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Italian Pages 439 [426] Year 2019
Incontri in Sardegna dal/'Vl/1 al lii secolo a.e.
ILISSO
In copertina: Collana, IV-lii sec. a.e., Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.
Incontri in Sardegna dall'V/11 al lii secolo a.e. a cura di Carla Del Vais Michele Guirguis Alfonso Stiglitz
ILISSO
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CULTURA, STORIA E ARCHEOLOGIA DELLA SARDEGNA collana diretta da Tatiana Cossu Il tempo dei nuraghi. La Sardegna dal XVIII all'VIII secolo a. C. Il tempo dei Fenici. Incontri in Sardegna dall'VIII al III secolo a.C.
Coordinamento scientifico del presente volume Carla Del Vais, Michele Guirguis, Alfonso Stiglitz Coordinamento editoriale: Anna Pau
Si ringrazia per la preziosa, e imprescindibile collaborazione il Polo Museale della Sardegna, nella persona della sua direttrice dott.ssa Giovanna Damiani e la direzione e il personale del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari; del Museo Nazionale "G.A. Sanna" di Sassari; del Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni" di Nuoro; del!' Antiquarium Arborense di Oristano; del Civico Museo "G. Marongiu" di Cab ras; del Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca" di Sant' Antioco; del Museo Archeologico Comunale "Villa Sulcis" di Carbonia; del Museo Civico "Su Mulinu" di Villanovafranca; del Museo Archeologico Comunale "Giovanni Patroni" di Pula; Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta" di Senorbì; del Museo Archeologico Comunale di Villasimius; del Museo Archeologico Comunale di Dorgali; del MUBA, Museo della Bonifica di Arborea; dei Musei Reali di Torino; Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo di Roma; del Museo del Louvre di Parigi; del British Museum di Londra. Un sentito ringraziamento va inoltre per la costante collaborazione alla Soprintendente Maura Picciau e al personale della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna e alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari e Nuoro, all'Università degli Studi di Cagliari e all'Università degli Studi di Sassari. Le tavole illustrate, figg.17 , 44, 47, 79,127,147, 158,185,207,2 11 ,2 15,22 1, 335-337, 340,368,395, 547-549, 575 sono state appositamente realizzate per questo volume da Matteo Gabaglio. "I Fenici tra Oriente e Occidente" di M.E. Aubet è stato tradotto dallo spagnolo da Rosana Pia Orquin; "I profumi" di D. Frère è stato tradotto dal francese da Carla Del Vais. Referenze fotografiche: Quando nqn diversamente indicato in didascalia, le foto afferiscono ali' Archivio !lisso Edizioni. Le n. 10-11, 18-19, 21, 66, 88, 96, 101, 128, 130, 137, 164, 170, 192, 198,222, 227,239,246,278,322,375,382-383,385-387,398,401,412-413,415,420,434,441446, 472, 481-483, 485,527,535,556,560,563, 566-567 sono state realizzate da Pietro Paolo Pinna; le n. 9, 13, 20, 22, 36, 55-56, 60, 144-146, 245, 262-263, 330,381,393, 462,558,565, 570-571, 574 da Marco Ceraglia; le n. 1, 4-8, 14, 23-28, 74, 91-95, 97-98, 105-106, 118, 148-155, 169, 176-178, 183,191,194,223,229,261,316, 323-325, 334, 338-339,371,373,377-380,396,404-406,411,435-439,448,450-454,463,474-476, 480, 509-511, 515-516, 536,542,561 da Pierpaolo Tuveri. Sono state fornite dagli autori le foto n. 49-50, 52-54, 59, 61, 84, 102-104, 108, 138, 252,326-327,342,374.
Le fotografie n. 29-30, 38, 40-43, 77-78, 80-81, 86-87, 89-90, 107, 109-111, 113-115, 11 7, 123-126,131-136, 139-143,157,159-163,165- 166,171, 173-175, 179- 182,184, 187- 188, 190,193,195-197,199-206,208-210,212-214,216-220,224-225,228,230-238,240-244, 247-251,253-260,264-277,282-283,289,291-305,307-315,317-318,320,347,369-370, 372,376,384,388-392,394,399-400,403,409-410,414,416-419,425-427,429-433,440, 447,449,455-457,459-461,465-471,473,477-479,484,486-500,502-508,512-514,517526, 529-534, 537-541, 543-546, 554, 557, 559, 562, 572 (foto Gigi Olivari), realizzate nell'ambito del progetto di catalogazione del Corpus delle Antichità Fenicie e Puniche della Sardegna, sono state rese disponibili dalla Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport, e pubblicate su concessione del Polo Museale della Sardegna. Grafica e impaginazione: Ilisso Edizioni Stampa: Lito Terrazzi
È vietata ogni ulteriore riproduzione e duplicazione.
© 2019 !LISSO EDIZIONI - Nuoro
www.ilisso.it
ISBN 978-88-6202-375-7
Indice STORIE 10
I Fenici tra Oriente e Occidente Maria Eugenia Aubet
18
L'isola più grande del mondo. Incontri mediterranei e oltre Alfonso Stiglitz APPROFONDIMENTI
26
Il complesso monumentale di S'Ura chi Alfonso Stiglitz
28
Il Nuraghe Sirai Carla Perra
32
I primi contatti tra Fenici e Nuragici: la produzione e il consumo di vino Massimo Botto
41
Il tempo della storia Sandro Filippo Bandì
46
L'egemonia cartaginese Raimondo Secci
INSEDIAMENTI E TERRITORIO
50
La città e il mare Carla Del Vais
52
Paesaggi in movimento nel nuovo millennio Alfonso Stiglitz APPROFONDIMENTI
56
Cagliari Alfonso Stiglitz
59
Sulky Michele Guirguis
64
Nora Jacopo Bonetto
70
Bithia Marco Edoardo Minoja, Carlotta Basso/i
74
Tharros Carla Del Vais
79
Othoca e la laguna di Santa Giusta Carla Del Vais, Ignazio Sanna
82
Olbia fenicia, greca e punica Rubens D'Oriano
84
Sistemi territoriali di età fenicia e punica Michele Guirguis APPROFONDIMENTI
88
Monte Sirai Michele Guirguis
94
Pan i Loriga Massimo Botto
100
Santu Teru - Monte Luna Manuel Todde
104
La costa orientale Raimondo Secci
IL LAVORO, LA PRODUZIONE, L'ECONOMIA 108
Le attività agricole Peter van Dommelen, Carlos G6mez Bellard APPROFONDIMENTI
114
l'.uomo e il sistema vegetale Maria Mureddu
118
l'.uomo e gli animali Salvatore Chi/ardi, Alfredo Carannante
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124
L'attività mineraria Piero Bartoloni APPROFONDIMENTO
128
La lavorazione del ferro Raimondo Secci
130
Le attività artigianali Raimondo Secci APPROFONDIMENTI
136
La lavorazione della ceramica Raimondo Secci
140
La lavorazione dell'oro e dell'argento Raimondo Secci
144
La produzione del vetro e l'officina del Nuraghe Sirai Carla Perra
146
I profumi Dominique Frère
LA VITA DOMESTICA 152
La casa e la vita domestica Melania Marana
156
Alimentazione Anna Chiara Farisei/i
168
Vesti, costumi e abbigliamento Rosana Pia Orqufn
SOCIETÀ E POTERE 180
Istituzioni e organizzazione politica e sociale Sandro Filippo Bandì APPROFONDIMENTI
187
Gli scarabei Anna Chiara Farisei/i
192
Famiglie e parentele nella Sardegna del I millennio a.e. Rosana Pia Orqufn
196
Guerra e armati Anna Chiara Farisei/i
202
La scrittura Rossana De Simone APPROFONDIMENTO
206
La stele di Nora Rossana De Simone
208
La monetazione Anna Chiara Farisei/i
212
Il lusso: vetri e gioielli Anna Chiara Farisei/i
IL MONDO DEI MORTI 232
I paesaggi funerari Anna Chiara Farisei/i
242
Il trattamento dei defunti Michele Guirguis APPROFONDIMENTI
252
Le tombe di Tuvixeddu e la pittura funeraria Donatella Salvi
260
Villamar Elisa Pompianu
262
La ricerca antiquaria nelle necropoli di Tharros Carla Del Vais
264
I rilievi funebri a Sulky Sara Muscuso
268
Le tombe infantili Michele Guirguis, Rosana Pia Orqufn
2 71
Archeogenetica Anna Chiara Farisei/i
272
Paleopatologia e bioarcheologia Michele Guirguis
CULTI E RITI 276 I templi e i santuari Giuseppe Garbati APPROFONDIMENTI
288
Il Tempio monumentale di Tharros Stefano Floris
292
Il Tempio di Bes a Bithia Valentina Chergia
296
Il Tempio di Antas Giuseppe Garbati
302
Santuari rurali Alfonso Stiglitz
306
Il tofet: un problema aperto Bruno D'Andrea APPROFONDIMENTI
320
Il tofet di Sulky Sara Muscuso
326
Il santuario tofet di Monte Sirai Michele Guirguis
330
Il tofet di Tharros Stefano Floris
334
Il tofet di Nora Carla Del Vais
336
Le stele votive del tofet Carla Del Vais
340
Le divinità Giuseppe Garbati APPROFONDIMENTI
352
La musica e la danza Anna Chiara Farisei/i
356
Gli amuleti: memorie d'Egitto in Sardegna Michele Guirguis
364
Le terrecotte Anna Chiara Farisei/i
TRAFFICI, SCAMBI E MERCI 380
Le navi Stefano Medas
384
Le merci, le rotte e i naviganti Michele Guirguis APPROFONDIMENTI
388
Nora subacquea Ignazio Sanna
390
Il relitto punico del vetro Ignazio Sanna
392
Gli Etruschi in Sardegna Stefano Santocchini Gerg
396
I Greci in Sardegna Carlo Tronchetti
400
Le unità di misura e ponderali Anna Chiara Farisei/i
401
L:industria del sale Raimondo Secci
DALLA CULTURA PUNICA A QUELLA ROMANA 404 Un'isola meticcia Alfonso Stiglitz APPROFONDIMENTI
412
Le istituzioni politiche provinciali nel 111-11 secolo a.e. Piergiorgio Floris
414
Il plurilinguismo nei primi secoli dopo la conquista romana Piergiorgio Floris
416
Il santuario di via Malta a Cagliari Maria Adele lbba
420
Bibliografia
e•
Storie
· I Fenici tra Oriente e Occidente Maria Eugenia Aubet
· L'isola più grande del mondo. Incontri mediterranei e oltre Alfonso Stiglitz APPROFONDIMENTI
Il complesso monumentale di S'Urachi Alfonso Stiglitz
Il Nuraghe Sirai Carla Perra
I primi contatti tra Fenici e Nuragici: la produzione e il consumo di vino Massimo Botto
Il tempo della storia Sandro Filippo Bandì
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L'egemonia cartaginese Raimondo Secci
1. Simbolo di Tanit, IV-11 sec. a.e .• area del Cronicario , Sul ky (Sant'Antioco). Particolare di pavimento in cocciopesto con inserti di tessere bianche, riproducenti il cosiddetto simbolo della dea Tanit. Si tratta di una tipologia di pavimenta punica documentati in Sardegna anche nel centro di Karaly, mentre al di fuori dell'Isola si trova rappresentato ad esempio a Selinunte (in Sici lia), a Cartagine e a Kerkouane (in Tunisia), sempre in relazi one ad ambienti pubblici o privati di pregio architettonico.
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I Fenici tra Oriente e Occidente Maria Eugenia Aubet
Introduzione Il popolo che inventò l'alfabeto e che adottò il sistema pre-moderno di scrittura, ha lasciato solo poche informazioni scritte sulla propria storia e sulla storia delle sue colonie d'Occidente. La maggior parte dei resoconti storici su questo popolo di navigatori è giunta sino ai nostri giorni attraverso interpretazioni tardive o leggendarie trasmesse da storici o geografi di età classica. Molte di queste notizie risultano esagerate o addirittura false, come quella che sostiene che la fondazione delle prime colonie - Cadice, Lixus - avvenne 80 anni dopo la guerra di Troia, ovvero intorno agli anni 1104/1103 a.C. (Velleio Patercolo, Hist. Rom. I: 2, 1-3). Tuttavia sappiamo che i Fenici conobbero propri annali scritti e illustri storici, la cui eredità è andata dispersa o trasmessa attraverso versioni incomplete di epoca romana. In tal modo, siamo a conoscenza che nel I secolo d.C. Flavio Giuseppe copiò la traduzione di una Storia di Tiro, opera dello scrittore ellenistico Menandro di Efeso, non sopravvissuta fino ai nostri giorni. Durante il 1-11 secolo d.C., il greco Filone di Biblo tradusse una Storia fenicia, opera di un certo Sanchuniaton, della quale si conoscono alcuni frammenti. A ciò si aggiunge la difficoltà di identificare o di recuperare altri tipi di documenti scritti, dal momento che i Fenici avevano l'abitudine di scrivere solitamente su materiale deperibile che non si è conservato, come nel caso del papiro. Per questo motivo hanno un'importanza particolare quella minoranza di storici e profeti che, in relazione alla storia dei Fenici, hanno narrato eventi dei quali furono testimoni diretti, come Omero che nell'VIII secolo a.C. riferisce dell'arrivo dei primi navigatori fenici nell'Egeo, oppure i profeti Isaia (VIII sec. a.C. ) ed Ezechiele (VI sec. a.C. ) che auguravano la distruzione della città di Tiro da parte degli Assiri e dei Babilonesi, o ancora Erodoto che nel V secolo a.C. visitò Tiro e ne descrisse il famoso Tempio di Melqart. Insieme ad alcuni poeti e storici classici, l'archeologia si configura come la nostra principale fonte d'informazione per ricostruire l'eccezionale storia della colonizzazione fenicia. Fortunatamente la ricerca archeologica è
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arrivata lontano nella propria metodologia e negli obiettivi, cosicché, attualmente, il registro archeologico ottenuto dagli scavi in estensione nella madrepatria e nelle colonie, assieme alle nuove cronologie radiometriche, sono gli indicatori più affidabili e rigorosi nella ricostruzione del quadro generale dell'espansione fenicia nel Mediterraneo. I precursori e i primi contatti Oriente-Occidente (Xli-Xl sec. a.C.) L'espansione commerciale e coloniale fenicia nel Mediterraneo si basa sull'esperienza acquisita dai precedenti rapporti interregionali che, in maniera irregolare e discontinua, avevano collegato alcune regioni assai lontane tra loro, che più avanti diventeranno di particolare importanza per la strategia coloniale fenicia. In questi primi contatti, che potrebbero essere definiti come "precoloniali", tre regioni o circuiti commerciali - Cipro, Sardegna e Huelva - avrebbero svolto un ruolo di rilievo nell'istituzione di rotte commerciali marittime che, nella successiva epoca fenicia, mostreranno uno spiccato protagonismo nella creazione del circuito Atlantico-Mediterraneo. Già nella tarda Età del Bronzo, l'Egeo aveva istituito regolari contatti attraverso il commercio miceneo con le regioni del Mediterraneo centrale, come la Calabria, il Tirreno, la Sardegna, le isole Eolie e la Sicilia, raggiungendo anche remote regioni come Tartessos, a giudicare dal ritrovamento di ceramiche micenee a Montoro (C6rdoba). La rotta verso il Mediterraneo centrale è stata quindi inaugurata tramite la creazione di stazioni commerciali, in alcuni casi di natura permanente, che assicuravano la circolazione delle materie prime, m etalli, olio e vino, particolarmente nelle grandi isole durante i secoli XV-XII a.C. In Sardegna, la presenza di ceramiche micenee in siti nuragici come Barumini, Tharros o Antigori, sul Golfo di Cagliari, documenta una serie di contatti probabilmente correlati con il traffico di metalli. La crisi del sistema palaziale dell'Età del Bronzo nel Mediterraneo orientale intorno al 1200 a.C. e il crollo delle grandi strutture politiche centralizzate - Micene, Impero ittita, Egitto, Ugarit ecc. - lasciò un vuoto di potere, che si
rispecchiò soprattutto nell'interruzione del traffico marittimo su larga scala e nella cessazione delle relazioni a lunga distanza. Un vuoto del quale approfitteranno, con una certa dose di opportunismo, nuovi protagonisti, come l'isola di Cipro, la grande produttrice di rame, che in breve tempo immise in circolazione notevoli quantità di metallo sotto forma di lingotti - i cosiddetti lingotti oxhide -, la cui destinazione principale sembra essere stata la Sardegna. Lo straordinario volume di lingotti di rame cipriota ritrovati in contesti nuragici colloca l'apice di questo traffico di metalli tra gli anni 1150-950 a.C. e l'epoca fenicia, stando a quanto indicano le testimonianze archeologiche ottenute, tra gli altri, nel villaggio nuragico di Funtana Coberta (Ballao). Il commercio di rame cipriota raggiunse ugualmente luoghi ben più remoti, come la Francia meridionale.
2. Mappa degli insediamenti fenici nella prima metà del I millennio a.e.
Sardegna, intermediaria tra l'Atlantico e il Mediterraneo (Xl-X sec. a.C.) Un nuovo circuito commerciale entra in scena in una fase avanzata del Bronzo Finale. Si tratta del gruppo della Ria de Huelva, dove un deposito di più di 400 spade e bronzi trovato nel 1923 rivela la presenza in questa zona di un potente centro di produzione e distribuzione di armi, spade, ornamenti, scudi e utensili di bronzo di chiara filiazione atlantica e con evidenti collegamenti commerciali con centri affini del Portogallo e della costa atlantica della Francia. Il deposito della Ria de Huelva risale al X secolo a.C. e le sue spade e lance di tipo atlantico sono state individuate, tra l'altro, a Siniscola e a Monte Sa Idda (Decimoputzu). L'isola di Sardegna diventa, ancora una volta, un punto di confluenza di importanti e attivi circuiti commerciali, quelli del Mediterraneo orientale e dell'Atlantico: una confluenza che servirà da anticamera ali' espansione fenicia. Il ritrovamento di un bronzo atlantico in una tomba di Amathus, a Cipro, dà l'idea dell'ampia dimensione geografica di questi contatti interregionali. La scoperta di alcuni depositi e ripostigli contenenti lingotti e ritagli di oggetti di argento in siti fenici della Gallilea, come Tell Keisan, Tel Dor e Tel 'Akko, datati tra la seconda metà dell'XI e la metà/fine del X secolo a.C., suggerisce la ricerca di metalli, e in particolare dell'argento, come principale incentivo per le prime spedizioni fenicie in Occidente in un momento anteriore alla fase propriamente coloniale. Spedizioni che non hanno lasciato traccia archeologica nei principali bacini
minerari occidentali, sebbene la composizione di questi pezzi d'argento, ricchi in piombo, rame e oro, indichi una probabile origine nei depositi argentiferi della Sardegna o di Huelva/Riotinto. Si tratta di un evento di particolare interesse, in quanto coincide temporalmente con l'incorporazione del circuito metallifero atlantico nel circuito sardo del Mediterraneo centrale. In questo scenario si distingue per il suo significato l'argento trovato a Tell Keisan, in un contesto datato all'XI secolo a.C.; questo rinvenimento ha una particolare rilevanza perché l'insediamento si trovava nell'orbita di influenza diretta di Tiro. Considerato il complesso panorama offerto dal Mediterraneo centro-occidentale antecedente l'arrivo dei Fenici, non sembra un caso che le prime spedizioni commerciali fenicie che hanno lasciato traccia archeologica sin dalla fine del IX secolo a.C. facessero rotta precisamente verso Huelva e verso l'isola di Sardegna. Due regioni abitate da una densa popolazione indigena che controllava i ricchi giacimenti minerariometallurgici, nelle quali i primi contatti con il commercio fenicio servirono come preambolo della colonizzazione propriamente detta. La trasformazione di Tiro in una metropoli. coloniale (X-IX sec. a.C.) Nello stesso periodo, e senza che se ne conosca la causa esatta, Tiro sostituisce le altre città fenicie nell'iniziativa politica ed economica che la porterà a creare un autentico impero coloniale durante la prima metà del I millenmo a.C. Le città-stato protagoniste del grande sviluppo urbano del II millennio - Biblo, Sidone, Beirut - ormai passano a giocare un ruolo secondario rispetto a Tiro, che fino ad allora veniva menzionata meramente come semplice vassallo dei faraoni egizi ed eterna rivale di Sidone. Svariate circostanze concorrono alla trasformazione politica e socio-economica che questa città sperimenta: a) La crisi degli imperi dell'Età del Bronzo lasciò il Mediterraneo orientale libero da potenze che dominavano le rotte marittime, come Ugarit, gli Ittiti o le città micenee. Qualsiasi città con infrastrutture portuali o con una minima tradizione navale, come Tiro, approfittò del vuoto creatosi nel controllare il commercio a lunga distanza in un momento decisivo e senza concorrenti, quando la ripresa progressiva dell'economia dei nuovi Stati emersi dalla crisi del 1200 a.C. stimolava la crescente domanda di materie prime, in particolare metalli.
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Solo chi sapeva approfittare della congiuntura ed era in grado di avviare una strategia opportunistica per soddisfare questa crescente domanda possedeva le prerogative per riprendere lo sfruttamento di risorse lontane attraverso rotte già precedentemente note; b) La fondazione di Kition a Cipro, in date ancora poco ben conosciute, forniva a Tiro un'importante testa di ponte verso l'Egeo e verso il Mediterraneo occidentale. Alcuni ritrovamenti archeologici a Palaepaphos-Skales situano la presenza fenicia sull'isola sin dalla metà del X secolo a. C; c) La trasformazione di Tiro in una metropoli appare indiscutibilmente legata a una figura leggendaria, il Re 'Ahiram o Hiram I (970-936 a.C.), il quale rifondò la città unendo due isole, costruì i templi, i porti, il palazzo reale ed eresse la figura di Melqart come dio patrono e simbolo della città. Lodato dalle fonti classiche e bibliche, Hiram I è conosciuto principalmente per i suoi patti con Salomone, grazie ai quali fu garantito l'accesso diretto alle fertili terre agricole della Galilea e la collaborazione in imprese congiunte, come la costruzione del Tempio di Gerusalemme e l'organizzazione di proficue spedizioni nel Mar Rosso. Hiram I simboleggia la rinascita di Tiro e la sua trasformazione in capitale di un vasto territorio continentale, una città insulare conosciuta per la sua bellezza e monumentalità, tanto decantate e invidiate dai contemporanei: «È questa la vostra città gaudente, le cui origini risalgono a un'antichità remota, i cui piedi la portavano lontano per fissarvi dimore? Chi ha deciso questo contro Tiro, la dispensatrice di corone, i cui mercanti erano prìncipi, i cui trafficanti erano i più nobili della terra?» (Isaia 23: 7-8); «Città famosa, potente sui mari! Essa e i suoi abitanti, incutevano terrore su tutta la terraferma» (Ezechiele 26: 17); «In mezzo ai mari è il tuo dominio. I tuoi costruttori ti hanno reso bellissima» (Ezechiele 27: 4). d) Non soltanto il mare era libero da rivali e concorrenti. L'entroterra continentale non rappresentava al momento una minaccia alle aspirazioni di Tiro per il controllo del commercio interregionale terrestre. Nei secoli X-IX a.C. l'Assiria non costituiva ancora una minaccia diretta agli interessi delle città costiere e il progressivo avanzamento degli eserciti assiri dalla Mesopotamia si limitava, per il momento, alla richiesta di pagamento di tributi sotto forma di materie prime e metalli nobili. Il primo monarca assiro a raggiungere
la costa verso l'anno 879 a.C., Asurnasirpal II, si assicurò il tributo dei re di Tiro e Sidone; sulle porte di bronzo di Balawat è rappresentato il re di Tiro intento a omaggiare Salmanasar III verso l'anno 853 a.C. Solo a partire dall'VIII secolo a.C., quando le colonie occidentali sono già pienamente operative, la minaccia assira Tiglatpileser III, intorno al 745 a.C.- si tradurrà in un'aggressione diretta contro le città fenicie . e) L'archeologia conferma il salto di qualità sperimentato da Tiro a partire dal X secolo a.C. La scoperta e lo scavo della principale necropoli della città, nel quartiere di Al-Bass, localizzata sulla riva continentale di Tiro, ha permesso di analizzare, attraverso le oltre 400 tombe a incinerazione, uno dei più estesi cimiteri noti in Fenicia. Già nelle più antiche tombe, risalenti al X secolo a.C., appaiono rappresentati tutti i segmenti sociali della popolazione, dalle tombe individuali fino a quelle di famiglia con le associazioni legate al lignaggio, le tombe elitarie e le sepolture più modeste. In generale la necropoli riflette una società complessa, nella quale si manifestano chiare disuguaglianze sociali, ma che condivide uno spazio comune, in cui il rito dell'incinerazione accomuna tutti gli individui di fronte alla morte. Il recinto funerario comunitario e lo status della cittadinanza servirono probabilmente da legame tra tutti i segmenti della popolazione, costituendosi come un autentico cimitero urbano, la cui forma e contenuto contrastano con necropoli precedenti, formate da gruppi di tombe associate ai lignaggi familiari e nelle quali i rapporti di parentela prevalevano sull'uso condiviso di uno spazio collettivo. Il X secolo a.C. rappresenterebbe nelle aree urbane e negli spazi funerari di Tiro la transizione verso la città-stato. Il trattamento speciale riservato ad Al-Bass al culto degli antenati rivela l'importanza del ruolo svolto dai gruppi di parentela e dalle discendenze familiari nella costituzione della nuova società urbana. Lo stesso orizzonte pre-coloniale è stato identificato in Sardegna, dove i primi indizi di contatto con il commercio fenicio vengono rilevati nel villaggio nuragico di Sant'Imbenia (Alghero), in cui le ceramiche fenicie appaiono associate a uno skyphos greco risalente all'800 a.C. Proprio come a Huelva, la prima presenza di Fenici sull'Isola avviene in un centro indigeno, situato nelle vicinanze di importanti miniere di rame e specializzato nell'estrazione e nella produzione su larga scala di lingotti di rame per l'esportazione.
Evidentemente le origini della diaspora fenicia in Occidente sono connesse alla ricerca e allo sfruttamento dei metalli, in un periodo nel quale erano già attive alcune stazioni commerciali permanenti nel Mediterraneo orientale e nell'Egeo, come Kition a Cipro e, probabilmente, quella di Kommos a Creta. Che l'iniziativa abbia avuto successo è dimostrato dalla fondazione immediata delle prime colonie tirie in Occidente intorno o poco dopo 1'800 a.C.: Cartagine, Utica, Cadice, Morro de Mezquitilla e Sulky. Presso Utica, recenti scavi sul promontorio della città, sulla foce del fiume Bagradas, hanno messo in evidenza i resti di un edificio che conteneva un'importante serie di ceramiche fenicie, nuragiche, greche geometriche, tartessiche, villanoviane e libiche. Fino alle scoperte di Utica, la vicina città di Cartagine veniva considerata come una delle più antiche colonie fenicie del Mediterraneo occidentale. Le datazioni assolute della fine del IX secolo/inizi dell'VIII ottenute nei primi livelli del Decumanus Maximus e del settore di Bir Massouda a Cartagine sembravano coincidere con la data "storica" della fondazione della città, l'anno 814-813 a.C., descritta dai testi classici. La fondazione delle colonie di Utica e Cartagine, poste nella baia di Tunisi, indica che dopo il periodo pre-coloniale di esplorazione, i Fenici avrebbero intrapreso una politica coloniale ambiziosa intesa a garantire la permanenza in alcuni territori cruciali e l'accesso a risorse sempre più diversificate. In un primo momento, la loro posizione strategica nella baia di Tunisi e, in seguito, le risorse agricole e l'accesso ai territori dell'entroterra per l'approvvigionamento dell'avorio e dell'oro devono essere stati motivi sufficienti per l'installazione di queste prime colonie tirie. Celebre per l'importanza archeologica è il caso di Cadice, l'antica Gadir, la cui leggendaria fondazione e la mitica aura che circonda il famoso Tempio di Melqart -1' Herakleion hanno sempre attirato l'attenzione, finora infruttuosa, di archeologi, geografi e storici. Gli scavi del 2006-1 O nell'area del Teatro Comico hanno dimostrato il carattere singolare dell'antica colonia fenicia. Al di sopra di vestigia del Bronzo Finale locale, è stato individuato il livello più antico dell'occupazione fenicia nel punto più alto dell'isola Erytheia - la minore dell'antico arcipelago gaditano -, là dove le fonti classiche collocavano la fondazione tiria di Gadir. Diversi aspetti concedono uno status speciale
ai ritrovamenti effettuati nel Teatro Comico, soprattutto se confrontati con quelli emersi in altre colonie arcaiche: la trama urbanistica regolare - varie case disposte lungo una strada lastricata rivelano un chiaro impianto urbano fin dalle origini della colonia, senza dubbio un nuovo insediamento associato a una densità abitativa molto elevata - e la cultura materiale, nella quale si evidenziano le ceramiche di filiazione tiria, le più antiche delle quali si datano agli anni 800-780 a.C. L'apogeo delle colonie e il loro adattamento all 'ambiente (VIII-VII sec. a.C.) Alle prime fondazioni coloniali segue una seconda ondata di insediamenti e l'apogeo dell'impresa coloniale fenicia in Occidente. Vengono scoperti e occupati nuovi territori, nei quali la densità delle colonie riflette una vera e propria diaspora proveniente dall'Oriente, con la quale si raggiungono remote regioni come l'isola di Mogador, nel Marocco atlantico, o la stessa Lisbona, dove il ritrovamento di una stele inscritta rivela la presenza nel VII secolo a.C. di persone che parlavano e scrivevano in fenicio in piena costa atlantica iberica. Durante questa seconda ondata di fondazioni arcaiche, da collocare negli anni 770-760 a.C., si distinguono il Morro de Mezquitilla, nella costa di Malaga, considerata fino a poco tempo fa come la più antica di Iberia, e il Cerro del Villar sulla foce del fiume Guadalhorce, in una valle che costituiva la principale via terrestre che collegava il Mediterraneo e Tartessos. Presso il Morro de Mezquitilla le abitazioni costruite nel più antico livello di occupazione si distinguono per le grandi dimensioni e per le finiture di pregio. Alcune case, di 15 mdi lunghezza, contenevano all'interno fino a 16 stanze e si disponevano lungo strade a impianto regolare, un chiaro indizio di pianificazione dello spazio urbano al momento della fondazione dell'insediamento. In Sardegna, la più antica colonia fenicia fu fondata tra 1'800 e il 750 a.C. a Sulky o Sulci (Sant'Antioco), dove i materiali fenici più arcaici sono stati localizzati nell'area del Cronicario. Come Tharros, Sulky rappresenta il tipico modello centro-mediterraneo di colonia fenicia, un insediamento di grande estensione e con chiare aspirazioni territoriali, come documentato, tra gli altri, dal vicino centro di Monte Sirai. Le colonie sarde appaiono dotate di una serie di strutture e istituzioni - mura, diversi templi, il tofet,
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varie necropoli - ispirate probabilmente al modello urbano di Cartagine. Il modello centro-mediterraneo è anche rappresentato nella colonia fenicia di Mozia in Sicilia, che riproduce su piccola scala - una sorta di micro-cosmo insulare - la struttura dei grandi centri fenici e punici di Tunisia e di Sardegna. L'evidenza archeologica ne è testimone: le mura costruite nel VI secolo a.C., diversi santuari monumentali - quelli del Cappiddazzu e del Kothon - , le necropoli arcaiche a incinerazione, il tofet e, infine, un importante quartiere "industriale" dedicato principalmente alla produzione ceramica. In generale, sia la cronologia assoluta delle nuove colonie che la loro distribuzione geografica, il modello di insediamento e l'evidenza archeologica mostrano una diversificazione degli obiettivi fin dall'VIII secolo a.C. Le finalità economiche e commerciali si evolvono e mutano in base alle circostanze locali e ai cambiamenti nella domanda di prodotti agricoli e di materie prime, che in molti casi determineranno la continua ristrutturazione e adattamento di alcune colonie. Così, ad esempio, sulle cause della fondazione di Cartagine o di Mozia non fu fondamentale lo sfruttamento dei metalli o dei prodotti agricoli, bensì altri obiettivi basicamente strategici determinati dalla loro posizione sulle rotte marittime e nell'ambito del traffico navale. Per contro, le fondazioni di Cadice o Sulky sono giustificate dal controllo dell'estrazione dei metalli. Ca dice, sorta su un'isola, dominava l'accesso all'Atlantico attraverso lo Stretto di Gibilterra e, quindi, l'ingresso alla via dell'argento delle miniere di Rio Tinto e alla rotta dello stagno attraverso la costa del Portogallo. In Iberia, la più densa concentrazione di colonie fenicie arcaiche si trova sulla costa orientale dell'Andalusia, sul litorale delle province di Malaga e Granada. Questo gruppo di colonie - Cerro del Villar, Toscanos, Morro de Mezquitilla, Chorreras, Almufiécar, Adra -, domina sulle foci di fiumi e vallate alluvionali e, quindi, ha un entroterra senza risorse minerometallurgiche, mentre viceversa possiede un hinterland potenzialmente fertile per l'agricoltura intensiva. Nel caso della colonia del Cerro del Villar, che si trova su un'isola fluviale alla foce del fiume Guadalhorce, i risultati delle analisi paleobotaniche confermano la principale funzione di questa colonia fenicia: stimolare
un'agricoltura indigena su grande scala ed esercitare il ruolo di centro di redistribuzione dei prodotti provenienti dall'interno - vino, olio, cereali, pesce - verso i mercati esteri. Alcuni di questi prodotti che arrivavano dalla valle sono stati trasportati in grandi anfore locali fino a Mogador, in Portogallo e a Ibiza. Attraverso la colonia circolavano anche vino e olio di origine greca, trasportati in lussuose anfore attiche. Diverse strategie sono quindi percepibili in base al territorio e alle circostanze economiche e politiche di ogni contesto. La baia di Malaga ne è un buon esempio. Nel corso dei secoli VIII-VII a.C. la colonia principale, situata nel Cerro del Villar, svolgeva il ruolo di mercato locale di ridistribuzione e intermediazione di merci su vasta scala tra le comunità indigene dell'interno e d'oltreoceano, concentrando la sua attività principale verso un'agricoltura commerciale. La situazione soddisfaceva gli obiettivi di un insediamento coloniale orientato verso l'interno e verso le terre della valle. A partire dal VI secolo, la funzione dell'insediamento cambiò radicalmente: la popolazione si trasferì nella confinante Malaka, a soli 4 km di distanza, e qui stabilì un centro portuale chiuso verso interno da una catena montuosa ma chiaramente orientato al controllo del traffico marittimo nel pieno della rotta navale diretta allo Stretto di Gibilterra.
La società coloniale Indubbiamente la percezione dei Fenici prima di tutto come commercianti e mercanti è diventata un topos che rimane vivo sino ai nostri giorni. La visione di Omero, un difensore a oltranza dei valori e degli ideali dell'aristocrazia greca, ha avuto una certa influenza su questo aspetto. Testimone dell'arrivo dei primi Fenici nell'Egeo, Omero, il quale li detestava, considerava volgare e un insulto praticare il commercio come professione e cercare profitto attraverso lo scambio ( Odissea VIII: 159-164; XV: 455), per cui riteneva i Fenici genti senza scrupoli, corrotti e destabilizzanti (Odissea XIV: 288-320). Senza dubbio la figura del mercante rivestiva una particolare importanza nelle colonie. La presenza di pesi in piombo nel Cerro del Villar o a Ibiza rivela l'attività dei mercanti che si recavano nelle colonie con le proprie serie di pesi e bilance per fissare e misurare i valori e i prezzi delle merci. Ma l'evidenza archeologica parla principalmente di una
società molto eterogenea, formata da artigiani, trasportatori, architetti, capitani di navi, servi e anche autentiche élite, come riflesso in alcune tombe monumentali e "principesche" di Trayamar o di Cartagine. L'architettura e la forma delle abitazioni in alcune colonie rivelano importanti differenze sociali all'interno della popolazione coloniale. Così, le lussuose case di 8 o 10 stanze di Toscanos o Cerro del Villar sono in contrasto con le umili capanne di Toscanos, abitate da una popolazione di servi e schiavi, probabilmente occupata nelle mansioni portuarie o in attività di trasporto. D'altra parte, la presenza a Toscanos di un grande edificio monumentale a tre navate - l'edificio C -, impiegato come magazzino centrale di merci, molto simile a quello trovato sull'isola di Mozia, suggerisce la presenza in alcune colonie di personale amministrativo incaricato della gestione centralizzata di edifici pubblici e della circolazione delle merci. A Cadice, all'interno di una fornace domestica di una delle abitazioni sono stati scoperti una serie di sigilli in argilla: le analisi mostrano che furono applicati o fatti aderire a documenti in papiro. I sigilli, con impronte di scarabei, dimostrano l'uso regolare a Cadice fin dall'inizio dell'VIII secolo a.C. di documenti scritti in papiro, contrassegnati da anelli con sigillo e probabilmente legati all'uso di archivi cittadini o templari. Inoltre, diversi graffiti incisi su ceramica denotano l'uso di marchi commerciali o di proprietà su anfore e su altre forme ceramiche locali per il trasporto, in generale sotto forma di nomi personali o antroponimi. Tutto ciò riafferma l'uso abituale della scrittura fenicia da parte di alcuni personaggi e istituzioni amministrative che dimoravano a Cadice fin dal primo momento dell'esistenza della città. La pianificazione urbana delle colonie riflette, infine, due grandi modelli coloniali basati sulla composizione e sull'organizzazione sociale delle loro comunità. Da un lato, quello che potremmo definire un modello centro-mediterraneo, basato su Cartagine - senza dubbio la più importante colonia in Occidente-, caratterizzato dallo sviluppo di istituzioni pienamente urbane, probabilmente a imitazione della metropoli di Tiro. Fin dalle sue origini ha uno o più templi, il tofet, le mura, una grande superficie urbana e una popolazione relativamente densa. Nello stile di Cartagine, uno o più cimiteri
circondano il nucleo urbano centrale, ma la cosa più significativa è che non si tratta di raggruppamenti di tombe, ma settori funerari della stessa e comune necropoli. L'esistenza di cimiteri parla a favore di una popolazione abbastanza coesa, che seppellisce i suoi morti in quello che è considerato un recinto comunitario, condiviso ugualmente da poveri e ricchi, incinerati e inumati; restituendo l'ideologia di una comunità che esprime il proprio status collettivo di appartenenza. Su scala più modesta è lo stesso modello che si osserva in Sardegna - Sulky, Tharros, Nora ecc. - e che si svilupperà nell'estremo Occidente solo a partire dai secoli VI-V, ad esempio a Cadice o a Ibiza, con la comparsa delle prime grandi necropoli "puniche" di Punta de la Vaca e del Puig des Molins. Di fronte al modello "cartaginese", contrasta il mondo delle colonie fenicie dell'estremo Occidente. Le loro necropoli raggiungono a malapena la categoria di cimiteri, ma sono spesso solo raggruppamenti modesti di sepolture, totalmente decentrati, che nella maggior parte dei casi si distinguono per l'opulenza del contenuto, come dimostrano le grandi camere funerarie e gli ipogei di Trayamar, le urne in alabastro di importazione egiziana di Almufiécar, Lagos ecc. Presso Ayamonte, la necropoli fenicia non supera le 6 sepolture, ad Almufiécar la necropoli è costituita da solo 21 tombe a incinerazione, probabilmente di uno stesso gruppo familiar~, mentre a Chorreras le tombe arcaiche appaiono isolate singolarmente in prossimità della colonia. Se qualcosa spicca in questo mondo funerario, è la mancanza di coesione spaziale e geografica nel destino dato ai morti, l'assenza di una minima struttura organizzativa comune. In definitiva, un'ideologia funeraria tipica di piccoli gruppi sociali poco integrati, forse gruppi familiari, stabiliti in luoghi di transito e dediti al commercio su piccola scala sotto la tutela dell'amministrazione coloniale.
