108, 88.118, 90.124 DE MARTINO, 86.111, 90.122, 91.131, 152.5, 195.2, 196.7, 199.20 DE ROBERTIS, 84.108 DE SALVO, 162.51 DI PAOLA, 193.37 DOVERE, 23.7, 151, 154.7 DUPONT, 20.43, 74.79, 75.82, 101.6
E ERNOUT, 14.30, 14.31, 62.45, 63.46
F FACCHETTI, 117.51 FADDA, 94.142, 183.8 FANIZZA, 22.2 FASCIONE, 190.31, 190.32, 192.35, 193.36 FASOLINO, 92.137, 201.30 FERCIA, 188.24 FERNÁNDEZ BARREIRO, 2.5, 25.15, 54.28 FORCELLINI, 14.30, 14.31, 62.45, 63.46 FRACCARO, 129.24
G GANDOLFI, 183.7 GANGHOFFER, 196.4, 198.17, 210.66 GARBARINO, 159.43, 171.57, 178.77, 190.30 GASTI, 102.11 GAUDEMET, 20.43, 28, 28.18, 50.16, 69.62, 62.63, 70.65, 75.82, 76.84, 84.108, 88.118, 89.120, 153.6, 155.11, 165, 170.57, 173.64, 175.67, 176.69, 177.75 GIARDINA, 102.11, 131.31, 148.96, 158.34, 175.68 GIGLIO, 17.37, 19.40, 66.54, 68, 68.59, 69.62, 117.51 GIUFFRÈ, 181, 182.3, 189.29 GORIA, 25, 25.11 GOTOFREDO, 34, 69.63, 70.64, 74.79, 75.82, 76.84, 77.86, 77.90, 78.92, 80.98, 82.104, 83.105, 84.108, 86.111, 87.114, 88.118, 90.126, 91.128, 93, 93.140, 94, 94.145, 95.151, 96.156, 125, 125.11, 127, 127.21, 136.58, 147.95, 173.65, 199.24, 201.32, 202.37 GRADENWITZ, 85.110, 86.111, 186.16 GRELLE, 22.3, 148.96, 175.68 GUARAGNI, 129.26 GUARINO, 153.7, 181, 181.1, 181.2 GUARNERI, 185.14 GUARNERI CITATI, 9.19, 56.30 GÜNTHER, 45.9
237
Indice degli Autori
H HACKL, 84.108 HEBERDAY, 206.46 HEERING, 210.65 HIS, 195.2 HONORÉ, 154.7, 159.47 HÖPFFNER, 139.65, 140.74
11.25, 14.29, 15.33, 19.41, 28.19, 28.20, 51.16, 56.30, 57.31, 58.36, 59, 59.38, 60.39, 62.44, 63.48, 68.60, 69.62, 70.65, 71.69, 72.70, 72.71, 73.73, 73.75, 79.93, 83.107, 84.108, 85.110, 86.111, 90.125, 91.128, 93.139, 93.141, 96.154, 96.155 LIVA, 4.9 LIZZI TESTA, 30.23 LURASCHI, 117.53, 160.50 LUZZATTO, 83.106
J M JONES, 1.2, 1.3, 17.37, 34.33, 44, 44.6, 75.81, 77.87, 82.102, 89.119, 97.159, 132.38, 132.46, 134, 134.54, 135.56, 138.64, 144.84, 158.34, 159.42, 159.46, 159.47, 160.48, 171.58, 178.79, 195.2, 195.3, 196.7, 200.24, 201.28, 205.45, 208.54, 211.69
K KARLOWA, 183.8 KASER, 2.5, 11.25, 15.33, 50.16, 60.39, 63.48, 71.66, 71.69, 72.71, 84.108 KIPP, 2.7, 11.25, 60.39, 69.62 KORNEMANN, 195.3 KOSHAKER, 182.6 KRÜGER, 124, 124.8, 144.85
L LAURIA, 10.21, 26.16, 31.28, 57, 57.32, 71.66 LAZZARINI, 117.51 LEPELLEY, 196.7, 205.44 LEPORE, 153.5 LEVI, 201.30 LEWIN, 197.10 LINARES PINEDA, 26.16 LITEWSKI, 5.14, 6.15, 9.19, 10.20, 10.23,
MANNINO, 139.66, 143.80, 153.6 MAROTTA, 100.2 MARRONE, 38.40, 86.112 MARTINDALE, 75.81, 82.102, 89.119, 132.38, 158.34, 159.42, 159.46, 159.47, 160.48, 171.58, 178.79, 205.45, 208.54 MASI, 91.131, 193.37, 195.2, 199.20, 200.24, 202.37 MAZZARINO, 131.30, 147.96, 173.66, 175.67, 175.68, 175.69, 210.65 MAZZOLI, 102.11 MEILLET, 14.30, 14.31, 62.45, 63.46 MELONI, 201.30 MEYER, 174.67 MILLER, 189.27 MOLÉ, 84.108 MOMMSEN, 4.10, 31.26, 75.82, 77.90, 87.114, 91.128, 107, 107.24, 123.5, 125.15, 126.17, 132.45, 134.52, 134.53, 137, 139.66, 140, 140.70, 144.84, 145, 145.88, 145.89, 155, 155.13, 175.67, 176.71, 177.76, 178.80, 197.12, 200.24, 202.37, 209.57 MORRIS, 75.81, 82.102, 89.119, 132.38, 158.34, 159.42, 159.46, 159.47, 160.48, 171.58, 178.79, 205.45, 208.54
N NAGL, 155, 155.14, 156.22, 173.65
238
Altri studi di diritto romano tardoantico
NASTI, 189.28 NAVARRA, 37.37, 69.62, 88.117, 112, 112.37
