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scaffale aperto
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Anna Di Somma
METAFISICA E LICHTUNG NEL PENSIERO DI MARTIN HEIDEGGER
ARMANDO EDITORE
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DI SOMMA, Anna Metafisica e Lichtung nel pensiero di Martin Heidegger ; Roma : Armando, © 2017 184 p. ; 20 cm. (Scaffale Aperto) ISBN: 978-88-6992-271-8 1. Heidegger e la metafisica dei Greci 2. Heidegger e la metafisica di Kant 3. Lichtung come relazione uomo/essere CDD 100
© 2017 Armando Armando s.r.l. Piazza della Radio, 14 - 00146 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 21-00-137 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
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Sommario
Capitolo primo Heidegger e la questione metafisica dei Greci La posizione della domanda metafisica – Che cos’è la metafisica? – Parmenide – Eraclito – Platone – Aristotele – Il senso e la funzione dei concetti aurorali della metafisica
7
Capitolo secondo 48 La metafisica come Critica della ragione pura: io e tempo Le scoperte fondamentali della fenomenologia: intenzionalità, intuizione categoriale, a-priori – Heidegger e la metafisica di Kant – Il soggetto e l’oggetto – Immaginazione, sintesi e giudizio – Le tre facoltà dell’animo: intuizione, immaginazione, intelletto – Il tempo: autoaffezione pura e origine della metafisica Capitolo terzo 106 La Lichtung come orizzonte di coappartenenza di esserci, verità ed essere Il pensiero della Kehre: dalla svolta capovolgente di Essere e Tempo all’oltrepassamento della metafisica – Spazio, mondo e Lichtung – La relazione essenziale di uomo e essere: la Lichtung – Lucus a non lucendo – Lichtung e verità. Dalla gnoseologia alla meditazione – Esserci, apertura e verità – La Lichtung tra latenza e apparenza – Nichtung e Lichtung – Costruire, abitare, pensare Conclusione Bibliografia
162 175
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Capitolo primo Heidegger e la questione metafisica dei Greci
Il camminare nella direzione di ciò che è degno di essere domandato non è avventura, ma ritorno in patria. M. Heidegger, Scienza e meditazione La storia dell’essere comincia con l’oblio dell’essere, perché trattiene in sé la propria essenza, La differenza tra essere ed ente. La differenza resta esclusa. È obliata. M. Heidegger, Il detto di Anassimandro
Tutti gli studiosi del pensiero heideggeriano sanno che il vero rompicapo del filosofo tedesco è la questione dell’essere. Nella sua opera più celebre, Essere e Tempo, Heidegger rivendica, infatti, la necessità della questione ontologica; essa deve essere nuovamente posta, ossia re-impostata ripercorrendo le tappe dell’ontologia attraverso un filo conduttore privilegiato: la temporalità dell’esserci. Nonostante il concetto di essere sia considerato come il più generale e vuoto di tutti, secondo il filosofo di Messkirch la tematizzazione del suo senso è ciò che è più degno di essere pensato dall’uomo, benchè l’ontologia, a partire dalle sue origini greche, rechi con sé un carico di «pregiudizi che continuamente suscitano e alimentano la convinzione della non indispensabilità di una ricerca intorno all’essere»1. Questi pregiudizi sono i seguenti: 1
M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2009, § 1, p. 13.
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– l’essere è il concetto più generale di tutti – il concetto di essere è indefinibile – l’essere è un concetto ovvio Nel primo caso l’asserita generalità dell’essere si connette al suo essere un trascendens, un qualcosa che oltrepassa, ma, la cui comprensione è implicita in ogni coglimento dell’ente2. Nel secondo, poi, l’indefinibilità si lega al fatto che l’essere non è un ente; solo l’ente può essere definito tramite quell’apparato concettuale secondo cui la definitio è possibile attraverso l’individuazione del genere prossimo e della differenza specifica3. Infine, l’ovvietà della nozione di essere è riconducibile alla sua comprensibilità immediata, che, però, secondo il filosofo tedesco nasconde un’incomprensione di fondo4. Eppure, l’individuazione dei pregiudizi non è sufficiente a gettare luce sulla questione ontologica che, anzi, deve essere depurata, attraverso l’analisi della sua struttura formale; struttura, quest’ultima, che secondo il pensiero logico ha l’aspetto del circolo vizioso, ma che secondo l’ontologia fondamentale si pone come «ostensione che fa vedere il fondamento»5. Nota è la struttura dell’indagine ontologica, i cui tre elementi sono: «L’essere è il concetto più generale di tutti […] una comprensione dell’essere è già implicita in tutto ciò che uno coglie dell’ente. Ma la generalità dell’essere non è quella del genere […] la generalità dell’essere oltrepassa ogni generalità del tipo dei generi». Ivi, p. 14. 3 «Il concetto di essere è indefinibile. Questo carattere fu dedotto dalla sua estrema generalità. E ciò a buon diritto, se definitio fit per genus proximum et differentiam specificam. Difatti l’essere non può essere concepito come un ente». Ivi, pp. 14-15. 4 «L’essere è un concetto ovvio. In ogni conoscere, in ogni asserzione, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con l’ente, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con noi stessi si fa uso dell’essere, e l’espressione è senz’altro comprensibile […] ma questa comprensione media dimostra soltanto un’incomprensione». Ivi, p. 15. 5 «Nell’impostazione del problema del senso dell’essere non può avere luogo alcun circolo vizioso perché la risposta a questo problema non ha il carattere di una fondazione per deduzione, ma quello di una ostensione che fa vedere il fondamento». Ivi, § 2, p. 20. 2
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il cercato – l’essere – , il ricercato – il senso dell’essere – , l’interrogato – l’esserci6. L’ultimo elemento della struttura formale della ricerca ci interessa in particolar modo, dal momento che è il luogo genetico di ogni possibile questione. L’esserci, dunque, è al centro della tematica dell’essere, poiché è solo a partire dall’esserci che si pone la domanda che chiede del senso dell’essere. L’analitica esistenziale si configura, allora, come un trattato propedeutico all’ontologia fondamentale. Heidegger stesso lo afferma a chiare lettere: «l’analitica dell’esserci così intesa è completamente orientata nel senso del compito conduttore dell’elaborazione del problema dell’essere»7; solo attraverso la delucidazione dell’essere dell’esserci – il tempo – possiamo accostarci alla Seinsfrage. Una meditazione sull’essenza dell’uomo non ha sussistenza autonoma al di fuori della questione dell’essere e della sua verità. Nell’autointerpretazione contenuta in Che cos’è metafisica il filosofo afferma che il pensiero tentato in Essere e Tempo si è «messo in cammino per porre il pensiero su una via per la quale esso pervenga al riferimento della verità dell’essere all’essenza dell’uomo, per aprire al pensare un sentiero, affinché esso pensi espressamente l’essere stesso nella verità. Su questa via, e ciò significa al servizio della questione della verità dell’essere, si rende necessaria una meditazione sull’essenza dell’uomo»8. Dasein è il termine utilizzato dal filosofo in riferimento all’uomo, ed è tradotto in italiano con l’espressione esser-ci. Da-sein non ha, però, semplicemente la funzione di sinonimo, ma permette di cogliere sia il «riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale dell’uomo con l’apertura (il “ci”) dell’essere come tale»9. Il termine che la metafisica classica ha 6 «Ogni posizione di problema è un cercare. Ogni cercare trae la sua direzione preliminare dal cercato […] ogni cercare qualcosa è in qualche modo un interrogare qualcuno. Oltre al cercato, il cercare richiede l’interrogato […] nel cercato si trova dunque, quale vero e proprio oggetto intenzionale della ricerca, il ricercato, ciò che costituisce il termine finale del cercare». Ivi, p. 16. 7 Ivi, § 5, p. 30. 8 Idem, Che cos’è metafisica, Adelphi, Milano 2008, p. 100. 9 Ivi, pp. 100-101.
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impiegato per indicare l’esistenza, la realtà e l’effettività, ha per Heidegger una caratura ontologica ben precisa: il Da-sein è la «località della verità dell’essere»10. Afferma il filosofo che «pensata estaticamente, l’e-sistenza non coincide con l’existentia né per il contenuto né per la forma. In ordine al contenuto, e-sistenza significa stare-fuori nella verità dell’essere. Existentia significa invece actualitas, realtà in contrapposizione alla mera possibilità come idea. E-sistenza nomina la determinazione di ciò che l’uomo è nel destino della verità»11. La centralità dell’esserci nella questione ontologica pone un quesito importante: può un’ontologia fondamentale, quale quella heideggeriana, che fa capo all’uomo come Da-sein, Lichtung della domanda circa l’essere, non essere definita antropologica? Certamente le affermazioni contenute in Lettera sull’umanismo sono nette e precise al riguardo. In questo testo il filosofo tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo pensiero, che anzi si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica. Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende con Heidegger qualcosa di metafisico e di esistenziale. «L’umanismo pensa metafisicamente […] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a principalement l’Etre»12. La tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come è noto, è espressa dal filosofo francese in L’esistenzialismo è un umanismo13. Esulando dai fini di questo lavoro un’analisi del pensiero sartreano e un confronto Ibidem. Idem, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 2008, p. 50. 12 Ivi, p. 61. 13 J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1996, p. 40. Cfr. E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Guida, Napoli 1955. 10 11
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dello stesso con le affermazioni heideggeriane dell’analitica dell’esistenza, possiamo dire solamente che il contesto teorico nel quale Heidegger inserisce il filosofo francese è quello della metafisica dell’umanismo che «non pone l’humanitas dell’uomo ad un livello abbastanza elevato»14. Una metafisica di questo tipo, che pure eleva l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il soggiorno dell’uomo15, la radura-Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando all’autointerpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del suo pensiero è l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad accidente periferico dell’essere? Ovviamente no, perché è solo a partire dalla sua costituzione temporale che l’enigmatico destino dell’essere ha imboccato il sentiero del giorno di cui ci parla Parmenide. Solo ed unicamente perché la ratio umana è una ratio temporale, cioè una ragione anticipante16 – come le analisi di Kant e il problema della metafisica mettono in evidenza – che l’ontologia della παρουσία eleva il presente eterno a struttura portante dell’essere, estromettendo il fluire del divenire e la sua carica di inquietudine, approntando quella particolare strategia di difesa che è la conoscenza. La ragione procede infatti attraverso giudizi di previsione, per dirla con Franchini, che fanno dell’uomo un animale prospettico in due sensi: in primo luogo, nel senso che ogni giudizio è proiezione verso il futuro, verso quella historia rerum gerendarum, che proprio perché non ancora attuata e realizzata, è aperta a possibilità più ampie; in secondo luogo, perché l’ampia gamma di possibilità offerte da un tale modo di giudicare – un modo che non resta irretito nelle res gestae – M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 56. Ivi, p. 90. 16 Sulla costituzione anticipante della ragione umana cfr. U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 344-361. 14 15
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permette un relativismo dei punti di vista che è poi la linfa vitale del pensiero e l’antidoto ad ogni dogmatismo17. Ma se il pensiero di Heidegger non può dirsi umanistico, tanto meno può essere definito inumano; e ciò per lo stesso motivo: l’uomo in quanto ontologicamente e spazio-temporalmente orientato verso il mondo, può svoltare dal sentiero già battuto incamminandosi verso nuove vie, sia pure “poco vistose”. Umano e inumano sono concetti inadeguati per un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia. Queste ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Entrambe sono figlie dell’ε̉πιστήμη, del sapere che ha la forma della teoria del reale. Scienza e filosofia si fondano su due concetti – teoria e realtà – che ci portano dritto all’uomo e al suo modo di avere a che fare con il mondo; un modo che è oggettivante. La questione è al centro di un breve testo – Scienza e meditazione – che, sebbene sintetico, enuncia chiaramente i luoghi teorici più importanti della speculazione heideggeriana. Qui si afferma che per comprendere che cosa implica l’affermazione che la scienza è teoria del reale – comprensione che Heidegger avverte come necessaria dal momento che «nella scienza c’è qualcos’altro che domina, oltre al puro voler-sapere dell’uomo»18– bisogna sottoporre alla dovuta attenzione il senso della realtà e della teoria. E reale è «ciò che si può misurare. Il che vuol dire: quel che decide su che cosa possa valere come conoscenza assicurata per la scienza, in questo caso per la fisica, è la misurabilità posta nella oggettità 17 Sul tema del giudizio prospettico e di previsione cfr. R. Franchini, Teoria della previsione, Giannini, Napoli 1972, pp. 111-165. Raffaello Franchini, storicista crociano del secondo Novecento, elabora una teoria del giudizio storicoprospettico, che se da un lato è affermazione di esistenza (ivi, p. 2), poiché esso enuncia che qualche cosa è, dall’altro, esso consente di conoscere ciò che ancora non è conosciuto (ivi, p. 136). La dimensione del non-ancora, quella del nulla e del futuro hanno l’importante funzione di sottrarre «la storia alla linea unidimensionale, al concetto di passato irrevocabile e determinante, al suo essere oggetto di storiografia nel chiuso di racconti globali…», R. V. Cavaliere, Giudizio, Guida, Napoli 2009, p. 128. 18 Idem, Scienza e meditazione, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 28.
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della natura, e cioè, di conseguenza, la possibilità dei processi di misurazione […] il catturante-assicurante procedere di ogni teoria del reale è un calcolare. Non dobbiamo evidentemente intendere questo termine nel senso ristretto dell’operare con numeri. Calcolare, nel senso ampio ed essenziale, significa: tener conto di una cosa…»19. Il gusto heideggeriano per l’etimologia ci porta – dopo un percorso che dal tedesco, attraverso il latino, giunge al greco20 – all’interno del concetto di calcolo e oggettità21. Nozioni, queste, che rimandano all’attività razionale dell’uomo, dal momento che il termine ragione significa etimologicamente proprio calcolo22. Solo perché l’uomo calcola, assicura, vede e provvede, può generarsi quella metafisica con la quale il filosofo costantemente si confronta nel tentativo di abbozzare un pensiero che sia meno filosofico e più meditativo. La metafisica, che ha come oggetto l’ente e la sua definizione, si ritira dalla questione fondamentale – quella dell’essere – e mette in campo quelle strategie di pensiero che consentono di neutralizzare la precarietà dell’ente. Pertanto, metafisica e nichilismo sono lo stesso. Ivi, p. 36. Nota è la propensione heideggeriana per l’etimologia delle parole, consuetudine, questa, che, però, non è fine a se stessa se pensiamo al ruolo che il linguaggio svolge nell’iter di pensiero del filosofo. Il linguaggio è, prima che emissione fonetica di suoni aventi senso e significato, casa dell’essere, dimora e soggiono dell’uomo e del suo rapporto con il mondo, come vedremo nell’ultimo capitolo. Ivi, pp. 30-35. 21 Ivi, p. 36. 22 La centralità della nozione di ragione come calcolo compare nella maggior parte delle opere heideggeriane in funzione della sua critica alla metafisica come tecnica e nichilismo, ma emerge in tutta la sua portata teoretica nell’opera Il principio di ragione, pubblicato nel 1957. Esso raccoglie dodici lezioni tenute nel semestre invernale 1955-1956 e una conferenza tenuta nel 1956 a Brema e a Vienna. Le lezioni affrontano il tema del principio di ragione in Leibniz, e mettono in luce che il principio nihil est sine ratione poggia sulla tesi del fondamento. «Nihil est sine ratione, niente è senza fondamento. Tale accettazione ci fa sentire una consonanza fra “è” e “fondamento”, fra est e ratio», M. Heidegger, Il principio di ragione, Fabbri Editori, Milano 2004, Lezione sesta, p. 86. Sul tema della ragione come sistema di anticipazione calcolante e assicurativa che guida la metafisica e il nichilismo della tecnica cfr., E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, Guida, Napoli 2002, pp. 252-291. 19 20
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Secondo Heiddegger, infatti, la presa di coscienza da parte dell’uomo di vivere in un’epoca di nichilismo è in relazione al nostro vacillare in mezzo all’ente. Come è espresso in Introduzione alla metafisica, noi uomini «dal punto di vista metafisico vacilliamo. Ci troviamo sempre per via in mezzo all’essente, e non sappiamo più che ne sia dell’essere. Soprattutto, non sappiamo neppure che non lo sappiamo più. Vacilliamo anche quando ci rassicuriamo a vicenda di non vacillare»23. In questa situazione in cui si privilegia l’ente, credendo che sia assicurato nel suo essere tramite le strutture della ragione pura, il problema dell’essere resta nell’oblio, e ciò perché il senso dell’essere compare proprio là dove l’ente vacilla. Il nichilismo sorge «là dove si rimane attaccati all’essente consueto, dove si pensa che sia sufficiente assumere l’essente, come è stato fatto fino ad oggi, come essente puro e semplice e basta. Ciò significa respingere la domanda sull’essere e trattare l’essere come un nulla (nihil): il che anche in certo senso esso “è” , in quanto non sussiste come un essente, ma si essenzia (west). Il nichilismo è questo occuparsi soltanto dell’essente dimenticando l’essere»24. L’essere è, infatti, il nulla dell’ente – questa è la tesi di fondo di Che cos’è metafisica ? – quel ni-ente che è altro dall’ente e velo dell’essere25. L’essenza dell’essere/nulla (l’essere e il nulla sono lo stesso26) è un nientificare che non è annientamento dell’ente, bensì condizione di possibilità di ogni rapportamento all’ente27. Il rapporto rappresentativo che il pensiero metafisico intrattiene con l’ente deve la «sua vista alla luce (Licht) dell’essere, la luce, M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1990, p. 207. Ibidem. 25 «Il Niente come altro dall’ente è il velo dell’essere», M. Heidegger, Che cos’è metafisica, cit., p. 85. 26 «Ciò significa che il Niente e l’Essere sono la stessa cosa». Ivi, p. 55, nota d. 27 «L’essenza del Niente originariamente nientificante sta in questo: è anzitutto esso che porta l’esserci davanti all’ente come tale. Solo sul fondamento dell’originaria manifestatezza del Niente, l’esserci dell’uomo può dirigersi all’ente e occuparsene». Ivi, pp. 54-55. 23 24
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ovvero, ciò che tale pensiero esperisce come luce, non rientra a sua volta nella vista di questo pensiero»28. L’ipotesi interpretativa che muove queste pagine si costruisce intorno alla centralità che il concetto di Lichtung assume nel frastagliato Denkweg heideggeriano, il cui fulcro è la questione dell’essere e la connessa critica alla metafisica e alla tecnica come espressioni del nichilismo. Le interpretazioni storico-filosofiche portate avanti da Heidegger hanno, infatti, lo scopo di una ostensione della radura in cui l’uomo riconosce il mondo come fonte inoggettivabile e intrascendibile, orizzonte trascendentale di senso di cui l’uomo non può disporre come di un oggetto, ma in cui dimora spazialmente e temporalmente. Per il filosofo, la costituzione umanistica della metafisica e dell’ontologia è alla base di quella riduzione dell’essere all’ente – riduzione fondata sull’oblio della differenza ontologica – che fa dell’ente un oggetto che ha senso unicamente nel Vor-stellen, nel rappresentare. Come leggiamo in L’epoca dell’immagine del mondo «questa oggettivazione dell’ente si compie in un rappresentare, in un porre-innanzi che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo calcolatore possa essere sicuro, cioè certo dell’ente»29. Solo se si pone l’equazione tra ente e oggetto, il soggetto assurge a condizione di possibilità dell’oggetto stesso, risolvendo l’ente nel suo progetto anticipante. Soggetto è la traduzione greca di υ̉ποκειμενον che «indica ciò che sta-prima, ciò che raccoglie tutto in sé come fondamento […] l’uomo diviene quell’ente in cui ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità. L’uomo diviene il centro di riferimento dell’ente in quanto tale»30. E, tuttavia, la storia della metafisica mostra che l’essere non è «isolato e sussistente per sé. La storia dell’essere non è un processo rappresentabile in termini oggettivi, a proposito 28 Ivi, pp. 89-90. Significativo è il fatto che l’edizione del 1949 utilizzi al posto di Licht/luce il termine Lichtung/radura, come possiamo leggere alla nota a della quinta edizione del ’49. Ibidem. 29 Idem, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 83-84. 30 Ivi, pp. 85-86.
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del quale si potrebbero narrare le avventure dell’essere. Il destino dell’essere rimane in sé la storia essenziale dell’uomo occidentale, nella misura in cui l’uomo storico viene fruito nell’edificante abitare la radura dell’essere. In quanto sottrazione destinale, l’essere è già in sé riferimento all’essenza dell’uomo»31. Dalle affermazioni heideggeriane affiora in modo esplicito un aspetto fondamentale del suo iter di pensiero: il coappartenersi essenziale di uomo ed essere. Non si dà essere senza l’uomo; non esiste uomo senza essere. Essi rimandano l’uno all’altro nella Zusammengehörigkeit del pensiero, il luogo in cui si raccoglie la manifestatività dell’essere, la lichtung-radura a cui Heidegger fa continuamente cenno attraverso un dire e un pensare che pretendono di essere non più filosofia – perché non sono più metafisica – ma “semplice” ascolto dell’essere32.
La posizione della domanda metafisica La metafisica, al di là delle sue metamorfiche configurazioni storiche, sorge innanzitutto come problema dell’esperienza, dell’uomo che fa esperienza di sé, del mondo e del suo esserci come essere-nel-mondo. Ora, l’atto di nascita del πάθος metafisico, che è sempre un πάθος del domandare, è la crisi dell’ente che si pone la domanda, domanda che è «esperienza vivente nella modalità del passo indietro»33. E la domanda metafisica per eccellenza è quella che domanda dell’inizio, dell’origine. «Dov’è l’inizio per quell’esserci che sa di averlo? […] questo mi interessa. Perché dove comincio è probabile che lì io anche finisca»34. Idem, Il principio di ragione, cit., Lezione dodicesima, pp. 159-160. «Il pensiero a venire non è più filosofia perché pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa […] il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo». Idem, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 103-104. 33 E. Mazzarella, Tecnica e metafisica , Guida, Napoli, 2002, p. 182 34 Idem, Vie d’uscita, Il Melangolo, Genova 2004, p. 13. 31 32
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Allora, se la metafisica riguarda originariamente l’esserci nella sua intrinseca costituzione essa è un evento, «l’evento della nostra trascendenza e solo successivamente la storia di questo evento»35, dunque sistema e dottrina. La metafisica «deve necessariamente porre il problema dell’essenza dell’uomo in un modo che si trova avanti ad ogni antropologia filosofica e ad ogni filosofia della cultura»36. E se, come sostiene Heidegger, ciò che è originario è ciò che è più nascosto e coperto da elementi secondari e derivati, allora tutta la storia della metafisica si configurerebbe proprio come il luogo di un doppio occultamento che in quanto tale ha da essere disoccultato: – ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι) – oblio della ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo dell’ente) Sappiamo che la metafisica assume nell’iter speculativo del filosofo di Messkirch una posizione quantomeno ambigua37, come possiamo constatare negli scritti coevi ad Essere e Tempo, fino allo scritto Che cos’è metafisica, passando per Introduzione alla metafisica, a partire dal quale il termine metafisica viene ad assumere una valenza fortemente negativa. E questo accade forse per quella intrinseca connessione tra essere, uomo e mondo che genera quel particolare modus exsistendi che contraddistingue l’essenza dell’uomo. Seguendo il suggerimento di Heidegger che distingue tra storico e storiografico38, non adotteremo Ivi, pp. 153-169. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 2004, Appendice I, p. 217. 37 Sull’ambiguità heideggeriana circa la metafisica cfr. E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, cit., pp. 208-209. 38 M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, Mursia, Milano p. 38. I concetti di storia, Geschichte, e storiografia, Historie, sono analizzati anche in Il lavoro di ricerca di Wilhem Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo, Guida, Napoli, in cui la storia è definita come “un accadimento, che noi stessi siamo, in cui siamo coinvolti”, mentre la storiografia indica “la conoscenza di un evento”. Dunque la storia indica l’accadere stesso, mentre la storiografia il sapere intorno all’accadere. 35 36
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un approccio che sia mera enumerazione delle dottrine della metafisica, ma opteremo per una “posizione storica” delle domande fondamentali della metafisica. «Si tratta insomma di una meditazione storica in cui è possibile misurare la grandezza dell’uomo in base a quello che egli cerca e in base all’insistenza con cui egli resta nella ricerca»39, ricerca che non implica alcun progresso ma solo “metamorfosi delle stesse cose”. È noto che la concezione heideggeriana della storia prende le mosse dalla nozione diltheyana di storia40. Il filosofo renano si iscrive nella corrente dell’Historismus – di cui dobbiamo riconoscere le «diverse genealogie»41 – apportando con la sua analisi del mondo storico un fondamentale contributo. Il concetto che meglio esprime il pensiero diltheyano potrebbe essere quello di connessione della realtà del mondo storico – sociale, al quale si allaccia direttamente il riconoscimento della centralità delle unità individuali della vita storica, che nel loro articolarsi danno «il senso dell’unità del corso storico»42. Ivi, p. 45. Per quanto riguarda la concezione heideggeriana della visione storica di Dilthey vedi Il lavoro di ricerca di W. Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo, cit. Per una analisi del concetto di Weltanschauungen in Dilthey rimando al lavoro di G. Cacciatore, Storia e natura nella tipologia diltheyana delle Weltanschauungen, in «Archivio di storia della cultura» - Quaderni – 1 – Nuova serie, pp. 235-246, e Id. , La tipologia delle visioni del mondo tra critica storica della ragione ed essenza della filosofia, in Id., Storicismo problematico e metodo critico, Guida, Napoli, 1993, pp. 153-172. 41 Cfr. G. Cacciatore, Storia e teoria dello storicismo, in Id. , Storicismo problematico e metodo critico, cit. , p. 389. In questo saggio l’autore ripercorre le tappe fondamentali della teoria dello storicismo a partire soprattutto dall’opera di Humboldt, il quale si sofferma su quella nozione di individualità tanto cara allo storicismo critico, di stampo antropologico ed antiontologico (ivi. , pp. 391-392) , per proseguire con Schleiermacher ed altri esponenti, tra i quali emerge Dilthey, con il quale “la teoria dello storicismo giunge alla piena consapevolezza del suo compito: da un lato, la fondazione psicologico – antropologica delle Geisteswissenschaften, dall’altro, la revisione del punto di vista critico – trascendentale, fissata nel programma della critica della ragione storica” (ivi. p. 395) . Con Dilthey sarebbe avvenuta una vera e propria rivoluzione che prosegue quella gnoseologica kantiana in direzione di una connessione dinamica tra forma e vita. 42 G. Cacciatore, Vico e Dilthey, in Id., Storicismo problematico e metodo critico, cit. , p. 25. 39 40
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Motivi questi, che ci fanno pensare ad un altro pensatore che sulla storia si è molto espresso: il filosofo napoletano Gian Battista Vico43. C’è da dire che l’impianto provvidenziale presente nella visione vichiana del mondo storico – impianto che non riduce la sfera di azione dell’uomo, il quale se da un lato non è l’architetto che detta le leggi universali, dall’altro è coartefice del mondo storico – non è presente in Dilthey. Anzi Dilthey asserisce che «ogni epoca è determinata in forma immanente dal nesso della vita, del mondo sentimentale, dell’elaborazione dei valori e delle relative idee di scopo. È storico ogni agire che si inserisce in questa connessione: essa costituisce l’orizzonte dell’epoca e da essa è determinato il significato di ogni parte del suo sistema. Questa è l’autocentralità delle età e delle epoche, in cui si risolve il problema del significato e del senso che si possono ritrovare nella storia»44. Questo significa che la storia non ha nessun telos, non esiste alcun determinismo, anzi ad ogni epoca storica appartengono forze sempre diverse che la rendono un’epoca finita e relativa. La storia ha però una sua continuità, data dalla forza creatrice dell’uomo, la cui “coscienza storica”, cioè la sua coscienza della finitudine è «l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo»45. A questo punto, tornando ad Heidegger, possiamo constatare che la sua concezione della storia consiste nel mettere in rilievo non il semplice progresso, né tanto meno l’abbandono del punto di partenza, bensì la permanenza presso l’origine, poiché «l’importante non sta nell’uscir fuori ma nello starvi dentro alla maniera giusta», così come recita quel famoso § 32 di Essere 43 Ivi, p. 35. L’autore ha messo in luce questa affinità, quando ha mostrato i punti di contatto della vichiana Scienza Nuova con le acquisizioni fondamentali della diltheyana critica della ragione storica. Il ruolo svolto dal pensiero vichiano della storia nel processo di crisi della metafisica, le conquiste metodologiche utili per la autonoma costituzione delle scienze dello spirito e la proposta di una funzione pratica della gnoseologia preparano quello che sarà il motivo costante del pensiero sulla storia: l’attenzione all’elemento particolare. 44 W. Dilthey, Critica della ragione storica, Antologia di scritti con introduzione e bibliografia di P. Rossi, Torino 1982 p. 186. 45 Ivi, p. 290.
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e Tempo, che tanta parte avrà nell’ermeneutica di Gadamer46. Anzi, la filosofia essenzialmente «non progredisce affatto. Essa segna il passo sul posto, per pensare sempre la stessa cosa. Progredire, cioè andare via da questo posto è un errore che segue il pensiero come l’ombra che esso proietta»47. Infatti, la distruzione dell’ontologia avviata in Essere e Tempo, ha una tendenza positiva in quanto questa distruzione non ha «il senso negativo di uno sbarazzarsi della tradizione ontologica»48. Essa si configura piuttosto come una lotta contro quelli che Bacone ha definito idola theatri, cioè gli idola della filosofia, i pregiudizi che invece di aprire la comprensione, la chiudono. Certo alcuni luoghi heideggeriani non hanno toni così pacati e soprattutto lasciano intendere un rapporto ambiguo con la metafisica. Heidegger dice che «la metafisica in quanto metafisica è nichilismo autentico»49, dove il nichilismo50 è definito come «la storia nella quale dell’essere stesso non ne è niente»51. Insomma, nichilismo e metafisica sono «l’epoca della velatezza dell’essere nella svelatezza dell’ente»52. Si tratta cioè dell’originario fraintendimento dell’essere, dell’originario oblio della differenza ontologica, dell’originaria equivalenza di essere ed ente che Heidegger attribuisce a tutto il pensiero metafisico e alla sua estrema propaggine: la tecnica53. Ma proprio su questo bisogna insistere secondo il filosofo, che propone una meditazione «sul primo inizio del pensiero 46 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2004, Parte seconda, capitolo secondo, § 1. 47 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano, 2008, p. 63. 48 Idem, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 2009, § 6, p. 36. 49 Idem, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994, p. 816. 50 Per una storia del concetto e del problema cfr. F.Volpi, Nichilismo, Laterza, Bari, 2009. 51 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 812. 52 Ivi, p. 859. 53 Interessante è notare che la massima ricezione del pensiero heideggeriano negli ultimi decenni si ha in quei paesi dove maggiormente assistiamo all’esplosione dell’apparato tecnologico e informatico: Stati Uniti e Giappone. Cfr., A. Giugliano, Nietzsche, Rickert, Heidegger, ed altre allegorie filosofiche, Liguori, Napoli 1999 p. 384.
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occidentale perché stiamo alla sua fine»54. Con la fine della metafisica, cioè con la fine della filosofia, non finisce anche il pensiero, «il pensiero non termina ma passa ad un altro cominciamento»55. E tutto il pensiero heideggeriano è una guida proprio a tale cominciamento, una preparazione ad un altro inizio che non può liberarsi del fardello del passato, anzi deve assumerlo fino in fondo per oltrepassare l’epoca dell’ε̉ποχή dell’essere. L’essenza del nichilismo e l’essenza della metafisica perdono i contorni netti e negativi di polarità antitetiche, per mostrare aspetti affini che aprono ad un nuovo inizio. Per questa via si può arrivare ad affermare che «l’essenza del nichilismo non è qualcosa né di guaribile né di inguaribile, essa è ciò che è senza salvezza ma proprio come tale porta con sé un rimando a ciò che è sano e salvo»56. L’oltrepassamento non implica abbandono, poiché «superare non vuol dire respingere ma assumere in una nuova disposizione»57. Il problema è proprio individuare nei “meandri oscuri” del linguaggio heideggeriano questa nuova disposizione. Per cogliere il significato autentico della posizione di Heidegger, seguiamo i suoi “cenni” con gli occhi puntati al “sentiero” al quale giungeremo sperando di non trovare la strada “interrotta”. Premesso ciò, passiamo all’analisi delle posizioni di quei quattro pensatori a cui Heidegger guarda maggiormente nel suo itinerario verso l’essere. C’è da dire che verrà dato spazio a quei concetti filosofici che mostrano i motivi che hanno spinto il filosofo a privilegiare certi aspetti del pensiero piuttosto che Idem, Domande fondamentali della filosofia, cit., p. 91. Idem, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 54. 56 Idem, La questione dell’essere, in Id. Segnavia, Adelphi, Milano, p. 338. 57 Idem, Fenomenologia e teologia, in Id., Segnavia, cit , p. 19. Vedi anche Id. Oltrepassamento della metafisica, in Id. Saggi e Discorsi, cit., p. 45-65. “La metafisica non si lascia metter da parte come un’opinione […] , l’oltrepassamento della metafisica accade come accettazione-approfondimento”, (ivi) p. 46. Sulla distinzione tra Uberwindung (superamento) e Verwindung (accettazioneapprofondimento) cfr. C. Vigna, Sulla metafisica di Heidegger, in Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Genova 1991, pp. 107-139. 54 55
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altri; scelta guidata da quello che potremmo chiamare il filo conduttore intorno al quale si definisce il percorso speculativo di Heidegger: la Lichtung, la radura-slargo di cui si parla a proposito dell’evento della disvelatezza dell’essere, cioè in relazione all’essere in quanto orizzonte trascendentale.
Che cos’è la metafisica? “Metafisica” è un conio del I secolo a. C. che dobbiamo ad Andronico di Rodi, il quale definisce i quattordici libri, che Aristotele dedica alla filosofia prima, μετά τά φυσικά βιβλία. Aristotele tratta in maniera sistematica la questione metafisica pur non essendo stato lui a coniare il termine. Tuttavia, l’origine del termine è del tutto secondaria, in quanto metafisica ha un profondo significato speculativo, del tutto indipendente dalle contingenze editoriali. Guardiamo al significato di meta: meta significa sia dopo che sopra. Nel primo caso avremo una scienza che studia le realtà che per noi vengono dopo quelle fisiche; nel secondo caso, invece, avremo una scienza delle realtà che stanno al di sopra di quelle fisiche. Già a partire dall’esegesi del termine emerge il significato polivalente della metafisica aristotelica. Aristotele definisce la metafisica in quattro modi fondamentali: – Metafisica come scienza di cause e principi primi. Nel primo libro leggiamo: «col nome di sapienza tutti intendono la ricerca delle cause prime e dei principi»58. Qui Aristotele parla di σοφία, ma intende non semplicemente la sapienza, bensì la filosofia, cioè la metafisica – Metafisica come scienza dell’essere in quanto essere. Cioè come scienza non di quella o questa parte, ma dell’essere nella sua totalità. Nel libro G Aristotele afferma: «c’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono»59. 58 59
Aristotele, Metafisica, A1 981b29. Ivi, G1 1003a20.
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Infatti, l’essere non è univocamente inteso da Aristotele, «l’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad un’unità e ad una realtà determinata»60. – Metafisica come teologia. Tale significato di metafisica emergerà nel dodicesimo libro, il ben noto testo sulla dimostrazione dell’esistenza delle sostanze soprasensibili, che tanta parte avrà nella metafisica teologica medievale. – Metafisica come scienza della sostanza. Si legge nel libro Z: «il primo dei significati dell’essere è l’essenza, la quale indica la sostanza»61. In greco sostanza si dice ου̉σία. La metafisica fin dall’inizio si identifica con la filosofia prima e la sua preminenza è data dal suo oggetto di indagine: l’essere. La scienza che studia l’essere avrà da questo momento una denominazione che oscilla tra metafisica e ontologia62. L’essenza dell’ente, il sapere dell’essenza delle cose, diventano le domande fondamentali del pensiero, della filosofia che dunque si identifica sin d’ora con la metafisica. Ma se il termine è di origine tarda, lo stesso non può dirsi del sapere che tale termine indica, un sapere che ha origine eleatica. Il grande rovello parmenideo diventerà il grande rovello della storia della filosofia. In Hegel e i Greci Heidegger lega i filosofi Parmenide, Eraclito, Platone e Aristotele a quattro concetti fondamentali: – – – –
έ̉ν è la parola di Parmenide λόγος è la parola di Eraclito ι̉δέα è la parola di Platone ε̉νέργεια è la parola di Aristotele É̉ ν indica l’uno, l’universale che unifica gli enti, il quale si
Ivi, G2 1003a33. Ivi, Z1 1028a14. 62 Cfr., M. Ferraris, Ontologia, Guida, Napoli 2008, p. 6 : «la metafisica serve a classificare e a esplicitare […] sul finire del ’500 si codifica la differenza tra metafisica generale, che tratta dei caratteri generalissimi dell’ente e metafisica speciale, che tratta di quei tipi peculiari di enti che sono l’anima, il mondo e Dio. La metafisica generale è ciò che nel ’600 verrà battezzata con il nome di ontologia». 60 61
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mostra attraverso segni. Λόγος è il nome attribuito da Eraclito all’essere dell’ente, ma «di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza […] benchè infatti tutte le cose accadano secondo questo logos»63. Secondo Heidegger, λόγος indica la «raccolta che fa giacere davanti e apparire nella sua totalità come ente tutto ciò che è»64. «La raccolta è fin dall’inizio una selezione di ciò che merita di essere serbato»65. L’ ι̉δέα è resa da Platone anche con i termini: εί̉δος e γένος , e può assumere cinque significati: ontologico, logico, semantico, causale ed epistemologico66. Heidegger parla di «evidenza che conferisce la vista su ciò che è presente [...] essa realizza il venire alla presenza, il presentarsi di ciò che un ente di volta in volta è […] ma il venire alla presenza è in generale l’essenza dell’essere. Per Platone quindi l’essere ha la sua essenza autentica nel che cos’è»67. L’ε̉νέργεια indica lo “stare-in opera”68. Queste quattro parole sono l’espressione di due 22B1. M. Heidegger Hegel e i Greci, op.cit. p. 383. 65 Idem, Logos, in Id. Saggi e discorsi, cit. p. 143. 66 La dimensione ontologica è legata alla definizione dell’idea come pantelώV ό̉n , cioè come ciò che è “in modo assoluto e completo” ,immune da contraddizioni ,quelle che contraddistinguono le cose sensibili, cfr: Platone, Timeo, 37e-38b; l’idea è poi un individuo logico che esaurisce senza resti il senso del predicato che essa esprime, in quanto tale essa è aυ̉tό kaq ’ aυ̉tό, cfr, Platone, Parmenide, 128e5-6; le idee sono anche i referenti semantici dei termini universali, che si applicano a più casi particolari; esse sono poi causa, ̉arcή dell’esser-così delle cose, esse dunque sono partecipate dalle cose sensibili non solo logicamente ma anche da un punto di vista reale, cfr, Platone, Fedone , 96 a-105c; le idee infine sono intelligibili ,nohtά, cioè conoscibili razionalmente a differenza degli enti sensibili soltanto opinabili , cfr. , Platone, Fedro ,79 a ss . per una interessante discussione sullo statuto delle idee in Platone rimando al lavoro di G. Casertano Il Parmenide, in Id. , Il nome della cosa, Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Loffredo, Napoli, pp. 11-85, che mette in luce il passaggio da una visione statica ed ipostatizzante delle idee ad una dialettica. Il Parmenide sarebbe il punto di avvio di quella autocritica platonica che sarebbe continuata nelle pagine del Sofista. La lettura di Casertano tende a mostrare come Platone negli ultimi dialoghi tenti di modificare, nella direzione di un’estensione, l’ipotesi eidetica, avvertendo come aporetico il lascito dell’ontologia eleatica soprattutto tenendo conto della “lezione” dei sofisti. 67 M. Heidegger , La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, cit. , p. 180. 68 Idem, Sull’essenza e sul concetto della physis, in Id., Segnavia, cit., p. 238. 63 64
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concetti originari che, secondo Heidegger, guidano ogni pensiero e epoca storica: α̉λήθεια e εĩν̉ αι, come avremo modo di vedere.
Parmenide L’importanza di Parmenide69 come spartiacque tra un approccio fisico materialista al tutto ed uno volto a cogliere la verità e totalità del tutto è enunciata per la prima volta da Aristotele nel primo libro della Metafisica: «la maggior parte di coloro che per primi filosofarono pensarono che principi di tutte le cose fossero quelli materiali70[…] Parmenide invece sembra ragionare con maggiore oculatezza»71. Ma perché Aristotele afferma ciò? In fondo cosa distingue un fisico da un autore di un trattato sulla φύσις? L’ambito di riferimento sembra identico. Eppure Parmenide è il padre dell’ontologia e non della fisica. Allora, perché intitolare il suo poema Περί φύσεως e non Περί τοũ ε̉όντος? Rievocheremomo per sommi capi il pensiero del filosofo di Elea tentando di mettere in risalto quei concetti che più hanno influito nel percorso heideggeriano. Nel linguaggio aristotelico “fisica” indica la scienza che ha per oggetto quella parte del tutto che è la realtà diveniente, mentre la scienza che ha come oggetto non una parte ma la totalità del tutto è metafisica. Eppure, quando i “fisiologi” parlano di φύσις non intendono riferirsi con questa parola ad una parte del tutto, quella diveniente, ma al contrario, φύσις indica proprio ciò che permane identico in tutti gli enti72, al di là delle loro differenze. 69 Sul pensiero di Parmenide cfr., A. Capizzi, Introduzione a Parmenide, Laterza, Roma-Bari 1975, e G. Casertano, Parmenide. Il metodo, la scienza e l’esperienza. Loffredo, Napoli, 1989. 70 Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2006, A 3 983b 8. 71 Ivi, A5 986b 3-28. 72 Cfr. Talete 11 A12: “ci deve essere qualche natura, o una o più di una, da cui le altre cose nascono, mentre essa permane”; Anassimandro 12 A14: “dall’indefinito tutte le cose nascono e in esso si distruggono tutte”; Anassimene 13 A5: “una è la natura che fa da sostrato, ed è infinita […] ma non indeterminata […] bensì determinata e la chiama aria”.
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Nella φύσις, tematizzata nei primi pensatori greci, è già in gioco il centro di gravità della metafisica, ossia della scienza che si rivolge al tutto, all’essere. Φύσις indica l’essere nella sua totalità. Allora se già Talete (VI sec. a. C.) pone l’acqua come elemento unificatore, come principio di tutte le cose – dove l’acqua non indica unicamente l’acqua sensibile (perché anche il sole è fatto di acqua) che è solo una delle innumerevoli cose dell’universo, ma indica l’identico presente nelle molte cose diverse – , perché allora è Parmenide il padre dell’ontologia? Con Parmenide viene alla luce l’essere nella sua necessità e verità, il suo senso emerge nettamente dal suo contrapporsi al nulla. Parmenide riesce non solo a pensare l’opposizione suprema tra essere e non essere, ma anche a vedere i confini del tutto che è l’essere e al di là del quale non c’è niente, infatti «occorre che quanto c’è da dire e da pensare, sia: c’è, non c’è invece il niente»73. Chi come Parmenide presta ascolto alla dea Δίκη, che mostra l’unica ο̉δός percorribile, sa dunque che l’essere è ed è impossibile che non sia, e allo stesso tempo sa che il non essere non è ed è impossibile che sia. Al τό ε̉όν Parmenide arriva tramite una via, un sentiero, guidato dalla dea, un sentiero che porta dritto alla verità della filosofia e proprio per questo l’ο̉δός è allo stesso tempo μέθοδος. Qui risiede anche il valore metodologico del pensiero di Parmenide, il quale non racconta miti74 senza giustificare quello che dice, ma tiene ben presente il modo in cui l’uomo deve costruire il suo discorso, un modo che è diverso a seconda che si parli di τό ε̉όν e di τά ε̉όντα, di ciò che è e delle cose che sono. C’è da dire, d’altra parte, che i frammenti di Parmenide danno adito ad interpretazioni che gli attribuiscono la negazione del divenire e del molteplice. Il fr. 8 è indicativo in questo senso e aiuta a comprendere i motivi platonici del “parricidio” di Parmenide: «rimane solo un 73 Parmenide, Sulla natura, in Presocratici, Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, traduzione a cura di Alessandro Lami, Fabbri Editori, Milano 2004 fr. 6, p. 187. 74 Platone, Sofista, 242 C4 d6.