Nota bibliografica 1990; R u 1z-GALVEZ 1995; ARRUDA 2000; 2000; SCHUBART 2002; GONZALEZ DE C ANALES, SERRANO, LLOMPART 2004; PINGEL 2006; A UBET 2009; Lo S CHIAVO 2009; BERNARDINI 2010b; A UBET, SUREDA 2012; A UBET, N UNEZ, TRELLISO 2014; GUIRGUIS, U NALI 2016; NETO, ET AL. 2016; SCONZO 2016; FALES 2017; AUBET 2018; BARTOLONI 2018; RENDELI 2018; ESHEL, ET AL. 2019; WOOD, MONTEROR UIZ, MARTINON-TORRES 2019. BERNARDI NI
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L'isola più grande del mondo. Incontri mediterranei e oltre Alfonso Stiglitz
Gli esperti naviganti sanno bene che mai il mondo finiscee che vi sono sempre altre strade. (Paolo Bernardini)
... ho sentito dire che Biante di Priene dette agli Ioni un consiglio utilissimo: se lo avessero seguito, li avrebbe resi i più felici tra i Greci. Costui esortò gli Ioni a salpare con una spedizione comune verso la Sardegna e quindi fondare un'unica città di tutti gli Ioni; in tal modo, liberi da servitù, sarebbero vissuti felici, abitando la più grande tra tutte le isole dominando le altre. (Erodoto )
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3. Frammento di Nora, IX-VIII sec. a.e., arenaria, h 48 cm, proveniente da Nora (Pula) , Cagliari, Museo Archeologico Nazionale (foto Archivio Soprintendenza ABAP della Sardegna meridionale). Iscrizione fortemente incompleta. L'.esiguità del testo conservato non ne ha permesso l'interpretazione. L'.importanza del reperto è legata al fatto di essere, per ora, la più antica iscrizione fenicia rinvenuta in Sardegna , databile su base paleografica a un momento di poco precedente alla famosa Stele di Nora (fig. 261).
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Siamo nel 545 a.C., nel Panionio, il santuario federale dedicato a Poseidone Eliconio, sede della Lega ionica, posto sulla costa occidentale dell'attuale Turchia, presso la città di Priene. Qui si riunirono gli Ioni dopo la sconfitta con la Persia, quando uno dei "sette sapienti" dell'antichità, Biante di Priene, diede il famoso consiglio sulla Sardegna. In realtà non se ne fece nulla, ma nelle sue parole, riferite da Erodoto, è presente la conoscenza pratica dei navigatori, i quali percorrendo il Mediterraneo disegnavano con le loro narrazioni il perimetro delle coste, dei promontori e delle isole, di un mare divenuto ormai un grande stagno, come diceva Socrate, secondo Platone. D'altra parte, in quegli stessi anni un gruppo di Greci di Focea, altra città ionica posta poco più a nord di Priene, si trasferirono effettivamente in Occidente in fuga dai Persiani, per fondare una colonia in Corsica, Alalìa (Aleria) . La conoscenza geografica non si accompagna,
però, a quella della realtà politica di terre lontane come la nostra Isola, vista come luogo pronto ad accogliere colonie e transfughi, quasi fosse un luogo deserto, un'isola felice, in sostanza un miraggio. È la rappresentazione della contrapposizione, ma spesso integrazione, tra la geografia del reale e quella dell'immaginario, tra i viaggi fisici e i viaggi mentali che a partire dalle peregrinazioni di Odisseo hanno riempito di storie la mentalità antica (e anche la nostra). Storia di un'isola felice, esotica, pronta ad accogliere il civilizzatore di turno. Così ci raccontano i viaggi di Dedalo, che realizza le grandi costruzioni, di Aristeo che ci porta l'agricoltura con i suoi figli, di Norace fondatore di città e di Iolao con i figli di Eracle. Ma tra questi arriva dalla Libia l'eroe eponimo, Sardo, colui che darà il nome all'Isola e ai suoi abitanti, fino ad allora privi di una identità riconosciuta, il quale verrà, non per civilizzare, ma per mescolarsi con chi già ci abitava e creare una nuova società. Sono storie esterne frutto del tentativo dei Greci, seguiti dai Romani, di creare un Mediterraneo a propria immagine e somiglianza, nell'intento di stabilire il diritto alla fondazione di propri centri. I viaggi di Eracle che esplora il mondo conosciuto e sconosciuto, oltre le sue Colonne nell'oceano, è il meccanismo ideologico che permette ai colonizzatori di ogni tempo di trovare giustificazione e validazione per appropriarsi della terra abitata da altri, considerati poco più delle ombre. La nostra Isola diventa, grazie alla sua posizione e insieme alla Sicilia, il crocevia di ogni movimento che attraversa il Mediterraneo dalle coste orientali del mare libico e dell'Egeo, chiuse dall'Ellesponto, sino a quelle dell'Atlantico mediterraneo al di là delle Colonne del fenicio Melqart e del greco Eracle, sede delle ricchezze infinite dell'oro, dell'argento e dello stagno. La form a dell'Isola Il primato delle dimensioni della Sardegna «la più grande fra tutte le isole» nasce dalla conoscenza dei naviganti che percorrono le
A ciascuno il proprio nome Uno dei problemi più complessi quando si parla di società antiche è quello di dare un nome che le identifichi facilmente in modo comprensibile e diretto, come nel caso dei protagonisti di questo libro: Nuragici , Fenici , Punici. L'.avvertenza da tenere sempre presente è che si tratta di termini convenzionali.
Nuragici È un nome creato in età moderna per indicare i costruttori di nuraghi. Non sappiamo se queste persone avessero un nome collettivo né come si autodefinissero. In questo testo si continua a utilizzare il termine Nuragici anche per l'epoca in cui i nuraghi sono un ricordo del passato , per indicare genericamente una complessa e articolata identità culturale che, ancora nel I millennio a.e., ha richiami abbastanza riconoscibili che rimandano agli uomini della precedente epoca dei nuraghi. Fenici È il nome con il quale le popolazioni vicine, sin dal Il millennio a.e. , indicavano un complesso di persone che vivevano in città autonome - Tiro, Sidone, Gubla (Biblo), Beritus, Arwad , per citare le più note - collocate nella fascia costiera siro-libanese, compresa , grosso modo, tra il Monte Carmelo in Israele e la Siria meridionale. I vicini percepivano questi cittadini come entità unitaria per via della condivisione della
sue coste e calcolano le dimensioni sulla base del perimetro; in effetti la lunghezza delle coste dell'Isola è superiore a quella della Sicilia, che la precede per superficie. Il fatto è semplice, la forma "rettangolare" della Sardegna le fornisce un perimetro più ampio a parità, o quasi, di superficie. E la forma è una percezione precisa che hanno i naviganti che non a caso chiamano Ichnoussa ('a forma di piede') o Sandaliotis ('a forma di sandalo' ) la Sardegna e Trinakria ('con i tre capi') la Sicilia. Ma la forma di un luogo non è data solo dal suo aspetto fisico, dalla geografia delle pietre e delle sue risorse. L'arrivo dei Fenici, infatti, è dovuto anche, e soprattutto, all'accoglienza da parte di chi in quell'isola vive e la sta plasmando in una nuova forma attraverso il rapido e tumultuoso cammino della propria società: i Nuragici. Nel nuovo millennio, l'ultimo prima della nostra era, si impone una nuova geografia, sia rispetto a quella precedente nella quale era avvenuta la scoperta del grande mare, con i
lingua, della religione, delle forme politiche ed economiche; questi ultimi, invece, si individuavano come identità cittadine distinte: tirii , sidonii , gubliti e via discorrendo. In questo testo il termine viene utilizzato con due accezioni differenti: la prima indica i Fenici d'Oriente , caratterizzati dai loro movimenti verso il Mediterraneo occidentale e da una propria cultura , poi estesa nelle varie parti del grande mare; la seconda assume più a un senso cronologico e classificatorio, dato che in Sardegna, l'età fenicia è quella che vede l'arrivo dei primi gruppi orientali e dura sino all'egemonia di Cartagine.
Punici Il nome "punico" non è altro che la trascrizione latina del greco phoinikes. Nel campo scientifico il termine riguarda esclusivamente il mondo mediterraneo occidentale e indica la fase storica che vede l'egemonia di Cartagine. Nel nostro caso è usato con due modalità distinte, la prima in senso cronologico per indicare l'età punica , compresa tra la fine del VI secolo e il 238 a.e. , data nella quale convenzionalmente si fa iniziare l'età romana in Sardegna. Il secondo uso del termine va inteso, invece, in senso più ampio indicante il complesso culturale , religioso e linguistico che è andato evolvendosi in modò' originale all 'i nterno del mondo fenicio e che caratterizza questi secoli.
viaggi nuragici a Oriente e quelli micenei sino . all'Atlantico, sia nella nostra percezione, finora basata sulla visione greca, egeo-centrica. Grazie ai movimenti dei Fenici per la prima volta abbiamo la piena integrazione fra i tre Mediterranei, quello orientale, dove hanno casa questi gruppi di persone, quello occidentale dove i Nuragici svolgevano i propri movimenti marittimi grazie alla centralità della nostra Isola e, infine, il Mediterraneo atlantico, estensione geografica ma anche storica del nostro, e nel quale avviene la prima navigazione congiunta tra Fenici e Nuragici, per lo meno quella più antica attestata finora. In questo senso la dimensione delle identità fenicie, spazio di mediazione tra Oriente e Occidente, incontra la dimensione territoriale di quelle nuragiche, elemento di integrazione tra il Mediterraneo occidentale, l'Africa e la penisola iberica. Per la prima volta l'Oriente si fa Occidente, non come invasione o conquista ma come integrazione dinamica che dà vita a nuove forme culturali, frutto degli incontri tra
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4. Busto, IX-VIII sec. a.e., bronzo, h 4,2 cm , proveniente dal pozzo sacro di Santa Cristina (Paulilatino), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Si tratta di un piccolo busto terminante in una base discoidale, che probabilmente lo collegava a un oggetto più complesso. !.:insieme sembra richiamare esperienze orientali e forme nuragiche di bronzi e statue. 5. Figura femminile, IX-VIII sec. a.e ., bronzo, h 8,6 cm , proveniente dal complesso nuragico di Santa Cristina (Paulilatino), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La statuina, realizzata con la tecnica della "cera persa", rappresenta forse una divinità femminile seduta e caratterizzata da un ornamento che le circonda il collo e scende intrecciandosi verso il ventre. Altre due statuine dotate di un simile ornamento sono state rinvenute nell'Isola.
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o quello, posto a oltre 1000 metri di altezza, di Sa Domu 'e Orgia di Esterzili. I santuari divengono i nuovi centri di potere, luoghi di accumulazione dei beni suntuari e di controllo del territorio attraverso la sua sacralizzazione. S'Arcu 'e is Forros esemplifica in pieno la nuova funzionalità urbanistica e sociale dei centri cerimoniali, grazie alla presenza di architetture palesemente utilizzate per scopi cultuali, i megaron e strutture e materiali legati alle attività metallurgiche: alcune officine fusorie, matrici di fusione, attrezzature per la lavorazione dei metalli, ripostigli di materiale da rifondere, scorie e metallo grezzo, soprattutto rame e stagno. esperienze diverse che creano le nuove identità che caratterizzeranno il I millennio, attraverso attività di contatto pacifiche o violente o entrambe.
L'architettura come elemento fondante delle identità nuragiche La fine del II millennio e i primi secoli del successivo - arco di tempo che comprende le varie fasi culturali dell'Età del Bronzo Finale e di quella del Ferro - vede la fine della forma architettonica del nuraghe, ormai palesemente relitto del passato e lo sviluppo di complesse architetture, abitative e cerimoniali. Nei villaggi si assiste allo sviluppo di case multivano all'interno di centri particolarmente complessi e articolati, testimonianza del rapido cambiamento della società nuragica che, in queste fasi, parrebbe evolversi verso un processo urbano, che, con il passare del tempo, incontrerà quello di origine orientale, fenicio, che progressivamente prenderà il sopravvento. Questi secoli vedono la nascita di complesse strutture santuariali centrate, spesso, intorno ad apparati idraulici di raffinata progettazione, pozzi e fonti sacre, come nei noti casi straordinari di Su Tempiesu di Orune, Santa Cristina di Paulilatino, Santa Anastasia di Sardara, Santa Vittoria di Serri, Cùccuru Nuraxi di Settimo San Pietro, per citarne solo alcuni. Talvolta il processo avviene attraverso la rifunzionalizzazione dei vecchi nuraghi, come nel caso del Nuraghe Nurdole di Orani, nel quale il pozzo d'uso, posto nel cortile, viene trasformato in un complesso cerimoniale legato all'acqua. In altri casi il centro santuariale è caratterizzato, invece, da peculiari forme architettoniche cerimoniali e da complesse articolazioni urbanistiche, come nel caso di S'Arcu 'e is Forros di Villagrande Strisaili (fig. 10)
Le forme del contatto L'incontro tra gruppi di persone che chiamiamo con il nome collettivo di Fenici con quelli che, con nome altrettanto generico, chiamiamo Nuragici è segnato da modalità e cronologie differenti a seconda dei luoghi e del divenire delle varie e articolate comunità dell'Isola, all'epoca pienamente partecipi delle infinite attività che si estendono tra il Mediterraneo occidentale e quello atlantico. Le più antiche prove di frequentazione reciproca, finora rinvenute, rimandano all'oltremare in tre centri posti alle foci di fiumi: Utica sul Rio Bagradas, La Rabanadilla sul Guadalhorce (Malaga) e Onoba (Huelva) nel complesso sistema del Rio Tinto e dell'Oriel. Si tratta di siti africani (Utica) e iberici (Huelva e La Rabanadilla) nei quali, a partire almeno dal IX secolo a.C., compare una importante componente fenicia accompagnata da una nuragica, nell'ambito di navigazioni finalizzate a rapporti economici con le popolazioni di questi luoghi e all'acquisizione delle risorse metallifere del lontano Occidente con il suo complesso bacino ricco di oro, argento, stagno e rame. È in questo quadro che anche i primi contatti tra i due gruppi lasciano dei segni, importanti, nella nostra Isola. Agli inizi del I millennio a.C. quello sardo è un territorio fittamente popolato, dal centro dell'Isola sino alle coste, con particolare riferimento ai luoghi di transito che uniscono le varie parti del territorio per favorire e controllare il passaggio di persone, animali e beni di scambio. Il caso di Sant'Imbenia, non distante dalla linea di costa dell'ampio Golfo di Porto Conte (Alghero), è quello che meglio sintetizza il modello delle prime forme di incontro tra le
6- 7. Arciere saettante e Arciere stante , Xl-X sec. a.e., bronzo, rispettivamente h 15,8 cm e h 15,5 cm, provenienti da località Sa Costa (Sardara), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. I due bronzi raffigurano un arciere nella progressione della sua azione, compresa dell 'armare la freccia e di scoccarla. L'armatura indossata ha un chiaro richiamo orientale che rimanda, probabilmente , a esperienze del defunto come guerriero presso eserciti regolari del Vicino Oriente.
8. Toro androcefalo, X-VI II sec. a.e., bronzo, h 17 cm , lungh. 18,5 cm, proveniente da Nule, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Raffigura il corpo di un toro stante con testa umana. Il dorso e i fianchi presentano una decorazione che sembra riprodurre una gualdrappa, mentre dal collo scende una sorta di sciarpa ; sul dorso è presente un incavo forse per l'incastro di un paio d'ali d'aquila. Si notano suggestioni di ambito siriano, in particolare con riferimento ai tori androcefali guardiani delle porte delle città neoassire o alle divinità delle montagne neoittite.
comunità locali e quelle provenienti da altrove. Un nuraghe complesso che, nel volgere del millennio, vede svilupparsi un esteso e articolato villaggio, nel quale la presenza di case plurivano con corte centrale e di un'ampia struttura aperta, una piazza sulla quale si aprono vani di differente utilizzo, di rappresentanza, di produzione e di stoccaggio, ha fatto ipotizzare il salto di qualità dal semplice villaggio verso un processo interpretabile, forse, come di tipo urbano. Siamo davanti a una comunità nuragica, politicamente autonoma, che sfrutta il ricco retroterra vitivinicolo e minerario - rame e argento della Nurra - che è attiva in qualità di centro manufatturiero, come mostra il rinvenimento di forni ceramici e di ripostigli metallurgici, e di snodo mercantile, con l'arrivo di materiali di importazione e la possibile stabile presenza di persone, in particolare mercanti e artigiani, di provenienza esterna. È un modello che trova confronti nella costa orientale dell'Isola, parte integrante di uno spazio aperto marittimo, il Mar Tirreno, inteso sia come luogo fisico di navigazione, sia come crocevia di intensi rapporti culturali, economici, sociali e familiari che, sin dalle soglie del millennio, ha dato segno di profonda
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9. Brocca askoide, X-VIII sec. a.e. , ceramica , h 22 cm, proveniente da località Cungiau 'e Funtana (Nuraxinieddu}, Oristano, Antiquarium Arborense. È la tipica "bottiglia" da vino della tarda età nuragica. Le analisi biochimiche hanno confermato il suo utilizzo per la mescita. Molti esemplari sono stati ritrovati oltremare, nella penisola italiana e in quella iberica fino alle coste atlantiche in associazione con le anfore "tipo Sant'lmbenia " che erano utilizzate per il trasporto della bevanda.
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integrazione tra le due sponde. La presenza consistente di bronzi e ceramiche sarde nei centri villanoviani e, successivamente, etruschi della costa italiana, è indizio di uno stretto legame che non può essere semplicemente rinchiuso nello scambio commerciale, ma assume valenze più ampie di condivisione di esperienze culturali e sociali. Lo svilupparsi di centri nuragici costieri, soprattutto nelle foci fluviali (Posada, Orosei), non lontani dalle risorse metallifere (rame di Canale Barisone a Torpè, piombo, zinco, argento e rame del territorio di Lula a Sos Enattos e Guzzurra) legate alle vie di comunicazione verso l'interno e i grandi santuari federali ci forniscono un quadro di comunità "nuragiche" attive, politicamente ed economicamente, nel complesso circuito tirrenico. S' Arcu 'e is Forros di Villagrande Strisaili, nell'entroterra ogliastrino, può rappresentare questo modello: qui sono presenti attestati di scambio con l'Oriente, quali uno scarabeo in fai'ance egizio o egittizzante e un'anfora di tipo tirio, databile tra la fine del IX e gli inizi dell'VIII secolo, con
incisa sulla spalla un'iscrizione fenicia e un altro testo, ritenuto dubitativamente filisteo e, ancora, un segno di Tanit in bronzo (fig. 11), proveniente da un ripostiglio contenente materiali databili tra il XII e il VI secolo a.C., con precisi richiami orientali del millennio precedente e che trova ampia diffusione in Occidente in ambito fenicio, in particolare di età punica, come segno di una divinità femminile, Tanit/Astarte. Completano il quadro materiali etruschi e greci che rimandano a una piena attività almeno sino al VI secolo a.C. È un centro, questo, che ci mostra la capacità delle componenti di potere attive nel mercato, grazie al controllo delle risorse metallifere e della loro trasformazione e commercializzazione, nell'ambito di rapporti con i gruppi corrispondenti della penisola italiana, come mostra, ad esempio, l'anfora con residui di rame trovata nel mare al largo di Posada. Questo può spiegare la permanenza di comunità nuragiche politicamente autonome fino alla fine del VI secolo a.C. e ai radicali cambiamenti nei rapporti di potere nel Mediterraneo occidentale, stabiliti da Cartagine. Processi in parte simili sembrano essersi svolti nei due golfi situati alle estremità della grande pianura del Campidano: quello di Cagliari e quello di Oristano. Due aree geografiche tra le più articolate e ricche di risorse dell'intera Isola, posizionate in modo da offrire i migliori luoghi di scalo lungo le rotte: il Golfo di Cagliari nel canale di Sardegna, sulla direttrice che unisce i Mediterranei; quello di Oristano nel Mare di Sardegna lungo la rotta settentrionale verso la penisola iberica, tramite le Baleari. In questi due golfi si assiste, tra la fine del II e i primi secoli del I millennio, alla costruzione di un paesaggio nuragico nuovo, caratterizzato da una fitta presenza di villaggi e di centri cerimoniali che trasformano in modo radicale il precedente paesaggio dei nuraghi e nel quale avviene l'incontro con i Fenici. Il Golfo di Cagliari restituisce un fitto reticolo di centri abitati che dagli approdi costieri dell'attuale città - purtroppo per ora testimoniati solo da materiali ma avari di strutture - e seguendo le vie di penetrazione fluviali del Riu Mannu e del Riu Cixerri, in primo luogo, ma anche quelle terrestri, giungono alle risorse minerarie, ad esempio, lungo la direttrice che dal mare porta ai monti di Sinnai e di Burcei ricchi di metalli o, sull'altro versante, quelle che portano verso i giacimenti del Sulcis. In questi insediamenti
10. Altare conformato a modello di nuraghe, complesso di S'Arcu 'e is Forros (Villagrande Strisaili), oggi Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni". Grande altare realizzato all'interno di un edificio cerimoniale , del tipo cosiddetto a megaron. Composto da una successione di filari in pietra di differente natura e colore, al centro mostra una successione in elevazione di visi umani stilizzati e sulla sommità la rappresentazione di un nuraghe, sul quale era collocato un focolare rituale. 11. Simbolo di Tanit, ante VI sec. a.e. , bronzo, h 4,9 cm , proveniente dal complesso di S'Arcu 'e is Forros (Villagrande Strisaili), Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni ". Simbolo presente nel Vicino Oriente almeno dall 'XI sec. a.e., si diffonde in tutto il mondo fenicio . Sono centinaia le testimonianze anche in Sardegna, su vari supporti e di epoche differenti: da questo esemplare, databile intorno al VII sec. per le caratteristiche del ripostiglio del rinvenimento, a quelli di età romana presenti nei pavimenti in cocciopesto di alcune abitazioni di Cagliari. Il legame tra il simbolo e la divinità Tanit (o Tinnit) è confermato dall'associazione simbolo-nome divinità (Tanit/ Astarte) presente in una placchetta da Sarepta, centro posto tra Tiro e Sidone, databile al VII sec. a.e.
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la piena consapevolezza della propria identità culturale trova la sua naturale evoluzione nell'incontro con culture "altre" e con l'acquisizione, attiva e dinamica, di gusti provenienti da oltremare. La presenza diffusa, in particolare tra VIII e VII secolo a.C., di ceramiche importate alle quali si accompagnano imitazioni delle stesse, realizzate secondo la tradizione manifatturiera nuragica, è indice di un incontro nel quale l'integrazione rappresenta il punto focale. Particolare qualità di informazioni ci restituisce il grande insediamento di San Sperate, a pochi chilometri da Cagliari: un centro articolato con spazi abitativi, produttivi, luoghi di servizio e strade che mostrano un processo molto avanzato di urbanizzazione nuragica. La sovrapposizione del centro moderno su quello antico ci priva ancora di molti dati per poter determinare se siamo effettivamente in presenza di una città o di un centro urbano in formazione; il quadro è, comunque, sufficiente a mostrarci come questo spazio geografico dell'Isola, il Golfo di Cagliari, sia quello che più di altri può fornirci gli elementi per costruire un modello di sviluppo sociale e territoriale che ancora stenta a trovare una sua narrazione, schiacciato com'è, nella percezione, dalla monumentalità del periodo dei nuraghi. La posizione dell'insediamento di San Sperate è ideale, con la sua collocazione nell'entroterra, ma non distante dalla costa, in riferimento a un approdo che non può che essere quello di Cagliari, con un ampio retroterra agricolo e nel pieno delle vie di comunicazione tra le aree minerarie. A questo centro si affianca un insieme assai interessante di villaggi, come quelli del vicino territorio di Monastir, e il sito cerimoniale del pozzo sacro di Cùccuru Nuraxi a Settimo San Pietro, lungo la via dell'argento del Sarrabus.
Un quadro che attesta il permanere dell'autonomia culturale ed economica delle comunità nuragiche e, quindi, del controllo del potere fino a tutto il VII secolo a.C. e, in alcuni centri come Monte Ollàdiri di Monastir, almeno sino alla prima metà del VI secolo a.C., fatto questo che spiegherebbe la tarda apparizione della forma urbana fenicia in quest'area rispetto al resto dell'Isola. Infatti, solo a partire dal VI secolo a.C., a Cagliari, compaiono chiari indicatori del sorgere e dello svilupparsi di una città, che ripercorre il disegno urbanistico di Cartagine e che -nel proseguo del tempo, costruisce un territorio a propria immagine, con la fondazione dei due centri urbani interni, satelliti, di Villamar e di Senorbì. Siamo, ormai, davanti a nuovi paesaggi di potere: molti dei villaggi nuragici sono abbandonati, altri si evolvono con le • chiare forme della nuova temperie culturale, sociale ed economica come, di nuovo, San Sperate, che in quest'epoca restituisce una necropoli e un centro abitato organizzato secondo le forme fenicie. Un'evoluzione, in parte parallela e in parte differente, possiamo seguire nel Golfo di Oristano. Per l'ambito nuragico è interessante la sequenza di pozzi/fonti "sacre" lungo la costa, con i centri cerimoniali di Su Pallosu e di Sa Rocca Tunda (San Vero Milis) posti a delimitare le sponde del Korakodes portus alla base del Capo Mannu e delle sue aree salinifere, il pozzo sacro di Cùccuru is Arrius (Cab ras) sulle dune fossili a ridosso dell'approdo di Tharros, il pozzo sacro di Orri (Arborea), poco distante dal mare. Da qui verso l'interno possiamo seguire la sequenza dei santuari di Mitza Pidighi (Solarussa), Santa Cristina (Paulilatino), Losa (Abbasanta), attraverso le vie di accesso
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12. Tomba , metà VIII sec. a.e., Necropoli di San Giorgio (Portoscuso) (foto Archivio Soprintendenza ABAP della Sardegna meridionale). La Necropoli di San Giorgio, rinvenuta nella spiaggia prospicente Sulky, è la più antica area funeraria fenicia della Sardegna: composta da una decina di tombe a cista litica, all'interno delle quali i defunti venivano deposti con il rituale dell'incirierazione. Il cinerario è costituito sempre da un'anfora vi~ria accompagnata da altri vasi tra cui una coppa; un'associazione che sottolinea l'importante ruolo, anche rituale, del vino in queste epoche. La presenza di vasi che rimandano ad ambito nuragico fa pensare che ci troviamo davanti a una comunità mista che utilizza lo stesso spazio funerario.
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naturali segnate dal grande bacino idrico del Tirso e dei suoi affluenti. Vie di penetrazione che attraversano l'intera Isola e che presentano spesso forme di ritualizzazione monumentali. È il caso del percorso naturale che dalla penisola di Capo San Marco, sede del centro nuragico allora attivo a Tharros (Su Murru Mannu), conduce sino al Montiferru e al controllo delle sue risorse metallifere. La ritualizzazione è qui legata a una precisa volontà politica di controllo dell'importante via di comunicazione, attraverso la collocazione di una grande necropoli "esclusivista", Mont'e Prama, monumentalizzata con un possente messaggio politico rappresentato dalle statue a grandezza naturale, esclusivamente maschili, di guerrieri e dalle numerose "rappresentazioni" di nuraghi. Un preciso messaggio politico, segno della realizzazione di un paesaggio di potere volto al controllo delle risorse agricole della piana e di quelle minerarie del vicino monte, ribadito dalla presenza lungo la stessa via dell'importante complesso del Nuraghe S'Urachi (San Vero Milis), località centrale di questa regione e, poco più in là, dal ritrovamento di un'altra statua nel villaggio di Banatou (Narbolia). L'VIII secolo a.C. vede la diminuzione drastica degli insediamenti, possibile conseguenza dell'avvio di un processo di urbanizzazione nuragica di Tharros segnato, forse, dalla presenza di un santuario, come sembra indicarci il ritrovamento ottocentesco di bronzetti figurati (giogo di buoi e navicella) erroneamente attribuiti alle tombe fenicie. Contemporaneamente, l'arrivo di gruppi orientali innesca un processo di grandi
cambiamenti che può essere letto agevolmente nella ceramica restituita dal sito di S'Urachi. Qui assistiamo al progressivo emergere, fino a tutto il VII secolo a.C., di forme e manifatture che abbandonano la tradizione "nuragica", senza dimenticarla, a favore di quella "fenicia". A fine VII secolo a.C., la transizione territoriale sembra completata con la comparsa a Tharros di precisi indicatori, quali il tofet e le necropoli a incinerazione strutturate: sono il segno dell'avvenuta trasformazione urbana verso le nuove forme che, convenzi~lmente, definiamo fenicie. Completamente differente è il processo che avviene nella costa sud-occidentale dell'Isola, dove i rapporti commerciali ben presto si trasformano in presenza stabile, con l'avvio di un dinamico e articolato processo di urbanizzazione che si inserisce in quello nuragico e ne trasforma i modi, le forme e soprattutto il complesso mondo sociale. Nei primi decenni dell'VIII secolo a.C., infatti, compaiono i forti indizi di una città strutturata nell'isola, quasi penisola, di Sant' Antioco, sulla costa sud-occidentale della Sardegna. Il centro di Sulky, collocato all'interno dell'attuale abitato, restituisce i tipici parametri di uno spazio urbano fenicio: un tofet funzionante e una complessa struttura ortogonale. La città viene fondata, come di consueto, nell'ambito di un centro nuragico attivo: per questo la struttura sociale del "nuovo" insediamento presenta elementi di commistione che fanno pensare a una compartecipazione delle due comunità, tale da portare in breve tempo a unioni familiari e sociali. La presenza di ceramiche di tipo nuragico e di tipo "ibrido" (fenicio -nuragico), sia nella struttura abitativa, sia nel tofet, testimonia la condivisione anche dei rituali fenici più esclusivi. Il dato è confermato dal ritrovamento, nelle dune di sabbia sulla terraferma di fronte alla città, in località San Giorgio (Portoscuso), di una piccola necropoli con tombe a cista di incinerati sepolti secondo rituale e corredi tipicamente fenici, ma nei quali la presenza di contenitori nuragici ci narra chiaramente di una comunità mista (fig. 12). Sulky non è, però, un centro semplicemente abbarbicato all'estremità della Sardegna e proteso come punto di appoggio per la rotta verso Occidente; è anche il porto di acquisizione ed esportazione delle ricchezze piomboargentifere del Sulcis, volto verso l'interno dell'Isola, a controllo di quei giacimenti.
Sin da subito, tra VIII e VII secolo a.C., la precoce installazione urbana porta alla creazione di un autentico "distretto fenicio" con la comparsa di centri satelliti, quali Monte Sirai, Pani Loriga e altri. Una struttura territoriale nella quale il rapporto e, in certi casi, la simbiosi con il mondo nuragico è avanzata, come nel Nuraghe Sirai, che in questa fase viene rimodulato con una struttura nella quale le due tradizioni, nuragica e fenicia, appaiono strettamente connesse e difficilmente distinguibili (fig. 15). Ma è, anche, un centro con indizi sul fatto che il processo di contatto e commistione non dovette essere sempre pacifico: se da un lato abbiamo segni di una integrazione riuscita, dall'altro la presenza di una nuova struttura difensiva intorno al nuraghe è la testimonianza di una forma di potere non risolto con alcune tensioni tra comunità. Sbaglieremo, però, a pensare a "conflitti di civiltà"; è meglio indirizzarci verso paesaggi di potere, in funzione del controllo delle ricche risorse, di cui ancora ci sfuggono i contorni. Nella parte opposta dell'Isola, Olbia presenta una precoce e complessa urbanizzazione fenicia a metà dell'VIII secolo a.C., ma della quale non si conoscono né la forma né l'entità, essendo testimoniata esclusivamente dai materiali. Alla metà del secolo successivo sembrerebbe diventare una città greco-focea, per poi entrare nella sfera di Cartagine alla fine del VI secolo a.C. I dati purtroppo non permettono di sapere se, anche qui, la partecipazione della comunità nuragica sia attiva o meno come farebbe pensare la sua collocazione a controllo dell'importante e articolato luogo di transito verso il Tirreno, magari in connessione con altri centri di scambio come Posada.
ben difeso dalla sua insularità, determinante per la sua identità, che si oppone, soccombendo, alle armi dell'invasore di turno. Si tratta di modelli che non trovano riscontro sul terreno della ricerca archeologica e che non permettono di affrontare, analizzare e capire il complesso processo che coinvolge le persone e le società protagoniste nel Mediterraneo. In questo testo si è volutamente evitato l'uso del termine "Civiltà", sia per i Nuragici sia per i Fenici; solo così, infatti, con l'abbandono di questo concetto ottocentesco di stampo colonialista, volto a stabilire una gerarchia tra società alte e basse, finalizzato al moderno dominio, possiamo optare per modelli aperti nei quali alla pluralità di comportamenti culturali, sociali ed economici, si associa la pluralità di domande che le persone protagoniste di questi tempi si pongono e la molteplicità di risposte che si danno. Un percorso di ricerca nel quale le "merci", gli oggetti, non sono un indicatore etnico, identitario, ma uno strumento polivalente e dalla molteplicità di significati che permette al produttore, al committente, al mercante e all'utilizzatore di appropriarsi dell'oggetto e di trasformarne il significato sulla base delle proprie esigenze. Siamo davanti a realtà>·sarde, diversificate e diverse, che si incontrano con mondi altri altrettanto diversificati e diversi, con modalità da indagare luogo per luogo. L'incontro, lo scambio e la convivenza trasformano tutti gli attori, creano soggetti nuovi, e, contemporaneamente, attribuiscono a ciascuno nuove identità, restituendoci l'immagine della Sardegna non solo come «la più grande tra tutte le isole» (Erodoto), ma anche, e soprattutto, complessa «quasi come un continente» (Marcello Serra).
La «Sardegna quasi un continente» Dalla sintetica descrizione appena fatta, emerge con chiarezza che per capire cosa sia avvenuto in Sardegna nella prima metà del I millennio che precede la nostra era è indispensabile abbandonare il modello classico di tipo diffusionista/colonialista dell'incontro/scontro di "Civiltà", nel quale una "Civiltà" orientale, i Fenici, si riversa nello spazio di una "Civiltà" occidentale, i Nuragici, trasferendo la propria "superiore" cultura a degli "indigeni" che iniziano a emergere dalle brume della preistoria. Allo stesso tempo va abbandonato il modello resistenziale di una "Civiltà", quella nuragica, chiusa in uno spazio
Le due citazioni iniziali sono tratte: la prima da BERNARDINI 2009, p. 191, la seconda da Erodoto I, 170, 1-2; quella finale è di SERRA 1958. Per i vari temi toccati si può sinteticamente rinviare ad alcune pubblicazioni dalle quali può essere reperita una più completa bibliografia: TORE 1992; CHW 2002; BONNET, KruNGs 2006; BERNARDINI 2009; MINOJA, USAI 2014; MINOJA, SALIS, USAI 2015; BERNARDINI 2016; GUIRGUIS 2017c; Cossu, PERRA, USAI 2018; STIGLITZ 2018.
Nota bibliografica
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Nel vasto prato comunale (Su Padru) destinato a usi comunitari, posto alle porte del centro abitato di San Vero Milis (OR), si trova il complesso monumentale di S'Urachi ('il nuraghe'). Posizionato ai piedi dell'ampio terrazzo alluvionale sul quale sorge il paese, oggi si innalza per soli cinque metri di altezza, a causa del suo riutilizzo millenario come cava di pietra e di terra per la realizzazione di mattoni crudi. Della struttura nuragica è visibile il possente antemurale, realizzato in blocchi di basalto messi in opera a secco su filari regolari. La muraglia, composta da dieci torri connesse tra loro da brevi tratti murari rettilinei, ha pianta circolare, di circa 45 m di diametro ed è dotata di almeno una porta di pregevole fattura. Al suo interno è presente il nuraghe vero e proprio del quale, allo stato attuale, sono state individuate due torri. All'esterno dell'antemurale doveva essere presente un villaggio di cui, per ora, si hanno solo alcuni indizi. Tra la fine del II millennio e i primi secoli del I millennio a. C. una parte della struttura nuragica venne ristrutturata con la realizzazione di un muro in opera isodoma, cioè costruito con filari regolari di blocchi squadrati, in parte di riutilizzo, che si poggia su una delle torri, occultandone una finestrella.
13. S'Urachi (San Vero Milis).
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Il muro, dotato di un ingresso, delimita un cortile lastricato che monumentalizza questa parte dell'antemurale, nella quale si apre la porta che in questa fase è, probabilmente, l'ingresso principale al nuraghe. È possibile che questo spazio definito dal muro isodomo, comprenda anche una struttura di tipo cerimoniale, confrontabile con una situazione simile rinvenuta nel Nuraghe La Prisgiona di Arzachena, nel quale la monumentalizzazione coinvolge una Capanna delle riunioni. Nel I millennio a.C. al complesso monumentale nuragico si accompagnano all'esterno, ma probabilmente anche all'interno, un insieme di strutture con funzioni abitative, produttive e religiose. Particolare sorpresa ha destato il ritrovamento, a poca distanza dal tracciato della muraglia turrita, di un fossato delimitato da sponde in pietra e, tuttora, ricco di acqua proveniente dalla potentissima falda superficiale. Non è ancora chiaro il suo tracciato né la sua utilità: se si tratti cioè della canalizzazione di un antico ruscello per il drenaggio della falda o se questa funzione, fondamentale per la salvaguardia della possente struttura basaltica, sia stata accompagnata anche da finalità difensive, in un'epoca di grandi e decisivi cambiamenti
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14. Torciere, VIII-VII sec. a.e. , bronzo, h 26 cm , proveniente da località S'Urachi (San Vero Milis), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Si tratta di un supporto rituale, la cui definizione e uso è ancora oggetto di discussione: per alcuni è thymiaterion o bruciaincensi, collegato a funzioni rituali attestate su sigilli o rilievi, per altri è invece un torciere. La tipologia del manufatto è legata al mondo feni cio, ma la produzione potrebbe essere locale: dei sei esemplari finora rinvenuti in Sardegna tre provengono da siti fenici (Sulky, Bithia e Othoca), tre da ambiti nuragici (S'Urachi, Santa Vittoria , Tadasuni). Costituisce comunque un oggetto di alto pregio, un autentico status sym bol: simili oggetti sono stati rinvenuti nelle tombe reali della città fenicia di Sidone.
nffm:ei-pam saai e
frammenti di almeno cinque statue fittili, quattro delle quali raffiguranti la divinità egiziana Bes e un personaggio africano dalla pelle nera (figg. 412-413, 416-420). I ritrovamenti fanno pensare alla presenza di una struttura votiva di ambito punico, legata a culti agrari, probabilmente da rinviare alla figura femminile di Tanit, riletta dai greci come Demetra. Interessante è la documentazione proveniente dallo studio dalle ceramiche e, in particolare, dall'evoluzione delle manifatture artigianali. In questa prima fase, riportabile tra la fine dell'VIII secolo a.C. e la prima metà del VII secolo a.C., sono presenti vasi di tipo naragico e altri di tipo fenicio, definibili come tali sia dal punto di vista della forma sia da quello della tecnologia utilizzata. Quasi da subito si avvia una lunga e complessa attività nella quale le due manifatture vanno mescolandosi, con la formazione di una nuova tradizione non più riportabile gerarchicamente a quelle di partenza. Nel VI secolo a.C. ormai le nuove produzioni rimandano quasi esclusivamente a tipologie di tradizione fenicia. Un processo storico che vede, dunque, la popolazione di questo centro modificare, pian piano, le proprie tradizioni di provenienza per costruirsi una nuova identità. Il centro è vitale senza soluzione di continuità sino agli inizi dell'età imperiale romana. Segue l'abbandono, forse a favore del vicino centro di San Vero, in posizione più elevata e, quindi, meno soggetta al ristagno delle acque di falda e meteoriche.
Nota bibliografica Sugli scavi vedi STIGLITZ, ET AL. 2015 e VAN DOMMELEN, ET AL. 2018b, con la bibliografia precedente; sulla documentazione relativa all'utilizzo votivo di una parte delle strutture vedi STIGLITZ 201 2a; IBBA 201 8; sull'evoluzione ceramica vedi ROPPA, HAYNES, MADRIGALI 201 3.
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15. Planimetria ,anemie dell'insediamento del Nuraghe Sirai (Garbonia). SuUa sommità della collina si nota il complesso nuragico; a nord di esso il villaggio interno; in grigio scuro la muraglia recintoria, in grigio chiàro le fortificazioni (rilievo ed elaborazione M. Mascia, M.A. Demurtas).
