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DIALOGHI SULL’UOMO Serie diretta da Giulia Cogoli
© 2019, Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia Proprietà letteraria riservata DeA Planeta Libri S.r.l. Redazione: Via Inverigo, 2 − 20151 Milano Progetto grafico: XxY studio www.deaplanetalibri.it Published by arrangement with The Italian Literary Agency Prima edizione e-book: ottobre 2019 ISBN 978-88-511-7548-1 www.utetlibri.it www.deagostini.it @DeAPlanetaLibri @DeAPlanetaLibri @DeAPlanetaLibri @Utetlibri @UtetLibri @UtetLibri Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione
rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Vittorio Lingiardi
IO, TU, NOI Vivere con se stessi, l’altro, gli altri
Indice
1. Con me 1. Quanti siamo? 2. Raccontarsi per ritrovarsi 3. Cervelli motivati 4. Dissociarsi 5. Personalità multiple 6. Sé-fenestrarsi 7. De-generarsi 2. Con te 1. Io a te 2. Due persone che parlano in una stanza 3. Imparare ad amare 4. Breve incontro 5. Convivere 6. L’insondabile sessuale 7. Ti do i miei occhi 8. Le vere pupille 3. Con gli altri 1. Mente estesa e anima mundi 2. L’intreccio armillare 3. Somiglianze 4. Haters 5. Psiche città aperta 6. Migrazioni e psicoanalisi 7. I tuoi occhi hanno un aspetto politico Nota Ringraziamenti Riferimenti bibliografici
a Luca
1. Con me
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior. Catullo Il mio io di adesso e il mio io di poco fa, siamo certo due. Michel de Montaigne Do I contradict myself? Very well, then I contradict myself, I am large, I contain multitudes. Walt Whitman
La prima convivenza è in noi. Ogni giorno ci imbattiamo in noi stessi. Non ci piacciamo, ci disapproviamo. Vogliamo cose diverse, spesso incompatibili: l’avventura e la sicurezza, la solitudine e la compagnia, la fermezza e il patteggiamento, la parola e il silenzio. Ogni convivenza con il mondo nasce dentro di noi perché il timbro della nostra vita dipende da come suona ogni elemento della nostra orchestra mentale. O da come sospende il suono. Per alcuni è un’orchestra da camera, per altri un’orchestra sinfonica. Dico orchestra perché mi piace l’idea che il risultato della convivenza interiore sia una musica e perché so che questa musica ci chiede di essere contemporaneamente direttore, strumento e strumentista. Potevo dire anche polis, comune, parlamento o condominio: la convivenza interiore ha infinite metafore, ciascuno trovi la sua.
La convivenza interiore ci chiede di stare tra gli spazi e attraversare ponti costruiti, più o meno faticosamente, sull’arcipelago della nostra identità. Non a caso la saggezza alchemica fece suo il detto zenoniano unus ego et multi in me, elegante manifesto della molteplicità interiore. Che si estroflette, in versione spadaccina, pragmatica e cooperativa, nel famoso “uno per tutti, tutti per uno” dei moschettieri di Dumas. Tra i mantra della convivenza, i miei preferiti vengono dalla Francia. Mi guidano nei paesaggi della mente e del mondo. Uno viene da Michel de Montaigne, il filosofo cinquecentesco dei caleidoscopici Saggi: «se parlo di me in vario modo, è perché mi guardo in vario modo». L’altro l’ho rubato a uno psicoanalista, Jean-Bertrand Pontalis: «ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi». Insomma, siamo fatti di molti. Partiamo da qui, dunque, dall’idea che un buon funzionamento psichico è il risultato dell’incontro, morbido o acceso, mai opportunistico, di molteplici stati del sé. Ci vogliono parecchi luoghi, tanti percorsi, molte motivazioni. Ogni monoteismo contiene un politeismo: «gli dei», diceva Nietzsche, «non morirono forse dal gran ridere quando udirono che un Dio voleva essere il solo?». Creature di confine, la nostra autenticità si giova dell’esperienza di essere spinti in più direzioni nello stesso momento. Non esiste modello del funzionamento psichico che non preveda il tema del conflitto. Per la psicoanalisi, il più classico dei conflitti è quello edipico, ovvero la convivenza della famiglia interiore a cui ci affida la famiglia in cui siamo nati. Da una parte il desiderio, il bisogno, la tenerezza e il legame; dall’altra la proibizione, l’esclusione, la rivalità, il timore della punizione. Gran parte della nostra vita mentale è impegnata a organizzare la convivenza tra parti che si oppongono, pensieri ambivalenti, direzioni incerte. Al tempo stesso tutto ciò che costruisce o strappa il tessuto della convivenza con noi stessi influenza le nostre scelte, i nostri comportamenti. Odi et amo. Raramente la direzione è una sola. E quando la percepiamo unica, sicura e orientata, è sempre il risultato di un lavorìo, spesso inconsapevole, ma incessante, affidato al complesso gioco dei nostri meccanismi di difesa e delle nostre strategie di adattamento, il cui compito è anche quello di garantirci negoziazioni non troppo rumorose perché alla superficie della nostra vita
tutto sembri, più o meno, tranquillo. Come faremmo, altrimenti, a convivere con l’ipoteca di separazioni e perdite che grava sulle nostre vite? All’inevitabile storia di dolore che ogni storia d’amore porta con sé? Questo libro, la sua scansione in tre piani – io, tu, noi –, nasce dall’idea che il mondo delle convivenze è inevitabilmente circolare e concentrico: se non so convivere con me stesso, dialogando con i molti che mi abitano, non vivrò bene con l’altro e con gli altri. E non saper vivere con gli altri comporta a sua volta conseguenze nefaste sulla vita interiore. Mi propongo di esplorare, da una prospettiva soprattutto psicoanalitica, alcuni temi che ci aiutano a percorrere la tensione, clinica ma anche sociale, tra identità e molteplicità. Con l’avvento di una società più fluida e lo sviluppo della vita online con le sue multiple connessioni, il tema non già di un Sé unico, centrale e coeso, ma di una molteplicità di sé, decentrata e dialogica, è sempre sotto ai nostri occhi. Pensiamo per un attimo alle “finestre” che apriamo e chiudiamo nel nostro computer o smartphone nel giro di poche ore: inizio a stendere una mail di lavoro, rileggo la lettera d’amore che ho scritto ieri ma non ho ancora spedito, preparo un bonifico, mando un messaggio a un’amica malata, curioso in un sito porno, ricevo una richiesta d’aiuto da parte di un’associazione umanitaria… La nostra velocità nell’aprire e chiudere queste finestre può essere una metafora dell’operazione implicata: accendere e spegnere parti della nostra mente. Può esprimere duttilità e velocità, può rivelare confusione e micromeccaniche dissociative. Aspiriamo alla totalità, quantomeno alla sintesi, ma combattiamo, o più serenamente ci abbandoniamo, all’inevitabile parzialità. Cerchiamo l’Uno, ma siamo in mille. La maiuscola (Sé) ci rassicura, ma le minuscole (sé) sono sempre al lavoro. La bontà della rotta risulterà da quel vento che, soffiando in una direzione, ci lascia ascoltare le molteplici brezze.
1. Quanti siamo? La formazione dell’identità è un processo che ci accompagna per tutta la vita. All’inizio grandi linee biologiche e ambientali definiscono un profilo che, col
tempo, la vita completa con pennellate più o meno decise. Quando siamo molto piccoli, la scoperta del mondo degli oggetti e la crescente distinzione tra il mondo esterno e il proprio sé, fisico e mentale, promuovono la costruzione della rappresentazione di ciò che siamo o crediamo di essere. Da questa rappresentazione dipende la nostra capacità di percepirci coesi nello spazio, di cogliere la nostra continuità nel tempo, di sentirci la vera “sede” delle nostre emozioni e i veri “autori” delle nostre azioni (una capacità che viene definita agency). Il nostro sé può essere definito un’organizzazione soggettiva di significati da noi stessi creati mentre ci spostiamo nel tempo. La mente può essere immaginata come un teatro, una costruzione unica e stabile, capace di portare in scena diverse compagnie e rappresentazioni. Il teatro è il nucleo dell’identità, gli attori sono i nostri sé multipli e discontinui che raccontano storie di oggetti intrapsichici e di relazioni interpersonali. Immediata e convincente è anche la metafora della pellicola cinematografica: fotogrammi discontinui che la proiezione rende continui, creando un “movimento illusorio” da cui scaturisce una ricchezza soggettiva maggiore della semplice somma dei fotogrammi. Inevitabilmente la ricerca di un’identità sicura dialoga con la discontinuità e la complessità delle nostre esperienze. Quante volte nei nostri racconti – se ne avete esperienza pensate a una seduta dal vostro psicoterapeuta – si intrecciano ciò che vorremmo essere, ciò che temiamo di diventare, ciò che non abbiamo il coraggio di ammettere che siamo… Possiamo pensare le parti che compongono il nostro mondo psichico come il teatro delle relazioni che abbiamo interiorizzato fin da piccoli, l’intreccio delle relazioni tra noi bambini (con le nostre sensibilità e il nostro temperamento) e gli stili comunicativi dei nostri genitori. Quante volte, dietro un attacco di autodisprezzo, c’è la voce di una madre severa; quante volte, dietro un amore infelice alla cui perdita non ci vogliamo rassegnare, c’è il silenzio di un padre lontano. I personaggi del nostro mondo interno si nutrono di figure del mondo reale assimilate per mezzo di identificazioni, idealizzazioni e così via: il teatro della convivenza mentale è composto da relazioni che transitano tra mondo esterno e mondo interno fino a renderli a volte indistinguibili.
Sigmund Freud aveva cercato di mettere un po’ di ordine, postulando l’esistenza di tre sistemi: inconscio, preconscio e conscio la cui convivenza risulta notoriamente difficile. Freudiana è anche una concezione strutturale della mente basata su un’altra tripartizione: Es, Io e Super-io. Una parte di noi desidera, un’altra proibisce e una terza, nel bel mezzo, patteggia, contratta, presidia i confini, cerca di reggere la situazione. Con parole semplici, è uno scrittore, Eshkol Nevo, in un magnifico romanzo, Tre piani, a spiegarci le regole di questo condominio psichico: «l’anima è divisa in tre piani. […] Al primo piano risiedono tutte le nostre pulsioni e istinti, l’Es. Al piano di mezzo abita l’Io, che cerca di conciliare i nostri desideri e la realtà. E al piano più alto, il terzo, abita sua altezza il Super-Io. Che ci richiama all’ordine con severità e ci impone di tenere conto dell’effetto delle nostre azioni sulla società». Col tempo, Carl Gustav Jung preferì invece parlare del Sé, usando questa parola piccola per descrivere una cosa grandissima: la totalità psichica. Se l’Io, per lo psichiatra svizzero come per Freud, è una funzione della psiche preposta alla mediazione dei conflitti mentali, il Sé è un insieme complesso di fenomeni psichici, un luogo di convivenza, direbbe Jung, al tempo stesso individuale e collettivo. Lo so, è un concetto un po’ astruso: ci torneremo. Ogni psicoanalista ha provato a raccontare le diverse convivenze psichiche con i suoi modelli e i suoi linguaggi. Chi in modo più astratto, chi immergendo nel corpo la storia dello sviluppo della psiche. Per esempio Daniel Stern, uno dei padri della moderna ricerca sull’infanzia, racconta, tappa per tappa, il nostro viaggio da un senso “emergente” del Sé, nei primi due mesi di vita, a un senso del Sé nucleare, poi intersoggettivo, quindi verbale e infine autobiografico. Non è mia intenzione trasformare queste brevi note sulla convivenza con noi stessi in un trattato di psicoanalisi, ma mi sembra interessante riportare cosa scriveva, una quarantina di anni fa, Heinz Kohut: «la mia ricerca contiene centinaia di pagine che trattano la psicologia del Sé; tuttavia non attribuisce un significato definitivo al termine Sé […] il Sé come centro dell’universo psicologico individuale è come tutta la realtà […] inconoscibile nella sua essenza». Pare dunque che per parlare di Sé, cioè di me, la prima virtù sia la capacità di tollerare l’incertezza. Mi faccio aiutare
da un altro psicoanalista, Christopher Bollas: per lui il Sé è la storia dei rapporti che abbiamo interiorizzato. «Je est un autre», direbbe Arthur Rimbaud. «Non c’è un solo fenomeno mentale unificato che si possa definire Sé […]. Il concetto di Sé dovrebbe essere riferito alle posizioni o ai punti di vista dai quali e attraverso i quali noi sentiamo, osserviamo e riflettiamo su esperienze distinte e separate del nostro essere.» E – attenzione – aggiunge: «Un punto di vista cruciale viene dall’altro che ci vive». Un pensiero che anticipa il cuore del prossimo capitolo. Insomma, anche se sembra così facile dire “Ecco, questo sono io”, al tempo stesso è quasi impossibile. Siamo imprendibili, la nostra mente è una stanza di specchi che riflettono la persona tranquilla che crediamo di essere. Uno degli psicoanalisti più amati, forse perché nasce pediatra, è Donald Winnicott. A lui dobbiamo una fantasiosa ma evocativa distinzione: il vero Sé e il falso Sé. In poche parole, il primo emergerebbe da un’interazione favorevole con una madre «sufficientemente buona», mentre il secondo prenderebbe corpo da una relazione patologica in cui la madre, anziché accogliere e dare senso ai gesti spontanei del bambino, lo “utilizza” come protesi narcisistica, per esempio “chiedendogli” di essere sempre compiacente e di adattarsi ai suoi bisogni. Così il bambino diventa una proiezione materna, l’attore di una vita non “autentica”. Ma poiché le cure che riceviamo da piccoli non sono mai tutte buone o tutte cattive, vero e falso Sé sono destinati a convivere. Bollas racconta di un suo giovane paziente che diceva di non avere un Sé e di sentire al suo posto «un orribile senso di vuoto». D’improvviso il ragazzo gli chiede: «Che cos’è il Sé?». «Potevo forse definirlo? Il tormento di quel giovane era così profondo che sentii la necessità di rispondergli.» Ma tutto quello che Bollas riesce a pensare è quanto fosse inafferrabile quella parola, e quanto misteriosa fosse l’angoscia per la parola Sé da parte di un ragazzo che non aveva la percezione del proprio Sé. Passavano i secondi e il silenzio intensificava questa angoscia. «Allora dissi che io avevo esperienza del suo Sé… Intendevo dire che avevo avuto un’esperienza interna di lui, diversa da quella avuta con gli altri pazienti.» E sulla base di questa esperienza dell’altro
che aveva ritrovato dentro se stesso, si sentì di dire che quel giovane ne era la causa e che quindi «aveva un Sé che lo toccava». Il Sé è plurale e polifonico. Noi non siamo un unico Sé (maiuscolo), ma organizzazioni del sé (minuscolo) discontinue e multiple tenute insieme da un sentimento conscio e, per così dire, “apparente” di continuità e coerenza; stati decentrati o non-lineari che alcuni autori definiscono sé multipli (multiple selves). Il fatto che la nostra mente sappia colmare i vuoti e creare rapidi collegamenti ci permette di fare esperienza di coesione e continuità. La metafora della mente come entità monadica è stata così sostituita da quella di un collage di organizzazioni e prospettive molteplici che si sovrappongono, in cui l’esperienza viene integrata grazie a un illusorio, ma necessario, senso di continuità. Quella di un Sé multiplo e non lineare, capace di farci abitare esperienze contraddittorie che non sempre sappiamo o possiamo integrare, è un’intuizione necessaria per spiegare la natura paradossale dell’esperienza umana: tenere insieme, attraverso negoziazioni continue, l’esistenza, spesso simultanea, di realtà contraddittorie. Se l’esperienza di sé origina in stati del Sé relativamente scollegati tra loro, allora, direbbe Philip Bromberg, acuto studioso della molteplicità psichica, l’esperienza di un Sé unitario è un’illusione acquisita e adattiva. Seguendo un’idea, inevitabilmente approssimativa, di “equilibrio psichico” potremmo dire che la molteplicità delle rappresentazioni di sé convive in forma di arcipelago con una loro rappresentazione integrata che cresce nel corso dello sviluppo ed è assicurata dal funzionamento dell’Io. Senza un centro di riferimento (il famoso “centro di gravità permanente” di Franco Battiato) la bellezza curiosa della molteplicità non regge. «Le cose vanno in pezzi, il centro non reggerà», dice il grande poeta irlandese William Butler Yeats. Con l’affermarsi di una visione decentrata del Sé, l’idea di inconscio è cambiata: non più una cipolla da sbucciare o un sito archeologico da riportare alla luce, ma un caleidoscopio, un’organizzazione complessa in cui una serie fissa di elementi, di forma e densità diverse, si riorganizza in strutture uniche con prospettive infinite. Dispositivi capaci di camminare fisiologicamente sul filo della patologia si alleano o si contrastano nel tentativo di domare la
complessità delle molte forze in gioco. A parte la condizione nota come “disturbo dissociativo dell’identità”, di cui tra poco parleremo, il morbido assemblaggio di “sé multipli”, che comprende parti più infantili e parti più adulte e adattive, non è per forza indicativo di uno stato mentale patologico. Alla fin fine il lavoro di un buon terapeuta è quello di aiutarci a raggiungere una fluida molteplicità quando diventiamo troppo rigidi e una solida integrazione quando diventiamo troppo liquidi. Di nuovo gli alchimisti: solve et coagula.
2. Raccontarsi per ritrovarsi L’idea di un Sé autobiografico mi fa pensare che uno dei modi migliori per “organizzare” la nostra convivenza interiore è imparare a raccontarci. Winnicott paragonava la psicoterapia a «una forma molto ampliata di anamnesi». L’anamnesi, letteralmente reminiscenza, è la nostra storia raccolta dall’esperto che la ascolta. Una storia che comprende informazioni sui precedenti ereditari, la salute dei familiari, lo sviluppo fisiologico e relazionale, le nostre malattie. Il collegamento tra anamnesi, memoria autobiografica e psicoterapia è evidente. Seduta dopo seduta ogni psicoterapia ci trasforma in cittadini della psiche, cioè della storia e della memoria. La terapia psicoanalitica, e in generale ogni psicoterapia che valorizzi il racconto del passato e l’acquisizione di un sentimento di continuità tra passato e futuro (non tutte lo fanno), è un tributo alla storia. Oggi, nel nostro mestiere, parliamo più volentieri di storie cliniche piuttosto che di casi clinici; e siamo consapevoli della differenza tra story (il racconto di una vicenda personale plausibilmente sospesa tra immaginazione e ricostruzione) e history (la storia codificata e disciplinata). Le storie che curano, diceva James Hillman. Curano perché, abituandoci alla capacità immaginativa e alla libera convivenza con la memoria (compresa la possibilità di dimenticare) e sviluppandosi attraverso un ascolto, danno una dimora alla nostra vita. Curano perché, prendendo ancora in prestito le parole di Eshkol Nevo, «i tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Niente
affatto! Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia». L’acquisizione o il miglioramento della competenza autobiografica rappresenta uno degli obiettivi primari della terapia ed è anche uno dei marker della sua efficacia. La poca competenza autobiografica è spesso dei pazienti traumatizzati, quelli che faticano a raccontare la loro storia, a ricordare il prima e il dopo; quelli che aderiscono a storie rigide e impersonali; quelli sopraffatti da esperienze non raccontate; quelli incapaci di trovare una narrativa abbastanza forte da contenere il dolore traumatico. La vita segreta delle parole, un film del 2005 della regista spagnola Isabel Coixet, è un ottimo esempio dell’intreccio fra trauma individuale e collettivo e del legame tra conoscenza della storia, racconto del trauma e sentimento di riparazione. Anche l’ultimo film di Almodóvar, Dolor y gloria, è un esempio dei passaggi segreti della storia di ciascuno di noi, delle ripetizioni e delle sorprese, delle tracce indelebili e delle loro trasfigurazioni, della memoria come sede dell’invenzione e, talvolta, del perdono. Introducendo il caso di Dora, Freud afferma che l’obiettivo di un trattamento, e forse l’indice del suo successo, è la produzione di «una storia clinica conseguente, intelligibile e non lacunosa». Che colpisca un individuo o un intero popolo, che sia episodico e deflagrante oppure continuativo e cumulativo, non c’è trauma che, per essere curato, non richieda una narrazione. Che sia un’epopea letteraria oppure il racconto che il bambino abusato riesce a fare (quando riesce) a un adulto affidabile, ogni trauma ha bisogno di una storia per essere elaborato. A maggior ragione quando è così precoce da non potere far altro che rifugiarsi, sotto mentite spoglie, nel corpo. Sarà per questo che assieme alla grande medicina della biologia ci dovrebbe essere sempre anche una medicina della narrazione. «Per essere noi stessi», scrive Oliver Sacks, «dobbiamo avere noi stessi; possedere, se necessario ripossedere, la storia del nostro vissuto. L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé.» Chiamiamola come vogliamo – anamnesi, narrazione, reminiscenza – ma non trascuriamo mai la sua importanza.
Continuo a credere nella pratica della psicoanalisi non solo perché ci aiuta, con le sue teorie e i suoi modelli, a organizzare la difficile convivenza interiore, ma anche perché ci sostiene nella costruzione di un percorso maturativo, ci aiuta a narrare, o meglio a narrare a qualcuno che ci ascolta, e in definitiva a narrare con qualcuno («la parola è metà di chi parla e metà di chi ascolta», diceva Montaigne), le condizioni, le preferenze e le credenze entro cui si sviluppano i nostri molti sé. L’intento è quello di raggiungere una “verità narrativa” che ci permetta di organizzare la nostra esperienza, in un modo che sia plausibile e coerente, ma anche sufficientemente elastico e aperto all’imprevedibile come il mondo che ci circonda. Incertezza che riguarda anche il senso della propria autenticità (di paziente e di analista), e che dovrebbe spingerci a considerare con una certa cautela l’idea di aver finalmente dipanato la matassa della convivenza interiore. Il sommarsi delle nostre esperienze nel tempo, il succedersi dei cambiamenti e la comparsa degli imprevisti rendono l’autenticità necessariamente incerta e cangiante. L’inseguimento, la comprensione e l’accettazione di questa incertezza mutevole sono al centro del processo psicoanalitico. Ascoltare in analisi gli stati del sé facilita l’espressione delle nostre potenzialità. Rende sincero l’adattamento e facilita la convivenza.