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discorso della via che è. Su questa via ci sono segni rivelatori numerosi: che l’essere è non nato, incorruttibile, intero nel suo insieme, immobile e senza fine. Né mai era né sarà perché è ora tutto insieme uno e continuo». Eppure, se l’essere così descritto è tutto ciò che il pensiero ci mostra, i sensi e il corpo attestano proprio il contrario. Ma, il contrario, ε̉ναντίον, dell’essere è il μηδέν. Le cose che sono, gli enti generati, corruttibili, mutevoli e divenienti, in questo modo finiscono con il dileguarsi nell’ambito del nulla. Sarà Platone a cogliere subito lo statuto aporetico del nulla parmenideo. Il problema dei contrari ad esso connesso inoltre occuperà uno dei dialoghi più suggestivi del genio poetico di Platone: il Fedone. La questione dei contrari sarà considerata da Platone come un’aporia della riflessione parmenidea. Il discorso sugli ε̉ναντία è al centro del dialogo “morale”, che si propone non solo di dimostrare l’immortalità dell’anima, ma anche di indicare all’uomo la differenza tra una vita di pura ragione e una soggetta ai sensi e al corpo75, vero e proprio “malanno”76 dell’anima. Il corpo infatti non è altro che un impedimento nel sentiero che porta alla ricerca della verità, una «tomba che ora portiamo in giro come un’ostrica nel guscio»77. Come è noto l’argomentazione platonica dei contrari si inserisce nel contesto della dimostrazione dell’immortalità dell’anima78, e precisamente nell’ambito della prima prova, quella che più risente dell’influsso eracliteo e pitagorico. I Sulla concezione platonica del corpo cfr. M. T. Catena, Corpo, Guida, Napoli, 2006, pp. 18-31. 76 “Pare che ci sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo”. Platone, Fedone, XI, Armando, Roma 2007, p. 55. 77 Idem, Fedro, XXX, 250 c. 78 Le cosiddette prove dell’immortalità dell’anima sono quattro: quella dei contrari, della reminiscenza, della somiglianza alle idee e della semplicità dell’anima. Per una ricostruzione dettagliata della “prova”dell’immortalità dell’anima cfr. G. Casertano Il senso dell’argomentazione socratica dei contrari nel Fedone, in Id., L’eterna malattia del discorso, Liguori, Napoli, 1991, pp. 1335. 75
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contrari essere e divenire non hanno uno statuto dinamico, essi sono completamente opposti, chiusi nella loro opposizione, privi di comunicazione, e non ancora diversi. Il concetto di diversità comincia a farsi largo nel Parmenide per poi continuare nel Sofista79. In quest’ultimo dialogo il concetto di contrario sembra lasciar spazio a quello di diverso, al fine di garantire quella κοινωνία τών γενών, quella comunicazione tra i μέγιστα γένη80, i generi sommi, che sola può rigettare l’istanza della frattura dei “due mondi” presente nel primo Platone. A differenza dell’opposizione insanabile di essere e non essere, del μηδέν parmenideo, ε̉ναντίον e non έ̉τερον dell’essere, il non essere platonico non si identifica col nulla, ma con quella parte del genere diverso – che in quanto genere partecipa dell’essere – che si oppone all’essere; esso formalmente corrisponde al nonbello per esempio, cioè quella parte del diverso che si oppone alla bellezza. Platone crede in questo modo di riabilitare il “sensibile”. Riabilitazione impossibile per Parmenide se ci si ferma a queste parole: «null’altro vi è al di fuori dell’essere poiché la Moira81 lo stringe ad essere intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno deliberato i mortali convinti che fossero vere: nascere e morire, essere e non essere»82. 79 Su questo punto cfr. L. Palumbo, Il non essere e l’apparenza. Sul Sofista di Platone, Loffredo, Napoli, 1994, pp. 95-231. 80 I generi sommi sono cinque: essere, movimento, quiete, identico e diverso. Seguendo lo schema della Palumbo, la discussione sulla comunicazione tra i generi si divide in quattro parti. La prima (251 d5 – 253b7) giunge alla conclusione che alcuni generi comunicano ed altri no, ad esempio il movimento non può partecipare della quiete e viceversa. La seconda afferma l’esistenza dei generi identico e diverso, a partire dai generi dell’essere, della quiete e del movimento. La terza discute le possibili connessioni tra il movimento e gli altri quattro generi. Infine l’ultima parte dimostra l’esistenza del non essere, in qualità di parte del diverso contrapposta all’essere di ciascun ente. 81 La Moira costringe e forza con violenza. Tale potenza ci obbliga a pensare così e non altrimenti. Insomma l’Α̉νάγκη “incatena” prima Parmenide e poi tutto l’essere per usare l’immmagine šestoviana del Parmenide incatenato. Cfr. Lev Šestov, Atene e Gerusalemme, Bompiani, Milano 2005, pp. 185-411. 82 Parmenide, op. cit., fr. 8
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Di fronte al mutamento e alle metamorfosi del cosmo gli uomini parlano di γένεσις e θάνατος, infatti l’esperienza insegna all’uomo che gli enti nascono, crescono e avranno una fine, e per comprendere questo ritmo e gli enti uno per uno gli uomini hanno utilizzato questi nomi – nascita e morte – incomprensibili se applicati a ciò che è, ma indispensabili per distinguere e conoscere83. Secondo quanto Heidegger asserisce in Lettera sull’umanismo84, il più grande lascito del filosofo di Elea è però un frammento che se segna il destino del pensiero metafisico, nondimeno resta impensato: «το γαρ αυτο νοειν εστιν τε και είναι». «Poiché lo stesso è pensiero ed essere». Secondo Heidegger qui sarebbe espresso un pensiero fondamentale, un pensiero che pensa la relazione tra essenza umana e essere proprio nel pensiero, relazione già sempre avvenuta e mai istituita secondariamente, infatti «nessun cammino del pensiero, neanche del pensiero metafisico, parte dall’essenza umana per raggiungere l’essere o inversamente dall’essere per ritornare all’umano. Piuttosto ogni cammino del pensiero va già sempre entro l’intera relazione tra essenza umana ed essere, altrimenti non sarebbe pensiero»85. C’è da dire che Heidegger attribuirà un ruolo fondamentale al “detto” parmenideo nella direzione della possibilità di un ripensamento di un “impensato”, presente, ma da sempre obliato, nelle sue parole. Il riferimento è al concetto di ταυτόν, il medesimo, «lo stesso – che – non è l’uguale giacchè mentre nell’uguale la diversità svanisce, nello stesso la diversità appare»86. Quel ταυτόν che non ha valore predicativo, ma è il soggetto a cui si attribuiscono είναι e νοειν. Notiamo, dunque, come Parmenide87 in poche battute abbia posto il problema ontologico G. Casertano, Morte, Guida, Napoli, 2003, p. 14. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 63. 85 M. Heidegger, Che cosa significa pensare, a cura di G. Vattimo e U. Ugazio, Milano, 1978-1979, Vol. 1, p. 137. 86 Idem, Identità e differenza, Adelphi, Milano, 2009, p. 58. 87 Cfr L.Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in Heidegger e la metafisica,a cura di M. Ruggenini, Marietti, Genova, 1999, pp. 49-81. 83 84
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e metafisico di cui si discute ancora oggi, «la questione più importante e fondamentale da cui deriva tutto il resto».
Eraclito Il nome con cui Aristotele si riferisce a Eraclito88 è σκοτεινός – oscuro. Infatti, i frammenti che ci sono pervenuti sono alquanto criptici, ma forse era proprio questo l’intento di Eraclito, il quale non amava le folle. Heidegger scrive: «Eraclito si chiama l’oscuro. Ma egli è il chiaro. Giacché dice ciò che apre-illumina, in quanto cerca di chiamare il suo risplendere nel linguaggio del pensiero»89. Vediamo quali sono i motivi che spingono Heidegger a considerare il filosofo greco “il chiaro”. Eraclito definisce l’essere come uno-tutto. «Se non me, ma il senso avete inteso, allora è saggio dire nello stesso senso: tutto è uno» (fr. 50). È noto che lo έ̉ν πάντα di Eraclito va considerato in relazione alla dottrina degli opposti e dei contrari. La tensione dei contrari si identifica con il λόγος eterno che è al fondo delle cose. Le cose, per quanto diverse ed opposte, convergono nello stesso. L’identità delle cose è il loro stesso essere diverse ed opposte, il loro stesso diversificarsi dalle altre e ad esse opporsi. Infatti «Πόλεμος è padre di tutte le cose e re»90. Il filosofo di Efeso parla di una contesa che avviene in modo necessario e giusto91 tra gli enti, accomunandoli nel momento in cui li divide; tale lotta è il λόγος stesso, il quale indica, da un lato, l’identità della legge che regola il costituirsi delle cose, dall’altro, l’identità della sostanza e della materia da cui le cose provengono, sono costituite e in cui ritornano, ossia il fuoco92. Questa eterna contrarietà e opposizione è però allo stesso 88 Sul pensiero di Eraclito cfr., R. Laurenti, Introduzione ad Eraclito, Laterza, Roma-Bari, 1979. 89 Idem, Aletheia, in Id. , Saggi e discorsi, cit., p. 176. 90 22 b 53. 91 22 b 80. 92 22b67.
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tempo armonia, una armonia nascosta che vale più di quella che appare93. Secondo Eraclito, tuttavia, proprio questa armonia non riescono a scorgere “i più”, chiudendo il proprio sguardo al mondo unico e comune. Tutto ciò accadrebbe perché “vivono dormendo”, rinchiusi nel loro mondo particolare94, non possedendo la vera sapienza, quella cioè che sa «la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto» come leggiamo nel fr. b41. Allora α̉νήρ φιλόσοφος potrà definirsi solo quell’uomo che riconosce questo λόγος, l’universalità, ciò che è generale, che è ovunque e sempre; ciò che non tramonta mai, da cui sorge ogni ι̉διότις, ogni cosa particolare. L’immagine della filosofia che emerge dal detto eracliteo è quella di ε̉ποχή e σκέψις sospensione dei pregiudizi95, per cogliere le cose stesse96, attraverso un πάθος della distanza97. 22b54. 22b89. 95 Quando si parla di sospensione dei pregiudizi non può che venirci in mente Husserl, il quale nelle Idee menziona l’ epochè fenomenologica, che va a “sostituire il tentativo di dubbio cartesiano” e questo per “mettere fuori gioco la tesi dell’atteggiamento naturale” ma non per negare il mondo, ma per vietare «ogni tipo di giudizio sulla sua esistenza spazio-temporale». Sempre Husserl nei Discorsi parigini afferma: «Tutto resta com’era; solo che io non lo prendo semplicemente come esistente, ma mi astengo da ogni presa di posizione sull’essere o sull’apparire. Anche da tutte le altre mie prese di posizione sul mondo, io debbo astenermi, perché tutto ciò presuppone l’esistenza del mondo […] questa inibizione universale di ogni presa di posizione sul mondo oggettivo, detta da noi epochè fenomenologica, diviene direttamente il mezzo metodico con cui mi colgo come quell’io e quel vivere coscienziale». Ovviamente questa operazione va collocata nel contesto del progetto husserliano di una fenomenologia intesa come “scienza eidetica” e non di dati di fatto. Infatti «l’avanzare verso le cose è un processo complicato, che deve eliminare i pregiudizi che oscurano la cosa». 96 Il cogliere le cose stesse si iscrive nell’itinerario “investigativo” di Heidegger, che nell’intenzione si avvicina al progetto husserliano di “arrivare alla cosa”, ma di fatto lo fa in modo differente. E questo per un semplice motivo: per Heidegger il fenomeno non è ciò che appare di un’essenza, alla quale bisogna giungere tramite una epochè, bensì ciò che i Greci chiamano ente. Insomma il fenomeno in quanto tale è ciò che si manifesta già da sé. Se questo vale per gli enti non vale però per l’essere, del quale non si dà manifestazione. 97 Il pathos della distanza è sempre anche un pathos della vicinanza, pathos che emerge dalla concezione nietzscheana del tragico e della filosofia di Eraclito. 93 94
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Evidente è dunque il motivo che induce Heidegger a fare del λόγος una parola chiave del pensiero del filosofo di Efeso. Heidegger interpreta cosi il λέγειν: «λέγειν è posare. Posare è un in sé raccolto-lasciar stare dinanzi ciò che è insieme presente»98. Detto in termini più semplici, il λέγειν potrebbe indicare un riunire ed un custodire ciò che merita di essere messo al riparo. Il λέγειν è un lasciar essere. Che cosa? Ciò che da sempre già c’è. Ma allora in che consiste questo tenere in serbo? Non significa altro che introdurre nella disvelatezza ciò che già c’è. La funzione introduttiva del λόγος è pertanto anche apofantica, in quanto esso manifesta99. Ma questo custodire e questo portare alla disvelatezza cosa hanno in comune con il dire e il discorrere, con il concetto di linguaggio? Per Heidegger «il dire e il discorrere dei mortali accade fin dall’inizio come λέγειν, come posare»100. Il dire, cioè, non è essenzialmente né lingua, né significato. Queste sono determinazioni del λόγος solo derivate e secondarie. Il λόγος è per essenza un portare alla disvelatezza ciò che già c’è, per questo è allo stesso tempo un ο̉μολογεĩν, che è la modalità in cui l’uomo esprime la propria “corresponsione all’evento”101. Evento che è λόγος, il quale non dice l’έ̉ν πάντα, non lo enuncia ma è il modo stesso in cui l’έ̉ν πάντα si dispiega. Il λόγος dunque Tale atteggiamento deriva dall’attribuzione della contraddizione alla realtà, che, per Nietzsche, così come per Eraclito, è divenire, quella “orribile verità” che i Greci avrebbero scoperto fin dall’inizio, trasformando questa sapienza tragica in danza e gioia, trasformazione che li rende la “stirpe meglio riuscita”. Tale pathos sublime, perché attrae e respinge contemporaneamente, è il pathos estetico e artistico che avvicina e allontana dalla vita, ci fa “danzare sull’abisso”, ci fa guardare dentro ma non ci fa cadere. La caduta sarebbe senz’altro assicurata per Nietzsche se fossimo solo “animali capaci di conoscenza”, ma siccome non siamo solo questo continuiamo a “stare lì appesi”, sospesi. A che cosa? Alla vita, la cui “vitalità” è restituita dall’arte sia nella sua ebbrezza dionisiaca sia nella sua serena trasfigurazione apollinea. Il pathos della distanza contraddistingue il βίος θεωρετικός che è sempre metafisico nel senso etimologico del termine. 98 M. Heidegger, Logos, in Id. , Saggi e discorsi, cit., p. 144. 99 Idem, Essere e Tempo, §7 B, p. 47. 100 Idem, Logos, cit., p. 144. 101 E. Mazzarella , Tecnica e metafisica, cit., p. 197.
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si lega alla disvelatezza in quanto lascia essere ciò che gia è. Ma se il disvelare è l’essenza dell’ α̉λήθεια, allora il λόγος e la α̉λήθεια coincidono. Heidegger concepisce infatti il λόγος eracliteo in base al suo concetto di verità. Ogni dire è pertanto già da sempre un togliere dal nascosto ciò che già c’è, portandolo nella dimensione dell’apparire, della presenza. Eraclito dice anche un’altra cosa fondamentale: «φύσις κρύπτεςθαι φιλεĩ»102, la natura ama nascondersi, e Heidegger tenta di pensare proprio tale nascondimento, che si rivela come il cuore della disvelatezza; all’essere appartiene un originario ritrarsi. Ma per il filosofo tedesco «il lampo ad un tratto si spense»103, la notte della “contraffazione” ha ingoiato l’albeggiare eracliteo, il λόγος diventa γλώσσα, lingua, φονή σημαντική, emissione fonetica designante qualcosa, perdendo il suo principale senso che è il δηλούν, il mostrare, l’αποφαίνεσθαι104. Di κεραυνός Eraclito parla nel fr. 64: «τά δέ πάντα οιακίζει Κεραυνός». «L’universo però lo governa il fulmine». Tale frammento apre l’opera Eraclito, frutto di una trascrizione del seminario tenuto a Friburgo (1966-1967) da Heidegger e Fink. Perché questo frammento è così fondamentale? Perché quasi ogni pagina di questo splendido discorso a due voci, meditanti sui “pensieri pre-meditati da Eraclito”, si confronta con queste parole? L’allievo di Husserl ed Heidegger vede nel κεραυνός certamente quello che vedremmo tutti noi: uno squarcio nel buio, «l’irrompere del lampo luminoso nell’oscurità della notte»105. Secondo Fink però Eraclito alludeva a ben altro che al semplice fenomeno meteorologico. Il bagliore ceraunico rappresenta il movimento che οιακίζει, governa, τά πάντα, tutte le cose, l’universo. Tale governare costituisce quel «movimento del Fr. 123. M. Heidegger, Logos, cit., p. 156. 104 Vedi al riguardo Aristotele, De interpretatione, 4, 17 a, e M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 106. 105 M. Heidegger- E. Fink, Eraclito, Laterza, Bari 2010, p. 6. 102 103
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condurre all’apparire»106 gli enti. Per mostrare meglio il profondo significato del κεραυνός, i due filosofi mettono in connessione il fr. 64 con il fr. 31: «Volgimenti del fuoco: dapprima mare; dal mare la metà terra, l’altra metà vampa». Cosa sono le πυρός τροπαί? I volgimenti del fuoco sono semplici trasformazioni materiali? Mera illuminazione? Puro fenomeno fisico? Per Fink la possibilità di comprendere tali volgimenti può avvenire solo a partire dal “fenomeno dell’albeggiare”. Tale albeggiare non indica il sorgere del giorno tout court, ma sta a significare quel portare all’apparire al di là sia della produzione – tecnica o poetica – sia del passivo lasciar comparire. Tale albeggiare in quanto portare all’apparire va inteso piuttosto nel senso del φύειν greco. Lo sfolgorio del fulmine ha avuto lo stesso effetto suggestivo anche sui “bestioni” pre-umani di cui ci parla Vico nel secondo libro della Scienza nuova. Come è noto, l’opera è divisa in cinque libri ed è sorretta dall’idea di fondare una nuova scienza che si proponga non solo di accertare i fatti storici, ma anche le leggi che ne regolano lo svolgimento. Il secondo libro a cui abbiamo fatto cenno è interamente dedicato all’analisi di quella che Vico definisce “sapienza poetica”, vale a dire la storia e l’immagine dell’uomo dominata dal senso e dalla fantasia, ignara della riflessione. In tale libro il filosofo napoletano tratta la cultura della società delle origini107, definita “rozza” metafisica o teologia. Tale metafisica delle origini è sentita ed immaginata, non ragionata, dai primi uomini delle nazioni gentili. Questi uomini, come i fanciulli, danno vita alle cose inanimate, e spiegano tutti i fenomeni come manifestazioni di Ivi, p. 11. La cultura delle origini comprende l’età degli dei e degli eroi. Vico infatti espone nel primo libro della Scienza nuova la celebre legge dei tre stadi, connessa all’idea di storia ideale eterna, ossia la vicenda di ogni nazione che si sviluppa attraverso tre stadi, divino, eroico e umano, i quali ricalcano le tre età dell’uomofanciullezza, giovinezza e maturità- e le tre facoltà dell’uomo - sensibilità, fantasia e intelletto. Aggiungere Cfr. G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 106 107
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potenze divine. La nascita della metafisica e teologia poetica si verifica allora in un momento preciso, quello in cui il silenzio delle foreste postdiluviane viene per la prima volta scosso dal fulmine e dal rombo di tuono: «dugento anni dopo il diluvio […] il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi […] quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture démonti […] spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo»108. Questi primi uomini, presi dallo spavento, volgono gli occhi al cielo e lo avvertono come un grande animale che chiamano Giove. Al di là dell’episodio meteorologico, ciò che accomuna il fr. 64 di Eraclito e la descrizione vichiana è l’attribuzione al fulmine, in qualità di fascio di luce che squarcia l’oscurità, di una funzione manifestativa fondamentale. Se in Eraclito esso è connesso direttamente con il sorgere del mondo, in Vico esso determina la nascita della religione. I primi uomini, infatti, che fecero l’esperienza del fulmine «si finsero il cielo esser un grande corpo animato, che per tale aspetto chiamarono Giove […] e sì incominciarono a celebrare la naturale curiosità, che è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza, la quale partorisce, nell’aprire che fa della mente dell’uomo, la meraviglia». Nel filosofo napoletano dunque il fenomeno del fulmine provoca il rossore109 del cielo, che sancisce la nascita della religione e in senso lato costituisce il momento in cui l’uomo alza lo sguardo non più rivolto verso terra, come l’animale, ma verso il cielo, verso il mondo, verso i τά πάντα del fr. Eracliteo. In virtù del fulmine avviene la metamorfosi del bestione in G.B. Vico, Scienza Nuova, libro II, in Id. , Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano, 1990. Per un’analisi dettagliata del pensiero vichiano rimando a G. Cacciatore, Metaphysik, poesie und geschichte. Uber die philosophie von Gian Battista Vico, Akademie Verlag, Berlino 2002; Id. , Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, in J. Trabant, Vico und die Zeichen, Gunther Marz Verlag, Tubinga, 1995, pp. 257-269. 109 Vico ci parla di tre tipi di rossore, quello del cielo, quello dei vivi, e infine quello dei morti. Tutti e tre sono connessi alle tre istituzioni civili individuate da Vico nella sua analisi della storia ideale eterna: religione, matrimonio, sepoltura. 108
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uomo, un vero e proprio evento, possibile grazie alla Lichtung del mondo.
Platone Secondo Heidegger la parola fondamentale dell’allievo110 di Socrate è ι̉δέα. L’ ι̉δέα realizza il venire alla presenza, ed il venire alla presenza è poi ciò che l’essere è essenzialmente. Idea indica dunque l’essenza, il che cos’è di un ente. Ma se seguiamo la schematizzazione heideggeriana esposta in Domande fondamentali della filosofia possiamo notare che idea è solo uno dei significati dell’essenza ( che cos’è di un ente ), quello che indica l’esser stato visto dell’ente111. Questo perché ι̉δέα è «l’aspetto che qualcosa offre nel suo che-cosa, l’aspetto che porta in sé da dare in visione»112. Se l’ ι̉δέα indica l’esser stato visto di una cosa, allora è evidente che essa si rapporta a due cose principalmente: – l’ό̉ν – l’ι̉δεĩν Per Heidegger proprio perché l’idea indica l’ente nel suo esser stato scorto, essa ha un rapporto preminente con l’ente e solo secondariamente con l’ι̉δεĩν. Ma qual è il rapporto tra idea ed ente? Se l’ente è riconosciuto tramite l’idea che indica il suo esser stato visto, l’ente si mostrerà in primo luogo nel suo checosa, e il che-cosa di un ente è ciò che permane dell’ente. Il che cos’è è l’elemento costante. Che poi il singolo ό̉ν esista o meno, questo non è fondamentale, cioè non appartiene affatto alla sua essenza. In altre parole, è solo perché l’ente è visto come 110 Sul pensiero di Platone cfr., D. Ross, Platone e la teoria delle idee, il Mulino, Bologna 1989. 111 Heidegger individua i seguenti significati di essenza: universale, genere, a priori, subiectum, ciò che è comune, quidditas, aspetto, esser stato visto dell’ente. Cfr., M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, op.cit., p. 51. 112 Ivi, p. 54.
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“dischiudentesi mostrantesi presenza”113, cioè come ciò che è sempre presente, che esso viene determinato nel suo essere essente in base all’idea, cioè in base al suo essere stato visto, al suo che cos’è. Nel rapporto tra idea ed ente sono in gioco le parole fondamentali di Heidegger: essere come presenza costante, disvelatezza – α̉λήθεια e ι̉δεĩν. Con Platone, l’idea diviene padrona della α̉λήθεια. Sappiamo che l’α̉λήθεια indica la verità, ma l’α̉λήθεια heideggeriana indica il non nascondimento, la svelatezza, l’apertura originaria, la Lichtung che consente ogni guardare correttamente. È quindi perché c’è l’apertura che vi può essere l’orthotes della visione. Affermare dunque che con Platone l’ α̉λήθεια cade sotto il giogo dell’ι̉δέα114, vuol dire che il riferimento che Heidegger pone come originario tra εĩ̉ναι e α̉λήθεια si spezza. L’α̉λήθεια non indica più svelatezza, ma correttezza del rappresentare asserente. Ciò emerge soprattutto nel testo Sull’essenza della verità, dove l’analisi heideggeriana vede nell’idea platonica non l’Anwesung, l’atto del presentarsi, ma il Wesen, il contenuto essenziale. Dunque fondamentale risulta essere il corretto riferimento dello sguardo sulla cosa – ̉ορθότης che produce ̉ομοίωσις, concordanza di conoscente e conosciuto – con la conseguente impostazione gnoseologistica della verità (gnoseologia dell’adaequatio) e la disattenzione per il presentarsi della cosa in quanto non nascosta. Il tendere alla verità diventa conoscenza dell’ente in base al guardare rivolto alle idee. Per Heidegger con Platone la svelatezza è imprigionata nella rete della visione, dell’apprensione e dell’asserzione. La svelatezza dissociata dall’ente e dall’essere si associa alla soggettività, all’uomo. Il τό γαρ αυ̉τό νοεĩν ε̉στίν τε καί εί̉ναι si trasforma nella sentenza esse = percipi. Con Platone comincerebbe la storia della metafisica intesa come “umanismo”. Soffermiamoci ora sui seguenti tre punti: 113 114
Ivi, p. 55. Ibidem.
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– essere (εĩ̉ναι) – verità (α̉λήθεια) – visione (ι̉δεĩν) Per Heidegger l’impostazione “soggettocentrica” imperante ci indurrebbe a legare ι̉δεĩν e α̉λήθεια in primo luogo, mentre solo successivamente l’ente entrerebbe in questa connessione, quale pietra di paragone dell’attività dell’intelletto e materia grezza di un approccio gnoseologico. In questo modo l’ α̉λήθεια si configurerebbe “non come un carattere fondamentale dell’ente ma come correttezza del guardare”115. Come sappiamo, Heidegger dà priorità alla dimensione della disvelatezza e per questo è portato a dire che l’origine dell’epochè e della “povertà estrema” caratterizzante il tramonto dell’Occidente – che già nel nome dà l’idea del tramontare: Abendland – sono riconducibili proprio a Platone. Il filosofo delle idee ribadisce per Heidegger la concezione dell’essere in termini di identità. Come già in Parmenide ed in Eraclito, l’essere si configura come il nocciolo identico nel divenire del molteplice; come sfera immobile, come uno tutto, come idea. La difficoltà di pensare l’identità viene però avvertita dallo stesso Platone Il Sofista è proprio un tentativo di pensare l’identità nel suo rapporto costitutivo con la differenza. In direzione di un’apertura alla differenza va anche Aristotele. Heidegger riconduce alla parola ε̉νέργεια il pensiero fondamentale dello Stagirita.
Aristotele Heidegger individua nell’ ε̉νέργεια il concetto fondamentale di Aristotele116, la vera e propria chiave di volta del suo sistema metafisico. Per comprendere la centralità di tale nozione 115
185.
M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, cit., p.
116 Sul pensiero di Aristotele cfr., E. Berti, Guida ad Aristotele, Laterza, RomaBari, 1995, G. Reale, Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 2008.
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sarà utile ricordare alcuni aspetti indicativi della metafisica dello Stagirita. Abbiamo detto che il secondo significato della metafisica è : scienza dell’essere in quanto essere, cioè dell’essere nella sua totalità. L’essere a sua volta si presenta in quattro modi fondamentali: «l’essere inteso in generale ha molteplici significati, uno di questi è l’essere accidentale, un secondo è l’essere come vero e il non essere come falso, inoltre ci sono le figure delle categorie e ancora oltre tutti questi c’è l’essere come potenza e atto»117. L’accidente indica ciò che non è né sempre né per lo più, ma talvolta, la cui causa è un evento fortuito. L’essere come vero e il non essere come falso sono affezioni della mente, entia rationis, esseri puramente noologici. Essi consistono nelle operazioni di divisione e connessione del pensiero. Nel contesto dell’analisi dell’essere a partire dalle categorie (settimo libro ) è individuata una categoria fondamentale: la sostanza118. Ma ai fini del nostro discorso è bene tenere presente anche il quarto modo dell’essere: l’essere secondo la potenza, cioè la possibilità e capacità da un lato, e l’atto, cioè la realizzazione di quella capacità e possibilità dall’altro. È evidente che se la metafisica è ontologia, cioè scienza dell’essere, e se l’essere è principalmente sostanza, la “parola fondamentale” di Aristotele dovrebbe essere sostanza: «e in verità ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema “che cos’è l’essere?”equivale a questo “che cos’è la sostanza?»119. Tuttavia Heidegger parla di ε̉νέργεια come parola guida. Il concetto di ε̉νέργεια assume particolare rilievo non soltanto per la filosofia seconda120 ma anche nella filosofia prima, dal Ivi, E2 1026a33. Aristotele individua dieci categorie: sostanza, qualità, quantità, relazione, agire, patire, dove, quando, avere, giacere. 117 118
Ivi, Z1 1028b3. Il problema della sostanza si divarica poi in:domanda circa il genere di sostanze esistenti (sensibili o soprasensibili).domanda circa il che cos’è della sostanza. 119
120 Aristotele, Metafisica, E1 1026 a 18-33. Qui il filosofo dà un’ immagine tripartita della filosofia teoretica, la quale si divide in: matematica, fisica e filosofia prima o teologia, e afferma che, se esistesse soltanto la natura, la fisica potrebbe chiamarsi filosofia prima.
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momento che riguarda non solo la sostanza sensibile ma anche quella soprasensibile. Lo spessore teorico emerge in particolar modo nei libri E e Q . Nel primo viene annunciato quel quarto modo dell’essere, definito secondo la potenza e l’atto, che nel secondo sarà tematizzato per esteso. «La potenza e il potere sono parole che esprimono molti significati»121. Ora i significati di δύναμις e di δύνασθαι sono principalmente: potenza come principio di mutamento, cioè come α̉ρχή μεταβολής122 e quindi anche di movimento, α̉ρχή κινέσεως123, e potenza come ύ̉λη, come materia124. Nel primo caso abbiamo un riferimento al movimento, nel secondo alla sostanza. Diversamente, per il concetto di atto il filosofo utilizza due termini che possono essere considerati sinonimi: ε̉νέργεια e ε̉ντελεχεια. Anche in questo caso è possibile individuare, come nel caso della δύναμις, un doppio riferimento, sia al movimento, che alla sostanza. Avremo dunque un atto inteso come realizzazione di ciò che è in potenza, «come chi costruisce sta a chi può costruire»125, dunque come movimento, e un atto come «esistere della cosa»126, dunque come forma e come sostanza. Da queste battute risulta chiaramente la centralità della nozione di movimento, nozione che permette di introdurre all’interno dell’essere una dinamicità necessaria a spiegare la realtà a tutti i suoi livelli, superando ciò che per Aristotele costituisce il monismo ontologico eleatico e il dualismo platonico. E questo avviene proprio grazie a quei concetti di δύναμις ed ε̉νέργεια che costituiscono la condizione di possibilità per la comprensione del rapporto ύ̉λη \ ου̉σία nel sinolo, termine che indica il composto di materia e forma, etimologicamente il “tutt’uno”, «la sostanza infatti è la forma immanente, la Ivi , q1 ,1046 a 4-5. Ivi , q 1, 1046 a 11. 123 Ivi , q 6 , 1048 a 25. 124 Ivi, q 8 , 1050 a 15-16. 125 Ivi , q 6 1048 b1. 126 Ivi , q 6 1048 a 32. 121 122
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cui unione con la materia costituisce la sostanza – sinolo […] nella sostanza intesa nel senso di sinolo […] è presente anche la materia»127. Heidegger traduce ε̉νέργεια come “starein-opera”128, ed ε̉ντελεχεια come “l’aversi-nella-fine”129, che insieme al concetto di δύναμις diventano le vie di accesso privilegiate al pensiero di Aristotele, ma più in generale della metafisica, dal momento che queste sono «quelle categorie da lui usate, in, senso stretto, per caratterizzare l’ essere dell’ente»130. Ma perché accade questo? Sappiamo che tali concetti si riferiscono innanzitutto all’ambito di realtà che Aristotele definisce come oggetto di una delle branche della scienza teoretica, la fisica, che si occupa dell’ente in movimento. Un concetto quale quello di ε̉νέργεια, dai Latini reso con il termine actus 131, traduzione che tanta importanza avrà per Heidegger nel contesto dell’analisi della metafisica come nichilismo nel Nietzsche, diventerebbe il modo fondamentale in cui Aristotele esprime il suo pensiero circa l’essere, cioè la sua posizione metafisica. Ẻνέργεια, che indica l’atto di una cosa che è in potenza, esprime un concetto immediatamente fisico, ma non dimentichiamo che per Heidegger la “Fisica aristotelica è il libro fondamentale della filosofia occidentale”132. Vediamone allora i motivi. Gli otto libri della Fisica si occupano della φύσις e dell’ente in quanto mosso, «con il concetto di fusiV Aristotele indica la presenza […] che non è statica, ma indica in pari tempo qualcosa che è movimento e principio»133. Ivi, Z 11 1037 a 28-34. M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto di physis , in Id., Segnavia, cit., p. 238. 129 Ivi, p. 240. 130 M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Guida, Napoli 2005, p. 77. 131 Sul passaggio dell’ε̉νέργεια all’actus sia dal punto di vista linguistico che concettuale cfr. M.Heidegger, Nietzsche, cit., pp. 872-881. 132 M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto di physis, in Id, Segnavia, cit., p. 196. 133 Cfr. E. Garulli, Heidegger e la storia dell’ ontologia, Argalia Editore, Urbino 1978, p. 117. 127 128
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Heidegger definisce la φύσις come «il pro-dursi, il portarsi fuori dalla latenza, il recare ciò che è latente in posizione»134. La φύσις non indica ancora «un ambito particolare dell’ente, ma l’ente come tale nella sua totalità e precisamente nel senso di una presenza che si apre»135, cioè indica l’essere di ciò che è, l’essere dell’ente. Per questo una riflessione sulla φύσις è allo stesso tempo una riflessione metafisica, e ciò è ravvisabile nello stesso testo aristotelico. Infatti in conformità al suo stile espositivo, che è anche sempre un stile comparativo, lo Stagirita conduce un’indagine sull’ό̉ν tenendo presente la posizione dei suoi predecessori proprio sulla φύσις136. Per Heidegger ένέργεια di Aristotele indica l’ου̉σία, la presenza, l’essere come presenza. Ma in che modo quello che con la transizione dal greco al latino passa sotto il nome di actus , che per altro indica solo un “modo” dell’essere, giunge ad indicare non una parte, bensì la totalità? Heidegger ci parla di un “evento” nella storia dell’essere, un evento che ha una risonanza ben più grande di una semplice speculazione metafisica; tale evento è la distinzione dell’essere in che cos’è e in che è . Nel primo caso si tratta dell’essenza che «risponde alla domanda: τί ε̉στίν, che cosa è un ente», nel secondo è in questione l’esistenza «che afferma di un ente ό̉τι ε̉στίν, che esso è»137. Tale distinzione nel cuore dell’essere, tale differenza originaria cela un’essenza dell’essere che Heidegger definisce come permanenza-presenza, traducendo in questo modo la parola greca ου̉σία138. Presenza e permanenza indicano anche l’ ε̉νέργεια, quello “stare-in-opera”139, dove l’έ̉ργον va inteso non in rapporto alla ποίησις ma alla φύσις, cioè come ciò che è “portato in M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 26. Idem, Dell’essenza della verità, cit., p. 26. 136 Mi riferisco al libro G della Metafisica, 1003 2. 137 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 866. 138 Ibidem. 139 M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto di physis, in Id., Segnavia, cit., p. 238. 134 135
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un produrre”140, nel senso dello schiudersi da sé e dell’essere presente nella svelatezza. Tutt’altro senso vengono ad assumere l’opus, il factum e l’actus latini – legati questi al paradigma della produzione per voluntas dei – che ancora in Essere e Tempo non vengono distinti, bensì assimilati all’ έ̉ργον greco, così come emerge anche da I problemi fondamentali della fenomenologia141.
Il senso e la funzione dei concetti aurorali della metafisica Ricapitolando, abbiamo detto che Heidegger individua quattro vie di accesso ai pensatori fondamentali dell’antichità: έ̉ν (Parmenide), λόγος (Eraclito), ι̉δέα (Platone), ε̉νέργεια (Aristotele). L’ έ̉ν è «l’unità semplicemente unificante. L’uno-tutto»142. Del λόγος si dice che è l’atto fondamentale del pensiero, l’atto che «fa apparire ciò che sta dinanzi»143. L’ ι̉δέα poi «determina l’esser presente di ciò che è presente, cioè l’esserecome aspetto»144. Infine l’ ε̉νέργεια appare come «lo starein-opera»145. Seguendo il suggerimento di Löwith, proviamo ad uscire dal “cerchio magico”146 del linguaggio heideggeriano, per comprendere il filo conduttore di queste traduzioni, che hanno sempre la pretesa di essere “più filologiche” di ogni tipo di “filologia scientifica”, che a dire di Heidegger «è in realtà priva di pensiero»147. Cosa vuole dirci, qual è il senso veicolato dalle sue barocche traduzioni? Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto porci la questione del ruolo che il “mattino greco” riveste nell’itinerarium mentis verso l’essere del filosofo tedesco. Idem, Nietzsche, cit., p. 867. Idem, I problemi fondamentali della fenomenologia, Il melangolo, p. 83. 142 Idem, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 2002 – quinta conferenza – pp. 195-196. 143 Ivi, seconda conferenza, p. 142. 144 Ivi, quarta conferenza, p. 181. 145 Idem, Sull’essenza e sul concetto di physis, cit., p. 238. 146 K. Lowith, Saggi su Heidegger, Se, Milano, 2006, p. 22. 147 M. Heidegger, Concetti fondamentali, cit., p. 112. 140 141
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Posto che l’essere è “l’autentico e unico tema della filosofia”148, concluderemo che la caratterizzazione heideggeriana della tematica ontologica antica, va in una direzione ben precisa: svelare l’originario occultamento dell’essere a favore dell’ente, che “avviene” proprio agli albori, nella modalità dell’autoccultamento potremmo dire, dal momento che l’esserci non decide dell’essere ma rientra già da sempre in una “decisione iniziale dell’essere stesso”. Heidegger si porrebbe dunque come un “maestro del sospetto”, prendendo in prestito l’immagine ricoeuriana riferita a Marx, Nieztsche e Freud, maestro che scopre l’iniziale “copertura” dell’essere. Il filosofo tedesco denuncia la riduzione della temporalità alla modalità della presenza, in quella che è la considerazione tradizionale dell’essere. Infatti «l’interpretazione antica dell’essere dell’ente trae il suo orientamento dal “mondo” della natura e […] ricava dal “tempo” la sua comprensione dell’essere»149. Quest’ultima si configura come diretta conseguenza di un’originaria entificazione dell’essere, di una sottomissione della tematizzazione ontologica a quella ontica150. Vediamo perché. Le quattro parole fondamentali indicano prossimità e distanza allo stesso tempo rispetto a quel concetto che ha messo in moto il pensiero dell’uomo: φύσις. Tale nozione non indica originariamente la natura nel significato che noi tutti conosciamo, ma l’essere del quale possiamo individuare tre caratteristiche fondamentali151: – ciò che sboccia da se stesso a prescindere dall’intervento del soggetto, quello che spontaneamente si apre e appare, ciò che giunge a manifestazione e alla presenza; Idem, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 10. Idem, Essere e Tempo, cit., p. 39, § 6. 150 Idem, Dell’esenza del fondamento, in Id., Segnavia, cit., p. 90. 151 Idem, Essenza della verità, Introduzione a cura di U. Galimberti, Editrice La scuola, p. 44. 148 149
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– l’essere indica allora la presenza ma anche il contenuto della presenza, cioè la molteplicità degli enti, esso è il lasciare accadere gli enti; – l’essere è la donazione in virtù della quale l’ente sorge. Tale apertura, dispiego e offerta sembrano contrastare con l’idea della metafisica occidentale dalla quale l’essere si è assentato. Come comprendere la compresenza della figura del verborgen con quella del walten? La connessione di nascosto e svelato? Secondo Heidegger a partire da Platone l’essere da presenza di qualcosa è divenuto il qualcosa presente. L’essere si è ridotto ad ente con la conseguente scomparsa della differenza ontologica tra essere ed ente e la connessa metamorfosi della ̉αλήθεια̉ in ορθότης, laddove in Parmenide ancora è ravvisabile l’eco dell’identità di ̉είναι e λόγος. Il λόγος, infatti, alla stregua dell’essere è l’orizzonte dell’apparire dell’ente. Apparire e presenza da caratteri costitutivi dell’essere – dopo la separazione di presenza e contenuto della presenza ad opera di Platone – sono confluiti nell’uomo come sue note distintive nella forma dell’intelletto e dell’Io penso. L’attrazione verso il soggetto attribuita alla metafisica sarebbe, secondo il filosofo tedesco, il corollario della scissione di presenza e contenuto della presenza. Vediamo che cosa intende Heidegger con tale espressione. Nella cornice tematica de I problemi fondamentali della fenomenologia, laddove la temporalità è assunta come origine costitutiva dell’esserci e della possibilità di comprensione dell’essere, Heidegger compie un agile attraversamento delle domande che hanno intrecciato il destino dell’essere al problema del tempo: «se già fin dagli inizi della filosofia antica – pensiamo per esempio a Parmenide: lo stesso è essere e pensare, o a Eraclito: l’essere è il logos – la problematica filosofica si è orientata in direzione della ragione, dell’anima, dello spirito, della coscienza, dell’autocoscienza, della soggettività, allora non è un caso, e non ha nulla a che fare con le visioni del mondo, il fatto che il contenuto fondamentale, certo ancora nascosto, della 45 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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problematica ontologica in quanto tale abbia sospinto e guidato l’interrogare scientifico. L’attrazione […] verso il soggetto […], la chiarificazione adeguata dell’esserci, compiuta risalendo alla temporalità, prepara solamente il terreno su cui si può porre in modo sensato la domanda sulla possibilità di comprendere l’essere in generale»152. Parmenide allora ci appare come colui che ci introduce in quel sentiero, che sarà l’unico sentiero percorso dal pensiero, quello della metafisica come epochè in quanto soggettivizzazione dell’essere, nel senso di una riduzione dell’essere al suo esserepercepito153, e di oggettivizzazione dell’essere, nel senso di una riduzione dell’essere a oggetto, sia del rappresentare che della tecnica, i quali costituiscono i paradigmi della metafisica. Siamo insomma di fronte a quei concetti che con Cartesio prenderanno i nomi di res cogitans e res extensa154. Al pensiero dunque appartiene quell’Irren originario che è già sempre un Irrtum, quell’errare-vagare tra gli enti obliando il pensiero dell’essere e la “dimenticanza stessa”. Per Heidegger l’έ̉ν di Parmenide, il λóγος di Eraclito, l’ι̉δέα di Platone, l’ε̉νέργεια di Aristotele, annunciano già sempre un oblio della verità dell’essere in favore unicamente dell’ente, mostrando così di privilegiare l’ombra piuttosto che la luce, Idem, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 300, §21b. Ivi, p. 104, §11b: “già Parmenide, il fondatore dell’ontologia antica, afferma che sono la stessa cosa il νοεĩν, il percepire, la semplice intuizione e apprensione e l’essere, l’effettività”. 154 Cartesio, Meditazioni metafisiche, Bompiani, Milano 2007, p. 169. Meditazione II: “ma dunque che cosa sono? Una cosa che pensa”. Nel prosieguo della meditazione Cartesio affronta anche la questione dei corpi, utilizzando il famosissimo esempio della cera, il quale non ha altro scopo che di mostrare che la conoscenza della realtà esterna non è empirica. Il momento empirico legato alla percezione sensibile, ai sensi è dominato da confusione e oscurità che sappiamo essere le polarità antitetiche ai criteri gnoseologici di chiarezza e distinzione. “Mi è ora noto che gli stessi corpi non sono colti propriamente dai sensi, o dalla facoltà di immaginare, ma dal solo intelletto, e che non sono colti per il fatto che vengono toccati o vengono visti, ma soltanto per il fatto che sono concepiti” ( Medit. II, p. 175). E come ci facciamo il concetto di cera, come la concepiamo? “Eliminato tutto quello che non appartiene alla cera, vediamo che cosa rimanga: certo null’altro che qualcosa di esteso, flessibile e mutevole”. 152 153
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ciò che è presente rispetto alla presenza stessa. La metafisica è insomma l’epoca della non-verità, sia nella modalità del mistero, che dell’errore155. Eppure la Grecia resta il punto di partenza imprescindibile dell’itinerario speculativo di Heidegger, una Grecia certo che «non è mai stata, perché infine appartiene allo stesso destino dell’α̉λήθεια di rivelarsi per farsi dimenticare»156. Tale oblio è però ugualmente necessario per intraprendere un “cammino” verso “l’inizio”, un inizio che non sia il primo, poiché il primo inizio è la metafisica157, ma un altro inizio che trascenda la verità dell’ente per esperire ciò che dell’inizio è “iniziale”: la verità dell’essere e la domanda dell’essere della verità158.