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architettoniche, quella nuragica e quella fenicia, in un'unica riorganizzazione (fine VII sec. a.C.). Dall'esterno verso l'interno, si osserva una schiera di vani rettangolari e paralleli (blocco a) appoggiati alla muraglia e serviti da una strada anulare (strada 1, strada 2). Mentre il settore centrale sembra impostato su assi ortogonali e planimetrie rettangolari (area T]), sia nel settore orientale che in quello occidentale troviamo gli esempi della continuità con l'esperienza nuragica, che viene tuttavia innovata: la planimetria tipica di questo periodo è grosso modo trapezoidale o semicircolare, con l'ingresso compreso fra due ante rettilinee. Gli "isolati" mantengono un perimetro circolare (come nel periodo precedente), ma lo spazio non è più distinto fra la corte centrale e i vani aperti verso di esso; il blocco O, ad esempio, è diviso in due settori semicircolari, ciascuno dotato di corte. Quando gli "isolati" sono frutto di una ristrutturazione di costruzioni più antiche, gli edifici circolari vengono rettificati, integrati con ambienti rettangolari o rielaborati in planimetrie ellittiche finora non sperimentate. È il caso del blocco y, alle spalle della porta, composto di una sequenza di vani legati fra loro: due circolari, ma con un lato rettilineo, e un edificio ellittico bipartito. Accanto a esso si incardina un blocco di due ambienti rettangolari che includono un 15
17. lpotesl a i ~
detl"tnsediam'entiI11et~ Sirai attorno al 600 &~ Buona parte della ricostruzione si basa su dati verificati dallo scavo>.un'altra parte è frutto di ipotesi. Sulla cima della colHna, il Nuraghe poteva essere in parte crolleto, oppure, come neU'illustrazione, ancora almeno palZiatmente in piedi e utilizzato: si è immaginato che le torri più basse venissero conservate, con la manutenzione, simili alle origini; la torre centrale, invece, come dimostrano gli scavi, fu mantenuta in piedi nonostante la perdita di una parte del suo spessore; ipotizziamo allora che l'altezza potesse essere completata con una balaustra di legno. Ai piedi del Nuraghe e della muraglia di protezione turrita (antemurale) si sviluppava, su terrazze, il villaggio interno: un intricato tessuto di piccoli insiemi di edifici costruiti soprattutto in pietra, ma anche, in molti casi, con mattoni crudi e pisè (terra cruda in cassaforma) negli elevati. La loro destinazione era soprattutto produttiva. Molte planimetrie e molte costruzioni continuarono, innovandola, la tradizione dell'architettura nuragica, spesso integrando edifici più vicini alla tradizione fenicia. In questo settore diversi blocchi gravitano intorno all'area sacra: notiamo un piccolo tempio, intonacato di bianco, fronteggiato da un edificio destinato probabilmente alla macellazione delle carni, con la straordinaria officina del vetro alle sue spalle. In primo piano campeggiano le fortificazioni, con un cammino sopraelevato realizzato su terrapieni ; tutta la possente struttura si appoggia alla muraglia circolare che circondava il villaggio più antico. Al centro, sorvegliata da due torri laterali, troviamo una piccola porta che consentiva solo l'ingresso pedonale e, attraverso vani e scalini interni, conduceva al villaggio (consulenza C. Perra).
preesistente vano circolare (blocco p). L'edificio ellittico ospita un piccolo tempio che ingloba, colmandola, una preesistente rotonda nuragica (950-730 a.C. ), mentre restano in funzione la superficie del sedile, un bacino per l'acqua, e una parete circolare di blocchi squadrati.All'esterno si trova un motivo decorativo a spina di pesce composto con lastrine di pietra bianca; nello spazio antistante si erige un altare quadrangolare in muratura. Oltre agli arredi fissi, gli unici oggetti sacri recuperati sono alcuni amuleti e oggetti votivi in bronzo (uno stiletto, un bracciale e un frammento di spada). Il settore meridionale dell'ellisse, diviso da un muro, è invece occupato da un'officina per la lavorazione del vetro, dotata di una serie di installazioni riferibili all'intero ciclo di lavorazione (vedi in questo volume, "L'officina del vetro del Nuraghe Sirai"). Il vicino edificio (blocco~), in base al rinvenimento di fornaci mobili in terracotta, di un sistema di fosse e canalette che proseguono sotto il piano pavimentale, di un focolare in pietra, e della inusuale quantità di ossa animali
. ~ L i ,. per,:là~ Ogni ambiente fino r a ~ dtiiiìie.Jia restituito installazioni al'tigianati di vario tipo, in buona parte legate al ciclo del vetro ma anche a quello della trasformazione dei metalli (fornace nell•officina del vetro, scorie di ferro, colature di piombo), della calce, delle pelli e anche della ceramica, con la prima fornace del periodo fenicio e punico ritrovata sul suolo isolano. La tipologia dell'insediamento (villaggio fortificato), inedita in ambito sardo, trova confronti significativi nell'Oriente fenicio, e si spiega con la sua specializzazione, nella quale le fortificazioni sono un elemento di protezione, perlopiù simbolica, delle stesse attività-e dei suoi prodotti; la sua ragion d'essere si trova nel sistema territoriale nel quale è inserito e cioè un'organizzazione gerarchica, dominata dal centro urbano di Sulky, e nella quale la fortezza costituisce la parte produttiva del comprensor_io di Monte Sirai, a sua volta legato al controllo dello snodo fra il tratto meridionale e quello settentrionale della via Sulcitana e degli accessi alle vie minerarie. La struttura della fortezza, la presenza contemporanea di due tradizioni architettoniche, quella nuragica e quella fenicia, a volte miscelate in una tradizione innovativa, e infine la produzione ceramica, che in parte continua le due tradizioni di partenza, e in parte crea un nuovo e originale repertorio, definiscono una nuova fase culturale, quella del Ferro II di Sardegna, nella quale il termine "ibrido" significa produzione di nuove forme, di uno stile nuovo e misto (anfore "tipo Nuraghe Sirai") e scambio di saperi e tecnologie, utilizzati in filiere produttive ormai unificate.
Nota bibliografica P ERRA P ERRA
2005; P ERRA 2009; P ERRA 2013; P ERRA 2014; 2016a; P ERRA 2016b; P ERRA 2019; P ERRA c.s.
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I primi contatti tra Fenici e Nuragici: la produzione e il consumo di vino Massimo Botto
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Le prime attestazioni di Fenici in Sardegna si collocano all'interno di un più vasto movimento di genti che dalle coste del Vicino Oriente, dall'Egeo e da Cipro investe il Mediterraneo centro-occidentale nel periodo di passaggio fra il II e il I millennio a.C. La riconoscibilità dell'elemento fenicio nell'ambito di questo articolato processo di irradiazione da Oriente verso Occidente si manifesta pienamente nel IX secolo a.C. grazie alla politica di espansione commerciale avviata dalla potente città di Tiro nell'area siro-palestinese e nel Mediterraneo orientale già nel corso del secolo precedente. La rapida crescita degli interessi fenici in Sardegna si deve essenzialmente a due fattori: il primo riguarda la posizione strategica dell'Isola sulle rotte che collegavano il Mediterraneo centrale alla penisola iberica da un lato e l'Italia tirrenica al Nord Africa dall'altro; il secondo fattore si riferisce invece all'elevato grado di organizzazione raggiunto dalle comunità nuragiche capaci di gestire le ricchezze economiche dei territori di loro competenza e di generare un surplus di beni destinati ai commerci locali e internazionali. Il consolidamento di antichi approdi su rotte commerciali già attive nel Bronzo Finale (1150-950 a.C. ca.) e la consuetudine ai contatti con gruppi allogeni da parte delle comunità nuragiche che detenevano il controllo dei settori costieri e sub-costieri dell'Isola sono elementi dirimenti per comprendere le strategie commerciali e insediative dei Fenici in Sardegna tra la fine del IX e l'VIII secolo a.C. Tre sono le aree dell'Isola in cui risultano più evidenti i segni dei primi contatti avviati dai Fenici con le popolazioni locali: il tratto costiero compreso fra il Golfo di Cagliari e le isole di Sant' Antioco e San Pietro, il Golfo di Oristano e, più a nord, il Golfo di Alghero. Recentemente, inoltre, le indagini hanno evidenziato l'importanza della costa orientale sarda, soprattutto nel Golfo di Olbia e nel settore compreso tra la foce del Cedrina e il Fiume Mannu.
L'incontro dei Fenici con le comunità nuragiche segue modalità già ampiamente sperimentate dall'elemento orientale nell'area siro-palestinese e nel quadrante orientale del Mediterraneo basate sullo "scambio di doni" e sulla "condivisione dei saperi". In una fase iniziale dei contatti lo scambio di doni rappresenta la pratica più efficace per stabilire alleanze e instaurare rapporti pacifici e propedeutici alle transazioni commerciali. Con l'evolversi dei contatti, tuttavia, il confronto tra i protagonisti si amplia investendo la sfera ideologica e religiosa, l'organizzazione delle attività economiche, le capacità tecniche: due mondi si aprono l'uno all'altro e nella "condivisione dei saperi" creano le basi per una realtà diversa, l'humus per la nascita di una nuova cultura, sardo-fenicia, che si afferma sull'Isola nel corso della Prima Età del Ferro (950/930-750/730 a.C. ca.). Lo scambio di doni prevedeva un cerimoniale ben codificato all'interno del quale il consumo di vino rivestiva un ruolo centrale. Si tratta di una pratica introdotta in Occidente molto verosimilmente durante la lunga stagione dei commerci micenei (XV-XIII sec. a.C.). Sull'Isola, tuttavia, per queste fasi storiche il vino «non pare assumere sostanzialmente un valore ideologico-sociale sufficientemente diffuso ... presso le élites, per lo meno in confronto alle contemporanee civiltà egee e orientali con le quali la Sardegna era in fitto e fecondo contatto» (D'ORIANO 2018, p. 137). Tale situazione sembra mutare in modo radicale con il volgere del nuovo millennio sia per i cambiamenti strutturali che investono le comunità nuragiche nel passaggio dal Bronzo Finale alla Prima Età del Ferro sia per l'intensificarsi dei contatti fra Oriente e Occidente mediterraneo. L'insieme di questi fattori favorì la condivisione di tecniche in vasti campi del sapere: dalla nautica all'agricoltura, dalla metallurgia e metallotecnica alla produzione ceramica. A partire da questo periodo anche le attività
18. Anfora da trasporto, metà VIII-primi decenni VII sec. a.e., ceramica, h 4 7 cm, proveniente da Bithia (Domus de Maria), Carbonia, Museo Comunale Villa Sulcis. !.'.esemplare si inquadra nelle più antiche serie anforiche di ambito coloniale fenicio prodotte in Sardegna , che si affiancano alle anfore del "tipo Sant'lmbenia", frutto della precoce collaborazione fra artigiani di estrazione orientale e omologhi nuragici.
vitivinicole subirono un rapido sviluppo presso le comunità sarde. La richiesta da parte dei Fenici di ingenti quantità di vino da esportare sui principali mercati internazionali deve aver innescato un meccanismo virtuoso che nel giro di pochi decenni portò a un incremento della viticultura sull'Isola e a un miglioramento della qualità del vino prodotto. Indizi particolarmente probanti di tali attività provengono dagli scavi nel villaggio nuragico di Genna Maria di Villanovaforru, dove sono stati recuperati in alcuni vani vinaccioli attribuibili alla sottospecie vinifera. In uno di questi, sono state messe in luce strutture che potrebbero essere state utilizzate per la spremitura dell'uva, il cui succo doveva confluire in una vasca in marna munita di versatoio e infossata sul pavimento. Più controversa risulta invece l'attribuzione del cosiddetto torchio per vinacce della capanna 46 del complesso nuragico di Monte Zara di Monastir. Tale manufatto, infatti, è stato anche interpretato come vasca di decantazione per l'olio. In proposito si deve osservare che al momento dello scavo non sono stati recuperati vinaccioli negli spazi all'interno della capanna, contrariamente a
quanto normalmente riscontrato in contesti deputati alla produzione di vino. Per tale motivo, e in attesa della pubblicazione delle analisi biochimiche sui residui organici rinvenuti nella vasca, è lecito mantenere una doverosa prudenza sull'utilizzo del manufatto. A questi dati, entrati da tempo in letteratura, si devono affiancare quelli provenienti dalle ricerche sui "pressoi" litici e sui palmenti, che seppure a uno stato embrionale contribuiscono ad arricchire il quadro delle conoscenze sullo sviluppo della vitivinicoltura in Sardegna. Si tratta infatti di due tipologie di manufatti, ampiamente diffusi sull'Isola, funzionali, molto verosimilmente, alla produzione di vino. In effetti i "pressoi" litici, ben documentati negli insediamenti nuragici, potrebbero essere stati utilizzati per la pigiatura dell'uva. Riguardo ai palmenti, il tipo più comune risulta costituito da un sistema di due vasche, una per la pigiatura e l'altra per la raccolta, comunicanti grazie a una canaletta. Sulla loro origine permangono ancora dubbi, anche se sembrerebbe accertata una continuità di utilizzo dall'Età del Bronzo sino a periodi molto recenti. La forte domanda di prodotti alimentari e di vino da parte dei Fenici deve aver generato profondi cambiamenti nei processi produttivi delle comunità nuragiche, come evidenziato dalle recenti indagini a Sant'Imbenia, nella Sardegna nord-occidentale. Grazie agli studi condotti presso questo insediamento è possibile cogliere un aspetto fondamentale dell'irradiazione fenicia nell'Occidente mediterraneo, che prevedeva il graduale inserimento di elementi allogeni all'interno delle comunità locali. Si tratta di una strategia commerciale ampiamente attestata nel Vicino Oriente sin dall'Età del Bronzo e utilizzata dai Fenici nell'area siro-palestinese e nelle imprese transmarine. A Sant'Imbenia sul finire del IX secolo a.C. agenti fenici entrarono in contatto con le élite locali con le quali negoziarono e ottennero, verosimilmente attraverso lo "scambio di doni", la disponibilità di spazi all'interno del villaggio dove poter realizzare le proprie attività. I mercanti fenici si resero ben presto conto delle notevoli risorse alimentari e metallifere della Nurra e organizzarono in accordo con i capi locali un commercio su vasta scala in grado di soddisfare le esigenze delle principali comunità interessate dall'irradiazione fenicia in Occidente, disposte su un areale molto vasto compreso fra il Golfo di Tunisi e l'Andalusia
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19. Tripode, VII-VI a.e., ceramica, h 6,5 cm , 0 15,2 cm, complesso monumentale di S'Urachi (San Vero Milis), San Vero Milis, Museo Civico . Si tratta di una forma fenicia utilizzata per la triturazione delle spezie . Il suo uso è legato al vino e alla modalità orientale di berlo. Il tripode costituisce assieme alle anfore di "tipo Sant'lmbenia " e agli askoi (bottiglie) nuragici il set completo per il trasporto , la mescita e il consumo del vino.
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20. Askos, IX-VIII sec. a.e., ceramica, h 13 cm, proveniente da Nuraghe Funtana (Ittireddu), Ittireddu, Museo Archeologico ed Etnografico. Questo tipo di brocca, che si diffonde in Sardegna a partire dalla Prima Età del Ferro, era parte di "servizi" di ambito cerimoniale deputati al consumo del vino. La sua funzione è awalorata dalle analisi biochimiche condotte su alcuni esemplari di contesto insulare, che hanno evidenziato tracce di acido tartarico.
atlantica. Per il trasporto via mare delle merci venne realizzato sul posto un nuovo tipo di contenitore, l'anfora, del tutto estraneo al repertorio locale, ma ben conosciuto sin da epoche molto antiche in ambito vicino orientale, dove risulta destinato in modo specifico allo stivaggio su nave (fig. 18). I confronti più prossimi per le anfore prodotte a Sant'Imbenia sono stati individuati nella Galilea settentrionale, terra a forte vocazione agricola e serbatoio di risorse alimentari per le popolose città costiere della Fenicia meridionale. È probabile che le prime serie anforiche realizzate nel villaggio della Nurra derivino da prototipi del Ferro II iniziale di Hazor (strati VII-V), ma è altrettanto evidente come i confronti non siano puntuali, dal momento che si tratta di elaborazioni frutto dell'incontro di differenti tradizioni artigianali. La maggior parte delle anfore è stata realizzata a mano con l'aggiunta degli orli e delle anse dopo la foggiatura del corpo. La presenza di artigiani orientali è comunque testimoniata dall'introduzione a Sant'Imbenia della tecnologia del tornio e dal particolare trattamento impermeabilizzante delle superfici esterne dei vasi con argilla ferrosa semiliquida che dopo la cottura assumeva il caratteristico aspetto rosso brillante, tipico delle produzioni fenicie in Red Slip (a ingobbio rosso). Questo trattamento è riscontrabile su un'alta percentuale di anfore destinate in modo specifico al trasporto di sostanze liquide e semiliquide. Molti altri insediamenti nuragici oltre a quello di Sant'Imbenia parteciparono alla diffusione dei prodotti sardi all'interno della rete commerciale organizzata dai Fenici in Occidente. Recenti indagini hanno evidenziato la presenza di anfore "tipo Sant'Imbenia" in ampi settori costieri e sub-costieri dell'Isola, con significative concentrazioni nell'area sulcitana, nel Golfo di Oristano e sulla costa orientale nel tratto di mare compreso fra Posada e Orosei. Con il progredire degli studi il fenomeno ha raggiunto dimensioni sempre più ampie e le nuove scoperte, soprattutto nel Golfo di Tunisi (Utica, Cartagine) e nella Spagna meridionale (La Rebanadilla, Cadice, Huelva), hanno chiarito come l'esportazione di vino sardo si accompagni alla diffusione di set per il suo consumo. Una forma in particolare sembra attestare meglio di altre il portato della cultura nuragica nelle cerimonie pubbliche in cui si consumava vino: la brocca askoide. La sua funzione sembra avvalorata non solo dalla costante
21. Askos, IX-VIII sec. a.e., lamina di bronzo e fusione, h 26 cm , proveniente dal sacello del complesso nuragico di Sa Sedda 'e sos Carros (Oliena) , Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni". L.'.esemplare rappresenta una delle massime e più originali espressioni della bronzistica nuragica ed è una delle rare testimonianze rimaste di "servizi " da vino in bronzo impiegati nel corso di cerimonie pubbliche nelle quali il consumo della bevanda alcolica assumeva particolare rilievo.
associazione con le anfore "tipo Sant'Imbenia" nei contesti extra-insulari precedentemente citati, ma anche dalle analisi biochimiche condotte su alcuni esemplari rinvenuti in Sardegna che hanno evidenziato tracce di acido tartarico, cioè di vino (fig. 20 ). Sull'Isola accanto alle brocche in ceramica compaiono esemplari in bronzo da esibire nel corso di cerimonie pubbliche. Fra gli esemplari più antichi si segnalano quelli di Santa Maria in Paulis e del pozzo di Santu Antine di Genoni, seguiti dall' askos a due colli, di cui uno configurato a protome taurina, del villaggio nuragico di Sa Sedda 'e sos Carros (fig. 21 ) e dalla brocca askoide del Nuraghe Ruju di Buddusò. Quest'ultima è caratterizzata da una palmetta di tipo fenicio alla base dell'ansa, che richiama prototipi vicino orientali ben presenti all'artigiano che la realizzò molto verosimilmente fra l'ultimo quarto dell'VIII e la prima metà del VII secolo a.C. (fig. 22). La lavorazione di bronzi di uso cerimoniale è senza dubbio uno degli aspetti più importanti delle attività artigianali che si svolgevano all'interno delle comunità nuragiche. Durante
la Prima Età del Ferro nuove tipologie di manufatti connesse alla pratica del banchetto vengono introdotte sull'Isola grazie ai contatti avviati con mercanti provenienti dalla Fenicia e da Cipro. Un contesto particolarmente significativo da questo punto di vista è rappresentato dalla cosiddetta sala del consiglio, presso il tempio a pozzo di Santa Anastasia di Sardara, dove nel corso del IX e dell'VIII secolo a.C. venivano celebrate cerimonie pubbliche in cui si consumavano ingenti quantità di carne e di vino. Fra i manufatti recuperati durante gli scavi e destinati a tale scopo figurano due bacili con anse con terminazioni a fiore di loto: uno a vasca profonda e uno a vasca ribassata decorato all'interno con il motivo a "denti di lupo", estraneo alla tradizione nuragica e invece presente nell'artigianato fenicio in metallo pregiato e in bronzo (figg. 24-25 ). Un terzo manufatto di pregio riguarda una situla in bronzo con ansa mobile "a ponte" e attacchi a spirale, in cui è documentato un restauro operato in antico che attesta il grande valore simbolico rivestito dal vaso presso la comunità locale (fig. 28). Il consumo di vino è indiziato da un rinvenimento eccezionale: si tratta di un personaggio seduto sul culmine di un modello in bronzo riprodotto in posizione itifallica mentre porta alla bocca una tazza. La figurina presenta notevoli similitudini con un bronzetto del Nuraghe Commossariu di Furtei, interpretato come immagine di un "idolo" da Giovanni Lilliu. Nel caso di Sardara colpisce l'efficacia della rappresentazione, nella quale il consumo di bevande alcoliche, verosimilmente di vino, si impone come prerogativa di esseri divini considerata la nudità e la posizione itifallica del personaggio rappresentato. Si potrebbe inoltre ipotizzare che si tratti della figura di un eroe o di un personaggio mitico connesso alle élite locali, le quali attraverso complessi rituali in cui il vino doveva assumere un valore centrale ne evocavano le gesta e gli stretti rapporti di parentela. Le evidenze messe in luce nella "sala del consiglio" di Santa Anastasia introducono a un altro contesto di particolare interesse per l'analisi in corso: il sacello di Monte Sirai. Gli scavi condotti intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso hanno restituito tre bronzi figurati: la figura seduta di un personaggio che versa in una scodella del vino contenuto in una brocca askoide indigena (fig. 26), un suonatore
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22 . Brocca, VIII-VII sec. a.e., bronzo, h 15 cm, proveniente da Nuraghe Ruju (Buddusò), Sassari, Museo Archeologico "G.A. Sanna". Eccezionale riproduzione in bronzo delle brocche askoidi in ceramica diffuse sull'Isola nella Prima Età del Ferro, impreziosita dall'attacco inferiore dell'ansa configurata a palmetta fenicia.
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di lira in posa analoga (fig. 27) e un piccolo animale, forse un cane, montato su un robusto supporto anulare. Grazie alle approfondite analisi di Paolo Bernardini è possibile inserire i bronzi siraiani fra le attestazioni più significative di quella «condivisione di saperi e di technai» che caratterizza l'incontro tra Fenici e Nuragici all'alba del I millennio a.C. Una loro datazione in momenti maturi della Prima Età del Ferro risulta probabile e ben si allinea con le più recenti proposte sulla cronologia delle iniziali fasi di vita dell'insediamento e dell'area sacra intorno all'ultimo trentennio dell'VIII secolo a.C. Va inoltre osservato che i due piccoli bronzi antropomorfi, di cui restano i chiodi di fissaggio, dovevano appartenere molto verosimilmente a uno stesso manufatto, forse un bacile rituale che faceva parte degli arredi liturgici del tempio. Questo dettaglio tecnico permette di ritornare su un aspetto particolarmente interessante delle interrelazioni fra artigiani orientali e maestranze locali in rapporto alla realizzazione di arredi e manufatti ai margini dei grandi
spazi cultuali e santuariali del mondo nuragico. Purtroppo molte evidenze sono andate irrimediabilmente perdute, ma indizi di grandi recipienti cultuali utilizzati nelle cerimonie pubbliche sono ravvisabili negli attacchi d'ansa di varia foggia rinvenuti in numerosi contesti insulari. Fra questi una diretta importazione è postulabile per l'esemplare conformato a doppio lobo circolare sormontato da fiore di loto proveniente da Serra Orrios, in provincia di Nuoro, mentre elaborazioni locali ispirate a prototipi feniciociprioti di vario tipo sono le anse dei ripostigli di Tadasuni, nell'entroterra di Oristano, e di Monte Sa Idda, in quello di Cagliari (fig. 23). Non mancano comunque esemplari fortunatamente integri, come nel caso del calderone carenato di fattura nuragica proveniente da Cala Gonone (Dorgali, Nuoro), in relazione con uno dei più sicuri approdi della costa orientale. In passato si riteneva che questo tipo di recipiente fosse utilizzato prevalentemente per la cottura delle carni, ma il recente rinvenimento a Pattada di due analoghi manufatti del diametro di circa 20 cm, apre nuove prospettive di ricerca e permette di includere gli esemplari di ridotte dimensioni nei compositi set da vino che circolavano in Occidente nella Prima Età del Ferro. Sempre da Pattada proviene l'unico esemplare di patera baccellata presente sull'Isola. Il reperto è di eccezionale interesse anche per la presenza di una catenella di sospensione, applicata in antico, considerata di fattura nuragica. L'apporto fenicio nella diffusione delle patere baccellate con vasca lenticolare nell'Occidente mediterraneo è stato da tempo chiarito. Si tratta di una forma potoria destinata al consumo di vino aromatizzato, di moda presso le corti dell'impero neo-assiro dove risulta · strettamente connessa alla funzione politica e soprattutto religiosa del re e di dignitari di altissimo rango. Questo aspetto è ben documentato nei rilievi del Palazzo Nord-Ovest a Nimrud, in cui Assurnasirpal II (883-859 a.C. ) è raffigurato a più riprese in scene di libagione, e grazie agli splendidi esemplari in oro massiccio rinvenuti, sempre a Nimrud, nelle sepolture delle regine dei potenti sovrani della seconda metà dell'VIII secolo a.C. Tuttavia è solo nel celebre "banchetto sotto la pergola" (645-640 a.C. ) che è possibile comprendere appieno l'articolazione del complesso cerimoniale che prevedeva il
23. Ansa, X-VIII sec. a.e., bronzo, lungh. 13,3 cm , proveniente dal ripostiglio di Monte Sa ldda (Decimoputzu), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Pertinente, molto verosimilmente, a un grande bacile di uso cerimoniale ispirato a produzioni di ambito cipriota.
consumo di vino aromatizzato. Nell'ortostato rinvenuto nel palazzo di Assurbanipal, a Ninive, il re e la regina sono ritratti mentre festeggiano, brindando all'aperto, la vittoria ottenuta dagli eserciti assiri sul nemico. I sovrani, seduti sui rispettivi troni, bevono vino in coppe baccellate dotate di una profonda carenatura funzionale al deposito delle spezie miscelate con la bevanda alcolica dopo essere state in precedenza macinate nell'elegante coppa su supporto tripode raffigurata sulla mensa al centro della composizione. Un altro esemplare di coppa-tripode appare sul vassoio dell'inserviente che apre il corteo di figure che sopraggiunge da sinistra portando i cibi destinati al banchetto regale. In questo rilievo è quindi possibile cogliere il nesso che legava la patera baccellata e la coppa-tripode alla regalità attraverso un cerimoniale che prevedeva il consumo di vino aromatizzato. Grazie ad approfondite indagini (SCIACCA 2005 ) è emerso come l'ampia diffusione della patera baccellata nell'Italia peninsulare tirrenica, con oltre 300 esemplari censiti compresi fra l'ultimo trentennio dell'VIII e la metà del VII secolo a.C., si debba alla capacità di penetrazione del commercio fenicio sui mercati occidentali. Il rinvenimento della patera baccellata in tombe che per monumentalità e ricchezza del corredo dovevano appartenere a figure di primo piano nell'ambito delle comunità di appartenenza sottintende una circolazione di doni cerimoniali a carattere diplomatico veicolati
dai Fenici che interessa i principali insediamenti italici compresi fra !'Etruria settentrionale e la Campania. Il recente recupero di Pattada arricchisce il quadro di conoscenze sulla fitta trama di relazioni fra la Sardegna e le regioni costiere dell'Italia peninsulare tirrenica che si intensifica nel corso dell'VIII secolo a.C. a seguito dell'avvio del processo coloniale in Occidente. Significativo al riguardo è il recupero in prossimità della foce del Tevere, nella Tomba 15 di Castel di Decima, databile all'ultimo quarto/fine dell'VIII secolo a.C., di ben cinque patere baccellate in bronzo in associazione con una coppa-tripode e un'anfora vinaria, quest'ultime prodotte molto verosimilmente a Sulky, il più antico insediamento coloniale fenicio di Sardegna attivo già nel corso della prima metà dell'VIII secolo a.C. L'intensificarsi della produzione, del commercio e del consumo di vino nei principali insediamenti costieri della Sardegna emerge distintamente dall'analisi delle prime serie anforiche prodotte in Occidente e delle forme potorie d'importazione dalla Grecia e dall'Etruria che si affiancano a quelle di produzione locale, a testimonianza dell'ampia rete di contatti stabilita dalla marineria sardo-fenicia nei secoli iniziali del I millennio a.C. Si tratta di una documentazione estremamente ampia di cui non è possibile dare conto in questa sede. Ma è soprattutto dallo studio delle necropoli che si hanno le indicazioni più significative. Al riguardo si intende concentrare l'attenzione sul contesto più antico che si conosca, cioè il sepolcreto di San Giorgio di Portoscuso, in funzione a partire dal secondo quarto dell'VIII secolo a.C. Nelle modeste ciste litiche disposte sul sistema s) ntua rio fenicio e punico del Capo d i Pula
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46. Veduta aerea da sud-ovest della penisola di Nora (Pula) (foto Archivio P. Bartoloni). In primo piano è la punta meridionale del Capo di Pula dove aveva sede il santuario detto di Esculapio/ Eshmun già attivo in età fenicia. Sullo sfondo l'area centrale della penisola dove venne a svilupparsi l'abitato fenicio e il successivo centro della colonia punica e della città romana .
valenza urbana, forse già connotato come area sacra. All'estremo opposto, presso la base settentrionale della penisola, lo scavo recente ha rimesso in luce l'ancora sconosciuta necropoli fenicia e le prime tombe dell'insediamento (incinerazioni in fossa anche con materiale di importazione dell'area tirrenica) risalenti a un periodo compreso tra l'inizio del VII e il VI secolo a.C. (fig. 49). Di recente le indagini hanno anche affrontato il cruciale tema delle possibili presenze antropiche sullo spazio della penisola nel periodo che precede la costituzione del fondaco fenicio. Una serie convergente di indizi dimostra che sia il territorio della piana di Pula, sia lo spazio della penisola dove sorse il villaggio fenicio avevano conosciuto una presenza di popolazioni autoctone nuragiche. Sebbene non sia ancora facile capire quale fosse la reale vitalità degli insediamenti nuragici all'arrivo dei Fenici, è certo che Nora fu uno spazio fecondo dell'incontro tra mercanti levantini e genti locali in un rapporto di mutuo scambio economico e culturale. L'assetto dell'insediamento e la vita degli
abitanti mutarono abbastanza radicalmente tra la fine del VI e l'inizio del V secolo a.C., quando Cartagine divenne potenza egemone del Mediterraneo e della Sardegna. Nora fu allora progressivamente convertita da scalo commerciale in colonia di popolamento, che assunse aspetto e funzioni ben diversi da quelli precedenti. Il piccolo villaggio di capanne fu sostituito da un abitato dai tratti urbani, dotato di edifici in muratura (tra cui magazzini per cereali) e arterie stradali sempre più strutturate, attorno al quale si dispone una cintura di santuari che occuparono le alture cittadine, quasi come una protezione divina dello spazio degli uomini. Alle funzioni di scalo commerciale, Nora accostò da allora quella di polo agricolo per la coltivazione del fecondo entroterra, dove le ricognizioni hanno ricostruito una fitta trama di fattorie che hanno la loro massima diffusione nel corso del IV secolo a.C. Il mutamento del quadro sociale, culturale ed economico si riflette in forma palese nell'assetto degli spazi funerari, già indagati alla fine dell'Ottocento (1891-92) e da pochi anni
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48. Il Tempio detto di Esculapio/Eshmun sulla punta meridionale del Capo di Pula, visto da sud (foto Archivio P. Bartoloni). Costituisce uno dei più importanti santuari urbani di età romana. Nel medesimo spazio le ricerche hanno però potuto rimettere in luce tracce consistenti di un utilizzo a scopo di culto già awiato in età fenicia e poi proseguito per tutta l'età punica e romana repubblicana. Non si conosce con esattezza la divinità cui era dedicato l'edificio. Recentemente è stata formulata l'ipotesi che qui potesse trovare sede in età fenicia la famosa Stele di Nora (fig. 261). Da questo santuario provengono le celebri statue fittili di offerenti, rinvenute nei piccoli ambienti visibili a sinistra nell'immagine. 49. Veduta da drone della necropoli fenicia e punica posta presso l'estremità nordoccidentale della penisola di Nora (Pula). L'.immagine, acquisita dopo i recenti scavi (2019), mostra i pozzi di accesso alle camere ipogee puniche e i numerosi pozzetti relativi alle sepolture a incinerazione di età fenicia. La necropoli ha restituito a oggi circa 45 sepolture distribuite in un arco cronologico compreso tra il VII e il lii sec. a.e.
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oggetto di nuove indagini (2014-18) che ne hanno precisato e ampliato l'evidenza. Da questa fase storica il rituale è quello dell'inumazione e le tombe, di conseguenza, assumono la forma di fosse o di ampi ipogei a singola o a doppia camera. La già nota necropoli orientale, dotata di circa 90 ipogei e in uso tra la metà del V e
l'inizio del III secolo a.C., presenta spazi di deposizione più semplici con pozzo d'accesso e singola camera, mentre le tombe della necropoli occidentale (fig. 49) hanno recentemente rivelato un'articolazione più complessa, in cui il pozzo d'accesso conduce a un'anticamera che precede la camera funeraria. È frequentemente
La comunità punica, inizialmente legata all'orbita mercantile cartaginese, entra dalla fine del IV secolo a.e. in un circuito commerciale che la mette in contatto con la penisola italica fino allo scoppio delle guerre puniche, al termine delle quali entra a far parte della neocostituita Provincia Sardinia et Corsica (227 a.C.) retta da magistrati romani. In seguito a questo evento politico-istituzionale la città sembra assumere un ruolo di primo piano nel nuovo scenario geopolitico, forse non secondo alla successiva capitale provinciale Karalis. L'incontro tra la comunità sardo-punica e i nuovi governanti Romani non sembra produrre effetti traumatici ad alcun livello, ma anzi probabili forme di progressiva integrazione culturale.
a.C. con quattro esemplari, che datano la chiusura del deposito, emessi tra il 230 e il 226 a.e. Il dono votivo sembra da correlare all'atto dell'istituzione della Provincia Sardinia et Corsica. È stato ipotizzato che si tratti di un'offerta di un alto magistrato romano destinata a un santuario punico in segno di ostentata devozione verso la religiosità della comunità punica nel momento d'innesco del decisivo processo di romanizzazione dell'Isola. La spinta economica derivata dall'ingresso nell'orizzonte commerciale romano sembra stimolare nella città un graduale mutamento dello spazio urbano, che tra il III e nel corso del II secolo a.C. conosce una decisiva espansione areale tale da interessare tutta la parte meridionale della penisola che diverrà, da lì a poco, il nucleo monumentale del municipio romano e della successiva città imperiale. Nota bibliografica Sulla fondazione della città: Pausania X, 17, 5; Solino IV, 1. Sulla stele di Nora: Corpus inscriptionum semiticarur.n (CIS, I, 145 e I, 144; AMADASI Guzzo 1967, pp. 83-87; l'insediamento più antico è presentato in: BoNETTO 2009, pp. 44-78; Borro 2011, pp. 61-77; BONETTO 2014; BONDì 2017b. Sulle prime indagini nella necropoli fenicia vedi: PATRONI 1902, p. 78; PATRONI 1904, coll. 168-170; BARTOLONI, TRONCHETTI 1979-80. Sulle nuove ricerche (dal 2010) si vedano: ARnzzu 2012; BoNETTO, BOTTO 201 7; BONETTO, ET AL. c.s. Sullo sviluppo della colonia punica: BONETTO c.s.; lo sfruttamento del territorio è sintetizzato da BOTTO 2011. Per gli studi passati e presenti sulle necropoli puniche vedi: BONETTO 2016b. Le prime ricerche sono citate da VrvANET 1891, p. 299, mentre la stagione di scavi 1891-92 è narrata da: PATRONI190l;PATRONI 1902;PATRONI1904,cuisideve anche l'edizione completa dei rinvenimenti; lo studio aggiornato del materiale dei corredi è in BARTOLONI, TRONCHETTI 1981. Le novità più recenti sulle necropoli orientale e occidentale sono in: BONETTO, CARRARO, MAzZARIOL 201 7; MAzZARIOL, BONETTO 201 7; BONETTO, ET AL. c.s. Sul tofet vedi: BONETTO, CARRARO, MINELLA 2016 e nuove considerazioni in MAzZARIOL c.s. Il processo di romanizzazione di Nora è delineato in Bo NETTO 2016a. Sui rinvenimenti nell'area del Tempio romano vedi: BERTO, ZARA 2016; BROMBIN, ZARA 201 7; lo studio del tesoretto di monete d'argento è in GoRINI 2015, mentre un primo commento storico è in BONETTO, FALEZZA 2009.
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La città di Bithia è stata oggetto di limitate esplorazioni a partire dai primi anni 1ìenta del Novecento, quando il direttore del Museo e degli Scavi di Antichità della Sardegna,
51. Veduta aerea dell'isolotto di Su Cardolinu, sede del santuario tofet di Bithia (Domus de Maria) (foto Archivio P. Bartoloni) .
