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Italian Pages 176 Year 2021
CULTURA Studium 248.
La Dialettica
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giulia tosti
io e tu Il pensiero di Martin Buber
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Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium “Cultura” ed “Universale” sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www. edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
Copyright © 2021 by Edizioni Studium - Roma ISSN della collana Cultura 2612-2774 ISBN 978-88-382-5120-7 www.edizionistudium.it www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
INDICE
Introduzione 7
I. Primi passi 13 1. La famiglia: il primo luogo della scoperta dell’incontro, p. 13. - 2. Gli anni della formazione, p. 15. - 3. L’esperienza universitaria, p. 19. - 4. La lezione dello storicismo tedesco, p. 21.
II. Sionismo e socialismo 24 1. Le radici del sionismo, p. 24. - 2. L’attivismo sionista di Buber, p. 27. - 3. L’incontro con Landauer e con il socialismo, p. 29. - 4. Vecchia e nuova comunità, p. 31. - 5. Landauer in Sentieri in utopia, p. 35.
III. Incontro con il chassidismo 38 1. Martin Buber: un chassid sui generis, p. 39. - 2. La mistica nel pensiero giovanile di Buber, p. 42. - 3. Chassidismo ed ebraismo, p. 46.
IV. Prima del dialogo 51 1. La filosofia predialogica, p. 52. - 2. Daniel. Cinque dialoghi estatici, p. 57. - 3. Temporalità dell’esistenza ed esistenza temporale, p. 60. - 4. Mito: “funzione dell’anima”, apertura al reale, p. 61. - 5. Interumano: il luogo del dialogo, p. 63.
V. Dalla teosofia alla teologia biblica 65 1. La relazione con Rosenzweig, p. 66. - 2. L’abbandono della mistica, p. 71. - 3. La traduzione della Bibbia, p. 73.
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indice
VI. Il pensiero dialogico 79 1. La proposta dialogica, p. 79. - 2. Ich und Du all’interno della bibliografia buberiana, p. 81. - 3. Due parole fondamentali, p. 83. 4. L’eccessivo spazio del mondo dell’esso, p. 93. - 5. Relazione con il Tu eterno, p. 97.
VII. La maturità 105 1. Lo sviluppo del pensiero dialogico, p. 105. - 2. 1926: Sull’educativo, p. 107. - 3. 1930: Dialogo, p. 110. - 4. 1936: La domanda rivolta al singolo, p. 113. - 5. Il senso della bibliografia buberiana dal 1923 al 1938, p. 117.
VIII. Migrazione in Palestina 119 1. 1943: Il problema dell’uomo, p. 121. - 2. 1950: Distanza originaria e relazione, p. 124. - 3. 1952: L’eclissi di Dio, p. 128. - 4. 1954: Elementi dell’interumano, p. 131. - 5. L’idea di comunità, p. 133. - 6. 1950: Sentieri in utopia, p. 138. - 7. Martin Buber: maestro di dialogo, p. 143.
Conclusione 147 Bibliografia 159 Indice dei nomi 169
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Introduzione
“Qui sta l’uguaglianza [...] di tutti coloro che si amano. Dal più piccolo al più grande, dal felice che si sente al sicuro, perché la sua vita trova compimento nella persona amata, a colui che inchiodato tutta la vita alla croce del mondo, può e osa l’inaudito: amare gli uomini” (Martin Buber, Io e tu)
Nel 1930 Martin Buber scrive: Solo colui che intende l’altro uomo come tale e a lui si rivolge, riceve in lui il mondo. Solo l’essere la cui alterità, accettata dal mio essere, vive di fronte a me nello spessore della sua esistenza, mi porta il raggio dell’eternità. Solo quando due, con tutto sé stessi, si dicono l’un l’altro: “Sei tu!”, colui che è ha preso dimora tra loro 1.
Poche righe che annunciano un messaggio nuovo che chiama all’incontro autentico, alla relazione capace di aprire una breccia nell’eternità. Si coglie l’originalità del messaggio buberiano solo se lo si rapporta al modo con cui si è soliti guardare alla modernità. Il pensiero moderno nasce incuneato all’interno della scissione cartesiana fra soggetto e oggetto e cresce aprendo le braccia all’idealismo. Dopo Cartesio il mondo, l’altro, Dio, appaiono solo alla fine, quando l’azione negativa del dubbio non è in grado di procedere oltre. Si perde così il realismo contenuto nella categoria di “incontro”, la datità come fattore originario ed indubitabile della vita e della conoscenza. L’ego cogito trionfa solitario in un mondo spettrale. Questo solipsismo idealistico del pensiero moderno trova in Buber il suo punto d’arresto, il punto di svolta in direzione di un pensiero che segna, in profondità, la filosofia del xx secolo 2. Con lui stanno Franz Rosenzweig (1886-1929), Ferdinand Ebner (18821931) e Gabriel Marcel (1889-1973), un gruppo di pensatori che daranno avvio al “pensiero dialogico”. Si tratta di un’eredità novecentesca che, come 1 M. Buber, Zwiesprache, Schocken, Berlin 1932, trad. it. Dialogo, in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, San Paolo, Milano 1993, p. 216. 2 La medesima suggestione è condivisa con alcuni autori contemporanei, che tentano di disegnare i contorni di una modernità altra, incentrata sulla relazione. Sul tema si cfr. AA. VV., «Entre» La filosofia oltre il dualismo metafisico, a cura di M. Marianelli, Tracce, Roma 2020.
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introduzione
afferma Silvano Zucal, «non è stata ancora assunta, valorizzata e meditata» 3. Sorta in un panorama di rinnovata attenzione all’altro, la filosofia dialogica profuma di svolta epocale grazie al suo originale portato ontologico che fa emergere elementi nuovi rispetto al pensiero della modernità. Il cuore della prospettiva dialogica risiede nella concezione del linguaggio che accade, luogo della mediazione fra l’Io e il Tu, posto che l’Io e il Tu siano capaci di entrare in una relazione tale da dare alla luce quello stesso spazio intermedio. Questa nuova prospettiva si pone in netta discontinuità con la concezione, tipicamente moderna, dell’essere radicato nel cogito; concezione che va in crisi tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 e lascia spazio a forme di ontologia relazionale 4. Il pensiero dialogico inserisce la domanda sull’essere in un orizzonte più ampio che «la fa essere pienamente vera» 5 grazie al recupero dell’alterità. Il tra accade all’interno di un’apertura, nella mediazione della parola che chiede «di entrare in rapporto con il Tu» 6. Collocato in questo scenario la specificità del pensiero di Buber risiede nel suo incessante dialogo tra le dimensioni di cui fa esperienza. Le sue opere rappresentano il prodotto del fertile incontro tra la prospettiva filosofica, la dimensione religiosa e l’attivismo politico 7. Non è, il suo, un pensiero astratto, meramente speculativo. Il logos appare ogni volta “incarnato”, “vissuto”, caricato del pathos dell’esistenza e della storia: Non era, disse, interessato a comunicare le idee in sé stesse, ma solo a comunicare agli altri le proprie esperienze personali. Se impiegò il linguaggio e i metodi della filosofia, ciò avvenne perché non era a conoscenza di alcun altro modo per trasmettere agli altri le intuizioni da lui avute come individuo 8. S. Zucal, Premessa a B. Casper, Das Dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber, Alber, Freiburg-München 2002, tr. it. Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber, a cura di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 2009, p. 5. 4 Si veda R. Guardini, Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebending-Konkreten, Mainz 1925, trad. it., L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, a cura di G. Sommavilla, in R. Guardini, Scritti filosofici, 2 voll., Fabbri, Milano 1964, vol. I, pp. 3-132. 5 S. Zucal, Premessa a B. Casper, Op. cit., p. 18. 6 Ibid., p. 15. 7 Si veda W.B. Goldstein, Der Glaube Martin Bubers, Rubin Mass, Jerusalem 1969; AA. VV., Leben als Begegnung. Ein Jahrhindert Martin Buber (1878-1978). Vorträge und Aufsätze, Veröffentlichungen aus dem Institut Kirche und Judentum bei der kirchlichen Hochschule Berlin, Berlin 1978; J. Bloch – H. Gordon, Martin Buber. Bilanz seines Denken, Herder, Freiburg 1983. 8 P. Vermes, Buber, Peter Halban, London 1988, trad. it., Martin Buber, San Paolo, Milano 2016, p. 5. 3
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introduzione
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Il distacco di Buber dal novero di coloro che sono considerati filosofi in senso stretto nasconde, in realtà, un pensiero ricco e originale. Come non vuole farsi conoscere in quanto filosofo rifiuta anche di essere considerato un teologo, sentendosi inadatto a pronunciarsi sulla natura di Dio. Pur riconoscendo la presenza dell’elemento teologico come base del suo pensare, questo non deriva da qualcosa di tradizionale 9 ma piuttosto da un’esperienza religiosa. Per comprendere a pieno il valore della sua produzione, è importante sottolineare la svolta che in essa compie a partire dagli anni ‘20. Gli scritti precedenti a Ich un Du, l’opera che nel 1923 inaugura il “pensiero dialogico”, vedono l’autore immerso in una mistica dell’Uni-totalità. La tesi di laurea, La storia del problema dell’individuazione: Nicola da Cusa e Jacob Boehme 10, ne porta chiaramente il timbro. Il volume del 1923 segna una rottura con questa prospettiva monistica ed inaugura il “pensiero” di Buber. La relazione autentica, fulcro del pensiero dialogico, rigetta la possibilità che l’Io assorba il Tu. Il nuovo realismo buberiano si oppone frontalmente ad ogni teosofismo idealistico. Dal 1925 si occupa inoltre della traduzione della Bibbia, un’opera che lo impegnerà, prima al fianco di Rosenzweig e poi da solo, fino agli ultimi anni della sua vita. Il lavoro di traduzione viene accompagnato da un intenso impegno di carattere esegetico, linfa vitale per la costruzione di un pensiero che dalla teosofia si volge ora sempre più verso la teologia biblica: L’attività esegetica di Buber non fu da meno della sua opera di traduttore; e in realtà i due aspetti non sono separati, perché la traduzione, soprattutto nel senso in cui la intendono Buber e Rosenzweig, è già un esegesi e il commento non è una teologia sistematica bensì una lettura esegetica 11.
Al pensiero dialogico e al lavoro esegetico vanno poi ad aggiungersi gli altri due fattori che concorrono alla formazione di una personalità geniale 9 È Buber stesso ad usare queste parole nel definire la sua riflessione teologica; la citazione buberiana è presente in lingua originale in P.A. Schlipp e M. Friedman, The Philosophy of Martin Buber, Cambridge University Press, London 1967, p. 690. 10 P. Vermes, Op. cit., p. 7. Si veda anche F. Ferrari, Il rinascimento in Buber, saggio introduttivo a M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme. Per la storia del problema dell’individuazione, edizione critica a cura di F. Ferrari, il Melangolo, Genova 2013. 11 A. Poma, La parola rivolta all’uomo occidentale, saggio introduttivo a M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 17. Per ulteriori approfondimenti sulla traduzione buberiana della Bibbia si rimanda a M. De Villa, Una Bibbia tedesca. La traduzione di Martin Buber e Franz Rosenzweig, Cafoscarina, Venezia 2012.
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introduzione
e poliedrica: il sionismo e lo chassidismo. Nel suo impegno sionista Buber appartiene alla minoranza di coloro che si battono a favore di una convivenza pacifica tra ebrei e arabi in Palestina; un sogno portato avanti tra molte delusioni e consegnato nel suo saggio del 1947 Sentieri in Utopia 12. La predilezione per lo chassidismo, un particolare filone della spiritualità ebraica, emerge in una serie di saggi: si pensi ai celebri La mia via al chassidismo, Gog e Magog, Il messaggio del chassidismo e il chassidismo e l’uomo occidentale 13. Rispetto alla mistica teosofica degli esordi lo chassidismo rappresenta il “ritorno alla realtà”. Diversamente da una fede che persegue l’unificazione mistica con l’Uno lo chassidismo invita a guardare, a vedere gli esempi di vita. Attraverso di essi si palesa il mistero del mondo. Si tratta, ancora una volta, di un atteggiamento pratico, non primariamente speculativo. Così, nella rassegna degli autori del pensiero dialogico offerta da Hans Urs von Balthasar 14, la proposta buberiana è colta nella sua valenza teologica: l’elemento spirituale rappresenta un’importante direttrice di senso, da analizzare e conoscere per comprendere fino in fondo il valore di questa prospettiva. Martin Buber fu autore di un ampio numero di opere dal valore filosofico, ma non fu un filosofo; fu autore di altrettanti scritti di ricerca teologica, ma non fu un teologo. Secondo Pamela Vermes e Bernhard Casper, fu una guida capace di tracciare un sentiero 15. È lui, l’autore del dialogo fra l’Io e il Tu, coinvolto direttamente nella dimensione dialogica e nell’incontro con l’altro. A partire da questa prospettiva di dialogo vivo, sorge il pensiero esperienziale di colui che vive e pensa in prima persona. Il suo pensiero così cambia, cresce o, meglio, cammina, tracciando una strada da donare a tutti coloro che si confrontano con il suo pensiero: 12 M. Buber, Pfade in Utopia, Lambert Schneider, Heidelberg 1950, trad. it. Sentieri in Utopia, a cura di D. Di Cesare, Marietti, Bologna 2020. 13 M. Buber, Mein Weg Zur Chassidismus. Erinnerungen, Rütten und Loening, Frankfurt 1918, trad. it. La mia via al chassidismo. Ricordi, in Id., Storie e leggende chassidiche, Mondadori, Milano 2008; M. Buber, Gog und Magog. Eine Chronik, Lambert Schneider, Heidelberg 1943, trad. it. Gog e Magog, Bompiani, Milano 1967; M. Buber, Die chassidische Botschaft, Lambert Schneider, Heidelberg 1952, trad. it., Il messaggio del chassidismo, Giuntina, Firenze 2012; M. Buber, Der Chassidismus und der abendlädische Mensch, Lambert Schneider, Heidelberg 1956, trad. it., Il chassidismo e l’uomo occidentale, a cura di F. Ferrari in M. Buber, il Melangolo, Genova 2012. 14 H.U. von Balthasar, Einsame Zwiesprache, Joannes Verlag, Freiburg 1993, trad. it. Dialogo Solitario. Martin Buber e il cristianesimo, a cura di S. Zucal, Jaca Book, Milano 2006. Si veda anche a I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma 2002 e a AA. VV., Il pensiero ebraico del Novecento, a cura di A. Fabris, Carocci, Roma 2015. 15 P. Vermes, Op. cit., p. 8.
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introduzione
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La biografia di Buber è piena di questo impegno a partire dalla situazione, un impegno che lo ha reso simile ad uno Zaddiq 16, un saggio o una guida del popolo di Israele e degli uomini 17.
Il risultato è un pensiero continuamente corroborato dalle esperienze vissute e che, parallelamente, non smette mai di parlare alla vita degli uomini, indicando una nuova via entro la quale riscoprire l’autentica relazione. Nell’incontro con Buber è dunque necessario saper cogliere in ogni sua opera le molteplici sfaccettature biografiche, esperienziali e teoretiche che sempre vi si trovano, per vedere come egli «trasse e riformulò la verità che tanti, sia ebrei che non ebrei, hanno riconosciuto come necessaria per lo sviluppo e la pienezza della persona umana» 18. Una verità che chiede un ritorno alla relazione tanto nelle dissertazioni filosofiche, quanto nella prospettiva religiosa e nell’attività politica. A testimoniare il valore della proposta buberiana non mancano voci illustri che scelgono di camminare, almeno in parte, sulla strada da lui tracciata, voci per le quali Buber rappresenta «l’ebreo che rappresenta il XX secolo – l’ebreo rappresentativo per eccellenza» 19. Tra questi è Gabriel Marcel, protagonista anche lui del pensiero dialogico del ‘900, che ha sempre indicato in Buber un maestro 20. La stessa stima emerge nelle parole di André Lacoque, che scrive: È grazie a lui che il mio pensiero ha trovato la propria direzione, nonostante io non possa considerarmi suo allievo nel senso classico del termine [...] Sul dialogo, sull’incontro, sulla creazione reciproca di “Io e “Tu” il filosofo non ha soltanto scritto: sapeva dialogare 21. 16 Zaddiq (in ebraico, “il giusto”) è un titolo onorifico usato nell’ebraismo, generalmente conferito a coloro che vengono considerati giusti, come un personaggio biblico, un maestro spirituale o un rabbino. 17 B. Casper, Op. cit., p. 282. 18 P. Vermes, Op. cit., p. 12. 19 AA. VV., Martin Buber, l’homme et le philosophe, Editions de l’Institut de Sociologie de l’Université Libre de Bruxelles, Bruxelles 1968; M. Buber, Reply to Gabriel Marcel e Reply to Emmanuel Lévinas, in AA. VV., The Philosophy of Martin Buber, The Library of Living Philosophers, vol. 12, Open Court, La Salle III. 1967; The Philosophy of Dialogue, in AA. VV., Philosophical Interrogation, Rinehart and Winston, New York 1964; Dialogue avec Martin Buber, in E. Lévinas, Noms Propes, Fata Morgana, Montpellier 1976. Ed. It. Il mito della relazione, a cura e con uno studio di F. Riva, Castelvecchi, Roma 2016, p. 17. 20 Si veda E. Lévinas, Martin Buber, in Id., Hors Sujet, Fata Morgana, Montpellier 1987, trad. it. Fuori dal soggetto, Marietti, Genova 2018. 21 AA. VV., Il mito della relazione, cit., pp. 65-66.
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introduzione
Altra voce significativa è quella di Emmanuel Lévinas (1906-1995) per il quale il pensiero buberiano costituisce una «meditazione sulle fonti ebraiche» in grado di abbracciare «tutti i problemi del nostro tempo» 22. Si tratta di conferme importanti che sottolineano la profonda ricchezza, nonché l’attualità della riflessione buberiana. Bernhard Casper nella conclusione della sua opera scrive: Il male che annienta l’uomo non lo minaccia dall’esterno, ma cresce nell’uomo stesso. E oggi, grazie alle opportunità che l’uomo ha a disposizione, esso è in grado di portare la vita di tutta l’orbita terrestre verso una catastrofe capace di annientare tutto. Orientarsi alla capacità dell’uomo di rispettare, nell’avere bisogno dell’Altro, la sua assoluta dignità e così facendo di prendere sul serio il tempo della sua esistenza insieme agli altri uomini come sfida, adorando Dio, quel Dio che, nel tempo, non gli è estraneo: è questa l’unica indicazione che può promettere la salvezza. Il significato del pensiero di [...] Buber, così, sta nel fatto che attraverso di esso viene resa accessibile la fattualità dell’esistenza radicata nell’accadere del linguaggio e della solidarietà tra gli uomini come esistenza che spera e che attraverso il messaggio biblico è rivolta alla sfida 23.
La lezione dialogica costituisce una risorsa straordinaria, una prospettiva radicale che si erge a difesa contro le tragedie che sembrano incombere sull’umanità, qualora essa non dovesse essere capace di guardare a sé stessa con spirito solidale, con la volontà di entrare in relazione con l’Altro, lasciando che il dialogo accada fra l’Io e il Tu.
22 23
Ibid., p. 51. B. Casper, Op. cit., p. 375.
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I.
Primi passi “Le relazioni dell’esperienza vissuta realizzano nel tu che incontrano il tu innato. [...] L’uomo diventa io a contatto con il tu.” (Martin Buber, Io e Tu)
1. La famiglia: il primo luogo della scoperta dell’incontro Buber nasce a Vienna l’8 febbraio 1878 da Karl Buber e Elise Wurgast. Il matrimonio dei genitori naufraga tre anni dopo la nascita del piccolo Martin e la madre, Elise, abbandona il tetto coniugale 1. Questo fatto porta con sé due diverse conseguenze: in primo luogo, egli trascorre la sua fanciullezza con i nonni paterni a Leopoli 2, nella regione austroungarica della Galizia 3, venendo a contatto con un ambiente di «raffinata cultura ebrai1 I frammenti autobiografici lasciati dall’autore possono essere letti in lingua originale in M. Buber, Begegnung: Autobiographische Fragmente, W. Kohlhammer, Stuttgart 1960 e in M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, I-III, Lambert Schneider, Heidelberg 1972, tre ampi volumi che raccolgono la sua corrispondenza. Per approfondire la vita di Buber si veda M. Friedman, Martin Buber. The life of dialogue, Harper & Row, New York 1960, M. Catanne, A Bibliography of Martin Buber’s Works (1895-1957), Mosad Bialik, Jerusalem 1961, H. Kohn, Martin Buber. Sein Werk und seine Zeit, Meltzer, Köln 1961, AA. VV., Martin Buber, a cura di M. Friedman e di P.A. Schlipp, «Philosopen des XX Jahrhunderts», Kohlhammer, Stuttgart 1963, W.B. Goldstein, Martin Buber. Gespräche, Briefe, Worte, Rubin Mass, Jerusalem 1967, M. Cohn-R. Buber, M. Buber. A Bibliography of his Writings 1897-1978, Mages Press, Jerusalem 1980. 2 Leopoli viene fondata attorno alla metà del XIII secolo; conquistata dal Regno di Polonia nel 1340, passa sotto il dominio asburgico a seguito della divisione della confederazione polacca del XVIII secolo. Divenuta capitale del Regno di Galizia, cresce quadruplicando la sua popolazione in meno di duecento anni. Il tedesco è la lingua ufficiale, parlata anche all’interno dell’Università qui fondata nel 1784. Chiusa per poco più di un decennio nei primi anni del 1800, diviene poi motore propulsore del tentativo di germanizzare il sistema scolastico e culturale della città. Questo progetto si inasprisce a partire dal XIX secolo, al punto che molte organizzazioni che non avevano un esplicito atteggiamento pro-germanico vengono chiuse. 3 La Galizia cui qui si fa riferimento è una zona geografica localizzata al crocevia tra Europa centrale e orientale. Prima parte del Principato di Galizia-Volinia, entra poi a far
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io e tu
ca» 4. Il nonno, Salom Buber, oltreché essere un uomo facoltoso in quanto banchiere, mercante e proprietario di una miniera, viene ricordato come un uomo dotto: capo della comunità ebraica della città, è illustre studioso della tradizione culturale del suo popolo. In misura ancora maggiore è la nonna, Adele Buber, ad influenzare il piccolo Martin, tramettendogli in maniera indissolubile la sua passione per la letteratura tedesca, nonché per la parola e per il linguaggio tout court: Suo nonno, ricorda Buber, “era un autentico filologo, un amante della parola, ma l’amore di mia nonna per la parola pura mi influenzò ancor più fortemente del suo, poiché questo amore era così immediato e così devoto” 5.
La seconda importante conseguenza del distacco materno è il senso di abbandono che questo evento provoca nel piccolo Buber: Preso da un senso di perdita, il bimbo attese impaziente, ma nel silenzio, il ritorno della mamma; in sua presenza il nome di quest’ultima non venne mai menzionato dai nonni ed egli si astenne dal fare loro delle domande in proposito. Più o meno un anno dopo, però, mentre era solo sul balcone di casa con una ragazza incaricata dai nonni di badare a lui per un po’ di tempo, ella gli rivelò che sua madre non sarebbe mai più ritornata. Il dolore di quel momento accompagnò Buber per tutta la sua infanzia e anche oltre, ma accettò quanto dettogli dalla ragazza e, da allora in poi, smise di attendere il ritorno della madre. Ciò nonostante, continuò a soffrire per la sua assenza e in seguito coniò la parola Vergegnung [dis-incontro], per descrivere un incontro che dovrebbe avere luogo e che in realtà non avviene 6.
parte dell’impero Austroungarico con il nome di regno di Galizia e Lodometria. Durante la prima guerra mondiale è teatro di grandi scontri tra le forze russe e gli Imperi centrali. La dissoluzione della monarchia asburgica al temine del conflitto porta la regione a lottare per la propria indipendenza; tuttavia, nel 1921, la pace di Riga l’assegna alla seconda Repubblica di Polonia. Da questo momento in avanti la porzione ucraina della popolazione risultò sempre ostile alle politiche del governo. A seguito del patto Molotov-Ribbentrop la regione viene divisa in quattro distretti, tutti appartenenti all’URSS: Leopoli, Stanislav, Drohobyc e Ternopil. La Germania tenta di fermare la sovietizzazione occupando la Galizia nel 1941, grazie all’Operazione Barbarossa. Tuttavia, l’intensificarsi degli scontri interni fra polacchi ed ucraini sancirono un lungo periodo di instabilità sino alla fine della guerra. All’indomani dell’arrivo degli alleati viene spartita con la regione occidentale appartenente alla Polonia e la porzione orientale all’Ucraina. 4 A. Poma, La parola rivolta all’uomo occidentale, saggio introduttivo a M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 5. 5 P. Vermes, Op. cit., p. 16. 6 Ibid., p. 15.
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primi passi
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Questi due eventi, sebbene l’autore non lo ammetta in maniera evidente, sembrano segnare nell’autobiografia buberiana due spaccature sulle quali, dopo anni di studio e maturazione culturale, fiorirà il suo pensiero. In primis, è forse possibile immaginare una correlazione fra l’amore della nonna per la parola e la futura attenzione di Buber al medesimo tema. In seconda istanza, nell’abbandono materno e nell’idea che ne consegue, quella cioè del Vergegnung, si riconosce il prodomo autobiografico che confluirà nel tema dell’incontro che deve essere scelto e voluto, caro al Buber dialogico. Anni più tardi, egli scriverà in Ich und Du: Solo chi convoglia nel fare dell’uno l’intera forza dell’altro, chi lascia entrare nel farsi realtà di ciò che è stato scelto l’inesauribile sofferenza di ciò che è stato scelto, solo chi “serve Dio con l’istinto malvagio” si decide, decide gli eventi. Se si è compreso questo, si sa anche che proprio questo, ciò che è stato innalzato, verso il quale ci si orienta e decide, è da chiamarsi giusto; e se ci fosse il diavolo, non sarebbe colui che decide contro Dio, ma colui che eternamente non sa decidersi 7.
In questo passo emerge una tesi fondamentale del suo pensiero: di fronte alla parola che il Tu mi rivolge, l’Io ha un’unica scelta, rispondere o non rispondere, cioè scegliere o non scegliere. Un fil rouge proprio di tutta la produzione, che dialoga con il vissuto dell’autore e lo porta a maturazione. Gli anni della fanciullezza offrono una prima evidenza a supporto della tesi per cui questo autore fa della sua vita pensiero e del suo pensiero vita, ergendosi non a cantore della sua filosofia ma a vero testimone. 2. Gli anni della formazione Nei primi dieci anni di vita Martin Buber viene formato all’interno dell’ambiente domestico; in particolar modo studia l’ebraico, il latino e il francese. Successivamente, egli frequenta il ginnasio polacco di Leopoli, il Franz Joseph. In classe respira il clima caratteristico delle nazioni della monarchia austroungarica, «una specie di socievolezza reciproca priva di reciproca comprensione» 8 fra ebrei e cristiani. Prima della Seconda guerra mondiale Leopoli arriverà a contare la porzione ebraica di popolazione più 7 M. Buber, Ich und Du, Insel, Leipzig 1923, trad. it. Io e Tu, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., pp. 95-96. 8 P. Vermes, Op. cit., p.16.
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numerosa dopo Varsavia e Lodz. La comunità cittadina è ricordata come inserita profondamente nel territorio, in particolare grazie al coinvolgimento nell’industria tessile della città. Inoltre, nasce qui un importante centro di educazione e cultura ebraica, all’interno del quale si strutturano vari movimenti giovanili di stampo comunista, accanto all’Unione dei lavoratori, degli ortodossi e Chassidisti e dei Sionisti. Tuttavia gli insegnanti e gli studenti incontrati al Franz Joseph sono per la maggioranza polacchi e, pur non mostrando alcun segno di intolleranza nei confronti della minoranza di cui Buber fa parte, non conoscono la realtà della comunità ebraica a pieno, così come gli studenti ebrei vivono una dimensione di non totale integrazione societaria. Egli ricorda come l’unico momento da lui effettivamente detestato fosse la preghiera del mattino: sebbene ammetta come nessuno abbia mai cercato di convertirlo, tuttavia comincia a maturare quel senso di avversione nei confronti dei rituali e delle cerimonie che confluirà poi nella sua critica alle religioni. L’avversione per i cerimoniali e per i momenti istituzionalizzati nell’ambito religioso verrà affiancata, lì a poco, da un’esperienza che produrrà in lui l’effetto contrario. All’età di quattordici anni, a seguito del secondo matrimonio del padre 9, Martin torna ad abitare a Vienna. Durante una vacanza estiva è proprio il padre a condurlo presso la comunità chassidica di Sadgora. Qui si trova al cospetto di uno Zaddiq, un maestro capace di parlare personalmente a coloro che lo circondano: Ricevette una forte impressione alla vista di uno Zaddiq attorniato dalla sua comunità: il profondo interesse che Buber sviluppò per il chassidismo, se non può essere posto in continuità con questa esperienza giovanile, ha comunque in essa un precedente autobiografico 10.
Nella terza parte di Ich und Du è contenuta la critica alle religioni attraverso cui «Dio diventa oggetto di fede» 11, che nella maturità del pensiero dell’autore verrà compresa come dimensione inautentica e opposta all’au9 La figura di Karl Buber, altro personaggio di rilievo nella formazione buberiana, viene raccontato come una figura non eccellente, se non nel campo dell’agricoltura; affermò che la sua importanza consisteva nell’essere figlio di suo padre e padre di suo figlio; da una così grande considerazione del ruolo paterno, è possibile immaginare la cura con cui si dedicò all’educazione del giovane Martin. Karl impressionò il figlio per il rispetto con cui si avvicinava non solo alle persone ma anche agli animali. È Martin Buber che ricorda come esso era solito salutare i suoi cavalli in maniera amichevole, come se si stesse riferendo ad una persona. 10 A. Poma, La parola rivolta all’uomo occidentale, saggio introduttivo a M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 5. 11 M. Buber, Io e tu, cit., p. 142.
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tenticità del dialogo che è possibile instaurare con Dio. Una bidimensionalità in cui si sente l’eco dell’inautenticità percepita dal Buber bambino, costretto dalla religione ad abbassare gli occhi in un momento rituale di preghiera, accanto all’autenticità di cui fa esperienza vendendo la religiosità dello Zaddiq che parla al suo popolo. Durante gli anni dell’adolescenza la religione viene abbandonata a favore dell’interesse per la cultura filosofica. All’età di quindici anni legge i Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza di Immanuel Kant. L’opera viene data alla stampa nel 1783, circa due anni dopo della prima edizione della Critica della ragion pura e rappresenta uno dei più brevi lavori della bibliografia kantiana. Il libretto ha come scopo quello di fornire ulteriori spiegazioni circa il contenuto della prima Critica e, come in quest’ultima, vi si trovano elementi cari alla prospettiva kantiana: vengono qui sancite le condizioni che rendono possibile la conoscenza a priori, circoscrivendo conseguentemente gli ambiti all’interno dei quali tali conoscenze hanno valore. Tra i vari elementi cui viene dato rilevo, il tempo acquista certamente un connotato particolare, essendo considerato, accanto allo spazio, un’intuizione a priori e non un concetto. È proprio il tempo che affascina il giovane Buber, nel quale il testo suscita numerose domande, portandolo a chiedersi se esso sia da considerarsi senza un inizio e una fine o, al contrario, se sia dotato di entrambe le caratteristiche. La lettura dei Prolegomeni lo porterà a far sua la posizione per cui «il tempo e lo spazio non hanno un’esistenza in sé stessi ma rappresentano “semplici forme dell’intuizione sensibile”» 12. Sarà sempre la medesima categoria ad essere indagata, due anni più tardi, tramite la lettura di Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Nel libro Per tutti e per nessuno, Zarathustra, pieno di saggezza dopo essersi ritirato in montagna, torna fra gli uomini per donare loro l’Oltreuomo, foriero di nuovi valori che distruggono l’orizzonte dominante. In questo annuncio viene proposta anche la dottrina dell’Eterno ritorno, ossia che ogni cosa torni eternamente come è stata, redimendo l’esistente dalla casualità del divenire nullificante; grida Zarathustra: «Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni “così fu” in un “così volli che fosse!” – solo questo può essere per me redenzione!» 13. A tale P. Vermes, Op. cit., p. 19. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1878, trad. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1985, p. 162. 12 13
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grido, Buber risponde lasciandosi sedurre dall’idea di un tempo che è sequenza infinita di momenti in cui ogni fine sfocia in un inizio 14. La suggestione nietzschiana apparirà evidente nella futura produzione giovanile, in cui è possibile rintracciarne testimonianze concrete, come nel caso del saggio Nietzsche und die Lebenswerte. La prossimità con il filosofo dell’Oltreuomo viene esplicitamente mostrata dallo stesso Buber che citerà più volte, all’interno del suo primo pensiero, i contenuti propri di Così parlò Zarathustra. Il primo tema comune si rintraccia dove egli parla dell’esperienza, vivibile pienamente solo se accettata nella sua condizione di insicurezza 15: rimando inequivocabile all’accettazione della tragicità della vita, tema che emerge sin dalle prime produzioni nietzschiane, in particolar modo sin da Lo spirito della tragedia dello spirito della musica ovvero grecità e pessimismo (1872), in cui vengono distinti i due respiri dell’apollineo e del dionisiaco. L’equilibrio e l’armonia dell’apollineo sfugge l’imprevedibilità degli eventi a fronte del dionisiaco che accetta, viceversa, la forza vitalistica nella sua pienezza. Due dimensioni opposte eppure in dialogo, nonché in perfetto equilibrio là dove si è capaci di accettarle entrambe 16. Questo fenomeno, specchio della decadenza occidentale, permette a Nietzsche di denunciare il problema della modernità che, nel lasciar prevalere le strutture dell’uomo teoretico, sta perdendo la capacità di accettare la tragicità della vita, quella tragicità che lo stesso Buber vorrebbe accettare e far propria nella produzione giovanile. In Così parlò Zarathustra si ha una ripresa della tematica tragica riletta alla luce del pensiero maturo di Nietzsche: l’Übermensch, l’Oltreuomo, torna a far sua la prospettiva dionisiaca accettando la forza vitalistica, all’interno della cornice dell’eterno ritorno dell’uguale 17.
14 Pamela Vermes sottolinea come questo «pseudo-mistero», sebbene abbia esercitato fascino nella mente di Buber, non venne accettato, come dimostra poi lo sviluppo futuro del suo pensiero. La lettura di Nietzsche lo incantò «temporaneamente» e «negativamente», in P. Vermes, Op. cit., p. 19. 15 M. Buber, Daniel. Gesprache von der Verwirkilchung, Insel, Leipzig 1913, trad. it. Daniel. Cinque dialoghi estatici, Giuntina, Firenze 2003. 16 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragodie, Velrlag von E.W. Fritzsch, Leipzig 1876, trad. it., La nascita della tragedia, Einaudi, Torino 2009. 17 Per ulteriori riferimenti ed approfondimenti si rimanda a C. Piazzesi, Nietzsche, Carocci, Roma 2016.
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3. L’esperienza universitaria L’interesse per la cultura spinge Buber ad iscriversi all’Università di Vienna. Qui l’autore segue lezioni di argomenti talmente diversi 18 da rendere evidente la sua giovanile indecisione nei confronti della vita, nonché il suo entusiasmo nei confronti dell’ecletticità umana. Durante il terzo trimestre si trasferisce a Lipsia, indirizzandosi in maniera specifica verso l’approfondimento della filosofia. È qui che conosce la musica di Johann Sebastian Bach, che dal 1723 al 1750 esercita la professione di compositore di corte nella città. Il musicista tocca in maniera profonda l’animo dell’autore, che rintraccia nei suoi brani l’evidenza della grandezza dell’animo umano: Certamente, timidamente e tenacemente, crebbe la mia intuizione della realtà dell’esistenza umana e della difficoltà a renderle giustizia. Bach mi aiutò 19.
Sempre a Lipsia egli muove i primi passi verso quell’attivismo che, seppur in varie forme, ne caratterizzerà l’intera esistenza. Nel 1898 egli aderisce al movimento sionista, recentemente fondato da Theodor Herzl, mosso dalla speranza di trovare un luogo di riscoperta della cultura ebraica piuttosto che da motivazioni religiose. Graviterà nel movimento per circa sette anni, fin dopo la morte dello stesso Herzl. A seguito del suo trasferimento all’università di Zurigo, nel 1899, conosce Paula Winker, una ragazza non ebrea di Monaco, che qualche anno più tardi diventerà sua moglie. Paula è nota come scrittrice sotto lo pseudonimo di George Munck. Pamela Vermes riporta uno scritto che mostra l’amore e la dipendenza che, in questi anni, Martin sviluppa nei confronti di Paula: 18 Storia dell’arte, psicologia, germanistica, filologia classica, economia; accanto ai corsi egli frequenta anche delle cliniche psichiatriche, sempre per motivi legati allo studio della psicologia. Inoltre egli frequenta con assiduità il teatro Burgtheatre di Vienna, alimentando la sua passione per la «parola umana correttamente pronunciata» come riportato in P. Vermes, Op. cit., p. 19. 19 Ibid., p. 20. Il frammento autobiografico viene collocato temporalmente dopo una conferenza che Buber tiene su Ferdinand Lassalle, lo scrittore socialista ed ebreo che aveva fondato l’Unione dei Lavoratori Tedeschi. Nonostante i complimenti ricevuti per il lavoro, si rese conto che in un secondo momento di come il profilo da lui disegnato non corrispondesse alla realtà del personaggio. Il commento riportato fa riferimento alla conclusione del rimaneggiamento dello scritto su Lassalle che, a detta dell’autore, viene supportato dall’ascolto della musica di Bach.
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Le tue lettere sono le uniche cose. Oltre ad esse, forse il pensiero che in te c’è una madre, la convinzione che ci sia... ho sempre, sempre ricercato mia madre 20.
Che sia poiché Buber vedeva in lei una figura materna o per l’aiuto concreto che Paula fornisce a Martin nella correzioni di alcuni suoi scritti, questa donna verrà sempre ricordata come una figura molto cara ed estremamente importante. Nel 1900, all’indomani del trasferimento a Berlino, Buber segue le lezioni di George Simmel (1858-1918) e Wilhelm Dilthey (1833-1911). Quest’ultimo, rappresentante di uno specifico indirizzo post-hegeliano che recupera le categorie kantiane nel tentativo di applicarle alle scienze dello spirito, è colui che fra tutti viene chiamato da Buber maestro 21. Egli sottolinea però una considerazione fondamentale nei confronti di questi primi anni di formazione: Negli anni 1898-1904 essi (Dilthey e Simmel) influenzarono fortemente il mio pensiero, ma a mio avviso non ebbero alcun influsso sulla filosofia dell’Io-Tu 22.
Gli insegnamenti degli anni universitari confluiscono primariamente in quella che Bernhard Casper chiama «l’opera predialogica», cioè la produzione che precede la pubblicazione di Ich und Du, nel 1923. All’indomani della svolta dialogica la lezione dello storicismo tedesco verrà rimodulata, virando verso un forte realismo che rigetta ogni forma di immanenza. L’eco del periodo viennese rimarrà tuttavia presente pur nella maturazione del pensiero buberiano, legandone così la comprensione a quella dell’opera di Dilthey e Simmel: Buber chiama esplicitamente Dilthey, anche negli ultimi periodi, suo maestro e dialoga per anni con Simmel. [...] La filosofia, anche per il giovane Buber, ha luogo come comprensione di me stesso nella prassi della comprensione storica 23.
La citazione autobiografica è contenuta in Briefwechsel, vol. I, cit. p. 169. Sull’appellativo che Buber assegna a Dilthey concordano tanto Pamela Vermes quanto Bernhard Casper. L’autrice, tuttavia, aggiunge come Buber stimasse quali suoi maestri tanto Dilthey quanto Simmel, portando a testimonianza una lettera che egli scrive nel 1951 a Maurice Friedman. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, Studium, Roma 2020, pp. 15-18. 22 P. Vermes, Op. cit., p. 21. 23 B. Casper, Op. cit., pp. 34-35. 20 21
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4. La lezione dello storicismo tedesco Il pensiero giovanile è profondamente segnato dalla Lebenphilosphie, rintracciata nelle parole di Nietzsche 24 e, successivamente, nella lezione dello storicismo tedesco. Buber matura l’idea per cui «la realtà è vita. [...] La vita si rivela come un’autentica totalità. La vita è ciò oltre cui, in senso assoluto, non si può risalire; è dunque il presupposto irrinunciabile di ogni scienza» 25. Dilthey, infatti, lavora in una duplice direzione: da una parte il lavoro di ricostruzione storica 26, dall’altra l’elaborazione del problema del metodo e dei fondamenti della stessa. In particolare l’opera del 1883, Introduzione alle scienze dello spirito 27, viene considerata il testo di fondazione dello storicismo. Questo movimento filosofico sorge in seno all’ambiente tedesco di fine Ottocento, il medesimo ambiente che, pochi decenni prima, era stato filosoficamente segnato dal neocriticismo 28: lo storicismo pone nei confronti della conoscenza storica il medesimo obiettivo che il criticismo kantiano prima e il neocriticismo dopo avevano rivolto alla conoscenza naturale, cioè quello di risalire alle condizioni che rendono tale conoscenza possibile, fondandone la validità. A tale scopo Dilthey distingue l’oggetto indagato dalle scienze dello spirito rispetto quello delle scienze naturali: è l’uomo, nei suoi rapporti sociali e nella sua storia, ad es24 Come scrive Tumminelli: «Nietzsche può trasmettere a Buber la centralità della nozione di vita quale fonte esclusiva e costantemente cangiante di ogni ulteriore espressione storica. Simili idee si riscontrano anche nel pensiero si Dilthey e Simmel», in A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., p. 17. 25 B. Casper, Op. cit., p. 33. 26 In questo senso, egli lavora su Schleiermacher, considerato il più grande teologo del mondo protestante nell’XIX secolo (Vita di Schleiermacher, 1867-1870), sul Rinascimento e sulla Riforma (L’intuizione della vita nel Rinascimento e nella Riforma, 1891-1900), sull’estetica moderna (Le tre epoche dell’estetica moderna, 1892), sugli scritti giovanili di Hegel e sul Romanticismo (Esperienza vissuta e poesia, 1905). Inoltre, all’interno della lezione diltheyana, spesso si rintracciano rimandi alle opere di Lorenzo Valla (1407-1457), Niccolò Machiavelli (1469-1527) e Giordano Bruno (1548-1600): la negazione, presente in questi autori, del valore ontologico della religione e la parallela circoscrizione dei riti sacri all’ambito dell’esperienza storica, offriranno a Buber l’occasione di pensare alla divergenza fra Religiosität e Religion, come afferma Tumminelli in A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., p. 20. 27 W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften, 1883, trad. it. Introduzione alle scienze dello spirito. Ricerca di una fondazione per lo studio della storia e della società, La nuova Italia, Firenze 1974. 28 Il neocriticismo, movimento filosofico sorto in Germania attorno alla metà dell’Ottocento, ritorna ad uno degli insegnamenti fondamentali del criticismo kantiano, cioè l’esigenza di restituire alla filosofia il suo compito di analisi delle condizioni di validità del mondo dell’uomo.
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sere oggetto delle prime. Il contenuto delle scienze dello spirito mostra così un’immediata differenza rispetto a quello delle scienze naturali: esso è infatti interno all’uomo e, di conseguenza, coglibile solo attraverso l’esperienza interiore, quella con cui l’uomo conosce sé stesso 29. L’esperienza interna è quella che Dilthey definisce come Erlebnis, traducibile come esperienza vissuta; l’Erlebnis è la realtà totale, «elemento singolo eppure estremo, realtà che non può differenziarsi, cioè oggettivarsi da una realtà più grande e che si rischiara a partire dal proprio interno» 30. L’idea di vita come fonte inesauribile di ogni espressione storica viene accolta con fervore da Buber, che assegna alla filosofia il compito di comprendere l’uomo nella sua interiorità. Così, in accordo con lo storicismo e nel rifiuto della gnoseologia positivistica dell’xix secolo, l’unità ultima della coscienza non è la sensazione, bensì proprio l’Erlebnis, nel senso della «vita come Tutto, come fusione del sé e del mondo, che si rischiara a partire dal proprio interno» 31. Questo è evidente fin dal saggio Beiträge zur Geschichte des Individuationsproblems, scritto a Vienna 32. Il dialogo che l’autore ha instaurato con la filosofia della vita permette di porre la questione dell’unità e della molteplicità scardinandola da qualsiasi forma di trascendenza, a favore della lettura immanentistica che chiede di porre al centro l’interiorità umana. Sulla scia della proposta diltheyana si collocano vari storicisti tedeschi che, per lo più, accentuano aspetti trattati marginalmente o che lo correggono con il ritorno a motivi assolutistici; tra questi compare il nome di George Simmel. Egli approfondisce il pensiero diltheyano vedendo nella vita non solo l’unico soggetto della storia, ma anche l’unica realtà, cioè l’unica sostanza delle cose. La vita si presenta in questo modo come principio sovraordinato agli individui, dunque come realtà metafisica: in questo, più che a Dilthey, che aveva considerato la vita solo come situazione che caratterizza l’uomo nel mondo, sembra riferirsi a Bergson e al suo concetto di durata reale 33. La vita è il momento concreto rispetto cui il tempo, pre29 H. Gadamer, Wahreit und Methode, J.C.B. Mohr, Tübingen 1960, trad. it., Verità e Metodo, Bompiani, Milano 2014, p. 155. Per ulteriori approfondimenti Gadamer offre in Verità e Metodo alcune pagine in cui viene ricostruito il cammino e la genesi del termine Erlebnis, con particolare riferimento alla produzione diltheyana. 30 B. Casper, Op. cit., p. 34. 31 Ibid. 32 Ibid., p. 35. 33 La durata, in Bergson, identifica il tempo della vita, inteso come un’unica e fluida corrente nella quale non esistono tagli netti né radicali separazioni. Il tempo della vita è un tempo vissuto, fatto di istanti che si differenziano fra loro qualitativamente, a differenza del
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so per sé, ne è solo forma astratta. La vita, nel suo incedere, oltrepassa le forme determinate in continuità e auto-trascendimento, poiché emerge al di sopra del processo temporale stesso. L’antitesi presente tra la vita e le sue forme è ciò che, all’interno della lezione simmeliana, influenza maggiormente Buber, che rintraccia così l’opposizione tra la libera soggettività, capace di fluire nella storia, e le rigide forme che essa può assumere 34. Nel saggio che Buber scrive nel 1901, dal titolo Kultur und Zivilisation 35, la cultura intesa come espressione della creatività individuale viene contrapposta alla civilizzazione, mero strumento di determinazione che impedisce il venire in chiaro dell’unicità di ogni uomo. Parallelamente, nel saggio del 1914, Kultur und Religiosität 36, viene ripreso il tema tipicamente simmeliano della religiosità, quale espressione fideistica direttamente connessa al fluire vitalistico, polarmente contrapposto alla religione, forma dogmatica e cristallizzante delle fede 37. Solo nella religiosità è possibile il superamento dell’atteggiamento medievalistico che contrappone l’unità di Dio alla molteplicità della creazione, a favore dell’universale immanenza del divino 38.
tempo della scienza, fatto di attimi fra loro reversibili e distinguibili sono quantitativamente. La durata acquista il carattere della irripetibilità: ogni momento è irripetibile ma, allo stesso tempo, ha la possibilità di compenetrarsi e sommarsi con gli altri istanti a lui simili, creando la questa corrente interiore, simbolizzabile attraverso un gomitolo di filo o una valanga che continuamente cresce e muta su sé stessa. 34 Si veda G. Simmel, Religionsphilosophie in Id., Philosopische Kultur, Gustav Kiepenheuer, Postdam 1923, pp. 199-230. 35 M. Buber, Kultur und Zivilisation. Einige Gedanken zu diesem Thema, in «Kunstwart», xiv/15,1, Maiheft 1901, pp. 81-83. 36 M. Buber, Kultur und Religiosität, in «Neue Blätter» iii/1 – 2, 1913 (Buberheft) 61-62. 37 Si veda G. Simmel, Die Religion, Rütten & Loening, Frankfurt 1906. 38 B. Casper, Op. cit., p. 35.
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II.