M. Heidegger, Essenza della verità, cit., pp. 33-41. M. Ruggenini, Veritas e Aλήθεια. La Grecia, Roma e l’origine della metafisica cristiano-medievale, in Quaestio, 1(2001), pp. 83-112. 157 M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., p. 186. 158 Ivi, p. 190. 155 156
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Capitolo secondo La metafisica come Critica della ragione pura: io e tempo
Di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono, in quanto sono, di quelle che non sono, in quanto non sono. Protagora
Nel capitolo precedente abbiamo passato in rassegna i concetti-guida di quei filosofi che, secondo Heidegger, hanno rivestito un ruolo fondamentale nella metafisica della “terra del tramonto”. È emerso che la caratterizzazione heideggeriana ha avuto come filo conduttore la Lichtung – a cui dedicheremo ampio spazio nell’ultimo capitolo – e ha assunto come orizzonte interpretativo della Grecità il concetto di essere come presenza e la stretta connessione tra φύσις e α ̉ λήθεια. La nostra attenzione sarà ora rivolta al tema del tempo, con particolare riguardo a un testo molto importante per la comprensione del Denkweg heideggeriano: Kant e il problema della metafisica. Ai fini del discorso qui portato avanti – discorso che ha lo scopo di porre in rilievo il concetto di Lichtung quale paradigma esegetico dell’interpretazione heideggeriana della metafisica – non è privo di fondatezza il riferimento al testo citato sopra, dal quale trasparirà con tutta evidenza la profonda connessione tra l’io e il tempo, quale struttura originaria dell’uomo, con la conseguente presa di coscienza della rilevanza che il tempo detiene per la 48 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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comprensione della metafisica, se è vero che «la fondazione della metafisica ha la sua base in una metafisica dell’esserci»1. Allo scopo di comprendere la metafisica nella sua fondazione e storia entra in gioco la Critica della ragione pura kantiana, ritenuta da Heidegger una emblematica immagine di metafisica dell’esserci2. Il motivo per cui Heidegger vede nel testo kantiano una fondazione della metafisica in termini di critica della ragione pura emerge nella sezione prima del testo del 1929. Qui il filosofo pone in evidenza l’orizzonte in cui è collocabile l’interpretazione kantiana della metafisica, ossia quell’orizzonte che vede nella metafisica «la conoscenza fondamentale dell’ente in quanto ente e in totale»3. Questa scienza che prende il nome di metaphysica generalis o ontologia si affianca alla metaphysica specialis che non ha come oggetto di indagine l’ό̉ν η όν, ossia l’ens comune, ma la triade Dio-uomo-mondo. Ci stiamo riferendo, insomma, al concetto scolastico4 di metafisica per cui «la totalità dell’ente M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 198. Sul rapporto tra Heidegger e Kant e in particolare sulla interpretazione heideggeriana della Critica di Kant cfr., E. Severino, Heidegger e la metafisica, Adelphi, Milano, pp. 39-124; F. Volpi, “Comincio ad amare realmente Kant” Heidegger scopre Kant, in E. Mazzarella (a cura di), Heidegger a Marburgo, cit., pp. 211-229; U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 373-378. A. Di Somma, Metafisica, temporalità, io: la lettura heideggeriana della critica della ragion pura di Kant, in eds in I. Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia moderna, Limina Mentis 2017. 3 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., § 1, p. 17. 4 Heidegger mette nello stesso contesto, quello ontoteologico, sia la filosofia trascendentale di Kant sia l’ontologia medievale e questo nonostante la radicalità della contestazione kantiana che Heidegger avverte comunque come un lascito problematico. Nota è l’ambiguità heideggeriana nei confronti della Scolastica e del Medioevo tutto, e soprattutto colpisce il suo non tenere conto di un’intera gamma di progetti metafisici irriducibili tra loro, e che perciò stesso mal si conciliano una visione unitaria della metafisica medievale. Sappiamo che Heidegger non spende parole benevole per quella fase del “destino dell’essere” che è stato il Medioevo. Eppure la provenienza teologica di Heidegger è palese, basti pensare al testo del 1916 La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, ossia all’opera di abilitazione di Heidegger alla libera docenza, composta nel 1915 e pubblicata l’anno successivo. Essa si fonda su un testo, La Grammatica Speculativa, di discussa attribuzione già negli anni in cui Heidegger scrive, poi definitivamente sottratta alla paternità scotista e attribuita a Tommaso di Erfurt. Dunque Heidegger avrebbe commesso un clamoroso errore che, però, non 1 2
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non divino è un creato»5. Questa impostazione è all’origine di quella posizione di privilegio che l’uomo assume, subordinando tutto «alla salvezza della sua anima e alla sua vita eterna. Così secondo questa coscienza cristiana del mondo e dell’esserci, la totalità dell’ente si suddivide in tre sfere: Dio, natura e uomo»6. Queste sfere vengono connesse, rispettivamente, alla teologia, il cui oggetto è il summum ens, alla cosmologia e alla psicologia, che vanno a costituire quella che è definita metaphysica specialis. La possibilità della conoscenza, allora, sembra essere legata a quella della metafisica speciale, che riduce l’importanza di questo testo, il cui valore, se non si connette ad un rigore storico-filologico, si connette però ad una questione importante nel “cammino” di pensiero del filosofo tedesco, ovvero alla questione dell’essere. Il testo, diviso in due parti (la prima si occupa delle categorie e quindi dei trascendentali esse, verum, bonum; la seconda affronta il problema del significato), ha come obiettivo principale quello di mostrare l’esistenza di categorie logiche distinte dall’essere reale. Infatti i trascendentali, ossia i massimi predicamenti del reale, ens verum e bonum, non si ritrovano, secondo il filosofo, nelle dieci categorie aristoteliche, in quanto tali categorie valgono per la realtà effettuale. Tale testo va inquadrato nella impostazione antipsicologista e antivitalistica del filosofo, ma allo stesso tempo si iscrive anche nell’itinerario metafisico che pone la ratio, frutto dell’impostazione soggettocentrica che muove tutta l’onto-teologia, come chiave di volta della stessa realtà. Su tale tema vedi A. Caputo, Razionalismo e irrazionalismo nell’interpretazione della grammatica Speculativa, in (a cura di) C. Esposito, P. Porro, Quaestio, Heidegger e i medievali, Cassino 2000 e O. Todisco, Il caratere oggettivo dell’ente scotista nell’interpretazione di M.Heidegger, in Quaestio, cit. Ma è Heidegger stesso a riconoscere il suo debito verso il pensiero teologico speculativo. Secondo quanto riporta un suo allievo diretto, egli non si sarebbe mai presentato come «un filosofo, bensì come, un teologo cristiano (con l’accento sul logos) cui toccava il compito unico e del tutto inadatto a proseguirsi in una scuola, di distruggere criticamente l’universo concettuale a noi tramandato dalla filosofia e teologia occidentale; un compito, in cui poteva anche capitare talvolta di girare la macina del mulino». K. Löwith, Saggi su Heidegger, pp. 149-150. Per una discussione dettagliata dei rapporti tra Heidegger e la filosofia medievale cfr., P. Porro, Heidegger, la filosofia medievale e la medievistica contemporanea, in Quaestio, cit.; S. Poggi, La medievistica tedesca tra Ottocento e Novecento, la mistica e il giovane Heidegger, in Quaestio, cit.; A. Fabris, Heidegger e il rapporto tra sapere e fede, in Quaestio, cit.; V. Melchiorre, Il linguaggio dell’essere tra filosofia e teologia, in M. Ruggenini (a cura di), Heidegger e la metafisica, Marietti, Genova 1991. 5 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 18. 6 Ibidem.
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permette di conoscere la realtà nella sua costituzione specifica e non in base a ciò che di comune c’è tra gli enti. Secondo il filosofo di Messkirch, però, «il progetto della possibilità intrinseca della metaphysica specialis viene […] ricondotto, attraverso il problema della possibilità della conoscenza ontica, al problema riguardante la possibilità di ciò che rende possibile la conoscenza ontica»7, ossia quella conoscenza ontologica che verte sull’essere. Questa è la questione decisiva. La conoscenza ontologica – e unicamente questa – mette in chiaro ogni possibile rapportamento all’ente (conoscenza ontica). La fondazione della metafisica, allora, comporterà uno «svelamento della possibilità intrinseca dell’ontologia»8, nel senso che ogni comprensione dell’ente farà capo alla preliminare – e pertanto fondativa – comprensione del suo essere. L’ontologia/ metafisica, dunque, prende la forma della ricerca sui giudizi sintetici-a priori, che non hanno una caratura gnoseologica9 – o perlomeno non è conoscitivo il loro ruolo primario – ma enunciano un «preliminare riferimento all’ente»10. In questa storia della metafisica, Kant e la sua dottrina della ragione pura occupano un ruolo centrale per Heidegger, sebbene alla centralità della posizione si accompagni una sua intrinseca lacunosità. Per il filosofo di Königsberg, infatti, «la connessione decisiva tra tempo e io penso è rimasta avvolta nella più completa oscurità e non è neppure divenuta un problema»11. Tale oscurità è riconducibile al fatto che Kant è rimasto prigioniero della «comprensione del tempo ordinaria e tradizionale»12, dove il modo ordinario e tradizionale di intendere il tempo è quello Ivi, p. 20. Ivi, p. 21. 9 «L’intento della Critica della ragion pura resta quindi fondamentalmente misconosciuto, qualora si interpreti quest’opera come teoria dell’esperienza o addirittura come teoria delle scienze positive. La critica della ragion pura non ha nulla a che fare con una teoria della conoscenza». Ivi, p. 24. 10 Ivi, p. 23. 11 Idem, Essere e Tempo, cit., p. 38, § 6. 12 Ibidem. 7 8
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che lo riconduce alla quantità. Il che significa non cogliere la dimensione originaria e autentica del tempo, il futuro – e sappiamo che per Heidegger la questione del tempo è decisiva. In una tale assolutizzazione del presente si fugge dinanzi al come e ci si attacca al che cosa13. Il come è poi anche la caratteristica che Heidegger intravede nella fenomenologia, la quale viene declinata in un metodo, che è sia ermeneutico sia ontologico. Possiamo rendercene conto se prestiamo attenzione a quanto è affermato nel § 7 di Essere e Tempo: «L’espressione “fenomenologia” significa primariamente un concetto di metodo. Essa non caratterizza il che-cosa reale degli oggetti della ricerca filosofica, ma il come di quest’ultima.»14. Per Heidegger la fenomenologia è quel «lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso»15; essa, infatti, non ha un oggetto suo proprio, una regione ontologica specifica, ma piuttosto è da considerarsi come una esibizione dell’ente16, che è inscindibile dal modo in cui l’ente si mostra. Paradossalmente però la fenomenologia di cui parla Heidegger è una fenomenologia dell’inapparente e non di ciò che appare. L’espressione fenomenologia dell’inapparente17 può risultare ossimorica, ma indica bene quello che per il filosofo è da intendersi quando ci si riferisce alla scienza dei fenomeni. Il φαινόμενον18, infatti, se da un lato indica ciò che si mostra da sé, dall’altro sta a significare che ciò che dovrebbe mostrarsi da sé, in realtà, è per lo più coperto. Secondo Heidegger la fenomenologia serve proprio a liberare i fenomeni, mettendo a nudo la copertura, il coperto e la possibilità stessa della scoperta. Idem, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 2008, pp. 42-43. Idem, Essere e Tempo, cit., § 7, p. 42. 15 Ivi, p. 50. 16 Ibidem. 17 Sul tema cfr. , R. Brisart, Il recupero heideggeriano dell’ontoteologia a Marburgo e la questione della fenomenologia, in E. Mazzarella (a cura di), Heidegger a Marburgo, cit., pp. 55-72. 18 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 7 – A, pp. 43-46, e Id., Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 9 α, pp. 102-105. 13 14
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Essa è «il lavoro del far-vedere disvelante»19 che lascia vedere quel nascosto che è l’essere dell’ente20, al quale possiamo accostarci a partire dai coprimenti predominanti, che «richiedono una particolare assicurazione metodologica. L’idea di un’apprensione e di una esplicazione dei fenomeni che siano originarie e intuitive è l’opposto dell’ingenuità di una visione casuale, immediata e irriflessiva»21. Lo statuto originario del fenomeno non implica, in ultima analisi, un’immediatezza di accesso. I coprimenti, di cui il filosofo parla, stanno ad indicare che la fenomenologia non è «un semplice vedere, il quale non ha bisogno di alcuna manifestazione metodologica»22. Anzi, essi mettono in luce come l’apprensione del fenomeno non sia qualcosa di immediato, dacchè il fenomeno non è un datum ma un ricavato. La fenomenologia risulterà essere, allora, ontologia, in quanto il suo sguardo è rivolto all’ente, ma anche ermeneutica, dal momento che fondamentali per incontrare l’ente sono «il punto di partenza dell’analisi, l’accesso al fenomeno e il cammino attraverso i coprimenti predominanti»23. Questi ultimi sono di importanza capitale dal momento che costituiscono quel primo modo di avere a che fare con gli enti che cela in sé la possibilità di scoprire il loro essere o lasciarlo nell’oblio; tanto è vero che la fenomenologia per il filosofo non può essere definita come un indirizzo filosofico, non essendo una corrente ma la «possibilità stessa del pensiero»24. Prima di passare all’analisi di Kant e il problema della metafisica è bene fare un accenno a quelle tre strutture della fenomenologia che Heidegger considera delle vere scoperte: intuizione categoriale, a-priori, intenzionalità. Ivi, § 9 b, pp. 108-109. Idem, Essere e Tempo, cit, p. 51. «Ma ciò che, in senso eminente, resta nascosto o ricade nello scoprimento o si manifesta solo i n modo contraffatto, non è questo o quell’ente, ma, […] l’essere dell’ente». 21 Ivi, 52. 22 Idem, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 110. 23 Idem, Essere e Tempo, cit., p. 52. 24 Idem, Il mio cammino nella fenomenologia, in Idem, Tempo e Essere, cit., p. 105. 19 20
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Le scoperte fondamentali della fenomenologia: intenzionalità, intuizione categoriale, a-priori Quando parliamo di fenomenologia non possiamo non pensare a Edmund Husserl, personalità di spicco della corrente fenomenologica25 e maestro di Heidegger. Quest’ultimo si pone, però, rispetto alla fenomenologia e al suo maestro in maniera del tutto particolare, per così dire eterodossa, tanto che è stato definito eretico della fenomenologia. Vediamo brevemente in che cosa consiste tale eresia26. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità, nella dialettica di soggetto-oggetto27. Il filosofo di Messkirch sente, infatti, l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli vede come “lacunosa”28; tuttavia il maestro resta tale per l’allievo: «di fronte a Husserl io sono ancora oggi nella posizione di chi impara»29 afferma Heidegger. Ai fini del nostro discorso, la focalizzazione su questi tre aspetti della lettura heideggeriana della fenomenologia risulta 25 Non rientrando nelle finalità del presente lavoro un’analisi dettagliata della posizione di Husserl e dell’intera “galassia fenomenologia” rimando per una generale ed esauriente esposizione a V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, pp. 39-277; e R. Raggiunti, Introduzione a Husserl, Laterza, Roma-Bari 2008. 26 Sulla definizione della posizione di Heidegger all’interno della fenomenologia in termini di eresia cfr., V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, cit., pp. 265-277. 27 Sul tema cfr., C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e Tempo»: dalla fenomenologia all’ontologia fondamentale, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, cit., 113-166. 28 M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 13-f, p. 161. 29 Ivi, § 13-c, p. 152. C’è da dire che nonostante una tale affermazione la dedica a Husserl presente in Essere e Tempo viene soppressa successivamente all’adesione al partito nazional-socialista.
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fondamentale dal momento che essi mettono in luce quelle due lacune su cui Heidegger tenta di gettare chiarezza col suo filosofare: l’essere in quanto tale e l’essere dell’intenzionale30. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e non «una teoria della relazione tra psichico e fisico»31. Essa enuncia «unicamente la struttura del dirigersi-a presente nei comportamenti»32 a prescindere dal fatto che ciò verso cui si dirige possa essere una cosa reale piuttosto che una fantasticheria o un valore33. Il concetto di intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il contenuto intenzionale. Bisogna subito mettere in chiaro, però, che tale nozione non indica una relazione intenzionale tra un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato. Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la coscienza è sempre diretta verso... Su questo punto Heidegger34 e il suo maestro Husserl35 concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come possiamo leggere al § 33: «Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere? […] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio Ivi, § 13-f, p. 162. Ivi, § 5-b, p. 44. 32 Ivi, p. 45. 33 Ibidem. 34 «Secondo il significato letterale, intentio significa: dirigersi-a. Ciascun vissuto, ciascun atteggiamento psichico si dirige verso qualcosa». Ivi, p. 36. 35 L’intenzionalità indica «la proprietà di essere coscienza di qualcosa». E. Husserl, Idee.., cit., § 36, p. 86. 30 31
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che non viene toccato nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza – della fenomenologia»36. Da questo passo emerge con chiarezza che attraverso l’epochè37 – ossia attraverso il metodo fondamentale della fenomenologia – la coscienza emerge in tutta la sua intenzionalità fungente38, per riprendere un’espressione di Crisi, un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività costitutiva e funzionale. L’epochè dischiude, insomma, un mondo dell’io che non si chiude nei suoi atti ma che, al contrario, appare come «vita che esperisce il mondo, come genesi intenzionale del senso, come territorio di ogni possibile obiettazione»39. Per Heidegger, tuttavia, l’impostazione di Husserl è troppo sbilanciata verso la coscienza, la quale, in ultima analisi, è l’elemento che conferisce senso, la condizione di possibilità del mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, «la coscienza, l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa»40. L’assolutezza della coscienza indica quel particolare modo di essere del soggetto che ha priorità rispetto a tutto il resto, ragion Ivi, § 33, pp.74-76. «Al tentativo cartesiano di un dubbio universale potremmo ora sostituire l’universale epochè nel nostro nuovo e ben determinato senso […] noi mettiamo fuori gioco la tesi generale inerente all’essenza dell’atteggiamento naturale, mettiamo tra parentesi quanto essa abbraccia sotto l’aspetto ontico: dunque l’intero mondo naturale, che è costantemente qui per noi alla mano, e che continuerà a permanere come realtà per la coscienza, anche se noi decidiamo di metterlo tra parentesi». Ivi, § 32, p. 71. 38 Idem, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano, 1961, § 57. 39 V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, cit., p. 146. 40 M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 11-c, p. 131. 36 37
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per cui risulta necessaria l’epochè, ossia quel prescindere-da che, però, per Heidegger «è fondamentalmente incapace di determinare positivamente l’essere della coscienza»41. Il nostro autore tenta di riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta all’epochè husserliana: tramite l’analisi del mondo come dimensione originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile rapporto. Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in luce proprio questo. L’uomo non è diretto verso un oggetto (come un predatore verso la sua preda o come una freccia verso il suo bersaglio), ma egli è innanzitutto presso il suo oggetto, presso il suo mondo di appagatività e significatività42 che rende possibile ogni atteggiamento – sia esso naturalistico o personalistico43 – verso l’ente. Ivi, § 12, p. 136. Idem, Essere e Tempo, cit., § 18. 43 Husserl in Idee parla di due atteggiamenti fondamentali verso il mondo: atteggiamento naturale e personalistico. Nel primo caso (§ 31) la tesi fondamentale dell’atteggiamento naturale poggia sulla considerazione del mondo come esistente. Tale tesi va sospesa tramite l’epochè fenomenologica che ha lo scopo di rendere possibile una conoscenza effettiva del mondo in quanto fenomeno, puro correlato di coscienza. La messa fuori gioco del mondo, che nell’atteggiamento naturale si presenta con il carattere di Vorhandenheit, ossia di essere alla mano, non significa, però, un annichilimento del mondo, la sua riduzione a nulla, dal momento che è in questione non la sua realtà ma il suo statuto di correlato di coscienza. Fuori circuito saranno per Husserl tutte le scienze che si riferiscono al mondo naturale, come è espresso nel § 32. In quest’ultimo c’è una nota davvero significativa che riporteremo per intero al fine di comprendere il fondamento della tesi naturale; Husserl scrive: «Io non assumo il mondo che mi è costantemente già dato in quanto essente, come faccio direttamente, nella vita pratico naturale ma anche nelle scienze positive, come un mondo preliminarmente essente e in definitiva non lo assumo come terreno universale d’essere per una coscienza che procede attraverso l’esperienza e il pensiero. Io non attuo più alcuna esperienza del reale in senso ingenuo e diretto. Io non assumo ciò che essa mi propone in quanto esistente simpliciter, in quanto presuntivamente o probabilmente esistente, in quanto dubitabile, in quanto inconsistente […] io mi inibisco proprio questo valere preliminarmente, che mi accompagna attualmente e abitualmente nella vita naturale e che fonda la mia intera vita pratica e teoretica, proprio questo preliminare esser-per-me del mondo; gli tolgo quella forza che finora mi proponeva il terreno del mondo dell’esperienza, e tuttavia il vecchio corso dell’esperienza continua come prima […] così attuo l’epochè fenomenologica, la quale dunque eo ipso, 41 42
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Heidegger parla a proposito dell’esser-presso il mondo di relazione ermeneutica e interpretativa. Il mondo non è affatto quel concetto che indica una totalità di enti ma esso «designa […] il concetto ontologico-esistenziale della mondità»44, quel concetto, cioè, che rende possibile l’apparire del mondo. Per il filosofo, affinché «il mondo possa in qualche modo apparire, occorre che in generale sia già aperto»45; e la Lichtung del mondo, la sua apertura, è costituita proprio dalla comprensione; il fenomeno del mondo, anzi, avviene come comprensione46. Il mondo, insomma, non è una res extensa ma un complesso di rimandi e di relazioni47. L’importanza che il concetto di mondo assume per Heidegger emerge anche da un altro punto di incontro/scontro con il maestro: l’intuizione categoriale; concetto, quest’ultimo, che non fa che ribadire il radicarsi dell’intenzionalità nell’essere-nel-mondo. Secondo l’allievo di Husserl, l’intuizione categoriale consente di pensare la categoria come dato, come oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6 dei Prolegomeni che «la scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in primo luogo, mi vieta anche l’attuazione di qualsiasi giudizio, di qualsiasi presa di posizione predicativa nei confronti dell’essere e dell’esser-così e di tutte le modalità d’essere dell’esistenza spazio-temporale del reale». Ivi, nota 4, pp. 71-72. Contrapposta alla tesi naturale è quella espressa nel § 49-e, la tesi personalistica. Qui è asserito che nell’atteggiamento personalistico l’uomo si sa come soggetto di un mondo circostante. Tale sapere rende possibile al soggetto di ergersi come persona che istituisce rapporti coscienziali con il mondo circostante, che non costituisce un in sé, essendo all’opposto un mondo-per-noi. La persona è concepita come centro del mondo circostante (§ 50) con il quale non ha un rapporto di stimolo-risposta (rapporto vigente, invece, nell’atteggiamento naturalistico) bensì una relazione motivazionale, che rende le cose delle oggettualità intenzionali. Ovviamente nel suo realazionarsi-a il soggetto non trova solo cose ma anche persone con le quali deve istituire relazioni di accordo fondate intersoggettivamente. 44 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 18, P. 87. 45 Ivi, § 16, p. 99. 46 «Il cio-in-cui della comprensione autorimandantesi, in quanto è ciò rispettoa-cui è lasciato venir incontro l’ente nel modo di essere dell’appagatività, è il fenomeno del mondo». Ivi, § 18, p. 112. 47 «Il complesso di rimandi che, in quanto significatività, costituisce l’essenza del mondo, può messere interpretato formalmente come un sistema di relazioni». Ivi, p. 114.
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che c’è un semplice coglimento del categoriale, di quelle entità nell’ente che si delineano tradizionalmente come categorie […] in secondo luogo è soprattutto la prova che questo cogliere è investito nella percezione quotidiana in ogni esperienza»48. L’intuizione categoriale è presente, cioè, in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è sufficiente a mostrare in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto «l’ente percepito si mostra sempre soltanto in un determinato adombramento»49. La percezione non è mai adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale si dà solo parzialmente. Una completa conoscenza dell’ente può avere luogo solo attraverso quel riempimento identificante che dona l’evidenza della regione cosale50. In altri termini, l’intuizione categoriale permette di gettare luce sul dato, attraverso la categoria, in un atto unico che ci permette di identificare un oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono all’ente di apparire nella sua identità oggettuale, esso si presenta come oggetto unicamente tramite un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione categoriale. Il punto fondamentale della questione per Heidegger è che «gli atti categoriali costituiscono una nuova oggettualità»51 che però non risulta dall’attività dell’intelletto nel mondo esterno; l’intuizione categoriale permette quel darsi dell’oggetto nel suo essere-in-sé a prescindere dall’attività ideativa del soggetto o dalla realtà dell’oggetto52. La funzione mediana dell’intuizione Idem, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 61. Ivi, p. 62. 50 «Il riempimento identificante è ciò che definiamo evidenza. Evidenza è un determinato atto intenzionale e precisamente dell’identificazione fra ritenuto e intuito; l’oggetto intenzionale si delucida da sé nella cosa […] poiché l’atto dell’evidenza significa visione identificante di uno stato di cose in base alla cosa originariamente intuita, l’evidenza, secondo il proprio senso, è di volta in volta di differente genere e rigore a seconda del carattere d’essere del campo cosale […] parliamo perciò di regionalità dell’evidenza». Ivi, pp. 63-64 51 Ivi, p. 89. 52 «La scoperta dell’intuizione categoriale ha mostrato una comprensione reale dell’astrazione (ideazione), del coglimento dell’idea. E così è giunto a conclusione, almeno provvisoriamente, un antico conflitto, quello circa l’essere dei concetti universali […] ci si pose la questione se essi siano una res oppure 48 49
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categoriale emergerà soprattutto nell’analisi dell’estetica kantiana condotta da Heidegger nel testo del ’29, allorché il filosofo metterà in chiaro in che modo l’intuizione pura del tempo sia a fondamento della sintesi del dato offerto dalla sensibilità con la categoria dell’intelletto; sintesi che rende possibile il rapportarsi all’ente. Il parallelo tra il senso dell’intuizione categoriale di cui si parla nei Prolegomeni e il senso dell’intuizione pura affrontata in Kant e il problema della metafisica non è privo di fondamento se si pensa al fatto che l’intuizione categoriale, come quella pura, consentono quel darsi dell’oggetto non nel modo della semplice presenza, ma nel modo della presentificazione, resa possibile soltanto nell’orizzonte della temporalità delle tre estasi53. Per concludere questo breve cenno all’eresia heideggeriana possiamo dire che la terza scoperta fondamentale di cui Heidegger si sente debitore nei confronti della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rilevare l’a-priori dell’intenzionalità per il filosofo «significa scoprire le strutture che costituiscono i singoli semplice flatus vocis, come si diceva nel diciannovesimo secolo, unicamente punti di vista, coscienza dell’universale, ai quali non corrisponde nulla di oggettuale. Insieme con la giustificata negazione della realtà degli universali nel senso della realtà di una sedia, si è al tempo stesso negata l’oggettualità dell’universale e con ciò si è sbarrata la via all’oggettualità, all’essere dell’ideale. La scoperta dell’intuizione categoriale ha spezzato questo vincolo, e a ciò ha contribuito l’ideazione. La conseguenza di questa scoperta risiede nel fatto che grazie ad essa la ricerca filosofica è stata posta in condizione di concepire in modo più acuto l’a-priori». Ivi, § 6-β, p. 90. Per il filosofo insomma l’intuizione consente di conciliare quelle coppie concettuali da sempre considerate opposte: materia/ forma, sensibilità/intelletto, spontaneità/ricettività (ivi, § 6-α, pp. 88-89) che non riuscivano a spiegare, nella loro opposizione, il meccanismo della comprensione. 53 Le analisi condotte nei testi ora citati mettono in luce proprio l’emergere del ruolo mediatore del tempo nel nostro rapportarci alla realtà, che consente quella particolare presenza della categoria già a livello della sensibilità. Sappiamo dai Prolegomeni (§ 6-α, p. 88) e da Kant e il problema della metafisica (§ 10, p. 52) che il concetto di sensibilità al quale Heideger fa riferimento è molto ampio, esso non fa capo semplicemente ai sensi ma a quell’«α̉ίσθησις ontologica, grazie alla quale diviene possibile scoprire a-priori l’essere dell’ente». Ibidem. La sensibilità orientata categorialmente non è altro che quell’intuizione che consente l’orizzonte di ogni nostro rapportarci, orizzonte che è compito della fenomenologia ontologico/ ermeneutica analizzare.
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comportamenti e le loro possibili connessioni, vale a dire ciò che si trova già in ogni percepire […] questo guardare fuori dell’apriori viene definito ideazione. L’ideazione è atto dell’intuizione categoriale, vale a dire atto fondato in una presentificazione di una singolarizzazione concreta»54. Dalle parole del nostro autore risulta un aspetto teorico di rilevanza centrale per il discorso sulla Lichtung; quest’aspetto è il tempo, quale orizzonte trascendentale di ogni nostro possibile rapportamento all’ente (conoscenza ontica) e fondamento della preliminare comprensione dell’essere (conoscenza ontologica). Il tempo è quella “indicazione”, quel “disegno prestabilito” che consente l’idea della Lichtung come radura della verità, che è al contempo radura dell’ente e dell’essere – che nell’ente si eclissa, divenendo nulla dell’ente e per questo ni-ente55 – orizzonte inaggirabile e inoggettivabile, sottratto ad ogni tentativo di tematizzazione, ossia di comprensione scientifica, filosofica e pertanto metafisica. Rispetto all’impostazione classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto56, «la fenomenologia – avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato alla soggettività»57 ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo qualcosa di «immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto»58 e nemmeno qualcosa di «trascendente, che inerisce specificamente alla realtà»59. In quanto tale, l’a-priori «diventa esibibile in se stesso in una semplice intuizione»60. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori, ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in luce come il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in quella Lichtung che è il mondo. Idem, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 10-b, p. 119. «Il niente come altro dall’ente è il velo dell’essere». Idem, Poscritto a «Che cos’è metafisica» (1943), in Idem, Che cos’è metafisica, Adelphi, Milano 2001, p. 85. 56 Idem, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 92-93. 57 Ibidem. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 54 55
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Per Heidegger, infatti, l’intenzionalità, «in quanto trascendenza ontica, è possibile solo sul fondamento della trascendenza originaria: sulla base dell’essere-nel-mondo»61. L’importanza che il mondo assume è legata non solo alla divergenza che si viene a creare tra Husserl62 e Heidegger sulla questione dell’intenzionalità – che ha, per il secondo, il suo terreno fertile nell’essere-nelmondo e non nella soggettività – ma è, soprattutto, vincolata al senso che il discorso sull’essere e sulla comprensione dell’essere assumono in Essere e Tempo. Il mondo appare nell’opus maius del ’27 come quella «apertura interpretativa […] all’interno della quale ogni cosa ha un certo significato»63. Porre una separazione tra io e mondo, e pensare che, tramite un’operazione logica, sia possibile colmare un abisso, o gettare un ponte tra quelle che Cartesio64 aveva definito come res cogitans e res extensa, è per Heidegger un’assurdità. Se sono separati l’io e il mondo non ci sarà alcuna ricomposizione della frattura; ma l’intenzionalità mostra proprio il contrario – e qui risiede l’importanza fondamentale della fenomenologia. L’esserci è un essere-nel-mondo, gettato nel mondo da cima a fondo, da sempre immerso in quell’orizzonte di significatività e appagatività di cui si parla in Essere e Tempo. Ma se il mondo costituisce il campo trascendentale di ogni rapporto, la radura di ogni intenzionalità, esso può, paradossalmente, anche costituire quella condizione di indistinzione in cui il Si esercita la sua “dittatura”, imponendo quelle strutture inautentiche che hanno dominato l’ontologia e la metafisica; ontologia e metafisica che hanno sacrificato all’altare del presente ogni possibilità di cogliere il senso dell’essere. Idem, Principi metafisici della logica, Il Melangolo, Genova 1990, p. 161. Come è stato più volte detto per Heidegger l’intenzionalità husserliana è troppo legata alla coscienza, per cui resta impigliata nell’impostazione “soggettocentrica” che pone come originariamente separati il soggetto e l’oggetto. Cfr., E. Husserl, Idee…, cit., § 33, e M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 11. 63 V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, cit., p. 271. 64 Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., §§ 19-21. 61 62
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Senso, questo, di cui, proprio per il prevalere del presente, si misconosce la natura; senso del quale Heidegger si propone di smascherare le contraffazioni e falsificazioni all’origine di quel nichilismo della tecnica che è una estrema propaggine della metafisica. Giunti al termine di questa breve incursione nel territorio fenomenologico heideggeriano possiamo dare per acquisito questo aspetto dell’iter speculativo del filosofo: la centralità del tempo nella questione ontologica. Il tempo infatti si configura proprio come quell’a-priori che consente il nostro avere a che fare con il mondo, e il mondo gioca un ruolo per nulla marginale in questa storia; in quanto è il mondo che ci consente, in ultima analisi, di svegliarci dal torpore quotidiano nel quale siamo immersi (la pubblicità del Sì) quasi come in uno stato ipnotico. Condizione dalla quale usciamo all’improvviso in virtù di quello stato emotivo dell’angoscia che irrompendo, «in quanto situazione emotiva fondamentale dell’Esserci, […] costituisce l’apertura dell’esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine»65. Il di-fronte della gettatezza è un nulla per così dire triplice: nullità di senso, nullità di fondamento, nullità di tempo. Ora è il momento di vedere concretamente ciò che il tempo costituisce per Heidegger, attraversando le tappe teoriche principali di quel testo su Kant, che se, da un lato, si costruisce intorno a “violenze” esegetiche66 da parte di Heidegger, dall’altro, mette in mostra l’esplicita connessione tra cronologia e ontologia.
Ivi, § 50, p. 301. Lo stesso Heidegger se ne rende conto, in quanto afferma nella Prefazione alla II edizione del Kantbuch del ’29: «di continuo ci si scandalizza per le forzature che si ravvisano nelle mie interpretazioni, e questo scritto può servire molto bene a documentare questo tipo di accuse. Si può perfino dire che gli storici della filosofia hanno ragione quando rivolgono quest’accusa contro quelli che vorrebbero promuovere un dialogo di pensiero tra pensatori», ivi, p. 7. 65 66
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Heidegger e la metafisica di Kant67 Come è noto la Critica della ragione pura è un testo che ha attinenza con la questione metafisica per lo stesso Kant, ma in un senso diverso rispetto a quello espresso da Heidegger. Della “trinità” metafisica – Dio, uomo e mondo – si parla nella Dialettica trascendentale, definita logica dell’illusione68 che si esprime attraverso giudizi trascendenti – quelli cioè che tendono a sorpassare i limiti di una esperienza possibile69 – di cui Kant si propone di svelare la fallacia e l’infondatezza. Questo intento, in realtà, non è rilevabile solo nella Dialettica, ma in tutta la Critica, che anzi si definisce proprio nella sua relazione e opposizione alla metafisica. Scrive infatti Kant che per Critica della ragione pura non si intende «critica dei libri e dei sistemi, bensì la critica della facoltà di ragione in generale, riguardo tutte le conoscenze cui la ragione può aspirare indipendentemente da ogni esperienza»70. Questa è l’unica via che Kant crede di poter imboccare per eliminare gli errori «che avevano inimicato la ragione con se stessa»71, decidendo in questo modo circa la possibilità o l’impossibilità della metafisica come scienza; benché Kant stesso riconosca una disposizione naturale72 dell’uomo per la metafisica, si tratta pur sempre, a suo dire, di una disposizione di cui occorre svelare l’equivoco e l’infondatezza da un punto di vista conoscitivo. A tale scopo sono preposte l’Estetica e l’Analitica trascendentali, il cui compito è quello di fornire i criteri di una conoscenza nei limiti di una esperienza possibile, l’unica pietra di paragone per il pensiero. Per una introduzione al pensiero di I. Kant cfr. , O. Höffe, Immanuel Kant, il Mulino, Bologna 2002, soprattutto pp.33-146. 68 I. Kant, Critica della Ragione pura, Adelphi, Milano, p. 359. 69 Sul tema del giudizio in Kant e nel resto della filosofia rimando a L. Scaravelli, Critica del capire e altri scritti, La nuova Italia, Firenze, 1968, § 1 – 2 e a R. Viti Cavaliere, Giudizio, Guida, Napoli, 2009. 70 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., Prefazione, p. 10. 71 Ibidem. 72 Ivi, p. 363. 67
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L’Estetica e l’Analitica sono, inoltre, considerate da Heidegger come i luoghi in cui emerge il rapporto tra ontologia e finitezza, tra la domanda che chiede dell’ente e dell’essere e la situazione temporale dell’esserci – temporalità che è condizione di possibilità della domanda sia nella sua tematizzazione esplicita (comprensione ontologica) sia nella sua forma pre-teoretica (precomprensione ontologica). Secondo Heidegger, a partire da Cartesio73 avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio, nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum74, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo75, poiché l’uomo diventa subiectum76, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. «La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per Sull’interpretazione heideggeriana del pensiero di Cartesio cfr., R. De Biase, Heidegger, Descartes, Husserl e l’inizio del moderno: il primo corso a Marburgo (1923/1924), in E. Mazzarella (a cura di), Heidegger a Marburgo, cit., pp.329365; Idem, L’interpretazione heideggeriana di Descartes, Guida, Napoli 2005; Courtine J.F., Les meditations cartèsiennes de Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n˚ 88, p. 103-115. 74 È fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul metodo ( Cartesio, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza incontrovertibile, poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più importante della filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia, parte I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito cfr., G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma 2010, pp. 116-122. 75 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 76 Ivi, p. 168. 73
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la quale, […] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro»77. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. La stessa Critica si configura come un trattato sul metodo. Leggiamo, infatti, nella Prefazione alla Seconda edizione: «tale critica è un trattato sul metodo, non un sistema della scienza stessa, ma nondimeno essa traccia un disegno compiuto della scienza, sia riguardo ai suoi limiti, sia anche riguardo a tutta quanta la sua articolazione interna […] tracciando così l’intero abbozzo di un sistema della metafisica»78. Il soggetto, dunque, diviene la via per “incontrare” l’ente, e questo accade perché esso ha l’aspetto dell’indubitabilità e certezza79, laddove questi aspetti sono resi possibili grazie a quelle strutture di pensiero di cui Kant offre in modo magistrale l’esposizione nella sua critica alla facoltà di ragione. La questione della cosa, cioè la determinazione dell’ente su cui la metafisica si è da sempre interrogata prende la forma di una indagine gnoseologica sui modi in cui si arriva all’ente e non sulle caratteristiche dell’ente stesso. L’ente in sé diviene un νούμενον inconoscibile, ancorché pensabile80. Secondo Heidegger, l’intera indagine gnoseologica kantiana porta ad un nodo problematico intravisto dallo stesso Kant, ma nondimeno lasciato impensato. Il grande “rimosso” del criticismo sarebbe l’immaginazione trascendentale. Perché Kant “indietreggia” di fronte a questo abisso? Perché arretra di fronte a quello che Heidegger crede sia il suo più grande risultato? Prima di passare in rassegna le caratteristiche Ivi, p. 169. I. Kant, op. cit., pp. 27-28. 79 Il tema del dubbio, e della certezza ad esso connesso, è al centro di tutto il percorso speculativo cartesiano; essi emergono in maniera tematica soprattutto nella Meditazione I, che reca come titolo: Delle cose che si possono revocare in dubbio. Il dubbio si configura come il “ punto archimedico” del sapere, in quanto non getta la conoscenza in uno scetticismo relativistico, bensì prepara la strada per raggiungere una conoscenza certe e indubitabile. Possibilità, questa, legata alla fondazione del sapere sul soggetto e non sui sensi. Su questo tema cfr., G. Mori, op. cit., pp. 107-116 e E. Cassirer, Il concetto di verità in Cartesio, in Id., Dall’umanesimo all’Illuminismo, La Nuova Italia, Firenze 1995, pp. 249-276. 80 I. Kant, op. cit., p. 330. 77 78
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dell’immaginazione ed esporre i motivi dell’importanza che tale concetto assume nella riflessione heideggeriana è bene fare alcune premesse. Heidegger interpreta Kant alla luce della sua “lettura” della metafisica, dunque in base a quegli elementi che avrebbero coperto l’essere, lasciando come non problematizzata la sua verità, la sua Lichtung e il suo evento. Io, tempo, e la loro connessione hanno avuto un ruolo fondamentale in tale storia. Il rapporto tra soggetto e tempo81 risulta essere per il filosofo di Messkirch il vero e proprio fondamento delle posizioni metafisiche susseguitesi nella filosofia occidentale. E se per Heidegger «per quanto riguarda il problema dell’essere, il concetto di tempo è il filo conduttore »82 – come possiamo leggere in Prolegomeni alla storia del concetto di tempo – così, secondo il nostro punto di vista, la Lichtung può essere considerata come il filo conduttore nelle analisi heideggeriane della metafisica, tutte volte a mostrare come il pensiero si sia ritirato dal suo “elemento”, secondo le celebri affermazioni di Lettera sull’umanismo83, cioè dall’essere di cui è ascolto ed evento. La metafisica mostra proprio questo ritiro del pensiero. Infatti, essa «rappresenta l’ente nel suo essere e pensa così anche l’essere dell’ente»84, senza porre attenzione all’essere come tale nella sua differenza dall’ente, senza preoccuparsi della verità dell’essere, cioè della Lichtung-radura. Ma la metafisica mostra altresì un ritiro dalla struttura “propria” della temporalità. La concezione ordinaria e tradizionale del tempo e il cartesianismo dell’Io penso sono, infatti, per Heidegger, i motivi che hanno impedito a Kant di tematizzare l’immaginazione trascendentale, elemento fondamentale per comprendere la fondazione stessa della 81 Sul rapporto tra il da-sein e il tempo in Heidegger cfr., A. Giugliano, Heidegger e la concettualizzazione filosofica del tempo (1924-1927), in E. Mazzarella (a cura di), cit., pp. 293-327. 82 M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 15. 83 Idem, Lettera sull’umanismo, cit., p. 35. 84 Ivi, p. 44.
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metafisica, dal momento che l’immaginazione rivela il proprio dell’uomo, il tempo – e sappiamo che, per Heidegger, è necessario comprendere innanzitutto l’essere dell’esserci (il tempo e perciò l’immaginazione) per comprendere la metafisica.
Il soggetto e l’oggetto Con la modernità è possibile vedere come il soggetto assuma una vera e propria centralità all’interno della totalità degli enti. Esso, infatti, è il fondamento dell’ente in quanto lo costituisce. Per costituzione ovviamente non dobbiamo intendere la produzione materiale dell’ente, ma la sua identificazione con l’oggetto, l’obiettazione insomma, per usare un termine ricorrente spesso in Kant e il problema della metafisica. Oggetto è la forma che l’ente assume nell’orizzonte di senso e manifestazione che la conoscenza offre all’ente. Gegen-stand è il termine tedesco che indica l’oggetto e Heidegger fa leva sul significato di “ciò che sta di contro”, dove l’attenzione va posta sulla doppia costituzione dell’oggetto, il contro e lo stato. La domanda sull’oggetto ci mostra che esso è sempre un questo, spazialmente e temporalmente determinato85. Spazio e tempo, però, non ci permettono di accedere direttamente alle cose in se stesse, poiché non sono strutture appartenenti ad esse. Spazio e tempo appartengono solo ed unicamente al soggetto. Secondo Heidegger la questione della cosa, cioè il problema della definizione dell’ente e della sua essenza, si lega in maniera necessaria al soggetto già a partire dalla riflessione platonica ed aristotelica86. I concetti di verità e proposizione da essi espressi, infatti, mostrano proprio questo primato dell’io, come è possibile constatare ponendo attenzione all’oggetto – al quale si pensa come ad un’unità di sostrato e proprietà (concezione, questa, strettamente connessa alla visione adeguativa della verità) – e alla proposizione – da intendere come legame di soggetto e predicato. 85 86
Cfr. M. Heidegger, La questione della cosa, cit., §5, pp. 51-59. Ivi, pp. 76-77.