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Antonio Taramelli, avviò le prime indagini a seguito di alcune attività di sterro (nel 1926 gli scavi del sig. Carlo Alliata Percy, i cui materiali recuperati sono andati in gran parte dispersi) che si stavano verificando in località Sa Colonia, lungo il versante occidentale del promontorio di Chia, Domus de Maria. Tali attività si determinarono a seguito di una devastante mareggiata, che nel 1926 scoperse un'area di sepolture proprio lungo il litorale sabbioso di Sa Colonia. Le ricerche del Taramelli si concentrarono in particolare lungo questo tratto di territorio, in direzione del promontorio, scoprendo un settore di necropoli e un piccolo edificio cultuale in cui fu ritrovata la statua del dio Bes (figg. 396-397), oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, e un'epigrafe votiva in
caratteri neopunici che ha consentito di precisare con assoluta sicurezza l'ubicazione della città di Bithia. Per tali ragioni, il Taramelli continuò le sue indagini anche sul versante settentrionale del promontorio dove furono riconosciute, con sondaggi limitati, due unità abitative ricondotte dal ricercatore all'epoca punica e ampliate in epoca romana. È proprio a seguito di questi sondaggi che è stato possibile identificare l'abitato di Bithia sull'altura del promontorio di Chia, rimasto sostanzialmente inesplorato fino alle attuali ricerche intraprese dalla Soprintendenza per le Province di Cagliari e Oristano in collaborazione con il Comune di Domus de Maria. Gli scavi del Taramelli vennero interrotti dopo il 1933 e le ricerche a Bithia non furono più riprese fino agli interventi congiunti del Pesce e del Kunwald nel 1953; in quell'anno infatti la Soprintendenza autorizzò una missione di scavo scandinava a intervenire nuovamente nell'area del piccolo edificio sacro: di questi interventi,
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52. Scala monumentale in calcarenite, Bithia (Domus de Maria). 53 . Sacello e altare votivo , Bithia (Domus de Maria).
proseguiti poi con successive campagne di scavo estive nel 1954 e nel 1955 rimangono solo rari documenti fotografici conservati nell'Archivio della Soprintendenza (fig. 402). Nello stesso anno inoltre la Soprintendenza intraprese un proprio scavo collocato nella medesima area; di questo intervento Pesce ha offerto una descrizione abbastanza diffusa in diverse pubblicazioni, proponendo un quadro dettagliato dei rinvenimenti effettuati; lo scavo risulta incentrato sulla fossa di scarico dei materiali votivi del sacello, posta a sud del medesimo, nonché sulle strutture e stratigrafie a essa relative, di impianto successivo, come la porzione di necropoli a inumazione di epoca romana, o precedenti la fossa, come il livello sottostante, ampiamente analizzato dal Pesce. Le ricerche a Bithia riprendono nel corso degli anni Sessanta, a opera di Ferruccio Barreca a Su Cardulinu, isolotto che chiude a nord-est la
particolare lungo le sue pendici. L'entroterra immediato del promontorio è caratterizzato da una fertile pianura alluvionale situata tra le sponde meridionali del massiccio del Sulcis e occupata in parte dal bacino della laguna. L'area, non di grandi dimensioni ma con un notevole potenziale insediativo, fu ampiamente sfruttata in epoca nuragica e, nel tempo, attirò l'elemento fenicio che trovò un terreno favorevole per il suo insediamento. Le attuali ricerche hanno posto particolare attenzione all'analisi del territorio, alle sue caratteristiche geomorfologiche e alle sue trasformazioni. Gli scavi, ancora in corso, sono concentrati dal 2011 nella porzione nordorientale della collina della torre di Chia e mirano a evidenziare e a chiarire l'articolazione degli spazi emersi e la topografia dell'abitato, in particolare della parte estesa sulla sommità del promontorio, tradizionalmente identificato come "acropoli" della città. Tra il 2012 e il 2014 è stata riportata alla luce un'imponente scalinata con gradini in calcare che risale il versante orientale per circa quindici metri e che introduce a una serie di ambienti che si sviluppano in maniera continua su una serie di terrazzamenti che scandiscono l'articolazione degli edifici su tutta la collina (fig. 52). Dagli ambienti messi in luce sull'estremità superiore del promontorio, in prossimità dell'attuale piazzale su cui si erge la torre aragonese della seconda metà del Cinquecento, provengono una serie di oggetti votivi che hanno contribuito ad identificare la loro destinazione cultuale, con una continuità di vita che cronologicamente si colloca tra il IV-III secolo a.C. e il IV secolo
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torre aragonese. La scoperta di ambienti antichi, che si conservano in alzato fino a tre metri, mostra come la struttura originale del promontorio fosse profondamente diversa, continuando a evolversi nel tempo parallelamente alle azioni dell'uomo sul territorio. Progressivamente, a partire dal IV secolo d.C., la maggioranza degli edifici presenti su questo versante del promontorio fu riempita definitivamente o parzialmente, alcuni ambienti ridimensionati e riadattati a unità abitative, cambiando la propria destinazione d'uso rispetto al passato. Le tracce dell'abitato sul promontorio arrivano fino al VII secolo d.C., successivamente, dopo una lunga cesura, la sommità della collina sarà rioccupata per scopi difensivi con la costruzione della torre e probabilmente di alcuni ambienti di servizio posti alla base. La topografia della città è rimasta sostanzialmente incerta fino alle attuali indagini che, finalmente, stanno chiarendo l'articolazione del quartiere posto sul versante nord-orientale della collina, il quale si erge su due livelli circoscritti e sostenuti da una serie di strutture di terrazzamento. L'abitato vero e proprio, per quanto ancora sconosciuto, si sviluppa alla base di questo quartiere, in particolare lungo le pendici settentrionali in direzione della pianura retrostante, in corrispondenza degli edifici messi in luce durante i primi scavi degli anni Trenta. Le attività di ricerca di questi anni tratteggiano una situazione molto complessa che sembra descrivere una città aperta ali' accettazione e allo scambio culturale, particolarmente evidente nella forma monumentale data al distretto dell'acropoli. La maggior parte delle strutture emerse durante gli scavi può essere suddivisa in quattro macrofasi, che si collocano cronologicamente tra il IV secolo a.C. e la fine del IV secolo d.C. Va però ricordato che - sebbene nessuna delle strutture murarie identificate può essere ricondotta a una fase arcaica della città l'indagine ha permesso la scoperta di un
Tali elementi vengono successivamente inglobati in una fase edilizia molto articolata (Fase II) costituita dalla scalinata monumentale (fig. 52), orientata in direzione est-ovest e contenuta lungo il margine settentrionale da un muro in blocchetti di scisto e calcarenite legati da malta e terra, e lungo il margine meridionale dalla grande struttura muraria in blocchi di calcarenite. A partire dalla sommità di questa scala, in prossimità della torre aragonese, si sviluppano una serie di ambienti che hanno restituito un gruppo di oggetti ascrivibili alla sfera cultuale e pubblica della città antica. Partendo dalle osservazioni e dai ritrovamenti delle ultime campagne di scavo, è stato aperto un nuovo fronte che ha permesso di mettere in luce una sequenza di ambienti contigui, posti lungo il versante settentrionale del promontorio, e ha consentito di chiarire l'arco cronologico di tali strutture e di datarle tra il II e il I secolo a.C. Tutto il complesso sembra poi aver subito alcune ristrutturazioni in epoca pienamente imperiale (Fase III), individuabili in alcune tamponature presenti nei muri e nelle diverse pavimentazioni in cocciopesto scoperte in maniera frammentaria in vari punti. Infine, con la più recente indagine è stata accertata l'esistenza di una fase tardo-antica della città (Fase IV), che sembra testimoniare una sostanziale contrazione dell'abitato seguita da un riassetto generale degli ambienti, evidenziato dagli interramenti di alcuni vani e dalla ripavimentazione degli stessi. Le porzioni di strutture riconducibili all'età punica evidenziate nell'area di scavo, incorporate e riutilizzate nelle nuove partizioni architettoniche di un'età successiva, e i numerosi frammenti relativi alla cultura materiale punica trovati nella stratigrafia indagata, denotano ancora una volta la continuità di vita in tutta l'area. A sud-est della scalinata monumentale, in
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elementi di tradizione punica, come le matrici per pani e iòracieri con anse conformate, a elementi congeniali alla
presenza di una grande vasca, caratterizzata da una forma ottagonale e da una linea allungata, posizionata alle spalle dell'ambiente poc'anzi accennato e ad esso collegata tramite uno stretto accesso, la cui funzione rimane ancora incerta se si esclude un utilizzo unicamente legato alla raccolta delle acque piovane. Tali ambienti presentano le strutture portanti realizzate con la tecnica muraria dell' emplèkton, che si riconosce dal caratteristico riempimento di scheggioni di pietrame e argilla, rivestito di paramenti esterni di ricorsi di blocchetti allineati dalle dimensioni non uniformi. Nella terrazza sottostante si distinguono due vani che costituiscono rispettivamente un ambiente scoperto quadrangola.r;e con una pavimentazione in malta, la quale poggia in parte sul banco roccioso naturale e in parte su uno strato di livellamento costituito da terreno compatto da cui sono emersi alcuni frammenti di ceramica punica di III secolo a.C., e la base di un piccolo edificio quadrangolare (3,66x3,16 m ) orientato in direzione nord-sud. Davanti a quest'ultimo, nella preparazione pavimentale, si innesta un altare quadrangolare costituito da blocchi in arenaria squadrati (fig. 53 ). La posizione, le dimensioni e le caratteristiche dei due edifici affiancati fanno supporre una funzione cultuale della terrazza e quindi una loro identificazione come sacelli. Gli evidenti restauri successivi - in particolare l'intervento di età medio-imperiale
tradizione artistica delrarea magno-greca e centro-italica di epoca classica. Le terrecotte figurate confermano l'ipotesi, avanzata in diverse occasioni, che propone la presenza di un culto legato alla sfera femminile con particolare riferimento alla fertilità e all'ambito sessuale, con la possibilità di pratiche rituali acquisite dal cerimoniale greco, ma probabilmente rielaborate in base alle esigenze religiose locali. Le cerimonie potrebbero essere riferite a due momenti salienti della vita femminile: il passaggio dall'infanzia all'età matura e il momento pericoloso del parto attraverso cui la donna diveniva garanzia della continuità della comunità. A testimonianza di ciò va segnalato il recupero di numerosi oggetti di bronzo relativi a strumenti chirurgici e decorazioni ornamentali. Se si considera l'alto tasso di mortalità infantile o durante il parto, si può ragionevolmente pensare che ci fosse un'attenzione particolare riservata al momento della procreazione, che poteva mettere a rischio la continuità familiare, la salute dei bambini e della donna. Infine, la presenza tra i votivi di riproduzioni di frutta, come la melacotogna e il fico, potrebbe costituire un ulteriore riferimento rivolto alla sfera della sessualità, sia per la loro identificazione con l'organo genitale femminile, sia per la concentrazione di semi all'interno del frutto, che consente peraltro un'associazione al grano e dunque possibilmente al culto di Demetra, di cui esistono diverse testimonianze in tutta la Sardegna meridionale.
Nota bibliografica 1933; L EVI D ELLA V ITA 1934-35; B ARRECA 1965; P ESCE 1968; T ORE, G RAS 1976; Z UCCA 1985; B ARTOLONI 1996b; M INOJA, B ASSOLI, NIEDDU 2016, pp. 124-1 29. T ARAMELLI
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La città di Tharros; ubiçata ali'estremità meridionale dèlla Penisola dèl Sinis e posta a
54. Veduta aerea di Tharros (Cabras). la città, localizzata all'estremità meridionale della penisola del Sinis, si sviluppa su tre alture, il colle di San Giovanni e quello di Su Murru Mannu, su cui si trovano i quartieri d'abitato, e il Capo San Marco, collegato dall'istmo di Sa Codriola, su cui invece si estende la necropoli.
controllo dell'area settentrionale del Golfo di Oristano, sembra assumere una connotazione urbana, almeno a quanto restituisce a oggi l'archeologia, a partire dalla metà del VII secolo a.C.; nell'area sono però noti materiali residuali più antichi che testimoniano una frequentazione dal Mediterraneo orientale a partire dall'VIII secolo a.C. La città si sviluppa su due alture, il colle di San Giovanni e quello di Su Murru Mannu, mentre la necropoli si estende, a sud, sul Capo San Marco. I resti dell'abitato più antico non sono stati ancora localizzati, forse perché coperti o
manomessi-dagli edificl più recenti o in quanto situati in zone non ancora raggiunte dall'indagine archeologica. Le strutture abitative attualmente in luce si datano con difficoltà in ragione della storia degli scavi e della frequentazione ininterrotta del sito fino ad età altomedievale. Quelle situate sul versante orientale del colle di San Giovanni si dispongono su terrazzamenti digradanti e sono spesso realizzate con tecniche e schemi planimetrici di tradizione punica. L'approvvigionamento idrico era assicurato dalla presenza di cisterne a "bagnarola': vale a dire di forma allungata con i lati corti arrotondati, con copertura in lastre poste in orizzontale o contrapposte (fig. 60).
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55. Lato interno delle fortificazioni del colle di Su Murru Mannu con una delle postierle che consentivano il passaggio pedonale. Alla cortina muraria punica, costruita con grandi blocchi regolari di arenaria messi in opera a secco, fu addossato, in epoca romana repubblicana, un rifascio in massi di basalto che andava a definire un ampio fossato, delimitato sul lato opposto da un terrapieno contenuto da un muro di controscarpa realizzato nello stesso materiale. Tra V e IV sec. a.e. nell'area si è sviluppato un vasto quartiere artigianale specializzato nella lavorazione del ferro nel quale sono stati recuperati importanti resti di attrezzature pirometallurgiche. 56. Sul villaggio nuragico situato all'estremità settentrionale del colle di Su Murru Mannu, ormai in abbandono, venne impiantato alla fine del VII sec. a.e. il tofet, un'area sacra a cielo aperto caratterizzata dalla presenza di urne fittili, contenenti i resti incinerati di neonati e di animali, e di stele in arenaria. Il santuario, dismesso nel Il sec. a.e., subì nel corso dei secoli diversi interventi di risistemazione che determinarono lo spostamento dei cinerari e delle stele dalla loro collocazione originaria.
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L'abitato in epoca punica, almeno dal V secolo a.C., doveva essere difeso da un'imponente cinta fortificata i cui resti monumentali sono stati messi in evidenza sul colle di San Giovanni e su quello di Su Murru Mannu (fig. 55). Nella prima area una possente cortina a doppio paramento e con andamento a zig-zag ("cremagliera") va a riconnettersi a una torre con basamento quadrangolare in grandi blocchi parallelepipedi, in origine fissati con grappe lignee, su cui s'imposta un muro curvilineo parzialmente conservato; tali
strutture, che pure sono di impianto punico, hanno subito importanti interventi di risistemazione in epoca successiva che ne hanno alterato non poco i caratteri originari. Sul colle di Su Murru Mannu, invece, alla fase punica può attribuirsi solo un lungo tratto di una cortina a doppio paramento in grandi blocchi di arenaria messi in opera senza l'uso di malta; a tale muro in epoca romanorepubblicana (II sec. a.C. ) venne appoggiato un rifascio in grandi massi di basalto che andava a definire un ampio fossato, delimitato
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57. Pilastro scanalafo sormontato da un capitello dorico con fascia inferiore decorata da un motivo a meandro, echino liscio, fascia superiore con serie di ovuli e abaco liscio. I due elementi architettonici, recuperati da Gennaro Pesce negli anni Cinquanta nell'area del tempio "delle semicolonne doriche" o "monumentale" di Tharros, dovevano essere in opera nella struttura templare di età tardo-punica, poi smontata in epoca romana (foto Archivio Soprintendenza ABAP della Sardegna meridionale). 58. Leone in arenaria a grandezza naturale al momento del rinvenimento presso il Tempio "monumentale" di Tharros negli anni Cinquanta. Il manufatto, che rappresenta l'animale accovacciato sulle zampe posteriori e con la coda arrotolata attorno alla coscia destra, risultava in parte danneggiato e lacunoso. Esso, secondo l'interpretazione corrente, doveva essere impiegato nel tempio in coppia con un altro esemplare simile
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di cui è stato rinvenuto solo un frammento. La statua, al momento della dismissione dell'edificio punico in epoca romana, venne gettata all'interno di una struttura
quadrata realizzata con blocchi di riutilizzo posta immediatamente a est della rampa di accesso (foto Archivio Soprintendenza ABAP della Sardegna meridionale).
sormontati da una cornice "a gola egizia~ Al di sopra del basamento è stata ipotizzata la presenza di una cappella ospitante il simulacro divino, oppure quella di un altare. Il ricorso ad un'architettura mista di gusto egizio-greco ne ha fatto proporre una datazione tra IV e III secolo a.e. Gli altri edifici di culto attestati nella città sono, per la fase punica, difficilmente ricostruibili per i pesanti interventi perpetrati in età successiva. Per il cosiddetto Tempio a corte, ubicato immediatamente a sud del precedente e ugualmente tagliato nella roccia affiorante, un'origine ad età preromana è stata ipotizzata sulla base del rinvenimento di un gran numero di vasi punici all'interno di un pozzo scavato al centro dell'area di pertinenza. Presso il Tempietto K, un sacello di età romanorepubblicana (II sec. a.C.) dotato di due pilastri sulla fronte e di un altare con cornice a gola egizia, si trovano reimpiegati due blocchi con lettere puniche, tanto da far ipotizzare l'esistenza di un precedente Tempio delle iscrizioni. Sul colle di Su Murru Mannu fu individuato un edificio letto come sacello tripartito, con pilastri sulla fronte davanti all'ingresso e forse un penetrale geminato; in un ambiente adiacente fu scoperto un deposito votivo contenente terrecotte figurate riferite a Demetra che suggerirono l'attribuzione del tempio a tale divinità. Sulle pendici dello stesso colle la presenza di numerose cornici a gola egizia ha fatto ipotizzare l'esistenza di un altro tempio monumentale di epoca punica. In area extraurbana, sul versante occidentale del Capo San Marco, in una posizione isolata e di dominio visivo verso il mare aperto, fu identificato un altro edificio di culto costituito da due ambienti rettangolari affiancati e comunicanti, il più ampio dei quali suddiviso
arenaria; inoltre ampi tratti hanno subito dei crolli a mare a causa dell'azione meteomarina. Nonostante ciò gli scavi recenti haMo consentito di documentare numerose tombe integre di età arcaica e romanorepubblicana che hanno dato un apporto significativo alla conoscenza del mondo funerario tharrense.
60. Grande cisterna a "bagnarola " di età romana situata presso il Tempio "monumentale" di Tharros. La riserva d'acqua, di grandi dimensioni e con una capacità di 72 m3 , ha forma allungata e lati brevi arrotondati, secondo uno schema di tradizione punica; essa presenta un rivestimento costruito con piccoli elementi lapidei su cui era applicato uno strato di cemento idraulico utile a impedire la dispersione dell 'acqua.
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~~~~~!5%'~ a=camera.
~~~~~~~l!eSS& g ~ ~~ satle~ nella roccia d : t e ~ occupare tutto il lato breve o ~ una parte dì esso., e una camera quadrangolare piuttosto semplice, spesso
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aree produttive ubicate alla periferia dell'abitato. Sul colle di Su Murru Mannu, a ovest del tofet e a ridosso delle fortificazioni, un vasto quartiere destinato principalmente alla metallurgia del ferro, databile tra V e IV secolo a.C., ha restituito, nell'ambito di una potente successione di strati combusti, frammenti delle pareti delle fornaci, scorie di fusione, boccolari per l'immissione dell'aria, frammisti a numerosissimi materiali di risulta provenienti da contesti abitativi, funerari e sacri. Le analisi di laboratorio hanno consentito di stabilire che nell'area veniva lavorato essenzialmente il ferro proveniente dal Montiferru con una conoscenza dei processi tecnologici assai avanzata. Quanto alla "città dei morti", nella vasta area funeraria del Capo San Marco sono presenti sia tombe a incinerazione di età arcaica (seconda metà VII-prima metà VI sec. a.C. ) che tombe puniche ad inumazione. Le prime sono in genere del tipo a fo ssa oblunga scavata nella roccia, con copertura in lastre di arenaria e corredi assai ripetitivi costituiti da vasi ceramici e talvolta da oggetti personali del defunto. Dall'avvio del VI secolo a.C. l'introduzione della pratica inumatoria
con nicchie alle pareti e più raramente con fosse scavate sul pavimento. Da queste tombe provengono migliaia di manufatti anche preziosi recuperati nell'Ottocento durante la lunga stagione di scavi irregolari e ufficiali che portarono alla dispersione dei corredi in numerosissimi musei nazionali ed esteri. Al centro urbano fin qui descritto doveva affiancarsi un nucleo gravitante sull'area del porto, da localizzarsi nell'attuale laguna di Mistras, dotato di una propria necropoli e di specifiche aree artigianali. Tale nucleo abitativo non è di sicura localizzazione, mentre la necropoli, situata in corrispondenza della moderna borgata di San Giovanni di Sinis (fig. 59), ha conosciuto una lunga stagione di ricerche, dall'Ottocento a oggi, che ha consentito di documentare la pratica di rituali funerari e la presenza di tipi tombali in gran parte corrispondenti a quelli della necropoli del Capo San Marco, a essa contemporanea (fig. 330). Nelle vicinanze della necropoli e lungo le sponde del porto sono state localizzate tracce di attività artigianali legate alla produzione ceramica e alla lavorazione dei metalli. Il porto, infine, grazie a recenti indagini interdisciplinari, è stato riconosciuto presso l'odierna laguna di Mistras, area che ha conosciuto, per fattori naturali e di origine antropica, una sensibile modifica paleogeografica e ambientale. La presenza di una profonda insenatura aperta sul Golfo di Oristano offriva uno specchio acqueo naturalmente protetto dal vento dominante di m aestrale; in -età punica vennero impiantate strutture monumentali di protezione che determinarono nell'arco di pochi secoli l'interramento del bacino portuale e il suo conseguente abbandono.
Nota bibliografica SPANO 1851 b ; P ESCE 1966; ToRE 197 1-72; T HARROS 1975-2000; A CQUARO, Fr ZI 1986; B ARRECA 1986; Z UCCA 1993; A CQUARO, M EZZOLANI 1999; A CQUARO, D EL VAIS, FARISELLI 2006; D EL VAIS 2013b; F ARISELLI 20 18b ; D EL VAJS , F ARISELLI 2019.
La città antica di Othoca, localizzata al centro del Golfo di Oristano in un'area in cui oggi sorge il paese di Santa Giusta, si affacciava su una profonda insenatura marina ben protetta che nel corso dei secoli si è chiusa a causa degli apporti alluvionali del fiume Tirso, dando origine alla laguna omonima. Tale specchio di mare offriva alla città la possibilità di avere un'area portuale riparata naturalmente dai venti dominanti senza la necessità di costruire moli e altre infrastrutture. La frequentazione della laguna da parte dei marinai sia in età arcaica che punica è documentata dai numerosi ritrovamenti di materiali archeologici, soprattutto anfore da trasporto, che giacciono al di sotto del fondale fangoso. Oltre che per le numerose segnalazioni da parte dei pescatori locali e per il recupero, nel 1927 nel canale di Pesaria, di un'anfora di importazione, l'area è nota all'archeologia ufficiale per due interventi della Soprintendenza Archeologica, effettuati nel 1973 e nel 1985, in occasione dei quali vennero recuperate numerose anfore da trasporto, alcune con all'interno ossa di animali macellati, insieme a vasi di forma e uso differente, a elementi lignei e a una testa femminile in terracotta. Le indagini sono riprese nel 2005 e sono ancora in corso; nella prima fase della ricerca, attraverso una campagna di prospezione con sondaggi manuali e limitati saggi di scavo subacqueo, sono state individuate diverse
aree di dispersione di materiali archeologici, locali:zzate nella parte nord-orientale del bacino. Un ampio settore lagunare ubicato di fronte al paese è interessato dalla presenza diffusa di materiali di età arcaica e punica attribuibili a un arco cronologico compreso tra la fine del VII e il III-II secolo a.C. I manufatti attestati in quest'area, in gran parte integri o comunque in buono stato di conservazione, sono rappresentati principalmente da anfore da trasporto, associate a ceramiche di uso comune. In un'area circoscritta, ubicata più a sud e a una distanza di circa 900 m dall'attuale linea di riva, si è riscontrata una concentrazione molto più elevata di materiali. In tale settore è in corso uno scavo subacqueo, eseguito con metodi innovativi, finalizzato a una documentazione puntuale dei contesti in un ambiente caratterizzato dalla torbidità delle acque e quindi da scarsa visibilità. L'indagine ha documentato una stratigrafia articolata: al di sotto del primo strato di fango grigio del fondale attuale, si è evidenziato un sedimento fangoso misto a conchiglie, caratterizzato dalla presenza di un gran numero di contenitori da trasporto tardo-punici (III-II sec. a.C.), per lo più in buono stato di conservazione e quasi accatastati gli uni sugli altri. Le anfore erano • associate a numerosi altri contenitori ceramici di tipo diverso, più spesso tipici di contesti domestici, tra cui olle, pentole, brocche, coppe, piatti e lucerne. Erano presenti anche vasi ceramici in genere attestati in contesti funerari
61. Veduta aerea della laguna di Santa Giusta . In un'area situata nel settore nord-orientale del bacino, le nuove ricerche subacquee stanno rivelando contesti di età arcaica e punica di straordinario interesse, perfettamente conservati al di sotto dei fanghi del fondale. Numerosissime anfore da trasporto, spesso ancora con il loro contenuto alimentare, si trovano associate ad altri materiali ceramici e a elementi in legno anche lavorati. Tale giacimento è riferito alla città antica di Othoca, i cui resti si trovano al di sotto del paese moderno di Santa Giusta.
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63. Anfora da trasporto, VI sec. a.e., terracotta, h 95 cm, 0 max 38 cm; 0 bordo 14 cm, proveniente dalla laguna di Santa Giusta (foto C. Del Vais). l'.anfora è stata rinvenuta integra in occasione della prospezione subacquea del 2005 nel settore nordorientale della laguna. Si tratta di un contenitore di grandi dimensioni con orlo rilevato,.corpo con lieve insellatura al di sotto delle anse verticali. All'interno, oltre a una coppetta integra localizzata nella parte alta dell'anfora, sono state recuperate numerose ossa di ovicaprino con evidenti tracce di macellazione associate a vinaccioli e a una pigna. La perfetta conservazione dei resti paleobotanici è stata resa possibile dal fatto che lo strato di fango in cui l'anfora giaceva ha garantito un ambiente anossico che ne ha impedito, come awiene in genere nei contesti terrestri, il deterioramento. 64. La protome negroide maschile al momento del recupero in occasione della campagna di scavo del 2010 (foto C. Del Vais). Il manufatto, un unicum in Sardegna, si trovava nell'area lagunare caratterizzata da una notevolissima concentrazione di anfore da trasporto a siluro databili tra lii e Il sec. a.e., associate ad altre ceramiche coeve, sotto cui si trovavano materiali di età arcaica e un numero consistente di legni lavorati.
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e votivi, quali brocche con orlo a "fungo", brocche biconiche, un piattino "a bugia" e doppie patere; la presenza nella laguna di materiali di questo tipo pone notevoli problemi di interpretazione ancora non risolti. A essi deve aggiungersi un manufatto di straordinaria rilevanza rinvenuto alla base dello strato; si tratta di una protome fittile (parte anteriore di una testa in terracotta) integra di raffinata fattura rappresentante un giovane con fattezze negroidi (fig. 65), che costituisce al momento un unicum nel panorama isolano. Lo strato fangoso copriva un insieme di anfore più antiche, accompagnate da materiali coevi, e numerosi elementi lignei, talvolta con evidenti tracce di combustione superficiale. Tali legni risultano in gran parte lavorati, a squadro o a tondo, hanno incastri, scasse per l'appoggio o l'alloggiamento di altri elementi che a essi erano evidentemente collegati. Alcuni reperti sono stati rinvenuti ancora in connessione tra loro mediante incastri a tenone e mortasa. Tra i materiali, una tavola frammentata in due parti con incasso a mortasa, al cui interno si conserva una linguetta di legno che rafforzava l'unione tra le due tavole, può ricondursi probabilmente al fasciame di un'imbarcazione. Tra gli altri manufatti risulta di grande interesse un elemento zoomorfo perfettamente lavorato riproducente in dimensioni reali la parte terminale di una
65. Protome fittile integra di raffinata fattura ed elevatissima qualità artistica rappresentante un giovane imberbe con fattezze negroidi in dimensioni pari a due terzi del vero (h 22,5 cm; largh. max 14,5 cm, prof. max 14,5 cm) (foto C. Del Vais). Il manufatto, con il retro cavo, termina lateralmente con uno spesso cordolo appiattito; la base del collo appare finita. li capo è incorniciato da file irregolari di ricci appena abbozzati, mentre la parte superiore è liscia, probabilmente perché vi doveva essere fissato un elemento decorativo in materiale differente. La terracotta di tipo greco, databile a età ellenistica, doveva verosimilmente essere parte di una figura composta con altri elementi plastici. Non si tratta dell'unica terracotta figurata proveniente da un contesto subacqueo sardo; dalla stessa laguna di Santa Giusta e dagli specch i acquei di fronte alle città antiche di Nora, Olbia e soprattutto di Karales, provengono altri manufatti di tipo greco di raffinata fattura , per lo più associati a materiali punici , la cui presenza non è stata al momento ancora convenientemente spiegata.
appartenenti a ovicaprini giovani e in misura minore a bovini adulti e a piccoli animali, in diversi casi con evidenti tracce di macellazione. A essi erano associati numerosi resti vegetali rappresentati principalmente da semi d'uva, recuperati a centinaia nelle anfore e nei sedimenti, oltre che pigne, pinoli, mandorle, nocciole, noci, prugne e altri. La presenza di derrate alimentari stoccate all'interno delle anfore, ampiamente attestata anche in altri contesti sardi, documenta l'esistenza in età arcaica e punica di un'attività di allevamento collegata a una fiorente industria conserviera di carni trattate per la consumazione anche a lungo raggio. La presenza dei contesti archeologici sommersi di età arcaica e punica nella laguna santagiustese, di grande estensione e di lunga durata, pone dei problemi interpretativi di non facile risoluzione. Per poter giungere a una loro corretta interpretazione si è avviata da anni, in collaborazione con geologi, geofisici, paleobotanici, palinologi e archeozoologi, una ricerca interdisciplinare volta a ricostruire la linea di riva antica e l'ambiente; le modificazioni intervenute nell'area a causa delle variazioni del livello del mare e degli apporti fluviali del Tirso, uniti agli interventi umani nei secoli, hanno infatti modificato notevolmente la paleogeografia e in generale il paesaggio. Da tale studio ci si aspettano delle risposte che consentiranno di proporre delle ipotesi fondate sulla natura dello straordinario giacimento subacqueo ancora intatto e quindi sulla storia della città di Othoca, intimamente legata al suo porto.
Nota bibliografica 2009; D EL VAIS 201 0; DEL VAIS, SANNA 201 2; M INOJA 201 2; AMADORI , ET AL. 20 16; UCCHESU, ET AL. 201 7; D EL VAIS 20 18; SABATO, ET AL. 20 18. D EL VAIS, SANNA
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Il territorio di Olbia offre caratteristiche straordinariamente favorevoli al prosperare dell'insediamento umano: un porto naturale tra i più riparati dell'intero Mediterraneo, affacciato sulle principali rotte tirreniche e con bassi fondali adatti alla cattura e allevamento del pesce e alla raccolta del sale; un basso rilievo, ininterrottamente occupato dall'area urbana, posto alla radice di una falda perenne d'acqua dolce e benedetto da essa; una piana circostante ricca di acque e orlata da colline poste a teatro che la riparano dai venti dominanti, che consentono un ottimale controllo visivo e allo stesso tempo facilmente valicabili per i collegamenti con più remoti entroterra.
66. Coppa da vino (koty/e) corinzia , 620-610 a.e., ceramica, proveniente dal contesto degli scavi di via Cavour (Olbia) , Olbia, Museo Archeologico.
Olbia fenicia (770/760-630 a.C.) L'insediamento di Olbia, ininterrottamente pluristratificato fino a oggi, nasce con i Fenici, forse di Tiro, verso il 770-760 a.C., in funzione della trasmissione dei prodotti di lusso della madrepatria verso il mondo indigeno della Sardegna e le comunità etrusche e laziali, in quanto era l'unico insediamento fenicio autonomo del Tirreno a nord della Sicilia. Oggetto degli scambi erano probabilmente anche i prodotti del mare (sale e pescato) e quelli dell'hinterland acquisiti dalle popolazioni locali, i cui membri erano presenti nel centro almeno a seguito di unioni matrimoniali miste. Allo stato della documentazione archeologica non è facile definire la natura dell'insediamento che, poiché occupava una superficie di ben 18 ettari
ed era dotato, probabilmente, di un luogo di culto circostante l'abitato, potrebbe avere avuto status di area urbana e non solo di sito emporico.
Olbia greca (630-510 a.C.) Attorno al 630 a.C. l'insediamento passa in mano dei Greci della città di Focea (costa ovest dell'odierna Turchia), non per caso in concomitanza con l'indebolirsi della Fenicia a seguito della pressione assira e con la derivante pressione che il regno di Lidia esercita sulle città greche della costa, col conseguente tramonto del commercio fenicio orientale nel Mar Tirreno a favore di quello greco. Olbia greca contribuisce a meglio definire il quadro della, di poco successiva, presenza stabile focea prima a Marsiglia (Massalìa) e poi ad Aleria (Alalìe in Corsica). Essa infatti si trova interposta tra le sfere di insediamento fenicio nel sud-ovest mediterraneo, etrusco e greco rispettivamente nel nord-est e sud-est del Tirreno, rappresentando dunque l'ideale postazione non solo per i commerci con l'opposta sponda italica ma anche per la "scoperta" ed "esplorazione" da parte dei Focei del settore nord-ovest del Mediterraneo (Corsica e costa francese), fino ad allora non interessato dalla presenza di insediamenti urbani, e infine ponendosi come utile tappa intermedia del lungo percorso tra la lontana Focea e il remoto, per essa, mondo celtico della futura Marsiglia. Non è facile a oggi dire se il trapasso di potere dai Fenici ai Focei sia stato indolore. Anche in seno all'insediamento greco, che prende ora il nome Olbìa ('felice' in greco, nel senso della felicità geo-topografica e ambientale del luogo), erano presenti indigeni a seguito di unioni miste e/o per le opportunità varie di ordine commerciale e simili che esso offriva. Circa lo status dell'insediamento si ripropone quanto osservato per la fase fenicia. Olbia punica (510-238 a.C.)
Alla fine del VI secolo a.C. anche l'unico in sediamento greco della Sardegna cadde in potere di Cartagine con l'intera Isola, a seguito delle campagne militari condottevi dalla metropoli africana e della battaglia
e Area di dispersione del materiale greco e Area di dispersione del materiale fenicio Mura di cinta puniche
---------Linea di costa antica
O
Santuario di Melqart / Herakles
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Tempio di Ashtart / Afrodite Tempio suburbano Ashtart / Hera? 67
navale "del Mare Sardo", con la quale gli alleati Cartaginesi ed Etruschi costrinsero i Greci ad abbandonare Aleria, spartendosi così le due grandi isole tirreniche, la Sardegna ai primi e la Corsica ai secondi. Cartagine si limitò a occupare l'abitato prima fenicio e poi greco fino a circa il 330 a.C., quando, con modalità coloniale, lo rase al suolo raddoppiandone la superficie con una città di forma urbana ellenistica (pianta a incrocio di assi ortogonali, mura di cinta, necropoli a esse adiacente ecc. ). Attestarsi in forze a Olbia era necessario sia per far rispettare a Roma il trattato del 348 con il quale la metropoli africana inibiva alla rivale lo sbarco in Sardegna - anche in reazione al tentativo romano di fondare una colonia, la Feronia (Pheronia polis ) citata dal geografo Tolomeo, sulla costa sarda a sud di Olbia nel 376 - sia per cogliere le opportunità commerciali che iniziava a offrire l'esplosione della produzione ed esportazione in tutto il Mediterraneo occidentale del vino italico. La consistente presenza negli strati di fondazione della colonia delle anfore che lo contenevan6, e delle ceramiche fini da mensa che lo accompagnavano nei carichi navali, e
le attestazioni di nomi di mercanti italici graffiti su alcune di queste ceramiche, mostrano quale fosse il vero senso del testo del trattato: proibizione per Roma di sbarcare autonomamente in Sardegna ovvero, nella • realtà quotidiana, possibilità di farlo solo nei porti, come Olbia, controllati da Cartagine. Nella fase punica si fa più consistente la documentazione ceramica della presenza di indigeni nella città. Nei decenni posteriori alla conquista romana della Sardegna del 238 anche Olbia rimase una città sostanzialmente punica, come è ben testimoniato dalla persistenza di produzioni ceramiche, tipi tombali, rituali funerari e religiosi ecc., nella quale la penetrazione etnica e culturale romana fu progressiva ma graduale. Solamente dai decenni centrali del I secolo a.C. essa ci appare sul piano della cultura materiale una città pienamente romanizzata.
Nota bibliografica 2005; D ' O RIANO 2009; 2010; D ' O RIANO 2011 ; D ' O RIANO 2012; 2018b.
D ' ORIANO, 0 GGIANO D ' ORIANO D ' O RIANO
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Sistemi territoriali di età fenicia e punica Michele Guirguis
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68-72. Cretule, lungh. max 2 cm, argilla, provenienti da Cuccureddus (Villasimius), Villasimius, Museo Archeologico Comunale (foto M. Guirguis). Questi elementi, che in origine "sigillavano" alcuni documenti in papiro, testimoniano la diffusione della scrittura su supporti in materiale deperibile e certificano la dimensione commerciale dell'insediamento frequentato da mercanti che si muovevano tra le sponde dell 'Italia tirrenica e l'areale di Cartagine. Le raffigurazioni erano ottenute dall'impressione di sigilliscarabeo di tipo egittizzante, come visibile dalle iconografie rappresentate: divinità egizie e personaggi stanti e offerenti (figg. 68- 70), la barca solare (fig. 71), la vacca che allatta il vitello (fig. 72).
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La Sardegna degli inizi del I millennio a.C. ci appare, dall'esame dei dati archeologici finora disponibili, come un'isola in forte fermento culturale, dualmente indirizzata verso la conservazione e il rinnovamento del bagaglio culturale maturato nell'ambito dell'orizzonte conclusivo dell'Età del Bronzo e durante la prima Età del Ferro nuragica, ma al tempo stesso profondamente proiettata in una dimensione transmarina e internazionale con l'apertura verso il mondo levantino e la componente fenicia che proprio a partire dal IX secolo a.C. frequentava assiduamente il Mediterraneo centro-occidentale. Questo sincronico parallelismo fra tradizione e innovazione, sembra aver innescato una serie di evoluzioni nel tessuto connettivo dell'Isola e accelerato alcuni processi storici del divenire sociale ed economico. Sebbene manchino ancora informazioni dettagliate su molti tasselli che riteniamo fondamentali, come ad esempio quelli relativi alla dimensione e alla fisionomia di alcuni centri autoctoni dell'area centromeridionale dell'Isola, si può comunque affermare che a partire dal IX-VIII secolo a. C.
la Sardegna appare percorsa da una rete insediativa che connetteva strettamente le regioni più interne con la fascia costiera. Ciò è dovuto a un duplice fattore: da un lato l'interesse dei grandi centri costieri fenici verso le risorse dell'interno, dall'altro la piena integrazione dei territori dell'hinterland in un sistema produttivo complesso che si avvantaggia della particolare dimensione transmarina del commercio, favorita dalla naturale intraprendenza mercantile della componente fenicia di provenienza orientale. Il dinamismo del tessuto insediativo isolano è ben esemplificato dal primo orizzonte della presenza levantina in Sardegna, quando si assiste al fenomeno della dislocazione di interi nuclei di popolazioni fenicie o di ridotti gruppi di orientali che si stabiliscono all'interno o nei pressi di insediamenti autoctoni, ma anche alla parallela fondazione dei primi grandi centri di tipo urbano. In entrambi i casi appare evidente una compartecipazione attiva della componente locale di tradizione nuragica, che non si limita a recepire e rielaborare gli stimoli (produttivi,
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73. Veduta del colle di euccureddus (Villasimius) (foto M. Guirguis). Si notano le strutture dell 'insediamento in corso di scavo durante il 2018; le nuove ricerche nel sito hanno mostrato la monumentalità della struttura muraria che circonda tutta la parte sommitale del colle, cui si appoggiavano diversi ambienti edificati a partire dalla fine del VII sec. a.e. e completamente dati alle fiamme e distrutti attorno alla metà del VI sec. a.e.
tecnologici, sociali, linguistici ecc.) provenienti dall'esterno, ma diviene essa stessa elemento fondamentale e strutturale della nuova stagione della II Età del Ferro, che sembra in qualche modo rinverdire i fasti della tarda Età del Bronzo, quando già la civiltà nuragica si mostrò capace di dialogare con tutte le realtà del Mediterraneo, anche nelle sue più lontane sponde orientali; eppure occorre parallelamente sottolineare lo specifico ruolo promotore dei Fenici, che non può certo essere sottostimato riconducendo questo generale sviluppo a una mera evoluzione del popolamento autoctono, giacché i dati in nostro possesso ci restituiscono i chiari segnali di ampie fasce di popolazione orientale che si stabiliscono nell'Isola, sotto la guida di gruppi dominanti di "rango" aristocratico. I due poli di questa tendenza insediativa possono essere ben rappresentati dal villaggio nuragico di Sant'Imbenia nel nord-ovest dell'Isola e dal centro fenicio di Sulky, nell'attuale Sant'Antioco, che da primi testimoni dell'incontro tra autoctoni e Fenici si trasformano ben presto in brillanti esempi di una dialettica culturale pienamente consolidata, . pur evolvendosi in forme totalmente diverse nel corso dell'VIII e del VII secolo a.C. L'intero processo della colonizzazione fenicia della Sardegna è stato dunque favorito dal fatto che questi gruppi orientali sono risultati capaci di declinare le loro politiche insediative a seconda del contesto territoriale di riferimento e in accordo con le diverse realtà indigene con cui si interfacciavano: così avvenne in Sardegna con i Sardi dell'Età del Ferro, ma anche con le componenti autoctone del Nord Africa, della Sicilia, di Malta e della penisola iberica. L'Isola
nell'VIII secolo a.C. è dunque caratterizzata dalla presenza di un numero non vasto ma significativo di insediamenti (Nuraghe Sirai, S'Urachi di San Vero Milis, Sant'Imbenia ecc. ) che si trasformarono e si adattarono alle mutate condizioni (politiche, sociali, economiche) di tutto il Mediterraneo, anche rimodulando le politiche del controllo territoriale e le grandi dinamiche della produzione su larga scala: l'esportazione di anfore fabbricate in Sardegna (le cosiddette anfore del "tipo Sant'Imbenia", così denominate ma in realtà elaborate, con diversi gradi di intensità, anche in altri punti dell'Isola) , contenenti verosimilmente vino prodotto in loco, rappresenta in tal senso uno dei più macroscopici esempi. In progresso di tempo, tra il VII e il VI secolo a.C. il quadro generale è ulteriormente arricchito dalla moltiplicazione dei centri fenici o di tradizione mista sardo-fenicia (come Monte Sirai e Pani Loriga nel Sulcis), alla fondazione dei quali concorsero le nuove generazioni di individui scaturite dall'incontro tra le due culture, avvenuto più di un secolo prima. La fondazione di questi centri dovette rispondere a un preciso piano integrato di sfruttamento di tutte le risorse disponibili. Là dove la ricerca archeologica, anche di superficie, è stata da tempo avviata, si colgono i precisi segnali di una proiezione nel territorio e la gerarchizzazione dei poli insediativi, con alcuni centrai places che controllavano centri • minori e rappresentavano i collettori di tutte le reti di comunicazione terrestre e marittima. L'immissione di nuovi gruppi di Fenici che si spostano da Oriente verso Occidente è un fenomeno che sembra potersi considerare concluso con il VII secolo a.C. (fatta salva un'ulteriore "ondata" di contatti diretti tra . : . fine VI e V secolo a.C., nel periodo della dominazione persiana sulla Fenicia). Come è lecito attendersi da un fenomeno insediativo che è strettamente legato al territorio in cui si esplica, ben presto i principali poli della presenza fenicia in Sardegna assunsero delle caratteristiche proprie e una peculiare facies locale, anche per effetto delle diversificate esperienze maturate nei vari settori dell'Isola. In tal modo, tra VII e VI secolo a.C. siamo in grado, ad esempio, di differenziare abbastanza bene la cultura materiale espressa dalle comunità fenicie insediatesi nell'area del Golfo di Oristano, assai diversa (seppure impostata su una matrice
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74. Settore centrale delle lnsulae B e e dell'acropoli di Monte Sirai (Carbonia). L'.immagine mostra la regolarità dell 'impianto urbanistico della fase matura dell'i nsediamento (IV-lii sec. a.C.), con un articolato sistema viario che connetteva i vari punti dell'acropoli , dove insistevano strutture abitative e a destinazione produttiva che occupavano quasi tutta la superficie disponibile.