O OLIVER, 17.37, 66.54 ORESTANO, 8.17, 9.20, 10.23, 15.33, 15.34, 17.37, 19.40, 38.42, 50.16, 56.29, 57.31, 58.35, 61.41, 63, 63.48, 63.49, 66.54, 68, 68.58, 69.62, 71.66, 71.68, 71.69, 72.71, 81.100, 88.117, 107, 107.22, 182.6
P PADOA SCHIOPPA, 9.19, 50.16, 56.30, 69.62, 73.73, 73.74, 73.75, 84.108, 85.110, 88.118, 89.121, 93.139, 93.141, 94.144, 94.146, 95.148, 95.153 PALANQUE, 132.42, 153.6, 175.67 PERGAMI, 4.9, 11.24, 12.25, 32.29, 33.31, 47.11, 78.90, 87.114, 88.116, 93.138, 100.3, 111.35, 113.42, 125.16, 137.58, 137.59, 137.60, 138.63, 142.77, 142.79, 144.84, 145.87, 151.1, 152, 152.2, 154.10, 171.57, 174.66, 175.67, 182.4, 186.18, 186.19, 201.31, 203.38, 204.42 PETRETTI, 34.33, 44.6 PHARR, 75.82, 88.116, 89.119, 93.139, 94.143, 95.152, 141.76, 147.95, 209.56 PIAZZA, 117.53 PIETRI, 88.118 PIETRINI, 113, 113.41, 116, 116.49, 153.7 PIGANIOL, 75.82, 200.24, 208.50 PROVERA, 61.41, 96.158 PUCHTA, 183.9 PUGLIESE, 38.39, 84.108, 86.112 PULIATTI, 25.12, 25.14, 43.1, 44.5, 175.68, 211.67, 211.70, 211.71
R RAGGI, 50.16, 85.110, 193.38 RAMPAZZO, 21.1 REGELSBERGER, 183.8 REGGI, 15.32, 63.47, 71.68 REISCH, 208.49 ROTONDI, 73.76
S SARGENTI, 1.3, 2.6, 3.9, 20.42, 40.46, 54.27, 70.65, 74.79, 76.84, 76.85, 91.131, 95.147, 99, 100.2, 101.7, 102.9, 102.10, 103.13, 104.14, 104.15, 104.16, 105.19, 107.23, 107.26, 108.27, 108.28, 108.29, 109.30, 109.31, 110.32, 110.33, 111, 111.34, 112, 112.39, 113.40, 114, 114.43, 114.44, 114.45, 115, 115.47, 116.48, 117, 117.52, 118, 118.54, 119, 149.98, 151, 155.12, 160.50, 201.30, 211.72 SAVIGNY, 183.9 SCAPINI, 9.19, 10.23, 56.30, 58.37, 69.62, 73.73, 73.74, 74.77, 74.78, 94.142, 94.144 SCHERILLO, 2.4, 2.5, 2.6, 11.25, 22.2, 50.16, 52.21, 54.27, 54.28, 60.39, 73.76 SCHLOSSMANN, 183.8 SCHULTEN, 195.3, 196.7, 205.45, 206.46, 207.47, 212.74 SCHULZ, 182.5 SCHWARZ, 182.6 SCIALOJA, 183, 184.10, 184.11, 186.17 SEECK, 31.26, 75.82, 77.90, 81.99, 86.111, 88.116, 89.119, 91.128, 95.150, 107, 107.25, 108, 123.6, 125, 125.12, 127, 127.20, 128.22, 135, 136.58, 139.66, 140, 140.71, 142, 142.78, 145, 145.90, 145.91, 146.94, 167.55, 171.58, 173.66, 176.72, 178.79, 198.18, 201.33, 205.45, 209.59 SERANGELI, 88.117, 200.24, 200.25 SESTON, 1.3 SILLI, 109.30
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Indice degli Autori SOLARI, 201.29, 202.35 SOLAZZI, 90.124 SORACI, 85.110, 89.119, 90.124, 92.136, 135.57, 139.66, 153.6, 159.43, 172.61, 173.65, 175.67, 201.28, 204.41, 210.62, 211.72, 212.73
VOCI, 178.77, 195.1, 195.2, 196.4, 196.5, 196.7, 198.17, 198.18, 205.42, 207.47, 208.49, 208.50, 209.58, 212.74, 214.77, 215.78 VOLTERRA, 160.50
W
T TALAMANCA, 153.6, 186.18 TRIANTAPHYLLOPOULOS, 84.108
V VARADY, 210.63 VERA, 88.117, 159.43, 205.44 VINCENTI, 12.26, 13.28, 37.38, 50.16, 60.40, 62.43, 74.77, 75.82, 76.84, 77.86, 84.108, 87.114, 88.117, 88.118, 89.121, 90.126, 96.155
WALDSTEIN, 176.70 WENDT, 183.8 WENGER, 11.25, 45.7, 45.8, 50.16, 60.39 WIEACKER, 182.6 WINDSCHEID, 183.8, 183.9, 186.16 WLASSAK, 12.27 WUBBE, 104.17, 113
Z ZILLETTI, 84.108
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Altri studi di diritto romano tardoantico
Indice degli Autori
Finito di stampare nel mese di gennaio 2019 nella LegoDigit s.r.l. – Via Galileo Galilei, 15/1 38015 Lavis (TN)
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Altri studi di diritto romano tardoantico