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Oggetto e proposizione, secondo le analisi heideggeriane, mostrano come il nucleo fondamentale della conoscenza dell’ente vada ritrovato più nell’intellectus che nella res. C’è un paragrafo importantissimo del testo La questione della cosa che è bene rievocare nelle sue linee guida per chiarire i concetti di soggetto e oggetto che stiamo prendendo in considerazione. Sintetizzando ciò che Heidegger scrive al § 6 emerge che: – La filosofia greca ha definito l’essenza della cosa in relazione all’enunciato-λόγος da cui otteniamo le categorie quali determinazioni ontologiche universali. – La filosofia moderna ruota intorno alla mathesis87, che mette in luce gli aspetti impliciti delle proposizioni : io, principio di contraddizione, principio di ragione. – Kant pone il problema della definizione della cosa mediante la critica della facoltà di ragione. Il percorso del pensiero qui riassunto mostra un progressivo “emergere” del soggetto nella definizione dell’ente. Quest’ultimo da polo di una relazione (la relazione di uomo ed ente tramite il λόγος ) diviene, a partire dalla modernità, un nulla in sé, la semplice materia grezza che assume una forma grazie all’attività dell’io. L’Analitica e l’Estetica kantiane mostrano proprio il peso assunto dalla soggettività, che secondo Heidegger “soffoca” l’ente equiparandolo ad oggetto, riducendolo a fenomeno, al suo aspetto conoscibile e, dunque, soggettivo – dal momento che la conoscenza è possibile solo sul fondamento delle strutture proprie del soggetto. Gegen-stand, ciò che sta di fronte, non esplicita una modalità solo dell’oggetto-ente, ma enuncia già un rapporto, quello con la soggettività trascendentale. «Lo stare Mathesis indica “il modo dell’apprendere e il suo metodo. La mathesis è l’orizzonte del manifestarsi della cosa nella quale da sempre ci muoviamo nel fare esperienza delle cose in quanto tali. La mathesis è quella prospettiva fondamentale nella quale noi ci prefiguriamo le cose in base a ciò per cui esse ci sono già date e possono e debbono esserci date”, ivi, p. 105. 87
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di contro è pensabile soltanto in relazione a un “lasciare” (non potenza); il lasciare è condizione dello star di contro: se non ci fosse il lasciare […] l’ente non starebbe di contro a nulla: il “ di contro” esprime la relazione […] dell’ente al lasciare: tolto questo, l’ente non è più un Gegen, ma, semplicemente sta»88. Infatti, nella duplice costituzione del gegen-stand parlano i due elementi della conoscenza: nel Gegen-contro parla l’intuizione, nello Stand-stato parla il pensiero89. Come sappiamo da Kant e il problema della metafisica per Heidegger non si tratta di due, bensì di un solo elemento, caratterizzato dalla spontaneità del pensiero e dalla ricettività dell’intuizione, benché Kant abbia «trascurato di dissodare fenomenologicamente e categorialmente il terreno su cui le due provenienze e soprattutto quel che le deve mediare possono crescere»90. L’immaginazione trascendentale è l’elemento della conoscenza a cui allude il filosofo, la vera radice dei due ceppi, al cui centro risiede la spinosa tematica del tempo, il grande impensato kantiano. Precisiamo fin da ora che il termine ricettività in riferimento all’intuizione non è usato a caso, dal momento che il testo heideggeriano è disseminato di espressioni che fanno pensare ad una connessione legittima tra ricettività e intuizione; possiamo leggere, solo per fare un esempio, che «l’intuizione pura è certamente, in quanto finita, una rappresentazione ricettiva»91. Tale rappresentazione ricettiva, o intuizione pura, consente inoltre quella sintesi pura che unifica a-priori, rendendo possibile quel legame, istituito dall’immaginazione trascendentale, tra io e tempo. Afferma Heidegger, infatti, che «la sintesi pura deve unificare a-priori. Per la sintesi pura, ciò che essa unifica deve essere dato a-priori. Ora l’intuizione pura universale, che riceve e dà a-priori, è il tempo. L’immaginazione pura deve perciò 88 89
p. 27. 90 91
E. Severino, Heidegger e la metafisica, cit., p. 169. M. Heidegger, La questione della cosa, cit., Introduzione a cura di V. Vitello, Idem, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano 1986, p. 187. Idem, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 47.
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riferirsi essenzialmente al tempo; soltanto così essa si svela come intermediaria fra tempo e appercezione trascendentale»92. Questo passo mette in chiaro che già a livello dell’intuizione pura abbiamo una ricezione dell’ente anteriormente ad ogni esperienza; l’esperienza, anzi, è resa possibile proprio grazie alla veduta schematica procurata dall’immaginazione trascendentale, che, come di qui a poco potremo constatare, è totalmente assegnata all’intuizione pura del tempo.
Immaginazione, sintesi e giudizio Per Heidegger la Critica kantiana costituisce una sorta di piattaforma di tutta la metafisica93. Motivo di questa convinzione è l’idea di soggettività presente nel testo kantiano; una soggettività non passiva e ricettiva rispetto all’esperienza, ma produttiva e costitutiva dell’esperienza stessa e della sua possibilità. Siamo, insomma, giunti nel cuore dell’immaginazione trascendentale. In fondo, conoscere è una questione di immaginazione secondo Heidegger. Nel testo su Kant del ’29 possiamo leggere che «la fondazione kantiana della metafisica fa capo all’immaginazione trascendentale»94, e sappiamo, inoltre, dalla grande lezione di Essere e Tempo che la struttura dell’esserci, e dunque dell’immaginazione, è il tempo. Tenendo sempre in mente questa connessione di immaginazione e tempo giungeremo a scoprire, da un lato, che tali concetti si distinguono unicamente nel loro rapportarsi; dall’altro, che essi rivelano come la Lichtung sia un paradigma ermeneutico efficace per cogliere la lettura heideggeriana della metafisica. La metafisica per Heidegger non è innanzitutto «ciò che l’uomo crea in sistemi e dottrine»95, ma «avviene nell’esserci»96 Ivi, p. 76. Ivi, p. 24. 94 Ivi, p. 173. 95 Ivi, p. 208. 96 Ibidem. 92 93
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come trascendenza e progetto. Questo significa che la metafisica può avvenire nell’uomo soltanto perché l’uomo è immaginazione e tempo. Il tempo, che è fondamento dell’immaginazione che su esso si progetta, diviene la parola fondamentale che Heidegger attribuisce a Kant. Una lettura della Critica ci mostra che il tempo non assurge mai a fondamento dell’esserci – come accade in Heidegger – ponendosi, piuttosto come fondamento dell’esperienza. Qui la presenza del tempo appare – nell’Estetica – come forma pura dell’intuizione del senso interno e – nell’Analitica – in funzione di schema. Per Heidegger è la lacuna fondamentale di Kant è da rintracciare proprio nella mancata indagine sul rapporto tra esserci e temporalità. Per fare solo un esempio in supporto della tesi heideggeriana basti ricordare che in quella suggestiva sezione della Critica, in cui il filosofo di Königsberg affronta la questione delle proposizioni fondamentali sintetiche dell’intelletto puro97, il riferimento al tempo è costante98; tuttavia esso resta subordinato all’attività dell’io, al quale, in ultima analisi, va ricondotta la legalità della possibilità dell’esperienza. Afferma infatti Kant che «tutte le apparenze possibili appartengono in quanto rappresentazioni, alla totale autocoscienza possibile»99, volendo dire con ciò che per cogliere il punto di convergenza di tutte le rappresentazioni – convergenza che, sola, rende possibile l’unità della conoscenza necessaria per una esperienza possibile – occorre «prendere le mosse dall’appercezione pura»100. Tuttavia, e lo stesso Kant lo riconosce, prima ancora dell’appercezione c’è l’immaginazione101, il tempo, 97 Il riferimento è agli assiomi dell’intuizione, anticipazioni della percezione, analogie dell’esperienza e postulati del pensiero empirico. Cfr., I. Kant, Critica della ragione pura, cit., Parte I, Anal. trasc. – Libro II – Cap. II – sez. III, pp. 236- 310. 98 Sulla centralità del tempo nei principi sintetici dell’intelletto puro cfr. M. Heidegger, La questione della cosa, cit., pp. 202- 253. 99 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 184. 100 Ivi, p. 189. 101 Nell’ambito dell’individuazione delle fonti della conoscenza (senso, immaginazione e appercezione) Kant fa riferimento all’appercezione pura come momento di convergenza di tutte le rappresentazioni – convergenza che rende possibile la conoscenza. L’appercezione si configurerà, allora come il «principio
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come emerge soprattutto nella prima edizione. Come tutti sanno, infatti, le edizioni sono due, e secondo Heidegger la prima è quella più significativa sia per quanto riguarda la messa in luce della connessione – seppure in modo non tematico – del tempo e dell’ontologia, sia per l’identificazione tra io e tempo, che in Kant restano distinti102. La tematizzazione che Kant non realizza è compiuta, invece, da Heidegger, che mette in luce una nozione, quale quella di progetto, fondamentale sia per comprendere il tempo sia per comprendere la problematica ontologica. Infatti, «il tempo, nella sua essenziale unità con l’immaginazione trascendentale, viene ad assumere, nella Critica della ragione pura, la funzione metafisica centrale non perché funge da forma dell’intuizione […] ma perché la comprensione dell’essere, muovendo dal fondo della finitezza dell’esserci nell’uomo, deve progettarsi sul tempo»103. Il filo conduttore dell’analitica del Da-sein, il progetto appunto, diviene la struttura portante della ratio da un lato, e del comportamento pre-teoretico dall’altro. Infatti, Heidegger trascendentale dell’unità di tutto il molteplice delle nostre rappresentazioni». Ivi, p. 190 (II ed.). Il molteplice sarà, pertanto, sintetizzato dall’io. Il problema, però, è indicare che cosa sia primario nel processo di sinterizzazione, se l’io o la sintesi. Questo è chiaramente il discrimine fondamentale tra la I edizione e la seconda. Per Kant a precedere è l’immaginazione, dal momento che «l’unità trascendentale dell’appercezione si riferisce […] alla sintesi pura della capacità di immaginazione, come ad una condizione a-priori della possibilità di ogni composizione del molteplice in una conoscenza». Ivi, p. 192. 102 C’è un passo della Critica – che riporteremo per intero – estremamente significativo sulla non-identità tra tempo e io in cui Kant afferma : «L’appercezione, con la sua unità sintetica, è tanto lungi dall’identificarsi con il senso interno, che piuttosto, in quanto fonte di ogni congiunzione, essa si riferisce al molteplice delle intuizioni in generale, e sotto il nome delle categorie si riferisce agli oggetti in generale, anteriormente ad ogni intuizione sensibile. Per contro, il senso interno contiene la semplice forma dell’intuizione». Ivi, pp. 188-189. In questo passo Kant afferma a chiare lettere la differenza che ricorre tra l’io – l’attività di congiunzione delle rappresentazioni – e il tempo – il senso interno che contiene semplicemente la forma dell’intuizione. 103 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 209.
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ricorda spesso nelle pagine di Essere e Tempo104 la distinzione tra sfera teoretica e preteoretica, volendo in questo modo porre in luce che la theoria è sempre successiva al Besorgen, al prendersicura, cioè al comportamento, al dirigersi-verso intenzionale, essendo solo un modo di esso. La Cura è per Heidegger l’essere dell’esserci, o meglio il suo “penultimo fenomeno” – essendo il tempo l’ultimo – così come leggiamo in Prolegomeni alla storia del concetto di tempo105 in cui trovano unità i tre esistenziali106 dell’esserci: situazione emotiva, comprensione e discorso. Ricordiamo brevemente cosa indicano queste “strutture fondamentali” dell’esserci. La Befindlichkeit indica «un fenomeno ben noto e quotidiano: la tonalità emotiva, l’umore»107, cioè tutti quegli elementi impuri che hanno costituito da sempre l’oggetto delle dottrine delle passioni. Tuttavia, il pensatore tedesco – a differenza dell’antropologia tradizionale che privilegia l’elemento superiore della razionalità: l’intelletto – non assume un atteggiamento negativo rispetto a quei caratteri di opacità, passività e ricettività che permeano la situazione emotiva, ma anzi ritiene che il sentirsi situati sia la condizione di possibilità dell’autosentimento situazionale108 dell’uomo, cioè della capacità dell’uomo di trovarsi e sentirsi. Termine complementare alla situazione emotiva è la comprensione, dal momento che «il sentirsi situato […] ha il proprio fondamento nell’essere esposto dell’uomo all’ente nel suo insieme. Idem, Essere e Tempo, cit., § 39-45 e § 63-65. Idem, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 31 a, p. 364. 106 Idem, Essere e Tempo, cit., § 9, p. 63: «Tutti gli esplicati dell’analitica dell’Esserci sono ottenuti in riferimento alla sua struttura esistenziale. Poiché essi si determinano in base all’esistenzialità, diamo ai caratteri d’essere dell’Esserci il nome di esistenziali». Heidegger utilizza il termine esistenziale al posto di categoria poiché quest’ultima risulta essere troppo intrisa di ontologia della presenza, rimanendo inadeguata per caratterizzare l’uomo che non è una cosa tra le cose. 107 Ivi, § 29, p. 167. 108 Ibidem. 104 105
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Con ciò si dice già che di questo essere esposto (gettatezza) fa parte la comprensione dell’ente in quanto ente»109. Il Versthen non è un atto gnoseologico, come potrebbe sembrare di primo acchito, bensì di tipo pratico, come emerge dalle tre strutture fondamentali del comprendere: pre-disponobilità, pre-visione, pre-cognizione110. Il prefisso pre sta ad indicare la connessione con il carattere di progetto della comprensione, progettualità che dice al contempo anche l’esser-gettato dell’uomo nel mondo. Tale gettatezza mostra come l’uomo sia situato in un contesto di significatività che lo sovrasta e gli consente di prenderne visione; una visione che ha innanzitutto una aspetto pratico e solo dopo teoretico. Rede è infine il discorso, «cooriginario alla situazione emotiva e alla comprensione»111, la cui espressione è il linguaggio, il quale nel suo dire mostra l’articolazione della comprensione da parte dell’uomo di una totalità di significati, che sola rende possibile l’apparire del mondo in quanto tale; mondo, questo, nel quale l’uomo abita e dimora in base a ciò che gli è familiare e non nella modalità di qualsiasi altro ente intramondano difforme dall’uomo, cioè nel modo dell’utilizzabile, della semplice-presenza, che sta nel mondo ma non lo abita in modo esistenziale. L’esistenza è infatti possibile solo dove c’è un’apertura. Il termine da-sein impiegato in relazione all’esser-ci indica proprio questa apertura, infatti «nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non-chiusura. L’espressione Ci significa appunto questa apertura essenziale»112. Essere la propria apertura significa per l’uomo essere nella radura-Lichtung, nello spazio aperto della verità, e questo soggiorno nella verità risulta possibile grazie all’essere-nelmondo. Idem, Seminari di Zollikon, a cura di M. Boss, Frankfurt a. M.,1987, p. 182, citato in M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., Glossario, p. 585. 110 Idem, Essere e Tempo, cit., §§ 31-32. 111 Ivi, § 34, p. 198. 112 Ivi, § 28, p. 165. 109
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Come l’uomo in quanto essere-nel-mondo è gettato in esso, non potendo decidere di questa gettatezza – allo stesso modo in cui non si decide sulla propria nascita o sulla propria lingua madre o sulla tradizione culturale di appartenenza – così l’uomo è per Heidegger nella luce della radura pur non producendo la radura stessa113. Insomma, l’esserci può dirsi esistente non perché c’è – così come c’è un sasso o un gatto – , non perché tramite un actus si sarebbe realizzata un’essenza, ma perché egli sta fuori esposto nell’apertura114. Al temine dell’analisi di questi tre concetti è possibile vedere in che modo apertura e mondo si intreccino strettamente, fino quasi a sovrapporsi, nella delineazione di un campo trascendentale che costituisce per l’uomo la condizione di possibilità dell’orientamento tra cose. Tali cose fanno parte di una totalità di significati, il mondo appunto, la tradizione di appartenenza, la lingua, che non sono a disposizione dell’uomo come oggetti, configurandosi piuttosto come l’humus inoggettivabile su cui ogni oggetto può trovare il suo luogo e il suo tempo, come nell’ultimo capitolo porremo in luce. L’accenno alle tre strutture della Cura non ha la funzione di una semplice digressione priva di connessione con il tema dell’immaginazione e del tempo, anzi esso mira a porre in luce il modo stesso in cui l’uomo si atteggia verso le cose. La tripartizione del Vershten si connette con il prevalere della dimensione temporale del futuro mettendo in luce un carattere fondamentale dell’uomo: il progetto. C’è da dire che, nonostante il ruolo preponderante attribuito al futuro, Heidegger parla di estaticità del tempo, di una sorta di contemporaneità, per usare un termine caro a Croce115, dei tre momenti della temporalità. Ivi, nota b. Ivi, nota c. 115 Croce utilizza il termine contemporaneità in riferimento alla storia nella memoria accademica del 1912 Storia, cronache e false storie, raccolta poi in Teoria e storia della storiografia. Il concetto di contemporaneità sta ad indicare che la “storia è soltanto quella che nasce da un interesse del presente che rianima e 113 114
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Interessante risulta essere l’analogia tra il concetto heideggeriano di estaticità del tempo, espresso in Essere e Tempo, e la nozione crociana di contemporaneità. Entrambi indicano l’unità – e non una sterile frammentazione – dell’atto umano di rapportarsi alla realtà. Infatti la relazione tra uomo e mondo è storica innanzitutto perché temporale, ossia perché fondata su quella orizzontalità e compresenza dei tre momenti (presente-passato-futuro tra i quali sussiste una circolarità di reciproco condizionamento), che sola permette il dirigersi-verso intenzionale. Dobbiamo porre in luce, comunque, che nonostante la pretesa orizzontalità dei tre momenti in Heidegger emerge la preminenza del futuro, come mostrano le analisi del Da-sein come progetto. Proprio l’insistere sul futuro e sulla nozione di progetto anticipante sarà all’origine del cortocircuito della distruzione dell’ontologia. Infatti se è vero che l’esserci è quel progetto di cui ci parla il filosofo tedesco, allora non c’è scampo alla metafisica. Ogni anticipazione d’unità, ogni visione ambientalmente preveggente, la dimensione stessa del futuro come dimensione aprente la temporalità dell’esserci, mostrano in che modo l’uomo non sia rispetto al mondo circostante un semplice ente ricettivo e passivo. L’uomo piuttosto mette in atto sempre un processo di formazione del mondo, di sovrapposizione delle sue categorie alla realtà. Tutto sommato Kant aveva ragione quando affermava che l’uomo non deve lasciarsi guidare dalla realtà116, e con lui Nietzsche, per il quale quella realtà sottomessa alla “frusta del logos” alla fine sortisce quel particolare malessere che è la disperazione, come possiamo leggere nelle accalorate pagine fa rivivere il passato”, B. Croce, Intorno all’estetica e alla teoria del conoscere del Dewey, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bibliopolis, Napoli 1998, p. 300. La storia infatti, e la storiografia, nascono da un’esigenza pratica che eleva il passato da semplice mucchio sconnesso di reperti, insomma da “cronaca” (ivi, p. 301) a compatta unità dello spirito. Sul concetto crociano di contemporaneità della storia cfr., D. Conte, Storia universale e patologia dello spirito. Saggio su Croce, Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 71-140. 116 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 21.
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di Umano, troppo umano117. Alla fine la temporalità estatica e il futuro di cui Heidegger parla più che prospettare una via di uscita dalla metafisica delineano un vicolo cieco. Mettere a nudo il nucleo germinativo dell’ontologia della παρουσία, ossia il futuro come premessa di ogni nostro rapportarci al mondo, implica anche far emergere l’aporia – se non l’impossibilità – di ogni tentativo di istituire una relazione non metafisica alla realtà. Il tempo genera la metafisica come sua negazione, ma la negazione si rivela fallimentare. A prova di quanto abbiamo appena detto è la direzione dell’ultima fase del pensiero heideggeriano, che inclina più sullo spazio che sul tempo, allo scopo di mostrare che lo spazio non è un modo della temporalità – come ancora in Essere e Tempo veniva detto118. Ritornando all’interpretazione heideggeriana di Kant possiamo dire che l’analisi della temporalità – che si temporalizza in modo estatico in quelli che inautenticamente sono il passato, presente e futuro, in modo tale che i tre tempi siano fluidificati – mette in luce la portata della nozione di progetto, che si rivela essere sia la chiave di volta dell’analitica esistenziale, sia della possibilità di comprendere la Critica kantiana che ruota intorno ai concetti di immaginazione e tempo. C’è un passo della Prefazione alla seconda edizione molto eloquente su questo aspetto: «La ragione scorge solo ciò che essa stessa produce secondo il suo disegno […] essa deve procedere innanzi con i principi dei suoi giudizi, 117 Nietzsche, Umano troppo umano, Newton Compton, Roma 2005, Delle cose ultime e penultime, Parte I, § 31, p. 48. 118 Mi riferisco al noto § 70 di Essere e tempo che reca come titolo significativamente: La temporalità della spazialità propria dell’esserci. Qui Heidegger afferma che “anche la spazialità specifica dell’esserci deve fondarsi nella temporalità”, Ivi, p. 434. Questo sta ad indicare il primato del tempo, da un lato, e la concezione della spazialità dell’esserci come darsi spazio e non come semplice-presenza, dall’altro (ivi, p. 435). In Tempo e Essere il mutamento di prospettiva sullo spazio, ossia l’insistere sulla sua indipendenza dal tempo emerge con chiarezza laddove Heidegger afferma a chiare lettere che la riconduzione della spazialità dell’esserci sotto l’egida della temporalità non è più sostenibile; cfr., M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 30.
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basati su stabili leggi e deve costringere la natura a rispondere alle sue domande, senza lasciarsi guidare da essa sola»119. Se prestiamo attenzione ai termini: produce e disegno, emerge subito la relazione esistente tra progetto, immaginazione e tempo – essendo quest’ultimo il fondamento di entrambi. Produzione e disegno risuonano nelle parole chiave della “piattaforma della metafisica”, cioè nei concetti di sintesi a-priori, spazio e tempo, e schema. Vediamo perché. Secondo Heidegger il problema della metafisica, che in quanto ontologia ha come oggetto l’ente e il suo essere, prende con Kant la forma della domanda che si chiede dei giudizi sintetici a priori120. Tali giudizi sono, secondo Heidegger, sintetici in due sensi121, sia per il fatto che congiungono soggetto e predicato, sia perchè devono fornire circa l’ente un “apporto” conoscitivo. L’estensione della conoscenza è ottenuta tramite l’istituzione di I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 21. Con il termine giudizio, nella Critica della Ragione Pura, Kant intende riferirsi alla proposizione che connette il soggetto con il predicato. Tale sintesi avviene in due modi: «o il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto nascostamente in questo concetto A; oppure B si trova completamente al di fuori del concetto A, sebbene sia in connessione con questo. Nel primo caso, chiamo il giudizio analitico, nell’altro caso sintetico.», Kant, op., cit., Introduzione, Sezione IV, p.54. I giudizi analitici sono giudizi di spiegazione ma non estendono la conoscenza, mentre i giudizi sintetici non esplicitando un contenuto già presente nel concetto, aggiungono elementi nuovi, pertanto sono giudizi di tipo estensivo. Al giudizio Kant dedica un’intera Critica, la Critica del Giudizio (1790) appunto, dove però si insiste maggiormente sulla Urteilskraft, ossia sulla capacità di giudizio, che diviene termine medio tra teoria e pratica, superando quei confini teoretici che lo delimitavano nella prima Critica (1781, 1° edizione; 1787, 2° edizione). A tale capacità di giudizio corrisponde un sentimento della finalità, mediante il quale il giudizio dà regola a se stesso; si tratta insomma di quel giudizio estetico o di gusto che mette in relazione quelle facoltà dell’animo, che altrimenti resterebbero in comunicanti: sensibilità e intelletto. Nella terza Critica il giudizio è più sbilanciato verso il particolare che verso l’universale, esso è «la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale», Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Bari, 1984, p. 18. Il giudizio può essere determinante, ossia di conoscenza, quando sussume il particolare sotto un universale già dato. Riflettente è quel giudizio che non possiede già, in anticipo, a-priori, l’universale al quale ricondurre il particolare, ma deve trovarlo da sé. Per approfondire questo tema cfr., R. Viti Cavaliere, op. cit. 121 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 23. 119
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una relazione di soggetto e predicato che non avviene per via empirica, come nei giudizi a-posteriori, ma in modo a-priori. Tramite il ricorso a questi giudizi la connessione tra soggetto e predicato non è identitaria (A=A) ma sintetica (a=A)122, cioè si mettono insieme due elementi non identici ma eterogenei – dove per eterogeneità non bisogna intendere incomunicabilità e incompossibilità, ma unicamente diversità. L’elemento puro – l’a-priori – della conoscenza per potersi applicare all’esperienza, e trovare riscontro in essa, deve avere un carattere sintetico. La sintesi non ha, dunque, solo un carattere empirico, ma entra nella costituzione stessa dell’elemento formale. Non dimentichiamo che sono questi giudizi sintetici a-priori a rendere possibile il passaggio dalla doxa (conoscenza sensibile) all’episteme (conoscenza pura). La conoscenza pura, che nasce dall’unione di intuizione e concetto, è costitutivamente sintetica123 e dà luogo a tre tipi di sintesi: – sintesi veritativa: «La sintesi di pensiero e intuizione rende manifesto come oggetto l’ente incontrato»124. La conoscenza, infatti, in quanto intuizione è primariamente ricettiva, essendo 122 Cfr., Carlo Antoni, Commento a Croce, Neri Pozza, Venezia, 1964, cap. III, Il principio di identità, cap. IX, La teoria del giudizio. Ho utilizzato, per mostrare in modo immediato la differenza tra i giudizi analitici – che enunciano una tautologia – e quelli sintetici a priori, la formula che Carlo Antoni applica al giudizio individuale crociano. In Commento a Croce, infatti, Antoni mostra come la formula del principio di identità A=A non sia in grado di rendere conto dell’individuale e del divenire. Tale formulazione esprime una logica dell’essere che fa capo al concetto di immutabilità e necessità. Una logica del divenire, invece, tiene conto dell’elemento storico-individuale e rende possibile quell’estensione della conoscenza di cui parla anche Kant. Un giudizio che esprima una logica del divenire e non del “morto essere”(ivi, p.45) ha la forma seguente: a=A. Questo tipo di rapporto permette alla categoria universale di riconoscersi nell’individuale, e viceversa, rendendo possibile quella sintesi di eterogenei che secondo Heidegger avviene, invece, grazie all’immaginazione trascendentale. Secondo Antoni, la riformulazione crociana del giudizio sintetico a priori kantiano permette questa sintesi. 123 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 33. 124 Ivi, p. 35.
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modificata dall’ente intuito. Tale modificazione si trasforma da ricezione del particolare a conoscenza dell’universale tramite il concetto. Solo questo passaggio (dall’intuizione al concetto, dal particolare all’universale) consentirebbe di incontrare l’ente come oggetto manifesto; – sintesi apofantica: «si configura come congiunzione di soggetto e predicato»125; – sintesi predicativa: «i giudizi sono funzioni dell’unità, rappresentano l’unità unificante del concetto nel suo carattere di predicato»126. Tale sintesi congiunge rappresentazioni sotto forma di concetti. I tre tipi di sintesi mostrano innanzitutto la possibilità di mettere in relazione quei due elementi che Kant aveva decretato essere eterogenei127: sensibilità e intelletto, intuizione e concetto, cioè i rispettivi temi dell’Estetica e dell’Analitica. Ebbene l’intuizione è caratterizzata da ricettività, mentre l’intelletto da spontaneità. Come passare da un territorio all’altro? Insomma, come avviene la sintesi a-priori, ossia la possibilità che «un essere finito, che in quanto tale è consegnato all’ente e assegnato alla ricezione dell’ente» possa «conoscere l’ente anteriormente a ogni ricezione»128? Come sappiamo dalla Metafisica e Fisica di Aristotele129, la conoscenza prende avvio empiricamente, con l’esperienza. Questo lo ribadisce anche Kant nell’Introduzione: «che ogni nostra conoscenza incominci con l’esperienza, non vi è certo alcun dubbio […] ma per quanto ogni nostra conoscenza incominci Ibidem. Ibidem. 127 Kant esprime in maniera molto chiara l’eterogeneità di senso e intelletto, di intuizione e concetto, in questo passo: «i concetti puri dell’intelletto sono del tutto eterogenei in confronto alle intuizioni empiriche […] ora come è possibile la sussunzione delle intuizioni sotto tali concetti, e quindi, come è possibile l’applicazione della categoria ad apparenze…?», Kant, Critica della Ragione Pura, cit., Parte I, Anal. trasc. – Libro II – Cap. I, p. 218. 128 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p.§ 7, p. 42. 129 Aristotele, Metafisica, cit., A 1, 981 b 10 – 13; Idem, Fisica, cit., 1 A, 184 a 18-21. 125 126
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con l’esperienza, non per questo proprio tutte le conoscenze debbono sorgere dall’esperienza»130. Quella conoscenza che non sorge dall’esperienza è possibile grazie all’intelletto e non ai sensi, dai quali pure prende avvio. Qual è, allora, l’elemento che consente il passaggio? Prima di dare una risposta a questa domanda è bene ricordare che la caratteristica della ricettività si confà all’intuizione per un motivo molto semplice: l’intuizione è la forma pura della sensibilità. Come già abbiamo messo in luce in precedenza131 per Heidegger l’intuizione pura del tempo è essenzialmente ricettività nel senso di affezione o di ricezione formatrice. Heidegger afferma, infatti, che «il tempo è intuizione pura nel senso che preforma, da sé, la veduta della successione e la tiene, come tale, diretta su di sé, in quanto ricezione formatrice. Quest’intuizione pura, con l’intuìto in essa formato, riguarda se medesima, e prescinde veramente dall’ausilio dell’esperienza. Il tempo è, per essenza, affezione pura di sé»132. Questo significa fondamentalmente due cose: 1) Il tempo in quanto autoaffettività o autoffezione pura forma la struttura della soggettività. 2) Sulla base dell’autoaffezione il soggetto è assegnato alla ricezione. Per il filosofo tedesco, però, l’essere ricettivo della intuizione non significa essere dipendente dall’esperienza, al contrario, «ricevere nel modo della ricezione pura significa esser-affetto indipendentemente dall’esperienza, significa autoaffezione»133. Insomma, la ricettività non si lega unicamente all’intuizione empirica, ma anche a quella pura, dal momento che quest’ultima è a fondamento di ogni possibile rapporto empirico con gli oggetti, così come insegna Kant nell’estetica trascendentale134. I. Kant , Critica della ragione pura cit., Introduzione, Sezione I, pp. 45-46. Cfr., pp. 19-20 di questo capitolo. 132 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 163. 133 Ivi, p. 164. 134 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., § 1, pp. 75-77. 130 131
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La posizione preminente che assumono il tempo e l’immaginazione trascendentale nella lettura heideggeriana di Kant, infatti, va rapportata a quell’ampio concetto di sensibilità presente in Kant stesso. Heidegger riconosce che l’individuazione della problematica del tempo come fulcro della Critica è un azzardo, poiché implica un’assegnazione della Ragione all’intuizione, alla ricettività, in ultima analisi, al senso135. Ma di quale senso si tratta? «Senso equivale a intuizione finita. La forma del senso è la ricezione pura. Il senso interno non riceve dal di fuori , ma dal se stesso»136. Il senso al quale Heidegger si riferisce è quel senso di cui ci parla il padre del criticismo nella prima edizione. Nella Sezione terza della Logica trascendentale Kant ci parla di tre fonti soggettive della conoscenza: il senso, la capacità di immaginazione e l’appercezione137. Esse hanno un aspetto empirico, poiché possono essere applicate ad apparenze date; ma hanno anche un aspetto a-priori, che rende possibile lo stesso uso empirico. A noi interessa, in questo caso, la doppia costituzione del senso, che se, da un punto di vista empirico, «rappresenta […] le apparenze nella percezione»138, da un punto di vista trascendentale si fonda sull’intuizione pura del tempo. La domanda posta prima sulla possibilità di individuare un anello di congiunzione tra zone diverse della conoscenza (sensibilità e intelletto) può essere, a questo punto, riformulata con più consapevolezza, ora che il tema del tempo incomincia ad affacciarsi alle porte dell’ontologia. In tale contesto teorico, inoltre, l’immaginazione si fa largo ponendosi come sintesi di intelletto e «Nel porre in luce i presupposti decisivi della problematica intrinseca della ragione pura, abbiamo posto al centro la finitezza del conoscere. La finitezza della conoscenza riposa sulla finitezza dell’intuizione, ossia sulla ricezione. Perciò la conoscenza pura, ossia la conoscenza di ciò che si obietta in generale, il concetto puro, ha il suo fondamento in un’intuizione ricettiva». M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., pp. 163-164. 136 Ibidem. 137 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., pp. 187-188. 138 Ivi, p. 188. 135
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sensibilità; una sintesi che però precede, secondo Heidegger, gli elementi stessi e non risulta successivamente alla loro unione. Lo statuto originario dell’immaginazione resta, però, in Kant al livello di un accenno, poiché non indaga quei concetti di produzione, progetto e disegno a cui abbiamo fatto riferimento inizialmente. Volendo essere più chiari possiamo dire che se la conoscenza ha la propria materia nella sensibilità e i sensi si configurano come strumenti dell’affezione139, allora siamo nel territorio della intuizione e ricettività. Tuttavia la sintesi veritativa mostra che ogni affezione e ricettività hanno come correlato un ente, reso disponibile nel suo statuto di oggetto mediante l’operazione dell’intelletto, che spontaneamente produce il concetto dell’oggetto. Già al livello dell’intuizione siamo di fronte ad un embrione di conoscenza: la conoscenza dell’ente in quanto oggetto.
Le tre facoltà dell’animo: intuizione, immaginazione, intelletto140 «Come può un essere finito, che in quanto tale è assegnato all’ente e assegnato alla ricezione dell’ente, conoscere l’ente anteriormente ad ogni ricezione, ossia intuirlo…»141? Questa è la domanda che assilla Heidegger, spingendolo nella direzione sia dell’immaginazione trascendentale come origine dei due ceppi, sia del tempo, come struttura originaria dell’uomo e del suo orientamento nel mondo. Vediamo in che modo avviene tutto ciò. Nel passo heideggeriano appena citato risulta che allo scopo di conoscere l’ente entra in gioco l’intuizione pura. Infatti le due fonti principali della conoscenza – intuizione e concetto – mostrano sia un aspetto puro che uno empirico; nel primo caso nessuna sensazione sarà mescolata alla rappresentazione, nel secondo caso sì142. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 34. Per una comprensione immediata della struttura della conoscenza esposta da Kant nella Critica rimando all’efficace schema di O. Höffe, op. cit., pp. 60-61. 141 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 42. 142 I. Kant, Critica della Ragione Pura, Dottr. trasc. degli elementi – Parte II, Logica trasc. Introduzione – I, p. 108. 139 140
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Sensibilità e intelletto si differenziano, poi, anche perché la prima è caratterizzata dalla ricettività delle impressioni, il secondo dalla spontaneità dei concetti. La prima è il tema dell’Estetica, la dottrina della conoscenza sensibile, che non si ottiene tramite i sensi – o meglio parte dai sensi ma non si arresta ad essi – ma mediante la forma pura dell’intuizione. La seconda è oggetto dell’Analitica, il cui fulcro è la deduzione trascendentale, che mostra in che modo le categorie possano riferirsi ad oggetti, tramite gli schemi, e perché la conoscenza debba fare capo all’Io penso o Appercezione trascendentale143. Ricordiamo brevemente che cosa l’intuizione è per Kant e perché essa riveste un ruolo particolare nell’ambito tematico sul quale ci stiamo focalizzando. Nel § 1 dell’Estetica trascendentale il filosofo afferma che «in un’apparenza, ciò che corrisponde alla sensazione, io lo chiamo materia di tale apparenza; ciò che invece, fa sì che il molteplice dell’apparenza possa venir ordinato in certi rapporti, io lo chiamo la forma dell’apparenza […] chiamo pure in senso trascendentale tutte le rappresentazioni, nelle quali non viene ritrovato nulla di ciò che appartiene alla sensazione […] questa forma pura della sensibilità si chiamerà inoltre essa stessa intuizione pura»144. Qui sono espressi due concetti chiave della lettura heideggeriana di Kant; il primo è intuizione. L’intuizione si configura come una forma pura di rappresentazione nella quale l’apparenza – ossia il fenomeno, l’aspetto che noi conosciamo dell’oggetto – viene M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p.187 «Kant ha alle spalle, in certa misura, una vecchia tradizione filosofica, poiché già molto presto si è fatta una distinzione (e Aristotele fu il primo a farla in maniera chiara) tra α̉ίσθησις, ossia il lasciare che qualcosa sia dato, e νόησις, ossia il determinare pensante. Per questa ragione, la prima parte della spiegazione della conoscenza nella Critica della Ragione pura, la parte che ha a che fare con l’ α̉ίσθησις, con la percezione, si chiama estetica, e l’altra parte, quella che ha a che fare con la νόησις, si chiama propriamente noetica o, come dice Kant, logica. Solo l’intreccio di queste due provenienze, della sensibilità e del’intelletto, forma la conoscenza». 144 I. Kant, Critica della Ragione Pura, cit., Dottr. Trasc. degli elementi – Parte I, Est. Trasc., p. 75-76. 143
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ordinata indipendentemente dall’esperienza. Essa è appunto definita pura perché rende possibile una relazione immediata con l’oggetto – grazie all’affezione che la sensazione produce – ponendosi come il punto di riferimento di ogni pensiero, che senza intuizione sarebbe “vuoto”. Al livello dell’intuizione pura, dunque, già abbiamo un contatto di intelletto e senso che sembra far sfumare i contorni netti di quell’eterogeneità – che Kant asserisce appartenere a sensibilità e intelletto – che di fatto blocca la conoscenza, lasciando inspiegato il passaggio da doxa ad episteme. Il filosofo di Königsberg parla di due forme di intuizione pura: lo spazio e il tempo; esse rappresentano le “sfere”145 entro le quali è possibile accedere all’ente. La prima è intuizione del senso esterno, la seconda del senso interno. La seconda poi – come Kant afferma esplicitamente, e Heidegger sottolinea – è più importante della prima dal momento che «il tempo è la condizione formale, a priori, di tutte le apparenze in generale»146. Questo sta a significare che il tempo è una “struttura originaria”, in quanto condizione formale anche delle apparenze esterne. Sappiamo che per Kant il tempo ha una preminenza sullo spazio in quanto la sua è una funzione preliminare; tuttavia il perché di tale preminenza sarà esplicitato da Heidegger, sul quale il discorso kantiano su spazio e tempo ha, a nostro avviso, esercitato una influenza decisiva. La riflessione kantiana sulle intuizioni pure, infatti, è, secondo il nostro punto di vista, all’origine di quella continua oscillazione heideggeriana tra spazio e tempo, in virtù della quale il filosofo tedesco segna le tappe della storia della metafisica, ma anche la possibilità di uscire da essa, tramite l’approdo ad un nuovo tipo di pensiero che apra alla meditazione e non si chiuda alla scienza. Un pensiero che tenta di cogliere la Lichtung, appunto; un pensiero che non rappresenta, ma richiama alla memoria; M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 48. I. Kant, Critica della Ragione Pura, cit., Dottr. Trasc. degli elementi – Parte I, Est. Trasc., Sezione II, Del Tempo – §6, c p. 90. 145 146
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che non va alla foce, ma alla fonte. Un pensiero del genere, però, va a perdere la stessa denominazione di pensiero, volendo divenire post-metafisico, post-filosofico, post-umano. Tale pensiero traghetta verso l’arte, la poesia e il linguaggio, come i testi dell’ultimo Heidegger ci mostrano. Tuttavia, come vedremo, la riflessione sulla Lichtung non esprime la rinuncia heideggeriana alla filosofia o alla metafisica, come le pagine di Tempo e Essere vorrebbero farci credere. La Lichtung, anzi, è un’espressione stessa della metafisica heideggeriana, della sua filosofia, che non riesce a portare a linguaggio l’essere, l’evento, la Lichtung, unicamente per il fatto che ogni tipo di linguaggio assume quegli aspetti tanto detestati da Heidegger, ossia l’entificazione, l’oggettivazione, la rappresentazione. Il linguaggio si fa criptico, perde la luminosità del semplice per avvolgersi nelle tenebre del complesso. Il linguaggio diviene pesante – ma del resto la pesantezza è una caratteristica dei filosofi tedeschi, come dice Schopenhauer147 –, ma non privo di senso. Esso si inviluppa in un circolo che comprende lo stesso circolo “virtuoso”: il circolo metafisico, dal quale, come nel caso dell’heideggeriano circolo ermeneutico, non possiamo uscire. La questione decisiva, anche in questo caso, resta quella dello “starvi dentro alla maniera giusta”. In tale direzione si muovono queste pagine, che pongono Heidegger e le sue diagnosi storicofilosofiche come punto di partenza per pensare nuovamente il significato assunto dalla parola più problematica del ’900: 147 A. Schopenhauer, L’arte di insultare, Adelphi, Milano, 2004, p. 132: «Il vero carattere nazionale dei tedeschi è la pesantezza: essa risalta nel loro modo di agire, nella loro lingua, nei loro discorsi e racconti, nel loro modo di intendere e di pensare, ma in maniera del tutto particolare risalta nel loro stile letterario, nel piacere che essi traggono da periodi prolissi e intricati, a causa dei quali la memoria deve per cinque minuti applicarsi a imparare con pazienza la lezione che le è imposta, finché da ultimo, alla conclusione del periodo, l’intelletto tira le fila e gli enigmi sono risolti. Di tutto ciò si compiacciono, e se è possibile anche far mostra di preziosismi, parole altisonanti e di affettata σεμνότης [dignità stilistica], l’autore ci sguazza dentro: ma il cielo dia ai suoi lettori la pazienza di leggerlo».
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metafisica. Ma ritorniamo ad Heidegger e al suo rapporto con lo spazio e con il tempo. Nella fase di pensiero precedente la Svolta148 notiamo un’insistenza sul tempo, mentre in quella successiva vi è una maggiore concentrazione sullo spazio. Per ora focalizziamo la nostra attenzione sul tempo e sulla sua funzione. Proseguendo il discorso partito dal §1 dell’Estetica trascendentale, possiamo individuare, adesso, l’altro concetto che compare nel passo kantiano assieme all’intuizione: il concetto di ordine. Fissare l’attenzione sull’ordine – che le forme delle apparenze (lo spazio e il tempo) devono imporre al molteplice sensibile per produrre conoscenza – consente di comprendere i motivi che inducono Heidegger ad inclinare verso l’immaginazione, il tempo e dunque l’Estetica. Il § 23 (b) M. Ferraris, Cronistoria di una svolta, in M. Heidegger, La svolta, Melangolo, Genova 1990. Ferraris parla di due sensi principali di Kehre: conversione e rivoluzione. Nel primo significato è intesa da Lowith, nel senso della “greca μετανοια, cambiamento e voltafaccia”(p. 41). Ferraris propone una lettura di diverso tipo. Heidegger parla per la prima volta, pubblicamente, di svolta nel 1947 nella “Lettera sull’umanismo”, nel contesto del bilancio del pensiero espresso in Essere e Tempo (1927). Heidegger afferma: “esperire in modo sufficiente e partecipare a questo pensiero diverso, che abbandona la soggettività, è reso peraltro più difficile dal fatto che con la pubblicazione di Essere e Tempo, la terza sezione della prima parte non fu pubblicata. Qui tutto si capovolge (nel “che cosa” e nel “come” di ciò che è degno di essere pensato e del pensato). La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta, e non ne veniva a capo con il linguaggio della metafisica. La Conferenza sull’essenza della verità, tenuta nel 1930, ma pubblicata nel 1943, permette di farsi una certa idea del pensiero della svolta da Essere e Tempo a Tempo ed Essere. Questa svolta non è un cambiamento del punto di vista (cioè della questione dell’essere) di Essere e Tempo, ma in essa il pensiero che veniva là tentato raggiunge la prima volta il luogo della dimensione a partire dalla quale era stata fatta l’esperienza Essere e Tempo come esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere” (Lettera sull’umanismo, p. 52) . Questa è l’autointerpretazione di Heidegger che fa retrocedere la svolta dal 1947 al 1927. Secondo Ferraris la svolta sembra “polarizzarsi intorno al problema della temporalità […] è in base a una messa in chiaro della temporalità dell’essere che si impone l’esigenza di una distruzione della storia dell’ontologia”(p. 53) in direzione di “una comprensione dell’essere come spazialità, libera apertura, dispersione effettiva entro una contrada”(p. 55). Per la questione della Kehre cfr. anche F. Volpi, Vita e opere, pp. 24-26, in Id., (a cura di) Guida ad Heidegger, Laterza, Bari 2008. 148
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della Logica di Heidegger chiarisce il significato del concetto da noi preso in considerazione, mettendo in risalto quegli elementi che troveranno un’esposizione dettagliata nelle analisi della quotidianità in Essere e Tempo149; questi elementi sono le strutture pre-formative del modo di atteggiarsi dell’uomo verso il mondo, le forme anticipatrici che ci regolano a prescindere dalla nostro esserne coscienti: i di-cui e gli in-vista, ai quali – con espressioni di non facile comprensione – Heidegger fa riferimento. Il filosofo asserisce che «benché questi di-cui non siano tematici, io vivo in essi; e sono tanto meno tematici, quanto più essi fondano i punti di vista originari e posti alla base di tutto. Questi punti di vista originari sono le cose evidenti che non entrano nel campo delle cose di cui ci si prende cura e che si osservano quotidianamente, le cose evidenti che reggono già sempre quel che è dato immediatamente, e che per lo sguardo quotidiano, che è sempre uno sguardo rivolto alla vicinanza, non sono solo distanti, ma totalmente inaccessibili, celandosi in esse l’enigma che la filosofia si trova di fronte»150. I di-cui151 qui nominati sono lo spazio e il tempo, quei preliminari elementi che consentono la visione originaria, ossia quella che guarda al semplice venire-incontro del molteplice sensibile. Essi – lo spazio e il tempo – , determinano il molteplice dato dalla sensibilità, lo ordinano nella forma dell’uno-accantoall’altro e dell’uno-dopo-l’altro152, in modo tale da trasformare il dato in pensato. Come avviene il processo che mette ordine? Qual è il fondamento della necessità della determinazione nella conoscenza? Queste domande conducono il discorso heideggeriano ad abbandonare, provvisoriamente, il territorio dell’Estetica per attraversare tutti gli “insidiosi” luoghi dell’Analitica trascendentale: Appercezione trascendentale, Deduzione, Idem, Essere e Tempo, cit., § 67- 71. Idem, Logica. Il problema della verità, cit., p. 190. 151 Ivi, p. 191. 152 Ivi, p 190. 149 150
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categorie e schemi. Eppure, alla fine del percorso, non si guadagna nuovo terreno, al contrario, si ritorna al punto di partenza, all’Estetica, all’immaginazione, e al fondamento di entrambe: il tempo. Il procedimento heideggeriano è il seguente: si parte dalla sintesi veritativa – che mette in luce, da un lato, la necessità di partire dall’intuizione, dall’altro, quella di elevarsi al concetto per ottenere una conoscenza vera – per passare alla sintesi predicativa – che mette in risalto il ruolo svolto dal giudizio in quanto funzione di unità, ossia come congiunzione di rappresentazioni sottoforma di concetti, infatti «i giudizi sono funzioni dell’unità, rappresentano l’unità unificante del concetto nel suo carattere di predicato»153. Il termine del procedimento è l’Io penso, come unità delle rappresentazioni, che applica al molteplice, dato dalla sensibilità all’intuizione, l’universalità e unità della categoria, del concetto, attraverso il ruolo mediatore dello schema –determinazione trascendentale del tempo prodotto dall’immaginazione. Se Kant pensa che nell’Analitica si sia raggiunta la terraferma del soggetto, Heidegger non è dello stesso parere; egli vede, al contrario, nell’Io penso kantiano un vacillare dell’intera architettonica della ragione, che non posa sulle salde fondamenta di un soggetto stabile – quale pretende di essere ad esempio la res cogitans cartesiana, la cui stabilità è garantita dalla sua sostanzialità154 – ma corre il rischio di essere inghiottito dalle sabbie mobili del tempo, identificandosi con esso. Infatti la costituzione intrinseca del soggetto kantiano è, per Heidegger, il tempo, sul quale è difficile poter fare un discorso “scientifico”, Idem, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 36. Kant stesso sottrae l’Io penso alla sostanzialità, in quanto esso non è un concetto con un contenuto proprio, indipendente dalle cogitationes, ma è la coscienza che accompagna tutte le rappresentazioni, al di fuori delle quali non sarebbe nulla (Kant, Critica della Ragione pura, cit., Parte II, Dial. Trasc. – Libro II – Cap. I, p. 399). La confutazione della sostanzialità dell’anima è condotta da Kant nel primo paralogismo (i paralogismi costituiscono quel secondo tipo di inferenze raziocinanti e dialettiche della ragione che non trova alcun riscontro nell’esperienza). 153 154
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dal momento che esso non costituisce un che-cosa ma un come, e precisamente il come del rapporto dell’uomo con il mondo. Ricapitolando, risultano evidenti due aspetti: – il motivo per cui la sostanzialità non può più essere garanzia di conoscenza in Kant; – il motivo per cui la ristretta, ancorché fondativa, funzione di intuizione affidata, da Kant, al tempo è avvertita come insufficiente da Heidegger. Per quel che riguarda Kant, possiamo affermare che la sua idea di soggetto si definisce in opposizione a quella di Cartesio. La res cogitans è un soggetto imprigionato nella sua stessa mente. Qui risiedono le idee innate, il cui contenuto è definito già alla nascita, senza possibilità di intervento da parte dell’uomo che non ha alcun margine di azione tramite la sua esperienza155. La conoscenza, di fatto, resta bloccata poiché l’esperienza non può modificare il contenuto eterno delle idee innate, ma, anzi, essa si riduce a pura pietra di paragone della mente, a mera occasione che innesca un meccanismo già impostato. Questa impasse è riconducibile a quelli che Kant ha inserito nella prima classe di inferenze raziocinanti156 della ragione: i 155 Cfr., G. Giannetto, Le idee innate come disposizioni della mente in Cartesio, Scripta Web, Napoli, 2010. In questo testo l’autore contesta in parte l’innatismo delle idee attribuito a Cartesio prendendo in esame il cartesiano Note contro un certo manifesto, in cui emerge una nuova caratteristica dell’idea, l’idea come disposizione della mente, come struttura formante e non innata, con la conseguente rivalutazione del ruolo del molteplice sensibile e dell’esperienza umana coinvolti nell’iter gnoseologico. 156 I. kant, Critica della ragione pura, cit,, pp. 394-395. Secondo Kant la ragione produce inferenze raziocinanti e dialettiche – che non hanno alcuna conferma nell’esperienza dal momento che tentano di oltrepassarla – di tre tipi: paralogismi («io concludo dal concetto trascendentale del soggetto […] all’unità assoluta di questo soggetto stesso, del quale, in questo modo, non ho alcun concetto» ibidem); antinomie (fondate «sul concetto trascendentale della totalità assoluta nella serie delle condizioni di un’apparenza data in generale» che genera sillogismi contrapposti, escludentesi l’un l’altro, ibidem); ideale («da cose che non conosco nel loro semplice concetto trascendentale, io concludo ad un ente di tutti gli enti» ibidem). È evidente che i temi espressi da tali inferenze raziocinanti sono: uomo, mondo e Dio. Per una discussione critica approfondita cfr., O. Höffe, op.cit., pp. 114-146.