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comune) dalle contemporanee realizzazioni del distretto sulcitano o di quello cagliaritano. Pur in presenza di differenti caratteristiche che non consentirebbero un facile accostamento (dimensioni, fasi antecedenti, collocazione territoriale ecc.), tra VII e VI secolo a.C. la Sardegna può contare su una discreta quantità di insediamenti fenici. Si può così apprezzare lo stanziamento su isole a breve distanza dalla costa, come Sulky e Inosim (Carloforte), su pianori nell'entroterra sub-costiero come Monte Sirai (Carbonia) e Pani Loriga (Santadi) e su promontori o modesti rilievi protesi sul mare e collegati a insenature di tipo lagunare, come Tharros, Othoca-Santa Giusta, Cagliari, Nora, spesso in diretta connessione con corsi fluviali, ad esempio a Bithia (Domus de Maria), a Cuccureddus (Villasimius) e a Sarcapos (Santa Maria di Villaputzu).
Questa nuova rete di insediamenti favorì l'inserimento della Sardegna nei complessi reticoli del commercio mediterraneo, entro il quale si concretizzò un'interazione su larga scala tra elementi autoctoni occidentali e componenti fenicie e greche. Si trattava di un mondo variegato, che le vie d'acqua del Mediterraneo univano piuttosto che dividere, anche attraverso una serie di "regole del gioco" condivise e concordate. Sappiamo dell'esistenza di diversi trattati che definivano le prerogative del commercio (e dei commercianti) e anche dell'occupazione del suolo per fini insediativi. Sebbene relativo alla fine del VI secolo a.C. e inquadrabile nell'ambito della politica delle "grandi potenze" dell'epoca, il primo trattato tra Cartagine e Roma del 509 a.C. stabiliva i contorni entro i quali dovevano svilupparsi in Sardegna le transazioni commerciali e il testo superstite parla dell'esistenza di funzionari e scribi che dovevano in qualche modo certificare tali accordi. Lo sviluppo e la diffusione della scrittura rappresenta, pertanto, un potente mezzo per la gestione dei territori, per la regolamentazione delle attività produttive, per la certificazione delle relazioni di natura politica ed economica. Nella Sardegna di età arcaica doveva essere pertanto abbastanza diffuso l'uso della scrittura in caratteri fenici (semitico nord-occidentale), o almeno in misura maggiore di quanto non sia verificabile dal solo esame delle poche iscrizioni superstiti, per lo più riferibili a contesti sacri in cui si era soliti deporre iscrizioni su pietra, monumentali e non. Ma le testimonianze archeologiche, laddove lo stato di conservazione ne consenta il riconoscimento, permettono di affermare che diversi testi potevano essere scritti su fogli di papiro, come documentato anche al di fuori dell'Isola (in Egitto, nelle coste levantine, ma anche a Malta): in Sardegna si possono a questo proposito citare le cretule in argilla rinvenute nel sito di Cuccureddus a Villasimius, dove furono verosimilmente utilizzate per sigillare documenti di natura commerciale, che avrebbero potuto fornirci preziose informazioni sulla stessa organizzazione dei processi produttivi locali (figg. 68-72). Non siamo ancora in grado di ragionare sull'eventuale esistenza di una strategia di sviluppo condivisa tra i vari centri fenici dell'Isola, che pure mostrano caratteri di grande autonomia proprio sul versante della gestione del territorio e della proiezione del commercio terrestre e marittimo. A ogni modo,
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75. Veduta aerea del pianoro e dell 'acropoli di Monte Sirai (Carbonia) (foto Archivio P. Bartoloni). Nell'immagine si può apprezza re l'estensione complessiva della cittadina, con l'entrata monumenta le che immetteva direttamente nella piazza antistante il luogo di culto dedicato alla dea Astarte; le costruzioni, relative all'ultima grande ristrutturazione awenuta tra IV e lii sec. a.e. , coprono una superficie totale di circa 1 ettaro.
la situazione cambiò radicalmente nel corso dell'età punica, con la progressiva imposizione di un "modello" cartaginese, derivato dai grandi interessi che la metropoli nord-africana nutriva nei confronti dell'Isola. Fu così che, anche a seguito di alcune campagne militari di cui ci narrano le fonti, la Sardegna entrò a far parte dei possedimenti punici oltremarini di Cartagine, modificando gradualmente gli stessi sistemi di gestione e di sfruttamento del territorio. Dal V al III secolo a.C. si svilupparono nuovi insediamenti e si rivitalizzarono quelli di antica fondazione, sia nelle coste che nei territori più interni; sorsero inoltre tutta una serie di piccoli insediamenti rurali e fattorie, nonché santuari in posizione extra-urbana, soprattutto là dove la cerealicoltura poteva essere perseguita in maniera estensiva, dunque nelle aree del Campidano e nelle piane alluvionali
dell'Oristanese, anche se le testimonianze archeologiche riportano a una varietà di attività collaterali (viticoltura, pastorizia e allevamento) . È forse in questo stesso periodo che la Sardegna vide l'ingresso di nuovi nuclei di popolazione provenienti dalle coste nordafricane e altri fenomeni collegati a una decisa rimodulazione dei sistemi territoriali, come l'avvio delle grandi monocolture o l'introduzione dell'economia agricola basata sul latifondo, gestito dalle élites puniche che controllavano i principali insediamenti della metà centro-meridionale dell'Isola fino alle soglie dell'epoca romana.
Nota bibliografica 1988; B ARTOLO I, B o Dì, MOSCATI 1997; 1998; Fr OCCHI 2005; B ERNARDINI 2006; VA D OMMELEN, G OMEZ B ELLARD 2008b; B ARTOLONI 2009a; B ERNARDINI 2010b; G UIRGU IS 2017d.
TRONCHETTI
STJGLITZ, ToRE
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Michele Guirguls
76. Veduta aerea del pianoro e deU'acropoli di Monte Sirai (Carbonia) (foto Archivio P. Bartoloni). !.'.immagine riprende l'insediamento con una vista a volo d'uccello da ovest 77. Arula con figura di
Gorgone, V sec. a.e., ceramica, h 13,5, largh. 12,1 cm, proveniente dal Tempio del Mastio di Monte Sirai (Carbonia), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. 78. Statua di Astarte, VIII-VII sec. a.e., arenaria, h 40 cm, proveniente dal Tempio del Mastio di Monte Sirai (Carbonia), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La veduta di profilo consente di apprezzare la fisionomia dei riccioli ricadenti ai lati del viso e la dimensione sproporzionata del padiglione auricolare, eccessivamente ingrandito in quanto la divinità doveva essere in grado di "ascoltare" le preghiere dei fedeli.
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Il sito di Monte Sirai è localizzato su un pianoro elevato per circa 190 m s.l.m. e insiste in un punto strategico lungo la via di comunicazione terrestre che congiungeva la valle del Cixerri e i giacimenti metalliferi circostanti con il centro principale del distretto sulcitano, ovvero l'antica città di Sulky (odierna Sant'Antioco). Nello scenario storico delineato durante gli ultimi decenni di ricerche archeologiche, l'insediamento di Monte Sirai emerge come enclave strategica della presenza fenicia nell'entroterra subcostiero e offre nuovi spunti di riflessione per indagare sulle dinamiche dell'incontro tra genti fenicie e comunità autoctone di tradizione nuragica. I fondatori dell'anonimo insediamento di Monte Sirai, sorto qualche generazione dopo Sulky, furono quindi tra i primi protagonisti di una nuova Età del Ferro caratterizzata dallo sviluppo di comunità sarde frutto di un intenso confronto culturale con l'elemento fenicio di provenienza (e tradizione) orientale. Non per caso, ad esempio, il principale luogo di culto della fase arcaica coincise con le
strutture di un nuraghe monotorre che svettava nel punto più elevato dove verrà costruita a partire dalla fine dell'VIII secolo a.C. la cosiddetta "acropoli" di Monte Sirai. Alla nascita e al primo sviluppo del centro concorsero, dunque, le diversificate esperienze maturate in Sardegna tra l'orizzonte conclusivo dell'Età del Bronzo e la prima Età del Ferro, tradotte sul piano politico con la creazione e il potenziamento di alcuni siti collocati in posizione funzionale a una nuova gestione integrata dei territori costieri e interni dell'Isola. Il tessuto urbano attualmente visibile sul pianoro di Monte Sirai risale all'ultima (ri)strutturazione generale avvenuta in età punico-ellenistica (III-II sec. a. C.), che precede di poco il definitivo abbandono del centro databile tra la fine del II e gli inizi del I secolo a. C. Tracce delle fasi arcaiche (VII-VI sec. a. C.) sono state rinvenute in diversi settori; l'orizzonte fenicio di Monte Sirai è testimoniato da molti elementi, i più antichi dei quali si collocano attorno all'ultimo quarto
notevolmente potenziato e l'importanza attribuita a Monte Sirai nell'ambito della Sardegna punica trovò espressione nella stessa fondazione del santuario tofet e nella realizzazione del sistema difensivo di fortificazioni murarie. In questa fase Monte Sirai raggiunse una completa "maturazione urbana", anche grazie a un incremento del numero degli abitanti, forse favorito dall'introduzione di nuovi nuclei di popolazioni nordafricane e sarde dalle zone più interne del Campidano. L'analisi diacronica delle evoluzioni percepibili nell'ampio territorio di pertinenza suggerisce che Monte Sirai, nel pieno dell'età punica, rappresentava il centrai piace cui facevano riferimento alcuni centri minori e numerose fattorie rurali attivate per finalità produttive (oleicoltura, viticoltura, pastorizia ecc.). L'acropoli è formata da vari isolati abitativi (insulae) disposti ordinatamente secondo una precisa programmazione urbanistica. L'insediamento si distribuiva pertanto nel senso della lunghezza e diverse arterie viarie interne consentivano la circolazione degli uomini e dei mezzi a trazione animale. Una grande porta si apriva nella parte nord e immetteva direttamente sull'ampio spiazzo aperto di fronte al tempio della dea Astarte, che costituiva il vero fulcro del centro e nel quale si dovevano svolgere elaborate cerimonie sacre che prevedevano la partecipazione di larghe fasce della popolazione, coinvolgendo la comunità nella sua dimensione pubblica. Nel disegno ricostruttivo che qui si propone (fig. 79 ) si è volutamente cercato di rappresentare una veduta dell'insediamento
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~~f~~fj~ii :9!~!m ~:o. ~:stmtfure ~ : : m :iasso:mura:~àle in ~sbomte;su cui si iinpnstavano le ~ i n mattoni dì argilla cruda, con i tetti ottenati i.iàlla giustapposizione di strati di argilla, tronchi di legno e ulteriore materiale stramineo. Sia all'interno che aH'esterno
80. Kemos, IV sec. a.e., ceramica, h 24 cm, proveniente dalla Necropoli ipogea di Monte Sirai (Carbonia), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La forma del kemos era utilizzata per le sue valenze rituali, rappresentate dalla testina di ariete e dalla serie di recipient:Hniniaturistici disposti a raggiera sulla spalla, entro i quali potevano essere combuste piccole quantità di sostanze aromatiche.
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le case erano originariamente intonacate sulla superficie, attraverso una patina di argilla diluita che serviva per proteggere le pareti dall'umidità e dai fenomeni atmosferici. All'interno i battuti pavimentali erano realizzati generalmente in argilla pressata, ma non si può escludere che in alcune abitazioni la superficie fosse rivestita di assi di legno e/o ampi tappeti e stuoie vegetali. Quasi tutti gli edifici potevano contare su un sistema di deflusso delle acque verso l'esterno, spesso in corrispondenza con l'apertura principale, segnalata da ampie soglie in pietra, rialzate rispetto al piano stradale. Diverse case, inoltre, erano provviste di un secondo piano sopraelevato, che consentiva tra l'altro l'uscita ali' esterno sui tetti, utilizzati per varie esigenze produttive o domestiche. Nonostante si conosca ben poco della conformazione esterna assunta dal Tempio di Astarte dopo le ristrutturazioni avvenute nella prima età punica (tra VI e V sec. a.C.), crediamo verosimile che il fronte esterno dell'edificio avesse un aspetto quasi monumentale, anche perché svettava come punto più elevato di tutta l'acropoli. Nella ricostruzione si è optato per una facciata realizzata in alzati di mattoni crudi, sopra la quale poteva essere originariamente esistito un coronamento superiore simile a quello raffigurato nelle contemporanee stele votive in pietra presenti anche nel locale tofet che rappresentano, assieme a pochissimi esempi in scala reale, gli edifici di culto punici in dimensioni ridotte (fig. 81). Gli scavi nel tempio non hanno mostrato la presenza di blocchi lapidei "a gola egizia" impiegati come coronamento, ma sulla base di alcuni confronti si può ipotizzare che questo potesse essere realizzato in legno, scolpito e dipinto in colore rosso, come nelle numerose iconografie note in Oriente, tanto nella fascia costiera siropalestinese e a Cipro, quanto nell'antico Egitto, da cui provengono i modelli di riferimento.
~
inumuione (am ~~~ o entro feretri lipetj. A4~1'ti:m:ll~ '.·..funebri, che corrispondono a ben definite tipologie tombali, si aggiungono le nnmerose deposizioni di bambini e giovani individui all'interno di anfore da trasporto (enchytrismòi) (fig. 336). Il panorama funerario, quale emerge dalle ricerche, non si può limitare alla ricostruzione di semplici sepolture e corredi, ma invece si sostanzia di una serie di azioni anche immateriali che riguardavano la sfera più intima del pensiero religioso e delle attività rituali legate alla dimensione della morte. Tutti i dati disponibili convergono nel delineare una comunità umana che esprimeva il tutto attraverso pratiche e rituali funebri complessi e diversificati, ma che in tutti i casi rispondevano all'esigenza di dare risalto al defunto e preservarne i resti. In conclusione, la complessa e variegata articolazione delle emergenze archeologiche che insistono sul pianoro di Monte Sirai, oftré un quadro sufficientemente chiaro sulla storia del centro. Dalle indagini archeologiche in corso di svolgimento si spera possano continuare a emergere quelle preziose tessere documentarie che componevano il variopinto mosaico di relazioni flessibili e articolate che caratterizzò la vita dei principali insediamenti della Sardegna sud-occidentale tra la fine dell'Età del Bronzo e le soglie dell'età romana, di cui Monte Sirai è un brillante esempio.
Nota bibliografica 1981; B ARTOLONI 2000a; P ERRA 2001; B OTTO, 2005; F INOCCHI 2005; GUIRGUIS 2005; GUIRGUIS, ENZO, PIGA 2009; GUIRGUIS 2010; GUIRGUIS 2011a; GUIRGUIS 2012.
MARRAS
SALVADEI
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82. La regione del Sulcis in epoca fenicia e punica.
prese possesso dell'altura, frequentata sin dal IV millennio a.C. dalle popolazioni locali, in ragione della sua posizione strategica di raccordo fra la linea di costa e le aree più interne del paese e con l'intento di sfruttare le ingenti risorse agropastorali e minerarie del territorio circostante. L'occupazione di Pani Lo riga si configura come l'esito maturo di un lungo processo di espansione politico-commerciale avviato dai Fenici nel Sulcis, che prende le mosse da Sulky- il principale insediamento coloniale della regione ubicato sull'isola di Sant'Antioco - già nel corso dell'VIII secolo a.C. in sinergia con alcune delle più influenti comunità nuragiche attive sul territorio (fig. 82). L'abitato arcaico non è stato ancora localizzato, ma la sua esistenza è confermata dalla messa in
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luce di una necropoli a incinerazione individuata sul versanw occidentale dell'altura {fig. 83). Molto più consistenti sono i resti dell'insediamento punico, dal momento che Cartagine nell'arco di pochi decenni, fra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., mise in atto un imponente sforzo per realizzare un avamposto in grado di operare un effettivo controllo su un'area ritenuta strategicamente importante. Le indagini più recenti hanno evidenziato una continuità di interessi nella regione da parte dell'elemento fenicio e successivamente a opera dell'esercito cartaginese favorita dalla navigabilità del Rio Palmas e dalla particolare conformazione dell'omonimo golfo a sud dell'isola di Sant' Antico, nel quale dovevano trovare riparo le imbarcazioni della flotta di Sulky. Alla prima metà dell'VIII secolo a.C. risalgono infatti i primi contatti fra i Fenici e gli abitanti del Nuraghe Tratalias - che si erge a controllo del lato destro del corso terminale del Rio Palmas - destinati a intensificarsi negli ultimi decenni del VII secolo a.C., quando l'archeologia registra un drastico cambiamento nelle strategie economiche attuate da Sulky, decisa a gestire in modo più diretto le risorse del territorio circostante. In questo periodo storico si deve inserire la fondazione dell'insediamento sardo-fenicio di Pani Loriga, del quale si conosce soprattutto la necropoli grazie alle indagini promosse da Ferruccio Barreca alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, che hanno portato all'individuazione di oltre 140 fosse ricavate nel banco di riolite che occupa parte del versante occidentale della collina. A Pani Loriga era praticato in prevalenza il rituale dell'incinerazione secondaria, come evidenziato dalla presenza all'interno dello spazio funerario di ustrina, cioè di luoghi di arsione comunitari. Spenta la pira si procedeva a una raccolta parziale delle ossa calcinate dei defunti che venivano successivamente sparse sul fondo delle fosse - generalmente di forma lenticolare - scavate nella terra e parzialmente nel banco di riolite. Negli scavi diretti da Ferruccio Barreca il rituale dell'inumazione risulta attestato solo
nella cosiddetta Tomba 33. Recentemente, tale rituale è stato individuato anche in una sepoltura bisoma vicina alla precedente (Tomba 2016B), grazie alle indagini condotte dall'Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (ora Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale) del CNR e dalla SABAP di Cagliari con il supporto degli operatori Ati-Ifras e della Cooperativa Sémata. Le due tombe, collocate a pochi metri di distanza l'una dall'altra, presentano lo stesso orientamento nord-ovest/sud-est. Da un punto di vista tipologico si differenziano dalle prevalenti deposizioni a incinerazione per le dimensioni eccezionali della fossa, di forma rettangolare, ricoperta da lastre alloggiate in ampie riseghe disposte sui lati lunghi della sepoltura. Altrettanto singolare risulta la presenza sul fondo della fossa di due depressioni speculari in corrispondenza dei lati corti, che ricordano analoghi apprestamenti in tombe di Utica e Cartagine. A quest'ultimo centro rimandano anche i corredi vascolari che permettono di datare la Tomba 33 agli inizi del secondo quarto del VI secolo a.C. e le due sepolture della Tomba 2016B entro la prima metà dello stesso secolo. Analogamente a quanto ipotizzato per gli individui inumati della vicina Monte Sirai, le cui sepolture si datano alla prima metà del VI secolo a.C., si è proposto di considerare i personaggi deposti nelle tombe a fossa rettangolare di Pani Loriga come originari di Cartagine. La metropoli nordafricana in effetti è l'unica fra le colonie fenicie occidentali dove in epoca arcaica prevale il rituale dell'inumazione. L'ipotesi del trasferimento e del progressivo radicamento di Cartaginesi in
alcuni insediamenti fenici di Sardegna prima dell'espansionismo militare della metropoli nord-africana nel Mediterraneo centrooccidentale, databile ai decenni finali del VI secolo a.C., si integra perfettamente con il quadro di conoscenze che negli ultimi anni si è andato definendo riguardo alla natura "aperta" dei centri coloniali fenici ed è stata recentemente proposta anche per Tharros e Othoca. I materiali provenienti dalla necropoli a incinerazione costituiscono un documento di fondamentale importanza per stabilire la cronologia dell'insediamento arcaico. Le ·attestazioni più antiche riguardano la già menzionata Tomba 33 e la Tomba 23, che ha restituito una brocca bilobata degli inizi del VI secolo a.C. e alcuni monili riferibili al corredo personale. Si tratta di tre pendenti in argento: due del tipo "a cestello" e uno a lamina rettangolare con sommità arrotondata e bordi rilevati, raffigurante un "idolo a bottiglia" fra urèi discofori su base altare. Grazie all'analisi dei corredi editi è possibile affermare che la necropoli entrò in funzione agli inizi del VI secolo a.C. e fu utilizzata sino ai decenni finali dello stesso secolo, quando l'intera regione passò sotto il controllo di Cartagine e sulla collina venne predisposto un nuovo impianto funerario - su un costone roccioso leggermente a nord del banco di riolite dove si trovano le sepolture in fossa di cui si conoscono cinque tombe a camera scavate nel corso delle indagini condotte sul sito da Ferruccio Barreca. Tutte le camere funerarie erano dotate di corridoio di accesso in lieve pendenza, ricavato nella parte più friabile della roccia, e di
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un'entrata, che in origine doveva essere provvista di una lastra di chiusura. Le camere sono a pianta quadrangolare e risultano caratterizzate da nicchie ricavate nelle pareti interne destinate alla deposizione del corredo dell'inumato, oppure alle offerte rituali. La Tomba 146 presenta una caratteristica costruttiva peculiare di cui si hanno precisi confronti nelle necropoli puniche di Monte Sirai e di Sulky: permane infatti in situ la base
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di un pilastro, localizzato al centro della camera, che aveva la funzione di sostenere il soffitto della tomba. Il rituale legato a queste sepolture è quello dell'inumazione: il defunto, deposto prevalentemente in sarcofagi lignei, era accompagnato con cerimonie purificatrici e offerte all'interno del sepolcro, dove avrebbe riposato per l'eternità assieme ai membri della propria famiglia. Successivamente, il
Alla luce delle nuOvè conoscenze, è probabile
''Acropoli" - che si configura come un ampio pianoro di forma ellittica (240x70 m ca.) con fianchi scoscesi a eccezione del versante meridionale. Per questo motivo il pianoro sommitale era il luogo meglio difendibile dell'insediamento e allo stesso tempo il più adatto per controllare il territorio circostante. Non a caso nel settore settentrionale del pianoro - in corrispondenza del punto in assoluto più elevato del colle (183 m s.Lm.) venne eretto nel XVI secolo a.C. un nuraghe del tipo "a corridoio" conosciuto in epoca moderna con il "nuragonimo" Diana. All'arrivo dei Fenici è probabile che il Nuraghe Diana, ora completamente collassato, fosse parzialmente utilizzabile, sebbene avesse perso da lungo tempo le sue originarie funzioni. Per questo motivo venne realizzato immediatamente a nord del nuraghe un grande edificio di pianta quadrangolare - definito "mastio" dal Barreca che ancora oggi impressiona per lo spessore dei muri e per la grandezza dei monoliti angolari saldamente infissi nel terreno. In assenza di dati di scavo è difficile stabilire quando il "mastio" venne edificato e per quanto tempo rimase in funzione, ma la natura strategica dell'impianto appare certa, considerate le dimensioni dei blocchi perimetrali e la posizione dominante a controllo del territorio e della stessa collina. Nonostante l'ampia porzione di pianoro posizionata a sud del Nuraghe Diana si presenti
che si tratti piuttosto di un complesso polifunzionale destinato non solo a proteggere l'insediamento, ma anche alla preparazione e allo stoccaggio di cibi. Inoltre, il rinvenimento di una testina fittile femminile di fattura greca, databile alla fine del VI secolo a.C., sembrerebbe indicare la presenza di uno spazio sacro (fig. 86). Alla sfera cultuale indirizzano anche gli scavi condotti dai colleghi Marco Arizza, Giuseppe Garbati e Tatiana Pedrazzi, che hanno portato alla messa in luce, nel vano più meridionale del complesso, di un kernos con supporto circolare su cui erano posizionati otto vasetti di forma globulare. Le strutture sopraindicate si trovano in posizione intermedia fra due aree abitative di notevoli dimensioni. La prima, già individuata dal Barreca, si colloca su un ampio pianoro ubicato a meridione dell'acropoli (Area A), mentre la seconda, scoperta solo di recente, interessa il versante settentrionale • dell'altura (Area B). L'abitato meridionale è stato oggetto di indagini da parte di Ida Oggiano, coadiuvata da Tatiana Pedrazzi, che hanno messo in luce un'abitazione a pianta bipartita. Nella casa si accedeva da una sorta di slargo che si apriva su una strada. L'entrata introduceva in un cortile con una banchetta oggi non più visibile, un forno per la cottura del pane (tannur) e diverse anfore. Dal cortile si entrava al secondo vano all'interno del quale sono state individuate almeno 15 anfore di grandi dimensioni adibite allo stoccaggio di prodotti alimentari, verosimilmente vino, olio e cereali. In questo ambiente si svolgevano diverse attività: gli alimenti venivano preparati in appositi bacini, cotti su un focolare in pentole e in grosse teglie lavorate a mano, consumati in piatti e coppe di varia foggia. I frammenti delle forme ceramiche, quasi interamente ricostruibili, sono stati ritrovati sparsi sul piano di calpestio, anche a distanza notevole l'uno
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rememo settore orientale della collina.
86. Protome di tipo ionico , fine VI sec. a.e. , ceramica , proveniente da Pani Loriga (Santadi), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. La terracotta votiva, messa in luce durante gli scavi diretti sul sito da Ferruccio Barreca , proviene verosimilmente dall'allineamento di ambienti bipartiti di forma rettangolare collocati sul pianoro a est dell'acropoli (Area C).
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dall'altro. Questo sembra indicare che fossero originariamente posizionati in alto, per esempio su mensole, e che cadendo si siano sparpagliati sul pavimento. Il vano fu abbandonato repentinamente, tanto che tutto il materiale in esso contenuto fu lasciato sul posto. L'analisi preliminare della documentazione ceramica consente di inquadrare la fase di vita della struttura in un periodo compreso all'incirca tra la fine del VI e la metà del IV secolo a.C., momento a cui si ascrive l'abbandono dell'edificio, successivamente rioccupato in modo parziale sino al III secolo a.C. Dal pianoro meridionale l'abitato punico si estendeva lungo tutto il versante orientale della collina sino a raggiungere il settore settentrionale, dove nel corso di prospezioni condotte da chi scrive e Federica Candelato è stato individuato nel 2006 un tratto murario che si è rivelato pertinente a un grande edificio, denominato Area B, ubicato in prossimità di uno dei principali accessi all'insediamento. L'accesso pedonale da nord - e per il primo tratto forse anche carraio visti i solchi non databili ma ancora riconoscibili alla base della collina - avveniva attraversando l'insellatura naturale che separa le ripide pareti dell'Acropoli dal ripiano roccioso della cosiddetta Area Sacra, che si protende lungo
T a l e ~ a suo tempo individuata dal Ba!tmca ed entrata in letteratura con il termine di "Valloncello", introduce alla quota di 148 m s.l.m. in uno spiazzo ampio all'incirca 1000 m 2, che ha permesso la realizzazione di un grande complesso edilizio organizzato su due livelli, costruito sfruttando e adattando la naturale conformazione della roccia (fig. 85). Dell'edificio, ancora in fase di scavo, sono state date nel corso del tempo numerose descrizioni a cui si rimanda per i necessari approfondimenti. In questa sede preme sottolineare la datazione del complesso - in funzione dalla fine del VI/inizi V sino alla metà circa del IV secolo a.C. - e il suo carattere polifunzionale. La cronologia si basa sia sui numerosi materiali punici rinvenuti durante gli scavi sulle ceramiche di importazione, riferibili essenzialmente a forme potorie per il consumo di vino, fra cui spiccano uno skyphos attribuito all'officina del Pittore di Haimon attiva ad Atene fra il 500 e il 480 a.C. e una kotyle con decorazione a motivo vegetale che propone temi diffusi a Corinto nelle fasi finali del VI secolo a.C. Nella parte a valle, l'edificio ospitava un sacello (Vano 1) e ambienti destinati sia allo stoccaggio e alla lavorazione di materie prime commestibili (vino, olio, cereali) sia alla cottura e al consumo di cibi (Vani 2, 5, 8). La rilevante quantità di anfore messa in luce negli scavi testimonia le potenzialità del sito in grado all'interno del complesso sistema economico di sfruttamento territoriale gestito da Sulky di produrre un surplus di beni alimentari destinati all'esportazione. Le analisi biochimiche effettuate su un'ampia gamma di vasi hanno evidenziato l'utilizzo nelle pratiche culinarie di oli vegetali e vino insieme a grassi animali derivati da carni macellate di ruminanti e suini. L'individuazione di numerose forme utilizzate per la preparazione, la cottura e il consumo di alimenti solidi e liquidi, ha permesso di ipotizzare l'esistenza di una bottega in cui venivano confezionati cibi per i viandanti in entrata e in uscita dall'insediamento, oppure offerte destinate alle divinità titolari dell'attiguo sacello. In un ampio spazio aperto (Vano 4) venivano cotte focacce di pane all'interno dei caratteristici forni tronco-piramidali (tannu r) , di cui lo scavo ha restituito considerevoli porzioni. Quest'ambiente rivestiva anche una fu nzione di raccordo con la fila di ambienti
ristrutturazione avviati già nel corso del V secolo a.C. Durante la campagna del 2013 nel Vano 7 è stato messo in luce un deposito di fondazione: all'interno di un "pozzetto" addossato al muro occidentale sono state rinvenute insieme a un ritaglio di piombo alcune ossa animali - accuratamente selezionate e disposte con attenzione sul fondo della cavità - attribuibili a ovicaprini, bue e cervo. Un secondo deposito è stato messo in luce nella fossa di fondazione che divide il Vano 6N dal 7: in questo caso il rituale prevedeva l'offerta, in un piccolo piatto rinvenuto capovolto, di parti selezionate di ovicaprino delle quali si è conservata una vertebra. Per dimensioni e complessità dell'impianto, articolato in numerosi vani, e per la monumentalità degli elementi perimetrali e di raccordo dei vari ambienti, si ritiene che l'edificio messo in luce nell'Area B sia frutto di un impegno progettuale che investì l'intera comunità di Pani Loriga. In conclusione, le indagini in corso evidenziano l'esistenza di un grande abitato suddiviso in quartieri con funzionalità diverse. Sono evidenti in effetti le differenze strutturali e d'impianto fra gli edifici ubicati sul pianoro a sud dell'Acropoli (Area A), interpretabili come abitazioni private, e il complesso individuato sulle pendici nord-orientali dell'altura (Area B), che sembrerebbe il frutto
dell'insediamento sia come aree in cui si svolgevano attività differenziate di carattere produttivo e cultuale in cui tutta la comunità era coinvolta. L'impianto monumentale di queste strutture sembra dare parzialmente ragione a Ferruccio Barreca, che definiva Pani Loriga una vera e propria fortezza. Tuttavia, rispetto all'interpretazione sviluppata dallo studioso, in cui si sosteneva l'esistenza di ben tre cinte murarie disposte a vari livelli della collina, peraltro non individuate nelle indagini recenti, se ne propone un'altra che permette di definire Pani Loriga "sito strutturalmente protetto': Secondo questa nuova interpretazione gli edifici sul lato settentrionale della collina, disposti su terrazzamenti artificiali e separati fra loro da percorsi obbligati, avrebbero costituito un sistema difensivo solidale ed estremamente efficace, la cui parte più sicura era rappresentata dall'Acropoli. Gli scavi condotti nell'abitato punico hanno evidenziato un repentino abbandono delle strutture indagate intorno alla metà del IV secolo a.C. Purtroppo non è stato possibile stabilire le cause della calamità che colpì in modo del tutto inaspettato la comunità di Pani Loriga, a giudicare dalla quantità di vasi . e manufatti di varia natura recuperati nei più recenti livelli pavimentali. Sappiamo invece che le strutture distrutte furono successivamente rioccupate in modo temporaneo e per attività produttive legate molto verosimilmente allo sfruttamento agricolo. Le future indagini dovranno chiarire se l'abitato punico abbia continuato a vivere in altri settori della collina, oppure se la comunità di Pani Loriga si sia trasferita altrove.
Nota bibliografica 1966; T oRE 1973 -74; BARRECA 1978; T oRE 2000; BOTTO 201 2a; B OTTO 2012b; BOTTO 20 13a; B OTTO 20 14a; B OTTO, CANDELATO 2014; BOTTO, DESSENA, FINOCCHI 20 14; DESSENA 2015; BOTTO 20 16a; AR1ZZA, ET AL. 201 7; BOTTO 2017b; BOTTO 20 17c; BOTTO, ET AL. 2010; B OTTO, 0GGIANO 20 12; CASTIGLIONE 20 18; P ERRA 20 19; BOTTO, ET AL. c.s.; B ARRECA
MADRJGALI, T IRABASSI
c.s.
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88. Alllsraa.,1.MtSdta, Vsec. a.e., ceramicaJI 49 cm, prMDient&dalla Necropoli Jpogeica di Mante Luna (1Jmba Pax! ffl) (Senorbl), ~ri. Museo~ Nazionale. Canfora presenta sul corpo una decorazione fitomotfa dipinta in rosso con fiore di loto a tre petali che si imposta su un calice formato da due volute distinte e separate da un bottoncino trian~lare ad apice rovesciato; dal calice si dipartono altri due petali lanceolati. La decorazione è delimitata superiormente da una linea di colore rosso mentre inferiormente sono presenti linee alternate. !.'.anfora faceva parte di un corredo pertinente a un defunto di sesso maschile deposto su una barella, comprendente anche una lucerna attica a vernice nera datata entro il V sec. a.e.
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L'area dei siti dì Santu Teru e dì Monte Luna,
presso Senorbl, posta al limite orientale della Traenta, a circa 40 km da Cagliari nella Sardegna meridionale, si dispone sopra due modesti rilievi, rispettivamente di metri 196 e 204 s.l.m., in cui prevalgono sedimenti marnoso-arenacei e argillosi del Miocene, caratteristici della regione. Le due alture sono separate da una vallecola a fondo concavo su cui insiste attualmente una strada di penetrazione agraria. Il sistema collinare, ad eccezione del versante settentrionale, è delimitato da due corsi d'acqua, il Riu Cardaxius e il Riu Santu Teru; il primo confluisce da Oriente verso il secondo in regione San Teodoro, mentre il secondo con il nome di Riu Mannu diventa uno dei maggiori affluenti del Flumini Mannu, una delle principali arterie fluviali del versante centromeridionale sardo, il quale si riversa nello
specchio acqueo lagunare di Sànta Gilla. Le due colline ospitavano l'anonimo insediamento dì Santu Teru e la sua necropoli di Monte Luna. Le fonti documentarie più antiche - che testimoniano la presenza di una frequentazione antropica preistorica, protostorica e storica nelle aree di Santu Teru e di Monte Luna - possono riferirsi a occasionali rinvenimenti ottocenteschi a cui sono seguite, a partire dagli anni Settanta del Novecento, le fasi di investigazione del centro di Santu Teru e, soprattutto, della sua area funeraria di servizio, ubicata sulle pendici del vicino rilievo di Monte Luna. Le prime indagini nell'area furono effettuate dopo le campagne di prospezione archeologica condotte tra il 1968 e la fine degli anni Settanta da Antonio Maria Costa nelle regioni di Trexenta, Gerrei e Sarrabus. A seguito delle reiterate violazioni da parte dei clandestini, le ricerche condotte dal Costa dal 1977 sino agli anni Novanta si concentrarono principalmente nello scavo dell'area funeraria, mentre l'insediamento urbano fu oggetto solo di esplorazione di superficie. I rinvenimenti effettuati sulla sommità del rilievo di Santu Teru hanno consentito di attribuire dignità urbana al sito. I numerosi materiali punici raccolti si riferiscono soprattutto ad anfore puniche di V-IV secolo a.C., lucerne, ceramica comune e da cucina, monete, ma non mancano materiali di importazione come documentato dall'abbondante presenza di ceramica attica a figure rosse e a vernice nera. La ceramica greca ha consentito di datare le prime fasi di frequentazione dell'impianto urbano al V secolo a.C. Anche per quanto riguarda la necropoli di Monte Luna, la più antica attestazione di cultura materiale indica un primo utilizzo delle tombe a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., nonostante il periodo di maggior utilizzo possa essere meglio definito tra il IV e il III secolo a.C. Sono state indagate circa 120 tombe che hanno permesso di riconoscere prevalentemente il tipo con camera ipogeica aperta su un lato breve con accesso a pozzo, simile a quello della necropoli cagliaritana di Tuvixeddu. Il pozzo d'accesso alla camera, in alcuni casi, può essere rinforzato dall'impiego
90. Vc3so a "biberon·, V-IV sec. a.e., ceramica, h 9,5 cm, proveniente dalla Necropoli ipogeica di Monte Luna (Tomba Paxi lii) (Senorbì), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il vaso, a pancia globulare, presenta un versatoio ed è prowisto di un'ansa che sormonta l'orlo. La decorazione dipinta in bruno, costituita da motivi a goccia e gruppi di tre trattini verticali, interessa l'orlo, la spalla e il versatoio. La forma, documentata già da età arcaica nel tofet di Sulky, è diffusamente distribuita nelle successive necropoli puniche isolane, spesso in correlazione con askoi zoomorfi. Tale vaso a "biberon " viene in genere associato ai derivati del mondo animale quali il latte, elemento cardine nella alimentazione dei bambini nelle loro prime fasi di vita.
di strutture murarie e lastre di calcare per integrare o sostituire le pareti rocciose a causa della loro friabilità, secondo un sistema di matrice africana. L'accesso alle camere, originariamente chiuse attraverso l'utilizzo di lastre, avveniva tramite un ingresso rettangolare. Per quanto riguarda le camere funerarie, singole o doppie, queste hanno soffitto piano o presentano volta a botte, ma non mancano quelli a spiovente inclinato verso il fondo della camera, mentre il pavimento, nella maggior parte dei casi orizzontale, è allo stesso livello del piano di calpestio o a un livello leggermente inferiore. Tra gli apprestamenti decorativi, quelli architettonici prevedono nicchie ricavate al centro delle pareti. Diverse sepolture documentano inoltre motivi lineari e geometrici dipinti con un pigmento rosso direttamente apposto sulla nuda roccia e solo in sporadici casi sopra uno strato di intonaco bianco. Per tale tipo di tombe l'arco cronologico di impianto e di utilizzo sembra compreso tra il V e il III secolo a.C. come testimoniato dai corredi, mentre il rito funerario praticato è quello dell'inumazione. Le deposizioni all'interno della camera potevano essere monosome o prevedere più defunti, deposti all'interno di
bare lignee finemente decorate con stm:co ed elementi di metallo. Sono più tarde le altre attestazioni tipologiche in cui può verificarsi la compresenza del rito inumatorio e di quello dell'incinerazione. Tra gli altri tipi rappresentati a Monte Luna, le tombe a fossa scavate nella roccia sono diffusamente distribuite nello spazio cimiteriale, non sempre rispettando l'impianto delle sottostanti tombe a camera. Le fosse presentano forma parallelepipeda e sono chiuse con lastre singole o multiple giustapposte poggianti su gradini laterali. Alcune tombe sono invece semplicemente chiuse da pietrame bruto cementato con malta di fango e frammenti ceramici. Nella varietà tipologica del quartiere funerario si differenzia una sepoltura a cassone, ovvero una tomba a fossa foderata con sei lastre di calcare e una più grande di chiusura. Sono presenti anche tombe in enchytrismòs, vale a dire all'interno di anfore da trasporto opportunamente tagliate (fig. 336); in un caso si è documentato anche un tumulo di forma tronco-piramidale contenente una brocca con i resti di un'incinerazione accompagnata da una stele la cui parte superiore era all'interno del tumulo stesso.