Sionismo e socialismo “Vogliamo andare lontano, nella quieta campagna, che ci attende laggiù. [...] Là possiamo costruire senza prima distruggere” (Martin Buber, Vecchia e nuova comunità)
Per comprendere a fondo il pensiero giovanile di Martin Buber è necessario mettere in evidenza, accanto alla formazione universitaria, l’incontro con alcune realtà altrettanto determinanti. In questo capitolo l’attenzione è posta, nello specifico, su due diverse figure: quella di Theodor Herzl (18601904), il fondatore del sionismo politico, e quella del socialista e anarchico Gustav Landauer (1870-1919). L’incontro con il primo determina, nel 1898, l’ingresso dell’autore tra le fila del movimento sionista. La vicinanza del secondo lo porta ad approcciarsi sempre più da vicino all’idea di comunità, categoria tramite cui sarà possibile correggere quelli che Buber considera gli errori del sionismo. La conoscenza di Herzl prima e di Landauer dopo portano alla formazione di un punto chiasmatico in cui emerge la sua prima posizione politica. 1. Le radici del sionismo Buber conosce il sionismo politico agli albori della sua formazione: nel 1898, infatti, è trascorso solo un anno dal primo Congresso del movimento, tenutosi a Basilea nel 1897. La paternità dell’ideologia viene generalmente attribuita a Theodor Herzl, grazie al quale il sionismo entra nel campo specificatamente politico 1, raccogliendo le premesse ideologiche che por1 Theodor Herzl, giornalista e drammaturgo ungherese, nasce a Budapest nel 1860 e viene educato secondo lo spirito dell’Illuminismo tedesco e dell’accoglienza nella società. Tuttavia, i valori della sua educazione, alla luce di un concreto diffondersi dello spirito antisemita, vengono meno: nel 1894 Herzl è autore del dramma teatrale Das Ghetto, in cui emerge l’urgenza di trovare nuove soluzioni alla questione ebraica. Molti
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tano alla fondazione dello stato ebraico. L’aspirazione del ritorno alla Terra promessa emerge già nel nome del movimento, che rimanda a Sion, termine con il quale gli Ebrei indicano sia Gerusalemme 2 sia «l’ininterrotta aspirazione del popolo ebraico – esiliato lontano dai luoghi che ne costituiscono la radice storica e disperso tra le nazioni – a ritornare un giorno nella propria terra, la Terra d’Israele» 3. Nel 1890, il termine sionismo viene impiegato per la prima volta da Nathan Birnbaum per indicare tutti coloro che entusiasticamente sognavano il grande ritorno 4. Da questa prima sistematizzazione si sviluppa un’ampia eco, anni dopo consegnata alla proposta di Herzl, che ne politicizza il fine, riassumibile nell’«acquisizione della sovranità all’interno di un territorio ebraico indipendente» 5. L’ideologia sionista, come sottolinea Ilan Greilsammer, è il punto di convergenza tra l’aspirazione messianica tipica dell’ebraismo con altri due fattori. Il primo è l’ondata di massacri e pogrom che gli ebrei di tutta l’Europa centrale sono costretti a sopportare nella seconda metà del xix secolo. Il secondo è l’incontro fra ebraismo e modernità, che porta con sé l’apertura al nazionalismo tipica di tutto l’Ottocento. La volontà di creare una propria nazione sovrana, sospinta dall’infrangersi dei sogni di convivenza pacifica con le altre popolazioni, corroborano l’idea del ritorno 6. Questa tesi è espressa da studiosi hanno nel tempo attribuito la fondazione del sionismo politico al turbamento che il processo Dreyfus avrebbe provocato in Herzl; ad oggi sembra tuttavia più opportuno affermare che l’affaire dette solo maggiore spinta alle sue pregresse convinzioni. Fino alla morte, nel 1904, il suo principale obiettivo rimane la creazione di un intento condiviso fra ebrei di tutto il mondo, base solida per la fondazione del futuro stato ebraico. 2 Sion (anche nota come Sionne) è la collina dove sorge la parte più antica della città di Gerusalemme. Per estensione, nel mondo ebraico il termine viene impiegato per indicare la capitale Israeliana per intero. 3 I. Greilsammer, Le Sionisme, Presses Universitaires de France, Paris 2005, trad. it., Il sionismo, il Mulino, Bologna 2007, p. 7. 4 Ibid. Il termine sionismo appare per la prima volta nel giornale Selbstemanzipation di Birnbaum, il primo aprile 1890. 5 I. Greilsammer, Op. cit., p. 8. 6 La prospettiva di una nazione ebraica, secondo i tipici canoni del nazionalismo ottocentesco, è propria di alcuni intellettuali, considerati di conseguenza precursori del sionismo: i rabbini Yehudah Alkali e Zvi Hirsch e il laico Moses Hess; nonostante le differenze tra i tre personaggi, essi sono tutti accumunati dall’idea che il popolo ebraico, debba costituire una nazione la cui sopravvivenza può essere assicurata soltanto ritornando nella patria storica. Yehudah Alkali (1798-1878) è il primo pensatore che vede il messianismo ebraico concretizzabile nella creazione di una nazione. Il medesimo tema è propagandato da Zvi Hirsch (1795-1874), il quale mostra nella sua stessa vita la profonda aderenza all’ortodossia ebraica e la specifica conoscenza del nazionalismo romantico. In-
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Herzl nella sua principale opera, Der Judenstaat 7. Il testo, letto dagli ebrei di tutta Europa, fa convergere attorno al suo autore l’intero movimento sionista. Nel 1897, anno del primo Congresso, egli appare come il capo di un vero stato; in questa occasione viene adottato un programma, avente come scopo la fondazione dello stato ebraico, viene fondata una banca, il Jewish National Trust, e una stampa ufficiale. Elementi che ricordano in maniera stingente una vera e propria nazione e che giustificano le parole di Herzl: «“A Basilea ho fondato lo stato ebraico”» 8. Buber si associa all’attivismo sionista affascinato non tanto dagli aspetti messianici e religiosi quanto dall’idea che il movimento possa essere il mezzo attraverso cui riscoprire la tradizione culturale ebraica. Egli infatti vede nell’educazione la necessaria premessa alla fondazione di ogni comunità, compresa quella del futuro stato ebraico. Questa prospettiva inizialmente riesce a convivere con gli obiettivi del fondatore del sionismo, per poi colludere con le iniziative di Herzl. Egli si opporrà infatti a tutti coloro che, come Buber, sottolineano la necessità di una maggiore ricoperta della cultura ebraica, in linea con la tesi di HaAm. L’obiettivo di Herzl è uno e chiaro: «che un popolo senza terra debba insediarsi su una terra senza popolo che sarebbe diventata suo territorio nazionale» 9.
fine, Moses Hess (1812-1875), considerato il precursore laico del sionismo, vede nei movimenti di liberazione nazionale dell’xix secolo la possibilità di far rinascere l’identità dei popoli oppressi. Successivamente, Perez Smolenskin (1840-1885) e Eliezer Ben Yehudah (1858-1922) tentano di risvegliare lo spirito nazionalista ebraico attraverso la creazione del movimento Amore per Sion [Chibbat Zion]. Questo, avendo l’obiettivo di favorire il ritorno degli ebrei in Israele per fondarvi uno stato nazionale, viene considerato il vero e proprio inizio del sionismo moderno. Nato in Russia all’indomani dell’assassinio dello zar Alessandro II, porta alla formazione di gruppi analoghi in tutta l’Europa orientale. All’interno di questo movimento emergono due nomi di rilievo: quello di Leo Pinsker e quello di Achad HaAm. Leo Pinsker (1821-1891) propone una tesi secondo cui l’antisemitismo è un disturbo mentale esistente dappertutto e in ogni epoca; di conseguenza gli ebrei, se vogliono sfuggire da questo inguaribile odio, devono lasciare i paesi in cui sono una minoranza e costituire uno stato di cui essere sovrani. Achad HaAm (1856-1927), qualche anno più tardi, si trova a criticare le attività di conquista della Palestina portate avanti da Chibbat Zion, con l’obiettivo di “preparare” sia culturalmente che spiritualmente i pionieri inviati ad occupare la Terra promessa. 7 T. Herzl, Der Judenstaat, M. Breitenstein’s Verlags-Buchhandlung, Leipzig 1896, trad. it., Lo stato ebraico, Il Melangolo, Genova 1992. 8 I. Greilsammer, Op. cit., p. 38. 9 Ibid.
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2. L’attivismo sionista di Buber In questi anni si dedica allo studio della cultura ebraica, lavorando e scrivendo su «scrittori ebrei, pittori ebrei, leggende e folklore ebraici, teatro ebraico, in effetti tutto quello che aveva a che fare con la creatività artistica ebraica» 10. Pamela Vermes sottolinea come questi studi, spesso pubblicati autonomamente da Buber e dai suoi colleghi universitari, diventino «il mezzo con cui il genuino ebraismo dell’Europa orientale divenne per la prima volta conosciuto dal mondo intellettuale austriaco e tedesco» 11. Il medesimo fervore culturale si ravvede nella fondazione, qualche anno più tardi, di una sezione dedicata all’arte e al sapere all’interno dell’Unione sionista di Berlino. L’autorevolezza dell’autore cresce all’interno del movimento sionista sino a coinvolgerlo della redazione del settimanale sionista Die Welt, per poi ricevere l’invito da parte di Herzl di succedere a Berthold Feiwel nella direzione della rivista. Tuttavia, la posizione di Buber, supportato dall’accordo ideologico con numerosi altri membri del movimento, entra velocemente in conflitto con la prospettiva del fondatore. Nel 1901 tale frattura porta alla formazione della Frazione Democratica del movimento sionista. A differenza del sionismo politico di Herzl, questa corrente minoritaria, guidata da Leo Motzkin e per la maggioranza composta da studenti russi sionisti, rileva l’importanza fondamentale della trasmissione della cultura ebraica, ponendo in secondo piano la dimensione religiosa propria dell’ebraismo 12. Sebbene la Frazione Democratica acquisti, quantomeno in un primo momento, un ampio accordo, all’indomani della presentazione ufficiale al congresso sionista del 1901 vede arrivare solo undici consensi ufficiali, tra cui quello di Buber. Il tentativo viene così meno nel giro di pochi anni e i membri di questa corrente confluiscono per lo più nelle schiere di coloro che si oppongono alla proposta di fondare un insediamento ebraico in Africa Orientale 13. La posizione buberiana, emblemaP. Vermes, Op. cit., p. 21. Ibid. 12 Le principali richieste della Frazione democratica promuovono l’organizzazione di attività culturali all’interno del movimento e la creazione di un fondo per istituire un’università ebraica. 13 All’indomani delle notizie dei terribili pogrom di Kisinev, nel 1903, Herzl inizia a prendere seriamente in considerazione la proposta britannica, che consisteva nel cedere una regione dell’Africa orientale (all’epoca facente parte dell’impero inglese, ad oggi identificabile con l’Uganda) per costituirvi lo stato nazionale ebraico. Nel piano di Herzl, l’Uganda rappresenta una tappa intermedia del ritorno alla Terra promessa: un territorio che avrebbe 10 11
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tica rispetto all’inascoltata proposta della Demokratische Fraktion, viene esplicitata in numerosi interventi, come l’articolo Jüdische Renaissence 14, del gennaio del 1901. Nel 1903 Herzl pubblica un nuovo romanzo, dal titolo Alteneuland, che verrà tradotto in inglese circa sessanta anni più tardi con il titolo di Old-New Land 15. In questa opera il fondatore del sionismo immagina una nuova terra in cui gli ebrei vivono pacificamente accanto non solo agli arabi ma anche ad immigrati provenienti da tutto il mondo, comunicando vicendevolmente non attraverso l’ebraico ma tramite la lingua del luogo di provenienza. Lo scritto suscita la critica di uno dei più eminenti scrittori della letteratura ebraica del tempo, Achad Ha’am, che viene duramente attaccato dallo stesso Herzl. Buber, assieme a Weizmann e Feiwel, che come lui avevano aderito alla Frazione Democratica, risponde in favore di Achad Ha’am attraverso una replica pubblicata sulla rivista Ha-Zman e firmata da molti sostenitori della medesima posizione. Questo atto segna la definitiva rottura tra Buber e Herzl: questo, giudicando la replica come un attacco alla sua persona, decide di non lasciarsi persuadere dai numerosi tentativi di riconciliazione da parte dello stesso Buber, invitandolo viceversa a «sforzarsi di trovare la via» 16 che lo avrebbe riportato dalle schiere della Frazione alla componente maggioritaria del movimento sionista. L’anno seguente il fondatore del sionismo politico muore per un attacco cardiaco e il nostro autore, che pur non aveva ricucito la ferita dell’anno precedente, dedica alla sua figura due articoli in cui sottolinea come Herzl «avesse esercitato permesso agli ebrei russi di scappare alle persecuzioni, nell’attesa del trasferimento in Palestina. L’idea, proposta al VI Congresso del movimento sionista, tenutosi nel 1903, si scontra con numerose opposizioni. L’assemblea decide comunque di inviare una commissione di inchiesta in Africa, segnando uno dei primi punti di rottura del movimento dal suo interno. 14 M. Buber, Jüdische Renaissance, in «Ost und West», I/1, 1901, col. 7-10, trad. it. Rinascimento Ebraico, Mondadori, Milano 2013, pp. 32-37. Interessante è l’utilizzo, nel titolo e nel corpo dell’articolo, del termine Rinascimento; un’attenta lettura di questo elemento è offerta da Angelo Tumminelli, per cui Buber rimane fascinato nei suoi studi dal Rinascimento italiano, da lui inteso come momento di creatività e novità che impedisce allo spirito umano di cristallizzarsi in sterili oggettivizzazioni. Quando l’autore parla di Rinascimento ebraico, dunque, sta proponendo un’analogia tra il clima proprio del Quattrocento italiano e il clima che, auspicabilmente, dovrebbe essere restaurato all’interno del movimento sionista, affinché la cultura ebraica, letta sotto nuova luce, possa essere incipit di un processo creativo capace di unire alla spinta politica, proposta da Herzl, una vera e propria rinascita spirituale. Per ulteriori approfondimenti e riferimenti si rimanda a A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., pp. 22-29. 15 Traducibile in italiano con Terra vecchia e nuova. 16 P. Vermes, Op. cit., p. 23.
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[...] un immenso influsso sull’ambiente circostante» 17. Una persona profondamente carismatica ma essenzialmente non ebraica. Buber identifica l’ebraismo nella sua componente culturale, escludendo tanto la dimensione religiosa quanto quella politica: per questo, la figura di Herzl non può che essere considerata antitetica alla vera personalità ebraica. Il medesimo tema è presente in Das jüdische Kulturproblem und der Zionisumus 18, un libello che raccoglie alcuni scritti composti tra il 1901 e il 1903. Qui, l’attenzione all’educazione e all’erudizione diventano elementi rinascimentali, capaci di condurre il popolo ebraico verso un rinnovamento che si rivelerà tanto più profondo quanto più sarà in grado di relarsi autenticamente alla cultura: Non un ritorno all’antico o al classico ma una rinascita verso il nuovo, capace di dominare nuove realtà e nuovi spazi. La stessa esigenza di rinascita va applicata, secondo Buber, al popolo ebraico che, stretto nella morsa della schiavitù nei confronti della tradizione e del denaro, necessità di rifiorire in nuove creazioni spirituali 19.
3. L’incontro con Landauer e con il socialismo Durante il soggiorno berlinese Buber conosce il socialista anarchico Gustav Landauer 20, con il quale stabilisce una solida intesa intellettuale. Il Ibid., p. 23. Come riportato da Pamela Vermes, I saggi si intitolano Theodor Herzl e Herzl e la storia. 18 M. Buber, Das jüdische Kulturproblem und der Zionisumus, in L. Schön, Die Stimme der Wahreit, Philippi, Würburg 1905, trad. it. Il problema culturale ebraico e il sionismo, in id., Rinascimento ebraico, Mondadori, Milano 2013, pp. 59-81. 19 A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., p. 29. 20 Nato nel 1870 da una famiglia ebraica della Germania meridionale, Landauer è una delle figure di riferimento dell’ebraismo romantico: filosofo, scrittore, critico letterario e redattore della rivista Der Sozialist, pubblicata tra il 1909 e il 1915, egli dà forma ad una nuova idea di socialismo all’interno dell’ambiente anarchico. Nel 1919, alla nascita della Repubblica anarchica dei consigli di Baviera, partecipa attivamente alla vita politica in qualità di commissario del popolo alla cultura. Dopo pochi giorni l’esperimento fallisce per mano di un gruppo di spartachisti e gli ebrei coinvolti nel progetto vengono violentemente repressi. Landauer, che per tutta la vita si era impegnato nella propaganda della non violenza, teorizzando l’impossibilità di portare a compimento la rivoluzione tramite coercizione, viene brutalmente ucciso dalle milizie antisemite il 2 maggio del 1919. La tomba, dopo essere stata profanata nel 1933, viene trasferita nel cimitero ebraico di Monaco, consegnandone la vita e le opere alla memoria della tradizione ebraica piuttosto che a quella della storia tedesca. Per approfondire il pensiero di Landauer di veda G. Landauer, Anarchiche Gedanken über Anarchismus, Verlag Editions, Berlin 1901 e D. Di Cesare, Buber e l’utopia anarchica della comunità, saggio introduttivo a M. Buber, Sentieri in Utopia, cit., pp. 24-30. 17
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nostro autore viene colpito non solo dalle sue idee politiche, ma anche dagli studi filosofici su Meister Eckhart e sulla mistica. Tra i due nasce anche una profonda amicizia, tristemente testimoniata dal dolore che Buber prova alla notizia della morte di Landauer. I due amici condividono per alcuni anni un contesto ben preciso, quello della Nuova Comunità, un movimento di riforma sociale nato attorno al 1900. Alcuni intellettuali della Berlino degli anni Novanta, i fratelli Heinrich e Julius Hart attirano attorno a sé un gruppo di compagni allo scopo di diffondere la formazione di colonie sociali a base cooperativa; la proposta non comprende solo delle iniziative di propaganda, ma anche una serie di iniziative pubbliche, come le passeggiate rurali che avevano come fine quello di creare un clima di amicizia tra i membri del movimento. Tale proposta riscuote un successo tale per cui nasce Nuova Comunità: tra i numerosi artisti, poeti, scrittori e musicisti legati a questo ambiente, si trovano per l’appunto anche Martin Buber e Gustav Landauer, che riescono a ben cogliere lo spirito alla base del progetto. In Nuova Comunità si condensano, infatti: Due elementi tipici della cultura del tempo. Da un lato, [...] il senso della crisi che attraversava la società tedesca [...]; dall’altro, [...] la concezione del mondo basata sulla valorizzazione della soggettività, ovvero sull’insieme dei dati psicologici, esistenziali, spirituali, che rispecchiava il declino del positivismo quale concezione ottimista, determinista e oggettivista dello sviluppo 21.
Gli Hart affidano a Buber e Landauer il compito di gettare le basi teoriche del progetto: Landauer è il primo a presentare una relazione intitolata Attraverso la separazione verso la comunità 22, nel giugno del 1900. Tali pagine dialogano con Nietzsche, Holderlin, Strindberg, Tolstoj, Proudhon e Kropotkin, ponendo in correlazione il messianismo ebraico e l’utopia anarchica. A differenza di Buber, che rimane legato all’eterno ritorno nietzschiano, egli approda piuttosto ad un’idea libertaria della comunità, vista 21 L. Fachin e G. Ragona, Buber e la comunità. Una conferenza dimenticata, in «Società degli individui», 43, 3, 2012, pp. 65-74, disponibile all’indirizzo: https://www.torrossa. com/it/resources/an/2523306. Nel saggio di Fachin e Ragona compare la prima traduzione italiana dell’intervento di Buber dal titolo Vecchia e nuova comunità. Il testo originale fu pubblicato da Paul R. Flohr e Bernard Susser: Alte und Neue Gemeinschaft: An unpublished Buber Manuscript, in «AJS Review», 1, 1976, pp. 41-56 (il testo di Buber è riprodotto nell’originale tedesco alle pp. 50-56). 22 M. Buber, Attraverso la separazione verso la comunità, in «La società degli individui», 30, 2007/3, pp. 123-140.
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come spazio entro il quale è possibile restaurare i rapporti umani tipici delle società del passato e tipici di quella che sarà la comunità del futuro. La sua è volontà di coniugare tradizione e costruzione, ciò che lo precede per edificare ciò che deve ancora venire, in un contesto che non può esprimere sé stesso se non all’interno di rapporti amicali e pacifici. Nelle trame del pensiero di Landauer, come rileva Donatella di Cesare nell’introduzione a Sentieri in utopia di Buber: Si indovina allora la vocazione messianica di Israele, l’impegno a cui è chiamato nella storia del mondo. [...] Il popolo ebraico è l’unico ad essere molto più di una nazione, ad articolarsi come comunità [...] che deve ancora rivelare la sua carica rivoluzionaria 23.
4. Vecchia e nuova comunità Buber segue ben presto le orme dell’amico, proponendo il testo Vecchia e nuova comunità nel marzo del 1901, una relazione che lascia emergere il comunitarismo libertario da lui abbracciato. Alla stregua di Landauer, egli si muove a partire dalla nostalgia nei confronti di un passato in cui gli uomini hanno la possibilità di costruire spazi comuni autogestiti e autogestibili grazie alla presenza di legami armonici tra i membri di ogni comunità. Un inno alla nascita di una nuova società che condivida valori e cultura e che può apparire in linea con l’ideologico «fiume in piena destinato a sfociare nel nazionalsocialismo» 24 che caratterizza l’inizio del secolo scorso. La differenza tra la proposta di Buber – e di Landauer – e la futura ideologia nazista sta tuttavia nell’immagine di non violenza che caratterizza queste relazioni: L’immagine pacifica di un possibile mondo basato sull’autogestione della vita materiale e l’auto-amministrazione dell’esistenza comune, senza necessità della politica, intesa quale ambito di regolazione, esterno ed autonomo, dei rapporti fra soggetti 25.
Buber chiama dunque alla riscoperta della comunità, alla quale viene attribuito uno spessore etico nonché un compito rivoluzionario, che emerge con chiarezza nelle parole che concludono il testo: M. Buber, Sentieri in Utopia, cit., p. 27. L. Fachin e G. Ragona, Op. cit., p. 66. 25 Ibid. 23 24
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Qui per la prima volta sarà possibile realizzare il sogno antico, ma pur sempre attuale, e l’unità della vita istintuale dell’uomo originario, così a lungo scissa e disgregata, ricomparirà in nuove forme, ad un livello superiore e alla luce di una coscienza creatrice; in questo modo sia tra gli uomini, sia all’interno di ciascun individuo, verrà istituita una nuova comunità 26.
Nel titolo Vecchia e nuova comunità viene espresso l’intento della relazione, quello di delineare le caratteristiche di un nuovo stare insieme, differente da ciò che la società contemporanea propone. In primis, si sottolinea come la nuova comunità non può essere né di tipo economico né di tipo religioso 27. Tutte le comunità che si sono basate su scopi economici o religiosi si sono infatti rivelate fondate sull’utile: lo scopo della comunità economica è quello di ricreare un utile capace di accrescere le ricchezze del singolo; lo scopo della comunità religiosa è quello di accedere ad un utile nell’aldilà, ricompensa ultima agli sforzi terreni. I membri di Nuova Comunità hanno ben compreso come «ciò che è intero e vivo sta al di là dell’utile» 28. Buber sta qui sottolineando come il primo e più importante elemento di una nuova comunità dovrebbe essere la sua capacità di guardare a sé stessa come unico scopo capace di portare i suoi membri a vivere una vita piena: La Nuova Comunità ha la comunità a suo scopo: l’interazione vitale tra uomini interi e completamente forgiati, felici tanto nel dare quanto nel ricevere. [...] Comunità, per come la intendiamo, è solo espressione di un traboccante anelito [Sehnsucht] alla pienezza della vita 29.
Il secondo elemento che distingue la nuova comunità dalla vecchia sta nel fatto di non dare peso alla teoria, cioè di non porre alla base del suo essere dei rigidi dogmi, delle ferree leggi: Noi invece ci riuniamo perché sospinti da una necessità vitale che si è impadronita di alcuni uomini della nostra epoca, e la diversità delle nostre opinioni ci è così cara e preziosa come la diversità dei colori e delle forme è preziosa per le cose. Le comunità antiche generarono coercizione nella collettività, noi vi portiamo il massimo grado di libertà 30. Ibid., p. 74. Ibid., p. 70. 28 Ibid. 29 Ibid., p. 69. 30 Ibid., p. 71. 26 27
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Buber parla di un comunitarismo che deve emergere, maieuticamente, dall’interiorità umana. L’uomo, se solo si guardasse dentro, tornerebbe spontaneamente a questa forma aggregativa che gli è propria per natura. Per questo, non ha bisogno di regole e costituzioni che forzino a comportamenti prescritti dall’alto. Il politico viene assorbito nel sociale, poiché la comunità nuova non aspira ad essere imposta dall’esterno ma fondata su un’organizzazione interiore, al punto da definire la nuova comunità come post-sociale. È da rifiutare la teoria secondo cui l’aggregazione spontanea fra uomini sia da riferirsi ad una condizione presociale, che diviene propriamente sociale solo dopo essersi data delle norme. Viceversa, la nuova comunità, con il suo potere creativo che genera dall’interno, è una «comunità postsociale. Essa non vuole riformare, le preme trasformare. [...] Essa vuole vivere» 31. La comunità postsociale è quella di cui, chiaramente, la Nuova Comunità avrebbe fornito un esempio tangibile. Emerge qui un elemento di fondamentale importanza, che funge da spartiacque tra le ideologie embrionali del nazionalsocialismo e la posizione di Buber e di Landauer. Proprio perché la comunità postsociale non vuole riformare ma trasformare, essa abbandona il binomio tra rivoluzione e distruzione dei residui del passato: «essa è rivoluzione» 32, una rivoluzione talmente piena dell’impazienza di creare che non è affatto animata dalla voglia di distruggere. Una nuova comunità che viene chiamata a nascere nella pace, offrendo agli uomini incatenati dai meccanismi utilitaristici la chance di creare un’umanità nuova, aggregata in comunità fondate sull’«affinità elettiva» 33 [Whalverwandtschaft]. Nel testo emerge con chiarezza la fascinazione giovanile di Buber per Nietzsche. Il rimando alla «vera vita» 34 che emerge qualora si lascino scorrere le forze vitalistiche, come in un fiume in piena, nonché il riferimento al «principio creatore» 35 e alla forza creativa della comunità stessa, sembra far parlare nuovamente Zarathustra 36. Non solo Nietzsche, ma l’intero retroscena romantico è presente in queste pagine. Termini quali
Ibid., p. 73. Ibid., p. 74. 33 Ibid. 34 Ibid., p. 68. 35 Ibid. 36 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit. 31 32
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Whalverwandtschaft 37 e Streben 38 rimandano ancora a connotazioni vitalistiche tipiche della cultura romantica tedesca: il primo, titolo di un romanzo di Goethe (1809), descrive un’unione intima e intensa fra esseri, capace di originare qualcosa di totalmente nuovo; viene tradotto nel testo con affinità elettiva, caratteristica della comunità nuova che, nel suo unire liberamente gli uomini, permette creazioni originali. Il termine Streben 39, impiegato da Goethe nel Faust (1831), rimanda ad un oscuro impulso spirituale che permette la tensione verso uno scopo supremo. Tradotto con spingere con forza, viene impiegato con il chiaro intento di indicare la forza vitalistica che spinge la nascita della nuova comunità. Infine troviamo nel testo la parola, di difficile traduzione, Sehnsucht: concetto centrale nella cultura romantica, indica la nostalgia per il futuro, cioè l’aspirazione che trascina verso il domani, permeata dalla malinconia per ciò che è perduto. Una tensione tipica dello spirito del Romanticismo e associata qui alla trazione che spinge a creare la comunità postsociale, nostalgica verso le perdute condizioni fagocitate da una società capace di guardare solo all’utile. I rimandi nietzschiani nonché gli accenni al clima culturale del Romanticismo tedesco caratterizzeranno profondamente la produzione giovanile dell’autore, per poi essere in larga parte abbandonati. Tuttavia, alcuni elementi presenti in Vecchia e nuova comunità possono essere ritrovati in un opera che vedrà la luce molti anni più tardi; si tratta di Sentieri in utopia, testo apparso per la prima volta in ebraico nel 1947. Tra le pagine di questa opera appare nuovamente il modo che Buber, in comunione con Landauer, ha di intendere il socialismo: la possibilità di opporsi ad ogni centralizzazione e ad ogni forma di autorità imposta dall’alto, confluente nella formazione di comunità fondate sulla solidarietà fra uomini e sulla responsabilità sociale. Nel 1947 è ancora presente l’idea di una rigenerazione societaria che agisce in maniera cooperativa grazie al recupero del legame fra uomini. Lo stesso Landauer non viene affatto dimenticato, né come amico, né come pensatore. È Buber a tenere vive le sue idee grazie alla riedizione delle sue opere e alla pubblicazione delle sue lettere. È sempre lui a testimoniarne il pensiero in una nuova conciliazione con l’ebraismo. Spinto dal dialogo con l’amico, egli scopre un nesso fra l’ideale società anarchica e la tradizionale comunità ebraica, prendendo le distanze da ogni forma di nazionalismo patriottico: L. Fachin e G. Ragona, Op. cit., p. 74. Ibid., p. 69. 39 Ibid. 37 38
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una prospettiva che permette di ripensare molte delle categorie socio-politiche a lui care e di correggere il movimento sionista. All’indomani dell’assassinio di Landauer, Buber scrive: «“Landauer è caduto come profeta e martire della comunità umana futura”» 40; un profeta le cui parole troveranno spazio proprio all’interno di Sentieri in utopia. 5. Landauer in Sentieri in utopia Sentieri in utopia, inizialmente edito con il titolo ebraico Netivot be-Utopia, è uno dei testi che accompagnano la fondazione dello Stato di Israele. Per alcuni studiosi, l’opera sembra rimandare al romanzo Alteneuland di Herzl, in cui già si prefigurava uno Stato ebraico organizzato per cooperative legate da un sistema mutualistico. Nella proposta buberiana si condensano però temi politici, ispirazione messianica e prospettiva escatologica: questo permette di affermare come Sentieri in utopia sia, in un certo senso, un correttivo del sionismo. A questo punto della trattazione, non avendo ancora analizzato le molteplici direzioni che confluiscono nella maturità del pensiero buberiano, non si è ancora in grado di comprendere lo spessore di questa opera. Tuttavia, sembra importante anticiparne uno specifico capitolo in cui, tra i fondatori del socialismo utopico, viene annoverato Landauer. Sebbene siano ormai passati più di venti anni dalla morte dell’amico, il suo pensiero viene riportato con la vivida chiarezza e il sincero trasporto che si nota negli anni di Nuova Comunità, sottolineandone ancora il merito nell’aver posto il comunitarismo al centro del suo pensiero. Landauer «comprende l’essenza dello stato» 41, poiché coglie come esso non sia una mera istituzione ribaltabile con azioni rivoluzionarie. Viceversa, egli è capace di affermare che lo stato è una modalità di rapporto e relazione fra uomini. Partendo da questo presupposto, vi è un’unica possibilità per far diventare il socialismo realtà, cioè quella di creare un nuovo rapporto fra uomini, capace di sostituire quello precedente: Nella misura in cui [...] gli uomini troneranno a unirsi in popolo e daranno vita ad un organismo con innumerevoli organi e articolazioni, il socialismo, che oggi vive solo nello spirito di singoli uomini atomizzati, diventerà realtà 42. M. Buber, Sentieri in Utopia, cit., p. 27. Ibid., p. 91. 42 Ibid. 40 41
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Un socialismo che recupera ciò che lo stato ha rovinato: il comunitarismo. Le forme statali, tracimando al di fuori dello spazio di propria competenza, hanno schiacciato la comunità sotto di sé. Poiché tale condizione dipende dallo spirito degli uomini, il socialismo viene così investito del compito di promuovere la comunità e muovere gli spiriti verso la reciprocità, costringendo lo stato ad arretrare sino al punto che permetterà la nuova esistenza della dimensione comunitaria. La proposta di Landauer potrebbe essere definita «una conservazione rivoluzionaria» 43 poiché sceglie di serbare quegli elementi dell’essere sociale che risultano fondamentali per edificare la nuova società. Tuttavia, egli stesso mette in guardia su tre diversi punti, necessari affinché la rivoluzione possa effettivamente servire lo scopo. In primis, è necessario che i rivoluzionari siano davvero decisi a creare una confederazione comunitaria di società. In secondo luogo, il patrimonio culturale, base di ogni comunità, deve essere preparato in modo da poter crescere all’interno della comunità stessa. Infine, la preparazione deve avvenire «in un genuino spirito comunitario» 44. Fornite le premesse metodologiche, Landauer incita alla concretezza: è, per lui, necessario tentare, iniziare, provare a creare quella comunità di cui sia lui che Buber avevano a lungo discusso, quella società fondata sullo scambio egualitario. Al termine del capitolo, viene rintracciato un elemento rilevante, cioè la mancanza di assolutismo del socialismo. Nel pensiero di entrambi gli amici si trova l’idea per cui: Ogni vero socialismo è relativo. [...] Il vero socialismo non può mai essere qualcosa di assoluto. Il socialismo è il divenire della comunità all’interno del genere umano, a seconda di ciò che, nelle condizioni date, può essere voluto e compiuto 45.
Buber e Landauer testimoniano lo spirito rivoluzionario che, lungi dal voler distruggere ciò che lo ha preceduto, vuole diventare componente dell’ordine sociale. Essi incitano gli uomini di ogni tempo a ripensare al loro stare insieme, a trovare modi sempre nuovi di essere comunità. Le parole dell’amico anarchico, inoltre, creano un ponte all’interno delle opere buberiane, delineando l’idea di comunitarismo che rimarrà sempre presente nei suoi scritti. È la possibilità di un socialismo altro, che si configura come un: Ibid., p. 96. Ibid., p. 99. 45 Ibid., p. 102. 43 44
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Socialismo dell’altro, che lavora all’invenzione e alla sperimentazione di nuove comunità a partire sempre dal loro “centro”, il luogo della reciprocità, della relazione sempre in divenire. [...] L’utopia della comunità messianica del noi 46.
Questa prospettiva offre a Buber l’occasione per radicare un’argomentazione capace di conciliare il sionismo politico alla spinta culturale. La spinta alla conoscenza tanto cara in ambito ebraico si intreccia a quell’idea di comunità fondata su uomini che stanno insieme poiché insieme condividono valori, idee, concetti: cultura, in definitiva. Quella cultura mancante nella prospettiva di Herzl è dunque monito al problema del futuro stato ebraico: senza una cultura condivisa, gli ebrei non potranno essere una comunità; senza essere una comunità, potranno costruire una nazione?
46
Ibid., p. 34.
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III.
Incontro con il chassidismo “Ogni realtà è realtà di Dio. Nessuna realtà è possibile se non attraverso l’essere umano, che si realizza portando a compimento il suo essere” (Martin Buber, Daniel)
Nel 1903 il pensiero buberiano viene profondamente scosso dagli scritti del rabbino Baal Shem Tov (1700-1760), da cui il movimento chassidico prende adito. In questi testi la somiglianza dell’uomo a Dio è proposta «“come un fatto, uno sviluppo, un compito”» 1. Colpito dalla proposta, Buber riflette come «“questa nozione molto ebraica sia anche una nozione molto umana, il contenuto della religiosità più umana”» 2 e, da questo momento in avanti, inizia a «“comprendere l’ebraismo come religiosità”» 3. Si risveglia in lui un ricordo, quello dell’incontro vissuto anni prima a Sadgora, al fianco del padre, al cospetto di uno Zaddiq in dialogo con la sua comunità 4. La rivelazione chassidica è tale che egli abbandona le fila dell’attivismo sionista per trascorrere alcuni anni in relativo isolamento 5, 1
968.
M. Buber, Schriften zum Chassidismus, Lambert Schneider, Heidelberg 1963, pp. 967-
P. Vermes, Op. cit., p. 26. Ibid. 4 Ogni comunità chassidica si muove attorno ad un cardine, il suo Zaddiq, l’uomo più intimo con il divino e dunque più capace di muoversi sulla terra. Guaritori di anime e maestri dei giovani della comunità, non di rado gli Zaddiq entrano a far parte della tradizione chassidica e dei racconti delle singole comunità: alcuni vengono ricordati per essere dei fermi asceti, altri grandi amanti di Dio, di qualcuno si racconta la grande capacità di predicazione, di altri si narra l’umiltà o le capacità intuitive. Certamente figure ricche di fascino, al punto che non stupisce il rapimento con cui Buber osserva lo Zaqquid di Sadgora, così abile nell’adunare la comunità attorno a sé. 5 Il legame di Martin Buber con la città italiana di Firenze, che lo porterà a tornare assiduamente in Toscana sino al 1938, anno del trasferimento in Palestina, nasce fin dagli anni dell’università, quando le lezioni di Dilthey e Simmel suscitano in lui un profondo amore per il Rinascimento italiano. Questa categoria storica verrà indagata in maniera particolare negli stessi anni dedicati allo studio del chassidismo, in cui Buber si stabilisce per circa due anni, a cavallo fra il 1905 e il 1906, a Firenze. Un’analisi dettagliata del periodo fiorentino è 2 3
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dedicandosi allo studio del chassidismo, ancora interpretato entro cornici misticistiche. Pur non aderendo mai agli aspetti più tradizionalistici e ortodossi della dottrina, trarrà da essa «quello di cui egli aveva bisogno, ritenendo solo quello che poteva trasmettere con vantaggio ad altri» 6. 1. Martin Buber: un chassid sui generis Scrive Dante Lattes in Correnti ebraiche del Secolo xviii: Il chassidismo rinnova in un secolo privo di fantasia il fermento spirituale, il volo celeste, la poesia con cui Mosè e i Profeti, i Rabbini dell’Aggadah talmudica e quelli della Kabbalah si avvicinavano a Dio, si ricongiungevano all’infinito, interpretavano la divinità nel mondo, prendevano contatto con tutto ciò che vive al di fuori e al di sopra di noi 7.
Il chassidismo, pur senza negare il valore delle Legge, rinnova l’entusiasmo per le antiche tradizioni in un momento storico in cui si sente il peso della persecuzione. Il xviii secolo vede numerosi massacri e pogrom a sfavore degli ebrei in tutta Europa: dalla Polonia alla Russia, sino all’Austria e all’Europa centrale tutta, le comunità ebraiche si trovano strette tra «l’incudine dello Stato e il martello della nobiltà, fra l’odio della plebe rurale [...] e l’odio del clero» 8. Nell’instabilità e nell’incertezza, nasce l’esigenza di ritornare ad un contenuto accessibile a tutti, una versione maggiormente intima e per questo capace di preservare l’identità ebraica anche dinnanzi all’oppressione socio-politica 9. Anche Buber rintraccia nell’insegnamento del Baal Shem Tov la possibilità del ritorno all’autenticità semplice, di presente in A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit. Per approfondire il non insolito legame degli ebrei della Germania con l’Italia si rimanda a A.D. Biemann, “Thus Rome shows uso ur True Place”: reflection on the German Jewish Love for Italy, in AA. VV., German-Jewish Thought Between Religion and Politics. Festschrift in Honor of Paul Mendes-Flohr on the occasion of His Seventieth Birthday, Series Studia Judaica 60, de Gruyter, Berlin 2012. 6 P. Vermes, Op. cit., p. 30. 7 D. Lattes, Correnti ebraiche del XVIII secolo: il Chassidismo, in «La rassegna mensile di Israel», 6 (1931), pp. 340-353. 8 Ibid., p. 341. 9 Il chassidismo affonda le sue radici nella precedente tradizione della Kabbalah la quale, fin dalla sua nascita, fra il xii e il xiii secolo, fa del misticismo la possibilità di sfuggire al peso del mondo. Passando per gli insegnamenti di numerosi personaggi di rilievo, come quelli di Isaac Luria (1534-1572), che rilegge i temi kabbalistici permettendone l’accesso alla gente comune, il chassidismo vede nel misticismo l’occasione di trasferire le sofferenze
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nuovo capace di restituire all’uomo il suo ruolo nel mondo. Tra il 1904 e il 1909, accanto alla promozione della collana di psicologia sociale Die Gesellschaf 10, egli completa le prime opere dedicate al chassidismo 11. Nello specifico, nel 1906 viene pubblicato Le storie di Rabbi Nachman 12 e nel 1908 La leggenda del Baal-Schem 13. Questo ultimo testo chiarifica la posizione assunta rispetto alla dottrina. Una lettura che, come egli ammetterà in seguito, risulta essere fin troppo libera 14. Nella sezione dedicata alla vita chassidica, egli riporta i sei precetti utili al raggiungimento della perfezione, cioè «attaccamento, [...] umiltà, santa intenzione, adorazione, ardore e gioia» 15. L’attaccamento venne inteso dai primi kabbalisti come un volgersi completamente verso Dio a scapito del mondo: Baal Shem inverte questa visione, permettendo ad ogni chassid di giungere alla consapevolezza che Dio è in ogni cosa, pertanto attaccarsi a Dio equivale ad attaccarsi al mondo 16. L’umiltà, differente rispetto all’autodenigrazione, è la capacità di e le preoccupazioni terrene restaurando la vicinanza alla Torah, donando una chance di distogliere lo sguardo dagli errori del mondo, puntandolo invece sulla salvezza. 10 Si tratta di una collana di psicologia sociale pubblicata presso gli editori Rütten und Loening di Francoforte. 11 W. Goldstein, Die Botschaft Martin Bubers (iv) Von Chassidisum und Zion, Edition Dr. Peter Freund, Jerusalem 1958. 12 M. Buber, Die Geschichten des Rabbi Nachman, Rütten und Loening, Frankfurt 1906, trad. it. Le storie di rabbi Nachman, in id., Storie e leggende chassidiche, Mondadori, Milano 2008. 13 M. Buber, Die Legende des Baal-schem, Rütten und Loening, Frankfurt 1908, tr. it. La leggenda del Baal-Schem, in Id., Storie e leggende chassidiche, Mondadori, Milano 2008. 14 P. Vermes, Op. cit., p. 47. 15 Ibid. 16 Il chassidismo pone alla sua base l’unità dello spirito: non vi è differenza fra il mondo umano e quello divino, in quanto legati l’uno all’altro e capaci di influenzarsi vicendevolmente. La fondazione della teoria chassidica si trova nella dottrina delle scintille, che offre un’interpretazione di come dal Nulla onniracchiudente di Dio derivi il cosmo. Egli, contraendo la sua luce, creò il cosmo nell’oscurità che era sorta dall’assenza della sua luminosità, chiamando poi l’Uomo Primordiale ad esistere. Adam Qadmon, il primo uomo, discende direttamente della Luce infinita di Dio. Per catturare la Luce, vengono posti in ogni parte dell’Universo dei vasi. A seguito della rottura di alcuni di essi, la Luce si riversa nell’Universo e le scintille della Luce divina si disperdono in ogni dove. La stessa caduta di Adam nel mondo porta alla dispersione della sua anima in più scintille. Il compito dell’uomo è ora quello della reintegrazione» [tiqqun]: le scintille devono essere aiutate a ricongiungersi con Dio, dunque la sua stessa perfezione dipende dall’uomo, che non deve guardare tanto alla propria anima quanto alla realizzazione di questo compito. Quando infine Dio sarà ricongiunto alla sua presenza inabitante, la Shekhinah, la stessa creazione avrà ritrovato la sua unità. Il Baal Shem Tov unisce così il Cielo e la Terra, dando spirito nuovo all’ebraismo. Il creatore, sempre presente in seno alla sua creazione, va dunque scoperto, liberando le sacre scintille e risalendo così alla fonte prima che le ha generate.
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ogni chassid di non inorgoglirsi, poiché «ciascuno è una parte e nessuno è un tutto» 17: è il mezzo attraverso cui l’Io può abbassarsi in profondità, evidenziando tramite la sua presenza quella di Dio. La santa intenzione è il nesso tra il sentire interno dell’uomo e l’esteriorizzazione dello stesso tramite la pratica religiosa; secondo l’autore, è ciò che permette di giungere, tramite un movimento continuo tra interno ed esterno, alla redenzione del mondo. L’adorazione chassidica si discosta dall’adorazione «istituzionale e comunitaria propria del tempio» 18 arrivando ad essere identificata con la preghiera, quel momento del cuore in cui Dio parla e ognuno può rispondergli. L’ardore è l’estasi, elemento tipicamente mistico, attraverso cui ogni chassid può percorrere la via della santità, sempre più prossimo al divino. La gioia, infine, deriva dell’entusiastica consapevolezza di essere creature di Dio, tipica dell’ebraismo in genere. Buber approfondisce i sei consigli per raggiungere la perfezione poiché in essi vede chiarificarsi lo spirito del chassidismo, il suo messaggio fondamentale: Nel chassidismo, e solo in esso, da quanto mi risulta dalla storia e dallo spirito umano, la mistica è divenuta ethos. Qui l’unità mistica originaria, in cui l’anima desidera fondersi, non assume altra forma di Dio che non sia il farsi carico della richiesta 19.
La critica alla religione trova in Buber un punto d’arresto: lontano da soluzioni di tipo gnostico, egli vede nel chassidismo la nuova possibilità etica, l’etica della responsabilità 20 capace di un reale progetto storico. Ogni chassid ripone la sua fede in un Dio nel mondo, in un Dio che è luogo del mondo e, di conseguenza, supera l’aridità tipica delle pratiche religiose a favore di una rinnovata esistenza sacramentale nel mondo: un modello che necessariamente prevede il coinvolgimento dell’intera persona nella fede e P. Vermes, Op. cit., p. 52. Ibid., p. 56. 19 M. Buber, Il messaggio del chassidismo, cit., p. 166. L’opera racchiude una serie di saggi sul messaggio chassidico, scritti tra il 1921 e il 1943. Nello specifico, la citazione è tratta dal saggio Dio e l’anima. 20 La questione etica della responsabilità troverà ampio sviluppo anche nella fase dialogica, disegnando l’immagine di un uomo capace di compiere scelte autentiche e dunque responsabile delle stesse. Come scrive Clara Levi Coen: «La vera caratteristica dell’uomo consiste nell’assumere in pieno la propria responsabilità, poiché da ogni uomo dipende il destino del mondo. Ogni evento della vita, anche il più comune, mi pone ad un bivio, esige da me una risposta cosciente. La mia risposta lascerà un impronta nel mondo futuro e lo modellerà», in C.L. Coen, Martin Buber, Enciclopedia della pace, Firenze 1991. 17 18
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che si lascia alle spalle la frattura tra il sacramento e la vita mondana. Scrive in un saggio del 1921, dal titolo Spinoza, Shabbetay Tzvi e il Baal Shem: Nel contatto concreto con l’essere umano, invece, il mondo diventa sempre e di nuovo sacramentale, ovvero, nel contatto concreto delle sue cose ed esseri con questo uomo, con te, con me. Le cose e gli esseri, in cui dimorano tutte le scintille divine, sono affidate a questo uomo affinché egli, attraverso il contatto con esse, redima tali scintille. Questa è l’esistenza dell’uomo nel mondo: le cose e gli esseri gli sono affidati nella loro possibilità sacramentale. [...] Questo è il modo concreto di questo istante della persona, pronto ad essere sacramento, pronto a sostenere l’accadere reale della redenzione. È questo che è stato affidato a noi; è questo il modo in cui Dio mi rivolge la parola, e in cui vuole ricevere una risposta da parte mia 21.
Laddove le religioni inibiscono la capacità di coinvolgimento della persona per intero, va ridestata la sostanza vitale del fedele, cioè quella fede capace di restituire nuova verità e nuova libertà ad ogni atto religioso 22. Il chassidismo di Buber è così «l’infinito ethos dell’attimo» 23, per cui: Di massima importanza non è ciò che è stato, bensì cosa accade di volta in volta: non, pertanto, cosa succede ad un uomo, ma che cosa fa; e non qualcosa di straordinario che egli fa, bensì l’abituale, e, più ancora di ciò che fa, come lo fa 24.
Una nuova chance di ritornare ad una fede capace di recuperare in unicum l’uomo, il mondo e Dio. 2. La mistica nel pensiero giovanile di Buber Nell’attenzione che Buber offre al chassidismo emerge la sua fascinazione per la mistica. L’interesse per questo tema, già mostrato nella scelta M. Buber, Il messaggio del chassidismo, p. 34. Come afferma Lévinas rileggendo Buber: «Secondo questa concezione del chassidismo, bisogna percepire in questa presenza concreta nel mondo una elevazione del mondo, bisogna far venire alla luce le scintille di lassù che sono assopite quaggiù, raccoglierle e ricondurle all’Ardore originario da cui erano discese. [...] Esistere significa dunque rimettere insieme la dispersione del sacro nel profano. Non significa affatto trovarsi gettati e abbandonati nell’assurdo come penseranno lì a poco certi filosofi dell’esistenza», in E. Lévinas, Martin Buber, cit., pp. 13-14. 23 M. Buber, Il messaggio del chassidismo, cit., p. 103. La citazione è tratta dal saggio Spirito e corpo del movimento chassidico. 24 Ibid. 21 22
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dell’argomento della tesi di dottorato, dedicata a Jacob Böhme 25 e Nicola Cusano 26, diventa evidente in questi anni 27. In tal senso, egli raccoglie una gran mole di materiale non solo sul chassidismo, ma anche sul buddismo e sul taoismo. La mistica diventa inoltre il tema centrale dell’opera pubblicata nel 1909, Confessioni estatiche 28. La convergenza di questi studi lo portano a convincersi della necessaria contrapposizione tra religione e religiosità. Questa argomentazione, per la verità estremamente diffusa all’inizio del xx secolo, è un tema che caratterizzerà tutta la proposta buberiana. La permanenza di alcuni fra questi argomenti ha portato alcuni studiosi a rilevare come egli, in realtà, non si distacchi dalla propensione giovanile alla mistica nemmeno nelle opere mature: è la tesi di Gershom Scholem 29, secondo il quale il pensiero dell’autore rimarrà sempre legato alla mistica, pur venendo coperto dalla patina teologica della maturità. È altrettanto vero che il giudizio di Scholem viene considerato eccessivo da numerosi 25 Jacob Böhme (1575-1624) è un mistico tedesco. Di matrice luterana, nella sua opera insiste particolarmente su una visione trinitaria di Dio (Dio-Cristo-Uomo), che deriva dal reciproco scontrarsi della sua Volontà e Contro-Volontà, e in cui convergono tra l’altro motivi Kabbalistici e numerologici connessi ad influssi ermetici. 26 Nicola Cusano (1401-1464), noto anche come Nicolò da Cusa o Nicolò Cusano, fonda la sua gnoseologia sul rapporto fra noto ed ignoto. In particolare, dinnanzi a Dio, propone di adottare la “dotta ignoranza”, una forma di teologia negativa secondo cui, dinnanzi all’infinità e alla perfezione divina, nulla può conoscere l’uomo, partendo da una posizione di imperfezione e finitudine. Sapiente è così colui che ammette la sua ignoranza davanti a ciò che non può essere conosciuto. 27 Grazie alla parabola disegnata tramite le parole di Böhme e Cusano, la tesi di dottorato di Buber si incentra primariamente sulla corrispondenza tra l’individuo metafisico e l’impulso alla personalità proprio dell’età moderna. È infatti in questo momento storico che viene messa da parte l’idea di uomo quale portatore dell’esperienza di trascendenza a favore di una concezione dell’individuazione in sé: l’individuo è così investito di un valore immanente, così come è sempre l’immanenza a dover caratterizzare necessariamente anche l’ambito del sacro. Per il giovane Buber, in tale contesto, a Böhme e Cusano va il merito di cogliere la presenza del divino in ogni realtà individuale. La tesi di dottorato, dunque, offre l’occasione non solo di affermare il fascino che la mistica esercita sull’autore, ma altresì per mettere in chiaro quanto il perno ermeneutico attorno a cui ci si muove sia quello del rapporto tra unità e molteplicità; il tema è ben approfondito in A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., pp. 30-36. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a F. Ferrari, Individuo e individuazione. Una lettura della dissertazione dottorale di Martin Buber, in «Dialeghestai», rivista telematica di filosofia, anno 14 (2012), consultabile al sito https://mondodomani.org/dialeghesthai/ e Id., Jacob Böhme. Il primo incontro di Martin Buber con la mistica tedesca (1901-1904), in «Rivista di ascetica e mistica», XXXVII/3, luglio-settembre 2012, pp. 598-604. 28 M. Buber, Ekstatische Konfessionen, Diederischs, Jena 1909, trad. it. Confessioni estatiche, Adelphi, Milano 1987. 29 A. Poma, Rassegna, saggio introduttivo a F. Ferrari, Religione e religiosità. Germanicità, ebraismo, mistica nell’opera predialogica di Martin Buber, Mimesis, Milano 2014, p. 154.