3. Cervelli motivati «Il vecchio Groucho Marx per dirne una e… Joe DiMaggio e… il secondo movimento della sinfonia Jupiter e… Louis Armstrong e l’incisione di Potato Head Blues e… i film svedesi naturalmente… L’educazione sentimentale di Flaubert… Marlon Brando, Frank Sinatra… quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne… i granchi da Sam Wo’s… il viso di Tracy…» Molti di voi avranno già davanti agli occhi Woody Allen disteso sul divano che in Manhattan snocciola «le cose per cui vale la pena di vivere». Ma una cosa sono i motivi per cui vivere, altra sono le motivazioni che sostengono le nostre vite e muovono i nostri comportamenti: i sistemi motivazionali. Attorno a essi diversi approcci scientifici hanno costruito una
teoria che, in tema di convivenze interiori, ha parecchio da dirci. Si tratta di un modello multidisciplinare (teoria dell’attaccamento, psicoanalisi, psicologia cognitiva, psicologia evoluzionista, neuroscienze, infant research… un bello sforzo di convivenza anche questo, no?) messo a punto, negli ultimi trent’anni, da diversi autori. Del resto, come ci suggerisce Thomas Ogden, ciò di cui abbiamo bisogno in psicoanalisi è «una coesistenza inquieta di una molteplicità di epistemologie». È stato Joseph Lichtenberg a importare la teoria multimotivazionale in ambito psicoanalitico. Immaginando il Sé come un sistema sovraordinato che promuove, organizza e connette le diverse motivazioni alla base dei nostri comportamenti, Lichtenberg postula l’esistenza di cinque sistemi (sette, secondo il neuroscienziato Jaak Panksepp) associati a specifici correlati neurofisiologici e osservabili sin dalle prime fasi dello sviluppo infantile. Guardiamoli più da vicino. Uno è il sistema di regolazione psichica delle esigenze fisiologiche; un altro è il sistema di attaccamento-affiliazione; un altro ancora è il sistema esplorativo-assertivo; poi abbiamo il sistema avversivo di antagonismo e ritiro; e infine il sistema sensuale-sessuale. Insomma, stiamo parlando dei neurocircuiti che integrano aspetti psicologici ed emotivi fondamentali come la rabbia, la paura, la sessualità, la cura, la competizione. Nella prospettiva cognitivo-evoluzionista di Giovanni Liotti, i sistemi motivazionali sono il frutto dell’evoluzione darwiniana. Fondati su potenti tendenze innate, il loro funzionamento di base è difficilmente modificabile ma la loro espressione può essere plasmata dall’esperienza. È ancora Liotti a ricordarci la loro organizzazione gerarchica a tre livelli: un primo livello arcaico e non sociale, un secondo prevalentemente sociale e un terzo di tipo conoscitivo-intersoggettivo. I sistemi arcaici, primi a comparire nell’evoluzione umana, organizzano e regolano i comportamenti e le funzioni fisiologiche necessari al mantenimento dell’omeostasi corporea (respirazione, alimentazione, termoregolazione, sonno ecc.). L’architettura motivazionale si arricchisce poi di strutture e processi finalizzati alla protezione dai pericoli ambientali (attacco/fuga); all’esplorazione dell’ambiente; alla definizione di uno spazio sicuro (territorialità); al procacciamento del cibo (caccia e
raccolto); alla regolazione dell’accoppiamento sessuale (sessualità arcaica). Tutti questi sistemi sono connessi alle attività del cosiddetto cervello rettiliano (tronco encefalico, nuclei della base) sulle cui strutture poggiano i processi psicobiologici del secondo livello, più recenti dal punto di vista filogenetico, legati a sistema limbico e amigdala, volti a controllare le interazioni sociali tra membri che si riconoscono come appartenenti alla stessa specie. Il terzo livello è il più evoluto: coinvolge la neocorteccia e riguarda le strutture e i processi che hanno reso possibile la nostra evoluzione sociale e culturale. Oltre a regolare le funzioni sottostanti (rettiliane e limbiche) questo livello è infatti responsabile di processi più sofisticati quali la condivisione dell’esperienza soggettiva (intersoggettività), l’uso del linguaggio, lo sviluppo della coscienza, la cooperazione, la costruzione di un mondo di significati. Insomma è il cervello che ci porterà nel capitolo del “noi”. Tutte le teorie motivazionali concordano nel mettere in luce l’esistenza di sistemi – per esempio attaccamento, aggressività e avversione – che si attivano o disattivano in base ai bisogni e alle circostanze. Se una soddisfazione bilanciata delle nostre spinte motivazionali porta vigore e coesione al Sé, un’attivazione disarmonica può esitare in quadri e contesti psicopatologici. Siamo dunque di fronte a un altro fondamentale sistema di convivenza con noi stessi e quindi con gli altri. Inevitabili i conflitti motivazionali: pensiamo per esempio alla difficoltà di far convivere armoniosamente il sistema della sessualità (curioso, esplorativo) con quelli della cura e dell’affiliazione (responsabili, tranquilli, protettivi). È proprio a partire da un contrasto motivazionale (avventura vs sicurezza) che Stephen Mitchell si domanda L’amore può durare? Domanda su cui torneremo nel secondo capitolo, quello del “tu”. Conflitti motivazionali possono germogliare anche nel contesto della relazione terapeutica. Lavorando con un paziente traumatizzato, per esempio, un terapeuta troppo accuditivo potrebbe far riemergere vissuti legati a un originario attaccamento traumatico, favorendo così processi dissociativi. Un migliore assetto della relazione sarebbe invece promosso da una buona attivazione dei sistemi collaborativi e paritetici. Di nuovo sul piano del “noi”, provate a pensare a un gruppo di
lavoro (un esempio che mi riguarda da vicino: il mondo accademico) in cui qualcuno ha uno “sbilanciamento motivazionale” verso l’antagonismo. Il sistema cooperativo non avrà vita facile e si instaurerà un clima di competizione aggressiva, territorio di crescita per comportamenti e meccanismi di difesa più arcaici. La convivenza tra i nostri sistemi motivazionali e l’inevitabile conflittualità che ne deriva sono un elemento chiave del funzionamento psicologico. Di vitale importanza per un’espressione matura dei nostri assetti motivazionali è il contesto, capace di far precipitare la loro delicata architettura. Il dialogo tra i diversi sistemi è necessario non solo per il nostro benessere, ma anche per le nostre relazioni e il nostro stare al mondo in mezzo agli altri: familiari, colleghi, comunità, popoli, nazioni.
4. Dissociarsi Non possiamo parlare della convivenza con noi stessi senza parlare dei meccanismi di difesa, nostri principali collaboratori al mantenimento della sopravvivenza psichica quando è messa alla prova. Si tratta di processi psichici, spesso seguiti da una risposta comportamentale, che mettiamo in atto più o meno automaticamente per affrontare le situazioni stressanti e mediare i conflitti che si generano dallo scontro tra il nostro mondo interno, le nostre relazioni (reali o interiorizzate), le condizioni della realtà esterna. La cosa paradossale è che, proprio per “difenderci” dal collasso psichico, i meccanismi di difesa a volte finiscono per produrre strutture o risposte patologiche. La scissione, per esempio, cioè l’incapacità di integrare in un’unica immagine gli aspetti buoni e quelli cattivi di noi stessi o di altri, indicatore per antonomasia di una pessima convivenza interiore, è un meccanismo di difesa caratteristico della personalità borderline. Vi faccio un esempio, prendendo spunto dalla storia del mio giovane paziente Francesco; forse alcuni di voi si ritroveranno nel suo racconto sulla partita di calcio della squadra del cuore, quella che da bambino andava a vedere allo stadio col padre, che poi se ne andò di casa quando lui aveva
quindici anni. Finalmente arriva la serata della finale, la aspettava con ansia e entusiasmo e con gli amici si dà appuntamento a casa della sua ragazza. Primo tempo, la sua squadra passa subito in vantaggio. Francesco è entusiasta, abbraccia la ragazza, festeggia con gli amici, gli sembra la serata più bella della sua vita. La squadra conduce la partita per quasi tutto il secondo tempo – poi il disastro. In pochi minuti, gli avversari prima pareggiano e poi passano in vantaggio. Un rigore dubbio, concesso dall’arbitro. Sconfitta. In pochi minuti, tutto cambia. Francesco si arrabbia furiosamente con la ragazza, la accusa di essere distratta, poco coinvolta dall’esito della partita. Sente salire dentro di sé una collera tremenda, gli amici gli appaiono estranei, li maltratta. Nel racconto che mi fa in seduta, la serata più bella della sua vita diventa la più brutta. Odia l’arbitro, i giocatori della squadra avversaria, i tifosi dell’altra squadra. Scende per strada, deve prendersela con qualcuno… Una sperata vittoria che si trasforma in sconfitta spalanca in lui l’abisso difensivo della scissione: felicità/infelicità, gioia/rabbia, amore/odio, bianco/nero. Squadra che vince/squadra che perde. A causa di un funzionamento psichico poco flessibile, dominato da una rabbia antica mai elaborata, Francesco non riesce a integrare i sentimenti negativi causati dalla sconfitta con quelli positivi, quasi euforici, provati poco prima nei confronti degli amici e dalla ragazza. In un secondo scende la notte e il “tutto buono” si trasforma nel “tutto cattivo”. Si stringono gli anelli dell’io, del tu, del noi: la rabbia dentro di sé, il maltrattamento della ragazza e degli amici, il disprezzo per i tifosi dell’altra squadra che degenera in una rissa. Paradigmatica di un’esperienza traumatica è la risposta dissociativa. È il trauma psichico il più potente disorganizzatore della vita mentale: il suo impatto soverchiante produce fratture di compatibilità nel nostro mondo psichico. L’argomento, al confine tra psicoanalisi e neuroscienze, meriterebbe un libro a sé. Sul piano neurobiologico, spiega per esempio Allan Schore, la dissociazione riflette un fallimento nell’integrazione tra emisfero destro di livello superiore e inferiore e una disconnessione del sistema nervoso centrale dal sistema autonomo, con l’interruzione della capacità di riconoscere ed elaborare la percezione di stimoli esterni integrandoli con
stimoli interni (informazioni enterocettive provenienti dal corpo, dai marker somatici, l’“esperienza percepita”). Ne consegue un istantaneo collasso della soggettività e dell’intersoggettività. Gli affetti stressanti, in special modo quelli associati al dolore emotivo, non vengono quindi esperiti nella consapevolezza. Potremmo chiamarli stati “non-me”. Più di ogni descrizione scientifica, vale una storia vissuta. La traggo dal romanzo Never Mind di Edward St Aubyn. Leggetelo e capirete perché la dissociazione è stata anche chiamata “la fuga quando non c’è via di fuga”: «Che stai facendo?» chiese, ma il padre non rispose e Patrick era troppo spaventato per ripetere la domanda. La mano di suo padre lo teneva schiacciato contro il letto; il viso incastrato tra le pieghe del copriletto, Patrick non riusciva quasi a respirare. Fissò il bastone della tenda, sopra la finestra aperta. Non riusciva a comprendere quale forma stesse assumendo la punizione, ma sapeva che suo padre doveva essere molto arrabbiato con lui per fargli tanto male. Non sopportava il senso di impotenza che lo aveva travolto. Non sopportava l’ingiustizia subita. Non sapeva chi fosse quell’uomo: non poteva essere suo padre ad annientarlo in modo tanto spietato. Dal bastone della tenda, se fosse riuscito a raggiungerlo, avrebbe potuto guardare l’intera scena comodamente seduto, proprio come suo padre guardava lui, dall’alto. Per un istante, Patrick ebbe la sensazione di essere lassù ad assistere con distacco alla punizione inflitta da un estraneo a un bambino. Provò con tutte le forze a concentrarsi di nuovo sul bastone della tenda, e stavolta la sensazione durò più a lungo: era seduto lassù, le braccia conserte, appoggiato alla parete. Poi di nuovo sul letto, con uno strano senso di vuoto, sopportando il peso di non sapere che cosa stesse succedendo. Poteva sentire suo padre che rantolava, e la tastiera del letto che sbatteva contro il muro. Da dietro la tenda con gli uccelli verdi vide un geco che faceva capolino e si fermava, immobile, all’angolo tra le due pareti, accanto alla finestra aperta. Patrick si protese verso la lucertola. Stringendo i pugni fino a trasformare la propria concentrazione in un filo del telefono steso tra di loro, Patrick svanì dietro la pelle del geco. Il geco doveva aver capito, perché in quel preciso istante sgusciò fuori dalla finestra e lungo il muro esterno della villa.
Quel geco è la dissociazione. Può spaccare la nostra mente come difesa puntuale dal dolore emotivo e fisico, ma può anche lentamente organizzarsi come sistema, quasi uno stile di personalità, pur di difendersi dall’impatto di traumi cronici solitamente di tipo intrafamiliare, quelli che lo psicoanalista inglese Masud Khan chiama traumi cumulativi e lo psichiatra olandese Bessel van der Kolk definisce “atmosfere traumatiche”. Il ricorso pervasivo alla dissociazione in chi ha dovuto confrontarsi con eventi micro- o macrotraumatici, oltre a produrre delle falle nel senso di continuità della propria identità, contribuisce a sviluppare uno stato di ipervigilanza come se
un pericolo si potesse presentare da un momento all’altro. Episodi traumatici isolati possono produrre risposte biologiche e comportamentali puntuali che non coinvolgono necessariamente la totalità dell’identità personale. L’abuso, il maltrattamento, la trascuratezza cronici possono invece avere un effetto più pervasivo sui nostri processi psicobiologici. Quando le persone che si occupano di noi, le nostre “basi sicure”, sono al tempo stesso i perpetratori del trauma, la nostra vita psichica e affettiva si trova nella condizione paradossale e devastante di essere affidata a qualcuno che sappiamo essere inaffidabile. Come possiamo definire la dissociazione? Come uno stato in cui l’individuo subisce un’alterazione, più o meno drastica, della coscienza, dell’identità, della memoria, della percezione dell’ambiente. Durante lo stato dissociativo, la coesione e l’interrelazione delle informazioni complesse che costituiscono quel flusso di stati e di dati che definiamo coscienza si interrompono. I fenomeni dissociativi possono essere più o meno intensi. A un estremo potremmo collocare esperienze dissociative di lieve entità “difensiva”, presenti anche nella vita di tutti i giorni, come sognare a occhi aperti, dimenticare dove abbiamo parcheggiato l’auto, attraversare piccoli momenti di distacco dalla realtà; all’estremo opposto troviamo invece forme conclamate di disturbo dissociativo, condizioni di pieno collasso delle funzioni integrative dell’Io. Mentre scrivo, leggo che è accaduto ancora: un genitore ha “dimenticato” in auto il proprio bambino, che è morto di caldo, disidratato. È quasi impossibile dire qualcosa di sensato di fronte a un fatto terribile e in parte misterioso come questo. È come se un buco, un vuoto dissociativo, inghiottisse una funzione mentale, la sicurezza della memoria affettiva. Un corto circuito del cervello che riesce a cancellare per ore la cosa più importante della nostra vita. Si verifica una dissociazione tra due modi di funzionare della memoria. Quella affettiva si blocca, quella procedurale prosegue a svolgere i suoi compiti. Difficile dire quale errore cognitivo o quale orrore emotivo possano mandare in tilt la rete complessa della memoria al punto da produrre in modo totalmente involontario la morte di un figlio, di qualcuno che dipende proprio dalla nostra attenzione. «L’energia di cui il cervello dispone», scrive Arnaldo Benini da una prospettiva neurocognitiva,
«non è sufficiente a tenere attivi simultaneamente tutti i meccanismi della coscienza e della memoria. Un compito prevale sempre sugli altri. Pensare ai propri figli chiusi in macchina al sole dovrebbe avere la preminenza assoluta: ma il criterio con il quale, nei meccanismi della coscienza, un compito prevale sugli altri, è sconosciuto.» Potrebbe essere casuale, aggiunge; oppure una tremenda coincidenza di eventi sfavorevoli che porta i meccanismi cerebrali a determinare un comportamento in modo svincolato dall’attenzione e dalla volontà. Come se la “coscienza” del genitore, e di conseguenza il bambino, fossero entrambi “vittime” del cervello. Lo studio della dissociazione ci spinge a considerarla un costrutto composito. Alcune forme dissociative sono più riconducibili alla disgregazione della memoria, della coscienza e dell’identità; altre si esprimono con manifestazioni somatiche, quali disturbi della sensazione, dei movimenti e delle altre funzioni corporee. Sono chiare, e la cronaca di tutti i giorni ahimè lo testimonia, le implicazioni relazionali e sociali di questa frattura nella convivenza dell’individuo con se stesso.
5. Personalità multiple Considerato per molto tempo una rara e misteriosa entità psichiatrica, il disturbo dissociativo dell’identità, un tempo chiamato disturbo di personalità multipla, viene oggi descritto nel quadro delle patologie postraumatiche. La quasi totalità degli individui che sviluppano un disturbo dissociativo ha storie documentate di traumi ripetuti ed estremi avvenuti per lo più prima dei nove anni. Anche i sopravvissuti a esperienze traumatiche diverse dall’abuso infantile (per esempio, catastrofi naturali, procedure mediche molto invasive, guerre, torture) reagiscono sviluppando reazioni dissociative. Ripetute dissociazioni possono dare luogo a una serie di entità psichiche separate, o stati mentali, che possono evolvere in sistemi semi-autonomi: gli “stati di personalità”. Il passaggio tra questi stati di coscienza è chiamato switching. L’esperienza soggettiva di una persona affetta da un disturbo dissociativo è l’esatto opposto di un’esperienza di sé integrata e armoniosa nelle sue varie
componenti. In una situazione non dissociativa, per esempio, i movimenti del corpo sono sentiti come propri, le informazioni percettive vengono sintetizzate in un’unica esperienza integrata di ciò che sta accadendo e i sentimenti, anche quando misti o ambivalenti, sono vissuti nella loro connessione. In presenza di un disturbo dissociativo, invece, alcuni o tutti questi processi diventano in qualche modo alieni. La perdita di un senso del “me” può essere accompagnata da angoscia acuta o, al contrario, da un’inaspettata calma o indifferenza. È importante che il terapeuta tenga un ritmo di lavoro “controllabile” dal paziente, così da tenere a bada angosce sopraffacenti e possibili ritraumatizzazioni in nome dello svelamento della “verità storica”. I pazienti con sintomi dissociativi importanti fanno comunemente esperienza delle cosiddette “tre realtà”. La prima è la realtà oggettiva, sulla quale tutti più o meno concordiamo. La seconda è la realtà soggettiva, ciò che è reale per la coscienza e l’esperienza di un determinato individuo. La terza realtà è quella vissuta dagli alter (ma non sempre dal loro “ospite”): un paesaggio interno, talvolta chiamato inscape, dove i diversi alter fanno esperienza l’uno dell’altro nell’abitare insieme questo spazio, in un modo che è molto diverso da quello con cui le persone vivono gli altri nella prima realtà. Per una persona sopraffatta da eventi traumatici, gli alter rappresentano la “soluzione” per abitare realtà alternative più tollerabili. Trattato magistralmente da Alfred Hitchcock, il tema dell’identità nelle sue forme sdoppiate, multiple, perdute ricorre in molti suoi film, tra cui Io ti salverò, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale, Marnie. Ma è in Psycho, con la descrizione (affidata alla fine del film a uno psichiatra) della personalità dissociata e psicotica del protagonista Norman Bates – ora se stesso, ora la madre morta –, che Hitchcock costruisce una delle sue più drammatiche rappresentazioni. Anche la mente non traumatizzata, o non gravemente traumatizzata, contiene aspetti microdissociativi. Ci aiutano a vivere e facilitano la convivenza con noi stessi. La nostra psiche, infatti, è una configurazione di stati di coscienza mutevoli e in dialogo continuo che richiede la capacità di “stare tra gli spazi”. «La salute», scrive Bromberg, il cui libro più noto si
intitola proprio Standing in the spaces, «non consiste nell’integrazione; la salute è la capacità di rimanere negli spazi tra realtà diverse senza perderne alcuna. È questo, secondo me, il significato di accettazione di sé e anche di creatività – la capacità di sentirsi uno in molti [corsivo mio].» Se possiamo definire la mente come una relazione tra i diversi stati del sé e la funzione dissociativa, sarà la stabilità di tale relazione a consentirci di fare esperienza di quella continuità che chiamiamo “Io”. In poche parole, «la molteplicità è la nostra prima caratteristica; l’unità è la seconda», affermazione che Bromberg riprende dallo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon per sintetizzare il proprio pensiero. Sapersi muovere tra i diversi scenari del sé è dunque la capacità, di una persona in salute, di oscillare psichicamente, in modo creativo e continuo, tra l’imprevisto, la curiosità e la necessità di difendersi. Ma quando la nostra mente si dissocia non per navigare tra le molte realtà che la compongono o con cui entra continuamente in contatto, bensì per difendersi da gravi traumi che ne minacciano l’integrità, allora la modalità dissociativa si cronicizza. La differenza tra un sé sano e molteplice e un sé diviso tra personalità multiple sta proprio nella capacità di “convivenza” tra le diverse parti. Giovanni Liotti lo spiega benissimo: Nelle personalità multiple, i “membri del club” che continuamente si scioglie e si ricostituisce sono, per effetto delle esperienze interpersonali traumatiche […] troppo pochi: versioni irrigidite, quasi tragicamente caricaturali, di sé salvatore, di sé persecutore, di sé vittima; versioni di sé, inoltre, prive delle sfumature, delle articolazioni e delle lievi varianti che caratterizzano le molteplici rappresentazioni di sé da cui la maggioranza degli esseri umani continuamente prende le mosse per “narrare” sé a se stesso e agli altri.
La dissociazione perde la sua funzione adattiva, gli affetti vengono isolati e congelati, la separazione tra stati del sé diviene inflessibile e rigida. E come nello Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde – e in molti altri strani casi della vita patologica – la possibilità di transitare con fluidità e coscienza tra gli spazi della mente, tra passato e presente, è preclusa.
6. Sé-fenestrarsi
Con l’avvento della vita online il tema della molteplicità è esploso. «La vita reale non è altro che una finestra in più, e in genere nemmeno la migliore»: questa affermazione estrema, pronunciata più di vent’anni fa da uno studente americano, si è rivelata per certi aspetti profetica. Che le nostre giornate siano tutte un aprir e chiudere finestre, un passaggio continuo tra l’offline e l’online, è innegabile. Non si tratta però delle finestre del poeta Rilke («Non sei forse tu, finestra, la nostra geometria, forma così semplice che senza sforzo circoscrivi la nostra vita immensa?»). Anzi, temo abbiano significato opposto. Rilke dedicava poesie alle finestre perché pensava dessero forma al mondo, porzioni di realtà in piccoli quadri di luce e chiarezza. Finestra, tu, misura dell’attesa, tante volte colmata, quando una vita con impazienza è tesa verso una vita amata. Tu che separi e attrai, cangiante come il mare, − d’un tratto specchio che ritrai il nostro viso con tutto quanto appare; esempio di libertà insicura nell’impatto con la sorte, forma che dai misura all’esterno troppo forte.
Sono così le finestre del computer, aperte sulla vastità del mondo? O sono finestre di consultazione bulimica, di onnipotente evasione? Windows: l’invenzione del sistema a finestre del computer nasce per rispondere alle necessità di movimento tra diverse applicazioni. Potremmo considerarlo una metafora del sé come sistema psichico multiplo e distribuito, un sé decentrato che può “esistere” in molti mondi e impersonare ruoli diversi nello stesso istante. Gran parte della vita che viviamo al/nel computer facilita esperienze “nonlineari” capaci di generare stati della mente e organizzazioni del sé diversi da quelli che sperimentiamo nella vita di tutti i giorni. È un bene o un male? Forse entrambe le cose: nella dimensione virtuale possiamo perderci, svuotando di senso la vita reale; ma la rete può anche essere usata per navigare in parti di noi che altrimenti non ci concederemmo di esplorare. Le
relazioni “persona-macchina-persona” e il modo in cui la tecnologia si è inserita nei nostri processi di pensiero e di rappresentazione sono un fenomeno così rilevante che non possiamo ignorare la loro capacità di produrre neo-identità. La domanda cruciale è se queste trasformazioni implicheranno una revisione dei nostri concetti di relazione e relazionalità. L’avvento di internet e dei social network portava con sé l’idea che la vita online avrebbe arricchito le nostre identità, alimentato le nostre conoscenze, permesso di sperimentarci nella molteplicità. Ricordo un ragazzo terrorizzato dal contatto fisico e dalla sessualità che, grazie a una chat di incontri, trovò il coraggio di parlare di sé a una ragazza sconosciuta e “virtuale”. Dopo mesi, sfidando le proprie paure, le chiese di incontrarla… e, tutto sommato, vissero felici e contenti. Ricordo le e-mail che mi scriveva una giovane paziente abusata da bambina: per molto tempo, di “quelle cose” riusciva a parlare solo via mail, mai in mia presenza. Oggi teniamo troppe finestre aperte contemporaneamente e passiamo troppo in fretta da una all’altra. I più giovani a volte faticano a distinguere i diversi livelli di realtà. Ci muoviamo su un piano orizzontale, tralasciando la dimensione verticale, la ricerca di profondità e senso. L’orizzontalità è diventata un funzionamento mentale, portatore di un finto benessere che promuove dipendenza e ci sottrae dalle relazioni incarnate. «Il computer è una piccola scatola che contiene altre persone»: la frase che Allucquère Rosanne Stone, teorica dei media e performer, scriveva nel 1995 con tono profetico e celebrativo si è trasformata in una dannazione all’isolamento. La connettività istantanea rischia di soppiantare l’introspezione. Persi nella rete, abbiamo abbandonato il corpo e il cuore. In giapponese la parola corrispondente a cuore è kokoro. Gli stessi caratteri indicano anche “senso”, “spirito”, “affetto” e “decisione”. Se perdiamo il cuore perdiamo anche il significato e la capacità di sentirci attivi e vitali. Perdiamo la rappresentazione della nostra interiorità. Per questo, come afferma Sherry Turkle in un bel libro intitolato La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale, una delle conseguenze della vita passata sui social è un senso di inautenticità e un più complicato rapporto con se stessi e con il mondo. Non solo. Come vedremo nel capitolo del “noi”, il rifiuto della profondità e della complessità, la fuga nella
semplificazione hanno giocato un ruolo determinante nella diffusione dell’odio sociale.