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91. Scarabeo, V-IV sec. a.e., corniola, proveniente dalla Necropoli ipogeica di Monte Luna (Tomba Paxi Il) (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta". Scarabeo con iconografia ellenizzante. Il reperto presenta tracce labili della originaria montatura in argento e reca sulla base, a lettura verticale, un comaste nudo entro una cornice a treccia, in ginocchio verso sinistra, con in mano un fiore di loto. Lo scarabeo, rinvenuto all'interno della camera A, già violata da clandestini, era associato a un vago globulare in lamina aurea a decorazione incisa e a un'anfora punica. 92. Scarabeo, V-IV sec. a.e., diaspro, proveniente dalla Necropoli ipogeica di Monte Luna (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta". Scarabeo con iconografia ellenizzante realizzata con la tecnica a globo. !.'.esemplare ,
compreso entro una cornice a trattini, presenta tracce labili della originaria montatura. Sulla base, a lettura verticale, è rappresentata una figura teriomorfa composta da un personaggio maschile nudo e da un leone, letta come esito iconografico che unifica gli attori di uno scontro mitico, forse della lotta di Eracle con il leone nemeo. 93. Amuleto, V-IV sec. a.e., pasta silicea o steatite, proveniente dalla Necropoli ipogeica di Monte Luna (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta". Amuleto rappresentante un gatto seduto sulle zampe posteriori sopra un basamento di forma parallepipeda; il mantello dell'animale è segnato da tratti verticali e obliqui incisi. Il foro di sospensione si innesta tra la nuca e le spalle del felino. Il soggetto è discretamente diffuso in ambito funerario nelle
necropoli di tutto il Mediterraneo punico. 94. Amuleto, V-IV sec. a.e., pasta silicea o steatite, proveniente dalla Necropoli ipogeica di Monte Luna (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta". Amuleto rappresentante un occhio udjat. Il sopracciglio assume una forma arcuata sormontata da un elemento a tre fasce mentre l'appendice sottostante l'occhio è subrettangolare con tre incisioni. Dal punto di innesto dell'appendice con l'occhio si diparte un listello obliquo arcuato con andamento opposto alla pupilla, resa ad incisione, che si salda con un pilastrino verticale. Al pilastrino si connettono sia la parte terminale dell'occhio sia il sopracciglio. Il motivo, desunto dal patrimonio religioso e iconografico egizio, rappresenta l'occhio di Horo ed è ampiamento attestato nel repertorio simbolico punico.
95. lamina in forma di foglia o piuma, V-IV sec. a.e., oro, proveniente dalla Necropoli ipogeica di Monte Luna (Tomba 53) (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta". Le lamine rinvenute nella necropoli di Monte luna accrescono il repertorio di una classe di oggetti diffusa in Sardegna sia in contesti funerari (Nora, Othoca, Villaputzu, Olbia) sia di ambito sacrale, come documentato nei casi dei templi di Antas, del sacello del Nuraghe Genna Maria di Villanovaforru nonché del santuario rurale di Scala 'e eresia di Morgongiori. Per quanto concerne il mondo funerario queste foglie sono state poste in relazione con sepolture di elevato ceto sociale a manifestazione dello status dell'individuo, mentre appare più problematica l'interpretazione per la documentazione rinvenuta dai contesti sacri , dove, forse, costituiva l'ornamento del capo di statuine fittili o in legno.
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Qwiiifo1llla ~ oltttai. enme1os1ssimi esempi di produzione punica ( ~ 88-90), sono particolarmente abbondanti le importazioni provenienti da botteghe attiche e
al centro di produzione, sono sostanzialmente due le ipotesi più accreditate; la prima vede nel mondo magno-greco tarantino del IV secolo a.e. l'ambiente culturale di realizzazione del gioiello; la seconda ipotesi suggerisce una produzione in ambito greco-euboico in virtù dei confronti istituibili con collane con pendenti a bocciolo rinvenute a Eretria. 97. Anello digitale, IV sec. a.e., oro, proveniente dalla Necropoli ipogeica di Monte Luna (Tomba 99) (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta". Anello con castone ovale, con testa maschile barbata, realizzato in tecnica mista (laminatura, trafilatura, punzonatura). L'anello trova un preciso riscontro, sia dal punto di vista tipologico che iconografico, in un simile manufatto cartaginese; non può escludersi pertanto che entrambi gli anelli possano essere stati prodotti dalla stessa bottega o addirittura dallo stesso orafo. 98. Anello digitale , IV sec. a.e., oro, proveniente dalla Necropoli ipogeica di Monte Luna (Tomba 16) (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta ". Anello con castone fisso a staffa di forma ellittica con verga a sezione semicircolare realizzato in tecn ica mista (laminatu ra, trafilatura e incisione) ; sul castone è inciso l'occhio udjat.
italiche. Tra i gioielli in oro si distinguono collane (fig. 96), anelli digitali (figg. 97-98), bracciali, diademi e orecchini. Non mancano i sigilli in diaspro verde, corniola e calcedonio rappresentanti motivi desunti dai repertori iconografici greci ed egittizzanti (figg. 91-92). Sono numerosi anche gli amuleti che riprendono il repertorio egittizzante, come ad esempio Horo Ra, Horo falcone, Ptah Pateco o l'urèo (figg. 93-94). Per quanto concerne la coroplastica è da segnalarsi la presenza di una statuina fittile raffigurante una suonatrice di flauto. È inoltre ben attestata la pratica cartaginese di dotare il defunto di lasciti monetali in bronzo, singoli o raggruppati in gruzzoli consistenti; sono presenti i principali tipi emessi a Cartagine ma non mancano esemplari pertinenti alle serie sardo-puniche. Sempre in bronzo, possono ricordarsi rasoi, campanelli, strigili e oggetti di piccola fattura. La ripresa degli studi nell'area da parte dell'Università di Cagliari sta progressivamente documentando le fasi edilizie del centro; lo studio sistematico dei materiali derivanti dalle vecchie e nuove prospezioni di superficie permetterà inoltre di chiarire tempi e modalità di frequentazione della regione senorbiese in epoci cartaginese, definendo in tale modo il processo di punicizzazione dell'area, inquadrabile nella politica di controllo capillare di sfruttamento delle risorse territoriali tout court attuato da Cartagine già a partire dal V secolo a.C., lungo la direttrice meridionale proveniente da Karaly.
Nota bibliografica S PANO C OSTA COSTA
1851a; SPANO 1860; S PANO 1870; FIORELLI 1881; 1980; U SAl 1981; COSTA 1983a; COSTA 1983b; 1983c; C OSTA, U SAI 1990; T RONCHETTI 1991; 1994; PISANO 1996a; PISA O 1996b; B OARDMAN
COSTA 2 003; A CQUARO 2 009; A CQUARO 2 011 ; SOLINAS 2 011 .
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t * ~ fèmaoe pµnicoJiel:versmte otienWe dellà Sardegna presenta alcunf elementi di spegfiatà riconducibili almeno in parte alle caiatteristiche ambientali del territorio. Tra i lattori maggiormente condizionanti sul piano geomorfologico è da annoverare la conformazione costiera prevalentemente alta e rocciosa, che rappresenta un ostacolo per rapprodo dal mare: essa appare più dolce a settentrione, nella zona dell, odierna Costa Smeralda, mentre risulta frastagliata proseguendo verso Capo Coda Cavallo e lo stagno di San Teodoro; raggiunge il massimo di altitudine in corrispondenza del Golfo di Orosei e continua più o meno uniforme sino a Capo Carbonara, interrotta talvolta da litorali bassi e sabbiosi che danno accesso a pianure alluvionali. Tale configurazione geografica favorì la strutturazione dell'insediamento secondo un modello emporico, che non dovette evolversi se non in epoche piuttosto recenti e tranne nel caso di Olbia - nella costituzione di centri a carattere urbano. Tra il caposaldo gallurese appena ricordato e quello di Cuccureddus di Villasimius si registra infatti la presenza, fin dall'epoca preistorica e protostorica, di nuclei abitativi situati in prossimità di aree lagunari o estuari fluviali parzialmente navigabili, in
99. Foce del Rio Posada (Sardegna nord-orientale) (foto D. Ruiu). La localizzazione degli insediamenti presso la foce di fiumi non è esclusiva del mondo fenicio ma rappresenta una costante del paesaggio costiero mediterraneo. Tale caratteristica topografica era funzionale a collegare le rotte marittime con le principali vie di penetrazione verso l'entroterra, permettendo la creazione di una fitta rete di centri di scambio sui quali si basava il commercio antico.
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u n a , ~ ~ è le de1re ~marine eoterrestn e dei tiafficl. commerciali tirreJlki. l ~ti a ~ dispomòffi, per lo più provenienti dall'immediato entroterra, sembrano indicare un coinvolgimento di tali siti costieri nella variegata frequentazione egeo-levantina delle fasi finali dell'Età del Bronzo (XII-IX sec. a.e.); tuttavia, la loro vocazione commerciale si manifesta con maggiore evidenza nella Prima Età del Ferro (IX-fine VIII sec. a.C.) e nelle successive epoche orientalizzante (fine VIII sec.-620 a.C.) e arcaica (620-480 a.C.), quando essi appaiono pienamente inseriti in una fitta rete di contatti con il mondo villanoviano, fenicio, greco ed etrusco. Se è vero, peraltro, che una delle principali ragioni di questa fioritura può essere identificata nella ricchezza metallifera del territorio, un ruolo altrettanto rilevante dovette assumere la felice posizione geografica, a controllo di una rotta di vitale importanza nei traffici commerciali centromediterranei e nella geopolitica cartaginese, fino all'epoca dello scontro frontale con Roma. Procedendo da nord a sud, uno degli insediamenti in questione è stato localizzato presso la foce del Rio Posada (fig. 99), alla sommità della collina oggi occupata dall'abitato omonimo. Il sito, qualificabile
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come porto fluviale e forse corrispondente alla Pheronia polis menzionata da Tolomeo {3.3.4), ha restituito cospicue testimonianze di una frequentazione risalente all'Età del Bronzo e proseguita nell'Età del Ferro. Tra il IX e il VI secolo a.C. si colloca un ricco campionario di ceramica di ispirazione orientale (anfore "tipo Sant'Imbenia"), fenicia (anfore, coppe e piatti), greca (anfore corinzie A e una coppa ionica B2) ed etrusca (in particolare una kylix in bucchero), mentre un altro nucleo di ritrovamenti, costituito da anfore puniche e "greco-italiche", ceramica a vernice nera attica e di produzione centro-italica, documenta la vitalità del centro ancora nel IV-III secolo a.C. Oltre ai materiali appena richiamati, vanno segnalate alcune fibule riferibili a produzioni villanoviane del IX secolo e altre confrontabili con esemplari rinvenuti a Pithekoussai (Ischia) , in contesti del terzo quarto dell'VIII secolo a.C. Sebbene manchino al momento conferme sul terreno, numerosi indizi sembrerebbero indicare l'esistenza di un altro porto fluviale presso la foce del Cedrina, nel Golfo di Orosei. A esso dovrebbero riferirsi sia i materiali d'importazione provenienti dall'entroterra (in particolare dal territorio di Irgoli), sia alcuni frammenti a vernice nera rinvenuti in prossimità della costa, inquadrabili nell'insieme tra il IX e il III secolo a.C.
evidenziato una frequentazione non più antica del IV-II secolo a.C., documentata da anfore puniche e "greco-italiche", ceramica a vernice nera attica e Campana A. • L'ultimo dei porti fluviali finora individuati lungo il litorale tirrenico è situato a circa tre chilometri dalla foce del Flumendosa, nella località di Santa Maria di Villaputzu. Comunemente identificato con il centro di Sarcapos ricordato nell'Itinerarium Antonini, esso sorse verosimilmente già alla fine dell'Età del Bronzo, in funzione degli importanti giacimenti di piombo argentifero dell'entroterra. A partire dal VII secolo a.C. ospitò un nucleo di popolazione di cultura punica, acquisendo nel tempo un'importante funzione strategica nell'ambito della politica economica e militare di Cartagine. L'ampiezza dei suoi orizzonti commerciali tra il VII e il III secolo a.C. è testimoniata dai cospicui rinvenimenti di anfore da trasporto (in particolare puniche e "greco-italiche"), nonché dalle importazioni di ceramica da mensa etrusca ( etrusco-corinzia, bucchero e a figure rosse), greco-orientale (coppe ioniche), attica ( a figure nere e a figure rosse) e romana mediorepubblicana (atelier des petites estampilles).
Nota bibliografica 1984; SECCI 1998; SANCIU 2010; SANCIU 2012; 2012; M ANUNZA 2013; SALIS 2016; Z UCCA 2017b.
Z UCCA SECCI
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Il lavoro, la produzione, l'economia
Le attività agricole Peter van Dommelen, Carlos G6mez Bellard APPROFONDIMENTI
L'.uomo e il sistema vegetale Maria Mureddu
L'.uomo e gli animali Salvatore Chi/ardi, Alfredo Carannante
L'attività mineraria Piero Bartoloni APPROFONDIMENTO
La lavorazione del ferro Raimondo Secci
Le attività artigianali Raimondo Secci APPROFONDIMENTI
La lavorazione della ceramica Raimondo Secci
La lavorazione dell'oro e dell'argento Raimondo Secci
La produzione del vetro e l'officina del Nuraghe Sirai Carla Perra
I profumi Dominique Frère
101. Askos zoomorfo, IV-lii sec. a.e., ceramica , h 17,6 cm, proveniente da Tharros (Cabras) , Oristano, Antiquarium Arborense.
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Le attività agricole Peter van Dommelen, Carlos G6mez Bellard
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102. Due pozzi per l'acqua scavati a Truncu 'e Molas (Terralba, giugno 2007).
Introduzione La vocazione agricola è una costante economica e sociale che attraversa gli otto millenni di storia umana in Sardegna e il periodo fenicio-punico non fa eccezione. Essendo la principale attività economica in società premoderne e precapitaliste, il significato dell'agricoltura è fondamentale e merita già per questo più attenzione di quanto le sia stata accordata tradizionalmente negli studi archeologici e storici, compresi quelli fenicio-punici. Nel caso specifico, il significato è ulteriormente amplificato dal contesto coloniale, dato che la terra e i suoi prodotti - agricoli e minerari costituivano nella Sardegna di età punica il motivo principale dell'occupazione: la fama e la vocazione agricola dell'Isola risalgono infatti a questo periodo. Nelle fonti classiche la ben nota perizia agronomica cartaginese era generalmente riconosciuta come elemento determinante nella ricca produzione, soprattutto cerealicola, che alimentò sia la stessa città di Cartagine sia le sue forze militari mercenarie. Gli autori antichi forniscono tuttavia pochissimi dettagli sui luoghi e sulle modalità della produzione nella Sardegna punica e il recente apporto archeologico è stato perciò di fondamentale importanza per gettare luce sull'agricoltura isolana dell'epoca.
Lo studio archeologico del mondo rurale nel Mediterraneo antico nacque negli anni Settanta del secolo scorso sulla scia dell'avvento di sistematiche e intensive prospezioni di superficie, che misero in luce numerosi e inaspettati siti rurali dall'età classica a quella tardo-romana, attraverso il Mediterraneo, dalla Siria fino alla penisola iberica. Nei decenni successivi, progetti di ricognizione sempre più sofisticati, sfruttando opportunità tecnologiche avanzate, hanno confermato questa distribuzione generale, mentre scavi in estensione hanno cominciato a mettere in evidenza le specifiche caratteristiche abitative e produttive degli stabilimenti rurali in regioni e periodi distinti del Mediterraneo. In questa sede ci siamo proposti di offrire un breve ma sintetico quadro sull'agricoltura fenicio-punica per quanto attualmente conosciuta in Sardegna, soffermandoci in particolare sulle concrete evidenze archeologiche finora messe in luce nell'Isola. Sulle pagine che seguono ci concentreremo, perciò, sui pochi siti e regioni dove scavi e prospezioni sistematiche hanno apportato dati concreti e ben pubblicati. In primo luogo vedremo gli insediamenti rurali, per lo più interpretati come "fattorie': che rappresentano i luoghi centrali di occupazione e di attività agricole. Ci rivolgeremo, in seguito, alle stesse attività agricole, conservate in vari modi e a vari livelli, attestate da analisi scientifiche e interdisciplinari.
Gli studi rurali Lo studio delle campagne sarde in età punica ebbe inizio negli anni Sessanta del secolo scorso, con le cosiddette esplorazioni topografiche intraprese dall'allora soprintendente archeologo Ferruccio Barreca, che aspirava a cogliere la natura dell'egemonia cartaginese in Sardegna. Un risultato importante fu la scoperta del sito di Monte Sirai, che venne interpretato come una fortezza rurale per salvaguardare l'accesso fenicio e punico alle ricchezze minerarie dell'Iglesiente. Altrettanto significativa fu l'osservazione che le pianure e le valli della Sardegna centromeridionale fossero state densamente occupate
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103. Due bacini per la pigiatura dell 'uva scoperti a Truncu 'e Molas (Terralba, giugno 2007). Nello stesso sito sono stati rinvenuti anche una roncola di ferro per la potatura e un vinacciolo.
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da numerosi insediamenti di piccole e medie dimensioni, che Barreca classificò con il termine di "insediamento capillare" e che considerò evidenza dello sfruttamento agrario da parte cartaginese. Nei decenni seguenti, simili indagini topografiche scandagliarono varie zone della Sardegna nelle pianure intorno al Golfo di Oristano e del Campidano, fra la costa e le montagne del Sulcis, sulle colline della Marmilla e della Trexenta e nell'entroterra di Olbia. Il 1992 vide uno sviluppo innovativo, quando due progetti di ricognizione scesero sul campo rispettivamente nella Sardegna centrooccidentale, intorno alla foce del Riu Mannu, e nel sud-ovest dell'Isola, nell'entroterra della fondazione fenicia di Nora. I due progetti si riferivano esplicitamente al capillare sistema insediativo già osservato nelle campagne sarde in età punica e miravano specificamente a studiare lo sfruttamento del territorio in quell'epoca. Entrambe le ricognizioni si rifacevano alle esperienze di survey regionali effettuate nel Mediterraneo negli anni Ottanta, introducendo nuove metodologie di raccolta rigorosamente sistematiche e intensive. Altri progetti simili furono eseguiti fra gli anni Novanta e Duemila nelle zone intorno a Bosa e Monte Sirai. Le ricognizioni sistematiche condotte su e intorno all'insediamento punico-romano di Neapolis (Guspini), fanno anch'esse parte di questa seconda fase che si distingue per una forte attenzione metodologica sulla raccolta di materiali di
superficie. Le ricognizioni fornivano anche il vantaggio di una migliore conoscenza della cultura materiale punica, delle anfore in particolare, permettendo interpretazioni cronologiche e funzionali più specifiche. Questi progetti si inserivano esplicitamente nella cosiddetta "archeologia del paesaggio", che sottolinea il carattere diacronico dell'occupazione rurale e dello sfruttamento agrario, favorendo inoltre l'indagine interdisciplinare. I progetti di questa fase non si limitavano pertanto al solo periodo punico, anche se la scelta delle aree indicava una maggiore attenzione per questa fase cronologica. Una terza fase di indagini rurali è iniziata in anni recenti con due progetti di ricognizione rispettivamente nel Campidano di Milis, nel Sinis e nella valle intorno all'insediamento di Pani Loriga (Santadi). I due progetti si distinguono non solo per un alto livello tecnologico, che comprende l'uso di droni e immagini satellitari, ma anche per le strette collaborazioni con gli scavi già in corso a S'Urachi (San Vero Milis) e Pani Loriga, che forniscono il notevole vantaggio di un'ottima conoscenza dei reperti locali, ceramici in primo luogo. •· Nonostante le notevoli differenze metodologiche, queste indagini hanno accertato elementi importanti, fra cui, in primo luogo, l'emergere di una fitta e variegata presenza insediativa nelle campagne della Sardegna centrale e meridionale dopo il V secolo a.C. Numerosi siti rurali di piccole e medie dimensioni, le cosiddette "fattorie" e "ville" puniche, comparirono nel corso del IV secolo per diventare la base sociale ed economica del mondo rurale sardo. Altrettanto significativa è stata la scoperta di un ridotto numero di insediamenti ben più consistenti e articolati, sorti sia nell'ambito di preesistenti villaggi indigeni - cioè di cultura nuragica dell'Età del Ferro - sia di nuova fondazione. In alcuni casi, quelli nati fra il VII e il V secolo a.C. e, quindi, più antichi delle fattorie, svolsero in tutta l'Isola un ruolo centrale e organizzativo nelle campagne come punti di riferimento per i siti minori, cioè come luoghi centrali nei sistemi rurali. Se le successive esplorazioni topografiche e le prospezioni archeologiche hanno tracciato i tempi, le distribuzioni e le modalità degli insediamenti rurali fenicio-punici, gli scavi puntuali, anche se ancora pochi, in alcuni dei
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104. Vista d'insieme dell 'antico campo agricolo accanto alla fattoria punica a Pauli Stincus (Terralba , ottobre 2017). Quasi l'intera superficie visibile è di età punica (111-11 sec. a.C.); nella sezione a sinistra si distingue bene il paleosuolo scuro sotto la sabbia bianca.
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105. Falce , lii sec. a.e., ferro, lungh. 41 cm, proveniente dall'acropoli di Monte Sirai (Carbonia), Carbonia, Museo Archeologico "Villa Sulcis".
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siti documentati hanno approfondito la nostra conoscenza sulla loro organizzazione e funzione. I maggiori insediamenti, qualificabili come "borghi rurali" o "centri agrari", hanno attirato sempre più l'attenzione, essendo anche i più visibili. Monte Sirai è l'esempio migliore, non solo perché scoperto dallo stesso Barreca nell'ambito delle sue esplorazioni topografiche, ma anche perché rappresenta ormai il meglio indagato. Altri siti da inserire in questa categoria, per quanto ancora poco conosciuti,
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sono Neapolis, Villamar e Santu Teru (Senorbì). L'eccezione che conferma la regola è invece Pani Loriga dove le ricerche, tuttora in corso, hanno cominciato ad apportare dati importanti sulle attività agricole e sullo sfruttamento agrario della zona. Lo scavo e lo studio degli insediamenti rurali di base, cioè le fattorie puniche, rappresentano un filone di ricerca recente. Il primo scavo mirato interessò negli anni Novanta del secolo scorso la "villa" di S'Imbalconadu nell'entroterra olbiese, mentre pochi anni dopo si avviò il Progetto Terralba inteso a indagare la densa concentrazione di fattorie puniche sui terreni sabbiosi situati fra Neapolis e il Golfo di Oristano. Fra il 2003 e il 2011, si documentarono - tramite prospezioni geofisiche - otto siti rurali, di cui due furono scavati in estensione, nelle località terralbesi di Truncu 'e Molas e Pauli Stincus, portando alla luce una ricca documentazione sull'architettura, sui modi di vita e sulle attività produttive della comunità rurale di questa zona. Una categoria particolare nel sistema insediativo rurale, a lungo sfuggita all'attenzione, è infine costituita dai nuraghi (ri)occupati in età punica. Il loro riuso per attività rituali ha generalmente suscitato più interesse, ed è quindi abbastanza ben documentato e conosciuto, ma vi sono anche i casi di nuraghi con strutture abitative di cultura punica, cioè rettangolari e costruite in mattoni crudi, come per esempio a Duos Nuraghes (Borore), Sa Tanca 'e sa Mura (Monteleone Roccadoria) e S'Urachi, i cui scavi sono tuttora in corso. Un dato importante che emerge dalle indagini più recenti sono le evidenze di attività agricole, che confermano la
106. Anfora da trasporto , V-IV sec. a.e., ceramica , h 55 cm , proveniente dalla Necropoli di Monte Luna (Senorbì) , Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta".
vocazione agraria di questi siti in età punica e la loro continuità insediativa e culturale. Il cinquantennio passato ha visto, tutto sommato, l'acquisizione di importanti dati e conoscenze per quanto riguarda gli ambiti rurali della Sardegna punica. Questi nuovi apporti offrono numerosi spunti innovativi per meglio capire lo sfruttamento agrario e coloniale delle terre sarde da parte cartaginese.
Attività e strategie agrarie Un presupposto generalmente sottinteso negli studi di agricoltura antica è che siano soprattutto le fonti scritte ad apportare dati rilevanti ed attendibili, assumendo che le ricerche archeologiche sarebbero rese vane dalle tracce effimere lasciate dalle attività agricole, non riscontrabili di per sé attraverso i secoli. Questo presupposto è però errato, perché sia l'archeologia sia le scienze pedologiche e (paleo )ambientali sono, oggi, in grado di ricavare un ampio assortimento di dati su specifiche attività agricole e strategie agrarie in generale. Tutto ciò ovviamente non diminuisce l'apporto delle fonti scritte. Nello specifico caso sardo in età punica, i dati sono tuttavia ben pochi. A un livello generico va menzionato il rinomato agronomo cartaginese Mago, che avrebbe scritto numerosi manuali e trattati agronomici, di cui però conosciamo solo poche e isolate citazioni latine. Per quanto riguarda specificamente la Sardegna, la principale notizia compare in una variegata collezione di osservazioni e commenti di età romano-imperiale, conosciuta sotto il titolo De mirabilibus auscultationibus (notizie e curiosità). Una di queste notizie (cap. •100), che è frequentemente citata, racconta che dopo la conquista della Sardegna i Cartaginesi decretarono il taglio di tutti gli alberi da frutto nell'Isola. Un'autorevole e ben diffusa interpretazione ha proposto che la motivazione cartaginese fosse di aumentare la produzione cerealicola dell'Isola per approvvigionare la metropoli nordafricana e finanziare le sue forze mercenarie: l'imposizione sulle terre sarde di una monocoltura cerealicola avrebbe rappresentato, infatti, una chiara manifestazione della politica imperiale cartaginese. Recenti indagini archeologiche e analisi paleoambientali suggeriscono tuttavia una realtà più variegata e complessa, dimostrando allo stesso tempo come ricerche interdisciplinari stiano trasformando le nostre conoscenze dell'agricoltura antica. Gli scavi degli stabilimenti rurali già citati hanno di fatto fornito solide evidenze di attività produttive agricole. Fra queste spicca in primo luogo l'impianto vinicolo messo in luce a Truncu 'e Molas (fig. 103), che attesta una robusta produzione e commercializzazione di vino, mentre il ritrovamento di roncole per
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107. Anfora domestica , V-IV sec. a.e. , ceramica , h 31 cm, proveniente dalla Necropoli di Tuvixeddu , area Predio lbba (Cagliari), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale .
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la potatura di viti e di alberi da frutto conferma la vocazione della fattoria alla viticoltura. La documentazione di simili resti di impianti vinicoli nel Terralbese e altrove conferma, inoltre, che la fattoria di Truncu 'e Molas non era sola a produrre vino e che almeno questa parte delle campagne sarde non produceva cereali. Queste evidenze effettivamente mettono in dubbio o, almeno, ridimensionano l'interpretazione accettata della notizia sul taglio degli alberi. Contrariamente a quanto solitamente supposto, le attività di coltivazione dei campi e di lavorazione della raccolta lasciano tracce nel suolo e negli spazi lavorativi degli insediamenti, se le condizioni sono favorevoli, anche quando sono state realizzate da oltre duemila anni. Contesti umidi per esempio permettono la conservazione di semi, frutti e legno non carbonizzati, ma tali situazioni sono rare in Sardegna: si può segnalare il caso 112
di S'Urachi dove è stato trovato un contesto di età tardo-fenicia, che fornisce preziosissimi dati diretti sulle coltivazioni. A Truncu 'e Molas l'identificazione di vinaccioli intorno all'impianto vinicolo, e di particolari tracce chimiche nell'intonaco impermeabile, ha confermato che gli abitanti della fattoria effettivamente raccoglievano l'uva e la pigiavano per produrre vino. A Pani Loriga l'attestazione di tracce residuali di vino in anfore locali dimostra che la produzione vinicola non era limitata al Terralbese. A S'Urachi la presenza di nuove colture, come il melone e il melograno, dal VII secolo a.C. in poi, conferma infine che le strategie agrarie non erano così rigide. Altrettanto significative sono le evidenze archeozoologiche, che si trovano per lo più in associazione con quelle paleobotaniche, che dimostrano come le strategie agrarie nella Sardegna punica erano di tipo assai complesso.
La relativa abbondanza di resti faunistici sta convalidando la prevalenza dell'allevamento ovino, anche se è altrettanto chiaro che non mancano situazioni con carattere diverso: a S'Urachi, per esempio, predomina l'allevamento bovino fino al V-IV secolo a.C. Una notevole fonte informativa è, infine, costituita dagli stessi terreni sardi, perché il suolo può conservare importanti evidenze. Se le condizioni sono favorevoli i dati conservati possono essere spettacolari, come è evidente nel sito di Pauli Stincus dove si è mantenuto un campo coltivato datato al III-II secolo a.C., con ancora le tracce riconoscibili di un semplice aratro. Lo scavo del sito ha messo in luce circa 100 m 2 dell'antica superficie arativa, e i reperti riscontrati suggeriscono un terreno coltivato intensivamente con frequenti concimazioni (fig. 104). La posizione accanto a una fattoria ha permesso di interpretare il campo come orto. La pedologia fornisce dati preziosi sulle possibilità di uso del suolo, date le caratteristiche fisiche del terreno e i mezzi tecnologici di età punica: i suoli sabbiosi e i sottofondi fluviali del Terralbese offrono per esempio condizioni favorevoli per la vite, ma sono invece poco adatti alla coltivazione di cereali - il che corrisponde nettamente alle evidenze riscontrate. I pesanti suoli argillosi e, in certe zone, pietrosi dei Campidani sono invece difficilmente lavorabili con un aratro di legno ed è perciò probabile che in età punica fossero sfruttati come pascolo piuttosto che come campi di coltivo. Si evince chiaramente da questo breve excursus che l'approccio interdisciplinare è di fondamentale importanza per lo studio archeologico dell'agricoltura antica; nonostante il ridotto numero di siti rurali scavati nell'Isola abbia finora creato poche opportunità per analisi scientifiche, il potenziale per innovative ricerche e nuove interpretazioni è sicuramente notevole.
Conclusioni Breve che sia questa rapida presentazione dello stato delle ricerche e delle conoscenze sull'agricoltura nella Sardegna punica, speriamo abbia chiarito che gli ultimi cinquant'anni della ricerca archeologica hanno visto numerose e rapide innovazioni metodologiche, che hanno poi ispirato e incoraggiato nuovi sforzi e progetti sul campo. Una costante importante, attraverso questi decenni di ricerche rurali, sono di fatto le
influenze reciproche fra ricerche sul campo, tecniche e interpretazioni innovative. La diversificazione di approcci e di metodologie ha favorito esiti inaspettati, che contribuiscono a interpretazioni sofisticate per capire i modi di vita e di lavoro e le interazioni culturali fra gli abitanti delle campagne sarde nelle situazioni coloniali di e'tà fenicia e punica. Ci teniamo a sottolineare due elementi in particolare, che speriamo essere riusciti a mettere in rilievo. Prima di tutto si noti quanto siano abbondanti e ricche le evidenze archeologiche messe in luce in questi decenni, anni recenti compresi. Ciò dimostra non solo che l'archeologia è in grado di "trovare" l'agricoltura antica, se si cerca nei posti giusti con gli strumenti adatti, ma anche che tante aree dell'Isola, che siano in pianura e vicine ad abitati moderni o in montagne remote, hanno preservato fino a oggi tracce di vita rurale e di attività agrarie dell'antichità. La seconda osservazione riguarda l'aspetto produttivo e quello umano delle evidenze agrarie, che per noi marcano sia la molteplicità sia il significato storico del mondo rurale. Le numerose fattorie e villaggi scoperti e ancora da esplorare nelle campagne sarde, rappresentano non solo attività economiche ma altrettanto ci informano sulla vita sociale delle comunità che qui vivevano. Gli scavi, in particolare, hanno dato risultati rilevanti sui modi e sulla qualità della vita rurale in età pumca.
Nota bibliografica Il punto di partenza bibliografico per approfondire lo studio del mondo rurale di età fenicio-punica in Sardegna è indubbiamente il lavoro pionieristico di Ferruccio Barreca, in particolare il suo libro sullo scavo di Monte Sirai e le esplorazioni topografiche delle zone circostanti. È in questo studio che propone ed elabora il concetto dell"'occupazione capillare" del territorio in età punica: BARRECA 1966. Per le ricognizioni iniziate negli anni Novanta e gli studi di archeologia del paesaggio, si consultino: ANNIS, VAN DOMMELEN, VAN DE VELDE 1996; BOTTO, ET AL. 2003; GARAU 2006. Per i progetti di ricognizioni tuttora in corso, si vedano: SINIS 2018; MURPHY, ET AL. 2019. Per i siti rurali di età punica scavati, ci si riferisca alle seguenti pubblicazioni: S'Imbalconadu (Olbia) : SANCIU 1997; Terralba: DlES Cusl 2012, VAN DOMMELEN, ET AL. 2012, VAN DOMMELEN, ET AL. 2018a; Pani Loriga (Santadi): BOTTO 2012a; S'Urachi (San Vero Milis): STIGLITZ 2016, VAN DOMMELEN, ET AL. 2018b. I principali studi generali e discussioni critiche sulla tematica rurale e agraria in Sardegna sono: VAN DOMMELEN, FINOCCHI 2008; ROPPA 2013; VAN DOMMELEN, GOMEZ BELLARD 2014.
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L'uomo e il sistema vegetale Maria Mureddu
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I dati sul rapporto dell'uomo con il sistema vegetale durante il periodo fenicio e punico in Sardegna sono per il momento frammentari e poco abbondanti. Le conoscenze non sono tali da permettere di proporre vere e proprie ricostruzioni paleoambientali o un quadro esauriente sulle specie vegetali coltivate e sfruttate dall'uomo, soprattutto su larga scala. Tuttavia un compendio delle ricerche svolte nel corso degli anni a questo riguardo può essere di una certa utilità, permettendo tra l'altro di mettere in relazione informazioni di diverso tipo. Sono gli studi archeobotanici a restituire i dati più diretti sulle specie vegetali presenti, sfruttate o influenzate dai comportamenti dell'uomo, e in particolare la palinologia, cioè lo studio dei pollini, l' antracologia e la xilologia che si occupano dell'analisi di carboni e legni, e la carpologia, che prende in considerazione macroresti vegetali quali semi, frutti, foglie e altri elementi macroscopici, e che ha assunto grande rilievo grazie a ritrovamenti recenti. Tra i primi siti che hanno restituito resti carpologici si annovera il contesto subacqueo indagato a Nora tra gli anni Settanta e Ottanta con una serie di prospezioni e campagne di scavo da parte di una missione francese. Vennero recuperati materiali provenienti presumibilmente da più relitti di diversa epoca, tra cui anfore da trasporto a sacco datate al VI secolo a.C. e anfore a siluro di III-II secolo a.C. All'interno di queste si documentò la presenza di resti ossei di animali macellati, soprattutto ovicaprini e in misura minore bovini, un contenuto già noto nei contesti fenicio-punici della Sardegna fin dalle indagini ottocentesche nella laguna di Santa Gilla a Cagliari. Nel caso di Nora fu possibile osservare che i resti animali erano associati, all'interno di diversi contenitori, a dei vinaccioli, fatto che portò a ipotizzare che le carni macellate fossero elaborate in forma di conserva con l'ausilio di un prodotto della vite quale il vino o un
derivato semifermentato. L'analisi dei semi rivelò la loro pertinenza a Vitis vinifera supsp. vinifera, cioè alla vite domestica. Rinvenimenti sporadici di macroresti vegetali si sono avuti negli anni in contesti estremamente diversi. In una tomba femminile a incinerazione della necropoli di Monte Sirai, datata non oltre il 580 a.C., venne ritrovata una spianatoia in ceramica, oggetto domestico usato presumibilmente per l'impasto di focacce, che conservava l'impronta chiarissima di alcuni vinaccioli, prodottasi durante la fase di fabbricazione del manufatto. La presenza della vite, con resti di semi che furono attribuiti alla sottospecie silvestre, è poi attestata nella fase punica del Nuraghe Ortu Comidu di Sardara. Nel contesto subacqueo del porto di Olbia vennero rinvenute alcune anfore da trasporto tardo-puniche, verosimilmente di fabbrica locale, che contenevano nocciole e pigne. Si inseriscono invece in ampie indagini territoriali, volte a investigare le modalità insediative e di sfruttamento del territorio nell'antichità, gli scavi di Truncu 'e Molas, in territorio di Terralba. Questo sito archeologico, occupato dal V al II secolo a.C., è stato interpretato come un insediamento dedito alla coltivazione della vite e alle attività di trasformazione dell'uva per la produzione su larga scala. In seguito all'analisi degli elementi archeobotanici, a fronte di una totale assenza di attestazioni di cereali, si è riscontrata la presenza di vinaccioli associati a una struttura che sembrerebbe essere un impianto per la produzione del vino (fig. 103). Sul sito è stata trovata inoltre una roncola atta alla potatura della vite. La mancata attestazione di cereali e le caratteristiche dei terreni della zona hanno fatto ipotizzare che la fattoria fosse in effetti impiantata in una zona destinata alla coltivazione dell'uva, mentre i cereali, che pure è presumibile fossero alla base della dieta,
necessariamente a una ricostruzione dell'ambiente immediatamente circostante, dato che il materiale legnoso poteva essere stato raccolto anche a distanza dal sito per poi essere usato in vario modo sul posto. Spostandoci alla parte centrale del Golfo di Oristano, dati di grande importanza ci vengono dal contesto subacqueo della laguna di Santa Giusta; qui sono state individuate e parzialmente indagate delle grandi aree di dispersione di materiali archeologici, tra cui spiccano le anfore da trasporto e i legni lavorati. Le fasi principali di formazione del sito
108. Macroresti vegetali provenienti dalle indagini archeologiche di Mistras: a) achene di fico (Ficus carica); b) seme di mora (Rubus utmifolius); c) seme di mirto (Myrtus communis); d) seme di lino (Linum cf. usitatissimum) ; e) vinacciolo (Vitis vinifera subsp. vinifera) ; f) nocciolo d'oliva (0/ea europaea var. europaea) intaccato probabilmente da un roditore; g) cariosside carbonizzata di grano tenero (Triticum aestivum); h) seme di melone (Cucumis me/o). Il saggio di scavo svolto nella laguna di Mistras nel 2014 ha portato al rinvenimento di decine di migliaia di resti carpologici , tra i quali diversi macroresti vegetali di specie coltivate, di altre sfruttabili dall 'uomo e di piante spontanee indicanti l'impatto antropico sul territorio.