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commentatori di Buber: è il caso di Francesco Ferrari, che esprime la sua tesi in Religione e religiosità 30, riprendendo l’argomentazione già espressa da Maurice Friedman, secondo cui «“le fonti mistiche del pensiero buberiano affioreranno [...] costantemente e innegabilmente alla superfice dei suoi scritti”» 31. La proposta è condivisa anche da Andrea Poma ed è la tesi che si preferisce adottare in questa trattazione: gli anni di lavoro e di fascinazione nei confronti della mistica entrano a far parte del bagaglio culturale di Buber e rimangono come un’eco anche nelle opere della maturità, pur nel rigetto del misticismo in senso stretto. È dunque necessario conoscere la posizione del Buber-mistico in funzione della piena comprensione del futuro pensiero dialogico; è altrettanto importante non cadere in inganno: egli, ad un certo punto della sua vita, rigetta la mistica e legge il chassidismo secondo canoni differenti, come lui stesso testimonia in Dialogo, ove scrive: Negli anni della giovinezza la religiosità era per me l’eccezione. [...] Poteva iniziare con un atto comune, con la contemplazione di un qualsiasi oggetto familiare che poi, però, diventava misterioso, spaventoso, infine trasparente nelle tenebre del mistero stesso che mandava lampi guizzanti. [...] Ma da allora ho abbandonato quella religiosità che è solo eccezione, distacco, estasi 32.
L’influenza della mistica sul pensiero giovanile è, tuttavia, indubbia. Nelle prime opere buberiane la questione di Dio è infatti affrontata come questione «del tutto immanente» 33. L’atto religioso «consiste essenzialmente nella realizzazione dell’unità» 34, un’unità che, fino all’approdo allo stesso atto religioso, l’uomo non riesce ad esperire. Egli infatti sperimenta sé stesso in una dualità connessa alla temporalità dell’esistenza, vissuta in senso negativo. In altre parole, l’uomo in primis vive una condizione di scissione causata dall’insicurezza della vita, dal dubbio e dalla disperazione che permeano l’esistenza. Questa dualità, tuttavia, è contrapponibile alla risolutezza [Entschlossenheit], cioè alla possibilità di scegliere, di agire: «scegliendo, egli produce unità e quindi l’essere» 35. L’uomo può innalzarsi al di sopra della propria dualità grazie all’azione “del decidere”, tramite la quale crea 30 F. Ferrari, Religione e religiosità. Germanicità, ebraismo, mistica nell’opera predialogica di Martin Buber, cit. 31 Ibid. 32 M. Buber, Dialogo, cit., pp. 198-199. 33 B. Casper, Op. cit., p. 52. 34 Ibid., p. 50. 35 Ibid., p. 51.
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unità, ingloba «il contenuto infinito» 36. L’atto religioso viene così a caratterizzarsi come religiosità dell’azione, «quell’azione che si decide nella risolutezza, dinnanzi alla potenza annientante della morte, e che in questo modo crea unità, diviene l’essenza della religiosità. In essa è presente l’Assoluto» 37. Entro la religiosità dell’azione, quindi, il Dio immanente è il polo unitario contrapposto all’estremo dell’Io. L’unità diviene cifra ermeneutica attorno alla quale si intrecciano il religioso, il politico e l’antropologico, al punto che la scelta dell’azione religiosa non è del solo ebreo, ma dell’uomo in genere, che può dirsi così capace di consacrare la propria vita al di sopra della dispersione del molteplice. Come scrive Tumminelli: Il raggiungimento dell’unità va perseguito allora [...] come scelta esistenziale concreta dell’individuo nella comunità. Scegliere continuamente se stessi nella propria appartenenza identitaria e religiosa diviene per il filosofo non solo la cifra essenziale della condizione ebraica, ma, in una prospettiva universalistica, la modalità con cui ciascun essere umano può compiere l’unità, realizzando in essa la redenzione di Dio e del mondo. Unificando il piano antropologico con quello politico e religioso, Buber rimarca come la condizione ebraica, e quindi la stessa condizione umana, debba essere animata dal compito di consacrare la vita all’unità 38.
Buber riprende l’opinione di Böhme per cui «Dio è il Dio che noi creiamo come unità sempre maggiore di forze» 39. Un’immagine che trova espressione in ciò che evoca il Baal Shem Tov, quando incita l’uomo a sollevarsi dal mondo in quanto egli è degno di creare, alla stregua di Dio che crea i mondi; ancor più, «colui che realizza realizza Dio» 40 partendo da sé, partendo da quel sé che è capace di creare unità partendo da ogni dualità. Scrive infatti Buber in Daniel: Dio vuole di fatto essere concretamente realizzato, ogni realtà è realtà di Dio, e nessuna realtà è possibile se non attraverso l’essere umano, che si realizza portando a compimento il suo essere 41.
Dopo l’annuncio nietzschiano della morte di Dio, all’indomani della critica alla religione di Feuerbach, non resta che rinunciare alla trascendenIbid. Ibid., p. 52. 38 A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., p. 59. 39 B. Casper, Op. cit., p. 53. 40 Ibid. 41 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 75. 36 37
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za, ancorandosi alla propria interiorità. L’insegnamento del Baal Shem Tov riecheggia nel cuore della lezione diltheyana, portando Buber a ripartire dal sé, unico luogo in cui Dio può apparire grazie alla «assolutezza nell’azione libera» 42. Tuttavia, l’atto religioso parte da un sé che non è mai solo 43, non è mai un singolo individuo. In accordo con gli insegnamenti ricevuti all’Università di Berlino e con le tesi precedentemente condivise con l’amico Gustav Landauer, la realtà religiosa proposta è quella «in cui io sono insieme ad altri» 44. La realtà è la realtà di tutti e, ancor più, nel suo essere una realtà condivisa acquista i caratteri di spazio storico; è realtà storica perché ogni volta è una realtà nuova. Ancora una volta in accordo con il maestro Dilthey, ogni sé che si apre all’atto religioso permette la realizzazione di un nuovo spazio storico: La realtà, pensata in modo superindividuale, si mostra come realtà della cultura, o, secondo la distinzione che Buber presto opererà: la religiosità è ogni volta la nuova parola mondana [Weltenwort] che fonda una nuova cultura 45.
La decisione di ogni sé che nell’atto religioso si apre all’unità è possibile solo in quella realtà che è sopra ad ogni singolo individuo. Tale realtà condivisa è lo spazio entro cui il senso della vita, ogni volta nuovo, può darsi, permettendo la realizzazione di nuove culture, di nuovi spazi storici. 3. Chassidismo ed ebraismo L’approfondimento del chassidismo permette a Buber di rileggere anche la religiosità interna all’ebraismo, non più considerato nell’esclusiva componente culturale. La considerazione emerge in un testo del 1923, Discorsi sull’ebraismo 46. Il libello raccoglie una serie di saggi che ruotano attorno al tema della Judenfrage, cioè della questione ebraica; nelle prime righe del Discorso di apertura, scritto attorno al 1909, Buber esplicita la domanda che segnerà la direzione delle sue ricerche:
B. Casper, Op. cit., p. 54. Ibid., p. 56. 44 Ibid. 45 Ibid. 46 M. Buber, Reden über das Judementum, Rütten und Loening, Frankfurt 1923, trad. it. Discorsi sull’ebraismo, Gribaudi, Milano 1996. 42 43
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La questione che io pongo oggi dinnanzi a voi e me è la questione del senso che l’Ebraismo ha per gli Ebrei. Perché noi ci chiamiamo Ebrei? Forse perché siamo veramente tali? E che cosa vuol dire essere Ebrei? Ponendovi oggi tale questione io non intendo parlarvi di astrazioni, ma della vostra vita, della nostra vita, considerata non nelle sue forme esterne ma nell’intimo del suo diritto e nella sostanza viva. Perché ci chiamiamo Ebrei? Solo perché così ci chiamarono i nostri padri, per una consuetudine ereditaria? O il nostro nome ha radice in una realtà? 47.
Egli parla agli intellettuali del tempo tentando di stimolare l’autoconsapevolezza ebraica, chiasma capace di dare nuova linfa allo spirito comunitario del suo popolo 48. L’originalità dell’ebraismo sta qui nella capacità unificatrice, nell’azione religiosa come luogo della responsabilità e nella dimensione etica presente nell’insegnamento del Baal Shem Tov. La proposta buberiana è certamente particolare, in quanto filtrata attraverso gli occhi di un uomo occidentale del xx secolo formatosi entro la cultura del suo tempo. Per questo, egli trova nei temi chassidici la spinta ad uno stile di vita capace di non incastrarsi nelle fredde crepe della secolarizzazione moderna. Il profano non è più l’antitesi del sacro, ma uno stadio anteriore entro il quale vi è il varco per accedere a Dio. La vita può essere santificata, il mondo può essere redento solo se si acquisisce la capacità di cogliere in ogni dove le scintille della presenza di Dio. Una lettura applicabile all’ebraismo tutto, come sottolineato in Discorsi sull’ebraismo. Il primo apre il saggio intitolato Ebraismo ed Umanità 49 e definisce il mondo dell’ebreo come un mondo polare. L’uomo, dice l’autore, vive la sua realtà interna come costantemente segnata dalla dualità. Tra gli uomini, inoltre, l’ebreo è colui che maggiormente esperisce questa forma fondamentale, poiché: Nessun altro l’ha concretata così chiaramente e definitivamente; mai essa ha avuto un’azione così decisiva sul costume e sulla sorte. Mai altrove essa ha creato qualcosa di così paradossale, di così eroico, di così inaudito, di così miracoloso come questo miracolo: lo sforzo dell’ebreo verso l’unità 50. Ibid., p. 11. Si veda E. Lévinas, Martin Buber, in Id., Fuori dal soggetto, cit., pp. 11-17. Buber mostra per primo al mondo occidentale l’attualità del pensiero ebraico; grazie alla spiritualità chassidica, infatti, egli legge una risposta alla crisi intuita ancor prima delle guerre mondiali, concependola a partire da un profondo amore per l’Occidente: «Questa crisi dell’Occidente gli sembrò derivare da una rottura fra il mondo e Dio, e questo chiamerebbe in causa sia la vita profana degli uomini del nostro tempo che la loro vita religiosa». 49 M. Buber, Discorsi sull’ebraismo, cit., pp. 21-30. 50 Ibid., p. 24. 47 48
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L’ebreo, in modo paradigmatico, dopo aver esperito la tensione della dualità, può altresì aprirsi all’esperienza dell’unità. Un’idea capace di camminare attraverso i testi chassidici, giungendo a toccare l’ebraismo in genere e, così, diventando paradigma donabile ad ogni uomo: «il tendere che fa l’Ebreo all’unità fa dell’Ebraismo un fenomeno dell’Umanità, della questione ebraica una questione umana» 51. Altrettanto ricche risultano le pagine dedicate al saggio Religiosità ebraica, in cui ancora una volta emerge la contrapposizione tra la staticità della religione e il dinamismo della religiosità. Buber afferma di voler «liberare l’essenza specifica della religiosità ebraica dalle rovine con cui l’hanno coperta il rabbinismo e il razionalismo» 52. Per farlo, è necessario svincolare l’atto che si trova alla base dell’ebraismo, quello stesso che è il cuore della predicazione del Baal Shem Tov, «l’atto della decisione come atto della realizzazione sulla terra della libertà divina e dell’assoluto» 53. Se è vero che nessuno conosce l’atto dell’unificazione come gli ebrei, è altrettanto vero che questo non può essere creduto, deve essere vissuto: nell’azione, nella realizzazione si giunge a rendere univoco quello che altrimenti si sperimenta come polare e duplice. Questo atto unificatore, nel chassidismo così come nello spirito ebraico per intero, «è la realizzazione di Dio mediante l’uomo» 54. Come il chassidismo diventa la lente per leggere l’ebraismo, così l’ebraismo è capace di fornire una lezione all’umanità in generale e, in particolare, all’uomo occidentale, bisognoso di un messaggio di salvezza. Buber è partecipe dell’insofferenza degli intellettuali dell’xx secolo contro l’ideale illuministico di progresso, proprio del razionalismo occidentale. Spirito sempre più relegato entro i confini dell’ideologia borghese e del becero scientismo, sprona alla rivoluzione socialisti ed anarchici. Egli fa proprio questo profondo desiderio di rinnovamento, colmandolo di un senso nuovo, quello di una conversione capace di fare rivoluzione e di condurre ad un autentico cambiamento. Il tema, che emerge con chiarezza in Lo spirito dell’Oriente e l’Ebraismo, quarto fra i Discorsi, permette di indagare la dicotomia che intercorre fra Oriente e Occidente. Da una parte vi è la spiritualità orientale, cui l’ebraismo deve le sue radici, capace di ricondurre la molteplicità ad unità, dall’altra si trova il mondo occidentale, segnato da Ibid. [corsivo mio]. Ibid., p. 73. 53 Ibid. 54 Ibid., p. 75. 51 52
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incontro con il chassidismo
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«un atto psichico [...] centripeto» 55 che, all’indomani del trionfo dell’Ellenismo, lo rende assoggettato alla molteplicità delle cose, all’oggettivazione del mondo. All’interno di questa frattura l’uomo ebreo è chiamato ad essere ponte: strappato dal suo luogo di origine, passato attraverso «tutti gli inferni dell’Occidente» 56, deve tornare a far splendere la sua forza originale. L’ebraismo, nonostante i secoli di permanenza in Occidente, non è dimentico delle sue origini levantine. Per questo, rappresenta la porta d’uscita dalla crisi dell’uomo occidentale: «Gerusalemme è sempre quello che fu nell’antichità: la porta dei popoli. Qui è l’eterno passaggio fra Oriente ed Occidente» 57. Molti dei temi cari alla modernità possono essere riletti attraverso il filtro del restaurato misticismo religioso. Ne è esempio il nazionalismo, del quale Buber formula una peculiare trattazione. Solo se l’idea di nazione acquista caratteri divini, il nazionalismo viene mosso da una forza salvifica. Viceversa, dal rifiuto di Dio, il legame con il proprio luogo di appartenenza non viene sperimentato come un rapporto di responsabilità e dunque come la possibilità di realizzare i propri oneri nei confronti dell’umanità. La forza con cui l’autore discute con Hermann Cohen (18421918) 58 dimostra quanto egli, nella prima fase della sua vita intellettuale, sia profondamente legato a questa visione. Per Cohen la nazionalità è un fatto meramente naturale, una base sulla quale la spiritualità può ergersi quale elemento spirituale. Per Buber, viceversa, la nazionalità è «una realtà storica» 59, dunque costitutivamente spirituale e religiosa, poiché ogni realtà Ibid., p. 52. Ibid., p. 69. 57 Ibid., p. 70. 58 Hermann Cohen tenta di realizzare il ruolo dell’ebraismo nella società orientale secondo un indirizzo differente da quello proposto da Buber. Egli si sentiva del tutto partecipe ed erede della cultura occidentale e vedeva l’ebraismo come componente di quest’ultima. Questa prospettiva si richiama ad una tradizione che, pur affondando le radici nella Bibbia e nel Talmud, trova grande ispirazione nel Maimonide e nella filosofia ebraica in generale. In questo modo, l’ebraismo viene visto come categoria capace di risollevare le sorti dell’Oriente dall’interno. L’indirizzo buberiano, viceversa, concepisce l’ebraismo come l’occasione di risollevare le sorti dell’occidente dall’esterno, apportandovi le componenti levantine. È interessante sottolineare come Buber, che fa del richiamo orientaleggiante il punto di forza dell’ebraismo e la ragione per cui l’esperienza ebraica può supportare la crisi dell’occidente, è incredibilmente originale per l’epoca in cui vive. Nella area tedesca in cui egli nasce e cresce, questa argomentazione era per lo più impiegata entro la propaganda antisemita allo scopo di sottolineare la grande differenza che corre tra gli ebrei e gli occidentali, al punto che molti autori ammettono di aver provato vergogna per questa diversità. Buber dunque capovolge quello che per molti è un punto debole facendone motivo di forza. 59 B. Casper, Op. cit., p. 59. 55 56
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è in sé tanto spirituale quanto religiosa. Anche l’impegno fra le frange del movimento sionista acquista nuovo peso alla luce di questi raggiungimenti: ora può riaffermare quelle idee che già avevano portato alla rottura con Herzl, corroborate ora da anni di studio. Al cuore del sionismo non sta la ricerca di uno Stato a qualunque prezzo e nemmeno di una identità nazionale che separi gli ebrei dal resto del mondo, quanto piuttosto l’esigenza di rinnovare spiritualmente il popolo di Israele, affinché sia capace di vivificare l’intero Occidente con un messaggio di salvezza valido per ogni uomo.
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IV.
Prima del dialogo “Egli ha l’altro. Ha già gli altri in sé, nella sua unità come mondo” (Martin Buber, Daniel)
Le suggestioni diltheyane, l’attivismo politico e la lezione sionista contribuiscono parimenti alla formazione del primo pensiero buberiano, consegnato alle opere della fase predialogica 1. Francesco Ferrari 2 e Andrea Poma 3 sottolineano la ricchezza dei primi scritti che, pur lontani dal realismo tipico della fase matura, forniscono una solida base su cui si andrà a strutturare la proposta di Buber. In realtà è lo stesso autore ad essere responsabile della considerazione assegnata alle opere predialogiche. Egli, negli ultimi anni della vita, cercherà di sistematizzare il suo stesso pensiero, selezionando gli scritti da lui ritenuti maggiormente meritevoli di considerazione. Conscio degli elementi di discontinuità presenti tra la fase giovanile e quella matura, escluderà quasi del tutto le prime produzioni. In effetti, all’indomani del recupero della trascendenza, molte idee giovanili risultano essere imprecise e inautentiche. Tuttavia, è necessario ricordare come il pensiero degli uomini proceda spesso oltrepassando sé stesso ma mantenendo, in tale superamento, la ricchezza recondita del passato: Chi, tuttavia, conosce le leggi della continuità di un pensiero che è in dialogo con sé stesso e, nelle sue svolte, matura proprio superando sé stesso, non potrà non prendere in considerazione – per la logica stessa di ciò che è tematizzato nella svolta, per la novità che essa comporta – questa prima fase 4.
Si veda W. Goldstein, Die Botschaft Martin Bubers (i) Die Vordialogische Epoche, Edition Dr. Peter Freund, Jerusalem 1952. 2 F. Ferrari, Religione e religiosità. Germanicità, ebraismo, mistica nell’opera predialogica di Martin Buber, cit. 3 A. Poma, La filosofia dialogica di Martin Buber, Rosenberg & Sellier, Torino 1974. 4 B. Casper, Op. cit., p. 30. 1
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La opere del periodo predialogico vanno dunque indagate per comprendere in pienezza la portata del pensiero buberiano. 1. La filosofia predialogica La prima difficoltà che si incontra nell’indagare le opere della fase predialogica deriva dall’incompiutezza del pensiero giovanile di Buber, il quale si offre in continua apertura alle suggestioni che, da più parti, giungono alla sua attenzione, disegnando così: Il paesaggio di un pensiero svincolato da confessioni o teologie, che cerca di accedere alla dimensione religiosa a partire dalle possibilità speculative offerte dalla filosofia della vita e dallo storicismo da un lato e da quelle del neokantismo dall’altro. È un paesaggio in stile liberty, espressionista, nel quale si mescolano, in modo bizzarro, echi dell’idealismo tedesco, intuizioni nietzschiane e molta ricerca storica 5.
L’orizzonte nietzschiano influenza l’autore non solo nei contenuti ma anche nello stile, conferendo ai suoi lavori «un fascino poetico irresistibile» 6. Dallo storicismo tedesco deriva l’idea di vita come totalmente immanente, oltre cui non è possibile risalire e che, inoltre, si comprende a partire dalla vita interiore: la pura realtà è «l’inabissamento del puro vissuto» 7. Qui, Buber inserisce una prima componente originale: «“La realtà del mondo vissuto è tanto più potente quanto più potentemente io la vivo. [...] La realtà non è una condizione fissa, ma una grandezza in grado di aumentare”» 8. Per l’autore non vi è un’unica realtà, proprio perché la realtà è da intendere come circolo fra vita e vita vissuta, può essere più intensa o meno intensa a seconda di come si comprende l’inabissamento della vita nel vissuto. Elemento non esplicitato in Dilthey, suggerisce che la realtà non sia una condizione fissa e che per questo possano essere distinte più realtà. Nello specifico, la si coglie in maniera duplice: sulla base della fondazione nell’Er-lebnis, il Leben può essere reale oppure alienato, «rimasto indietro
Ibid. C.L. Coen, Martin Buber, cit., p. 32. 7 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 41. 8 M. Buber, Ereignisse und Begegnungen, Insel, Leipzig 1920, pp. 30-31. 5 6
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rispetto a sé stesso» 9. Egli rintraccia la realtà reale nella esperienza puramente ed autenticamente vissuta, quella che tocca finanche i propri confini estremi, i limiti oltre i quali giace solo la morte. La realtà vera accetta la vita nella sua condizione di continuo mutamento, di impossibilità di sicurezza, di inscindibile pericolosità. È l’esperienza vissuta che è capace di accogliere «il mistero della realtà» 10. Evidenti, in queste righe, i rimandi nietzschiani: nelle parole di Buber riecheggia la eco del grido di Zarathustra, la sua incitazione ad accogliere la vita nel suo orrore e nella sua tragicità 11. Accanto alla pura esperienza vissuta, autentica e reale, giace la realtà alienata, inautentica: i suoi caratteri sono quelli della conoscenza dell’uomo civilizzato, che stigmatizza il mondo tramite le categorie della causalità, dello spazio e del tempo. Queste permettono di orientarsi, di non perdersi nell’infinità della vita, ma portano altresì a concepire la realtà a partire «dal rapporto con altre esperienze vissute, ma non a partire da sé stessa» 12. Nietzsche, ne La nascita della tragedia, afferma che lo spirito apollineo da solo, pur permettendo di vedere «la bella parvenza dei mondi del sogno» 13, non lascia spazio alla tragica autenticità della vita, coglibile solo nel dionisiaco. Così, per Buber, l’atto che dà forma alla realtà alienata è «un atto orientante o regolante» 14 che porta il vissuto alla stregua di una mera esperienza fra esperienze. Lo stesso termine esperienza è qua impiegato secondo il significato kantiano, quale conoscenza condizionata tramite categorie e forme, quale conoscenza ordinata a priori: Mentre la realtà costituita dalla pura vita interiore [...] è “come il nuovo cielo che Giovanni vide a Patmos”, [...] “come l’ultimo sguardo del moribondo diretto su due oggetti diversi”, [...] “come la maestà del primo sogno”, nella realtà costituita dall’atto regolante e orientante [orientierendes Einstellen] ogni cosa è ancorata al suo posto nello spazio e [...] nel tempo; una evento è solo il singolo elemento di una catena di cause ed effetti 15.
L’atto orientante e regolante non permette alla realtà di essere piena realtà, la blocca, la imprigiona in categorie foriere di alienazione. Spazio, B. Casper, Op. cit., p. 36. M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 29. 11 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit. 12 B. Casper, Op. cit., p. 38. 13 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 25. 14 B. Casper, Op. cit., p. 38. 15 Ibid. 9
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tempo e causalità possono essere impiegate in modo autentico solo rispetto a ciò che è morto, che è passato. Ma quello che permette l’emergere dei caratteri di unicità e novità, tipici della realtà che è sempre realtà storica, è necessariamente l’esperienza autentica. Originale è il rapporto che intercorre fra realtà reale e realtà alienata: se inizialmente sembra quasi intravedersi un’alternatività tra le due dimensioni 16, in Daniel egli scrive: «Non esiste dunque un genere umano che realizza e un altro che orienta; il primo si trasformerebbe in una divinità, il secondo degenererebbe nel nulla» 17. Non vi è dunque alternatività quanto piuttosto gradi di intensità: Dio e nulla sono i poli entro i quali la realtà può essere più o meno reale, secondo l’intensità con cui la vita interiore comprende la realtà stessa. L’autore mostra così quale sia la strada attraverso cui avviene la realizzazione e quale, invece, sia la modalità che apre all’inautenticità dell’atto orientante e regolante. L’uomo, dice Buber, è circondato da infinte possibilità: numerosi sono gli oggetti di desiderio e di conoscenza che lo circondano. In Daniel le infinite possibilità vengono rappresentate tramite l’immagine di righe orizzontali o di un mare che accumula onde su onde 18: sono lo specchio della molteplicità che circonda e attira l’uomo ma che nasconde, dietro sé, l’inautenticità dell’atto regolante: le molteplici possibilità sono infatti incapaci di fornire il senso secondo cui: La vita, l’essere, ha sempre, fin dall’inizio, il significato di univocità. Dunque la vita è vera perché essa è qualcosa di unico. [...] La vita è allora salva se, essendo unitaria, è l’estremo che non ha più nulla al di fuori di sé, l’estremo che è tutto ciò che essa può essere 19.
La realtà è reale quando è vissuta nella sua unità, al di là del fascino del molteplice che circonda l’uomo nel mondo. La realtà è reale quando, abbandonato l’atto orientante e regolante, l’esperienza vissuta si inabissa nel suo profondo e permette il coglimento dell’autentica univocità della vita. Essa può acquisire i caratteri di unitarietà solo nel presente, definibile come l’istante che «ad un tempo spezza e illumina il continuum temporale» 20. Casper riporta il contenuto di una poesia, scritta secondo lo stile Ibid., p. 42. M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 47. 18 Ibid., pp. 24-26. 19 B. Casper, Op. cit., p. 43. 20 Ibid., p. 39. 16 17
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espressionistico, che Buber inserisce nell’opera del 1920 Ereignisse und Begegnungen. Il brano, dal titolo Der Augenblick 21, viene scritto nell’autunno del 1914 e permette di comprendere come, nella caratterizzazione dell’istante, egli sia ancora una volta vicino alla proposta romantica: L’istante, qui, è l’irruente violenza del simultaneo, che mi vola incontro come un uccello. L’istante è la realtà, non più dispersasi nel continuum temporale, bensì raccolta in unità. Apparentemente, l’istante, in quanto vita interiore, è nel tempo. E, in realtà, esso è infinito. Quando entra in me, in me entra il presente, si temporalizza la realtà. Ma proprio facendo tutto questo l’istante è ciò che, svolgendosi, non è più sicuro, è ciò che cessa, ciò che si scontra con l’incerto: è il rapace che precipita giù dal cielo, l’inesorabile verità dell’istante 22.
L’istante è l’attimo infinito in cui emerge l’unità, quella stessa unità che appare insicura, spaventosa, precipitando sull’uomo con la furia di un uccello in picchiata. È ciò che va accolto nella sua pienezza per comprendere la realtà in maniera autentica, ma è altresì ciò che è stato misconosciuto dall’Occidente tramite l’atto orientante e regolante. La volontà di categorizzare la molteplicità, senza cogliere l’unità che sta alle sue spalle, è il fulcro da cui genera l’inautenticità del pensiero occidentale, che tenta di rendere la realtà prevedibile, conoscendola, suddividendola, categorizzandola. Una prospettiva sicura, pagata al prezzo della perdita della realtà più vera. Il frutto di questo atteggiamento è la nascita di un sistema totale di utilizzo 23, cioè l’insorgere della logica funzionale che vuole conoscere tutto in maniera certa. È la logica propria del produttivismo, nonché di un uomo conosciuto solo attraverso analisi e psicologia. Buber riporta in Daniel il concetto con molta chiarezza, scrivendo: E ovunque domini il sapere indipendente dell’orientamento, ci si trova di fronte ad un’economia predatoria che si afferma a spese della linfa materna e nutriente del vissuto, che sola è in grado di trasformare la realizzazione del vissuto stesso da qualcosa di più o meno utile in una piccola sicurezza. E questa forza soverchiante dell’orientamento è ciò che ora mi fa soffrire, ciò contro cui mi oppongo per amore di quel processo che trasforma il vissuto in una concreta realtà 24. M. Buber, Ereignisse und Begegnungen, cit. B. Casper, Op. cit., p. 39. 23 La questione è approfondita da Buber in un articolo scritto per Der Jude, la rivista da lui fondata nel 1916, emblematica rispetto alle sue idee sul sionismo. L’estratto è contenuto in M. Buber, Ein politischer Faktor, in «Der Jude» II, 5/6(8/9.1917). 24 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 57. 21 22
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Emerge, in queste righe, l’avversione con cui l’autore si pone dinnanzi alla logica dell’utilizzo. Un unico atto si mostra capace di salvare istante e unità, permettendo l’accesso pieno alla realtà reale ed autentica. Questo, mutuato ancora una volta da Nietzsche, nonché dal pensiero chassidico, è l’estasi. Nell’atto estatico il mondo, Dio e l’anima sono presenti in unicum, istante immanente e radicale, pensato a partire dal sé diltheyano. La prima caratteristica che presenta l’estasi è certamente l’unità. Essa è capace di superare ogni alterità, ogni dualismo per far sì che l’anima sia in unità con il tutto. Nell’analisi di questa caratteristica, è possibile rilevare un nuovo motivo di critica alla religione: poiché, attraverso l’estasi, il sé si rivela come unicità, esso si dà esclusivamente nella solitudine. Qui la solitudine è ancora da intendersi in senso nietzschiano, dunque come solitudine positiva di chi ha valicato ogni suo confine per giungere al tutto. Buber coglie infatti questa idea lungo la strada percorsa da Cusano e Böhme, passando per la lezione di Angelo Silesio (1624-1677) e giungendo fino a Leibnitz e Goethe 25. Ma se l’atto mistico dell’estasi porta alla solitudine, la religione, con la sua intrinseca struttura sociale, allontanerà i fedeli dalla possibilità di raggiungere l’unità. Ancora una volta egli propone la religiosità come valida alternativa alla religione, capace di spingere l’uomo verso le strade più autentiche 26. Il carattere della solitudine è intimamente legato ad un’ulteriore caratteristica dell’atto estatico, cioè la libertà. L’esistenza nell’estasi, in quanto esistenza in totale solitudine, è libera: la continua incertezza della vita è accolta, l’esistenza non è più ancorata a nulla se non a sé stessa e, pertanto, completamente libera di scegliere. L’estasi permette di raggiungere un’unità che è linea verticale, capace di intersecarsi con le linee orizzontali della molteplicità. Così, in questo intreccio, l’estasi permette il formarsi dell’ampio spazio del mondo, conoscibile così come unità del molteplice. Per questo, afferma Casper, all’estasi è possibile attribuire anche il carattere di mondanità 27.
25 Per ulteriori approfondimenti si rimanda a M. Friedman, Martin Buber’s life and work, E.P. Dutton, New York 1981-1983, pp. 76 ss. 26 B. Casper, Op. cit., p. 44. 27 Ibid., p. 45.
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2. Daniel. Cinque dialoghi estatici I contenuti del pensiero predialogico trovano espressione in Daniel. Cinque dialoghi estatici. Il testo, prima opera filosofica di Buber, viene dato alla stampa a Lipsia nel 1913. Dal tono differente rispetto ai precedenti scritti chassidici, esso ricorda le specificità della cultura tedesca e romantica. Il linguaggio impiegato è quello caro all’ambiente romantico, dunque uno stile espressionistico arricchito dalla lezione nietzschiana, mentre la forma è quella del dialogo: vengono riportate le conversazioni che Daniel, il protagonista del libello, intraprende con cinque diversi interlocutori. Secondo alcuni commentatori il Daniel di Buber rimanda al Daniele biblico, figura profetica e visionaria 28, dietro cui si nasconde l’alter ego dello stesso autore: «Daniel non è altri se non una maschera di Buber adolescente il quale comincia così a tracciare il cammino di una vita» 29. L’opera acquista ben presto notorietà, diventando un riferimento nel mondo intellettuale ebraico: la strada qui descritta appare a molti come la guida per giungere alla meta dell’esistenza autentica. Il principale contenuto che viene offerto al suo lettore è infatti la contrapposizione tra realtà reale e realtà alienata. Di dialogo in dialogo l’autore dipinge le personalità in cui si rintraccia la tendenza alla realizzazione, che rende capaci di sfuggire al mondo del mero utilizzo, cioè al modo di vivere la realtà sotto il giogo dell’atto orientante e regolante. In primis, questo è visibile nei bambini e negli uomini primitivi: ciò che accumuna queste due figure è il vivere una situazione infantile; se l’infanzia del bambino ha connotati biologici, quella del primitivo è di tipo storico. In entrambi la capacità di realizzazione è ancora forte in quanto l’atteggiamento dell’atto orientante e regolante non ha raggiunto la sua maturità, dunque non può ancora superare la realizzazione: il bambino e il primitivo sono ancora padroni della realtà. Vi è, però, qualcuno che è in grado di esserne di nuovo padrone, cioè di superare l’atto orientante nella sua forma matura per tornare scientemente alla tensione della realizzazione. È l’artista, che dopo aver sviluppato l’atteggiamento orientativo lo sottomette ad un scopo diverso, comprendendo che «non possiamo afferrare un vissuto esattamente come non possiamo afferrare un 28 La figura, raccontata nel libro di Daniele, uno dei libri che compongono l’Antico Testamento, è considerata profetica sia dall’ebraismo che dal cristianesimo. Durante l’esilio di Babilonia, dopo il 605 a.C., Daniele profetizza la venuta di Gesù Cristo. 29 M. Scopelliti, L’attore di fuoco. Martin Buber e il teatro, Accademia University Press, Torino 2015, p. 49.
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fulmine, una cascata o la polarizzazione di un cristallo» 30. Non è possibile afferrare un vissuto, conoscendolo secondo i rassicuranti canoni dell’atto orientante e regolante, poiché esso è incontrabile solo nell’autenticità della realtà reale dell’istante estatico. Qui emerge con chiarezza il tipico gusto del romanticismo tedesco, lezione inaspettata tra le pagine di un autore ebreo: «Alla luce di quanto accaduto agli ebrei in Germania potrebbe sembrare sconvolgente che [...] Buber indossasse i panni del patriota tedesco» 31. Non si tratta, in realtà, di un elemento atipico. In questi anni sono ancora numerosi i protagonisti della letteratura ebraica che attestano il loro fascino per la Germania e per la cultura tedesca. È il caso, ad esempio, di Georg Simmel e Hermann Cohen. Tuttavia, questa posizione non è certo univoca: Landauer reagisce con orrore dinnanzi a Buber che, in uno dei suoi discorsi, paragona l’uomo tedesco all’italiano del Trecento e al greco dell’età di Pericle 32. Nel brano Della polarità. Dialogo dopo il teatro 33 Daniel, parlando con l’amico Leonhard al ritorno da una rappresentazione teatrale, solleva la questione centrale dell’esperienza attoriale, cioè la polarità. Buber osserva questo carattere sia nell’opposizione tra pubblico e attori, sia tra gli attori che recitano sullo stesso palco 34. La scena che si svolge sul palco, tuttavia, mostra anche come la polarità possa essere unificata, superata creativamente, accettata e «dunque portata a compimento» 35. Daniel e Leonhard, nel dialogo, sono in disaccordo su quale sia l’elemento più affascinante del teatro: il primo racconta del sentimento di familiarità che lo coglie in ogni rappresentazione. Questa è il fulcro di ciò che gli attori donano dal palco, una dimensione vissuta nella sospensione del tempo e dello spazio. Sul palM. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 53. P. Vermes, Op. cit., p. 70. 32 Ibid. 33 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 109 ss. 34 Il dialogo Della polarità offre l’occasione di compiere una breve digressione sul valore che il teatro ha agli occhi di Martin Buber. Alcune peculiari informazioni, nonché l’inedita traduzione in italiano di alcuni testi teatrali scritti fra il 1905 e il 1929, sono contenute in M. Scopelliti, Op. cit. Il testo, scritto in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Buber, mette in luce il poco fascino che l’intrattenimento esercita sul giovane Martin, accompagnato dalla grande importanza a lui attribuita al teatro, considerato mezzo di ricomposizione etica e politica del mondo. Inoltre si trova tra le righe del testo l’ipotesi per cui, proprio tra le pagine che egli dedica al teatro, sia contenuto il trampolino di lancio per il futuro pensiero dialogico. Per ulteriori approfondimenti si veda anche M. Friedman, Martin Buber and the theatre, Funk & Wagnalls, New York 1969. 35 M. Scopelliti, Op. cit., p. 51. 30 31
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coscenico la polarità si è offerta nuda a Daniel, pronta per essere afferrata. Davanti a lui è emerso il demone del teatro, quel demone che rende adulti, che permette di cogliere la realtà nella sua autenticità. Infine, durante l’intervallo, la sala si rischiara permettendo la visione delle persone che, assieme a Daniel, hanno partecipato al medesimo evento: il protagonista del dialogo può così fare esperienza dell’essere parte di una comunità di individui isolati e poi riuniti assieme. Il luogo di questa unione è il punto di vista di ogni spettatore, che guarda in maniera univoca alle prospettive di entrambi gli attori sul palco, capaci di «raccogliere le grida, i volti e le gesta del personaggio» 36: il vero attore, quello che inscena la realizzazione, è colui che non mette in atto un processo meramente mimetico con il personaggio, ma che viceversa penetra nella possibilità di rappresentarlo, offrendo di conseguenza al pubblico la medesima possibilità. Il Dialogo dopo il teatro, oltreché lasciare emergere l’amore dell’autore per questa forma d’arte, compie una parabola emblematica che rafforza quanto già detto sulla realtà alienata e reale. Qui ci sono Nietzsche e Dilthey, la mistica chassidica, il sionismo. C’è anche Landauer, quando Daniel sente di esser parte di un’unica comunità che ha vissuto assieme la medesima esperienza. Come afferma Marcella Scopelliti in L’attore di fuoco. Martin Buber e il teatro, questa diventa una delle prime anticipazioni che, nascendo fra le righe di Daniel, «troverà ampio sviluppo in seguito» 37. I medesimi temi caratterizzano tutti i dialoghi dell’opera. Nel brano Della realtà. Dialogo sopra la città 38 Daniel sembra essere un redivivo Zarathustra che, anziché annunciare l’Oltreuomo, sprona gli uomini ad incamminarsi lungo la strada che conduce alla realtà non alienata. Egli: Si rende conto che non può redimere la folla e non può restituirle il canto attraverso la sua anima. Ogni uomo deve infatti decidere per sé e soltanto attraverso la propria direzione può rispondere all’esperienza realizzando la realtà 39.
In Daniel, prima opera filosofica, Buber propone per la prima volta un pensiero polare. La dicotomia fra atto che orienta e atto che realizza andrà incontro ad ampie revisioni, maturando alla luce di presupposti nuovi rispetto a quelli presenti in questi anni. Tuttavia, la polarità non cessa di M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 121. M. Scopelliti, Op. cit., p. 55. 38 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 47 ss. 39 M. Scopelliti, Op. cit., p. 67. 36 37
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essere presente. In essa, la dimensione speculativa acquista sempre connotati esperienziali. Incita alla scelta, all’azione. Fin da questo momento, i differenti gradi attraverso cui l’uomo può sperimentare la realtà, consegnano nelle sue mani il compito di abbandonare l’atteggiamento critico dell’Occidente per sperimentarsi nel ritorno a qualcosa di maggiormente autentico. Daniel è un ponte, capace di raccogliere le suggestioni giovanili e di anticipare quelle aperture che confluiranno nel pensiero della maturità 40. Questa analisi, certamente importante per comprendere il legame che tiene assieme il pensiero di Buber in ogni suo cambiamento, non deve tuttavia ingannare il lettore. Al di là dei temi anticipatori, Daniel è un’opera pienamente predialogica: in essa, gli echi dei maestri suonano ancora forti, la mistica ancora presente, l’unità è l’obiettivo finale e l’immanenza è l’unico orizzonte ammesso e ammissibile. Quando Daniel parla a Ulrich 41 racconta di due viandanti: l’uno è intento a salvarsi, a conservare sé stesso attraverso la costruzione di un’arca capace di lasciar fuori le acque del mondo, l’altro non vuole proteggersi e ambisce solo a vivere il presente, l’oscuro, il selvaggio. Per Daniel, dunque per il Buber del 1913, è il secondo viandante che sta mettendo sé stesso davvero al sicuro; egli vive autenticamente, realizza la realtà reale, unifica in un atto di estasi il mondo con sé stesso, acquisendo quei caratteri che Casper aveva sottolineato come propri dell’atto estatico: l’unità, la libertà, la mondanità e l’istante 42. I medesimi caratteri che conferiscono all’opera la valenza di una proposta che non è ancora approdata al dialogo e che, viceversa, fonda sé stessa in un orizzonte profondamente immanentistico. 3. Temporalità dell’esistenza ed esistenza temporale In Daniel, Buber scrive che l’opposizione originaria in cui giace il sé lo spinge a penetrare nell’unità salva, gettandosi fiduciosamente nell’infinto, nell’istante 43. Il sé è salvo ed intero solo se capace di costituire il mondo a partire dal presente. Si rileva così il carattere temporale del sé, necessario a percorrere la strada della realtà autentica. La conseguenza, dice l’autore B. Casper, Op. cit., p. 41. M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., pp. 50-51. 42 B. Casper, Op. cit., pp. 43-50. 43 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., pp. 112-113. 40 41
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in una lettera a Landauer, è l’essere «“avviati a una nuova metafora del mondo, che valuta il mondo in termini più adeguati e rende l’estensione delle cose esterne un’immagine dell’intensione del nostro sentimento dell’Io”» 44. Il tempo visto come condizione della manifestazione di ogni realtà mostra la temporalità come struttura primaria: non vi è possibilità di alcuna realtà priva di temporalità, poiché il tempo è proprio della vita interiore da cui ogni realtà deriva. In questa considerazione si nasconde una punto critico del pensiero giovanile, poiché la temporalità a cui fa riferimento ha un valore duplice ed intrinsecamente in conflitto. In un determinato senso la temporalità è vista come temporalità presente, quella che permette l’apertura nell’istante, l’acquisto dell’unità, quella che porta alla autorealizzazione di un mondo salvo che non guarda né al prima né al dopo ma solo all’ora. Questa visione del tempo che è istante e dell’istante che è eternità può essere definito come temporalità dell’esistenza, poiché riguarda una temporalità che è struttura primaria necessaria a salvare l’esistenza. D’altra parte la temporalità dell’esistenza è stata acquisita a partire da un’idea di tempo limitante, concepito come quel prima e dopo che rendono l’esistenza finita; in altre parole, la temporalità dell’esistenza si scopre a partire da un’esistenza temporale, dunque limitata e in tensione. Le due dimensioni della temporalità, seppur fra loro in conflitto, non vengono tuttavia approfondite: In ogni caso, appare importante il fatto che il tema della temporalità dell’esistenza contribuisca fin dall’inizio a caratterizzare il pensiero di Buber. Nella questione della temporalità dell’esistenza è presente la prima radice – benché ancora nascosta – del successivo mutamento in direzione della dialogica 45.
4. Mito: “funzione dell’anima”, apertura al reale All’interno della produzione giovanile Buber dedica taluni spazi all’analisi del mito. Se i suoi contemporanei, in particolare nell’ambito teologico, svalutano questo concetto in nome del tentativo di demitizzare gli
44 M. Buber, Gustav Landhauer, in «Die Zeit», 11.6.1904, p. 127; si tratta dell’estratto di una conversazione tra Buber e l’amico, in cui il primo mette a confronto la visione del tempo in Kant con quella da lui appena strutturata, foriera, a suo dire, di un nuovo modo di vedere il mondo. 45 B. Casper, Op. cit., p. 49.
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io e tu
scritti religiosi, egli propone un’analisi in netta contrapposizione al sentire comune. Il ruolo privilegiato assegnato alla religiosità cerca corrispondenza in una forma altrettanto estrema, totalizzante. Questa è il mito. L’autore afferma che qualsiasi verità scoperta tramite l’atto orientante e regolante trova la sua perfetta espressione in una frase inserita e spiegata all’interno di un contesto più ampio. Questa medesima forma non può essere adatta anche alla totalità espressa dall’atto estatico, foriera di unità e realizzazione. Il mito è capace di superare le concatenazioni causali, legando fra loro gli accadimenti in base «“al loro contenuto, al loro senso in quanto espressione di ciò che è indicibile, impensabile, del senso del mondo che può essere rappresentato soltanto in essi”» 46. Il mito è totalità, unica possibilità di rispecchiare la vita, di rifletterla nella sua dimensione di realtà reale; in esso l’Assoluto diventa incisivo e la molteplicità può essere espressa in unità. È una realtà afferrabile storicamente e concretamente, in cui si riflette una religiosità che è altrettanto reale: esso diventa così la porta attraverso cui incontrare il tutto che vi si esprime. Buber nota come la realtà che si riflette in questa modalità è una realtà di tutti: ogni uomo porta infatti con sé la possibilità di comprendere la mitologia e cogliervi, al suo interno, l’unità del molteplice. Dunque il mito è «“una funzione dell’anima” che si realizza ogni volta in “tempi di alta tensione ed intensità della vita interna”, nei quali l’uomo si libera dalle “catene della funzione di causalità”» 47. In questa definizione egli concorda con un autore coevo, Wilhelm Wundt, che in Volkerpycologie assegna al mito la medesima definizione di eterna funzione dell’anima. Tuttavia, Wundt guarda al mito come ad una forma antica che parla all’uomo dal passato, mentre Buber lavora sui miti del chassidismo e dunque supera questa prospettiva per restaurare il mito nel presente: una funzione dell’anima non solo eterna, ma anche attuale, che permette di affermare come esso sia «dato come ciò che garantisce il senso» 48. Sempre nell’analisi del mito emergono dei primi accenni a tematiche che verranno poi sviluppate nelle opere della maturità. In Discorsi sull’ebraismo, il sesto discorso, dal titolo Il mito degli Ebrei 49, Buber analizza le caratteristiche dei racconti della tradizione ebraica. Qui, oltreché ribadire che «il mito è una funzione eterna dell’anima» 50, sottolinea anche che «tutti i libri M. Buber, Der Mythos der Juden, Insel, Leipzig 1913, p. 23. M. Buber, Der Mythos der Juden, cit., p. 29. 48 B. Casper, Op. cit., p. 62. 49 M. Buber, Discorsi sull’ebraismo, cit., pp. 85-95. 50 Ibid., p. 93. 46 47
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prima del dialogo
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della Bibbia hanno un contenuto: la storia degli incontri di Dio col suo popolo» 51. Il termine incontro è un’indicazione che, già prima del 1923, fa presagire un’apertura alla dimensione del dialogo 52. Un ulteriore elemento emerge in La leggenda del Baal-Schem, dove il mito viene confrontato con la leggenda; se nel primo vi è un rispecchiamento dell’unità talmente onnicomprensivo che «anche l’eroe che in esso compare assume il ruolo di un dio» 53, nella leggenda viene recuperata la dualità, non nel senso dell’avversata molteplicità, ma in quello dell’alterità. «La leggenda è il mito dell’Io e del Tu» 54. Sebbene ancora la filosofia del dialogo non abbia trovato la sua pienezza, emerge per la prima volta un rimando all’alterità, fino a questo momento soggiogata alla sua solitudine del sé. 5. Interumano: il luogo del dialogo La produzione predialogica trattiene in sé due anime. In primo luogo, vi è la volontà di ancorarsi al sé, di guardare ad esso nel processo solitario che lo conduce alla realizzazione. La prospettiva, compiutamente immanente, porta all’individuazione della cesura radicale tra il pensiero giovanile e quello maturo. D’altra parte, le prime proposte di Buber sottendono un secondo punto di vista, presente ancora solo in forma embrionale. Questa seconda anima è il frutto delle suggestioni autobiografiche che si offrono all’autore in tutti gli ambienti comunitari di cui fa esperienza: i luoghi dell’infanzia, i circoli ebraici, il movimento sionista e l’ambiente Nuova comunità. Suggestioni che spingono alla promozione della collana di psicologia sociale Die Geselleschaf, pubblicata dal 1906 presso gli editori Rütten und Loening di Francoforte. Buber mostra in questo un legame con l’emergente movimento sociologico, lavorando accanto a numerose figure quali Landauer, Mauthner, Oppenheimer, Simmel, Schäfer, Sombart e Tönnies e portando a maturazione l’idea, già presente nella proposta dell’amico Landauer, del legame che intercorre tra uomo e uomo, intendendo questa dimensione come primaria rispetto all’individuo visto come singolo. Nella prefazione della collana da lui curata, egli chiama questo ambito Ibid., p. 94. B. Casper, Op. cit., p. 63. 53 Ibid. 54 M. Buber, La leggenda del Baal-Schem, cit., p. 6. 51 52
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l’interumano, di cui la sociologia studia le forme. È «ciò che accade tra gli uomini, a cui partecipano come a un processo interpersonale, che il singolo vive come propria azione e passione, ma che non è a lui imputabile senza residuo» 55. Questa definizione contiene una problematica ambivalenza, nella misura in cui, da una parte, l’interumano è connotato come processo inter-personale, mentre dall’altra continua a rimanere ancorato all’idea che la realtà deve scaturire dalla vita interiore per essere reale e salva, cioè che «la verità può essere solo la verità della relazione del singolo» 56. I due punti di vista risultano antitetici, come ammetterà lo stesso Buber in un’opera del 1954, dal titolo Elementi dell’interumano, in cui scrive: Si usa attribuire alla regione del “sociale” ciò che accade tra gli uomini; così si cancella una linea di separazione di fondamentale importanza tra due ambiti essenzialmente diversi del mondo umano. Io stesso sono incorso nel medesimo errore quando, quasi cinquant’anni orsono, incominciai ad orientarmi autonomamente nel sapere sociale, servendomi del concetto, allora ancora sconosciuto, dell’interumano 57.
Tuttavia, nel 1906 il problema non è stato ancora rilevato: per quanto l’interumano diverrà in seguito una «categoria speciale» 58 del pensiero dialogico, l’orizzonte è ancora quello di un essere «concepito [...] in senso puramente monologico» 59 e di un interumano qualificato come «una delle molte dimensioni possibili nelle quali può avere luogo un’esistenza salva» 60. La categoria dell’interumano è l’emblema di quei luoghi embrionali che, dall’interno delle produzioni antecedenti il 1923, permetteranno la nascita della filosofia dialogica. Queste aperture e questi primi spazi di dialogo maturano tuttavia entro il monolitico pensiero dell’immanenza e dell’unificazione. Saranno proprio questi temi a conoscere una maturazione differente che diverrà culla del pensiero maturo, capace di guadagnarsi a pieno titolo l’appellativo di dialogico.
B. Casper, Op. cit., p. 65. Ibid. 57 M. Buber, Elemente des Zwischenmenschlichen, in «Merkur», VIII, n. 2, 1954, trad. it. Elementi dell’interumano, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 295. 58 Ibid. 59 B. Casper, Op. cit., p. 65. 60 Ibid., p. 67. 55 56
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V.