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paralogismi (deduzioni erronee) dell’anima. Si tratta insomma di quelle dottrine che da sempre si sono poste domande circa l’immortalità dell’anima, sulla quale è possibile decidere affermativamente o negativamente sulla base del primo paralogismo157, quello della sostanzialità. Esso fa dell’io un’ipostasi, confondendo l’unità trascendentale della coscienza, che accompagna tutte le nostre rappresentazioni, con l’intuizione di un oggetto. Ma dell’io, per Kant, non è possibile alcuna intuizione, poiché l’io non ha alcun oggetto corrispondente. Paradossalmente tutto l’impianto della Critica poggia su qualcosa che non conosciamo. Infatti solo l’intuizione di un oggetto ci permette di conoscere. Ma dell’io non si dà intuizione, pertanto esso non rientra, come qualsiasi oggetto, in quelle categorie che si pongono come i “fondamenti della ricognizione del molteplice”158: quantità, qualità, relazione e modalità. Semplicemente, l’Io penso deve poter essere pensato come l’unità originaria e sintetica che accompagna tutte le nostre rappresentazioni, la condizione trascendentale della conoscenza di ogni oggetto, come è affermato nel § 16 della Critica. Tuttavia se tale io non è un oggetto, perché non ne abbiamo intuizione, non per questo è un soggetto: infatti l’io ha una funzione metodica preliminare, che precede ogni io empirico. La digressione su Kant ha messo in luce non solo il suo rifiuto della psicologia razionale, ma anche l’instabilità della conoscenza. Noi conosciamo oggetti tramite un’attività sintetica di cui non conosciamo nulla, poiché non possiamo averne un’intuizione. I. Kant, Critica della Ragione pura, cit., Parte II, Dial. Trasc. – Libro II – Cap. I, p. 398. La dottrina che ha come oggetto l’anima, la psicologia razionale, si fonda su quattro tesi che per Kant sono deduzioni erronee: paralogismo della sostanzialità, paralogismo della semplicità, paralogismo della personalità e paralogismo dell’idealità del rapporto esterno. Nel primo caso si pensa che l’anima sia una sostanza, nel secondo che sia semplice, nel terzo che sia persona, nel quarto che l’esistenza delle cose del senso esterno è dubbia. Secondo Kant da questi paralogismi derivano tutta una serie di convinzioni errate come le seguenti: immaterialità dell’anima, incorruttibilità e immortalità. Tali convinzioni poggiano sul primo paralogismo. 158 Ivi, p. 205. 157
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Possiamo conoscere le cose ma non noi stessi. Tuttavia dobbiamo pensare che ci sia un’attività dell’io che raccolga in unità il molteplice, sottraendolo al caos dell’insensato per tra-durlo nel cosmo della razionalità. “Dobbiamo presupporre l’io”, Kant ripete più volte. Ma se si tratta di presupposti allora siamo in quell’inaffidabile terreno metafisico considerato come il germe infettivo dell’albero della conoscenza, che per Kant è la scienza. Connesso alla scivolosità dell’io è il tema heideggeriano del tempo. Abbiamo detto che il modo caratteristico dell’attività dell’io è la sintesi pura che «non compete né all’intuizione pura, né al pensiero puro»159. Infatti perché sia possibile la conoscenza è necessario che l’intuizione intuisca il datum molteplice. L’intuizione in quanto derivativa e non originaria è, però, possibile solo come recettività160. L’intuizione pura è un’α̉ίσθησις ontologica, che intuisce – non creando – l’ente, che la sensibilità offre. La purezza dell’intuizione è connessa al suo esser «determinata dal puro pensiero, a sua volta necessariamente ordinato all’intuizione»161. La questione fondamentale è trasformare l’intuito in pensato; trasformazione che avviene tramite l’intervento dell’intelletto che opera mediante categorie. L’applicazione delle categorie ha luogo attraverso lo schema trascendentale che ci porta dritto nel cuore della temporalità. Lo schema è quell’elemento mediatore tra sensibilità e intelletto, quella rappresentazione che ha sia carattere di intuizione, sia di concetto. Esso è la figura che rende «intuitivo il concetto e concettuale l’intuizione»162. Lo schema rende inoltre possibile l’obiettazione, ossia l’orizzonte in cui ogni ente può essere incontrato. L’unità delle rappresentazioni – l’io – per unificare la molteplicità dell’intuizione fa insomma uso di quella che Heidegger definisce efficacemente con l’espressione: anticipazione d’unità163 – M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 64. Su questo tema cfr., E. Severino, Heidegger e la metafisica, cit., pp. 55-83. 161 Ivi, p. 67. 162 O. Höffe, op. cit., p. 93. 163 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 75. 159 160
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mostrando ad un tempo sia il limite della fondazione logica della conoscenza sia la funzione originaria del tempo. Lo schema, come il filosofo di Königsberg afferma, è un “prodotto dell’immaginazione”164, la quale opera mediante una sintesi a-priori165. L’intelletto, dunque cede il suo scettro all’immaginazione, la cui attività sintetica opera preliminarmente attraverso il processo di sintesi di ciò che è dato a priori. Sappiamo, da tutto quello che fino ad ora è stato detto, che ciò che offre a-priori il molteplice è l’intuizione nella forma del senso interno. Kant lo dice chiaramente: «Il primo strumento che ci deve essere dato per la conoscenza a-priori di tutti gli oggetti, è il molteplice dell’intuizione pura; la sintesi di questo molteplice attraverso la capacità di immaginazione costituisce il secondo strumento, ma non fornisce ancora alcuna conoscenza. I concetti, che danno unità a questa sintesi pura, e che consistono unicamente nella rappresentazione di questa unità sintetica necessaria, sono il terzo strumento della conoscenza...»166. Il ruolo dell’immaginazione – e dunque del tempo – è riconosciuto dallo stesso Kant che però si orienterà verso il concetto, l’io penso e la logica. Heidegger invece insiste maggiormente sull’immaginazione, credendo in questo modo di svelare il sottosuolo del criticismo.
Il tempo: autoaffezione pura e origine della metafisica Le analisi fin qui svolte hanno messo in luce che il problema della metafisica, ossia la questione della conoscenza dell’essere e dell’ente, è strettamente connesso alla struttura soggettiva della conoscenza. Ogni riferimento all’ente e all’essere, infatti, poggia su un determinato atteggiarsi del soggetto verso il mondo circostante. Tale atteggiamento è mediato, come abbiamo visto, 164 I. Kant, Critica della Ragione pura, cit., Parte I, Anal. trasc. – Libro IICap. I, p. 220. 165 Ivi, Libro I- Cap. I – Sez. III – § 10, p. 131. 166 Ivi, p. 132.
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dal tempo, che indica un “come” e non un “che-cosa”, una relazione e non un ente Lo sgretolamento del che-cosa tipico del tempo, travolge anche la soggettività, che, in modo forte, con Kant si sottrae allo statuto sostanziale – che ancora la caratterizzava nell’impostazione cartesiana della res cogitans – per diventare l’inconoscibile che muove ogni conoscenza, la fonte inoggettivabile – perché priva della possibilità di essere intuita – e trascendentale di ogni esperienza possibile. L’io si risolve nella funzione di unità delle rappresentazioni. Tale unità non è, però, un punto di partenza, ma un punto di arrivo; essa è sempre unificazione, atto che compie una sintesi, atto che è originariamente la sintesi da cui ogni unità, distinzione e individuazione possono sorgere. Insomma, l’io diviene quell’impalpabile, perché costitutivamente temporale, apertura della conoscenza, che non crea l’oggetto ma lo sottomette alle sue strutture. Ma proprio perché l’io riduce l’oggetto a materia grezza alla quale imporre una forma – non riconoscendogli un’autonomia al di fuori del suo rapportarsi al soggetto – l’oggetto è pensabile come noumeno inconoscibile in sé; ma questo significa, anche, ridurlo ad un nulla in sé e a qualcosa solo per noi. Dalle analisi heideggeriane circa il tempo emerge un caratteristica tipica dell’uomo: la trascendenza, la Lichtung, l’apertura che consente ogni rapportarsi dell’uomo con il mondo. Si tratta di quegli elementi tipici dell’attività cosmetica della ragione che, nel momento stesso in cui viene alla luce, ha già “saltato” il mondo, ma non per abbandonarlo, bensì per relazionarsi costantemente ad esso. Il trascendere, che è l’atto di nascita della metafisica, è la possibilità del mondo stesso, che, altrimenti, sarebbe unicamente ambiente, il caos amorfo in cui è immerso l’animale. Ma l’uomo si distingue dall’ape, così come dalla betulla, proprio perché con la sua volontà può uscire dai “limiti delle sue possibilità”167. 167 M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Id, Saggi e discorsi, cit., p. 64.
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È bene ricordare che la volontà di cui parla Heidegger non è innanzitutto quella che guida l’azione pratica, ma quella della conoscenza. Nelle penetranti pagine del Nietzsche emerge, chiaramente, il significato della volontà e il ruolo che l’intera tradizione filosofica occidentale svolgono per il filosofo di Messkirch. La volontà di potenza come conoscenza è, infatti, concepita come «quel comportamento e quell’atteggiamento del rappresentare mediante il quale il vero viene colto e serbato come possesso»168, un possesso che implica un riferimento all’ente. E se il vero menzionato in questo passo è l’ente stesso – che in quanto essente è aperto nella radura della verità, secondo la concezione heideggeriana dell’̉αλήθεια – risulta evidente che il possesso del vero è innanzitutto un possesso dell’ente. La conoscenza è allora, proprio come diceva Nietzsche, intrinsecamente potenza e dominio, e la verità ha le sembianze di un castello di carta che l’uomo mette in piedi per aumentare la sua potenza sull’ente, neutralizzando la sua carica distruttiva. La conoscenza ha per Nietzsche proprio lo scopo di convertire la carica negativa del reale in positività, e la verità si pone come il φάρμακον, il rimedio alla “pietrificazione” di Medusa169. Idem, Nietzsche, cit., p. 412. Così si esprime Nietzsche in Verità e menzogna: “Anche gli dei sono soggetti all’ananke: questa è una dichiarazione di rara sapienza. Vedere la propria esistenza così com’essa è ma in uno specchio trasfigurante e con questo specchio ripararsi dalla Medusa – era questa la geniale strategia della volontà ellenica per poter vivere. Come altrimenti avrebbe potuto sopportare l’esistenza quel popolo[…]!”. Nietzsche, Visione dionisiaca del mondo, in Id., Verità e menzogna, Newton compton, Roma, 2005, § 2, p. 58. La realtà ha per il filologo di Basilea un effetto devastante, e l’unica verità per Nietzsche non è quella del logos ma quella della vita che è crudele proprio nella sua innocenza, così come emerge dalle pagine sul fanciullo eracliteo; Cfr., Id., La filosofia nell’età tragica dei Greci, Newton Compton, Roma, 2005, §§ 4, 6, 8, 9. L’insistenza su questo tema accomuna Nietzsche a un autore che sul recupero della vita e delle sue strutture ha puntato tutta la sua riflessione: Dilthey. Sarà chiara questa connessione dal seguente passo nietzscheano. Leggiamo in Umano troppo umano (1878) : “Necessità dell’illogicità. Tra le cose che possono portare un pensatore alla disperazione, c’è la constatazione che all’uomo l’illogicità è necessaria, e che da essa può derivare molto bene […] solo uomini troppo ingenui possono credere che si possa trasformare la natura 168 169
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Un farmaco i cui effetti si rivelano però collaterali, poiché l’uomo scopre infine che quello che da sempre ha reputato vero è in realtà una menzogna170. Gli uomini hanno trovato la umana in natura puramente logica; […] anche l’uomo più ragionevole ha bisogno, di tempo in tempo, di un ritorno alla natura, cioè alla sua illogica posizione fondamentale verso tutte le cose”. Qui emerge un concetto fondamentale: natura. La natura è il termine usato per indicare un fenomeno più generale: la vita. Struttura, questa, che accomuna Nietzsche a Dilthey. Diciamo subito però che la vita di cui parla Dilthey non è una nozione biologica ma una determinazione categoriale del mondo storico – il mondo a cui appartiene l’uomo nei suoi rapporti sociali, cioè nella sua storia – e “radice ultima della visione del mondo”,; Cfr., W. Dilthey, Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Torino, Utet, 2004, p. 587. La visione del mondo che trova la sua ultima radice nella vita è una intuizione del mondo che si modula in modi diversi. Arte, religione e filosofia sono i tre tipi di visione del mondo individuati da Dilthey. Interessante per il tema che stiamo trattando risulta la tripartizione del terzo tipo di visione del mondo: naturalismo positivistico, idealismo oggettivo e idealismo della libertà. Ogni tipo è sorretto da una categoria che esprime una relazione dell’uomo con il mondo; nel primo caso avremo la categoria di causalità, nel secondo quella di valore, nel terzo quella di scopo. Per un’analisi più dettagliata rimando a G. Cacciatore, Scienza e filosofia, cit., vol. II. p. 322 – 363. Per Dilthey infatti la questione della vita e della sua comprensione non va posta a partire dalla natura. “Dilthey tende a definire l’oggetto delle scienze dello spirito in una precisa delimitazione logica e metodologica di campo rispetto alle scienze della natura, […] la caratteristica differenziale di fondo tra i due ambiti di scienze […] è la capacità di una connessione comprensiva della vita la quale manca del tutto alle scienze della natura”, G. Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, Guida, Napoli, 1976, 2 Voll., Vol. II, p. 112. La connessione comprensiva si configura come una Wirkungzusammenhang, una connessione dinamica - totalmente differente dalla connessione causale della natura – che immette il problema conoscitivo dell’oggettivazione della vita direttamente sul suolo storico. Su quest’ultimo punto rimando a G. Cacciatore, Spirito oggettivo e oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, in Id., Storicismo problematico e metodo critico, cit., p. 114. Qui l’autore afferma che “Il problema conoscitivo dell’oggettivazione della vita può essere risolto con l’ausilio di uno strumento gnoseologico capace di interpretare le espressioni oggettivate, muovendo dalla sede principale del processo ermeneutica: la coscienza storica”. La vita dunque si configura come la stessa situazione dell’uomo nel mondo, la vita vissuta nella sua immediatezza, la quale è suscettibile di comprensione. Tale comprensione è l’oggettivazione della vita o spirito oggettivo – non inteso hegelianamente come ragione che diventa istituzione o sistema sociale –, ossia l’insieme delle manifestazioni in cui la vita si è oggettivata nel corso del suo sviluppo. 170 Nietzsche, Sul pathos della verità, in Id. , Verità e menzogna, cit., p. 70, “In qualche angolo remoto di questo fiammeggiante universo […] ci fu un tempo un corpo celeste sul quale degli animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Si trattò
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conoscenza, ma niente di più oltre quella, per questo la verità, ossia la non verità a cui sono condannati, li rende disperati. Se ci si lascia domare dalla frusta del logos all’uomo non resta che l’annichilimento, la morte. Ma c’è un’alternativa al nichilismo. All’uomo si apre infatti la possibilità di imboccare due sentieri: il nulla o l’arte. Heidegger e Nietzsche imboccano la seconda strada. Essi non si gettano nel nulla, ma danzano sull’orlo dell’abisso, per dirla con Nietzsche, guardandoci dentro, però, senza agire, rassegnandosi ad un destino che guiderebbe il nostro pensiero. Insomma, una volta tolto un velo dalla realtà, se ne rimette un altro; e il velo che prende il posto del primo velo, quello della conoscenza e della verità, è il velo dell’arte. Entrambi pongono a distanza la razionalità, quel pensiero calcolante e dunque manipolativo, che non restituisce il senso vero delle cose. Essi possono essere considerati come “critici”171 della Critica della del minuto più tracotante dell’intera storia universale […] dopo alcuni sussulti della natura quel corpo celeste si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Ed era tempo: giacchè per quanto andassero superbi del loro avere molto conosciuto, alla fine con loro grande rincrescimento dovettero arrivare alla conclusione che tutto avevano conosciuto in maniera falsa . Così morirono e morendo maledissero la verità”. Idem, La nascita della tragedia, Newton Compton, Roma, 2005, § 7, p. 140. Si legge nella Nascita della tragedia che il dionisiaco “schiude la vera conoscenza che è la visione dell’orribile verità”. Tale orribile verità è quella dell’esistenza, la quale si pone come ύ̉βρις, tracotanza, delitto, eccesso come “con epigrafica efficacia disse una volta Anassimandro:«Là donde le cose hanno l’origine loro, devono perire secondo la necessità; conviene infatti che esse paghino il fio e siano giudicate per le loro ingiustizie, secondo l’ordine del tempo». Enigmatica sentenza di un autentico pessimista. Idem, La filosofia nell’età tragica dei Greci, Newton Compton, Roma, 2005, § 4, p. 232. I “disperati” animali di cui Nietzsche ci sta parlando sono gli uomini che hanno trovato la conoscenza, ma niente di più oltre quella. Per questo la conoscenza li rende disperati. Essa ha mostrato loro che quello che hanno da sempre reputato vero, in realtà è una menzogna. L’uomo ha scoperto di non possedere la verità, di essere condannato alla non verità. L’uomo infatti può solo avere fede nella verità. 171 Abbiamo usato in riferimento ad Heidegger una immagine presente in Sestov e Deleuze. Infati, tutta l’analisi heideggeriana della metafisica si configura come una critica alla razionalità dell’uomo occidentale. Tale razionalità è magistralmente esposta da Kant nella prima Critica, per cui l’espressione “critico della Critica” è perfettamente accostabile ad Heidegger. L. Sestov vede in Dostoevskij colui che ha “osato una critica alla Critica della ragione pura” e questo per la precisione
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Ragione pura di Kant, in quanto sono accomunati dal bisogno di “disintossicarsi” da quegli schemi di pensiero avvertiti come la “malattia mortale” dell’uomo, e l’esito del loro pensiero non può che sembrare una rinuncia alla razionalità e un tributo all’arte. “L’arte è più potente della conoscenza”172, Nietzsche lo ripete più volte, e con lui l’ultimo Heidegger. Ma sappiamo che le alte vette dell’arte sono di una natura particolare, di non facile accesso a tutti. Il pensiero è invece per tutti, e per orientarsi nel mondo in modo consapevole è necessario, soprattutto nell’epoca dell’epochè, di quel nichilismo del “fare” e del “macchinare”173, della tecnica174 e dell’imposizione175. In tale storia del nichilismo il tempo come struttura originaria gioca un ruolo strategico, in quanto ogni atteggiamento umano è possibile solo sul fondamento della temporalità. Mettere a nudo tale temporalità ci consente, allora, di comprendere il fondamento della critica alla metafisica e l’emergere della Lichtung, e dello spazio nel pensiero heideggeriano come possibile via di uscita alla metafisica nella forma dell’arte. Heidegger, infatti, scopre sarebbe avvenuto con il testo Memorie del sottosuolo. Cfr. L. Sestov, Atene e Gerusalemme, cit., Prefazione, nota 1, p. 181; G. Deleuze, invece, identifica Nietzsche con il vero critico della Critica, poiché il “trasvalutatore di tutti i valori” avrebbe rivoluzionato il pensiero con la Genealogia della morale. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 131. 172 Nietzsche, Sul pathos della verità, in Id., Verità e menzogna, cit., p. 70. 173 M. Heidegger Oltrepassamento della metafisica, in Id., Saggi e Discorsi, cit., p. 59: “L’essenza del nichilismo, nel senso della storia dell’essere, è l’abbandono dell’essere, in quanto in tale abbandono accade che l’essere si lascia andare nel fare e nel macchinare”. 174 Sul concetto di tecnica come essenza della metafisica e come τεχνη, cioè come atteggiamento fondamentale nei confronti della φύσις cfr. M. Heidegger La questione della tecnica, in Id. , Saggi e Discorsi, cit., pp. 5-27, e Id., Domande fondamentali della filosofia, cit., pp. 126-128. Cfr. a riguardo anche M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica. Heidegger interprete inattuale dell’epoca presente, Bulzoni, Roma, 1978, pp. 227-251 e Id., L’essenza della tecnica e il nichilismo, in F. Volpi (a cura di) Guida ad Heidegger, cit., pp-235-276; E. Mazzarella, L’incantamento tecnico, in Id., Tecnica e metafisica, cit., pp. 251-263, e Id., La techne come modo della physis, in Id., pp. 265-291. 175 Sul concetto di Ge-stell (impianto, imposizione) cfr. M. Heidegger, L’impianto, in Id., Conferenze di Brema e di Friburgo, cit., pp. 45-70.
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con la sua analisi del tempo che tutto quello che conosciamo, lo conosciamo in un determinato modo perché siamo strutturalmente temporali. Ma è proprio la nostra costituzione temporale che ha generato la metafisica. Sebbene Heidegger affermi che la catastrofe del pensiero, generata dalla metafisica, sia riconducibile al prevalere della modalità temporale della presenza, a ben guardare le analisi condotte in Essere e Tempo, in Kant e il problema della metafisica e in Logica, mostrano che il tempo nel modo del futuro è sempre insito sia nel presente che nel passato. Il fenomeno del tempo non va, dunque, ricondotto per il filosofo di Messkirch alla sequenza ordinaria di passato-presente-futuro176. Questo è il modo inautentico di concepire il tempo, quel modo cioè dominato dalla ontologia della presenza, che riconduce all’ente l’interpretazione dell’essere e dunque del tempo. Le pagine di Essere e Tempo, inoltre, possono dare l’idea che il tempo e l’essere siano lo stesso, generando la convinzione che l’enigmatico essere heideggeriano possa dissolversi nel tempo177. In realtà, come le pagine di Tempo e Essere e alcuni luoghi dell’opera del ’27 mostrano, essere e tempo non sono lo stesso per Heidegger. La loro identità è dominante, invece, nel pensiero metafisico che riduce l’essere all’ente, e dunque lo 176 Cfr., C. Esposito, Il fenomeno dell’essere e l’accadere della storia: Heidegger anni venti, in E. Mazzarella (a cura di) Heidegger a Marburgo (19231928), cit., pp. 73-97. 177 Le affermazioni di Tempo e Essere sono significative da questo punto di vista, poiché mettono in luce la non-identità di essere e tempo. “L’essere non è una cosa, quindi non è niente di temporale […] il tempo non è una cosa, quindi non è niente di essente”; M. Heidegger, Tempo ed Essere, Longanesi, Milano 2007, pp. 5-6. Essere e tempo sono anzi due elementi distinti che nondimeno si implicano vicendevolmente nell’orizzonte della Lichtung-Ereignis-̉Αλήθεια, unica condizione di possibilità del rapporto tra essere e tempo; essi non indicano due cose, che sono spazialmente e temporalmente determinate – spazio e tempo sono i modi in cui si danno gli enti – ma indicano lo stato di cose a partire dal quale soltanto è possibile tutto il resto; ibidem. Anzi è proprio la metafisica – quella che Heidegger si propone di superare – che si poggia sul dissolvimento dell’essere nel tempo, in quel presente che domina ogni nostro rapportarci al mondo.
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pensa in base ai caratteri di stabilità, permanenza e immutabilità, insomma in base agli attributi parmenidei, come abbiamo avuto modo di vedere nel capitolo precedente. La storia della metafisica mostra quell’ambigua riduzione dell’essere al tempo178 nella paradossale forma di una estromissione del suo fluire. Il flusso temporale si arresta, bloccandosi in un presente eterno. La proiettività del Da-sein, la sua protensione verso il futuro – sempre all’opera nel suo orientarsi nel mondo, nel suo dirigersiverso intenzionale – si rivela però come la matrice nascosta dell’ontologia della presenza. Le dettagliate analisi dell’analitica esistenziale mostrano un fondamentale pilastro della cronologia heideggeriana: sia nella dimensione autentica che in quella inautentica dell’esserci: il futuro. Esso si pone come il centro direzionale non solo degli atti del Da-sein, siano essi teoretici o pratici, ma anche del suo puro esser-situato. In conclusione, possiamo affermare che l’attenzione posta sull’interpretazione heideggeriana dei concetti kantiani di io, tempo e immaginazione ci consente di accostare i concetti di sintesi presenti nella Critica a quelli di estasi, contenuti in Essere e Tempo: – apprensione/presente – riproduzione/passato – ricognizione/futuro La metafisica dunque non è il prodotto del divorzio di essere e tempo – come l’ontologia fenomenologia di Eduardo Nicol sembra mettere in luce nel tentativo di coniugare la presenza con il cambiamento ontologico – , ma, al contrario nasce proprio dalla loro sovrapposizione. Solo perché il pensiero è guidato da un’ontologia della presenza è possibile una metafisica che riduce l’essere all’ente. Heidegger non riesce però ad esplicitare fino in fondo il senso di quanto afferma in Essere e Tempo circa il tempo e l’ontologia poiché portare fino in fondo la critica alla metafisica significa dissociare il soggetto dalla sua costituzione temporale, con la conseguenza di abbandonare il territorio a cui approda l’analitica del da-sein. Per un approfondimento della tematica ontologica nicoliana cfr., E. Nicol, Metafisica dell’espressione, Prefazione a cura di G. Cacciatore, traduzione e introduzione a cura di Maria Lida Mollo, La Città del Sole, Napoli 2007; e cfr., Maria Lida Mollo, Nuovi sentieri dell’ontologia fenomenologia in Eduardo Nicol, in “Rocinante”, Rivista di filosofia Iberica e Iberoamericana, 2, La Città del Sole, Napoli 2006, pp. 91-116. 178
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Sappiamo da Essere e Tempo che a fondamento della tripartizione temporale di passato, presente e futuro c’è una comprensione ordinaria del tempo che non corrisponde alla temporalità autentica di cui si parla nel § 61, ossia alla temporalità come senso ontologico della Cura179. La cura indica la costituzione stessa dell’esserci che è definita da Heidegger come autocomprensione180, la cui unità è la temporalità181. Dobbiamo tenere distinte la Temporalität e la Zeitlichkeit per una retta comprensione del fenomeno del tempo. La prima indica la condizione di possibilità della comprensione dell’essere e dunque la temporalità dell’essere182, la seconda, invece, la temporalità, e dunque la storicità, dell’esserci. La Zeitlichkeit occupa i paragrafi 65-71 di Essere e Tempo, mentre la Temporalität doveva occupare la seconda sezione, mai apparsa183, dell’opera del ’27, poi confluita nel corso marburghese del semestre estivo del 1927 I problemi fondamentali della fenomenologia. Heidegger afferma che «l’esserci compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo»184. Questa è la posizione di chi non riduce il tempo al numero del movimento185, ossia alla concezione mondana del tempo. M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 65. “L’Esserci, rispetto alla sua esistenza, è aperto a se stesso autenticamente o inautenticamente.[…] L’essere che viene aperto è quello di un ente per il quale ne va di questo essere. Il senso di questo essere, cioè della Cura (senso che la rende possibile nella sua costituzione) esprime originariamente l’essere del poter-essere. Il senso dell’essere dell’Esserci non è qualcosa di nebulosamente diverso o di esterno all’Esserci, ma l’Esserci stesso autocomprendentesi”. Ivi, p. 386, corsivo nostro. 181 “La temporalità rende possibile l’unità di esistenza, effettività e deiezione, e costituisce così originariamente la totalità della struttura della cura”. Ivi, p. 389. 182 “Bisogna mostrare che la temporalità (Zeitlichkeit) è la condizione di possibilità della comprensione dell’essere in generale; l’essere viene compreso e concepito a partire dal tempo. Quando la temporalità costituisce una tale condizione, noi la chiamiamo “temporalità dell’essere” (Temporalität)”. Idem, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., § 20, p. 263. 183 Idem, Essere e Tempo, cit., § 8, p. 56. 184 Idem, Il concetto di tempo, cit., p. 40. 185 Aristotele, Fisica, cit., IV, 11, 219 a e sgg. 179 180
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Il tempo per il filosofo tedesco non è ciò in cui si svolgono gli eventi186, dal momento che esso non ha a che fare primariamente con la misurazione, con l’orologio che «dà una stessa uguale durata che si ripete costantemente, e alla quale ci si può sempre rifare»187. Il tempo per Heidegger, insomma, si sottrae paradossalmente alle odierne tecnologie che lo utilizzano in funzione di unità di misura, riducendolo a qualcosa di astratto188. Esso non è «qualcosa in cui un punto-ora può essere fissato a piacimento in modo tale che, di due diversi punti temporali, l’uno è sempre prima, l’altro poi, senza che alcun punto-ora del tempo si distingua dall’altro. […] Generalmente questo tempo è omogeneo. Solo in quanto il tempo è costituito come tempo omogeneo, è misurabile»189. Dalle parole del filosofo emerge chiaramente che il tempo intorno al quale le sue riflessioni ruotano non ha alcunché di oggettivo, di naturale, di scientificamente misurabile190. Il tempo è tutt’altro; esso non «è in sé una serie fluttuante di “ora”»191 e ha a che fare con il Sum direttamente, e solo successivamente con il Cogito. Il tempo sostanzia l’io stesso permettendogli di cogliersi, di autoaffettarsi, di rapportarsi a se stesso in modo puro – anche se la purezza a cui facciamo riferimento non è l’autotrasparenza logica, bensì l’immediatezza dell’autosentimento situazionale. I caratteri che Heidegger attribuisce alla temporalità dell’esserci – come autoaffettività dell’io che consente ogni rapporto intenzionale tra uomo e mondo – sono quelli che abbiamo ritrovato nelle tre facoltà soggettive della conoscenza kantiane: senso, M. Heidegger, Il concetto di tempo, cit., p. 27. Ivi, p. 28. 188 “Questo modo di concepire il tempo, che può essere fatto risalire ad Aristotele, è un modo astratto di concepirlo, perché lo riduce a una misura di qualche cosa d’altro. Esso prima ne fa il “numero del movimento relativamente al prima e al poi”, dopo lo identifica come un continuum”. G. Lissa, La gioia del plurale. Il congedo dall’ontologia come premessa per la fine dell’unità di tempo, Rubettino, Catanzaro 2007, nota 106, p. 59. 189 M. Heidegger, Il concetto di tempo, cit., p. 28. 190 Idem, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., § 19, pp. 220-263. 191 Ivi, § 19 δ, p. 257. 186 187
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immaginazione trascendentale, appercezione. Infatti, i tre tipi di sintesi (apprensione, riproduzione, ricognizione) corrispondono alla costituzione intrinseca di presente, passato e futuro, ossia a quei caratteri della temporalità che sono il presentificare, il ritenere e l’aspettarsi192. Sappiamo che per Kant questi tre tipi di sintesi sono necessari per la conoscenza, la quale si configura come connessione e comparazione di rappresentazioni. Tali operazioni di confronto poggiano inoltre sulla corrispondenza di sinossi del senso e sintesi. Al preliminare colpo d’occhio sul molteplice deve seguire una sintesi triplice, necessaria per ogni conoscenza, «si ha cioè la sintesi dell’apprensione delle rappresentazioni, intese come modificazioni dell’animo nell’intuizione; la sintesi della riproduzione di tali rappresentazioni nell’immaginazione; la sintesi della loro ricognizione nel concetto»193. Solo in questo modo si produce conoscenza. I tre tipi di sintesi, così come i tre modi del tempo, mostrano che «la temporalità non è assolutamente un ente. Essa non è ma si temporalizza […] e precisamente nelle diverse modalità che sono proprie di essa»194. Le modalità sono l’«avvenire, esserstato e presente» e «indicano il carattere fenomenico dell’ad-sé, del’indietro-verso e del venire incontro di. I fenomeni dell’ad, retro, presso rivelano la temporalità come l’̉εκστατικόν puro e semplice. La temporalità è l’originario fuori di sé in sé e per sé. Perciò noi chiamiamo i fenomeni esaminati sotto il titolo di avvenire, essere-stato e presente le estasi della temporalità. La temporalità non è prima di tutto un ente che poi esce fuori di sé; la sua natura essenziale è la temporalizzazione nelle unità delle estasi. […] il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica è l’avvenire »195. Il lungo citare mette in luce la problematicità della dottrina heideggeriana del tempo. Del tempo non si può dire che è; esso non è nulla di essente, ma concede, dà, offre. «Non diciamo […] Ivi, p. 258, e Idem, Kant e il problema della metafisica, cit., § 33 a, b, c, § 34. I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 156, I ed. 194 Idem, Essere e Tempo, cit., § 65, p. 390. 195 Ivi, pp. 390-391. 192 193
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“il tempo è”, ma diciamo, […] “es gibt tempo”»196. Temporale è il nostro modo di abitare il mondo, di rapportarci ad esso, di istituire connessioni teoriche e pratiche, di avere a che fare con utilizzabili, strumenti, altri uomini; tuttavia «l’uomo non è un prodotto fatto dal tempo»197 afferma enigmaticamente Heidegger in Tempo e Essere: «non si dà qui nessun fare o produrre. Si dà solo il dare nel senso […] dell’offrirsi che dirada lo spazio di tempo»198. Nell’ultima fase del suo itinerario speculativo Heidegger tenterà proprio di pensare l’Es gibt, il darsi che concede sia tempo che essere, tentando di dire di quella fonte originaria di essere e tempo di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo.
Idem, Tempo e essere, cit., p. 7. Ivi, p. 22. 198 Ibidem, corsivo nostro. 196 197
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Capitolo terzo La Lichtung come orizzonte di coappartenenza di esserci, verità ed essere
Solo se stiamo nella radura esperiamo il velarsi. La verità non è mai un sistema composto di proposizioni cui ci si possa richiamare. Essa è il fondamento che risplende e si staglia e si erge al di sopra di ciò che è velato senza toglierlo e superarlo, è lo stato d’animo che dispone tale fondamento. Perché questo fondamento è l’evento stesso in quanto permanenza essenziale dell’Essere. L’evento regge la verità = la verità si staglia attraverso l’evento.
M. Heidegger, Contributi alla filosofia. I due precedenti capitoli hanno avuto come oggetto l’interpretazione heideggeriana della questione metafisica dei Greci e la tematizzazione del rapporto io e tempo all’interno dell’impostazione metafisica della ragione pura, così come tematizzata da Kant nella prima Critica. L’intento principale di Heidegger è, infatti, quello che tenta di portare al linguaggio “la vista” che rende possibile ogni rapporto rappresentativo che il pensiero metafisico intrattiene con l’ente. Tale rapporto, per il filosofo, deve la «sua vista alla luce (Licht) dell’essere, la luce, ovvero, ciò che tale pensiero esperisce come luce» – che però – «non rientra a sua volta nella vista di questo pensiero»1. Ivi, pp. 89-90. Significativo è il fatto che l’edizione del 1949 utilizzi al posto di Licht/luce il termine Lichtung/radura, come possiamo leggere alla nota a della quinta edizione del ’49. 1
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L’ipotesi interpretativa che muove queste pagine si costruisce, proprio, intorno alla centralità che il concetto di Lichtung assume nel Denkweg heideggeriano, il cui fulcro è la questione dell’essere e la connessa critica alla metafisica. Le interpretazioni storico-filosofiche portate avanti da Heidegger hanno, infatti, lo scopo di una ostensione della radura in cui il mondo è riconosciuto come fonte inoggettivabile e intrascendibile, orizzonte trascendentale di senso di cui l’uomo non può disporre come di un oggetto, ma in cui dimora spazialmente e temporalmente. Le analisi fin qui svolte hanno messo in luce che il problema della metafisica, ossia la questione della conoscenza dell’essere e dell’ente, è strettamente connesso alla struttura soggettiva della conoscenza. Ogni riferimento all’ente e all’essere, infatti, poggia su un determinato atteggiarsi del soggetto verso il mondo circostante. Tale atteggiamento è mediato, come abbiamo visto, dal tempo, che indica un “come” e non un “che-cosa”, una relazione e non un ente. Lo sgretolamento del che-cosa tipico del tempo, travolge anche la soggettività, che con Kant si sottrae allo statuto sostanziale – che ancora la caratterizzava nell’impostazione cartesiana della res cogitans – per diventare l’inconoscibile che muove ogni conoscenza, la fonte inoggettivabile – perché priva della possibilità di essere intuita – e trascendentale di ogni esperienza possibile. Dalle analisi heideggeriane circa il tempo emerge una caratteristica tipica dell’uomo: la trascendenza, la Lichtung, l’apertura che consente ogni rapportarsi dell’uomo con il mondo. Si tratta di quegli elementi tipici dell’attività della ragione che, nel momento stesso in cui viene alla luce, ha già “saltato” il mondo, ma non per abbandonarlo, bensì per relazionarsi costantemente ad esso. Il trascendere, che è l’atto di nascita della metafisica, è la possibilità del mondo stesso e della sua conoscenza. In tale storia il tempo come struttura originaria gioca un ruolo strategico, in quanto ogni atteggiamento umano è possibile 107 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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solo sul fondamento della temporalità. E, mettere a nudo tale temporalità ci consente, allora, di comprendere il fondamento della critica alla metafisica e l’emergere della Lichtung, e dello spazio nel pensiero heideggeriano come possibile via di uscita alla metafisica nella forma dell’arte. Heidegger, infatti, scopre con la sua analisi del tempo che tutto quello che conosciamo, lo conosciamo in un determinato modo perché siamo strutturalmente temporali. Ma è proprio la nostra costituzione temporale che ha generato la metafisica come oblio dell’essere. La proiettività del Da-sein, la sua protensione verso il futuro – sempre all’opera nel suo orientarsi nel mondo, nel suo dirigersiverso intenzionale – si rivela, però, come la matrice nascosta dell’ontologia della presenza. La metafisica, infatti, non è il prodotto del divorzio di essere e tempo, ma, al contrario nasce proprio dalla loro sovrapposizione. Solo perché il pensiero è guidato da un’ontologia della presenza è possibile una metafisica che riduce l’essere all’ente. Heidegger non riesce però ad esplicitare fino in fondo il senso di quanto afferma in Essere e Tempo circa il tempo e l’ontologia poiché portare fino in fondo la critica alla metafisica significa dissociare il soggetto dalla sua costituzione temporale, con la conseguenza di abbandonare il territorio a cui approda l’analitica del da-sein. Le dettagliate analisi dell’analitica esistenziale mostrano un fondamentale pilastro della cronologia heideggeriana, sia nella dimensione autentica che in quella inautentica dell’esserci: il futuro, che si pone come il centro direzionale degli atti del Da-sein. Per concludere questa breve ricapitolazione di quanto abbiamo detto nei capitoli precedenti possiamo con certezza dare per acquisito che la storia della metafisica mostra che l’essere non è «isolato e sussistente per sé. La storia dell’essere non è un processo rappresentabile in termini oggettivi, a proposito del quale si potrebbero narrare le avventure dell’essere. Il destino dell’essere rimane in sé la storia essenziale dell’uomo 108 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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occidentale, nella misura in cui l’uomo storico viene fruito nell’edificante abitare la radura dell’essere. In quanto sottrazione destinale, l’essere è già in sé riferimento all’essenza dell’uomo»2. Dalle affermazioni heideggeriane affiora in modo esplicito un aspetto fondamentale del suo iter di pensiero: il coappartenersi essenziale di uomo ed essere. Non si dà essere senza l’uomo; non esiste uomo senza essere. Ed è solo grazie a tale rapporto che l’uomo non è privo di mondo3, essendo, al contrario, definibile unicamente a partire dal mondo, quale radice ultima di ogni Lichtung: radura per l’autenticità o inautenticità dell’abitare umano che è il supremo ethos, come nella Lettera sull’umanismo si afferma con forza4. Essi rimandano l’uno all’altro nella Zusammengehörigkeit del pensiero, il luogo in cui si raccoglie la manifestatività dell’essere, la Lichtung-radura a cui Heidegger fa continuamente cenno attraverso un dire e un pensare che pretendono di essere non più filosofia – perché non sono più metafisica – ma “semplice” ascolto dell’essere5. Coappartenenza che non prevede mediazioni logiche ma salti e svolte.