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trasporto, di resti macellati di ovicaprini e bovini, associati generalmente ai vinaccioli. Alcuni dei recipienti hanno restituito delle pigne, sia di pino d'Aleppo (Pinus halepensis) che di pino domestico (Pinus pinea), utilizzate forse per le loro proprietà aromatizzanti e/o antisettiche. Il registro archeobotanico conta inoltre resti di frutta a guscio come le nocciole (Corylus avellana), le mandorle (Prunus dulcis) e le noci (Juglans regia), nonché di prugne, attribuite grazie alla loro morfologia sia a resti di frutti selvatici (Prunus spinosa) che domestici (Prunus domestica). Si tratta del più antico ritrovamento di prugna domestica in Sardegna e di uno dei più antichi del Mediterraneo occidentale. I semi di prugna, sottoposti ad analisi morfometriche, avrebbero rivelato affinità con varietà attualmente considerate tipiche dell'Isola. Tra i rinvenimenti del sito si contano infine noccioli di Olea europaea, per i quali è ancora da definire la pertinenza a oleastro o a olivo coltivato, nonché una minore ma interessante presenza di cucurbitacee, in particolare di anguria (Citrullus lanatus ). È dall'hinterland di Tharros e dagli scavi nella stessa città che ci vengono per il momento le informazioni più variegate, grazie a diversi studi multidisciplinari svolti nel corso degli anni. Durante gli scavi del tofet negli anni Ottanta e Novanta vennero avviate una serie di indagini paleoambientali che compresero sia analisi palinologiche sui sedimenti che antracologiche e dei fitoliti sulle urne cinerarie. Il tutto venne integrato con indagini sulla copertura
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mediterranea, che potevano essere raccolti a distanza lievemente maggiore dal centro urbano; si tratta in prevalenza di Olea europaea, presumibilmente oleastro, e in misura decisamente minore di lentisco (Pistacia lentiscus); presente è anche la quercia (Quercus spp.). Le analisi palinologiche, svolte in un primo momento sempre nel tofet e in seguito integrate da campionamenti in vari siti del Sinis, danno un quadro evolutivo della situazione che sembra far iniziare i cambiamenti ambientali da una fase anteriore a quella punica, già dall'XI secolo a.C.; tuttavia è soprattutto dal V secolo a.C. in poi che il mutamento si fa più evidente, con dati che indicano il passaggio da una copertura vegetale arborea a un paesaggio più aperto con incremento delle specie erbacee. Diversi indicatori, tra cui particolare importanza assume la graduale sostituzione di Quercus ilex a favore di Q. coccifera, fanno pensare ad azioni di disboscamento e incendi, probabilmente in connessione alla volontà di creare spazi agricoli. Tuttavia ancora per l'epoca pienamente punica, se le graminacee e i cereali tipo aumentano, non sembra si possa parlare di territori destinati a monocolture: ancora le analisi palinologiche registrano una forte varietà di specie tra le coltivate o per lo meno coltivabili. Risultano sempre presenti Olea europaea e Vitis vinifera; se per entrambe i pollini non consentono di distinguere se si tratti di piante selvatiche o coltivate, sembra degno di nota il fatto che si registri un aumento di V vinifera nei diagrammi palinologici tra il V e il IV secolo a.C., indizio che farebbe pensare a un aumento della vite coltivata. Del resto la coltivazione della vite nella parte settentrionale del Golfo di Oristano è già stata accertata anch e per la precedente epoca nuragica, grazie ai ritrovamenti nel villaggio di Sa Osa (Cabras). La situazione sembra diventare via via meno variegata nei secoli successivi al IV secolo a.C.,
proprio territorio arrivano dai saggi di scavo svolti nell'ultimo decennio nella laguna di Mistras. Sono numerosi infatti i resti carpologici rinvenuti, nonché i resti lignei, in corso di studio rispettivamente da parte della scrivente e di Francesco Solinas. Il contesto indagato, probabilmente sede del porto della Tharros arcaica e punica, presenta una stratigrafia di formazione naturale contenente materiali archeologici databili tra il VII e il III secolo a.C. Il deposito presenta documentazioni che si accordano con l'interpretazione dell'area come punto di approdo; prevalgono tra i resti ceramici le anfore da trasporto, in gran parte di fabbrica locale, che in operazioni di trasbordo di merci tra imbarcazioni o in altri eventi accidentali possono essere cadute in acqua insieme al loro contenuto. I numerosi resti ossei di animali macellati e molti degli elementi carpologici ritrovati possono effettivamente essere parte del contenuto di anfore o di altri recipienti. Naturalmente tra i fattori che hanno portato alla formazione della stratigrafia e quindi alla deposizione di materiali archeologici e archeobotanici bisogna considerare anche cause naturali di trasporto e accumulo dei sedimenti. I reperti carpologici sono stati individuati grazie a campionamenti sistematici svolti durante le campagne di scavo, e al momento sono disponibili alcuni dati del tutto preliminari. Quantitativamente rilevante in tutti gli strati che hanno restituito materiali organici sono i resti di vite, vinaccioli e altre parti della pianta come i pedicelli; i vinaccioli a una prima analisi rivelano morfologie diversificate che sembrano attestare la presenza di diverse varietà. Noccioli di olivo, sia di Olea europaea var. sylvestris sia di O. europaea var. europaea, sono presenti, anche se in misura molto minore rispetto alla vite, e resti di frutta a guscio tra cui per il momento sono state identificate nocciole ( Corylus avellana ) e m andorle (Prunus dulcis ). Onnipresente tra i materiali carpologici è il fico (Ficus carica ),
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caratterizzate da abitazioni, ruderi, strade e in senso lato influenzate dalla presenza dell'uomo, quali il fiore d'Adone (Adonis annua), il camepizio (Ajuga chamaepitys), l'aneto (Anethum graveolens), il papavero (Papaver spp.), il farinello dei muri ( Chenopodium murale), il miagro peloso (Rapistrum rugosum). Non mancano, come è facile immaginare, anche specie legate a contesti umidi come lo scirpo (Bolboschoenus maritimus) e il falasco (Cladium mariscus) . Inoltre le primissime analisi xilologiche su alcuni legni lavorati rinvenuti in tale contesto hanno dato come risultato la presenza preponderante di pino (Pin us pinea), ma anche di quercia (Quercus ilex) e, solo per i livelli più recenti, di olivo o oleastro (Olea europaea) e di erica (Erica multiflora ); si tratta di specie attestate nell'area grazie anche alle già citate analisi palinologiche, tuttavia una provenienza esterna dei manufatti è ugualmente possibile. Le indagini archeobotaniche e paleoambientali possono essere integrate da dati di altro tipo, non ultime le analisi dei contenuti che hanno rivelato in alcuni casi, ad esempio in un'anfora arcaica rinvenuta a Nora, di produzione locale, la presenza di olio d'oliva e quindi un probabile sfruttamento dell'olivo nella regione circostante. Non si possono infine escludere per una ricostruzione del rapporto dell'uomo con
zona di Olbia, si nota una .mtensa peµetrazione agraria con un moltiplicarsi di insediamenti rurali di medie, piccole e piccolissime dimensioni, legati in massima parte alle attività produttive, e ciò soprattutto a partire dal V secolo a.C. Cartagine ha probabilmente dato un impulso importante a tale evoluzione delle modalità di insediamento e uso del territorio; non bisogna dimenticare d'altra parte che il fenomeno si inserisce in un più ampio contesto di proliferazione degli insediamenti rurali che interessa gran parte del mondo Mediterraneo dell'epoca, e non solo i contesti punici. Da tutti questi dati, sebbene disomogenei, sembra emergere l'immagine di uno sfruttamento delle risorse agrarie che si fa particolarmente intensivo soprattutto a partire dall'epoca punica. La ricostruzione, se rimane parziale, è senz'altro più variegata di quella proposta fino a non moltissimo tempo,fa; infatti la Sardegna punica era stata spesso vista come asservita da Cartagine a quella che doveva essere quasi una monocoltura cerealicola per l'approvvigionamento della città nordafricana e delle sue truppe. L'importanza della produzione dei cereali è fuori discussione, così come il forte impatto sul territorio a partire soprattutto dal V secolo a.C. Tuttavia le colture dovevano essere varie; tra esse emerge il ruolo di grande rilievo occupato dalla vite, accompagnata da molte altre specie per le quali i dati non sono ancora esaurienti.
Nota bibliografica 1892; VIVANET 1893; F EDELE 1979; FEDELE 1980; NISBET 1980; FEDELE 1983; P ALLARES 1987, p. 112; BARTOLONI 1988b, pp. 410-411; BARRECA 1988, pp. 3440; LENTINI 1993; M ANFREDI 1993; P ALMIERI, LENTINI 1994; L ENTINI 1995; BARTOLONI, BONDÌ , MOSCATI 1997, pp. 73-74; A CQUARO, ET AL. 2001; MARINVAL, CASSIEN 2001; B AKELS 2002, p. 7; BORDIGNON, ET AL. 2005, p. 215; VAN DOMMELEN, G OMEZ B ELLARD 2008a; VAN D OMMELEN , FINOCCHI 2008; VAN D OMMELE , ET AL. 2010; D EL VAIS, 5 ANNA 2012; VAN D OMMELEN, ET AL. 2012; DI RITA, MELIS 2013, pp. 4279-4280; POPLIN 2014; P ASCUCCI, ET AL. 2018; D EL VAIS, ET AL. c.s.;
VIVANET
M UREDDU, SOLINAS
c.s.
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109. Amuleto in forma di delfino , IV-lii sec. a.e., pasta silicea , lungh . 3,2 cm , proveniente da Tharros (Cabras) , Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.
Per comprendere le dinamiche economiche e culturali di un territorio nel passato è essenziale ricostruire come le popolazioni umane antiche fossero parte di ecosistemi che ne influenzavano lo sviluppo e che, a loro volta, venivano trasformati dalle attività antropiche. Gli animali, selvatici e domestici, erano una parte essenziale di tali ecosistemi, sfruttati nell'alimentazione come risorsa di carne, grassi, latte e derivati ma anche nell'industria per pellame, lana, coloranti, e nell'artigianato del corno, palco, osso e conchiglia per produrre strumenti, utensili, contenitori e ornamenti. Al di là del loro ruolo economico, inoltre, diverse specie animali assumevano valenze importanti nella sfera culturale, coinvolte in attività rituali di sacrificio, di banchetto, di offerta votiva o di vero e proprio culto. La maggior fonte di informazioni, sullo sfruttamento delle risorse animali e, di conseguenza, sull'economia dei popoli antichi, in assenza di testimonianze scritte, è rappresentata dai loro resti (ossa, palchi, conchiglie) rinvenuti nei contesti archeologici che sono oggetto di studio della ricerca archeozoologica. La moderna Archeozoologia è una disciplina che non si limita più alla semplice elencazione delle specie identificate nei siti ma che mira a definire e comprendere il rapporto tra le comunità umane del passato e il loro ecosistema e fornisce informazioni fondamentali per la ricostruzione delle dinamiche sociali, ecologiche ed economiche di tali comunità. Gli studi archeozoologici di contesti sardi, un tempo piuttosto rari, sono notevolmente
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aumentati nel corso degli ultimi vent'anni, concorrendo alla formazione di un mosaico di dati che permette una ricostruzione su scala regionale del rapporto tra uomini e animali attraverso i millenni. La fase cronologica che costituisce l'oggetto del presente volume rappresenta, per la Sardegna, un periodo di interessanti cambiamenti; la fondazione di stabili insediamenti fenici e punici cambia il quadro d'insieme e porta alla nascita di contesti che, sia pur di dimensioni variabili, possiamo definire a pieno titolo urbani, insediamenti in cui gli animali e i loro prodotti derivati - sono soprattutto elementi "da consumare" o possibile merce di scambio, anche transmarino. A questi centri di consumo - e forse di trasformazione e scambio - si contrappongono centri produttivi veri e propri, realtà che potremmo definire rurali e che tendono a farsi sempre più frequenti al crescere della loro distanza dalla costa. Definire un unico pattern nella composizione degli insiemi faunistici dei diversi insediamenti non è, tuttavia, semplice: ciascun sito è, infatti, parte di un sistema ecologico proprio e, forse, ciò che li accomuna maggiormente è la loro capacità di sfruttare le risorse offerte dal territorio circostante adattando la propria economia di sussistenza e produttiva. La pesca e le risorse marine I principali insediamenti urbani che vedono la luce in Sardegna dall'VIII secolo a.C. sono votati allo scambio marittimo con gli altri paesi del Mediterraneo e si concentrano nelle aree costiere, soprattutto in prossimità di lagune destinate all'approdo e al rimessaggio delle navi. Contrariamente a quanto tale dato potrebbe far supporre, lo sfruttamento delle risorse marine e lagunari non sembra subire, in questa fase, un incremento rispetto alle fasi precedenti. In numerosi siti sardi, anche distanti dalla costa, infatti, abbondanti resti di molluschi lagunari caratterizzano i livelli delle fasi finali nuragiche. Cerastoderma glaucum (cuore di laguna/ cocciula bianca) , ostriche e Tapes decussatus (vongola/ arsella/cocciula niedda ) avevano, infatti, un
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~di~,la:~ffletiè e~tlei~ninon~ Lo sfruttamento di questi ultìrni appare limitato al consumo aliìnehtare, mancando nel sito le attestazioni dell'altro importantissimo utilizzo di tali gasteropodi, ovvero la produzione della preziosa porpora tintoria. Nei livelli fenici, all'insieme di molluschi si aggiungono numerosi resti di Paracentrotus lividus, il riccio di mare, le cui uova dovevano rappresentare 110. Amuleto in forma di cerbiatto, V-IV sec. a.e., osso, proveniente dalla Necropoli di Monte Luna (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico ·sa Domu Nosta".
111. Placca con lepre e vitello , V sec. a.e., avorio, lungh. 8,5 cm , proveniente dalla Necropoli ipogea di Nora (Pula), Pula, Museo Archeologico Comunale "Giovanni Patroni".
importante ruolo nell'alimentazione e venivano utilizzati talvolta in banchetti pubblici, come attestato a Cuccurada (Mogoro ), o per le offerte votive, come attestato a Mont'e Prama (Cabras). Le specie che caratterizzano le fasi tra l'VIII e il III secolo a.C. non si discostano dalla tradizione precedente indicando uno sfruttamento preferenziale delle lagune. Nel sito di Monte Sirai (Carbonia) e nei livelli datati al VII secolo del nuraghe omonimo sono stati determinati più di un migliaio di resti di molluschi. La quasi totalità consiste in cuori, seguiti dalle ostriche e altre specie caratteristiche delle lagune, anche se non mancano specie tipiche di coste rocciose come le patelle e l'Osilinus, la chiocciola di scoglio. Un singolo resto di seppia dimostra che anche questi pregiati cefalopodi venivano portati a Monte Sirai, forse pescati nelle lagune del Sulcis durante il periodo riproduttivo. Anche gli scarsi resti di pesce pertengono a specie frequentatrici delle lagune, come muggini e orate, con la comparsa del pagro e del pesce spada, forse catturato nelle reti per i tonni. Il quadro di Monte Sirai è confermato dai resti di Sulky (Sant'Antioco), dove resti di cuori, ostriche, patelle, seppie, orate sono stati rinvenuti sia nel riempimento di una cisterna datato al VI secolo a.C., sia in un vano magazzino (area cosiddetta
un apprezzato alimento. Nei livelli punici, invece, una minore presenza di resti di granchio attesta uno sfruttamento di tali crostacei. A Tharros la maggior parte della malacofauna marina e lagunare si concentra nelle Unità Stratigrafiche datate al IV secolo a.C. Si tratta in prevalenza di patelle, valve di cuore di laguna e di Glycymeris, anche se non mancano abbondanti frammenti di esemplari di Pinna nobilis. Dagli stessi livelli, una quarantina di resti di orata si aggiungono a quelli di muggini, la cui pesca doveva avere luogo nelle acque lagunari prossime al sito. Gli scavi in ambiente umido dell'Università di Cagliari nella laguna di Mistras, che hanno rivelato l'ubicazione del principale approdo di Tharros, hanno portato alla luce una notevole quantità di resti di pasto, tra i quali si distinguono molte ostriche con tracce di apertura forzata delle valve, che rivelano l'abitudine di un consumo crudo di questi pregiati molluschi nella città punica. Tra i materiali in corso di analisi rinvenuti negli scavi subacquei nella laguna di Santa Giusta, invece, diversi resti di spigola/branzino e di muggine/cefalo, rinvenuti in contesti datati tra il IV e il III secolo a.C. pertinenti alla città punica di Othoca, mostrano tracce di combustione sulle ossa del cranio e della coda che rilevano che tali
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la eaceia agli ~selvalfd Anchele l ' ~ ~ a n i m a l i selvatici è in questa fase e r o ~ piuttosto limitata, appare interessante il ruolo che essi ricoprono
112. Ba/samario in forma di porcospino, VI sec. a.e., pasta vitrea, h 4,4 cm , lungh. 6,5 cm , proveniente da Tharros (Cabras), Londra , British Museum (© The Trustees of the British Museum).
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pesci venivano talvolta arrostiti sulle braci. Le indagini attualmente in corso, condotte da parte di chi scrive, sui materiali dalle necropoli di Tharros, oltre ad arricchire il panorama dello sfruttamento alimentare delle risorse marine stanno rivelando tutto un ampio spettro di utilizzi delle conchiglie legati alla vita quotidiana o alle pratiche funerarie: vaghi di collane e altri ornamenti, decorazioni per gli abiti, cucchiai, contenitori per pigmenti e cosmetici. Importante, nei contesti funerari, appare l'utilizzo del corallo rosso. Quello che sembra invece un aspetto innovativo della fase in esame, non attestato in contesti sardi più antichi, è la nascita e il radicamento di un sistema produttivo che include la conservazione di quantità di pescato a fini commerciali. A Olbia, tra i materiali di un magazzino, datato al IV/III secolo a.C., che ha restituito anche una ventina di esemplari di cuore con le valve ancora chiuse, che dimostrano l'uso dell'ambiente come spazio per la vendita dei prodotti marini, oltre ai molluschi e a resti di riccio di mare, sono state rinvenute due anfore contenenti resti di pesce verosimilmente conservato in salamoia. Nella prima di esse, più di trecento individui appartenenti a due diverse specie di zerri, le cui dimensioni si aggiravano intorno ai 20 centimetri, erano posti interi in macerazione, rappresentando un preciso antecedente delle salse di pesce conosciute con
in alcuni contesti particolari. Nel caso dell'insediamento di Monte Sirai, ad esempio, la caccia al cervo sembra essere un elemento portante dell'economia locale. Anche se i dati disponibili provengono dallo scavo di un'unica abitazione - la casa del lucernario di talco - appare degno di nota il fatto che quelli di cervo rappresentino oltre il 48% dei resti dei mammiferi identificati e che non siano presenti solo frammenti di palco ( che potrebbero essere correlati ad attività artigianali specializzate), ma anche ossa dello scheletro postcraniale che costituiscono la maggioranza dei reperti attribuiti a questa specie. Il cervo assume analoga importanza nel vicino Nuraghe Sirai, dove nel VII secolo a.C. è attestata una presenza di elementi fenici che si insediano in un punto strategico per il controllo del territorio circostante. Il cervo è presente in discrete percentuali anche nella vicina Sulky, in particolare tra i resti della cisterna del cronicario di Sant'Antioco datati al VI secolo a.C., dove però la gran parte dei reperti è costituita da frammenti di palchi e solo in tre casi è stato possibile riconoscere parti dello scheletro postcraniale. In questo caso, quindi, si tratterebbe di elementi non connessi al consumo alimentare, ma piuttosto testimonianza di attività artigianali. Sembrerebbe ipotizzabile, quindi, che la caccia al cervo praticata nel territorio di Monte Sirai fosse funzionale al reperimento di materia prima - i palchi- che veniva inviata a Sulky, destinando la carne degli animali abbattuti al consumo locale. Si configurerebbe così una sorta di sistema territoriale integrato, in cui il centro urbano più importante assorbe una risorsa specifica da trasformare in manufatti. Il cervo resta la specie di mammifero selvatico presente con maggiore frequenza in questa fase cronologica, anche se, con l'eccezione del sito di Santu Pedru dove nei livelli di frequentazione punica della Domus de Janas costituisce poco più del 26% dei reperti determinati, si tratta quasi
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~ dai livelli arcaiciddl'area di Mistns,: ma tale percentuale sale al 4,3% nei più recenti livelli punici. Per quanto riguarda i materiali recuperati in quest'ultimo sito, tutti appartenenti ad adulti o giovani/adulti, appare degno di nota il fatto che i reperti appartengano quasi esclusivamente allo scheletro postcraniale, fatta eccezione per cinque denti e un frammento di palco con possibili tracce di levigatura. Sei astragali di cervo appartenenti a tre individui diversi, infine, provengono dalla Tomba 255 della Necropoli di Monte Sirai. Molto più limitata è la presenza di resti di cinghiale, anche se in questo caso occorre ricordare che è talvolta difficile osservare sui resti ossei disponibili le caratteristiche diagnostiche che permettono la sua identificazione tra i resti di suini. In ogni caso esso si presenta con percentuali inferiori allo 0,5% e compare solo in alcuni siti, tra cui Mistras, Monte Sirai e Tharros. Anche il muflone appare come una preda piuttosto sporadica, dal momento che solo tra i materiali della già citata cisterna del cronicario di Sant'Antioco raggiunge percentuali di frequenza più significative. Molto sporadici i resti appartenenti ad altre specie di mammiferi selvatici: tra essi vale la pena di segnalare i resti di foca monaca da noi identificati nei livelli di età punica di Mistras
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e la presenza della mangusta egiziana, animale certamente importato sull'Isola come cacciatore di roditori, rinvenuta tra i materiali archeozoologici del cronicario di Sant'Antioco. Il quadro complessivo che emerge da questi dati indica un certo interesse per la caccia al cervo, attività che forniva materia prima per la produzione di manufatti ricavati dai palchi delle prede abbattute, ma anche carne. Più difficile appare, sulla base delle informazioni disponibili, comprendere se la caccia fosse praticata prevalentemente da classi sociali elitarie o se si trattasse di un'attività praticata in modo trasversale, anche se lo sfruttamento specializzato dei palchi lascerebbe ipotizzare l'esistenza di un ruolo economico non del tutto indifferente. Per quanto riguarda, infine, l'uccellagione occorre sottolineare come i materiali pertinenti ad avifauna siano piuttosto scarsi, limitandosi a pochi resti. Tra i contesti databili all'intervallo tra VIII e III secolo a.C. gli anatidi e i passeriformi sono in genere i taxa prevalenti, ad esempio nell'area del Cronicario di Sant' Antioco, ma anche tra i materiali da noi analizzati provenienti da Mistras. Gli animali domestici
Dal momento che sin dal Neolitico sono presenti in Sardegna tutti gli elementi della triade fondamentale che contraddistingue gli animali domestici del mondo Mediterraneo ovicaprini, bovini e suini - si potrebbe banalmente supporre che vi sia ben poca variabilità tra sito e sito, soprattutto basandosi
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strategie di allevamento: vaste aree lagunari, zone a copertura boschiva, fasce costiere rocciose e accidentate richiedono scelte mirate e precise nella gestione degli animali domestici allevati con finalità economiche. Non è perciò affatto sorprendente il dato proveniente dai livelli di VII-VI secolo a.C. di Monte Sirai, dove sono i maiali la specie domestica prevalente con poco meno del 21 o/o dei resti identificati tra i mammiferi: la notevole presenza del cervo - già evidenziata a proposito della caccia e del ruolo degli animali selvatici - è da mettere in relazione con ampie estensioni di bosco, probabilmente querceti misti, che ben si adattano all'allevamento anche dei suini, soprattutto se questo è effettuato non esclusivamente in recinto, ma con la pratica della ghiandagione, che prevede che gli animali vengano accompagnati nel bosco per nutrirsi liberamente. Prevalenza ancora più accentuata
Tra i reperti provenienti da Mistras e da noi esaminati, invece, gli ovicaprini costituiscono la maggior parte dei resti di mammiferi tanto nel periodo arcaico che in quello punico, con una percentuale che scende dal 61 o/o al 54%, seguiti dai bovini che si mantengono costantemente attestati intorno al 20%. Siti diversi presentano, dunque, rapporti percentuali differenti confermando la complessità del quadro generale e la necessità di incrociare i dati archeozoologici con quelli contestuali se si vogliono ottenere ricostruzioni attendibili. In ogni caso, come già sottolineato da altri autori, i siti sardi confermano la non esistenza di un vero e proprio tabù nei confronti del maiale tra le comunità feniciopuniche stanziate in Sardegna, le quali, con tutta probabilità, interagirono con le popolazioni locali e adattarono eventuali prescrizioni alimentari preesistenti alla realtà di un tessuto produttivo consolidato da millenni. Un ruolo particolare sembra essere stato rivestito dalle popolazioni fenicie per quanto concerne l'introduzione nell'Isola di almeno due specie di animali domestici, ovvero il cavallo e l'asino. Le due specie equine infatti, pur non potendo escludere a priori sporadici arrivi di individui di cavallo o asino nelle fasi precedenti, sono presenti tra i materiali archeozoologici solo a partire dall'Età del Ferro, come nel caso dei materiali
116. Askos aviforme, VII-VI sec. a.e., ceramica, lungh. 19 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Londra, British Museum (© The Trustees of the British Museum). 117. Moneta, 264-241 a.e., bronzo, 0 3,5 cm , proveniente dal Tempio di Antas (Fluminimaggiore), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.
rinvenuti a Siligo e Is Paras, mentre si fanno relativamente più frequenti nei secoli successivi. Verosimilmente entrambi gli animali non erano utilizzati, di norma, come risorsa alimentare, avendo invece un notevole ruolo nell'incremento della mobilità degli abitanti dell'Isola, sia che si trattasse di popolazioni locali sia di coloni. Resti di asino sono stati rinvenuti nello scavo della cisterna del cronicario di Sant'Antioco, dove una mandibola presenta tracce di lavorazione, a Tharros e tra i materiali di Mistras da noi esaminati, in cui esso è presente sia nei livelli arcaici sia in quelli punici con alcuni denti e ossa delle estremità degli arti. Molto meno frequenti sono, invece, i resti di cavallo, finora rappresentato da pochissimi reperti, tra cui due frammenti provenienti da corso Umberto a Olbia - dove è stata ipotizzata la presenza di un'area sacra - e una prima falange intera dai livelli punici di Mistras, da noi attribuita al cavallo per le misure osteometriche e le caratteristiche morfologiche rilevate. Ancora dubbia sembra essere, invece, la presenza del pollame in questa fase della storia della Sardegna. Un frammento di Gallus gallus è stato rinvenuto nel settore A del Nuraghe Sirai, tuttavia esso proviene da una buca prodotta dallo scavo di alcuni clandestini e pertanto la sua esatta collocazione stratigrafica e cronologica è tutt'altro che certa. Tra i mammiferi domestici, inoltre, il cane
conservata, destinata a un trasporto via mare, tuttavia alcune caratteristiche peculiari dei contesti di rinvenimento e, talvolta, l'associazione dei resti animali con altre categorie di reperti facenti anch'essi parte del contenuto delle anfore (lucerne e coppette fittili, resti carpologici di varie specie tra cui parti non edibili come pigne o gusci di mandorle) pongono una serie di interrogativi che hanno reso necessari ulteriori approfondimenti, attualmente in corso da parte degli scriventi.
Nota bibliografica DELUSSU, WILKENS 2000; FARELLO 2000; MANCONI 2000; WILKENS 2003; CAMPANELLA, WILKENS 2004; CARENTI 2005; FONZO 2005; CARENTI, WILKENS 2006; WILKENS
2008; CAMPANELLA, ZAMORA 2010; POPLIN 2014; CARANNANTE, CHILARDI 2015; PORTAS, ET AL. 2015; USAI, ET AL. 2018; CARANNANTE 2019.
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L'attività mineraria Piero Bartoloni
Come è comunemente noto, la Sardegna nell'antichità era definita anche "l'Isola dalle vene d'argento", per ribadire come il suo sottosuolo fosse ricco di minerali del prezioso metallo. Fu proprio per queste caratteristiche legate all'estrazione che la Sardegna costituì fin dall'estrema antichità una delle mete privilegiate dei traffici commerciali del Mediterraneo occidentale. Si ricorderà dapprima la grande risorsa costituita dall'ossidiana, il vetro vulcanico, "l'oro nero", ben noto poiché da questo materiale fin dalla più remota preistoria venivano ricavati utensili affilatissimi. L'ossidiana, estratta soprattutto da numerosi giacimenti del Monte Arei, ubicato a est di Oristano, era talmente apprezzata che, fin dal V millennio a.C., dunque in piena età neolitica, venne esportata in buona parte dell'Europa meridionale. 118. Bronzetto votivo , IX-VIII sec. a.e., bronzo, h 9,5 cm, proveniente da Nuraghe Flumenelongu (Alghero), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. La statuetta, rappresentata nell'atto del saluto benedicente con la mano destra aperta, mostra una specifica iconografia di timbro levantino nella resa del copricapo conico e nelle fattezze allungate del volto .
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Tuttavia, la Sardegna divenne meta di traffici commerciali più che considerevoli quando furono scoperte le sue grandi risorse legate ai metalli. Abbiamo citato l'argento, ma occorre ricordare anche il ferro, presente in quantità notevole nel versante occidentale dell'Isola, principalmente nella Nurra, nel Montiferru alle spalle di Cornus, nella zona di Antas, nell'area sulcitana a ovest di Cagliari e tra Santadi e Teulada. Sono presenti alcuni giacimenti di rame, contrariamente a quanto si crede, poco rilevanti e non certo a livello di quelli ciprioti, e inoltre non manca lo stagno. Ulteriori risorse furono costituite da alcune miniere di antimonio e di manganese. Per quel che concerne l'antimonio, fin dal III millennio a.C. sotto forma di solfuro fu ampiamente utilizzato sia come medicamento che come cosmetico per gli occhi. Usato come fissatore del pigmento, aveva una parte importante anche nella produzione della porpora, che costituiva una di quelle attività con maggiore valore aggiunto del mondo fenicio. In Sardegna sono attestati solo quattro giacimenti di antimonio, ubicati uno presso Ballao, uno a San Basilio e due nel circondario di Villasalto, dunque tutti concentrati nella parte sud-orientale dell'Isola. Per quanto riguarda invece il manganese, nell'antichità l'uso di questo minerale è testimoniato in Sardegna fin dall'età neolitica, sotto forma di ocra, quindi di colorante, soprattutto nella sua varietà rossa. Inoltre fu una delle componenti di maggiore importanza nella produzione del vetro. Miniere di questo minerale sono più diffuse poiché sono presenti in quantità considerevole sia nel Gerrei, che nell'area di Bosa e nell'Isola di San Pietro, antica Inosim. Oggi, alla luce delle scoperte archeologiche effettuate nell'Isola, è interessante notare come i centri più antichi e spesso di maggiore rilevanza fossero collocati nelle vicinanze, anche immediate, dei più importanti giacimenti metalliferi. In definitiva, nella maggior parte dei casi il luogo della loro fondazione non fu casuale o dettato da altre esigenze che non fossero quelle della prossimità ai giacimenti e all'imbarco del
• Giacimenti di piombo Indizi 119
• Giacimenti di rame Indizi 120
• Giacimenti di argento Indizi
• Giacimenti di ferro 121
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119-122. Distribuzione delle testimonianze certe (in rosso) e probabili (in bianco) relative ai giacimenti di piombo (fig. 119), di rame (fig. 120), di ferro (fig. 121) e di argento (fig. 122) presenti in Sardegna (elaborazione P. Valera).
minerale estratto. Quindi, sulla base della presenza delle miniere si comprendono anche le motivazioni che portarono alla fondazione di particolari insediamenti, collocati in posizione strategica sia per lo sfruttamento, curato dai locali, che per la commercializzazione dei minerali e dei metalli
preziosi, effettuata principalmente dalle popolazioni orientali. La ricerca dell'argento era molto vivace sia nella penisola iberica che in Sardegna poiché nell'antico Oriente questo metallo prezioso costituiva la base delle transazioni commerciali. L'unità di misura monetale era l'argento stesso, poiché lo shekel (il siclo) era valutato nel suo peso di 7,2 grammi, né di oro, né di rame, ma esclusivamente di argento. Da ciò ben si comprende perché i popoli orientali, primi tra tutti i Fenici, furono disposti ad affrontare duemila miglia di traversie - tale è la distanza dal Libano alla Sardegna - per procacciarsi il pregiato metallo. Una prima constatazione è quella che vede i principali luoghi di estrazione dell'argento, sotto forma di giacimenti di piombo o di galena argentiferi, collocati in prossimità delle coste e ben collegati da una serie di insediamenti proiettati sia sul mare che verso l'interno. Il trattamento del minerale avveniva probabilmente negli stessi centri costieri, come suggerito anche dalle antiche fonti scritte di età romana, che narrano di grandi quantità di lingotti fusi in varie forme, e dalle ricerche archeologiche di ambientazione punica, che menzionano lingotti e scorie di fusione relative al piombo. In questa sede si citeranno ovviamente solo i giacimenti più vasti e di maggiore importanza, ma occorre precisare che numerosissime piccole miniere - sfruttate fin dai tempi più remoti - erano ubicate ovunque, soprattutto in prossimità della fascia costiera. Emblematica è la situazione riguardante il territorio alle spalle degli antichi insediamenti tra Santa Maria Navarrese e Arbatax, nel quale è testimoniata la presenza di una miniera di ferro, di una di rame e di ben otto di piombo argentifero. Da ultimo è necessario chiarire che tra la fine del II e i primi secoli del I millennio a.C. tutti i giacimenti della Sardegna erano probabilmente di proprietà dei differenti cantoni nuragici e che il minerale ricavato era acquistato dai mercanti fenici anche attraverso la pratica consolidata dello scambio di doni. Ciò ci viene senza dubbio suggerito dalle vicende che riguardano il Tempio di Antas. Infatti, come si ricorderà, dopo lo sfruttamento minerario effettuato almeno fino al IX secolo a.C. da parte delle popolazioni nuragiche, la cui presenza è documentata dal villaggio e dalle sepolture rinvenute in loco, databili attorno agli inizi
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del primo millennio, si può constatare l'apparente assenza di uno specifico interesse da parte degli abitanti delle città fenicie, manifestata dall' argumentum ex silentio, cioè dalla totale assenza di manufatti, nel sito, ascrivibili a quel periodo. L'attenzione per l'argento e per il bacino minerario di Antas si rinnovò non prima della conquista cartaginese della Sardegna: lo prova la ricostruzione del santuario nuragico, databile ai primi decenni del V secolo a.C., e la sua dedica a Sid Addir Babay, una divinità punica strettamente connessa e identificata con un personaggio divino locale, a palese ricordo e a evidente gratificazione di quelli che un tempo erano stati i signori dei luoghi. Dunque, il governo cartaginese sancisce la proprietà delle miniere con un ideale sincretismo delle due divinità. Con la caduta di Cartagine e l'avvento di Roma si manifestò un processo analogo. Infatti - come ricordato da ultimo da Francesca Cenerini - Augusto, una volta giunto al potere, realizzò il restauro del preesistente tempio punico di Antas in forme romano-italiche dedicandolo al Sardus Pater. La divinità è effigiata anche sulle monete battute da Augusto nel 38 a.C., cioè subito dopo la presa di possesso dell'Isola, in ricordo di Marcius Atius Balbus, suo nonno e governatore della Sardegna nel 62 a.C. Per quanto riguarda i giacimenti di rame della Sardegna, occorre osservare che, a
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123. Pendente , VI-V sec. a.e., argento , h 3 cm , proveniente da Tharros (Cabras) , Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. !.'.oggetto doveva verosimilmente adornare una collana composita e rappresentava dei simboli sacri (idolo a bottiglia e serpenti urèi discofori) su una base-altare modanata.
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discapito di una non giustificata fama che implica una notevole ricchezza di questo metallo, l'Isola ne è tutto sommato abbastanza povera, d'altronde se così non fosse, non si comprenderebbero i motivi che hanno provocato l'importazione di lingotti di rame da Cipro. Tutto ciò traspare dalle analisi dei reperti archeologici di vari siti, ove in genere il rame cipriota appare in percentuali valutabili attorno al 20%, quello sardo raramente supera il 2%, mentre quello ricavato da rifusione di frammenti di manufatti, la cui origine non è quindi valutabile, supera il 75%. Ne consegue che vi era un forte e continuo riutilizzo del metallo, che costituiva un bene prezioso da tesaurizzare. Inoltre, la forte percentuale di rame riciclato ci suggerisce di ripensare alla natura e alla qualità dei cosiddetti ripostigli di fonditori e di valutare appieno quanto suggerito al riguardo in alcuni saggi. Infatti, visto il pregio del metallo, la cui provenienza era addirittura anche oltremarina, si può ritenere che tali depositi, più che ripostigli di fonditori, siano stati piuttosto, o anche, altrettanti tesoretti con valore premonetale. Emblematici al riguardo gli innumerevoli frammenti di manufatti in bronzo, rinvenuti durante la campagna di scavi del 1967 tra gli oggetti offerti dai fedeli nel santuario di Antas. Tra questi, che colpiscono per la loro eterogeneità e per l'ampia forbice cronologica, che supera i 1200 anni, il piede di un bronzetto nuragico. Questo, poiché di metallo "prezioso", assieme agli altri frustuli costituiva a tutti gli effetti un'offerta di pari valore e di pari dignità rispetto alle monete confluite successivamente e forse in parte contemporaneamente, nel tesoro del tempio. Lo stato di frammentarietà degli oggetti metallici donati, prevalentemente in rame o in bronzo e anche di età assai tarda, doveva ricalcare una consuetudine invalsa in età premonetale, nella quale dai fedeli veniva versato un "obolo", costituito appunto anche da una semplice parte di metallo, che però sul mercato aveva valore corrente. In effetti, come è noto, nella maggior parte dei suddetti ripostigli sono conservati solo frammenti, che a buon diritto potevano costituire una sorta di moneta di scambio, mentre, nel caso di manufatti integri, si sarebbe potuto sommare il valore intrinseco dell'oggetto stesso. I cosiddetti ripostigli contengono soprattutto frammenti, poiché questi rappresentavano "gli spiccioli". In Sardegna le miniere di rame note fin dall'antichità sono ubicate principalmente
124. Vaghi di collana , VII-VI sec. a.e., argento, proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La collana è ricostruita con una serie di 13 vaghi a sezione ellissoidale e con 11 pendenti in forma di ascia bipenne miniaturistica, le quali corrispondono a una tipologia ampiamente diffusa dalle coste del Levante mediterraneo fino ai territori subcostieri del Marocco atlantico sin dalla fine del VII sec. a.e.
nell'Algherese - queste sono le uniche realmente prossime alla costa - , nell'Ogliastra, nelle Barbagie di Belvì e di Seulo e nel Sulcis. La più famosa è senza dubbio quella di Funtana Raminosa, presso Gadoni, ove ancora oggi sussistono piccoli filoni di rarissimo rame cosiddetto nativo, cioè praticamente allo stato puro. Tra gli altri giacimenti, è recentemente assurta a notorietà la miniera di Cala Bona, immediatamente a sud dell'abitato di Alghero, perché alcune analisi hanno mostrato come da questa miniera provenga il rame utilizzato per la realizzazione di almeno una parte della statua della Lupa Capitolina, emblema di Roma conservato nei Musei Capitolini. Come accennato più sopra, anche il ferro è presente in notevoli quantità e numerosi insediamenti sono sorti all'ombra delle sue miniere. Si può citare il maggiore giacimento che è quello esistente nel Montiferru, alle spalle dell'insediamento punico di Cornus, ma alcuni altri sono presenti soprattutto nella zona dell'lglesiente, che gravitava attorno al santuario nuragico di Antas. Altre miniere di ferro erano ubicate nella fascia montana che si erge a occidente del Golfo degli Angeli, in
prossimità degli antichi centri a nord-ovest di Cagliari, del complesso nuragico di Antigori, insediamento di età matura e con evidenti tracce di commercio filisteo, e della città di Nora, attiva fin dalla seconda metà dell'VIII secolo a.C. Ulteriori giacimenti, infine, sono ubicati nella Nurra e nel Gerrei. In conclusione, dalla breve rassegna delle miniere e dei metalli esistenti in Sardegna, mentre per quanto concerne l'area del Vicino Oriente il metallo di riferimento era costituito dall'argento, per quel che riguarda l'Isola, il metallo tesaurizzato era il rame. Fatto, tra l'altro, che spiega il motivo per cui Cartagine, una volta padrona della Sardegna, non abbia mai introdotto o coniato nell'Isola monete d'argento, che invece costituivano l'asse portante della politica economica del Nord Africa e della Sicilia.
Nota bibliografica 1871; Lo SCHIAVO 1981; Z UCCA 1983; LILLIU 1986; Z UCCA 1995a; ARGYROPHLEPS NESOS 2001; B ARTOLO NI 2009b.