Dalla teosofia alla teologia biblica “C’è Tu, c’è relazione ad un Tu. Da questa relazione, solo da un tale relazione sorge la presenza” (Martin Buber, Religione come presenza)
La gestazione di Ich un Du ha inizio nel 1916, più di sei anni prima della pubblicazione; Martin Buber, in questo tempo, passa definitivamente dai temi cari al pensiero giovanile alle categorie proprie del pensiero maturo. Il luogo in cui questo avviene è quello del passaggio dalla teosofia alla teologia biblica, in cui l’autore abbandona definitivamente l’orizzonte dell’immanenza, recuperando la trascendenza del rapporto con l’altro. Il pensiero di Buber non può infatti essere compreso in maniera compiuta se non si considera come, tra il 1916 e il 1923, egli sembri intuire la pericolosità dell’immanentismo idealista. L’accettata identità, che sfuma i contorni dell’uomo, di Dio e del mondo, eliminandone le differenze qualitative, viene misconosciuta. Non solo il Buber degli anni ’20 si allontana dal romanticismo tedesco a favore di una prospettiva realista, ma impiega le scoperte giovanili per porsi in forte autocritica nei confronti della teosofia stessa 1. Per una sintesi sul passaggio che la prospettiva buberiana compie in questi anni si veda M.A. Beek-J. Sperna Weiland, Martin Buber, Newman Press, Gaston 1968, trad. it. Martin Buber, Querniana, Brescia 1972, in cui gli autori mostrano come dall’analisi dei testi chassidici si passi alla lettura e traduzione dell’Antico Testamento, giungendo alla costruzione di un impianto di filosofia della religione, colto secondo molteplici sfaccettature esistenziali. All’indomani degli studi sul misticismo, egli rilegge l’idea chassidica dell’esaltazione dell’istante alla luce di un impianto capace di accogliere l’alterità: come afferma Lévinas in E. Lévinas, Martin Buber, in Id., Fuori dal soggetto, cit., p. 16, nella fase dialogica «entusiasmata, posseduta da Dio, l’anima personale si perde. Il contatto del divino con gli istanti esaltati è, per Buber, incontro, dialogo, apertura agli altri, ma nello stesso tempo presenza a sé. L’istante non oltrepassa sé stesso nella dimensione dell’impersonale, ma in quello dell’interpersonale». Una lettura peculiare della lezione del Baal Schem che costa all’autore le critiche di Gershom Scholem, il quale sottolinea il distacco di Buber dal chassidismo autentico, per cui il recupero delle scintille divine comportano in maniera inevitabile la distruzione della terra e, dunque, della dimensione relazionale intramondana. Per approfondire il pensiero di Scholem si rimanda a G. Scholem, Die jüdische Mystik in 1
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La proposta di Ich und Du si colloca così in posizione anti-hegeliana, opponendosi all’idea della mancanza di differenza e al principio idealistico di identità. La conclusione cui egli giunge è quella per cui tra uomo, mondo e Dio vi sono delle differenze qualitative insormontabili, a partire dalle quali è possibile rileggere la categoria della relazione. In questi anni, una nuova amicizia influenza le pagine scritte dal nostro autore: nel 1916 egli conosce Franz Rosenzweig, un intellettuale noto principalmente per la sua opera La stella della redenzione 2. Tra i due nascerà un importante sodalizio intellettuale, nonché un rapporto di sincera amicizia. Come già successo con Landauer, anche questo incontro diventa un’occasione: Buber, sempre aperto e in ricerca, accoglie le suggestioni che derivano da questa relazione, corroborando il suo pensiero attraverso quello dell’amico. 1. La relazione con Rosenzweig Teologo ebreo nato nell’area tedesca, Franz Rosenzweig (1886-1929) assume all’indomani della guerra la direzione di un istituito ebraico a Francoforte sul Meno, il Freies Judisches Lehrhaus. In questo ambiente conosce Buber, del quale ha immediatamente modo di apprezzare «l’indipendenza di spirito» 3. Dopo una visita nella non lontana casa di Happenheim, gli propone di entrare a far parte dello staff dell’istituto di Francoforte. L’opinione che Rosenzweig elabora fin da subito emerge in una lettera, scritta allo storico dell’arte Rudolf Hallo 4 in cui si legge: «“Buber neppure intellettualmente era il soggettivista mistico che la gente riteneva, ma, persino intellettualmente, egli aveva cominciato ad evolversi in una persona solida e logica [...] fui grandemente colpito per la grande onestà con cui si espresse”» 5. Il frammento non solo rende evidente l’interesse con cui il teologo si approccia a Buber, ma dimostra altresì come, al tempo dell’incontro con Rosenzweig, egli abbia già percorso la parabola che lo ihren Hauptströmungen, Shurkamp, Frankfurt 1988, trad. it. Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993. 2 F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Suhrkamp, Den Haag 1976, trad. it., La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005. 3 P. Vermes, Op. cit., p. 72. 4 Una delle persone cui Rosenzweig assegna la sua piena fiducia, tanto da inviargli una delle prime copie di La stella della redenzione. 5 P. Vermes, Op. cit., p. 72. Il frammento è presente in F. Rosenzweig, Briefe und Tagebücher, II: 1918-1929, Schocken Verlag, Berlin 1935, n. 360.
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condurrà dall’immanentismo della teosofia alla prospettiva realista. Buber accetta l’incarico e, nel 1922, tiene dei corsi su alcuni testi chassidici al Freies Judisches Lehrhaus. Il tema degli incontri, Religione come presenza 6, avrà modo di essere trattato in seguito poiché emblematico rispetto al pensiero maturo. Ad ulteriore testimonianza dell’amicizia e della collaborazione intellettuale fra i due studiosi si hanno le numerose lettere scambiate dagli anni ’20 sino alla morte di Rosenzweig, quasi due decenni più tardi. L’epistolario 7, tradotto in più lingue, contiene testi fra i più disparati: proposte di collaborazione, scambi intellettuali e parole che evidenziano il valore che entrambi attribuiscono a tale relazione. In una lettera del 20 settembre 1922, inviata dal teologo all’amico, Rosenzweig commenta il legame che va stringendosi tra i due pensatori con queste parole: Avviene tuttavia – quando due pensano così – che i loro pensieri, come due gomitoli aggrovigliati l’uno all’altro, debbano incrociarsi cento volte e cento volte separarsi; debbano separarsi per potersi incrociare di nuovo. [...] dovrei lasciarli stare aggrovigliati così come si trovano, e lasciare che corrano lungo le spire, con il cuore nuovamente sospeso a ogni incontro e ogni intreccio. Perché, come potrebbero essere i gomitoli aggrovigliati l’uno all’altro, se quell’altra Mano non li avesse legati insieme per una estremità? 8.
Al di là del sapore provvidenzialistico della conclusione, è chiaro che Rosenzweig riconosce in Buber tanto un amico quanto un grande pensatore. L’autore di La stella della redenzione è da molti annoverato tra gli autori del pensiero del dialogo, fornendo pertanto a Buber un supporto importante nell’elaborazione del pensiero della maturità: «Buber non è affatto stato il primo, con Ich und Du, ad esprimere l’idea cruciale della concezione ontologica del pensiero dialogico. Egli è preceduto da Rosenzweig ed Ebner» 9. L’itinerario formativo di Rosenzweig prende le prime mosse dallo studio della medicina, che lo impegna dal 1905 al 1908 fra Gottinga, Monaco e Friburgo. In particolar modo nell’ambiente friburghese egli vie-
6 M. Buber, Religion als Gegenwart, in R. Horwitz, Buber’s Way to «I and Thou»: an Historical Analysis, Lambert Schneider, Heidelberg 1978, trad. it., Religione come presenza, Morcelliana, Brescia 2012. 7 F. Rosenzweig, Briefe und Tagebücher, II: 1918-1929, cit.; M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, cit.; trad. it., Amicizia nella parola. Carteggio, a cura di N. Bombaci, Pellicano Rosso, Brescia 2011. 8 Ibid., p. 19. 9 B. Casper, Op. cit., p. 77.
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ne a contatto con uno specifico retroterra culturale, che «tenta di tenere unite le scienze naturali e le scienze umane» 10, permettendogli i primi contatti con la filosofia. Rosenzweig, nato tre anni prima di Martin Heidegger (1889-1976) e tre dopo Karl Jaspers 11 (1883-1969), in virtù di tale legame con le scienze della natura sembra mostrare una certa affinità con entrambi. Tuttavia nel 1906, dopo il Physikum, l’esame che segna la conclusione del primo biennio di medicina, egli passa definitivamente agli studi umanistici, approcciandosi in particolar modo alla storia. Come Buber egli si immerge nell’ambiente dello storicismo tedesco, vedendo la scienza storica come scienza della vita umana nel suo insieme, posta dirimpetto alle scienze naturali. Accanto allo storicismo, egli acquisisce familiarità con l’idealismo tedesco. Sintetizzando il punto formativo cui giunge nel 1913: Si potrebbe dire che Rosenzweig, comprendendo il pensiero dell’idealismo tedesco, benché si tratti di una comprensione basata sull’indagine storico-filosofica, si trova esattamente a metà tra la pretesa di Hegel di conoscere la verità assoluta e il relativismo del metodo storico 12.
Approdato a questo punto di intersezione, egli entra in una profonda crisi non solo intellettuale, ma anche spirituale. Inizialmente persuaso a volersi convertire al cristianesimo 13, si sente perso: lo storicismo sembra avergli affidato tanti talenti, molteplici frammenti che non trovano fra loro unitarietà. Messosi alla ricerca di questa unità, dunque del senso che è possibile scorgere al di là dei vari momenti della storia, la trova proprio nella 10 Ibid., p. 79. Casper porta ad esempio la partecipazione di Rosenzweig, durante gli studi di medicina, a seminari di filosofia, come quello sulla Critica della ragion pura di Kant tenuto da Jonas Cohn. 11 Filosofo e psichiatra tedesco, la sua vicinanza alla dialogica è sottolineata anche dallo stesso Buber, che lo cita negli ultimi anni della sua vita come esempio di coloro che hanno portato il pensiero dell’io-tu al di fuori dell’ambito meramente filosofico. Per alcune suggestioni sul rapporto fra Buber e Jaspers si rimanda a F. Miano, Su Buber e Jaspers. Ipotesi di un confronto, Biblioteca Pro Civitate Christiana, Assisi 1989, in AA. VV, La filosofia del dialogo da Buber a Lévinas, a cura di M. Martini, Biblioteca Pro Civitate Christiana, Assisi 1989, pp. 271-291. 12 B. Casper, Op. cit., p. 82. 13 Prima di rompere definitivamente con un ebraismo mai realmente vissuto, decide di recarsi in una piccola sinagoga di Berlino durante la vigilia del Yom Kippur, (Giorno dell’espiazione, una festa ebraica); dopo aver partecipato al rito religioso, racconta di aver compreso per la prima volta la profondità dell’ebraismo. Dinnanzi al suo popolo in preghiera, privo di tutto se non della dimensione eterna della liturgia, egli non sente più l’esigenza di alcuna conversione.
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fede che inizialmente voleva rinnegare. «Con la svolta verso la fede» egli si apre al contempo «verso il filosofare interrogante» 14, che permette di rispondere alla domanda sull’unità attraverso una specifica categoria, quella della rivelazione: La rivelazione deve offrire un orientamento. Questo significa che essa, dinnanzi alle scardinate rotazioni dei mondi storici, deve creare “un sopra e un sotto assoluti”. Deve offrire un affidabile senso dell’essere, al di là di tutte le relatività dei mondi che appaiono nella storia. Esiste un tale orientamento? E come può essere colto dal pensiero? È questa la stella a comando della quale si incammina in pensiero di Rosenzweig 15.
Durante gli ultimi anni di guerra, nell’agosto del 1918, il pensatore dà inizio alla stesura del suo capolavoro filosofico Der Stern der Erlösung 16, portato a termine a conflitto concluso nel febbraio del 1919. Pubblicato nel 1921, viene considerato da Rosenzweig l’acme della sua proposta filosofica, come rivela in una lettera inviata a Buber, in cui ammette di avere la sensazione che tutto ciò che avrebbe scritto negli anni successivi sarebbe stato solo un supplemento a quanto proposto in questa opera. La stella della redenzione affonda le radici nel clima dell’esistenzialismo. Tuttavia, differentemente dalla solitudo heideggeriana, Rosenzweig propone l’originale idea di un’umanità immersa nei rapporti, in continuo scambio con il mondo e con Dio. Nasce così un pensiero nuovo, capace di tenere assieme filosofia e teologia. Qui la relazione lascia emergere tre diverse categorie, che verranno poi considerate categorie ontologiche fondamentali, cioè la creazione, la rivelazione e la redenzione. Prospettive che si aprono all’altro, che permettono la dimensione relazionale e fondano la possibilità del darsi del tempo e del linguaggio. La categoria che, in particolar modo, acquista rilievo è quella della rivelazione: essa è fondamento della soggettività umana e trae la sua consistenza ontologica dall’essere oggetto dell’amore divino che si rivela all’uomo, suo destinatario principale e unico capace, entro la sua libertà, di scegliere di accettare questo amore. La prospettiva messianica, infine, emerge nel passaggio dal presente, tempo della rivelazione, al futuro eterno della redenzione. Questa idea, riscontrabile sia nel cristianesimo che nell’ebraismo, permette finanche di rileggere il rapporto B. Casper, Op. cit., p. 84. Ibid., p. 86. 16 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. 14 15
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tra le due grandi religioni monoteistiche rappresentandole come copresenti entro la stella della redenzione: i suoi raggi, rappresentati dal cristianesimo, dipartono dal fuoco interno dell’ebraismo. La religione diventa così la stessa struttura e verità dell’essere. Rosenzweig compie una parabola che dalla morte porta alla vita; condotto l’uomo all’esistenza lo sprona alla redenzione, gli annuncia una prospettiva ed un percorso. Nell’ultima pagina di La stella della redenzione, si legge: Camminare in semplicità con il tuo Dio: qui non si richiede nulla più della completa fiducia. Ma fiducia è una parola grande. È il seme da cui nascono fede speranza e amore ed il frutto che da essi matura. È la cosa più semplice di tutte e proprio per questo la più difficile. Ad ogni istante essa osa dire “è vero!” alla verità. Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l’esterno. Ma su che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Sulla vita 17. Egli, con la sua proposta, condivide molte delle suggestioni presenti in Ich und Du: non a caso Hans Urs von Balthasar lo colloca al fianco di Buber e di Ebner nel novero dei pensatori della filosofia dialogica che non solo guardano alla prospettiva relazionale interumana, ma che assegnano un posto di rilievo al riferimento con l’Assoluto. Scrive Silvano Zucal, riferendosi alla schematizzazione proposta da Balthasar, che «alle origini [...] avremmo dunque una dialogica caratterizzata da un carattere prevalentemente teologico in cui la dialogica ha a cuore [...] quel singolare dialogo asimmetrico con l’Altro assoluto che è la cifra della Rivelazione nella prospettiva ebraica e cristiana» 18. Sono altresì numerose le differenze tra il pensiero di Buber e quello dell’amico teologo: laddove il primo propone degli scritti colorati e vivaci, che si sviluppano in apertura e in cambiamento, «l’opera di Rosenzweig è sì aperta al mondo, ma rigida e conchiusa nelle proprie idee» 19; se infatti il pensiero di Buber vive una fase di gestazione all’interno del grembo della filosofia diltheyana, quello di Rosenzweig nasce sin da subito come proposta monolitica atta a trovare il punto dal quale si sviluppa «tutto il nuovo pensiero» 20. Al di là delle specifiche congruenze e divergenze, Ibid., p. 454. S. Zucal, Premessa a B. Casper, Op. Cit., p. 7. 19 Ibid., p. 78. 20 Ibid. 17 18
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la relazione con Rosenzweig diventa lo specchio del pensiero buberiano: egli trova nell’amico terreno fertile per la maturazione di quel pensiero che andava in lui sviluppandosi. 2. L’abbandono della mistica Nel dicembre del 1921, per rispondere alla proposta di Rosenzweig sugli incontri al Freies Judisches Lehrhaus, Buber invia una lettera in cui si legge: Riguardo alla Sua proposta di un corso di lezioni ho fin dal primo momento [...] un sentimento positivo, che debbo sostanzialmente alla Sua visita e alla sensazione di un rapporto che essa mi ha lasciato. I dubbi cominciano riguardo ai particolari. In questo trimestre potrei tenere un corso soltanto su un argomento strettamente limitato, che si potrebbe denominare all’incirca “Religione come presenza” (che corrisponde ai prolegomeni di un lavoro del quale mi sto occupando); di questo corso farebbe parte come esercitazione integrativa non la lettura di fonti del chassidismo, ma un “commento di testi religiosi scelti” (tra i quali, certo, anche i chassidici) 21.
Il progetto, annunciato in queste righe, si concretizza in otto lezioni tenute a Francoforte sul Meno tra gennaio e marzo del 1922. Il contenuto degli incontri verrà pubblicato solo nel 1978 con il titolo di Religion als Gegenwart, traducibile in italiano con Religione come presenza. Il testo risulta particolarmente importante poiché emblema della maturazione del pensiero buberiano 22; come scrive Francesco Ferrari nell’introduzione all’edizione italiana: Religion als Gegenwart costituisce un documento di indubbio valore: ci consegna un vivido affresco del pensatore viennese come docente, ma soprattutto si rivela uno snodo centrale nell’evoluzione del Denkweg [pensiero] buberiano. Accanto ai termini propri di Daniel, come la fondamentale contrapposizione tra orientamento e realizzazione, che comparirà per l’ultima volta nelle sue pagine proprio in questa sede, è possibile evidenziare tutta una serie di prodromi del capolavoro buberiano Io e Tu, pubblicato pochi mesi dopo. Buber vi lavorava fin M. Buber-F. Rosenzweig, Amicizia nella parola. Carteggio, cit., pp. 27-28. R. Horowitz, Buber’s Way to “I and You. An historical analysis and the first publication of Martin Buber’s lectures “Religion als Gegenwart”, Lambert Schneider, Heidelberg 1978. 21 22
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dal 1916 e questi “prolegomeni a una filosofia della religione” ne rappresentano l’indubbia cellula madre 23.
I primi tre incontri costituiscono la pars destruens del discorso, ove la religione viene ancora una volta letta all’interno del binomio religione-religiosità, allo scopo di liberare il campo della spiritualità da tutte quelle ingerenze che tentano di relativizzarla. In molti casi la religione è ridotta alla biologia; in altri, il nazionalismo l’ha posta al suo servizio; ancora, la religione è stata sottoposta alla cultura, all’arte, all’etica, finanche ridotta alla scienza e alla psicologia. Queste minacce esogene, che attentano dall’esterno all’autonomia del religioso, sono piuttosto insidiose all’inizio del xx secolo e rendono, di conseguenza, particolarmente importante riaffermare la religione nella sua autonomia. La proposta, letta in relazione al background culturale di Buber, non può certo essere vista come volontà di restaurare forme di spiritualità in senso egemonico o dogmatico: viceversa, egli sente l’esigenza di trovare una religiosità che non si lasci sopraffare da tutto il resto. Dalla quarta all’ottava lezione l’autore disegna invece una parabola che Ferrari definisce «pars construens» 24, in cui, liberato il religioso dalle insidie che lo minacciano, «individua proprio in una religione come presenza l’unico modo per riaffermare, ora e sempre, indipendentemente dal momento storico toccato in sorte, la religione» 25. Per la prima volta all’interno della produzione buberiana, viene qui rigettata la mistica: superata l’immanenza a favore della trascendenza, l’autore parla di un Dio che è Tu Assoluto, autentico in quanto pura presenza e capace di generare una religiosità libera, in apertura e relazione. La religione come presenza «sa dischiudersi in ogni istante, a partire da ogni relazione, che non può che essere vissuta, parimenti, come presenza» 26. Buber, in queste pagine, riallaccia la presenzialità alla relazionalità, permettendo di riscoprire in questo nesso un Tu Assoluto che si rivela solo in relazione e solo nell’attimo presente. Egli crea una dicotomia tra la presenza e la relazione, a ragione della quale può parlare di una religiosità che, essendo relazione, è necessariamente anche presenza. Il tema è anticipatorio della tesi presente in Ich und Du, dove si legge:
F. Ferrari, Introduzione a M. Buber, Religione come presenza, cit., p. 6. Ibid., p. 11. 25 Ibid. 26 Ibid., p. 25. 23 24
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dalla teosofia alla teologia biblica
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Il presente, non quello puntuale, che indica solo il termine via via fissato nel pensiero del tempo “trascorso”, l’apparenza di uno scorrere che si è fermato, ma il presente reale e compiuto, si dà soltanto nella misura in cui si dà presenzialità, incontro, relazione. Solo attraverso il farsi presenza del Tu, il presente nasce 27.
La questione, proposta in maniera speculare nelle lezioni del 1922 e nel testo del 1923, porta alla conclusione che l’Io in sé non è possibile, viceversa la relazione, l’apertura e lo scambio fra l’Io ed un altro Io è l’originario, è ciò che si trova a priori. Posta questa prima considerazione, si afferma come questo farsi avanti dell’Io nei confronti di un Tu è farsi presenza. «Presente e relazione sono così uniti in un nesso fondante»: da una parte «il presente nasce grazie alla presenza di un Tu», dall’altra «c’è relazione solo nel presente» 28. Proprio nella relazione come presenza è possibile quel riferimento asimmetrico con il Tu Assoluto, cioè con Dio: la religione, quando ridotta ad altro, diventa oggetto di conoscenza. Per riscoprire la religiosità entro il suo valore assoluto, è necessario non solo non oggettivarla ma ritrovarla nella dimensione tra l’Io e il Tu Assoluto, dunque nella dimensione della religione come presenza: La scintilla divina descritta dalla mistica chassidica, adesso si chiama Tu. [...] Che il Tu venga accolto, e venga accolto in quel presente che il suo accoglimento schiude attraverso la relazione, ci permette di comprendere meglio come la religione come presenza debba poggiare, prima di tutto, sulla relazione come presenza 29.
La presenzialità della relazione segna la definitiva accettazione della trascendenza. L’alterità del divino diventa evidenza dell’abbandono della teosofia e, parallelamente, della costruzione di una prospettiva fortemente realista 30. Su questo presupposto si strutturerà il futuro progetto di traduzione della Bibbia, emblema della nuova teologia che Buber ha costruito. 3. La traduzione della Bibbia Nel 1925 l’editore Lambert Schneider propone a Buber di dare vita ad una nuova traduzione della Bibbia: un progetto, certamente ambizioso e M. Buber, Io e Tu, cit., p. 67. F. Ferrari, Introduzione a M. Buber, Religione come presenza, cit., p. 21. 29 Ibid., p. 19. 30 P. Mendes-Flohr, From Mysticism to Dialogue, Martin Buber’s transformation of German social thought, Wayne State University Press, Detroit 1989. 27 28
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non compreso da tutti, che lo impegnerà per molti anni a venire 31. Egli acconsente, alla condizione di avere al fianco l’amico Franz Rosenzweig, con il quale aveva già lavorato alla traduzione di alcuni testi poetici. Superate le iniziali divergenze 32, fra i due nasce una fervida collaborazione 33. Inizialmente, il lavoro si concentra sul libro della Genesi: a Buber è affidato l’incarico di creare una bozza della traduzione, mentre a Rosenzweig è dato il compito di correggerne gli appunti. Il lavoro viene accompagnato costantemente da approfondite opere di esegesi biblica. Inoltre, la stessa attività di traduzione viene peculiarmente affrontata come un’interpretazione critica. L’attività esegetica di Buber non fu da meno della sua opera di traduttore; e in realtà i due aspetti non sono separati, perché la traduzione, soprattutto nel senso in cui la intendono Buber e Rosenzweig, è già un esegesi e il commento non è una teologia sistematica bensì una lettura esegetica 34.
A partire da questo elemento, nella traduzione Buber-Rosenzweig viene spesso l’eccessiva ingerenza della filosofia dialogica nella lettura e nell’interpretazione del testo sacro. I due autori infatti lasciano che filosofia e traduzione dialoghino all’interno delle opere esegetiche, lasciando inevitabilmente che la filosofia dialogica venga inframezzata da assunti teologici e viceversa. Certamente, la traduzione buberiana non è né la prima né tantomeno l’unica traduzione tedesca della Bibbia sul mercato. Sembra per questo interessante chiedersi a chi, quantomeno idealmente, è indirizzata questa edizione. Nel 1923 la traduzione è pensata per gli ebrei della Germania, nell’innocente inconsapevolezza di quello che sarebbe successo durante il secondo conflitto mondiale. Nel 1961, quando all’indomani della guerra la traduzione sarà definitivamente pubblicata, Gershom Scholem invia a Buber una lettera di critica, in cui si legge: 31 W. Goldstein, Die Botschaft Martin Bubers (iii) Von der Bibel, Edition Dr. Peter Freund, Jerusalem 1956. 32 Inizialmente si scontrano su quale testo avrebbe fornito la base di partenza per la traduzione: laddove Rosenzweig voleva lavorare sul testo di Lutero, l’amico mirava alla creazione di una traduzione tutta nuova. 33 Lo dimostrano le numerose lettere che i due si scambiano sull’argomento, in M. Buber-F. Rosenzweig, Amicizia nella parola. Carteggio, cit., pp. 222-318. 34 A. Poma, La parola rivolta all’uomo occidentale, saggio introduttivo a M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 17.
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A chi si indirizza questa traduzione e su chi avrà influenza? Se si guardano le cose con lo sguardo dello storico, questa traduzione non potrà più essere il dono dell’ospite da parte dell’ebreo tedesco. Essa sarà piuttosto – dico questo non senza dispiacere – la pietra tombale di una relazione che è stata annientata in una catastrofe spaventosa. Gli ebrei per i quali Lei ha intrapreso questa traduzione non sono più, e quelli che tra i loro figli sono sfuggiti a questa catastrofe non leggono più il tedesco 35.
L’orrore che trapela dalla lettera di Scholem non è certo sconosciuto al Buber del 1961: nonostante la piena consapevolezza che gli ebrei, all’indomani delle persecuzioni naziste, non avrebbero apprezzato una traduzione tedesca della Bibbia. Buber, tuttavia, decide di pubblicare ugualmente il lavoro. La nuova traduzione della Bibbia non è indirizzata solo all’ebreo tedesco, ma all’uomo occidentale in genere. Questo uomo di oggi versa in una crisi profonda, poiché da una parte ha scoperto la dimensione spirituale, ma dall’altra è estremamente attaccato a quella materiale: l’uomo contemporaneo occidentale è così scisso, separato nello spirito e nella vita. Nella crisi, la religione non riesce più a svolgere la sua azione salvifica, non è più in grado di coinvolgere totalmente la vita degli uomini. Tornare alla Bibbia e farlo attraverso una traduzione nuova offre la possibilità di oltrepassare le ceneri morenti della religione per ancorarsi di nuovo all’unità, raggiungibile solo se l’uomo sarà capace di porsi dinnanzi al sacro in maniera immediata: Intendiamo forse noi un libro? Noi intendiamo la voce! Intendiamo non dire che bisogna imparare a leggere? Noi intendiamo dire che bisogna imparare ad ascoltare. Non vi è ritorno se non quello della conversione, che ci fa girare intorno al nostro proprio asse, fino a che noi non incappiamo, non certo in un precedente tratto della nostra strada, ma nella strada, dove si può ascoltare la “voce”! Noi tendiamo perciò all’essere-parlata della parola 36. G. Scholem, Judaica I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1963, pp. 214-215. Per approfondire la visione di Scholem sull’ebraismo si rimanda a G. Scholem, Die jüdische Mystik in ihren Haumptströmungen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1988, trad. it. Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993. 36 M. Buber, Werke II, Schriften zur Bibel, Lambert Schneider, Heidelberg 1964, p. 869. L’attenzione costante della traduzione Buber-Rosenzweig nei confronti della parola, dell’etimologia e del ritorno all’articolazione del testo sacro è funzionale a rimettere ogni ebreo dinnanzi al mistero del testo sacro, che si disvela solo se si è capaci di ascoltare l’autentica parola-dialogante. In questo, afferma Lévinas, sembra esserci un richiamo all’idea di svelamento heideggeriano, sebbene con esiti profondamente differenti. Per approfondire il tema si rimanda a E. Lévinas, Martin Buber, in Id., Fuori dal soggetto, cit., pp. 17-19. 35
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La traduzione, anche nel 1961, ha così motivo di essere pubblicata con il suo specifico stile. In maniera intenzionale, i due pensatori ebrei parlano di trasformazione [Verdeutschung] e non di traduzione, in quanto l’intento condiviso non è quello di produrre una nuova versione della Bibbia in tedesco, ma quello di rinnovare il linguaggio biblico affinché esso possa realmente parlare al lettore. Tramite la scelta di parole desuete, talvolta arcaiche, capaci di rendere appieno il significato dei termini originali, il testo offre l’occasione di porsi dinnanzi al testo sacro in ascolto della parola del dialogo vivo. Eliminata la patina teologica e letteraria che lede il rapporto immediato con la Bibbia, Buber e Rosenzweig ricercano uno stile quanto più possibile vicino alla trasposizione orale, capace di fissare il testo in una forma simile all’originale. Per far questo non solo viene adottata una profonda cura nelle ricerca terminologica, ma altresì si divide il testo «in misure di respiro» 37, cioè in frasi abbastanza corte da poter essere lette tutte d’un fiato, come nel caso del linguaggio parlato. Per comprendere a pieno lo stile adottato è possibile confrontare un frammento della traduzione con quella proposta nella versione della CEI, concorde con l’editio princeps del 2008 (Gen 2, 4-8): Queste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati. Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo, ma una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato 38.
Nella versione Buber-Rosenzweig il medesimo passo viene tradotto nella maniera seguente: Nel giorno in cui Egli, Dio, fece il cielo e la terra, nessun cespuglio era ancora sulla terra e nessuna pianta era ancora spuntata, infatti Egli, Dio, non aveva fatto sì che piovesse sulla terra, e non c’era alcun uomo, Adam, per badare al suolo, Adama: fuori dalla terra saliva un vapore e inumidì tutta la superfice del suolo, ed P. Vermes, Op. cit., p. 115. La Sacra Bibbia della CEI, testo concorde con la «editio princeps» 2008, note e commenti di La Bible de Jerusalem del 1998, Trento 2009. 37 38
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Egli, Dio, formò l’uomo, con la polvere del suolo e soffiò nelle narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente 39.
La nuova traduzione viene accolta con entusiasmo dai lettori, concordi nell’affermare la piena riproduzione dell’ebraico nel testo 40. Lo stile dialogato, infine, propone lo specifico messaggio che è capace di curare le ferite dell’umanità occidentale. Questo fa primariamente riferimento a tre eventi: la creazione, la rivelazione e la redenzione. La rivelazione è l’unico evento effettivamente presente, ma grazie ad esso si rischiara anche l’atto della creazione, attraverso il quale origina la relazione con cui Dio si apre all’uomo e al mondo. Sempre a partire dal presente della rivelazione viene illuminato anche il futuro ultimo, in cui la l’umanità in pace con il mondo e con Dio potrà accedere alla redenzione. Questi eventi devono parlare, ancora oggi, all’uomo contemporaneo, non certo per ridurli ad altro (come già Buber ha sottolineato in Religione come presenza) ma affinché ognuno possa convertirsi, possa cogliere l’impossibilità di riduzione dell’evento rivelativo e riunificare in esso i frammenti della contemporaneità. La redenzione è evento di relazione, poiché chi vive la salvezza la coglie con un essere salvato da qualcuno esterno al proprio sé: L’essenza della redenzione ognuno di noi può assaggiarla nella propria vita personale, forse solo alla fine di essa. Eppure anche qui vi è un accesso, buio e silenzioso, che non può essere ascoltato se non pretendendo dai propri ascoltatori di ricordarsi delle loro ore più buie e silenziose. [...] Allora qualcosa ti tocca, come una mano; si protende verso di te, vuole essere afferrata – e ci vuole un così incredibile coraggio per afferrarla e lasciarsi trarre fuori dalle tenebre! Avviene la redenzione. Sperimentiamo correttamente ciò che là vi era da sperimentare: che “il nostro redentore vive”, egli che ci vuole redimere, ma attraverso l’accettazione da parte nostra della sua redenzione nella conversione del nostro essere 41.
Negli anni dedicati alla traduzione della Bibbia, Rosenzweig si ammala. Già alla fine del 1922 egli scrive a Buber una lettera, in cui si legge: Credo di doverla preparare a qualcosa che mi riguarda; sento di averla rimandata al colloquio più di quanto sia tollerabile. Allora: oltre alla deambulazione, la parola stessa è rovinata; a dire il vero mi si può ancora capire, più di quanto Le 39 P. Vermes, Op. cit., p. 116. Si veda anche M. Buber-F. Rosenzweig, Die Schrift, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 1961. 40 P. Vermes, Op. cit., p. 117. 41 M. Buber, Werke II, Schriften zur Bibel, cit., p. 860.
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apparirà al primo momento, ci si può abituare; ma la parola suona come quella di un uomo vecchissimo e viene fuori terribilmente a fatica, a fatica ancor più per gli altri che per me stesso; tutte le sfumature mi sono impossibili 42.
La condizione clinica del teologo peggiora sino a condurlo alla morte, nel 1929. Il progetto della traduzione della Bibbia, da questo momento in avanti, verrà portato a termine dal solo Buber il quale, a più riprese, vi lavorerà sino all’età di ottanta anni. I primi quindici volumi della traduzione vedono la luce nel 1938; nel 1950, all’indomani della guerra, il lavoro viene ripreso, portando alla pubblicazione di una nuova edizione in quattro volumi, stampati tra il 1954 e il 1962. Come non interrompe il lavoro di traduzione, la morte di Rosenzweig non lede neppure l’attività esegetica dell’amico. Inizialmente persuaso a scrivere un commento teologico complessivo della Bibbia, decide di concentrare le forze sull’interpretazione di alcuni specifici temi, quali il concetto della regalità di Dio e quello del messianismo. Completata la prima parte del lavoro nel 1932, attraverso la pubblicazione di La regalità di Dio 43, il progetto rimane incompiuto a causa dell’inasprirsi delle persecuzioni naziste. Solo anni più tardi, a testimonianza del valore che Buber sempre attribuirà alle fonti bibliche, egli si dedicherà alla scrittura di La fede dei profeti 44, rivolto alle medesime tematiche di cui si sarebbero dovute occupare le opere progettate negli anni prima della guerra e mai pubblicate. Il lavoro di esegesi e di traduzione biblica rappresenta solo una delle molte attività di cui Buber si occupa per tutti gli anni ’20. Ancora coinvolto nelle frange sioniste, all’interno delle quali non cesserà mai di cercare una conciliazione tra arabi ed ebrei circa la questione palestinese, viene incaricato nel 1925 di seguire il corso di religione ed etica ebraica all’università di Francoforte, posto che lascerà solo nel 1933, costretto dalle circostante politiche. Parallelamente, egli non cessa di dedicarsi alla personale attività filosofica, come dimostra in primis la pubblicazione, nel 1923, del suo capolavoro, Ich und Du.
M. Buber-F. Rosenzweig, Amicizia nella parola. Carteggio, cit., p. 39. M. Buber, Königtum Gottes, Lambert Schneider, Heidelberg 1932, trad. it. La regalità di Dio, Marietti, Torino 1989. 44 M. Buber, Der Glaube der Propehten, Lambert Schneider, Heidelberg 1950, trad. it. La fede dei profeti, Marietti, Torino 2001. 42 43
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VI.
Il pensiero dialogico “Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu, e l’io della parola fondamentale io-esso.” (Martin Buber, Io e Tu)
Il pensiero maturo di Martin Buber 1 trova spazio tra le pagine di Ich und Du (Io e tu), pubblicato per la prima volta nel 1923 a Lipsia, presso l’editore Insel. La filosofia del dialogo trova qua espresse le sue tesi principali, che l’autore continuerà a riproporre, approfondire e delucidare nelle opere successive, senza tuttavia allontanarsi mai da quanto proposto in queste righe. La forma richiama ancora una volta lo stile nietzschiano, attraverso l’impiego di frasi brevi, aforismatiche, dietro alle quali si nasconde un testo sistematico e articolato. Nella Parte prima, Buber propone i due principi fondamentali su cui si baserà l’intera trattazione: le parole io-tu ed io-esso; nella Parte seconda le parole fondamentali vengono viste all’interno della dimensione storica e societaria e, infine, nella Parte terza, si dedica alla relazione con il Tu eterno, analizzando quei caratteri che permettono di definire tale incontro autentico. Nell’edizione del 1958, curata dall’editore Schneider di Heidelberg, viene inserita la Nachwort, una postfazione in cui sono raccolte le risposte alle varie obiezioni e agli eventuali fraintendimenti posti all’autore nel corso degli anni. 1. La proposta dialogica Al lettore che scegliesse di sfogliare le pagine di Ich und Du il primo elemento che salterebbe all’occhio potrebbe essere la permanenza, in continuità rispetto agli scritti giovanili, di uno stile quasi poetico, apparente1 W. Goldstein, Die Botschaft Martin Bubers (ii) Die Dialogik Universaler Tail, Edition Dr. Peter Freund, Jerusalem 1953.
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io e tu
mente asistematico ed espressionistico. Ad una seconda lettura più attenta, inizierebbe ad emergere il primo elemento di discontinuità: lo stile, seppur aforismatico e frammentato, non è più uno stile totalmente nietzschiano, bensì espressione di contenuti filosofici ben sistematizzati, seppur comunicati secondo una forma che intende sé stessa come parola parlata, come puro dialogo: «Bisogna tener conto del fatto che quasi tutti gli scritti di Buber sono redatti con intenzioni dialogico-pedagogiche. L’opera di Buber non solo parla di cose dialogiche, ma intende se stessa come prassi dialogica» 2. Il valore dell’opera non è meramente speculativo, ma accoglie le esperienze che Buber ha vissuto negli anni e fornisce indicazione pratiche ai lettori. Questo stile, proprio di tutte le opere dialogiche, permette di definirne l’autore uno Zaddiq dialogante: La biografia di Buber è piena di questo impegno a partire dalla situazione, un impegno che lo ha reso, almeno quanto i suoi scritti, qualcosa di simile ad uno Zaddiq, un saggio o una guida del popolo di Israele e degli uomini. Buber ha accettato fino in fondo tutto questo nella sua autocomprensione: “è vero che a volte chiudo la porta della mia stanza e mi immergo in un libro, ma solo perché posso riaprirla e c’è una persona che alza il suo sguardo verso di me” 3.
Buber offre una proposta nuova ed originale, che recupera alcuni elementi già presenti nelle opere della gioventù, come l’io, Dio e il mondo, ma che interrompe quella strada che li conduceva ad una autocomprensione immanente 4. In Ich un Du l’essere non è più concepito a partire dal sé ma partendo dal tra, poiché alla «relazione con il proprio sé [...] manca il presupposto della dualità indispensabile per ogni relazione» 5. Il tra, necessariamente riferito ad una dimensione di polarità fra l’io e il tu, può così condurre ad entrambe le parole fondamentali, presentate fin dalle prime righe dell’opera; può portare alla parola base io-tu, oppure condurre alla parola base io-esso. Due modi di esperire la realtà, che esprimono la possibilità di vivere il mondo in maniera parziale, categorizzandolo, facendone 2 B. Casper, Op. cit., p. 282. Si veda anche D. Avnon, Martin Buber. The Hidden Dialogue, Rowman & Littlefield, Lanham-Boulder-New York-Oxford 1998, in cui l’autore sottolinea come Buber, nei suoi testi, instauri un reale dialogo con il lettore. 3 B. Casper, Op. cit., p. 283. Il frammento è emblematico rispetto alla volontà buberiana di non farsi chiamare filosofo, posponendo l’attività accademica all’interesse vivo e concreto di entrare in dialogo autentico con altri uomini. 4 Si veda anche A. Babolin, Essere e alterità in Martin Buber, Gregoriana, Padova 1965. 5 C.L. Coen, Martin Buber, cit., p. 64.
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il pensiero dialogico
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esperienza al sicuro, attraverso la parola fondamentale io-esso, oppure tramite la parola base io-tu, che permette di entrare in relazione in ogni luogo in cui l’incontro è possibile. Il pensiero della maturità abbandona la necessità di trovare una dimensione fondativa: la filosofia è dialogica poiché si apre all’incontro e alla relazione; facendo questo, lascia da parte la pretesa di porre il pensiero a fondamento assoluto dell’essere. Non è più necessario alcun principio primo: né l’estasi, né alcun altro atto capace di unificazione. Solo l’incontro conduce verso l’autenticità della parola fondamentale io-tu, ma può farlo solo se nei confronti dell’incontro vi è completo abbandono. Nell’ambito di Ich und Du Buber usa senza una specifica distinzione il termine relazione [Beziehung] e la parola incontro [Begegnung]; sarà questo il motivo della critica che gli rivolgerà, qualche anno dopo, Gabriel Marcel, per il quale il termine Beziehung esprime una connessione tra due termini, risultando quindi insufficiente rispetto al senso che Buber attribuisce alla parola fondamentale io-tu 6. L’autore replica a Marcel che, sebbene il termine incontro possa sembrare di primo acchito più adatto, solo il concetto di relazione apre all’idea di latenza. Questo sarà uno dei punti centrali della prospettiva dialogica buberiana, per cui ogni incontro, al di là di come lo si chiami, non è «un atteggiamento mentale o uno stadio psicologico» 7, bensì è un evento, che chiede solo di fondarsi nel dire realmente “tu” a colui che mi sta dinnanzi. 2. Ich und Du all’interno della bibliografia buberiana Io e Tu, più volte definito dallo stesso autore un piccolo libro, è la sua opera più eminente. Dopo una prima bozza risalente al 1916, egli completa il testo solo nella primavera del 1922, mentre si dedica all’insegnamento AA. VV., Il mito della relazione, cit., pp. 39-41. Sottolinea anche Lévinas in E. LévMartin Buber, in Id., Fuori dal soggetto, cit., p. 31, che «mentre per Buber il fatto di dire tu è una relazione assoluta che non ha alle spalle alcun principio fondativo, Marcel [...] denunzia il carattere concettuale che risulterebbe connesso con i termini di relazione e con la loro oggettività, che sarebbe suggerita da questa parola». Marcel non contesta l’assunto di fondo della proposta buberiana, anzi, teme che il termine relazione non possa esserne all’altezza; l’incontro, viceversa, scongiurerebbe la possibilità dell’oggettivizzazione in modo da lasciarsi toccare da «una vita concreta che trabocca fuori di sé e che conduce l’uomo nel cuore del suo essere» (Ibid., p. 32). 7 P. Vermes, Op. cit., p. 79. 6
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io e tu
al Lehrhaus di Francoforte sul Meno. Molti pensatori accolgono con entusiasmo il libello e la strada che in esso l’autore traccia, che, partendo dal dialogo, pone il lettore dinnanzi all’alternatività presente tra la relazione e l’irrelazione. Il testo, dopo l’edizione del 1923, viene pubblicato più volte, accompagnato dagli scritti successivi che egli stesso designa a corollario dell’opera principale. Nel 1947, a Zurigo, viene data alla luce la prima raccolta di saggi sulla filosofia dialogica, pubblicati da Gregor Müller Verlag, con il titolo Dialogische Leben. Gesemmelte philosophische und pädagogische Schriften 8; la raccolta, accanto ad Ich und Du, comprende anche Zwiesprache, Die Frage an den Einzelnen, Über das Erzieherische, Über Charaktererziehung e Das Problem des Menschen. Nel 1954, grazie all’editore Lambert Schneider di Heidelberg, una differente raccolta, dal titolo Die Schrifeten über das dialogische Prinzip 9, vede la luce; questo volume comprende Ich und Du, Zwiesprache, Die Frage an den Einzelnen, Elemente des Zwischenmenschlichen e Nachwort: Zur Geschichte des dialogischen Prinzips. Infine, nel 1962, Buber pubblica presso lo stesso editore una raccolta simile alla precedente dal titolo Das dialogische Prinzip 10, con la sola aggiunta del Nachwort a Ich und Du, già comparso in un’edizione autonoma. Accanto ai testi contenuti in Das dialogische Prinzip, vengono infatti aggiunti Über das Erzieherische (1926) e Urdistanz und Beziehung (1950), collocando così in un’unica raccolta molti dei testi che Buber stesso, nella postfazione a Das dialogische Prinzip, indica come concernenti la filosofia dialogica. Al di fuori di questo volume, si segnalano anche Das Problem des Menschen 11 (1947) e Gottesfinisternis. Betrachtungen zur Beziehung zwischen Religion und Philosophie 12 (1952) come testi fondamentali sul pensiero dialogico. Buber, consapevole del valore dell’opera del 1923, organizza tutti gli scritti filosofici posteriori in modo che il lettore si trovi con facilità a seguire quel percorso ideale che ha il suo cuore nella prima opera del pensiero dialogico e nelle successive un corollario di circoli ermeneutici che offrono ulteriori delucidazioni sulla sua proposta. 8 M. Buber, Dialogische Leben. Gesemmelte philosophische und pädagogische Schriften, Gregor Müller Verlag, Zurigo 1947. 9 Id., Die Schrifeten über das dialogische Prinzip, Lambert Schneider, Heidelberg 1954. 10 Id., Das dialogische Prinzip, Lambert Schneider, Heidelberg 1962. 11 Id., Das Problem des Menschen, Gregor Müller Verlag, Zurigo 1947, trad. it., Il problema dell’uomo, a cura di I. Kajon, Marietti, Bologna 1919. 12 Id., Gottesfinisternis. Betrachtungen zur Beziehung zwischen Religion und Philosophie, in «Merkur», VI, n. 2, 1952, trad. it., L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Passagli, Firenze 2001.
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il pensiero dialogico
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3. Due parole fondamentali Nella prima pagina di Ich und Du si legge: Il mondo ha per l’uomo due volti, secondo il suo duplice atteggiamento. L’atteggiamento dell’uomo è duplice per la duplicità delle parole fondamentali che egli dice. [...] Una di queste parole fondamentali è la coppia io-tu. L’altra parola fondamentale è la coppia io-esso. [...] Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu, e l’io della parola fondamentale io-esso 13.
L’evocativo incipit dell’opera porta il lettore ad entrare immediatamente in contatto con il punto focale della Parte prima del libello, in cui si afferma che il mondo ha per l’uomo due differenti volti, in base a come ad esso ci si rivolge, cioè se lo si comprende a partire dalle parole fondamentali io-tu o dalla coppia io-esso. Quindi ogni uomo, rispetto a ciò che gli sta dinnanzi, può rivolgersi «ad esso come a un “tu”» o mantenersi estraneo e «vederlo come un oggetto, un “esso”» 14. Alle due parole fondamentali, corrispondono due differenti atteggiamenti. Tramite la coppia io-esso, si fa esperienza del mondo, poiché «il mondo come esperienza appartiene alla parola fondamentale io-esso» 15; quando invece ci si rivolge all’altro tramite la parola io-tu, ci si apre al dialogo, in quanto «la parola fondamentale io-tu fonda il mondo della relazione» 16. La proposta, solo all’apparenza di facile comprensione, raccoglie i frutti seminati lungo tutta la strada che il pensiero di Buber ha percorso sino a questo momento. Poche righe più avanti egli scrive che l’uomo, facendo esperienza delle cose, dunque rapportandovisi tramite la parola fondamentale io-esso, ne «percorre la superficie» 17; ma questo porta a lui «soltanto un mondo che consiste di esso e sempre ancora di esso, mentre non solo le esperienze portano il mondo all’uomo» 18. In questo passo echeggia la lezione del maestro Dilthey, attraverso la svalutazione dell’esperienza Erfhahrung, cioè un’esperienza oggettivante, a favore di un’esperienza capace di essere evento esistenziale, in cui la contrapposizione tra soggetto e oggetto è sostituita dall’ingresso dell’io nell’evento, al quale vi partecipa con tutto sé stesso. Accanto a questo rimando si presenId., Io e tu, cit., p. 59. P. Vermes, Op. cit., p. 79. 15 M. Buber, Io e tu, cit., p. 61. 16 Ibid. 17 Ibid., p. 60. 18 Ibid., p. 61. 13 14
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ta, però, l’originalità buberiana rispetto al filone dello storicismo tedesco, cioè la ricerca della relazione 19. La parola fondamentale io-tu permette non solo di fare venire all’io tutto ciò che non è esperibile tramite il mondo dell’esso, ma lo fa preservando l’alterità. La relazione, infatti, non solo permette di non ridurre ciò che l’uomo ha dinnanzi ad un oggetto, ma altresì impedisce «la riduzione dell’altro all’io» 20. Agli occhi del lettore che ha avuto modo di confrontarsi con gli scritti giovanili di Buber, emergono dei motivi che rendono la svolta verso il pensiero dialogico non tanto un distacco dalla proposta antecedente, quanto piuttosto un progredire di strutture già presenti. È quanto rileva Bernhard Casper, affermando che in Ich und Du permane «la stessa dimensione problematica che si impegnava ad indagare» 21 in precedenza. Nella prima edizione di Io e Tu l’autore pone in apertura una citazione di Goethe: «Me lo aspettavo da te, alla fine: che Dio è presente negli elementi» 22 che sembra non allontanarsi dalle citazioni proposte in Daniel e in Confessioni estatiche: nel primo caso viene riportato un passo di Scoto Eriugena e nel secondo una citazione proveniente dalla penna di Meister Eckhart 23. L’obiettivo buberiano sotteso alle due opere della gioventù è quello di descrivere la pura attualità, motivo che permane anche in Ich un Du, al cui centro: «non sta altro che la presenza di ciò che non ha confini, [...] il puro venire incontro dell’essere» 24. Se il problema permane identico, differente è la sua soluzione, poiché solo ora, in maniera difforme rispetto ai testi antecedenti, si parla di un essere in quanto pura attualità che non è mai pensabile per sé ma sempre e solo come realtà della relazione 25. Una soluzione che è stata 19 L’essere del Buber dialogico esiste solo in termini relazionali, al punto da poter considerare la sua prospettiva un’ontologia della relazione, come affermato in A. Poma, La filosofia dialogica di Martin Buber, cit. 20 M. Buber, Io e tu, cit., p. 63. È Andrea Poma, in nota, a sottolineare la permanenza di un concetto di esperienza che si rifà all’Erlebnis dello storicismo Tedesco, sebbene con le dovute differenze date dal superamento dell’immanentismo, che portano all’esclusione di qualsivoglia forma di riduzionismo. 21 B. Casper, Op. cit., p. 291. 22 J.W. von Goethe, West–östlicher Divan, Verlag Gesellschaft, Stuttgart 1819, trad. it. Divano occidentale-orientale, Rizzoli, Segrate 1990. 23 Di Scoto Eriugena viene citata la frase: «Deus in creatura mirabili et ineffabili modo creatur», in M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, cit., p. 5, mentre di Meister Eckhart viene riportato il verso: «L’unico che io intendo è senza parole, uno e unificato nell’uno, dove riluce purissimo», in M. Buber, Confessioni estatiche, cit., p. 7. 24 B. Casper, Op. cit., p. 289. 25 Per ulteriori approfondimenti sull’idea di essere visto come processo relazionale si rimanda a E. Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2020. Nel testo, l’autore
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trascinata fuori dai meandri dell’immanenza, a favore di una presente e viva trascendenza relazionale: Attraverso la trascendenza del “tra” rispetto al “sé” [...] è resa possibile l’alterità dell’Altro. [...] Ed è altrettanto possibile ora pensare una vera trascendenza di Dio, il quale si manifesta nel linguaggio come “Tu eterno”, per così dire come il “tra di tutti i tra” 26.
