Io sono quella che tu fuggi. Leopardi e la natura
 9788863727883, 9788863727890

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Leopardi è a pieno titolo un «filosofo naturale�>, per le sue competenze scientifiche e per l'originalità del suo pensiero. I grandi e tragici interrogativi Ieopardiani intorno al tema della felicità impossibile acquistano il loro pieno significato attraverso la profonda comprensione dell'unica e complessa realtà naturale, fisica e umana, raggiunta da Leopardi già nei «sette anni di studio matto e disperatissimo•. Per la prima volta tale rapporto di Leopardi con la scienza e la filosofia della natura è oggetto di una trattazione complessiva, di­ stinta per temi: astronomia, cosmologia, matematica, chi­ mica, biologia, storia naturale, fisica, tecnologia, storia della scienza, antropologia. Il 'naturalismo'leopardiano esce così dalle abusate formule scolastiche per mostrare tutta la sua concreta ricchezza, ancora oggi filosoficamente pregnante. fa parte del Comitato scientifico del Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Studioso di storia del pen­ siero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo, su Leopardi «filosofo naturale» ha pubblicato quattro volumi: Leopardi e ..le ragioni della. verità (Roma 2003); Galileo in ..

Leopardi (Firenze 2007);

« •••

per le forze eterne della. materia».

Natura. e scienza in Giacomo Leopardi (Milano 2oo8); Gia­ como Leopardi: la. concezione dell'umano, tra utopia e disin­ canto (Milano-Udine 2011).

argomenti 2

Gaspare Polizzi

Io sono quella che tu fuggi Leopardi e la natura

edizioni di storia e let ter atur a

In copertina: Joseph Rebell, Burrasca al chiaro di luna nel Golfo di Napoli, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Galleria Nazionale di Parma. Divieto di riproduzione con qualsiasi mezzo.

Prima edizione: luglio 2015 ISBN 978-88-6372-788-3 eISBN 978-88-6372-789-0 È vietata la copia, anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata Ogni riproduzione che eviti l’acquisto di un libro minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza

Tutti i diritti riservati

edizioni di storia e letteratura 00165 Roma - via delle Fornaci, 24 Tel. 06.39.67.03.07 - Fax 06.39.67.12.50 e-mail: [email protected] www.storiaeletteratura.it

Prefazione

Un fisico attento alla filosofia e alla letteratura, Carlo Rovelli, ha scritto di recente1 di aver sentito parlare del naturalismo di Giacomo Leopardi «quasi solo quando ci raccontavano a scuola quanto esso avesse fatto soffrire Leopardi…», specie nel ricordo della natura matrigna, rappresentata da una «forma smisurata di donna» nel Dialogo della Natura e di un Islandese, resa efficacemente nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, con una enorme statua animata di argilla. Se la lettura vulgata del naturalismo leopardiano si riduce alla sola ‘figura’ della natura matrigna, essa appare davvero povera. Questo libro porta a sintesi, e rinnova, un itinerario di studi condensatosi, nel corso di quasi vent’anni, in vari saggi e in quattro volumi2. Mi sforzo qui di mostrare la ricchezza della concezione leopardiana della natura e la presenza in essa di una trama di conoscenze scientifiche, significativa rispetto al sapere del tempo e talmente efficace da indirizzare non solo tante riflessioni sulla natura disseminate nello Zibaldone, ma anche la filosofia della natura che emerge dalle Operette morali, opera «filosofica, benché scritta con leggerezza apparente» (Lettera ad Antonio Fortunato Stella, Recanati 6 Dicembre 1826), e che traspare, se pure nello stile ‘vago’ e indefinito scelto dall’autore, nei Canti e negli altri componimenti poetici.

  C. Rovelli, Non possiamo non dirci naturalisti, «Domenica», supplemento domenicale «Il Sole 24 Ore», 343 (2014), 14 dicembre, p. 27. 2   Cfr. Leopardi e “le ragioni della verità”. Scienze e filosofia della natura negli scritti leopardiani, prefazione di R. Bodei, Roma, Carocci, 2003; Galileo in Leopardi, Firenze, Le Lettere, 2007; «…per le forze eterne della materia». Natura e scienza in Giacomo Leopardi, Milano, FrancoAngeli, 2008; Giacomo Leopardi. La concezione dell’umano, tra utopia e disincanto, Milano-Udine, Mimesis, 2011. 1

vi Io sono quella che tu fuggi

Leopardi è a pieno titolo un ‘filosofo naturale’, nell’accezione che rinvia al philosophe illuminista, ancora diffusa nel primo Ottocento, e per le sue competenze scientifiche, e per l’originalità della sua filosofia. E la sua formazione nelle scienze naturali, consona alla struttura di un corso di studi di tradizione gesuitica ed aristotelica, procede parallelamente a quella in ambito morale e religioso. I grandi e tragici interrogativi che Leopardi metterà in bocca al pastore errante dell’Asia – «Dimmi, o luna: a che vale | Al pastor la sua vita, | La vostra vita a voi? dimmi: ove tende | Questo vagar mio breve, | Il tuo corso immortale?» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 16-20) – ruotano intorno al tema della felicità impossibile per gli uomini e acquistano il loro significato con la chiara e netta comprensione dell’unica e complessa realtà naturale, fisica e umana, raggiunta da Leopardi già nei «sette anni di studio matto e disperatissimo» (1809-1816) (Lettera A Pietro Giordani, Recanati 2 Marzo 1818). Ho voluto qui proporre, credo per la prima volta, una presentazione complessiva del rapporto di Leopardi con la scienza e la filosofia della natura, distinta nei principali contenuti trattati: astronomia, cosmologia, matematica, chimica, biologia, storia naturale, fisica, tecnologia, storia della scienza, antropologia. La scelta di una partizione tematica evidenzia meglio il diverso significato che i vari aspetti del sapere scientifico assumono nel pensiero e nella poesia di Leopardi, con una indubbia prevalenza della predilezione per l’astronomia, la chimica e la biologia. Non trascuro tuttavia la distribuzione cronologica, così importante per collocare nel tempo le letture e le conoscenze leopardiane: ogni capitolo si modula nel tempo, cercando di mostrare la permanenza di conoscenze giovanili, immutate o modificate, alla radice di tanti motivi di ‘pensiero poetante’ e di ‘poesia pensante’. Espressioni classiche per definire l’opera leopardiana, quali poeta cosmico e lunare, stratonismo, visione paesaggistica e idillica, vengono schiarite con una nuova luce, così come meglio vengono compresi concetti ed espressioni come ‘termini e parole’, ‘ragione analitica’, «li continui rivolgimenti della materia» (Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco). E assume il giusto rilievo la partecipazione di Leopardi ad alcuni grandi dibattiti filosofico-scientifici della modernità: pluralità dei mondi abitati, anima delle ‘bestie’, rapporto tra prisca sapientia e scienza moderna,



Prefazione

vii

teoria copernicana, nuova chimica di Lavoisier, storia naturale. Mi auguro che il ‘naturalismo’ leopardiano possa così uscire delle trite formule scolastiche per mostrare la sua efficace e concreta ricchezza, ancor oggi filosoficamente pregnante.

I Astronomia, cosmologia e cosmogonia: uno sguardo sul cosmo

Un bambino curioso del cielo. Giacomo aveva assistito a sei anni, da bambino curioso, a un’eclissi solare e a tredici anni al passaggio di una cometa, due fenomeni celesti che ancora impaurivano i popolani di Recanati, ma non il giovane Leopardi, educato dal padre Monaldo a studi severi e in grado di leggere, nella Biblioteca di famiglia, i migliori e più aggiornati trattati di astronomia. Il cielo, soprattutto notturno, diviene presto una delle principali fonti di attrazione per il giovanissimo studioso: dall’attrazione si passerà alla conoscenza, alla denuncia degli ‘errori’ delle ‘favole antiche’ e dell’ignoranza popolare, e all’immaginazione poetica, che si nutrirà con un maturo ripensamento delle comuni illusioni. Senza dover analizzare il carattere cosmico della poetica leopardiana, basti qui ricordare quanto sia persistente e profonda la visione astronomica nei Canti, da Ad Angelo Mai al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, alla Ginestra, e nelle Operette morali, dal Dialogo della Terra e della Luna al Copernico. Nel Capo Decimoprimo (Dell’astrologia, delle ecclissi, delle comete) del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815) il giovane Leopardi descriverà da erudito alcune ‘favole’ sui fenomeni celesti incogniti al volgo, che facevano temere, come le eclissi, lo spegnimento del sole o della luna, rimarcando come «Questa idea si presenta naturalmente a un intelletto non istruito», e quattro anni dopo, nell’autunno 1819, scriverà un frammento poetico, Odi, Melisso (poi stampato con il titolo Lo spavento notturno nei Versi del 1826), in cui immagina che il pastore Alceta, «intelletto non istruito», racconti il suo sogno della caduta della luna, «Grande quanto una secchia (…), che stridea | Sì forte come quando un carbon vivo | Nell’acqua immergi e spegni» (vv. 10-13). Il giovanissimo studioso testimonierà il

2 Io sono quella che tu fuggi

suo primo incontro con l’astronomia, scienza prediletta costantemente per l’intera vita ancor prima, a tredici anni, con la Dissertazione sopra l’astronomia (1811), seguita dalla ben più impegnativa Storia della Astronomia dalla sua origine fino all’anno mdcccxi (1813) e da una sua appendice, la Dissertazione sopra l’origine e i primi progressi dell’Astronomia (1814). Giacomo raccoglierà, con intense ricerche estese per almeno cinque anni (dal 1811 al 1815), una straordinaria quantità di conoscenze dirette e indirette, legate allo stato attuale della disciplina, alla sua storia, fin dalle origini, ai suoi rapporti con la cosmologia, la cosmogonia, l’astrologia, con le credenze mitiche e religiose e con le più diverse civiltà e tradizioni letterarie (dai Sumeri agli Ebrei, dagli Aztechi agli Arabi). La vastità delle conoscenze astronomiche e storiche è notevole non soltanto nella formazione di Leopardi, ma anche in assoluto: la Storia della Astronomia, pubblicata per la prima volta soltanto nel 1880, verrà riconosciuta come «uno dei dieci testi più importanti sull’argomento che siano mai stati scritti» nell’Ottocento. Si possono riconoscere in questi studi, poco più che ‘puerili’, aspetti di originalità, nel metodo e nel merito? E se ne possono rintracciare segni persistenti nella riflessione matura e nella grande produzione poetica e letteraria? Le opere astronomiche giovanili. Nelle tre opere astronomiche giovanili, tra le quali spicca la Storia della Astronomia, Leopardi si mostra ben edotto sui più recenti risultati dell’astronomia e sul suo consolidamento teorico nel sistema newtoniano. Sempre attento alle osservazioni empiriche, il giovane Leopardi coglie subito il valore dalla scoperta di Edmund Halley della periodicità delle comete (1705), della scoperta principale di Friedrich Wilhelm Herschel, il nuovo pianeta Urano (13 marzo 1781), e della scoperta italiana del padre teatino Giuseppe Piazzi, che il 1° gennaio 1801 individua il primo asteroide, nominato Cerere, nell’osservatorio di Palermo da lui fondato. Sul piano teorico e sistematico, grande è l’attenzione a Isaac Newton. Ma se Leopardi attribuisce a Newton, visto anche come scienziato sperimentale, il merito di «illuminare il mondo intorno

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

3

alla natura delle comete e alla vera causa del loro apparire [ovvero la legge di gravitazione universale]»), scarso è l’interesse per la rigorizzazione matematica del sistema newtoniano, espressa nel linguaggio dell’analisi matematica da Pierre Simon de Laplace nel Traité de mécanique céleste (5 voll., 1798-1825). I due numi tutelari dell’astronomia moderna – Niccolò Copernico e Galileo Galilei – trovano subito un loro spazio significativo, anche se a questa data fa ancora da ostacolo alla piena accettazione del sistema copernicano l’adesione rigida del giovane Leopardi alla dogmatica cattolica: con l’uso sapiente dei manuali disponibili Leopardi si limita a proporre un’interpretazione ‘convenzionalista’ del modello copernicano («il più ammissibile fra tutti i sistemi celesti»). Copernico diventerà una figura concettuale nello Zibaldone e verrà messo in scena nella mirabile Operetta del 1827 Il Copernico. Ancora più ombreggiato appare fin dall’inizio il rapporto con Galileo. Nella prima attestazione – nella Dissertazione sopra l’astronomia – del rilievo della figura dello scienziato pisano, non proprio comune nella storiografia settecentesca sull’astronomia, Galileo viene presentato come «nobile Fiorentino genio veramente sublime, e nato per arrecar luce alle tenebre della Filosofia di quel tempo». Già qui l’attenzione si concentra sulle sue doti sperimentali, con la segnalazione dell’invenzione del telescopio, ricordato con un’enfasi metodologica sul rilievo del «concatenamento di cognizioni» per la comprensione della complessa realtà naturale, ma viene espressa anche una critica per la sua mancata scoperta dell’esistenza degli anelli di Saturno. È tuttavia strana l’assenza di ogni menzione relativa alle grandi scoperte galileiane, come quella dei satelliti di Giove, descritte nel Sidereus Nuncius (1610) e realizzate grazie al telescopio, peraltro poi ampiamente segnalate nella Storia della Astronomia. Si tratta di un punto problematico, che può condurre a ipotizzare una reticenza volontaria, indice di ritrosia nel parlare di uno scienziato il cui dissidio con la Chiesa cattolica era ben noto o di una scarsa conoscenza della ricerca galileiana, colmata tuttavia in pochi anni, se non addirittura in pochi mesi. Galileo diventerà un punto di riferimento molto importante, anche se ‘privato’, nella concezione leopardiana della natura e della scienza moderna; in questa Dissertazione si avviano una prima conoscenza e un significativo interesse per il «nobile Fiorentino». L’affermazione

4 Io sono quella che tu fuggi

metodologicamente più salda sta nel concetto (ripreso anche nello Zibaldone: cfr. Zib, 1869/8 ottobre 1821) che le grandi scoperte sono il risultato di una «combinazione d’idee» e che in ciò consista l’aspetto più profondo della conoscenza. L’idea dell’astronomia che troviamo già con la Dissertazione del 1812 ferma alcuni punti ‘alti’ nella visione leopardiana del cosmo: l’adesione al sistema newtoniano della natura e al metodo scientifico newtoniano, rigorosamente sperimentale, che può spiegare tutti i fenomeni naturali e condurre alla conoscenza ‘vera’ della natura; l’interesse, anche metodologico, per la scienza sperimentale e la curiosità per gli esperimenti scientifici più nuovi e originali (come le scoperte astronomiche prodotte con il telescopio); la scarsa dimestichezza con il linguaggio matematico; la predilezione per il sapere astronomico, segnata anche dalla comparsa delle due ‘figure concettuali’ di Copernico e di Galileo. La Storia della Astronomia esprime con chiarezza la dimensione erudita delle conoscenze astronomiche del giovane Leopardi, legate soprattutto alla cultura classica, e la sua adesione allo stato presente dell’astronomia, testimoniato dal sistema newtoniano. L’opera, forse ultimata nella prima stesura nel 1811, verrà terminata nel 1813. L’impegno di Leopardi è qui in gran parte volto a fissare le vastissime conoscenze enciclopediche e a costruire un ampio repertorio erudito che unisse una biblioteca del sapere astronomico alla sua storia, con una prospettiva espressamente ‘eroica’, focalizzata sull’esaltazione degli uomini grandi che hanno fatto sviluppare tale scienza, presentati in una carrellata di ‘medaglioni’. La Storia della Astronomia è già un momento importante nella definizione del pensiero scientifico leopardiano: essa contiene le fonti del suo sapere astronomico, che contribuiranno a formare quella visione cosmica del mondo così presente nelle Operette morali e nell’ultima fase della grande poesia lirica. Il primato dell’astronomia nella nascita storica delle scienze e la sua indiscussa utilità, testimoniata dalle tante applicazioni tecnologiche, appaiono a Leopardi il segno più sicuro della modernità e della superiorità della ragione umana che ha saputo rischiarare «le tenebre dell’errore». L’astronomia, più di ogni altra scienza moderna, ha divelto per sempre le ferree sicurezze del senso comune, ci fa ‘vedere’ un mondo che contraddice le nostre

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

5

più elementari esperienze sensibili e mette di conseguenza in discussione le certezze più consolidate, tra le quali quella, fondamentale, del primato dell’uomo nel cosmo. Il punto di vista dell’astronomia moderna permette così a Leopardi, già a questa data, di sviluppare fino alle più estreme conseguenze la potenza della ragione critica. Nel Capo Quarto dell’opera Leopardi si sofferma sui caratteri dell’astronomia moderna. Diversamente che nella Dissertazione sopra l’astronomia, ora Copernico viene esaltato per il coraggio intellettuale di un’impresa che va contro la tradizione e la persuasione comune e che comporta il superamento di ogni geocentrismo; Leopardi esamina la ragionevolezza del sistema copernicano, riconoscendo in esso la coniugazione di calcolo astronomico e di razionalità filosofica. Alla figura di Copernico si affianca quella di Galileo «celeberrimo astronomo e matematico», ma anche filosofo, per la sua tendenza a indagare aristotelicamente le cause e a rintracciare le leggi del moto. La scoperta del cannocchiale viene valorizzata per gli straordinari risultati che ha comportato nell’osservazione dei fenomeni celesti, ma pure si sottolinea il peso del processo condotto dalla Chiesa alle teorie galileiane. La distanza rispetto alle notizie fornite nella Dissertazione sopra l’astronomia rende conto di una conoscenza più approfondita e diretta dell’opera di Galileo, che richiama il Sidereus Nuncius e il Saggiatore. Tuttavia anche in quest’occasione i fatti relativi al processo del 1633 sono sottodimensionati rispetto agli altri elementi biografici e alle scoperte: Leopardi attribuisce le disavventure processuali dello scienziato pisano all’invidia e non ricostruisce la sua difesa e la sua interpretazione ‘realistica’ del sistema copernicano. Più scontato, in senso illuministico, il riconoscimento in Newton del «genio più sublime che sia giammai comparso sulla terra», «uomo grande della natura destinato a compir la rivoluzione della Filosofia, e ad innalzar l’umano intelletto ad un grado il più elevato di cognizioni», che pose «l’ultima mano alla riforma dell’umano intendimento». Leopardi ricorda che Newton fa nascere l’astronomia fisica, che unisce la scienza dei fenomeni celesti con quella dei fenomeni terrestri, riconducendo entrambi alle stesse cause. La scoperta della forza di attrazione, «regolatrice dell’Universo», permette di consolidare il sistema dell’astronomia permettendo una piena com-

6 Io sono quella che tu fuggi

prensione di innumerevoli fenomeni fisici, a partire dalle maree e dalle comete. Leopardi non ha alcun dubbio sul carattere ‘definitivo’ del meccanicismo newtoniano, ma aggiunge – con lo stesso Newton – che non si può andare oltre le leggi confermate dai fenomeni. La ragione non può oltrepassare i limiti del proprio intendimento e le cause primitive della realtà naturale, poste oltre i fenomeni, saranno sempre ignote agli uomini. La grandezza sistematica del pensiero di Newton viene inoltre confrontata con le teorie di René Descartes, a tutto vantaggio del primo, secondo un modello diffuso nella cultura illuministica a partire dalle Lettres philosophiques (1734) di Voltaire e dal Saggio sopra il Cartesio (1754) di Francesco Algarotti (ma va considerato anche, di quest’ultimo, il Newtonianismo per le Dame, 1737), con un equilibrato soppesare affinità e divergenze, imputate soprattutto agli errori scientifici compiuti dal secondo. Richiamo anche il Capo Quinto (Progressi fatti dalla Astronomia), sia per il suo itinerario ‘progressivo’, che ordina le varie conquiste realizzate nei singoli settori osservativi, secondo un principio metodologico che permetterà una migliore conoscenza, sia per la sua partizione (Origine dell’Astronomia, Prime osservazioni astronomiche, Sole, Luna, Stelle), che fa raccogliere tematicamente ‘errori’ degli antichi studiosi e osservatori del cielo che verranno poi riconsiderati nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Lo sguardo sulle concezioni astronomiche ‘primitive’ costituirà la materia del Saggio e assumerà una funzione mitopoietica in tanti versi dei Canti. La Storia della Astronomia si presenta, in definitiva, come una carrellata ragionata di figure esemplari di scienziati e astronomi che si succedono nel chiaro orientamento del progresso scientifico e con un relativo risalto per gli italiani. Ma c’è una novità nell’interpretazione leopardiana rispetto alle precedenti storie di derivazione illuministica, come l’Abregé d’Astronomie (1775) di Joseph Jérome Le Français de Lalande, o in opere come l’Histoire de l’Astronomie ancienne, moderne, indienne et orientale (5 voll., 1781-87), grande storia dell’astronomia di Jean-Sylvain Bailly che rivalutava la perfezione dell’astronomia antica a partire da una prisca sapientia. Leopardi mostra una sua oscillazione metodologica tra una visione progressiva dello sviluppo dell’astronomia e il richiamo alla teoria della prisca sapientia, secondo la quale in tempi immemorabili l’astronomia,

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

7

come le altre scienze, avrebbe assunto un livello elevato di conoscenze, cancellato dalle catastrofi naturali che avrebbero distrutto la felice e sapiente umanità primitiva (in questo contesto rientra anche la rievocazione del mito di Atlantide). Permane tuttavia potente la visione illuministica, nell’ammirazione per il valore delle scienze e nel confronto ‘eroico’ tra i grandi scienziati. L’ astronomia diviene così una guida per lo sviluppo del sapere moderno proprio per aver superato errori e superstizioni, nella convinzione che il progresso della civiltà coincida con la sconfitta degli errori del passato. La Storia della Astronomia intreccia insieme la dimensione umanistica e filologica della formazione leopardiana con quella scientifica e filosofica. Leopardi, attento alle concezioni astronomiche classiche, ricerca una prisca sapientia, in contrasto con l’esaltazione illuministica della ragione moderna, ma è anche convinto del valore progressivo e moderno della sintesi newtoniana, «simbolo stesso del rinnovamento intellettuale dei ‘lumi’». In dissonanza con i modelli illuministici emerge la conoscenza e l’ammirazione per la ricerca di Galileo, rilevante nella riflessione del Leopardi maturo. Enciclopedismo e cosmologia sono congiunti con l’erudizione letteraria e filologica, in una miscela culturale da cui prenderà avvio quella stagione filosofica nella quale tensione realistica e richiamo costante all’osservazione e all’argomentazione razionale costituiranno il modello di un pensiero cosmico in continuo movimento. Astronomia e cosmologia: una visione cosmica che si fa letteratura e poesia. Gli echi della predilezione leopardiana per l’astronomia presenti nello Zibaldone non sono particolarmente numerosi e non aggiungono elementi significativi a quanto già emerso nella Storia della Astronomia e nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Persistono motivi e conoscenze giovanili anche a distanza di molti anni, come nel caso dell’individuazione nell’ignoranza della motivazione del timore scaturito dalle eclissi e dalle comete (Zib, 3433-3434/15 settembre 1823). Un significato particolare assume la chiara indicazione sul ruolo centrale dell’astronomia moderna per la definizione di una nuova visione del mondo: il sistema di Copernico rinnova l’idea

8 Io sono quella che tu fuggi

della natura e dell’uomo, «abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima», rivelando una pluralità di mondi, mostrando che l’uomo non è unico e che non è unica la terra e aprendo all’ipotesi dell’esistenza di altri pianeti abitati (Zib, 84). E si trova soltanto nello Zibaldone l’unica notazione negativa sulla figura di Copernico, ritenuto poco filosofo e autore di un sistema non molto originale: «non fece altro che colle sue meditazioni lunghe e profonde, coltivare e stabilire ec. una verità già saputa o immaginata da’ Pitag. da Aristarco di Samo, dal Card. di Cusa ec.» (Zib, 1858/5-6 ottobre 1821). Questo parziale ridimensionamento dell’importanza di Copernico si inquadra in una lettura non illuministica della storia dell’astronomia (vista come il ritorno ciclico di idee antichissime) legata al manuale di Bailly. Copernico ha fatto sì progredire l’astronomia, ma la sua non è una grande scoperta per la prevalenza di una minuta analisi senza colpo d’occhio (Zib, 1850-1855/5-6 ottobre 1821). Ma altrove (Zib, 3171-3172/12 agosto 1823) non manca un’indicazione del rilievo filosofico della ‘rivoluzione copernicana’ nel rapporto tra uomo e natura, che riconosce insieme la piccolezza umana e il carattere ‘periferico’ della terra. Un ridimensionamento che può condurre a una visione nichilistica della realtà, ma che svela anche l’apertura di uno spazio mentale sulla pluralità dei mondi. Anche in direzione morale il sistema di Copernico produce un insegnamento durevole: insegna l’uguaglianza dei pianeti allo stesso modo in cui ragione e natura insegnavano l’uguaglianza naturale degli uomini (Zib, 975/22 aprile 1821). Finora è emersa la vastità del sapere astronomico di Leopardi, ma la sua visione cosmica è letteratura e poesia, si trasfigura in opere inimitabili. Avviciniamoci alle Operette ad argomento astronomico. Il sapere astronomico, insieme alle superstizioni e agli ‘errori’ a esso collegati, emerge soprattutto in tre Operette: il Dialogo della Terra e della Luna (24-28 aprile 1824), il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco (forse autunno 1825) e Il Copernico (1827). Non mancano, nel Dialogo della Terra e della Luna, riferimenti espliciti e frequenti al sapere astronomico giovanile, con richiami al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e alla Storia della Astronomia, utilizzati tutti per render conto dell’illusione antropocentrica, nella quale non vi è una netta distinzione tra gli «errori

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

9

popolari degli antichi» e le più aggiornate concezioni della scienza. Nelle loro ‘favole’ come nelle loro teorie scientifiche gli uomini non fuoriescono dal pregiudizio antropocentrico e non accettano il male «(…) cosa comune a tutti i pianeti dell’universo (…)». Nel Dialogo Leopardi divide equamente la sua ironia in direzione delle credenze popolari e di presunte scoperte astronomiche. Tra le ‘favole’ antropocentriche, la Terra introduce quella della personificazione della Luna, funzionale alla struttura del dialogo («Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona, secondo che ho inteso molte volte da’ poeti (…)»). E sempre la Terra (l’antropocentrismo non può trovarsi se non sulla Terra) cita ironicamente due astronomi apprezzati nella fase giovanile, come Lalande e David Fabricius («(…) se sei popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande»; «(…) se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi [abitanti], che spandevano un bucato al sole»). E non manca neppure Herschel, la cui scoperta di Urano viene ancora menzionata («E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno (…)»), ma che qui viene anche ridicolizzato per la presunta ‘scoperta’ di una ‘fortezza’ sulla Luna («(…) poco dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali che sono istrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co’ suoi bastioni diritti (…)»). Pur essendo ricordate in modo neutrale altre moderne scoperte astronomiche, come la teoria newtoniana delle maree e gli studi sulle comete, viene tuttavia preso di mira il simbolo stesso dell’astronomia moderna, il telescopio, che non fa ‘vedere’ alcunché di reale e consistente («Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io no so dove me gli abbia») e tramite esso viene svalutata tutta l’opera astronomica di Galileo, ricordato indirettamente come colui che iniziò a «(…) misurare le altezze di cotesti monti, de’ quali sappiamo anche i nomi». Il punto più ironico sulle presunte scoperte lunari realizzate con il telescopio è raggiunto dalla notizia che un fisico tedesco (tale Franz von Paula Gruithuisen di Monaco) aveva visto sulla Luna strade e coltivazioni («Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di strade

10 Io sono quella che tu fuggi

larghe e strette; e che tu sei coltivata: cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente»). Ampio infine il seguito di credenze raccolto nel Dialogo, tra le quali non manca quella attribuita al fisico spagnolo Antonio de Ulloa, studioso di elettricità e magnetismo, che riteneva «(…) che tu [la Luna] sei traforata a guisa dei paternostri (…)». Nella prospettiva filosofica abbracciata nelle Operette il Dialogo della Terra e della Luna filtra insieme sapere mitologico e scientifico, a partire dalla denuncia del pregiudizio antropocentrico, che non cessa di persistere anche attraverso, se non addirittura grazie all’astronomia moderna, foriera di ‘errori’ non meno vani di quelli trasmessi dai dotti del passato. Nello stesso Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, ritenuto da alcuni interpreti la chiave per la comprensione della filosofia leopardiana, definita anche ‘stratonismo’, sono riportate cognizioni astronomiche presenti già nelle Dissertazioni e quindi nella Storia della Astronomia, in una complessa visione cosmologica. Anche in questo caso l’espediente di miscelare concezioni della filosofia naturale alessandrina con teorie astronomiche attuali («Lo intitolo Frammento apocrifo perché, come ognuno può vedere, le cose che si leggono nel capitolo della fine del mondo, non possono essere state scritte se non poco tempo addietro (…)») configura la propensione del Leopardi maturo a riavvicinare mito e scienza, cosmologia antica e moderna, negando ogni univoco valore progressivo alle scoperte dell’astronomia moderna. Il presunto testo di Stratone, nelle sue riflessioni materialistiche, cosmogoniche e cosmologiche, sviluppa osservazioni e ipotesi di grande modernità, quasi a confermare che le conoscenze astronomiche (e scientifiche in genere) non hanno avuto un significativo progresso nell’ordine del tempo, ma sono patrimonio umano (anche se in gran parte incognito e dimenticato) fin dai tempi della prisca sapientia. Va aggiunto che, dietro Stratone, è stata riconosciuta la visione di un universale dinamismo cosmico, che possiede più di un’assonanza con la concezione dinamica della nuova ‘filosofia chimica’, secondo la quale in un’unica forza che muove tutti gli esseri naturali, organici e non, convergerebbero le forze chimiche, elettriche e magnetiche, unite alla forza di attrazione universale. Una concezione simile si trova esposta – lo vedremo nel capitolo sulla chimica – nelle Ricerche sul moto molecolare dei solidi (1825) di Domenico

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

11

Paoli, amico di Leopardi. Tra le questioni di rilievo più propriamente astronomico presentate nel Frammento ricordo quella sulla forma della terra – già proposta nella Dissertazione sopra l’attrazione (1811) –, secondo la quale in relazione al moto di rotazione intorno all’equatore la terra si schiaccia ai poli e si estende all’equatore, e quella relativa alla composizione e all’origine dell’anello di Saturno («Potrebbesi (…) addurre un esempio, io voglio dire dell’anello di Saturno, della natura del quale non si accordano tra loro i fisici»). Si tratta di problemi che richiedono l’uso delle cognizioni sviluppate da Christiaan Huygens a proposito della forza centrifuga e centripeta. Le discussioni intorno all’anello di Saturno, che – si è detto – affascinano il giovane Leopardi fin dalla Dissertazione sopra l’astronomia, vengono proposte per avvalorare la teoria della deformazione e della successiva dissoluzione della terra che «(…) ridotta per cotal modo a figura di uno anello, ultimamente andrà in pezzi (…)», in quanto Leopardi accetta l’ipotesi (anch’essa oggi confermata) che «(…) il detto anello fosse da principio uno dei pianeti minori destinati alla sequela di Saturno (…)». Il procedimento per analogia viene applicato anche in rapporto a Giove, il cui mutamento nella figura «(…) così manifesto agli occhi (…)» può far immaginare il futuro cambiamento della forma della terra, e più estensivamente la distruzione futura di tutti i pianeti che ruotano intorno alle altre stelle. Le notizie astronomiche sostengono così la visione di un irreversibile destino di distruzione universale che l’ordine stesso della natura porta con sé: «In tal guisa adunque il moto circolare delle sfere mondane, il quale è principalissima parte dei presenti ordini naturali, e quasi principio e fonte della conservazione di questo universo, sarà causa altresì della distruzione di esso universo e dei detti ordini». La variabilità della conformazione terrestre e universale testimonia la progressiva trasformazione del cosmo, ma indica anche – nella perpetua consistenza della materia – la direzione di un processo di distruzione dell’attuale forma della terra e dell’universo che non ammette ritorno. Il Copernico, ultima tra le Operette ‘astronomiche’, ruota tutto, con grande efficacia scenica, intorno al capovolgimento della teoria tolemaica e all’affermazione di quella copernicana. Importante appare nel dialogo il chiarimento del rapporto tra scienza o filosofia (che qui si configura come astronomia) e poesia, vera chiave di comprensione

12 Io sono quella che tu fuggi

dello scritto. Il ragionamento del Sole intorno alla capacità persuasiva dei poeti e dei filosofi conduce a privilegiare la filosofia, pensiero dell’umanità matura, rivolta alla ricerca dell’utile e più adatta ai tempi moderni («(…) ora che io sono maturo di tempo, e che mi sono voltato alla filosofia, cerco in ogni cosa l’utilità, e non il bello (…)»; «Questa mutazione in me, come ti ho detto, oltre a quel che ci ha cooperato l’età, l’hanno fatta i filosofi; gente che in questi tempi è cominciata a montare in potenza, e monta ogni giorno di più»). Copernico compare mentre scruta il cielo notturno con un «(…) cannoncello di carta; perché non erano ancora inventati i cannocchiali»; egli è un «uomo ragionevole» che però conosce le ‘favole antiche’ e che, dinanzi all’inspiegabile ‘ritardo’ nell’apparizione del Sole, si trova a dubitare delle sue certezze («Ora che io m’avveggo che la ragione e la scienza non rilevano, a dir proprio, un’acca (…)»). Il rovesciamento dello spirito dei tempi è identificabile nella contrapposizione tra gli antichi tempi poetici e i moderni tempi filosofici, ma esso non produce più una netta contrapposizione tra verità ed errore: nella modernità è necessario un filosofo che convinca la Terra a girare intorno al Sole, così come un tempo furono i poeti a convincere che il Sole girava intorno alla Terra. In entrambi i casi si tratta di ‘convinzioni’, di ‘credenze’, ritenute prima utili per gli uomini («(…) la Terra si è creduta sempre di essere imperatrice del mondo (…)»), quindi ‘più razionalmente’ vantaggiose per il Sole. Gli effetti del copernicanesimo sono qui per Leopardi propriamente metafisici, toccano «la parte speculativa del sapere» e hanno conseguenze pratiche ed etiche, piuttosto che fisiche: «gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente (…)». E sono prospettati anche in una visione astronomica ultra-copernicana, con l’accenno a quando il Sole dovrà tornare a muoversi, anche se non più intorno alla Terra («Poi, sto con qualche sospetto che pure alla fine, in termine di più o men tempo, ci convenga anco tornare a correre: io non dico, intorno alla Terra (…)»). Si può ritrovare nel tessuto del dialogo l’uso ironico di quelle nozioni astronomiche apprese sui manuali di studio, del sapere depositato nella Storia della Astronomia e nel Saggio, come per esempio l’ipotesi del moto del Sole nella Via Lattea attribuita dal giovane Leopardi a Lalande («(…) il sole colla terra, coi pianeti, colle comete, con tutto in somma il sistema solare, si avvanzi nelle immensità degli spazi celesti verso qualche parte che

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

13

egli non ha osato determinare [ma che era stata già individuata da Herschel] (…)»). L’ironico cenno a «qualche scottatura» che toccherà a chi (forse Giordano Bruno) si opporrà alla visione tolemaica dominante conferma il segno ‘etico’ attribuito in questo dialogo alla conoscenza astronomica, e in specie alle grandi teorie che si oppongono all’opinione comune. Non è possibile sintetizzare quanta e quale astronomia e cosmologia siano presenti nei Canti di un ‘poeta cosmico’, di un «grande poeta lunare»: «quando parlava della luna Leopardi – come scrisse Italo Calvino – sapeva esattamente di cosa parlava». Tralascio le occorrenze relative a termini di largo uso poetico, come ‘stelle’ – che ricorre venti volte – e ‘Luna’ – presente con venticinque occorrenze – e mi limito a segnalare qualche figura ascrivibile all’immaginario scientifico leopardiano. Immagini come quella della canzone All’Italia (settembre-ottobre 1818) («Divelte, in mar precipitando, | spente nell’imo strideran le stelle») o come in Bruto minore «l’Orsa algida» (dicembre 1821, v. 7), o ancora come nell’Inno ai patriarchi «le purpuree faci | delle rotanti sfere» e «l’aprico raggio | di febo e l’aurea luna» (luglio 1822, vv. 22-23 e 33-34) pur riecheggiando Virgilio, presentano evidenti raffigurazioni astronomiche, segno di particolare dimestichezza. In Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze (settembre 1818) il richiamo geografico a deserti e venti («Di lor querela il boreal deserto | e conscie fur le sibilanti selve», vv. 154-155) echeggia luoghi del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, come anche, e forse ancor più, in Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica (gennaio 1820), dove il ricordo nostalgico per la vita impegnata e rischiosa di un tempo in cui ancora la ricerca di nuove terre stimolava i naviganti, rappresentata simbolicamente in Cristoforo Colombo, emerge nel verso «Ma tua vita era allor con gli astri e il mare» (v. 76), cui si aggiunge un altrettanto nostalgico richiamo mitologico agli errori degli antichi, alla credenza per un Sole che si getta nell’oceano, producendo un grande stridore con i suoi raggi («ed oltre ai liti | cui strider l’onde all’attuffar del sole» e «ritrovasti il raggio | del Sol caduto», vv. 78-79 e 81-82). Si è già detto dello straordinario sogno lunare del Frammento xxxvii Odi, Melisso, che trasformando una ‘favola’ in sogno diviene un

14 Io sono quella che tu fuggi

nostalgico riconoscimento dell’impossibile ritorno delle ‘favole antiche’. Un uso del tutto particolare del sapere astronomico viene proposto nella canzone ‘platonica’ Alla sua donna (settembre 1823). L’idea di bellezza che la donna immaginata racchiude, priva di ogni aspetto sensibile, viene proiettata in un altro mondo abitato («o s’altra terra ne’ superni giri | fra’ mondi innumerabili t’accoglie, | e più vaga del Sol prossima stella | t’irraggia, e più benigno etere spiri», vv. 50-54), quasi a voler sottolineare il carattere pratico ed estetico della concezione della pluralità dei mondi, tanto dibattuta e tanto amata da Leopardi. In Alla sua donna prevale una visione ‘virtuale’ (vagamente platonica), secondo la quale la pluralità dei mondi diviene una precondizione della pensabilità stessa dell’idea di una possibile donna amata, non rintracciabile sulla terra. Anche in questo caso il sapere astronomico giovanile viene messo a buon frutto dal Leopardi lirico, se pure in una configurazione del tutto diversa rispetto a quella di partenza. È appena il caso di ricordare come alcuni tra i versi leopardiani più belli e fortunati presentino parole e contenuti ‘vagamente’ astronomici (e spesso si tratta di versi d’apertura): «che da tanta parte | dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» (L’ infinito, settembre 1819, vv. 2-3); «Dolce e chiara è la notte e senza vento, | e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti | posa la luna», «e pei balconi | rara traluce la notturna lampa» (La sera del dì di festa, ottobre 1820, vv. 1-3 e 6); «mi fere il Sol che tra lontani monti, | dopo il giorno sereno, | cadendo si dilegua, e par che dica | che la beata gioventù vien meno» (Il passero solitario, gennaio 1829, vv. 41-44); «Vaghe stelle dell’Orsa», «quante fole | creommi nel pensier l’aspetto vostro | e delle luci a voi compagne!», «e il Sol che nasce | su romita campagna» (Le ricordanze, 26 agosto - 12 settembre 1829, vv. 1, 7-9 e 63-64); «Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride | per li poggi e le ville» (La quiete dopo la tempesta, 17-20 settembre 1829, vv. 19-20); «In sul calar del sole», «al biancheggiar della recente luna» (Il sabato del villaggio, 20-29 settembre 1829, vv. 2 e 19); «è notte senza stelle a mezzo il verno» (Aspasia, prima metà 1834, v. 108). Altre volte si presenta la voce ‘lunare’, con l’invocazione alla luna: «O graziosa luna», «O mia diletta luna» (Alla luna, vv. 1 e 10); «O cara luna», «salve, o benigna | delle notti reina» (La vita solitaria, estate 1821, vv. 70 e 74-75), che diventa altissima poesia nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (22 ottobre 1829 - 9 aprile 1830).