7. De-generarsi La moltiplicazione delle convivenze interiori è avvenuta anche nel campo dei generi e delle sessualità. Una volta le cose erano (apparentemente) più semplici, cioè binarie: maschio o femmina, uomo o donna, eterosessuale o omosessuale. Ma la realtà, si sa, è fatta di sfumature (speriamo non tutte di grigio). Sfumature che, rare volte, per esempio negli stadi cosiddetti “intersessuali” (quando il neonato presenta caratteri sessuali sia di maschio sia di femmina), mettono in crisi persino l’anatomia. Qualche volta, invece, nelle cosiddette “disforie di genere”, un tempo sbrigativamente chiamate “transessualismo”, mettono in crisi la congruenza tra il sesso con cui si nasce e il senso di appartenenza al genere che “dovrebbe” corrispondergli (cioè quando l’individuo – bambino, adolescente o adulto che sia – sperimenta una sofferenza significativa perché il genere a cui sente di appartenere, uomo o donna, non coincide con quello con cui è nato/a, maschio o femmina). Sia chiaro, non esiste una sola identità trans*: le esperienze di vita che si raccolgono sotto questo termine ombrello, che usiamo per comodità espressiva, sono varie e articolate. Ci sono persone che si identificano con un sesso opposto a quello di nascita, altre che non si riconoscono nel binarismo maschio-femmina, altre che non si riconoscono in alcun genere (agender). Per alcune l’adeguamento tra la propria identità di genere e il sesso (con percorsi che prevedono interventi chirurgici e/o cure ormonali) è vitale, per altre invece non è importante. Transessualismo, genere atipico, incongruenza di genere, genere non binario sono esse stesse definizioni in transizione. Invece, quando usiamo l’espressione “non conformità di genere”, ci riferiamo in generale a esperienze in cui l’espressione del proprio genere non coincide con le norme e le aspettative sociali. Per esempio bambine che si comportano da “maschiacci” o bambini che si comportano da “femminucce”; ma anche una donna adulta che tiene i capelli molto corti e preferisce vestirsi sempre in
jeans, maglietta, scarpe da tennis. Perché tutte queste puntualizzazioni? Per spiegare che, con gradazioni e modalità diverse, tutti noi, fin dalla nascita, ci troviamo a “costruire”, tra biologia e cultura, una convivenza, più o meno bellicosa, di tratti, stili, ruoli di genere. Fondamentale capire se la costruzione di questa convivenza riguarda soprattutto l’identità (chi sono?), il ruolo (come voglio essere?) o la performance (come voglio apparire?). Se volete farvi un’idea veritiera della “finzione” del genere, guardate su Netflix la prima stagione della serie Pose, ispirata a Paris is Burning, il documentario del 1990 di Jennie Livingston che racconta i significati sociali e simbolici del genere come performance. Con la sua trama edificante, melodrammatica, sovraeccitata, così autenticamente “finta”, Pose (mai s’erano viste tante attrici afro e trans* in un’unica produzione) è una fiaba postdisneyana sulla lotta radicale che le persone trans* devono compiere, con i mezzi a disposizione, per diventare se stess*. Pose mostra anche in modo efficace gli esordi postmoderni della fluidità di genere, la verità d’invenzione del transessualismo, la durezza traumatica dello stigma. C’è poi un’altra domanda, e questa volta non riguarda il nostro genere ma l’orientamento sessuale: chi mi piace, chi desidero, di chi mi innamoro? Una convivenza con i percorsi del desiderio che, più o meno serenamente, può “stabilizzarsi” in senso etero- o omosessuale oppure rimanere aperta alla bisessualità, delineando così un altro piano di convivenza interiore. Dai lirici greci alle ricerche di Alfred Kinsey, dai turbamenti del giovane Törless agli imprevedibili percorsi erotici della queerness contemporanea, l’idea di una sessualità “lineare”, capace di procedere tutta la vita senza negoziazioni interiori, senza imprevisti e scossoni, è un’opzione del tutto teorica. Lasciamo da parte l’orientamento sessuale e torniamo a parlare dell’identità di genere. Un concetto, e soprattutto un’esperienza, che può presentarsi come una “sovversione”, per usare un termine caro a Judith Butler, filosofa tra le più attente al tema del gender, oppure, in modo meno radicale, come un morbido assemblaggio di identificazioni. Il nostro modo di “esprimere” il genere si muove infatti tra varie identificazioni, dato che nella psiche coesistono rappresentazioni di sé connotate secondo il proprio genere (sono un uomo “maschile”, sono una donna “femminile”), secondo il genere
opposto (sono un uomo “femminile” o “effeminato”, sono una donna “maschile” o “mascolina”), oppure prive di connotazioni di genere (sono una persona gentile, sono una persona distratta, e così via). Come convivere, dunque, con le sfide del genere? Con la nostalgia o la trasformazione, la somiglianza o la differenza, la rigidità o la fluidità? Costa fatica, ma la vita dovrebbe insegnarci a diventare noi stessi senza cadere nella trappola delle scelte obbligate, riuscendo a integrare le tensioni psichiche e culturali che il genere porta con sé. Nella mia esperienza di terapeuta ho incontrato persone intente a cercare un’identità che le facesse sentire a proprio agio con l’idea che avevano di se stesse e del proprio genere, spesso al di là del binarismo maschio/femmina. Altre, a partire da un’esperienza di smarrimento (dalla confusione di ruolo alla disforia di genere), mi hanno chiesto di aiutarle a raggiungere una posizione di certezza basata sull’anatomia. Non sempre è possibile elaborare, o quantomeno tollerare, la malinconia che deriva da ciò che non abbiamo, da ciò che non siamo. La consapevolezza della complessità non deve distrarci dall’importanza di un adeguato funzionamento dell’Io. Concetti quali “identità multiple”, “generi fluidi”, “sé discontinui” sono opzioni teoriche affascinanti ma, per non rimanere accademiche, devono sempre fare i conti con la vita di tutti i giorni e le risorse psicologiche a disposizione. Sigmund Freud parlava di mascolinità e femminilità attribuendo a questi termini significati variabili, riferiti sia ai caratteri biologici sessuali primari e secondari, sia a quelli psicosessuali dell’attività e della passività, sia a quelli socialmente assegnati, nelle varie culture, agli uomini e alle donne. Anche se spesso sottolinea che nell’individuo non troviamo mai mascolinità o femminilità allo stato puro, bensì una mescolanza di entrambi i caratteri, Freud ha una visione funzionale del sesso in relazione alle differenze anatomiche: «l’anatomia», dice, «è il destino». Negli anni trenta e quaranta, le psicoanaliste Karen Horney e Clara Thompson, anticipando le posizioni di alcune teoriche femministe degli anni ottanta, come Carol Gilligan e Irene Fast, affermano che le differenze tra i generi sono invece una creazione fondamentalmente culturale e che i ruoli di genere alto non sono che un’“assegnazione” di significati sociali alle differenze biologiche. Dalla fine
degli anni sessanta in poi, i gender studies ci hanno obbligato a ripensare le dimensioni del maschile e del femminile in modo più libero rispetto agli obblighi anatomici, agli stereotipi sociali e alle posizioni teoriche di una psicoanalisi ormai datata. Negli ultimi anni, poi, le scienze biologiche e le neuroscienze hanno fornito un quadro assai più complesso delle differenze sessuali. Le ricerche di Laura Erickson-Schroth e gli eleganti articoli di Claire Ainsworth o di Robert Sapolsky mostrano, a fronte dell’estrema variabilità della realtà “naturale”, come una secca dicotomia maschile/femminile esista solo sul piano concettuale e linguistico. Maschile e femminile sono aggettivi che, semplificando realtà più complesse, attribuiamo agli oggetti, agli atteggiamenti e alle persone. Grazie anche a questi studi, sono stati fatti molti passi avanti nella comprensione delle relazioni intersoggettive e delle diverse identità e sessualità, contribuendo, per esempio, a ridurre il controllo della cultura patriarcale sul mondo delle donne e delle persone non eterosessuali. È sempre più evidente l’importanza di ricondurre i concetti di “maschile” e “femminile” a un equilibrio psichico interno al soggetto e non solo alle aspettative sociali. Come molti prima e meglio di me hanno sottolineato, il concetto di genere andrebbe dunque inteso come un campo di forze, il risultato di una costruzione individuale a partire dalle tensioni culturali e psicologiche che di volta in volta lo determinano. Il conflitto tra chi vede il genere e la sessualità come prodotti del contesto socioculturale (costruzionismo) e chi li vede come caratteristiche personali stabili, tendenzialmente trans-culturali e trans-storiche (essenzialismo), si va col tempo stemperando. L’identità di genere (cioè il senso di appartenenza al genere maschile, femminile o a un loro intreccio più complesso, e la propria identificazione come uomo, donna o qualcosa di diverso rispetto a queste due polarità) è un’esperienza nucleare costitutiva dell’individuo, radicata nella biologia, modellata dall’esperienza personale, filtrata dalla cultura sociale. Il risultato di una convivenza ricchissima e complessa.
2. Con te
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. Eugenio Montale If equal affection cannot be, Let the more loving one be me. Wystan Hugh Auden Io-ti-amo. La figura non si riferisce alla dichiarazione d’amore, alla confessione, bensì al reiterato proferimento del grido d’amore. Roland Barthes
Ora che sappiamo qualcosa di più sulla convivenza interiore siamo pronti al salto verso l’Altro. Che forse non è un salto, ma un passo. Verso il mondo e al tempo stesso in un’altra stanza interiore. Un confine impalpabile, un contatto. Come se fosse possibile separare l’io e il tu. Se penso al rapporto io-tu mi viene in mente un’immagine da un film di Tsai Ming-Liang, The Hole, il buco. In due appartamenti, uno sull’altro, di un grigio condominio di Hong Kong, vivono un uomo e una donna. Due esistenze ritirate in un mondo inospitale, caldissimo e umido, ininterrottamente battuto dalla pioggia. Due solitudini che non si incontrano mai, vite passate in stanze tristi, tra oggetti inerti. «Così dobbiamo incontrarci
divisi / Tu là – io qui /», ha scritto Emily Dickinson, «la porta appena socchiusa / e tra di noi l’oceano – e la preghiera / e il bianco nutrimento / della disperazione.» Finché un idraulico, con una riparazione maldestra, crea una crepa, un passaggio pavimento-soffitto tra i due appartamenti. Il buco, appunto. Nella scena più emozionante del film, la donna si sveglia di soprassalto da un incubo. Mentre respira affannosamente, dall’alto, dal buco, scende il braccio dell’uomo che le porge un bicchiere d’acqua. Poi la tira su, facendola passare attraverso l’apertura: è il momento del contatto e dell’incontro. In questo capitolo parleremo della convivenza con l’altro soprattutto dal punto di vista del legame amoroso. Ma alcune delle leggi che governano la relazione – il ritmo sempre inquieto della relazione, il lavoro continuo della sintonizzazione, la tensione al riconoscimento reciproco, il tentativo di negoziare e la spinta a riparare i momenti di rottura – appartengono a ogni rapporto significativamente fondato sull’io-tu: la genitorialità, l’amicizia, la psicoterapia, l’insegnamento.
1. Io a te Inevitabile partire dal Simposio. Platone descrive Eros come un demone che afferra gli amanti e sta tra la sapienza e l’ignoranza. Una spinta verso il bello e verso il bene, ma al tempo stesso capace di ordire complotti contro le cose belle e le cose buone. Una forza invincibile che si abbatte sulle prede, così Sofocle lo descrive nell’Antigone. Ma ecco Diotima che racconta a Socrate la nascita di Eros, figlio di Poros, l’Ingegno, e di Penia, la Mancanza: Anzitutto, è sempre povero, e ben lungi dall’essere morbido e bello, come crede il volgo; piuttosto è ruvido e irsuto e scalzo e senza asilo si sdraia sempre per terra, senza coperte, dorme a cielo scoperto davanti alle porte e alle strade, e possiede la natura della madre, sempre dimorando assieme all’indigenza. Secondo la natura del padre, d’altro canto, ordisce complotti contro le cose belle e le cose buone: invero, è coraggioso e si getta a precipizio ed è veemente, è un mirabile cacciatore, intreccia sempre delle astuzie, è desideroso di saggezza e insieme ricco di risorse, passa tutta la vita ad amare la sapienza, è un terribile mago, e stregone, e sofista. E la sua natura non è né di un immortale né di un mortale: in una stessa giornata, piuttosto, ora è in fiore e vive, quando trova una strada, ora invece muore, ma
ritorna di nuovo alla vita grazie alla natura del padre; ciò che si è procurato, peraltro, a poco a poco scorre sempre via, cosicché Eros non è mai né sprovvisto né ricco, e d’altro canto sta in mezzo fra la sapienza e l’ignoranza.
Il mito della nascita di Eros contempla due dimensioni contrapposte che, come vedremo, sono fondamentali per leggere la relazione tra sé e l’altro. Da una parte la mancanza da cui si genera il desiderio, lo stato di perenne bisogno e ricerca, la fame e la spinta al possesso, che può essere distruttiva; dall’altra la tensione alla bellezza, alla saggezza, alla generatività. «In una stessa giornata», Eros «ora è in fiore e vive, ora invece muore.» È ordine cosmico e disastro naturale. Creato dopo il Caos, la Terra e gli Inferi, Eros è la luce nella notte dalle ali nere (Esiodo), la forza che scioglie le membra, sconvolge petto e mente (Saffo), daimon che cattura e rapisce, mania divina e selvaggia (di nuovo Platone, nel Fedro). Le polarità amorose delimitano un campo paradossale: «Se tutto è imperfetto in questo imperfetto mondo, l’amore invece è perfetto nella sua assoluta e squisita imperfezione», dice lo scudiero Jöns nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman. In questo capitolo incontreremo spesso le due facce di Eros: la loro convivenza compone l’equilibrato squilibrio dell’io-tu. La cui rottura implica il dolore della perdita e a volte, purtroppo, la rabbia della guerra. Ma quando ti offro il mio amore che cosa ti sto offrendo? Lasciamo i miti greci per approdare al Novecento. Tra i più grandi filosofi del “tu” è Martin Buber, viennese del 1878. In linea con la fenomenologia husserliana, Buber postula l’esistenza di due modi di essere nel mondo: uno monologico (Io-Esso) e uno dialogico (Io-Tu). Significa che possiamo distanziarci dal mondo, da Esso, considerandolo nella sua oggettività “esterna”; oppure possiamo entrarci in relazione, cogliendo nell’oggetto un soggetto, un Tu, cui rivolgerci. Per esempio, quando osservo un albero, posso percepirlo secondo i suoi aspetti fisici: «posso classificarlo in una specie», scrive Buber, «riconoscerlo solo come un’espressione della legge», «un oggetto nello spazio e nel tempo». Oppure posso entrarci in relazione, «e allora l’albero non è più un esso […] ma uno stato d’animo», «un corpo vivo davanti a me», una presenza di fronte alla mia esistenza. Lo sa bene, e lo dice
meglio, Vivian Lamarque in questa poesia inedita di cui trascrivo i primi versi: Confondere i bei nomi degli amanti? Pronunciarli al momento giusto con il nome sbagliato? Chiedo perdono all’Olmo quando lo chiamo Faggio e al Frassino quando lo chiamo Acacia, quanto si offese il Carpino quando non lo riconobbi: a voltarsi di là umiliato l’aiutò il vento. Mi perdoni il Larice che l’ho chiamato Abete e l’Abete che l’ho chiamato Pino, alle conifere tutte chiedo scusa e perdono chiedo ai fidanzati.
Lo stesso vale per gli altri umani: un altro può essere un Esso, «un lui o una lei, limitato da altri lui e lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete del mondo», o può diventare un Tu che esiste solo quando io sono in relazione con lui/lei. Se sei tu, non sei un oggetto come un altro. Il Tu non ha una connotazione precisa nello spazio e nel tempo perché vive nel tempo e nello spazio infinito e cangiante della relazione. Il rapporto Io-Esso, l’oggettivazione del mondo – o il mondo ridotto a cosa – permette di “nominare” il mondo, ma anche di esercitare un controllo, addomesticarlo, usarlo per i propri scopi. Così il mondo rimane fuori, “esterno”. Tra soggetto e oggetto si crea una barriera (il soffitto/pavimento nel film di Tsai MingLiang). Facciamo esperienza del mondo ma non entriamo in relazione. Siamo soli e «in tempi malati succede che il mondo dell’esso […] separato e arenato […] prevale sull’uomo». Il superamento di questa condizione avviene grazie a un movimento del soggetto: rivolgersi. L’io rivolge la parola al tu, e lo fa con tutto il suo essere. Il rapporto Io-Tu, che d’ora in poi scriverò in minuscolo, diventa reciproco, non più strumentale. «Qui io e tu sono uno di fronte all’altro vicendevolmente liberi, in una reciprocità che non è coinvolta in alcuna causalità e non ne è segnata.» È il tu che rende l’io davvero libero, perché è nella relazione che il soggetto incontra se stesso.
Questa fondazione del soggetto nella relazione trova in Luce Irigaray, filosofa e psicoanalista belga, un’interpretazione originale e poetica. Nel suo saggio Amo a te, Irigaray suggerisce una distinzione tra le affermazioni “ti amo” (je t’aime) e “amo a te” (j’amie a toi). Se la prima può implicare appropriazione e sottomissione (il “ti amo”, scrive Irigaray, spesso coincide con il “ti prendo”, “ti faccio mio/a”, dove il tu diventa un possesso, un “a me”), la seconda, “amo a te”, segna un rapporto tra soggetti dove l’a indica il riconoscimento di un movimento e di una differenza, permettendo il rispetto della libertà dell’altro. Il toi non è più l’oggetto di una frase transitiva, e quindi possesso del me, ma il destinatario del mio amore che provo per te, e che dono a te. È il riconoscimento di un «un luogo di pensiero, di pensare a te, a me, a noi, a ciò che ci riunisce e ci allontana, all’intervallo che ci permette di divenire, alla distanza necessaria per l’incontro. […] L’a te passa attraverso il respiro che cerca di farsi parole». Il discorso dell’innamorato, ci insegna Roland Barthes, procede per frammenti. «L’amore consiste nel dare ciò che non si ha», incalza Jacques Lacan, poiché «dare ciò che si ha è la festa.» Ci sono amori che inseguono il desiderio e si nutrono di ostacoli e amori che inseguono la sicurezza e si nutrono di progetti. Sono i due ingredienti della relazione amorosa. Il loro equilibrio, i loro tempi, il loro dialogo sono lo spartito della sua possibilità di sopravvivenza. Spesso la relazione io-tu si trova prigioniera tra la Scilla del possesso prepotente e la Cariddi della noia deprimente. Ed è qui che entrano in gioco la personalità, la biografia, le caratteristiche primarie del nostro attaccamento. Lo stato di innamoramento, “questo patimento dell’anima”, come dice Platone, è anche una condizione psicobiologica (con risvolti relazionali fino alla patologia). Perché psicobiologica? Senza dilungarmi, mi limito a citare un interessante lavoro di Andreas Bartels e Semir Zeki, intitolato I correlati neurali dell’amore materno e romantico. Dopo aver studiato e misurato l’attività cerebrale con la Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), i due neuroscienziati sono giunti a sostenere che questi due tipi di amore attivano regioni del cervello specifiche per ciascuno, ma anche aree comuni legate a sistemi di gratificazione e ricche di ossitocina e vasopressina (ormoni
coinvolti nelle dinamiche del parto, nelle risposte di entrambi i genitori alle esigenze della prole, nel facilitare l’attaccamento fiducioso, il contatto fisico e l’interazione sociale). Ossitocina e vasopressina agiscono anche disattivando regioni associate a emozioni negative, al giudizio sociale e alla capacità di valutazione e discernimento, facilitando il superamento della distanza tra le persone e legandole attraverso l’attivazione di sentimenti positivi e dei circuiti legati alla ricompensa e all’appagamento. L’innamoramento è una condizione psichica di pienezza e soddisfazione estatica biologicamente rinforzata. «Da chimico un giorno avevo il potere», canta Fabrizio De André sulle parole di Edgar Lee Masters, «di sposar gli elementi e di farli reagire. Ma gli uomini mai mi riuscì di capire, perché si combinassero attraverso l’amore, affidando ad un gioco la gioia e il dolore… Fui chimico e no, non mi volli sposare, non sapevo con chi e chi avrei generato. Son morto in un esperimento sbagliato, proprio come gli idioti che muoion d’amore, e qualcuno dirà che c’è un modo migliore…» Aveva dunque ragione Freud ad affermare che le forze dell’amore sono «assolutamente esplosive» e che dobbiamo «prestare loro un’attenzione scrupolosa, come un chimico». E aveva ragione Jung quando diceva che l’amore «può portare alla ribalta potenze insospettate della psiche dalle quali sarebbe preferibile guardarsi», che «una semplice proiezione può dare origine all’amore con tutto il suo potere irresistibile», «illusione accecante» capace di «strapparci dal nostro naturale corso di vita». Soprattutto aveva ragione a chiedersi: «è Dio o il diavolo?». Il desiderio di intimità e fusione implica la riattivazione di esperienze e fantasie infantili legate alla strutturazione dei confini del Sé nelle nostre relazioni primarie. Inevitabilmente riaffiorano le tematiche, e le angosce, che hanno accompagnato il nostro sviluppo e che parlano di dipendenza, frustrazione, ricerca di accudimento, invasione, penetrazione, incorporazione. La convivenza emotiva “con te” abita dunque un territorio incandescente. È una fiera da ammansire prima di tutto dentro di noi, un cammino irto di ostacoli. Imparare a percorrerlo riuscendo a far convivere il mio desiderio e la tua libertà può essere l’esercizio di un’intera vita.