Sempre seguendo il medesimo filo conduttore, si potrebbe immaginare un’ulteriore analogia nell’alternatività che Buber individua tra la parola fondamentale io-esso e quella io-tu e la duplice via presentata in Daniel. Nell’opera del 1913 l’autenticità è propria dell’atto della realizzazione, parallelamente al quale si trova l’atto orientante e regolante, che porta a comprendere il mondo schematizzandolo in categorie. Ad una prima analisi, si può forse cadere nell’inganno di vedere una simmetria tra questa coppia antitetica di atteggiamenti e le duplici parole fondamentali: effettivamente, l’atto orientante e regolante sembra avere i medesimi caratteri della coppia io-esso. La differenza, tuttavia, emerge fin dalla prima pagina, dove scrive che «non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu, e l’io della parola fondamentale io-esso» 27. I due atteggiamenti scoperti in Daniel partono dal sé e al sé vogliono tornare: quando il protagonista dei dialoghi del 1913 riesce a superare l’atto orientante e regolante, attraverso la via della realizzazione può raggiungere all’unità con il suo sé. Viceversa, la parola fondamentale io-tu permette di uscire dalla visione oggettivante dell’altro esperito tramite la coppia io-esso, ma apre ad una dimensione di fondamentale reciprocità e relazionalità, costitutivamente impossibile per il giovane Buber del Daniel, ancora immerso in un panorama mistico e teosofico: Se la pura realizzazione compariva nella misura in cui io stesso mi realizzavo in modo puro, unificando tutta la realtà nell’estasi, l’incontro, il mondo della parola base io-tu, è caratterizzato proprio dal fatto che l’essere vi assume il carattere dell’alterità 28.
afferma come la dialogica porti a ridefinire l’uomo e la sua soggettività in una maniera del tutto nuova. L’ontologia, alla luce dell’altro, deve essere infatti ripensata come inapplicabile in maniera immediata alle strutture del soggetto: questo impianto, chiaramente, apre a profondi ripensamenti in ambito esistenziale e antropologico. 26 B. Casper, Op. cit., p. 283. 27 M. Buber, Io e tu, cit., p. 59. 28 B. Casper, Op. cit., p. 291.
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La parola fondamentale dell’io-tu permette l’istaurarsi della relazione in diverse sfere. In ognuna di queste, «attraverso ogni cosa che ci si fa presente», possiamo instaurare una relazione che è «in ogni sfera secondo il suo modo» 29. Per quanto l’autore definisca la coppia fondamentale io-tu come parola, ciò non vuol dire che essa possa darsi solo all’interno del linguaggio. Esso, espressione fenomenica di alcuni modi della relazione, non ne rappresenta l’aspetto essenziale: la parola è una realtà ontologica autentica e identica alla relazione 30. Proprio per questo, le sfere entro cui avviene l’incontro possono passare attraverso la parola intesa come linguaggio, come accade nella «vita con gli uomini» 31, ma possono anche avvenire in ambiti prelinguistici, come nel caso della «vita con la natura» 32 o sovra-linguistici, come per la «vita con le essenze spirituali» 33. Il primo luogo dell’incontro che Buber mostra è quello della natura, sia essa animata o inanimata, comprendente dunque tanto gli animali quanto le piante, finanche all’ultimo degli elementi. Nelle righe dedicate all’argomento, egli mette in luce in maniera particolarmente chiara la differenza tra la parola fondamentale io-tu e la coppia io-esso. Se si osserva un albero, dice, lo si può recepire come un’immagine oppure comprenderlo nel suo movimento; lo si può classificare, riconoscere come espressione di una legge o, ancora, immortalarlo nella pura relazione numerica 34. In ognuno di questi casi, l’albero viene compreso come un oggetto che sta dinnanzi ad un soggetto, dunque secondo la parola fondamentale io-esso. Poche pagine più avanti, si legge a tal riguardo: L’io che si è fatto avanti spiega se stesso come portatore delle sensazioni, e l’ambiente come loro oggetto. [...] Appena si dice la frase “vedo l’albero” in modo tale che essa non racconta più di una relazione tra l’uomo-io e l’albero-tu, ma M. Buber, Io e tu, p. 62. La valenza ontologica della parola buberiana è confermata anche in E. Lévinas, Martin Buber, in Id., Fuori dal soggetto, cit., p. 29: «La parola è il tra-i-due per eccellenza. Il dialogo funziona non come una sintesi della Relazione ma come il suo stesso dispiegarsi». Lévinas prosegue il discorso chiamando all’appello le parole di Marcel, il quale rileva nel valore ontologico del linguaggio un’aporia: sebbene egli veda come incondizionatamente valida la proposta buberiana, rimane altresì legato alla diffidenza bergsoniana, che vede il linguaggio come inadeguato alla vita interiore: teme che la trasposizione dell’Io-Tu sul piano del linguaggio possa condurre a degenerazione. Viceversa, nelle parole del saggio buberiano, «l’Io-Tu è vissuto come l’immediatezza stessa della com-presenza e, di conseguenza, come qualcosa che è al di sopra delle parole, al di sopra del dialogo» [Ibid., p. 30]. 31 M. Buber, Io e tu, p. 62. 32 Ibid. 33 Ibid. 34 Ibid., pp. 62-63. 29 30
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stabilisce la percezione dell’oggetto-albero attraverso la coscienza-uomo, ecco che essa ha già eretto la barriera tra soggetto e oggetto: la parola fondamentale io-esso, la parola della separazione, è pronunciata 35.
Tuttavia, continua, lo spettatore che si pone dinnanzi all’albero può non osservarlo ma, «per volere e per grazia insieme» 36, essere coinvolto nella relazione con lui. È in questo caso che entra in gioco la parola fondamentale io-tu, la quale permette di far apparire tutto ciò che concerne l’albero «in una totalità» 37. È solo in questo caso che «l’albero non è un’impressione, [...] ma un corpo vivo davanti a me e ha che fare con me, come io con lui» 38. Sarebbe inopportuno considerare tale dimensione totalizzante del rapporto con la natura come il tutto che avviene nelle relazioni di tipo mistico: viceversa, si tratta di una relazione esclusiva, in cui due io si rivolgono individualmente al tu che gli sta dinnanzi 39. È lo stesso Buber ha precisarlo, raccomandando al lettore di tenere a mente che la relazione di cui si sta parlando significa reciprocità 40. Molti commentatori, tuttavia, sottolineano l’ambiguità presente in questo passo dell’opera: sembra difficile che nel mondo della natura, specialmente nel campo del vegetale, possa rintracciarsi una qualche dimensione di reciprocità. Nel poscritto alla seconda edizione di Io e Tu lo stesso autore esplicita come animali, piante ed elementi naturali non abbiano una duplice natura io-tu e io-esso, ma che tuttavia all’uomo sia lasciata la possibilità di rivolgersi al mondo naturale in maniera oggettivante, oppure istituendo con esso una relazione 41. Proprio nell’entrare nella dimensione relazionale, viene meno la possibilità di spiegazione: «La reciprocità in questo contesto deve rimanere un mistero» 42. Il secondo luogo dell’incontro è quello in cui si sperimenta effettivamente possibile la relazione entro il reciproco dialogo, cioè l’ambito dell’interumano. Anche in questo caso, è possibile rivolgersi all’uomo che si trova dinnanzi come se fosse un oggetto, caratterizzandolo secondo gli schemi Ibid., p. 75. Ibid., p. 63. La questione della contemporanea gratuità e volontarietà dell’incontro avrà modo di essere approfondita in seguito. 37 Ibid. 38 Ibid. 39 P. Vermes, Op. cit., p. 84. 40 M. Buber, Io e tu, cit., p. 63. 41 Id., Die Schrifeten über das dialogische Prinzip, Lambert Schneider, Heidelberg 1954, trad. it. Postfazione: per la storia del pensiero dialogico, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., pp. 148-150. 42 P. Vermes, Op. cit., p. 85. 35 36
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della coppia io-esso, oppure si può accedere alla viva relazione, ponendosi come un io dinnanzi ad un tu. Se sto di fronte ad un uomo come di fronte al mio tu, se gli rivolgo la parola fondamentale io-tu, egli non è una cosa tra le cose e non è fatto di cose. [...] Io non sperimento l’uomo a cui dico tu. Ma, nella santa parola fondamentale, sono nella relazione con lui 43.
L’oggettivizzazione dell’altro rende l’umanità sicura. Nel rapporto cosale si costruiscono strutture entro le quali si può conoscere il mondo senza scomodare la propria vita, senza partecipare con la pienezza di sé a tale conoscenza. Tuttavia l’umanità che nasce dalla mera oggettivizzazione della parola fondamentale io-esso non è vitale, non è pienamente autentica; per esserlo ha bisogno di lasciarsi chiamare da un io che si rivolge ad un tu e di entrare così nella possibilità della relazione 44. «“Ma allora cosa si sperimenta del tu?” “Proprio nulla. Perché non si sperimenta.” “Che cosa si sa allora del tu?” “Semplicemente tutto. Poiché di lui non si conosce più il particolare”» 45. Tra l’io e il tu non avviene alcuna spiegazione concettuale e nessuna comprensione logica. Cade ogni mediazione intellettuale, a favore di una relazione viva e immediata, non ricercata ma accaduta per grazia. La relazione io-tu non può essere infatti indagata alla stregua di una conoscenza oggettivante, la si può solo scegliere: si può cioè decidere di entrare o meno nella relazione e, a quel punto, la reciprocità accade senza mediazioni: «Il tu mi incontra. Ma io entro con lui nella relazione immediata. Così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere, patire e agire» 46. Nella dinamica buberiana della scelta e della non scelta riecheggiano alcuni studi
M. Buber, Io e tu, cit., p. 65. Ibid., p. 68. 45 Ibid., p. 66. Buber, come afferma Lévinas, è creatore di una prospettiva in cui «non si compie alcun riconoscimento di un’essenza delineata nel Detto. Né rappresentazione, né sapere, né ontologia; ma dimensione nella quale si colloca l’altro uomo interpellato immediatamente come tu», in E. Lévinas, Martin Buber, in Id., Fuori dal soggetto, cit., pp. 3738. Questo passaggio rappresenta uno dei punti più affascinanti e, contemporaneamente, delicati del saggio buberiano: sebbene risultino evidenti le implicazioni antropologiche e sociologiche che tale piano ontologico andrebbe a fondare, l’autonomia dell’Io-Tu potrebbe, per alcuni autori, essere facilmente contestata. Per approfondire l’argomento, si veda Y. Bloch, Die Aporie des Du. Probleme der Dialogik Martin Bubers, Lambert Schneider, Heidelberg 1977. 46 M. Buber, Io e tu, cit., p. 66. 43 44
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giovanili sul taoismo 47: l’autore considera infatti un’importante conoscenza dell’uomo orientale le teorie del “non agire” quale culmine dell’“agire”, come lui stesso sottolinea in un frammento autobiografico raccolto in Werke I. La vita con gli uomini, dando e ricevendo il tu, permette l’emergere di una dimensione essenziale, cioè quella dell’amore. Questo atto fondamentale è costantemente frainteso, poiché viene spiegato attraverso l’esclusiva presenza dei sentimenti. Viceversa «dei sentimenti accompagnano il fatto metafisico e metapsichico dell’amore, ma non lo determinano» 48. Buber può segnalare una grande differenza tra la visione sentimentale dell’amore e l’amore in sé grazie all’esposizione, nelle pagine precedenti, della doppia natura io-esso e io-tu. Ha già sottolineato come il rapporto io-tu accade; così l’amore, atto essenziale della relazione io-tu nella dimensione interumana, è legato alla prospettiva dell’accadimento a differenza dei sentimenti che accompagnano l’amore nel singolo io. «I sentimenti dimorano nell’uomo; ma l’uomo dimora nel suo amore» 49: i sentimenti coinvolgono sempre l’individuo e ogni individuo ne vive di differenti, l’amore invece riguarda in maniera intima ed essenziale il tra, lo spazio originario fra io e tu. Esso acquista significato ontologico e giunge, nei suoi caratteri, ad essere sinonimo di relazione e parola. Diviene la possibilità della salvezza, l’occasione della fuoriuscita dall’oggettivizzazione a favore dell’ingresso nel rapporto io-tu: Per chi sta nell’amore e in esso guarda, gli uomini si liberano dal groviglio dell’ingranaggio; i buoni e i cattivi, i savi e i folli, i belli e i brutti, l’uno dopo l’altro diventano per lui reali, diventano un tu, cioè un essere liberato, fuori dal comune, unico ed esistente di fronte a lui. [...] Qui sta l’uguaglianza [...] di tutti coloro che si amano, dal più piccolo al più grande, dal felice che si sente al sicuro, perché la sua vita trova compimento in quella della persona amata, a colui che, inchiodato tutta la vita alla croce del mondo, può e osa l’inaudito: amare gli uomini 50.
La terza sfera delle relazione è quella delle essenze spirituali: dimensione sovra-linguistica, è forse, tra i luoghi dell’incontro descritti nel testo, il 47 Si veda M. Buber, Die Lehre vom Tao, Insel, Leipzig 1910; Id., Buddha, Insel, Leipzig 1917; Id., Chinesische Geister- und Liebesgeschichten, Rütten & Loening, Frankfurt 1911. Id., China und wir, China Institut, Frankfurt 1929; Id., Dem Gemeinschaftlichen folgen, «Die neue Rundschau», LXVII/4, Ottobre/Dicembre 1956; trad. it. in L’insegnamento del Tao. Scritti fra Oriente e Occidente, a cura di F. Ferrari, il Melangolo, Genova 2013. 48 M. Buber, Io e tu, cit., p. 69. 49 Ibid. 50 Ibid., pp. 69-70.
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più difficile da comprendere. Essendo il meno indagato dai commentatori, è difficile tradurre con esattezza il termine tedesco usato, cioè geistige Wesenheiten. Anna Maria Pastore, traducendo il testo curato da Andrea Poma, impiega il termine essenze spirituali 51, sebbene molti utilizzino parole differenti, come essenze intellegibili o forme dello spirito. Pamela Vermes, dedicando alcune pagine all’analisi di questo termine, decide di tradurlo con essenze intellettuali 52 poiché, a suo vedere, comprende meglio ciò che l’autore voleva intendere: questo luogo è il luogo dell’arte, della poesia, della musica; è lo spazio entro cui la relazione che si crea lascia che l’io di un artista incontri un’essenza intellettuale, cui viene dato del tu. «Egli può essere talmente preso da questo incontro da affidarglisi completamente»: l’artista può rispondere, l’essenza spirituale o intellettuale ricambiare e l’opera d’arte può essere prodotta all’interno della relazione. Nella Postfazione è sottolineato come l’essenza spirituale non è in alcun modo pensabile come un’idea platonica: è, viceversa, l’incontro reale tra un io e il tu dello spirito che soffia intorno 53. Nella Parte prima dell’opera, dopo aver ampiamente descritto le tre sfere della relazione, vengono offerte alcune considerazioni sul linguaggio dei primitivi e su quello dei bambini entro i quali è possibile rintracciare il rapporto io-tu non ancora corrotto dal mondo dell’esso. Il primitivo infatti è capace di dire la parola fondamentale della relazione in maniera naturale e preformale, cioè prima ancora di essersi riconosciuto come un io 54. Allo stesso modo nel bambino la parola fondamentale io-tu è aprioristicamente parte dei suoi legami naturali 55. In entrambi i casi, il rapporto io-tu non è vissuto come scelta consapevole e alternativa al mondo dell’esso, ma è l’unico ed immediato rapporto di cui, tanto il primitivo quanto il bambino, sono capaci. Queste pagine offrono lo spunto per più di una riflessione: anzitutto, è bene sottolineare come l’argomentazione qui presentata non sia nuova. Egli sta infatti recuperando la proposta che Rosenzweig fa in La stella della redenzione 56. Sebbene l’amico teologo corrobori l’ipotesi con ampie parentesi antropologiche, psicologiche e storiche, assenti nella trattazione buberiana, il significato espresso è il medesimo: emerge la comune Ibid., p. 62. P. Vermes, Op. cit., p. 84. 53 M. Buber, Postfazione, cit., pp. 150-152. 54 Id., Io e tu, cit., p. 75. 55 Ibid. p. 76. 56 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. 51 52
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idea che il linguaggio abbia una funzione non solo comunicativa ma anche ontologica. Inoltre queste pagine rappresentano la ripresa di alcuni passi del Daniel, dove si legge che l’assenza dell’atto orientante e regolante a favore dell’esclusiva e pura realizzazione sono visibili nell’uomo primitivo e nell’infante. In entrambi i casi questo dipende da una situazione di mancata maturità, di impossibilità di accedere alla conoscenza orientata e regolata. La medesima proposta affiora tra le righe di Ich und Du, dove si legge che il primitivo vive solo la parola fondamentale io-tu perché non è capace di sperimentale la coppia io-esso; il bambino, ugualmente, vive la relazione in maniera naturale perché non è ancora in grado di accedere all’oggettivizzazione. La grande novità assunta sta tuttavia nella causa di questa originaria condizione: il primitivo e il bambino non hanno ancora sperimentato l’io come separato, non lo hanno ancora riconosciuto se non nel legame con il tu. La parola fondamentale io-esso «è resa possibile soltanto attraverso questo riconoscimento, attraverso la separazione dell’io» 57 e pertanto, finché questo non avviene, si rimane in una condizione di mancata maturità, in cui la parola fondamentale io-tu accade ma non per scelta, quanto piuttosto per l’impossibilità di accedere ad altro. Da questo emerge il carattere fondamentale della relazione, il suo essere un a-priori. Quando Buber dice che «all’inizio è la relazione» 58, sta affermando che ciò che è più originario non è affatto l’io, il quale può decidere fin dal principio se entrare nel mondo attraverso la parola fondamentale io-tu o la coppia io-esso. In origine vi è la relazione che solo in secundis si scinde per lasciar emergere un io solitario e quindi consapevole, nella sua separazione, di potersi rigettare nella relazione o di poter procedere oltre, verso il mondo dell’esso e dell’irrelazione. Il tu precede l’io, così come l’io precede l’irrelazione 59. In origine vi è la relazione, sia che l’origine considerata sia storica, come nel caso del primitivo, sia che essa sia pensata biologicamente, come per il bambino: fuoriusciti da queste situazioni di infanzia ed immaturità, accaduta la separazione tra io e tu, sta ad ognuno la scelta: rimanere nell’oggettivizzazione o rientrare nella relazione. Concorda con questa analisi anche Casper, per cui l’incontro così descritto deve essere considerato prioritario rispetto a coloro che si incontrano. Questo autore mette in luce anche una discrepanza: l’incontro, pur non avendo origine in coloro che si incontrano, ha bisogno M. Buber, Io e Tu, cit., p. 75. Ibid., p. 72. 59 P. Vermes, Op. cit., p. 90. 57 58
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delle due alterità che entrano in relazione. Essendo stato, inoltre, definito da Buber come assolutamente immediato, non solo non può originare dalle alterità che si incontrano ma nemmeno da un punto intermedio tra le due. Questo significa che «il tra dell’incontro, la pura attualità dell’incontro che si svolge, di fronte a coloro che si incontrano si mostra come ciò che è ontologicamente precedente» 60. Né da un luogo puntiforme ed intermedio, né da alcun polo del rapporto può originare l’incontro: esso muove solo dal tra, prioritario, originale, presente fin dal principio. Solo dopo che la separazione tra l’io e il tu è avvenuta, solo dopo che il bambino è diventato uomo, si acquista la possibilità di connettere il mondo secondo vie spaziali, temporali e causali, cioè secondo i canoni del rapporto tu-esso. Solo dopo ogni cosa «ha il suo posto, il suo corso, la sua misurabilità, la sua condizionatezza» 61. Tutto può divenire coordinabile in secondo luogo, cioè solo dopo essere diventato, a partire dal tu originario, un esso. Tutto può essere ordinato, sebbene questo ordine non sia proprio di ogni evento: Dal momento che siamo giunti fino a qui, è necessario pronunciare anche l’altra parte della verità fondamentale, senza la quale non sarebbe che inservibile frammento: il mondo ordinato non è l’ordine del mondo 62.
La volontà di comprendere ciò che circonda l’uomo secondo canoni di misurabilità e di regolarità, per quanto possa apparire rassicurante, produce un mondo ordinato che non corrisponde al reale ordine, visibile solo nell’originarietà del tra. L’uomo ha bisogno della parola fondamentale io-esso per leggere ciò che lo circonda in base alle connessioni spazio-temporali, producendo un mondo piacevole da vivere e facile da conoscere. Tuttavia questo non basta poiché l’uomo «diventa io» soltanto «a contatto con il tu» 63, dunque «colui che vive solo con l’esso», per quanto questo atteggiamento sia importante, «non è l’uomo» 64. Buber dà valore all’esistenza in quanto partecipazione evenemenziale 65: l’incontro si svolge e atB. Casper, Op. cit., p. 296. M. Buber, Io e tu, cit., p. 75. 62 Ibid., p. 81. 63 Ibid., p. 79. 64 Ibid., p. 83. 65 B. Casper, Op. cit., p. 296. L’analisi dell’autore mostra come, da un pensiero esistenziale, si giunga all’idea di partecipazione all’evento. Inoltre, Casper propone un breve excursus di confronto fra la dottrina buberiana della partecipazione e la partecipatio medievale. Entrambe condividono, infatti, il contenuto formale di base: l’essere appare il trascendenta60 61
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traverso sé rende l’uomo realmente uomo. Dal canto suo l’umanità deve essere disposta a partecipare all’incontro per dirsi viva. La particolarità di questa proposta sta nel fatto che l’incontro non può essere pensato come strumento autonomo, ma deve essere costantemente compreso come quel tra originario che, nella sua dimensione prioritaria, sussiste sempre e solo tra le alterità che entrano in relazione. L’esistenza, pertanto, è pienamente tale quando vi è partecipazione all’evento dell’incontro. 4. L’eccessivo spazio del mondo dell’esso Nella prima parte dell’opera Buber restituisce realismo alla categoria dell’incontro, sottolineando il ruolo fondamentale della parola io-tu. Ora, nella Parte seconda, l’attenzione viene rivolta al mondo dell’esso, mettendo in luce quale danno derivi dal suo impiego in via esclusiva. La storia, caratterizzata dal «progressivo accrescimento del mondo dell’esso» 66, vede il protagonismo sempre maggiore dell’umanità dell’oggettivizzazione: l’uomo moderno recupera l’alterità sempre e solo in secondo luogo, quale oggetto conosciuto dal soggetto conoscente. Al progredire di questo atteggiamento, tuttavia, viene meno la forza di relazione dell’uomo. L’assenza dell’incontro lascia dietro sé il vuoto in cui si radica la crisi in cui versa l’uomo occidentale. La parola io-esso, necessaria accanto alla parola io-tu, se lasciata da sola lede il riconoscimento stesso dell’umano. Come una massa maligna, cresce impedendo la relazione con l’altro: La parola fondamentale io-esso non è male, [...] ma quando l’uomo permette a questa parola di comandare, il mondo dell’esso, che non cessa mai di svilupparsi, lo soffoca, il suo proprio io perde per lui realtà, finché l’incubo che lo sovrasta e il le cui si partecipa, senza mai potervi accedere in maniera assoluta. Tuttavia, la partecipatio di Tommaso d’Aquino rimane ancorata alla dottrina platonica che lo precede, dunque all’idea che vi sia un unico bene decaduto in tutte le cose; questo conduce ad una partecipazione che è lineare ascesa verso quell’unico bene. In Buber questo muta drasticamente: al centro vi è l’incontro di due sé autonomi, che tuttavia possono diventare realmente sé stessi tramite l’incontro stesso che li trascende come tra. Pur essendo presente tale trascendentale che non può mai essere appieno posseduto, non vi è un avvicinamento, una maggiore o minore partecipazione al trascendente sulla base di quanto ci si avvicini al bene sommo. Esistenza è partecipazione, la partecipazione è partecipazione ad un evento, quello dell’incontro, che rende l’uomo pienamente sé stesso. Per ulteriori riferimenti ed approfondimenti si rimanda a Ibid., pp. 299-303. 66 M. Buber, Io e tu, cit., p. 84.
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fantasma che interiormente lo perseguita si confessano l’un l’altro in un sussurro le loro catene 67.
Non c’è alcuna condanna del mondo dell’esso, né della cultura, della tecnica, della scienza o delle istituzioni: tutte considerate necessarie all’umanità. Il pericolo sta solo là dove questa prospettiva diventa l’unica. L’esempio per eccellenza è quello della vita societaria, sempre meno caratterizzata da volontà comunitarie e da un reale amore fraterno: tali dimensioni sono state infatti sostituite da quelle proprie del mondo dell’esso. La comunità è sempre più assente e il suo spazio è riempito dalle istituzioni, mentre l’amore è sempre più relegato a pochi, a favore di una visione sentimentalistica e niente affatto solidale dei rapporti. Istituzioni e sentimenti non sono affatto inopportuni. Viceversa, sono strutture necessarie per regolare i rapporti comunitari e per dare spazio e continuità all’amore. Tuttavia, se essi prevaricano il luogo della relazione, ecco che si trasformano in «un golem» 68, una creatura priva di forma e di anima. In questo modo, «le istituzioni non producono più alcuna vita pubblica, né i sentimenti alcuna vita personale» 69. Sembra qui essere presente un’eco delle parole di Landauer e della volontà giovanile di osteggiare la dimensione istituzionale a favore di una visione comunitaria, basata sull’autentica possibilità di vivere insieme. La soluzione alla crisi occidentale, dunque, sta nell’affiancare le fredde istituzioni e i manchevoli sentimenti con «la comunità dell’amore, che sorge proprio quando le persone, mosse da un sentimento libero ed esaltante, si avvicinano l’una all’altra» 70; per far questo è strettamente necessario che «tutti siano in reciproca relazione con un centro vivente, e che siano tra loro in una vivente relazione reciproca» 71. Ibid., p. 91. Ibid., p. 89. Il Golem, secondo la tradizione popolare ebraica, è una creatura fatta di argilla che alcuni dipingono come un simpatico e goffo individuo, altri come un mostrò che si ribellò al suo creatore. Alcune leggende ne attribuiscono la creazione alla leggendaria figura di Rabbi Yheuda Loew, capo della comunità ebraica di Praga nel XVI secolo. Nella tradizione biblica, esso compare solo una volta, nel Talmud, ad indicare Abramo nelle prime ore dopo la creazione. In senso metaforico, quello impiegato anche da Buber nel testo, si tratta di un grande essere fatto di materia ma privo di spirito vitale: il Golem aspetta il suo creatore per essere vivificato, così come le istituzioni e i sentimenti aspettano la comunità d’amore per essere autentici. Per approfondire l’argomento, si rimanda a E. Wiesel, The Golem, Mark Podwal and Eliron Associates, New York 1983, trad. it. Il Golem, Giuntina, Firenze 1992. 69 M. Buber, Io e tu, cit., p. 89. 70 Ibid., p. 90. 71 Ibid. 67 68
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L’uomo ha sempre la possibilità di sottrarsi al procedere del mondo dell’esso, perché in ogni momento può decidere di partecipare all’evento della relazione. In questo incontro i due io che si riconoscono come tu sono uno dinnanzi all’altro e sono liberi, poiché non sono segnati da alcuno schema e da alcuna precomprensione. Questo, tuttavia, è possibile solo quando l’io si offre nella sua interezza, senza riserve, mentre il tu che gli sta dinnanzi compie la medesima scelta. Di conseguenza, «se ci fosse il diavolo, non sarebbe colui che decide contro Dio, ma colui che eternamente non sa decidersi» 72. Qui Buber mette a punto un’importante tesi: l’uomo non ha la possibilità di scegliere se fare del bene o del male 73, delle azioni buone o delle azioni malvagie. L’umanità ha dinnanzi a sé un’unica scelta, quella dell’ingresso in relazione. Può decidere di darsi nell’incontro o evitare questo ingresso. Può scegliere la parola io-tu o non scegliere affatto. Dinnanzi a questa duplice possibilità è bene sapere che «solo fintanto che egli possiede quell’atto essenziale nella propria vita, mentre agisce e mentre soffre, fintanto che entra egli stesso nella relazione: per tutto questo tempo è libero e quindi creativo» 74. Quando l’uomo decide di non scegliere, rimane con le mani impiastricciate nella massa del mondo dell’esso che, priva della propria controparte, getta l’umanità nella crisi più oscura. Un’idea di libertà che emerge esclusivamente quando si dice la parola fondamentale io-tu e che, inoltre, viene vissuta all’interno di un quadro di predestinazione: L’uomo libero è colui che esercita la volontà senza arbitrio. Crede nella realtà, vale a dire crede nel legame reale della dualità reale io e tu. Crede che vi sia una destinazione, e crede che questa abbia bisogno di lui: essa non lo conduce, lo aspetta; egli le deve andare incontro 75.
Buber, ancora una volta in maniera originale, sta affermando che ogni uomo ha il suo destino nella parola che viene a lui continuamente rivolta: Ibid., p. 96. La critica alla visione del bene e del male, nella quale si rintraccia l’eco della lezione del chassidismo, è approfondita nel testo M. Buber, Bilder von Gut und Böse, Hegner, Köln 1952, trad. it. Immagini del bene e del male, Gribaudi, Milano 2006. Si veda anche C.L. Coen, Martin Buber, cit., pp. 99-100, dove l’autrice afferma che: «Bene a male non sono una coppia di opposti. Il bene è il movimento nella giusta direzione. “Il male è il vortice senza meta delle potenzialità umane”». 74 M. Buber, Io e tu, cit., p. 97. 75 Ibid., p. 101. 72 73
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la libertà sta nel decidere di rispondere, di scegliere dinnanzi a questa chiamata. Viceversa, se si vive solo nel mondo dell’esso, destino e libertà sono sostituiti da fatalità ed arbitrio. Nulla più chiama l’uomo, egli è coinvolto dall’impersonale forza del fato: in questo vortice si illude di poter prendere decisioni, ma in realtà si sta solo muovendo nella fatalità dell’arbitrio. Nel mondo dell’esso si propende “per questo piuttosto che per questo altro”, senza mai accedere alla vera scelta, che riguarda esclusivamente l’ingresso in relazione. Vivere arbitrariamente significa vivere senza fede, entrando in contatto con gli altri solo per fini utilitaristici. Nel senso comune, si è soliti assegnare alle persone che instaurano questo genere di rapporto il titolo di egoiste; l’autore, invece, afferma che ogni uomo può essere egoista, se la parola fondamentale io-esso cresce in eccesso, ma ognuno può anche essere realmente persona, capace di incontro e relazione. Sta ad ognuno scegliere di non rimanere nell’illibertà dell’arbitrio ma seguire concretamente il proprio destino 76. Per coloro che scelgono di vivere sempre più nel mondo dell’esso, allontanandosi in maniera crescente dalla possibilità della relazione, non rimane che determinarsi come individui. La vita, vissuta senza rispondere alla chiamata del tu che sta dinnanzi, porta l’io ad inabissarsi sempre più nell’irrealtà. È questa una forte la critica all’individualismo, che corrode la società ed impedisce il formarsi delle comunità, che scinde l’io e non permette di incontrare il tu 77. Questo fenomeno societario, per Buber uno dei più drammatici della contemporaneità, ha la sua controparte complementare nel collettivismo, atteggiamento che non prevede comunque il rispristino della relazione, poiché pospone l’accento su una società e non sul tra che la fonda. Una critica parallela viene condotta anche nei confronti dello spiritualismo e del materialismo, ulteriori stendardi della crisi profonda in cui versa l’uomo contemporaneo. Così come la rottura fra io e tu porta la società a posporsi sul singolo, dando luogo all’individualismo, o sul tutto societario, dando luogo al comunitarismo, così il rapporto io-esso divide l’esperienza del mondo in esperienza interna, la cui esaltazione dà origine allo spiritualismo, ed esperienza esterna, portando al materialismo. Tutti i quattro fenomeni sociali sono emblematici di una situazione critica perché originano dalla scissione e dall’incapacità di recuperare l’unità autentica, quella della relazione.
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P. Vermes, Op. cit., p. 97. M. Buber, Io e tu, cit., p. 105.
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5. Relazione con il Tu eterno L’alterità recuperata dall’impianto buberiano permette di rinnovare l’incontro non solo nell’intra-mondano, ma anche con il divino. A Dio, chiamato Tu eterno, Buber dedica l’ultima sezione dell’opera, la Parte terza: Da ultimo si guarda all’io umano unificato e reso reale attraverso la relazione nel mondo e con il mondo, [...] avviato verso la situazione religiosa dell’esistenza nella Presenza, accompagnato da tutte le risposte e le responsabilità richieste da tale impegno 78.
Appurato il ruolo prioritario della relazione e dunque del tra che si svolge fra l’io e il tu, l’uomo si è scoperto pienamente tale solo nell’incontro con l’altro. Il discorso non può che confluire nell’analisi della dimensione religiosa, dato che l’incontro è descritto come il trascendente: «Di primo acchito il tra che garantisce essere e senso che si svolgono, [...] ha esso stesso un carattere divino» 79; parallelamente, le prime due sezioni del testo portano alla conseguente visione del rapporto religioso come completa accettazione di ciò che si svolge nell’incontro 80. Il rapporto con il divino che l’autore descrive porta l’uomo ad essere parimenti libero e dipendente, tanto bisognoso del rapporto quanto necessario al rapporto, poiché la relazione trascende l’io e parallelamente lo ricomprende. Casper rileva la presenza della medesima idea nell’opera giovanile di Buber, nonché nel contesto storico che egli vive 81. La proposta di Ich und Du, tuttavia, è originale poiché in essa il trascendente è ciò che non può essere inventato ma solo trovato e, una volta scoperto, si lascia esperire come bisognoso dell’uomo, unico capace di trovarlo. La relazione è sempre l’evento presente che, una volta trovato, «si sottrae» 82. In questo, il Tu eterno è il centro propulsore che, senza mai aprirsi al mondo dell’esso ma restando sempre un tu, si erge a garante della relazione stessa: P. Vermes, Op. cit., p. 97. B. Casper, Op. cit., p. 312. 80 Ibid., p. 313. 81 Nell’ambito del secolo scorso numerosi sono i tentativi di ripensare l’essere all’interno di una prospettiva ontologica relazionale. Tali proposte non provengono solo dal mondo specificatamente filosofico, ma anche dalle frange teologiche. Per quanto riguarda l’ambito della teologia cattolica, si rimanda a A. Fabris, RelAzione, una filosofia performativa, Morcelliana, Brescia 2016. Per approfondire il tema a cavallo fra il mondo cristiano ed ebraico, si veda M.B. Curi, Pensare all’unità. Franz Rosenzweig e Klaus Hemmerle, Città Nuova, Roma 2017. 82 B. Casper, Op. cit., p. 316. 78 79
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Le linee delle relazioni, nei loro prolungamenti, si intersecano nel Tu eterno. Ogni singolo tu è una breccia aperta sul Tu eterno. Per mezzo di ogni singolo tu la parola fondamentale interpella il Tu eterno. [...] Il tu innato si realizza in ognuno e in nessuno trova compimento. Trova esclusivamente compimento solo nella relazione immediata con quel Tu, che per essenza non può diventare esso 83.
L’utilizzo del termine “Tu eterno” al posto della parola “Dio” non dipende tanto dal rifiuto buberiano nei confronti della religione tradizionale, quanto piuttosto dalla volontà di parlare la lingua della filosofia dialogica. In questo senso, Tu è l’unica parola per dire Dio, poiché è il solo modo di rendere ragione al suo essere primariamente relazione. L’autore sottolinea con precisione come gli uomini chiamino il Tu eterno con molti nomi, sempre indicando il polo dialogico al quale non può dirsi altro se non «il vero tu» 84 della propria vita. Dio offre la possibilità di entrare in una relazione che è insieme esclusiva ed inclusiva, l’incontro perfetto che nulla trascura e tutto abbraccia, che permette di riconoscere assieme il Tu eterno e il mondo, in lui compreso 85. Nel leggere queste righe va quindi tenuto a mente che Buber, nel 1923, rifiuta profondamente l’ascesi dal mondo al fine di incontrare Dio, così come il rifiuto dell’annullamento dell’io in Dio. Questo permette di cogliere una duplice sfumatura dell’affermazione buberiana per cui nulla è vicino a Dio, ma anche tutto è in lui 86. Anzitutto, egli sta ancora una volta parlando di una relazione in cui i poli dell’incontro, dunque i due io che si dicono tu, non si scoprono mai coincidenti ma si esperiscono come alterità: questo è vero anche nella relazione con il Tu eterno, che ha i medesimi caratteri della parola fondamentale io-tu quando viene detta sulla terra; così come l’io non si annulla nel tu, non lo fa nemmeno nel Tu eterno, presente nell’incontro come alterità al punto da poter affermare che «Dio è persona» 87. In secondo luogo, poiché l’incontro con il Tu eterno è un incontro dialogico, non ha bisogno di prescindere dal mondo per sussistere: accanto alla trascendenza del tra, se ne trova la permanenza nel mondo. «Non si trova Dio restando nel mondo, e non si trova Dio allontanandosene. Chi, con l’intero essere, va verso il Tu e gli porta ogni essere del mondo, trova colui che non si può cercare» 88. Il Tu eterno non può essere cercato M. Buber, Io e tu, cit., p. 111. Ibid., p. 112. 85 Ibid., p. 115. 86 Ibid. 87 B. Casper, Op. cit., p. 321. 88 M. Buber, Io e tu, cit., p. 115. 83 84
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poiché non c’è nulla, in termini concreti, intra-mondani e sensoriali, in cui lo si possa trovare: senza cercarlo lo si scopre, riconoscendolo come ciò che è più originario. Il senso del tu, non pago fino al raggiungimento di tale eternità, può ora sentire di averlo avuto accanto a sé fin dall’inizio 89. Il Tu eterno è, in sé, totalmente dialogico, totalmente libero, al punto che l’uomo non può parlargli, ma può solo invocarlo 90. Buber porta a paragone la sua prospettiva citando l’espressione con cui Friedrich Schleiermacher (1768-1834), filosofo dell’area tedesca, indica il rapporto tra finito e infinito, cioè il sentimento di dipendenza. La critica sta nella ripresa di quanto già affermato nelle sezioni precedenti: se si posa lo sguardo esclusivamente sui sentimenti, non è possibile accedere alla relazione perfetta. Il sentimento può accompagnare l’amore, ma non è esso stesso l’amore, poiché i sentimenti riguardano l’individuo, mentre l’amore si colloca nel tra che accade fra io e tu: Dio è libero e dipendente allo stesso tempo, poiché assume su di sé la coincidentia oppositorum tipica del dialogo: Sai sempre nel tuo cuore che hai bisogno di Dio, più che di ogni altra cosa; ma non sai anche che Dio ha bisogno di te, proprio di te, nella pienezza della sua eternità? Come ci sarebbe l’uomo, se Dio non ne avesse bisogno, come ci saresti tu? 91.
Il Tu eterno non può essere compreso né come totalmente separato e immutabile, ma nemmeno coinvolto entro la storia: né essere immobile, né puro divenire. La concezione corretta «parla di una libera e gratuita scelta divina di coinvolgersi nel destino del mondo, rispetto al quale egli è e resta trascendente» 92. Dio può ricomprendere l’Universo pur senza esserlo e nel farlo permette all’uomo di esservi dentro in autenticità, permette il dialogo 93. Buber, pur rintracciando nella relazione con Dio i caratteri di ciascun incontro, vede solo nella relazione con Dio la copresenza di inclusività ed esclusività: solo Dio, così, può ricomprendere l’Universo. Ogni relazione interumana o, ancor meglio, intra-mondana, si basa infatti sull’individuazione. Questo le dà la garanzia del riconoscimento dei diversi, ma segna anche il suo limite, poiché porta al fallimento della completa conoscenza. Ibid., p. 117. B. Casper, Op. cit., p. 321. 91 M. Buber, Io e tu, cit., p. 117. 92 Ibid., p. 118. 93 Ibid., p. 128. 89 90
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Il tu infatti è affiancato dall’esso. Ogni incontro e ogni relazione accade nel presente per poi ricadere ancora nel mondo dell’oggettivizzazione. Dio, invece, non può essere detto secondo la parola fondamentale io-esso. Egli è «pura relazione» 94, non coglibile esclusivamente nella dimensione dell’interumano. Infatti le tre sfere della relazione, cioè la vita con la natura, la vita con gli uomini e la vita con le essenze spirituali, hanno tutte a che fare con il Tu eterno: In ogni atto di relazione attraverso ogni cosa che si fa presente lanciamo uno sguardo al margine del Tu eterno, in ognuna ve ne cogliamo il soffio 95.
Ogni sfera è irraggiata da quell’unica presenza, centro di ogni relazione, che è Dio. Così come in ogni ambito della vita è possibile cogliere il sussurro dell’eternità, è altresì possibile sottrarlo, estrapolando dalla vita con la natura una visione fisica del mondo, dalla vita con gli uomini una prospettiva psicologizzante e dalla vita con le essenze spirituali il mondo noetico della validità. Con queste parole si sottolinea il rischio di esautorare ogni ambito della sua valenza dialogica, a favore di una visione meramente strumentale e propria del mondo dell’esso: è la crisi da cui ha messo in guardia già nella Parte seconda e che qui viene nuovamente chiarificata dinnanzi alla relazione con il Tu eterno. In particolar modo nella sfera della vita con gli uomini, dove la relazione si manifesta attraverso il linguaggio, la relazione con Dio permette che la parola si riveli come dimensione fondante e fondamentale: La relazione con l’uomo è la parabola autentica della relazione con Dio: in essa il vero appello riceve vera risposta. Solo che, nella risposta di Dio, ogni cosa, l’universo intero si rivela come linguaggio 96.
La prima considerazione che emerge è la seguente: la relazione con Dio ha i medesimi caratteri della relazione con gli uomini, è cioè un incontro 94 Ibid., p. 131. Nella visione dialogica del Tu Eterno, vi è la permanenza di un’eco tipicamente ebraica; come scrive Sergio Quinzio: «Dio non è un Esso, un Ciò, ma un Tu. Il dialogo è fra Dio che si rivela e si nasconde e l’uomo che lo cerca: un dialogo molto ebraico, perché ebraicamente si parla con Dio, piuttosto che di Dio», in S. Quinzio, Buber e la tradizione del chassidismo, Biblioteca Pro Civitate Christiana, Assisi 1989, in AA. VV, La filosofia del dialogo da Buber a Lévinas, cit., p. 259. 95 M. Buber, Io e tu, cit., p. 133. 96 Ibid., p. 134.
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di tipo dialogico, che emerge nel linguaggio. Tuttavia, solo nella relazione dell’io con il Tu eterno la dimensione dialogica si rivela valida per l’Universo intero, dando fondazione a ciascuna altra sfera in cui l’evento del dialogo accade: «il sacro non può essere pensato altrimenti che come realtà in cui entra tutta la mondanità, dal momento che il sacro, secondo la sua essenza, non può avere assolutamente nulla al di fuori di sé» 97. Da questo può derivare la seconda considerazione, per cui nel Tu eterno vi è un’unificazione dell’Universo: Buber, in questo, sembra richiamarsi di nuovo al chassidismo, ma introducendo un’innovativa inversione. Il chassidismo raggiunge l’unità a partire da Dio, in Ich und Du Dio si raggiunge dalle relazioni tra uomini: Per entrare in una perfetta relazione e restarvici, una persona deve essere diventata una e integra attraverso un’altra relazione con un Tu. Deve diventare un essere umano unificato in cui non si agita più nulla di isolato, nulla di parziale 98.
Sia in questa opera che in alcuni testi successivi, viene analizzato il tema della solitudine: offrendo infatti al lettore una prospettiva che si fonda primariamente sull’incontro, ad una prima analisi potrebbe sembrare critico di tutte quelle prospettive che ammettono l’incontro con Dio nel silenzio dell’isolamento. L’autore precisa che «ci sono due tipi di solitudine» 99: la solitudine che consta del liberarsi dai rapporti utilitaristici, purificando l’io e facendo spazio al tu, è da considerarsi non solo positiva, ma anche necessaria; è l’isolamento che permette di fare silenzio e di lasciare che la parola parli 100. Viceversa, se per solitudine si intende l’assenza di relazione, il rinchiudersi in una fortezza isolata in cui l’altro non può entrare, essa è distruttiva: «Solo colui che è solidale, lui, soltanto lui, è pronto per Dio. Perché solo lui fa incontrare la realtà di Dio con
B. Casper, Op. cit., p. 325. P. Vermes, Op. cit., p. 98. 99 M. Buber, Io e tu, cit., p. 134. 100 Scrive Fabiola Falappa che: «Vi è allora una comunicazione, nel silenzio dell’anima, che chiede di poter essere liberata dal linguaggio comune, come se da esso rischiasse di non essere percepita», in questo senso «riconoscere inoltre il silenzio e la solitudine come esperienze che, trascendendo il vivere caotico, spingono a ritornare in sé stessi, non significa ripiegarsi nell’isolamento solipsista dell’anima, ma al contrario giungere alla soglia di quel cammino che permette di riconoscere la verità stessa ed il senso del camminare umano», in F. Falappa, La verità dell’anima, interiorità e relazione in Martin Buber e Maria Zambrano, Cittadella, Assisi 2008, pp. 80-81. 97 98
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una realtà umana» 101. Entro questa prospettiva è possibile leggere sotto nuova luce l’idea della rivelazione, come qualcosa che accade all’uomo grazie all’incontro con Dio: Che cos’è l’eterno fenomeno originario, presente qui ed ora, che chiamiamo rivelazione? È il fatto che l’uomo che esce dal momento dell’incontro più alto non è lo stesso che vi era entrato. Il momento dell’incontro non è “un’esperienza vissuta” che si agita nell’anima che l’accoglie e beatamente si placa: qui all’uomo accade qualcosa. A volte come un soffio, a volte come una lotta, è lo stesso: accade. L’uomo che proviene dall’atto essenziale della relazione pura ha nel suo essere un di più, qualcosa di cui non sapeva nulla e la cui origine non riesce a descrivere correttamente 102.
L’incontro con il Tu eterno, nel suo accadere, lascia un segno. Questo non può essere sperimentato, né raccontato, colto, analizzato, misurato: non può cioè essere detto se non con la parola io-tu. Da ciò deriva la rischiosa tendenza a voler trasformare in esso ciò che è sempre e solo Tu. Perché l’intima rivelazione che accade nell’attimo presente possa essere trattenuta e resa stabile nel tempo e nello spazio, l’uomo «trasforma Dio in un oggetto di fede. Preferisce la durata di un Esso creduto e la sicurezza offerta da questo ultimo, a causa della sua fede, all’insicurezza della relazione con il Tu» 103. Recuperando la duplicità di religione e religiosità, in Ich und Du la seconda viene intesa come l’unica possibilità di non stigmatizzare il Tu eterno entro gli errati canoni del mondo dell’esso, errore in cui, inevitabilmente, la religione ricade. Il carattere che, primo fra tutti, differenzia il puro rapporto religioso dalle grandi religioni istituzionalizzate è l’isolamento 104: anziché mostrarsi come realtà dell’incontro, la religione si mostra autonoma, scissa dalle sfere della vita vissuta. Inoltre Dio diventa oggetto, esplicitato in una molteplicità di forme rituali e culturali che non conducono ad una relazione con il Tu eterno, bensì mostrano sé stesse come autosufficienti a vivere la dimensione spirituale 105. Buber, in queste righe, mostra il suo sentirsi chiamato, all’epoca dell’eclissi di Dio «a mostrare la pura immediatezza del suo Regno» 106. La crisi dell’uomo moderno si M. Buber, Io e tu, cit., p. 134. Ibid., p. 139. 103 P. Vermes, Op. cit., p. 108. 104 B. Casper, Op. cit., p. 339. 105 Ibid., p. 340. 106 Ibid., p. 341. 101 102
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affaccia anche e soprattutto sulla sua capacità di accedere al trascendente e allo spirituale: incapace di superare il solipsismo che lo allontana dalla relazione con Dio, con gli uomini, con il mondo e impossibilitato a risolvere la scissione tra interno ed esterno, l’uomo ha bisogno di recuperare la relazione, il dialogo immediato che può sussistere fra l’io e il tu. Per farlo deve avere il coraggio di rimuovere la massa cancerosa del mondo dell’esso che lo allontana sempre più dall’incontro. La critica alla religione non è quindi un tentativo di distruggere i sistemi culturali tradizionali, viceversa essa ha un significato parenetico 107, vuole cioè esortare l’uomo a recuperare ciò che può renderlo autenticamente uomo 108. La conclusione di Ich und Du lascia emergere, come fiore tardivo, un’ultima proposta: la relazione con il tuo eterno: È la via. In ogni nuovo eone la fatalità diventa più pensante e la conversione più esplosiva. E la teofania sempre più vicina, sempre più si avvicina alla sfera che è tra gli esseri, si avvicina al regno che si nasconde in mezzo a noi, nel tra noi. La storia è un approssimarsi pieno di mistero. Ogni spirale del suo cammino ci conduce al tempo stesso a una più profonda perdizione e a una più fondamentale conversione. Quell’evento, che da parte del mondo ha nome conversione e da parte di Dio ha nome salvezza 109. Così come il progredire del mondo dell’esso offusca sempre più la possibilità dell’incontro, il procedere degli eventi di relazione avvicinano sempre più alla teofania. Incontro dopo incontro, rivelazione dopo rivelazione, si è sempre più prossimi alla teshuva 110, poiché ciò che si Ibid., p. 345. Si veda anche D.J. Moore, Martin Buber. Prophet of religious secularism. The criticism of institutional Religion in the Writings of Martin Buber, The Jewish Pubblication Society of America, Philadelphia 1974. 108 L’autenticità dell’umano esperibile nella dimensione religiosa, come incontro dell’Io dell’uomo con il Tu eterno di Dio, sembra richiamare il concetto di Wechselwirkung simmeliana. La proposta, formulata da Tumminelli in A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., p. 77, vede nelle parole di Buber un richiamo alla dimensione che Simmel delinea in Sociologia: qui viene descritta una realtà segnata dalle relazioni di reciprocità che ne costituiscono l’essenza più profonda; l’unica unità scopribile sarebbe, in questo senso, caratterizzata dalla polarità che sussiste fra l’Io e il Tu. La reciprocità simmeliana è ben analizzata in A. De Simone, L’io reciproco. Lo sguardo di Simmel, Mimesis, Milano 2016. Per approfondire la prospettiva simmeliana si rimanda a G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellechaftung, Verlag von Duncker und Humboldt, Berlin 1918. 109 M. Buber, Io e tu, cit., p. 146. 110 La teshuva, nella cultura ebraica, è il pentimento, cioè il modo di espiare i peccati per raggiungere la redenzione collettiva o individuale. 107
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chiede nel dialogo tra Dio e uomo è, di fondo, la salvezza. Il rapporto religioso diventa il cammino che può essere tracciato solo continuando a camminarvi sopra: Facendo il cammino, il cammino sorge, di istante in istante, di decisione in decisione, cadendo e convertendosi, sempre di nuovo in ogni nuovo evento dell’incontro 111.