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

15

Ma vorrei richiamare un caso nel quale il sapere astronomico di Leopardi si concretizza in un movimento poetico, che non richiama la tradizione letteraria, ma il cielo sopra Recanati. I versi iniziali dell’Ultimo canto di Saffo (13-19 maggio 1822) – «Placida notte e verecondo raggio | della cadente luna; e tu che spunti | fra la tacita selva in su la rupe, | nunzio del giorno» (vv. 1-4) – evocano due eventi astronomici, molto comuni: la fase della luna calante e il sorgere di Venere al mattino. Proprio nella settimana in cui Leopardi dichiara di aver composto il Canto, nella zona di Recanati, la luna calante sorge dopo le 24 e all’alba, intorno alle 6, Venere, ‘Lucifero’, la stella del mattino, si leva sul cielo orientale («fra la tacita selva in su la rupe»): uno spettacolo notturno che si presentò davvero agli occhi di un Leopardi amante solitario della notte in quel tempo di maggio nella sua Recanati. Nessuna letteratura, ma uno sguardo attento, fisso al cielo notturno. Soffermiamoci infine brevemente sul mirabile Canto notturno recanatese, il cui spunto ha un’origine antropologica: un articolo del «Journal des Savants» (settembre 1826), trascritto nello Zibaldone (4399-4400/3 ottobre 1828) e riportato nella Nota al canto, cita un’osservazione di Aleksandr Kazimirovič barone di Meyendorff, che vide molti popoli nomadi dell’Asia passare la notte a guardare la luna, cantando arie molto tristi. Da qui l’avvio del Canto con l’accorata invocazione alla luna, variamente reiterata («Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, | silenziosa luna?», «Dimmi, o luna», «Vergine luna», «Intatta luna», «giovinetta immortal», «candida luna», vv. 1-2, 16, 37, 57, 99 e 138); il motore del Canto sembra risiedere quindi in un ‘errore popolare’, dislocato tra i più primitivi e lontani popoli della terra e in una cornice paesaggistica del tutto insolita. La Luna rappresenta l’unico interlocutore del solitario pastore, un interlocutore tanto presente allo sguardo quanto silenzioso e lontano nella sua vera realtà di astro tra gli astri, inserito in un incomprensibile circuito universale fatto di un firmamento di stelle e di eterni moti celesti («e quando miro in cielo arder le stelle» «di tanti moti | d’ogni celeste, ogni terrena cosa, | girando senza posa, | per tornar sempre là donde son mosse» «degli eterni giri», «e noverar le stelle ad una ad una», vv. 84, 93-96, 101 e 135). Ma rispetto a tale incognito paesaggio celeste dominato dalla luna e alla sua condizione di ‘primitivo’ il pastore dimostra di

16 Io sono quella che tu fuggi

essere più moderno che antico, non si fa scudo delle favole e guarda al cielo con lo stesso irrisolto sforzo conoscitivo dell’astronomo, fino a immaginare di poter ‘contare’ le stelle mettendo «l’ale | da volar su le nubi» (vv. 133-134). Il Canto permette di cogliere il segno di un compiuto capovolgimento nell’itinerario conoscitivo leopardiano: gli «errori popolari» un tempo denunciati in nome delle conoscenze scientifiche moderne, quindi ripresi a sostegno forte di un’estetica e di una poetica delle ‘favole antiche’, sono ora definitivamente tramontati, sono improponibili in ogni luogo del mondo moderno, talché anche il pastore errante dell’Asia ragiona alla ricerca di una legge e di una causa dei moti celesti (e di converso dei suoi, e di quelli di tutti gli uomini), fino a pervenire a una conclusione critica e distruttiva di ogni senso e di ogni fondamento, con un esito che è il compiuto risultato di un rigoroso atteggiamento razionale dinanzi al mondo, non certo di una visione favolistica e ‘primitiva’ della realtà. I due ultimi Canti leopardiani – Il tramonto della luna e La ginestra o il fiore del deserto (entrambi dell’aprile 1836) – non sono soltanto intrisi di motivi ‘lunari’, ma racchiudono in una visione cosmica termini ed espressioni della più recente astronomia. Il tramonto della luna chiude l’intero percorso ‘lunare’ di Leopardi dando voce al tramonto dell’astro che dava ancora agli uomini l’illusione di un senso, fantastico o conoscitivo che fosse; una chiusa che cancella nell’oscurità ogni differenza e ogni varietà: «scende la luna; e si scolora il mondo». Il tramonto della luna è immagine dello svanire dei «dilettosi inganni» e il suo esito conduce smarrimento – «abbandonata, oscura | resta la vita» – e perdita di ogni «meta o ragione» (vv. 12, 24, 27-28 e 31). Ancor più nella Ginestra si avvertono echi inequivocabili delle amate conoscenze astronomiche, in felice sintonia con una visione cosmica che evoca la potenza dell’universo e la sua vastità indefinita. Il registro poetico si struttura nel doppio orizzonte di una dimensione terrena precaria, limitata e iscritta in un regime di sofferenza (un’«aspra sorte» e «depresso loco», un «basso stato e frale») e una dimensione cosmica che, pur muovendo dalla potenza terrestre dei fenomeni naturali – quali l’eruzione del Vesuvio –, trascende nettamente la dimensione umana e della quale è testimone il cielo che «tutto ignora» (vv. 79, 117 e 104). Da un lato è marcato il più netto distacco dal «secol

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

17

superbo e sciocco» che inneggia con Terenzio Mamiani della Rovere alle «magnifiche sorti e progressive», ponendo la scienza sotto l’ala di una visione spiritualistica (le «superbe fole») e vacuamente trionfale della civiltà industriale e moderna, che «di fetido orgoglio empie le carte» e promette «eccelsi fati e nove felicità», rendendo «servo» il pensiero e oscurando il «lume che il fe’ palese [il vero]» e che può guidare e illuminare lo sviluppo civile. Dall’altro si apre – a partire dalla quarta stanza – l’orizzonte di una indefinita vastità cosmica, gradualmente più estesa. Lo sguardo rivolto al cielo stellato («veggo dall’alto fiammeggiar le stelle»), a «scintille» che «sembrano un punto, | e sono immense, in guisa | che un punto a petto a lor son terra e mare | veracemente», svela la grandezza degli astri perché sorretto dalla ‘vera’ conoscenza delle loro dimensioni che agli occhi appaiono puntiformi (ancora una volta il ‘vero sapere’, l’astronomia moderna, sorregge la cognizione del mondo), e conduce a sviluppare il confronto fra la nullità della dimensione terrestre e la vastità dell’universo. Un confronto che si avvale ancora in modo decisivo del nuovo sapere astronomico, che permette di riconoscere i «remoti | nodi quasi di stelle, | ch’a noi paion qual nebbia», ovvero le nebulose, gli ammassi stellari extragalattici lontani anni-luce dalla nostra galassia. A partire dalla cognizione delle nebulose può realizzarsi il maestoso ed efficacissimo rivolgimento dell’effetto prospettico tramite il quale non è più la Terra il centro antropico privilegiato della visione, ma essa si sperde, insieme al Sole e alle miriadi di stelle del nostro cielo, nel panorama indefinito e irriconoscibile della Via Lattea («ma tutte in uno, | del numero infinite e della mole, | con l’aureo sole insiem, le nostre stelle | o sono ignote, o così paion come | essi alla terra, un punto | di luce nebulosa») (vv. 53, 51, 154, 103-105, 163, 168-171, 176-178 e 178-183). Quella vaga apparenza ‘nebulosa’ si rileva al nostro sapere come un grande ammasso stellare e permette di concepire quale potrà apparire da un lontanissimo pianeta il nostro sistema stellare, la Via Lattea, nel quale non la Terra ma il Sole si perde indifferenziato. Significativamente il rivolgimento prospettico universale precede una forte rivendicazione materialistica, quasi a voler esprimere il nesso forte presente nell’ultimo Leopardi tra la cognizione del vero e la condanna di ogni credenza e illusione. Le conoscenze ‘puerili’ della Dissertazione sopra l’astronomia e della Storia della Astronomia sono qui scomposte e frantumate in una grandiosa

18 Io sono quella che tu fuggi

visione cosmica nella quale dominano lo spaesamento e la scomparsa di ogni punto di riferimento. Non era certo questo l’obiettivo degli scritti ‘scientifici’ saldamente ancorati a forme di ‘illuminismo cristiano’ e promossi da una sincera esigenza di fondamento nel rapporto fra errore e verità. Qui l’ordine della natura viene scompaginato nel più completo e insensato dominio della casualità; tuttavia, ed è questo, a mio avviso, l’aspetto più profondo nel modo leopardiano di intendere e utilizzare il sapere astronomico, anche il più spietato annientamento di ogni fondamento e di ogni prospettiva di senso appare il frutto ‘maturo’ di una critica razionale, tanto rigorosa quanto conseguente, di una valutazione sulla realtà delle cose che mai si dissolve in un cieco ‘ascolto dell’Essere’ ma che sempre procede dal «verace saper» («il vero dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè»), «nulla al ver detraendo», dall’esigenza ‘illuministica’ di render conto attraverso il ragionamento dell’assurdità stessa dell’ordine della natura, del criticare con il raziocinio di una «ragione ragionevole» e del convincere con gli argomenti del discorso logicamente conseguente. Un’esigenza che si ritrova anche nella più alta espressione poetica della Ginestra, assunta a simbolo di uno sforzo di convincimento che si ritrova ben oltre il silenzio dello Zibaldone, fin negli ultimi giorni di vita, di uno sforzo ‘eroico’ di convinta denuncia dinanzi al «secol superbo e sciocco», che traspare anche nelle parole dettate forse sul letto di morte dei Paralipomeni della Batracomiomachia. Ricordo un solo caso, strettamente astronomico, che richiama – nel Canto VII dei Paralipomeni – la figura di Copernico. Si tratta di un esempio ancora una volta dirimente per valutare il ruolo del sapere astronomico nella visione anche morale di Leopardi. Il poeta denuncia che non è bastata l’accettazione della teoria copernicana per trarne quelle conseguenze pratiche che condurrebbero a dissolvere ogni antropocentrismo: l’una, che poi che senza dubbio alcuno di Copernico il dogma approva ognuno, non però fermi e persuasi manco sono i popoli tutti e son le scole che l’uom, in somma, senza uguali al fianco segga signor della creata prole,

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

19

né con modo men lepido o men franco si ripetono ancor le antiche fole, che fan dell’esser nostro e de’ costumi per nostro amor partecipare i numi. (Canto vii, ott. 14, vv. 7-8 e ott. 15)

Il motivo conduttore contro l’antropocentrismo si ritrova unito alla denuncia dell’inconsistenza razionale delle «antiche fole», gli «errori popolari» del Saggio, veicolo di misticismo e di una religiosità mitica. Leopardi qui pone con forza un’esigenza di coerenza nella connessione tra esiti della conoscenza astronomica e conseguenze pratiche. Leopardi vuol dire che ora ha davvero capito il significato del copernicanesimo perché ne ha colto quegli esiti anti-antropocentrici che da giovane non aveva compreso, ma che, nello stesso tempo, è proprio grazie alle conoscenze astronomiche, frutto di un’efficace interazione fra ragione ed esperienza, che è in grado di tradurre in una morale materialistica e anti-antropocentrica ciò che prima era soltanto una teoria scientifica. Una conseguente e ben meditata resa dei conti con il proprio passato che non cancella il valore razionale ed empirico della conoscenza accumulato e tesaurizzato in età giovanile. Un Galileo in chiaroscuro. Un ultimo sguardo, da una prospettiva laterale, che illumina sulla persistenza, se non anche la dominanza, del sapere astronomico, e getta luce sul chiaroscuro della figura di Galileo. Guardiamo alla Crestomazia della prosa (pubblicata in due tomi fra ottobre e dicembre 1827), un’antologia della prosa italiana spesso trascurata dalla critica, ma centrale per la scelta dei brani condotta da Leopardi, molto attenta e simpatetica. Ritroviamo qui, ampiamente, quel Galileo assente dagli altri scritti pubblicati. La quantità dei brani trascelti da scritti galileiani, con selezioni dal Saggiatore, dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e da opere minori e lettere (tutte raccolte nell’edizione delle Opere del 1744) – ben 17, 16 dei quali per la sezione Filosofia speculativa e uno per gli Apologhi – non soltanto rende Galileo l’autore maggiormente presente nella Crestomazia della prosa, ma anche il più rappresentativo della Filosofia speculativa. La scelta

20 Io sono quella che tu fuggi

costituisce inoltre la prima antologia di prose di Galileo che, come è noto per la lettera del 27 dicembre 1826 Ad Antonio Fortunato Stella, Leopardi aveva pensato anche come «librettino molto importante». Nella sezione della Filosofia speculativa (che apre la Parte Seconda della Crestomazia) l’opera di Galileo diviene modello non soltanto di stile, ma anche di pensiero, di una forma di «scetticismo ragionato» di matrice empirica con qualche venatura materialistica. La scelta è introdotta da un lungo brano tratto dal libro III di Della forza de’ corpi che chiamano viva (1752) di Francesco Maria Zanotti, intitolato l’Idea del filosofo perfetto. Il filosofo perfetto (filosofo naturale e morale), che in ultima istanza rappresenta lo stesso Leopardi, è così identificabile con Galileo, ‘personaggio concettuale’ della Filosofia speculativa. Il processo di identificazione viene accentuato dalla scelta della prima persona e dalla cancellazione di ogni traccia dialogica: in tutti i passi trascelti la scelta diegetica presenta la voce dell’autore (ovvero, in definitiva, del curatore). Nella sezione il piccolo corpus galileiano di 16 brani va dal numero II e al numero XXXII e si alterna con testi dello stesso Zanotti, di Lorenzo Magalotti e di Giovan Battista Gelli, mentre viene integrato in successione con scritti ancora di Magalotti, di Gelli e di Paolo Segneri, che riguardano il tema del rapporto tra uomini e altri animali, non trattato da Galilei, ma molto sentito da Leopardi, e con uno scritto conclusivo di Algarotti sulla Provvidenza della natura. La filosofia speculativa è il fulcro teorico della Crestomazia e in essa si ritrova il dispiegamento del pensiero leopardiano a questa data; il cuore della filosofia speculativa è costituito dal pensiero di Galilei, o meglio da quelle selezioni sapientemente manipolate del pensiero galileiano che Leopardi fa divenire consonanti con il proprio. Si può quindi dedurre che nei passi galileiani della Crestomazia si ritrova il momento più alto della presenza del pensiero di Galilei in Leopardi e della sintonia che Leopardi stabilisce con Galilei. Richiamo anche in questo caso soltanto qualche esempio per mostrare come Leopardi insieme si immedesimi con Galileo e se ne distacchi. È segno di distacco il fatto che Leopardi non cita la metafora tanto famosa del Saggiatore sul «gran libro della natura» scritto «coi caratteri della geometria»: questa assenza, unita alla mancanza, nei brani prescelti da Leopardi, di frasi e termini matematici mostra

Astronomia, cosmologia e cosmogonia

21

come Leopardi non concordi con Galileo nel sostenere che la «lingua matematica» sia un mezzo necessario allo studio della natura. Tra i brani galileiani che meglio dimostrano la sintonia con il pensiero maturo di Leopardi segnalo il terzo e il quarto brano (parr. XI e XII), intitolati È improbabile che le opinioni più antiche sieno le migliori e Del cercare i segreti della natura nei libri, piuttosto che nelle opere di quella, tratti dai Pensieri varj, inseriti per la prima volta nell’edizione del 1744. Il brano XI, tornando sul ‘classico’ problema del rapporto tra sapere antico e moderno, allontana dall’esaltazione della prisca sapientia, orienta verso il sapere moderno, più maturo e prudente perché dovuto a una crescita maggiore della civiltà umana, analoga a quella del giudizio che si realizza nell’individuo con la maturità. Il brano XII modula il noto tema galileiano del primato delle «opere della natura» rispetto alle «carte di questo o di quel filosofo»: torna nuovamente il motivo della conoscenza empirica del libro della natura, senza alcun riferimento alla matematica. Inoltre l’analogia fra la ricerca dei «sensi delle cose della natura» nelle sue stesse opere e quella dei sensi delle parole di un testamento è propriamente ‘umanistica’ e coinvolge soltanto la dimensione sensibile. Il confronto di Leopardi con l’opera galileiana – iniziato nel 1818, sviluppatosi fino agli ultimi anni di composizione dello Zibaldone e comprovato con forza dalla qualità e dal rilievo attribuito a Galileo nella Crestomazia – si risolve in un progressivo incremento di interesse e di valore; si tratta di un confronto decisivo per lo stile e per il pensiero di Leopardi, per la sua «magnanimità e di pensare e di scrivere», molto vicina a quella di Galileo, di un confronto che mette in chiaro nel modo migliore il peso dell’astronomia e della cosmologia nell’opera leopardiana. Mette conto concludere con una piccola appendice ‘domestica’. Monaldo non era digiuno di conoscenze astronomiche, ma rimaneva fermamente convinto, nella sua ortodossia cattolica, dell’errore di Galileo e della giusta condanna. In una nota di commento all’articolo V della Storia d’Italia di Carlo Botta, apparso il 15 gennaio 1834 sulla «Voce della Ragione», il periodico ultra-clericale fondato, diretto e redatto in gran parte da Monaldo, quest’ultimo dimostra insieme la radicalità della sua adesione alla Chiesa Romana e una certa padronanza di argomenti fisici e astronomici, spesso ricavati

22 Io sono quella che tu fuggi

da letture di scritti della propria Biblioteca e da conoscenze riflesse anche nelle ricerche giovanili di Giacomo (e soprattutto nella Storia della Astronomia). Monaldo si erge a paladino della Sacra Scrittura, partendo dall’asserzione che il sistema galileiano è ipotetico e potrà essere sostituito da un altro più consono al «senso letterale della Scrittura». In fondo, – aggiunge Monaldo – gli strumenti e le esperienze in possesso di Galileo per elaborare un sistema così complesso, «certamente ingegnosissimo», ma pur sempre ipotetico e non esente dalla critica, erano scarsi, ed è preferibile «andare con molta parsimonia nel mettere le mani sulle cose dei cieli». Il Sant’Uffizio ha fatto bene a salvaguardare «l’autenticità, la veracità, e l’autorità» delle Sacre Scritture difendendone la lettera, oltre che lo spirito, per salvare dalla demolizione «tutto l’edifizio della religione cristiana». In ogni caso va distinto il giudizio, pure fallibile, del Sant’Uffizio dall’infallibilità del papa. Queste poche indicazioni indirette possono costituire un ulteriore elemento a conferma dell’ipotesi sulla ‘difficoltà’ di Giacomo nell’affrontare la questione del processo a Galileo e nel rendere pubblicamente allo scienziato pisano quel posto centrale nella cultura italiana che privatamente aveva riconosciuto con certezza, per stile e per pensiero.

II La matematica: una r agione calcolante

Gli studi matematici giovanili. Il giovanissimo Giacomo aveva appreso la matematica elementare insieme ai fratelli Carlo e Paolina nel semestre di studio conclusosi con l’esposizione pubblica l’8 febbraio 1810 alle 21. In tale occasione dovette sostenere, insieme al fratello Carlo, un esame che comprendeva esercitazioni elementari di aritmetica e di geometria lineare e piana. Per l’aritmetica il Saggio prevedeva che «Definita l’Aritmetica, divise le sue parti, mostrato il suo utile, ed accennatene le regole, sarà in arbitrio di chiunque il proporre dei casi diretti sulle quattro principali operazioni dell’Aritmetica, sulle progressioni proporzionali, e sulla regola del tre diritta, e rovescia; e nell’atto ne verrà eseguita l’operazione». Seguivano quattordici esercizi del tipo: «Lucio con Scudi 213: guadagna Scudi 80: con Scudi 160, in egual lucro quanto guadagnerà?» (esercizio VI). Altre dieci esercitazioni riguardavano la geometria lineare («Modo di tagliare in due parti eguali una retta, un angolo, o un arco», esercizio VIII) e venti la geometria piana («Dato il diametro di un circolo, cercare il valore di un arco di un dato numero di gradi», esercizio XXIII). A questo studio elementare non pare si siano aggiunte altre cognizioni nei semestri successivi, come è documentato nelle Dissertazioni filosofiche del 1811 e 1812 e nel saggio delle Disputationes del 1812. Si può dire che l’interesse di studio per la matematica scema dopo il 1810, producendo scarso interesse di pensiero. Un esempio lo possiamo trovare nel mancato riconoscimento del ruolo di grandi matematici del Settecento, espresso nella scarsa considerazione di Leonhard Euler, richiamato con un unico, incidentale, riferimento nella Dissertazione sopra il moto in quanto metafisico, accanto a Cartesio e Gottfried Wilhelm Leibniz («Ma di ciò [dei moti dei corpi animali] abbastanza ragionasi in quella parte della Metafisica,

24 Io sono quella che tu fuggi

in cui si tratta de’ tre famosi sistemi di Euler, di Cartesio, e di Leibnizio intorno ai moti dell’uomo»). Tale notabile assenza potrebbe derivare dalla ricezione del ‘messaggio’ di Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, che transita negli articoli matematici dell’Encyclopédie e nelle storie settecentesche della matematica, producendo una vera e propria proscrizione nei riguardi dell’opera di Euler. Disinteresse per la matematica moderna e riflessione sulla ‘matematizzazione del mondo’. È certo che la matematica non fu centrale nella formazione di Giacomo e che egli non ebbe cognizione dell’importanza della diffusione del calcolo differenziale e infinitesimale, passaggio decisivo verso la matematica moderna. A sua difesa, va aggiunto che nel secondo Settecento l’accettazione dell’analisi infinitesimale era ancora problematica e che in Italia prevaleva una considerazione applicativa della matematica, che si estendeva alla meccanica e all’astronomia, in un contesto di scarsa presenza di matematici di livello europeo. Ad esempio, il matematico Pietro Paoli, professore allo Studio pisano e Sovraintendente agli Studi del Granducato di Toscana, poteva scrivere nella Prefazione a un manuale molto apprezzato dai matematici italiani, gli Elementi di algebra finita e infinitesimale (1794): «al primo leggere dei libri degli Euler, dei D’Alembert, dei Lagrange, [il matematico] si abbatte in difficoltà insuperabili». In questo quadro di scarso interesse personale e di limitata cultura matematica Leopardi non evitò tuttavia di seguire il dibattito culturale intorno alla matematica, trasmesso anche su riviste letterarie a lui ben note come il «Giornale Arcadico» e la «Biblioteca Italiana». Ebbe sicuramente notizia della polemica tra Augustin-Louis Cauchy e i matematici italiani Giuseppe Cossa, Antonio Bordoni e Gabrio Piola, ospitata sulla «Biblioteca Italiana» nel 1830, relativa all’uso della teoria delle funzioni derivate di Joseph-Louis Lagrange, considerata da Cauchy incongrua e lacunosa, e da lui sostituita con i metodi della moderna analisi matematica. È altrettanto certo che la ‘matematizzazione del mondo’ prodotta dalla scienza moderna costituisce un motivo peculiare di riflessione, in connessione diretta con la teoria delle illusioni e con la teoria poetica.

La matematica: una ragione calcolante

25

Non è un caso se nei Canti non si trovi alcun ‘termine’ che richiami direttamente la matematica, ad esclusione di ‘innumerabile’, forma avversativa di ‘numero’, e naturalmente di ‘infinito’, che compare, nelle sue diverse flessioni, diciannove volte nell’edizione Starita del 1835. Leopardi si richiama, sempre in un contesto cosmico, ai «mondi innumerabili» in Alla Sua donna (v. 51), alla «innumerabile famiglia» degli astri nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (v. 92), e alle nebulose «Del numero infinite e della mole» della Ginestra (v. 179). La poesia, luogo per definizione ‘vago’ delle parole, non poteva ospitare i ‘termini’ della scienza del numero e della misura. Viceversa, molto ampia risulta nello Zibaldone l’attenzione per la matematica, indice di un rapporto molto ‘ragionato’, unita al riconoscimento in essa di un paradigma esemplare della scienza e della conoscenza e all’intuizione del suo valore di ‘sublime’ esperienza cognitiva. In tale direzione la cognizione matematica viene vista confliggere fortemente con la tendenza umana al piacere. Matematica, ragione analitica e natura umana. Un ordine di riflessioni zibaldoniche conduce Leopardi a vedere nella matematica un modello perfetto di scientificità, sviluppatosi nel mondo moderno, che appare come la negazione della più originaria naturalità umana e segna l’incomprensione della ‘verità’ della natura, perseguendo una cognizione astratta, sostenuta da simboli e regole convenzionali. Gli uomini moderni si distinguono dalle ‘bestie’ perché accrescendo il calcolo sono divenuti «meno magnanimi, meno coraggiosi delle bestie»: «Da ciò si può vedere quanto la grand’arte del computare, sì propria de’ nostri tempi, giovi e promuova la grandezza delle cose, delle azioni, della vita, degli avvenimenti, degli animi, dell’uomo» (Zib, 1378/23 luglio 1821). L’ esattezza, perseguita dalla matematica, «è buona per le parti, ma non per il tutto» (Zib, 1853/5-6 ottobre 1821); essa esprime una procedura analitica che non si compone, e anzi contraddice, la visione d’insieme della natura, il «colpo d’occhio». In un lungo pensiero del 29-31 gennaio 1821 (Zib, 579-590) la matematica, modalità della ricerca razionale della perfezione, viene contrapposta alla varietà della natura, che trova la sua espressione

26 Io sono quella che tu fuggi

‘logica’ nell’«appresso a poco». La matematica è frutto dell’astrazione della ragione, che non corrisponde ad alcunché di naturale. Come non è imperfetto ciò che è naturale, ma non corrisponde geometricamente alle idee matematiche, così non basta che qualcosa sia ricondotto alle idee matematiche per essere giudicato perfetto. La perfezione matematica è una «vera imperfezione», in quanto si allontana dall’«ordine primitivo delle cose». In altri termini, la perfezione matematica assume una dimensione di coerenza logica, mentre è discorde rispetto alla realtà naturale: «La stretta precisione entra nella ragione e deriva da lei, non entrava nel piano della natura, e non si trovava nell’effetto». Posta al culmine del distacco moderno dalla natura, la perfezione appare direttamente proporzionale alla corruzione ultima dell’umanità, stringe nella logica della necessità la realtà della natura, mentre viceversa l’«appresso a poco» meglio riflette le infinite cose che sono e che possono non essere. «I filosofi, massime moderni, i quali assuefatti all’esattezza e precisione matematica, tanto usuale e di moda oggidì, (…) non credono naturale quello che non è preciso e matematicamente esatto: quando anzi per lo contrario, si può dir tutto il preciso non è naturale». Il regno naturale delle infinite possibilità non è circoscrivibile nella logica finita della perfezione matematica. In riflessioni come questa si nota quanto abbia pesato nella visione leopardiana dell’infinita possibilità della natura l’ignoranza del calcolo infinitesimale e integrale. La dimensione non naturale e convenzionale della matematica viene ancora ribadita nel 1823. In una lunga riflessione sulla Gerusalemme liberata Leopardi scrive incidentalmente che il punto matematico «è soltanto supponibile» «e non mai però vero» (Zib, 3595/3-6 ottobre 1823). Con una nota più interna alla filosofia moderna della scienza, il 12 dicembre Leopardi riafferma che le matematiche costruiscono le loro dimostrazioni facendo leva su entità fittizie, non corrispondenti ad alcuna realtà (Zib, 3978). La matematica, modello supremo della scienza moderna, tratta enti del tutto convenzionali. Questa nota mette in gioco, e in qualche modo capovolge, il metodo della fisica galileiana, nella sua preliminare separazione tra qualità rilevanti sul piano della misura (‘qualità oggettive’) e ‘qualità soggettive’, trascurabili per la definizione delle leggi. Leopardi propone al contrario di considerare più rilevanti le qualità dei «subbietti in qualche modo diversi», degli enti

La matematica: una ragione calcolante

27

naturali nella loro varietà irriducibile a calcolo e misura. Aveva scritto il 13 ottobre del 1821 che la perfezione assoluta (così tipica della ricerca matematica) è anteriore all’esistenza e contraddittoria rispetto a essa (Zib, 1909-1910). Ripete, sempre nel 1823, il 23 agosto, che il mondo e gli uomini non saranno mai geometrizzati: «ei non diverranno però mai schiavi moribondi e incatenati della geometria» (Zib, 3253-3254). Sono riflessioni che rivendicano il carattere convenzionale, logicolinguistico delle matematiche, in contrapposizione alla contingenza e variabilità del sistema della natura, e che collocano il sapere matematico nella dimensione delle verità di ragione e non di fatto (per esprimersi con Leibniz) o delle relazioni tra idee e non delle questioni di fatto (per esprimersi con il più consonante David Hume), segnando così un loro netto distacco dalla realtà fisica. Ma non si tratta soltanto di un caso di interpretazione convenzionalista della matematica, conseguente alla concezione di uno sviluppo autonomo e non necessario della ragione rispetto all’ordine naturale. Vi è anche un riconoscimento della pervasività del ‘pressappoco’ nella realtà naturale, conseguente a un ordine aperto e indefinito dei possibili; Leopardi sviluppa una contrapposizione netta tra i limiti dell’astrazione matematica e razionale, e l’indefinita concretezza del ‘pressappoco’. Ancor più nettamente la matematica colpisce la vocazione più naturale dell’uomo, la tendenza al piacere; essa «dev’esser necessariamente l’opposto del piacere». Essa definisce e circoscrive anche ciò che è smisurato, permette di conoscere le parti della natura secondo le regole della ragione, annullando così la sua infinita e straordinaria varietà. Affermazioni che ritroviamo in un pensiero del 18 settembre 1820, connesso all’elaborazione della teoria del piacere (Zib, 246-248). Si tratta di un punto, per Leopardi, dirimente: un sapere che si contrappone alla naturale aspirazione umana al piacere, ancorché irrealizzata e irrealizzabile, nega l’umanità stessa. La matematica diviene così emblema della disumanizzazione che la ragione moderna ha irreversibilmente e infaustamente prodotto nei popoli civilizzati. All’origine del concetto di numero. Un altro ordine di riflessioni sulla matematica richiama una comprensione linguistica, filologica e storica dell’origine dei concetti aritmetici