«L’incontro d’amore», scrive Nadia Fusini, «rivela lo straordinario avvento della faccia», i suoi trucchi e le sue verità. In questa frase si condensano i molti aspetti che definiscono l’esperienza amorosa. Innanzitutto il potere dell’immagine, e poi lo scambio di sguardi e attenzioni, la sincronicità di azioni che nella coppia di innamorati assume le caratteristiche di una vera e propria danza di attese e anticipazioni. Il richiamo al volto evoca anche la relazione madre-bambino con tutta l’importanza, sottolineata dall’infant research, del rispecchiamento facciale e della sintonizzazione tra le espressioni mimiche che caratterizzano la coppia avviata a sviluppare la capacità di negoziare, in maniera sana e reciproca, i significati e le dinamiche dell’interazione. Si pensi, per esempio, a come l’esperienza dell’innamoramento sia connessa ai nostri apprendimenti infantili memorizzati come ricordi episodici, rappresentazioni procedurali e schemi senso-motori che implicano modi di guardare e di distogliere lo sguardo, piccoli gesti, posizioni del corpo, o in generale ricordi inseriti all’interno di reti che contengono e sono attivabili dagli elementi informativi più disparati: colori, sensazioni, odori, pensieri e, appunto, azioni. È qui infatti, nella prima relazione madre-bambino, che si vanno disegnando i confini all’interno dei quali il futuro adulto riuscirà a gestire l’inevitabile conflitto, caratteristico di ogni relazione intima, tra il bisogno di aprirsi e donarsi all’altro e, al tempo stesso, di mantenere i propri confini, una propria separata identità. L’innamoramento rappresenta un momento fortissimo di riattivazione affettiva, mentale e fisica in cui i sentimenti di esaltazione, ansia e felicità creano una sorta di sbandamento. In questo senso può essere inteso come uno stato di “malattia”. Mettendo a repentaglio i nostri confini ci fa sentire deboli e bisognosi dell’altro, riportando in primo piano il corpo e la rappresentazione di sé come incompleti e bisognosi. Per capire come amiamo è fondamentale osservare lo spazio che, tenendoci insieme, ci separa. Se è riempito proiettivamente, oppure svuotato difensivamente. Se viene negoziato. Se è elastico e mutevole. Se è cancellato, invece, a favore dell’adesione. Riconoscere il “tu” significa sposare un principio di organizzazione psichica che mi permette sia di conoscere la mente dell’altro come fonte di intenzione e di iniziativa sia di sentirmi
conosciuto in modo che, scrive Jessica Benjamin, «le mie intenzioni abbiano un impatto su di te, e questo vuol dire che io sono importante per te […] condividiamo sentimenti e ci rimandiamo la nostra conoscenza reciproca; in questo modo abbiamo una consapevolezza condivisa». Si obietterà che la letteratura e il cinema sanno raccontare l’amore meglio della psicoanalisi. Vero, e infatti diffidate degli psicoanalisti che non vanno al cinema; ma riconoscete che la psicoanalisi ci viene in soccorso quando si tratta di riformulare clinicamente la varietà degli stati affettivi, misteriosi ma a tutti noi comuni, che di volta in volta chiamiamo eccitazione sessuale, desiderio erotico, infatuazione, colpo di fulmine, innamoramento, amor cortese, amore mistico, amour fou. Stati amorosi che solo grazie a un lavoro mentale – la fatalità dell’incontro non basta – si sviluppano in forme d’amore maturo cioè capace di integrare, in un legame fondativo, passione e tenerezza, fusione e separatezza. Quella capacità d’amore che il poeta Octavio Paz ha definito, in modo folgorante, l’intersezione tra il desiderio e la realtà. Amare è impresa più difficile dell’innamorarsi e altrettanto onerosa del lasciarsi amare. Richiede la capacità di spostare l’attenzione da ciò che sta in me a ciò che sta tra noi, qualcosa che non sono io e non sei tu, ma è lo spazio intermedio e comune dove si fondano, si incontrano e si affrontano le nostre soggettività. È faticoso, ci si perde in continuazione e richiede la capacità di rinunciare a parti di noi stessi. Ma, con Judith Butler, «tu sei ciò che io ricevo in cambio di questo disorientamento e di questa perdita».
2. Due persone che parlano in una stanza Riprendendo una frase dello psicoanalista inglese Masud Khan, potremmo dire che se la domanda di Montaigne era “Che cosa so?” e quella di Rousseau “Chi sono?”, la domanda di Freud era “Come sono ciò che sono e come posso saperlo?”. La risposta che si diede fu che per conoscere noi stessi e la nostra storia abbiamo bisogno dell’altro. Nella relazione terapeutica convivono più relazioni: una relazione reale (se un paziente chiede un bicchiere d’acqua è “solo” perché ha sete, se un
analista arriva in studio in ritardo è “solo” perché ha trovato traffico), l’alleanza terapeutica (c’è un accordo, più o meno esplicitato, sugli obiettivi e gli strumenti della terapia) e il transfert (la mia analista mi svaluta, del resto anche agli occhi di mia madre non valevo niente; oppure: questo paziente arriva sempre in ritardo e si dimentica di pagare, forse vuole “attaccare” le regole dell’analisi, come non aveva il coraggio di fare con suo padre che, da bambino, lo costringeva a regole inflessibili?). Avvolta nel ritmo delle rotture e delle riparazioni – un ritmo che attraversa ogni relazione duratura – la relazione terapeutica è un intreccio di voci e di livelli, una negoziazione continua tra i molti sé del paziente e del terapeuta. La stanza d’analisi è polifonica nel senso che il critico russo Michail Bachtin, negli anni trenta, attribuiva al romanzo dostoevskiano: il Sé come molteplicità di posizioni e parole in dialogo tra loro, personaggi che dialogano con altri personaggi, episodi che dialogano con altri episodi, le idee nel romanzo che dialogano con quelle esterne al romanzo. Negli anni sessanta una coppia di psicoanalisti franco-argentini, Madeleine e Willy Baranger, dà una bella definizione dell’incontro tra paziente e terapeuta: un campo bipersonale. È il teatro delle relazioni tra le figure che abitano il mondo interno del paziente e quello dell’analista, la convivenza interiore di ciascuno che si riflette nell’incontro con l’altro. E si trasforma in racconto a due voci: «due persone che parlano in una stanza», diceva Luciana Nissim. Il campo analitico non è la somma di due situazioni interne, ma qualcosa di nuovo che si crea tra due persone nell’unità che insieme costituiscono in seduta. La concezione monopersonale che aveva dominato il pensiero psicoanalitico nella prima parte del ventesimo secolo era legata al primato del mondo intrapsichico e pulsionale del paziente come oggetto di interpretazione da parte dell’analista. Col passare degli anni e lo sviluppo di nuove teorie, la psicoanalisi ha sempre più valorizzato la dimensione relazionale. Per Ronald Fairbairn, per esempio, il piacere non è l’obiettivo finale della pulsione, ma un mezzo per raggiungere il suo vero fine: la relazione con l’altro (secondo il famoso dictum «la libido non è primariamente pleasure-seeking, ma object-seeking»). In particolare gli autori
britannici della cosiddetta scuola delle relazioni oggettuali hanno avanzato negli anni sessanta l’ipotesi, oggi confermata, che una spinta alla relazione, non riducibile alla spinta pulsionale né di questa sostitutiva, sia una motivazione primaria del comportamento umano. Una motivazione, presente sin dai primi mesi di vita, che gioca un ruolo centrale nel costituirsi della personalità. In poche parole, la psicoanalisi nasce interessandosi prevalentemente delle vicissitudini intrapsichiche ma presto non può fare a meno di rivolgere la sua attenzione alle relazioni con gli “oggetti” significativi. E questo sia sul piano degli oggetti e delle relazioni interiorizzate (interazioni fantastiche tra il sé e gli oggetti interni, e anche degli oggetti interni tra di loro) sia sul piano degli oggetti e delle relazioni esterne, diciamo così “reali” e osservabili. Nell’ipotesi sempre più convincente che mondo interno e realtà esterna si influenzino reciprocamente. Oggi la psicoanalisi è permeata da una sensibilità che di volta in volta è stata definita interpersonale, relazionale, intersoggettiva. Inevitabilmente i suoi interlocutori si sono moltiplicati e la “purezza psicoanalitica” si è contaminata con altre forme di pensiero e di ricerca: l’attaccamento, l’infant research, il cognitivismo, le neuroscienze, i gender studies. Non è forse apprezzabile la coesistenza inquieta di molte epistemologie? È anche grazie alle scoperte di scienziati come Vilayanur Ramachandran, Vittorio Gallese e Giacomo Rizzolatti che alcune teorie psicoanalitiche sullo sviluppo infantile hanno trovato un sostrato biologico. Grazie ai loro studi abbiamo scoperto che, implicata nei processi empatici e nell’apprendimento, c’è una classe speciale di neuroni, i cosiddetti “neuroni specchio”, presenti negli esseri umani e nei primati a noi più vicini. Grazie a essi, riusciamo a sentire l’altro e possiamo apprendere osservando. Come il piccolo scimpanzé impara ad aprire le noci di cocco osservando gli altri membri del gruppo che lo fanno, il piccolo sapiens assimila preferenze e comportamenti dai suoi genitori (i componenti del suo gruppo). Negli esseri umani i neuroni specchio sono diffusi in tutto il cervello, dalle aree che presiedono all’attività motoria, a quelle del linguaggio, fino alle regioni che regolano l’espressione emotiva. Riconosco ciò che stai provando guardandoti negli occhi. Un meccanismo innato e biologico mi permette di sentire dentro di me quello che tu stai
sentendo. Freud diceva che poeti e scrittori arrivano prima degli scienziati. Come Wisława Szymborska: «Ascolta come mi batte forte il tuo cuore». Come Toni Morrison: «Toccami dentro e chiamami col mio nome». La ricchezza teorica della psicoanalisi nasce dal confronto con altre discipline, dalla letteratura alle neuroscienze. La sua forza clinica nasce dall’incontro tra verità storica (ciò che è successo) e verità clinica (ciò che ricordiamo, raccontiamo, interpretiamo). L’attività mentale è così, disomogenea, insatura. Quando un oggetto di ceramica si rompe, i restauratori giapponesi adottano l’antica pratica del kintsugi: per saldare la crepa, riunire i frammenti, usano oro liquido. Vale anche per le persone, non solo per le tazzine. È il lavoro del terapeuta quando, col metallo prezioso della relazione, trasforma in cicatrice le ferite del trauma: l’effrazione viene riparata e il pezzo, ora unico e irriproducibile, acquista più valore. Per saldare il passaggio dal primo al secondo capitolo di questo libro, il salto e al tempo stesso il legame tra l’io e il tu, non trovo parole migliori di quelle di Mitchell. «Si potrebbe considerare la matrice relazionale all’interno della quale ognuno di noi vive», scrive lo psicoanalista americano, «come un arazzo tessuto sul telaio di Penelope, un arazzo il cui disegno è ricco di figure che interagiscono. Alcune rappresentano immagini e metafore intorno alle quali si vive il proprio Sé; altre rappresentano immagini e fantasmi di altri, che inseguiamo all’infinito, o dai quali fuggiamo […]. Come Penelope, ognuno di noi tesse e disfa, costruendo il proprio mondo relazionale per conservare desideri, sospensioni, vendette, sorprese e lotte.» I pazienti iniziano l’analisi con frammenti di vita apparentemente separati (sintomi, problemi “reali”, ricordi traumatici, amnesie, affetti grezzi) e, insieme ai loro analisti, a poco a poco imparano a inserirli nello spazio psichico e nel suo campo di forze. Nascono così “le storie evolutive”, per le quali l’analista “archeologo” non basta. Occorre, dice Mitchell, anche un analista “cosmologo”. A metà del secolo scorso il tema della relazione diventa cruciale grazie all’apporto di due filoni teorici e di ricerca a cui abbiamo già fatto cenno: la teoria dell’attaccamento e l’infant research. Proposta da John Bowlby, la teoria dell’attaccamento sviluppa il concetto di legame integrando diverse
discipline: dall’etologia alla psicologia cognitiva. Secondo Bowlby, il neonato umano ha una predisposizione biologica a formare un legame di attaccamento con la madre o chi si occupa di lui. Fondamentali per lo sviluppo di questa teoria sono lo studio di Lorenz sull’imprinting nelle oche e quello dei coniugi Harlow sulle scimmie (che hanno mostrato come i cuccioli di scimmia preferissero un surrogato materno di pezza, che scalda ma non nutre, a un apposito surrogato di fil di ferro, che non scalda ma grazie a un macchinario può nutrire). Insomma, il legame che il piccolo sviluppa con la madre non deriva dalla capacità di quest’ultima di appagare le sue pulsioni orali. La ricerca di un caregiver come fonte di nutrimento o come dispensatore di calore e protezione nasce da spinte diverse. Le relazioni con le figure di accudimento vengono interiorizzate dal bambino e vanno a formare i cosiddetti “modelli operativi interni”, sistemi complessi in cui la disponibilità materna (o, per usare un termine di un’altra grande autrice della teoria dell’attaccamento, Mary Ainsworth, la sua «sensibilità») dà luogo ad aspettative positive della relazione tra me e l’altro. Per Bowlby, come per Winnicott (celebre la sua affermazione «there is not such a thing as an infant», cioè non esiste un bambino senza qualcuno che si occupi di lui, a maggior ragione se tale figura è assente!), si diventa soggetti solo nell’interazione con le figure di accudimento. Alle teorie di Bowlby l’infant research ha fornito prove empiriche. Gli studi di Beatrice Beebe, Frank Lachmann, Louis Sander, Daniel Stern, Edward Tronick e molti altri hanno infatti dimostrato che già dai primissimi giorni di vita i neonati hanno capacità percettive, di apprendimento e rappresentazione molto ricche, in grado di captare l’ambiente in cui crescono e di costruire un sistema di comunicazione con i genitori. Il mondo interiore del piccolo si costruisce nell’interazione: Sander ha mostrato come l’esperienza di sé si strutturi a partire dalle corrispondenze tra gli stati interni del bambino e la regolazione esterna fornita dalla madre o dal caregiver e scandita da sequenze interattive (l’addormentamento, l’allattamento, il gioco, e così via). Interattive, prevedibili e stimolate dal bambino. A partire dai tre mesi, per esempio, il piccolo cerca di indurre il genitore a “riprendere” le comunicazioni interrotte. Celebri a questo riguardo gli studi di Tronick sul cosiddetto still face
paradigm (se cercate online trovate dei video commoventi). Si tratta di esperimenti videoregistrati in cui bimbi di pochi mesi interagiscono con le loro mamme. All’improvviso, la mamma “congela” la sua espressione (still face) e oppone alle richieste del figlio un volto impassibile: all’inizio il bimbo cerca di comunicare con la mamma in ogni modo (urletti, sorrisi accentuati, sguardi insistenti sul volto materno); poi, non ricevendo risposta, entra in uno stato di frustrazione, piange e protesta. Spesso, a questo punto, mette in atto comportamenti per evitare la frustrazione: inserisce un dito in bocca, si tocca i vestiti, rivolge lo sguardo altrove alla ricerca di altre fonti di stimolazione. Negli scambi interattivi tra madre e bambino, così come in quelli tra terapeuta e paziente, ogni partner influenza in modo inconscio lo “stato di consapevolezza” dell’altro. E nella coppia, afferma Tronick, lo stato di consapevolezza di uno si espande per incorporare elementi di consapevolezza dell’altro. Tutti questi presupposti trovano una sintesi interessante nella teoria, elaborata dalla psicoanalista Jessica Benjamin, del Terzo come elemento che salvaguarda il rapporto tra due soggetti, impedendo la fusione che elimina le differenze. Per Benjamin, nella relazione tra madre e figlio, così come tra terapeuta e paziente, e in generale tra qualsiasi coppia di soggetti, il legame dà luogo alla formazione di un «terzo condiviso differenziante», un «nostro terzo» costruito da me e da te quando siamo in rapporto: condiviso perché non si basa sulle prerogative o regole di uno dei due, ma sugli scambi interattivi; differenziante perché regola l’interazione io-tu rispettando le differenze, impedendo che un soggetto inglobi o assorba l’altro. Il “terzo” diventa allora il punto d’incontro tra l’autoregolazione e la regolazione reciproca e questo fa sì che due soggetti possano differenziarsi con empatia e non con rabbia proiettiva. Benjamin parla anche di un «terzo ritmico» che si forma grazie alla sincronizzazione dei tempi degli scambi relazionali. Dalla regolazione dei cicli sonno-veglia durante l’accudimento del bambino alle interazioni paziente-terapeuta nel corso delle sedute, tutte le relazioni sono governate da un ritmo intersoggettivo che dà forma al legame. Il “terzo” è infine anche un «terzo morale», cioè la tensione verso un principio più ampio di correttezza e bontà che la coppia assume come sistema di legge per
regolare gli scambi e contenere l’aggressività e le componenti distruttive. La moralità della coppia assume la reciprocità come principio fondativo: sull’asse dell’intersoggettività il “terzo” è sempre il luogo in cui riconosciamo gli altri come “tu” nel senso di Buber. Non oggetti, ma centri di esistenza e sentimento separati, riconosciuti e capaci di riconoscere.
3. Imparare ad amare Dall’amore come relazione dell’Io con le sue fonti di piacere (Freud) all’amore come atto di riparazione (Klein), dall’amore come ricerca dell’oggetto (Fairbairn) all’amore come capacità di prendersi cura dell’altro (Winnicott), l’esplorazione del sentimento amoroso ha accompagnato il lungo cammino della psicoanalisi. Al di là delle diverse posizioni teoriche, lo studio delle forme d’esperienza amorosa assume un’importanza centrale nel lavoro clinico. Con le sue radici nell’attaccamento infantile e nella dimensione intersoggettiva, l’esperienza amorosa mette alla prova ogni grande tema della vita umana: la fusione e la separazione, la dipendenza e l’autonomia, la resa e la fuga, l’aggressività e la tenerezza, l’illusione e la realtà, il godimento e la cura… Quando la tensione tra queste dimensioni trova un equilibrio, quando la soluzione non è binaria, l’amore sta iniziando a fondare il suo spazio. La capacità di amare implica infatti un doppio spostamento: dall’individuale al duale e dal soggettivo all’intersoggettivo. Un compito complesso, in gran parte affidato al percorso evolutivo che inizia con la nascita. Sembra un paradosso, vista la difficoltà per l’adulto di stabilire una relazione intima soddisfacente, ma alla nascita la prima cosa che ci viene “richiesta” è quella di “saper amare” e di “lasciarsi amare”! Si tratta naturalmente di capacità che non possiamo esplicare senza l’aiuto dell’altro, di un genitore in grado di raccogliere e rispondere. Intessuto di biologia e di esperienza, di corpo e di cultura, questo amore a poco a poco diventerà uno stile, assumerà le sue forme speciali, porterà i segni della sua origine, con i suoi drammi, le estasi, le idiosincrasie. È qui che si iniziano a delineare i
confini tra capacità d’amare e patologia amorosa: l’amore e la sessualità come avventura di passione e conoscenza oppure come viaggio disperato. C’è un legame tra struttura della personalità e capacità di amare. Alcune personalità narcisistiche possiedono una ridotta capacità di investimento e abbandono amorosi: spesso non riescono ad avere relazioni oppure nei loro rapporti si sentono estranei e in qualche modo fraudolenti. C’è chi, guidato da tortuose, e non certo indolori, soluzioni inconsce, preferisce rivolgersi a oggetti irraggiungibili. Anche questo è un modo di amare, ma senza perdere il controllo fantastico dell’oggetto: tra le mani stringono le redini di un’infelicità amorosa che alimentano con un’illusoria pienezza d’amore. Un amore che rimane ideale, e per questo considerato eroico e speciale, l’unico possibile, certo migliore «dell’amore banale delle coppiette che la domenica vanno a far la spesa all’esselunga», come dice un mio amico per svalutare ciò che non vorrebbe sorprendersi a invidiare. Per la personalità borderline amare è un bisogno disperato di coinvolgimenti molto stretti: la presenza dell’altro è sempre richiesta, ogni incertezza o separazione muove vissuti abbandonici intollerabili. Molti autori hanno descritto le carenze di un ambiente di sostegno nella storia familiare di pazienti con funzionamento di personalità borderline. È proprio in questo sentimento di assenza dell’altro, e nella conseguente incapacità di richiamare delle figure parentali interne positive per calmare le violente oscillazioni emotive, che questa personalità pone una delle sue basi. Così, quando una relazione significativa è minacciata, l’altro è percepito non solo come disinteressato o lontano, ma come completamente perduto. Sentimenti brucianti di abbandono, rifiuto e solitudine possono intaccare la capacità di esaminare la realtà. Investimenti disperati nelle relazioni possono costituire un tentativo di compensare la mancata interiorizzazione di figure positive e rassicuranti e di controllare baratri di vuoto, solitudine, rabbia. Ma il difficile apprendistato amoroso non contempla solo le difficoltà narcisistiche nell’investimento emotivo e quelle borderline nella capacità di tollerare la frustrazione e i momenti di separatezza. I volti dolorosi che la malattia d’amore può assumere sono molti: l’amore isterico, captativo e infantile; l’amore fobico, con le sue condotte di chiusura, evitamento e fuga;
l’amore ossessivo, intellettualizzato e punteggiato da freddi cerimoniali; l’amore melanconico, tormentato da ciò che non sarà, ciò che non tornerà; l’amore maniacale, frammentato e megalomane, dove il silenzio dell’intimità è straniero. Su tutto questo si leva quello che è forse il più grande ostacolo psicopatologico alla possibilità di amare: l’universo perturbante delle psicosi schizofreniche, dominio di chiusura e ambivalenza, di “terrori senza nome” e sospettosità paranoiche, di intuizioni deliranti e bizzarrie fantastiche ormai dimentiche dell’alterità e di una realtà da poter condividere. La foga diagnostica mi ha spinto troppo in là; facciamo un passo indietro e torniamo al momento in cui l’io scopre il tu.
4. Breve incontro Ci sono due persone, e poi c’è la loro relazione. Non è una somma, non coincide. È una terza dimensione, quella che garantisce lo spazio per il riconoscimento reciproco. «Sopprimere la lontananza uccide», dice il grande poeta francese René Char. «Non di altro gli dei muoiono che dello stare in mezzo a noi.» Ho scoperto il significato della parola “reciproco” nel libro I bambini ci guardano di Franco Lorenzoni, di professione maestro. Viene dalle parole latine recus e procus: andare indietro, andare avanti. Ma prima c’è l’andare indietro, retrocedere per guardare l’altro più da lontano. Rivolgergli un’attenzione separata, creare uno spazio interiore, ritirarsi impercettibilmente per favorire l’incontro. C’è qualcosa del vivere con discrezione proposto dal filosofo Pierre Zaoui, l’arte di scomparire come piacere baudleriano di perdersi tra la folla, la gioia profonda e silenziosa di osservare, senza essere osservati, la persona amata mentre dorme, i propri bambini mentre giocano, gli amici mentre parlano. «Solo il silenzio nei confronti del tu», torna a dirci Buber, «il silenzio di ogni linguaggio, la tacita attesa nella parola non ancora formata, non ancora separata, non ancora espressa, lascia libero il tu.» L’incontro va tutelato, protetto dai rischi dello sfiguramento che, di volta in volta, anestetizza l’amata (o l’amato), la
idealizza, la svaluta, la perseguita, la trasforma in divinità o al contrario in povera cosa, mai davvero vissuta come altra, come soggetto che vive anche fuori dal magico cerchio del nostro amore. Per questo, oltre a quella travolgente dell’abbraccio, è quella della distanza l’altra figura cruciale dell’amore. «Noi quando amiamo abbiamo solo questo da offrire: lasciarci», ci ricorda Rilke, «perché trattenerci è facile, e non è arte da imparare.» Distanza e solitudine. Riusciamo a riconoscerci in questa riflessione di Winnicott? Ci è stato concesso, da piccoli, lo spazio per coltivare questa capacità? Sebbene molti tipi di esperienza contribuiscano alla formazione della capacità di essere solo, ve n’è uno che è fondamentale e senza il quale tale capacità non si instaura: è l’esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre. In tal modo la capacità di essere solo ha un fondamento paradossale, e cioè l’esperienza di essere solo in presenza di un’altra persona. […] Soltanto quando è solo (cioè: solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni a stimoli esterni.