M. Heidegger, Il principio di ragione, cit., Lezione dodicesima, pp. 159-160. Cfr., sul concetto di uomo come formatore di mondo G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 52-65; «Apertura senza svelamento definisce la povertà di mondo dell’animale rispetto alla formazione di mondo che caratterizza l’uomo», ivi, p. 58. 4 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 90. 5 «Il pensiero a venire non è più filosofia perché pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa […] il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo». M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 103-104. 2 3
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Il pensiero della Kehre: dalla svolta capovolgente di Essere e Tempo all’oltrepassamento della metafisica Abbiamo concluso il precedente capitolo con una citazione tratta da Tempo ed essere. Essa diceva che «non si dà qui nessun fare o produrre. Si dà solo il dare nel senso che abbiamo detto, ossia nel senso dell’offrirsi che dirada lo spazio-di-tempo»6. Sappiamo che il fare e il produrre qui menzionati dal filosofo sono quei caratteri della metafisica di cui egli tenta di portare a compimento l’oltrepassamento in direzione della possibilità di un pensiero che svolti e si insedi nell’ “altro inizio” del pensiero. Il termine svolta compare esplicitamente nelle lezioni del semestre estivo del 1928, Principi metafisici della logica7, per indicare un rivolgimento del pensiero tentato in Essere e Tempo. L’opus del ’27 si interrompe proprio nel momento in cui termina la fase preparatoria dell’elaborazione della domanda sul senso dell’essere, quella fase cioè che si è concentrata sulla costituzione trascendente dell’esserci e sulla temporalità quale sua struttura originaria. Il progetto di una ontologia fondamentale a partire dall’esserci fa progressivamente posto ad una meditazione sull’essere interpretato nel suo tratto inaugurante ed eventuale. E rispetto alla sezione non pubblicata di Essere e Tempo il filosofo afferma nella Lettera sull’umanismo che «tutto si capovolge. La seconda sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica»8. Ma perché e per chi il linguaggio viene meno? Sappiamo da Essere e Tempo che l’esserci è il luogo da cui si dipartono le domande e in cui dovrebbero trovarsi le M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 22. «Questo insieme di fondazione ed elaborazione dell’ontologia è l’ontologia fondamentale; essa è 1. analitica dell’esserci e 2. analitica della temporalità dell’essere. Ma questa analitica temporale è nel contempo la svolta, in cui l’ontologia stessa rifluisce espressamente nell’ontica metafisica, nella quale si trova già sempre in maniera tacita». Idem, Principi metafisici della logica, il Melangolo, Genova 1990, pp. 188-189. 8 Idem, Lettera sull’umanismo, cit., p. 52. 6 7
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possibili risposte, se è vero – come è vero – l’assunto di fondo dell’ermeneutica secondo cui se si raggiunge l’orizzonte da cui sorge la domanda si è con ciò stesso raggiunto l’orizzonte delle possibili risposte9. Sarà allora nell’esserci che bisogna scavare al 9 Questa è la posizione dell’ermeneutica gadameriana. Gadamer all’interno del contesto dell’analisi della coscienza della determinazione storica – quella coscienza cioè che ha riconosciuto il suo esser-determinata dalla Wirkungsgeschichte, dalla storia degli effetti rinunciando all’autotrasparenza logica (cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., pp. 621-635) – asserisce il primato della domanda. Il domandare è infatti più difficile del rispondere dal momento che il porre domande è il punto di partenza delle possibilità, in cui vanno collocate prospetticamente le risposte. «L’essenza della domanda è il porre e mantenere aperte delle possibilità»; ivi, p. 619. La domanda inoltre mette in atto una sorta di epochè dei pregiudizi che per Gadamer non hanno nulla di negativo, anzi aprono la comprensione essendone la condizione (cfr., ivi, pp. 603-621). Per quanto riguarda la coscienza della determinazione storica non possiamo non rievocare un’analogia con un pensatore che sulla storia e sulla storicità del soggetto ha molto riflettuto: Dilthey. In Verità e metodo Gadamer dedica ampie pagine all’analisi della gnoseologia storica di Dilthey con le relative aporie dello storicismo (ivi, pp. 455-503) . Non è possibile affrontare nei limiti di una nota un approfondimento della concezione storica di Dilthey né un confronto con la relativa interpretazione gadameriana. Basti dire che Gadamer riprende l’impostazione diltheyana del carattere storico della conoscenza storiografica e l’appartenenza alla storia come condizione di possibilità della storiografia, con la volontà, al contempo, di spogliare la dottrina diltheyana di ogni residuo metodologistico. La dottrina gadameriana sulla extrametodicità di certe esperienze della verità, come l’esperienza estetica, è indicativa riguardo alla sua volontà – volontà che lo accomuna allo Heidegger de L’origine dell’opera d’arte – di superare la visione otto-novecentesca di metodo. Ovviamente l’ispirarsi ad un criterio di validità non diviene mai in Dilthey una estromissione della contingenza storica. Tale aspetto è stato messo in chiaro da G. Cacciatore in altro contesto teorico nel saggio Scienze dello spirito e mondo storico nel confronto Dilthey Rickert. L’impianto gnoseologico in Dilthey ha una natura tutta particolare, infatti, del trascendentalismo neocriticistico non c’è nemmeno l’ombra. «Io – scrive Dilthey – non parto da un oggetto, da una realtà effettuale storico-umana e da un rapporto del conoscere con tale oggetto . Queste sono astrazioni concettuali necessarie al loro posto […] quello che consta di fatto, che è dato come base fattuale di ogni teoria, sono produzioni spirituali nate allo scopo di conoscere l’uomo o la storia o la società o le relazioni reciproche di questi momenti. Ogni teoria è condizionata dal rapporto di un soggetto conoscente e del suo orizzonte storico con un certo gruppo di fatti il quale è parimenti condizionato nell’estensione da un certo orizzonte. Per ogni teoria l’oggetto esiste solo entro una certa prospettiva. Dunque essa è un determinato modo relativo di vedere e conoscere il proprio oggetto»; W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello Spirito, tr. it. di De Toni, Firenze 1974, pp. 412-413. Da questo passo emerge chiaramente che «una deduzione del dato reale
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fine di trovare la chiave di volta dell’interruzione che la svolta produce. Il darsi e l’offrirsi di cui si parla nel passo appena citato di Tempo e Essere che diradano lo spazio-di-tempo si relazionano ad un capovolgimento: il capovolgimento che sposta il punto di partenza della questione dell’essere dall’esserci all’essere stesso, dal tempo allo spazio, dalla luminosità dell’ente al chiaroscuro della sua condizione di possibilità. Si tratta insomma di quella svolta che nel pensiero di Heidegger si rivela come il Denkweg che da Essere e tempo porta a Tempo e essere. Questo capovolgimento non indica però una rottura con i presupposti della prima fondamentale opera del ’27, perché appartiene al cammino stesso la necessità di stazionare in luoghi differenti. Il filosofo dice di non aver lasciato una posizione per sostituirla con un’altra «perché anche quella era solo stazione di un cammino. Quel che rimane costante nel pensare è il cammino. E i sentieri del pensiero nascondono in sé un aspetto misterioso: noi li possiamo percorrere in un senso o nell’altro; anzi proprio solo il percorrerli a ritroso consente di avanzare»10. Quel che rimane costante nelle tappe di questo cammino, è la questione dell’essere, la Seinsfrage, la comprensione della quale rende possibile la comprensione del senso della Kehre. Ed è proprio il cammino che consente al pensiero di “abitare”11 che muova esclusivamente dall’analisi del soggetto trascendentale e che si affidi alla sola formalizzazione concettuale del giudizio è per, Dilthey, impossibile», G. Cacciatore, Scienze dello spirito e mondo storico nel confronto Dilthey Rickert, in Id., Storicismo problematico e metodo critico, cit., p. 241. La gnoseologia infatti non è mai qualcosa di definitivo in Dilthey, non ha le pretese di una kantiana critica della ragione pura, bensì si configura come una critica della ragione storica. 10 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, ed. Mursia, Milano 1973, p. 91. 11 «Là dove la parola abitare parla ancora in modo originario, essa dice anche fin dove arriva l’essenza dell’abitare. Bauen (costruire), baun, bhu, beo sono infatti la stessa parola che il nostro bin (sono) nelle sue varie forme: ich bin (io sono), du bist (tu sei), la forma imperativa bis, sii. Che significa allora ich bin, io sono? L’antica parola bauen, a cui si ricollega il «bin», risponde: «ich bin», «du bist» vuol dire: io abito, tu abiti. Il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Baum, l’abitare. Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare», M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 97.
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nelle vicinanze dell’essere e di stare in ascolto di quei cenni con cui l’essere “si dà” (Es gibt). La Kehre non dice, dunque, un capovolgimento del pensiero, non enuncia un superamento postmetafisico della metafisica. Al contrario con questo termine è affermato uno “stato di cose” in cui in questione è il rapporto tra l’esserci e l’essere, ossia la cosa stessa del pensiero. Il pensiero si muove in sentieri che percorre a ritroso, attraverso un retrocedere che è passo indietro, salto che dall’illuminato – l’ente – deve risalire all’illuminarsi dell’apertura – l’essere – in cui l’illuminato può apparire. Esso è il tentativo di risalire alla sorgente nascosta di tutte le possibilità concesse all’ente nel suo manifestarsi. Si tratta di un pensiero che guarda alla Lichtung quale campo trascendentale di ogni comprensione e di ogni manifestazione dell’ente. Tale pensiero può procedere a ritroso avanzando in questo cammino solo perché, considerando l’ente come ciò che sta dinanzi, lo raccoglie nel suo essere. L’essere è ciò che permette questo raccoglimento, che consente che qualcosa appaia, che s’illumini in questo raccoglimento. Solo il semplice donare dell’essere dà la cosa stessa del pensiero. Il senso della Kehre di Heidegger è proprio il movimento che retrocede dall’esser manifesto dell’essente in direzione della manifestatività come tale, che, a sua volta, resta celata nell’esser manifesto proprio dell’essente. Ma cosa vuol dire propriamente Kehre? Kehre indica un tornante di una strada di montagna, un cambiamento di direzione che però conduce a una medesima meta. Il viandante, che cammina su questa strada, deve svoltare perché è la strada stessa che svolta. Il viandante non è l’uomo qualunque ma l’esserci, l’ente che si decide a porre la domanda metafisica per eccellenza svegliandosi dal torpore del Man, come si evince dalle analisi della quotidianità di Essere e Tempo, dove l’essenziale «decisione significa lasciarsi risvegliare dalla perdizione nel Si»12. Possiamo dire con sicurezza che il punto di vista di Essere e Tempo è fondamentalmente quel punto di vista che riconduce la 12
M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 356.
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questione dell’essere alla temporalità estatica dell’esserci, e se da un lato l’impostazione di Essere e tempo, come è noto, guarda costantemente al tema dell’essere, dall’altro, guarda a questo tema a partire dalla Daseinsanalyse. È proprio il ricondurre tale tema alle strutture temporali proprie dell’esserci che determina lo scacco di Essere e Tempo. Non è possibile, allora, ipotizzare che la riconduzione della questione dell’essere all’esserci e alla sua temporalità sia all’origine di quell’enigmatico dire heideggeriano, che ha tanto l’aspetto di un non-dire, tipico degli anni successivi a Essere e Tempo? Come è emerso nel secondo capitolo, la struttura “anticipante” che è all’opera nel nostro relazionarci comprendente e interpretativo – insomma, ermeneutico – al mondo produce inevitabilmente oggettivazioni, soggettivazioni, rappresentazioni, ossia elementi che continuano a dirci l’impossibilità di una via di uscita dalla metafisica. La questione teorica che si apre è pertanto la seguente: se siamo esseri temporali che si orientano in maniera preveggente, e se l’anticipatività è la matrice nascosta del rappresentare, non sarà allora anche la matrice della metafisica che sul rappresentare si fonda? Insomma l’esserci di Essere e Tempo non esemplifica il soggetto tipico del pensare metafisico? L’esito temporale della ricerca, allora, si rivela come l’origine di quell’incompiutezza dell’opera che però non assume mai l’aspetto di un “sentiero interrotto”. La strada della ricerca per il filosofo non cozza contro un muro inaggirabile. È possibile stare al mondo in modo non metafisico, ossia in modo non tecnico e manipolativo; è possibile per l’uomo esperire la sua essenza, ossia la sua esistenza13. Secondo quanto sappiamo dalla grande lezione di Essere e Tempo, l’esistenza è l’estatico stare aperti nella radura dell’aperto. Apertura, questa, che le ben note metafore pastorali 13 «L’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi sempre siamo […] l’essenza di questo ente, se mai si possa parlare di essa, deve essere intesa a partire dal suo essere (existentia) »; M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 9, p. 60.
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della Lettera sull’umanismo specificheranno come custodia della differenza ontologica tra essere e ente14. Custodire l’essere e corrispondervi: questo è il compito dell’uomo per potere uscire dalla metafisica. Custodia e corresponsione che avvengono nella condizione aperta della Lichtung. La Lichtung è quella dimensione umana che ha l’aspetto di un drammatico creare spazi, per dirla con Sloterdijk, spazi che rendono possibile che «qualcosa di preumano si apra verso l’uomo, che qualcosa di premondano divenga formatore di mondo»15. La via d’uscita dalla metafisica e dal suo rappresentare manipolativo sarebbe allora lo spazio. Spazializzazione e creazione di spazi che aprono non solo alla direzione di un superamento – dalla prospettiva heideggeriana – della metafisica, ma anche verso esiti non teoretici del pensiero, bensì artistici e poetici. L’alternativa teorica al baratro del nichilismo, lo abbiamo visto in conclusione del secondo capitolo, è l’arte, che nella fase matura della speculazione heideggeriana assurge a vero e proprio luogo di apertura della verità. L’affidare all’arte il compito di manifestazione dell’essere è all’origine anche di quel nuovo modo di rapportarsi al concetto di cosa, che in Essere e tempo è definita come utilizzabile, ma che man mano assurge a rango di esserci. Lo spettro di significati del termine esserci è, almeno, in Essere e Tempo innanzitutto ristretto all’uomo, come si evince dal § 9. L’uomo, in quanto Sorge-cura, ha sempre a che fare con enti da lui difformi, gli utilizzabili. Ricordiamo al riguardo che l’utilizzabile intramondano ha uno statuto altro dall’esserci: «l’ente che è nel mondo sono le cose, le cose naturali e le cose fornite di valore»16. «L’uomo è il pastore dell’essere […] l’uomo, nella sua essenza secondo la storia dell’essere, è quell’ente il cui essere, in quanto esistenza, consiste nell’abitare nella vicinanza dell’essere. L’uomo e è il vicino dell’essere»; Idem, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 73-74. 15 P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, Bompiani, Milano 2004, p. 126. 16 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 14, p. 85. 14
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Ente che è nel mondo indica l’intramondanità dell’ente semplicemente-presente, appunto della cosa che è fintantoché serve a. Tale servire a è l’utilizzabilità che presuppone l’essere alla mano. La Zuhandenheit presuppone la Vorhandenheit. Ma è solo perché l’esserci umano è un ente che si prende cura (cura delle cose del mondo ambiente secondo la visione ambientalmente preveggente) che è possibile ridurre l’ente-cosa a ente utilizzabile semplicemente presente. La dimensione “aletico-aperturale” della cosa è inaugurata allorché lo statuto cinetico e aprente dell’esserci ek-statico è allargato oltre i confini dell’uomo. L’estaticità dell’uomo è infatti quel tratto di motilità che chiude ogni possibile concezione sostanzialistica dell’uomo, sostanzialità che inerisce essenzialmente alla cosa in quanto semplice presenza. Infatti, per quel che concerne l’esserci «la motilità insita in lui non si conclude in uno stare per il fatto che l’esserci alla fine c’è»17. In seguito – e il riferimento non può non essere a L’origine dell’opera d’arte come illustreremo nelle pagine seguenti – l’estensione del concetto di Da-sein all’ente difforme dall’uomo, produce di fatto la soppressione della non conformità della cosa all’uomo. L’alterità dell’ente intramondano rispetto all’esserci non è da ricondurre alla semplice presenza, ma alla differenza intrinseca all’unica identità possibile, quella che sussiste tra esserci e essere. Cosa e uomo sono luoghi di manifestazione in quanto costituiscono quel Da del Sein, ossia quel Da-sein-Lichtung che dischiude la differenza originaria che è l’identità di essere e pensiero. Si tratta insomma di quel tenersi in rapporto unificante che avviene prima di ogni possibile e tautologica identità del tipo A = A. Nelle due conferenze del 1957, Identità e differenza e La struttura ontoteologica della metafisica, il filosofo tedesco fa continuamente cenno ad uno Stesso a cui apparterrebbero sia 17
Ivi, § 68 c, p. 412.
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l’essere che il pensiero che pensa l’essere. Interessante è notare la relazione tra un’identità che è differenza e coappartenenza, e la Lichtung come dimensione unificante di ogni differ-ente. Inoltre, la Lichtung come orizzonte di legame dei diversi mette in luce anche la priorità da Heidegger accordata al legame, ossia alla struttura di coapparternenza, rispetto ai termini tra i quali esso si instaura: l’essere e il pensiero del frammento parmenideo su cui si sofferma in molti testi – ricordiamo solo per citarne qualcuno Lettera sull’umanismo o Identità e differenza – ma lo stesso rapporto intenzionale tra intentio e intentum, su cui si sofferma in Prolegomeni alla storia del concetto di tempo. Per comprendere il movimento di “anabasi” e “catabasi” nella metafisica compiuto da Heidegger in direzione di un suo superamento e approfondimento attraverso la nozione di Lichtung è opportuno soffermarsi sulla concezione heideggeriana dell’identità che permea da cima a fondo la riflessione sull’apparire che è la Lichtung. Per Heidegger, la formula classica del principio di identità che dice A = A, ossia che pone l’uguaglianza di un elemento con se stesso, paradossalmente «occulta proprio ciò che il principio dovrebbe dire»18. Quel che cela dovendo invece svelare è la valenza ontologica dell’identità. Ontologicità, questa, che non fa dell’identità una proprietà dell’essere, alla stregua, del pensare metafisico, ma fa dell’essere un tratto di identità. Infatti, il filosofo afferma che «l’unità dell’identità costituisce un tratto fondamentale dell’essere dell’ente»19. L’identità è essenzialmente «una proprietà dell’evento-appropriazione»20, evento che dischiude l’ambito «risonante grazie al quale l’uomo e l’essere si porgono e raggiungono l’un l’altro nella loro essenza»21. L’identità, insomma, è per Heidegger non una proprietà dell’essere o dell’ente, ma ciò a cui essi appartengono: Idem, Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009, p. 28. Ivi, p. 31. 20 Ivi, p. 48. 21 Ivi, p. 46. 18 19
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«l’identità manifesta l’essere, chiamandolo nella presenza entro lo spazio che dispiega»22. La valenza originaria dell’identità consiste, allora, nell’apertura di un siffatto ambito, ove la figura originaria dell’identico non esprime assoluta opposizione al diverso e corrispondenza della determinazione a se medesima. Nell’identità parla la Zusammengehorigkeit di essere e pensiero in quello stesso che appare nel detto parmenideo23. Secondo Heidegger «in Parmenide τό α̉υτό, l’identico, parla in un senso quasi eccessivo. Una delle tesi di Parmenide dice: τό γαρ α̉υτό νοείν ̉εστίν τε καί ε̉ίναι. Lo stesso infatti è sia percepire (pensiero) che essere. Qui qualcosa di differente, pensiero ed essere è pensato come lo stesso»24. Dal detto parmenideo emergono due fondamentali aspetti: 1) l’identità, al di là della sua formulazione logica, appare agli albori della filosofia quale principio che governa il pensiero, come νόμος del λόγος; 2) l’identità non è mera tautologia ma mediazione, e precisamente mediazione tra quei differenti che l’essere e il pensiero sono. La stessità di νοείν e ε̉ίναι dice il loro reciproco appartenersi e l’impossibilità di risoluzione dell’uno nell’altro. Coappartenenza che è luogo di manifestazione dei diversi – essere e pensiero/ intentio e intentum – irriducibili tra loro ma pur sempre coinvolti l’uno nell’altro in quell’unità sintetica che è la loro matrice genetica. Coappartenenza, questa, che è il Da del rapporto tra Sein e Da-sein, la Lichtung appunto. La breve digressione sull’identità ha messo in luce sia il nesso logos/pensiero-identità-essere nell’orizzonte della Lichtung, sia l’importanza che il concetto di differenza assume in relazione non solo all’unità sintetica dell’identità ma anche in relazione M. Zanatta, op. cit., p. 44. Il frammento parmenideo è il Diels III su cui Heidegger ritorna ossessivamente. 24 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 32. 22 23
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alla spazialità propria della Lichtung. Si chiede il filosofo tedesco in La struttura ontoteologica della metafisica da dove tragga origine il frammezzo, il fra, l’e in cui la differenza deve essere inserita25. Per un pensatore che sulla differenza ontologica tra essere ed ente si è molto espresso, ritornare sul concetto vuol dire esprimersi sul nucleo germinativo della metafisica stessa. Come abbiamo visto nel primo capitolo, la metafisica è stata definita epoca dell’auto-occultarsi dell’essere, con il connesso oblio dell’occultamento. Ma se tale dimenticanza si fonda sulla riduzione dell’essere all’essere dell’ente – con la disattenzione per l’essere stesso – allora la metafisica sarà oblio della differenza. Lo sguardo heideggeriano sulla metafisica vede che il riguardo del pensiero verso l’ente ha voltato le spalle all’essere. Ma ancor di più ha voltato le spalle allo e fra essere e ente. Quello stesso e tra essere e tempo che dice la loro coappartenenza nel reciproco differire l’uno dall’altro e il loro sorgere da un darsi che mentre illumina si nasconde, nascondendo l’orizzonte trascendentale su cui si stagliano i differ-enti, l’evento di cui si parla in Tempo e Essere26. «La distinzione come differenza significa che sussiste una divergenza tra essere ed ente»27. Divergenza che indica un doppio movimento circolare che vede essere e ente sia divergere, cioè differenziarsi nel senso di discostarsi, sia volgersi l’uno all’altro: «la divergenza è un movimento circolare, ovvero il ruotare l’uno intorno all’altro di essere e ente»28. Secondo Heidegger, è solo tale differenza che origina quel frammezzo in cui domina la radura dell’aperto, la Lichtung appunto, che consente l’avvento svelante e celante. «Da dove prende origine il fra, il frammezzo entro cui la differenza dev’essere per così dire inserita?», M. Heidegger, La struttura ontoteologica della metafisica, in Id., Identità e differenza, cit., p. 82. 26 Idem, Tempo e Essere, cit., p. 25. 27 Idem , Nietzsche, cit., p. 705. 28 Idem, La struttura ontoteologica della metafisica, in Id., Identità e differenza, cit., p. 92. 25
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Heidegger è inequivocabile su questo punto: «è solo tale differenza che anzitutto assegna e tiene distinto il frammezzo in cui tramandamento e avvento sono mantenuti l’uno di fronte all’altro, cioè portati a divergere l’uno dall’altro e a volgersi l’uno all’altro. In quanto differenza di tramandamento e avvento, la differenza di essere e ente è la svelante-celante-salvante-di-vergenza. Nella divergenza domina la radura di ciò che, nascondendo, si chiude»29. Evidente è allora il profondo legame sussistente tra radura – come luogo per la coappartenenza dei differenti – il frammezzo – come legame – e lo spazio come concetto indispensabile per pensare l’Ort originario. Quel luogo primordiale che è «la località della verità dell’essere»30, quello che consente il Bezug, il rapporto tra essere, ente e uomo in un orizzonte, quale quello della Lichtung, che dice anche la collocazione intramondana dell’esserci. Ovviamente si tratta di una intramondanità trascendente, dal momento che l’esserci umano non è chiuso nel mondo alla stregua della betulla o dell’ape. Quel che resta di esse è la gabbia ontologica di un ambiente dal quale non è possibile alcun esodo ed estaticità31. Tale intramondanità non riduce a semplice presenza ma illumina la costitutiva apertura dell’esserci come Lichtung-da dell’essere. Avendo posto in chiaro i concetti heideggeriani di identità – coappartenenza – e differenza – sfondo su cui i differ-enti possono coappartenersi divergendo e volgendosi l’uno all’altro – come facce di una stessa medaglia, la Lichtung appunto, possiamo adesso accostarci al concetto di spazio che già in Essere e Tempo vige come nucleo cooriginario – seppur subordinato – alla stessa temporalità. Non è azzardata e priva di fondamento un’ipotesi di questo tipo, in particolare tenendo conto di certi luoghi heideggeriani sull’essere-nel-modo che Ivi, pp. 84-85. Idem, Che cos’è metafisica, cit., pp. 100-101. 31 Il riferimento alle api e alla betulla ricalca gli stessi esempi heideggeriani di Oltrepassamento della metafisica, in Id., Saggi e Discorsi, cit., p. 64. Cfr. P. Sloterdijk, op.cit., pp. 122-132. Sul tema. 29 30
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consentono di comprendere il fondamento della costituzione anticipante e temporale della ragione che ha generato la metafisica.
Spazio, mondo e Lichtung Sappiamo dall’analitica esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento dell’in-essere, insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio omogeneo naturale32. Ma soprattutto dall’analitica sappiamo che la spazialità è possibile solo sul fondamento della temporalità. Nel noto § 70, sulla cui problematicità si soffermerà in chiusura della conferenza Tempo e Essere, il filosofo afferma che se «la temporalità è il senso dell’essere della cura […] allora anche la spazialità specifica dell’esserci deve fondarsi nella temporalità […] l’esserci occupa spazio nel senso letterale che se lo prende. Esso non è mai semplicemente-presente in quella porzione di spazio occupato dal suo corpo. Esistendo esso si è già sempre dato un lasco spaziale»33. Insomma, lo spazio sembra emergere in netta subordinazione al tempo, alla temporalità estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e Tempo:«il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più sostenibile»34. E questo perché lo spazio non può essere dedotto dal tempo. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925 Heidegger afferma nel contesto della disamina di “ciò che è vivo e ciò che è morto” del pensiero diltheyano che «lo spazio del mondo ambiente non è quello della della geometria. Esso è essenzialmente determinato dai momenti usuali della vicinanza e della lontananza […] non ha dunque la struttura omogenea dello spazio geometrico», Idem, Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo, cit., pp. 34-35. 33 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 70, pp. 434-435. 34 Idem, Tempo e essere, cit., p. 30. 32
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Spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi, cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi storicamente, al suo essenziarsi aletico35. Tale evento è quel darsi in cui si danno essere e tempo. Essi non sono enti o cose ma nominano un rapporto. Noi «non possiamo spacciare l’essere e il tempo per cose […] se con cosa si intende qualcosa di essente […] essere e tempo, tempo e essere, nominano il rapporto che tiene unite le due cose»36. È il legame a partire da cui soltanto possono darsi e offrirsi essere e tempo ciò che costituisce l’autentica Sache del pensiero. Noti sono i travagliati tentativi heideggeriani di additare e “ostendere” tramite un linguaggio non intriso di metafisica tale cosa che enuncia il rapporto di tempo e essere. E meditare su tale rapporto è proprio il compito di quel pensiero che voglia perseverare nella propria cosa. Secondo Heidegger, questo meditare si configura come un «mostrare in che modo si può esperire e scorgere questo es gibt»37 che si cela nel rapporto. Ma sappiamo che il compito del pensiero che pensa questo darsi che tiene in rapporto è il pensiero che guarda alla radura. In chiusura di La fine della filosofia e il compito del pensiero, il filosofo tedesco si pone i seguenti interrogativi: «il titolo che esprime il compito del pensiero non sarà più allora Essere e Tempo ma Radura e Presenza? Ma da dove e come si dà la radura? Che cosa parla in questo si dà? – e conclude – il compito del pensiero sarebbe allora l’abbandono del pensiero che si è avuto finora per dedicarsi alla determinazione della cosa del pensiero»38. Evidente è allora che il concetto di spazio come lasciare e concedere spazio, mondo e soggiorno è strettamente connesso a quel concetto di Lichtung-radura che dirada il luogo di ogni Ivi, pp. 26-27. Ivi, p. 7. 37 Ibidem. 38 Idem, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo e Essere, cit., p. 94. 35 36
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manifestatività e presenza, ma anche il luogo di ogni assenza e oscurità, «l’aperto per tutto ciò che è presente o assente»39. Eppure, già nel contesto teorico di Essere e Tempo è possibile ravvisare una certa cooriginarietà dello spazio al tempo. Potremmo addirittura dire che lo spazio si rivela come la matrice nascosta della nostra anticipante costituzione temporale e questo per evidenti motivi di ordine ermeneutico: il nostro stesso essere situati nel mondo nel modo di un prendersi cura comprendente e interpretante è all’origine di quell’intenzionalità che nell’uomo assume la forma di una relazione temporale con il mondo – dove è l’anticipatività del nostro essere proiettati verso il futuro a costrituire l’estaticità dei tre momenti temporali – e negli altri tipi di esserci (le opere d’arte) si configura come spaziale e aperturale. I luoghi heideggeriani a cui in precedenza abbiamo fatto riferimento sono rintracciabili non solo nella riflessione matura del filosofo ma già nell’opera del ’27 in quella sezione dedicata all’analitica dell’in-essere e dell’essere nel mondo. In apertura del §12 di Essere e Tempo, tirando le somme di quanto acquisito circa la determinazione d’essere dell’esserci, il filosofo asserisce che il fondamento della costituzione d’essere dell’esserci è l’essere-nel-mondo a partire dall’in-essere. Come dobbiamo interpretare l’in-essere, Heidegger lo indica poco dopo quando afferma che «l’in-essere non significa dunque la presenza spaziale di una cosa dentro l’altra, poiché l’in, originariamente non significa affatto un riferimento spaziale del genere suddetto»40. Infatti, considerare l’in-essere nel modo della semplice-presenza significa privare l’esserci della sua essenza: l’estaticità che è una determinazione di senso contrario rispetto alla sussistenza. In-essere indica piuttosto un abitare (da innan, abitare), un soggiornare presso il mondo all’interno del quale soltanto è possibile incontrare gli enti. Inoltre, il rapporto tra esserci e 39 40
Ivi, p. 85. Idem, Essere e Tempo, cit., § 12, p. 74.
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mondo, avverte Heidegger, non è da intendersi in termini di soggetto e oggetto: «soggetto e oggetto non coincidono con esserci e mondo»41 ma tale distinzione si staglia su uno sfondo che già presuppone il mondo e l’esser-presso dell’esserci. Per il filosofo tedesco, infatti, «il conoscere stesso si fonda preliminarmente in quell’esser-già-presso-il-mondo che come tale costituisce per essenza l’essere dell’esserci»42. Questo indica la funzione ontologicamente preliminare del mondo, originaria rispetto a qualsiasi oggettività e soggettività. L’accostamento mondo-oggetto-soggetto43 è nell’universo linguistico e concettuale heideggeriano altamente problematico dal momento che una considerazione oggettiva del mondo dice ben più di un’asserzione univoca su qualcosa. Oggettività indica già la pretesa teoretica del soggetto di dire su qualcosa a partire dalla impostazione della verità gnoseologico/metafisica, come emergerà dai passi di Sull’essenza della verità che prenderemo in considerazione nei prossimi paragrafi. Ma quello che più ci interessa – e veniamo così al nocciolo della questione spaziomondo-Lichtung – è il concetto di mondità o essenza del mondo che ha l’aspetto di appagatività e significatività delle cosemezzo: gli utilizzabili. Il mondo appare come orizzonte di significatività in cui possono apparire le cose come πράγματα, termine, questo, che indica «ciò con cui si ha a che fare nel commercio prendente cura» e «noi chiamiamo l’ente che viene incontro nel prendersi cura: il mezzo (per)»44. La cosa mezzo, la cui struttura è il rimando a e l’esser segno per45, sta in un preciso rapporto con il mondo, quale sua condizione di possibilità. Heidegger è chiaro a riguardo: l’utilizzabile intramondano sta «in qualche rapporto con il mondo e la mondità. Il Ivi, § 13, p. 81. Ivi, p. 83. 43 Cfr., su questo punto V. Vitiello, Heidegger: l’oggettività del mondo, in M. Ruggenini (a cura di), Heidegger e la metafisica, cit., pp. 277-294. 44 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 15, p. 91. 45 Ivi, § 17. 41 42
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mondo ci è già sempre in ogni utilizzabile. Il mondo è già scoperto preliminarmente anche se non tematicamente, in tutto ciò che in esso si incontra […] il mondo è ciò in base a cui l’utilizzabile è utilizzabile»46. Il mondo allora è il trascendentale – in quanto plesso di significati – delle cose-mezzo alle quali l’esserci umano già da sempre si rapporta nel suo commercio con l’ente intramondano, nella sua relazione pratica con le cose. Relazione che si rivela però non solo pratica ma anche comprendente. Heidegger afferma che nell’utilizzo del mezzo è già scoperta l’appagatività, ossia la «conformità al mondo propria dell’utilizzabile»47. Tale conformità dello strumento al mondo in termini di significatività è però aperta, nel senso che giunge in uno stato di scoprimento, grazie alla costituzione comprendente dell’esserci. Infatti, «la comprensione […] mantiene in uno stato di apertura preliminare»48 che consente anche di comprendere quel movimento di allontanamento e avvicinamento che è al centro della nozione di spazialità. Se l’esserci è un essere nel mondo che si prende cura delle cose, con cui ha un rapporto di familiarità, allora la spazialità propria dell’esserci non sarà «la sua presenza in un luogo dello spazio cosmico né il suo esser utilizzabile in qualche posto. L’uno e l’altro sono modi d’essere dell’ente intramondano»49. Questo significa che la spazialità dell’esserci si definisce in relazione ai rapporti che l’esserci intrattiene con il mondo circostante, rapporti che hanno i caratteri del disallontanamento e dell’orientamento direttivo. Disallontanare non significa nient’altro che avvicinare. La spazialità è proprio il disallontanamento, e «l’esserci […] è per essenza disallontanamento, cioè spaziale […] e al tempo stesso ha il carattere dell’orientamento direttivo»50. In Tempo e Essere, il filosofo sottolinea il ruolo svolto dalla Ivi, § 18, pp. 107-108. Ivi, p. 111. 48 Ivi, p. 112. 49 Ivi, § 23, p. 133. 50 Ivi, p. 137. 46 47
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spazialità che rende il nostro rapportarci al mondo un abitare. La topologia che conduce all’ecologia51 come via d’uscita alla struttura cronologica della metafisica spinge il filosofo tedesco all’individuazione di una quarta dimensione della temporalità – quarta dimensione che si rivela come la prima – che consente di pensare quello Zeit-Raum, quell’offrirsi che dirada, che fornisce la radura dell’aperto. Heidegger dice che l’autenticità propria dello spazio-di tempo «poggia, ovvero riposa, invece, sul diradarsi, dovuto al reciproco offrirsi, di futuro, essere stato e presente per arricchirsi a vicenda. Di conseguenza, ciò che noi chiamiamo in modo facilmente fraintendibile dimensione […] riposa su ciò che abbiamo descritto come l’offrirsi che dirada, per cui l’avvento fornisce l’essere stato, l’essere stato, fornisce l’avvento, e il riferimento reciproco fra i due fornisce la radura dell’aperto»52. La dimensione dell’aperto, come offrire diradante, è quella quarta dimensione basata sulla Nahheit53, sulla vicinanza che mentre avvicina allontana, mentre fa convergere rende divergenti. Si tratta di un avvicinare che mantiene e sostiene quella tensione tra i differenti che è anche la caratteristica propria della Lichtung, quale orizzonte di coestensione. Avvicinare che è un disallontanare, ossia un creare spazio, un prendersi spazio e crearlo nel contesto preliminare del mondo che, con la sua costellazione di significati, rimandi e segni offre la gamma di utilizzabili tra i quali l’esserci da sempre si muove. Il mondo insomma assume quell’aspetto aperturale e aletico caratteristico della Lichtung che consente all’esserci umano Cfr., E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, cit., p. 334. M. Heidegger, Tempo e Essere, cit., p. 20. 53 «Ma ciò che noi nominiamo come quarta dimensione, in base alla cosa stessa in questione è la prima, vale a dire l’offrire che tutto determina. Questo offrire fornisce rispettivamente nell’avvento, nell’essere stato e nel presente, di volta in volta l’essere presente che è proprio a ciascuno di essi, giacchè col suo diradare esso li tiene l’uno distinto dall’altro e quindi l’uno in quella vicinanza all’altro che fa rimanere le tre dimensioni l’una vicina all’altra. Per tale motivo chiamiamo questo primo, iniziale (nel senso letterale di incipiente) offrire, su cui riposa l’unità del tempo autentico: la vicinanza avvicinante», ivi, p. 21. 51 52
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di abitare e soggiornare in esso in maniera corrispondente all’evento, ossia in maniera storica, attraverso quel modo peculiare, l’arte, che in Heidegger assurge a contromovimento del nichilismo cioè della metafisica. Prima di passare alla relazione tra il concetto di Lichtung e quelli di verità e arte ricordiamo che l’analisi dell’in-essere condotta nei paragrafi 28-38, mette in luce non solo i concetti di mondità e significatività, ma anche quello di Befindlichkeit (situazione affettiva/emotiva). Tale concetto si rivela fondamentale, dal momento che consente il passaggio a quel concetto di essere-gettato così importante per la comprensione della relazione tra esserci e mondo. Vediamo perché. Riguardo alla situazione emotiva, il filosofo asserisce che «l’essere dell’esserci può rivelarsi improvvisamente come un “nudo che c’è da essere”»54. In quell’ambito – che in sede ontica è definito umore o tonalità emotiva – appare allora quel puro “che c’è”, che, manifestandosi, lascia celati il “donde” e il “dove”. Il “che c’è” è definito da Heidegger con l’espressione esser-gettato. In questa situazione emotiva di gettatezza l’esserci «si è già sempre trovato, non però sotto forma di autopercezione, bensì di autosentimento situazionale»55. La gettatezza dell’esserci si lega, inoltre, alla nozione di decisione anticipatrice56, quella decisione che “possibilizza tutte le possibilità”; e sappiamo che la morte è la possibilità più importante57. Nella decisione anticipatrice della morte «l’esserci si comprende quanto al suo poter essere, sì da porsi di fronte alla morte in modo tale da assumere integralmente, nel suo esser-gettato, l’ente che esso stesso è […]. L’esserci gettato è certamente abbandonato a se stesso e al suo poter essere, tuttavia come essere nel mondo»58. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 29, p. 167. Ivi, p. 168. 56 Ivi, § 62, p. 363 sgg. 57 Per una discussione critica delle implicazioni esistenziali delle nozioni dell’analitica dell’esistenza cfr., G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, cit., pp. 3-58. 58 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 74, p. 451. 54 55
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Da questo passo risultano evidenti due caratteristiche della situazione emotiva: 1) la gettatezza, ossia, quella condizione in cui l’esserci si coglie come pura possibilità, come puro poter essere; 2) l’essere-nel-mondo59. L’esserci è sì gettato, “abbandonato a se stesso e al suo poter essere”, ma si tratta pur sempre di una gettatezza intramondana. L’esserci che si trova in quella particolare situazione emotiva dell’angoscia – che apre l’autosentimento situazionale del puro “che c’è” – esperisce se stesso come Ab-grund, abisso, nonfondamento, puro poter essere, che tuttavia, in quanto conesserci e essere-nel-mondo, poggia sul mondo; mondo, questo, che si rivela alla fine come suo fondamento60. L’importanza che ha la situazione emotiva risiede nel fatto che essa mostra la coappartenenza di esserci e mondo in una relazione che non è primariamente né teoretica, né pratica, ma situazionale. È solo a partire dall’esser-situati che divengono possibili atti teoretici e pratici, operazioni e comportamenti. La situazione emotiva appare, allora, come un «esistenziale fondamentale della cooriginaria apertura del mondo, del con-esserci e dell’esistenza; e ciò perché l’esistenza è, per essenza, esserenel-mondo»61. Il fatto che l’esserci sia un essere-gettato-nelmondo spiega il motivo per cui Heidegger abbia identificato l’essere dell’esserci nella cura; cura che è custodia e guardia del luogo della manifestatività, che è Da del Sein: Lichtung-radura dell’essere.
Il terzo carattere della situazione emotiva individuato da Heidegger ha a che fare con la comprensione della mondità del mondo e con la visione ambientalmente preveggente, che consentono quell’affettività che per il filosofo tedesco «è un elemento esistenziale costitutivo dell’apertura dell’esserci al mondo»; ivi, p. 171. 60 Cfr., sul tema del fondamento in Essere e tempo E. Severino, Heidegger e la metafisica, cit., § 73. 61 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 170. 59
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La relazione essenziale di uomo e essere: la Lichtung «Affinché l’ente possa esser presente e, quindi, possa in generale darsi essere, manifestatività dell’essere, occorre lo star dentro dell’uomo nel ci, nello slargo, l’esser-levato-nello-slargo dell’essere, come quale l’uomo esiste. Dunque, non può affatto darsi essere dell’ente senza l’uomo»62. Così recita un passo dei Seminari di Zollikon, tenuti da Heidegger tra il 1959 e il 1969 davanti ad un pubblico di medici e psichiatri. In poche battute e con uno stile chiaro e diretto, viene riproposta la questione della Lichtung come orizzonte di coappartenenza di esserci e essere. Correlazione, questa, che nella prima fase di pensiero del filosofo è pensata a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale, nella seconda, invece, a partire dal legame stesso, da quel piano di cui con l’essere nella Lettera sull’umanismo si asserisce l’identità. È in questi termini che Heidegger prende le distanze dall’accezione che il concetto di progetto assume nella filosofia di Sartre: «se […] si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisement nous sommes sur un plan où il y a principalment l’étre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’etre et le plan sono lo stesso»63. Per Heidegger, come più volte abbiamo sottolineato, non è prioritaria la questione dell’uomo, bensì quella dell’essere, il cui illuminarsi e nascondersi avviene proprio nell’esserci. Il termine Da-Sein indica, sin da Essere e Tempo, la radura, il luogo in cui l’essere si dirada in quel modo particolare che nel momento stesso in cui offre sottrae, consentendo agli enti, al mondo e all’uomo, di essere così come sono. “L’esserci è la radura dell’essere”, Heidegger non lascia spazio a dubbi su questo punto: «la metafora ontica di un lumen naturale nell’uomo indica null’altro che la struttura ontologico-esistenziale di questo Idem, Seminari di Zollikon, a cura di E. Mazzarella e A. Giugliano, Guida, Napoli 1991, p. 254. 63 Idem, Lettera sull’umanismo, cit., p. 62. 62
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ente, ossia che esso è in modo da essere il proprio Ci. Che esso sia illuminato significa che è in se stesso aperto nella radura in modo che esso è la radura»64. La chiarezza si mantiene anche su un altro aspetto, altrettanto importante: l’esserci è la radura, ma non la produce, come possiamo leggere nella nota da lui apportata al passo appena citato65. La radura non è prodotta dall’esserci perché avviene prima di ogni esserci e di ogni ente, essa è il diradarsi illuminante a cui corrisponde l’apertura illuminata dell’esserci. Lichtung è infatti un termine che si riferisce sia all’essere che all’esserci e, in entrambi i casi, si allontana dal pensiero ontico della metafisica che, dimentico della differenza ontologica, si rivolge unicamente all’ente, non riuscendo a scorgere la Lichtung. Essa si sottrae allo sguardo della metafisica, ad uno sguardo che è oggettivante, rappresentativo e soggettocentrico, cadendo nell’oblio. Anzi, la metafisica si pone, proprio in quanto pensiero ontico, come pensiero che oblia l’essere/Lichtung come sorgente trascendentale e ontologica di ogni onticità. Secondo il filosofo tedesco, infatti, per “dissotterrare” la questione della Lichtung occorre che l’uomo si esperisca come esistenza estatica e cura66; solo così si prepara il terreno per un pensiero che non sia più metafisica – che si attiene all’ente – ma post-filosofico, postumanistico e post-metafisico. Ciò detto, prima di affrontare le connessioni teoriche del concetto di Lichtung con l’essere, il nulla, la verità e l’arte, ripercorriamo brevemente il significato etimologico del termine Lichtung.