28 Io sono quella che tu fuggi

elementari, esprimendo, in abbozzo, un disegno di storia e filosofia della matematica. L’intelletto e la memoria non potrebbero concepire una quantità precisa di cose senza acquisirne una denominazione determinata; i numeri elevati ci destano infatti idee confuse, perché la mente non può abbracciare contemporaneamente tutte le parti di tale elevata quantità (Zib, 362/28 novembre 1820). Senza lingua – annota Leopardi in un lungo e denso pensiero del 22 maggio 1821 – non vi sarebbe l’idea di numero determinato. Si tratta di un frammento prezioso di filosofia della matematica, che mette in scena «un pastore primitivo», molto precedente al pastore errante dell’Asia (il Canto omonimo sarà composto tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830). Leopardi ragiona antropologicamente sull’invenzione dei numeri cardinali che – sostiene – fu la più difficile, in quanto comprende l’idea di una quantità determinata che risulta «quasi totalmente astratta e metafisica». Prima vennero i numeri ordinali, ovvero prima venne la parola ‘secondo’, poi la parola ‘due’, perché la prima è legata a «un’idea materiale, e derivata da’ sensi, e naturale, cioè quella cosa che sta dopo ciò che è nel principio». Leopardi non manca di portare, a sostegno della sua riflessione di chiaro stampo empirista (viene richiamato John Locke), sensista e anti-metafisico, una notazione linguistica, filologicamente documentata, sul latino posterior e sul greco ὕστερος. La riflessione viene integrata ed estesa il 28 novembre 1821, quando Leopardi richiama quanto scritto a proposito dei numeri cardinali dei primitivi nel Robinson Crusoe di Daniel Defoe, ritenuto una fonte affidabile, secondo il quale «i popoli scarsi di favella e privi di sufficienti nomi numerali, si vede che infatti non sanno contare neppur sino al 20», e aggiunge una notazione sui bambini che «non sono capaci di concepire appena confusamente nessuna quantità determinata (o di numero o di misura ec.) se non piccolissima, cioè tanta per lo più quanto si stende la loro cognizione de’ nomi numerali; e non arrivano se non dopo lungo tempo a contar sino a venti» (Zib, 2186-2187). I primitivi e i bambini attestano, secondo un metodo rintracciabile anche in Locke, che l’esperienza della numerazione procede dai numeri ordinali a quelli cardinali. La sicurezza di tale notazione storico-filosofica e linguistica sull’origine dei numeri viene confermata ancora nelle ultime pagine dello Zibaldone, il 7 maggio 1829, quando Leopardi rileverà come «La stupenda conformità radicale tra i nomi della più parte de’

La matematica: una ragione calcolante

29

10 primi numeri nelle lingue le più disparate, sembra provare unità d’invenzione e d’origine de’ nomi numerali, e conseguentemente della numerazione» (Zib, 4500). In un altro lungo pensiero del 28 luglio 1821 Leopardi sviluppa ancora la relazione tra costruzione della numerazione decimale e razionalizzazione del mondo, sottolineando anche il grande vantaggio delle cifre arabe, che permettono di indicare direttamente in un solo numero (come 3210) le decine, le centinaia e le migliaia. L’idea della quantità numerica determinata, del numero cardinale, si presenta come un potente risultato dell’astrazione razionale: «Utilissima e necessarissima invenzione e pensamento quello di dividere le quantità» per decine, perché partendo da un’idea composta (quale può essere quella di 3210) si risale facilmente a un ordine di idee semplici ben individuate (3000, 200, 10). Ne consegue da un lato – come si è visto – che senza linguaggio non si concepisce la quantità determinata (nesso avvalorato il 30 luglio 1822 con l’osservazione che gli animali non contano: «Onde l’idea della quantità determinata (benché cosa materialissima) è esclusivamente propria dell’uomo» [Zib, 2588]). Dall’altro ne deriva che la scienza e la pratica della matematica sono un sostegno essenziale per lo sviluppo della facoltà intellettiva dell’uomo: visto che «Non si pensa se non parlando», la matematica, con il suo linguaggio sempre più astratto e simbolico, eleva l’intellezione umana: «insomma per una parte assuefa, per l’altra facilita all’uomo l’uso della ragione ec.» (Zib, 2213/3 dicembre 1821). In questo contesto, Leopardi non esita di sostenere che con l’esercizio anche «il più sciocco ingegno con ostinata fatica può divenire uno de’ primi matematici ec. del mondo» (Zib, 1633/5 settembre 1821). La matematica ‘sublime’. Se da un lato la matematica si presenta come il risultato, tanto elevato quanto convenzionale, della ragione umana, dall’altro essa consente un’esperienza superiore della realtà, non dissimile da quella che possiede il poeta con la sua capacità di cogliere la logica segreta del tutto. Il 19 settembre 1821 Leopardi si spinge a porre sullo stesso piano la poesia e la matematica, come espressioni massime del «gran-

30 Io sono quella che tu fuggi

de talento» (Zib, 1743). Si tratta di un talento derivato dalla ragione moderna, da una «immaginazione tetra astratta metafisica», peculiare dei popoli settentrionali, che, sostituendo le «vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva», conduce piuttosto alla «matematica sublime» che non alla poesia. Circa un anno prima (il 14 ottobre 1820) Leopardi poteva così asserire che «la matematica sublime» è l’esito più alto dell’«immaginativa fondata sul pensiero» (Zib, 275-276). Richiamo l’attenzione sull’espressione «matematica sublime», in quanto l’aggettivo ‘sublime’ qualificava nell’insieme la matematica che sviluppava operazioni di derivazione e di integrazione, ma anche la geometria e la fisica differenziali, dando il nome a cattedre universitarie di «calcolo sublime», di «geometria sublime» o di «fisica sublime» (quest’ultima fu occupata da Cauchy a Torino dal 1831 al 1833). Il termine naturalmente ha un’estensione semantica più ampia, ben oltre le matematiche, certo ben nota al Leopardi filologo e poeta. Riflessioni sull’infinito, tra matematica e poesia. In un quadro ‘meta-matematico’ assumono particolare spessore le annotazioni leopardiane sull’infinito. Impossibile richiamare qui il rilievo dell’idea di infinito nell’estetica leopardiana, a partire dall’idillio L’ infinito, composto nel 1819. Ma si potrebbe interpretare genealogicamente l’attenzione di Leopardi per il tema dell’infinito e dell’indefinito già seguendo due ordini di letture funzionali allo studio giovanile, che rinviano alla filosofia della natura e alla filosofia morale. Nella Dissertazione sopra l’estensione (1811), il giovane Giacomo si mostra affascinato dal tema della divisibilità geometrica dei corpi e ne fornisce una descrizione circostanziata, che fa largo uso di un manuale di fisica molto diffuso e posseduto in casa Leopardi nella seconda edizione veneta (1796) – gli Elementi di Fisica Sperimentale di Saverio Poli (1787), integrati da Vincenzo Dandolo. Negli stessi anni egli legge e commenta un manuale di Francesco Maria Zanotti: La Filosofia morale secondo l’opinione dei Peripatetici ridotta in compendio. Con un Ragionamento dello stesso sopra un Libro di Morale del Sign. di Maupertuis (1754), posseduto nella Biblioteca Leopardi nell’edizione del 1763. Come dichiara lo stesso titolo, si tratta di un compendio della

La matematica: una ragione calcolante

31

filosofia di Aristotele, ispirato all’Etica Nicomachea. Tra le tante pagine che suscitano l’interesse del giovane Leopardi ve n’è una sul desiderio di felicità (cap. XVII, Del desiderio della felicità) che pone il problema del rapporto tra finito e infinito nel contesto morale. La lettura dei pensieri dello Zibaldone permette di distinguere meglio le due linee della riflessione sull’infinito (filosofico-scientifica e morale-antropologica), evidenziando la progressiva divaricazione e contrapposizione tra la concezione dell’infinito e la visione dell’indefinito. Nella maturazione del pensiero di Leopardi, all’altezza del 1820-21, la riflessione sull’infinito acquista una duplice valenza, avviando una netta distinzione tra la concezione fisica dell’infinito e la visione poetica dell’indefinito. Da un lato si fa strada una concezione dell’infinito come ‘nulla’, dall’altro prende corpo un’indagine sull’indefinito come luogo deputato della vaghezza poetica. Il motivo leopardiano dell’infinito nel quadro della visione della natura si appropria dall’analisi logica e geometrica dell’infinito, inteso nella sua forma potenziale, rigettando l’ipotesi fisica, peraltro improponibile al tempo, di un infinito ‘attuale’. In un pensiero dello Zibaldone del 18 settembre 1820 l’ipotetica varietà infinita della natura contrasta con la misura e con l’operazione della ragione scientifica che la dissolve (Zib, 246-247). Da questo momento (settembre 1820) viene a definirsi – si è visto – un’immagine della filosofia moderna calcata su quella ‘analitica’ e astratta della matematica, che pretende di misurare ciò che non sopporta di essere misurato e che Leopardi porrà in contrasto con la dimensione del piacere. In un pensiero del 9 febbraio 1821 il tema della misura richiama ancora la divisibilità della materia con una forte sottolineatura del «salto infinito» che permane tra la divisibilità tendenziale della materia e il ‘nulla infinito’: per quanto infinitesime siano le parti in cui si può dividere la materia, non si potrà mai raggiungere il nulla, che costituisce il ‘vero’ infinito e di conseguenza in natura non vi è alcun infinito ‘attuale’. Ipotizziamo pure una suddivisione indefinita (Zib, 630-631). Il «salto infinito» che separa la materia dal nulla rende conto del salto che separa l’infinito potenziale da quello attuale, la concezione astratta dell’infinito da quella fisica, che identifica l’infinità nello spazio e nel tempo con il nulla. In un pensiero di poco successivo, del 3 settembre, Leopardi esamina invece l’infinito

32 Io sono quella che tu fuggi

nel quadro della questione dell’infinita possibilità, in rapporto al tema dell’esistenza di Dio, ancora sostenuta a questa data (Zib, 1620). Dio come «infinita possibilità», come luogo deputato di un infinito potenziale che si fa attuale, che esiste «in tutti i possibili modi». Il giorno dopo, il 4 settembre, Leopardi torna sullo stesso tema con toni simili (Zib, 1625-1627). Nello stesso arco di tempo, tra il 1820 e il 1821, Leopardi orienta la sua riflessione sull’infinito in ambito morale e antropologico, intendendolo nel senso dell’indefinito. Proprio la prima apparizione del termine ‘infinito’, segnalabile tra il 3 e il 20 gennaio 1820, è legata a una prospettiva di filosofia morale. Nella tipologia umana gli uomini più beati sono quelli «che considerano il tutto sotto un aspetto infinito», ma tale «vita indefinibile e vaga» conduce alcuni, «quelli per cui le cose (…) son tutte vane e senza sostanza», alla sola visione vera delle cose, alla considerazione filosofica della vanità del tutto (Zib, 102-103). Già qui la dimensione degli «uomini di genio e sensibili» consiste della facoltà immaginativa che trova «un rapporto continuo delle cose coll’infinito», mentre la verità filosofica apre uno sguardo sul nulla e sulla vanità delle cose. La seconda volta che si trova a scrivere di ‘infinito’ Leopardi lo fa nel quadro della lunga e celebre riflessione sulla teoria del piacere del 12-23 luglio 1820 (Zib, 165-183), sviluppando espressamente una notazione sul carattere vago e piacevole della percezione dell’indefinito. La ricerca delle «idee infinite», effetto della «inclinazione della natura al piacere», conduce a prediligere «una veduta ristretta e confinata in certi modi», grazie alla quale «in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale». E ciò in base al «desiderio dell’infinito», che fa sì che l’anima spazi «in un vago e indefinito», provandone dolcezza. Ma «L’infinità della inclinazione dell’uomo al piacere è una infinità materiale» e non ne consegue una teoria dell’infinità dell’anima umana. Si tratta di una riflessione che tornerà variamente nello Zibaldone. Tra le varie altre annotazioni, assume un rilievo particolare il pensiero del 1° agosto 1821, che propone una riflessione poetica connessa con le sensazioni, piacevoli per il loro carattere indefinito, e che risulta esplicitamente correlata con l’idillio L’ Infinito. Siamo nella fucina della produzione immaginativa che sostanzia la poesia leopardiana:

La matematica: una ragione calcolante

33

qui e altrove il poeta ricerca scelte lessicali, modelli naturalistici e quadretti paesaggistici che possano rendere efficacemente quel «desiderio dell’infinito» che brucia nelle vicende umane e che può solo essere rappresentato nell’orizzonte artistico e poetico. La riflessione parallela tra cognizione dell’infinito fisico-matematico e poetica dell’indefinito immaginativo-morale si risolve nella concezione negativa e tragica della condizione umana che aveva già trovato spazio nelle Operette morali del 1824 e che nell’autunno 1825 confluisce nel Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco. Viene così a definirsi un legame ormai consolidato tra la critica dell’infinito matematico, la negazione dell’infinito attuale nella filosofia della natura, e la teoria dell’indefinito legata alla filosofia tragica dello ‘stratonismo’, oltre ogni concezione del ‘divino’. La divaricazione tra impossibilità fisica della concezione dell’infinito naturale e opportunità poetica della immaginazione dell’indefinito naturale si consuma definitivamente nel tempo della scrittura dello Stratone. Nel pensiero del 1-2 maggio 1826, che ne richiama espressamente uno dell’8 ottobre 1825, si afferma senza reticenze che «L’infinito è un parto della nostra immaginazione» (Zib, 4177-4178). Nella realtà fisica soltanto il niente è «senza limiti», quando noi vagheggiamo l’infinito in sostanza contempliamo «un’idea, un sogno, non una realtà», o meglio ci portiamo sul baratro del nulla, visto che «l’infinito venga in sostanza a esser lo stesso che il nulla». L’«infinità del tempo» si risolve in un’«infinità del nulla», in quanto il tempo non possiede una sua esistenza naturale. L’ eternità trascende le possibilità cognitive degli uomini e trova spazio soltanto nell’immaginazione e nella poesia (come non pensare proprio a L’ infinito, con la sua evocazione dell’eterno: «mi sovvien l’eterno, | E le morte stagioni», vv. 11-12), richiama un’«infinità che non esiste né può esistere se non nella immaginazione o nel linguaggio». L’ evocazione, così affascinante, dell’infinito come «illusione ottica» rinvia alla tragica rivelazione dell’infelicità dell’uomo, aspetto costitutivo della sua condizione insieme ontologica e antropologica, che si àncora alla più antica sapienza greca, a partire dal noto detto di Anassimandro – «Principio degli esseri è l’indefinito (infinito) [àpeiron] (…) da dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro

34 Io sono quella che tu fuggi

la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo» (Anassimandro, in Simplicio, De physica, 24, 13) –, per diventare, con L’ Infinito, poesia altissima. L’infinito è il nulla e il mondo tutto è male: ecco due punti di non ritorno della concezione materialistica e insieme nichilistica di Leopardi, che nella loro radicalità filosofica esprimono una netta divaricazione rispetto alla ragione matematica, ricondotta alla dimensione analitica, determinata e limitata della quantità. Un ultimo ordine di riflessioni ruota intorno al rapporto tra matematica e letteratura, soprattutto in chiave di stile e di scrittura. Su tale piano il giudizio per lo stile dei matematici è irrevocabilmente negativo. La precisione si situa all’opposto rispetto all’eleganza, come dimostra il caso di Galilei, che «dovunque è preciso e matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano» (Zib, 2013/30 ottobre 1821). Merita a questo punto aprire una parentesi sull’uso della scrittura galileiana nella Crestomazia della prosa. Le ricordate selezioni dal Saggiatore, dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano e da opere minori e lettere (tutte raccolte nell’edizione delle Opere di Galilei del 1744 posseduta da Leopardi a Recanati) avviene nel segno di un interesse non superficiale per lo stile galileiano, unito a quello per la sua concezione della natura. A un’analisi attenta si riconoscono tagli, voluti da Leopardi, anche in funzione della sua idiosincrasia per la «farraggine fisica e matematica» di alcuni passaggi: vengono espunti proprio i passi dove l’argomentazione galileiana si serve di strumenti logico-matematici. La scienza, ben esemplata nelle pagine galileiane, è imprescindibile dalla matematica e, di conseguenza, la definizione della scienza coincide con quella della matematica: «Chiamo scienze esatte tutte quelle che (…) debbono esser trattate colla maggior possibile esattezza, e non danno luogo all’immaginazione (della quale Buffon fece grandissimo uso), ma solamente all’esperienza, alla notizia positiva delle cose, al calcolo, alla misura, ec.» (Zib, 2731/30 maggio 1823). È interessante notare come al modello astratto e rigoroso della scienza matematica sia avvicinata la metafisica, che Leopardi vede in chiave di fondazione critica, originata dall’analisi empirica sulle funzioni della mente. La metafisica senza l’«ideologia» (intesa nel senso

La matematica: una ragione calcolante

35

della dottrina degli idéologues) è paragonata all’astronomia senza la matematica, ovvero all’astrologia primitiva di cui si scrive nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (Zib, 2335/7 gennaio 1822). In definitiva, la metafisica, una metafisica criticamente intesa – al di là della differenza nell’uso del linguaggio – possiede un’affinità sostanziale con la matematica: «Non si potrebbe dire della metafisica appresso a poco il medesimo che della Geometria, e così scusare chi in metafisica amasse più di pensare che di leggere; chi pretendesse di essere metafisico senz’aver letto o inteso Kant; chi si contentasse talvolta di conoscere i risultati e le conclusioni delle speculazioni e ragionamenti de’ metafisici celebri, per poi trovarne da se stesso la dimostrazione, o convincersi della loro insussistenza?» (Zib, 4304/17 aprile 1828). Il carattere deduttivo e la serie coerente di proposizioni che necessitano di un seguito rigoroso di risultati tratti dalle proprie dimostrazioni fanno della metafisica, come della matematica, il modello più alto, più sublime, di quella ragione moderna che Leopardi condanna come una delle fonti dell’infelicità umana.

III La chimica e il materialismo

La passione giovanile per la chimica. La chimica fu, insieme all’astronomia, la scienza alla quale Leopardi dedicò il maggiore interesse, fin dagli anni dello studio giovanile. E fu anche la scienza che, a partire dalla ‘rivoluzione’ di AntoineLaurent Lavoisier, funse da traccia ben marcata per definire il suo rapporto con il materialismo e per elaborare la sua teoria poetica della differenza fra ‘termini’ e ‘parole’. Leopardi interpretò in modo originale il ruolo culturale e filosofico attribuito alla chimica nel primo Ottocento, mostrando un interesse attestato fin dai primi studi giovanili, ma soprattutto ponendo alcuni tasselli di una filosofia chimico-fisica che confluirà nella più complessa e matura filosofia della natura e trasparirà fino alle ultime composizioni poetiche e letterarie. La disposizione del giovane Leopardi verso la chimica fu resa possibile dalla fornitissima biblioteca di Monaldo, che offriva un ottimo repertorio di libri e riviste di argomento chimico. Se si passano in rassegna anche soltanto i volumi espressamente dedicati alla chimica presenti nella Biblioteca di casa Leopardi ne risulta una scelta di testi aggiornati, uniti a manuali e a opere ormai classiche. Sono presenti, tra gli altri, la prima edizione italiana del Trattato elementare di Chimica (1791) di Lavoisier, la seconda edizione veneta degli Elementi di fisica sperimentale (1796) di Poli e Dandolo, la prima edizione degli Elementi di chimica (1795-98) di Luigi Valentino Brugnatelli, la Chimica applicata alle arti (1820) di Jean-Antoine Claude Chaptal, il Corso di chimica (1700) di Nicolas Lémery, la Chimica sperimentale e ragionata (1781) di Antoine Baumé, il Corso di chimica secondo i principii di Newton e di Sthall (1750), nonché gli «Annali di Chimica o sia raccolta di memorie, che riguardano la Chimica e le arti, che

38 Io sono quella che tu fuggi

ne dipendono dei celebri de Morveau, Lavoisier, Monge, Berthollet, de Fourcroy, Dietrich, Hassenfrats, Adet, etc» (1799). Da segnalare inoltre la presenza della fortunata opera divulgativa di Giuseppe Compagnoni Chimica per le donne (1805), corrispettivo per la chimica del Newtonianismo per le dame di Algarotti. Le Dissertazioni filosofiche offrono il migliore saggio delle letture chimiche del tredicenne Giacomo. Le dissertazioni Sopra l’attrazione, Sopra l’estensione, Sopra l’idrodinamica, Sopra i fluidi elastici, Sopra la luce e Sopra l’elettricismo testimoniano l’acquisizione di un sapere chimico non superficiale, collocato nel quadro di un deciso distacco dalle concezioni metafisiche di una natura aristotelicamente ‘sostanziale’ e di una convinta adesione al sistema fisico newtoniano. Il sapere chimico di Leopardi si dispiega esemplarmente nella dissertazione Sopra l’estensione, che discute le dispute ancora vive sull’esistenza del vuoto e i problemi connessi alla dimensioni, alla penetrabilità, alla divisibilità e alla figurabilità della materia. A proposito della divisibilità, Leopardi introduce una visione molecolare dei corpi, che non esclude il concetto geometrico di divisibilità all’infinito. Richiamando un’argomentazione proposta in uno dei principali manuali di riferimento – i ricordati Elementi di Fisica sperimentale di Poli e Dandolo –, che avrà un ruolo determinante per la fissazione della sua cultura chimica, il giovane Leopardi discute sulla divisibilità indefinita dei corpi, seguendo la propria curiosità descrittiva e sperimentale. In questo contesto va sottolineato il ruolo di una nota di Dandolo, riportata da Leopardi e intesa così integralmente da individuare il ruolo ossidante dell’ossigeno, in piena sintonia con la teoria di Lavoisier. Va ricordato che a questa data (1811) sono davvero pochi i chimici italiani che accettano integralmente la nuova nomenclatura lavoisieriana. Peraltro, l’attenzione di Leopardi si addensa sulla chimica dei fluidi, dimostrando sensibilità per l’indagine sulle ‘arie’, sull’acqua e sui processi di ossidazione, ambiti cruciali della nuova chimica. La presenza della chimica nelle Dissertazioni testimonia l’interesse del giovane Leopardi per la svolta teorica e terminologica promossa da Lavoisier, prontamente recepita nel suo rilievo linguistico e metodologico, non circoscritto soltanto alla chimica, e per il rapporto tra scienza e tecnologia, ben evidente nella ricerca di un costante

La chimica e il materialismo

39

abbinamento tra presentazioni teoriche e descrizioni di esperimenti e di strumenti. Si tratta di indicatori di una maturazione di pensiero che sfocerà in una significativa riflessione linguistica e metodologica nella poetica e nella filosofia leopardiana, esemplificabile nella nota distinzione fra ‘termini’ (scientifici) e ‘parole’ (poetiche). Il linguaggio della nuova chimica. Se ci si allontana dalle Dissertazioni e si tralascia – per una scelta obbligata – il non ancora edito Compendio di storia naturale (1812), i riferimenti alla nuova chimica tornano ad essere significativi in alcune pagine dello Zibaldone. Innanzitutto va segnalato l’ambito di riflessione logico-linguistico. I pensieri relativi a combinazioni e strutture linguistiche fanno leva anche sulla ricognizione dei composti operata dalla nuova chimica e di conseguenza sulla sua riforma della nomenclatura. Leopardi aveva colto con sicurezza nelle letture di riferimento delle Dissertazioni, e soprattutto nell’opera di Dandolo, la rilevanza del tema della riforma della nomenclatura chimica proposta dalla côterie di Lavoisier, che tocca un aspetto centrale della riflessione illuministica sul linguaggio – sviluppato tra gli altri da Pierre-Louis Moreau de Maupertuis e da Étienne Bonnot de Condillac –, ovvero quello dell’arbitrarietà del segno linguistico, unita al carattere puramente analitico e razionale delle lingue moderne. Per Condillac l’arte di ragionare diviene un aspetto della comunicazione linguistica il cui significato più profondo risiede nella corporeità umana. Su questa base si muove Lavoisier, il quale ritiene la scienza una ‘lingua’ atta alla comprensione oggettiva dei fenomeni e si propone di costruire una terminologia della nuova chimica per facilitarne le operazioni sperimentali e mentali, secondo coerenti procedure argomentative sostenute da continue prove empiriche. In questo quadro – rafforzato dalla lettura degli Elementi d’Ideologia di Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy nell’edizione curata da Compagnoni (1817) – si inserisce quello che diverrà un nucleo forte della teoria estetica e linguistica leopardiana: la distinzione fra ‘parole’, vaghe ed espressive, e ‘termini’, univoci e rigorosi. Proprio discutendo intorno al ruolo dei ‘termini’, segni linguistici che esprimono una simbolizzazione analitica, Leopardi rico-

40 Io sono quella che tu fuggi

nosce il necessario legame fra argomentazione razionale e scientifica e precisione terminologica. Si tratta del pensiero del 30 aprile 1820, in cui viene operata la distinzione tra ‘termini’ e ‘parole’. Più in generale, in Leopardi non verrà mai meno una visione chimica della natura, vista come la composizione e combinazione dinamicamente modificata di un certo, piccolo, numero di elementi: «secondo i chimici tutto il mondo e tutti i diversissimi corpi si compongono di un certo tal numero di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo così composti e fatti anche nell’ordine morale come ho dimostrato in molti pensieri sulla semplicità del sistema dell’uomo» (Zib, 808/18 marzo 1821). Sul problema della metodologia della conoscenza scientifica e correlativamente filosofica appare importante e complessivo il lungo pensiero del 26 giugno 1821, che richiama in causa il ruolo del linguaggio nella conoscenza della natura. Le potenzialità di astrazione e di conoscenza razionale della lingua della scienza vengono esemplificate con un espresso riferimento alla nuova terminologia chimica introdotta da Lavoisier. In questa pagina dello Zibaldone da un lato emerge la sicura e convinta percezione che il valore della nuova chimica risieda nell’introduzione della nuova nomenclatura, dall’altro l’adesione a una visione ‘linguistica’ del razionalismo scientifico, secondo la quale il mutamento di paradigmi linguistici delle scienze comporta di per sé un profondo rinnovamento teorico. La nuova chimica e le sue scoperte. Il richiamo al sapere chimico trova spazio in un altro ordine di riflessioni, relativo alla storia delle scoperte e al loro carattere sostanzialmente casuale, e favorito dalla lettura di un noto libro di Louis Dutens sulle origini antiche delle scoperte moderne (Recherches sur l’origine des découvertes attribuées aux modernes, 1766); si tratta di un’opera molto seguita da Leopardi nella sua riflessione relativa alla querelle des anciens et des modernes, che contiene anche alcuni elementi di confronto tra la chimica degli antichi e quella dei moderni, che sicuramente Leopardi tenne presenti. Fra il marzo 1821 e l’agosto 1822 egli ribadisce cinque volte che le invenzioni e le scoperte dell’umanità sono frutto del caso. Tale interpretazione

La chimica e il materialismo

41

generale dello sviluppo storico della scienza e della tecnica mette anche in discussione – il 10 agosto 1822 – il valore dello sviluppo razionale della chimica moderna: la nuova chimica non sarebbe nata senza l’emergere di singole scoperte casuali e parallelamente nell’antichità si sono conseguite importanti scoperte pur senza le adeguate cognizioni razionali. Secondo Leopardi, la rigorizzazione dei principi cognitivi della nuova chimica, correttamente valutata come il suo principale carattere distintivo, non ha condotto a nuove e significative scoperte, confrontabili con le grandi scoperte dell’antichità (come la scoperta della polvere fulminante non è confrontabile con quella della polvere da sparo); naturalmente tale affermazione sarebbe uscita ridimensionata dopo l’esplosione di scoperte e applicazioni chimiche prodottasi nel secondo Ottocento. Dedico soltanto un cenno a una traccia chimica presente in un Canto – la Palinodia al Marchese Gino Capponi (primavera 1835) – dove leggiamo: «e co’ fulmini suoi Volta né Davy | lei [la legge secondo la quale chi possiede «imperio e forze» ne abusa per dominare] non cancellerà» (vv. 82-83). Qui Leopardi asserisce che una fatale legge naturale prevale sulle nuove, esemplari, scoperte elettrochimiche di Alessandro Volta e Humphry Davy, che tuttavia rimangono impotenti dinanzi al dominio della natura. Chimica e ‘stratonismo’. Il luogo privilegiato della ‘filosofia chimica’ di Leopardi si trova nelle Operette morali ed è racchiuso nel denso ‘saggio di filosofia naturale’ costituito dal Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco (autunno 1825). Qui Leopardi richiama l’esistenza di «una o più forze proprie» della «materia in universale», che si possono «congetturare ed anco denominare dai loro effetti, ma non conoscere in sé»; tali forze possono poi essere da noi distinte «con diversi nomi», ma risultare in realtà una stessa e medesima forza, la «forza della materia», che «muovendola» «ed agitandola di continuo, forma di essa materia innumerabili creature, cioè le modifica in variatissime guise». Nel nostro mondo «la distruzione è compensata continuamente dalla produzione» e tale continua formazione e distruzione

42 Io sono quella che tu fuggi

delle «creature» è segno dell’incessante forza della natura, dei «continui rivolgimenti della materia», che producono e distruggono «infiniti mondi nello spazio infinito dell’eternità». L’universale dinamismo cosmico possiede più di un’assonanza con le filosofie chimiche che sostenevano la convergenza delle forze chimiche, elettriche e magnetiche, che, unite alla più consolidata forza di attrazione universale, venivano variamente intese come aspetti di una medesima forza che muove tutti gli esseri naturali, organici e non. L’ esempio migliore di tale ‘filosofia chimica’ è fornito da Paoli nelle Ricerche sul moto molecolare dei solidi (1825), riconosciute come una possibile fonte del Frammento. Al di là dell’attendibilità specifica dell’ipotesi, rimane sicuro un richiamo solido e meditato alla ‘filosofia chimica’, che costituisce una delle radici più profonde del materialismo ‘stratonico’ leopardiano, nel segno di una continuità di interessi che dagli esercizi di studio e di lettura delle Dissertazioni giovanili si consolida con la lettura di saggi chimici innovativi e con la frequentazione diretta di chimici che uniscono all’aggiornamento disciplinare una buona dose di conoscenze filosofiche e una non episodica vocazione letteraria. L’idea di una materia in perenne movimento di costruzione e di distruzione, costituita da una quantità limitata di elementi, espressa con chiarezza già in un pensiero zibaldonico del 9 febbraio 1821 (Zib, 630-631), oltre a richiamare le teorie di Epicuro, soprattutto tramite il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro, àncora il materialismo leopardiano alla nuova configurazione della chimica elementare. Non dimentichiamo che il rapporto di Leopardi con l’epicureismo si misura, come è stato notato, con la distanza che separa la felicità antica dall’infelicità moderna. Gli amici chimici. Aggiungo che alla riflessione teorica si unisce in Leopardi il rapporto diretto con figure rilevanti della nuova chimica italiana. Egli strinse legami con tre amici chimici: il primo, Paoli, amico di famiglia, il secondo e il terzo, Francesco Orioli e Gaetano Cioni, frequentati a Firenze, nella cerchia di Giovan Pietro Vieusseux. Il conte Paoli, fisico e medico, conterraneo di Leopardi e amico dei Leopardi (fu in relazione anche con il cugino di Leopardi

La chimica e il materialismo

43

Terenzio Mamiani della Rovere), ebbe legami stretti e amichevoli con Giacomo, che a partire dal 1827 favorì i contatti dell’amico con l’ambiente accademico pisano e con il circolo fiorentino del “Gabinetto Scientifico-Letterario” di Vieusseux, nel giornale del quale (l’«Antologia») Paoli pubblicherà varie note. Prima della conoscenza diretta di Paoli Leopardi lesse – si è ricordato – la sua opera più nota, le Ricerche sul moto molecolare dei solidi, che fornivano una sintesi fisico-chimica delle scienze naturali a partire dalla centralità del movimento, proprio non soltanto degli esseri viventi, ma analogicamente rintracciabile anche nelle trasmutazioni chimiche dei minerali. Il fine dell’opera di Paoli è quello di connettere intrinsecamente, nel quadro di un dinamismo universale, l’attrazione planetaria con l’affinità chimica, estesa ai fenomeni organici. Accanto a Paoli va collocato per ‘affinità elettiva’ il ‘bolognese’ Orioli. Ricordato con stima nel libro di Paoli, Orioli ottiene presto la cattedra di Fisica generale e particolare nella Facoltà di filosofia di Bologna (1815). La conoscenza reciproca con Leopardi ha una prima radice nella comune cultura umanistica, spesso presente – va rimarcato – nei profili intellettuali degli scienziati italiani di fine Settecento: entrambi pubblicano due note in latino, relative all’edizione di Angelo Mai del De Republica di Cicerone, nelle pagine immediatamente successive della stessa rivista, le «Effemeridi letterarie di Roma» (1822). Grazie a Giacomo Tommasini, amico intimo di Leopardi, Orioli viene presentato a Vieusseux, collabora con l’«Antologia» e diviene socio corrispondente dell’Accademia dei Georgofili. Il chimico più vicino a Giacomo, affezionato compagno del periodo più bello della vita del poeta, quello pisano, fu Cioni. «Il Dottor Cioni» è inserito nel mondo sociale e accademico: ha frequentato il collegio Medico-Fisico dell’Università di Pisa e ha collaborato all’Accademia pistoiese di Scienze e Lettere. Dopo aver incontrato Leopardi al “Gabinetto” di Vieusseux, del quale fu fino alla morte amico e consigliere (collaborando attivamente all’«Antologia»), lo condusse con sé a Pisa nel novembre 1827 e visse in contatto quasi quotidiano con il poeta durante il suo periodo pisano (9 novembre 1827 - 7 giugno 1828), passeggiando e discutendo con lui e introducendolo nell’ambiente universitario e culturale. Sicuramente Leopardi apprezzava la cultura chimica di Cioni – uno fra i primi

44 Io sono quella che tu fuggi

divulgatori nel Granducato di Toscana delle teorie chimiche di Torbern O. Bergman e di Lavoisier – e la sua capacità di unire agli studi scientifici forti interessi letterari, confluiti nella pubblicazione di un manoscritto apocrifo attribuito a un presunto Giraldo Girardi. La fama letteraria di Cioni fece sì che Alessandro Manzoni richiedesse la sua consulenza per la «risciacquatura in Arno» dei Promessi Sposi (con correzioni che furono per la maggior parte accolte). Il principale scritto chimico di Cioni, composto insieme a Ferdinando Giorgi, riguarda la decomposizione dell’acqua (si tratta del Prospectus eorum commentarii circa aquae analysim a dd. Meusnier & Lavoisier, Parisiis, anno 1784 factam, 1785). Al chimico fiorentino si deve anche la traduzione della prima edizione italiana (Trattato elementare ovvero principj di fisica, 7 voll., 1791) del Traité élémentaire, ou principes de physique (3 voll., 1789) di Mathurin-Jacques Brisson, presente nella Biblioteca Leopardi. Nell’Avvertimento del traduttore, apposto al tomo quinto della prima edizione veneta, si legge una chiara presa di posizione a favore della nuova chimica e della nomenclatura della côterie, che si appoggia espressamente all’operato di Dandolo. Nel caso di Cioni, più ancora che in quello di Orioli e di Paoli, il contatto diretto, non attestato da riferimenti pubblici, rimane racchiuso in un’intimità che non può essere squarciata. In definitiva, per letture, riflessioni e contatti personali sarebbe parziale e discutibile ridurre il sapere chimico di Leopardi a una vicenda episodica e la sua ricostruzione a un esercizio retorico. Concetti come quelli di ‘ragione analitica’, ‘sostanza semplice’, ‘trasformazione’, diffusi negli scritti leopardiani, e la visione de «li continui rivolgimenti della materia» (Frammento aprocrifo di Stratone di Lampsaco) sono aspetti tanto centrali nella filosofia leopardiana della natura, quanto tipici della nuova ‘filosofia chimica’.