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B. Casper, Op. cit., p. 334.
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VII.
La maturità “Solo colui che intende l’altro uomo come tale e a lui si rivolge, riceve in lui il mondo” (Martin Buber, Dialogo)
All’indomani di Ich und Du la produzione di Buber non cessa mai di essere oltremodo fertile, comprendendo numerose pubblicazioni sia durante gli ultimi anni di permanenza nell’area tedesca, sia all’indomani del trasferimento in Palestina, nel 1938. L’autore stesso attesta l’importanza di questi scritti in relazione alla filosofia dialogica. 1. Lo sviluppo del pensiero dialogico Negli anni successivi alla pubblicazione di Ich und Du, Buber continua ad approfondire la tematica filosofica attraverso due testi. Il primo, edito nel 1926, viene intitolato Sull’educativo 1. Il secondo, pubblicato nel 1930, è Dialogo 2. Parallelamente, non viene meno l’impegno pubblico e politico: a tal fine, nel 1926, collabora con alcuni scrittori cristiani alla rivista Die Kreatur. Nel 1933, tuttavia, l’avvento al potere del nazionalsocialismo lo costringe ad abbandonare la cattedra universitaria. Soli due anni dopo, si troverà impossibilitato anche ai discorsi pubblici durante le manifestazioni ebraiche 3. L’autore valuta fin da subito l’ipotesi di migrare in Palestina, pur 1 M. Buber, Rede über das Erzieherische, Lambert Schneider, Heidelberg, 1926, trad. it. Sull’educativo, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., pp. 161-182. 2 Id., Dialogo, cit., pp. 185-225. 3 Durante i primi sei anni della dittatura di Hitler gli ebrei subiscono gli effetti di più di 400 regolamenti atti a limitare ogni aspetto della loro vita. La prima serie di leggi, emanata tra il 1933 e il 1934, punta soprattutto a limitare la partecipazione alla vita pubblica. Inoltre, nell’aprile del 1933, la legge tedesca limita il numero degli ebrei ammessi a partecipare alle scuole e alle università. Subito dopo vengono allontanati molti medici e avvocati di origine ebraica da i loro luoghi di lavoro. Accanto a decreti ancora più stringenti che iniziano ad
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conscio delle difficoltà in cui sarebbe incappato, in quanto consapevolmente «incapace di “ebraicizzare” sé stesso» 4, atteggiamento necessario per l’integrazione nel territorio palestinese. Il trasferimento viene inizialmente supportato da Gershom Scholem, il quale gli offre la cattedra dell’Università Ebraica di Gerusalemme. La proposta suscita tuttavia poco entusiasmo, tanto che viene rifiutata per occuparsi di alcune iniziative a sfondo sociale in Germania. Preoccupato per la situazione degli ebrei tedeschi, si offre come responsabile del Reichsvertretung der deutschen Juden 5, un programma volto a tutelarli. Inoltre, fonda un ufficio per la formazione degli adulti, dal nome Mittestelle für judische Erwachsenenbildung 6, del quale diventa direttore. Il Buber del 1935 ha mantenuto vivo lo spirito del giovane ragazzo che gravitava tra le fila del movimento sionista, affermando l’importanza della cultura per costruire l’identità ebraica. Ancora in questo momento egli si spende a favore della formazione e dell’apprendimento, viaggiando da un capo all’altro della Germania fino a che il regime non gli impedisce del tutto l’insegnamento. Anche in questo caso non c’è resa: nel 1939 pubblica un testo dal titolo La domanda rivolta al singolo 7. Tuttavia, la situazione si aggrava al punto da spingere Buber e la moglie Paula a compiere il grande viaggio: i due partono nel marzo del 1938 alla volta della Palestina, con l’intenzione di tornare ben presto in Germania. La violenza
essere emanati a livello locale, all’inizio del 1934 viene lesa anche l’attività teatrale, impedendo agli attori ebrei di esibirsi. Nel 1935, con la proclamazione delle Leggi di Norimberga, gli ebrei si vedono tolta la cittadinanza del Reich e la possibilità di sposarsi con persone “di sangue tedesco”: è noto come, con il termine “ebreo”, le leggi di Norimberga non identificano persone di uno specifico credo religioso, ma chiunque avesse almeno tre nonni di origine ebraica. La promulgazione delle Leggi inasprisce di molto l’antisemitismo, al punto da confluire inevitabilmente in atti di segregazione fisica a danno degli ebrei. Privati sempre più anche delle ricchezze materiali, diventano oggetto di odio e di violenza fisica, come dimostra il pogrom della Kristallnacht del 1938. Resi identificabili, dunque diversificati dalla società “ariana” per mezzo di nuovi nomi, nuovi passaporti e altri mezzi di riconoscimento, divengono infine l’oggetto della persecuzione che passa alla storia come Shoah. 4 P. Vermes, Op. cit., p. 121. 5 Ibid., p. 123. 6 Qualche tempo dopo, a causa del trasferimento della famiglia Buber in Palestina, la direzione del Mittestelle viene affidata a Ernst Kantorowicz, prima professore di un istituto per insegnanti di Francoforte. Ebreo assimilato, scrive a Buber poco tempo dopo la sua partenza per informarlo che il regime aveva sospeso i suoi seminari. Tenta di spostarsi in Olanda ma viene arrestato, assieme alla moglie, nel 1940; muore ad Auschwitz poco tempo più tardi. 7 M. Buber, Die Frage ad den Einzelnen, Schocken, Berlin 1936, trad. it., La domanda rivolta al singolo, in Il principio dialogico e altri saggi, cit.
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della Kristallnacht 8 li porta tuttavia a scegliere di rimanere a Gerusalemme, dove vivranno gli ultimi anni della loro vita. 2. 1926: Sull’educativo L’importanza attribuita alla pedagogia, attestata dall’attenzione per l’insegnamento che Buber sempre mostra, viene esplicitata nella produzione di un saggio, pubblicato da Lambert Schneider di Heidelberg nel 1926 ed intitolato Sull’educativo. Le pagine riproducono a loro volta il testo dell’intervento proposto in occasione della Terza Conferenza Internazionale di pedagogia del 1925. Inserito nel 1947 nella prima raccolta di scritti dialogici, cinque anni dopo viene incluso in un differente testo, volto ad unificare gli scritti dedicati alla pedagogia e pubblicato sempre da Lambert Schneider di Heidelberg nel 1953 con il titolo Reden über Erziehung. Il pensiero dell’autore ha evidenti valenze pedagogiche al punto che le parole proposte in questo saggio, nonché negli altri scritti pedagogici, riecheggiano alla base di molte teorie educative moderne 9. Tuttavia, questo testo contiene delle suggestioni specificatamente filosofiche: analizza infatti la relazione dialogica entro il peculiare rapporto che si instaura tra l’educatore e il suo educando. Sin dalle prime righe egli critica l’oggetto di discussione del convengo, cioè il «dispiegarsi delle forze creatrici del bambino» 10. Questa concezione, nella sua formulazione primaria, attribuisce al bambino le capacità proprie di un creatore. Buber, che riconosce questo attributo esclusivamente a Dio, mette in guardia dal pericolo di confinare anche l’educando entro questa posizione. L’uomo, se visto come creatore, viene privato dei suoi legami:
Con il termine “notte dei cristalli” [Kristallnacht] viene indicato il pogrom condotto da ufficiali del Partito Nazista e altri sostenitori delle politiche hitleriane, su istigazione di Joseph Goebbels, nella notte tra il 9 e 10 novembre 1938 in Germania, Austria e Cecoslovacchia. Quasi quattromila, tra case e sinagoghe, vennero bruciate o distrutte; i cimiteri e ogni luogo che simboleggiasse la cultura ebraica venne intaccato in maniera violenta. 9 Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Giuseppe Milan, Educare all’incontro. La pedagogia di Martin Buber, Città Nuova, Roma 2002, B. Dejung, Dialogische Erziehung Martin Buber Rede über das Erzieherische. Eine Interpretation, Juris Druck Verlag, Zürich 1971 e B. Gerner, Martin Buber Pädagogische Interpretationen zu seinem Werk, Ehrenwirth Verlag, München 1974. 10 M. Buber, Sull’educativo, cit., p. 162. 8
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Solo quando qualcuno lo prenderà per mano, non come un creatore ma come una delle creature sperdute nel mondo, per essergli compagno, amico, amante [...] diverrà consapevole e partecipe alla realtà, [...] quindi un’educazione fondata solo sulla formazione dell’istinto della creatività preparerebbe una nuova, dolorosissima solitudine dell’uomo 11.
A questa prospettiva viene contrapposta quella dialogica, capace di comprendere perfettamente anche la dimensione pedagogica: il bambino è una delle tante realtà umane, caratterizzate dall’essere luogo di eventi relazionali. Pertanto, l’educatore non ha scelta se non quella di porsi dinnanzi al proprio discepolo secondo i canoni del rapporto dialogico, ricomprendendolo 12 come un tu. Il termine ricomprensione diventa, in queste pagine, particolarmente significativo: il rapporto dialogico tra l’io dell’educatore e il tu dell’educando non può infatti essere alla pari. È necessario che l’educatore si ponga al di sopra dell’educando, non certo per sovrastarlo ma per abbracciarlo, per ricomprenderlo appunto. È il ruolo che Dio ha nei confronti degli uomini e che, nel suo piccolo, ogni maestro è chiamato a svolgere nei confronti dei discipuli 13. La limitatezza normativa della mutualità entro il rapporto dialogico, qui espressa nei confronti della relazione tra educatore ed educando, viene recuperata nel 1957, nella Postfazione ad Ich und Du. Rispondendo ad alcune domande sulla reciprocità del rapporto io-tu, Buber afferma come il dialogo avvenga in maniera paritaria nei rapporti di amicizia ma che, in taluni casi, preveda necessariamente una ricomprensione asimmetrica. Si tratta non solo del rapporto tra educatore ed educando, ma anche di quello fra uno psicoterapeuta 14 e il suo paziente e, ancora, della relazione tra un pastore di anime e il popolo che gli è stato affidato. In ognuno di questi casi il rapporto chiede di essere contemporaneamente dialogico e asimmetrico, per poter essere vissuto in piena autenticità 15. Grazie all’ingresso nella relazione dialogica, ogni educatore può raccogliere le forze costruttive degli educandi che ha dinnanzi e condurli Ibid., p. 166. Ibid., p. 176. 13 C.L. Coen, Martin Buber, cit., pp. 79-80. Clara Levi Coen rilegge la questione della ricomprensione attraverso le categorie della presenza del maestro nei confronti dell’allievo e della confidenza che l’educazione dialogica permette di instaurare. 14 Buber studia psicoterapia per tre semestri durante gli anni universitari. Per approfondire la prospettiva da lui maturata sulla disciplina, è possibile leggere la trascrizione di un dialogo fra il nostro autore e Carl Rogers, riportata in AA.VV., Carl Rogers Dialogues, Houghton Mifflin, Boston 1989, trad. it. Dialoghi di Carl Rogers, La Meridiana, Bari 2008. 15 M. Buber, Postfazione, cit., pp. 153-155. 11 12
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verso l’unica direzione possibile, verso la via primariamente indicata dal rapporto dialogico, cioè quella che conduce a Dio: Quando tutte le direzioni falliscono, si erge nelle tenebre, sull’abisso, l’unica vera direzione dell’uomo, verso lo spirito della creazione, verso il soffio di Dio che stende le ali sulla superficie delle acque: verso Colui di cui non sappiamo di dove viene e dove va. Questa è la vera autonomia dell’uomo, il frutto della libertà, di una libertà che non è più tradimento, ma responsabilità. L’uomo, creatura che forma e trasforma il creato, non può creare. Ma egli può aprirsi e aprire gli altri all’elemento della creazione. E può invocare il creatore, affinché salvi e compia la propria immagine 16.
Il valore filosofico del testo è corroborato dalle bellissime pagine dedicate alla libertà, in cui viene ripreso un tema già esplicitato nella Parte seconda di Ich und Du. La libertà è la possibilità di prendere la decisione, quella che permette l’ingresso nell’autentica relazione. All’interno della prospettiva che permette agli uomini di costruire legami, la libertà va a fondarne il punto zero, la «lancetta vibrante» 17 che conferma l’originaria potenza dell’uomo. Essa diventa così fonte originaria della prospettiva pedagogica: come il dialogo chiede la libertà della decisione, così l’educazione deve prevedere la libera scelta dell’ingresso in relazione. In Io e Tu la fatalità viene relegata al mondo dell’esso e posta accanto all’arbitrarietà che, nel testo, indica la dimensione illusoria della scelta: entro la parola fondamentale io-esso si può apparentemente decidere ma, in realtà, si sta scegliendo qualcosa che non è autentico. L’unica vera opzione è quella che riguarda l’ingresso in relazione, dunque la dimensione dialogica. Alla coppia necessità-arbitrarietà viene opposta la libertà ed il destino. È facile comprendere come l’autore releghi alla sfera relazionale la libertà dell’uomo, più complesso potrebbe essere cogliere la non contraddittorietà che egli vede tra quest’ultima e il destino. La libertà buberiana non ha nulla a che fare con la casualità poiché è legata all’autentica scelta della relazione, compiendo la quale l’uomo va incontro al suo destino, quello che lo vede capace di vivere in dialogo con l’altro 18. Questa dinamica, già precedentemente esplicitata, trova nuova linfa all’interno del saggio Sull’educativo. La libertà viene qui trasposta dalla mera dinamica io-tu, intesa come relazione fra un io e un tu, all’interId., Sull’educativo, cit., p. 182. Ibid., p. 170. 18 Id., Io e Tu, cit., pp. 96-102. 16 17
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no di una prospettiva sociale. In questo senso Buber afferma che «l’opposto della costrizione non è la libertà ma la solidarietà [Verbundenheit]» 19. All’altro capo della costrizione necessitante vi è l’autentico stare insieme, il contesto della relazione all’interno del quale l’uomo può seguire il suo destino, scegliendo autenticamente di pronunciare la parola io-tu. Un appello agli uomini che vivono nel mondo dell’esso che ricercano nell’isolamento una libertà che mai, costitutivamente, potranno trovare. 3. 1930: Dialogo Il testo, pubblicato per la prima volta come articolo della rivista Die Kreatur, viene dato alla stampa presso l’editore Schocken di Berlino nel 1932. Esso rappresenta un’integrazione ed un approfondimento rispetto quanto affermato nel 1923: senza allontanarsi dai temi fondamentali già espressi in Io e Tu, Buber ne offre un’esemplificazione fenomenologica volta a chiarire le caratteristiche dell’autentico dialogo. In linea con questo obiettivo, egli apre la narrazione raccontando il contenuto di un sogno ricorrente, in cui: Appena la risposta è al termine, nell’attimo successivo all’onda che si è spenta, mi invade una certezza, un’autentica certezza onirica: ora è accaduto. Niente di più. Solo questo, proprio in questo modo: ora è accaduto 20.
In queste parole è esplicitato l’atteggiamento manifesto nel rapporto dialogico, per cui «nell’incontro [...] la realtà si svolge come pura attualità, che nulla può sminuire» 21. Nella prima parte dell’opera, intitolata Descrizione, vengono raffigurati tre diversi atteggiamenti che un uomo, ponendo i suoi occhi sul mondo, può adottare. In primis si può riconoscere colui che osserva 22, impegnato ad annotare i tratti e la fisionomia di ciò che gli si trova dinnanzi. Accanto a colui che osserva, è possibile descrivere anche colui che contempla 23: egli attende liberamente che l’oggetto guardato si offra a lui. Sebbene la contemplazione si mostri come Id., Sull’educativo, cit., p. 170. Id., Dialogo, cit., p. 186. 21 B. Casper, Op. cit., p. 292. 22 M. Buber, Dialogo, cit., p. 193. 23 Ibid. 19 20
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maggiormente aperta rispetto all’osservazione, entrambi gli atteggiamenti sono accumunati dalla comprensione dell’altro alla stregua di un oggetto separato dall’osservatore. Per questo, sia colui che osserva che colui che contempla ledono la possibilità dell’ingresso in relazione. L’autore sta qui esemplificando l’atteggiamento tipico del rapporto io-esso, sottolineando ancora una volta come, pur nel suo essere necessario all’uomo, leda ciò che è veramente fondamentale, cioè la possibilità di entrare in relazione. Proprio per questo la parentesi giunge a descrivere la modalità tramite cui ogni uomo può guardare all’altro come ad un tu, sperimentando l’accesso nella dimensione dialogica: Succede in modo del tutto diverso quando, in un’ora recettiva della mia vita personale, incontro un uomo in cui un qualcosa, che non posso affatto comprendere in modo oggettivo, mi “dice qualcosa”. [...] Mi comunica qualcosa che riguarda la mia stessa vita 24.
È questo l’atteggiamento tipico di colui che intuisce, cioè colui che è capace dell’ingresso in relazione, la quale può avvenire, come già sottolineato in Ich und Du, non solo con gli uomini ma anche con le altre sfere della vita. La dimensione dialogica è propria anche della relazione con Dio. Ancor più, essa ha bisogno sia di Dio che degli uomini, poiché non è possibile entrare in vivo dialogo con l’altro se l’Altro, con la A maiuscola, non viene interpellato. Parallelamente, la relazione con Dio ha bisogno che il tu venga detto in primis al resto del mondo: La parola di colui che vuole parlare con gli uomini senza parlare con Dio non trova compimento; ma la parola di colui che vuole parlare con Dio senza parlare con gli uomini si smarrisce 25.
Nel recuperare la prospettiva teologica, Buber fonda in parallelo la dimensione etica. La stessa responsabilità, infatti, non può essere letta se non in linea con la dimensione dialogica: c’è autentica responsabilità solo dove ci sono autentiche risposte. L’etica buberiana, chiaramente imperniata sulla presenza dell’altro, prevede anche il percorso opposto, capace di condurre in seno alla dimensione morale: come la responsabilità prevede il dialogo, così la risposta non è possibile senza assumersi la responsabilità dell’altro. 24 25
Ibid., p. 194. Ibid., p. 200.
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Un circolo virtuoso che rende ognuno responsabile del suo prossimo. Nella seconda parte del lavoro, dal titolo Limitazione, Buber mette in guardia dai tipi di dialogo che ne intaccano l’autenticità: solo nel dialogo autentico, infatti, ci si rivolge all’altro «con l’intenzione di far nascere [...] una vivente reciprocità» 26. Nel dialogo tecnico, tipico della modernità, può sembrare di star parlando con l’altro, mentre invece si parla sempre e solo dell’altro, intendendolo come un oggetto. Nel dialogo monologico, parimenti, gli uomini credono di star parlando con coloro che hanno dinnanzi, ma non scelgono di entrare nella vera e autentica relazione, rendendo tale dialogo del tutto solitario. La vera vita dialogica, viceversa, non è quella in cui si vive circondati da uomini ma quella in cui «si ha davvero a che fare con gli uomini con cui si ha a che fare» 27. Un’opposizione che non va scambiata con quella fra altruismo ed egoismo, poiché si può benissimo dedicare la vita alle attività sociali senza entrare in dialogo con gli uomini. Anche all’amore si deve guardare con cautela. Esso ha bisogno del dialogo ma non tutte le forme di immediato dialogo autentico sono caratterizzate da amore. Il testo si conclude citando Ludwig Feuerbach (1804-1872), teologo e filosofo tedesco, nel cui pensiero Buber trova alcuni prodromi della filosofia dialogica. Nelle suggestioni offerte dall’autore, Buber trova conferma all’idea che il vero dialogo, per non scadere nel monologico, debba prevedere l’ingresso in relazione. Già nello stadio originale del pensare, infatti, l’azione interiore desidera accadere in riferimento ad un autentico tu, non semplicemente ad un tu interiore. La società moderna rischia di decadere verso l’abisso comune proprio perché in essa viene meno l’attenzione all’autentica relazionalità dialogica, a favore di una sempre maggiore spinta al monologo, alla semplificazione e all’oggettivizzazione: Senza tu, ma anche senza io, marciano in lega gli uomini, da sinistra, quelli che vogliono abolire la memoria, da destra, quelli che vogliono regolarla: schiere nemiche e separate, verso l’abisso comune 28.
La terza parte del testo, indicata con il termine Conferma, offre brevi indicazioni su come potrebbero venir letti i contenuti offerti nell’opera. Se a leggere fosse infatti un «amicus» 29, le parole del testo potrebbero non Ibid., p. 205. Ibid., p. 206. 28 Ibid., p. 219. 29 Ibid., p. 220. 26 27
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solo essere prese sul serio, ma anche accolte in maniera positiva. Viceversa, se a leggere fosse un «hostis» 30, questo potrebbe recepirle negativamente, pur comprendendole seriamente nel loro valore. In tal senso, è offerta un’ulteriore indicazione proprio a colui che si porrà in maniera scettica nei confronti del pensiero dialogico: Una cosa prima di tutto, caro avversario: [...] la prego di notare che io non esigo. [...] E come si potrebbe esigere, soprattutto il dialogo! Il dialogo non si impone a nessuno. La risposta non è dovuta; ma rispondere si può 31.
Il dialogo non è accessibile solo a pochi, il dialogo è per tutti e ognuno ha dinnanzi a sé la libera scelta. Di conseguenza, il compito di restaurare l’incontro è un compito comune ed essenziale: la crisi dell’uomo moderno attende l’apertura del varco che solo l’autentico stare in relazione sa disegnare. 4. 1936: La domanda rivolta al singolo La domanda rivolta al singolo, pubblicato nel 1936 presso l’editore Schocken di Berlino, approfondisce la posizione dell’individuo nella relazione con Dio e, di conseguenza, nella dimensione politica accanto ad altri uomini. Nella prefazione alla prima edizione in lingua inglese Buber precisa l’occasione in cui nasce quest’opera, cioè un ciclo di lezioni tenute pochi anni prima in alcune Università svizzere di lingua tedesca. È sempre l’autore a rivelare come il testo attacchi il concetto stesso di totalitarismo, motivo per cui, nel 1936, non viene compreso 32. Ogni forma totalitaria è infatti frutto di quell’eccedenza del mondo dell’esso cui, già nel 1923, ha legato l’origine della crisi dell’uomo occidentale. Il rapporto io-tu offre la possibilità di guardare all’altro, a qualsiasi altro, come ad una persona: di conseguenza, si sarebbero potuti scongiurare gli accadimenti più tragici della storia del Novecento attraverso il recupero di tale prospettiva. La categoria che offre l’occasione per la dissertazione è quella kierkegaardiana di singolo. Il confronto con la filosofia di Kierkegaard (1813-1855) è particolarmente importante: da una parte l’autore accoglie l’intuizione dell’aIbid. Ibid., p. 221. 32 P. Vermes, Op. cit., p. 126. 30 31
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pertura dell’uomo a Dio, iniziando a sviluppare un tema che troverà ampio seguito in Il problema dell’uomo 33; dall’altra, egli prende le distanze dalla tesi kierkegaardiana dell’esclusività della scelta religiosa rispetto a quella etica, grazie alla rilettura della categoria del singolo alla luce della filosofia dialogica. Nel dibattito entrano in gioco anche altre figure autorevoli, come quella di Max Stirner (1806-1856). Confrontando il singolo di Kierkegaard con l’unico di Stirner, emerge come i due pensatori percorrano delle parabole opposte. Quando il filosofo tedesco tenta di dissolvere l’idealismo in un io che si scopre unico portatore del suo mondo 34, viene meno la pensabilità di un’autentica prospettiva etica. È la medesima parabola che Buber ha scoperto nel misticismo, dove l’annullamento dell’io in Dio rende impossibile la relazione e di conseguenza ciascuna forma di vita politica 35. La proposta di Kierkegaard, nell’intenzionalità buberiana, è superiore ad entrambe queste prospettive. Pur affondando le radici nella solitudine autobiografica che il filosofo danese esperisce rinunciando all’amore di Regina Olsen, egli racconta di un singolo che si apre all’obbedienza nei confronti del suo Signore. In altre parole, parla dell’«ingresso in una relazione» 36. Il punto dolens di questa prospettiva sta nel fatto che Kierkegaard percepisce il rapporto con Dio come soltanto esclusivo, al punto che «per la forza della sua essenzialità unica bandisce ogni altra relazione nel regno dell’inessenzialità» 37. Viceversa, il Buber del 1936 ha già affermato da tempo come il Tu eterno sia nel rapporto dialogico contemporaneamente inclusivo ed esclusivo, tesi che ribadisce con forza anche nella Postfazione, affermando che l’incondizionatezza di Dio è capace di ricomprendere tutte le altre relazioni io-tu di un uomo, portandole contemporaneamente al Tu eterno 38. Di conseguenza la proposta di Kierkegaard offre l’occasione per mostrare i possibili sbocchi etici della filosofia dialogica: quando in Diario 39 egli risponde alla domanda su come si diventi singolo, afferma la necessità M. Buber, Il problema dell’uomo, cit. Id., La domanda rivolta al singolo, cit., p. 233. La critica che Buber rivolge a Stirner è quella con cui critica ogni forma di individualismo, sia esso etico, estetico e religioso: questo genere di teorie trovano nell’uomo una «frivola compiacenza» in quanto permette di credere che nelle mani di ognuno giaccia la possibilità di svilupparsi, possibile solo prendendo fra le mani il proprio io. 35 Ibid. 36 Ibid., p. 240. 37 Ibid. 38 Id., Postfazione, cit., p. 155. 39 S. Kierkegaard, Papirer, 1909, trad. it. Diario, Rizzoli, Milano 2019. 33 34
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di lasciarsi guidare dallo stesso Dio. In tal senso, un’indicazione è offerta agli uomini nei Vangeli, dove il nuovo comandamento di Gesù sintetizza l’Antico e il Nuovo testamento: Alla domanda [...] su quale fosse il “grande” comandamento che comprendeva e fondeva tutti gli altri, Gesù rispose legando i due comandamenti dell’Antico testamento che più di tutti erano adatti alla risposta: “ama Dio con tutte le tue forze” e “ama il tuo compagno come te stesso”. Bisogna quindi “amare” entrambi, Dio e il “compagno” 40.
Partendo dunque dall’idea di esclusività di Kierkegaard e seguendo il suggerimento di lasciarsi parlare da Dio, è lo stesso Tu eterno a riportare l’uomo all’uomo, a lasciar emergere dal nostro amore esclusivo un amore che tutto sa includere e che ricomprende ogni essere. «Noi siamo stati creati insieme e per vivere insieme. Le creature sono state poste sul mio cammino perché io, creatura come loro, attraverso e insieme a loro trovi Dio» 41, infatti il Tu eterno «non è un oggetto fra gli altri e non può essere raggiunto rinunciando agli oggetti. [...] Non è con una sottrazione che
40 Id., La domanda rivolta al singolo, cit., p. 241. Sebbene Buber preferisca la traduzione «compagno», che meglio esprime il rapporto dialogico, sta qui facendo un chiaro riferimento ad alcuni brani del Vangelo, come Mc 12, 28-34, in cui Gesù valida il primo fra gli antichi comandamenti, «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la forza», attraverso il comandamento nuovo, «Amerai il prossimo tuo come te stesso». La citazione evangelica rappresenta una delle evidenze che permettono di notare l’apertura, da ebreo, di Buber al cristianesimo. Sebbene egli sostenga in maniera nella la discontinuità fra ebraismo e cristianesimo sia in termini di dottrina religiosa che per il rapporto che intercorre fra l’umano e il divino, rintraccia una continuità di tipo dialogico tra il suo pensiero e quanto scritto nei Vangeli. Il rapporto di Gesù con il padre, infatti, diviene emblema dell’apertura tipicamente umana all’altro. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., pp. 158-169 ed a N. Bombaci, Ebraismo e cristianesimo a confronto nel pensiero di Martin Buber, Dante & Descartes, Napoli 2001, pp. 160-165. 41 M. Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 242. Buber sottolinea come la sua posizione, a bene leggere le parole del Diario di Kierkegaard, non sono lontane dalla posizione cui lui stesso giunge; quando scrive «se avessi avuto fede, sarei rimasto accanto a Regina», lascia emergere come la vera fede porti a credere che il singolo ha diritto di entrare in relazione con l’altro. In ciò, due elementi: se avessi avuto fede, avrei creduto che Dio potesse sciogliere la mia malinconia, la mia angoscia, il mio destino di estraneità alla donna e al mondo. Ma anche: se avessi avuto fede, avrei creduto che il singolo può e ha il diritto di entrare essenzialmente in relazione con un altro, se crede davvero, cioè se egli è vero singolo. L’altro non va allontanato in quanto oggetto che mi distoglie da Dio, ma viceversa l’altro è ricompreso nell’amore di Dio.
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lo si può trovare, né con una riduzione che lo si può amare» 42. Questa nuova lettura della categoria kierkegaardiana porta ad una specifica ed originale conclusione, capace di offrire nuova linfa alla responsabilità cui ognuno è chiamato. Affinché il singolo possa abbracciare Dio, deve tendere le mani sul creato. Tendendo le mani sul creato, deve abbracciarne l’intera comunità. In un unico passaggio è stata recuperata la possibilità di accesso al mondo in termini politici e sociali, fondandola contemporaneamente: Il singolo, l’uomo che vive responsabilmente, può compiere le sue azioni politiche [...] solo da quel fondamento della sua esistenza a cui vuol giungere l’appello del Dio terribile e benigno, del Signore della storia e nostro Signore 43.
Le ultime pagine sono dedicate alla discussione delle teorie etico-politiche di Oswald Spengler (1880-1936), Carl Schmitt (1888-1985) e Friedrich Gogarten (1887-1967). Il fil rouge che lega i tre autori viene rintracciato nella perdita della dimensione della responsabilità 44. Viceversa l’uomo deve essere visto proprio all’interno della sua possibilità di scegliere se essere buono o cattivo. L’umanità è in tensione, ha la possibilità di realizzarsi, di essere. Per farlo, per scegliere dall’albero del bene e del male, può e deve guardare in un’unica direzione, verso Dio. Ma al cielo può volgersi solo il singolo che si trova immerso nelle profondità della responsabilità, cioè colui che ha scelto di aprirsi alla dimensione relazionale 45. Quando la domanda viene rivolta al singolo, ognuno ha la possibilità di scegliere. Chi decide di rispondere, entra nel rapporto io-tu e, di conseguenza, nella possibilità della responsabilità necessaria a formare un’autentica comunità: Una vera comunità, un vero essere comune, si realizzerà solo nella misura in cui vi saranno veri singoli, nella cui esistenza responsabile la dimensione pubblica si rinnova 46.
Ibid., p. 248. Ibid., p. 258. 44 Ibid., pp. 263-269. 45 Ibid., p. 271. 46 Ibid., p. 276. 42 43
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5. Il senso della bibliografia buberiana dal 1923 al 1938 Nei paragrafi precedenti emerge con forza quanto tutta la produzione buberiana, sviluppata tra il 1923 e il 1938, sia in continuo dialogo con le parole di Ich und Du. La prospettiva dialogica viene riletta, approfondita, lasciata passare attraverso nuove prospettiva senza che alcun assunto di fondo vesta abiti nuovi. Ancora una volta l’autentico dialogo necessita della parola detta da un io ad un tu, dunque richiede l’ingresso nella prospettiva relazionale. Ancora una volta, la parola è solo una delle forme autentiche di conversazione. La filosofia dialogica si conferma essere lontana da qualsiasi prospettiva analitica, premendo piuttosto sulla dimensione ontologica. Con la parola è l’essere che viene comunicato nell’accadimento dell’istante che, per sussistere, chiede al tu di scegliere autenticamente, cioè di decidere di entrare in relazione 47. Gli scritti filosofici degli anni ’20 e ’30, lungi dall’essere mere ripetizioni del contenuto di Io e Tu, offrono al lettore occasioni di leggere la prospettiva dialogica entro contesti sempre nuovi. In primis il peculiare ambito educativo, dove educatore ed educando non hanno alcuna possibilità di realizzare un autentico rapporto pedagogico se non attraverso la parola fondamentale io-tu, via univoca per ogni maestro che non voglia ricadere nell’oggettivizzazione del proprio discepolo. In un processo che dall’analisi del particolare relazionale giunge all’universalità della prospettiva dialogica, l’asimmetria propria dell’ambito pedagogico diviene occasione per notale il medesimo squilibrio funzionale anche nel rapporto di un medico con il suo paziente, dello zaqquid nei confronti del suo popolo e, infine, di Dio nei confronti dei suoi figli 48. Il Tu eterno, fulcro della relazione, rimane sempre fuori dal mondo dell’esso: luogo dell’inclusività e allo stesso tempo dell’inclusività, non viene trovato mai in sottrazione, ma in un circolo virtuoso tra cielo e terra che permette finanche di notare come l’altro, inserito nella necessarietà della relazione, apra a suggestioni etiche, politiche e sociali 49. Pagine dall’innegabile valore filosofico, che mostrano un uomo libero di seguire il suo destino, cioè libero di entrare in relazione. Testi dall’inconfutabile valore critico, attraverso una costante seppur pacata opposizione alla crisi dell’epoca moderna. Una crisi inflitta dall’uomo all’umanità, dettata dalla sovrabbondanza del mondo Id., Dialogo, cit. Id., Sull’educativo, cit. 49 Id., La domanda rivolta al singolo, cit. 47 48
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dell’esso. Buber offre una nuova lettura dei mali del suo tempo, a partire da quelli sociali, come l’individualismo e il collettivismo, sino a mettere in chiaro quali siano le piaghe da cui hanno avuto origine i totalitarismi. L’alto valore critico delle opere viene continuamente arricchito dall’espressione del compito che spetta all’umanità: relegare l’oggettivizzazione del mondo, dell’altro e di Dio al posto che le spetta e recuperare quello spazio in cui esercitare la libera scelta, entrando autenticamente in relazione, lasciando che l’incontro accada. Un assonanza perfetta, costruita a circoli ermeneutici che gravitano attorno ad Ich und Du senza allontanarsene.
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VIII.
Migrazione in Palestina “La rinascita della comunità dalle acque e dallo spirito della trasformazione sociale segnerà le sorti del genere umano” (Martin Buber, Sentieri in utopia)
Gli anni subito successivi al trasferimento in Germania rappresentano un periodo turbolento, tanto per Martin quanto per la moglie Paula. Attacchi arabi da una parte e rappresaglie sioniste dall’altra preparano un terreno su cui la famiglia Buber fa fatica ad attecchire 1. Dopo qualche anno di assestamento, tuttavia, i due si inseriscono nelle strutture culturali palestinesi, padroneggiando la lingua al punto da pubblicare alcuni testi in ebraico. Dal 1945 Buber si dedica nuovamente alla scrittura, aprendo la strada ad un periodo assai fertile, in cui il lavoro di una vita intera trova spazio tra le pagine di numerose pubblicazioni. Tralasciando le opere di carattere religioso 2, che pur assumono rilievo in questi anni, è importante citare 1 Il territorio palestinese, per secoli sotto il dominio dell’Impero Ottomano, cade sotto l’influenza inglese al termine della Prima guerra mondiale. Con la dichiarazione di Balfour (1917) la Gran Bretagna dichiara l’intenzione di creare in Palestina un luogo in cui gli ebrei dispersi nel mondo potessero trovare asilo: questo porta ad un primo e concreto inasprirsi del nazionalismo palestinese. I precedenti accordi con la popolazione araba del luogo (sugellati nel 1915 tra Sir Henry McMahon e lo sceicco Husayn ibn Ali) portano allo scontro tra gli ebrei migranti e le frange arabe autoctone. Questa tensione non si affievolisce durante il secondo conflitto mondiale, dando origine ad un territorio segnato da continui scontri interni, attentati e mancata convivenza pacifica. Questo è il clima in con cui la famiglia Buber si trova a fare i conti all’indomani del trasferimento a Gerusalemme. Per ulteriori approfondimenti e riferimenti si rimanda a I. Greilsammer, Op. cit., pp. 79-85. Nonostante le difficoltà, Buber si dedica alla scrittura di due testi a carattere religioso, quali M. Buber, Gog e Magog, cit. e M. Buber, Moses, Lambert Schneider, Hedelberg 1945, trad. it. Mosè, Marietti, Casale Monferrato 1983. 2 La grande opera a carattere religioso che viene data alla stampa in questi anni, accanto alla già citata La Fede dei profeti, è M. Buber, Zwei Galubenweisen. Mit einem Nachwort von David Flesser, Lambert Schneider, Gerligen 1950, trad. it. Due tipi di fede, Fede ebraica e fede Cristiana, a cura di S. Sorrentino, San Paolo, Cinisiello Balsamo 1995. Nell’opera, Buber afferma che tra l’esperienza ebraica e quella cristiana intercorrono le medesime diffe-
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gli ultimi quattro grandi testi annoverabili entro la produzione filosofica: Il problema dell’uomo, pubblicato nel 1943, Distanza originaria e relazione, del 1950, L’eclissi di Dio, edita nel 1952 e, infine, Elementi dell’Interumano, opera del 1954. Pur vedendo calare la propria popolarità fra i connazionali, con cui spesso si trova in disaccordo sulla fondazione dello Stato di Israele, l’autore non cessa di spendersi in ambito politico e sociale. Nel 1949 fonda a Gerusalemme un istituto dedicato alla formazione per adulti e, nel 1950, dà alla stampa Sentieri in utopia, un’opera in cui analizza profondamente la comunità, intesa come baluardo della rinascita societaria. Porta a termine il lavoro di traduzione della Bibbia e, nel 1951, riceve il premio Goethe anseatica 3: nonostante le proteste, egli decide di accettarlo e di devolvere il premio in denaro al Ner, il mensile del partito sionista in cui gravita in questi anni 4. Dopo aver lasciato la cattedra universitaria, libero di poter viaggiare a lungo, parte alla volta degli Stati Uniti. Nel 1951, all’epoca di questo viaggio, egli ha settantatré anni. Nonostante l’età e la stanchezza, numerosi sono gli incontri e le conferenze cui si dedica, sino all’«affollata cerimonia di addio alla Carnegie Hall» 5, dove prende parola accanto a Mordechai Kaplan, il fondatore del movimento di ricostruzione ebraico. Tra il 1953 e il 1954 torna in Europa, per prendere parte ad alcune conferenze in Svizzera, Olanda e Germania, dove riceve il Premio della pace
renze presenti fra l’emunà e la pistis: se la prima indica una relazione reciproca e fiduciosa, la seconda rappresenta un movimento noetico. È questo il punto attorno al quale Buber sancisce la definitiva differenza fra l’ebraismo e il cristianesimo, due diversi tipi di fede, per l’appunto, ma leggibili alla luce del duplice atteggiamento che la dialogica riconosce nell’uomo: tanto la pistis quanto l’emunà sono necessarie all’uomo; allo stesso modo, tanto il cristianesimo quanto l’ebraismo sono invitati ad aprirsi ad un dialogo fecondo ed autentico. Per completezza, è necessario sottolineare come il cristianesimo cui Buber si rivolge è caratterizzato da una profonda interpretazione dialogica, secondo cui la relazione tra Padre e Figlio è un evento dialogico, che si realizza in unità solo grazie al tra che intercorre fra le due polarità poste dinnanzi: «Risulta chiaro come Buber, rifiutando la divinità di Gesù, abbia visto nella teologia cristiana il movimento di assolutizzazione di un’esperienza umana che, per quanto autentica e reale, non può in alcun modo essere identificata con la realtà di Dio», in A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., p. 161. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a S. Sorrentino, Fede e relazione interculturale. Il progetto buberiano per un mondo integralmente umano sotto il segno della presenza di Dio, in M. Buber, Due tipi di fede, Fede ebraica e fede Cristiana, cit. 3 Il Premio Goethe anseatica [Hansischer Goethe-Preis] è un premio letterario e artistico tedesco, dato ogni due anni dal 1949 ad una figura di statura europea. 4 P. Vermes, Op. cit., p. 167. 5 Ibid., p. 168.
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dell’Associazione Librai Tedeschi 6 che, come per il premio Goethe, solleva numerose critiche tra gli ebrei sopravvissuti alla Shoah. Effettivamente, il rapporto di Buber con il popolo tedesco è davvero emblematico. A differenza della maggior parte delle frange ebraiche, tragicamente segnate dagli orrori della guerra, egli afferma che: Tra quella gente e la vera umanità si frappone una distanza tanto immensa che è impossibile provare neppure odio nei loro confronti. [...] Familiare con la debolezza umana, non poteva sedersi a giudicare un popolo incapace di abbracciare il martirio 7.
All’indomani della guerra, l’esigenza è quella di riprendere il dialogo nonostante tutto, avere fiducia nonostante tutto. «Buber scongiurava di non permettere mai più a questo spirito satanico di scorrazzare nel mondo» 8. L’ultimo viaggio negli Stati Uniti avviene nel 1958, all’età di ottanta anni. Sulla strada del ritorno Paula viene improvvisamente colpita da una trombosi; portata in ospedale, la situazione si aggrava a causa di un’infiammazione ai polmoni, che ne decreta la morte l’11 agosto dello stesso anno. Da questo momento l’autore perde quella vitalità che, fino a tale grave perdita, lo aveva caratterizzato. Al di là della parentesi biografica, è opportuno porre attenzione ai testi prodotti in questi anni: il contenuto, particolarmente ricco, sancisce la forma definitiva del suo pensiero. 1. 1943: Il problema dell’uomo Il testo, giudicato da Gabriel Marcel come una delle sue opere «più perfette» 9, viene pubblicato per la prima volta in ebraico nel 1943 a Tel 6 Il premio internazionale per la pace degli editori tedeschi [Friedenspreis des deutschen Buchhandels] è un premio assegnato, in occasione della Fiera del libro di Francoforte, fin dal 1950. Il premio, negli anni, è andato ad intellettuali dal prestigio internazionale che hanno saputo richiamare l’attenzione, attraverso la cultura, su zone dove il processo di pace è stato spesso travagliato o dove la situazione non si è ancora definitivamente stabilizzata. Le critiche che Buber riceve sia nell’accettare questo ultimo premio che il precedente riconoscimento derivano dal fatto che la popolazione ebraica con cui vive in Palestina è per lo più figlia della Shoah e non riesce in alcun modo a concepire l’apparente perdono e la facilità con cui Buber ritorna in territorio tedesco. 7 P. Vermes, Op. cit., p. 169. 8 Ibid., p. 170. 9 AA. VV., Il mito della relazione, cit., p. 27. Gabriel Marcel analizza la proposta buberiana a partire dall’idea di antropologia filosofica, indagando cioè quale sia la dimensione
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Aviv; fin dal sottotitolo si informa il lettore che l’opera raccoglie il contenuto di un corso tenutosi nel 1938 all’Università ebraica di Gerusalemme. Partendo dalle suggestioni proprie del pensiero dialogico, la prospettiva buberiana si apre in queste pagine alla dimensione antropologica. In questa scelta tematica, emerge la crescita intellettuale e biografica dell’autore che, da uomo europeo della diaspora, è ora un ebreo convinto di poter costruire in Palestina una realtà nuova, rispetto alla quale la filosofia dialogica e la prospettiva antropologica che ne deriva potrebbero fungere da fondamento. Confrontandosi con pensatori antichi, come Aristotele, e moderni, come Max Scheler, egli analizza il concetto di uomo, osservandolo nella sua mutevolezza e nelle sue fragilità. La conclusione è, chiaramente, intesa in senso dialogico e Buber rivolge un nuovo invito all’umanità affinché si riscopra non più separata ma in relazione. L’idea del dialogo come modalità per creare strutture societarie sarà un tema centrale nelle riflessioni di questi anni, come dimostra la ripresa delle medesime suggestioni anche in Sentieri in utopia. «Da tempi immemorabili» scrive nelle prime righe del testo «l’uomo sa che egli stesso è l’oggetto più degno della sua riflessione, ma egli ha anche timore di trattare proprio questo oggetto come totalità, vale a dire, secondo il suo essere e senso» 10. Il primo che formula con perizia la giusta domanda antropologica è Kant, il cui interrogativo che cos’è l’uomo è la premessa di tutte le domande a cui la filosofia tenta di dare risposta 11. L’indagine sulla natura umana permette di risalire al cuore della metafisica, a ciò che è consentito sperare, al campo d’indagine della religione 12. Il primo rilievo che la prospettiva kantiana permette di fare è che «la
dell’umano che Buber lascia emergere all’interno delle sue opere. Il testo in questione risulta particolarmente inerente all’argomento poiché l’autore, in maniera esplicita, afferma al suo interno come la relazione, ontologicamente espressa già in Ich und Du, possa aprirsi alla dimensione antropologica, superando le proposte individualiste dell’ultimo secolo. 10 M. Buber, Il problema dell’uomo, cit., p. 5 11 Si veda anche C.L. Coen, Martin Buber, cit., pp. 40-46, dove la questione è sintetizzata affermando che: «l’uomo da tempo immemorabile ha cercato di sondare la propria natura totale, poiché questa è una delle esigenze fondamentali dello spirito umano, ma sempre si è accorto di essere il soggetto più difficile per le proprie ricerche; ed ogni tentativo di definire il proprio essere nella sua totalità lo ha lasciato esausto e dolorosamente conscio della propria impotenza. Allora, per rendersi meno problematico a se stesso, si suddivise, per così dire, in tanti scompartimenti che potessero venire esaminati ciascuno separatamente, e nacquero, così, le varie scienze dell’uomo; [...] Soltanto il pensiero filosofico ha ardito porsi nella sua interezza il problema dell’uomo». 12 M. Buber, Il problema dell’uomo, cit., p. 9.
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conoscenza filosofica dell’uomo è essenzialmente un’autoriflessione» 13: se infatti tutta la filosofia può essere ricondotta alla domanda sull’uomo, ciò significa che tutto il sapere dell’umanità prende l’avvio dalla riflessione su sé stessi. Di conseguenza, l’uomo che più di tutti sarà in grado di portare a compimento tale autoriflessione sarà colui che vive nella solitudine. Si tratta di una solitudine di tipo storico: egli infatti distingue nel corso del tempo due tipi di epoche, quelle in cui «l’uomo possiede una dimora» e quelle in cui «egli non ha dimora» 14. Nelle prime l’uomo si sente a casa poiché esperisce il cosmo come concluso e sicuro: mai solo, egli vive la domanda antropologica solo in funzione di quella cosmologica. Nelle epoche di crisi l’uomo perde la certezza della risposta cosmologica, non riesce più ad esperire il mondo che lo circonda come sicuro e, soprattutto, si sente solo; la crisi va qui compresa secondo l’etimo greco, cioè come momento di scelta e di cambiamento, poiché l’umanità, nella solitudine, può trovare nuova risposta alla domanda su sé stesso. Nel tempo di crisi «il pensiero antropologico conquista la sua profondità, la sua indipendenza» 15. Alla luce di questo criterio Buber analizza la storia dell’antropologia. Nascosta nell’orizzonte cosmologico degli antichi, così come viene sintetizzato nella filosofia di Aristotele, essa viene alla luce con le domande inquiete di Agostino consegnate nelle Confessioni. Una posizione drammatica che viene coperta dalla Scolastica medievale che, con Tommaso, torna ad Aristotele e alla saldatura tra uomo e natura, antropologia e cosmologia. La modernità segna l’avvento di una nuova crisi e riapre, in tal modo, la domanda sull’uomo. Essa inaugura una nuova crisi che, secondo Buber, non ha ancora trovato soluzione. Hegel tenta infatti di rispondere tramite il «tentativo logologico» 16, che costituisce per l’uomo una nuova dimora nella tempo della storia. Tuttavia il suo tentativo, al pari di quelli dei suoi successori, sembra fallire: il tempo, antropologicamente sempre passato o futuro, non riesce infatti a cancellare «dal pensiero dell’umanità il problema antropologico di Kant» 17. Da ogni dove vengono mosse proposte per risolvere la crisi dell’uomo moderno. I contributi recati dal Dasein heideggeriano e dall’idea di “singolarità” di Kierkegaard sono certo importanti ma si arrestano di fronte alla dimensione relazionale che, nel loro pensiero, Ibid., p. 13. Ibid., p. 15. 15 Ibid. 16 Ibid. 17 Ibid., p. 33. 13 14
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non trova sviluppo. Sul versante opposto le teorie collettivistiche e comunitariste rischiano di ridurre l’uomo a mera parte di una totalità: Il fatto fondamentale dell’esistenza umana non è né il singolo come tale, né la totalità come tale. Considerati in sé non sono che potenti astrazioni. Il singolo è un fatto dell’esistenza nella misura in cui egli entra in relazione vivente con altri singoli; la totalità è un fatto dell’esistenza nella misura in cui è costituita da singoli viventi fra loro in relazione. Il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo con l’uomo. [...] La sfera “dell’interrelazione”, [...] in cui mi accade qualcosa 18.
La relazione ha un valore «ontico» 19 e offre all’uomo la possibilità di scoprire in maniera nuova cosa egli sia e come una comunità possa essere costruita 20. Questa è l’unica soluzione alla crisi, questa l’unica risposta alla domanda di Kant, alla quale: Saremo più vicini se impareremo a comprendere nell’uomo l’essere nel cui stato dialogico, nel cui reciproco attuale essere in due, si realizza e si riconosce ogni volta l’incontro dell’uno con l’altro 21.