All’inizio il tu non è che un’immagine. «Per prima cosa, noi amiamo un quadro», scrive Barthes. Werther si innamora di Carlotta vedendola incorniciata dalla porta di casa. Leopardi, ascoltando la voce di Silvia, compone l’immagine dell’innamorata con gli elementi incorniciati dalla finestra («il ciel sereno, / le vie dorate e gli orti, / e quinci il mar da lungi, e quindi il monte»). E questo è Dante che, nella Vita Nova, descrive l’incontro con Beatrice: «E avvegna che la sua imagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me». Le immagini di cui ci innamoriamo hanno un potere misterioso, dalle immagini siamo rapiti. Sono altro da me, ma anche altro da te. Il protagonista di un racconto di Julio Cortázar passa le giornate nella metro di Parigi, alle prese con un “gioco dell’incontro”. Se vede una donna che gli piace, le si siede di fronte, ma non la guarda in volto: si limita a sorridere al suo riflesso nel finestrino. Se il riflesso ricambia il sorriso, allora l’incontro ha luogo. A una donna che, dopo il riflesso, sta per allontanarsi, dice: «Non possiamo separarci così, prima di esserci incontrati». Non puoi allontanarti da me, portandoti via il tuo (mio) riflesso! Dopo una giornata passata con l’amante, a Laura, protagonista del
film Breve incontro, non rimane che sorridere al proprio riflesso nel vetro del finestrino, mentre il treno la riporta a casa. Ancora una volta sono le parole di Barthes a fornirci un indizio: «Nell’incontro, io mi meraviglio per aver trovato qualcuno che, con pennellate consecutive e ogni volta precise, porta a termine senza cedimenti il quadro del mio fantasma». Forse Proust non lo aveva capito? «Nelle persone che amiamo», scrive nel Tempo ritrovato, «c’è un qualche nostro sogno che non sempre sappiamo discernere, ma che perseguiamo.» Di quale sostanza sono composti questa prima immagine, questo riflesso, questo fantasma? A partire da Freud, la psicoanalisi ha sempre parlato dell’innamoramento come di un processo di idealizzazione, in cui l’Io allenta i suoi confini e proietta nell’altro una parte di sé, spesso per riparare una mancanza, colmare un’assenza. Nella formazione della coppia, ciascuno porta il proprio bagaglio di rappresentazioni e identificazioni, in particolare quelle che Daniel Stern definisce “dell’essere-con”: modelli operativi che abitano in noi fin dall’infanzia e sono stati ridefiniti e modificati dalle relazioni successive. Henry Dicks, un punto di riferimento negli studi psicoanalitici sulla coppia, parla della ricerca di una «complementarità inconscia» che permette di riscoprire aspetti perduti, forse scissi o rimossi, delle proprie relazioni primarie e che, nel coinvolgimento amoroso, vengono ri-sperimentati attraverso l’identificazione proiettiva. Scissione, proiezione, identificazione proiettiva… Di cosa stiamo parlando? Ci troviamo di nuovo nel campo dei meccanismi di difesa, cioè di quelle modalità di funzionamento psichico, più o meno “primitive” che – ignorando, dimenticando, minimizzando, proiettando nell’altro fino a influenzarne i comportamenti, frantumando o negando informazioni che provengono dalla realtà interna o esterna – ci aiutano a “sopportare” il dolore, la delusione, il fallimento, la perdita. Abbiamo visto nel primo capitolo quanto sia illusoria l’idea di un Sé unico. L’amore che non riconosce la molteplicità dell’altro inchiodandolo al ruolo stabilito dalle proprie aspettative ci fa sentire più sicuri nel breve periodo, ma alla lunga si rivela coercitivo e illusorio. Coercitivo perché impone all’altro un’identità, illusorio perché è frutto di un investimento rinnegato. A volte gli
amori romantici finiscono per essere deludenti, scrive ancora Mitchell, perché «la somiglianza si maschera da alterità». Siamo convinti di riscrivere il nostro passato, di evadere dalle nostre antiche prigioni, ma il partner che scegliamo, anziché portare il nuovo della libertà, ci riporta inconsapevolmente al dolore della ripetizione. Nella vita di una coppia che resiste nel tempo, la verità del riconoscimento reciproco è un compito comune, la possibilità di incontrare l’altro nella sua inattesa molteplicità riemergendo, per quanto possibile, dalla nebbia abitata dai fantasmi del nostro passato. Ma è davvero possibile conservare l’amore dopo questo riconoscimento? Oppure, come dice Jodie Foster in Ombre e nebbia di Woody Allen, «c’è un unico tipo di amore che regge: quello non corrisposto»?
5. Convivere Partiamo da una convivenza difficile, quella tra i due protagonisti di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. Impietosamente il regista svedese ci mette di fronte alla disintegrazione di un amore coniugale. Marianne e Johan, sposati da dieci anni, genitori di due figlie, sembrano una coppia ideale. La relazione va in pezzi nel momento in cui una giornalista li costringe a guardarsi allo specchio, ponendo domande sul loro rapporto. In un crescendo tragico, i due scoprono di essere analfabeti sentimentali, come si autodefinirà Johan a un certo punto. Si crea così una frattura apparentemente irreparabile che porterà violenza e sopraffazione. Eppure, tra le rovine della relazione, emergerà intatto il nucleo di un amore, un vincolo che li legherà fino alla fine. Che cosa ha reso analfabeti Johan e Marianne? Quando si sono conosciuti, racconta Marianne, erano soli e depressi: lei aveva perso un bambino poco dopo la nascita, lui era stato lasciato malamente dalla compagna precedente. Il loro legame nasce in una situazione di grande penìa, entrambi cercano nell’altro il rimedio a mancanze profonde, ciascuno vede nell’altro una soluzione ideale, la sicurezza contro il dolore e la solitudine. Nessuno dei due si rivolge all’altro come a un tu, ma come al lui o alla lei che dovranno curare le proprie ferite. Non c’è dubbio che molti rapporti inizino
così e chiaramente non tutti sono destinati al fallimento. Il problema di Johan e Marianne è aver sottovalutato, in nome di una soluzione ideale, gli aspetti reali del loro incontro. Voglio essere chiaro: l’idealizzazione è una componente inevitabile e necessaria dell’innamoramento. Ma quando è prolungata e difensivamente chiusa su di sé, nel transfert analitico come nelle relazioni amorose, ipoteca lo sviluppo di una relazione positiva. Quando è così, idealizzare l’altro significa, in ultima analisi, impoverirlo. Privarlo della sua complessità, fissarlo in un ritratto, confinarlo fino a comprimere la verità molteplice e cangiante: il tu non è riconosciuto nel suo divenire, gli si impone l’identità di cui abbiamo bisogno. Esistono tuttavia diverse forme di idealizzazione. Ce n’è una primitiva, per esempio quella del neonato per il corpo materno, che scinde e nega ogni aspetto “cattivo” e quindi non idealizzabile. Ma c’è anche un’idealizzazione matura che lascia spazio alla realtà dell’altro. Che ci consente di vedere l’altro come la persona bella di cui abbiamo bisogno per sentirci protetti, ma non ci impedisce di conoscere e amare le sue fragilità, e magari di prendercene cura. Come può sopravvivere una relazione d’amore se non è abitata da un sentimento reciproco di preoccupazione e responsabilità? Certo, vari aspetti della vita di coppia dipendono da un’immaginazione idealizzante: qualsiasi progetto, dal mettere su casa, magari acquistandola insieme, al desiderare un figlio, ha bisogno di una componente ideale. L’importante è che sia condivisa e costruita insieme. Il senso di essere fatti l’uno per l’altra è un mito fondativo della coppia: illusorio, ma anche reale. Come in tutti i miti, c’è qualcosa di vero: formandoci nella luce dell’idealizzazione altrui in qualche misura cerchiamo di diventare come l’altro ci vorrebbe. Se l’idealizzazione è un processo dinamico, capace di sopportare il movimento delle rotture e delle riparazioni e di rimanere aperto alle continue negoziazioni reciproche, allora sì potrà nutrire la convivenza amorosa. Dopo dieci anni di matrimonio Johan e Marianne scoprono di conoscersi poco. Cosa significa, dopo tanto tempo, scoprire di non conoscersi? Quali aspetti sono stati mascherati dall’idealizzazione? Caduto il velo dell’idillio, la prima cosa di cui prendono coscienza è di non avere mai avuto una vita sessuale. Sacrificando, con essa, ogni forma istintiva, compresa
l’aggressività. De-idealizzandosi, realizzano di aver depurato la loro relazione da ogni forza vitale.
6. L’insondabile sessuale La passione sessuale attraversa territori mentali solitamente separati dai confini tracciati, nel corso del tempo, dai nostri ricordi e dagli abbracci, i conflitti, le fantasie e le paure che li accompagnano. Ci fa sentire vivi e nutre di vita il legame d’amore. Tocco la tua bocca, con un dito tocco il bordo della tua bocca, comincio a disegnarla come se uscisse dalla mia mano, come se per la prima volta la tua bocca si aprisse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare, faccio nascere ogni volta la bocca che desidero, la bocca che la mia mano ha scelto e ti disegna sulla faccia, una bocca scelta tra tutte, con la sovrana libertà che scelgo per disegnarla con la mia mano sulla tua faccia, e che, per un azzardo che non cerco di comprendere, coincide esattamente con la tua bocca che sorride sotto quella che la mia mano ti sta disegnando. Mi guardi, da vicino mi guardi, sempre più da vicino e allora giochiamo a fare il ciclope, ci guardiamo tanto da vicino che i nostri occhi si allargano, si attaccano tra di loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirano confusi, le bocche s’incontrano e lottano nel tepore, si mordono con le labbra, appoggiano appena la lingua tra i denti, giocano nei loro recinti là dove un’aria pesante va e viene col suo profumo antico e il suo silenzio. Allora le mie mani cercano di immergersi nei tuoi capelli, di accarezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre noi ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranze oscure. E se ci addentiamo, il dolore è dolce, e se affoghiamo in un breve e terribile assorbirsi dell’alito, quell’istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare su di me come una luna nell’acqua.
Come leggiamo nelle parole dello scrittore argentino Julio Cortázar, nel rapporto sessuale io incontro te, ti riconosco, percepisco i tuoi confini, li accarezzo; ma anche li attraverso, e tu diventi il mio disegno, il mio riflesso. La dimensione psichica della sessualità è un esempio di convivenza, più o meno inquieta, al confine tra l’io e il tu. Nell’incontrare l’altro ritroviamo noi stessi: un dono meraviglioso che, come tutti gli incontri ravvicinati col nostro mondo interno, può diventare un pericolo. Come vedremo, la sessualità è anche un palcoscenico ideale per la rappresentazione di passate esperienze
traumatiche e delle dinamiche aggressive o perverse che possono portare con sé. Territorio di fantasie e bisogni, la vita della sessualità è sospesa tra svalutazione e idealizzazione; c’è una parte considerata “bestiale” e un’altra sublimata in quintessenza dell’unione amorosa. In modi pacifici o imprevedibili, solitari o condivisi, la sessualità governa gran parte delle nostre vite. Nessun altro animale pensa alla sessualità come e quanto noi umani. Eppure rimane un mistero. Senza pretendere, novello Edipo, di sciogliere il suo enigma, provo a raccogliere alcuni frammenti di un discorso sessuale. Penso alla sessualità come a una costruzione simultaneamente biologica e sociale, creativa e difensiva, evolutiva e relazionale. Intreccio di disposizioni genetiche e ormonali, aspettative familiari e pressioni sociali, conflitti e difese, identificazioni e fantasie, la sessualità è l’esito del tentativo di venire a patti con i nostri piaceri, le ansie, le proiezioni e i compromessi. Non è solo la strategia evolutiva per la procreazione, è anche l’idioma inclusivo composto di oggetti interi e parziali, cuspidi di generosità e dettagli di desiderio, autosufficienza e dono di sé. Un punto di vista unico è impossibile, provo a toccarne alcuni. Il primo riguarda le esperienze corporee precoci. Suzione, alimentazione, evacuazione, esperienze di dolore e piacere forniscono un impianto per così dire “semantico” per successive esperienze più complesse che sfociano in quello che potremmo definire l’idioma della nostra sessualità. Un altro elemento di rilievo è il modo in cui la regolazione reciproca tra madre (o caregiver, cioè la figura di accudimento) e bambino influenzano la costruzione di un “contenitore psichico” per la sessualità e gli stati di eccitazione a essa associati. Questo contenitore, tuttavia, presenta inevitabilmente delle incrinature. Secondo Peter Fonagy, oggi uno dei più importanti studiosi della relazione genitore-bambino, gli stati di eccitazione infantile sono tendenzialmente ignorati dal genitore. Potremmo dire che non sono rispecchiati in modo da riconoscere l’esperienza del bambino ripresentandogliela come degna di simbolizzazione e pensiero. «Di fronte all’eccitazione sessuale dei loro bimbi piccoli», dice Fonagy, «la stragrande maggioranza delle madri afferma di distogliere quasi sempre lo sguardo.»
Questo probabilmente perché i genitori non hanno strategie consapevoli e adeguate per rispecchiare l’eccitazione sessuale dei figli quando sono così piccoli; e comprensibilmente se ne “difendono”. I sentimenti di eccitazione del piccolo finiscono per rimanere “dissociati” all’interno dei legami di attaccamento, lasciando così una traccia di “disregolazione” nella sessualità. È proprio questa “disregolazione” che potrebbe in parte spiegare l’inconscia speranza che i nostri amanti vedano ciò che all’origine non era stato visto e che questo “non visto” venga ora riconosciuto in carne e simbolo. Quando i nostri amanti ci toccano, insieme al nostro desiderio toccano anche il nostro lutto, risvegliando il piacere e al tempo stesso un dolore. La paura e la speranza convivono sempre in noi perché in ogni nuova relazione cerchiamo sia la ripetizione di ciò che abbiamo ricevuto sia l’occasione per riparare e ritrascrivere il rispecchiamento che ci è mancato. Ripetiamo e ripariamo, e nel dosaggio di queste operazioni, nella loro capacità di convivenza, è custodito il percorso del nostro desiderio. La sessualità adulta contiene i residui degli scambi emotivi precoci. Quando il bambino non è ancora in grado di integrare a livello psichico alcune forti sensazioni, queste possono trasformarsi in stati di eccitazione che, direbbe lo psicoanalista francese Jean Laplanche, rimangono in noi e agiscono come schegge sotto la pelle. Ancora, le inibizioni o le facilitazioni promosse dai nostri genitori – sulla base delle loro esperienze personali, dei loro valori e della loro cultura – collegano la ricerca del piacere con un’infinità di stati affettivi (spesso con sfumature sessuali) come l’imbarazzo, il sentimento di umiliazione, la vergogna, la colpa e così via. Va da sé che l’economia biologica del desiderio varia da persona a persona e che la fisiologia della nostra eccitabilità è inseparabile dagli stimoli esterni. Pertanto, il linguaggio della nostra sessualità sarà costituito dalle disposizioni fisiologiche, dalle relazioni reali e interiorizzate, dalle sollecitazioni e dalle soluzioni di compromesso, dai contesti e dai condizionamenti sociali. Tutti abbiamo una vita pubblica, una vita privata e una vita segreta. Spesso contemporaneamente! Sessualità significa anche privacy, segretezza, fantasia ed esplorazione, tutti elementi che possono consentire l’espressione inaspettata di noi stessi in esperienze relativamente libere da censure o
condizionamenti. Per molti accade in realtà virtuali e dobbiamo prendere atto che oggi la cybersessualità è una forma diffusa di sessualità. Per alcuni è uno spazio di fantasia, per altri è una fuga dissociativa dall’impegno, gioia e dolore, delle relazioni interpersonali, un rifugio nella compulsione, una sospensione della vitalità. Sessualità è dove i corpi e le loro posizioni reciproche stabiliscono il modo in cui viviamo l’altro. L’esperienza mentale del corpo altrui (il controllo, l’adorazione, la resa, il rapimento, l’immersione, per citare alcuni esempi) rivela i particolari del nostro funzionamento psichico, lo stile della nostra personalità, le caratteristiche del nostro attaccamento. Sì, come dice Stephen Mitchell, il sesso è un «potente organizzatore dell’esperienza». Il fatto che «la sessualità comporti una compenetrazione di corpi e bisogni» non rende forse «le sue infinite variazioni ideali per rappresentare desideri, conflitti e negoziazioni nelle relazioni tra sé e gli altri»? Eppure, se riduciamo tutto alle relazioni, passate o presenti, perdiamo qualcosa della realtà fisica e involontaria della sessualità; qualcosa che un’altra psicoanalista, Virginia Goldner, chiama «il brivido della scoperta di essere sconosciuti a se stessi». Alla sessualità potremmo applicare ciò che diceva Freud a proposito del sogno: c’è sempre un punto di «insondabilità, quasi un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto». L’epoca moderna ci ha insegnato a “spiegare” la sessualità con modelli biologici o psicoanalitici, grazie ai quali classifichiamo e interpretiamo i nostri comportamenti. Psicoanalisi e biologia sono vertici di osservazione irrinunciabili, ma il loro sguardo non riesce a raggiungere ogni profondità del desiderio, gli oceani dell’amore e della sessualità. Quelli sono abitati dal mito, solcati dall’immaginazione, attraversati da correnti di gioia e solitudine quasi inspiegabili.
7. Ti do i miei occhi Libertà/possesso, ideale/reale, amore/odio. L’esplorazione della relazione iote annuncia il regno delle contrapposizioni. Che, per conoscere la forma delle relazioni, dobbiamo imparare a comprendere e abbracciare. Magari
scoprendo con stupore che anche l’aggressività (che non è la violenza) può servire a far vivere dentro di noi l’oggetto d’amore. Il riconoscimento dell’altro implica anche lo scontro, la rottura necessaria a segnare l’esistenza di un’alterità. Grazie alla negoziazione la coppia riesce a creare il “terzo”, ed è il ritmo delle rotture e delle riparazioni a tessere la trama della convivenza. Come la devozione, anche l’aggressività può essere matrice del riconoscimento: uno scarto dalla fusionalità, uno svincolo dal controllo, un argine all’idealizzazione. La spinta aggressiva permette di sciogliere vincoli falsificanti, compiacenti o rancorosi. Ma non può dominare la scena: proprio per questo è bene attraversare le discontinuità e le rotture non rimuovendo, come per anni hanno fatto Johan e Marianne, le componenti conflittuali. Altrimenti l’aggressività diventa distruzione e odio, prende forme esplosive e crea rotture tragiche, talora criminose. Il fenomeno della violenza domestica ha raggiunto dimensioni preoccupanti. Cinque anni fa, l’Organizzazione mondiale della sanità, a partire dai risultati di più di cento studi “epidemiologici” internazionali, ha descritto un fenomeno che riguarda circa il 35 per cento della popolazione femminile mondiale. Una donna su tre nella propria vita è stata vittima «di un comportamento, all’interno della relazione di coppia, che provoca danno fisico, psicologico o sessuale». Diffido delle generalizzazioni, ma dietro queste violenze è difficile non vedere un problema di convivenza tra uomini del passato e donne del futuro, donne finalmente capaci di acquisire per sé spazi di libertà e autonomia a lungo negati. Così gli uomini si sentono privati di quell’identità forte e dell’indiscusso ruolo dominante che la cultura patriarcale ha sempre loro conferito. Spodestati e vulnerabili reagiscono con la violenza paranoide del controllo. Quando il rapporto io-tu – ma in questi casi, direbbe Buber, siamo nel territorio Io-Esso/a – sconfina nella violenza, le relazioni diventano patologiche. Legami che si sviluppano sul terreno di strutture narcisistiche della personalità, dove la relazione viene mantenuta manipolando e maltrattando l’altra persona. Trattare l’altro in modo improprio e crudele serve a espellere parti di sé conflittuali o danneggiate. Questo tipo di proiezione, in molti casi, finisce per produrre una patologica, reciproca
“dipendenza” tra maltrattante e maltrattato. Nutrire la dipendenza del partner porta con sé i benefici connessi alla detenzione del potere e al tempo stesso tutela dalla paura della solitudine. La dipendenza dell’altro può essere coltivata in molti modi: spingerlo verso obiettivi che non può raggiungere da solo; persuaderlo di non possedere risorse adeguate per un dato scopo; convincerlo di non avere alternative. Le testimonianze di molte donne mostrano il progressivo isolamento fisico ed emotivo in cui vengono costrette dal partner, finalizzato non solo alla riduzione o all’annullamento dei contatti con familiari e amici, ma anche all’abbandono di attività lavorative non domestiche. L’obiettivo, in questi casi, non è solo ribadire la dipendenza economica, ma anche eliminare ogni possibilità di realizzazione al di fuori della coppia. Come ogni legame autentico insegna, il ritmo della dipendenza e dell’autonomia è intrinseco alla relazionalità. La tenuta elastica di questa tensione è una base imprescindibile per la nascita della soggettività. Costruire e abitare con l’altro una relazione capace di sostenere le oscillazioni tra libertà e vincolo, perdita e sicurezza, è l’unica possibilità per raggiungere la forza individuativa di una dipendenza sicura. Ti do i miei occhi, della regista spagnola Icíar Bollaín, è un film lucidissimo sulla dipendenza relazionale e la violenza domestica che spesso mostro ai miei studenti dopo averli invitati a leggere Male perpetrators of violence against women, un saggio in cui Peter Fonagy ipotizza per questi uomini un sistema di attaccamento disorganizzato nell’infanzia, frequenti storie di abuso o di scenari familiari violenti, limitate capacità di mentalizzazione e caratteristiche borderline di personalità. Uomini che, controllando con la violenza le loro partner e trionfando sul terrore che inducono, si illudono di controllare stati intollerabili del proprio sé. Spesso credendo di amare. Notte, interno di un appartamento di Toledo. Una giovane donna, Pilar, sveglia un bambino, lo veste in fretta, riempie una borsa con poche cose. È terrorizzata, trema. Scende in strada in pantofole, tenta invano di fermare un taxi, sale su un autobus. Arriva a casa della sorella Ana, che l’accoglie con un abbraccio. È in fuga dal marito Antonio, un uomo iracondo e manesco. Il
problema è che i due “si amano”. La violenza che distrugge la loro relazione è pari alla passione che li vincola e al “bisogno” che hanno uno dell’altra. Antonio corre da Pilar, le promette che cambierà, che si curerà; ma poi la gelosia, l’impulsività, l’insicurezza non confessata, lo riconsegnano, ogni volta, alla violenza verbale e fisica. Proprio come, ogni volta, la dipendenza affettiva, la speranza di vedere il marito cambiare, la certezza di essere speciale per lui, la tenerezza di un accudimento patologico, riportano Pilar sulla strada di casa. Il bisogno di “essere sua” la porta ad abolire il proprio punto di vista: ti do i miei occhi. La regista sembra anche suggerire che molte donne coinvolte in relazioni masochistiche spesso hanno alle spalle una storia di svalutazione e indifferenza: figlie che si sono sentite invisibili, fallimentari o marginali (talvolta rispetto a fratelli o sorelle privilegiati) oppure pazze e inadeguate proprio perché si rifiutavano di diventare invisibili o anonime. La “scelta” di partner abusanti rispecchierebbe un desiderio distorto e degradato di essere al centro della vita di qualcuno, a ogni costo. Per Fonagy, la violenza domestica maschile è una perversione dell’attaccamento. L’atto violento avrebbe una funzione duplice: ricreare nell’altro lo stato mentale dell’abuso, espellendo il proprio, così da recuperare un senso di coerenza del proprio Sé; distruggere questa parte aliena di sé immessa nell’altro sperando inconsciamente che scompaia per sempre. Quando vedono il terrore negli occhi delle loro donne, gli uomini si sentono “rassicurati”. La storia di Antonio e Pilar mostra come gli uomini violenti con le loro donne non siano in grado di tollerare la solitudine, che li fa sentire feriti nell’orgoglio e nel possesso, vulnerabili e soli. Le peggiori esplosioni di violenza, spesso precedute da comportamenti di stalking, avvengono infatti quando le donne prendono coscienza della trappola in cui vivono e decidono di separarsi.