IV La riflessione sul vivente: animali, biologia e materialismo

«Entro dipinta gabbia»: studi naturalistici, esercizi letterari e passione per gli animali. La nostra sensibilità nei riguardi del mondo animale ci fa apprezzare l’attenzione, anche appassionata, mostrata da Leopardi, fin da giovanissimo, per gli animali che gli si mostravano nel «natio borgo selvaggio» di Recanati. Attenzione che viene a definirsi nelle forme teoriche di un vero e proprio pensiero dell’animalità, fortemente connesso alla più generale visione materialistica. «Entro dipinta gabbia | fra l’ozio ed il diletto, | educavasi un tenero | amabile augelletto» (vv. 1-4) recita la favola in versi L’ ucello, uno tra i primi esercizi poetici del dodicenne Giacomo, che inneggia alla libertà ritrovata di un uccello chiuso in «dipinta gabbia»: «Ma quando a lui s’offersero | gli arbori verdeggianti, (…) | de l’abbondanza immemore, | e de l’usato albergo, | l’ali scuotendo volsegli | lieto, e giocondo il tergo» (vv. 13-14 e 17-20). Nella figura dell’uccello che si libera dalla cattività per volare all’aperto non è difficile individuare una metafora della condizione del giovane conte, ‘prigioniero’ nella «dipinta gabbia» del palazzo paterno. Si tratta di una delle prime testimonianze dell’interesse per il mondo animale che accompagnerà Leopardi costantemente, dai primi scritti giovanili ai Paralipomeni della Batracomiomachia, ultima fatica del poeta malato. Negli scritti della prima adolescenza prevale una rappresentazione del mondo animale e vegetale di maniera, che assume spesso il carattere di un’esercitazione applicativa dei modelli della tradizione poetica e letteraria greco-latina e italiana: si pensi ad altre favole in versi come Il pastore, e la serpe o L’ asino, e la pecora (entrambe del 1809), orientate da una morale tradizionalistica. Sono tuttavia rilevabili le sfumature di una partecipazione ‘sentimentale’ al mondo

46 Io sono quella che tu fuggi

animale: è il caso, ad esempio, della favola in versi del 1810 A favore del gatto, e del cane, che difende gatti e cani dalla diffusa aggressione degli uomini, rievocando la vicenda storica della vittoria del re persiano Ciro contro gli Egiziani, favorita dal loro impiego («Se Ciro non avea e Gatti, e Cani | come poteva vincer gli Egiziani?», vv. 13-14), e della parallela e coeva rievocazione dell’episodio delle oche del Campidoglio negli sciolti La Libertà latina difesa sulle mura del Campidoglio («in rauco suono al ciel grida echeggianti | innalzan l’oche, ed atterrite fanno | battendo l’ali risuonar le strida», vv. 65-67); o anche della poesia L’ ucello ricordata in apertura, che capovolge lo schema tradizionale dell’uccello che perde, con la gabbia protetta dalla quale si è allontanato, anche la vita; o infine della favola in versi I filosofi, e il cane (1810), prima attestazione dell’interesse per un dibattito molto vivo nella cultura moderna – quello intorno all’anima delle ‘bestie’ –, nella quale la presentazione delle differenti concezioni sull’«alma de’ bruti» viene interrotta dall’ingresso di un cane parlante verso il quale «per discacciarlo | ognun contro gli và» (vv. 31-32), ma che a sua volta invita «la dotta turma» a guardare al carattere spesso ‘bestiale’ dei comportamenti umani («A voi Signori miei gli occhi volgete, | osservate voi stessi indi di noi, | se non vi spiace, ragionar potrete», vv. 37-39). Nell’ambito della produzione giovanile un posto a sé va assegnato al poemetto composto di tre Canti in sestine Il Balaamo (1810), che ripropone la vicenda biblica dell’asina di Balaam. È noto che il giovane Giacomo avesse ampia dimestichezza con la Bibbia, libro dell’immaginazione per eccellenza, insieme ai poemi omerici, ma la scelta dell’episodio biblico narrato nel capitolo 22 dei Numeri, uno dei pochi che presenti una decisa attenzione al mondo animale a prescindere dalla centralità umana, è indicativa di una chiara propensione animalista. L’ episodio è collocato nella storia israelitica successiva alla peregrinazione nel deserto e alla morte di Mosè. Gli Israeliti soggiornano nella piana di Moab, a est del fiume Giordano; ciò inquieta Balak, il re dei Moabiti, che invia messi al mago Balaam per indurlo ad aiutarlo a sconfiggere Israele. Balaam, dopo un secondo pressante invito e dopo un sogno interpretato favorevolmente, si avvia sopra la soma di un’asina da Balak. L’asina si ferma per tre volte lungo il cammino, perché vedrà l’angelo di Dio con la spada sguainata che vuole

La riflessione sul vivente

47

fermare Balaam, ma questi non lo vede e bastona violentemente l’asina, fino a quando essa non riceve miracolosamente il potere di parlare e si lamenta del trattamento ricevuto. A questo punto Balaam apre gli occhi, impara la lezione e abbandona l’iniziativa contro gli Israeliti. L’intera vicenda mette in rilievo come un animale possa seguire il volere di Dio più e meglio di un profeta. Leopardi vi si sofferma con una certa forza immaginativa, rimarcando con partecipazione la sofferenza del «Vile giumento» (l’asina viene trasformata in asino). Egli descrive con notevole rilievo le tre miracolose ‘deviazioni’ dell’asino, unendole alle tre serie di percosse di Balaam. Nonostante i richiami a stilemi classici e moderni, questo componimento esprime una inequivoca partecipazione alla sofferenza del mondo animale, rintracciata in un’opera che spesso descrive invece il potere degli uomini sugli animali come elemento della predilezione divina. Tra le altre prove letterarie giovanili a sfondo animalistico si ritrovano esercitazioni latine e traduzioni di epigrammi, come il Dialogo tra il passeggero e la tortora del 1812 (dal francese), e soprattutto le traduzioni, tutte edite, della Batracomiomachia dello pseudo-Omero, alle quali Leopardi si dedica a tre riprese, nel 1815, nel 1821-22 e nel 1826, a testimonianza di un interesse di lunga durata e non soltanto linguistico per un’opera «che può veramente dirsi un’opera interessante» e «bellissima», come asserisce il poeta stesso nel Discorso sopra la Batracomiomachia (1815), con un esplicito richiamo, tra gli altri, a quel felice esempio di letteratura animalistica primo-ottocentesca che fu Gli animali parlanti di Giambattista Casti, una tra le fonti di riferimento dei Paralipomeni della Batracomiomachia. Se si fa eccezione per il caso – pur rilevante – del Balaamo, nella produzione poetica giovanile l’attenzione naturalistica di Leopardi assume soprattutto l’aspetto di un esercizio sulle procedure metaforiche e sulla tradizione letteraria, senza che emerga un’attenzione problematica alla specificità del mondo animale. Ben diverso appare il rilievo teorico dell’animalismo nel contesto della trattatistica erudita scientifico-filosofica: se il Compendio di storia naturale (1812) appare piuttosto come una raccolta di informazioni erudite sugli animali, la Dissertazione sopra l’anima delle bestie (1811), con il suo dettagliato esame delle diverse voci del dibattito sull’anima dei ‘bruti’, avvia una prima riflessione sul rapporto tra dimensione umana, animale e natu-

48 Io sono quella che tu fuggi

rale. Dopo aver presentato le diverse e opposte posizioni il giovane Leopardi recepisce qui il «sistema di mezzo», riferito con le parole di Vincenzo Moniglia e sostenuto anche da Jean-Jacques Rousseau, che «le [all’anima dei Bruti] attribuisce qualche specie di essere spirituale, qualche participazione di ragione, di raziocinio, e di esterna manifestazione dei sentimenti interni con voci, o altri segni» e conclude che «la sentenza, la quale afferma esser l’anima dei Bruti uno spirito dotato di senso, di libertà, e di un qualche lieve barlume di ragione è certamente più probabile di ogni altra». Non mancano tuttavia segni di un più tradizionale distacco dall’alterità del mondo delle ‘bestie’, nutrito di una vivida fantasia terrifica, come nel caso dei passi conclusivi del Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato «Analisi delle idee ad uso della gioventù» (1812), dove però bisogna tener presente che il locutore è un letterato che si rivolge a un giovane, e ciò può quindi celare anche una strategia di dissimulazione: «E dove ci troveremmo mai se le bestie fossero dotate di ragione? La terra tutta diverrebbe un Teatro di devastazione e di orrore. Non pochi sono i bruti per natura feroci, e di sangue avidi, e di stragi. Ora qual danno potrebbero essi apportare all’uman genere se dotati fossero di ragione!». Favole e dialoghi naturalistici. Notevole appare anche lo spazio attribuito alle ‘favole’ naturalistiche nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), i cui ultimi tre capitoli vengono dedicati agli ‘errori’ relativi all’esistenza di vari esseri mostruosi, come i centauri, i ciclopi, gli arimaspi e i cinocefali (Capo decimosesto), al mito della fenice (Capo decimosettimo) e agli attributi della lince, «alla quale gli antichi aveano attribuita la proprietà di vedere attraverso le muraglie e i ripari più spessi» (Capo decimottavo). Leopardi introduce tale rassegna erudita di teriomorfismi con un’osservazione sulla loro funzione mitopoietica: «Conveniva associare alla natura umana quella dei bruti, unir questa e quella in un solo essere vivente, e immaginare alcuni mostri, il corpo dei quali somigliasse perfettamente allo spirito della maggior parte degli uomini». Ricordo ancora, in questo contesto naturalistico ed erudito, un progetto di «Poema di forma didascalica sulle selve e le foreste»,

La riflessione sul vivente

49

ideato nel 1819-20, che si propone fra l’altro di descrivere «le cose contenute dalle foreste, i serpenti, le fiere, le cacce quindi e l’altre cose appartenenti alle fiere; le foreste d’America non mai penetrate da uomo», facendo «uso di quello che ho detto ne’ miei Pensieri intorno alla vita degli animali e delle cose, indipendente da quelli che noi chiamiamo avvenimenti, e che non lo sono se non per la nostra schiatta, e non già pel mondo, che non se n’avvede». Questo progetto è notevole almeno per due motivi: l’unione di un’inconsueta attenzione naturalistica per il mondo animale e vegetale con la riflessione sull’uomo primitivo, che si stava configurando – sulle orme di Rousseau – come un cardine del pensiero leopardiano; e il primo netto cenno a uno scenario terrestre in cui l’umanità torna a mancare (ripreso con una mossa letteraria particolarmente felice nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, 2-6 marzo 1824), a sostegno di una visione anti-antropocentrica del mondo naturale. In tale direzione – nel passaggio dal progetto del 1819-20 al Dialogo del 1824 – si collocano le «prosette satiriche» Dialogo tra due bestie p. e. un cavallo e un toro e Dialogo di un cavallo e un bue (entrambe del 182021) che prospettano uno scenario nettamente anti-antropomorfico, rappresentando i dialoghi appunto tra due ‘bestie’ che commentano l’estinzione della razza umana connettendola all’abbandono dello stato di natura e deridendone ogni propensione finalistica. Colpisce infine, tra gli scritti appena abbozzati, la partecipazione commossa – descritta nei Ricordi di infanzia e d’adolescenza (1819), appunti per un progetto di romanzo autobiografico – alla vicenda dell’uccisione di una lucciola, osservata dalla finestra del proprio palazzo: (…) comparisce la prima lucciola ch’io vedessi in quell’anno ec. uno dei due [giovanotti] s’alza gli va addosso ec. io domandava fra me misericordia alla poverella l’esortava ad alzarsi ec. ma la colpì e gittò a terra (…) intanto la lucciola era risorta ec. avrei voluto ec. ma quegli se n’accorse tornò – porca buzzarona – un’altra botta la fa cadere già debole com’era ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere ec. e poi ec. finché la cancella.

L’amore per la natura vivente e per le innovazioni biologiche e mediche non è però per il giovane Giacomo soltanto un esercizio letterario: dal padre Giacomo aveva imparato, sulla propria pelle, ad aver fiducia nelle scoperte della medicina, visto che Monaldo

50 Io sono quella che tu fuggi

aveva inoculato personalmente – primo nello Stato Pontificio – a lui, a Carlo e a Paolina il vaccino antivaioloso, scoperto nel 1796 da Edward Jenner. Un’altra testimonianza, purtroppo inedita, di tale passione naturalistica è il Compendio di Storia naturale composto per la maggior parte nell’anno 1812, che descrive i tre regni naturali compendiando lo Spéctacle de la nature di Noël-Antoine Pluche. Di esso conosciamo l’indice: Degli Insetti, Delle Conchiglie, Degli Uccelli, Degli animali terrestri in particolare, De’ pesci, Delle Piante, De’ Fiumi, Delle Montagne, Del mare in generale, De’ Fossili o di quei Minerali che non appartengono né alle pietre né ai metalli, Delle Cave, ossia delle pietre preziose, e ordinarie, Delle Miniere ossia de’ Metalli. Un pensiero dell’animalità. Si fanno ormai rilevanti e significative, a questa data, le osservazioni relativistiche e disincantate depositate nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818) e in alcuni pensieri dello Zibaldone, che configurano una riflessione originale sull’animalità, come nel caso del pensiero di pagina 55, espressamente richiamato nel progetto sopra ricordato: «Vita tranquilla delle bestie nelle foreste, paesi deserti e sconosciuti ec. dove il corso della loro vita non si compie meno interamente colle sue vicende, operazioni, morte, successione di generazioni ec. perché nessun uomo ne sia spettatore o disturbatore né sanno nulla de’ casi del mondo perché quello che noi crediamo del mondo è solamente degli uomini». Nel Discorso di un Italiano non soltanto si accenna alla rilevanza della dimensione animale nell’elaborazione dell’immaginario artistico e poetico – «Molto più ci consola e ricrea [in una raffigurazione naturale], se ci occorre nessuna figura di bestia, che rompa la solitudine, e animi la veduta»; «sono tanto più dilettose e pregiate le pitture e sculture di animali, e singolarmente di persone, che non di soli paesi o di qualsivoglia cosa inanimata» – ma si ricorda la fantasia animalista «ne’ fanciulli, che si fingono le bestie ragionevoli e intellettive, e discorrono e conversano seco loro non altrimenti che colle persone», e si osserva la potenza poetica del teriomorfismo che trasforma gli oggetti inanimati in animali e ricerca la stranezza di figure viventi orrifiche: «tanta è la forza del verisimile, che noi siamo più propensi a creder vivo qualunque

La riflessione sul vivente

51

oggetto inanimato s’accosta alla figura ordinaria degli animali, che non qualunque animale se ne scosta notabilmente, salvo se questo non è volgare in modo che la stranezza della forma non faccia caso per cagione della consuetudine». Particolarmente rilevante appare anche la notazione anti-antropocentrica svolta a partire dal passo dei Silloi di Senofane (già richiamato in [Zib, 19/1818] e ripreso poi in [Zib, 1469/8 agosto 1821]), che sosteneva che «se i buoi se gli elefanti avessero mani, e con queste potessero dipingere, e fare quelle cose che fanno gli uomini, allora i cavalli dipingendo gli Dei gli avrebbero fatti di figura cavallina, e i buoi di figura bovina, e dato loro un corpo simile al proprio». Ma l’insieme delle riflessioni sull’animalità è riversato soprattutto nei pensieri dello Zibaldone, che si aprono con la visione di un «Cane di notte dal casolare, al passar del viandante» (Zib, 1/«luglio o agosto 1817»). Il sapere biologico e naturalistico diffuso nello Zibaldone è mediato in gran parte dall’Histoire naturelle di George Louis Leclerc, conte di Buffon, e in forma minore dalle opere di Carl von Linné, oltre che da conoscenze aristoteliche e da informazioni raccolte dalla stampa del tempo. Per quanto concerne Linneo va menzionata la presenza nella Biblioteca Leopardi di due sue opere sistematiche di botanica, Systema Plantarum Europae (1785) e Fundamentorum Botanicorum Systematis plantarum Europae. Pars Philosophica (1786-87), ma il sistema linneano è diffuso anche nei manuali e negli strumenti di consultazione presenti nella Biblioteca Leopardi. L’Histoire naturelle di Buffon è più congeniale a Leopardi per la concezione della variazione della natura, ma, se si tralascia l’impianto classificatorio, anche la concezione linneana di una natura deterministicamente ordinata in un equilibrio di costruzione e di distruzione trova ampia eco in Leopardi. Il richiamo alla biologia risulta in gran parte funzionale alle concezioni leopardiane sulla conoscenza e sul rapporto anima-corpo. Buffon viene chiamato esplicitamente in causa a sostegno di argomenti sul carattere insensibile dell’uscita dell’anima dal corpo: Il Buffon Hist. nat. de l’homme, combatte coloro i quali credono che la separazione dell’anima dal corpo debba essere dolorosissima per se stessa. A’ suoi argomenti aggiungi questo, che forse è il più concludente. Se volessimo considerar l’anima come materiale, già non si tratterebbe più

52 Io sono quella che tu fuggi di separazione, e la morte non sarebbe altro che un’estinzione della forza vitale, in qualunque cosa consista, certo facilissima a spegnersi. (Zib, 281282/17 ottobre 1820)

Già nella Dissertazione sopra le doti dell’anima umana Leopardi aveva passato in rassegna le tesi classiche sulla relazione tra anima e corpo, da Cartesio a Leibniz, aderendo alla teoria dell’influsso fisico della prima sul secondo. A un livello più generale, Leopardi conferma, grazie alla biologia, le proprie concezioni materialistiche anche in relazione alla mente umana, del tutto materiale per struttura e per facoltà (Zib, 16571658/9 settembre 1821). Si fa strada l’equazione tra conformazione psicofisica e pratica dell’assuefazione: la conformazione umana, in tutti i suoi aspetti, è frutto acquisito dell’assuefazione generale (Zib, 1682-1683/12 settembre 1821). Il tema della conformabilità di corpo e mente è sostegno importante alla concezione materialistica leopardiana: i «fisici» notano che il corpo umano è più conformabile nel fisico rispetto a quello degli altri animali (Zib, 2599/6 agosto 1822), che la specie umana è la più conformabile, quindi la meno perfetta (Zib, 2899/6 luglio 1823). Le notazioni sulla conformabilità fisica degli uomini risuonano – nello stesso pensiero – sul piano della concezione della felicità: la suprema conformabilità rende l’uomo «il più infelicitabile» tra gli esseri viventi. Si potrebbe rintracciare nella proporzionalità stabilita tra estrema conformabilità e infelicità umana un capovolgimento del modello umanistico dell’equazione tra ‘grandezza’ dell’uomo e sua ‘legittima’ aspirazione al dominio sulla natura. La conformabilità costituisce criterio di distinzione tra uomini e animali: se anche gli animali posseggono il principio di conoscenza innato in tutti i viventi (Zib, 370/2 dicembre 1820), tuttavia mentre gli altri esseri viventi conseguono immediatamente la loro perfezione, gli uomini necessitano di una lunga storia, di molti secoli e di molti errori (Zib, 833-834/21 marzo 1821). Se ci si sofferma sui pensieri dedicati agli animali in essi lo sguardo partecipe al mondo animale testimonia un anti-umanesimo critico, che dissolve le tassonomie della ‘storia naturale’ in una riflessione accorata sull’infelicità universale dei viventi. Molto acuta appare – sia detto per inciso – la riflessione di principio sull’incongruità della stessa definizione della ‘storia naturale’:

La riflessione sul vivente

53

in essa appaiono mescolate in maniera equivoca la nozione di storia, afferente alla dimensione delle azioni umane, e quella di scienza naturale, che possiede un proprio rigore analitico (Zib, 4215-4216/13 ottobre 1826). Si tratta di una riflessione metodologica sullo statuto scientifico della ‘storia naturale’, che «(…) è una vera scienza, perocch’ella definisce, distingue in classi, ha principii e risultati»; certo – aggiunge Leopardi – è da annoverarsi tra le «scienze non astratte», come la chimica, la fisica, l’astronomia, che sono legate all’osservazione, ma non dovrà intendersi come una ‘storia’, una narrazione di eventi nel senso moderno del termine. La diffusione del concetto di ‘evoluzione’ avrebbe mandato in soffitta ogni disquisizione sulla designazione di origine aristotelica della scienza naturale, inserendovi come parte integrante la dimensione del mutamento. Leopardi non partecipa a tale trasformazione ‘epocale’ dell’immagine delle scienze biologiche, ma ne osserva i presupposti, come nel caso in cui rileva – sulla base di ricerche di Johannes Hauch (come la dissertazione Degli organi imperfetti che si osservano in alcuni animali, della loro destinazione nella natura, e della loro utilità riguardo la storia naturale, 1827) – che nella storia naturale sono stati studiati organi imperfetti come gradi intermedi di raccordo tra diversi animali (Zib, 4468-4469/26 febbraio 1829). L’attenzione per la ‘storia naturale’ affonda peraltro le sue radici nella formazione giovanile, quando ebbe a produrre il 20 luglio 1812, con il fratello Carlo, un Saggio di chimica e storia naturale che, insieme a cognizioni elementari sul «Regno vegetabile» e sul «Regno animale», comprendeva ampi capitoli di zoologia e di ‘fitologia’ e proponeva la «Definizione, e divisione della Storia Naturale». Tornando al versante animalistico, fornirò tre esempi che caratterizzano motivi di pensiero significativi: la «differenza di vita» tra uomo e animali, le cure parentali e il rapporto inverso tra durata della vita e intensità dell’esistenza. Nel pensiero di pagina 56 (presumibilmente del 1819) Leopardi ragionando sulla «scontentezza dell’esistenza» propria dell’uomo sostiene che «nell’ordine naturale l’uomo possa anche in questo mondo esser felice, vivendo naturalmente, e come le bestie, cioè senza grandi né singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno, uguale e temperata», «insomma come sono felici

54 Io sono quella che tu fuggi

le bestie quando non hanno sventure accidentali ec.», ma aggiunge che tale stato risulta ormai impossibile perché gli uomini sono corrotti nella loro natura – e richiama al proposito la frase di Rousseau «tout homme qui pense est un être corrompu» –, in quanto si sono guastati nella società, ovvero a causa di una costruzione prodotta accidentalmente nello sviluppo dell’umanità e «che le bestie non hanno» (asserzione questa successivamente abbandonata: in [Zib, 210/14 agosto 1820] Leopardi dirà che «la società non è già propria del solo uomo»), e conclude che «si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l’uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec.». La differenza tra uomini e animali non è dunque sostanziale, ma accidentale (talché l’istinto rimane grande «nelle bestie e nei fanciulli»): essa è derivata da un certo modo di sviluppo delle vicende della specie umana che non era iscritto nella sua natura, anche se era virtualmente presente nella «diversa conformazione del corpo umano» (oggi parleremmo di un processo evolutivo sviluppatosi tra vincoli e possibilità). In un pensiero del 29-30 settembre 1823, relativo al carattere «naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa» della debolezza, Leopardi svolge un parallelismo tra l’amore e l’attenzione che gli uomini – anche i selvaggi – rivolgono verso i fanciulli e verso «certi animaletti o animali (come la pecora, i cagnuolini, gli agnelli, gli uccellini ec. ec.) in cui l’aspetto della lor debolezza rispettivamente a noi, in luogo d’invitarci ad opprimerli, ci porta a risparmiarli, a curarli, ad amarli, perché ci riesce piacevole ec.» (Zib, 3553-3557). Questa osservazione richiama il valore co-evolutivo dell’addomesticazione e delle cure parentali rivolte dagli uomini agli animali, motivato, oltre che dall’«amor della vita», dall’apertura verso la debolezza dell’‘altro’, sia esso un piccolo d’uomo, sia esso un animale; la cura dei piccoli è caratteristica peculiare della nostra, ma anche di altre specie, come Leopardi stesso rimarca. Un altro criterio biologico che permette di misurare le distanze tra l’uomo e gli altri animali è legato alle potenzialità di vita degli esseri viventi. Leopardi ritrova un rapporto inversamente proporzionale tra esistenza e vita: «la natura non è vita, ma esistenza» e tende alla materia (Zib, 3936/28 novembre 1823). La durata della vita si esprime in ragione inversa rispetto alla sua intensità (Zib, 4063-4064/8 aprile

La riflessione sul vivente

55

1824). Questo pensiero riprende a sua volta un più lungo pensiero del 24 settembre 1823, nel quale si afferma: ora generalmente parlando, si scuopre nella natura quest’ordine che la durata della vita (sì negli animali sì nelle piante) sia in ragione inversa della sua intensità ed attività. La testuggine, l’elefante e altri animali tardissimi hanno lunghissima vita. I più veloci ed attivi, ancorché più forti degli altri (come per es. il cavallo rispetto all’uomo) hanno vita più corta. Ed è ben naturale, perché quell’attività e intensità di vita importa maggiore rapidità di sviluppo della medesima, e quindi di decadenza. (Zib, 3510-3514)

In forma ancora più netta Leopardi si era espresso due mesi dopo (27 novembre 1823), richiamando il pensiero del 24 settembre: «L’ esistenza può esser maggiore senza che lo sia la vita. L’ esistenza del leone può dirsi maggiore di quella dell’uomo. La vita al contrario. L’ esistenza insieme e la vita del leone è maggiore rispetto all’ostrica, alla testuggine, alla lumaca, al giumento, al polipo. La vita del leone è maggiore che non è quella delle piante anche più grandi, de’ globi celesti ec. L’ esistenza al contrario» (Zib, 3927). Tale criterio comporta due rilevanti conseguenze. L’impossibilità di quantificare la durata della vita (una medesima quantità di tempo si distende con una diversa durata, come avviene nella vita animale con la distinzione tra ‘brachibiotati’ e ‘macrobiotati’), che non può essere misurata «colla certezza che dà l’aritmetica». La presenza nell’uomo del massimo livello di vita e, con esso, del massimo grado di infelicità. Ne consegue – per Leopardi – che è da preferirsi la vita meno infelice (dato comunque un ineliminabile tasso di infelicità), ovvero «la più viva». Tale ragionamento, che sottolinea il rapporto inversamente proporzionale tra completezza e vitalità degli organismi viventi e tendenza entropica dell’ambiente fisico, conduce il Metafisico – nel Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (14-19 maggio 1824) – ad auspicare una vita brevissima, ma intensa, paradossalmente quella degli insetti effimeri: «io vorrei che la [la vita] potessimo accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse alla misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei quali si dice che i più vecchi non passano l’età di un giorno, e contuttociò muoiono bisavoli e trisavoli». Un corollario di tale criterio è costituito dall’affermazione sulla maggiore debolezza di animali e piante allevati, la cui forza di esistenza è stata sminuita (Zib, 1602/31 agosto - 1° settembre 1821).

56 Io sono quella che tu fuggi

Sono questi soltanto alcuni frammenti della riflessione sugli animali presente nello Zibaldone, ben altrimenti sviluppata, con riflessioni ad esempio sulle somiglianze e differenze tra gli effetti della musica sugli uomini e sugli animali (il suono degli strumenti musicali farà effetto anche sulle ‘bestie’, «come leggiamo dei delfini e dei serpenti», ma non l’armonia della musica, che non è assoluta [Zib 156/6 luglio 1820]); sulla maggiore felicità degli animali, che non conoscono la noia, rispetto agli uomini (Zib, 173-175/12-23 luglio 1820); sulla «facoltà che ha l’immaginazione nostra di concepire un certo infinito» – espressa nella stessa fondamentale pagina sulla teoria del piacere –, che collega il piacere con l’inclinazione istintiva all’infinito, «conseguenza immediata e necessaria dell’amor proprio» in tutti gli animali, talché – conclude Leopardi – «congetturo e mi par ben verisimile che [l’inclinazione istintiva all’infinito] esista anche nelle bestie in un certo grado, e relativamente a certe idee, come son quelle dei fanciulli ec.» (tale riflessione viene richiamata poeticamente nell’epistola Al conte Carlo Pepoli: «Così de’ bruti | la progenie infinita, a cui pur solo, | né men vano che a noi, vive nel petto | desio d’esser beati», vv. 37-40); sulla crudezza delle leggi di natura, che conducono alcuni animali anche alla violenza intra-specifica, di modo che «alle volte anche si cibano dei propri simili, ed anche (sento dire) dei propri figli» (Zib, 249-250/19 settembre 1820); sulla «assuefabilità» di alcuni animali – «orsi, scimmie, gatti, cani, topi, e fino alle pulci» – «a cose non naturali», simile a quella umana (Zib, 1630/5 settembre 1821). E non si può non ricordare anche il noto passo del giardino-ospedale del 19-22 aprile 1826, che getta uno sguardo sconsolato sulla dolente indicazione della souffrance che unisce ogni vivente (Zib, 4175-4177) e fa sì che «ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio)». Infine va richiamato l’abbozzo di Lettera a un giovane del 20° secolo del 13 aprile 1827, nel quale si propongono «congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse» (Zib, 4279-4280). Nell’ampio spettro di riflessioni sull’animalità presenti nello Zibaldone la progressiva apertura alla specificità del mondo animale

La riflessione sul vivente

57

va di pari passo con il riconoscimento della sua ricchezza e varietà, ma anche della silenziosa e indicibile sofferenza degli animali, testimonianza diretta della terribile forza distruttrice della natura, e dell’irriducibile distanza tra civiltà e natura. L’ esito ultimo di tali annotazioni biologiche conduce alla famosa asserzione nichilistica, vero e proprio approdo negativo dell’intero Zibaldone: «E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere» (Zib, 4100/2 giugno 1824). L’ Elogio degli uccelli. Una gradita eccezione alle osservazioni negative sulla condizione animale è rappresentata dalla predilezione per il mondo degli uccelli, un mondo gioioso che occupa uno spazio particolare nella poesia e nel pensiero di Leopardi fino – si è visto – dai primi componimenti giovanili. E nella più matura opera poetica e letteraria – dal Passero solitario (1829?, ma è concorde il richiamo a una prima idea del 1819) all’Elogio degli uccelli (28 ottobre - 5 novembre 1824) – la sua attenzione per la vita e i comportamenti degli uccelli non è soltanto un topos letterario. Nell’Elogio degli uccelli Leopardi vede in essi la raffigurazione di uno stato intermedio tra la condizione bestiale e selvaggia, propria degli animali terrestri e degli uomini primitivi, e la condizione razionale espressamente umana. Non a caso il canto degli uccelli, «naturalmente le più liete creature del mondo», è confrontato con il riso («gli uccelli partecipano del privilegio che ha l’uomo di ridere») e i loro comportamenti aerei e giocosi sono comparati espressamente alla fanciullezza: la loro «grandissima forza e vivacità» e il loro «grandissimo uso d’immaginativa» è simile a quell’immaginativa «ricca, varia, leggera, insta­bile e fanciullesca» che è «larghissima fonte di pensieri ameni e lieti, di errori dolci, di vari diletti e conforti; e il maggiore e più fruttuoso dono di cui la natura sia cortese ad anime vive». Gli uccelli, come i fanciulli, testimoniano di uno stato di felicità legato all’immaginazione e alla varietà, del quale non partecipa l’animale costretto a soggiacere alle necessità dell’esistenza, né il ‘triste’ selvaggio, alle prese – come l’animale – con la durezza della propria condizione di sopravvivenza; proprio per questo «la natura degli uccelli, se noi la consideriamo in certi modi, avanza di perfe-

58 Io sono quella che tu fuggi

zione quelle degli altri animali». Negli uccelli e nei fanciulli, figure emblematiche della levità naturale, Leopardi vede esseri viventi la cui natura si distacca dalla dimensione della necessità e della sofferenza, innalzandosi verso un orizzonte superiore, aereo e leggero, poco condizionato dal peso della materialità, ed esprime nella chiusa dell’Operetta il proprio struggente desiderio di immedesimazione: «io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita». In questo suo desiderio di trasformarsi in uccello AmelioLeopardi ripensa alla metafora della «dipinta gabbia», dalla quale brama di uscire con un volo libero e aereo per ammirare la varietà della natura; ma si tratta di un desiderio irrealizzabile, non soltanto per l’impossibilità materiale di avere le ali, quanto soprattutto perché non è possibile tornare allo stadio naturale dell’immaginario giovanile, che invece gli uccelli incarnano con una fissità non umana. È lo stesso desiderio irrealizzabile che animerà più tardi (22 ottobre 1829 - 9 aprile 1830) il pastore errante del Canto omonimo («s’avessi io l’ale | da volar su le nubi», vv. 133-134); ma il pastore si renderà conto che la sua aspirazione è un’illusione che si infrange contro la cruda necessità della natura, ostile a ogni desiderio degli esseri viventi («forse in qual forma, in quale | stato che sia, dentro covile o cuna, | è funesto a chi nasce il dì natale», vv. 141-143). Tuttavia gli uccelli non sono appesantiti dalla specificità predefinita degli altri esseri viventi e in qualche modo esprimono favolisticamente i caratteri generici della natura, aerei e sotterranei, le sue dimensioni extraspecifiche più volatili e più nascoste. E ciò vale anche per il passero solitario, uccello particolare per la sua tendenza a isolarsi, ma la cui condizione di solitudine risulta del tutto naturale («cantando vai finché non more il giorno», v. 3). Dietro l’immaginario volatile leopardiano vi sono anche specifiche letture ornitologiche, come quella del Discours sur la nature des oiseaux presente nel Tome v dell’Histoire naturelle di Buffon, interessi naturalistici coltivati fin dall’infanzia (a partire dalla redazione del Compendio di storia naturale) e che apparvero agli amici del poeta bastevoli per motivare nel gennaio del 1829 la richiesta di attribuzione della cattedra di Storia naturale a Parma (offerta poi accantonata per il subentrare della risolutiva proposta di sussidio