Lucus a non lucendo Il significato della parola Lichtung è considerato poco chiaro dal momento che è polisemantico ed ha generato numerose Idem, Essere e Tempo, cit., p. 165. Ibidem. 66 Ivi, § 44 sgg. 64 65
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controversie etimologiche67. Se traduciamo il termine con luce o illuminazione, allora, possiamo metterlo in connessione sia con il francese clarière o l’inglese clearing. Del resto, lo stesso Heidegger ci dà qualche indicazione allorché, nel contesto della definizione del compito del pensiero, affronta il tema della Lichtung. Nel testo La fine della filosofia e il compito del pensiero egli afferma che il nuovo compito del pensiero esige un rivolgimento postmetafisico, uno svoltare dalla direzione della metafisica verso un pensiero che pensi e non conosca solamente. Possibilità, quella di svoltare, che nella filosofia e nel suo metodo rimane celata68. Ma cosa è questo compito del pensiero? Cosa è rimasto impensato nella storia della metafisica? L’impensato è la Lichtung, quel chiarore che consente ogni visione, apertura, presenza e assenza. Infatti, «solo grazie a questo chiarore ciò che appare può mostrarsi, cioè apparire»69 . La Lichtung-radura rende possibile quell’apparire e mostrare in quanto dirada. E tuttavia, più che connetterla alla luce (Licht), con cui pure sussiste un nesso oggettivo – come possiamo constatare con la parola francese clarière di cui Lichtung è il calco tedesco – Heidegger, tanto per semplificare una questione già in sé complicata, lega l’etimologia di Lichtung a lichten, diradare. «Diradare qualcosa significa: rendere qualcosa rado, cioè renderlo libero e aperto […] lo spazio libero e aperto che ne risulta è la Lichtung»70 . Insomma, Lichtung e luce non sono la stessa cosa, dal momento che la luce non crea la radura ma la presuppone. Lichtung si Cfr., L. Amoroso, Lichtung, leggere Heidegger, Rosenberg e Sellien, Torino 1993, pp. 58-65; e E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, pp. 13-22, Cfr. A. Di Somma, Saggio sulla Lichtungsgeschichte su M. Heidegger, pp. 33-67, in «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche», Napoli 2015. 68 «Arriveremo a capire in che senso, proprio laddove la filosofia ha ricondotto la sua cosa al sapere assoluto e all’evidenza in ultima istanza valida, si nasconde qualcosa da pensare, ma che pensarlo non può essere più cosa della filosofia» M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo e Essere, cit., p. 84. 69 Ibidem. 70 Ivi, p. 85. 67
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relaziona anche al termine latino lucus – e all’indoeuropeo loka – che indica il boschetto sacro. Il lessico forestale in entrambi i casi – Lichtung/lucus – ha un’evidente connessione morfologica con termini, quali lux e Licht, del campo semantico della luce. La questione dell’etimologia del termine lucus è stata oggetto di dispute71sin dall’antichità latina. Una delle interpretazioni possibili dell’espressione lucus a non lucendo, che è un esempio di etimologiae e contrariis o per antifrasi, è che il boschetto sacro deriverebbe la sua denominazione per opposizione a luce, dal momento che in esso c’è poca luce. Anche Heidegger utilizza l’espressione lucus a non lucendo, e significativamente proprio in relazione ad una questione che alla radura si relaziona essenzialmente, la questione dell’uomo e della possibilità di esperire un’umanità all’insegna della Lichtung. Si tratta, come nel caso della Lichtung, di un «umanismo per antifrasi»72, ossia di quell’umanesimo di strano tipo che a dire di Heidegger consiste nella comprensione del legame tra esistenza estatica dell’esserci e dimensione aletica e aperturale dell’essere. Il filosofo afferma che la stranezza del suo umanesimo è da ricondurre all’essenza stessa dell’uomo, ossia all’esistenza, «è questa ciò che importa in senso essenziale, cioè a partire dall’essere stesso, in quanto è l’essere che fa avvenire l’uomo come esistente nella verità dell’essere, a guardia di tale verità»73. E, così come l’umanesimo si definisce in relazione antifrastica alla “malessenza” dell’umanesimo metafisico, allo stesso modo l’ontologia fa capo a quel concetto di Lichtung/̉αλήθεια di cui la metafisica è l’erramento destinale.
Lichtung e verità. Dalla gnoseologia alla meditazione Un interessante contributo alla riflessione sulla verità è offerto da Heidegger nel corso marburghese del semestre Cfr., L. Amoroso, Lichtung, cit., pp. 58 sgg. Ivi, p. 62. 73 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 78. 71 72
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invernale del 1925/26 Logica. Il problema della verità. La temperie culturale è quella di Essere e Tempo e il discorso parte da quella disciplina che più di ogni altra è stata correlata alla questione della verità: la logica, la quale non «chiede del vero in un qualche suo senso, ma primariamente e propriamente della verità del vero, di quel che di volta in volta rende vero il vero»74 . La “scienza del logos” pone quesiti di capitale importanza che coinvolgono temi ontologici e gnoseologici che si sono strettamente intrecciati nella storia della metafisica. L’intento di Heidegger è mostrare, attraverso un ripercorrimento storiografico delle più significative posizioni logiche, il profondo legame tra logica e ontologia nell’orizzonte di coappartenza della Lichtung. Il che si traduce nella formulazione di quattro domande fondamentali che dispiegano la loro carica problematica all’interno del contesto teoretico della gnoseologia dell’adaequatio. Il filosofo si chiede: «che cos’è la verità? E che cosa ne consente la struttura e la costituzione? E quali possibilità e forme di verità ci sono? Dove poggia quel che noi chiamiamo propriamente verità?»75. La teoria adeguativa della verità come struttura formale del vero è poi articolata in cinque significati fondamentali: «1) la verità viene intesa in primo luogo come carattere delle enunciazioni […] 2) la verità, però, non è intesa soltanto come proprietà delle proposizioni e delle enunciazioni, ma anche le enunciazioni stesse si indicano come verità […] 3) in terzo luogo, verità ha lo stesso significato di riconoscere una verità […] 4) in quarto luogo, con l’espressione “la verità” intendiamo un fatto […] infine verità nel senso di “il vero”, e questo significa il vero nel senso del reale così come esso è»76 . Nel tentare di rispondere a queste domande fondamentali Idem, Logica. Il problema della verità, cit., p. 7. Ibidem. 76 Ivi, p. 8. Cfr sulla questione della verità in Heidegger, M. Zanatta, Identità, logos e verità. Saggio su Heidegger, Japadre editore, L’aquila-Roma 1990. 74 75
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Heidegger suddivide la logica in filosofante e scolastica77, allo scopo di chiarire la possibilità di passare da un approccio gnoseologistico alla verità ad un approccio aletico, ossia ontologico, celato nell’etimologia greca della parola. Ovviamente il passaggio è lo stesso che conduce dalla scienza alla meditazione: il salto. Il da-pensare «che con tutto il suo distogliersi, si è sempre rivolto all’essenza dell’uomo»78 e che si cela nel cuore della domanda sulla verità non può trovare degna rammemorazione in quel domandare logico metafisico che è la scienza. La scienza e la gnoseologia, infatti, essenzialmente non pensano, in quanto si fondano sulla massima: «tutto si può dimostrare, cioè derivare deduttivamente da premesse appropriate»79. Qui risiede il loro limite, esse non hanno la capacità, secondo il filosofo, di additare (weisen), cioè di «richiamare l’attenzione su qualcosa liberandolo così per il suo avvento»80, ma solo di dimostrare, precludendosi di divenire quell’indice e quel segno la cui essenza è il guardare al sottrarsi stesso81. Per quel che concerne i cinque significati ora menzionati di verità, possiamo con sicurezza rilevare la loro matrice comune: la conformità, che è all’origine di quell’oblio del significato primigenio di verità decaduto a correttezza e omologazione. Così come il vero, anche il dire, ad esso connesso, subisce, secondo Heidegger, una metamorfosi davvero catastrofica per il pensiero: il dire non è più un annunciare, ma un enunciare; così M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., § 3, p. 10. Idem, Saggi e discorsi, cit., p. 88. 79 Ivi, p. 89. 80 Ibidem. 81 In riferimento alla descrizione dell’essenza umana Heidegger parla di indice e segno, mettendo in luce come l’uomo sia già da sempre “in marcia verso” l’orizzonte della Lichtung: «l’uomo è anzitutto e fondamentalmente uomo in quanto è tratto nel movimento del sottrarsi, è in marcia verso questo e in tal modo è colui che indica il sottrarsi stesso. La sua essenza risiede nell’essere un tale indice. Ciò che in se stesso, nella sua costituzione più propria, è qualcosa che indica noi lo chiamiamo segno»; Ivi, p. 90. 77 78
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come il pensare non è meditazione ma rappresentazione; e la verità adeguazione e non Lichtung dell’essere. La questione del vero occupa anche un altro corso di lezioni, tenute dal filosofo tra il 1937 e il 1938 a Friburgo: Domande fondamentali della filosofia. Selezione di problemi della logica. Qui Heidegger afferma la necessità della posizione della domanda sulla verità, un’urgenza che parte paradossalmente dal luogo in cui della verità come problema non ne è più nulla: la logica. La logica come disciplina filosofica ha infatti ridotto la verità a criterio di conoscenza misconoscendo quella sua peculiare valenza ontologica che la rende “manifestazione” dell’ente. Secondo il filosofo, «la determinazione della verità, valida ancora oggi e diffusa ovunque sotto vari travestimenti, suona: la verità è la correttezza della rappresentazione dell’ente. Ogni rappresentazione dell’ente è un esprimersi intorno all’ente […] l’enunciazione, la semplice proposizione, il λόγος, ed è quindi nel λόγος che si incontra nel modo più immediato la correttezza della rappresentazione, la verità. La verità trova il suo luogo e la sua sede nel λόγος»82 . In questo passo compaiono due concetti, enunciazione e rappresentazione, che si intrecciano nell’ambito della verità come adeguazione. Essi sono quei “presupposti della logica”83, la cui chiarificazione deve essere condotta, al fine di guadagnare una via di accesso autentica all’essenza della verità. L’enunciazione si pone come proposizione della rappresentazione dell’ente: l’enunciazione dice l’ente così come esso è rappresentato. Ma non è tutto: anche la rappresentazione deve soddisfare il criterio di adeguazione per essere vera: «la verità è la correttezza della rappresentazione dell’ente»84 . Per concludere, possiamo dare per acquisito che l’adaequatio è, per Heidegger, il modo tradizionale di intendere la verità, quel modo, cioè, che fonda la concordanza del conoscere con Idem, Domande fondamentali della filosofia, Mursia, Milano 1990, pp. 17-18. Ivi, p. 15. 84 Ivi, p. 17. 82
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l’oggetto. Il problema fondamentale di Heidegger sarà proprio quello di ritrovare, a partire dall’analisi dell’adaequatio, un’essenza più originaria della verità, un’essenza che prende «il nome di esser-aperto»85 .
Esserci, apertura e verità Questo titolo riprende quello di un noto paragrafo di Essere e Tempo che riveste particolare importanza per la questione di cui ci stiamo occupando in questo capitolo, ossia la questione della coappartenenza essenziale di Da-Sein e Sein nell’orizzonte della Lichtung. Qui Heidegger affronta due tematiche, quella del concetto tradizionale di verità e del suo fondamento ontologico, e quella del fenomeno originario della verità e della provenienza del concetto tradizionale. L’assunto di base rilevabile in questo paragrafo è la tesi secondo cui, sin dall’antichità, verità ed essere sono state congiunte dalla filosofia. D’altra parte le due definizioni aristoteliche di filosofia come scienza della verità, ε̉πιστήμη τις τη̃̃ς α̉ληθείας86, e come scienza dell’ente in quanto ente, ε̉πιστήμη ή θεωρεί τό ό̉ν̉ η όν87, sono un a netta conseguenza di quel sentiero che la filosofia ha imboccato con Parmenide. «Fin dai tempi più lontani la filosofia ha congiunto verità ed essere. La prima scoperta dell’essere dell’ente, dovuta a Parmenide, identifica l’essere con l’apprensione intuitiva dell’essere: «τό γάρ αυτό νοειν εστίν τε καί είναι»88 . In questo passo Heidegger non dice solo che l’identità di essere e pensiero è stata posta con Parmenide, ma enuncia una cosa ben più importante: la trasformazione della questione della verità in affare di scuola. Solo perché il pensiero successivo a Parmenide ha misconosciuto il senso del suo “detto” è Ivi, p. 78. Aristotele, Metafisica, cit., A 993 b 20. 87 Ivi, Г 1, 1003 a 21. 88 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 44, P. 258. Il riferimento è al frammento parmenideo Diels 5. 85 86
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stata possibile una metamorfosi del νούς/λόγος in discorso e proposizione89. Secondo il filosofo tedesco essere e pensiero non sono scissi, ma da sempre si coappartengono, e spia di ciò è che «nessun cammino di pensiero, neanche del pensiero metafisico, parte dall’essenza umana per raggiungere l’essere, o, inversamente, dall’essere per ritornare all’uomo. Piuttosto ogni cammino del pensiero va già sempre entro l’intera relazione tra essenza umana ed essere, altrimenti non sarebbe pensiero»90 . Questo frammento costituisce quel terreno di confine da cui si dipartono idealmente due vie: 1) la metafisica come oblio dell’essere (e come oblio del suo occultamento); 2) la metafisica come rammemorazione dell’oblio. La genesi della metafisica ha, allora, un duplice carattere: da un lato, può bloccare il pensiero che da meditazione decade a scienza; dall’altro, può destare – pur sempre a partire da una situazione di oblio dell’essere – un pensiero che risalga alla matrice nascosta dell’oblio, in direzione di un suo superamento. Questo è il senso delle affermazioni della Lettera sull’umanismo a proposito dell’impensato ancora da pensare91 del detto parmenideo. Quell’impensato nell’εστί parmenideo è per Heidegger l’es gibt, il darsi, che tuttavia si ritira, dando avvio a quel passaggio della verità dal suo luogo natio – l’ontologia – alla logica. Heidegger individua tre tesi principali sulla verità: «1) il luogo della verità è l’asserzione (il giudizio). 2) l’essenza della verità consiste nell’adeguazione del giudizio al suo oggetto. 3) Aristotele, il padre della logica, ha considerato il 89 Cfr., U. Galimberti, Il tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, cit., pp. 108-113. 90 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., Vol. 1, p. 137. Cfr., sull’interpretazione heideggeriana del frammento parmenideo, E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, cit., p. 183. 91 Idem, Lettera sull’umanismo, cit., p. 62.
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giudizio come il luogo originario della verità e ha introdotto la definizione della verità come adeguazione»92 . La congiunzione di soggetto e predicato (il giudizio) diviene enunciazione vera nel momento in cui essa dice dell’ente in questione il suo esser così come esso è. Verità c’è finchè c’è omologazione dell’enunciato con la cosa che esso enuncia. Questo è il senso della teoria adeguativa della verità. Ma enunciare, in questo modo, indica anche mostrare e lasciar vedere l’ente nel suo esser scoperto. Heidegger, infatti, afferma: «che un’asserzione sia vera significa: essa scopre l’ente in se stesso, enuncia, mostra, lascia vedere (απόφανσις) l’ente nel suo esser-scoperto. Esservero (verità) dell’asserzione significa esser-scoprente […] l’esservero nel senso di esser-scoprente è ontologicamente possibile solo sul fondamento dell’essere nel mondo. Questo fenomeno, in cui ravvisiamo una costituzione fondamentale dell’esserci è il fondamento del fenomeno originario della verità»93. Il nocciolo della questione è che la tradizionale dottrina della verità non è originaria, essa piuttosto è secondaria e derivata, e trae origine dalla costituzione fondamentale dell’esserci, quell’essere-nel-mondo che consente di accostarsi tanto al senso autentico, quanto a quello inautentico dell’αλήθεια. Nell’ambito dell’analitica esistenziale, infatti, la verità viene determinata prima in riferimento all’esserci, poi, in riferimento all’ente intramondano, col quale l’esserci, in qualità di essere-nel-mondo, è costitutivamente in rapporto: «primieramente vero, ossia scoprente, è l’esserci. Verità nel senso secondo non significa esserscoprente, scoprire, ma esser-scoperto»94. Il gusto heideggeriano per l’etimologia accorre anche nel caso della definizione del concetto di verità, e questo non per una incontrollata mistica della parola, quanto piuttosto per sottolineare la pregnanza dell’uso pre-teoretico del linguaggio. Infatti, «la traduzione con la parola verità, e, più ancora, le definizioni concettuali e Idem, Essere e Tempo, cit., p. 260. Ivi, pp. 264-265. 94 Ivi, p. 273. 92 93
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teoretiche di questa espressione velano il senso di ciò che i greci posero ovviamente a base del significato di αλήθεια muovendo dalla comprensione prefilosofica che ne avevano»95. Quella che noi traduciamo con il termine verità ha in realtà il significato di non-nascondimento. E aggiunge che «se traduciamo αλήθεια, invece che con “verità”, con “svelatezza”, allora questa traduzione non solo è più letterale, ma contiene anche l’indicazione che induce a pensare e a ripensare il concetto abituale di verità, come conformità dell’asserzione, in quell’orizzonte non ancora capito della svelatezza e dello svelamento dell’ente»96. In questo senso, allora, la verità sarà non adaequatio rei et intellectus, ma nemmeno proprietà dell’essere. La verità come non-nascondimento e svelamento sarà l’essere stesso, che esponendosi e presentandosi, appare come verità. Heidegger è molto esplicito su questo aspetto: «Se l’esser-presente comporta il non esser nascosto, essere e verità sono lo stesso»97. Ma che ne è dell’essere assente che da sempre accompagna l’esser presente? E della latenza (λήθη) che si connette all’apparenza? Insomma, cosa c’è all’origine della trasformazione della verità da manifestazione in verità della proposizione, da verità come apertura ontologica in verità gnoseologica? Rispondere a queste domande ci immette direttamente su quel terreno accidentato delle splendide pagine heideggeriane sull’essenza della verità.
La Lichtung tra latenza e apparenza Il legame tra verità e Lichtung ci conduce nella cornice teorica di Sull’essenza della verità, opera in cui il filosofo analizza l’esser vero della verità in relazione ai concetti di inessenza e anti-essenza della verità, ossia, in relazione al mistero Ibidem. Idem, Dell’essenza della verità, in Id., Segnavia, cit., p. 144. 97 Idem, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Id., Sentieri interrotti, cit., p. 220. 95 96
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e all’errore. L’essenza della Lichtung: il diradare – «diradare qualcosa significa: rendere qualcosa rado, cioè renderlo libero e aperto […] lo spazio libero e aperto che ne risulta è la Lichtung»98 – il render libero, affinché qualcosa appaia o non appaia, si intreccia alla questione del velamento e dello svelamento intrinseci all’αλήθεια. Allora «l’αλήθεια richiede […] un’interrogazione più originaria sulla sua propria essenza (donde e perché velamento e svelamento?)»99. Un passo decisivo su questa via è rappresentato proprio dalla conferenza scritta nel 1930 e pubblicata nel 1943. In essa,Heidegger ha indicato i fondamenti che sorreggono l’essenza della verità tradizionale. Nella storia del pensiero occidentale assistiamo, oltre che ad uno smarrirsi del senso dell’essere, anche ad un mutamento della verità in adeguazione e concordanza. Ma dove è che il giudizio trae il fondamento per omologarsi all’ente? A tale domanda Heidegger risponde menzionando il concetto di libertà: «l’essenza della verità è la libertà»100. Nella metafisica occidentale la considerazione della libertà come fondamento della verità ha comportato la riduzione sia della libertà che della verità ad attributi dell’uomo. Pertanto tali concetti sono divenuti soggettivi. Il filosofo si chiede se «porre l’essenza della verità nella libertà non significa affidare la verità all’arbitrio dell’uomo», e, soprattutto, se «abbandonare la verità all’arbitrio di questa “esile canna” non è forse il modo più radicale per distruggerla»101. Affermare che la libertà è l’essenza della verità significherà, insomma, gettare la verità nell’abisso dell’arbitrio? All’origine dell’erramento destinale della metafisica abbiamo quella concezione di verità che si fonda sulla libertà pensata come attributo del soggetto. Tale processo avviene a partire da Platone, con il quale la αλήθεια si trasforma in ορθότης, come abbiamo Idem, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo e Essere, cit., p. 85. 99 Idem, Contributi alla filosofia, Adelphi, Milano, § 207, p. 327. 100 Idem, Sull’essenza della verità, cit., p. 19. 101 Idem, L’essenza della verità, cit., p. 20. 98
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visto nel primo capitolo, in correttezza della rappresentazione e del giudizio. Tuttavia, la possibilità che il vero cada sotto il giogo dell’idea, trasformandosi in verità gnoseologica, è consentita solo dall’originario non-nascondimento che permette, appunto, alla verità di porsi come correttezza. La verità della proposizione poggia, dunque, sulla verità come manifestazione: per esprimersi su qualcosa, bisogna prima “vedere” la cosa, farne esperienza. Occorre che la cosa sia aperta e scoperta e che l’esserci sia essenzialmente aprente e scoprente affinché possa essere colta l’essenza della verità: «primieramente vero, ossia scoprente, è l’esserci. Verità nel senso secondo non significa esser-scoprente (scoprire) ma esser-scoperto (stato di scoprimento)»102, veniva detto in Essere e Tempo. Se, però, nell’analitica esistenziale abbiamo un concetto di apertura come Offenstandigkeit (come uno stare-aperto da parte dell’uomo), e come Offenbarkeit (come un esser-manifesto da parte dell’ente), diversamente, nel testo Sull’essenza della verità si tenta di pensare la dimensione di un aperto nella quale soltanto l’una e l’altra possono avere luogo. In questo testo Heidegger tenta di portare al linguaggio quello sfondo sul quale si staglia la stessa manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo oscuro e nascosto su cui si pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale possiamo comprendere il discorso sulla non-essenza della verità. L’argomento del testo è lo stesso a cui si accenna in chiusura della conferenza La fine della filosofia e il compito del pensiero, lì dove radura e presenza divengono i concetti da pensare da parte di un pensiero meditativo, un pensiero, cioè, che perseveri nel domandare e non esponga semplicemente asserzioni su uno stato si cose103. E sappiamo quanto le domande abbiano un ruolo Idem, Essere e Tempo, cit., § 44, p. 273. «Il titolo che esprime il compito del pensiero non sarà più allora Essere e Tempo, ma Radura e Presenza? Ma da dove e come si dà la radura? Che cosa parla in questo “si dà”? Il compito del pensiero sarebbe allora l’abbandono del pensiero che si è avuto finora per dedicarsi alla determinazione della cosa del pensiero»; Idem, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo ed Essere, cit., p. 94. 102 103
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chiave nel movimento di pensiero di Heidegger, il quale «resta modesto soprattutto perché il suo compito si caratterizza come un semplice preparare e non come un istituire qualcosa»104. A proposito della non-essenza della verità c’è da dire che per Heidegger essa non corrisponde alla falsità o alla non-conformità di una proposizione105. Alla verità come manifestazione si oppongono due tipi di non-verità: nascondimento e errare. Se per verità si intende il non-nascondimento, allora la non essenza della verità indicherà il non del non-nascondimento, ossia il nascosto. Il significato primordiale di αλήθεια è proprio quello di negazione dello sfondo di nascondimento sul quale può stagliarsi, quel λήθες-nascosto essenziale alla verità e orizzonte che precede e accompagna la manifestazione (verità) di ogni ente. Ciò che precede ogni disvelamento è definito da Heidegger con il termine Geheimnis-mistero. Esso indica il nascondimento dell’ente in totalità, nascondimento che «è la vera e propria non-verità, è antecedente ad ogni manifestazione di questo o quell’ente, anzi, precede anche lo stesso lasciar-essere, che mentre svela, già tiene nascosto e al nascondimento si rapporta»106. Il mistero come l’arcano in cui accade la tensione tra nascosto e svelato è quell’impensato da pensare che si identifica con la Lichtungradura. Il da-pensare, allora, non è qualcosa di remoto e di impenetrabile ma quel terreno su cui da sempre ci muoviamo e di cui dobbiamo porci a custodia; si tratta insomma di quella radura-slargo, il cui splendore «non si lascia prendere perché esso stesso non è qualcosa che prende, ma è il puro evento appropriante. L’inapparente splendore dello slargo sgorga dall’inviolato ripararsi che si cela nella rattenuta custodia del destino. Perciò lo splendore dello slargo è in se stesso, insieme, il celarsi, e in questo senso la cosa più oscura»107. Ivi, p. 78. Idem, Sull’essenza della verità, cit., p. 12. 106 Ivi, p. 33. 107 Idem, Saggi e discorsi, cit., p. 192. 104 105
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Tale mistero è però obliato dall’uomo che erra tra gli enti generando quell’errore che è antiessenza della verità. Infatti il mistero, «costituendosi come oblio del nascosto, diventa errare»108. L’uomo, errando, non dispiega la sua essenza, ossia l’ek-sistentia, ma vive in questa condizione di oblio del mistero e dell’arcano, quale luogo di provenienza di tutto ciò che è presente e assente. Connessa al mistero come arretramento dell’essere e all’errore come oblio del nascosto è l’interpretazione della storia dell’essere come epochè, dove dell’essere non ne più nulla.
Nichtung e Lichtung Strettamente connessa alla nozione di essere e Lichtung è quella di nulla che occupa un ruolo privilegiato nel breve testo Che cos’è metafisica109. La nozione di nihil è contraddistinta da una peculiare relatività in quanto non è di nulla assoluto che si tratta, bensì di ni-ente, o non-ente. Il testo pone due domande fondamentali: 1) qual è il legame tra essere, nulla e Lichtung? 2) com’è da intendere la Nichtung propria del nulla? Il fenomeno del nulla compare già in Essere e tempo allorché il discorso si concentra sulla tonalità emotiva dell’angoscia il cui davanti-a-che è l’essere nel mondo che appare nella propria insignificatività110. L’angoscia per Heidegger rivela quel niente per il quale noi ci sentiamo sospesi: «l’angoscia rivela il niente. Noi siamo sospesi nell’angoscia. O meglio è l’angoscia che ci lascia sospesi, perché fa dileguare l’ente nella sua totalità. Ciò implica che noi stessi, questi essere umani che siamo, in mezzo all’ente ci sentiamo dileguare con esso. Per questo, in fondo, non Ivi, p. 38. Cfr., C. Vigna, Sulla metafisica di Heidegger, in M. Ruggenini ( a cura di ) Heidegger e la metafisica, cit., pp. 107-139. 110 Idem, Essere e Tempo, cit., § 40, p. 228. 108 109
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tu o io ci sentiamo spaesati, ma uno si sente spaesato. Resta solo il puro esserci che, nel turbamento di questo essere sospeso, non può tenersi a niente»111. La citazione ci consente di prendere visione del ruolo chiave svolto dalla nozione di Angst: essa, se da un lato ha una connotazione esistenziale – in quanto tonalità emotiva – dall’altro ha una spiccata caratura ontologica. Unicamente quando il nulla ci assale nell’angoscia si apre quella Lichtung che sola possibilizza ogni chiusura o apertura. Solamente con il fenomeno dell’angoscia avviene la comprensione autentica, quella comprensione che comprende di esser-situata in un mondo il cui fondamento è un abisso: il nulla appunto. Il filosofo avverte la necessità di «esperire nel niente la vastità di ciò che dà a ogni ente la garanzia di essere. Questo è l’essere stesso. Senza l’essere, la cui essenza abissale, ma non ancora dispiegata, ci è destinata dal niente nell’angoscia essenziale, ogni ente resterebbe privo di fondamento»112. Il passo è fondamentale sia perché mette in relazione il niente e l’essere sia perché il tentativo di semantizzazione del niente non è altro che la riproposizione della differenza ontologica tra essere ed ente. In una nota apportata alla quinta edizione del 1949113 del testo del ’29, Heidegger afferma esplicitamente l’identità tra essere e nulla nel contesto dell’analisi della trascendenza dell’esserci. Secondo il filosofo l’esserci che si tiene nel nulla si trova già sempre oltre l’ente nella sua totalità «questo essere oltre l’ente noi lo chiamiamo trascendenza. Se l’esserci nel fondo della sua essenza non trascendesse, ossia, come ora possiamo dire, non si tenesse fin dall’inizio nel niente, non potrebbe mai rapportarsi all’ente, e perciò neanche a se stesso»114. Il rapportarsi all’ente da parte dell’esserci è consentito dal Idem, Che cos’è metafisica, cit., pp. 50-51. Ivi, p. 76. 113 In questa nota Heidegger afferma che essere e nulla sono lo stesso; cfr., ivi, p. 55, nota d. 114 Ivi, p. 55. 111
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nulla/essere che «rende possibile la manifestatezza dell’ente come tale per l’esserci umano»115. Ma rendere possibile la manifestatezza è prerogativa anche della Lichtung. Lichtung e Nichtung divengono sinonimi poiché la peculiare funzione di diradamento della prima, e il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua luminosità, consentendo ad esso di apparire. Se consideriamo gli enti senza tener conto dello sfondo inapparente, e pertanto inoltrepassabile, sul quale soltanto possono apparire, allora l’ente si trasforma in semplice presenza eclissando la sua natura di fenomeno. Lichtung e Nichtung costituiscono quella “notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo appare come mondo116. Nondimeno, la Lichtung – e la connessa Nichtung – non viene alla luce alla stregua dell’ente. Essa si annuncia in quella differenza nei confronti dell’ente che appare, come abbiamo visto, in Identità e differenza. Differenza che è anche differimento e sospensione dell’essere nell’ente. Il soffermarsi heideggeriano su tali concetti ha lo scopo di delineare la sfera entro la quale esperire una sorta di apprensione primordiale dell’essere, per usare un’espressione cara a Zubiri117, Ivi, p. 56. Ivi, p. 54. 117 Apprensione primordiale di realtà è l’oggetto del primo volume di Intelligenza senziente, intitolato Intelligenza e realtà. Afferma il filosofo spagnolo che «l’intellezione umana è formalmente mera attualizzazione del reale nell’intelligenza senziente»; X. Zubiri, Intelligenza senziente, Bompiani, Milano 2008, p. 63. Nel primo volume dell’opera il filosofo individua nell’apprensione primordiale di realtà il modo primario di intelligenza senziente. L’intellezione è reciprocabile col sentire, per cui non si dà intellezione che non sia senziente, né sensazione che non sia intellettiva e questo perché la realtà ha l’aspetto di formalità di realtà, di un prius, cioè, che non è né a priori né a posteriori. Col concetto di formalità di realtà, il reale si impone sciogliendosi dalla tirannia del senso, prospettando un’eccedenza della cosa rispetto al polo noematico e mostrando la doppia dimensione dello stare ( lo stare della realtà e quello dell’intelligenza). L’intenzionalità ha dunque un carattere fisico, che dà alla filosofia un’impronta reistica, che la mette a distanza tanto dalle filosofie neokantiane, quanto dallo storicismo diltheyano. C’è da precisare che l’essere per Zubiri compare ad un livello successivo rispetto a quello dell’apprensione primordiale; quest’ultima riguarda la realtà; il logos riguarda l’essere e la ragione riguarda il reale in 115 116
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su questo punto molto vicino a Heidegger, un’apprensione, cioè, che sia priva di ogni filtro oggettivante e metodico. L’apprensione primordiale, utilizzata dal pensatore spagnolo nell’opera Intelligenza senziente – vera e propria trilogia che comprende i volumi Intelligenza e realtà, Intelligenza e logos, Intelligenza e ragione, ognuno dedicato ai tre modi di intellezione – esprime bene la tensione presente nella filosofia heideggeriana, sempre in bilico tra un dire che non riesce ad esprimere – perché intrinsecamente metafisico – l’essere e un additare che faccia vedere l’«istanza ancor più originaria di quella dell’essere, la Lichtung»118. Ma all’interno di un pensare che non ha ancora svoltato verso l’unica meta a cui è destinato – la Lichtung – non è possibile credere di poter saltare dalla metafisica verso ciò che è alla sua origine. Il passo indietro verso l’altro inizio è sì necessario, dal momento che il primo inizio, cioè quello della metafisica, «esperisce e pone la verità dell’ente senza domandare della verità come tale, perché ciò che in essa è svelato, l’ente in quanto ente, sovrasta necessariamente tutto perché inghiotte anche il niente e lo ingloba in sé nella forma del non, del contro»119. Si tratta di una necessità che traghetta verso altri luoghi: meditazione, arte, poesia, linguaggio. Si tratta insomma di quei temi dell’ultimo Heidegger che lo avvicinano all’estetica. L’analisi di Che cos’è metafisica ci ha condotti dall’essere al profondità. Non è possibile nei limiti di una nota rendere conto dell’interessante prospettiva teorica di X. Zubiri, a tale scopo rimandiamo a O. Barroso, I fatti e la loro descrizione. A proposito del metodo fenomenologico in Zubiri, in A. Mascolo, M. L. Mollo ( a cura di ), Xavier Zubiri, Rocinante, Rivista di filosofia iberica e iberoamericana, n. 5, 2010, Le Cariti, Firenze, pp. 79-108. Sempre sulla concezione zubiriana della comprensione nella sua connessione con il sentire cfr., ivi, P. Colonnello, Rileggendo il nesso sentire/comprendere in Intelligenza senziente di Xavier Zubiri, pp- 109-118; ivi, M. L. Mollo, Tastare la realtà senza brancolare nel buio. L’antidoto zubiriano all’ontofobia, pp. 133-151; sul rapporto tra Zubiri e Dilthey cfr., ivi, G. Cacciatore, Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, pp. 101-108. 118 J. L. Marion, La fin de la metafisique comme possibilitè, p. 352, in Y. C. Zarka, B. Pinchard (sous la direction de), Y a-t-il une histoire de la metaphysique ?, Quadrige, France 2005. 119 M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., § 91, p. 190.
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nulla mostrando come il diradare della Lichtung sia equivalente all’annientare della Nichtung. Essere e nulla sono, insomma concetti reciprocabili e convertibili nei quali traluce un vuoto che è allo stesso tempo ricchezza, poichè alla fine quel vuoto è un vuotare che fa spazio affinché qualcosa possa apparire, come le analisi heideggeriane sull’arte, che nel prossimo paragrafo prenderemo in considerazione, mostrano. Prima di passare all’arte e al ruolo aletico e aperturale che essa svolge all’interno dell’iter di pensiero del filosofo, c’è da dire, per concludere, che la riflessione sul nulla e la sostanziale identità di essere e nulla non implicano una risoluzione della riflessione in nichilismo. La questione del nulla, si sa, è la questione del nichilismo120, per cui le affermazioni heideggeriane sul nulla, e la stessa equazione posta tra nulla ed essere, possono indurre a vedere nella posizione del filosofo un’ulteriore espressione di nichilismo. Ma il nichilismo di cui Heidegger parla non ha come suo concetto chiave il nulla, bensì l’ente. Paradossalmente, il nichilismo nasce laddove ci si occupa unicamente dell’ente, dove del niente e dell’essere non c’è nemmeno l’ombra: «nella dimenticanza dell’essere promuovere solo l’ente, questo è – secondo Heidegger – nichilismo»121. La domanda da porre, allora, se si vuole prestare fede all’unico compito dell’esistenza, quel compito, cioè, che è al servizio della «questione, ancora da sviluppare, della verità dell’essere come fondamento nascosto di ogni metafisica»122 sarà quella che si chiede «com’è che ovunque l’ente ha il primato e rivendica a sé ogni “è”, mentre ciò che non è ente, il niente, inteso come l’essere stesso, resta nell’oblio?»123. 120 Sul rapporto tra Heidegger e la questione del nichilismo cfr., U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, cit., pp. 387-416 e pp. 542-546; F. Volpi, Nichilismo, cit., pp. 83-120; M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, cit., pp. 305-320; Id., L’essenza della tecnica e il nichilismo, in F. Volpi ( a cura di ), Guida a Heidegger, cit., pp. 235-276; E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, cit., pp. 251-334. 121 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 207. 122 Idem, Che cos’è metafisica?, cit., p. 105. 123 Ivi, p. 116.
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Solo perché l’ente primeggia catalizzando l’attenzione umana su di sé – generando, in questo modo, la conseguente negligenza nei confronti dell’essere, del nulla, e del darsi di entrambi – è possibile un nichilismo nei termini in cui lo intende Heidegger, e cioè nei termini di promozione dell’ente a discapito dell’essere. La promozione dell’ente, poi, secondo Heidegger, avviene in una particolare forma di conversione della rappresentazione dell’oggetto in produzione tecnico-scientifica di esso. Per essere più chiari, quello che sul piano teorico è un Gegen-stand, sul piano pratico diviene un Be-stand. L’oggetto diviene un qualcosa di disponibile124. Come già abbiamo visto nel secondo capitolo, nei paragrafi riguardanti l’interpretazione heideggeriana della “metafisica” di Kant, Heidegger afferma che «nel produrre la forma del concetto, l’intelletto contribuisce a rendere disponibile il contenuto dell’oggetto, in questo modo di porre, si rivela la peculiarità del pro-porre rappresentativo proprio del pensiero»125. Intrinsecamente nichilista è, allora, la costituzione stessa della ragione, e del suo nucleo fondante, la disposizione, che nell’ambito del pensiero genera la conoscenza e nell’ambito dell’agire genera la tecnica, la cui essenza è la ποίησις/produzione. La tecnica è l’espressione di un nichilismo che è attento solo all’ente, e che 124 Heidegger si chiede «Che cos’è la tecnica moderna? Anch’essa è disvelamento […] il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un produrre nel senso della ποίησις. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata […] il disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello stellen, del richiedere nel senso della provocazione […] ciò che così ha luogo è dovunque richiesto di restare a posto nel suo posto e in modo siffatto da poter essere esso stesso impiegato per un ulteriore impiego (bestellung). Ciò che è così impiegato ha una sua propria posizione (Stand) . La indicheremo con il termine Bestand, fondo. Il termine dice qui qualcosa di più e di più essenziale che la semplice nozione di scorta, provvista. La parola fondo prende qui il significato di un termine chiave. Esso caratterizza niente meno che il modo in cui è presente tutto ciò che ha rapporto al disvelamento. Ciò che sta nel senso del fondo (Bestand) non ci sta più di fronte come oggetto (Gegen-stand); Idem, La questione della tecnica, cit., pp. 11-12. 125 Idem, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 36.
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di conseguenza è oblio dell’essere, o meglio, oblio dell’oblio. In tale contesto viene fugata ogni possibile interpretazione strumentale della tecnica: «la tecnica non si identifica con l’essenza della tecnica»126. Insomma, l’essenza della tecnica non sarebbe nulla di tecnico e per avvicinarci minimamente al significato primordiale di essa, dobbiamo accostarci all’essenza dell’arte. Così Heidegger: «poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica […] tale ambito è l’arte»127. L’arte, come la tecnica, sono modi dell’aletheùein, modi in cui avviene il disvelamento dell’ente. Arte e tecnica riguardano allora anche l’ambito della verità, della disvelatezza che nel disvelare occulta la provenienza stessa del manifesto. In ultima analisi, il nichilismo appartiene essenzialmente all’essere, perché l’essere è ni-ente – ni-ente nel senso della differenza – e alla sua verità. Sicuramente stiamo parlando di un nichilismo – qual è quello di Heidegger – reciprocabile con un’ontologia, una me-ontologia potremmo dire, che identifica essere e nulla come la dimensione del lethès-nascosto anteriore all’alètheia stessa, insomma, di un nichilismo che è tutt’altro rispetto al bersaglio polemico della riflessione heideggeriana sulla tecnica. Quest’ultima, per Heidegger, «non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento»128. Siamo insomma sul terreno della verità, dal momento che verità è innanzitutto disvelatezza. Eppure la tecnica in quanto produzione non ricalca, o almeno lo fa parzialmente, il significato di ποίησις. Secondo quanto afferma Platone riguardo al ποιείν, esso «è ciò per cui qualcosa passa dal non essere all’essere»129. Si tratta cioè dell’operazione di tradurre in essere ciò che ancora non è, della produzione dell’apparire e del dispiegamento. Questa, come Idem, La questione della tecnica, in Id., Saggi e Discorsi, cit., p. 5. Ivi, p. 27. 128 Ivi, p. 9. 129 Platone, Simposio, 205 b. 126 127
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sappiamo dalle pagine sull’essenza e sul concetto di φύσις, è, secondo Heidegger, l’essenza stessa della φύσις, che appare come il «porre nella svelatezza dell’aspetto, fare venire alla presenza, presentarsi»130. Il ποιείν che contraddistingue sia φύσις che τέχνη si modula però in maniera differente. Nel caso della tecnica, si tratta di produzione di ποιούμενα, artefatti che sono privi di quella motilità che inerisce essenzialmente ai φύσει όντα. Negli artefatti «l’αρχή della loro motilità, e quindi della loro quiete, che raggiungono quando sono finiti e completati, non è in loro stessi, ma in un altro, nell’αρχιτέκτον»131. Il principio che porta gli artefatti all’essere non risiede in loro stessi ma in un fattore esterno che imprime ad essi movimento. Viceversa, mel caso della φύσις, la produzione assume la forma di quel crescere che è un «ritornare in sé per schiudersi da sé»132 che fa degli enti per natura enti che «hanno l’ αρχή della loro motilità non in un altro ente , ma in quell’ente che essi stessi sono»133. Il sorgere e lo schiudersi che appartiene a questi ultimi e l’essere prodotti che è proprio dei primi mostra in che modo il fare è la dimensione stessa dell’apparire sia fisico che tecnico degli enti. Per questo motivo, Heidegger può giungere ad affermare che la tecnica è un modo di disvelamento – proprio come la φύσις – quel modo che in quanto produttivo presenta una grande affinità con un’altra sfera della ποίησις: l’arte.