8. Le vere pupille «Amare», scrive il filosofo francese Brice Parain, «significa cercare attraverso un’altra persona una rivelazione che nessuno dei due contiene, ma
che verrà grazie all’incontro e per il quale l’altro è necessario.» Mi sembra una definizione felice dell’intreccio intersoggettivo io-tu. Grazie al rapporto con te, io posso accedere a una scoperta personale, a una rivelazione che non è presente in te, ma avviene grazie all’incontro. Come il Sé della psicologia junghiana o il vero Sé winnicottiano, è probabile che questa rivelazione non avvenga mai concretamente, ma segni una meta per un’evoluzione personale, una promessa che l’amore offre alla coppia. Le tue pupille, come nella poesia che Montale ha dedicato alla moglie, possono essere più vere delle mie. Ma non perché mi “dai” i tuoi occhi. Ma perché il tuo sguardo – lo abbiamo visto tra il neonato e la sua mamma, tra volto e riflesso, tra occhi pieni di desiderio che giocano a fare i ciclopi – è anche il mio. È come il “tu” usato nei romanzi: spesso la sua funzione è indirizzare il protagonista al racconto della propria storia. Il “tu” romanzesco si pone come artificio per l’autobiografia e la conoscenza di sé. A te scrivo per sapere quello che penso. A te, costruendo un rapporto nel tempo, posso rivolgermi per esprimere la mia molteplicità, il mio divenire e il mio crescere con te. Con te, mi assumo delle responsabilità. A te, non posso venir meno.
3. Con gli altri
Io loderei un’anima a diversi piani. Michel de Montaigne I muri lasciano soli coloro che li fabbricano. Papa Francesco Bergoglio Chi pretende di installarsi nelle presunte evidenze dell’Io, non ne viene più fuori. La conoscenza degli uomini sembra talvolta più facile a chi si lascia intrappolare dall’identità personale. In tal modo, però, si chiude la porta alla conoscenza dell’uomo: ogni ricerca etnografica muove da “confessioni” scritte o inconfessate. Claude Lévi-Strauss
Quest’estate una coda in autostrada mi ha convinto a uscire a Piacenza sud. Affidandomi alle indicazioni del navigatore, provvidenzialmente sbagliate, dopo un’oretta mi sono ritrovato davanti a Sant’Agata, la casa di Giuseppe Verdi per cinquant’anni. Pieno agosto, molto caldo, nessun visitatore. Così, dopo essermi perso nelle pacifiche contrade emiliane – le immagini di Novecento di Bertolucci mi scorrevano davanti agli occhi – mi sono perso una seconda volta nelle stanze della villa. È qui che si sedeva a comporre? Cenava a questo tavolo con Giuseppina Strepponi? E poi una terza, tra le piante del parco, la musica del Macbeth negli auricolari. Ero commosso e pieno di ricordi. Ero “con me”, con i multi in me: il bambino perduto, l’esploratore adolescente, il viaggiatore segreto, il melomane ormai quasi anziano. L’impalpabile marea della malinconia mi saliva agli occhi, un dentro
troppo pieno cercava un “tu”. A chi raccontare, con chi ricordare e celebrare se non con Luca che mi ha insegnato ad ascoltare la musica di Verdi? Gli ho telefonato e poi gli ho mandato – vi(v)a WhatsApp – una foto della villa e degli alberi attorno. Ero “con te”. Adesso sono a casa e sto scrivendo, penso alle persone che leggeranno queste pagine, quelle che conosco e quelle che non conosco. Penso a quello che voglio trasmettere a una comunità più ampia. Mi domando se può essere interessante, avere senso, lasciare il tempo che trova. Sono “con gli altri”. Punteggiata di soste, solitarie e duali, la vita è circolare. Senza un tu, forse la pienezza di me mi avrebbe tradito, la malinconia avrebbe preso il sopravvento, la commozione sarebbe diventata solitudine. La solitudine poteva trasformarsi in rabbia, rovinandomi il piacere dell’escursione imprevista e dell’abbandono musicale. Senza un noi, la mia vita sarebbe sempre chiusa su di me, sui miei bisogni, sui piaceri e i dispiaceri della vita coniugale. Non ci sarebbero le persone che non conosco, lo star bene degli altri non mi farebbe mai da barometro. Non ci sarebbero la gentilezza e la passione politica. Senza un tu l’io si svuota. Senza un noi il tu si inaridisce. Ma se è tutto per gli altri, sordo a se stesso, l’io si calpesta. Da dove partire? Da due concetti simili e alieni: la “mente estesa” dei neuroscienziati cognitivi e l’“anima mundi” dei visionari junghiani. In questo capitolo parleremo dall’estensione dei nostri sé verso l’esterno, i gruppi, le comunità: perché una delle destinazioni del viaggio “con me” e “con te” è la convivenza civile. “Con gli altri.”
1. Mente estesa e anima mundi Dove finisce la mia mente e dove inizia il resto del mondo? È la domanda con cui due filosofi analitici, Andy Clark e David Chalmers, aprono un loro famoso articolo del 1998 intitolato The Extended Mind, la mente estesa. È lo scritto principale, nell’ambito della scienza cognitiva, del cosiddetto esternismo, in opposizione alle concezioni interniste classiche della mente, per le quali la sede della cognizione è il nostro cervello, confinato nel suo spazio intracranico. Per Clark e Chalmers noi non siamo, né possiamo dirci di
essere, soltanto il nostro cervello. I due autori adottano una concezione per cui la mente non è una scatola nera o l’analogo di un calcolatore connesso con l’esterno tramite un sistema input-output. La mente, dicono, è embodied, cioè incorporata nelle strutture del corpo (del corpo intero, non solo del cranio) e embedded, cioè situata nell’ambiente, in comunicazione e interazione continua con il mondo circostante. Per illustrare la loro teoria si servono di due giochi al tempo famosi. I giocatori abili di Tetris (videogioco degli anni ottanta in cui lo scopo è creare un incastro tra figure di diverse forme che scendono rapidamente dall’alto verso il basso) non roteano mentalmente i diversi pezzi, ma visualizzano sullo schermo le diverse posizioni. Prendono una decisione sulla base di un’interazione con un dispositivo esterno: in quel momento non si può dire che la loro “mente” sia solo il cervello, bensì il cervello più lo schermo che mostra le diverse configurazioni. L’esempio dello Scarabeo è ancora più chiaro. Nel famoso gioco da tavolo, quando disponiamo le tessere sul loro supporto e cerchiamo di creare delle parole, non immaginiamo le diverse combinazioni, ma ci aiutiamo provando diverse sequenze, spostando materialmente le lettere, componendo le parole sulla base di quello che ci viene suggerito da ciò che vediamo. «Il riordinamento delle tessere sul leggio», scrivono, «non fa parte dell’azione, ma del pensiero.» Questi esempi mostrano che mentre svolgiamo alcuni processi cognitivi la nostra mente non si limita ai processi di pensiero interni, ma ingloba operazioni e azioni esterne, necessarie ai processi stessi. Tuttavia, quando affermano che i nostri confini si estendono oltre la nostra superficie corporea, Clark e Chalmers sono molto cauti. La mente come insieme di funzioni mentali, dicono, non si esaurisce con il cervello, ma la coscienza e l’autocoscienza sono prodotti del cervello che non coinvolgono alcun agente esterno. Più radicale è la posizione di un autore contemporaneo come Alva Noë, filosofo e teorico della percezione. «La coscienza», scrive, «assomiglia più alla danza che alla digestione.» “Accade” sempre grazie all’interazione con l’esterno, non possiamo concepirla in modo indipendente dal corpo o dall’ambiente. «L’idea […] secondo la quale ciascuno di noi non sarebbe altro che il proprio cervello o, in termini più semplici, l’idea che la coscienza
sia un fenomeno del cervello, così come la digestione è un fenomeno dello stomaco, somiglia all’immagine fantastica di un’orchestra che suona da sola.» La nostra coscienza, la nostra vita, è un flusso continuo di esperienze, di scambi con persone, oggetti, luoghi. Che cosa ci rende coscienti, se non il pensiero? E di cosa è fatto il pensiero, se non di linguaggio? E non è forse il linguaggio, l’insieme dei suoi significati, un sistema dinamico e interattivo per eccellenza? I significati delle parole, sostiene Noë rifacendosi a Hilary Putnam e Ludwig Wittgenstein, sono il risultato di pratiche sociali, condivise all’interno di comunità linguistiche. Quando noi parliamo o pensiamo, non facciamo riferimento a significati interni a noi stessi, ma stiamo partecipando a una pratica sociale. Il linguaggio, e dunque il pensiero, prende forma in noi sulla base di regole condivise. «Nelle sue origini, nelle sue funzioni, nelle sue forme, nelle sue applicazioni», dice l’antropologo Clifford Geertz, «il pensiero umano è profondamente sociale. Alla base il pensare è un’attività pubblica – il suo habitat naturale è il cortile di casa, la piazza del mercato.» Non siamo come una bacca che può essere colta, continua Noë. «Piuttosto siamo come una pianta, radicata nella terra e aggrovigliata tra i rovi.» Noi e i luoghi siamo una cosa sola. L’immaginario botanico di Noë mi fa pensare al fortunato concetto di rizoma secondo Gilles Deleuze e Félix Guattari. Vi faccio un rapido accenno. I due filosofi francesi, parlando sia del rapporto tra soggetto e società sia del funzionamento del pensiero, suggeriscono di adottare una nuova prospettiva: concepire i rapporti tra elementi non secondo uno schema gerarchico, dall’alto in basso, ma secondo connessioni orizzontali, appunto rizomatiche, cioè emanazioni di una stessa radice sotterranea, diffusa, reticolare. Una connessione costante e infinita. Mi rendo conto che il mio discorso ha preso una piega molto astratta. E ora che vorrei introdurre il concetto neoplatonico di anima mundi, caro alla psicologia junghiana, so di rischiare la piega metafisica. Chiedo al lettore un po’ di pazienza e prometto che presto tirerò le fila e ripoterò “coi piedi per terra” tutti questi oggetti volanti. Anima mundi, un concetto platonico, sviluppato da Plotino e, qualche secolo dopo, da Marsilio Ficino, significa che l’anima (noi diremmo la psiche) non è una realtà individuale, ma un’entità collettiva, unica e universale. L’Io ne è una porzione e dunque
ciascuno di noi appartiene a una realtà psichica condivisa. «L’anima», scrive Ficino, «è tutte le cose insieme… Perciò essa può essere chiamata il centro della natura, il termine mediano di tutte le cose, la continuità del mondo, il volto di tutto, vincolo e copula dell’universo.» In Jung l’idea dell’anima mundi coincide con il concetto di “inconscio collettivo”. Riprendendo Schopenhauer, Jung sostiene infatti l’esistenza di una realtà psichica universale e connessa a tutti gli inconsci individuali; un’idea che gli viene studiando i sogni dei pazienti schizofrenici, nei quali ravvisa simboli appartenenti a culture diverse e lontane, immagini invarianti nella storia dell’umanità, che lui interpreta come prodotti di un’attività psichica collettiva. Per Jung l’inconscio collettivo è sede degli istinti e deposito degli archetipi, cioè di quei nuclei psichici inconoscibili (se non attraverso le loro rappresentazioni, le cosiddette immagini archetipiche come l’Ombra, il Vecchio Saggio, il Puer ecc.) che costituiscono il modello e la forma di ogni esperienza inconscia umana. Ecco che il concetto junghiano di Sé si fa ponte tra il livello individuale e quello collettivo: al tempo stesso fattore soggettivo, risultato della storia individuale, e totalità psichica universale. «Come l’inconscio», scrive Jung, «il Sé è l’esistente a priori dal quale promana l’Io. Esso preforma, per così dire, l’Io. Non io creo me stesso, ma piuttosto io accado a me stesso [corsivo mio].» James Hillman suggerisce però di leggere l’inconscio collettivo o l’anima mundi non come un’emanazione divina dello spirito, panpsichismo immanente alla materia, piuttosto «come quella particolare scintilla d’anima, quell’immagine germinale che si offre in trasparenza in ogni cosa nella sua forma visibile», una scintilla che “si accende” nell’oggetto che stiamo percependo. L’anima del mondo in questo senso è la possibilità di connessione che ogni oggetto o evento esterno offre al soggetto. Il mondo infuso d’anima è un mondo animato dal soggetto; l’anima mundi è ciò che rende il mondo sensibile e percepibile, l’oggetto dell’immaginazione del soggetto: è ciò che rende gli oggetti immagini psichiche. Il processo di animazione, che Hillman accosta a quello di proiezione, consiste quindi nell’illuminare il “volto” delle cose. «Tutte le cose mostrano un volto, il mondo essendo non solo un insieme di segni in codice di cui decifrare il
significato, ma una fisionomia da guardare in faccia.» Sono evidenti le influenze del pensiero orientale, se pensiamo al monaco giapponese del XIII secolo, Dôgen, per il quale nel mondo non c’è nulla di veramente nascosto e tutto ciò che dobbiamo sapere e davanti a noi, basta guardarlo. Di nuovo, con Hillman, «le cose parlano, mostrano nella forma lo stato in cui sono. Si annunciano, testimoniano della loro presenza: “Guardate, siamo qui”. E ci guardano, indipendentemente da come le guardiamo noi». Con l’idea di una “mente estesa” Hillman condivide il rifiuto della scissione cartesiana tra res cogitans e res extensa, mente e mondo: «Cartesio è responsabile di buona parte del caos della nostra società occidentale», confida Hillman a Silvia Ronchey. «E non solo Cartesio, ma già san Paolo e la filosofia medievale e il cristianesimo quando ha dichiarato “il mondo appartiene a Cesare”. Certo che poi abbiamo i disastri ecologici! Perché non importa cosa succede in questo mondo! Possiamo avere perdite di petrolio in mare, possiamo bruciare le foreste, perché tanto sono solo materia. Res extensa. Spazzatura. Pattume.» Se Clark e Chalmers si occupano di cognizioni, Hillman sottolinea il legame emotivo con il mondo come sentimento estetico. Ciò che noi consideriamo “bello”, scrive, è qualcosa che grazie all’anima mundi tocca la nostra immaginazione: «Si crea una corrispondenza o una fusione tra l’anima di quella cosa e la nostra». Una concezione che richiama la saggezza greca, l’ideale del kalos kagathos, del bello che è anche buono, perché ciò che è bello tocca e muove il cuore. «Un concetto primitivo», dice Jung, «anteriore alla scoperta dell’opposizione tra estetica e morale.» Bello è ciò che è dotato di anima, mentre il suo contrario, l’essere senz’anima, è la forma principale del male. Qui Hillman riprende Hannah Arendt: il male dei sistemi totalitari non sono la crudeltà o la perversione morale, questi sono gli strumenti del male. «Il male più profondo del sistema totalitario è precisamente ciò che lo fa funzionare: la sua efficienza programmata, monomaniacale e monotona; il formalismo della burocrazia […]. Nessun pensiero, nessuna reattività: Eichmann. La forma senza Anima diventa formalismo, conformismo, formalità, formule, formulari burocratici: forme senza lucentezza, senza la presenza del corpo.» A questo deserto privo di anima, Hillman oppone l’aisthesis greca, parola che indica
percezione e sensazione, il cui etimo richiama il respiro, l’accogliere il mondo all’interno, «quel trattenere il fiato – Aha! Uh! – per la meraviglia, lo shock, lo stupore, una risposta estetica all’immagine (eidolon) che ci si presenta». L’aisthesis è la risposta del cuore al mondo, un cuore che sente, accoglie e si entusiasma. È il «cuore pensante» di Etty Hillesum, che persino nel campo riesce a salvare la bellezza («Dovunque mi troverò, cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro»); è il cuore che illumina il mondo di María Zambrano: «La condizione del cuore come centro, in quanto centro, è quella che determina e fa sorgere i centri che risplendono illuminando, che se si riferiscono alla cosiddetta realtà esteriore o mondo si riflettono in centri interiori e si sostengono su di essi». Vi avevo promesso che saremmo tornati coi piedi per terra. Il nostro paracadute è un altro junghiano, Andrew Samuels. Lui non ama la metafisica dell’anima mundi: «Anima del o nel mondo, fantasia in cui la psiche vivifica l’universo materiale. Per me il mondo sociale non necessita di più vita di quella già ricca che ha, […] non penso […] che il mondo sociale sia creato dall’identificazione proiettiva». Più che di anima del mondo, Samuels preferisce parlare di psiche politica. Come negare che il nostro sviluppo avviene in una costante immersione nel mondo politico e sociale, per cui la psiche di ognuno, attraverso il linguaggio da cui è strutturata, assorbe norme e conflitti politici? Samuels come Szymborska: I tuoi geni hanno un passato politico, la tua pelle una sfumatura politica, i tuoi occhi un aspetto politico. Ciò di cui parli ha una risonanza, ciò di cui taci ha una valenza in un modo o nell’altro politica.
La soggettività e l’intersoggettività che ci caratterizzano non hanno una radice “interna”, ma derivano dall’interiorizzazione di ruoli sociali. «L’io, in fondo, è una repubblica», diceva il grande filosofo David Hume. Seguendo l’insegnamento femminista per cui il personale è politico, e in linea con il parallelismo individuale/collettivo tipicamente junghiano, potremmo
considerare la sofferenza psichica come il risultato di un continuo rapporto interno-esterno, in cui l’individuo soffre anche per le malattie e le crisi del mondo esterno. Per questo è giusto chiedere alla psicoanalisi di interessarsi al mondo e di assumersi responsabilità politiche. Del resto, non era Jung a dire che, «in quanto psicologi, abbiamo il compito e il dovere di comprendere la situazione psichica del nostro tempo e di scorgere chiaramente quali problemi e sfide ci sottopone il presente»? Lo scopo di questo libro, mi rendo conto mentre lo scrivo, è raccontare un’intersoggettività ideale immaginandola come una sfera armillare composta dall’intreccio dei tre anelli dell’io, del tu e del noi. Si tratta di un soggetto dinamico, unico ma molteplice, la sua mente-cuore in dialogo con l’altro e con il mondo. Capace di solitudine come di ascolto, abitante di sé e cittadino dell’altro, rivolto al tu, disponibile al noi. Un soggetto esteso, ramificato e vitale. Mi affido alle parole di Carlo Emilio Gadda per descriverlo: Chi immagina e percepisce sé medesimo come un essere «isolato» dalla totalità degli esseri porta il concetto di individualità fino al limite della negazione, lo storce fino ad annullarne il contenuto. L’io biologico ha un certo grado di realtà: ma è sotto molti riguardi apparenza, vana petizione di principio. La vita di ognun di noi pensata come fatto per sé stante, estraniato da un decorso e da una correlazione di fatti, è concetto erroneo, è figurazione gratuita. In realtà, la vita di ognun di noi è «simbiosi con l’universo». La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti od esseri) a noi apparentemente esterne. Ognuno di noi è limitato, su infinite direzioni, da una controparte dialettica: ognuno di noi è il no di infiniti sì, è il sì di infiniti no. Tra qualunque essere dello spazio metafisico e l’io individuo (io-parvenza, io-scintilla di una tensione dialettica universale) intercede un rapporto pensabile: e dunque un rapporto di fatto.
2. L’intreccio armillare Costruito per studiare le dimensioni del temperamento e del carattere – più biologiche le prime, più psicologiche le seconde, ammesso che questa distinzione abbia ancora senso – il Temperament and Character Inventory (TCI-Revised), ideato dallo psichiatra Robert Cloninger, è un questionario composto da 240 quesiti che indagano quattro dimensioni temperamentali
(ricerca della novità, evitamento del danno, ricerca della ricompensa, persistenza) e tre caratteriali (autodirezionalità, cooperatività, autotrascendenza). Si basa su un modello psicobiologico che si prefigge di spiegare, o quantomeno identificare, le cause delle differenze individuali nell’ambito delle personalità. Il motivo per cui lo cito qui non è per addentrarmi, attrazione per me irresistibile, nelle complessità delle diagnosi (l’ho fatto in un altro libro, Diagnosi e destino), ma perché, nella struttura del TCI mi sembra di riconoscere, irrigidita dalle esigenze di misurazione e disciplinata dall’impianto neurobiologico, la stessa circolarità io-tu-noi che costituisce il filo rosso del libro che state leggendo. Le quattro dimensioni temperamentali, fondate sulla neurochimica cerebrale, differenziano i nostri comportamenti in base al bisogno, talora impulsivo, di esplorazione e ricerca di novità; oppure a quello, timido e timoroso, di anticipare le preoccupazioni ed evitare le incertezze; al bisogno, dipendente ma anche caloroso e comunicativo, di sentirci ricompensati; o infine a quello, tenace e ambizioso, di perseverare nell’impresa. Ciò che mi interessa sottolineare è che le tre dimensioni caratteriali sono dipinte come anelli che progressivamente si aprono da una posizione autodiretta (autosufficienza, determinazione, accettazione di sé) a una posizione cooperativa (empatia, compassione, lealtà, accettazione dell’altro), fino a una posizione autotrascendente (apertura al mondo, capacità di decentramento da sé e spiritualità). Tutte queste dimensioni vanno valutate in base alla loro maggiore o minore rilevanza nei nostri atteggiamenti e comportamenti e, stando a Cloninger, influiscono fortemente sul benessere soggettivo e relazionale. In particolare, il concetto di autotrascendenza riguarda la capacità di espandere i propri confini in direzione intrapersonale (per una maggior consapevolezza di sé e dei propri valori), interpersonale (per una maggior capacità di relazione con gli altri e l’ambiente), temporale (come integrazione significativa di passato, presente e futuro) e transpersonale (come connessione con il mondo della natura, la dimensione spirituale e ciò che non è direttamente conoscibile). Oggi il discorso clinico-diagnostico, soprattutto nel campo della valutazione della personalità, è sempre più attento all’intreccio delle tre dimensioni che, inseparabili, costituiscono la trama delle riflessioni che vi
propongo in questo saggio. La nuova edizione internazionale del Manuale Diagnostico Psicodinamico, per esempio, prevede, nell’ambito della valutazione delle varie capacità mentali, una funzione denominata “significato e direzionalità”. Una sua breve definizione mostra, anche al non addetto ai lavori, la convivenza e l’intreccio dell’io, del tu, del noi: L’ambito che abbiamo chiamato significato e direzionalità riguarda la capacità dell’individuo di costruire una narrativa personale in grado di fornire coerenza e significato alle scelte personali, un senso di direzionalità e progettualità, un’attenzione per le generazioni che verranno, e un sentimento di spiritualità (non necessariamente espresso attraverso la religiosità in senso tradizionale) che permea la vita dell’individuo, donandole significato. Un alto funzionamento in quest’area implica una capacità di pensare al di là delle preoccupazioni immediate e di considerare le implicazioni più ampie dei propri atteggiamenti, credenze e comportamenti.