La riflessione sul vivente

59

di Pietro Colletta)1, frequentazioni con ornitologi di fama, quale fu Carlo Luciano Bonaparte, conosciuto a Firenze tra il 1827 e il 1828, e sicuramente una propensione all’osservazione diretta e attenta. Si tratta di un contesto conoscitivo che traspare nelle puntuali annotazioni sui costumi e i comportamenti degli uccelli di cui è cosparso l’Elogio, a sostegno di una intensa esaltazione della gioia e del riso. «L’ io del topo, del can, d’altro mortale». Il segno più profondo dell’incisività del paradigma animalistico nel pensiero leopardiano è espresso nella critica dell’antropocentrismo, ben evidenziata nella visione materialistica e ‘tetra’ degli ultimi anni, fornita dai Paralipomeni, «libro terribile, nel quale [Leopardi] deride i desideri, i sogni, i tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara, che squarcia il cuore, ma che è giustissima» (come ebbe a scrivere Vincenzo Gioberti ne Il gesuita moderno, 1847), nel quale si addensa una disincantata filosofia della natura e degli uomini servita con il sarcasmo di un riso mesto. Nei Paralipomeni Leopardi ha infine modo di svolgere originalmente il tema dell’anima delle ‘bestie’, che lo aveva attratto fin dalla giovinezza, ritrovandolo anche nel poema satirico pseudo-omerico, e sul quale aveva a lungo riflettuto. La vicenda stessa degli animali parlanti, pur rinviando a modelli letterari canonici (quali i ricordati Animali parlanti di Casti), prospetta una marcata dimensione animalista e complessivamente una forte critica all’antropocentrismo e all’antropomorfismo. Mi limito a richiamare due passi esemplari. Nel Canto vii Dedalo, unico personaggio umano del poemetto, sviluppa «in un lungo ragionar» (ottava 7, v. 8) una riflessione naturalistica che può essere ritenuta l’acmé teorica della filosofia della natura di Leopardi. Dedalo è infatti un pensatore esperto «di fisiche e meccaniche dottrine», coltivate – come era stato il caso del giovane Leopardi – «presso al confine | di pubertà» nel suo studio e biblioteca, ma è soprattutto un esperto di storia naturale (come Leopardi stesso era ritenuto dagli amici). A partire   Pietro Colletta (1775-1831), generale e storico napoletano, offrì a Leopardi la possibilità di soggiornare una seconda volta a Firenze tramite il sostegno finanziario degli “Amici di Toscana”. 1

60 Io sono quella che tu fuggi

dalle sue cognizioni sulle caratteristiche fisiche e sul linguaggio degli animali Dedalo è convinto dell’esistenza di un luogo dove si troverebbero le loro anime e convince il suo ospite topo – «il conte Leccafondi, | signor di Pesafumo e Stacciavento» (Canto I, ott. 34, vv. 1-2) – a intraprendere una rischiosa ‘discesa agli inferi’, che offre lo spunto per una discussione sul tema dell’intelligenza e dell’anima degli animali. Dedalo sostiene che c’è soltanto una differenza di grado nel rapporto tra intelligenza animale e umana: «certo esser dee che dalla intelligenza | de’ bruti a quella dell’umana prole | è qual da meno a più la differenza, | non di genere tal che se rigetta | la materia un di lor, l’altro l’ammetta» (ott. 12, vv. 4-8). Si tratta di un’affermazione ‘gradualista’ che non si scosta molto – si è visto – da quanto il giovane Leopardi aveva asserito nella Dissertazione sopra l’anima delle bestie. La riproposizione delle tesi giovanili in bocca a Dedalo è particolarmente indicativa: da un lato Leopardi intende sottolineare una continuità di studi e di interessi che lo riporta agli anni delle Dissertazioni, dall’altro vuole prendere ironicamente le distanze dalle sue precedenti posizioni, da un ‘illuminismo cattolico’ legato all’ortodossia gesuitica e ormai superato in un conseguente materialismo naturalistico. Il Leopardi dei Paralipomeni è e non è quello delle Dissertazioni: marca una continuità di interessi e di problemi, ma non di soluzioni. La dissociazione dalle proprie posizioni giovanili viene testimoniata nella nota stanza tredicesima. Con un consapevole sdoppiamento fra il Dedalo-giovane Leopardi e Leopardi stesso, il poeta qui esprime la propria visione materialistica della coscienza: egli sostiene il carattere materiale dell’io e il riconoscimento della riducibilità della coscienza alla materialità del cervello. È una posizione radicale, abissalmente lontana dallo spiritualismo e dall’idealismo, ma anche da buona parte del pensiero scientifico-filosofico illuministico. Essa può certo richiamare note fonti di riferimento, la più rilevante delle quali conduce all’articolo Rorarius del Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle (nel quale l’autore ricorda anche un pensatore particolarmente caro a Leopardi – Stratone di Lampsaco – tra i sostenitori della razionalità dell’anima delle ‘bestie’). Epperò la posizione leopardiana è più radicale di quella del Quod animalia bruta saepe ratione utantur melius homine (1544) di Gerolamo Rorario e di Bayle: non si tratta di sostenere a contrario, come fa Rorario, che se è stata prodotta una macchina pensante come l’uomo non si può

La riflessione sul vivente

61

evitare di pensare che anche gli animali posseggano in forme diverse intelligenza e sensi, e neppure di sostenere – con Bayle – che l’anima umana è della stessa natura di quella delle ‘bestie’, ma di derivare con coerenza dalla teoria materialistica della «materia pensante», partecipe del materialismo ‘stratonico’, tutte le conseguenze critiche del persistente pregiudizio antropocentrico. La rivendicazione di un coerente sviluppo di pensiero rispetto alla riflessione giovanile è ancora più consistente per l’individuazione di un problema – la questione dell’intelletto delle ‘bestie’ – ritenuto rilevante fin dall’adolescenza e considerato a tal punto essenziale da divenire lo sfondo teorico dei Paralipomeni, che non potrebbero essere compresi appieno se non si aggiungesse al loro tessuto ideologicopolitico la scelta, cruciale sul piano narrativo, di porre le ‘bestie’ – e quali ‘bestie’ sono protagoniste ed eccellono in intelligenza? i topi, ‘bestie’ tra le più odiate dagli uomini – al centro della narrazione e di vedere il mondo a partire dal loro «io». Leopardi irride il comportamento dei dotti spiritualisti del suo tempo, che «con impudente | dissimulazione e mala fede» studiano l’essenza dell’intelletto umano dimenticandosi di confrontarne le funzioni con quelle degli animali e giungono a conclusioni che non potranno essere applicate alle facoltà animali e produrranno conseguenze assurde. Il poeta vuole ribadire di non aver mai ritenuto tale problema irrilevante, anche quando non ne coglieva gli aspetti materialistici e anti-antropocentrici, e di ritenerlo ancora talmente significativo da costruirci sopra un poemetto, che viene così ancorato alla questione scientifico-filosofica dell’anima delle ‘bestie’ coltivata fin dalla gioventù. Con due versi sprezzanti Leopardi cancella la malafede degli intellettuali del suo tempo rendendoli inferiori agli stessi topi, ai topi «moderni», non a quelli fantastici del poemetto: «Ma lasciam gli altri a cui per dritto senso | i topi anche moderni io pongo avanti» (ott. 17, vv. 1-2). Il rilievo animalista di queste ultime riflessioni leopardiane, nella ricchezza del materialismo ‘stratonico’ e della critica all’antropocentrismo, richiama un interesse mai venuto meno per il mondo degli animali e più in generale del vivente, che produce sostanziali esiti anti-antropocentrici.

V Scienze fisiche

Le scienze fisiche negli studi giovanili. La dimestichezza con le scienze fisiche procede nel giovane Giacomo a partire dai suoi studi elementari. Quando il 20 luglio 1812 ebbe a sostenere la sua Disputatio di fine anno con il fratello Carlo, Giacomo dovette preparare un programma di Fisica generale e di Fisica particolare, in funzione del quale redasse nel 1811 nel secondo e terzo quinterno delle Dissertazioni, le dieci trattazioni dedicate alla fisica: Sopra il moto, Sopra l’attrazione, Sopra la gravità, Sopra l’urto dei corpi, Sopra l’estensione, Sopra l’idrodinamica, Sopra i fluidi elettrici, Sopra la luce, Sopra l’astronomia, Sopra l’elettricismo. Nella sezione della fisica generale si ritrovano temi fondamentali della fisica newtoniana, a partire dalla legge di gravità, nella fisica particolare vi sono esempi e argomenti più vicini agli interessi, anche sperimentali, del giovane esaminando, come i fenomeni elastici, la propagazione della luce e il moto dei fluidi. Il principale testo di riferimento sono gli Elementa Philosophiae in Adolescentium usum (voll. 3, 1770-71) di Lorenzo Altieri. Negli argomenti della fisica generale – e nel loro sviluppo nelle Dissertazioni corrispondenti – Leopardi dimostra una sicura adesione al newtonianesimo e una convinta critica nei confronti delle concezioni fisiche cartesiane. Oltre al manuale di Altieri risultano largamente usati nelle Dissertazioni diffusi trattati scientifici, come i ricordati Elementi di Fisica di Poli o il fortunato commento ai Principia matematica di Newton di Francisque Jacquier e Thomas Le Seur (1739-42); da essi provengono informazioni che permangono anche nei successivi scritti ‘eruditi’. In particolare gli argomenti fisici delle Istitutiones philosophicae di Jacquier costituiscono un riferimento costante nella formazione scientifica di Giacomo, anche se è stato notato come il giovane studio-

64 Io sono quella che tu fuggi

so mostri un relativo distacco rispetto ad alcuni aspetti dell’esposizione, indice di una prima autonoma capacità di discernimento. Colpisce la sicura accettazione del sistema newtoniano, richiamato nelle presentazioni ‘ortodosse’ proposte dai gesuiti (e soprattutto da padre Jacquier) e difeso nei suoi principi fondamentali dalle numerose critiche ancora diffuse nel Settecento. Le dissertazioni Sopra la gravità e Sopra l’attrazione costituiscono un sicuro esempio di adesione al concetto newtoniano di attrazione a distanza, misurata sui fenomeni e non sulla definizione ‘sostanziale’ e del tutto ipotetica dei concetti di attrazione e di gravità. Leopardi richiama lo spirito del metodo newtoniano, sperimentale e rigorosamente ancorato a leggi fisicomatematiche, e aderisce alla finalità globale delle leggi formulate da Newton, adeguate a spiegare i grandi fenomeni celesti come i più piccoli eventi terrestri. Va anche segnalato il valore conoscitivo generale attribuito dal giovane Leopardi al metodo scientifico newtoniano, alla «moderna Fisica», vista come fonte di una conoscenza razionale scevra da quegli errori invece così diffusi nel sapere antico. Riecheggia qui la contrapposizione illuministica tra verità ed errore che stimolerà Leopardi alla redazione del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e che tornerà come motivo ricorrente della riflessione matura. Gli «antichi errori» e le «assurdità» degli antichi sono ricordati in conclusione delle dissertazioni Sopra l’estensione e Sopra i fluidi elastici. Sempre nel quadro dell’adesione al newtonianesimo è forte – lo attesta la Dissertazione sopra l’idrodinamica – l’interesse leopardiano per l’idrostatica e per l’idrodinamica, due nuove branche della fisica che estendevano il modello newtoniano ai fluidi e che promuovevano grandi vantaggi in campo tecnologico (come nel caso delle costruzioni navali; non mancavano nella Biblioteca di famiglia i testi di nautica, come il manuale di Antonio De Clariana, Resumen nautico de que se practica en el Teatro naval, 1731). Il limite dell’impegno leopardiano nello studio dell’idrostatica e dell’idrodinamica consisteva tuttavia nella scarsa frequentazione delle matematiche, e specificamente nella pressoché totale ignoranza dell’analisi matematica. Soltanto l’analisi avrebbe potuto permettergli di padroneggiare gli strumenti necessari per comprendere i concetti idrostatici e soprattutto idrodinamici, nei quali si fa largo uso delle equazioni differenziali: basti ricordare le equazioni sul moto dei fluidi formulate

Scienze fisiche

65

da Euler nel 1755, sulla base dei risultati esposti nel Traité des fluides di d’Alembert del 1744. In generale, traspare nelle Dissertazioni una scarsa attitudine al linguaggio matematico, che non viene mai usato, neppure dove i manuali di riferimento lo introducono. Non soltanto il giovane Leopardi non mostra di conoscere il calcolo integrale e l’analisi matematica (allineandosi, in tale resistenza ai metodi analitici, con la più parte della comunità matematica italiana), ma evidenzia al riguardo delle matematiche riserve che rimarranno costanti per tutta la sua vita. Non mancheranno tuttavia – lo si è visto nel capitolo II – significative riflessioni sul ruolo del linguaggio matematico e sugli aspetti cognitivi dell’astrazione matematica. Interessi sperimentali e newtonianesimo. Molto vivo risulta viceversa l’interesse del giovane Giacomo per gli aspetti sperimentali: lo affascinano in questo contesto «i fenomeni dei tubi capillari», nei quali il liquido ascende in ragione inversa del diametro del tubo. Altri esperimenti saranno oggetto di attenzione particolare nelle Dissertazioni (nel caso specifico in quella Sopra i fluidi elastici): è il caso degli esperimenti con le campane pneumatiche, sperimentazioni fisiche forse realizzate dallo stesso Giacomo, come quella nella quale si mostra una bottiglia posta in una campana in cui si è procurato il vuoto che si infrange per la sola pressione dell’aria interna alla bottiglia; o come l’esperimento complementare e famosissimo degli emisferi di Magdeburgo, che dimostra come risulti estremamente difficile separare due emisferi nei quali è stato prodotto il vuoto. Le campane pneumatiche erano presenti nel piccolo laboratorio di casa Leopardi, come anche due sfere di Magdeburgo in miniatura. Leopardi poteva utilizzare le Leçons de physique expérimentale, dell’abate Jean Antoine Nollet (6 voll., 1743-48), arricchite da numerose tavole e possedute nella Biblioteca in una traduzione dell’edizione del 1780, che sono alla base della descrizione degli esperimenti scientifici nelle Dissertazioni, forse prodotti direttamente nel piccolo laboratorio privato. Vari strumenti descritti nelle tavole delle Leçons, come le macchine per illustrare le leggi della meccanica e dell’idrostatica, le macchine elettriche e le pompe pneumatiche, risultano diffusi al tempo. Con essi si realizzavano esperimenti di

66 Io sono quella che tu fuggi

relativa facilità, che si fissano nella memoria di Leopardi, tornando variamente, anche in forma di paragone. Non a caso, il richiamo alla «quotidiana, volgare esperienza» costituisce un motivo ricorrente nelle Dissertazioni scientifiche per convalidare le teorie proposte. Significativa per la fiducia nei riguardi dell’evidenza empirica la chiusa della Dissertazione sopra l’urto dei corpi: Tutto ciò che fu da noi esposto circa il conflitto dei corpi essendo come dicemmo fondato principalmente sopra la quotidiana, volgare esperienza, e venendo approvato da tutti i più colti, e sensati Filosofi, non può non essere ammesso, che da quelli, i quali sembrano aver dalla natura sortito un odiosissimo spirito di perpetua contraddizione direttamente opposto alle regole della società, ed alle leggi del buon costume. Da avversarj di tal fatta io credo però esenti le accennate proposizioni intorno all’urto, o conflitto de’ corpi poiché nulla vi è in esse, per mio avviso, che possa in qualche modo oppugnarsi nemmeno dai più sagaci, ed ostinati nemici delle patenti verità.

Dinanzi a dispute teoriche che assumono toni ‘metafisici’, come nel caso dell’accettazione o meno del vuoto, il giovane Leopardi presenta le posizioni contrarie dei ‘peripatetici’ e quelle favorevoli dei ‘cartesiani’ e pur propendendo per i secondi, sostenuto da Jacquier (e dagli esperimenti realizzati con le pompe pneumatiche, il cui valore non era evidentemente considerato ‘cruciale’), non prende partito, assumendo una posizione critica ragionata e distaccata rispetto alle fonti. L’adesione a una base empirica, intesa come criterio costitutivo della verità della conoscenza, non verrà abbandonata nella riflessione matura. Il risultato delle Dissertazioni fisiche che maggiormente permane nella concezione leopardiana della natura è l’adesione convinta al sistema e al metodo newtoniano, che nella sua progressiva espansione, mostra di potere tendenzialmente spiegare tutti i fenomeni naturali, divenendo la fonte principale della conoscenza ‘vera’ della natura. La fisica nello Zibaldone: il newtonianesimo e i suoi limiti. Questa convinta adesione verrà anche messa in discussione e capovolta nella riflessione dello Zibaldone, ma non verrà mai meno il riconoscimento che il newtonianesimo è l’espressione più completa della interpretazione fisica della natura.

Scienze fisiche

67

La consacrazione della grandezza di Newton, assurta a simbolo del rinnovamento culturale illuministico, avviene nella Storia della Astronomia, dove Leopardi ricorda – come si è già visto nel capitolo sull’astronomia – che con Newton nasce l’astronomia fisica, che riconduce, con la scoperta della forza di attrazione, i fenomeni celesti e i fenomeni terrestri alle stesse cause. La trama delle riflessioni ‘fisiche’ nello Zibaldone non smentisce l’orizzonte newtoniano di fondo. Troviamo anzi una difesa della «quotidiana, volgare esperienza», associata a una sobria razionalità, di contro alla perdita del contatto con la natura, che procede di pari passo con l’affermazione dell’antropocentrismo e con la propensione metafisica, particolarmente gradita ai pensatori tedeschi. Reagendo all’angoscia dinanzi a un universo infinito e senza centro, che ha spodestato l’uomo dalla sua carica di «Vicerè dell’Altissimo», come lo definiva Francesco Bacone, i contemporanei di Leopardi hanno progressivamente perso di vista la natura in favore di una glorificazione dell’uomo, di un antropocentrismo che confina con l’esaltazione. Di questo atteggiamento Leopardi offre una spiegazione, che richiama la sua attenzione giovanile all’esperienza. Scrive il 29 e 30 agosto 1822, che dinanzi ai «poemi della ragione» composti dai pensatori tedeschi, si stagliano le «vere e sode scoperte sulla natura», tra le quali la fisica generale, patrimonio di Newton e Galilei, e non di studiosi tedeschi: i «poemi della ragione» possono condurre a mirabili costruzioni metafisiche, ma allontanano dalla conoscenza vera della natura, che solo la fisica può dare (Zib, 2016-2018). Il sistema newtoniano è visto come un punto di arrivo per la scienza moderna, tale che l’iniziativa scientifica non può oltrepassarlo sostituendolo con un nuovo sistema scientifico, ma deve limitarsi a esaminare i particolari, accettandolo come un’ipotesi efficace e rinunciando così a quel progresso conoscitivo profondo che può scaturire soltanto da una potente immaginazione creativa. In modo ambivalente Leopardi così da un lato rende giustizia alla completezza del sistema newtoniano, compimento e completamento della fisica moderna, dall’altro contrappone la visione sistematica e ‘rigida’ del sistema fisico alla fluidità profonda dell’immaginazione, che può cogliere aspetti della natura come non può fare nessuna scienza sistematica. I fisici che si dedicano all’indagine sui particolari piuttosto

68 Io sono quella che tu fuggi

che indicare la linea del progresso scientifico, testimoniano i limiti stessi della moderna concezione fisica della natura, che non può oltrepassare se stessa. Leopardi vede le moderne scienze fisiche ancorate al sistema newtoniano e gli scienziati «volti all’esame fondato dei particolari (senza cui è impossibile generalizzare con verità e profitto) e alla pratica ed esperienza e alle cose certe». Da un lato egli riconosce in tale ricerca ‘normale’ di leggi razionali e generalizzabili la via necessaria all’astrazione scientifica, ma dall’altro segnala come essa comporti la rinunzia all’immaginazione e di conseguenza isterilisca lo spirito umano. In altri termini, sembra che Leopardi faccia proprio lo spirito del suo tempo, nel quale prevaleva l’idea ‘normale’ di un consolidamento e di un’estensione del paradigma newtoniano, anche se è avvertito in merito all’esistenza di una «insufficienza generale de’ suoi principii p. ispiegare veramente a fondo i fenomeni naturali» (Zib, 4056-4057/4 aprile 1824). Del resto «Le scienze e i sistemi non possono andare che per via di paradigmi e di esempi» e rimangono quindi limitati a una dimensione ipotetica e astratta, distante dalla concretezza delle circostanze (Zib, 3978/12 dicembre 1823). Queste osservazioni mi paiono rilevanti per cogliere la concezione leopardiana della conoscenza scientifica: una volta interpretato il sistema newtoniano come il punto di arrivo dello sviluppo della scienza della natura, Leopardi non vede le condizioni perché all’interno di tale ordine di conoscenza si sviluppi un movimento realmente progressivo, che soltanto un sistema scientifico alternativo potrebbe produrre. Se allora – come Leopardi è convinto – tale sistema non coglie la realtà profonda dell’ordine naturale, soltanto una visione non scientifica della natura, connessa all’esperienza individuale e collettiva e alla potenza dell’immaginazione, potrà raggiungere il fondo della realtà in forme non più rigorose ma più ‘vere’. Peraltro come ricorderà anche nel Parini, «la forza immaginativa» è essenziale «a far progressi notabili» nella filosofia, nella scienza e anche nella poesia: «Primieramente abbi per cosa certa, che a far progressi notabili, nella filosofia, non bastano sottilità d’ingegno, e facoltà grande di ragionare, ma si ricerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes, Galileo, il Leibnitz, il Newton, il Vico, in quanto all’innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti; e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi». Questo limite della scienza moderna

Scienze fisiche

69

‘ipotetica e astratta’ non può che condurre a un suo indebolimento, perché una volta raggiunto l’orizzonte sistematico del newtonianesimo, le ulteriori osservazioni apriranno dei varchi nella sua solidità. Come tutta la restante ragione moderna, anche quella che ha consolidato la fisica, procede meglio quando critica e distrugge gli ‘errori’ antichi, piuttosto che quando costruisce nuovi sistemi. Superando l’ambivalenza espressa nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi ma mantenendone la visione dialettica errore-verità, Leopardi attribuisce ora una precisa responsabilità alla moderna ragione scientifica e filosofica, in contrasto con la sapienza degli antichi. L’opera dei filosofi e degli scienziati moderni è consistita nel distruggere gli ‘errori’: Cartesio distrusse gli errori degli aristotelici, la principale scoperta di Locke è stata la dimostrazione della falsità delle idee innate e «Discorriamo allo stesso modo di Newton, il cui sistema positivo che già vacilla anche nelle scuole, non ha potuto mai essere per i veri e profondi filosofi altro che un’ipotesi, e una favola, come Platone chiamava il suo sistema delle idee (…)» (Zib, 2709/21 maggio 1823). La filosofia e le scienze moderne sono capaci solo di distruggere gli ‘errori’ e non di costruire verità nuove. Lo stesso sistema di Newton non è ora altro che «un’ipotesi», soggetta alla critica degli stessi scienziati. Nozioni di fisica e metafore fisiche. I riferimenti diretti ad aspetti determinati delle scienze fisiche non sono numerosi nello Zibaldone. Si possono rintracciare due notazioni generali sul procedimento della conoscenza fisica. Da un lato si osserva come la fisica scomponga la realtà naturale e ne inglobi aspetti ignoti all’interno di forze note, talché una nuova forza fisica emerge come parte ignota di una forza fisica nota: «Anche le scienze fisiche vanno innanzi a forza di decomporre, la natura, ec. e ordinariamente una nuova forza scoperta nella natura, non è altro che una parte ignota di una forza di un agente già noto, o una forza che si credeva tutt’uno con questo, e non era. ec. (31. Luglio 1821.)» (Zib, 1424/31 luglio 1821). Dall’altro, circa un mese dopo, si rileva come una grande scoperta fisica acquisti la sua efficacia grazie alla comunicazione universale: «Nessuno vede più degli altri, ma qualcuno osserva e combina più degli altri. Quello che accade nelle scienze

70 Io sono quella che tu fuggi

fisiche, accade nelle metafisiche e morali. In quelle e in queste, una scoperta fatta si comunica e partecipa a chicchessia. Un ragionamento ben espresso e sviluppato il quale conduca alle verità le più remote dall’opinione e dalla cognizione comune, può subito essere inteso dallo stesso volgo. Ognuno può vedere da che uno ha veduto. ec. ec. (29. Agos. 1821.)» (Zib, 1583/29 agosto 1821). Segnalerei altri tre richiami a contenuti specifici, nei quali nozioni di fisica si congiungono a una dimensione psichica e antropologica che ne valorizza il carattere variabile e relativo. Il primo concerne l’ottica: Leopardi rimarca come una scienza fisica e rigorosamente geometrica, quale è l’ottica, sia condizionata dal variare della visione nei diversi individui, anche a seconda della differenza degli organi visivi (Zib, 1437-1438/2 agosto 1821). Nel secondo si osserva che l’elettricità è stata a lungo celata dalla natura agli uomini per il suo carattere di materia ‘terribile’, come era prima avvenuto per il fuoco; «la natura sembra avere studiosamente seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da’ sensi e dalla vita degli animali, e dalla superficie del globo» sia il fuoco che l’elettricità, perché essa non aveva intenzione «di farne una materia d’uso ordinario e regolare nella vita degli animali o di qualsivoglia specie di animali» (Zib, 3645/11 ottobre 1823). Il terzo mette in rapporto l’esperienza dell’esistenza di corpi ‘gravi’ con la nascita nel bambino dell’idea di gravità, avvalorandone un’origine sperimentale in piena corrispondenza con la concezione newtoniana ed estendendo per analogia la notazione anche alle idee morali (Zib, 4253-4254/9 marzo 1827). Come le idee fisiche, anche quelle morali sono sottoposte all’esperienza e all’abitudine. È utile sottolineare come l’attenzione all’ottica e alla meccanica siano inquadrate nel sistema newtoniano e come l’interesse per l’elettricità abbia le sue radici formative nelle curiosità ‘elettriche’ presenti nel giovane Leopardi e rispondenti allo spirito del tempo. Dalla fisica alla metafisica. Un ultimo sguardo alla concezione leopardiana della fisica si può rintracciare nel confronto metodologico sviluppato nel Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Sarà il Fisico a esultare per la scoperta di un elisir di lunga vita, di un ritrovato che possa allungare la

Scienze fisiche

71

vita umana. Per parte sua, il Metafisico contesterà il valore della scoperta, a fronte della sostanziale infelicità della vita umana: che vantaggio potrà avere vivere più a lungo, se si prolungherà anche l’infelicità costitutiva della vita umana e di ogni altro essere vivente? Il Metafisico produce, non casualmente, a sostegno della sua critica un esempio fisico, ascrivibile alla teoria newtoniana dei colori quale era stata presentata da Leopardi in gioventù nella Dissertazione sopra la luce: «(…) il volgo s’inganna pensando che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce». La fisica dimostra, contro l’opinione comune, che i colori sono qualità della luce; essa dovrebbe allo stesso modo comprendere che, contro l’opinione comune, «l’uomo non desidera e non ama se non la felicità propria. Però non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento o subbietto di essa felicità. In modo che propriamente viene ad amare questa e non quella, ancorché spessissimo attribuisca all’una l’amore che porta all’altra». Dovrà essere il Metafisico a insegnare al Fisico il corretto uso del metodo scientifico, che tanto si distanzia dall’opinione comune!

VI Automi e macchine

Strumenti e automi in casa Leopardi. Nelle nobili e acculturate casate dell’Europa del Settecento non mancavano strumenti e automi che univano l’uso delle più recenti tecnologie con l’esercizio di passatempi dilettevoli. Senza arrivare a possedere una Wunderkammer, la famiglia Leopardi, che con Monaldo aveva riversato tutti i suoi averi nella edificazione della Biblioteca, non mancava tuttavia di interesse per gli automi e gli artificialia, oggetti particolari per la loro originalità e unicità, fatti con tecniche complicate o segrete, provenienti da ogni parte del mondo, ovvero di quei mirabilia che suscitavano appunto la meraviglia dei visitatori. In casa Leopardi erano conservati strumenti dilettevoli e automi, che permettevano di produrre veri e propri giochi scientifici: una sirena di Cagniard de la Tour (che emetteva suoni ben distinti, connessi al ritmo della rotazione di un disco forato, prodotti anche in acqua), una suoneria meccanica (capace di emettere un suono continuo e prolungato in aria, ma muto se isolato in una campana sotto vuoto), un igroscopio a pupazzo (una statuina pitturata che, grazie a un meccanismo costituito da un semplice telaietto libero di ruotare intorno a un asse verticale tramite un filo di sospensione di budello animale attorcigliato, fornisce un’indicazione qualitativa del grado di umidità dell’aria), ma anche prismi cavi e bi-prismi, e un microscopio solare (che, come le lanterne magiche permetteva di ottenere, grazie a una sorgente luminosa esterna, immagini molto ingrandite). Le Dissertazioni filosofiche e poi la Storia della Astronomia presentano, per il loro peculiare contenuto, svariati richiami a strumenti scientifici e tecnici, come si è già scritto nei capitoli sull’astronomia e sulla fisica, mentre nello Zibaldone ritroviamo annotazioni e metafore che si soffermano sulla tecnologia, o meglio sul macchinismo e sul ruolo delle macchine e degli automi nella società moderna.

74 Io sono quella che tu fuggi

Automi e meccanismi della natura. Leopardi mostra di conoscere le tecniche di fabbricazione degli automi meccanici, veri oggetti di svago per ricchi amatori, sicuramente esperiti direttamente dal giovane conte. In perfetto stile meccanicistico e senza alcuna nuance negativa, tali automi meccanici sono assunti a modello di comprensione scientifica della natura: «(…) il mondo è come quelle macchine che si muovono per molle occulte, o quelle statue fatte camminare da persone nascostevi dentro. E il mondo umano è divenuto come il naturale, bisogna studiare gli avvenimenti come si studiano i fenomeni, e immaginare le forze motrici andando tastoni come i fisici» (Zib, 120/10 giugno 1820). Questo paragone con le «statue fatte camminare da persone nascostevi dentro» rende conto della visione meccanica della natura e della conseguente asserzione sulla difficoltà di comprenderne i complessi meccanismi. Il sistema della natura non può essere sezionato analiticamente per essere compreso, in quanto ne verrà fuori una «macchina dimezzata», proprio come quando si scompone e poi si ricompone una macchina complicatissima (Zib, 1836-1838/4 ottobre 1821). In definitiva, non si può conoscere nel suo intimo il sistema della natura senza cogliere con un «colpo d’occhio» il suo centro, senza trovare «la chiave, la molla, il complesso totale di una gran macchina»; si conosce la natura soltanto sentendola, «anzi conoscerla non è che sentirla» (Zib, 1852/5-6 ottobre 1821). Anche lo sguardo sull’uomo implica un paragone meccanico. L’uomo, l’essere più perfetto tra gli animali, è «una macchina dilicata», un orologio più perfetto di altri, perciò si può piuttosto rompere che non perfezionarsi, si guasta più facilmente, proprio come una macchina delicata si rompe più facilmente di una macchina più semplice (Zib, 2567-2568/18 luglio 1822). Sempre in ordine al parallelo uomo-macchina, ma con una forte carica critica per la progressiva meccanizzazione dell’umano, è rilevante un’osservazione sull’importanza della tecnologia nelle nuove strategie belliche. Con l’invenzione della polvere da sparo – che Leopardi ritiene casuale, come la gran parte delle invenzioni e scoperte – gli uomini diventano macchine, non fanno più valere la loro forza e il loro coraggio, ma i loro automatismi: «Per l’invenzione della polvere l’energia che prima

Automi e macchine

75

avevano gli uomini si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicché ella ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare» (Zib, 978/23 aprile 1821). Metafore e paragoni. Varie sono, più in generale, le metafore e i paragoni che nell’argomentazione dello Zibaldone mettono in gioco il rapporto di Leopardi con la tecnica e gli strumenti scientifici. Descrivendo le leggi sociali «eterne, almeno quanto le leggi fisiche» (Zib, 4440/18 gennaio 1829) e i comportamenti civili nella loro stretta interazione, Leopardi confronta ogni uomo in società con una colonna d’aria in rapporto alle altre. Il confronto richiama gli esperimenti per ricavare il vuoto con le macchine pneumatiche, oggetto di attenzione già nella Dissertazione sopra i fluidi elastici (Zib, 930/11 aprile 1821). Il paragone, particolarmente gradito, torna con maggiore ricchezza di particolari nel pensiero del 10 maggio 1822, dove si ricorda che la stabilità sociale assomiglia alla pressione di ogni colonna d’aria su tutte le altre e che la campana d’aria, nella quale si è prodotto il vuoto, si frantumerebbe se non fosse realizzata con materiale in grado di resistere alla pressione esterna. L’ equilibrio sociale è simile a quello delle colonne d’aria nella pressione atmosferica, «si può rassomigliare al sistema dell’aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l’une l’altre, ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi» (Zib, 2436-2437/10 maggio 1822). «Se qualche colonna d’aria viene a rarefarsi (…) ciascuna delle colonne vicine (…) corrono ad occupare il luogo suo»; il cedere volontariamente «in questo sistema di pressione generale» è – conclude Leopardi – da sciocco (Zib, 2439-2440/10 maggio 1822). La considerazione, con la metafora a essa connessa, viene ripresa nel Pensiero CI. La dinamica dei fluidi è una sezione della fisica che a Leopardi è rimasta particolarmente impressa fin dagli studi giovanili, testimoniati, oltre che dalla Dissertazione sopra ricordata, anche dall’argomento n. 23 Ex mutua fluidorum, et vitri attractione repetenda videntur tuborum capillarium phaenomena proposto per la Disputatio del 20 luglio 1812. Altri paragoni vengono sviluppati a proposito dell’assuefazione, la cui forza e varietà viene confrontata con l’accelerazione del moto dei

76 Io sono quella che tu fuggi

gravi: «in matematica o fisica non si può trovare più giusta immagine di detti progressi, che il moto accelerato» (Zib, 1767/22 settembre 1821). Un ultimo caso, particolarmente efficace e singolare, di considerazione delle novità tecniche del proprio tempo Leopardi lo fornisce menzionando, in una pagina zibaldonica del 22 settembre 1821, un clavicembalo oculare che produce colori, ideato per la prima volta dal matematico francese Louis Bernard Castel nel suo L’ optique des couleurs (1740), ma preconizzato sul terreno delle arti visive già nel Cinquecento da Giuseppe Arcimboldi. Lo strumento funzionava con il collegamento dei tasti del clavicembalo ad alcune ampolle contenenti liquidi di colore diverso e richiamava le indagini sulle gradazioni cromatiche che avevano affascinato Bernardin de SaintPierre e Johann Wolfgang Goethe, ben noti a Leopardi. Ironie sulla tecnica nelle Operette morali. Annotazioni che testimoniano l’interesse e la conoscenza di novità tecnologiche non mancano neppure nelle Operette morali. Un’Operetta sintetizza meglio di altre, con straordinaria efficacia narrativa, la cognizione leopardiana della tecnica: si tratta della Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (22-25 febbraio 1824), che presenta in rilievo il confronto di Leopardi con il proprio tempo, «l’età delle macchine», condotto con sottile ironia. La tecnologia nel suo aspetto macchinico è diventata – ricorda Leopardi – pervasiva e onnipresente, anche nelle «opere della vita»: «(…) per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate (…) a tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita». Ormai è vicino il tempo in cui le macchine espanderanno la loro funzione dagli aspetti materiali della vita, come quello di riparare dai fulmini e dalla grandine (molto in voga al tempo i parafulmini e i ‘paragrandini’, come documenta ad esempio l’«Antologia»: «(…) per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini (…)»)1, a quelli spirituali, fino al punto estremo

  «Antologia», fascicolo di giugno 1823, tomo x.