2. 1950: Distanza originaria e relazione Il saggio, edito per la prima volta nel 1950 all’interno degli “Studia Philosophica” di Basilea, approfondisce il tema del tu innato, più volte accennato all’interno delle opere del pensiero dialogico. Nel testo, l’autore sembra mettere in discussione un punto assai delicato della sua filosofia, cioè la dimensione aprioristica della relazione, uno dei passaggi più complessi e, allo stesso tempo, più originali. La peculiarità dell’impostazione buberiana sta infatti nel porre la relazione come originaria, a fronte della maggioranza delle ontologie relazionali a lui contemporanee, che mostrano un io che, solo in sé, si apre in secondo luogo al tu. Questo saggio, di difficile collocazione, è tuttavia seguito da numerosi testi che riportano la riflessione alla posizione espressa in Ich und Du. In queste Ibid., p. 116. Ibid., p. 118. 20 L’idea di un uomo capace di camminare in armonia dialogica con il mondo e con Dio viene riproposta, sempre in questi anni, anche in M. Buber, Der weg des Menschen nach der chassidischen Lehre, Lambert Schneider, Heidelberg 1948, trad. it. Il cammino dell’uomo secondo l’insegnamento chassidico, Qiqajon, Magnano 1990. 21 M. Buber, Il problema dell’uomo, cit., p. 119. 18 19
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pagine viene descritto un uomo «doppio» 22, cioè costituito da due movimenti. Il primo è chiamato «distanziarsi originario», il secondo «entrare-in-relazione» 23. L’atteggiamento del distanziarsi è ciò che distingue l’uomo dall’animale, che è viceversa immerso nell’ambiente. La distanza acquista priorità in quanto permette di porre il mondo come differenziato dal sé e, di conseguenza, consente di entrare in relazione, giungendo in un secondo momento all’atteggiamento dialogico. Il primo movimento, inoltre, è quello che permette all’uomo di rispondere alla domanda essenziale «com’è possibile l’uomo» 24, mentre il secondo porta l’umanità a realizzarsi autenticamente. Se ci si ferma a questa prima parte del saggio, l’autore sembra aver effettivamente abbandonato l’originarietà dell’evento relazionale. In realtà, il dubbio permane sino alla fine di queste pagine, nonché nel leggere le risposte alle critiche ricevute dai lettori. Pur nel permanere dell’ambiguità, Poma propone una chiave di lettura che permette di ricollocare il testo all’interno della produzione buberiana, senza fuoriuscire dalle pieghe del suo pensiero. Secondo questa proposta l’atteggiamento della distanza originaria non sta a significare una lesione al ruolo aprioristico della relazione, quanto piuttosto la possibilità di essere uomo in generale. In altre parole, la distanza originaria «non sarebbe un “atto” ma una “categoria”» 25. È la relazione invece ad essere un vero e proprio atto, o meglio, il vero e proprio atto. Secondo questa interpretazione la distanza originaria, all’interno della filosofia dialogica buberiana, non è ridotta ad altro che all’esigenza di attribuire all’uomo soltanto, tra gli esseri del mondo, la capacità dell’ingresso in relazione. Anche Franco Riva in Il mito della relazione, sottolinea la medesima ambiguità, affermando che «i rilievi critici su “in principio è la relazione”» 26 portano lo stesso autore a mettere in discussione le parole utilizzate in Ich und Du, come avviene in Distanza originaria e relazione. Nonostante le discrepanze, il filosofo del dialogo non dismette mai il senso proposto nell’opera del 1923, ma chiarisce come:
22 Id., Urdistanz und Beziehung, in «Studia Philosophica», X, Basilea 1950, trad. it., Distanza originaria e relazione, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 280. 23 Ibid. 24 Ibid., p. 285. 25 M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 285. 26 F. Riva, Il mito della relazione. Buber, Marcel, Lévinas, Derrida, cit., in AA. VV., Il mito della relazione, cit., p. 111.
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L’espressione in principio aveva un senso quasi del tutto filogenetico, dove le relazioni sono prese nella loro primitività, prima dell’incontro Io-Tu, quasi una sorta di anticipazione della relazione Io-Tu 27.
Alla luce della proposta di Poma e dei rilievi di Riva, è forse possibile cogliere il rapporto che intercorre tra la distanza originaria e la relazione come già presente in Ich und Du: nell’opera dove pur viene dichiarato che «all’inizio è la relazione» 28, si racconta di un’umanità capace di incontrare l’altro, che sia esso il mondo, il prossimo o Dio. Alla possibilità di dire la parola fondamentale io-tu consegue la necessità della scelta di entrare in relazione. Mai dunque una relazione già attualizzata o attualizzantesi in maniera necessitante, quanto piuttosto frutto di una scelta libera. In Distanza originaria e relazione Buber sta affermando lo stesso. L’uomo, solo fra tutti, è posto nel mondo in modo da poter entrare in relazione: non è costitutivamente in relazione, ma deve scegliere, deve permettere che l’incontro accada. Tuttavia, l’incontro non si configura mai come una tra le possibili scelte di un io in sé che, già solipsisticamente compiuto, si rivolge in secundis al tu: la relazione è in principio poiché è l’unica scelta autentica dell’uomo, l’univoca alternativa alla non realizzazione. La relazione è in principio non perché non ci sia nulla prima di essa, ma perché è l’unico, fondante e fondamentale modo che è dato all’uomo per essere uomo: Si tratta di una distanza capace di aprire la possibilità dell’incontro, ovvero di orientare la singolarità verso una libera espressione del suo essere: senza questa distanza non vi sarebbe nessun confine e, quindi, nessuno spazio di libertà per la relazione autentica 29.
L’immediatezza di cui l’autore parla sin da Ich und Du è propria della gratuità dell’incontro, differente dalla mediazione che chiede la parola io-esso: nel fare esperienza di un oggetto è necessario lasciare che il fine medi fra l’io e l’esso, mentre nello scegliere di entrare in relazione, si accede ad un tu che è del tutto libero, del tutto immediato. Come sottolinea Tumminelli, è questa la differenza tra l’unità di cui parla il giovane Buber, ancora affascinato dalla mistica, e quella di cui si tiene conto nelle opere dialogiche: la relazione reaIbid., p. 113. M. Buber, Io e Tu, cit., p. 72. 29 A. Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit., p. 81. 27 28
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lizza un’unità autentica che, in virtù della distanza originaria, preserva «l’autonomia ontologica» 30 dell’Io e del Tu, poli-polari capaci di realizzare in pienezza l’uomo. Il piccolo testo, pur nell’ambiguità di alcuni passaggi, mostra la grandezza del pensiero dialogico, capace di raccontare la necessità umana di porre in posizione centrale il tra della relazione, dando luogo ad un’unità che non fuoriesce dalla polarità dell’Io e del Tu. La modernità solipsistica è qui destituita, a favore di un’ontologia della relazione, di un essere che abbandona la logica dell’io a favore della dia-logica, capace di abbracciare in un solo spazio l’Io e il Tu che gli si pone dinnanzi. Una prospettiva che non solo getta nuova luce sulla lettura ontologica del moderno, ma che ha evidenti implicazioni esistenziali, politiche e sociali. Nella conclusione del testo viene ancora una volta ribadita l’importanza che la relazione ha per l’uomo: L’umano e l’umanità si realizzano di incontri veri. Qui l’uomo non fa esperienza di sé solo come limitato all’altro uomo, come rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di completamento. [...] È necessario agli uomini, ed è loro concesso, di confermarsi a vicenda, nel loro essere individuale, negli incontri veri 31.
Se si sorvola sull’atteggiamento al quale Buber conferisce la dimensione prioritaria, si nota come egli stia affermando che la distanza, cioè il modo peculiare in cui l’uomo sta nel mondo, concede all’umanità di poter entrare in relazione. Essa, ancora una volta, è la scelta libera, resa libera da quella distanza originaria che preserva l’Io come Io e il Tu come Tu e che offre un’occasione. Questa chance è dinnanzi ad ognuno: è la porta che permette di entrare nell’autenticità dell’essere uomo. Guardare all’altro come ad un tu è ciò che permette di vederlo non come «questo qui» ma come un «io per me», rendendolo presente 32: La crescita interiore dell’io non si compie [...] nel rapporto dell’uomo con sé stesso, ma in quello tra l’uno e l’altro [...] nella reciprocità del rendersi presenza 33.
Ibid., p. 79. M. Buber, Distanza originaria e relazione, cit., p. 290. 32 Ibid., p. 292. 33 Ibid. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a M. Theunissen, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, De Gruyter, Berlin 1965. 30 31
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3. 1952: L’eclissi di Dio Il sottotitolo di questa opera, pubblicata nel 1952, è considerazioni sul rapporto fra religione e filosofia. Si tratta di una raccolta di saggi composti per alcune università americane, atti non solo a ragionare sul rapporto tra la conoscenza filosofica e la dimensione religiosa, ma a rapportare quest’ultima a numerosi aspetti della realtà, giungendo inequivocabilmente alla conclusione che Dio, a differenza di quanto detto da Nietzsche, non è morto. In aggiunta a questi saggi, Buber inserisce nel testo due colloqui che già dal 1932 aveva riportato in forma scritta. Infine, come lui stesso sottolinea nella conclusione, per integrare il capitolo Religione e filosofia aggiunge una precedente composizione, L’amore per Dio e l’idea di Dio 34. L’opera si apre guardando alla religione nella realtà entro cui viene esperita: vi sono infatti due diverse tipologie di tempo storico, che determinano altrettanti rapporti con la sfera del religioso. In alcune epoche gli uomini guardano alla realtà come indipendente, mentre in altre esperiscono il mondo tramite una rappresentazione della concreta realtà. In questi frangenti storici, anche la religiosità perde di immediatezza, che viene meno nel rapporto tra l’uomo e la realtà. La religiosità va ad abitare i confini dello spirito dell’uomo e l’umanità venera l’idea di Dio, senza costruire con lui alcuna vera relazione. È in questi frangenti che, non udendo più alcuna voce dal cielo, l’uomo non può fare altro che dichiarare la morte di Dio 35. Grazie a questa distinzione, è ora facile comprendere come il grido di Nietzsche non dica altro se non che «l’uomo è diventato incapace di afferrare una realtà per antonomasia indipendente da lui e di rapportarsi ad essa» 36. La morte di Dio annuncia non l’assenza del divino ma l’incapacità umana di trovarlo, conoscerlo e stabilire con Lui una relazione. Posto questo, Buber si dedica all’analisi del rapporto tra religione e filosofia, emblematizzandole nel confronto fra Epicuro e Buddha. Entrambi si dedicano alla dimensione divina, con la differenza che il primo parla di un pantheon che si disinteresM. Buber, L’eclissi di Dio, cit., pp. 7-13. Come scrive Gianfranco Morra: «Il pensiero di Buber si svolge in un’epoca ben diversa da quella organica della civiltà cristiana, nell’epoca del Dio assente e dell’attesa delusa del suo ritorno – ed è molto che Buber, in questa epoca tanto povera da non riconoscere neppure la sua povertà, abbia descritto l’inevitabile contemporaneità di una perdita (la morte di Dio nel secolo scorso, la morte dell’uomo oggi)», in G. Morra, Utopia e regno di Dio secondo Martin Buber, Biblioteca Pro Civitate Christiana, Assisi 1989, in AA. VV., La filosofia del dialogo da Buber a Lévinas, cit. 36 M. Buber, L’eclissi di Dio, cit., p. 16. 34 35
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sa di quanto avviene sulla terra, mentre il secondo esperisce a pieno un Dio che si rivolge all’uomo: così Epicuro approda ad una concezione filosofica, Buddha ad una prospettiva religiosa. Il fatto decisivo per l’autenticità della religione è [...] che io mi rivolga a lui (Dio) come ad uno che mi sta di fronte, anche se non sta soltanto di fronte
a me. Una completa inclusione del divino nella sfera dell’umano toglierebbe al divino la sua qualità divina 37.
La filosofia astrae il concreto dal mondo, mostrando le verità del pensiero e basandosi sulla dualità soggetto-oggetto, la religione guarda al concreto del mondo, mettendo in luce la realtà della fede e facendo riferimento ad un rapporto concreto e personale, cioè alla relazione io-tu. Le due prospettive si distinguono, inoltre, in base al loro contenuto intenzionale: se la filosofia mira alla scoperta dell’essenza delle cose, la religione ha come stella polare la ricerca della salvezza. Viene qui riletto il rapporto tra filosofia e religione attraverso le suggestioni fornite quasi trenta anni prima in Ich und Du: nel confronto fra loro, infatti, si manifesta la dicotomia tra le parole fondamentali, l’io-tu e l’io-esso, due modi imprescindibili di vivere l’esistenza. Le parole del testo sono però prospettiche, poiché rivolte ad un’epoca in cui il rapporto io-tu è svanito a favore del mondo dell’esso che fagocita ogni aspetto del reale. È necessario quindi recuperare la sfera del tu, entro la quale sarà permesso di riscoprire la relazione con quel Dio che Nietzsche ha dichiarato morto. La conversione cui Buber richiama nelle pagine di L’eclissi di Dio è la conversione del cuore, la stessa pronunciata da Pascal, quando brama all’incontro con il Dio di Abramo e non con quello «dei filosofi e dei dotti» 38: non si tratta del passaggio dalla vita senza Dio ad una vita con Dio, ma di quello che porta da un Assoluto esperito come idea, all’amore che ama e che viene amato 39. Alla prospettiva esistenzialistiIbid., p. 28. Ibid., p. 47. Per ulteriori riferimenti e approfondimenti sul concetto di Dio de filosofi si rimanda a M. Borghesi, Ateismo e modernità, il dibattito nel pensiero cattolico italo-francese, cit. 39 M. Buber, L’eclissi di Dio, cit., p. 48. Buber sta sottolineando come il rapporto religioso per essere reale deve essere la realtà: per essere la realtà, dunque per coinvolgere pienamente la dimensione mondana, non solo non può escludere l’altro ma deve passare per l’altro. Trasportare Dio al di fuori del rapporto io-esso che genera le oggettivazioni della religione e porlo nel rapporto io-tu significa questo, cioè inserirlo in una dimensione dialogica che ha bisogno tanto del Tu eterno che di ogni singolo tu. Questa fusione del rapporto religioso con il rapporto mondano, dice Bernhard Casper in B. Casper, Op. cit., pp. 37 38
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ca che vede l’uomo incapace di credere di poter udire Dio, Buber afferma con forza che tale impossibilità è dettata solo dall’aver trasposto l’Assoluto in seno al rapporto io-esso, mentre il Tu eterno, come già affermato in Ich und Du, «non può per natura trasformarsi in esso» 40. Un ulteriore elemento che è stato messo in crisi dalla posposizione della dimensione religiosa in seno all’oggettivizzazione è il rapporto tra religione ed etica. Nell’antichità orientale ed ellenica, sotto forma di Tao in Cina, Rita in India, Urta in Iran e Dike in Grecia, le potenze celesti hanno donato all’uomo il corretto archetipo di giustizia. L’ordinamento del cielo viene donato alla terra così che la totalità degli esseri possa vivere attraverso un’unica legislazione. La comunione tra cielo e terra viene meno quando, all’epoca della sofistica, l’ordinamento morale viene messo in crisi e separato dall’Assoluto: nulla può Platone, con il suo tentativo di ricongiungere cielo e terra attraverso la dottrina delle idee, per arrestare il processo ormai iniziato. Differente è la storia che segna il cammino del popolo di Israele, il cui Dio non vive in una società che funge da modello per l’ordinamento terreno, ma che insegna agli uomini a separare bene e male come Lui ha separato «la luce dalle tenebre» 41. Nonostante le differenze, anche la prospettiva morale dell’ebraismo, e con essa anche quella propria del cristianesimo, entrano in crisi, lese dall’aumentare delle prospettive filosofiche relativistiche che allontanano l’uomo dalla fede nella dimensione morale che Dio gli ha consegnato: La crisi del secondo grande tentativo di collegare l’etica con l’assoluto perdura fino nei nostri tempi. [...] Questa filosofia (la filosofia relativistica) che, come a suo tempo quella sofistica, unisce la prospettiva biologica con quella sociologica e psicologica, vuole smascherare il mondo spirituale come un insieme di illusioni e autosuggestioni 42. 326-327, offre lo spunto per nuove considerazioni anche in termini etici. Il neokantismo e in particolate Hermann Cohen tentano di pensare la religione a partire dall’etica kantianamente intesa, mentre il pensiero dialogico mette in profonda crisi una prospettiva affermata nella modernità. La dimensione etica, per quella che è la proposta di Buber, è assorbita completamente nella relazione tra l’io e il Tu eterno: la persona è, nel rapporto dialogico, contemporaneamente libera e determinata; Dio offre un ideale ma non si esaurisce in esso. La dimensione etica, così, mantiene la sua autonomia rispetto alla religione e la necessità di essere determinati dalla religione non esclude comunque la libertà umana di compiere liberamente scelte etiche. È questa un’altra delle tante inversioni di direzione, rispetto al senso comune, che Buber compie dopo aver fondato il suo pensiero entro la prospettiva dialogica e relazionale. 40 M. Buber, Io e tu, cit., p. 141. 41 Ibid., p. 100. 42 Ibid., p. 103.
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È dunque possibile affermare che la crisi dell’uomo moderno riconosce, tra i suoi caratteri, quello della sospensione della dimensione etica. Una sospensione del tutto mondana e illegittima, voluta dall’uomo e di conseguenza in alcun modo paragonabile alla sospensione teologica dell’etica che Dio comanda ad Abramo 43. Non è Dio ad essere morto, quanto piuttosto è l’uomo che lo ha ucciso, dimenticandolo e relegandolo nella parola fondamentale che non gli è propria. Tuttavia, conclude Buber, l’immagine dell’Assoluto è sepolta nell’intimo di ognuno: se non si vuole ricadere nell’inganno nichilistico di chi sospende l’etica senza legittimità, è bene aprire di nuovo gli occhi e notare che «la fede non è un sentimento dell’anima umana, ma l’ingresso dell’uomo nella realtà» 44. 4. 1954: Elementi dell’interumano Elementi dell’interumano viene pubblicato nel 1954 in due diverse riviste 45, per poi essere inserito nella raccolta Die Schriften über Das dialogische Prinzip alla fine del medesimo anno. In questo breve saggio, che precisa ancora una volta gli elementi propri di un autentico dialogo, viene ripresa e caratterizzata nuovamente la categoria dell’interumano, non certo nuova per l’autore, che vi ha lavorato sin dalla gioventù. L’idea proposta in quest’opera è certo corroborata dal lavoro svolto in questi anni, al punto da affermare che, con l’interumano, «ci troviamo di fronte ad una categoria speciale, [...] una dimensione che ci è così familiare che ancora non ci
Ibid., p. 107. Buber sta qui facendo riferimento a Timore e tremore (S. KierkegaFurcht Und Zittern, 1843, trad. it. Timore e Tremore, Mondadori, Roma 2016) letto in gioventù. La sospensione teologica dell’etica, secondo la dicitura kierkegaardiana, va a definire ciò che accade ad Abramo, quando Dio gli ordina di sacrificare Isacco (Genesi 2). L’episodio biblico è l’esemplificazione della disgiunzione tra etica e religione voluta da Dio e pertanto definibile come teologica; in queste pagine, l’episodio è funzionale a Buber per porlo in contrapposizione critica alla sospensione etico-morale delle filosofie relativistiche della modernità, in cui il distacco con l’Assoluto non è dettato da Dio ma è scelto dall’uomo. 44 Ibid., p. 7. Tutta l’opera di Buber, afferma Lévinas, è funzionale a riscoprire un’etica che non ha la valenza mitica dell’idea platonica ma che non è nemmeno conseguenza di alcuna conoscenza dell’essere; viceversa, l’etica comincia là dove l’Io è disposto a dire Tu, al punto che la relazione (e quella fede che, buberianamente, è da intendere come incontro) si configura come un ingresso nella realtà. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a E. Lévinas, Martin Buber, in Id., Fuori dal soggetto, cit. 45 Si tratta della rivista «Merkur» e, in un secondo momento, della rivista «Neue Schweizer Rundschau». 43
ard,
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siamo resi conto della sua peculiarità» 46. Questa prospettiva dipende dal presentarsi dell’altro mai come un oggetto, ma sempre come un tu che ci sta dinnanzi: «il suo dispiegarsi è ciò che chiamiamo dialogico» 47. In questo piccolo saggio le parole fondamentali annunciate in Ich und Du vengono rilette alla luce della duplice modalità dell’esistenza umana, scissa in essere e apparire: l’uomo può vivere la vita lasciandosi determinare da ciò che si è oppure «a partire dall’immagine, da ciò che uno vuole sembrare» 48. Chi si lascia governare dalle sembianze esperisce con difficoltà la relazione io-tu, ricadendo molto più facilmente nell’oggettivizzazione. La crisi dell’umano deriva da una modernità in cui l’apparenza ha preso sempre più il posto dell’essere e per questo è possibile riconoscerla come crisi dell’interumano, della capacità di ingresso in relazione. L’unica chance di emergere dal panorama critico della modernità sta dunque nel recupero della dimensione dialogica, entro la quale è possibile comprendere l’altro come una persona: Intuire un uomo significa quindi percepire la sua totalità come persona determinata dallo spirito che, tra tutti gli esseri, è proprio solo dell’uomo 49.
Un passaggio teoretico che chiede di tenere distinta la persona dall’individuo, indicando con il primo termine un essere-nel-mondo in senso relazionale, lasciando che l’altro sia per me presenza. Come affermerà nel 1957, dialogando con lo psicologo Carl Rogers: Lei parla di persone, e il concetto di “persona” è apparentemente molto vicino a quello di “individuo”. Io ritengo sia consigliabile tenerli distinti. Un individuo rappresenta l’unicità dell’essere umano e si può evolvere sviluppandosi in modo unico. [...] Egli può diventare sempre più individuo senza che questo lo renda sempre più umano. [...] L’individuo è semplicemente questa unicità e la capacità di svilupparsi in un certo modo. Ma la persona, direi, è un individuo che vive realmente con il mondo. E con questo non intendo dire nel mondo ma semplicemente in contatto reale, in una vera reciprocità con esso in tutti i punti nei quali il mondo può incontrare una persona. E non dico solo la persona, perché talvolta incontriaM. Buber, Elementi dell’interumano, cit., p. 295. Ibid., p. 298. Proprio in questo passaggio sta la ragione per cui Buber può dichiarare di aver ricompreso la categoria dell’interumano alla luce di una prospettiva differente: se nella gioventù ancora lo stare con gli altri cercava di essere fondato in una prospettiva di tipo diltheyano, ora può leggerlo secondo i canoni della dimensione dialogica, quindi ponendo come dimensione originaria il tra della relazione che accade. 48 Ibid., p. 299. 49 Ibid., p. 304. 46 47
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mo il mondo sotto altre forme che non sono quelle della persona. Ma questa è ciò che io chiamerei persona e se posso dire espressamente sì o no a certi fenomeni, sono contro gli individui e a favore delle persone 50.
Una posizione cui si contrappone quel sentire «specificatamente moderno» 51, fatti di sguardi analitici, riduttivi e devianti, attraverso cui il mistero della persona viene inevitabilmente livellato. Lasciare da parte l’apparenza, giungere al cuore del vero essere, intuire l’altro come totalità e come presenza permettono di giungere all’autentica conversazione. Nel vero dialogo ogni io può rivolgersi al tu «in tutta verità» 52, partecipando all’incontro con tutto sé stesso, poiché «ognuno deve essere deciso a non tirarsi indietro» 53. Ogni conversazione costruirà così parte dell’interumano, perché: Ciò che è interumano non sono io, non sei neanche tu, ma tra noi c’è un altro che per me si chiama Tu, per l’altro sono io. [...] Colui che pensa, sente, parla, egli è l’essere interumano e a lui appartengono i pensieri: questo ci rende liberi 54.
5. L’idea di comunità Il pensiero dialogico non manca di illuminare, accanto alla dimensione filosofica e teologica, anche la proposta politica dell’autore 55. Negli anni ’50, in larga parte, il pensiero politico dell’autore non è distante da quello entusiasticamente mostrato negli anni dell’attivismo sionista e nell’ambiente di Nuova Comunità. Riecheggiano, ancora in questo tempo, le speranze giovanili rivolte alla costruzione di una comunità nuova, fondata su un nuovo socialismo 56. Ciò che si mostra differente è invece il panorama che AA.VV, Dialoghi di Carl Rogers, cit., p. 43. M. Buber, Elementi dell’interumano, cit., p. 305. 52 Ibid., p. 311. 53 Ibid., p. 313. 54 Ibid., p. 315. Successivamente alla prima edizione, Buber aggiunge in chiusura del saggio due passi tratti da Lettere di uno sconosciuto di Alexander von Villers, leggibili in lingua originale in A.V. Villers, Briefe eines Unbekannten, Gerold, Wien 1881. La citazione ricalca la traduzione di uno dei due passi. 55 Si veda M. Theunissen, Der Andere. Studien zur Soziantologie der Gegenwart, De Gruyter, Berlin-New York 1977. 56 Si veda F. Ferrari, La comunità postsociale. Azione e pensiero politico di Martin Buber, Castelvecchi, Roma 2018 e P. Mendes-Flohr, Dialogue as Political and Religious Task. 50 51
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sta alla base di questo pensiero, poiché il nuovo stare insieme è adesso permesso dal recupero del rapporto io-tu tanto con le persone quanto con Dio. Altra differenza riscontrabile nel Buber della migrazione in Palestina è l’approccio alla formazione di una comunità ebraica. In Germania, infatti, egli lotta con ardore per diffondere un senso di solidarietà tra gli ebrei, in funzione del quale vede imprescindibile la condivisione della cultura del suo popolo come elemento preparatorio e fondamentale per poter costruire una nuova comunità in Terra Promessa. In Palestina, viceversa, si scontra con un nazionalismo talmente diffuso da sfiorare spesso il fanatismo 57: tenendo dinnanzi agli occhi il medesimo obiettivo, cioè quello di fondare una vera comunità, capace di intessere al suo interno autentiche relazioni, egli modula la sua azione politica e fonda nel 1942 assieme ad altre figure di spicco 58 un movimento interno a quello sionista dal nome Ichud, cioè unità. Seguendo le orme di una precedente struttura, nota con il nome di Alleanza di pace 59, l’Ichud promuove l’idea di uno stato palestinese che non sarebbe Martin Buber’s Vision of Israeli-Palestinian Reconciliation, in «Palestine-Israel Journal» 2, 1994, pp. 67-73. 57 La situazione con la quale Buber si confronta in Palestina è carica di tensioni interne. Dopo la Seconda guerra mondiale e i tragici fatti che colpirono la popolazione ebraica le neonate Nazioni Unite si interrogano sul destino della Palestina, territorio sempre più instabile. Nella sua relazione l’UNSCOP, la commissione dell’ONU sulla questione, giunge alla conclusione che era “manifestamente impossibile” ed “indifendibile” accettare di appoggiare solo la posizione araba o solo quella ebraica, proponendo di creare due stati divisi, con Gerusalemme sotto il controllo internazionale. La storia di questo territorio, da molti anni segnata da conflitti, nonché le decisioni dell’ONU a riguardo portano ad un forte inasprirsi della tensione fra popolazione araba ed ebrei, dando vita non solo a scontri e lotte armate, ma anche ad un sospinto fanatismo. La proposta dialogica propria della maturità buberiana diventa così funzionale ad un cambio di prospettiva, fornendo una solida base ontologica a quel dialogo che Buber chiede in ogni ambito, compreso quello politico e interreligioso, fondamentale in un luogo in cui si trovano a convivere gruppi etnici fra loro differenti. Per approfondire come la dialogica diventi funzionale al dialogo interreligioso, si rimanda a A. Tumminelli, Dialogo e comunità di vita nell’ontologia della relazione di Martin Buber, in «Teoria», xxxvi/2016/1 (Terza serie xi/1), New Perspective on Dialogue/Nuove prospettive sul dialogo, a cura di P. Biondi e F. Monceri, Pisa 2016, pp. 133-149. 58 Judah Magnes, rettore dell’Università Ebraica, Ernst Simon e Chaim Kalvarisky, Henrietta Szold, Gavriel Stern e Moshe Smilansky. 59 Alleanza per la pace viene fondata nel 1925 da Judah Magnes e vede la partecipazione di molti intellettuali ebrei, per lo più di origine tedesca, come il nostro Buber e Hugo Bergmann (1883-1975) sovraintendente della biblioteca nazionale e professore di filosofia all’università ebraica di Gerusalemme, intimoriti dalle derive militariste del sionismo. Accanto a loro anche Gershom Scholem (1897-1982) che, da importante studioso di mistica, vuole evitare delle derive eccessivamente messianiche del movimento. Questa frangia sionista punta alla creazione di uno stato federale ebraico-arabo, in cui un governo centrale
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dovuto essere né ebraico né arabo, ma di entrambi i popoli. Nonostante questo genere di movimenti, nel 1947 le Nazioni unite assegnano agli ebrei la Galilea orientale, la parte settentrionale del Giordano, le valli di Beth Shean e di Jezreel, una parte della costa, il Negev e il Mar Rosso, spingendo verso un’idea di internazionalizzazione di Gerusalemme 60. Anche dopo la nascita della Stato d’Israele nel 1948 61, l’autore continua a mostrarsi aperto verso quella che è la sua idea di comunità, cioè un luogo inclusivo, in cui ad ogni uomo è chiesta solo la scelta che riguarda l’ingresso in relazione. In questo senso appaiono particolarmente interessanti le parole di Magnes che, parlando di Buber, dice: Lei ha pensato e creduto che si potesse costruire Sion non con il sangue e con il fuoco, ma con un instancabile lavoro creativo e per mezzo della reciproca comprensione con i nostri vicini. Lei sa molto bene che nella storia dell’umanità gli Stati, quasi sempre, sono stati stabiliti soltanto con sangue e ingiustizia. Ma lei contava sui miracoli 62.
Nel 1947 viene pubblicato in ebraico Netivot be-Utopia, edito poi in lingua tedesca nel 1950. Testo importante nei riguardi della prospettiva avrebbe potuto gestire le faccende comuni. All’interno dello stesso movimento, Alleanza per la pace viene schiacciata da altre correnti di pensiero: in primis la posizione della destra nazionalista di Jabotinsky, che sosteneva l’impossibilità di ogni accordo e l’inutilità del dialogo tra arabi ed ebrei; in secondo luogo la corrente maggioritaria, che si imporrà su entrambe le minoranze appena citate, cioè la sinistra sionista socialista, maggiormente moderata. Con il tempo, tuttavia, sfumerà sempre più la speranza di uno stato ebraico e arabo insieme. Per ulteriori approfondimenti e riferimenti si rimanda a I. Greilsammer, Op. cit., pp. 82-85. 60 P. Vermes, Op. cit., p. 155. 61 Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale dell’ONU dà legittimazione allo stato ebraico, così da permetterne la sua fondazione il 14 maggio 1948, quando Ben Gurion proclama la nascita di Israele. Il carattere sionista del neonato stato, visibile nelle parole scelte per la Dichiarazione di Indipendenza, potrebbe far pensare che il movimento abbia assolto il suo compito e sia dunque giunto alla sua stessa conclusione. Se si guarda all’intento dichiarato dal fondatore Herzl, quello di fondare uno strato ebraico in terra di Israele, effettivamente è così; tuttavia, il sionismo rimarrà vivo ancora per qualche anno, portando avanti due nuovi obiettivi: riportare in terra promessa tutti gli ebrei della diaspora, in particolare quelli perseguitati negli anni appena trascorsi, e fare di Israele un polo di riferimento per l’ebraismo, sia a livello culturale che spirituale. Questo sionismo ridimensionato cade però vittima degli scontri con la popolazione araba: questi, dice Ilan Greilsammer, vengono percepiti dagli ebrei come un’ulteriore persecuzione fondata sull’essere ebrei; di conseguenza, la volontà sionista di identificarsi in maniera distinta rispetto alle altre popolazioni venne sempre meno e tutta la popolazione di origine ebraica allontanò tutto ciò che poteva rendere un ebreo diverso. Per ulteriori approfondimenti o riferimenti si rimanda a I. Greilsammer, Op. cit., pp. 93-100. 62 Ibid., p. 160.
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politica, in quanto, pagina dopo pagina, costruisce l’impalcatura per la società nuova che l’autore spera di vedere sorgere. Buber offre uno spazio di incubazione per quello che Donatella di Cesare chiama umanismo ebraico: una nuova idea di uomo sospinto a camminare verso la redenzione, su una strada costantemente arricchita dalla filosofia del dialogo 63. Il socialismo proposto in queste pagine si fonda su un’antropologia filosofica dialogica. Anche Lévinas concorda sull’argomento, affermando che questo libro «può essere considerato lo sviluppo politico del modello dialogico» 64. Il rapporto io-tu, infatti, non riguarda mai un singolo io o un singolo tu. Viceversa, ha a che fare con la dimensione collettiva e offre l’occasione di costruire una comunità alternativa allo stato automatizzato, basato sul singolo. In questo passaggio dal io-tu al noi, le parole tipiche del socialismo, come: Solidarietà, reciprocità, mutuo soccorso, assumono un significato più puntuale e più profondo. [...] La comunità dialogica rappresenta per Buber quella forma di vita che dischiude una terza possibilità, tra il collettivismo uniformante e l’individualismo esasperato 65.
La nuova comunità qui disegnata trae forza dalla nostalgia di ciò che è giusto: un rimando alla Sehnsucht romantica, capace ora di acquistare nuove sfumature concettuali, poiché il centro giusto cui si anela è il rapporto dialogico, unico capace di lasciar sbocciare società autentiche. Sentieri in utopia racconta di un socialismo comunitario e dialogico: una nuova alternativa al capitalismo, oltreché possibilità altra rispetto al modello sovietico. «Un socialismo altro, un socialismo dell’altro» 66, niente affatto mera fantasia, quanto piuttosto reale desiderio capace di superare l’ingiustizia intrinseca alla società capitalistica, all’individualismo e al collettivismo, virando verso la giustizia della prospettiva dialogica, unica capace di rendere merito a ciò che l’uomo è e può. L’autore critica la storia vista come progresso, rompendo con il paradigma evoluzionistico e alli63 Si veda anche G. Schaeder, Martin Buber. Hebräische Humanismus, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1966 e M. Friedenthal-Hasse – R. Koerrenz, Martin Buber: Bildung, Menschenbild und Hebräischer Humanismus, Schöning, Zürich 2005. 64 M. Buber, Sentieri in Utopia. Sulla comunità, cit., p. 22. La citazione è contenuta in D. Di Cesare, Buber e l’utopia anarchica della comunità, Marietti, Bologna 2020, in M. Buber, Sentieri in Utopia, cit. 65 Ibid., p. 24. 66 Ibid., p. 8. [Corsivo mio].
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neando il suo pensiero ad autori come Rosenzweig, Landauer e Benjamin. La storia non va seguita nel suo procedere, bensì rinnovata, rilanciando «il desiderio dell’impossibile» 67. Un’idea di sovvertimento assoluto mutuata dalla tradizione ebraica: l’irruzione messianica è la rivoluzione da cui può realmente nascere il nuovo e grazie alla quale si rende possibile la redenzione. Importante, in questo senso, è l’idea che Buber offre della salvezza, intesa come momento più alto del dialogo fra l’uomo e Dio e dunque riletta alla luce della filosofia dialogica. L’intesa con Dio, infatti, nasce inequivocabilmente nel contesto comunitario. La società descritta è comunità nuova, non più giustapposizione di consanguinei ma luogo di affinità elettive, spazio della relazione 68. La rivoluzione socialista, entro questa prospettiva: Deve realizzare dall’interno, dal suo “centro vivente”, la comunità- ciò che il capitalismo teme di più. Perché dove non c’è coesione interna, dove domina l’individualismo, lì si rende necessaria la coercizione dello stato. [...] Dove regna la comunità, lo stato, questa sorta di Golem che succhia il sangue dalla vita organica, può essere reso innocuo e anzi sostituito 69.
Buber, pur nella sua volontà di non essere definito filosofo né tantomeno teologo, compie un’abile sintesi delle due prospettive che, lungi Ibid., p. 16. In questi anni il senso del comunitarismo buberiano è visibile non solo nel pensiero professato dinnanzi alla questione palestinese, ma anche nell’adesione e nella partecipazione attiva ai Colloqui Mediterranei. L’autore ritorna nella città tanto amata in gioventù, Firenze, su invito del politico Giorgio La Pira, con il quale risulta fin da subito evidente una profonda sintonia di ideali: entrambi si spendono infatti a favore di una pace quanto più possibile ecumenica, offrendo argomentazioni valide sia alla dialettica tra ebraismo e cristianesimo, sia alla questione palestinese. Legati da una visione dell’altro quale fonti di arricchimento necessario e vicendevole, si battono per una pace capace di sovrastare le differenze politiche, etniche e religiose, raccontando di due città, Gerusalemme e Firenze, viste come bandiere del buon ecumenismo che dovrebbe caratterizzare la modernità intera. Pur nella diversità delle due figure, le lettere scambiate fra Buber e La Pira nonché le fonti scritte che ne testimoniano il fine comune, confermano questo come uni dei tanti incontri autentici e fertili che segnano la vita del nostro autore. Per ulteriori approfondimenti si rimanda all’analisi proposta in A Tumminelli, Martin Buber a Firenze, cit. Si veda anche AA. VV., Giorgio La Pira e la vocazione di Israele, Giunti, Firenze 2005, contenente alcune delle missive scambiate fra Buber e il politico fiorentino, e M. Buber, Israel und Palästina. Zur Geschichte einer Idee, Artemis Verlag, Zürich 1950, trad. it. Israele e Palestina. Sion: storia di un’idea, Marietti, Bologna 2008, utile al fine di approfondire la posizione che Buber sviluppa circa la questione israeliana all’indomani del trasferimento in Palestina. 69 M. Buber, Sentieri in Utopia. Sulla comunità, cit., p. 19. 67
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dall’avere valore meramente speculativo, converge in numerose indicazioni pratiche e politiche, capaci di parlare realmente agli uomini indicando il sentiero che porta alla nuova comunità. 6. 1950: Sentieri in utopia Il lavoro si sviluppa attorno ad una particolare categoria, il socialismo utopista. L’obiettivo è quello di mostrare come la considerazione negativa che si ha di questo termine derivi da un’errata interpretazione nata in seno agli ambienti marxisti. Il socialismo si è cacciato in un vicolo cieco e per uscirne ha bisogno che «lo slogan “utopista” venga analizzato nel suo vero contenuto» 70. Nelle prime pagine del lavoro vengono indicati due diversi concetti di socialismo o marxismo utopico: la medesima parola, infatti, viene impiegata sia per indicare i primi autori di questo filone, come SaintSimon, Fourier e Owen, sia per indicare coloro che, all’indomani dello sviluppo delle sovrastrutture necessarie alla vera rivoluzione, continuano a propagandare una prospettiva ormai superata. Ai primi si guarda positivamente, poiché vengono intesi come precursori, impossibilitati a giungere ad altro se non all’utopia, poiché appartenenti ad epoche non ancora pronte per la rivoluzione. I secondi, invece, sono considerati «creatori di ostacoli» 71, poiché ancora legati ad una prospettiva che non ha più ragione d’essere. «Per fortuna» dice ironicamente Buber «basta definirli utopisti per renderli inoffensivi» 72. La proposta che viene offerta nelle pagine successive si discosta diametralmente dalla prospettiva marxista, guardando all’utopia non come ad un’illusione infantile, ma ad un vero desiderio, una tensione che guida l’uomo verso il giusto. Per questo, l’autore definisce l’utopia come «visione del giusto nell’idea» che «si compie in uno spazio perfetto» 73. Accanto ad essa, si può rintracciare «la visione del giusto nella rivelazione» che «si compie nell’immagine di un tempo perfetto» 74, cioè l’escatologia messianica. L’originalità sta nel tematizzare il rapporto che intercorre fra utopia ed escatologia: entrambe categorie enucleate attorno Ibid., p. 47. Ibid., p. 46. 72 Ibid. 73 Ibid., p. 49. 74 Ibid. Si veda anche G. Morra, Utopia e regno di Dio secondo Martin Buber, cit., in AA. VV., La filosofia del dialogo da Buber a Lévinas, cit., pp. 219-222. 70 71
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al giusto, l’una dipende dalle scelte degli uomini, l’altra dalla salvezza che Dio concede dall’alto. Entrambe, pur mostrando all’umanità «la perfezione nell’intensità luminosa dell’assoluto» 75, risvegliano il rapporto critico che lega l’uomo a quel presente che la modernità ha esigenza di recuperare. L’età dell’Illuminismo ha gettato confusione fra questi due termini, rovesciando l’escatologia a favore dell’utopia. Vi sono due differenti forme di escatologia messianica che, all’indomani della Rivoluzione francese, si convertono in due differenti forme di utopia: da una parte l’escatologia profetica, che lega la redenzione alle azioni del singolo, dall’altra l’escatologia apocalittica, per cui il processo di redenzione è prefissato in maniera necessitante. Questa seconda prospettiva genera il marxismo, che si radica nella fede hegeliana nel destino della storia, dando luogo ad un’utopia postrivoluzionaria. Buber richiama invece l’utopia prerivoluzionaria dei primi socialisti 76. L’incontro con Saint-Simon e Fourier, i due pensatori che precedono lo strutturarsi del capitalismo, nonché il dialogo che l’autore instaura con Owen e Proudhon, i quali elaborano il loro pensiero alla luce di strutture economiche più definite, permette di dare forza alle premesse del testo. Infine, vengono presentati Kropotkin e l’amico Landauer, gli eredi di quel socialismo utopistico entro il quale si inserirà lo stesso Buber. Accanto ai grandi pensatori, egli cita anche alcuni esperimenti che hanno tentato di dare concretezza a queste prospettive, come i tentativi cooperativistici di fine Ottocento, naufragati nell’eccessivo isolamento 77, lo sforzo di rinnovamento societario di Marx e, dopo di lui, quello di Lenin. Tutti incapaci di restaurare il giusto spazio di cooperazione necessario all’uomo tutti disadatti a portare a compimento il processo di ristrutturazione socieM. Buber, Sentieri in Utopia. Sulla comunità, cit., p. 49. Gianfranco Morra sottolinea come l’uomo marxiano possa essere definito post-rivoluzionario poiché il marxismo stesso privilegia il mutamento delle strutture; viceversa, il primo posto che il socialismo assegna alla metafisica interiore, conduce all’uomo pre-rivoluzionario, cioè all’autentica persona della rivoluzione. Inoltre, prosegue Morra, il marxismo lega l’uomo ad una visione apocalittica e necessitante, escludendo così la libertà, che il socialismo è in grado di preservare, poiché vede in essa il motore di quelle libere scelte e libere associazioni che sono prodromo necessario alla rivoluzione: questo conduce altresì a vedere nel marxismo un esito dittatoriale, a fronte delle organizzazioni socialiste che sono realmente in grado di superare l’ingiustizia sociale rifiutando sia l’individualismo che il collettivismo. Infine, il socialismo è l’unico che permette di fuoriuscire da un contesto nazionale, mostrando un valore all’altezza dell’intera umanità. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a G. Morra, Utopia e regno di Dio secondo Martin Buber, cit., in AA. VV., La filosofia del dialogo da Buber a Lévinas, cit., pp. 223-228. 77 M. Buber, Sentieri in Utopia. Sulla comunità, cit., p. 128. 75 76
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taria che il capitalismo ha reso indispensabile. Per ultimo, viene proposto l’unico esperimento che può dirsi riuscito, cioè «il villaggio cooperativo ebraico in Palestina» 78. Le ragioni della riuscita del tentativo sono molteplici: il mancato isolamento delle comunità palestinesi, la spinta interna alla cooperazione, lo spirito dei membri fondatori che, scossi da una crisi storica ed esterna, reagiscono internamente, lasciandosi indirizzare da un motivo ideale senza esserne comunque schiavi. Qui, Buber descrive il dualismo nuovo che nasce in seno al mondo socialista. Egli critica la modernità in tutte le forme associabili al capitalismo: individualismo e collettivismo sono da lui considerati errori provenienti dallo stesso fronte ideologico. Di conseguenza, il socialismo è una buona prospettiva da recuperare, ma non in toto. Viene lasciata da parte la componente marxista, a favore di un socialismo prerivoluzionario, che porti l’uomo moderno ad essere sospinto verso la salvezza che, sempre e solo sulla base delle azioni dell’uomo, può giungere dall’alto. Il socialismo è così duplice: uno dei due poli è individuabile «con il potente nome di Mosca», mentre «l’altro polo oso malgrado tutto chiamarlo Gerusalemme» 79. La crisi dell’uomo occidentale merita una risposta seria e responsabile, che faccia riferimento a ciò che l’umanità può nel profondo. Viene ripresa, in queste righe, la prospettiva già problematizzata in Distanza originaria e relazione: l’uomo, a differenza degli altri animali nel mondo, guarda a coloro che lo circondano come ad un’alterità. Per questo può entrare in relazione, può incontrare l’altro: È così che l’uomo, già dall’inizio e poi sempre più, ha considerato gli altri come esseri autonomi rispetto a sé, e così si è inteso con loro, ha rivolto loro la parola e ha lasciato che gliela rivolgessero 80.
Prima all’interno dei singoli clan, poi attraverso il rapporto di più gruppi sociali fra loro, la società umana si è sviluppata non solo su basi funzionali o di responsabilità condivisa, ma anche grazie al riconoscimento reciproco, individuale e collettivo. Nella modernità all’uomo è stato chiesto di conoscersi, di vivere, di essere singolo. Si è persa «la vita fra uomo e uomo» al punto che, ora e sempre più:
Ibid., p. 185. Ibid., p. 194. 80 Ibid., p. 196. 78 79
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I legami autonomi diventano insignificanti, i rapporti personali si inaridiscono e perfino lo spirito diventa un funzionario. La persona umana si trasforma in un membro vivo di un organismo comunitario in un ingranaggio della macchina collettiva 81.
L’uomo moderno, disperso in questo fluido vivere l’uno accanto all’altro senza stare realmente insieme, non si riconosce più. La speranza originaria di tutta l’umanità anela invece ad una vera comunità, basata sulla relazione tra i suoi membri. Ogni comunità, infatti, che non si fonda su una vera vita insieme sarebbe fittizia e crollerebbe dinnanzi alle difficoltà: La comunità è la disposizione interiore che conosce ed accetta il “conto” insufficiente, il “caso” avverso, la preoccupazione improvvisa. È comunanza di bisogno ed è, a partire da qui, comunanza di spirito; è comunanza della fatica e dunque comunanza della salvezza. Anche la comunità che chiama lo spirito il suo Signore e chiama la salvezza la sua promessa –la comunità religiosa- è comunità solo se serve il suo Signore nella realtà non scelta, non esaltante, ma semplice, una realtà che non ha voluto per sé ma che piuttosto le è stata inviata, è comunità solo se attraverso il groviglio di spine di questa ora impraticabile apre la via alla sua promessa. Certo quel che conta non sono le opere, ma l’opera della fede. Sarà allora davvero comunità di fede solo quando sarà comunità di opera 82.
In conclusione, è possibile affermare che anche in Sentieri in utopia Buber grida forte e chiaro il suo appello. L’uomo, che è davvero uomo solo nel contesto relazionale, ha bisogno di ritrovare l’altro per poter uscire dalla crisi che attanaglia la modernità, causata dalla sovrabbondanza del mondo dell’esso che ha leso la possibilità dell’accadimento della parola fondamentale io-tu. Nelle opere della maturità tale rapporto viene sempre più raccontato come relazione mai esclusiva di un singolo io o di un singolo tu, quanto piuttosto afferente ad una dimensione comunitaria: «Buber introduce, quasi di controbalzo, la “categoria del tra”» 83, cioè inserisce la parola io-tu in un contesto relazionale sempre più ampio. Come in un sillogismo l’uomo si scopre bisognoso di relazione e capace di trovare tale reciprocità entro il contesto comunitario: di conseguenza, l’uomo Ibid., p. 198. Ibid., p. 201. 83 F. Riva, Il mito della relazione. Buber, Marcel, Lévinas, Derrida, cit., in AA. VV., Il mito della relazione, cit., p. 113. 81 82
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ha bisogno della comunità. Ogni aggregazione sociale, affinché l’umanità possa autenticamente riconoscervisi, ha bisogno di un centro, strutturato a raggiera attorno al polo pulsante che è Dio. Nella conclusione dell’opera, tutta la strada che l’autore ha camminato rispetto alla considerazione del divino, emerge in sole quattro densissime righe. Ormai distante dal misticismo giovanile afferma che, sebbene alcuni abbiano creduto di doversi allontanare dalle relazioni mondane per trovare la fede, è proprio Dio a non volere che l’uomo sia solo con lui. È Dio che, nel suo amore, ha disposto l’uomo accanto ad altri e capace di relarsi agli altri: «Al di là della santa impotenza della solitudine sorse l’ordine fraterno. Alla fine, superando la sfera di Benedetto, Francesco strinse l’alleanza con tutte le creature» 84. Quello di Buber è un grido di fiducia nei confronti della rinascita della comunità, nei confronti del valore delle relazioni. Ma il suo è anche un appello: la società non può più essere restaurata, ma si deve lavorare per far rinascere quello spirito comunitario che permetterebbe di trasformare le sorti del genere umano 85.
84 M. Buber, Sentieri in Utopia. Sulla comunità, cit., p. 201. Buber sta ponendo a confronto la testimonianza di S. Benedetto e di S. Francesco d’Assisi, da cui nascono rispettivamente l’ordine benedettino e l’ordine francescano. La differenza cui si fa riferimento è il fatto che, laddove Benedetto promuove una Regola che porta il discepolo a chiudersi nel mondo circoscritto del monastero distaccandosi dal mondo e giungendo a Dio, S. Francesco si mette in cammino nel e per il mondo, aprendosi ad una prospettiva di continuo incontro con ogni creatura terrestre. Alla locuzione latina ora et labora (prega e lavora), tipicamente associata all’ordine benedettino, si contrappone il Cantico delle creature con cui i francescani dimostrano una sensibilità aperta verso il mondo. C’è chiaramente da sottolineare come le due regole nascano in contesti differenti: quella di S. Benedetto nasce nel 530 d. C., in un periodo di forti contrasti, in cui il monastero diventa il luogo chiuso di pace dinnanzi al caso del mondo; quella di S. Francesco, invece, è del 1223, in un momento storico in cui ci si apre a viaggi e nuove scoperte. Entrambe le regole, inoltre, hanno un obiettivo univoco, cioè quello di offrire una modalità con cui l’uomo può avvicinarsi a Dio. Buber, citando i due santi, non fa chiaramente riferimento né alla dimensione storica né al comune obiettivo degli ordini, ma alla direzione assunta dalle Regole: la sua relazione con la religiosità lo ha portato a sperimentare prima un momento di misticismo, in cui la direzione era rivolta verso l’interno, così come avviene tra i discepoli di S. Benedetto (che pur raggiungono un Dio trascendente, ma comunque passando per un ritiro in sé stessi); ora, totalmente aperto ad una prospettiva di trascendenza, dà credito a quella che è la proposta di Francesco, che aprendosi alle creature si avvicina anche a Dio, così come afferma Buber nella sua prospettiva dialogica. 85 Ibid., p. 203.