Trovo un esempio in un libro che ho appena finito di leggere, un memoir della scrittrice australiana Cory Taylor. Attorno ai cinquant’anni Cory riceve una diagnosi infausta e, aspettando la morte, si cimenta nel compito più difficile: raccontare il suo Morire (che è anche il titolo del libro). Scritto in poche settimane, Morire è una riflessione domestica sull’esistenza, il ricordo del passato, una meditazione sulla fine. È un libro doloroso ma non triste. Anzi, paradossalmente è un piccolo omaggio alla vita. Mi ha colpito un passaggio: lo riporto qui sotto. Ritroverete il delicato e potente intreccio che prima ho raccontato con le parole precise ma spente della professione. «Mi mancherai tanto quando sarò morto»: così Harold Pinter a sua moglie, mentre stava morendo di cancro. So esattamente cosa intende. La versione breve della risposta alla domanda su quello che mi mancherà di più è Shin, con cui sono sposata da trentun anni, e il viso dei miei figli. La versione lunga è il mondo e quello che c’è dentro: vento, sole, pioggia, neve e tutto il resto. E mi mancherà essere qui a vedere cosa succederà dopo, come andranno le cose, se la vita dei miei figli sarà fortunata come la mia. Ma non mi mancherà morire. È di gran lunga la cosa più difficile che abbia mai fatto e sarò contenta quando sarà finita.
3. Somiglianze I nostri tempi, scrive l’antropologo Francesco Remotti, sono ossessionati dal concetto di identità. Identità che nel primo capitolo abbiamo descritto come
“illusione necessaria”, work in progress di assemblaggio e integrazione delle nostre molte parti, un’autorappresentazione narrativa di cui abbiamo bisogno per sentirci “reali”. Sì, perché all’identità non corrisponde una sostanza, la sua definizione va inseguita. «Non siamo il rosone di una cattedrale gotica», dice Julio Cortázar, «ma la pietrificazione istantanea ed effimera della rosa del caleidoscopio.» Quella che vediamo in controluce in ogni pagina dei Saggi di Montaigne che, con alcuni secoli di anticipo sulle ricerche della psicologia, «sperimenta come la personalità sia un aggregato provvisorio, incomprensibile e affascinante, di soggetti istantanei, un mosaico di io che variano secondo le contingenze […]. Una scrittura della soggettività che non tende alla coagulazione dell’io ma ne riproduce la dissociazione in diversi poli di coscienza».* Della sua opera, del resto, Montaigne dice: «Miro soltanto a scoprire me stesso, e sarò forse diverso domani, se una nuova esperienza mi avrà mutato». L’identità è un fermo immagine, una finzione necessaria, un contenitore permeabile. È la nostra casa ma dobbiamo sapere che non la costruiamo da soli. Oggi la scena politica è ostaggio di un’aspirazione a un’identità impermeabile e stagna. È un segno di fragilità sociale, un sintomo di paura dell’altro e del cambiamento. Anno dopo anno, i movimenti sovranisti che rivendicano con veemenza il primato di un’identità nazionale, acquisiscono consensi. “Prima gli italiani”, cioè noi prima degli altri (che dunque non sono uguali a noi) è uno slogan super-identitario che mina alla base il principio di convivenza civile tra popoli su cui la stessa idea di Europa si basa. Ricorda in modo sinistro Deutschland über alles, la strofa dell’inno tedesco che oggi, dopo gli orrori nazisti, non viene più cantata. «Identità», scrive Remotti, «è una parola tremendamente ingannatrice.» Ci illude di poterci definire (dovrebbe infatti rispondere alle domande: chi sono?, chi siamo?, chi siete?) ma, «quando viene messa alla prova, svela l’inganno in cui consiste o a cui dà luogo». Pensiamo per esempio all’identità italiana: come definirla? Che rapporto ha con le diverse identità che la compongono? È la loro somma? La loro sintesi? Seguaci di Montale, non possiamo che definirci al negativo, senza sfoderare magniloquenti certezze contundenti:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro. Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Quanto più forte è la luce con cui cerchiamo di illuminare la nostra identità, più grande è l’ombra che proiettiamo sugli altri. Al punto che tutto ciò che (di buono) noi siamo trasforma in cattivo tutto ciò che sono gli altri. È un rischio del binarismo e della scissione: bianco vs nero, maschio vs femmina, ricco vs povero, etero vs gay, ariano vs ebreo, italiano vs straniero. Se uno è sopra l’altro è sotto. Quanto più forte è la paura, tanto più rigida è l’identità. «Ci vuole poco», continua Remotti, «perché questa paura […] si traduca in un’ossessione per la propria integrità e la propria purezza; e ci vuole poco perché questa ossessione ispiri azioni e politiche di respingimento e, se non basta, di annientamento.» Si tratta di un funzionamento difensivo, in parte inconscio in parte cognitivamente rinforzato, che non riguarda l’individuo, ma gruppi di persone o nazioni intere. Lo possono spiegare con il cosiddetto «narcisismo delle piccole differenze» di Freud oppure con la “teoria dell’identità sociale” di Tajfel e Turner che indaga le dinamiche ingroup vs outgroup: sentimenti positivi e trattamenti speciali per il proprio gruppo e sentimenti negativi e trattamenti punitivi per il gruppo altrui. «Una delle più facili proiezioni», ci ricorda lo psicoanalista Mario Trevi, «è quella dell’Ombra. Le qualità inferiori e inaccettabili, le immagini e pensieri rimossi, le pulsioni ostacolate […], tutti gli aspetti non coscientemente vissuti della psiche vengono proiettate con facilità su individui che possono costellare tali proiezioni.» Quale miglior descrizione
del concetto junghiano di Ombra di quella che ci offre Toni Morrison in Amatissima? I bianchi credevano che, qualunque fosse la loro educazione, sotto ogni pelle scura si nascondesse una giungla. Acque vorticose non navigabili, babbuini che si dondolavano gridando, serpenti addormentati, gengive rosse pronte a succhiare il loro sangue dolce di bianchi. In un certo senso, pensò, avevano ragione. […] Ma non era la giungla che i negri avevano portato con sé in quel posto dall’altro posto (vivibile). Era la giungla che i bianchi avevano piantato loro dentro. E cresceva. E si allargava, si allargava prima, durante e dopo la vita, fino a coinvolgere i bianchi stessi che l’avevano creata. Li rendeva crudeli, stupidi, più di quanto non volessero esserlo, tanto erano spaventati da quella giungla di loro creazione. I babbuini urlanti vivevano sotto la loro pelle bianca, le gengive rosse erano le loro.
Al concetto di identità Remotti preferisce quello di somiglianza. Se nemmeno l’io può dirsi identico a se stesso, come possiamo dirlo di insiemi di persone, popoli, nazioni? Non ha più senso dire che l’io è simile a se stesso? Così come potremmo dire che certi italiani sono simili tra loro, ma per certi versi sono anche simili ai francesi… anche se per altri versi sono molto diversi tra di loro, come lo sono dai francesi? Compaiono le sfumature e le varianti, crolla il muro. Troppa enfasi sull’io, e in generale sui pronomi, dovrebbe sempre generare, se non il fastidio apertamente dichiarato da Gadda ne La cognizione del dolore, almeno un po’ di sospetto! «L’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona.» È chiaro che l’affermazione di un’identità, come nel caso delle cosiddette “minoranze” (anche se poi una “maggioranza” altro non è che un insieme di “minoranze”), è una testimonianza politica necessaria, un processo da salvaguardare perché costituisce la leva perché un gruppo discriminato possa aggregarsi e condurre le sue battaglie. In un’editoriale di qualche anno fa, una delle riviste mediche più antiche e importanti, il New England Journal of Medicine, scriveva che «l’identità sessuale è una parte essenziale di ciò che siamo» e che «essere omosessuali in una società che non offre accettazione e rispetto significa subire un attacco costante all’identità e determina l’impossibilità di vivere una vita normale».
Il punto è questo: l’identità può diventare uno strumento di testimonianza e di lotta, ma non può essere un’armatura che ci condanna a un ruolo, a un modo di essere. Va salvaguardata dallo stigma sociale ma anche dal fanatismo che abolisce le varianti e impone, all’interno del gruppo, un canone identitario. Anche perché, scandisce Toni Morrison, «liberarsi è una cosa, rivendicare la proprietà di quell’io liberato è un’altra». Lo stigma si incattivisce quando i colori risaltano, ma anche, subdolamente, quando si sfumano. Nel romanzo Americanah, la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie racconta la storia (liberamente autobiografica) di Ifemelu, emigrata dalla Nigeria agli Stati Uniti. Ma è a Princeton che Ifemelu scopre il razzismo: «Non mi sono mai pensata nera e lo sono diventata solo al mio arrivo in America». Un aspetto interessante del libro è che Ifemelu non soffre solo per il razzismo dei bianchi, ma anche per quello dei neri afroamericani, che la considerano diversa da loro in quanto africana e non americana. L’identità black degli afroamericani di Princeton si contrappone con quella black nigeriana. A un certo punto Ifemelu chiede a Shan, la sorella del suo fidanzato afroamericano, perché in America le capita più spesso di suscitare l’interesse degli uomini bianchi e non dei neri. La risposta di Shan la lascia di sasso: «Credo sia il tuo fattore esotico, quell’aria da “africana autentica”». Più di dieci anni fa, in un libro programmaticamente intitolato Citizen gay (la mancanza di una legge che riconoscesse i legami affettivi delle persone omosessuali faceva di loro dei cittadini di serie B), scrivevo che «la persona omosessuale non costituisce uno “specifico” sociale o psicologico: essere lesbiche o gay non è un merito, né un demerito. È una cosa che capita. Il gusto personale non dovrebbe fare aggregazione politica, ma la storia ci insegna che i gruppi discriminati tendono a costruire identità collettive e forme associative. Questo implica la necessità della formula “citizen gay”, ma anche la sua auspicabile transitorietà». Suspect classification è un’espressione della giurisprudenza americana che indica quei gruppi di cittadini che rientrano in classificazioni discriminanti sospette di incostituzionalità. L’esempio più citato di “classificazione sospetta” è la “razza”: la storia attesta come le leggi che impiegano il termine “razza” per indicare gruppi di individui siano sempre persecutorie. Per
questo, di fronte a una classificazione sospetta (nel contesto di un’azione di governo, di una legge, di un regolamento ecc.), la Corte americana è chiamata a adottare uno standard più severo (strict scrutiny) di valutazione della conformità al “principio costituzionale di eguaglianza” (Equal Protection Clause). Quali criteri qualificano un gruppo come suspect classification? Avere una storia di discriminazioni, ostilità, pregiudizi, stigma; coincidere con una minoranza identificabile; possedere una caratteristica immutabile e/o decisamente visibile (per esempio il colore della pelle, il genere o l’orientamento sessuale); non disporre di sufficiente rappresentanza e potere per proteggersi con strumenti politici. Riconosco il valore politico dell’acronimo LGBTTQI+ (Lesbian, Gay, Bisexual, Transsexual, Transgender, Queer, Intersexual), inclusivo e sempre in progress (come indicato dal +), ma credo che questo raggruppamento categoriale alla lunga non giovi. Più utile semmai declinare al plurale ogni categorizzazione identitaria: gli uomini, le donne, le omosessualità, le eterosessualità, le bisessualità, le transessualità, i transgenderismi ecc. Nel pensiero, nella scrittura, nell’azione politica, sarà il contesto a suggerirci di volta in volta se optare per il singolare o il plurale, per l’acronimo inclusivo o per le singolarità. Uno dei modi di definire, da un punto di vista psicologico, il senso della propria identità potrebbe essere quello di un sentimento individuale di continuità storica e personale che ci caratterizza nel dialogo tra differenza, varietà e somiglianza. Negli aggettivi “storica” e “personale” ci sono le due facce della medaglia, e questo mi spinge a pensare all’inevitabile relazione tra persecuzione sociale e rivendicazione identitaria. Ecco allora che, dopo aver affiancato il concetto di identità a quello di somiglianza, ora dobbiamo affiancarvi quello di dignità sociale. «Eguaglianza e dignità», scrive Stefano Rodotà con parole che meglio non potrebbero rispecchiare il senso di questo mio capitolo conclusivo, «non possono essere separate, e quest’ultima si presenta immediatamente come dignità “sociale”, dunque come principio che regola i rapporti tra le persone, il nostro essere nel mondo, il modo in cui lo sguardo altrui si posa su ciascuno di noi [corsivo mio]». Lo abbiamo imparato per sempre da Primo Levi: «Per vivere occorre un’identità, ossia
una dignità». L’identità di una persona non può essere mai separata dalla sua dignità. La rottura di questo nesso ci precipita nell’indegnità, nell’essere “non persone”, bersagli dell’odio sociale e del disgusto politico. Remotti ci mette in guardia: somiglianza è un concetto meno attraente di identità. Quello delle somiglianze è un terreno impegnativo, spesso disagevole se confrontato con la solidità granitica e rassicurante dei blocchi identitari. Una conoscenza basata sull’identità e sulle divisioni che da molto tempo, stando almeno al Michel Foucault di Le parole e le cose, segna la nostra cultura. Ma le somiglianze, sostiene Remotti con Foucault, sono resilienti e per quanto la cultura le avversi, le svaluti, le confini al ridicolo o al desueto (pensate a come suona datata e “buonista” la locuzione “i nostri simili”), loro continuano a esistere. Continuano a farsi sentire sullo sfondo: il «mormorio insistente della somiglianza», dice Foucault. Il linguaggio esiste, continua, perché al di sotto delle identità e delle differenze troviamo «il fondo delle continuità, delle somiglianze, delle ripetizioni, degli incroci naturali».
4. Haters Sul mormorio della somiglianza dovremmo sintonizzare la nostra sensibilità, soprattutto in tempi come questi gravemente inaspriti dallo scontro identitario. Prendiamo come esempio un fenomeno recente, esploso sui social network, territorio di caccia dei propagatori della nuova ideologia sovranista. Su queste piattaforme è nata una tribù virtuale, quella degli haters: un esempio istruttivo della reciproca influenza tra (cattiva) convivenza interiore e (cattiva) convivenza sociale. Chi sono gli haters, gli odiatori? Non credo negli identikit, ma direi che sono persone che hanno in comune il fatto di provare odio sentendo il bisogno di esternarlo. Questo mi fa pensare che siano persone infelici e con un funzionamento psichico primitivo. La psicoanalisi insegna che l’odio è un sentimento che tutti proviamo, ma che è fondamentale riconoscere ed elaborare. Credo che, in buona parte, l’odio online di oggi sia il rigurgito di chi prova rabbia perché il mondo sta andando in una direzione che gli fa
paura o lo confonde. È il mondo che Roberto Calasso definisce «l’innominabile attuale», dove «la sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano». L’hater attacca le donne perché teme la loro libertà e indipendenza; attacca le persone gay e lesbiche perché sa che il cammino dei loro diritti e della loro cittadinanza non può essere fermato; attacca i migranti perché sa che sono un fenomeno storico imponente che non può essere semplicemente respinto alzando muri o chiudendo porti. L’hater è l’emblema dell’inferno sartriano: di volta in volta, gli altri assumono tratti terrificanti. Si alza la voce perché non si possiedono strumenti culturali e politici per “affrontare” fenomeni e trasformazioni epocali. Certamente gli odiatori preesistono ai social network, ma la rete ha dato loro una configurazione specifica. Da sempre le maggioranze, silenziose o rumorose, hanno avuto bisogno di confermare se stesse attraverso un capro espiatorio. Che ovviamente scelgono tra le cose che temono e non capiscono, da cui si “difendono” considerandole “deboli” o “contaminate”: di volta in volta le donne, le persone non eterosessuali, disabili o di culture, etnie e religioni outgroup. Ma con i social network, basta un clic per moltiplicare l’effetto. E questo fa sentire ancora più forti. Si pensa di parlare al mondo, il che purtroppo a volte ha l’effetto della benzina sul fuoco che trasforma in incendio quello che poteva essere un fuocherello. Il senso della comunicazione sociale è cambiato in peggio e, sempre più spesso, porta con sé la banalizzazione, se non la sopraffazione, persino l’eliminazione, dell’altro. Che poi è il simile. La ricerca di popolarità e consenso ha stravolto le regole del confronto e del dialogo: siamo di fronte a una marea “identitarista” che si annuncia attraverso uno strumento capillare (il web) che cronicizza in forme aggressive il disagio psichico e sociale. Elementi discorsivi preesistenti (etnia, genere, religione ecc.) si caricano di elementi contingenti (paure, ansie, insofferenze) e vengono suggellati da fatti di cronaca: in un attimo la disumanizzazione del simile è compiuta. Non solo, l’odiatore non è più l’anonimo leone da tastiera, quello che lancia il sasso di un tweet e poi nasconde la mano: oggi si fa riconoscere. Vuole farsi
riconoscere! Ha il petto in fuori e rivendica la ribalta. Non si sente più solo, ma legittimato: un cambiamento radicale e preoccupante. Fino a qualche tempo fa certe esternazioni erano fatte quasi con timore, sapendo di non poter contare su una validazione sociale. Oggi sono legittimate dall’alto e questo ha contribuito a creare un clima pericoloso Ciò spiega anche perché l’anonimato non è più necessario: se lancio parole di odio e ottengo dei like, tanto vale firmarle con nome e cognome. Non c’è più il sasso gettato dalla mano che subito si ritira; ora la mano si mostra, e spesso con tutto il braccio teso. La conseguenza è che, come sempre più spesso vediamo, l’hate speech si trasforma in hate crime: dalle parole dell’odio all’azione criminosa. Ieri ho letto questa notizia: “Bimbo marocchino preso a calci. Un uomo ha sferrato al piccolo di tre anni un calcio all’addome ed è fuggito. La sua ‘colpa’? Essersi avvicinato alla carrozzina della figlia”. Studiando il contenuto di un consistente numero di tweet, oggetto di una ricerca chiamata Hate Maps (mappe dell’odio), che la mia cattedra in Sapienza ha condotto negli ultimi anni con l’Associazione Vox-Diritti, l’Università degli Studi di Milano e l’Università di Bari, abbiamo rilevato che gli insulti fanno quasi sempre riferimento a due ambiti: la sessualità e il corpo. Cioè due elementi alla base dell’identità. Colpirli serve a svalutare l’altro, ridurlo a cosa o funzione, degradarlo, farne un escremento. Solo in questo modo si riesce a odiare completamente. Perché per odiare un nostro simile prima è necessario recidere ogni possibilità di identificazione, categorizzarlo come alterità totale e poi, finalmente, disumanizzarlo. Il pensiero torna all’Ombra junghiana e al «cuore pensante» di Etty Hillesum, alle sue parole sulla disumanità nazista e alla sua capacità di conservare, invece, la propria umanità. Dal suo diario: La barbarie nazista fa sorgere in noi un’identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire oggi come vorremmo. Dobbiamo respingere interiormente questa inciviltà: non possiamo coltivare in noi quell’odio perché altrimenti il mondo non uscirà di un solo passo dalla melma.
Hillesum si rende conto di appartenere, lei e la sua comunità, a una terribile proiezione sociale. Una proiezione in quegli anni così potente e contagiosa da
poter essere misurata per mezzo della facilità con cui governi e persone comuni hanno sposato atteggiamenti e aderito a regole sempre più disumanizzanti. Eppure nelle pagine del suo diario avvertiamo una tensione verso il futuro proprio nel momento in cui il futuro non esiste più. La speranza che ci trasmette nasce dalla sua riflessione sul male. Odiare il nemico non porta che a identificarsi con lui, ogni altro sviluppo è impedito. Riuscire a “non odiare” i nazisti è un passaggio psicologico necessario proprio perché con il nemico, di cui conosce e riconosce tutto l’orrore, Hillesum stabilisce un dialogo interiore che crea nuovo spazio per il suo pensiero del cuore: «una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile». «Quando prego», scrive, «non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo “Dio”.» Aveva poco meno di trent’anni quando morì ad Auschwitz, nel novembre 1943, dopo un lungo periodo nel campo di reclusione e transito di Westerbork, dove era rimasta per scelta. Non aveva voluto abbandonare il destino della sua famiglia e del suo popolo: «Le mie battaglie le combatto contro di me, contro i miei propri demoni. Ma contro quei fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine, preferisco combattere in mezzo a migliaia di persone terrorizzate e smarrite». Etty si rivolge a Dio come al Tu dentro se stessa: «Anche se a priori non ti posso promettere niente, cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me. Se non puoi farlo tu, saremo noi ad aiutare te, difendendo fino all’ultimo istante l’ultimo pezzetto di te che è dentro di noi». Parole semplici che contengono un’idea sconvolgente: «Posso perfino perdonare Dio. Ho tanto amore in me, da riuscire a perdonare anche lui». E noi che non conosciamo la deportazione, noi che non siamo Etty Hillesum, noi che non anneghiamo nel Mediterraneo, noi piccoli e fortunati, come possiamo contrastare la cultura dell’odio che cresce dentro e fuori i social? Non ho risposte a questa domanda, se non quella di un’instancabile
azione quotidiana per il “noi”, ciascuno nel modo in cui è capace. Ma ho fiducia nella forza della parola. Promuovere la parola, il racconto, la testimonianza, mai tradire il linguaggio. Non sono contagiose le parole lette nel 1993 da Toni Morrison quando ha ricevuto il Nobel? Il saccheggio sistematico del linguaggio può essere riconosciuto dalla tendenza di coloro che lo utilizzano a rinunciare, per intimidazione e soggiogamento, alle sue molteplici sfumature, alle sue complessità, alle sue proprietà ostetriche. Il linguaggio oppressivo fa più che rappresentare la violenza: è violenza; fa più che rappresentare i limiti della conoscenza: limita la conoscenza. Che sia l’oscurante linguaggio di stato o il linguaggio fantoccio di media dementi; che sia l’orgoglioso ma calcificato linguaggio dell’accademia o il linguaggio della scienza guidato dal mercato; che sia il linguaggio maligno della legge senza etica o quello designato all’emarginazione delle minoranze, che nasconde il saccheggio razzista nella sua sfrontatezza letteraria: in ogni caso, deve essere respinto, castrato e smascherato. È il linguaggio che beve sangue, che affonda i denti nei punti vulnerabili, che nasconde i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo mentre avanza inesorabile verso la linea di fondo e le menti che hanno toccato il fondo. Linguaggio sessista, linguaggio razzista, linguaggio teistico: fanno tutti parte dei linguaggi della politica del dominio e non possono, e non intendono, permettere una nuova sapienza, né incoraggiare il reciproco scambio di idee.
E poi la somiglianza. Ha ragione Remotti quando suggerisce di ripensare l’individuo in termini di somiglianza, mettendo l’accento non sull’indivisibilità – che abbiamo capito essere illusoria – ma sulla partecipazione alla vita civile, sulla convivenza: non un individuo, ma un condividuo. «Non un “essere compiuto”, rotondo, indiviso, di una individua substantia in radice a-relazionale, ma un essere composito, solcato e formato dalle relazioni che lo connettono al mondo naturale e sociale.»