1

Automi e macchine

77

della completa sostituzione degli uomini con le macchine. Sensibile a tale diffusione tecnologica, l’Accademia dei Sillografi, ovvero degli scrittori di ‘silloi’ – nella letteratura greco-ellenistica brevi composizioni burlesche –, propone un concorso a premi con tre indicazioni. La prima proposta concerne l’invenzione di una macchina che dovrà «(…) fare le parti e la persona di un amico (…)»; la ‘macchinaamico’ dovrà sostituire i rapporti più intimi e profondi fra gli uomini, nella considerazione che anche nei suoi aspetti più autentici «(…) la vita umana è un giuoco (…)» e che di conseguenza può essere sostenuta sempre più da congegni meccanici. Gli automi potranno quindi degnamente intervenire nelle nostre relazioni affettive e colmare senza difficoltà la nostra solitudine. L’ esaltazione dell’automa era presente, senza ironia, nell’entusiasmo conoscitivo del giovane Giacomo, consono allo spirito dei tempi. Ripensiamo a quel mondo di automi presenti nelle letture e nel ‘laboratorio’ del giovane Leopardi, ricordato nelle Dissertazioni filosofiche, qui richiamato, con il distacco ironico di chi non vi crede più. Ecco «La testa fabbricata da Alberto Magno»: «A tutti è noto il capo di creta di Alberto Magno, il quale proferiva alcune parole, e narrasi ancora finalmente, che da una prigione in Marocco lavorossi una statua, la quale dalla carcere recandosi al reale palagio, e quivi piegate d’innanzi al Re le ginocchia, ed in atto supplichevole porgendogli un memoriale impetrò al suo artefice la libertà». E «gli automati del Regiomontano» (Johannes Müller), richiamati anch’essi nella Dissertazione sopra l’anima delle bestie: «Il celebre Regiomontano si suol dire dai Cartesiani, seppe costruire un’ Aquila, che volando per l’aria indicava ad un Imperatore la via verso Norimberga; il medesimo fabbricò una mosca volante». E quelli, ben più noti, di Jacques de Vaucanson e di Wolfgang von Kempelen («una macchina (…) che giocava agli scacchi per se medesima»). La storia della fascinazione per gli automi è parte integrante della storia della tecnologia e del mutamento delle immagini della scienza. Dalle teste parlanti menzionate già tra l’XI e il XIII secolo, come gli automi di Gerberto d’Aurillac e di Alberto Magno, all’impianto macchinico ‘umanistico’ di Leonardo da Vinci e soprattutto del ricordato Müller, chiamato Regiomontanum perché nato a Königsberg, ovvero Regiomontum, quali l’aquila artificiale e l’orologio istallato a Strasburgo nel 1574 (un gallo meccanico che a mezzogiorno cantava

78 Io sono quella che tu fuggi

tre volte con vari movimenti del corpo, che colpirà anche Cartesio), alle fontane ornamentali seicentesche con figure mobili realizzate dagli ingegneri idraulici francesi Isaac e Salomon de Caus, che mimavano una scena naturale tra un uccello che cantava su un ramo, realizzato grazie ad aria soffiata attraverso un vaso pieno d’acqua, e un gufo che lo faceva fuggire. E infine ai celebri automi del Settecento, come quelli del meccanico di Grenoble de Vaucanson, di von Kempelen, artefice di un automa che giocava a scacchi, di Pierre e Henri-Louis Jaquet-Droz, che stupivano il pubblico con movimenti che ricalcavano le prestazioni di organismi biologici, e di Ernst Hoffmann, che realizzò l’uomo di sabbia nel 1816 e un profilo dell’androide femminile Olimpia. Anche la seconda proposta di premio – l’invenzione di «un uomo artificiale a vapore» – fa risuonare l’eco della nuova era scientifica e tecnologica: il vapore, simbolo della tecnologia e dell’industria dell’Ottocento, splenderà come modello dei nuovi tempi nella Palinodia al marchese Gino Capponi, sulla quale mi soffermo più avanti. Infine la terza proposta richiede di trasformare in macchina perfetta la figura femminile, espressione per eccellenza del sentimento amoroso e poetico, al fine di realizzare «una donna conforme a quella immaginata», la donna ideale della tradizione cortese e moderna. E sarcasmo disincantato nei Canti. All’ironico gioco macchinico presentato nella Proposta, succede, undici anni dopo – negli anni cupi del periodo napoletano –, il sarcasmo disincantato dinanzi al progresso tecnico e industriale sviluppato nei versi della Palinodia al Marchese Gino Capponi (primavera 1835), pendant alla sola altra epistola in versi scritta da Leopardi, quella bolognese Al Conte Carlo Pepoli (marzo 1826). I due nobili ai quali sono rivolte le missive sono testimoni riconosciuti del proprio tempo e amici del poeta, e forse possono comprendere meglio di altri l’amara e accorata denuncia di Leopardi dinanzi al «secol superbo e sciocco». In particolare, nella Palinodia colpisce come un urlo l’immagine iniziale di una vita quotidiana pervasa da una frenesia ‘meccanica’, di un mondo divenuto più macchinale che non in qualsiasi altra epoca: «Alfin per entro il fumo | de’ sigari onorato, al romorio | de’ crepitanti

Automi e macchine

79

pasticcini, al grido | militar, di gelati e di bevande | ordinator, fra le percosse tazze | e i branditi cucchiai, viva rifulse | agli occhi miei la giornaliera luce | delle gazzette» (vv. 13-20). La denuncia dell’esaltazione meccanica del proprio secolo viene circostanziata con vari riferimenti espliciti al sapere scientifico e tecnologico coevo, nei principali tòpoi della satira leopardiana. Primeggia la menzione di gazzette e giornali, ricordati ben sette volte, nuove e fortunate forme di informazione, al centro dell’attenzione degli intellettuali, e dell’attività del “Gabinetto” fondato a Firenze da Vieusseux, e frequentato da Leopardi. Altrettanto spazio viene dato ai nuovi sistemi di comunicazione: ferrovie, navi a vapore, palloni aerostatici, tunnel, come il Wapping Tunnel, che attraversava il Tamigi a Liverpool, il primo tunnel costruito sotto una città, iniziato nel 1804 e ultimato soltanto nel 1830 («e sotto l’ampie | vie del Tamigi fia dischiuso il varco, | opra, ardita, immortal, ch’esser dischiuso | dovea, già son molt’anni», vv. 125-128). Le nuove tecniche di comunicazione vengono ironicamente esaltate per la straordinaria velocità dei trasporti («Da Parigi a Calais, di quivi a Londra, | da Londra a Liverpool, rapido tanto | sarà, quant’altri immaginar non osa, | il cammino, anzi il volo», vv. 122125). Così pure si inneggia alla potenza energetica che scaturisce dalle applicazioni del vapore, tra le quali si annoverano i palloni aerostatici («tanto la possa | infin qui de’ lambicchi e delle storte, | e le macchine al cielo emulatrici | crebbero, e tanto cresceranno al tempo | che seguirà», vv. 48-49). A mio avviso le «macchine al ciel emulatrici» sono le mongolfiere, che gareggiano in realtà col cielo in quanto volano in esso, piuttosto che generici nuovi macchinari industriali, come per molti commentatori. Anche nell’ambiente scientifico-tecnologico italiano forti erano le aspettative suscitate dal vapore e dalle sue applicazioni, che venivano vagliate in base all’efficienza e all’economicità. L’ età del vapore viene ancora richiamata – con l’ironia di chi irride al sapere racchiuso nelle gazzette – nella potenza delle nuove macchine tipografiche a vapore, che permettevano di moltiplicare esponenzialmente la stampa di giornali e periodici («per opra | di possente vapore, a milioni | impresse in un secondo (…) | copriran le gazzette, anima e vita | dell’universo, e di savere a questa | ed alle età venture unica fonte!», vv. 145-153). Altro segno della diffusione della tecnologia per il miglioramento del benessere sociale, e cittadino in specie, è

80 Io sono quella che tu fuggi

riconosciuto nell’installazione dell’illuminazione a gas nelle maggiori città europee («illuminate | meglio ch’or son, benché insicure al pari, | nottetempo saran le vie men trite | delle città sovrane, e talor forse | di suddita città le vie maggiori», vv. 128-132), anche qui con un’evidente venatura ironica sul persistere dell’insicurezza notturna nelle strade cittadine. Non manca infine una nota sulla nuova forma delle transazioni monetarie, rese più spedite con l’introduzione delle banconote («polizze di cambio», v. 59). Le citazioni indirizzano verso la dimensione applicativa e industriale delle invenzioni scientifiche e tecnologiche, con una forte e indignata condanna della commistione fra lo sviluppo tecnologico e la diffusione della logica capitalistica del profitto commerciale e industriale, foriera di nuove guerre come quelle coloniali, legate anche all’economia schiavistica, che si accendevano allora non solo in Europa, ma anche in quell’America esaltata, con la nascita degli Stati Uniti, come la patria della libertà moderna: «coverte | fien di stragi l’Europa e l’altra riva | dell’atlantico mar, fresca nutrice | di pura civiltà» (vv. 61-64). Risalta la descrizione delle nuove mode nell’abbigliamento, in gran parte dovute al recente sviluppo dell’industria tessile, e in particolare alla diffusione dell’uso del cotone, prodotto coloniale e schiavistico per eccellenza («agricoltori e fabbri, | chiuderanno in coton la scabra pelle», vv. 112-113), e nell’arredamento degli appartamenti, dai tappeti alle pentole, tutti arnesi e utensili che «adorneranno | di lor menstrua beltà gli appartamenti» (vv. 118-119). Ma in nessun caso, pur nella nota più sarcastica, v’è una condanna del valore di verità delle scoperte scientifiche, e neppure della loro generale utilità civile, in quanto nella sostanza la dimensione tecnologica viene consapevolmente separata dalla conoscenza scientifica. La chimica e la fisica del vapore sono qui presenti soltanto in relazione alle loro applicazioni tecnologiche; la fisica dell’elettricità compare nel rilievo delle sue scoperte, che però non possono opporsi alla forza delle leggi della natura. Una fatale legge naturale, che fa sì che «Imperio e forze, | quanto più vogli o cumulate o sparse, | abuserà chiunque avralle, e sotto | qualunque nome» (vv. 77-80), prevale sulle nuove scoperte elettro-chimiche, sulla diffusione degli studi socio-politici e sulle conoscenze astronomiche e geografiche («e co’ fulmini suoi Volta né Davy | lei [la legge secondo la quale chi possiede «imperio e forze» ne abusa per dominare] non cancelle-

Automi e macchine

81

rà, non Anglia tutta | con le macchine sue, né con un Gange | di politici scritti il secol novo», vv. 82-85). Leopardi testimonia il senso di impotenza dinanzi al fato naturale che neppure la conoscenza più pura può cancellare, mentre condanna – ed è una condanna durissima – l’uso delle risorse tecnologiche e scientifiche per rafforzare l’«imperio», il potere che promuove guerre e violenza a suo sostegno, in barba alle prediche sul miglioramento delle condizioni umane e sulla felicità collettiva («Sempre il buono in tristezza, il vile in festa | sempre e il ribaldo», «cibo dei forti | il debole, cultor de’ ricchi e servo | il digiuno mendico, in ogni forma | di comun reggimento, o presso o lungi | sien l’eclittica o i poli, eternamente | sarà», vv. 86-87 e 90-95). E proprio per il rilievo dell’ingiustizia sociale legata al potere, più dura appare la critica nei confronti delle scienze sociali ed economiche, che all’inizio del secolo trovano una rapida affermazione anche in Italia; basti pensare a Melchiorre Gioia con il Nuovo prospetto delle scienze economiche (1815-17) e con la Filosofia della statistica (1826-27) a Carlo Cattaneo, che dal 1832 collabora agli «Annali universali di statistica» fondati nel 1823 dal suo maestro Giandomenico Romagnosi, e naturalmente allo stesso Gino Capponi, chiamato direttamente in causa per i suoi studi economici, giuridici e pedagogici, in forme apertamente satiriche che non potevano piacere all’interessato. Leopardi non comprende l’utilità sociale degli studi statistici, pur tanto esaltati, specie nella cerchia di Vieusseux («quei sospirati dì, quando per lunghi | studi fia noto, e imprenderà col latte | dalla cara nutrice ogni fanciullo, | quanto peso di sal, quanto di carni, | e quante moggia di farina inghiotta | il patrio borgo in ciascun mese; e quanti | in ciascun anno partoriti e morti | scriva il vecchio prior», vv. 138145). Non concede alcun valore ‘etico’ agli studi economici (spesso uniti alla statistica e alla sociologia), non segno – è certo – di un’età virile («questa virile età, volta ai severi | economici studi», vv. 233234), ma invece congiunti proprio alla produzione commerciale e industriale capitalistica e alla nascita delle industrie, buone per provvedere – aggiunge con evidente ironia – ai bisogni del secolo (a essi provvedono «i mercati e le officine | già largamente», vv. 254-255). Come non comprende l’omaggio diffuso alle nuove dottrine sociali e politiche che guardano alle masse, esaltandone una felicità che funge da paradossale rimedio all’impossibilità di trovare la felicità degli

82 Io sono quella che tu fuggi

individui («e quella [una comun felicitade] | trovata agevolmente, essi di molti | tristi e miseri tutti, un popol fanno | lieto e felice», vv. 202205). La nota considerazione leopardiana sulla insensatezza del moto continuo e universale di distruzione e costruzione della natura, immodificabile da parte degli uomini e vieppiù imprevedibile, è qui ribadita con la bella immagine della natura in veste di ‘fanciullo’: «d’ogni sforzo in onta, | la natura crudel, fanciullo invitto, | il suo capriccio adempie, e senza posa | distruggendo e formando si trastulla» (vv. 169-170). La denuncia dell’inconsistenza e della falsità del progresso tecnologico non poteva essere più netta. Il poeta tradurrà tale denuncia in una espressione sprezzante e icasticamente famosa, modificando magistralmente quanto il cugino Mamiani della Rovere, anch’egli da poeta, se pur minimo, aveva scritto nella Dedica del 1832 ai suoi Inni sacri in lode degli Italiani del Medioevo: «La vita civile comincia dalla religione (…) sentirono in questo modo e procederono così in ogni cosa quegli Italiani che nel XII e XIII secolo rinnovarono le meraviglie del nome latino: beati davvero e gloriosi senza fine nella ricordanza dei posteri; se mai dalla mente non cancellavano loro di sempre amarsi l’un l’altro come uguali e fratelli, chiamati a condurre ad effetto con savia reciprocanza di virtù e di fatiche le sorti magnifiche e progressive dell’umanità». Il grido che risuona nella Ginestra contro «le magnifiche sorti e progressive» diventa l’emblema estremo della visione leopardiana della tecnica.

VII Il r apporto tr a antichi e moderni: una storia della scienza e della tecnica?

Errori popolari degli antichi e ragione moderna. Leopardi sente particolarmente il tema del rapporto tra conoscenza, scienza, ignoranza e illusione, e ne tratta in forme molto efficaci per il procedere del suo pensiero e della sua poesia. In esso trova un posto di rilievo l’analisi dello sviluppo storico della scienza e del nesso scienza/ignoranza, illuminato dalla ‘disputa dei moderni e degli antichi’. Si tratta di un nodo di riflessione che emerge con il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), opera di ormai maturo impegno intellettuale, che mette anche in discussione il rapporto fra antichi e moderni, secondo una visione dialettica del nesso fra errore (antico) e ragione (moderna) che non si risolve necessariamente nella prevalenza della seconda sul primo: la teoria delle illusioni e del loro ruolo mitopoietico trova qui la sua prima espressione. L’ambivalenza del rapporto fra errore e verità costituisce così il tratto originale del Saggio: da un lato si precisa una propensione illuministica nella teoria della conoscenza nella quale, seguendo le teorie empiriste di Locke, viene posta al centro l’esperienza ragionata; dall’altro il richiamo alla funzione poetica della cultura classica, i cui errori sono favole popolari degne di grande attenzione, risuona di toni involontariamente vichiani. Differentemente dai philosophes Leopardi propone un’interpretazione antropologica del mondo primitivo, per una ricostruzione del rapporto fra natura e cultura che capovolge il primato razionale della civiltà moderna rispetto alla ‘naturalità’ degli antichi. Il Saggio è mosso da una chiara preoccupazione conoscitiva e scientifica: esso privilegia la storia naturale e l’astronomia, scienze che hanno valore per la loro antichità. La decisione programmatica – espressa nella Prefazione – di sviluppare alla fine di ogni

84 Io sono quella che tu fuggi

capitolo un confronto fra antichi e moderni risulta funzionale alla dialettica errore-verità, ma richiama anche il valore dell’ammaestramento dell’antichità: «L’antichità somministra grandi lezioni ad un filosofo, quando è considerata in un modo proprio a farci profittare dell’esempio degli antichi». Insegnamento ancor maggiore, a motivo della persistenza nei popoli ‘moderni’ degli stessi errori degli antichi che si trasmettono nella tradizione popolare. A differenza degli illuministi, Leopardi non ritiene necessario confutare gli errori popolari («Scrivendo in un secolo illuminato ho creduto quasi inutile il farlo»), se non attraverso gli scritti degli stessi antichi: «Opponendo così gli antichi agli antichi, mi sono servito forse di un mezzo più valevole a convincere molte persone di tutti gli argomenti che avrei potuto addurre». Nell’Idea dell’opera coesistono, non senza stridore, illuminismo e adesione alla fede cattolica, sullo sfondo di un originale ripensamento del rapporto fra errore e conoscenza, secondo il quale, dialetticamente, la vera conoscenza si esprime nel potere di distruggere gli errori e, con essi, i pregiudizi che vi sono connessi, e l’errore assume a sua volta un ruolo positivo nello sviluppo della dimensione immaginativa degli uomini. È interessante notare come Leopardi distingua già nettamente tra la semplicità, frutto di ignoranza e in qualche modo prodotto della natura – «La natura generalmente nasconde delle verità, ma non insegna degli errori; forma dei semplici, ma non dei pregiudicati» –, e il pregiudizio, espressione caratteristica della «cattiva educazione», che «fa ciò che non fa la natura». Se «la maggior parte degli uomini cresce lietamente tra le braccia dell’errore», tuttavia – ricorda il giovane Leopardi – «non v’ha cosa più ingiuriosa allo spirito umano dei pregiudizi». Gli errori popolari sono i pregiudizi che ostacolano il libero uso della ragione, che, sola, può condurre alla ricerca della verità e alla dignità degli uomini liberi. Pur nel disincanto sull’incidenza della sua storia dei pregiudizi sull’opinione comune, Leopardi confida nella possibilità di istruire qualche spirito «un poco debole», ma «fornito d’intendimento» e «capace di cangiare opinione». La limitazione metodologica agli errori popolari e non a quelli degli antichi sapienti, in quanto solo i primi si sono diffusi e perpetrati, indica il carattere ‘pedagogico’ dell’opera, che vuole promuovere una crescita culturale dell’umanità lungo la

Il rapporto tra antichi e moderni

85

linea di una continuità fra pregiudizi moderni ed errori antichi, e nella prospettiva antropologica di una permanenza dei caratteri costitutivi della psicologia umana. Il distacco da una visione schematicamente progressiva delle conoscenze umane emerge nella riflessione conclusiva del Capo Decimo (Degli Astri), nella quale Leopardi riconosce il ritorno delle concezioni animistiche degli astri in due padri fondatori dell’astronomia moderna, Tycho Brahe e Johannes Keplero. A tal proposito Leopardi argomenta sulla inesistenza nello spirito umano di «una linea retta di cognizioni» e propone l’ipotesi di un «circolo limitato» che conduce a tornare periodicamente alle cognizioni precedenti; una visione ciclica, vichiana, disarmante sulle effettive possibilità di superare gli errori del passato, che viene ridimensionata nella chiusa del ragionamento in nome del valore della memoria, unica garanzia per non «rinnuovare impunemente gli errori antichi». La tesi antropologica sulla continuità dei caratteri psicologici umani distacca Leopardi dalla visione progressiva della natura umana propria degli illuministi; essa viene ribadita nella Ricapitolazione: «La storia degli errori è lunga come quella dell’uomo». Qui Leopardi si sofferma sul contrasto fra superstizione – «un abuso della Religione nato dall’ignoranza» – e Religione, la quale, pur essendo «il più grande di tutti i beni», ha prodotto la superstizione allontanandosi dalla sua verità originaria e favorendo la diffusione dei pregiudizi. Appaiono ben visibili le esigenze di un ‘illuminista cristiano’, che identifica errore e superstizione da un lato e verità razionale e Religione dall’altro. Leopardi conferma così per un verso il suo razionalismo critico che riconosce le fonti degli errori nel difetto della ragione critica; ma, per un altro, trova il modo di criticare l’incredulità dei filosofi, ovvero degli illuministi, «madre di pregiudizi più perniciosi di quelli che la credulità ha mai prodotti». Nelle pagine conclusive del Saggio aveva già mostrato la sua netta presa di distanza dall’immagine del Filosofo (o meglio del philosophe), appellativo che, con la maiuscola, Leopardi aveva usato – anche con un auto-riconoscimento – nelle Dissertazioni filosofiche, nella Storia della Astronomia e altrove nello stesso Saggio. «Il nome di Filosofo è divenuto odioso alla più sana parte degli uomini», scriveva, assumendo il senso pieno attribuito al termine dagli illuministi, ma anche dall’uso seicentesco e moderno per designare gli scienziati naturali.

86 Io sono quella che tu fuggi

Insieme aveva espresso un’adesione accanita alla «Religione amabilissima»: «non è filosofo chi non ti segue [Religione] e non ti rispetta, e non v’ha chi ti segua e ti rispetti, che non sia filosofo». La critica al philosophe prospetta un primo distacco dalla visione illuministica del progresso culturale, secondo la quale la crescita dell’umanità coincide con la sua più radicale laicizzazione e con la perdita delle credenze religiose. Leopardi non smentirà nella sostanza la sua critica, già resa in questa pagina, nei confronti dell’onnipotenza del sapere razionale e del suo carattere distruttivo dinanzi alla naturalità umana. Errori e favole poetiche. Errori e credenze prescientifiche (soprattutto astronomiche), come quelle riguardanti l’anima di astri, luna e sole, la paura dei morti, l’animazione del vento, vagliate criticamente nel Saggio assumeranno un ruolo creativo nell’immaginario poetico leopardiano. Un esempio per tutti: la credenza, condivisa dai maggiori filosofi antichi, nell’anima pensante e intelligente degli astri ritorna come motivo poetico di fondo nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. «Frattanto vediamo avvanzarsi il ceto venerabile dei nostri antichi maestri, che sulla loro parola ci fanno certi aver gli astri un’anima pensante e intelligente, la qual regola tutti i loro moti, e fa che questi corrispondano esattamente e perpetuamente alle leggi universali della natura». Nel Canto notturno la luna è apostrofata fin dal primo verso – «Che fai tu, luna, in ciel?» – come una persona. Anche il carattere vago e indefinito del silenzio indifferente della Luna, al quale il Saggio dedica una disquisizione filologica, ritorna nella «silenziosa luna» del Canto notturno, anche se lo si può comunque ritenere un topos poetico. Di maggiore spessore il confronto sulle favole legate alla Luna, riportate nella stessa pagina del Saggio: le lagnanze della luna «(…) intorno alla soverchia curiosità dei filosofi che non le lasciavano un’ora di libertà e indagavano insolentemente tutti i fatti suoi», riferite da Menippo, e tratte dall’Icaromenippo di Luciano di Samosata, sono il motivo di fondo di un’Operetta che proprio da questo distacco tra mondo terrestre e realtà lunare e cosmica, trae alimento, ovvero il Dialogo della Terra e della Luna, che contiene peraltro vari riferimenti al Saggio.

Il rapporto tra antichi e moderni

87

Uno «scetticismo ragionato e dimostrato». La presa di distanze dall’incredulità illuministica si trasformerà nello Zibaldone degli anni 1820-22 in una teorizzazione del dubbio, assunto a strumento centrale e ineliminabile di uno «scetticismo ragionato e dimostrato» (Zib, 1655/8 settembre 1821), nel quale prevale un conseguente relativismo: «Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev’esser la base di tutta la metafisica» (Zib, 452/22 dicembre 1820). Il tema dello sviluppo della scienza e del rapporto tra conoscenza e ignoranza, emerso nel Saggio, mette ora in gioco l’intera concezione del progresso della conoscenza, alla luce di una sua lettura scettica e relativistica. Leopardi – è noto – ritiene il sapere degli antichi più genuino e naturale, anche se meno scientifico e razionale, e critica l’idea di una corrispondenza progressiva tra il successo dello sviluppo scientifico e il miglioramento della condizione umana. Da un lato egli osserva quanto il caso risulti determinante nelle scoperte scientifiche. «La sfera del caso si stende molto più che non si crede»: il caso è causa di numerose scoperte e soltanto il convergere di molte circostanze permette le invenzioni. Dall’altro egli mostra come le presunte necessità della vita siano dovute a invenzioni casuali: «E vedrete che siccome da una parte la sfera del caso, in tutte le cose, massime umane, si stende assai più che non si crede, così d’altra parte, o tutte o il più di quelle invenzioni ec. che ora sono d’uso creduto di prima necessità, ed essenziale alla vita umana, sono effettivamente dovute al caso». Di conseguenza non può essere ‘naturale’ lo sviluppo della perfezione tecnica e scientifica, e non può essere funzionale al raggiungimento della felicità umana. La domanda, retorica, posta da Leopardi in questo pensiero del 21 marzo 1821, conduce a negare il senso della perfettibilità umana nel conseguimento della felicità: «Dunque se tutto questo era necessario o conveniente alla perfezione e felicità dell’uomo, come mai la natura tanto accurata e finita maestra in tutto, glielo ha non solo lasciato ignorare, ma nascosto, quanto era in lei?» (Zib, 830-838). In termini generali, Leopardi è convinto che la civilizzazione moderna sia, insieme a tutte le principali scoperte tecnologiche e scientifiche, opera del caso (Zib, 1737-1740/19 settembre 1821; Zib, 2602-2606/10

88 Io sono quella che tu fuggi

agosto 1822). Significativo appare l’esempio del vetro che, inventato casualmente, ha condotto a realizzare l’occhiale e il cannocchiale, contribuendo in modo determinante al progresso scientifico. Va segnalato in questo contesto l’interesse davvero notevole che acquista l’osservazione sulla comune origine di alcune scoperte ‘difficili’, apparse tra tutti i popoli per diffusione a partire da un evento casuale originario. La riflessione nasce nel quadro di un’indagine sull’origine del linguaggio, ma mi pare si possa dire che qui Leopardi assume un paradigma evolutivo, se pure in ambito culturale, che esclude ogni finalismo nella natura (Zib, 3661-3672/11 ottobre 1823). È connessa a tale riconoscimento complessivo dell’aspetto casuale delle scoperte scientifiche e tecniche la notazione sulla limitata incidenza sociale e sul carattere effimero e poco consistente di alcune di esse. Se le invenzioni rendono la vita più comoda, non è detto che non si potesse vivere anche senza di esse ed è pretestuoso e sciocco ritenere che gli antichi vivessero peggio soltanto perché mancavano delle nostre comodità: «E credete a me che la considerazione detta di sopra [che in nessun tempo ci si accorge «di questa tanta impossibilità o difficoltà di vivere» che dopo verrà attribuita a quei tempi] è una perfetta soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione» (Zib, 4197-4199/10 settembre 1826). Peraltro, nella misura in cui cresce lo scibile umano, si limitano di necessità le cognizioni disponibili nei tempi moderni dimenticando quelle più antiche, «le scoperte, le scienze stesse degli antichi». Si può ritenere che le nuove scoperte abbiano condotto a ignorare le antiche e che gran parte ne sia stata dimenticata. Ciò vale per Leopardi nelle stesse scienze osservative e naturali: «Anche le scienze materiali non so quanto progrediscano, a ben considerare la cosa. Bastando appena il tempo a conoscere le innumerabili osservazioni che si fanno da’ contemporanei, quanto si può profittare di quelle d’un tempo addietro? I materiali non crescono, si cambiano. E quante cose si scuoprono giornalmente, che i nostri antenati avevano già scoperte! non vi si pensava più» (Zib, 4507/13 maggio 1829). Se anche nelle scienze fisiche e matematiche il progresso delle conoscenze comporta la perdita della memoria di libri ‘vecchi’ e ritenuti superati (Zib,

Il rapporto tra antichi e moderni

89

4271/2 aprile 1827), e di teorie precedenti, anche importanti come quelle di Galilei (Zib, 1532-1533/20 agosto 1821), non soltanto se ne desume un continuo e ricorrente inabissamento delle conoscenze, ma si può mettere in dubbio l’esistenza stessa di un progresso del sapere, poiché il fatto che profonde verità vengano scoperte senza la cognizione di altre precedenti e indipendentemente dalla storia del sapere dimostrerebbe che gli stessi sapienti non hanno tenuto conto della tradizione passata. Se ciò è vero, Leopardi si domanda di conseguenza come mai nel mondo moderno c’è stata una tale accelerazione di scoperte e invenzioni: «Qual è dunque la ragione per cui lo spirito umano, ha trovate ne’ due ultimi secoli, tante verità profondissime, tanto ignote a tutti i passati?». La domanda è storiograficamente cruciale, perché segna la distanza tra lo sviluppo della scienza antica e quello della moderna, che deve trovare delle ragioni universali: «Ora trattandosi che fra tanti sommi spiriti antichi nessuno si è pure accostato alle verità, che molti e certo parecchi moderni hanno scoperto, o del tutto o massimamente da loro, bisogna trovarne delle ragioni universali, cioè intere, e necessarie, e che spieghino tutto l’effetto». Leopardi ne individua tre: «1. La differenza delle lingue, e la maggiore o minor copia de’ termini, maggiore o minor precisione e universalità loro, e certezza di significato e stabilità»; «2. Le nuove nazioni che si son date al pensiero»; e soprattutto e principalmente: «Ma ben è certissimo che le circostanze modificano gl’ingegni in maniera che li fanno sembrare di diversa natura» (Zib, 1347-1355/20 luglio 1821). È questa la ‘ragione delle circostanze’, talmente diverse e più attive nel mondo moderno da aver modificato irreversibilmente la natura umana. Errori felici degli antichi e facoltà intellettive dei moderni. La scienza naturale appare tuttavia a Leopardi ormai dominata da un sistema compiuto e definitivo, quello di Newton. Nessun sistema fisico ha più superato quello newtoniano, nonostante quest’ultimo non sia esente da difetti; il sistema newtoniano è visto come un punto di arrivo per la scienza moderna (si è visto anche nel capitolo sulla fisica). E questo è un limite profondo allo sviluppo della conoscenza, perché l’iniziativa scientifica ormai si limita all’esame dei

90 Io sono quella che tu fuggi

particolari e si mantiene sul piano delle ipotesi, rinunciando così a quel progresso conoscitivo profondo che potrebbe scaturire soltanto da una potente immaginazione creativa. Nonostante il sistema newtoniano «sia tutt’altro che certo, e perfetto, anzi riconosciuto ben difettoso in molte parti, oltre alla insufficienza generale de’ suoi principii p. ispiegare veramente a fondo i fenomeni naturali», i fisici moderni «si sono contentati e contentansi di questo sistema, servendosene in quanto ipotesi opportuna e comoda nelle parti e occasioni de’ loro studi che hanno bisogno, o alle quali è utile una ipotesi» (Zib, 4056-4057/4 aprile 1824). Ciò che vale per il sistema di Newton vale a maggior ragione per ogni altra teoria scientifica. Si delinea così la concezione leopardiana della conoscenza scientifica che da un lato assume lo sviluppo storico delle teorie e delle invenzioni come il portato di circostanze casuali, progressivamente generalizzatesi nell’età moderna, dall’altro ritiene che con il sistema newtoniano la scienza abbia ormai raggiunto il suo punto di non ritorno, che non possa nascere alcun sistema scientifico alternativo a esso e che quindi vada cercata in altra direzione, quella dell’immaginazione e del coup d’oeil, la possibilità di una comprensione profonda del sistema della natura. Si apre così lo spazio per una visione non scientifica della natura, connessa alla potenza dell’immaginazione e in grado di raggiungere il fondo della realtà. La conoscenza scientifica non è soltanto incapace di andare al fondo della realtà naturale; essa, in aggiunta, è ‘innaturale’, proprio perché tende a superare la naturale ignoranza necessaria alla felicità delle cose: «l’errore e l’ignoranza è necessaria alla felicità delle cose, perché l’ignoranza e l’errore è voluto, dettato, e stabilito fortemente da lei [la natura], e perch’ella in somma ha voluto che l’uomo vivesse in quel tal modo in cui ella l’ha fatto». Gli uomini sarebbero stati felici, se avessero ignorato le verità della scienza, a loro indifferenti «che la natura ha seguite (ma segretamente) nel suo sistema» (Zib, 333/16 novembre 1820). Si tratta di un motivo strettamente connesso alle tematiche giovanili sugli errori popolari, che ora vengono interpretati in modo del tutto diverso, quasi capovolto. Sollecitato alla pubblicazione del Saggio da una lettera di Louis de Sinner del 24 gennaio 1831, Leopardi si mostra favorevole, ma ritiene di doverlo riscrivere ab imis, perché è venuta

Il rapporto tra antichi e moderni

91

meno la contrapposizione errore-verità in esso proposta. L’idea viene coltivata almeno fino al 24 maggio 1832: lo attesta una lettera a Louis de Sinner, inviata in quella data da Firenze. Leopardi intende ora gli errori come un ‘patrimonio’ dei saggi e non del popolo, e aggiunge che i saggi antichi errarono meno dei moderni, specie in ciò che non dipende dall’esperienza: «non è temerario il dire che, generalmente, nelle materie speculative e in tutte le cose il conoscimento delle quali non dipende da osservazione e da esperienza materiale, i filosofi antichi errassero dalla verità, o dalla somiglianza del vero, meno che i filosofi moderni: se non in quanto i moderni, quando scientemente e quando senza avvedersene, sono tornati in queste cose all’antico» (Zib, 4478/31 marzo 1829). In precedenza, il 27 agosto 1821, aveva sostenuto anche che gli antichi avevano idee meno delimitate dalla scienza e una vita più attiva (e ciò li portava peraltro ad avere minori «inclinazione e spasimo» verso l’infinito) (Zib, 1574). La prospettiva storica si dissolve quindi all’interno di una visione delle funzioni cognitive e sensibili dell’uomo moderno in contrasto con quelle presumibilmente naturali. La ricordata asserzione sul carattere non naturale della conoscenza scientifica e sull’impossibilità di supporre una tendenza infinita al conoscere conduce Leopardi a negare il valore della ‘perfettibilità’ umana. Si giunge ad «assurdità infinite» quando non si voglia riconoscere «che l’uomo esce perfetto dalle mani della natura, come tutte le altre creature», e «che la verità assoluta è indifferente all’uomo (quanto al bene, ma non sempre, anzi di rado, quanto al nuocergli), che lo scopo della sua facoltà intellettiva non è la cognizione, derivata dalla realtà, ma la concezione o l’opinione di conoscere, sia vera, sia falsa». Nello stesso pensiero Leopardi si domanda: «Che se l’uomo avesse questa tendenza infinita non al concepire, ma precisamente al conoscere, cioè al vero, perché la natura avrebbe posto tanti ostacoli a questa cognizione necessaria alla sua felicità? Perché avrebbe radicate nella sua mente tante illusioni che appena il sommo incivilimento, e abito di ragionare, può estirpare, e non del tutto? Perché la verità sarebbe così difficile a scoprire?» (Zib, 385-387/7 dicembre 1820). L’uomo non è fatto per conoscere e le sue facoltà intellettive non sono funzionali alla conoscenza della realtà, ma alla concezione opinabile di essa: una risoluta affermazione antirealista, un conven-

92 Io sono quella che tu fuggi

zionalismo di chiara derivazione empirista. Fonte primaria di ogni apprendimento risultano le esperienze sensibili, che a loro volta si sedimentano in ricordi: la memoria è unica matrice stabile del sapere, della scienza e di ogni facoltà umana, «Perché infatti l’uomo, (e l’animale) niente sapendo per natura ec. tanto sa, quanto si ricorda, cioè quanto ha imparato mediante le esperienze de’ sensi. Si può dire che la memoria sia l’unica fonte del sapere, ch’ella sia legata, e quasi costituisca tutte le nostre cognizioni ed abilità materiali o mentali, e che senza memoria l’uomo non saprebbe nulla, e non saprebbe far nulla» (Zib, 1675-1676/11 settembre 1821). Alla base del potenziamento umano della memoria si trova tuttavia l’assuefazione, senza la quale non si consoliderebbe nessuna facoltà: «tutte le facoltà umane le più materiali, e apparentemente naturali, abbisognano di assuefazione». Così «la scienza ed ogni facoltà umana non deriva che da pure assuefazioni, e queste quando son relative in qualunque modo all’intelletto, hanno bisogno dell’attenzione» (Zib, 2230-2231/6 dicembre 1821). Perché la memoria si consolidi con l’assuefazione, si richiede l’esercizio dell’attenzione: «La memoria è l’assuefazione dell’intelletto, e l’intelletto non si assuefa senz’attendere, perché senz’attendere (più o meno) non opera» (Zib, 1697-1698/14 settembre 1821). Si impara imitando, e tutte le facoltà intellettuali, anche quelle superiori e inventive, sono prodotto di imitazione. Ma anche le abilità manuali si costituiscono in forme simili. Leopardi confronta materialisticamente l’acquisizione per assuefazione delle facoltà della mano con quelle degli organi intellettuali (Zib, 2584-2587/28 luglio 1822) e giunge ad affermare che la stessa differenza innata dei talenti è dovuta al carattere circostanziale delle facoltà: «Queste nascono dalle circostanze, queste dipendono affatto da’ principi, dall’educazione ec. ma laddove le disposizioni non ne dipendono» (Zib, 1821-1822/1 ottobre 1821). Le considerazioni sulle facoltà proprie dei talenti costituiscono un interessante capitolo nella riflessione sul rapporto tra assuefazione e facoltà umane. «La facoltà di generalizzare è quella che costituisce gran parte del talento» (Zib, 1867/8 ottobre 1821); esso per la sua minor parte è disposizione naturale, per la maggior parte è acquisito per assuefazione e per circostanze (Zib, 25712572/19 luglio 1822), talché nei caratteri degli uomini novantanove parti sono opera delle circostanze (Zib, 2863-2864/30 giugno 1823):

Il rapporto tra antichi e moderni

93

«(…) anche la somma di cose minutissime basta a produrre grandissimi e visibilissimi effetti sull’indole degli uomini (…)» (Zib, 2863/30 giugno 1823). In definitiva, l’uomo deve quasi tutto alle circostanze, all’assuefazione, all’esercizio, e le diversità naturali sono molto piccole, anche se ben evidenti (Zib, 3197-3198/19 agosto 1823). L’attenzione di Leopardi slitta, in conclusione, dall’analisi storica del rapporto tra conoscenza, scienza, ignoranza e illusione, che conduce a elaborare una teoria del caso e delle circostanze, alla ricognizione psicologica delle facoltà umane, che lo conduce a riflettere su quanto può un uomo in circostanze appropriate: «Non solo noi non possiamo sapere né anche sufficientemente congetturare tutto quello di cui sia capace, aiutata da circostanze favorevoli, la natura umana in universale, ma eziandio di un solo individuo, o passato o presente o futuro, noi non possiamo sapere esattamente né congetturare quanta estensione, in circostanze appropriate, avessero potuto o pur potranno acquistare le sue facoltà» (Zib, 4166/21 febbraio 1826). Una ricognizione psicologica che dissolve il problema storico del progresso del sapere moderno, ma che tornerà molto efficace nel procedere poetico del pensiero e della poesia.