Costruire, abitare, pensare La riflessione heideggeriana sulla tecnica come modalità del fare affine a quella della natura ci immette nei sentieri dell’arte che aprono all’estetica134. Ma perché una meditazione M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto di φύσις, in Id., Segnavia, cit., p. 243. Ivi, p. 206. 132 Ivi, p. 243. 133 Ivi, p. 206. 134 Cfr., M. Mazzocut-Mis, Estetica. Temi e problemi, Le Monnier, Firenze 2006, p. 82. 130
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sulla tecnica e sulla sua essenza si intreccia ad una meditazione sull’essenza dell’arte? Cosa hanno in comune il fare artistico con il fare tecnico? È possibile rintracciare una prima risposta nella citazione con cui si conclude la riflessione condotta in L’essenza della tecnica: «quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva»135. E poco dopo l’arte è stata configurata come territorio limitrofo a quello della tecnica, anzi, come occasione di comprensione dell’essenza stessa della tecnica. Il massimo pericolo sarebbe, allora, l’atteggiamento tecnico che riduce l’ente a fondo e disposizione? Quell’atteggiamento che domina il nichilismo metafisico, la cui essenza è l’impianto? E l’arte? Qual è il suo ruolo nella storia dell’essere? Per comprendere il significato della speculazione heideggeriana sull’arte come modo di ostensione della radura originaria, come espressione non metafisica, e pertanto non estetica, di apprensione primordiale della Lichtung, soffermiamoci brevemente sul significato del Ge-stell. Gestellimpianto «non nomina più un singolo oggetto isolato» ma piuttosto «il da sé raccolto universale ordinare la completa ordinabilità di ciò che è presente nella sua interezza»136. Questo significa che nel Ge-stell parla la riduzione dell’essere a fondo e disposizione, nel quale tutto è ordinato e tutto è al suo posto in quanto risorsa-Bestand137. Infatti, «la risorsa sussiste , e sussiste in quanto è posta in vista di un ordinare»138, cioè del Bestellen, che è una modalità dello stellen, del porre che compare anche nel rappresentare, Vor-stellen, e nel produrre, Her-stellen. La riduzione dell’essere a θέσις-posizione che vige nell’impianto della tecnica traccia i contorni di uno scenario ben più ampio: la tecnica come posizione è un modo del fare, di quel ποιείν che è all’opera anche nella φύσις. Già all’alba della filosofia, allora, è presente l’impianto che ha generato la tecnica. Ivi, p. 27. Idem, L’impianto, in Id., Conferenze di Brema e di Friburgo, cit., p. 55. 137 Ivi, p. 51. 138 Ivi, p. 47. 135 136
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La φύσις non è altro che il nome per indicare la posizione assoluta, il cui porre risiede in sé e non in altro, infatti, «detto e udito in riferimento alla tecnica, e pensando, il nome impianto dice che la sua essenza, il porre, si fonda sul destino iniziale dell’essere ( φύσις-θέσις)»139. L’accento posto da Heidegger sull’etimologia greca dei termini ha la funzione di mettere in mostra «a quale radura (Lichtung) dell’essenza dell’essere abbia reclamato l’esserci degli antichi greci, e in che modo l’abbia fatto; significa pensare a fondo anticipatamente in quale destino di quale svelatezza dell’essere stavano i greci, poiché è in conformità all’appello di tale destino che la loro lingua parlava»140. La φύσις, quale modo del disvelamento, dominando, consente quel porre umano che pone l’essere dell’ente riducendolo a Ge-stell141. Tecnico è allora il modo in cui l’essere appare fin dall’inizio, così come tecnica è stata la metafisica nel momento stesso in cui è sorta. Appartiene all’essenza propria della storia dell’essere il suo porsi tecnicometafisico, ossia il suo eclissarsi a favore dell’ente. L’essere, quale Lichtung dell’ente, è essenzialmente quell’illuminare il fenomeno sottraendosi al φαίνεσθαί. La Lichtung dell’essere, il suo essenziarsi e il suo avvento si declinano in quella fisica che sola può generare la metafisica del Ge-stell. Heidegger è molto chiaro su questo aspetto: «pronunciato come nome pensato dell’essenza della tecnica, e non nominato in modo superficiale con il tono sgradevole dell’ostilità – come la parola altrimenti corrente – il termine Ge-stell, impianto, dice: la tecnica non è un semplice prodotto della civiltà né un mero fenomeno della civilizzazione»142. Ivi, p. 94. Ivi, p. 90. 141 «Pensato in greco nel senso della φύσις, portare fuori lì dinanzi, significa: portare fuori dalla velatezza, lì dinanzi nella sveltezza. Questo portare vuole dire: lasciare che qualcosa giunga e sia presente da sé. Solo se domina la φύσις è possibile e necessaria la θεσις […] ciò che è venuto a stare-θέσει è presente in modo diverso da ciò che è portato fuori-φύσει», ivi, p. 92. 142 Ivi, p. 95. 139 140
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Ma come possiamo pensare quello che apparendo nel Gestell con ciò stesso si è sottratto? Come approdare a quel nascondimento che consente il massimo di disvelatezza? Insomma, come esperire l’accadere della Lichtung e come fare a non sottometterla al giogo dello sguardo conoscitivo? Heidegger tenta di rispondere a questi interrogativi soffermandosi sulla funzione aletica dell’arte. Dell’arte il filosofo tedesco si occupa soprattutto a partire dagli anni trenta, gli anni successivi all’interruzione di Essere e Tempo, in cui si dedica ad un ripensamento della storia della metafisica allo scopo di abbandonare quello che quest’ultima aveva ritenuto essere la terraferma: il terreno della soggettività. È in tale contesto teorico che vanno inquadrate quelle affermazioni critiche nei confronti di un’estetica che, alla stregua della metafisica, ridurrebbe l’opera d’arte a oggetto per un soggetto. Per comprendere la funzione che Heidegger attribuisce all’arte faremo riferimento soprattutto a due testi, L’origine dell’opera d’arte e L’arte e lo spazio, che sottolineano quell’esser inaugurale dell’opera che apre alla dimensione della Lichtung come fare spazio. Il titolo, da noi dato a questo paragrafo, è non a caso Costruire abitare pensare: si tratta dello stesso titolo di una conferenza al cui centro è ancora una volta il Bezug tra uomo e essere nell’orizzonte di coappartenenza della Lichtung. Si tratta di un rapporto che prende il nome di “abitare”. L’abitare, il cui tratto fondamentale è l’aver cura, è a fondamento di ogni possibile costruire143. L’abitare umano nel cui limite rientra anche il costruire è quel πέρας che «non è il punto in cui una cosa finisce, ma come sapevano i Greci, ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza»144. «1. costruire è propriamente abitare. 2. l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra […] il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura. Esso permea l’abitare in ogni suo aspetto. L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiorno dei mortali sulla terra», Idem, Costruire, abitare, pensare, in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 98-99. 144 Ivi, p. 103. 143
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Le cose con cui l’esserci ha a che fare nel suo abitare essenziale sono quelle cose mezzo – utilizzabili – di cui si parla in Essere e Tempo. Ma che cos’è una res? Heidegger afferma che per comprendere l’essenza dell’arte, ossia la sua origine e provenienza, occorre domandare sull’essenza della cosa. Se «l’arte si stanzia nell’opera d’arte»145 e se quest’ultima è una cosa allora comprendere la realitas della res renderà più agevole l’entrata nell’essenza dell’arte. Ne L’origine dell’opera d’arte, il filosofo tedesco affronta una densa discussione sulla nozione di cosa, e poi su quella di mezzo, che fa da intermediaria tra cosa e opera. Le interpretazioni della cosa possono essere ricondotte a tre: 1) τό υποκείμενον 2) αισθητόν 3) ύλη/μορφή Nel primo caso, la cosa indica «ciò intorno a cui le proprietà si sono riunite, assembrate. Si parla in tal caso del nocciolo della realtà, anzi, meglio, del nucleo (reale) delle res»146; il secondo significato ci mostra la cosa nella sua veste di unità di una molteplicità sensibile percepibile attraverso i sensi147; il plesso ilemorfico o morfoiletico, infine, si riferisce alla cosa – sia quella naturale che quella d’uso – come ad un nesso sintetico di materia e forma148. La diade concettuale materia-sagoma, che Heidegger individua come «lo schema concettuale per ogni teoria dell’arte Idem, L’origine dell’opera d’arte, Christian Marinotti, Milano 2009, p. 5. Ivi, p. 15. 147 «La res è l’αισθητόν, ciò che nei sensi della sensibilità è percepibile attraverso sensazioni. Conseguentemente, diviene usuale quel concetto di res secondo cui essa non sarebbe nient’altro che un’unità di una molteplicità», ivi, p. 21. 148 «Ciò che conferisce alle res il loro tratto di stabilità e che costituisce il nucleo della loro solidità, ma che simultaneamente, determina anche il modo del loro affluire sensibile – il cromatico, il sonoro, il duro, il massiccio – è l’elemento materiale, la materialità. In questa determinazione della res come materia, è già posta la forma esteriore, cioè la sagoma», ivi, p. 23. 145 146
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e per ogni estetica»149, è anche il campo di appartenenza di quell’altro significato di cosa: il mezzo. L’argomentazione heideggeriana che dalla cosa porta all’opera attraverso il mezzo è la seguente: se l’estetica si poggia sul plesso ilemorfico, allora, occorre chiedersi l’origine del plesso ilemorfico per comprendere l’essenza dell’arte. L’origine di tale essenza si rivelerà essere la sagoma, ossia ciò che determina la materia. Di più: la sagoma ordina la materia secondo un telos ben preciso: la servibilità150. La servibilità dell’attrezzo lo rende una mezza res e una mezza opera d’arte: «così, l’attrezzo, in quanto determinato attraverso l’essenza-res, è una mezza res, e tuttavia è qualcosa di più; simultaneamente, esso è una mezza opera d’arte, e tuttavia è qualcosa di meno, poiché gli manca l’autosufficienza dell’opera. L’attrezzo occupa una singolare posizione intermedia tra la res e l’opera»151. E l’opera? Che cos’è l’opera? Heidegger risponde a tali domande tramite un esempio tratto dalla pittura, il riferimento è ad una quadro di Van Gogh dove a catalizzare l’attenzione del filosofo è un particolare, un paio di scarpe da contadina. Egli giunge ad affermare che il dipinto del pittore ha «permesso di comprendere che cosa in verità sia il paio di scarpe»152. L’arte, infatti, per Heidegger, rivela il senso delle cose, il loro essere, ciò che esse sono in verità. Ciò che è all’opera nell’opera, quello che accade nell’arte è perfettamente reso dal quadro di Van Gogh: «il dipinto di Van Gogh è il far insorgere ciò che l’attrezzo, il paio di scarpe contadine, è in verità. Questo giunge fin dentro la disascosità del suo essere. I greci chiamavano la disascosità dell’ente aletheia»153. Insomma, l’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: «l’opera d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger Ivi, p. 25. Ivi, pp. 25-27. 151 Ivi, p. 29. 152 Ivi, p. 23. 153 Ivi, p. 43. 149 150
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l’essere dell’ente. Nell’opera accade questo far insorgere, ossia: il disascondere, ossia: la verità dell’ente. L’arte è il mettersi in opera della verità»154. Inoltre, l’essere opera, indica il soffermare e l’installare un mondo. Mondo che è come il tempio che «nel suo starsene lì, conferisce a ogni res il suo viso e agli uomini la veduta su se stessi»155. Mondo che è inafferrabile perché è «quell’instabile e mai incontrabile fronte a favore del quale ci stanziamo»156. Con il farsi mondo del mondo, col suo insorgere ed estendersi, ogni ente riceve il proprio luogo, il proprio spazio-di-tempo. Per questo Heidegger afferma che l’opera installa e sofferma un mondo. All’opera appartiene anche un affermare, essa afferma la terra. «L’opera lascia che la terra sia una terra»157. Le nozioni di Welt e Erde – mondo e terra – si richiamano a vicenda, esse sono costitutivamente divergenti, stando in una relazione che è contesa. La contesa è proprio la verità dell’opera d’arte, che sostiene la lotta di terra e mondo. L’una è l’elemento contratto e oscuro, l’inapparente fonte di ogni apparire, l’altro è l’elemento di apertura e illuminazione. Ma, dice Heidegger, «il mondo non è semplicemente l’insorta estensione corrispondente alla stagliatura (Lichtung); la terra non è l’elemento in sé contratto corrispondente al nascondimento»158. Quello tra Welt e Erde è un polemos che è tensione tra uno sfondo oscuro e l’illuminarsi, su quel fondo, di un mondo storico, che ricorda le caratteristiche della tensione tra disvelamento e nascondimento della dottrina heideggeriana della verità. Verità e arte hanno in comune quel rapporto divergente e convergente tipico della Lichtung come orizzonte di co-estensione dei differenti, che si tengono in rapporto proprio attraverso questa conversione-divergenza. Heidegger è chiaro circa il coappartenersi essenziale dei differenti, i Ivi, p. 51. Ivi, p. 59. 156 Ivi, p. 61. 157 Ivi, p. 65. 158 Ivi, p. 85. 154 155
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differenti della differenza ontologica, ossia, essere ed ente: «tuttavia, oltre l’ente, ma non via dall’ente, bensì verso e prima di esso accade anche un Altro. Nel mezzo dell’intero dell’ente, nel suo fulcro, si stanzia (offene) un’insorta fermezza per ogni essente. Una stagliatura /Lichtung è. Pensata a partire dall’ente la stagliatura è più essenziale dell’ente stesso. L’insorto fulcro non è quindi, racchiuso all’interno dell’ente: piuttosto, proprio il fulcro stagliante – come il nulla che a mala pena conosciamo – libera ogni essente entro i suoi confini. L’ente può essere, come essente, solo se si instanzia e si estanzia nello stagliato di questa stagliatura. Soltanto essa dona e garantisce a noi uomini un transito verso l’ente che noi stessi non siamo, e l’accesso all’ente che noi stessi siamo»159. La riflessione sull’origine dell’opera d’arte si chiude con un’affermazione assai rilevante: «l’arte in quanto è la messa in opera della verità, è dettatura»160. Dichtung è l’essenza del poetare a cui appartiene un triplice istituire: il donare, il fondare e il dare inizio. Oltre la rappresentazione corrente della parola, come semplice mezzo di comunicazione, si staglia la sua essenza che «fa sì che l’ente insorga e si estenda in quanto essente»161. La parola apre la dimensione dell’apparire dell’ente, si pone come indice della “disascosità” dell’ente, dal momento che «ogni lingua è l’evento di quel dire entro il quale, per un popolo, sorge istorialmente (geschichtlich) il proprio mondo e viene conservata la terra come contrazione. Il dire progettante è quel dire che nel preparare il dicibile, simultaneamente mette al mondo l’indicibile in quanto tale»162. 159 «Und dennoch: uber das seienne hinaus, aber nicht von ihm weg, sondern vor ihm her, geschieht noch ein Anderes. Inmitten des seienden im ganzen west eine offene stele. Eine Lichtung ist. Sie ist, vom seienden her gedacht, seiender als das seiende. Diese offene mitte ist daher nicht vom seiende umschlossen, sondern die lichtende mitte selbst umkreist wie das nichts, das wir kaum kennen, alles seiende. Das seiende kann als seiendes nur sein, wenn es in das lichtete dieser Lichtung herein und hinaussteht», ivi, p. 81. 160 Ivi, p. 125. 161 Ivi, p. 127. 162 Ivi, pp. 123-124.
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La poesia-Dichtung allora sarà anche Siftung-istituzione. Il poetare è l’autentico istituire, ossia quel costruire storico che può sorgere soltanto perché poetica è l’essenza dell’uomo. In questo contesto, il poeta Hölderlin occupa un ruolo del tutto singolare come possiamo evincere non solo dalle numerose opere dedicate dal filosofo al poeta, ma anche da un breve saggio che prende il nome da un verso di una sua poesia163 (Nel soave azzurro) in cui si fa menzione, appunto dell’abitare poetico dell’uomo. Ma a cosa punta Heidegger con questa espressione? Secondo il filosofo l’abitare poetico dell’uomo sulla terra si configura come un misurare la dimensione a lui assegnata, il frammezzo di terra e cielo. Misurazione che sola consente di accedere alla fisionomia essenziale dell’abitare umano, ossia, del suo stare al mondo. Il μέτρον della misurazione è quel prendere-misura che accoglie la Lichtung come tale: ossia la tensione divergenteconvergente dei differ-enti, la lotta tra terra e mondo, la contesa tra nascosto e svelato. Il pensiero della Lichtung, quale compito del pensiero futuro, assume, per il filosofo tedesco, il volto di una meditazione sul frammezzo, sulla radice ultima, e inapparente, di ogni apparenza ma anche di ogni assenza: «l’essenza della dimensione è l’aperta-illuminata, e perciò diametralmente misurabile, assegnazione del frammezzo: il verso l’alto del cielo e il verso il basso della terra. Non diamo un nome all’essenza della dimensione»164. Non pare azzardata l’ipotesi di dare il nome di Lichtung a tale dimensione, viste anche le considerazioni di Tempo e Essere in cui si parla in relazione alla Lichtung come di uno spazio aperto e libero per il darsi, per l’es gibt165. Assegnazione del frammezzo Cfr., E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, cit., pp. 179-263; L. Amoroso, Lichtung, leggere Heidegger, cit., pp. 41-48 e pp. 117-142; Id., Arte, poesia, linguaggio, in F. Volpi ( a cura di), Guida a Heidegger, cit., p. 209-234. Sul nesso Heidegger-Holderlin cfr., S. Venezia, Il linguaggio del tempo. Su Heidegger e Rilke, Guida, Napoli 2007, pp. 150-182. 164 Idem, Poeticamente abita l’uomo, in Id., Saggi e Discorsi, cit., p. 131. 165 Idem, Tempo e Essere, cit., p. 85. 163
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secondo una misura: ecco quello che contraddistingue l’essenza poetica dell’uomo. Tale misura non è nulla di disponibile e di illuminato, ma rimanda al gioco di luce e oscurità, in cui è per essenza coinvolto l’esserci come Lichtung dell’essere, come località della verità. Luogo e spazio sono temi che aprono anche alla considerazione di un’altra espressione dell’arte, oltre alla pittura e alla poesia: la scultura. L’attenzione posta sulla scultura consente di pensare alla Lichtung – così come è avvenuto nel caso della poesia e della pittura – al di fuori dei filtri oggettivanti del linguaggio filosofico. L’arte e lo spazio è il titolo di una breve conferenza tenuta dal filosofo nella galleria di St. Gallen nel 1964. Non dobbiamo sorprenderci dell’attenzione accordata allo spazio dal momento che, come abbiamo chiarito già in precedenza, esso si presenta come un fenomeno cooriginario al tempo sin dall’opera del ’27, sebbene, nelle intenzioni manifeste del filosofo è la volontà di mostrare lo statuto originario del tempo. La messa a tema del vincolo tra arte, in particolare la scultura, e spazio, è il perfetto compimento di una riflessione già presente in L’origine dell’opera d’arte, che resta il saggio più sistematico di Heidegger su questioni di contenuto estetico. I riferimenti alla misurazione come metrica dell’abitare poetico che non ha nulla a che fare con la misura geometrica di cui si è detto in Saggi e Discorsi; l’approssimarsi e all’avvicinarsi come strutture proprie della spazializzazione dell’esserci di cui si discute in Essere e Tempo a proposito dell’orientamento direttivo e del disallontanamento; il ripensamento del nesso spaziotempo in Tempo e Essere attraverso la quadridimensionalità; sono tutti fattori che non hanno il semplice statuto di metafore spaziali, ma che anzi diventano espressioni teoreticamente rilevanti per accostarsi a quell’Urphanomen, lo spazio appunto, che come la Lichtung fa accadere e fa avvenire sottraendosi all’apparenza. Sembra un paradosso – e forse lo è pure – ma a ciò che è considerato il fenomeno originario non appartiene il fenomenizzarsi stesso. 159 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Nello spazio parla il fare e il lasciare spazio che «porta il libero, l’aperto per un insediarsi e un abitare dell’uomo»166. Questa è la nota definizione heideggeriana dello spazio che trova il suo fondamento nel luogo. «Raum, rum, significa un posto reso libero per un insediamento di coloni o per un accampamento. Un Raum è qualcosa di sgombrato, di liberato, e ciò entro determinati limiti […] ciò che è così sgombrato viene di volta in volta accordato e così disposto, cioè raccolto da un luogo»167. Secondo le affermazioni heideggeriane, gli spazi sono qualcosa di accordato. Se il fare spazio conferisce la località, approntando la donazione di luoghi, allora nel fare dello spazio si cela un evento: «fare spazio è libera donazione di luoghi. Nel fare spazio parla e si cela al tempo stesso un accadere»168. Ma che cosa concede l’accordo? Inoltre, «in che rapporto stanno luogo e spazio? E in secondo luogo, qual è la relazione tra uomo e spazio?»169. Ciò che concede l’accordo è la Lichtung stessa come dimensione di gioco tra luogo e contrada, la cui spazialità è il fare spazio stesso. Lo spazio, infatti, come il tempo, non è, ma spazializza. L’essenza dello spazio va ricondotta all’essenza del vuoto: «senza dubbio il vuoto è in qualche modo affratellato con ciò che è più proprio del luogo e per questo motivo non è una mancanza ma un portare allo scoperto»170. L’essenza dello spazio come quella del luogo consiste nel portare nella disvelatezza. Spazio e vuoto sono modi in cui accade la verità. Accorre in nostro aiuto un esempio molto efficace utilizzato dal filosofo per sottolineare sia la positività del vuoto sia la sua affinità con lo spazializzare dello spazio. Si tratta del noto esempio della cesta. Premesso che «nel verbo leeren parla il lesen nel significato originario del raccogliere che domina nel luogo Idem, L’arte e lo spazio, il Melangolo, Genova 2003, p. 27. Idem, Costruire, abitare, pensare, cit., p. 103. 168 Idem, L’arte e lo spazio, cit., p. 27. 169 Idem, Costruire, abitare, pensare, cit., p. 103. 170 Idem, L’arte e lo spazio, cit., p. 37. 166 167
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[…] vuotare in una cesta i frutti raccolti significa: preparare per loro questo luogo»171. Insomma vuoto e spazio non indicano una mancanza ma un’instaurazione di luoghi in cui si apre l’apertura-Lichtung, la dimensione di gioco tra il luogo – ossia il raccogliersi delle cose nella località della loro coappartenenza – e la contrada – la libera vastità in cui ogni cosa riposa in se stessa172. L’accadere che vige nello spazio è un accordare luoghi che aprono contrade, le libere vastità. Il rapporto tra contrada e luogo dovrebbe, secondo il filosofo, permetterci di cogliere l’intrinseca relazione che sussiste tra gli enti, i quali non appartengono ad un luogo o ad uno spazio, ma sono essi stessi i luoghi in cui accade il loro senso. Gli enti non si danno in una presenza irrelata, ma il loro esserci dice già la relazione stessa. La riflessione sulla tensione tra luogo e contrada – con la connessa positività del vuoto – è all’origine anche di quella rivalutazione del concetto di cosa-mezzo, che in quanto utilizzabile – a metà tra la mera res e l’autosufficienza dell’opera – assurge a rango di esserci, località di apertura della verità, luogo per la libera vastità, da del Sein, ossia da del Sinn. Quel senso che parla nella mondità del mondo che sola consente quel “dirigersi verso” intenzionale che ci contraddistingue generando, nella forma temporale, la metafisica e, nella forma spaziale, l’arte.
171 172
Ibidem. Ivi, p. 31.
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Conclusione
Questo lavoro ha avuto come oggetto l’interpretazione heideggeriana della questione metafisica dei Greci, la tematizzazione del rapporto di io e tempo all’interno dell’impostazione metafisica della ragione pura, così come esposta da Kant nella prima Critica, e la peculiarità del concetto di Lichtung come luogo di coestensione di esserci, verità ed essere. La Lichtung, anzi è emersa come il paradigma esegetico preminente del movimento heideggeriano di anabasi e catabasi nella storia della metafisica. La connessione teorica, da noi rintracciata, della tematica ontologica antica con quella gnoseologica moderna e con il particolare ruolo svolto dall’arte ha la propria ragion d’essere nella convinzione che le basi che la grecità getta con le parole guida della filosofia siano all’origine di quella temporalità della ragione che tanta parte ha nella storia della metafisica occidentale. Insomma, con i filosofi greci l’essere giunge in quello stato di disvelamento, che è anche autooccultamento della località-Lichtung-radura che genera quell’epoca dell’epochè, quell’eclissi dell’essere come metafisica, che eleva l’ontico ad unico ambito di ricerca. Dell’essere su cui pur si sofferma la metafisica da Parmenide in poi, come anche Platone racconta a proposito della gigantomachia, non si domanda. O meglio: la domanda non può nascere se non successivamente ad una metamorfosi del pensiero. Esso da scienza deve tramutarsi in meditazione, solo così può collocarsi nell’Ort originario, nel luogo che si sottrae ad ogni possesso onnicomprensivo dello sguardo, in quanto luogo comprendente lo sguardo stesso. Possiamo con certezza individuare quattro questioni cruciali del frastagliato 162 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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cammino di pensiero heideggeriano: attualità della questione ontologica; identificazione del fondamento del concetto greco di φύσις con il luogo di oblio dell’essere e di attenzione all’ente, con la conseguente obliterazione della differenza ontologica; connessione di io e tempo come momento genetico della metafisica; pensiero della Lichtung come via d’uscita dalla metafisica. Per quanto riguarda l’attualità della questione ontologica, è bene ribadire che nonostante il concetto di essere sia considerato come il più generale e vuoto di tutti, la tematizzazione del suo senso è ciò che è più degno di essere pensato dall’uomo. Resta il fatto – da Heidegger avvertito come problematico – che l’ontologia, a partire dalle sue origini greche, reca con sé un carico di «pregiudizi che continuamente suscitano e alimentano la convinzione della non indispensabilità di una ricerca intorno all’essere»1. In tale questione ontologica, l’esserci emerge in posizione di centralità, per cui un’ontologia fondamentale, quale quella heideggeriana, che fa capo all’uomo come Da-sein, Lichtung della domanda circa l’essere, non può sottrarsi dall’esser definita antropologica. Si tratta ovviamente di un’antropologia per antifrasi, come abbiamo avuto modo di vedere, un’antropologia cioè che tenta di abbozzare le condizioni di possibilità per un pensiero che non sia apologia dell’uomo, né tanto meno sua detrazione, ma che si configuri come luogo essenziale per l’esperienza della sua essenza. A tale scopo è funzionale il pensiero della Lichtung. Il tema che sta tanto a cuore a Heidegger è, infatti, quello che tenta di portare al linguaggio “la vista” che rende possibile ogni rapporto rappresentativo che il pensiero metafisico intrattiene con l’ente. Tale rapporto, per il filosofo, deve la «sua vista alla luce (Licht) dell’essere, la luce, ovvero, ciò che tale pensiero esperisce come luce» – che però – «non rientra a sua volta nella vista di questo pensiero»2. L’ipotesi M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2009, § 1, p. 13. Idem, Che cos’è metafisica?, cit., pp. 89-90. Significativo è il fatto che l’edizione del 1949 utilizzi al posto di Licht/luce il termine Lichtung/radura, come possiamo leggere alla nota a della quinta edizione del ’49. Ibidem. 1 2
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interpretativa che muove queste pagine si costruisce proprio intorno alla centralità che il concetto di Lichtung assume nel Denkweg heideggeriano, il cui fulcro è la questione dell’essere e la connessa critica alla metafisica e alla tecnica come espressioni del nichilismo. Le interpretazioni storico-filosofiche portate avanti da Heidegger hanno, infatti, lo scopo di una ostensione della radura in cui l’uomo riconosce il mondo come fonte inoggettivabile e intrascendibile, orizzonte trascendentale di senso di cui l’uomo non può disporre come di un oggetto, ma in cui dimora spazialmente e temporalmente. E questo ci fa capire fino in fondo la genesi dell’interesse heideggeriano per la storia dell’essere. Tale interesse non è guidato da nessun’altra motivazione che non sia quella di sottolineare come l’essere che ha generato la platonica gigantomachia non sia afferrabile al di là del suo concreto darsi negli enti, ma anche come la ricerca del senso dell’essere sia ricerca dell’essere del senso, e ancora come il senso sia l’accadere fondamentale degli enti, del mondo, e della significatività che sola consente al mondo di apparire in quanto tale. Heidegger considera quello dell’essere come “l’autentico e unico tema della filosofia”3, e abbiamo visto come la sua caratterizzazione della tematica ontologica antica vada in una direzione ben precisa : svelare l’originario occultamento dell’essere a favore dell’ente, che “avviene” proprio agli albori, nella modalità dell’autoccultamento, potremmo dire, dal momento che l’esserci non decide dell’essere ma rientra già da sempre in una “decisione iniziale dell’essere stesso”. Per Heidegger, l’έ̉ν di Parmenide, il λóγος di Eraclito, l’ι̉δέα di Platone, l’ε̉νέργεια di Aristotele, annunciano già sempre un oblio della verità dell’essere in favore unicamente dell’ente, mostrando così di privilegiare l’ombra piuttosto che la luce, ciò che è presente rispetto alla presenza stessa. Le quattro parole fondamentali indicano prossimità e distanza rispetto alla φύσις, invero rispetto a quel concetto che ha messo in moto il pensiero 3
Idem, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 10.
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dell’uomo. Tale nozione non indica originariamente la natura nel significato che noi tutti conosciamo, ma l’essere del quale possiamo individuare tre caratteristiche fondamentali4: – ciò che sboccia da se stesso a prescindere dall’intervento del soggetto, quello che spontaneamente si apre e appare, ciò che giunge a manifestazione e alla presenza; – l’essere indica allora la presenza ma anche il contenuto della presenza, cioè la molteplicità degli enti, esso è il lasciare accadere gli enti; – l’essere è la donazione in virtù della quale l’ente sorge. Tale apertura, dispiego e offerta sembrano contrastare con l’idea della metafisica occidentale dalla quale l’essere si è assentato. Ma l’analisi del Ge-stell e della sua connessione alla physis ha messo in luce che laddove è riscontrabile il massimo di disvelatezza, è da ricercare anche il massimo di nascondimento. L’epoca del nichilismo della tecnica porta alla luce la strutturale epocalità dell’essere, ossia il suo autoritrarsi come modo di massimo disvelamento, come momento di più alta verità dell’essere. La compresenza della figura del Verborgen con quella del Walten, ossia, la connessione di nascosto e svelato, possono essere comprese se teniamo presente che per il filosofo tedesco a partire da Platone l’essere da presenza di qualcosa è divenuto il qualcosa presente, riducendosi ad ente, con la conseguente scomparsa della differenza ontologica tra essere ed ente e la connessa metamorfosi della α ̉ λήθεια̉ in ορθότης. L’essere si costituisce come l’orizzonte dell’apparire dell’ente. Apparire e presenza da caratteri costitutivi dell’essere – dopo la separazione di presenza e contenuto della presenza ad opera di Platone – sono confluiti nell’uomo come sue note distintive nella forma dell’intelletto e dell’Io penso. L’attrazione verso il soggetto attribuita alla metafisica sarebbe, secondo il filosofo tedesco, il corollario della scissione di presenza e contenuto della presenza. L’attenzione da noi rivolta al rapporto di Heidegger con i concetti di quei 4
Idem, Essenza della verità, cit., p. 44.
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quattro pensatori Greci a cui il filosofo più si richiama ha posto in risalto che il problema della metafisica, ossia la questione della conoscenza dell’essere e dell’ente, è strettamente connesso alla struttura soggettiva della conoscenza. E qui veniamo al motivo per il quale una comprensione della critica heideggeriana alla metafisica – ossia una comprensione della svolta che da Essere e Tempo porta a Tempo e Essere, traghettandoci dalla filosofia all’arte, dalla metafisica alla fisica, dal dato al darsi – non può prescindere dall’analisi del rapporto Kant-Heidegger. La visione heideggeriana della ratio kantiana –assunta come emblema della ratio occidentale – mostra come la struttura anticipante e predittiva della ratio si fondi sulla temporalità, quale centro direzionale degli atti intenzionali dell’esserci. Da qui all’identificazione della temporalità, nella modalità del futuro, come matrice nascosta di ogni ontologia, ossia di ogni gnoseologia della presenza, il passo è breve. Ogni riferimento all’ente e all’essere, infatti, poggia su un determinato atteggiarsi del soggetto verso il mondo circostante. Tale atteggiamento è mediato, come abbiamo visto, dal tempo, che indica un “come” e non un “che-cosa”, una relazione e non un ente. Lo sgretolamento del che-cosa, tipico del tempo, travolge anche la soggettività, che con Kant si sottrae allo statuto sostanziale – che ancora la caratterizzava nell’impostazione cartesiana della res cogitans – per diventare l’inconoscibile che muove ogni conoscenza, la fonte inoggettivabile – perché priva della possibilità di essere intuita – e trascendentale di ogni esperienza possibile. Dalle analisi heideggeriane circa il tempo emerge una caratteristica tipica dell’uomo: la trascendenza, la Lichtung, l’apertura che consente ogni rapportarsi dell’uomo con il mondo. Si tratta di quegli elementi tipici dell’attività cosmetica della ragione che, nel momento stesso in cui viene alla luce, ha già “saltato” il mondo, ma non per abbandonarlo, bensì per relazionarsi costantemente ad esso. Il trascendere, che è l’atto di nascita della metafisica, è la possibilità del mondo stesso e della sua conoscenza. 166 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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In tale storia del nichilismo il tempo come struttura originaria gioca un ruolo strategico, in quanto ogni atteggiamento umano è possibile solo sul fondamento della temporalità. E, mettere a nudo tale temporalità ci consente, allora, di comprendere il fondamento della critica alla metafisica e l’emergere della Lichtung, e dello spazio nel pensiero heideggeriano come possibile via di uscita alla metafisica nella forma dell’arte. Heidegger, infatti, scopre con la sua analisi del tempo che tutto quello che conosciamo, lo conosciamo in un determinato modo perché siamo strutturalmente temporali. Ma è proprio la nostra costituzione temporale che ha generato la metafisica come oblio dell’essere. Sebbene Heidegger affermi che la catastrofe del pensiero, generata dalla metafisica, sia riconducibile al prevalere della modalità temporale della presenza, a ben guardare le analisi condotte in Essere e Tempo, in Kant e il problema della metafisica e in Logica, mostrano che il tempo nel modo del futuro è sempre insito sia nel presente che nel passato. Il fenomeno del tempo non va ricondotto alla sequenza ordinaria di passato-presente-futuro5. Questo è il modo inautentico di concepire il tempo, quel modo cioè dominato dalla ontologia della presenza, che riconduce all’ente l’interpretazione dell’essere e dunque del tempo. Le pagine di Essere e Tempo, inoltre, possono dare l’idea che il tempo e l’essere siano lo stesso, generando la convinzione che l’enigmatico essere heideggeriano possa dissolversi nel tempo. In realtà, come le pagine di Tempo e Essere e alcuni luoghi dell’opera del ’27 mostrano, essere e tempo non sono lo stesso per Heidegger. Essere e tempo sono anzi due elementi distinti che nondimeno si implicano vicendevolmente nell’orizzonte della LichtungEreignis-̉Αλήθεια, unica condizione di possibilità del rapporto tra essere e tempo; essi non indicano due cose, che sono spazialmente Cfr. C. Esposito, Il fenomeno dell’essere e l’accadere della storia: Heidegger anni venti, in E. Mazzarella (a cura di) Heidegger a Marburgo (1923-1928), cit., pp. 73-97. 5
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e temporalmente determinate – spazio e tempo sono i modi in cui si danno gli enti – ma indicano lo stato di cose a partire dal quale soltanto è possibile tutto il resto. Anzi è proprio la metafisica – quella che Heidegger si propone di superare – che poggia sul dissolvimento dell’essere nel tempo. La loro identità è dominante nel pensiero metafisico che riduce l’essere all’ente, e secondo i caratteri di stabilità, permanenza e immutabilità. La storia della metafisica mostra quell’ambigua riduzione dell’essere al tempo nella paradossale forma di una estromissione del suo fluire. Il flusso temporale si arresta, bloccandosi in un presente eterno. La proiettività del Da-sein, la sua protensione verso il futuro – sempre all’opera nel suo orientarsi nel mondo, nel suo dirigersiverso intenzionale – si rivela però come la matrice nascosta dell’ontologia della presenza. La metafisica, infatti, non è il prodotto del divorzio di essere e tempo, ma, al contrario nasce proprio dalla loro sovrapposizione. Solo perché il pensiero è guidato da un’ontologia della presenza è possibile una metafisica che riduce l’essere all’ente. Heidegger non riesce però ad esplicitare fino in fondo il senso di quanto afferma in Essere e Tempo circa il tempo e l’ontologia poiché portare fino in fondo la critica alla metafisica significa dissociare il soggetto dalla sua costituzione temporale, con la conseguenza di abbandonare il territorio a cui approda l’analitica del Da-sein. Le dettagliate analisi dell’analitica esistenziale mostrano un fondamentale pilastro della cronologia heideggeriana, sia nella dimensione autentica che in quella inautentica dell’esserci: il futuro. Esso si pone come il centro direzionale non solo degli atti del Da-sein, siano essi teoretici o pratici, ma anche del suo puro esser-situato. I caratteri che Heidegger attribuisce alla temporalità dell’esserci – come autoaffettività dell’io che consente ogni rapporto intenzionale tra uomo e mondo – sono quelli che abbiamo ritrovato nelle tre facoltà soggettive della conoscenza kantiane: senso, immaginazione trascendentale, appercezione. Infatti, i tre tipi di sintesi (apprensione, riproduzione, ricognizione) 168 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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corrispondono alla costituzione intrinseca di presente, passato e futuro, ossia a quei caratteri della temporalità che sono il presentificare, il ritenere e l’aspettarsi6. Per concludere questa breve ricapitolazione di quanto abbiamo detto nei capitoli precedenti possiamo con certezza dare per acquisito che la storia della metafisica mostra che l’essere non è «isolato e sussistente per sé. La storia dell’essere non è un processo rappresentabile in termini oggettivi, a proposito del quale si potrebbero narrare le avventure dell’essere. Il destino dell’essere rimane in sé la storia essenziale dell’uomo occidentale, nella misura in cui l’uomo storico viene fruito nell’edificante abitare la radura dell’essere. In quanto sottrazione destinale, l’essere è già in sé riferimento all’essenza dell’uomo»7. Dalle affermazioni heideggeriane affiora in modo esplicito un aspetto fondamentale del suo iter di pensiero: il coappartenersi essenziale di uomo ed essere. Non si dà essere senza l’uomo; non esiste uomo senza essere. Essi rimandano l’uno all’altro nella Zusammengehörigkeit del pensiero, il luogo in cui si raccoglie la manifestatività dell’essere, la Lichtung-radura a cui Heidegger fa continuamente cenno attraverso un dire e un pensare che pretendono di essere non più filosofia – perché non sono più metafisica – ma “semplice” ascolto dell’essere8. Coappartenenza che non prevede mediazioni logiche ma salti e svolte. È davvero possibile un modo di accostarsi agli enti che rispetti il loro essere, il loro fenomenizzarsi, il loro apparire senza piegarli ai progetti anticipanti-calcolanti e previdenti dell’esserci? Come sottrarre gli enti, il loro essere e l’essere di per sé, al giogo della ratio temporale? Qual è il ruolo dell’arte in questo tentativo di liberare M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., § 33 a, b, c, § 34. Idem, Il principio di ragione, cit., , Lezione dodicesima, pp. 159-160. 8 «Il pensiero a venire non è più filosofia perché pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa […] il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo». Idem, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 103-104. 6 7
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la radura per lo stare aperto e per l’avvento del mondo con tutto il suo plesso di significati? I riferimenti alla misurazione come metrica dell’abitare poetico che non ha nulla a che fare con la misura geometrica; l’approssimarsi e l’avvicinarsi come strutture proprie della spazializzazione dell’esserci presenti in Essere e Tempo a proposito dell’orientamento direttivo e del disallontanamento; il ripensamento del nesso spazio-tempo in Tempo e Essere attraverso la quadridimensionalità; sono tutti fattori che non hanno il semplice statuto di metafore spaziali, ma diventano espressioni teoreticamente rilevanti per accostarsi a quell’Urphänomen, lo spazio appunto, che come la Lichtung fa accadere e fa avvenire sottraendosi all’apparenza. Sembra un paradosso – e forse lo è pure – ma a ciò che è considerato il fenomeno originario non appartiene il fenomenizzarsi stesso. Questo significa che la spazialità dell’esserci si definisce in relazione ai rapporti che l’esserci intrattiene con il mondo circostante, rapporti che hanno i caratteri del dis-allontanamento e dell’orientamento direttivo. Disallontanare non significa nient’altro che avvicinare. La spazialità è proprio il disallontanamento, e «l’esserci […] è per essenza disallontanamento, cioè spaziale […] e, al tempo stesso, ha il carattere dell’orientamento direttivo»9. In Tempo e Essere il filosofo sottolinea il ruolo svolto dalla spazialità che rende il nostro rapportarci al mondo un abitare. La topologia che conduce all’ecologia10 come via d’uscita dalla struttura cronologica della metafisica spinge il filosofo tedesco all’individuazione di una quarta dimensione della temporalità – quarta dimensione rivelantesi però prima – che consente di pensare quello Zeit-Raum, quell’offrirsi che dirada, fornendo in questo modo la radura dell’aperto. Le analisi di Essere e tempo hanno messo in luce la cura che contraddistingue l’essere dell’uomo il quale in quanto essere che si prende cura è anche un essere che abita e costruisce. 9
Ivi, p. 137. Cfr., E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, cit., p. 334.
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Costruire abitare pensare è il titolo di una conferenza al cui centro ancora una volta è il Bezug tra uomo e essere nell’orizzonte di coappartenenza della Lichtung. L’abitare umano, nel cui limite rientra anche il costruire, è quel πέρας che «non è il punto in cui una cosa finisce, ma come sapevano i Greci, ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza»11. Domandare dell’essenza di questo abitare, che solo, fonda il costruire, ha lo scopo di «ricollocare l’esistenza storica dell’uomo, il che è come dire il nostro più autentico esserci futuro, con la totalità della storia a noi destinata, nella potenza dell’essere da rivelarsi in modo originario: tutto ciò, beninteso, solo nei limiti del potere concesso alla filosofia»12. Questo significa che il senso della ripetizione della storia della metafisica va visto come accadere dell’oblio dell’essere, che nel suo celarsi svela l’essente. Accadere che permea il significato originale della storia. La domanda metafisica è preliminarmente e radicalmente storica, dal momento che «la storia (Geschichte) non significa per noi semplicemente il passato, poiché questo è precisamente ciò che non avviene più. Ma la storia rappresenta ancor meno la mera attualità […] la storia come accadere è un determinarsi a partire dal futuro assumendo il passato, e così agendo e patendo attraverso il presente. È questo presente che dilegua nell’accadere»13. La temporalità dell’essere assume il carattere di storia dell’essere. Le tre estasi del tempo si dispiegano nei modi destinali con cui l’essere si dà, aprendo e fondando le varie epoche storiche, cioè la storia stessa. Il darsi dell’essere è un celarsi che illumina, ed è per questo che la storia dell’essere è essenzialmente la storia dell’oblio dell’essere. La storia, il mondo di senso e significato ai quali apparteniamo non sono a nostra disposizione, a mo’ di utilizzabili, ma, ci sovrastano con quella particolare veste di eredità storica nella quale ci troviamo inoppugnabilmente. Un destino che Idem, Costruire, abitare, pensare, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. 103. Introduzione alla metafisica, cit., p. 52. 13 Ivi, p. 54. 11
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liberamente dobbiamo accettare e assumere, al quale dobbiamo corrispondere per esperire la nostra essenza. Solo ed unicamente perché l’essere è destino è possibile pensare ad un pensiero che sia rammemorazione e convenienza14. In questo contesto in cui sembra tutto già scritto e già deciso, all’uomo non resta che porsi in ascolto di un essere di cui non può dire nulla, ma alla cui ombra si pone nel silenzio rispettoso di un pastore che per guardare misura la distanza. Sono note le metafore heideggeriane di Lettera sull’umanismo: pastori, nuvole, solchi, campi. La biografia di Heidegger è esemplare per capire tale modo di intendere il destino dell’essere. Heidegger ha creduto che il destino storico della Germania hitleriana fosse il destino storico dell’intero Occidente. Ma quello che egli ha creduto più opportuno non è una logica ed inevitabile conseguenza dell’impostazione del suo pensiero. Un aristotelico o, semplicemente, uno studioso di Aristotele non necessariamente è misogino e schiavista, sebbene lo Stagirita sia il teorico dell’inferiorità mentale e fisica della donna e dello schiavo. Chi volesse mostrare l’inoppugnabilità della legge non necessariamente deve bere, come Socrate, la cicuta. Insomma, la libertà di cui Heidegger ci parla anche in L’essenza della verità deve asservirsi alla necessità? Davvero occorre, per ek-sistere, ossia per corrispondere all’Evento, abolire la ragionevolezza e la ragione, sacrificando all’altare della necessità e del determinismo il pensare filosofico, che per antonomasia è avverso ad ogni autorità? Aveva detto Heidegger, proprio in Essere e Tempo, che l’uomo non è come uno strumento o una cosa semplicementepresente, anzi è proprio difforme, in quanto luogo aletico e “aperturale” in cui l’essere si “eventua”. Tale “eventuarsi” ha, «L’essere è come destino del pensiero. Ma il destino è in sé storico. La sua storia è già venuta al linguaggio nel dire dei pensatori […] in quanto il pensiero, rammemorando storicamente, presta attenzione al destino dell’essere, si è già legato a ciò che conviene e che è conforme al destino». M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 102. 14
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nel suo caso, comportato lo scandalo del Rettorato, che forse, nell’ottica heideggeriana, aveva la storica funzione di andare al fondo del nichilismo, allo scopo di superarlo. Ma l’abisso di quel nichilismo era senza fondo, e dove non c’è il fondo, si sa, non c’è possibilità di risalire a galla. Per quel che concerne i, fin troppo numerosi, verdetti pronunciati sullo Heidegger politico15, pare condivisibile la posizione di quanti, come Löwith, sostengono che le scelte politiche se, da un lato, non coincidono con il pensiero filosofico, dall’altro, possono rivelarsi come “conseguenze pratiche”16 di presupposti del pensiero. E, forse, in questo senso, il pensiero di Essere e Tempo sulla morte e sulla storicità – indissolubilmente legate, queste, al “destino storico evenenziale” dell’Essere17, il quale invia, in quanto Ereignis, destinalmente e in maniera necessaria il processo storico – sembra rendere conto della scelta di certi orientamenti politici. Destino storico evenenziale che certamente è contravvenuto a quell’aperto che risuona nella parola Lichtung. Ma c’è di più: la tanto deprecata visione del mondo che riduce il mondo a pallida immagine di un volere conoscitivo, che è volontà di potenza e manipolazione, finisce col divorare lo stesso approccio heideggeriano. Il filosofo, infatti, crede «all’inizio dei fatidici anni Trenta, di poter ristabilire la verità del mondo, dell’essere-nel-mondo e della sua propria visione, attraverso una visione-del-mondo politico-originaria, la Weltanschauung nazionalsocialista appunto»18. Tutto ciò non può, però, oscurare il significato che hanno le importanti analisi sull’utilizzabilità, con-esserci e umanità come fondo e disposizione che mettono in luce – contro la chiusura rappresentata dalla parentesi del Rettorato – quell’apertura Cfr., F. Volpi, Vita e opere, in Id. (a cura di), Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 36-39. Per una bibliografia ampia sul rapporto tra Heidegger e il nazionalsocialismo cfr., ivi, bibliografia, pp. 426-430. 16 Cfr. K. Löwith, Saggi su Heidegger, Se, Milano 2006, p. 78. 17 Ibidem. 18 A. Giugliano, Nietzsche, Rickert, Heidegger, ed altre allegorie filosofiche, cit., p. 388. 15
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che ha consentito anche interpretazioni che individuano nella speculazione heideggeriana la possibilità filosofica più funzionale per un pensiero di sinistra19. Ma qui si apre uno spazio teorico che esula dalle finalità del presente lavoro per cui possiamo affermare, chiudendo questa breve parentesi, che «più in alto della realtà si trova la possibilità»20. La comprensione del messaggio teorico del filosofo consiste unicamente nell’afferrarlo come possibilità. Insomma, bisogna pensare con Heidegger contro Heidegger, come recita la premessa di un interessante testo di Sloterdijk che reca il titolo significativo Non siamo ancora stati salvati, solo in questo modo ci si può sottrarre alla infruttuosa alternativa tra il venerare e il detestare un autore, alternativa, questa, che paralizza il pensiero libero riducendolo a pensiero di parte. In tale storia, quella che un tempo fu la lotta tra poeti e filosofi, circa la questione del vero, trova la sua quiete. L’arte quale ultima espressione del pensare autentico, prende per Heidegger il posto della filosofia. Ma il pensare artistico è solo un modo del pensare. La filosofia non è giunta alla sua fine, poiché appartiene all’essenza del pensiero stesso, che intrinsecamente è ricerca e cammino verso la sapienza, risorgere, come la fenice, dalle sue ceneri. 19 Questa è la posizione di Gianni Vattimo, il quale nel suo libro Addio alla verità (Meltemi, 2009) ci invita a prendere congedo dalla verità mostrando come il nichilismo, nella sua versione heideggeriana, sia la filosofia più funzionale ad una politica di sinistra, al posto del razionalismo illuminato. Per Vattimo «emancipazione e nichilismo vanno a braccetto»; R. Rorty, A sinistra con Heidegger, in (a cura di) P. Flores d’Arcais, MicroMega 5/2011, p. 31. Il filosofo italiano, inoltre, nella conversazione con Daniel Gamper, espone le finalità della lettura di sinistra di Heidegger, rendendo conto della scelta politica del filosofo tedesco. Egli afferma che il nazismo heideggeriano non fu una conseguenza del misconoscimento dell’uguaglianza degli uomini ma della convinzione – non del tutto sbagliata – che un ritorno alla struttura preindustriale fosse l’unico modo possibile per accettare l’essere come evento; ivi, D. Gamper, Addio alla verità. Ma quale?, p. 88. Su un (inaccettabile) abbandono del pensiero heideggeriano per le sue implicazioni politiche e per le sue teorie filosofiche cfr., H, Ebeling, Il tempo dell’essere e il tempo della ragione, in (a cura di) M. Ruggenini, Heidegger e la metafisica, cit., pp. 9-30. 20 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 7, p. 54.
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