5. Psiche città aperta Nel suo ultimo libro Possiamo salvare il mondo prima di cena, Jonathan Safran Foer descrive un’umanità sull’orlo di un suicidio di massa. Lo fa partendo dalle sue contraddizioni, che sono poi le nostre: «Per me è ovvio che m’importa del destino del pianeta, ma se tempo ed energie investite sono indici dell’importanza di una cosa, è innegabile che m’importa di più del destino di una particolare squadra di baseball, quella della mia città natale: i
Washington Nationals. È altrettanto ovvio che non nego i cambiamenti climatici, ma è innegabile che mi comporto come se li negassi». È proprio così: non siamo Etty Hillesum, ma neppure Greta Thunberg. «Nessuno se non noi distruggerà la Terra», prosegue Foer aprendo uno spiraglio di fiducia nell’umanità, «e nessuno se non noi la salverà. Le condizioni più disperate possono innescare le azioni più cariche di speranza. Noi siamo il Diluvio e noi siamo l’Arca.» A pilotare l’Arca di un crescente sentimento ambientalista è una ragazza adolescente con una diagnosi di Asperger. Greta Thunberg incarna almeno due battaglie: la prima contro le logiche distruttive di aziende e nazioni che continuano a inquinare e consumare risorse, la seconda contro la stigmatizzazione legata alla diagnosi psichiatrica. Come molte diagnosi del cosiddetto “spettro autistico”, la sindrome di Asperger evoca stereotipi e pregiudizi. Per esempio, l’autismo è sempre visto come un ripiegamento implosivo su se stessi con totale disinteresse per il mondo esterno e le relazioni. Un isolamento completo. È interessante scoprire dalla voce di Greta che il rapporto con la sua condizione è cambiato radicalmente con la scoperta e l’apertura al mondo: «A scuola ero sempre sola, senza amici, mi sedevo in un angolo. A casa lo stesso, stavo male, avevo un disturbo alimentare. Tutto è passato ora, perché ho capito qual è la mia strada». Un esempio di anima mundi che cura la psiche? Greta definisce la sua diagnosi come il motore che l’ha spinta a occuparsi attivamente del nostro futuro: «Quando gli haters se la prendono per il tuo aspetto e la tua differenza, significa che non sanno che altro dire. E tu sai che stai vincendo. Ho la sindrome di Asperger e questo vuol dire che qualche volta sono un po’ diversa dalla norma. Nelle giuste circostanze, essere diversa è un superpotere». Uno dei primi (e dei pochi) psichiatri che si è interrogato sul ruolo dell’ambiente non umano (così si intitola un suo trattato del 1960) nello sviluppo della vita psichica, Harold Searles, ci ricorda che ignorarlo mette in pericolo la nostra salute mentale. Non parlo solo dell’ambiente naturale, di montagne, oceani e deserti, ma anche di edifici, strade e ponti. Anch’essi abitano la nostra mente come strutture psichiche. Uno dei luoghi della “condividuazione” è infatti la città, dove i nostri destini si intrecciano a quelli delle case, dei parchi, delle automobili e dei centri d’accoglienza. La città o la
nazione come sistemi chiusi si oppongono al dinamismo della mente e del cuore: «La “brutta” situazione “in” cui mi trovo», scriveva Hillman vent’anni fa, in polemica con una psicoanalisi claustrofila e incapace di curare l’anima del mondo, «forse non riguarda soltanto un umore depresso o uno stato mentale ansioso; forse ha a che fare con il grattacielo per uffici, chiusi ermeticamente, nel quale lavoro, con il quartiere dormitorio nel quale abito, o con la superstrada sempre intasata sulla quale vado e torno fra i due luoghi.» Ansia, depressione, paranoia. Il contrario del senso positivo di radicamento che dovremmo sentire nei luoghi che abitiamo. Ma cosa è il radicamento? Per Simone Weil è forse il bisogno più importante e meno riconosciuto dell’anima umana. […] Un essere umano ha una radice grazie alla sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività. […] Ogni essere umano ha bisogno di avere molteplici radici. Ha bisogno di ricavare la quasi totalità della sua vita morale, intellettuale, spirituale, con la mediazione degli ambienti di cui fa naturalmente parte.
Di nuovo, con Pontalis, «ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi». Ciascuno di noi è attraversato da molte radici, è l’incrocio di molte genetiche. «È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.» Così Italo Calvino termina la descrizione di Zenobia, città sottile tra le città invisibili, città in cui, se si chiede agli abitanti di descrivere come vedrebbero «la vita felice» immaginano sempre una città come Zenobia. Come può essere la nostra Zenobia, città creata secondo principi e desideri di convivenza? In queste pagine, in cui faremo convivere psicoanalisi e urbanistica, parleremo del rischio di annullamento che il cittadino corre nelle nostre metropoli, dove l’incontro tra persone e luoghi raramente accende scintille: città in cui l’anima mundi è soffocata dalla neutralità e dall’omologazione (anti)estetica. Nel suo ultimo libro, L’età dello smarrimento, lo psicoanalista inglese Christopher Bollas ricorda che, una volta, nelle città i locali pubblici non
erano soltanto luoghi per bere un caffè, ma anche per incontrarsi e discutere. «Non si può dire lo stesso degli odierni clienti degli Starbucks.» Richard Sennett, urbanista illuminato, è dello stesso avviso: se nel mondo antico e medievale gli spazi aperti erano pensati principalmente per far incontrare le persone e farli partecipare alla vita attiva delle piazze, agli scambi commerciali nei mercati, alla vita comunitaria e religiosa delle chiese, nelle città moderne «gli spazi per la folla […] sono riservati e sapientemente organizzati ai fini del consumo […] o per favorire il turismo». Ogni volta che per prendere un treno devo attraversare la stazione centrale di Milano (ma questo vale per tutte le stazioni ferroviarie, non solo quella della mia città) mi infurio perché sono costretto a un itinerario più lungo e tortuoso pensato da architetti perversi per costringermi a uno slalom tra vetrine ammiccanti. Alla base di questo cambiamento vi è un codice di capitalismo intransigente, dove la neutralizzazione dello spazio urbano serve a promuovere uno stile di vita “omogeneo” in cui ognuno consuma con l’illusione di essere come tutti. La neutralizzazione delle metropoli contemporanee consiste nel rendere i luoghi privi di un carattere specifico, interscambiabili, indifferenziati. Edifici “globali”, pseudo-identità seriali. Non-luoghi come grandi parentesi antiantropologiche che, eliminando le mille tracce dell’abitare, divorano la vita intesa come biografia multipla. Secondo Sennett il principio della neutralizzazione è avvenuto con la rivoluzione industriale e l’applicazione allo spazio urbano del concetto di griglia, ripreso dagli antichi accampamenti militari romani. Meno evidente nel nostro continente, lo schema a griglia è tipico delle città statunitensi, incrocio tra meridiani e paralleli che elimina imperfezioni e spazi imprevisti, delimita quadranti con confini precisi: «una geometria del potere», scrive Sennett, «nella quale la vita interiore rimane priva di forma». Parlando della periferia romana, Pier Paolo Pasolini dà voce a un sentimento simile: Le forme di questi grandi casamenti, disposti in gruppi asimmetrici ma regolari, intorno a cortili circondati da muri, erano forme gemelle. Ripetizioni di una stessa forma; che del resto si ripeteva anche, analoga, negli altri gruppi vicini. Come costellazioni, questi gruppi di abitazioni, si spingevano dal deserto desolato verso costellazioni più fitte. Ma il silenzio non
era meno fondo che nel deserto. Negli enormi cortili di materiale povero, cemento spruzzato per parere marmo, mattoni che parevano finti, il vuoto era assoluto [corsivo mio].
Imbalsamate e seriali, le nostre città ambiscono a un principio d’ordine che divide l’interno dall’esterno. Città sempre più simili a supermercati.
6. Migrazioni e psicoanalisi Più spaventosi delle griglie, sono i muri. In Europa, dal 2012 a oggi, ne sono sorti quasi mille chilometri, lungo i confini di tredici paesi. Come scrive Gabriele Del Grande nel suo blog Fortress Europe, con i dati aggiornati al 2016: «Dal 1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 27 382 persone, di cui 4 273 soltanto nel 2015 e 3 507 nel 2014». La politica dei muri, reali o virtuali, è la bandiera di molti partiti e movimenti di destra. Che, negli ultimi anni, hanno moltiplicato consensi in rete e conquistato seggi in parlamento reclamando muri da erigere e porti da chiudere in nome di un’illusoria “sicurezza”. Uno studio del 2019 pubblicato sulla rivista “PNAS”** ha calcolato che, in seguito ai cambiamenti climatici, nei prossimi ottant’anni, se non saranno presi provvedimenti, il livello dei mari salirà di due metri, portando a spostamenti di massa che riguarderanno quasi duecento milioni di persone. I muri vengono concepiti come rifugi per contenere la paura, diventano prigioni che aumentano la paranoia e limitano la libertà di movimento. Recinzioni che attestano un paradosso: costruiti per difenderci e garantire sicurezza evocano in modo più acuto il pericolo. Lo spiegava Elias Canetti in Massa e potere: la massa chiusa in una fortificazione teme due nemici, quello che assedia dall’esterno, chiede di entrare, spinge contro le porte; e quello che, già penetrato, potrebbe essere «in cantina». Le mura che vorrebbero proteggerci diventano la recinzione che ci rende prigionieri. È la «giungla» di Toni Morrison, costruita dai bianchi stessi. Sul bisogno di sicurezza e di “pulizia” (anche etnica) fa leva la propaganda sovranista: la paura dei clandestini, di quelli che hanno scavalcato le mura, che si sono intrufolati tra di noi e sono pronti a impossessarsi dell’urbe. Nella costruzione di un muro
c’è inscritta la sua condanna. È di oggi (10 settembre 2019) questa dichiarazione di papa Francesco Bergoglio: «I muri lasciano soli coloro che li fabbricano. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma coloro che rimangono dentro i muri resteranno soli, e alla fine della storia sconfitti per delle invasioni potenti». Un paese che non ha perseguito la politica delle fortificazioni è il Canada. Certo, un paese enorme, poco popolato, confinante con un solo altro paese che è la più grande potenza mondiale. Non è direttamente esposto a ondate migratorie. Tuttavia, solo nel 2016, il Canada ha ricevuto e reso cittadini 300 000 immigrati, di cui più di 40 000 rifugiati. Il premier Justin Trudeau ha dichiarato che «in Canada non esiste una core identity, un’identità centrale». In un tweet ha scritto: «A tutti coloro che scappano dalle persecuzioni, dal terrore e dalla guerra: il Canada vi darà il benvenuto, indipendentemente dalla vostra fede. La diversità è la nostra forza. #WelcomeToCanada». Lo scrittore canadese Charles Foran ha definito il suo paese come «il primo Stato postnazionale», la cui costituzione annovera il multiculturalismo tra i valori nazionali. Un’esperienza da conoscere per contrastare le ossessioni identitarie. «Aprite le finestre dei vostri studi.» Sull’onda di questa storica esortazione hillmaniana, gli psicoanalisti e gli psicologi accademici hanno iniziato a mettere la testa fuori dai loro studi e dai loro dipartimenti. Negli Stati Uniti hanno espresso il loro dissenso, scientifico e umano, per la politica dell’amministrazione Trump responsabile di aver separato migliaia di bambini al di sotto di un anno dai loro genitori migranti al confine con il Messico. Da noi, le principali società e associazioni psicoanalitiche hanno indirizzato al presidente Mattarella lettere e appelli scritti con l’inchiostro della preoccupazione e della disapprovazione. Il motivo è stato il cosiddetto Decreto Sicurezza (legge 132/2018), un decreto che – leggiamo nei documenti firmati dalla Società Psicoanalitica Italiana (SPI), dall’Associazione Italiana di Psicologia (AIP), dal Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) e dall’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA) – a dispetto del suo nome «sta rendendo la condizione dei migranti e, consequenzialmente quella italiana, sempre più insicura»,
rischiando di «distruggere l’integrazione di soggetti socialmente vulnerabili, in primo luogo i minori non accompagnati e le donne, spesso vittime di tratta e ridotte in schiavitù, al tempo stesso minando l’impianto dei diritti fondamentali su cui si basa la nostra Repubblica». Emerge una visione critica di ogni logica che additi «un nemico nel diverso, diffondendo una ‘cultura’ razzista e xenofoba che si incunea nello spaesamento, nello sconcerto, nella paura dei cittadini». Non si tratta di sottovalutare le complesse trasformazioni sociali prodotte dai fenomeni migratori, ma di mettere in discussione «la conversione di oggettivi elementi di criticità sociale in rappresentazioni simboliche ostili», con «ricadute negative sulla convivenza civile». Ai rischi della disumanizzazione vengono contrapposte la finalità del lavoro clinico, cioè l’accoglienza, e l’affidabilità dei risultati delle ricerche sul campo. È proprio l’esperienza quotidiana di contatto con il disagio psichico profondo e con la sofferenza legata a traumi, sradicamento e lutto migratorio che ci spinge ad assumere una posizione critica, ritenendo che non si possa tacere sulle condizioni in cui versano i migranti in Italia. [...] Le scienze psicologiche hanno prodotto evidenze in favore del carattere non alternativo ma complementare di identità e diversità. L’identità di un popolo si fonda sulla costruzione paziente e faticosa della pluralità e della convivenza delle differenze (etniche, ma non solo).
“Sicurezza” è una parola fondamentale per le scienze della psiche ma l’attuazione di questo decreto rischia di contribuire a instaurare nel nostro paese un «clima spaventoso e spaventante». Se da un lato la legge 132/18 si prefigge di rispondere al «bisogno di sicurezza dei cittadini», dall’altro, complice l’enfasi mediatica, finisce per affrontare tale bisogno «non tanto ribadendo la giusta e doverosa rigorosità nelle procedure di accoglienza» bensì «assecondando e alimentando», senza elaborarle, «reazioni viscerali che generano ulteriori insicurezze». L’effetto collaterale è l’aumento delle marginalità. «Diventati fantasmi, privati di tutto, gli uomini e le donne che restano esposti al pericoloso circuito vizioso alimentato da condizioni di bisogno estremo» facilmente si trasformano in persone «vulnerabili e inermi, assoggettabili a contesti delinquenziali.» Non solo, tale marginalità «avrà un impatto dannoso sulla loro salute psico-fisica, con maggiore incidenza di
malattie, disagio psicologico, disturbi mentali, condotte autolesive e suicidarie». Insomma, il messaggio della comunità degli psicoanalisti e degli psicologi italiani è: restiamo umani. «Non riconoscere più il permesso di soggiorno per motivi umanitari è disumano! […] La disumanità è un rischio costante per l’umano in cui si può scivolare quasi inavvertitamente spostando sempre un po’ più in là l’asticella di ciò che è tollerabile.» «La nostra preoccupazione si rivolge alla salute mentale delle popolazioni discriminate ma anche a quella dei nostri connazionali: quando a essere messi in discussione sono i principi etici fondamentali, a ciascuno non resta che perseguire ciecamente la disumanità dell’umano, ampiamente raccontata dalla storia.» Concordi nell’individuare pericoli e oscurità delle attuali politiche migratorie, questi documenti condividono un’idea di cittadinanza costruita sul principio di convivenza e sul riconoscimento reciproco, in cui chi arriva non è etichettato come nemico ma è integrato e accolto nel proprio mondo psichico e sociale. Nel discorso di fine anno 2018, il presidente Mattarella ha affermato che «la vera sicurezza si realizza preservando e garantendo i valori positivi della convivenza». Psicologi e psicoanalisti hanno ripreso le sue parole, ben sapendo che l’accoglienza è una prova nobile e difficile e la convivenza è una paziente tessitura da costruire nel quotidiano, sfidando paure e diffidenze. Triste scrivere queste parole quando nei mesi successivi all’approvazione del Decreto sicurezza è stato approvato un Decreto sicurezza bis che segna una svolta ancora più autoritaria e punitiva riguardo al soccorso in mare. Alla psicologia si chiede questo: l’esercizio della mediazione, non quello della sopraffazione. È importante gettare semi psichici. Come quelli dello psicologo Marwan Dwairy che ci spinge a riflettere sul significato non solo geopolitico di “confine” come linea che separa i territori (e le persone). Sul confine, dice, è possibile «creare spazi» che facilitano la costruzione di ponti tra umani anche quando provengono da esperienze estreme o addirittura da fronti nemici. La psicoanalista Jessica Benjamin dedica un capitolo del suo ultimo libro alla psicoanalisi come strumento per comprendere e testimoniare la sofferenza e la disumanizzazione dell’altro. Non volendosi limitare alle formulazioni teoriche e al setting clinico, Benjamin ha dato vita, durante
l’apice della Seconda Intifada tra palestinesi e israeliani (2003-2004), all’Acknowledgement Project: concetti di derivazione psicoanalitica utilizzati per tracciare itinerari di gestione e risoluzione di conflitti politici e sociali radicati nella dimensione intersoggettiva (a questo proposito si veda il film L’insulto del regista libanese Ziad Doueiri come splendido esempio di elaborazione della vendetta). In una delle pagine più belle del libro, Benjamin rievoca un episodio autobiografico avvenuto nel 2008. In vacanza a Miami, le arriva la notizia di un terribile bombardamento a Gaza. I suoi pensieri vanno subito ai colleghi e agli amici dell’Acknowledgement Project. Riesce a sentirne uno al telefono e alla fine della conversazione è molto scossa: sente su di sé il terrore e l’angoscia ascoltati dall’altra parte della linea. Per riprendersi, va a fare una passeggiata in spiaggia. E qui ha un’esperienza strana, che forse testimonia la molteplicità dei sé di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Si guarda intorno e vede solo persone bianche, si sente a disagio, fuori luogo, sola. Arriva a pensare: «Qui non c’è nessuno come me, sono tutti bianchi!». Poi, razionalmente, si dice: «Ma cosa stai pensando? Tu non sei più scura degli altri, sei bianca come tutti qui!». Si rende conto di essersi identificata con il collega sentito al telefono, di aver incarnato il suo senso di solitudine. Si accorge di aver vissuto «una forma particolarmente intensa di dissociazione» in cui una parte di sé «è stata sequestrata e trasformata da un “sé bianco al sicuro” in uno dei sé delle persone non protette e non al sicuro – giovani scuri di pelle, rifugiati, migranti, detenuti in carcere o prigionieri nei campi – che possono essere abbandonati o attaccati perché il mondo non apprezza le loro vite, anzi può svalutarle attivamente». Si tratta di un incontro psichico con un altro/simile lontano, un meccanismo inconscio che pone le basi di un vero riconoscimento intersoggettivo, prerequisito fondamentale del lavoro psicoanalitico con i migranti. Nel libro The power of phenomenology, Robert Stolorow e George Atwood affermano che, come terapeuti, quando incontriamo il dolore profondo delle esperienze traumatiche (torture, stupri, esili forzati, uccisioni di persone care – tutti traumi ricorrenti nei migranti) dobbiamo imparare a ricomporre gli stati del sé frammentati e traumatizzati, fornendo una comprensione basata sul riconoscimento di questi stati in modo che possano essere gradualmente
trasformati in sentimenti dolorosamente tollerabili: «in una relazione terapeutica ospitale, il dolore emotivo e la vulnerabilità esistenziale possono essere integrati in un’unità continua e costituiva, in cui il paziente possa percepirsi di nuovo come un essere umano». I traumi hanno il potere di scardinare il “sistema armonico” che ho descritto in questo libro, ovvero l’auspicabile rapporto di fiducia, ascolto e sicurezza che lega l’io con il tu e il noi. L’io torturato non riesce più ad avere fiducia in un tu e sente di non poter trovare asilo in un noi. Il sé si isola, non ci sono più spazi di scambio. La tortura sigilla il mondo interno e lo trasforma in una prigione muta e angusta. Il bisogno della mente di difendersi non termina quando il trauma è finito. Anzi, il trauma non finisce mai perché lascia nel cervello un residuo dissociato, non elaborato e non regolabile. Philip Bromberg lo definisce «l’ombra dello tsunami», espressione che involontariamente contiene l’immagine soverchiante del naufragio, del mare che inghiotte la speranza. «È la verità dell’esperienza traumatica che forma il centro della sua psicopatologia», scrive Cathy Caruth, studiosa delle risposte al trauma. «Non è una patologia della falsità o dello spostamento del significato, ma della Storia stessa.» A piccoli passi e con l’aiuto di altre tecniche e strumenti, la psicoterapia può aiutare a superare il terrore della speranza, a riacquistare fiducia dapprima in un tu a cui potersi affidare, poi nella comunità a cui questo tu appartiene. Può offrire la possibilità di abbandonare gradualmente il «santuario dissociativo del dolore», altra espressione di Bromberg, e indicare una via che contenga la possibilità di pensare il futuro. E quindi il passato.
7. I tuoi occhi hanno un aspetto politico Mi piacerebbe che chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui sentisse sulla propria pelle e sotto la propria pelle i tre cerchi che si toccano sulla copertina del libro. Che li sentisse non solo come opzioni teoriche ed escursioni bibliografiche, che in parte inevitabilmente sono, ma come esperienze possibili. Che riuscisse a tradurli in attitudini vitali: il cerchio flessibile e
insaturo dell’identità che tocca quello della relazione, tiepido o incandescente, che tocca quello inclusivo e politico della comunità. Che a sua volta tocca quello flessibile e insaturo dell’identità… Questo viaggio, iniziato nei territori della psiche, finisce in quelli della politica. Perché la psiche spesso è politica e la politica è spesso psichica. Allora la domanda non può che essere al contempo psichica e politica. E dunque molto personale: da quale anello inizieremo per imparare la difficile arte della convivenza? In quale parte del corpo custodiremo i versi di Szymborska che ci ricordano che «i tuoi geni hanno un passato politico, / la tua pelle una sfumatura politica, / i tuoi occhi un aspetto politico»? In quale regione della terra metteremo in salvo le parole di John Donne? «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.»
* Così scrive Fausta Garavini nella sua bella introduzione. ** “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”.
Nota
La lettura di questo libro, di impianto non accademico, sarebbe stata appesantita dall’uso di entrambi i generi (per esempio, “la/lo psicoanalista”, “la/lo psicoterapeuta”, la/il bambina/o ecc.). Il maschile è stato privilegiato non per perpetuare il sessismo nel linguaggio, ma per seguire le regole finora in uso della lingua italiana. La figura di accudimento è di volta in volta indicata come la madre, il padre, il genitore, il caregiver. Per quanto riguarda l’uso del maiuscolo o del minuscolo nelle parole Sé/sé, Io/io, Tu/tu, ho mantenuto la maiuscola quando faccio esplicitamente riferimento all’Io come istanza dell’apparato psichico, al Tu come concetto della filosofia di Martin Buber, al Sé come concetto delle psicologie junghiana e kohutiana. Salvo qualche motivata eccezione, in tutti gli altri casi ho preferito il minuscolo. In questo libro convivono parti elaborate a partire da testi da me scritti nel corso degli anni: sono tutti indicati nella bibliografia finale.
Ringraziamenti
Grazie a: Giulia Cogoli, idea forte e presenza delicata; Luca Formenton, sempre primo lettore, esperto e sincero nel consiglio; Guido Giovanardi, amico di penna e di pensiero; Alba Lingiardi, lettrice politica e sorella leale; Liliana Rampello, metronomo d’affetti e di sintassi. Un abbraccio a Vivian Lamarque per il regalo dei versi inediti.
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DIALOGHI SULL’UOMO
Aa. Vv., Dono, dunque siamo. Otto buone ragioni per credere in una società più solidale Aa. Vv., L’oltre e l’altro. Sette variazioni sul viaggio Eva Cantarella, Ippopotami e sirene. I viaggi di Omero e di Erodoto Marco Aime, Tra i castagni dell’Appennino. Conversazioni con Francesco Guccini Aa. Vv., L’arte della condivisione. Per un’ecologia dei beni comuni Marco Aime, Senza sponda. Perché l’Italia non è più una terra di accoglienza Aa. Vv., Le case dell’uomo. Abitare il mondo Stefano Bartezzaghi, La ludoteca di Babele. Dal dado ai social network: a che gioco stiamo giocando? Aa. Vv., L’umanità in gioco Salvatore Settis, Cieli d’Europa. Cultura, creatività, uguaglianza Aa. Vv., La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi Adriano Favole, Vie di fuga. Otto passi per uscire dalla propria cultura Aa. Vv., Rompere le regole. Creatività e cambiamento