VIII Un’antropologia negativa: la concezione dell’umano (antichi, selvaggi, primitivi, barbari), tr a utopia e disincanto

‘Antropologia negativa’. La connessione della filosofia della natura con la riflessione sull’uomo è ben riconoscibile nel pensiero leopardiano. Ed è ricostruibile un itinerario di riflessione che conduce ad affrontare la grande e grave questione della condizione umana, lungo un percorso che dall’utopia, esemplificata nel mito dei Californi, conduce al disincanto, rilevabile in alcune Operette e tra tutte nella Scommessa di Prometeo. Si può parlare in proposito di antropologia, e più propriamente di ‘antropologia negativa’. La riflessione antropologica di Leopardi non afferisce a una disciplina scientifica definita: l’antropologia stava per costituirsi come scienza alla fine del Settecento sviluppandosi dalla storia naturale, anche in connessione con le massicce colonizzazioni che portarono l’Occidente ‘civilizzato’ a contatto con le popolazioni dell’Africa, dell’Asia, dell’America e dell’Australia. Lo studio della cultura, del linguaggio, dei manufatti e della fisiologia degli esseri umani che abitavano nei continenti colonizzati confluirà in una disciplina successivamente denominata ‘antropologia culturale’, ‘antropologia sociale’, ‘etnologia’, o più comprensivamente ‘scienze etno-antropologiche’. Il termine ‘antropologia’ in relazione a Leopardi va dunque inteso in senso filosofico: uno spazio di riflessione sulla natura umana, a partire dalle diffuse documentazioni su popoli e culture antiche, primitive o selvagge che costituirono la ricca base materiale delle osservazioni leopardiane. Si tratta di un’antropologia ‘negativa’, in quanto la visione leopardiana della natura umana, nel suo svolgimento, conduce a rilevare la costitutiva infelicità umana, non soltanto connessa allo sviluppo della civilizzazione, ma intrinseca alla natura dell’uomo.

96 Io sono quella che tu fuggi

La genesi della concezione antropologica negativa avviene in Leopardi attraverso un processo di letture e di pensiero che muove da una visione utopica e ‘positiva’ di un’umanità primitiva felice e di una cultura greco-latina eroicamente naturale per pervenire a riconoscere la negatività della condizione umana in ogni tempo e in ogni luogo rispondendo negativamente alla domanda retorica posta nelle ultime parole del Dialogo della Natura e di un Islandese: «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?». Se si pone come termine a quo dell’utopia antropologica dei popoli primitivi felici la quinta e ultima strofa dell’Inno ai Patriarchi (luglio 1822), considerata l’ultimo significativo reperto del mito dei Californi, e se si guarda alle letture compiute nel primo soggiorno romano, fra il 17 novembre 1822 e il 3 maggio 1823, si possono rintracciare nelle note di lettura e nelle meditazioni zibaldoniche gli elementi costitutivi che daranno luogo al grande affresco dell’antropologia negativa tracciato nelle Operette. Nel luglio 1822 Leopardi compone un inno, l’unico nella sua produzione poetica, l’Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano. Si tratta di un componimento che si presenta – nella sua quinta e ultima strofa – come la più decisa attestazione pubblica della visione leopardiana del «selvaggio felice». La condizione antropologica del selvaggio, localizzato precipuamente in terra americana, era stata descritta nell’autunno dell’anno precedente in un Abbozzo dell’Inno ai Patriarchi (autunno 1821) e – a partire dal luglio 1820 – in varie pagine dello Zibaldone. Ancor prima, tra i disegni letterari del 1819-20 si trova un abbozzo di poema didascalico sulle selve che contiene il motivo della distruzione della naturalità silvestre da parte della civiltà, poi trasfigurato in poesia nell’Inno. I ‘Californi’. Al consolidarsi di tale immagine, insieme di pensiero e di poesia, avevano contribuito le letture sui popoli d’America, successive alle scoperte e alle conquiste coloniali, che avevano nutrito la formazione del giovane Leopardi e che rispondevano a quel gusto per l’esotico presente nel tardo Settecento in casa Leopardi non meno che nei

Un’antropologia negativa

97

circoli intellettuali d’Europa. Il motivo dello straniero si coniugava spesso con il mito dell’esotico e aveva assunto un rilievo paradigmatico nella cultura antropologica del Settecento. Vanno almeno ricordate, a testimonianza degli interessi leopardiani per l’esotico precedenti il 1819, la tragedia Pompeo in Egitto (1812) e, nella Storia della Astronomia, gli ampi resoconti sulle nozioni astronomiche dei Peruviani, dei Messicani, dei Chiapanesi e dei Toltechi. L’attenzione rivolta ai popoli precolombiani, in particolare agli Aztechi del Messico e agli Incas del Perù, è attestata da letture desumibili degli Elenchi di letture e da riferimenti sparsi nello Zibaldone e rinvia soprattutto a quattro fonti principali: la Crónica del Perú (1553) di Pedro de Cieza, l’Historia de la conquista de Mexico (1684) di Antonio Solis, il Saggio sopra l’Imperio degl’Incas (1753) di Algarotti e la Storia di America (1777-96) di William Robertson. Nel IV Elenco di letture, rispettivamente nel novembre 1823 e nell’ottobre 1824, sono registrate l’opera di Algarotti e quella di Robertson. La lettura di tali principali fonti americane è distribuita fra il 1819 e il 1827, con un picco nel periodo 1821-1823. Mi soffermo sull’Abbozzo dell’Inno ai Patriarchi e sulla quinta strofa dell’Inno, ma prima ricordo che nello Zibaldone già il 12 settembre 1821 il selvaggio americano si identifica parzialmente con l’uomo primitivo e si pone in contrasto con l’immagine del fanciullo di oggi: «L’uomo primitivo in età di sett’anni non era già ragionevole, come oggi il fanciullo. Ne sa più il bambino che balbetta: ragiona meglio, è più ragionevole, di quello che fosse l’uomo primitivo in età di vent’anni ec. ec. ec. Questo si può confermare coll’esempio de’ selvaggi, i quali hanno pur tuttavia molta e già vecchia società» (Zib, 1680-1682). Ancora qualche mese dopo (il 1 dicembre 1821) il selvaggio americano testimonia la possibilità stessa di una vita interamente naturale nel tempo presente con il suo «timore, passione immediatamente figlia dell’amor proprio e della propria conservazione, e quindi inseparabile dall’uomo» (Zib, 2206-2208). Siamo ancora lontani dalla nota «reinvenzione dei Californi» (il termine è coniato dallo stesso Leopardi che si appoggia al Lexicon totius latinitatis di Egidio Forcellini), che compariranno più tardi nello Zibaldone in coda a un pensiero del 21 maggio 1823 («(…) sapientissimo è il fanciullo, e il selvaggio della California, che non conosce il

98 Io sono quella che tu fuggi

pensare» [Zib, 2711-2712]). In essi Leopardi ritrova un’innocente perfezione naturale, richiamando – oltre a «ciò che ne riferiscono i viaggiatori in America» – suggestioni dalle letture di fortunati affreschi naturalistici cristiani, proposti nelle pagine del Génie du Christianisme di François-Auguste Chateaubriand, in Paul et Virginie e negli Etudes de la Nature di Saint Pierre, precocemente conosciuti già tramite le Leçons de littérature et de morale curate da Jean-François Noël e François-Marie-Joseph Delaplace. Tra le altre possibili fonti sui Californi ricordo, oltre alle già menzionate opere di Solis, Pedro de Cieza, Algarotti e Robertson, soltanto quelle effettivamente possedute nella Biblioteca Leopardi: AntoineAugustin Bruzen de la Martinière, Le grand Dictionnaire géographique et critique (tomi 10, 1737-41); Gian Rinaldo Carli, Lettere americane, nelle Opere (tomi xi-xiv, 1785-86); Francesco Saverio Clavigero, Storia antica del Messico divisa in dieci libri (1780-81) e Storia della California (libri 4, 1789); Viaggio di La Pérouse intorno al mondo (tomi 4, 1815) (traduzione italiana del Voyage autour du monde pendant les années 178588 di Jean Francois de Galaup conte de La Perouse, 1797); Garcilasso de la Vega, Histoire des Yncas (voll. 2, 1704); François Marie Picolo, Memoire touchant l’estant des Missions, nouvellement establies dans la Californie (1702); Guillaume-Thomas-Francois Raynal, Storia dell’America Settentrionale (1778) (traduzione parziale dell’Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes, pubblicata per la prima volta anonima ad Amsterdam nel 1770 in 6 volumi). Un posto a sé occupa l’opera di Lodovico Antonio Muratori, Il Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai (voll. 2, 1743-49), e specificamente la Parte seconda, pubblicata nel 1749, assente dalla Biblioteca Leopardi, ma tale da acquistare un rilievo particolare tra le fonti leopardiane. Da segnalare inoltre che Clavigero era un gesuita rifugiatosi a Cesena, dove aveva pubblicato la sua storia del Messico dopo l’espulsione dell’Ordine dai territori della corona spagnola nel 1767 (quella della California fu pubblicata postuma a Venezia nel 1789). È probabile che queste opere fossero state introdotte in casa Leopardi dal gesuita José de Torres, pedagogo di Giacomo, nato come Clavigero a Veracruz nel Messico, e dal quale il giovane Giacomo poté forse ascoltare il racconto diretto della sua vita messicana.

Un’antropologia negativa

99

Questo contesto di letture e di riflessione si sedimenta nell’Abbozzo dell’Inno ai Patriarchi che esalta la vita primitiva dei selvaggi delle «Californie selve». L’ Abbozzo, la cui struttura rappresenta un unicum nella serie degli abbozzi leopardiani a noi pervenuti, fin dall’inizio invoca i «primi parenti di prole sfortunatissima», «meno infelici» perché «la clemenza divina non vi tolse che la vita non fosse un bene». La descrizione della solitudine naturale che circonda Adamo è particolarmente accurata e deve destare «un’idea vasta e infinita». Con la presentazione di Abramo, immerso nella vita pastorale, Leopardi pensa di mettere in atto il proposito già espresso nell’appunto sugli Inni Cristiani, ovvero quello di imitare gli Inni di Callimaco: «Vita pastorale de’ Patriarchi. Qui l’inno può prendere un tuono amabile, semplice, d’immaginazione ridente e placida, com’è quello degl’inni di Callimaco». E aggiunge una sottolineatura sulla presenza divina nella natura («la sua voce usciva dalle rupi e da’ torrenti»), estintasi in seguito alla crescita delle colpe e delle infelicità degli uomini. A questo punto il poeta pensa a una «digressione o conversione lirica», nella quale emerga «un’età d’oro pel genere umano»: «Fu certo fu, e non è sogno, né favola, né invenzione di poeti, né menzogna di storie o di tradizioni, un’età d’oro pel genere umano. Corse agli uomini un aureo secolo, come aurea corre e correrà sempre l’età di tutti gli altri viventi, e di tutto il resto della natura». E ciò non per mancanza di sventure, ma perché gli uomini le ignorarono: «Ma s’ignorarono le sventure che ignorate non son tali ec. ec.». La «conversione lirica» consiste proprio nel passaggio all’età presente e alle «Californie selve». In questo passaggio dell’Abbozzo si tratteggia l’esistenza moderna dei Californi, testimoni dell’autenticità della passata età dell’oro. Esaminiamo gli attributi antropologici dei Californi. Il primo attributo è il coraggio – «una gente ignara del nome di viltà» –, virtù tipicamente classica, che il poeta ritrova nei selvaggi americani. A essa egli associa subito l’assenza della corruzione conseguente all’affermarsi della cultura: «quella misera corruzione che noi chiamiamo coltura». Annoterà alla fine che i Californi mancano anche di un linguaggio articolato – «Non credo che abbiano alcuna lingua, se non di gesti, o poco più», – segno elementare di una società civilizzata. La felicità di tale gente selvaggia è proprio il risultato dell’assenza

100 Io sono quella che tu fuggi

di cultura e di ogni forma di civiltà: le stesse esigenze elementari del vitto e del rifugio sono soddisfatte nel contesto di una vita del tutto naturale, che consente anche quella gradevole contemplazione della bellezza della natura resa possibile dalla visione panoramica di un mondo vario e incontaminato. La visione dall’alto costituisce la dimensione prospettica privilegiata da Leopardi per la più completa contemplazione della terra e dell’«ampiezza de’ cieli», non a caso raffrontata a quella propria degli uccelli «liberi e scarichi e padroni della terra e dell’aria al par di loro». Una tale prospettiva sarà spesso gradita a Leopardi: basti ricordare lo sguardo aereo proposto nell’Elogio degli uccelli. La vita naturale, pur nei turbamenti dovuti ai fenomeni atmosferici avversi, non produce paure; come gli uccelli, i selvaggi si spaventano per la tempesta, ma al ritorno della quiete si rinfrancano e si rallegrano. Il poeta nota ancora nei Californi la robustezza fisica e la tranquilla vecchiaia, e soprattutto l’assenza di tristezza e noia, ovvero l’assenza dei mali più diffusi nella civiltà moderna e ormai intrinsecamente connessi alla condizione umana. La fonte della noia non si trova nell’uniformità della vita naturale, ma nell’insoddisfazione degli umani, dovuta proprio all’allontanamento dalla naturalità stessa. La figura del ‘selvaggio felice’ emerge nettamente dal raffronto tra la felicità dei Californi «a cui hanno pieno diritto in virtù non solo dell’innocenza loro, ma della medesima esistenza» e la presunta felicità moderna, «conquistata coi delitti» e mantenuta «coll’infelicità e oppressione de’ loro simili». A tale raffronto Leopardi aggiunge il rilievo della contraddizione di una civiltà potente e sviluppata che da un lato invidia i selvaggi e dall’altro vuole incivilirli a forza: o la civiltà nostra è felice, e allora non ha senso l’invidia verso i selvaggi; o è talmente barbara che, per invidia, vuole condannare i selvaggi alla sua stessa infelicità: «Siamo noi sì felici che dobbiamo compatire allo stato loro, s’è diverso dal nostro? o perché abbiamo perduta per nostra colpa la felicità destinata a noi né più né meno dalla natura, saremo noi così barbari che la vorremo torre anche a quelli che la conservano, e farli partecipi delle nostre conosciute e troppo sperimentate miserie? Che diritto n’abbiamo?». Da notare qui anche l’uso esplicito della contrapposizione tra barbarie e selvatichezza, che diverrà in seguito (basti pensare alla Scommessa di Prometeo) una chiave di comprensione

Un’antropologia negativa

101

dello sviluppo antropologico. La felicità è stata possibile nel genere umano e i Californi ne sono una delle ultime testimonianze; la violenta pertinacia con la quale la civiltà occidentale si accanisce contro gli ultimi selvaggi è a sua volta segno del potere evocativo presente in queste ultime testimonianze di una felicità naturale degli uomini. È un grido accorato quello di Leopardi contro «l’erinni» che «ci spinge e ci sollecita a scacciare la felicità da tutto il genere umano, a snidarla dagli ultimi suoi recessi, da quei piccoli avanzi del nostro seme ai quali ell’è ancora concessa». Un grido che si rivolge espressamente contro i missionari cristiani che dovrebbero capire più degli altri, ad un’attenta lettura del Genesi, il valore della vita naturale dei patriarchi e che invece «Adoprano la forza e costringono i Californi a radunarsi» per indottrinarli. Nelle condizioni di coercizione imposte dai missionari Leopardi rileva, alla luce della documentazione posseduta, che i selvaggi perdono la loro felicità. La digressione proposta nell’Abbozzo viene intesa come vera e propria conclusione dell’Inno, come infatti avverrà con la quinta strofa, anche se Leopardi aggiunge l’ipotesi di un’eventuale continuazione con la figura di Giuseppe, «Ultimo de’ patriarchi nati pastori», che, entrando nelle corti, dà inizio alla città, foriera di conseguenze nefaste per il genere umano: «nasce la fame dell’oro, la sfrenata e ingiusta ambizione ec. ec. e d’indi in poi la storia dell’uomo è una serie di delitti, e di meritate infelicità». Gran parte delle annotazioni presenti nell’Abbozzo trova il suo esito nell’Inno, composto a Recanati in diciassette giorni nel luglio 1822 e inserito tra le Canzoni fin dall’edizione bolognese del 1824. Il carattere ‘religioso’ dell’Inno fu smentito dallo stesso Leopardi nella Presentazione premessa alla stampa delle Canzoni nel «Nuovo Ricoglitore» del 1824: «Un’altra Canzone intitolata Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano, contiene in sostanza un panegirico dei costumi della California, e dice che il secol d’oro non è una favola». E certamente esso presenta uno squilibrio tra lo scenario cristiano e biblico e l’elogio della felicità dell’uomo naturale. La quinta strofa dell’Inno si caratterizza rispetto all’Abbozzo piuttosto per l’effetto poetico che non per i contenuti di pensiero. Nel 1824 Leopardi postilla la strofa con una nota integrativa che verrà progressivamente scarnificata nelle altre edizioni:

102 Io sono quella che tu fuggi Già non occorre avvertire che la California sta nell’ultimo termine occidentale del continente. La nazione de’ Californii, per ciò che ne riferiscono i viaggiatori, vive con maggior naturalezza di quello ch’a noi paia, non dirò credibile, ma possibile nella specie umana. Certi che s’affaticano di ridurre la detta gente alla vita sociale, non è dubbio che in processo di tempo verranno a capo di quest’impresa; ma si tiene per fermo che nessun’altra nazione dimostrasse di voler fare così poca riuscita nella scuola degli Europei.

Seguendo lo schema proposto nell’Abbozzo Leopardi descrive i Californi nella loro piena naturalità, fonte genuina di vita felice. La «beata prole» che ancora oggi nasce «fra le vaste californie selve» è priva di quelle angosce che l’umanità presente possiede in gran parte: non è assillata dalla cura che fa impallidire, non è domata da crudeli malattie, non ha bisogno di lavorare per procurarsi il cibo e il rifugio e infine non aspetta il giorno della morte, giorno che giunge appunto «inopinato», inaspettato. La notazione dell’«inopinato» «giorno dell’atra morte» costituisce un motivo non presente nell’Abbozzo, che rimarca il nodo costitutivo dell’infelicità umana, rivelato appunto dalla paura della morte. A questo quadro ‘idillico’ di un’umanità immune dall’infelicità segue per contrasto la raffigurazione della vocazione distruttiva e assimilatrice della civiltà moderna – testimoniata nell’Abbozzo dall’azione dei missionari e qui posta efficacemente in risalto – che con il suo «scellerato ardimento» penetra nelle «quiete selve», educa «le violate genti al peregrino affanno», a un’angoscia a loro sconosciuta, e a desideri finora ignoti, contribuendo a dissolvere «la fugace, ignuda felicità» che ancora persisteva in questo estremo luogo del continente americano. La descrizione dei Californi risulta estranea alla storia e rimane nel solco di una lettura dell’utopia edenica che configura una realtà immaginaria senza luogo né tempo. Bisogna aggiungere che non si tratta di una visione ‘fantastica’ e puramente immaginaria: Leopardi setaccia a fondo le fonti e non trascura l’attenzione su particolari antropologici direttamente documentati, come quello relativo all’assenza di una lingua presso i Californi. La visione dei Californi conduce anche a immaginare una naturale solitudine e un isolamento individuale, lontano dalla stessa futura concezione leopardiana della ‘società larga’, un’aggregazione accidentale

Un’antropologia negativa

103

tipica di molti animali e delle primissime società, in un orizzonte di vastità silvestre che attrae il poeta fin dal disegno di un poema sulle selve del 1819. A tale Disegno letterario sulle selve va aggiunto – per l’attinenza con il tema – il titolo consegnato sette anni dopo a una lista di Disegni letterari: «Istoria del popolo Messicano avanti gli spagnuoli, ridotta da quella del Clavigero, come l’istoria degli Oracoli ec. ec.». Il Disegno sulle selve richiama letture ben identificate, come alcuni capitoli del ricordato Génie du Christianisme di Chateaubriand, dove si descrivono foreste antiche nate dopo il diluvio, o come le descrizioni sulla solitudine e la sacralità delle selve presenti in Muratori e La Pérouse, e della totale assenza di civiltà nei popoli primitivi raccontata in de la Martinière e in Picolo. Il legame con l’Abbozzo e l’Inno è riconoscibile nel riferimento alle «foreste d’America non mai penetrate da uomo», le uniche identificate geograficamente nel progetto, al quale va unito quello agli «usi vari massime appresso i popoli lontani, selvaggi», ricondotti proprio all’«immensità delle foreste». Lo spettacolo di un mondo naturale ignaro delle vicende umane, che procede nel suo tempo vitale, ciclico e ricorrente di «vicende, operazioni, morte, successione di generazioni», comparirà, ad esempio, con grande effetto di spaesamento nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo. L’originario proposito didascalico del poema si stempera fino a scomparire per lasciar posto a una visione edenica del mondo silvestre nella quale gli uomini sono ridotti a piccole comunità prive di civiltà o sono del tutto assenti. L’attenzione del poeta è rivolta, già nel 1819, alla possibile, ma irripetibile, «vita beata» di uomini selvaggi, identificati con i primitivi e privi di ogni cultura, e alla totale estraneità della natura rispetto al corso delle vicende umane. Si tratta di motivi forti di un orientamento antropologico che non ha ancora trovato una sua determinazione storico-geografica, ma che prenderà corpo, anche grazie alle letture ‘americane’, soprattutto nella quinta strofa dell’Inno e nelle note dello Zibaldone fino al 1823, per estinguersi con le Operette. Selvaggi e primitivi nello Zibaldone. Se guardiamo alla presenza dei Californi nello Zibaldone il primo cenno ai selvaggi risale alla pagina 49 (presumibilmente scritta nel 1818), dove si ragiona della «favola del pavone vergognoso delle sue

104 Io sono quella che tu fuggi

zampe»; mentre il primo inserimento di un richiamo ai «figli nelle selve» all’interno della discussione sulla società risale al 17 ottobre 1820 (Zib, 283). Ma il rapporto tra popolazioni primitive americane e ‘società larghe’ è testimoniato per la prima volta nel lungo saggio zibaldonico del 30 marzo - 4 aprile 1821 (Zib, 872-911), che ruota intorno al tema dell’amor proprio. Dopo aver asserito che «ridotto l’uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società furono larghissime» (Zib, 874), Leopardi prosegue affermando: Ma siccome l’amor proprio può prendere diversissimi aspetti, in maniera, ch’essendo egli l’unico motore delle azioni animali, esso stesso che è ora egoismo, un tempo fu eroismo, e da lui derivano tutte le virtù non meno che tutti i vizi; così nelle antiche e poche ristrette società (come pure accade anche oggi in parecchie delle popolazioni selvagge che si scoprono, o quando furono scoperte, come alcune Americane) l’amor proprio fu ridotto ad amore di quella società dove l’individuo si trovava, ch’è quanto dire amor di corpo o di patria. (Zib, 878)

Lo Zibaldone ospiterà – un anno dopo la composizione dell’Inno, tra il 21 maggio e il 30 ottobre 1823 – cinque riflessioni che accennano ai Californi. Il pensiero del 21 maggio si conclude con queste lapidarie parole: «Dunque sapientissimi furono gli uomini prima della nascita della sapienza, e del raziocinio sulle cose: e sapientissimo è il fanciullo, e il selvaggio della California, che non conosce il pensare» (Zib, 2711-2712). Il pensiero del 17 agosto presenta i Californi robusti e privi di malattie (Zib, 3179-3182). Quello del 29-30 agosto descrive i Californi nella loro nudità naturale: «le vesti sono affatto ignote p.e. ai Californii» (Zib, 3301-3312). Il pensiero dell’11 ottobre li presenta privi di società e di fuoco (Zib, 3643-3672). E infine in quello del 25-30 ottobre compaiono anche privi di lingua, più simili agli animali sociali che non agli uomini della civiltà moderna, e quindi selvaggi, ma non barbari: «I Californi, popolo di vita forse unico, non avendo tra loro società quasi alcuna, se non quella che hanno gli altri animali, e forse non i più socievoli (come le api ec.), quella ch’è necessaria alla propagazione della specie ec. e credo, nessuna o imperfettissima lingua, anzi linguaggio, sono selvaggi e non sono barbari, cioè non fanno nulla contro natura (almeno p. costume), né verso se stessi, né verso i lor simili, né verso checchessia» (Zib, 3773-3810). La persistenza del modello dei Californi non risente di alcuno svolgimento evolutivo e

Un’antropologia negativa

105

comporta contraddizioni interne alle distinzioni introdotte nel ‘sistema’ leopardiano. In particolare i Californi vengono distinti nettamente dai primitivi, che non vengono mai adeguatamente caratterizzati: i primi abitano nel tempo presente e costituiscono un’umanità documentabile, i primitivi rimangono un paradigma di confronto sempre positivo, ma estraneo al tempo storico. Le annotazioni sui selvaggi e sui primitivi si estendono nello Zibaldone tra il luglio 1820 e il marzo 1822. Esse sono più abbondanti tra il luglio e il novembre 1820, con un’attenzione al mondo orientale, alle civiltà persiana, indiana e araba, ai temi della barbarie, dell’incivilimento e della corruzione; ma sono più dense nel marzoottobre 1821, con un interesse prevalente per l’oriente, e nel gennaio, febbraio e luglio 1822 (in relazione all’Inno ai Patriarchi), per poi tornare nell’agosto-dicembre 1823. Si tratta del gruppo più folto di riflessioni, legate ai popoli precolombiani, dalle quali Leopardi trae materiali per le Operette morali. A partire dal 1824 si riducono molto di intensità; rilevanti quelle del 13 luglio 1826, dove Leopardi scrive: «Gli stati d’animo meno sviluppati, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perché io preferisco lo stato selvaggio» (Zib, 4186); e del 3 ottobre 1828 (Zib, 4399-4400) sui costumi dei Kirghisi, che si collega espressamente al Canto notturno. Tuttavia già nel dicembre 1821 Leopardi introduce nello Zibaldone elementi di riflessione che mettono in crisi l’immagine utopica fino ad allora coltivata. La distinzione cruciale tra selvaggio e primitivo, forse legata anche alla lettura del Solis, attestata nello Zibaldone a partire dal 1° dicembre 1821 (Zib, 2202), e poi soprattutto a quella di de Cieza, riconoscibile a partire dal 15 settembre 1823 (Zib, 3430), è testimoniata dall’individuazione del discrimine della guerra, ben espresso già nel pensiero del 29 dicembre 1821 (Zib, 2305-2306). La guerra diviene elemento di distinzione caratterizzante della civilizzazione umana, riconosciuto presto dallo stesso Leopardi come evento fondativo delle nazioni sia antiche che selvagge – come emerge nel lungo pensiero del 30 marzo - 4 aprile 1821, già ricordato, dove Leopardi scrive tra l’altro: «Dall’esser le guerre, nazionali dovea risultare quest’altro effetto, che avea luogo realmente fra gli antichi, ed ha luogo in tutte le nazioni selvagge, e proporzionatamente in quelle che

106 Io sono quella che tu fuggi

conservano maggiore spirito di nazione, e maggior primitivo, come gli Spagnuoli. Cioè le guerre dovevano essere, a morte, e senza perdono (giacché tutto e ciascuno erano nimici fra loro), senza distinzione ec.» (Zib, 886). In questo passo, che riporta una delle prime riflessioni sulla guerra in relazione ai selvaggi, il riconoscimento della guerra come elemento comune tra antichi e selvaggi consente di individuare un punto di svolta che conduce verso l’immagine negativa del selvaggio. Altre riflessioni sulla centralità sociale della guerra, connessa alla teoria dell’amor proprio ed estesa a tutti gli uomini, compresi i selvaggi e «gli antichissimi», si trovano ad esempio nel pensiero del 25 aprile 1821 – «E certo la guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami della teoria della società, e dell’uomo e dei viventi» (Zib, 985) – e in quello del 31 luglio 1821 – «Il sistema dell’odio nazionale si vede anche oggidì, sì nelle nazioni che meglio conservano la nazionalità (come tra i francesi e gl’inglesi ec.), sì massimamente ne’ selvaggi, i quali, come gli antichissimi, combattono per la vita e le sostanze, non danno quartiere ai vinti, o menano schiave le tribù intiere, sono in perpetua nemicizia fra loro, abbruciano, scorticano, fanno morire fra i più terribili tormenti i nemici della loro tribù ec. ne mangiano le viscere ec. ec. ec.» (Zib, 1422). Rimane il dato, essenziale per comprendere la genesi dell’antropologia negativa leopardiana, di un’assunzione documentata dell’elemento esotico a sostegno e in correlazione a quella esemplarità greco-latina che Leopardi aveva coltivato fin dai suoi studi infantili. Dal selvaggio al barbaro. Si può fissare ora l’attenzione sul punto di svolta della concezione leopardiana della natura umana, attestabile a partire dalla fine del 1822, cercando di porre un ulteriore tassello nella concezione antropologica di Leopardi: quello fornito dalla lettura parallela del Voyage du jeune Anacharsis en Grece (1788) di Jean-Jacques Barthélemy e di una traduzione degli Opuscoli morali di Plutarco (1819-20). Si tratta di letture che rinviano al primo soggiorno romano (23 novembre 1822 - 3 maggio 1823) e che vanno quindi configurate nel quadro di quell’esperienza di vita e di pensiero che condusse Leopardi a

Un’antropologia negativa

107

conoscere direttamente gli ambienti culturali della capitale, traendone da un lato una fonte ampia di documentazione e di ispirazione, dall’altro un disgusto pressoché definitivo per la società moderna e per l’umanità tutta e un attestato della sua insuperabile infelicità. La commistione di riflessioni sul Californio e sul Greco antico emerge a partire dalla fine del 1822 e conduce al riconoscimento della centralità della rappresentazione antropologica dell’uomo greco fornita da Barthélemy. Leopardi aveva incontrato questo straordinario repertorio antropologico sulla Grecia classica già nelle pagine antologizzate delle ricordate Leçons de littérature et de morale di Noël e Delaplace. Si tratta di pagine comunque significative, che forniscono alcuni elementi importanti per un’immagine della grecità svincolata dai tradizionali quadri manualistici e scolastici. Seguiamo qualche tappa di questa svolta antropologica. Il 2-3 febbraio 1823 (Zib, 2268-2269) Leopardi pone il problema della centralità della filosofia pratica e della sua inutilità. Il problema della ricerca di una possibile felicità umana si conferma senz’altro per Leopardi come il dilemma più rilevante, ancorché insolubile. Su di esso la filosofia antica era più accorta di quella moderna, che intende forzare il corso della natura e presume di ritrovare la felicità nel progresso sociale e civile. Anche il pensiero del 4 marzo espone una concezione antropologica generale che appare il primo decisivo punto di svolta verso l’‘antropologia negativa’, oltre che un punto di connessione con l’Abbozzo dell’Inno ai Patriarchi. Emerge qui un quadro nitido della vicenda antropologica che propone la distinzione tra secolo d’oro e secolo d’argento: Leopardi scrive «l’aureo [secolo], al quale le storie non si stendono, e che resta in balìa della favola, fu quello precedente, tale, quale l’ho descritto». Nell’Abbozzo dell’Inno ai Patriarchi aveva invece scritto, come si è ricordato: «Fu certo fu, e non è sogno, né favola, né invenzione di poeti, né menzogna di storie o di tradizioni, un’età d’oro pel genere umano. Corse agli uomini un aureo secolo, come aurea corre e correrà sempre l’età di tutti gli altri viventi, e di tutto il resto della natura». Il passaggio è compiuto: il secolo d’oro è ora «in balia della favola». Anche se permane un solco tra i popoli primitivi e quelli civilizzati, tracciato dalla guerra, che segna la distanza tra un egoismo umano, di specie, tale da non scatenare l’amor proprio