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7. Martin Buber: maestro di dialogo Gli ultimi anni della vita di Buber sono segnati dal moltiplicarsi di soddisfazioni e riconoscimenti. Nel 1960 viene nominato presidente dell’Accademia Israeliana delle scienze e delle lettere e, nel 1961, è eletto parte dell’American Accademy of the Arts and Sciences 86. Per quanto riguarda invece le pubblicazioni, egli porta a termine il lavoro di traduzione della Bibbia. Progetto nato grazie alla collaborazione dell’amico Rosenzweig, viene portato a termine quasi in completa autonomia, sino al 1962, quando la pubblicazione del volume finale, gli Agiografi, gli permette di inserire nella sua già estesa bibliografia anche la completa traduzione tedesca della Bibbia ebraica. Nei tre anni successivi Lambert Schneider pubblica più di una raccolta delle sue opere, ritenendo meritevoli non solo i testi spiccatamente filosofici, ma anche gli scritti religiosi, sia afferenti all’ambito biblico che riguardanti la prospettiva chassidica. Nel 1963 l’editore Paul Schlipp pubblica per la serie La biblioteca dei filosofi viventi un volume contenente alcuni saggi critici sul pensiero di Buber: un’opera alla quale collaborano più di ventinove scrittori e pensatori dell’epoca, tra cui Gabriel Marcel 87, Emmanuel Lévinas, Emil Brunner e Robert Welsch. Sempre nello stesso anno riceve il premio Erasmo 88, in occasione del quale tiene un discorso che passa alla storia con il nome di Credere all’umanesimo. Il testo recupera le categorie prese in considerazione negli ultimi P. Vermes, Op. cit., p. 183. L’incontro tra il lavoro di Buber e la proposta di Marcel produce fertili frutti, che Lévinas sintetizza all’interno del saggio Martin Buber da lui inserito nella raccolta Hors Sujet, recuperando le parole del professor Schwartz dell’università di Bar-Ilan di Israele. Dice Lévinas che tra i due autori esiste una profonda risonanza di temi fondamentali, come nel caso della centralità della relazione io-tu, la presenza di un Tu eterno a cui non è possibile rivolgersi in maniera oggettivizzante: in sintesi, entrambi i due autori offrono un ripensamento dell’umano che escluda tanto la solitudine solipsistica quanto la dispersione nella massa dell’indistinta società. Vicini, dice ancora Lévinas, alla filosofia dell’esistenza, contestano l’assolutizzazione dell’atto intellettuale a favore del recupero del valore fondante dell’atto spirituale: «La filosofia che afferma l’originalità dell’Io-Tu induce a pensare che la socialità sia irriducibile all’esperienza della socialità [...] Slancio dis-interessato, il cui senso assumerebbe significato nell’orizzonte di un pensiero assolutamente (di)retto; la riflessione riuscirebbe ad individuarne solo una traccia ambigua», in E. Lévinas, Martin Buber, in Id., Fuori dal soggetto, cit., p. 28. 88 Il premio Erasmo [Erasmusprijs] è un riconoscimento annuale intitolato al filosofo olandese Erasmo da Rotterdam, istituito il 23 giugno 1958 dal principe Bernardo dei Paesi Bassi ed assegnato dalla fondazione olandese Praemium Erasmianum, a personalità o ad istituzioni che si sono distinte per il loro contributo nel campo dell’arte o delle scienze sociali. 86 87
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anni, quelle «della relazione, dell’incontro e della Presenza divina» 89, in particolar modo relate alle nuove minacce della contemporaneità, quali la diffusione sregolata della tecnologia e l’implementazione dell’utilizzo del nucleare. Nel 1964 gli viene assegnata la medaglia Albert Schweitzer, in onore dei tanti insegnamenti legati al grande valore da lui attribuito alla vita umana. Egli stesso si dedica in questi anni ad un’ampia riorganizzazione delle proprie opere, selezionando quelle ritenute più significative e dividendole in tre volumi, pubblicati da Kösel e Lambert Schneider a cavallo fra il 1962 e il 1964. Il primo, dal titolo Werke: I. Schriften zur Philosophie 90, comprende le opere a carattere spiccatamente filosofico. La seconda raccolta, Werke: II. Schriften zur Bibel 91, riguarda gli scritti biblici; la terza, infine, chiamata Werke: III. Schriften zur Chassidismus 92, tiene assieme tutte le opere dedicate alla cultura chassidica. Se la selezione dei testi, dalla quale vengono principalmente escluse le prime produzioni, rimarca la svolta visibile nel procedere dalla fase giovanile a quella matura, le tre categorie impiegate per suddividere le opere evidenziano la coerenza interna di questa prospettiva. Come in gioventù Buber alimenta in parallelo gli studi filosofici e l’attivismo socio-politico, così all’età di ottanta anni inserisce in Werke I sia testi a carattere spiccatamente filosofico sia opere che inneggiano alla necessità di applicare la prospettiva dialogica al mondo. Tanto nei primi anni della formazione quanto negli ultimi anni di vita, egli pone al centro del suo pensiero la dimensione religiosa, nata come fascinazione teosofica, corroborata dal chassidismo cui sono dedicate le opere di Werke III e infine giunta alla prospettiva teologica, sostenuta dall’attività di esegesi biblica da cui nascono i testi contenuti in Werke II. Afferma di non essere un filosofo, né un teologo e tantomeno un chassid: leggendo con attenzione le sue opere, si può forse affermare che egli è tanto un filosofo, quanto un teologo e amante della cultura chassidica. Egli, senza alcun dubbio, ricopre ognuno di questi ruoli, pur sempre attraverso atteggiamenti originali e non ortodossi. Martin Buber è una maestro che parla al suo popolo non per insegnare ma per educere,
P. Vermes, Op. cit, p. 183. M. Buber, Werke: I. Schriften zur Philosophie, Lambert Schneider, Heidelberg 1962. 91 M. Buber, Werke: II. Schriften zur Bibel, Lambert Schneider, Heidelberg 1964. 92 M. Buber, Werke: III. Schriften zur Chassidismus, Lambert Schneider, Heidelberg 1963. 89 90
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migrazione in palestina
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per trarre fuori da ogni uomo la sua parte più umana 93. Ogni esperienza che compie diventa motivo di riflessione, ogni nuovo incontro è occasione di un nuovo dialogo; le suggestioni filosofiche, le convinzioni politiche e le scelte religiose confluiscono in unicum, mostrando la necessità di tornare a pronunciare la parola io-tu. A seguito di una brutta caduta muore a Gerusalemme il 13 giugno 1965, avendo prima lasciato il compito ai postumi di incidere sulla sua lapide alcune parole del Salmo 73, che recitano «Tuttavia, io sono sempre con te» (Sal 73, 23) 94. Nella raccolta Die Schriften über Das dialogische Prinzip, l’autore inserisce una breve postfazione, dal titolo Per la storia del principio dialogico 95. Oltre a toccare brevemente tutti gli autori che hanno riconosciuto la dimensione fondamentale della relazione io-tu, partendo da Feuerbach, passando per Kierkegaard e per Cohen, nominando l’amico Rosenzweig e il cattolico Ebner, egli conclude inserendo il suo stesso pensiero all’interno della prospettiva dialogica. Le parole con cui il saggio si apre diventano un inno all’umanità, capace di diventare autenticamente tale poiché capace dell’ingresso in relazione. Parole che racchiudono in sé molta della ricchezza del pensiero di Buber: In ogni tempo si è presentito che l’essenziale relazione reciproca tra due esseri ha il significato di una chance primordiale dell’essere, una chance che fa la sua apparizione per il fatto che c’è l’uomo. E si è sempre presentito che proprio entrando nella relazione essenziale l’uomo si manifesta come uomo, che solo con questo e
93 La definizione di Buber quale Zaddiq viene proposta da Clara Levi Coen in C.L. Coen, Martin Buber, cit., riecheggiando quanto Pamela Vermes ha già espresso in P. Vermes, Op. cit. 94 Nella Nachlese l’autore reinserisce un passo composto nel 1927, riassuntivo della sua concezione della morte: «Non sappiamo nulla della morte, nulla tranne il fatto che moriremo. Ma che significa morire? Non lo sappiamo. È perciò giusto accoglierla come la fine di tutto ciò che possiamo immaginare. Desiderare di proiettare la nostra immaginazione al di là della morte, anticipare nella nostra mente quanto solo la morte può rivelarci al suo comparire mi pare una mancanza di fede mascherata da fede. La vera fede dice: non so nulla della morte, ma so che Dio è eterno, e so inoltre che egli è il mio Dio. Se quanto è da noi conosciuto come il tempo continui al di là della nostra morte, diviene del tutto privo di importanza rispetto a questa conoscenza che noi siamo di Dio, il quale non è immortale, bensì eterno. Invece di immaginarci come esseri vivi nonostante la morte, desideriamo preparaci per una morte reale, che rappresenta forse la fine del tempo, ma che, se è così, è certamente la soglia dell’eternità». In M. Buber, Nachlese, Lambert Schneider, Heidelberg 1965. 95 Id., Postfazione, cit., pp. 319-332.
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per questo egli raggiunge quella valida partecipazione all’essere che è stata tenuta in serbo per lui, che quindi il dire tu dell’io è all’origine di ogni singolo divenir uomo 96.
96 Ibid., p. 319. Buber, nella Postfazione, offre una parabola comprendente tantissimi autori legati alla prospettiva dialogica. Nelle prime pagine vengono annoverati coloro che danno origine a questa forma di pensiero: primo fra tutti Friedrich Heinrich Jacobi (17431819), un filosofo tedesco che influenza il pensiero di Feuerbach e, a seguire, di Kierkegaard. Nella loro proposta si trova quel nucleo embrionale che, settanta anni dopo, viene ripreso prima dal neokantiano Cohen (1842-1918) e successivamente da Rosenzweig ed Ebner, che entrano a pieno titolo, accanto allo stesso Buber, nel novero dei pensatori della filosofia dialogica. Questa nicchia di pensiero arriva ad essere abitata da numeri autori, citati brevemente nelle ultime pagine della sua Postfazione. Due sono pensatori protestanti: Hans Ehrenberg (1883-1958), filosofo tedesco, e Eugen Rosenstock (1888-1973), uno storico del diritto e sociologo tedesco che, a detta di Buber, influenza lo stesso Rosenzweig nella composizione della Stella. Sempre all’interno dell’ambiente protestante viene ricordato Friedrich Gogarten (1887-1967), che «intende la storia come “l’incontro del tu ed io”» (Ibid., p. 125) sia nell’opera Credo nel Dio uno e Trino che in Fede e realtà. A Karl Heim (18741958), teologo tedesco, viene tributato il tentativo di sistematizzare il pensiero dialogico non come «elemento costituivo del protestantesimo» (Ibid., p. 326) ma come prospettiva teologico-filosofica più ampiamente valida, prospettiva che Buber riscontra anche nelle opere di Emil Brunner (1889-1966), un teologo svizzero. Tra le fila del cattolicesimo non manca il richiamo a Gabriel Marcel, su cui l’influenza dello stesso Buber è certamente accreditata e, tra coloro che guardano al rapporto io-tu al di fuori dell’impianto teologico, Buber cita Theodor Litt (1880-1962), filosofo e pedagogo tedesco, e Karl Löwith (1897-1973) filosofo e storico della filosofia sempre afferente all’area tedesca, Eberhard Griesebach (1880-1945) che grazie anche alla vicinanza con Gogarten e Karl Barth (1886-1968, è un altro fra gli autori citati da Buber in Postfazione, per approfondire l’argomento si veda E. Brinkschmidt, Martin Buber und Karl Barth: Theologie zwischen Dialogik und Dialectik, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 2000) lavora sulle suggestioni lanciate da Ich und Du, e Karl Jaspers (1883-1969), filosofo e psichiatra tedesco.
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Conclusione
La filosofia dialogica, di cui il pensiero buberiano si erge a testimonianza, acquista una specifica posizione all’interno della storia dell’essere. All’indomani della lezione cartesiana le espressioni filosofiche moderne si canalizzano in strutture di pensiero fedeli al modello scientifico-matematico, tipico dei secoli xviii e xix 1. Come un fiume in piena questa prospettiva sfocia nell’idealismo tedesco, ove Hegel trasforma la svolta kantiana in una nuova concezione ontologica: quella del «Tutto nello spazio concluso della chiarezza [Helle] dello spirito» 2, che include non solo la storia del pensiero ma anche la dimensione religiosa, poiché la filosofia diventa un unicum capace di racchiudere ogni dimensione. Dopo Hegel, passando per Kierkegaard e Feuerbach, Marx e Schelling, i contorni dei grandi sistemi idealistici cominciano a sfumare sino al sorgere dello storicismo, che scompone quell’unità della conoscenza annunciata con tanta forza nel secolo precedente a favore di una ricerca pluralistica. In Dilthey la relativizzazione di ogni manifestazione storica prepara il terreno per una resurrezione della questione dell’essere 3. La crisi del pensiero occiB. Casper, Op. cit., p. 350. Si pensi, in questo senso, all’idea di scientia universalis e della conseguente lingua universalis rationalis di Leibnitz: una prospettiva che deriva dall’idea di mathesis universalis di Descartes e dalla prospettiva del cogito. Un discorso analogo potrebbe essere proposto per la prospettiva di Berkeley e all’epocale concezione kantiana dell’essere come manifestazione. 2 Ibid. 3 Ibid., p. 352. In queste pagine, ripercorrendo i momenti della storia del pensiero che portano alla nascita della filosofia dialogica, Casper afferma che il primo a porre nuovamente la domanda sull’essere è l’Heidegger di Essere e tempo che, scavalcando la domanda sull’ente, riporta in auge la prospettiva ontologica. Poche pagine dopo l’autore afferma ancora che la risposta della filosofia dialogica, per cui «l’essere è linguaggio che accade», si 1
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conclusione
dentale, sorta in seno all’idealismo e affiancata dalla filosofia della vita, crea un’intersezione, dove unità e molteplicità sono in reciproca tensione, permettendo il venire in chiaro di una nuova domanda sul senso dell’ontologia. La filosofia dialogica nasce in questo cuneo come spontaneo tentativo di dare risposta alla domanda del suo tempo, ritrovando un essere non più atemporalmente presente, ma capace di accadere nel linguaggio, bisognoso tanto del tempo quanto dell’Altro: Questa nuova concezione dell’essere [...] include la concezione ontologica vecchia, atemporale, che dà vita al fondamento delle scienze naturali matematico-fisiche. Essa non nega la grandezza di questa concezione ontologica tardo-occidentale e moderna, ma di fronte ad essa rivela semplicemente come una verità ancora maggiore, più vasta, che contiene senz’altro in sé la concezione dell’essere che ha plasmato la civiltà della tecnica 4.
In questo si nota la grandezza della filosofia dialogica che, rileggendo la vecchia ontologia in un orizzonte nuovo e più ampio, ne rivela la piena verità. Una nuova strada per l’essere e una nuova prospettiva entro cui rileggere il divino, poiché l’essere che si temporalizza nel linguaggio è esplicitamente concepito come rivelazione 5. Buber, su questo punto, si mostra assai originale e partendo dall’essere che si rivela nel linguaggio afferma che ogni singolo evento può essere una rivelazione, avvicinando l’uomo alla salvezza.
accorda con l’orizzonte heideggeriano, sebbene nella dialogica venga data espressione alla temporalità dell’essere che, in Heidegger, viene presa in considerazione solo nelle ultime opere. In altre parole, nella concezione ontologica dei pensatori dialogici «viene data uguale espressione sia all’avere bisogno del tempo che all’avere bisogno dell’Altro, mentre nel progetto di ontologia fondamentale heideggeriano l’aver bisogno dell’Altro in quanto Altro resta escluso», in Ibid., p. 354. 4 Ibid. 5 La prospettiva è presente in tutti e tre fondatori della filosofia dialogica, quindi Rosenzweig, Ebner e Buber; questo, continua, è di grande interesse per la filosofia cristiana della religione: dopo secoli in cui la pensabilità della rivelazione non è stata affatto tema di discussione, in epoca moderna diventa motivo su cui giocare la controversia tra fede e ragione: «Alla concezione ontologica dell’epoca modera, in fondo, la rivelazione non serve più a nulla», in Ibid, p. 364. Nella dialogica diventa evidente come l’essere, per venir pensato nel linguaggio, ha bisogno della rivelazione, che è pura temporalizzazione dell’essere. La ragione e la rivelazione, così, non sono più in conflitto, ma si rimandano a vicenda. Si veda anche L. Wachinger, Der Glaubensbegriff Martin Bubers, Max Hueber Verlag, München 1970.
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conclusione
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Che un evento storico abbia un tale importantissimo significato [...] può essere riconosciuto soltanto nella misura in cui il singolo e le singole umanità incontrano realmente questo evento 6.
Questa ultima considerazione permette di chiudere il cerchio che, partendo dal significato della filosofia dialogica in genere, entra sempre più nella specificità buberiana, cioè l’incontro, il dialogo, la parola fondamentale io-tu. Un punto sul quale si impernia tanto la sua originalità, quanto le principali critiche a lui rivolte. Come afferma Franco Riva, il paradosso dell’apriori della relazione sta nel fatto che Buber trasforma l’accidente in principio: l’incontro, fin ora considerato una possibilità tra le possibilità, diventa l’unica scelta ammissibile. Di conseguenza, il pensiero di Buber non è ascrivibile né al mero ambito ontologico e nemmeno alla sola prospettiva teologica: egli offre «la possibilità di pensare in quanto tale il rapporto dell’uomo con l’uomo» assegnando a ciò che è più effimero «l’apertura del mondo umano che non comincia prima del suo stesso inizio. [...] L’Io e il Tu portano oltre i generi e oltre la specie, rompono con le logiche della continuità e dell’osmosi, delle sintesi e della totalità, che trattano pur sempre le differenze come variazioni dell’identico appartenere» 7. La relazione occupa il posto centrale della produzione buberiana a partire dal 1923, anno in cui viene data alla stampa la prima edizione di Ich und Du. Il pensiero dell’autore compie in questo momento una svolta dalla prospettiva giovanile, definibile come predialogica, e la fase dialogica in senso stretto. Dal 1923, infatti, l’abbandono della mistica teosofica a favore della teologia biblica e il passaggio dall’immanenza alla trascendenza conducono Buber ad escludere la fondazione sul sé, mutuata dalla lezione diltheyana, radicando la sua prospettiva sul tra, sull’incontro, sulla relazione. L’importante cambio di prospettiva non porta tuttavia a rescindere ogni contatto con il passato: le suggestioni che, da più direzioni, hanno formato l’autore confluiscono senza dubbio in Ich und Du così come nell’intera produzione dialogica, rendendola figlia di una saldo dialogo tra la prospettiva religiosa, la dimensione politica e la struttura più propriamente filosofica. Come afferma Bernhard Casper: 6 B. Casper, Op. cit., p. 366. Si veda anche V. Citterich, Conversazione con il più grande filosofo ebreo contemporaneo. Martin Buber, l’uomo del dialogo, in «Giornale del mattino», 30 settembre 1960, p. 3. 7 F. Riva, Il mito della relazione. Buber, Marcel, Lévinas, Derrida, cit., in AA. VV., Il mito della relazione, cit., pp. 209-210.
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conclusione
Ich und Du non è stato affatto un inizio, l’embrione dal quale sia possibile cogliere il pensiero dialogico nella sua purezza [...]. La nota opera di Buber è piuttosto una conclusione, un frutto già maturo 8.
Buber accoglie e raccoglie ogni esperienza, strutturando un solido bagaglio esperienziale, fondamento di ogni idea, proposta e opera. Nel primo capitolo di questo lavoro si è accennato al fatto che finanche alcune esperienze infantili potessero aver influito sul suo pensiero. In questo senso l’amore per la parola della nonna, Adele Buber, accanto all’attenzione alla formazione culturale del nonno, Salomon Buber, sono gli embrioni di quella passione che Martin svilupperà nei confronti della cultura e del dialogo. Il dolore provato per l’abbandono da parte della madre, è il nucleo originario dell’attenzione che Buber mostrerà poi nei confronti dell’incontro. Ancora, la conoscenza dello Zaddiq di Sadgora è scintilla prima del fascino chassidico che segnerà il pensiero giovanile, così come il disagio provato all’ascolto delle preghiere cristiane al Ginnasio di Leopoli emergerà speculativamente nella futura critica alle religioni. Esperienze che non smettono di parlare a Buber e che offrono una prima base su cui, scoperta dopo scoperta, costruisce il suo pensiero. La peculiarità di questo autore è quella di saper dar voce a tali esperienze. Egli fa dei suoi apprendimenti testi, li trasforma in parole, scritte o dette. Buber percorre un sentiero più volte ridisegnato e, nel mentre, condivide con gli uomini che incontra quale tra i percorsi sia il migliore. In Ich und Du vengono indicate due strade, entrambe necessarie alla vita dell’uomo: si tratta delle due parole fondamentali, che riflettono il duplice atteggiamento che è possibile assumere nei confronti del mondo: L’atteggiamento dell’uomo è duplice per la duplicità delle parole fondamentali che egli dice. [...] Una di queste parole fondamentali è la coppia io-tu. L’altra parola fondamentale è la coppia io-esso 9.
La prima parola rappresenta la possibilità di entrare in relazione dialogica con l’alterità, la seconda la capacità tipicamente umana di conoscere il mondo, l’altro, perfino Dio senza incontrarlo, dunque alla stregua di un oggetto. Due atteggiamenti profondamente necessari, profondamente umani e inscindibili l’uno dall’altro. Tuttavia, la modernità è caduta in 8 9
B. Casper, Op. cit.., p. 29. M. Buber, Io e Tu, cit., p. 59.
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conclusione
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una trappola pericolosa che l’ha resa dimentica del valore della relazione. Il mondo dell’esso, ingigantitosi sempre più, ora lede ogni ambito e impedisce la piena realizzazione dell’uomo. Infatti «l’umanità dell’esso [...] non ha nulla a che fare con quell’umanità vitale a cui un uomo rivolge un autentico tu» 10: l’uomo, per essere pienamente tale, ha bisogno della relazione. A ben vedere la grande lezione buberiana è già presente in queste
prima pagine della sua più famosa opera: da ora in avanti questo nucleo tematico verrà approfondito, chiarificato e utilizzato per rileggere le categorie del
moderno, ma non subirà mai variazioni nei suoi assunti di fondo. La relazione è il centro da cui il pensiero buberiano si apre a raggiera, toccando molti dei grandi temi caldi dell’epoca, dalla necessità di non percepirsi come individui ma come esseri capaci di incontrare l’altro, al fallimento delle grandi ideologie del secolo passato, dalla necessità di vivere in pace alla possibilità di ritrovare il rapporto perduto con Dio 11. La relazione non solo diventa la categoria trasversale con cui è possibile rileggere il suo tempo, ma è altresì centro della nuova ontologia che Buber consegna ai suoi lettori. Quando afferma che «in principio è la relazione» 12 offre all’umanità la chance di guardare a sé e all’altro con occhi nuovi. L’incontro non è più opzione secondaria, occasione, non più possibilità, ma fulcro aprioristico capace di rendere l’umanità degna del suo nome. Una nuova visione dell’essere, tale solo in quanto «pura attualità» 13 che conduce ad una nuova accezione della realtà, mai «pensabile per sé, ma sempre e solo come realtà della relazione» 14. Un’originale senso ontologico e una peculiare prospettiva della realtà che conducono, infine, ad una nuova prospettiva sulla stessa esistenza. Se siamo «realmente ciò che siamo [...], uomini vivi» 15 solo attraverso la relazione e se l’incontro è un rapporto che «si svolge» 16, l’esistenza diventa necessariamente partecipazione evenemenziale, cioè adesione allo svolgersi del tra che ontologicamente ci precede. Una prospettiva nuova, talvolta discussa, ma capace di consegnare ai posteri l’occasione di un importante ripensamento. Molti si accorgono della grandezza di Buber, come testimoniano le parole di Ibid., p. 68. L.J. Silberstein, Martin Buber’s Social and Religious Thought. Alienation and the Quest of Meaning, New York University Press, New York 1989. 12 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 72. 13 B. Casper, Op. cit., p. 289. 14 Ibid. 15 Ibid., p. 296. 16 Ibid. 10 11
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conclusione
Emmanuel Lévinas che, in conclusione del saggio Il pensiero di Martin Buber e l’ebraismo contemporaneo, scrive: Buber lascia alla nostra riflessione proprio la ricerca del modo in cui possa comparire una presenza che non è oggettività, né svelamento dell’essere. L’incontro indica una relazione che non viene plasmata nelle forme della coscienza, alla quale si ha la tentazione di ridurre ogni presenza per noi. E non è semplice rifiutare queste forme della coscienza: se determinassero ogni presenza, però, niente altro potrebbe entrare nel nostro mondo. Ora, l’incontro è il caso particolare di una presenza che non è rappresentazione, che è assolutamente diretta, la più diretta che ci sia, la rettitudine stessa, che non può però essere tematizzata. La sfera dell’immanenza può essere infranta, una prossimità irriducibile può sconvolgerne l’ordine: ecco i grandi temi che ci consegna la filosofia di Buber. Poter uscire dal mondo o dall’essere al di là dell’assenza e della presenza che, forse, riconducono alla tematizzazione e all’oggettivizzazione e all’ontologia; e, al di là dell’essere e dell’essente, poter avvicinarsi o essere avvicinati 17.
La relazione quale elemento ontologico aprioristico è altresì il punto dolens della prospettiva filosofica buberiana, spesso fraintesa e mai chiarita fino in fondo dallo stesso autore, come nel caso del complesso saggio Distanza originaria e relazione. La sospetta confusione emerge quando viene messo in luce lo spazio che l’uomo vive fin dal suo ingresso nel mondo e che lo rende differente, in qualche modo separato, dal resto del regno animale. Grazie infatti a tale distanza l’umanità non è immersa nell’ambiente e può dunque scegliere di entrare con esso in relazione. Questo sembra portare con sé un ripensamento della priorità ontologica assegnata al tra in Ich und Du. «Il problema viene sollevato da Marcel, che si concentra di più sui limiti della relazione, e da Lévinas, che focalizza la critica sui suoi contenuti» 18. Le deboli risposte di Buber conducono in seno ad una possibile rilettura del problema che, in qualche modo, lo scavalca: La sentenza di Buber – cioè in principio è la relazione – significa piuttosto che il principio del mondo umano è la relazione stessa, intesa tuttavia non come relazione in sé, come nuova prima categoria, come sostituto o versione aggiornata dell’essere [...], bensì esclusivamente nel senso della relazione io-tu 19.
17 E. Levinas, Il pensiero di Martin Buber e l’ebraismo contemporaneo, cit., in AA. VV., Il mito della relazione, cit., p. 76. 18 Ibid., p. 97. 19 Ibid., p. 99.
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La distanza originaria non lede la dimensione aprioristica della relazione o, meglio, non ne lede il senso: è viceversa ciò che segnala la possibilità dell’uomo di scegliere se entrare in relazione, sottolineando come lui sia l’unico a poter accedere a tale evento che, rendendolo pienamente uomo, si configura come ciò che è ontologicamente apriori. Una dimensione senza pretese totalizzanti ma capace di offrire l’occasione di riscrivere totalmente il destino della modernità 20. L’uomo, secondo questa prospettiva, è colui che ha le facoltà per prendere l’unica decisione autentica, quella che riguarda l’ingresso in relazione: tutto il resto è una scelta apparente che non permette di varcare i confini del mondo dell’esso. Attraverso la categoria della scelta emerge l’ultima grande lezione della filosofia buberiana, quella sulla libertà 21. La modernità vede infatti l’essere liberi come una fatalità: l’uomo, disperso in un ambiente del quale non è schiavo, è perso e privo di fissa dimora. È la patologia della libertà di cui parla Günther Anders, per cui «essere libero significa: essere straniero; non essere tagliato per niente di preciso; trovarsi nell’orizzonte del qualunque» 22. Questo, per Buber, non è che l’arbitrio, cioè l’illusoria convinzione dell’uomo di poter scegliere autenticamente e liberamente entro le contingenze che segnano la vita di ognuno. Viceversa, la vera libertà è quella che si lega indissolubilmente all’unica scelta possibile: l’uomo è veramente libero di decidere quando la sua scelta riguarda l’ingresso in relazione. Decisione, questa, che permette all’umanità di realizzarsi autenticamente dicendo la parola fondamentale io-tu. La libertà in Buber fa coppia con il destino, senza entravi in contraddizione, lascia l’uomo contestualmente libero di scegliere e capace di raggiungere con tale decisione la destinazione che è stata a lui assegnata. Viceversa, «l’uomo che vive nell’arbitrio non crede e non incontra. Non conosce la solidarietà, conosce soltanto il mondo febbrile la fuori e il suo febbrile modo di utilizzarlo» 23. 20 Si veda D. Bourel, Martin Buber. Sentinelle de l’humanité, Albin-Michael, Paris 2015; l’autore descrive Buber come la sentinella capace di denunciare l’arrivo del nemico, inducendo all’azione. 21 M. Buber, Sull’educativo, cit., p. 170. 22 G. Anders, Pathologie de la liberté. Essai sur la non-identification, Esprit, Paris 1937, trad. it., Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Orthotes, Napoli 2015, pp. 78-79. Anders (1902-1992) è un filosofo e scrittore tedesco di origini ebraiche. Studia accanto a Heidegger e Husserl e, all’indomani dell’avvento del nazismo, emigra prima in Francia e poi negli Stati Uniti, per tornare a Vienna dopo il 1950. Grande promotore di pace, in questo saggio esprime un’idea di libertà opposta a quella proposta da Buber. Una libertà sofferta ma sofferente, che non permette all’uomo di indentificarsi proprio perché scevro dall’inclusione aprioristica nel mondo che caratterizza invece la vita degli altri animali. 23 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 99.
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Una prospettiva filosofica nuova, che affonda le sue radici nell’esperienza biografica di Buber per tornare alla vita di ogni uomo, traboccando dal mero ambito filosofico e lambendo gli argini dolenti di un umanità in crisi 24. All’indomani della disgregazione delle tradizionali forme di convivenza sociale il mondo moderno ha dato luogo ad uno star insieme che rende l’incontro impossibile e che lascia l’uomo in una solitudine propria di ogni strato societario, rispetto alla quale l’unica via autentica è quella della relazione. La proposta buberiana, pur pregna di un innegabile valore filosofico, lo costringe ad affermare di non potersi definire filosofo. Il linguaggio utilizzato è quello tipico della filosofia solo perché era l’unico da lui conosciuto 25. Ma l’intento è altro, cioè quello di offrire una soluzione concreta alla crisi dell’uomo moderno e occidentale, da spendere in situazione. Buber non è nemmeno un teologo e tantomeno può essere descritto come mistico, dato l’abbandono della prospettiva teosofica nella fase matura. Non è un biblista o non almeno in senso stretto, nonostante l’abile opera di traduzione della Bibbia ebraica e le numerose opere esegetiche. Non è un sionista tout court, come dimostrano le discrepanze con Herzl, e tantomeno un perfetto chassid. Eppure la sua produzione si colora di numerosi significati filosofici, politici e teologici. Questa tridimensionalità appare particolarmente evidente in opere come Sentieri in utopia, in cui il valore ontologico della relazione diventa scintilla capace di illuminare il senso della nuova comunità, cui Buber si appella fin dalla prima gioventù. Un nuovo stare insieme che sappia guardare alla pace, all’inclusione. Una socialità nuova capace di trasformare le istituzioni da vuoto prodotto del mondo dell’esso ad autentico spazio dell’incontro. Come scrive Gabriel Marcel: «Buber non considera l’altro anzitutto una minaccia [...] ma piuttosto un fratello da capire e al quale appoggiarsi» 26, suggerendo come solo a partire da questa prospettiva sia possibile costruire un modo nuovo di stare insieme. Infine, sempre a partire dalla dimensione relazione, è possibile restaurare anche il rapporto con Dio. Sempre in Sentieri in utopia Buber distingue l’escatologia profetica da quella apocalittica: se in questo ultimo 24 Si veda A.S. Kohanski, Martin Buber’s Philosophy of Interhuman Relation. A response to the Human Problematic of Our Time, Associated University Press, London 1982 e P. Mendes-Flohr (ed.), Martin Buber. A contemporary Perspective, Syracuse University Press and the Israel Academy of Sciences and Humanities, Jerusalem 2002. 25 P. Vermes, Op. cit., p. 5. 26 G. Marcel, L’antropologia filosofica di Martin Buber, cit., in AA. VV., Il mito della relazione, cit., p. 49.
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caso il processo di redenzione è immutabile, fissato fin dal principio, nel primo la redenzione è legata alle azioni del singolo 27. Perché è l’uomo che, ancora una volta, ha tra le sue mani la possibilità di scegliere se entrare o meno in una relazione dialogica che, dalle linee disegnate dai singoli incontri, permette di aprire un varco verso il Tu eterno. Come afferma Pamela Vermes, allorché l’uomo è diventato davvero sé stesso nella relazione con un altro tu, può incontrare Dio 28. Quel Dio che per troppo tempo è stato misconosciuto attraverso le oggettivizzazioni delle religioni e che, ora, può essere riscoperto nell’autentica religiosità, quella della relazione fra l’io e il Tu eterno. L’incontro con Dio è l’unico che non può varcare i confini del mondo dell’esso, l’unico che vive pienamente nella parola fondamentale iotu. «Soltanto nella relazione con Dio» scrive Buber in Ich und Du «l’esclusione incondizionata e l’incondizionata inclusione sono una cosa sola, ove è compreso l’universo» 29. Quello con il Tu eterno si rivela come l’incontro per eccellenza, ineludibile per l’uomo che voglia vivere autenticamente la parola io-tu. La relazione fra persone non può prescindere quella con Dio, l’incontro con Dio chiede l’incontro fra gli uomini, al punto che «la relazione con l’uomo è la parabola autentica della relazione con Dio: in essa l’appello vero riceve vera risposta» 30. Un percorso meravigliosamente circolare che riporta in auge quanto nella modernità sembrava essere perduto per sempre: il mondo, la comunità, l’altro e Dio. Nonché un forte appello che Buber grida ad un’umanità disperata, apparentemente incapace di uscire dalla crisi del suo tempo. Egli indica una precisa direzione capace di coinvolgere la vita nella sua interezza, disegna una strada altra che dà un valore nuovo alla modernità e alle sue ferite. Un sentiero che lui stesso percorre, come una guida, per poi indicarlo al resto dell’umanità. Per questo, se si cerca un’unica parola per descrive il poliedrico Buber, non si può che dare spazio a quella utilizzata da Pamela Vermes, per cui egli è uno Zaddiq, un maestro, il cui intento è «quello di indicare un sentiero da percorrere» 31. La strada tracciata è necessaria alla modernità. Lo sottolinea André Lacoque, rimarcando come nelle parole di questo autore emerga una nuova idea di persona, a partire dalla quale è possibile costruire un linguaggio differente:
M. Buber, Sentieri in utopia. Sulla comunità, cit., p. 51. P. Vermes, Op. cit.., p. 98. 29 M. Buber, Io e Tu, cit., p. 131. 30 Ibid., p. 134. 31 P. Vermes, Op. cit.., p. 8. 27 28
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Noi possiamo e dobbiamo rendere attuale la parola “antica” che gli uomini avevano rigettato in un passato al di là del tempo; se ignoriamo la testimonianza di Buber – e dell’ebraismo – ci ritroviamo di fronte a un’alternativa: o un’umanità di gorilla (gli individui cari a Max Stirner) oppure un’umanità di termiti (care agli stati totalitari politici e religiosi) 32.
La proposta di Martin Buber è l’occasione di rileggere l’umano con-vivere. È la prospettiva dalla quale si può far nuova la modernità, rintracciandovi al suo interno la struttura polare che caratterizza profondamente ogni persona. Il solipsismo si rompe dinnanzi alla parola fondamentale della relazione. Ogni io, posto dinnanzi al tu, si scopre, rintraccia le profondità del suo essere. L’io e il tu si configurano quali poli necessari alla relazione ma bisognosi della stessa. La vita diventa il luogo dell’incontro, lo spazio in cui è dato di poter partecipare all’accadere della relazione. Il soggetto moderno rigetta la sua solitudine, chiede che l’altro possa essere al suo fianco, per poter pronunciare con lui la parola autentica. Un’esigenza che non riguarda solo la contemporaneità buberiana, ma anche il nostro tempo, ancora incapace di superare molti dei problemi cui questo autore tenta di dar soluzione: la società occidentale è ancora fluidificata, persa tra la caduta dei vecchi ideali e l’incapacità di restaurare forme nuove di trascendenza. In molte zone del mondo la guerra lede ancora la vita delle persone e spesso l’odio verso l’altro tracima e intacca la pacifica convivenza fra uomini. L’altro, troppo spesso, è ancora un oggetto, spesso smaterializzato dietro ad un device digitale: raramente visto in quanto uomo o donna, difficilmente viene a lui indirizzata una vera parola. L’uomo contemporaneo, sempre più persuaso di essere il solitario padrone del mondo, è sempre meno capace di esserne autenticamente parte, costruendo al suo interno reti relazionali. Certamente vi sono state alcune voci che, negli ultimi anni, hanno gridato la necessità di costruire in maniera cooperativa una nuovo modo di stare nel mondo, capace di rispettare l’altro, di curare l’ambiente in cui l’altro
32 A. Lacoque, Martin Buber, dall’individuo alla persona, cit., in AA. VV., Il mito della relazione, cit., p. 76. Il riferimento di Lacoque a Stirner rimanda all’idea di un’umanità capace di guardare solo a sé stessa, senza entrare in alcun genere di dimensione relazionale; gli uomini associati alle termiti sono coloro che, incapaci di dare spazio alla vera umanità, si perdono nel collettivismo proprio di ogni stato che impone dall’alto come vivere. Vi è qui un rimando alla critica buberiana di individualismo e collettivismo, lette come facce della medesima medaglia, incapace di creare lo spazio della relazione.
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vive 33, fino a trovare un nuovo senso allo stare insieme. Tuttavia, sembra che l’umanità non abbia ancora realmente scelto di camminare sulla strada che Buber ha indicato. Nell’ultimo anno il mondo intero ha però subito le conseguenze di un evento inaspettato: la pandemia ha portato l’uomo, dal sentirsi padrone del mondo, a scoprirsene inevitabilmente parte, invischiato in meccanismi dai quali è impossibile fuggire, indissolubilmente legato al mondo che lo circonda. Il contesto pandemico e la conseguente rimodulazione degli stili di vita di molti paesi hanno definitivamente mostrato il fallimento della prospettiva moderna. Gli uomini, smarriti ed increduli, hanno provato sulla propria pelle che è la relazione a rendere l’umanità degna del suo nome. Tutti coloro che sono rimasti soli a causa della pandemia hanno sofferto un senso di inautenticità e di insufficienza: chiusi tra le mura domestiche, a nulla sono valsi oggetti e strumenti. Nel momento in cui sono venuti meno i contesti di socializzazione, l’uomo è stato privato anche di ciò che nella relazione può essere guadagnato: la ricchezza dell’incontro, il bene che emerge solo nell’altro 34. Se fino a questo tempo il valore della relazione poteva sembrare un bene fra altri, il suo venir meno potrebbe aver messo l’uomo nella condizione di vendere l’incontro come 33 Si pensi, ad esempio, al movimento di Greta Thunberg, una giovanissima attivista svedese per lo sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico. La proposta della ragazza è emblematica di un mondo in cui le frange giovanili sono più sensibili alle questioni ambientali di quanto non lo siano le generazioni che li precedono. Accanto a questo esempio si trovano numerosissime realtà distribuite in molte parti del mondo che, sempre più, sono attente o al recupero della dimensione dell’altro in quanto persona o alla cura dell’ambiente in quanto casa di tutti. Una sensibilità nuova, nata negli ultimi anni e ancora bisognosa di crescere per portare pienamente frutto. 34 La prospettiva buberiana risulta attuale anche in dialogo con dibattiti propri della contemporaneità, come quello sui beni relazionali, che intreccia in maniera profonda istanze sociologiche, antropologiche, filosofiche e politiche, mettendo in luce come l’esigenza relazionale sia presente anche nei nostri giorni. Come scrive Donati, infatti: «Molti, quando parlano di beni relazionali, pensano ai rapporti umani fatti di simpatia, di buoni sentimenti e motivazioni altruistiche degli individui. Ma i beni relazionali hanno anche un valore economico e politico, così come una valenza morale ed educativa. Sono indicatori del ben-essere di un’intera comunità. A mio avviso, il fatto che tutte queste dimensioni siano compresenti indica che siamo di fronte a delle entità la cui sostanza è complessa, sia in sé stesse, sia nei loro effetti. Certamente si tratta di relazioni sociali umane, perché è nelle loro relazioni sociali che si condensano tutti questi aspetti», in P. Donati, Scoprire i beni relazionali: per generare una nuova socialità, Rubbettino, Catanzaro 2019, p. 15. La proposta di Buber fornisce un importante substrato in termini ontologici al dibattito e concorda nei principali sbocchi socio-antropologici. Per ulteriori approfondimenti sull’argomento, si rimanda a M. Mauss, Essai sur le don, Universitarires de France, Paris 1950 e a J. T. Godbout, Ce qui circule entre nous. Donner, recevoir, rendre, Editions du Seuil, Paris 2007.
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un bisogno fondamentale dell’intera umanità. In questo, emerge l’attualità del pensiero buberiano. L’umanità, all’indomani della pandemia, potrebbe essere forse maggiormente disposta a ricostruire un mondo nuovo, in cui la modalità dell’utilizzo e dell’oggettivizzazione possano cedere il passo alla relazione. Per farlo, tuttavia, ha bisogno che qualcuno gli indichi la direzione da prendere: il futuro è carico di una grande sfida, che potrebbe essere vinta da uomini capaci di seguire la strada che Buber indica in Ich und Du. Nel tempo che ci aspetta l’umanità può dimenticarsi di ciò che ha scoperto e tornare a guardare al mondo come luogo del mero utilizzo, secondo la parola fondamentale io-esso. Oppure, può guardare alla pandemia come ad un contesto di crisi capace di offrici una nuova chance, quella di ritornare a dare spazio al dialogo, alla relazione, all’incontro. Potremmo essere alle soglie della costruzione di un mondo nuovo, in cui dar vita a comunità pacifiche, in cui recuperare il dialogo con Dio, in cui rapportarsi al mondo non più come padroni ma come parte integrante di un ambiente più ampio, in cui guardare all’altro come ad una persona. Buber ha il merito di aver disegnato una strada, ora a noi sta il compito di scegliere se percorrerla.
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Indice dei nomi1
Agostino D’Ippona 123 Alkali Y. 25 Anders G. 153 Aristotele 122, 123 Avnon D. 80 Baal Shem Tov 38, 39, 40, 45, 46, 47, 48 Babolin A. 80 Baccarini E. 164 Bach J.S. 19 Balthasar H.U. 10, 70 Barth K. 146 Beek M.A. 65 Bergmann H. 134 Bergson H. 22, 86 Biemann A.D. 39 Birnbaum N. 25 Bloch J. 8, 88 Bohème J. 9 Bombaci N. 67, 115 Borghesi M. 129 Bourel D. 153 Brinkschmidt E. 146 Brunner E. 143, 146 Bruno G. 21 Buber A. 14, 150 Buber K. 13, 16 Buber S. 14, 150
Casper B. 10, 12, 20, 54, 56, 60, 84, 91, 97, 149 Catanne M. 13 Coen C.L. 41, 52, 80, 95, 108, 11, 145 Cohen H. 49, 58, 130, 145, 146 Cohn J. 13, 68 Citterich V. 149 Curi M.B. 97 Da Cusa N. 9, 43, 56, 165 De Villa M. 9 Descartes R. 7, 115, 147 De Simone A. 103 Dejung B. 107 Di Cesare D. 10, 29, 31, 139 Dilthey W. 20, 21, 22, 38, 46, 51, 52, 56, 59, 70, 83, 132, 147, 149 Donati P. 157 Ebner F. 7, 8, 67, 70, 145, 148, Eckhart M. 30, 84 Ehrenberg H. 146 Fabris A. 10, 97 Fachin L. 30, 31, 34 Falappa F. 101 Feiwel B. 27, 28 Ferrari F. 9, 10, 43, 44, 51, 71, 72, 73, 89, 133
1 In questo indice dei nomi propri sono inclusi tutti gli autori, compresi i curatori e i traduttori.
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170 Feuerbach L. 45, 112, 145, 146, 147 Fourier C. 138, 139 Friedenthal-Hasse M. 136 Friedman M. 9, 13, 20, 44, 56, 58 Gadamer H. 22 Gerner B. 107 Godbout J.T. 157 Goethe J.W. 34, 56, 84, 120, 121 Gogarten F. 116, 146 Goldstein W. 8, 13, 40, 51, 74, 79 Greilsammer I. 25, 26, 119, 135, Griesebach E. 146 Guardini R. 8
indice dei nomi
LaCoque A. 11, 155, 156 Landauer G. 24, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 46, 58, 59, 61, 63, 66, 94, 137, 139 Lassalle F. 19 Lattes D. 39 Leibnitz G.W 56, 147 Lenin V. 139 Lévinas E. 11, 12, 42, 47, 65, 68, 75, 81, 86, 88, 100, 125, 128, 131, 136, 138, 139, 141, 143, 149, 152 Litt T. 146 Löwith K. 146 Luria I. 39
HaAm A. 26 Hallo R. 66 Hart H. 30 Hart J. 30 Hegel G.W.F. 21, 66, 68, 123, 139, 147, Heidegger M. 68, 69, 75, 147, 148, 153 Heim K. 146 Hemmerle K. 97 Herzl T. 19, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 35, 37, 50, 135, 154 Hess M. 25, 26 Hirsch Z. 25 Horowitz R. 71 Husserl E. 153
Magnes J. 134, 135 Mauthner F. 63 Marcel G. 7, 11, 81, 86, 121, 125, 141, 143, 146, 149, 152, Marx K. 138, 139, 140, 147 Mauss M. 157 Mendes-Flohr P. 39, 73, 133, 154 Miano F. 68 Milan G. 107 Moore D.J. 103 Morra G. 128, 138, 139
Jacobi F.H. 146 Jaspers K. 68, 146
Oppenheimer F. 63 Owen R. 138, 139
Kalvarisky C. 134 Kajon I. 10, 82 Kant I. 17, 20, 21, 52, 53, 61, 68, 122, 123, 124, 130, 146, 147 Kantorowicz E. 106 Kierkegaard S. 113, 114, 115, 116, 123, 131, 145, 147 Kohanski A.S. 154 Kohn H. 13 Kropotkin P.A. 30, 139
Pascal B. 129 Piazzesi C. 18 Pinsker L. 26 Poma A. 7, 9, 14, 16, 44, 51, 74, 84, 90, 125, 126 Proudhon P.-J. 30, 139
Nietzsche F. 17, 18, 21, 30, 33, 53, 56, 59, 128, 129,
Quinzio S. 100 Ragona G. 30, 31, 34
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indice dei nomi
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Rosenstock E. 146 Rosenzweig F. 7, 8, 9, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 74, 75, 76, 77, 78, 90, 97, 137, 143, 145, 146, 148
Spinoza B. 42 Stern G. 134 Stirner M. 114, 156 Szold H. 134
Saint-simon H. 138, 139 Schäfer H.R. 63 Schaeder G. 136 Scheler M. 122 Schleiermacher F. 21, 99 Schmitt C. 116 Scholem G. 43, 65, 74, 75, 106, 134 Scopelliti M. 57, 58, 59 Scoto E. 84 Silberstein L.J. 151 Simmel G. 20, 21, 22, 23, 38, 58, 63, 103 Simon E. 134, 138, 139, Smilansky M. 134 Smolenskin P. 26 Sombart W. 63 Sorrentino S. 119, 120 Spengler O. 116 Sperna Weiland J. 65
Theunissen M. 127, 133 Tommaso D’Aquino 93, 123 Tönnies F. 63 Tumminelli A. 20, 21, 28, 29, 39, 43, 45, 103, 115, 120, 126, 134, 137 Valla L. 21 Vermes P. 10, 19, 27, 90, 155 Villers A.V. 133 Wachinger L. 148 Wiesel E. 94 Winker P. 19, 20, 106, 119, 121 Wurgast E. 13 Yehudah E.B. 25, 26 Zucal S. 8, 10, 70, 164
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cultura studium Nuova serie
utimi volumi publicati 224. Andrea Cegolon, Lavoro e pedagogia del lavoro Origine, sviluppo, prospettive 225. Augusto D’Angelo, Andreotti, la Chiesa e la «solidarietà nazionale» 226. Irene Montori, Milton, the Sublime and Dramas of Choice. Figures of Heroic and Literary Virtue 227. Alfredo Luciani, Diplomazia dei valori e sviluppo 228. Nicola Longo, Roma negli scrittori italiani. Da Dante a Palazzeschi. Prefazione di Fabio Pierangeli e Simone Bocchetta 229. Federico Mazzei, Cattolici di opposizione negli anni del fascismo. Alcide De Gasperi e Stefano Jacini fra politica e cultura (1923-1943) 230. Roberto Sani, La Santa Sede e l’emigrazione italiana all’estero tra Otto e Novecento. Tra esigenze pastorali e impegno per la preservazione dell’identità nazionale 231. Anna Maria Casavola, Carabinieri tra resistenza e deportazioni. 7 ottobre 1943 / 4 agosto 1944. Prefazione di Antonio Parisella. Postfazione di Giancarlo Barbonetti 232. Giuseppe Zago (ed.), Le discipline filosofiche e pedagogiche a Padova tra positivismo e umanesimo 233. Stefano Zamagni, Prosperità inclusiva. Saggi di Economia Civile 234. Francesco Magni - Andrea Potestio - Adriana Schiedi - Fabio Togni, Pedagogia generale. Linee attuali di ricerca 235. Samuel Clarke, Discorso sugli obblighi immutabili della religione naturale e sulla verità e la certezza della rivelazione cristiana. A cura di Antonio Sabetta, Postfazione di Giuseppe Lorizio 236. Mario Pati, Hegel e la logica della filosofia. Concetto, realtà, sistema
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237. Angelo R. Dicuonzo, Il limbo della scrittura. Modernità e allegoria in Pedro Páramo di Juan Rulfo 238. Evelina Scaglia (ed.), Una pedagogia dell’ascesa. Giuseppe Lombardo Radice e il suo tempo 239. Salvatore Falzone, L’azione Cattolica Italiana al Concilio Vaticano II. Aspetti storici e prospettive teologiche (1959-1969). Prefazione di Giacomo Canobbio. Presentazione di Francesco Lomanto 240. Michael Konrad, Introduzione all’etica filosofica 241. Massimo Borghesi, Romano Guardini. Dialettica e antropologia 242. Luciano Paglialunga, Chiaroveggente utopia. Thomas More e il suo tempo 243. Enzo Bottacini, Un popolo di testimoni. La dimensione comunitaria della testimonianza. Prefazione di Giuseppe Lorizio 244. Elena Cuomo (ed.), Per le strade della disumanizzazione. Profili filosofico-politici, etici e giuridici 245. Giovanni Amendola, Antropo-logos. La ragione al crocevia di intelligenza artificiale, razionalità scientifica, pensiero filosofico e teologia cristiana. Prefazione di Giuseppe Lorizio. Postfazione di Giovanni Mazzillo 246. A ndrea Porcarelli, Istituzioni di pedagogia sociale e dei servizi alla persona 247. Nunzia D’Antuono , Di scrittura, educazione e senso. Prospettive pedagogiche e civili della narrazione 248. Giulia Tosti, Io e Tu. Il pensiero di Martin Buber
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Stampa: MEDIAGRAF - Noventa Pad. (PD)
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