108 Io sono quella che tu fuggi

nella guerra di tutti contro tutti, e un egoismo nazionale, e quindi individuale, che motiva la vicissitudine delle guerre e dei conflitti, e l’affermarsi della negatività naturale degli uomini. L’apice di tale torsione antropologica verrà raggiunto nelle Operette morali, e specificamente nelle prime nove Operette, riconducibili al mondo della mitologia e costituenti il gruppo lucianeo del libro: Storia del genere umano, Dialogo d’Ercole e di Atlante, Dialogo della Moda e della Morte, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo di Malambruno e Farfarello, Dialogo della Natura e di un’Anima, Dialogo della Terra e della Luna, La scommessa di Prometeo. Esse propongono una medesima area tematica, inserendosi nel codice della tradizione umanistica con l’uso sapiente dell’elemento fantastico e mitologico. L’ effetto di straniamento appare evidente fin dalla prima Operetta – la Storia del genere umano –, nella quale Giove si stupisce dell’indeterminatezza umana, motivo dei continui fastidi nella vita degli uomini, e cerca di frapporre intermissioni al tedio che assale l’umanità portandola al suicidio; tra di esse, dopo l’Amore, figlio di Venere celeste, appare il riso, l’ironia intermittente, che illumina un’immaginazione antiantropocentrica. In questa prima Operetta, che inaugura una originale procedura narrativa, volta a eludere le aspettative del lettore, si ritrova tra l’altro l’ultimo accenno ai Californi, quando si immagina che Giove ponga fine all’età dell’oro, introducendo «una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure». La Scommessa di Prometeo, punto di arrivo dell’‘antropologia negativa’. Tra le Operette del gruppo lucianeo la Scommessa di Prometeo evidenzia nel modo migliore l’interesse antropologico di Leopardi, esteso anche alla conoscenza dei caratteri fisici e all’alimentazione, oltre che ai comportamenti sociali e culturali dei popoli americani. Essa mette in scena un confronto tra le popolazioni civilizzate, quelle barbare (qui ormai nettamente distinte dai felici primitivi Californi) e gli «altri animali». Da un lato la Scommessa è l’emblema del disincanto che l’inaridimento del mondo suscita verso le voci che escono dagli antichi miti; dall’altro stabilisce un colloquio serrato con i moderni, e con Voltaire in particolare, che traspare dal confronto

Un’antropologia negativa

109

con il Candide. Il Prometeo o il Caucaso di Luciano, il Protagora di Platone, che contiene la versione platonica del mito di Prometeo, e il Candide sono oggetto di letture attestate fra il novembre del 1822 e il marzo 1824, a ridosso della composizione dell’Operetta (30 aprile - 8 maggio 1824). La dimensione lucianea è accentuata anche dalla scelta della parodia, che si esercita tramite il discorso indiretto su temi riconducibili al mondo della mitologia attraverso un sapiente straniamento dalla tradizionale cornice di riferimento, stilistica ed espressiva. In tale quadro la Scommessa ben descrive il disincanto per l’inaridimento del mondo e lo spaesamento che suscita la lettura dei libri degli antichi in un mondo moderno e assume altresì un ruolo centrale per la radicale critica dell’idea di perfettibilità e l’acquisizione di una consapevolezza anti-antropocentrica. La Scommessa è tra le Operette un unicum, perché risulta la più composita, non soltanto sul piano formale. Essa è una vera e propria ‘menippea’, per l’intreccio di parti narrative e di dialoghi, e segue da vicino il progetto del 1819: «Dialoghi satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti o moderni». Essa fu composta subito dopo il Dialogo della Terra e della Luna e subito prima del Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, che la precedono e la seguono immediatamente nella posizione di tutte le stampe. Essa realizza con evidenza esemplare un esperimento felicemente riuscito di fusione fra la retorica lucianea e quella voltairiana, negando la credenza nella felicità dell’uomo o nella perfettibilità della civiltà umana e con essa anche la possibilità della storia e la liceità della politica come scienza utile all’uomo. Il tema della felicità attraversa dunque le tre Operette passando da una dimensione cosmica a una prospettiva antropologica, a una visione metafisica in rapporto alla durata della vita e alla relatività del tempo. Per inciso, nel Dialogo di un Fisico e di un Metafisico è presente un accenno agli Iperborei che richiama il tema dell’esistenza di un popolo felice, qui collocato nel mondo primitivo e non nel tempo presente, come era accaduto per i Californi. Le tre diverse tappe del viaggio di Prometeo nella Scommessa testimoniano due fasi estreme dell’umanità – quella della barbarie delle prime società e quella della civiltà più avanzata, proponendo tre esempi dell’imperfezione umana sul terreno sociale, con particolare attenzione al nucleo familiare – mentre l’episodio mediano presenta

110 Io sono quella che tu fuggi

analogie con entrambi gli stadi. I due opposti itinerari convergono in più di un punto. Il primo evidenzia uno slittamento sensibile tra la figura del selvaggio e quella del primitivo, laddove il selvaggio, già corrotto dalla ‘caduta’ nella socialità, ha perso gli attributi del primitivo, che pure forse persiste nelle «californie selve», e si è trasformato in barbaro. Il barbaro, dedito alla guerra, ai sacrifici, alla più insensata antropofagia, non è più il primitivo. Leopardi sta abbandonando l’idea che vi siano uomini ‘naturali’, del tutto alieni dalla vita sociale, e anche per questo vicini all’animalità pura, intesa come valore positivo. La presenza dell’animalità nella Scommessa è consistente anche sul piano lessicale come dimostrano le cinque occorrenze del termine ‘animale’ (al secondo posto per quantità, dopo l’Elogio degli uccelli). Come nelle altre Operette del 1824, anche qui è portata a termine la ricognizione sulla natura degli uomini, i più infelici tra i viventi. L’affermazione della barbarie primitiva, frutto terribile dell’entrata dell’umanità nella civiltà sociale e storica, si gioca tutta intorno al tema della dissoluzione dei vincoli più profondamente naturali, come quello familiare e filiale, e comporta l’avvio di una riflessione che conduce alla negazione di ogni possibile riforma sociale e civile dell’umanità. Riflessione che sarà integrata e parzialmente modificata dalle considerazioni del Plotino e della Ginestra sulla «social catena». La distinzione tra barbaro e primitivo vede peraltro quest’ultimo più vicino agli animali, in una vita segnata – come nell’Inno ai Patriarchi e nel relativo Abbozzo – da un ciclo vitale sempre uguale, senza varietà e cambiamento, in un habitat geograficamente determinato e in uno stato perfetto e compiuto di uniformità sociale e di radicamento ambientale. Viceversa nel barbaro è vistosamente impresso il segno della violazione della natura e del carattere costitutivo del pòlemos nella nascita della società. Una distinzione che rientra nel quadro di una teoria monogenetica sull’origine del genere umano, testimoniata da alcuni pensieri dello Zibaldone, quali quelli dell’11 e del 31 ottobre e del 9 dicembre 1823 (Zib, 3665-3667, 3811-3813 e 3961-3962). In tale prospettiva unitaria va letto l’accostamento – compiuto nello Zibaldone del 9 dicembre – dei Macrocefali che, a detta di Ippocrate, deformavano la testa dei bambini allungandola con «la stessa costumanza [ricavata dalla lettura della Crónica del Perú di Cieza] di figurar le teste de’ bambini a lor modo, propria di molte popolazioni

Un’antropologia negativa

111

selvagge dell’America meridionale» (Zib, 3961-3962). La visione del barbaro è connessa alle informazioni recepite dalle principali fonti sui selvaggi americani e soprattutto dal Solis e dal de Cieza. La località colombiana di Popaiàn, posta nella valle del fiume Cauca, richiama un’America remota e affascinante, ai margini della grande civiltà degli Incas, ritenuta da Leopardi – sulla scia dell’Histoire des Yncas di de la Vega e del Saggio sopra l’Imperio degl’Incas di Algarotti – la più rozza e feroce fra le civiltà americane, come risulta evidente da un pensiero del 5 novembre 1823 (Zib, 2833-2834). Inoltre la Crónica di de Cieza attestava gli orribili costumi dei selvaggi anche citando la città di Antiochia nella provincia di Popajan e una cartina dell’America meridionale che presenta con risalto la regione e la città di Popaian è allegata alla Storia di America di Robertson. Il pensiero del 5 novembre mostra la conoscenza del dibattito illuminista sugli Incas e la valorizzazione del loro culto solare, ma anche l’attenzione alla presenza diffusa della barbarie ai margini del loro impero. L’Operetta richiama bene, fin dalle prime battute, tale «intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita». È subito ben evidente – nei «molti segni di abitazione umana» – la presenza di una popolazione primitiva, barbara e non selvaggia. Nel piccolo saggio zibaldonico sopra ricordato, composto tra il 25 e il 30 ottobre 1823 (Zib, 3773-3810), in prossimità della stesura della Scommessa, Leopardi riflette sulla condizione umana nel rapporto tra natura e società. A partire da questa data si addensa la raccolta dei caratteri negativi dei selvaggi, come il costume dei sacrifici e dell’antropofagia, uniti all’accentuazione della distanza fra la società umana e quella animale. È tuttavia questa l’ultima riflessione zibaldonica sul tema, anche se un’eco può trovarsi nel Canto IV dei Paralipomeni della Batracomiomachia, specie nelle stanze 2-6: nella 4 si ricordano ad esempio «quei che selvaggi il volgo appella | che nei più caldi e nei più freddi liti | ignudi al sole, al vento, alla procella, | e sol di tetto natural forniti, | contenti son da poi che la mammella | lasciàr, d’erbe e di vermi esser nutriti, | temon l’aure, le frondi, e che disciolta | dal Sol non caggia la celeste volta». Nell’ordinamento sociale classificato da Leopardi, se si prescinde dalla natura selvaggia della dimensione primitiva, che comporta la felicità assoluta, gli antichi vissero in una «società mezzana o passa-

112 Io sono quella che tu fuggi

bile», lontana dalla barbarie della «società stretta», come pure dalla mitica felicità delle «società larghe» dei selvaggi-primitivi. Leopardi dimostra come «l’uomo è per natura il più antisociale di tutti i viventi che per natura hanno qualche società fra loro», rovesciando un assunto generale e comune: «Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perché avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell’altre, secondo i principii da me in più luoghi sviluppati» (Zib, 3773). A conclusione del suo ragionamento sull’innaturalità e sui danni della «società stretta» Leopardi scrive: Dalle quali cose tutte, parlando in somma, si raccoglie che il dir società stretta, massime umana, è contraddizione, non solo rispetto alla natura ec. ma assolutamente, rispetto a se stessa, ne’ termini, e rispetto alla nozione di queste parole. Perocché società importa quello che disopra (p. 3777. [«(…) all’idea di società assolutamente, la quale importa, moltitudine maggiore o minore d’individui cospiranti in una o altra forma al bene di tutta la moltitudine, e ad essa in niun modo mai, se non accidentalmente, pregiudicanti (…)»]) si è definito; e società stretta importa communione d’individui sommamente nocentisi scambievolmente, e odiatisi in atto gli uni gli altri sopra ogni altra cosa, giacché, stante la natura de’ viventi, non vi può essere società stretta i cui individui non sieno tali, come si è dimostrato. (Zib, 3788)

E che la società stretta sia innaturale è testimoniato – prosegue Leopardi, sulla scia di de Cieza – dalla presenza in essa, fin dalle origini, della barbarie irrefrenabile dei selvaggi americani e della guerra, come riprova l’esempio delle «selvatiche nazioni d’America». Continuando sul motivo della negatività innaturale dell’odio profuso dagli uomini nelle società strette, Leopardi presenta il caso dell’antropofagia attestata in America appoggiandosi a quanto scrive de Cieza. In una nota al lungo pensiero sulla società stretta Leopardi collega ancora una volta le vicende dei popoli americani con quelle antiche e scrive: L’antropofagia era e fu p. lunghissimi secoli propria di forse tutti i popoli barbari e selvaggi d’America, sì meridionale che settentrionale (escludo il paese comandato dagli incas, i quali tolsero questa barbarie, e l’impero messicano e tutti i paesi un poco colti ec.) e lo è ancora di molti, e lo fu ed è di moltissimi altri popoli selvaggi affatto separati tra loro e dagli americani. L’antropofagia fu ben conosciuta da Plinio e dagli altri antichi ec. ec. E forse

Un’antropologia negativa

113

tutti i popoli ne’ loro principii (cioè p. lunghissimo tempo) furono antropofagi. (Zib, 3797)

La riflessione prosegue richiamando la crudeltà dei popoli americani: Le superstizioni, le vittime umane, anche di nazionali e compagni, immolate crudelissimamente agli Dei senza passione alcuna, ma per solo costume; il tormentare il mutilare ec. se stessi per vanità, per superstizione, per uso; l’abbruciarsi vive le mogli spontaneamente dopo le morti de’ mariti; il seppellire uomini e donne in moltissime parti dell’America meridionale; ec. ec. son cose notissime;

e sostenendo il nesso tra società stretta e barbarie: Io noto che generalmente parlando, le dette crudeltà ec. tanto sono più frequenti e maggiori, e le guerre tanto più feroci e continue e micidiali ec. quanto i popoli sono più vicini a natura. E astraendo dall’odio e dagli effetti suoi, non si troverà popolo alcuno così selvaggio, cioè così vicino a natura, nel quale se v’è società stretta, non regnino costumi, superstizioni ec. tanto più lontani e contrarii a natura quanto lo stato della lor società ne è più vicino, cioè più primitivo. (Zib, 3797-3798)

Il passo è significativo perché stabilisce un nesso forte tra le origini della società stretta e l’antropofagia, esplicitato letterariamente nella Scommessa. Sul tema dell’antropofagia tra gli Americani Leopardi tornerà più avanti nello stesso saggio. Tale riflessione sulla società stretta non appare in contraddizione con la visione dei Californi come popolo ‘naturale’, in quanto essi erano stati addotti come prova di una società «larga» e naturale, antecedente le prime società civili, ancorché per tale naturalità muti, dispersi e solitari, quasi ridotti a un’esistenza soltanto vegetativa. La demolizione dell’immagine mitologica del ‘selvaggio felice’ va connessa ai pensieri che precedono la riflessione del 28 novembre 1823 (Zib, 3932-3936), tutta giocata sulla contrapposizione tra «società civile» e «società selvaggia». Nel pensiero del 26 novembre Leopardi scrive: Tra’ selvaggi, come tra gli animali, l’amore, o almeno l’amor vivo tra’ genitori e’ figliuoli, anzi de’ genitori verso i figliuoli, non dura se non quanto è bisogno alla conservazione di questi ec. In quel tempo egli è veramente naturale e d’istinto ec. Ma i selvaggi per barbarie non lasciano di avere talora anche in costume di abbandonare i figli appena nati, o poco appresso ec. di esporli ec. ec., come anche usavano molti antichi civili, e come pur

114 Io sono quella che tu fuggi troppo s’usa anche oggi tra noi in mille casi ec. ec.; e Rousseau espose o tutti o non pochi de’ figli che ricevette dalla sua Teresa Levasseur ec., cose tutte ignote in qualunqu’altra specie di animali, e contro natura se altra mai, e di cui non è capace se non l’uomo ridotto comunque in società, cioè corrotto, e perniciose di loro natura alla specie ec. ec. (Zib, 3920)

Qualche giorno prima, il 19 novembre, Leopardi aveva riferito di una testimonianza antropologica: «Gli Americani consideravano per mostruosità la barba negli europei perocché quei popoli naturalmente erano sbarbati, come i mori e altri popoli d’Affrica ec.» (Zib, 3893). Di ciò aveva scritto anche il 9-10 luglio 1822 (Zib, 2559), ricordando tra gli altri popoli anche «gli Americani che non avevano barba». La messa in questione del ‘selvaggio felice’ risale tuttavia – come ricordato – ben più indietro, alla fine del 1821, quando Leopardi legge il libro di Solis, che aveva presentato le differenti civilizzazioni del Messico e insieme l’inesistenza di primitivi privi di vita organizzata. Peraltro il dialogo tra il selvaggio e Prometeo risulta una parafrasi di un lungo passo tratto dal capitolo 12 del trattato di de Cieza, che Leopardi trascrive per intero in nota «riducendo» «le parole all’ortografia moderna» e aggiungendovi un’accentuazione sul piano psicologico del carattere cinico delle risposte del selvaggio. Il secondo episodio della narrazione procede da una vera e propria fuga di Prometeo, nella quale Leopardi non manca di rilevare con sarcasmo che il Titano rischiava di «essere mangiato dalle sue proprie fatture». Il passaggio dal continente più nuovo a quello più vecchio è motivato per contrasto dal tentativo di Prometeo di trovare nella civiltà più antica ciò che non aveva trovato nei popoli di più recente e ‘barbarica’ civilizzazione («Prometeo, malissimo soddisfatto del mondo nuovo, si volse incontanente al più vecchio»). La città indiana di Agra, situata su un affluente del Gange non lontano da Nuova Delhi, fu un’antica capitale dell’impero Mongolo e ospita il Taj Mahal, considerato una delle più notevoli bellezze architettoniche indiane. Essa viene trascelta a modello di un mondo assimilato alla classicità, così cara al poeta (e della quale però ormai si rigetta ogni mitologica idealità di civiltà felice), ma viene forse trascelta anche per la sottaciuta presenza del mausoleo, che ricorda la devozione muliebre. Il richiamo a una serie di figure classiche ben note a Leopardi («una nuova Lucrezia o nuova Virginia, o qualche emulatrice delle

Un’antropologia negativa

115

figliuole di Eretteo, delle Ifigenie, de’ Codri, de’ Menecei, dei Curzi e dei Deci») rende più forte il contrasto con una vicenda di barbarie ‘religiosa’. Le postille che Leopardi aggiunge sulla condizione psicologica e fisica della vedova, che si avvia al rogo («aveva sempre portato odio al marito, e [che] era ubbriaca»), forse desunte anche da Zadig di Voltaire, rendono talmente insensato e raccapricciante l’episodio da superare il tono stesso del sarcasmo. Leopardi non concede a Prometeo alcuna facoltà di risposta, a conferma della completa squalificazione del Titano, operando uno spostamento improvviso di scenario («Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine una risposta in forma distinta, precisa e dialettica a tutte queste ragioni; ma è parimente certo che non la diede: perché in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di Londra»). Come avviene nel cap. XXI del Candide, dove Candide tenta di replicare a Martino ma il narratore interrompe il dialogo, anche Leopardi alterna il racconto di viaggio con scene di sosta e di azione che rappresentano la risposta della realtà alla discussione teorica sul pessimismo. Si apre al lettore una scena da grand guignol che colpisce come una notizia di cronaca nera («un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti»). E infatti di una vera notizia di cronaca nera si tratta, poiché l’episodio era realmente accaduto a Londra, città modello della modernità, ed era stato descritto, tra l’altro, nel tomo xv dell’Encyclopédie alla voce «Suicide»: si tratta del suicidio di Richard Smith, che fece scalpore nelle cronache europee del 1732. La chiusa dell’Operetta testimonia della tragicità del fallimento di Prometeo, mettendo in scena drammaticamente il tema filosofico del rapporto tra perfezione e imperfezione, ma qui, a differenza del Candide, il comico fallisce e vige il tragico. Se nel mito di Prometeo presentato da Eschilo e marcato dalla massima negativa del «sarebbe meglio per l’uomo non esistere», Prometeo viene visto come il salvatore degli uomini perché ha donato loro una realtà pratica, il fuoco, che ha consentito la civilizzazione e un’illusione, la speranza, che permette di sopportare la negatività della vita, nella Scommessa, con un ribaltamento speculare che contrassegna spesso il modo di pensare leopardiano e che può indicare una voluta relazione con la fonte eschilea, il fuoco e la speranza

116 Io sono quella che tu fuggi

vengono a comprovare maggiormente la negatività antropologica dell’umano: il fuoco è presente nelle sue applicazioni funeste (cuocere gli altri uomini per mangiarli, far ardere la pira per costringere le vedove a non sopravvivere ai loro mariti, uccidere con un’arma da fuoco i propri figli e se stessi), mentre la speranza è definitivamente scomparsa, non lascia più alcuna traccia di sé, né nel selvaggio abbrutito, né nella vedova insensibile e ubriaca, né nel cittadino che agisce per «tedio della vita». Più che il Prometeo della tecnica e del dislivello tra l’umano e il tecnologico, viene qui messo in scena un Prometeo responsabile della creazione stessa dell’umano, e, con essa, della contraddizione insolubile nell’ordine della natura. Si tratta della più compiuta rappresentazione tragica dell’‘antropologia negativa’ leopardiana.

Note di lettur a

Edizioni delle opere leopardiane utilizzate. Crestomazia Italiana. La prosa. Secondo il testo originale del 1827, introduzione e note di Giulio Bollati, Torino, Einaudi, 1968. Dissertazioni filosofiche, a cura di Tatiana Crivelli, Padova, Antenore, 1995. «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti. Inediti, rari e editi 1809-1810, a cura di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1972. Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, 2 voll., Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici e Emanuele Trevi, edizione integrale, Roma, Newton & Compton, 1997. Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di Giuseppe Pacella, 3 voll., Milano, Garzanti, 1991 (riporto, come d’uso, la sigla Zib seguita dal numero della pagina autografa e, quando è presente, dalla data del passo). Letteratura secondaria. Nella vastissima bibliografia leopardiana segnalo i soli volumi direttamente utilizzati nella stesura degli otto capitoli, tralasciando i saggi apparsi su riviste e le opere di rilevanza generale ben note ai leopardisti. Aspetti generali. Della Corte Alessandro, Giacomo Leopardi. Il pensiero scientifico, Scandicci, Firenze Atheneum, 2007. Frattini Alberto, Letteratura e scienza in Leopardi e altri studi leopardiani, Milano, Marzorati, 1978. Giacomo e la Scienza, a cura di Casa Leopardi, Trieste, Società Editoriale Libraria, 1996. Giacomo Leopardi e il pensiero scientifico, a cura di Giorgio Stabile, Roma, Fahrenheit 451, 2001.

118 Io sono quella che tu fuggi Leopardi e lo spettacolo della natura. Atti del Convegno Internazionale Napoli 17-19 dicembre 1998, a cura di Vincenzo Placella, Napoli, L’Orientale Editrice, 2000 [ma 2001]. Negri Antimo, Leopardi e la scienza moderna. «Sott’altra luce che l’usata errando», Milano, Spirali, 1999. Pelosi Pietro, Leopardi fisico e metafisico, seconda edizione riveduta e ampliata, Napoli, Federico & Ardia, 1991 (Salerno, Palladio, 19841). Storia della scienza moderna e contemporanea, a cura di Paolo Rossi, vol. I. Dall’età romantica alla società industriale, tomi 2, a cura di Enrico Bellone e Ferdinando Abbri, Torino, UTET, 1989. Capitolo I. Accademia Montaltina degli Inculti, Leopardi e l’Astronomia. Atti del Convegno Nazionale di Studi, a cura di Luciano Romeo, Gianfranco Abate, F. Walter Lupi, Cosenza, editoriale progetto 2000, 2000. Vaghe stelle dell’Orsa… gli infiniti di Giacomo Leopardi, a cura di Giuseppe Mercenaro e Piero Boragina, Milano, Mazzotta, 2002. Di Meo Antonio, Leopardi Copernicano, Cagliari, Demos, 1998. Leopardi Giacomo, Storia della astronomia dalla sua origine fino all’anno 1813, con uno scritto di Armando Massarenti e un’appendice di Laura Zampieri, Milano, BookTime, 2008 (Milano, La vita felice, 19971). Capitolo II. La situazione delle scienze al tempo della «prima riunione degli scienziati italiani», a cura della Delegazione Pisana dell’a.i.to.m., Pisa, Giardini, 1989. Capitolo III. Abbri Ferdinando, Le terre, l’acqua, le arie. La rivoluzione chimica del Settecento, Bologna, il Mulino, 1984. Atti del terzo Convegno interregionale di Storia del Risorgimento. «La figura e l’opera di Francesco Orioli» (1783-1856). Viterbo 15-16 ottobre 1983, Viterbo, Stab. Tipolitografico Agnesotti, 1986. Giovanardi Stefano, Cioni Gaetano, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, vol. 25, ad vocem. Letteratura e orizzonti scientifici, a cura di Giovanni Baffetti, Bologna, il Mulino, 1997. Schiavon Georgia, Felicità antica e infelicità moderna. L’ epicureismo e Leopardi, Milano, Edizioni AlboVersorio, 2015.

Note di lettura

119

Seligardi Raffaella, Lavoisier in Italia. La comunità scientifica italiana e la rivoluzione chimica, Firenze, Olschki, 2002. Volpi Alessandro, La «filosofia della chimica». Un mito scientista nella Toscana di inizio Ottocento, Firenze, Olschki, 1998. Capitolo IV. Aloisi Alessandra e Prete Antonio, Il gallo silvestre e altri animali, Lecce, Manni, 2010. Cellerino Liana, L’ io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997. Le creature dimenticate, a cura di Luisella Battaglia, Cesena, Macro edizioni, 1998. Prete Antonio, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Milano, Feltrinelli, 20062 (Feltrinelli, Milano, 19801). Capitolo V. Campana Andrea, Leopardi e le metafore scientifiche, Bologna, Bononia University Press, 2008. Capitolo VI. Marchesini Roberto, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2002. Capitolo VII. Verhulst Sabine, La «stanca fantasia». Studi leopardiani, prefazione di Emilio Pasquini, Milano, FrancoAngeli, 2005. Capitolo VIII. Balzano Marco, “I confini del sole”. Leopardi e il Nuovo Mondo, Venezia, Marsilio, 2008. Curi Umberto, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.

Indice dei nomi

Abramo, 99 Alberto Magno di Bollstädt, 77 Alembert Jean-Baptiste Le Rond d’, 24, 65 Algarotti Francesco, 6, 38, 97-98 Altieri Lorenzo, 63 Amelio Gentiliano, 58 Anassimandro di Mileto, 33 Arcimboldi Giuseppe, 76 Aristarco di Samo, 8 Aristotele di Stagira, 31 Bacone Francesco, 67 Bailly Jean-Sylvain, 6, 8 Balaam, 46-47 Balak, re dei Moabiti, 46 Barthélemy Jean-Jacques, 106-107 Baumé Antoine, 37 Bayle Pierre, 60-61 Bergman Torbern O., 44 Bonaparte Carlo Luciano, 59 Bordoni Antonio, 24 Botta Carlo, 21 Brahe Tycho, 85 Brisson Mathurin-Jacques, 44 Brugnatelli Luigi Valentino, 37 Bruno Giordano, 13 Buffon Georges-Louis Leclerc conte di, 34, 51, 58 Callimaco di Cirene, 99

Calvino Italo, 13 Capponi Gino, 81 Carli Gian Rinaldo, 98 Cartesio vedi Descartes René Castel Louis Bernard, 76 Casti Giambattista, 47, 59 Cattaneo Carlo, 81 Cauchy Augustin-Louis, 24, 30 Caus Isaac de, 78 Caus Salomon de, 78 Chaptal Jean-Antoine Claude, 37 Chateaubriand François-Auguste, 98, 103 Cicerone Marco Tullio, 43 Cieza Pedro de, 97-98, 105, 110-112, 114 Cioni Gaetano, 42-44 Ciro II, re di Persia, noto come Ciro il Grande, 46 Clavigero Francesco Saverio, 98, 103 Colletta Pietro, 59 e n Colombo Cristoforo, 13 Compagnoni Giuseppe, 38-39 Condillac Étienne Bonnot de, 39 Copernico Niccolò, 3-5, 7-8, 12, 18 Cossa Giuseppe, 24 Cusano Nicola, 8 Dandolo Vincenzo, 30, 37-39, 44 Dante Alighieri, 68 Davy Humphry, 41, 80 De Clariana Antonio, 64

Giacomo Leopardi, per ovvi motivi, non viene indicizzato.

122 Io sono quella che tu fuggi Dedalo, 59-60 Defoe Daniel, 28 Delaplace François-Marie-Joseph, 98, 107 Descartes René, 6, 23-24, 52, 68, 78 Destutt de Tracy Antoine-Louis-Claude, conte, 39 Dutens Louis, 40 Eschilo di Atene, 115 Euler Leonhard, 23-24, 65 Fabricius David, 9 Forcellini Egidio, 97 Galilei Galileo, 3-5, 7, 9, 19-22, 34, 6768, 89 Gelli Giovan Battista, 20 Gerberto di Aurillac (Silvestro II), papa, 77 Gioberti Vincenzo, 59 Gioia Melchiorre, 81 Giorgi Ferdinando, 44 Giuseppe, 101 Goethe Johann Wolfgang, 76 Gruithuisen Franz von Paula, 9 Halley Edmund, 2 Hauch Johannes, 53 Herschel Friedrich Wilhelm, 2, 9, 13 Hoffmann Ernst, 78 Hume David, 27 Huygens Christiaan, 11 Jacquier Francisque, 63-64, 66 Jaquet-Droz Henri-Louis, 78 Jaquet-Droz Pierre, 78 Jenner Edward, 50

Lalande Joseph Jérome Le Français de, 6, 9 La Perouse Jean Francois de Galaup conte de, 98, 103 Laplace Pierre Simon de, 3 Lavoisier Antoine-Laurent, vii, 37-40, 44 Leibniz Gottfried Wilhelm, 23-24, 52, 68 Lémery Nicolas, 37 Leonardo da Vinci, 77 Leopardi Carlo, 23, 50, 53, 63 Leopardi Monaldo, 1, 21-22, 37, 49, 73 Leopardi Paolina, 23, 50 Le Seur Thomas, 63 Levasseur Teresa, 114 Linné Carl von, 51 Locke John, 28, 69 Luciano di Samosata, 86, 109 Lucrezio Tito Caro, 42 Magalotti Lorenzo, 20 Mamiani della Rovere Terenzio, 17, 43, 82 Manzoni Alessandro, 44 Martinière Antoine-Augustin Bruzen de la, 98, 103 Martone Mario, v Maupertuis Pierre-Louis Moreau de, 30, 39 Menippo di Gadara, 86 Meyendorff Aleksandr Kazimirovič barone di, 15 Moniglia Vincenzo, 48 Mosè, 46 Muratori Lodovico Antonio, 98, 103

Kant Immanuel, 35 Kempelen Wolfgang von, 77-78 Keplero Johannes, 85

Newton Isaac, 2, 5, 63-64, 67-69, 89-90 Niccolò da Cusa vedi Cusano Nicola Noël Jean-François, 98, 107 Nollet Jean Antoine, 65

Lagrange Joseph-Louis, 24

Omero, 68

Indice dei nomi

Orfeo, 9 Orioli Francesco, 42-44 Paoli Domenico, 10-11, 42-44 Paoli Pietro, 24 Piazzi Giuseppe, 2 Picolo François Marie, 98, 103 Piola Gabrio, 24 Pitagora di Samo, 8 Platone di Atene, 69, 109 Plinio Gaio Secondo detto il Vecchio, 112 Pluche Noël-Antoine, 50 Plutarco di Cheronea, 106 Poli Saverio, 30, 37-38, 63 pseudo-Omero, 47 Raynal Guillaume-Thomas-Francois, 98 Regiomontano (pseudonimo di Johannes Müller), 77 Robertson William, 97-98, 111 Romagnosi Giandomenico, 81 Rorario Gerolamo, 60 Rousseau Jean-Jacques, 48-49, 54, 114 Rovelli Carlo, v

123

Saint-Pierre Bernardin de, 76, 98 Segneri Paolo, 20 Senofane di Colofone, 51 Shakespeare William, 68 Simplicio, 34 Sinner Louis de, 90-91 Smith Richard, 115 Solis Antonio, 97-98, 105, 111, 114 Starita Saverio, 25 Stratone di Lampsaco, 10, 60 Tommasini Giacomo, 43 Torres José de, 98 Tour Cagniard de la, 73 Ulloa Antonio de, 10 Vaucanson Jacques de, 77-78 Vega Garcilasso de la, 98, 111 Vico Giambattista, 68 Vieusseux Giovan Pietro, 42-43, 79, 81 Virgilio Publio Marone, 13 Volta Alessandro, 41, 80 Voltaire (pseudonimo di FrançoisMarie Arouet), 6, 108, 115 Zanotti Francesco Maria, 20, 30

Indice del volume

Prefazione

v

I.

Astronomia, cosmologia e cosmogonia: uno sguardo sul cosmo

1

Un bambino curioso del cielo

1

Le opere astronomiche giovanili

2

Astronomia e cosmologia: una visione cosmica che si fa letteratura e poesia

7

II.

III.

IV.

Un Galileo in chiaroscuro

19

La matematica: una ragione calcolante

23

Gli studi matematici giovanili

23

Disinteresse per la matematica moderna e riflessione sulla ‘matematizzazione del mondo’

24

Matematica, ragione analitica e natura umana

25

All’origine del concetto di numero

27

La matematica ‘sublime’

29

Riflessioni sull’infinito, tra matematica e poesia

30

La chimica e il materialismo

37

La passione giovanile per la chimica

37

Il linguaggio della nuova chimica

39

La nuova chimica e le sue scoperte

40

Chimica e ‘stratonismo’

41

Gli amici chimici

42

La riflessione sul vivente: animali, biologia e materialismo

45

«Entro dipinta gabbia»: studi naturalistici, esercizi letterari e passione per gli animali

45

Favole e dialoghi naturalistici

48

126 Io sono quella che tu fuggi

V.

VI.

Un pensiero dell’animalità

50

L’Elogio degli uccelli

57

«L’io del topo, del can, d’altro mortale»

59

Scienze fisiche

63

Le scienze fisiche negli studi giovanili

63

Interessi sperimentali e newtonianesimo

65

La fisica nello Zibaldone: il newtonianesimo e i suoi limiti

66

Nozioni di fisica e metafore fisiche

69

Dalla fisica alla metafisica

70

Automi e macchine

73

Strumenti e automi in casa Leopardi

73

Automi e meccanismi della natura

74

Metafore e paragoni

75

Ironie sulla tecnica nelle Operette morali

76

E sarcasmo disincantato nei Canti

78

VII. Il rapporto tra antichi e moderni: una storia della scienza e della tecnica?

83

Errori popolari degli antichi e ragione moderna

83

Errori e favole poetiche

86

Uno «scetticismo ragionato e dimostrato»

87

Errori felici degli antichi e facoltà intellettive dei moderni

89

VIII. Un’antropologia negativa: la concezione dell’umano (antichi, selvaggi, primitivi, barbari), tra utopia e disincanto

95

‘Antropologia negativa’

95

I ‘Californi’

96

Selvaggi e primitivi nello Zibaldone

103

Dal selvaggio al barbaro

106

La Scommessa di Prometeo, punto di arrivo dell’‘antropologia negativa’

108

Note di lettura Indice dei nomi

117 121

argomenti

1.*

Piero Calamandrei, Diario. I. 1939-1941, 2015, pp. xxxiv-494.

1.** Piero Calamandrei, Diario. II. 1942-1945, 2015, pp. iv-620. 2.

Gaspare Polizzi, Io sono quella che tu fuggi. Leopardi e la natura, 2015, pp. viii-136.