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Nooostanreknumerosemrertezzecheancora circondano la nascita della siderurgia preistorica, la capacità di produrre oggetti d,uso a partire da ossidi di ferro (quali magnetite, ematite e limonite), più facilmente reperibili anche m conrentrazioni superficiali, sembra essersi sviluppata tra il me il II millennio a.e. nella regione anatolica circummesopotamica, dove rerenti ricerche hanno consentito di mdividuare testimonianze databili mtorno al 2000 a.e. In area vicino orientale, tale processo produttivo si sarebbe diffuso soprattutto nel II millennio, generalizzandosi nel corso dell'omonima era tecnologica, convenzionalmente datata a partire dal 1200 a.C. Assodata l'inconsistenza di una lettura monogenetica del fenomeno, a seguito dell'individuazione di almeno altri due foci di sperimentazione e propagazione di analoghe tecniche pirometallurgiche (identificati con l'Africa sub-sahariana e con la valle dell'Indo), si è soliti ritenere che la diffusione del nuovo metallo sia stata favorita dalla maggiore disponibilità delle materie prime, oltre che dalla possibilità di ottenere strumenti più resistenti rispetto a quelli in bronzo. Secondo l'opinione comune degli studiosi, l'innovazione sarebbe stata trasmessa al Mediterraneo centrooccidentale attraverso la mediazione dei Fenici, i quali avrebbero condiviso questo ruolo con i Greci, nel quadro di un più ampio trasferimento di conoscenze da Oriente a Occidente. Nelle regioni interessate dalla diaspora coloniale, le più antiche importazioni di oggetti in ferro si datano tra l'XI e il IX secolo a.C. e sono talvolta accompagnate da manufatti prodotti localmente; tuttavia, il radicamento della nuova attività produttiva si sarebbe verificato in seguito alla fondazione delle più antiche colonie levantine, avvenuta intorno al IX secolo a.C. Già percepibile a Morro de Mezquitilla (Malaga) nella prima metà dell'VIII secolo a.C., il cambiamento si avverte
con sempre maggiore evidenza nella seconda metà dell'VIII e poi tra il VII e il VI secolo a.C.: m questi orizwnti cronologici, le testimonianze si localizzano soprattutto a Cartagine, Utica (Tunisia), Sulci (Sardegna), Toscanos e Cerro del Villar (Malaga), Sa Caleta (lbiza) e presso la colonia euboica di Pithekoussai (Ischia), dove potrebbero attestare una precoce connessione con la metropoli nordafricana. La documentazione relativa alla Sardegna, pur non particolarmente rilevante in termini quantitativi, appare tuttavia qualitativamente coerente con quella delle altre regioni del mondo coloniale: essa comprende scorie di fusione, abbondanti resti carboniosi, tuyères a doppio foro parallelo e convergente, ciottoli in pietra utilizzati nella frantumazione della materia prima, nonché frammenti di pareti di fornace con impressioni digitali e pezzi di ferro informi, riferibili nell'insieme alle diverse fasi di lavorazione del metallo. È noto infatti che, in seguito alle fasi di estrazione e preparazione, il minerale veniva dapprima sottoposto al processo di riduzione in una fornace a bassofuoco (con contestuale formazione della spugna ferrica ed eliminazione della scoria) e poi alla raffinazione mediante battitura a caldo, funzionale alla produzione della loppa da destinare alla forgiatura. Ciò nonostante, la puntuale ricostruzione del processo impiegato in ambito isolano è ostacolata sia dal costante rinvenimento dei materiali in giacitura secondaria - circostanza che non consente, per esempio, una dettagliata classificazione tipologica e funzionale delle fornaci, né lo studio degli aspetti logistici all'interno di singole officine - , sia dall'oggettiva carenza di analisi archeometriche, che rende talvolta aleatoria l'identificazione dei bacini di approvvigionamento e delle diverse fasi produttive. Per contro, va sottolineata la notevole rilevanza di tali aspetti sul piano storicoeconomico, in quanto le fasi di raffinazione
125. Stiletto a capocchia sagomata , VII sec. a.e., bronzo e ferro, lungh. 20 cm ca ., proveniente da Bithia (Domus De Maria), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. 126. Spiedo , IV-lii sec. a.e., ferro, lungh. 41 ,5 cm, proveniente dal Tempio di Antas (Fluminimaggiore). Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.
127. Le fornaci utilizzate per riscaldare il metallo durante le operazioni di forgiatura replicavano generalmente la forma dei forni per il pane (tannur) ed erano caratterizzate da una serie di impressioni digitali sulla superficie esterna. A questa fase del ciclo produttivo sono riferibili quelle rinvenute a Morra di Mezquitilla (Malaga) e presso la collina di Byrsa a Cartagine (consulenza R. Secci).
e forgiatura potevano svolgersi anche in località diverse da quelle adibite alla prima lavorazione del minerale: queste ultime, infatti, erano preferibilmente localizzate presso i siti di estrazione, anche in ragione di una maggiore disponibilità di legname da utilizzare come combustibile sotto forma di carbone vegetale. Le testimonianze riferibili alla lavorazione del ferro nei contesti sardi hanno subìto un progressivo incremento in seguito all'intensificarsi delle ricerche: oltre ai rinvenimenti effettuati nel citato insediamento di Sulci (vani IIG e IIE della cosiddetta "area del Cronicario": livelli di VIII-VII sec. a. C. ) e quelli di Neapolis, Othoca, Cornus, Senorbì, Nora, Bithia e Monte Sirai (presso il quale Ferruccio Barreca segnalava anche la presenza di una modesta fonderia), vanno ancora ricordate le cospicue tracce evidenziate nel quartiere industriale di Murru Mannu a Tharros (V-IV sec. a.C. ), nonché quelle recentemente messe in luce presso il Nuraghe Sir ai (VII-VI sec. a. C.) e nel territorio di Torralba (località S'Arrideli) (IV-I sec. a.C.). In questo quadro, un eccezionale interesse rivestono i risultati delle indagini chimicofisiche condotte nel citato centro del Sinis:
esse hanno fornito una notevole quantità di informazioni sull'intero processo produttivo, consentendo, tra l'altro, di determinare i tempi e le temperature di esercizio delle fornaci (che potevano raggiungere valori massimi di 1280 °ç) e di identificare con il Montiferru l'area di provenienza delle materie prime. Stando ai dati attualmente disponibili, inoltre, gli impianti metallurgici erano generalmente dislocati ai margini dell'insediamento (così a Nora e Tharros), in linea con una più generale tendenza dell'urbanistica fenicia e punica. Tra i prodotti dell'artigianato del ferro riferibili ali' ambito fenicio e punico, una certa diffusione registrano le armi, per lo più provenienti da contesti funerari (in particolare a Bithia, Othoca e Tharros). A questa categoria di manufatti si aggiungono inoltre strumenti per la produzione agricola e artigianale, quali per esempio cesoie, falcetti e chiodi, oppure afferenti alla sfera personale, come gli strigili. Nota bibliografica 1986, pp. 270-271; l NGO, ET AL. 1996; l NGO, ET 1997; NIEMEYER 2001; Lo SCHIAVO 2005; POMPIANU 20 10b; MIELKE, T ORRES 0 RTIZ 2012, pp. 271-275; ZAPATERO 20 12; RE ZI 2013; P ERRA 201 4, pp. 123-124; U NALI 2017c, p. 11 7; NJJBOER 20 18; ERB-SATULLO 2019.
BARRECA AL.
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Le attività artigiana Ii Raimondo Secci
128. Brocca con orlo trilobato , VI-V sec. a.e., ceramica , h 16 cm , proveniente da Tharros (eabras), Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna ". La decorazione a tremuli, "festoni" e tratti verticali , insieme all 'ansa a rocchetto, evidenziano un gusto fortemente arcaizzante e un probabile influsso rodio. 129. Brocca con orlo trilobato , IV-lii sec. a.e. , ceramica , h 28,5 cm, proveniente da Tharros (eabras) , Londra , British Museum (© The Trustees of the British Museum). Il vaso presenta un 'ansa geminata impostata sulla spalla tra due protuberanze a forma di corna e sul bordo, sul quale termina con tre teste di leone.
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Il magistero che le fonti classiche e vicino orientali attribuiscono ai Fenici nel campo della produzione artistica e artigianale si esercitò nelle regioni del Mediterraneo occidentale sia mediante la trasmissione di tecniche e conoscenze, sia attraverso la diffusione di prodotti finiti di svariata natura tipologica. L'arrivo di artigiani di origine levantina, insieme a oggetti esotici destinati allo scambio cerimoniale di doni; l'instaurazione di stretti rapporti culturali e commerciali con le popolazioni autoctone e lo sviluppo delle attività produttive nelle aree rurali per impulso dei centri costieri, diedero origine in Occidente a un complesso fenomeno di assimilazione e rielaborazione di modelli ideologici e temi iconografici, che si tradusse dapprima nell'adozione di moduli espressivi
"orientalizzanti" nei repertori locali e poi nell'integrazione delle civiltà autoctone nel più ampio quadro dell'Ellenismo. D'altra parte, lungi dal configurarsi come un processo unilaterale di acculturazione, l'incontro con le popolazioni occidentali non fu privo di conseguenze per la stessa cultura fenicia, che da esse assorbì a sua volta stimoli formali ben individuabili in alcune categorie di manufatti. Rinviando, all'interno di questo volume, agli specifici approfondimenti sulle singole produzioni artigianali di età fenicia e punica, si formuleranno di seguito alcune considerazioni di carattere generale, che riguardano l'insieme della documentazione isolana alla luce di quella della madrepatria e delle diverse regioni della diaspora mediterranea. Il primo problema da affrontare allorché ci si accinga ad analizzare questo genere di
manifatture riguarda la loro stessa definizione. Sebbene infatti sia invalso l'uso di utilizzare il termine "artigianato" non soltanto in riferimento agli oggetti d'uso quotidiano, ma anche in rapporto alle realizzazioni più raffinate e destinate a una fruizione elitaria (al più inquadrate nell'ambito dell"'artigianato artistico"), gli studiosi hanno talvolta sottolineato la possibilità di riconoscere nelle suddette produzioni l'esito di una vera e propria "volontà artistica", secondo il concetto di Kunstwollen introdotto da A. Riegl. In tale prospettiva, alcuni capolavori della scultura in pietra ( quali per esempio la statua femminile di Monte Sirai, figg. 78,475, o i leoni di Sulci, figg. 42-43 ), dell'oreficeria, della toreutica (come le coppe metalliche decorate a sbalzo) e della lavorazione dell'avorio (figg. 133, 135-138) non sarebbero da interpretare come prodotti artigianali tout court, ma come vere e proprie opere d 'arte, sia in quanto veicoli di una precisa ideologia politica o religiosa, sia per il loro elevato livello stilistico. Ciò nonostante, permane negli studi una certa oscillazione terminologica, che da un lato riflette l'ambiguità semantica del vocabolo fenicio (riferibile a un'ampia fascia di lavoratori, compresa tra il semplice apprendista e il maestro più apprezzato), dall'altro appare in linea con l'assenza di una netta distinzione tra la figura dell'artigiano e quella dell'artista in epoche anteriori al Rinascimento. In effetti, anche in presenza di una chiara volontà dell'artefice di perseguire un intento estetico, i manufatti • in questione sembrano ispirarsi in primo luogo a esigenze di praticità e funzionalità (anche quella commerciale), mostrando una certa ripetitività tipologica e decorativa e assurgendo solo sporadicamente - e forse soltanto a causa di una lacuna delle conoscenze - al rango di unica. Un altro requisito che i documenti isolani condividono con il resto della cultura materiale fenicia è costituito dalla generale tendenza all'eclettismo. Benché quest'ultimo fenomeno sia stato a lungo oggetto di un diffuso pregiudizio, che ha indotto a negare ai Fenici qualsiasi carattere di originalità, la critica moderna ha elaborato su di esso una valutazione più equilibrata, ribaltando in un certo senso la prospettiva: in quest'ottica, il carattere eclettico delle manifatture in esame non consisterebbe in una passiva imitazione dei modelli stranieri, ma sarebbe il risultato di un consapevole processo di selezione e rielaborazione di stili di origine diversa, che concorrerebbero alla creazione di un linguaggio nuovo e originale. Ed è proprio
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Nella pagina precedente: 130. Candelabro rituale , V sec. a.e., ceramica , h 38 cm, lungh. lucerna 12 cm , 0 base 20,5 cm , proveniente da Sulci (Sant'Antioco), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Il corpo, caratterizzato da una protome d'ariete e sette vasetti decorati da teste femminili di profilo, è sorretto da un piede a tromba , cavo all'interno, ed è sormontato da un fusto sorreggente una lucerna a due becchi di ispirazione greca. Decorazione sovraddipinta nera e bianca su engobbio rosso.
131. Rasoio , VI sec. a.e., bronzo , largh. 1 cm , lungh. 11 cm , spessore O, 1 cm , proveniente da località sconosciuta, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Derivanti da modelli egiziani del Nuovo Regno, i cosiddetti rasoi in bronzo sono stati generalmente interpretati in funzione della tonsura rituale o come arricciacapelli/ arricciabarba. La quasi esclusiva contestualizzazione funeraria potrebbe essere legata a un loro utilizzo nella preparazione del cadavere per la sepoltu ra o, in alternativa, come strumenti chirurgici , in pratiche simili a quella dell'imbalsamazione. 132. Rasoio, 111-11 sec. a.e. , bronzo , largh. 3,2 cm , lungh. 11 cm , spessore 0,3 cm , proveniente da località sconosciuta , Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. La fase evolutiva più recente della classe prevede un manico conformato a testa di cigno , una maggiore larghezza del corpo e una lama semilunata. Lesemplare illustrato rappresenta un unicum tra i rasoi finora conosciuti , per la presenza di una seconda testa di cigno, più piccola , poggiante sulla spalla del manufatto.
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in tale rielaborazione di stimoli formali e iconografici, prevalentemente desunti dal repertorio egiziano ma anche da quello egeo, mesopotamico e greco, che si deve riconoscere la cifra più intima della cultura fenicia; un carattere che, pur con diverse gradazioni nel tempo e nello spazio, contraddistingue tutte le "categorie" della produzione artigianale (dalla scultura in pietra alla bronzistica figurata, dagli avori alle coppe metalliche, dai sarcofagi ai rasoi in bronzo, dall'oreficeria alla glittica, dalla coroplastica alla ceramica ecc. ), senza che ciò comporti la contemporanea presenza di tutte le fonti d'ispirazione nei singoli manufatti
(si pensi, al riguardo, all'esclusiva matrice egiziana dell'iconografia degli amuleti o a quella essenzialmente ellenica di alcuni tipi di terrecotte). Quanto alle "categorie" alle quali si è accennato, occorre tener presente che la loro individuazione non si basa su criteri univoci e deve essere assunta in termini puramente convenzionali: risulta evidente, infatti, che mentre in alcuni casi il fattore discriminante è identificabile con la destinazione funzionale (per esempio nel caso degli amuleti, dei rasoi e dei sarcofagi), in altri è costituito dalla tecnica di lavorazione (così per la scultura e il rilievo), oppure dalla natura del
133. Manico di specchio(?) configurato a palmetta , VII-V sec. a.e. , avorio , h 6,4 cm , largh . 3,9 cm , spessore 1,3 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. 134. Specchio, VI-lii sec. a.e., bronzo, proveniente da Sulci (Sant'Antioco) , Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca ". Strumento di toeletta personale per antonomasia, lo specchio compare nei contesti funerari punici fin dall'epoca arcaica , sia nelle tombe femminili sia in quelle maschili.
135. Manico di specchio (?) , IV-lii sec. a.e., avorio , h 9,6 cm , largh. 4,4 cm , spessore 1,7 cm , proveniente da Su lci (Sant'Antioco), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. La placchetta, intagliata in forma di volatile accovacciato su un ramo di palma , è caratteriuata da un notevole plasticismo e da una resa accentuatamente naturalistica della figura .
materiale (vetri, terrecotte, avori, uova di struzzo ecc.). Contro una rigida applicazione delle categorie tradizionali depone anche la frequente "trasversalità" funzionale o tecnologica degli oggetti, determinata dalle diverse valenze che essi assunsero in tutto l'arco di utilizzo. L'assunto è ben esemplificato dalla categoria dei sigilli, nei quali la funzione "primaria" di contrassegno personale non esclude altre funzioni "secondarie": tra queste, la più importante era senza dubbio quella amuletica, connessa ai valori magici incarnati dallo scarabeo nella cultura egiziana (figg. 139-143, 233-244); tuttavia, non sono da sottovalutare le possibili
finalità ornamentali, associate alla montatura in metallo prezioso. Altrettanto paradigmatico è il caso degli astucci portam uleti (figg. 317-3 21, 520-522), i quali, nonostante la prioritaria connotazione funzionale, sono generalmente inquadrati nella categoria dei gioielli. Ancora a proposito delle cosiddette "categorie artigianali", un'ulteriore annotazione concerne l'assenza in Sardegna di una delle produzioni più rappresentative dell'artigianato "fenicio", ossia le coppe metalliche decorate a sbalzo, per contro ampiamente documentate nelle sepolture orientalizzanti dell'Etruria tirrenica. In queste ultime, tali beni suntuari - spesso portatori di
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136. Amuleto a forma di mano destra distesa, VII-VI sec. a.e., avorio, h 9,5 cm, largh. 2,4 cm, spessore 0,6 cm , proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. 137. Amuleto a forma di braccio e mano che "fa le fiche", VII-VI sec. a.e., osso, h 3,35 cm , largh. 0,9 cm , spessore 0,55 cm , proveniente da Sulci (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". La costante ripresa di modelli nilotici nella realizzazione degli amuleti testimonia il prestigio riconosciuto dalla cultura punica alla magia egiziana.
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138. Placchetta con raffigurazione di Bes, fine VIIVI sec. a.e., osso, h 3,3 cm, largh. max 6,1 cm, spessore 0,3 cm, proveniente da Monte Sirai (Carbonia) , Roma , Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo.
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espliciti messaggi di "regalità indotta", veicolati da motivi iconografici di origine asiatica o egiziana-, contraddistinguono esponenti di un emergente ceto "principesco': che trae la propria ideologia del potere dai modelli vicino orientali. Pur con le necessarie cautele dovute alla scarsa conoscenza dei corrispondenti contesti sardi dell'Età del Ferro, la particolarità della situazione isolana assume un certo interesse e non ha mancato di attirare l'attenzione degli studiosi. Secondo le letture più recenti, essa si spiegherebbe alla luce di una sostanziale diversità degli assetti economici e sociali delle comunità sarde ed etrusche, che sarebbe anche direttamente proporzionale al loro grado di permeabilità alla cultura orientalizzante: da un lato, dunque, avremmo la società nuragica,
ancora caratterizzata dalla «mancata adozione e diffusione ... dei modelli urbani di organizzazione sociale e politica, che restano limitati agli insediamenti costieri» (BERNARDINI 2005b, p. 75); dall'altro quella tirrenica, fondata su dinamiche di tipo verticistico, connesse a forme di sviluppo propriamente urbano. Venendo ora più in dettaglio alle dinamiche della lavorazione artigianale, è opportuno soffermare l'attenzione su alcune questioni legate all'individuazione dei centri di produzione e dei relativi opifici. Si deve rilevare, al riguardo, che la documentazione attualmente disponibile appare estremamente lacunosa e non consente, nella maggior parte dei casi, di andare oltre la formulazione di semplici ipotesi di lavoro. Se è vero, infatti, che la corretta identificazione degli atelier specializzati deve basarsi sulla contemporanea presenza nel record archeologico del prodotto finito, della materia prima e degli scarti di lavorazione, bisognerà riconoscere che tale situazione si verifica assai raramente in Sardegna: salvo alcune eccezioni, come quelle costituite dall'officina per la lavorazione del vetro rinvenuta presso il Nuraghe Sirai o dalle località contraddistinte da tracce di lavorazione del ferro e della ceramica, negli altri casi la localizzazione dei centri di produzione può essere infatti ragionevolmente ipotizzata (sulla base di elementi intrinseci o anche estrinseci ai materiali), ma non accertata con sicurezza. Per quanto riguarda le stele votive, per esempio, l'ipotesi di un'elaborazione negli stessi centri di rinvenimento è oggi unanimemente accettata grazie a una serie di indizi convergenti (quali il tipo di materiale impiegato e il notevole peso, che rendeva i manufatti poco idonei al trasporto su lunghe distanze), ma nessuna delle relative botteghe è stata finora messa in luce. La questione si pone con evidenza anche per il cospicuo numero di gioielli proveniente dalle ricche necropoli di Tharros, che ha indotto a vedere nel centro del Sinis un luogo di produzione persino superiore alla stessa Cartagine: benché quest'ultima ipotesi possa forse trovare una labile conferma nelle notizie antiquarie inerenti la scoperta nel sito di una sepoltura contenente noduli di oro grezzo, un crogiolo e altri strumenti orafi, la totale assenza di informazioni sulle officine di lavorazione suggerisce un atteggiamento improntato alla prudenza in attesa di nuovi e più perspicui elementi di giudizio. Parimenti problematica, allo stato attuale delle conoscenze, risulta
139. Scarabeo , V-IV sec. a.e. , diaspro, h 0,8 cm , largh. 0,9 cm, lungh. 1,4 cm , proveniente da Monte Sirai (Carbonia), Carbonia, Museo Archeologico Comunale "Villa Sulcis". L'ovale di base presenta una cornice lineare incisa; all'interno è raffigurata un'imbarcazione con albero a vela quadrata e con poppa e prua speculari.
140. Scarabeo, VI-V sec. a.e., diaspro, proveniente da Sulci (Sant'Antioco), Carbonia, Museo Archeologico Comunale "Villa Sulcis". Nell'ovale di base, delimitato da una cornice a trattini, è raffigurata una scena di lotta tra animali.
141. Scarabeo con montatura a staffa e anello di sospensione, V sec. a.e., corniola e oro, h 0,9 cm, largh. 1 cm , lungh. 1,4 cm, lungh. montatura 1,9 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna". Nell 'ovale di base, delimitato da una cornice a trattini , è raffigurato un leone che assale un toro; a sinistra, lungo la cornice, un urèo discoforo.
142. Pendente di collana a forma di falco, con anello di sospensione, VII-IV sec. a.e., corniola e oro, h 1,2 cm, largh. 0,4 cm, spessore 1,7 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna".
l'attribuzione a botteghe tharrensi dei numerosi sigilli rinvenuti nell'insediamento già citato: in questo caso, l'ipotesi è stata sostenuta sulla base dell'elevata concentrazione dei materiali e dell'esistenza di giacimenti di diaspro verde nell'area del Monte Arei e del Mogorese, identificati come possibili fonti della materia prima; ciò nonostante questi argomenti non possono ritenersi conclusivi, al punto che, più di recente, si è proposta un'importazione dei manufatti da Cartagine. La mancata individuazione dei luoghi fisici destinati allo svolgimento delle attività artigianali rappresenta un notevole ostacolo anche per lo studio degli aspetti logistici e sociali connessi all'organizzazione del lavoro. Quanto alla dislocazione degli insediamenti produttivi, si può ritenere che, mentre le installazioni più inquinanti potevano essere localizzate ai margini dell'abitato, alcuni tipi di botteghe specializzate dovessero trovarsi all'interno del tessuto cittadino, in conformità ai canoni urbanistici vicino orientali e ad analoghe situazioni documentate in Occidente (per esempio a Cartagine e Kerkouane). Il processo di lavorazione coinvolgeva verosimilmente diverse categorie di lavoratori (operai specializzati, apprendisti e forse schiavi), coordinati da un capobottega al quale spettava anche la gestione delle fasi di approvvigionamento delle materie prime, della lavorazione e del trasporto dei prodotti finiti. In questo quadro è inoltre ipotizzabile un importante ruolo delle donne, alle quali erano • tradizionalmente demandate attività legate alla produzione della ceramica e dei tessuti. Infine, i segni alfabetici impressi o incisi su alcuni prodotti ceramici o coroplastici (si veda, per esempio, il caso di un bruciaprofumi a testa femminile da Paulilatino) suggeriscono l'ipotesi di una certa alfabetizzazione degli artigiani, in funzione di specifiche mansioni produttive.
Nota bibliografica
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143. Pendente di collana a forma di cuore, con doppio anello di sospensione, VII-IV sec. a.e., corniola e oro , h 1,4 cm, largh. 1,1 cm, spessore 0,5 cm , proveniente da Tharros (Cabras), Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna".
Considerata la vastità degli studi sull'artigianato fenicio e punico, si forniscono in questa sede soltanto alcuni spunti bibliografici inerenti le problematiche richiamate nel testo: BARNETT 1983; ACQUARO 1984; ìvfOSCATI 1989,pp. 75-98;:tvfOSCATI 1990a;ìv10SCATI 1990b; REGOLI 1991, pp. 44,178; NERI 2000; PISANO 2001; BOTTO, 0GGIANO 2003; ACQUARO, FERRAR! 2004; ACQUARO 2005; BERNARDINI 2005b; ACQUARO 2010; BERNARDINI, BOTTO 2015; FARISELLI 2018c. Per ulteriore bibliografia sulle singole produzioni artigianali si rinvia agli specifici approfondimenti in questo volume.
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Per la sua sovrabbondante attestazione nei contesti di scavo, la ceramica riveste un'indiscutibile importanza nello studio delle civiltà del passato. Ciò è valido, a maggior ragione, in alcuni campi della ricerca storica, come quello incentrato sul mondo fenicio e punico, nei quali le testimonianze materiali costituiscono spesso l'unica fonte d'informazione a causa della quasi totale mancanza di dati letterari. In effetti, nessun'altra manifestazione artigianale appare in grado, come quella in questione, di evidenziare le complesse dinamiche di interazione culturale innescate dal fenomeno della colonizzazione fenicia, alla quale si è soliti attribuire numerose innovazioni tecnologiche foriere di profondi cambiamenti nella sfera
economica delle popolazioni occidentali. Per quanto concerne la filiera dell'argilla, tale apporto culturale è riconoscibile soprattutto nell'uso del tornio e delle fornaci con camere sovrapposte a tiraggio verticale, che consentivano un miglioramento dei processi di fabbricazione e cottura dei prodotti vascolari; non mancarono, tuttavia, ulteriori contributi all'ottimizzazione dell'intero processo produttivo, identificabili, per esempio, nell'organizzazione su scala industriale dell'attività dei ceramisti e nel ricorso a peculiari tecniche di rifinitura dei manufatti. Tra tutte le innovazioni menzionate, un ruolo di primo piano fu certamente svolto dalla ruota da vasaio, considerata frutto di un'invenzione policentrica risalente al V millennio a.C.
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144-146. Anforetta e brocche, V sec. a.e., ceramica, h max 31 cm, provenienti da Tharros (Cabras). Cabras, Museo Civico "Giovanni Marongiu ". 14 7. I torni da vasaio del Il
e del I millennio sono noti grazie a numerosi rinvenimenti in insediamenti vicino orientali e in palazzi della Creta minoica, nonché attraverso scene di lavoro raffigurate nelle tombe egiziane. Tali dispositivi, rimasti sostanzialmente invariati fino all'inizio dell'età classica (V sec. a.C.), erano costituiti da un semplice disco in pietra, legno o terracotta , provvisto di un perno solidale che ne consentiva la rotazione su una pietra conformata a cardine, oppure (più raramente) di un incavo nella faccia inferiore, nel quale trovava alloggiamento un perno fisso al suolo (consulenza R. Secci).
Inizialmente utilizzata al solo fine di regolarizzare le pareti di vasi plasmati a mano o per decorarne le superfici, essa si diffuse in area vicino orientale soprattutto nell'Età del Bronzo, quando fu trasmessa anche al mondo egeo. Tale dispositivo era per lo più costituito da due dischi in pietra sovrapposti, uno dei quali (quello superiore) in grado di ruotare su se stesso grazie a un perno conico incardinato nel disco sottostante e all'energia cinetica impressa a mano dal ceramista. Benché simili congegni fossero già noti nel Mediterraneo centro-occidentale fin dal Bronzo Medio, in relazione alle frequentazioni di navigatori provenienti dall'area egea e levantina, fu soltanto a partire dal IX secolo a.C., con la stabilizzazione dei primi insediamenti fenici, che il loro impiego divenne parte integrante della sequenza produttiva. Tra !'VIII e il VII secolo a.C., infine, lo strumento fu talvolta adottato anche dai ceramisti autoctoni, in parallelo con la lavorazione manuale: l'assunto
è supportato sia dal ritrovamento di alcune parti di tornio in ambito tartessico, sia dalle tracce di rotazione meccanica riscontrabili su prodotti dell'artigianato encorico, comprendenti per esempio le anfore d'ispirazione levantina rinvenute a Sant'Imbenia (Alghero) o la ceramica grigia dell'Orientalizzante iberico, notoriamente ispirata a forme del repertorio locale. Imputabile ai Fenici, come si è già detto, è anche l'introduzione in Occidente delle fornaci con camera di cottura sovrapposta a quella di combustione, separate da una suola forata che permetteva la diffusione del calore nel vano superiore. Questa articolazione strutturale rappresentava un importante progresso tecnologico rispetto alle fornaci più antiche, in quanto consentiva l'allontanamento del vasellame dal focolare sottostante, proteggendolo dai colpi di fiamma e garantendone una cottura più uniforme. Sulla base della soluzione adottata per il
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148. Statuetta di divinità femminile, VI-V sec. a.e., terracotta, h 15 cm, proveniente dalla Necropoli di Tuvixeddu, area Predio lbba (Cagliari), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il personaggio, abbigliato con una lunga tunica e con il capo velato, siede su un trono con alta spalliera, poggiando le mani sulle ginocchia e i piedi su uno sgabello. Permangono lievi tracce di colore bianco e auurro. 149-151. Statuette di divinità femminile , V sec. a.e., terracotta, h 11,3 cm ciascuna, provenienti dalla Necropoli di Tuvixeddu, area Predio lbba (Cagliari), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Rinvenute nella medesima tomba e realiuate attraverso un 'unica matrice, esse raffigurano un personaggio femminile seduto in trono, abbigliato con un lungo chitone e un mantello. Sono presenti tracce di colore bianco sul volto e sul mantello; labbra e parte anteriore della veste sono dipinti in rosso.
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sostegno della suola è possibile distinguere due tipi principali, entrambi caratterizzati da una pianta circolare o ellittica: nel primo, la funzione di supporto era demandata a un tramezzo centrale, che suddivideva il vano inferiore in due lobi simmetrici, mentre nel secondo essa era assolta da un pilastro centrale a sezione prevalentemente circolare. Il primo tipo, ben rappresentato a Sarepta (Libano) tra il XIII e il IV secolo a.C., è noto in Occidente a Cerro del Villar (Malaga), Cadice, Mozia, Solunto e al Nuraghe Sirai, entro un arco cronologico compreso tra il VII e il V secolo a.C.; il secondo, già documentato in Iran (Tepe Ghabristan) nel V millennio a.C., registra invece una più ampia diffusione fino all'età ellenistica, con attestazioni a Cerro del Villar, Cartagine, Utica, Kerkouane, Cadice e San Sperate (Sardegna). A partire dal VII secolo a.C., inoltre, i due tipi compaiono anche in ambito tartessico, nei siti di Las Calafias de Marmolejo (Jaén), Cerro de los Infantes (Granada) e Mérida. In assenza di fonti iconografiche come quelle disponibili per il mondo greco o egiziano, le diverse fasi di realizzazione dei prodotti ceramici sono ricostruibili, almeno nelle linee essenziali, sulla base dei rinvenimenti effettuati in numerosi insediamenti fenici della madrepatria e del mondo coloniale. Il processo iniziava con il reperimento delle argille, che generalmente si svolgeva in cave situate in prossimità dell'abitato, e proseguiva con la depurazione e l'eventuale aggiunta di
degrassanti, funzionali a ottenere il giusto grado di plasticità della materia prima. Le fasi successive comprendevano invece la, preparazione dell'impasto e la modellazione al tornio; la lisciatura delle superfici e l'essiccazione in vani ben aerati, al riparo dai raggi del sole; infine, la decorazione e la cottura in ambiente ossidante, tipica delle produzioni di età storica. Importanti informazioni riguardo al ciclo produttivo provengono dal già citato sito di Sarepta, nel quale è stato possibile individuare le aree di installazione del tornio, le probabili vasche di decantazione dell'argilla, gli ambienti destinati all' essicazione, nonché i mortai utilizzati nella produzione di pigmenti. In Occidente, specifici studi geo-litologici e archeometrici effettuati a Tharros e Cerro del Villar hanno consentito l'identificazione dei bacini di approvvigionamento utilizzati dai ceramisti, mentre ancora a Cerro del Villar è stato messo in luce un atelier databile alla prima metà del VI secolo a.C.: esso ha restituito la base di un tornio, resti di ossido di ferro verosimilmente utilizzato nell'elaborazione di coloranti, numerosi lisciatoi, alcune fornaci e probabili "distanziatori" in terracotta, impiegati nella sistemazione del vasellame per la cottura.
Nota bibliografica FALSONE 1981; ANDERSON 1987; UGAS 1993, p. 55, tav. XVI, b ; P ERRA 2014, pp. 124-126; VALLEJO SANCHEZ 2006; DELGADO H ERVAS 2011; ]IMÉNEZ ÀVILA 2013; J]MÉ EZ AVILA, ET AL. 2013; MIELKE 2015; D E R OSA, GARAU, RENDELI 2018.
152-153. Matrice e stampo, V-lii sec. a.e., terracotta, proveniente dall'abitato di Santu Teru (Senorbì), Senorbì, Civico Museo Archeologico "Sa Domu Nosta". 154-155. Matrice e stampo , IV-lii sec. a.e., terracotta, h res. 13,7 cm, largh. 11,2 cm , proveniente dal Santuario di via Malta (Cagliari), Cagliari , Soprintendenza ABAP per la Sardegna meridionale. Rinvenuta al l'interno del cosiddetto "pozzo feniciopunico", è la parte anteriore di una doppia matrice destinata alla realizzazione di thymiateria . Il tipo di orecchino , "a navicella " con pendaglio a forma di "cratere" e rosetta , trova confronto con la gioielleria greca, in particolare siceliota.
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157. Borchia, V-IV sec. a.e.,
aremto dorato, 0 3 cm,
proveniente dalla Necropoli di Monte Luna (Senorbì), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il manufatto. realizzato a stampo, riproduce in leggero rilievo un gorgoneion con volto frontale, capigliatura a linee ondulate, occhi e sopracciglia allungati e labbra carnose socchiuse.
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Stando ad alcuni studi recenti, infine, ulteriori depositi argentiferi localizzati in Nord Africa, nell'entroterra di Utica, sarebbero stati sfruttati da Cartagine fin dal IV secolo a.C., al fine di sostenere la propria monetazione in metallo prezioso e il pagamento delle elevate indennità di guerra connesse ai conflitti con Roma. L'interesse fenicio per i giacimenti sardi e
iberici, da tempo riconosciuto come uno dei principali motori della diaspora mediterranea, è stato recentemente confermato dalle analisi isotopiche del piombo effettuate su alcuni tesoretti levantini. Queste sembrerebbero indicare, da un lato, una precoce importazione in Oriente di argento di origine sarda e atlantica (insieme a quello anatolico e della regione del Laurion), quale esito delle prime frequentazioni di carattere "precoloniale" (XI-IX sec. a.C.); dall'altro l'assoluta prevalenza di metallo coppellato rispetto al nativo, assai più raro ma comunque reperibile mediante semplici scambi commerciali. Ciò consentirebbe di ipotizzare l'introduzione in Occidente della tecnica della coppellazione in una fase antecedente la nascita dei primi insediamenti stabili fenici e non in concomitanza con questi ultimi, come finora ritenuto. Quanto al procedimento metallurgico sopra menzionato, la sua principale finalità era quella di separare l'argento dal piombo utilizzato nella fase di estrazione dalla ganga, attraverso l'ossidazione selettiva del metallo meno nobile e la sua conseguente trasformazione in litargirio. Quando il piombo era assente nei minerali originari, come nel caso della jarosite iberica, esso veniva aggiunto artificialmente in fase di riduzione, per favorire la separazione dell'argento dalle scorie e la formazione del piombo argentifero da sottoporre alla coppellazione.
sbalzo a mano libera era piuttosto raro net1•antichlfà, assai più diffuso era il ricorso alla tecnica dello
stampaggio, che si basava sull'utilizzo di appositi punzoni già conformati secondo la figura da realizzare (consulenza R. Secci). 159. Bracciale, VII-VI sec. a.e. (particolare della fig. 307). Elemento di bracciale, o diadema, che nel campo figurativo rappresenta, a leggero rilievo, uno scarabeo quadrialato di prospetto con testa di falco di profilo. I dettagli del corpo e del piumaggio sono granulati, come la decorazione a triangoli sui lati maggiori e a triangoli con rombi disposti a piramide sui lati minori.
Secondo la maggior parte degli studiosi, tale innovazione tecnologica avrebbe determinato una serie di profonde trasformazioni economiche presso le popolazioni occidentali, culminate con lo sviluppo del fenomeno "orientalizzante" e con l'integrazione delle società autoctone nel "sistema-mondo" vicino orientale. Curiosamente, a fronte dell'abbondante documentazione disponibile per la penisola iberica fin dall'VIII secolo a.C., le testimonianze relative alla Sardegna sono ancora piuttosto scarse e si riferiscono a epoche abbastanza recenti, limitandosi al bacino metallifero del Guspinese e a un arco
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acconciature rituali. 163. Foglia lanceolata, IV-lii sec. a.e., oro. largh. 2 cm, lungh. 3,5 cm, proveniente dal Tempio di Antas (Fluminimaggiore), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.
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cronologico compreso tra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C.; in relazione a fasi cronologiche precedenti, relative alla Prima Età del Ferro, una possibile implicazione in analoghi processi produttivi è stata adombrata per un contenitore ceramico a pareti traforate proveniente dal sito di S'Arcu 'e is Forros (Villagrande Strisaili), ma l'ipotesi necessiterebbe di ulteriori verifiche attraverso mirate indagini archeometriche.
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In seguito alle preliminari operazioni di estrazione e confezionamento in lingotti, il metallo grezzo veniva avviato verso i laboratori specializzati nei quali era trasformato in prodotti finiti. Le principali tecniche utilizzate nelle ultime fasi della catena produttiva sono identificabili con la laminazione, la filatura e il getto. Le prime due sfruttavano la malleabilità del materiale per ottenere sottili lamine o fùi
164. Collana, V-IV sec. a.e. (particolare della fig. 96). Maglia costituita da fili fittamente intrecciati, fermati alle due estremità da elementi cilindrici; pendente a forma di rosetta al quale si salda una sorta di ghianda decorata con motivi geometrici realizzati a sbalzo e granulazione. Le caratteristiche della maglia e del pendente sembrano connotare il manufatto come un prodotto dell'oreficeria greco-orientale o magnogreca, forse giunto in Sardegna attraverso la mediazione di Cartagine.
165. Protome di leone, VI-V sec. a.e.(?), oro, 0 2,1 cm, spessore 0,2 cm , proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Identificabile come parte terminale di collana o bracciale, il manufatto esemplifica la grande perizia raggiunta dagli artigiani punici nella tecnica della granulazione.
166. Lamina rettangolare arcuata e rastremata, VI-V sec. a.e., oro, largh. 1,8 cm, lungh. 1,9 cm , spessore 0,2 cm , proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Forse parte terminale di collana , bracciale o cintura . All 'interno di due registri sovrapposti , delimitati da tre listelli, è presente una campitura a rombi tra file di triangoli granulati.
all'interno di una matrice bivalve caratterizzata da una serie di fossette emisferiche, atte a creare una successione di elementi perlinati; infine, la filigrana e la granulazione erano funzionali alla realizzazione di motivi decorativi più o meno complessi mediante la saldatura sulla superficie dell'oggetto di fili sottilissimi o minuscole sferette dello stesso materiale. Queste ultime potevano essere prodotte a partire da piccole pagliuzze di metallo prezioso (ricavate, per esempio, dal taglio in parti uguali di una sottile striscia di lamina), poste all'interno di un crogiolo contenente polvere di carbone e successivamente riscaldate fino alla temperatura di fusione; la saldatura, invece, poteva effettuarsi con l'utilizzo di leghe brasanti oppure mediante l'applicazione di sali di rame in associazione a colle naturali. Già nota in Mesopotamia nel III millennio a.C., la granulazione compare in Occidente non soltanto nell'oreficeria fenicia e punica ma anche in quella etrusca e tartessica, in probabile connessione con l'arrivo di artigiani itineranti di origine vicino orientale.
Nota bibliografica Q UATTROCCHI PISANO 1974; PISANO 1988, pp. 9-16; B OTTO 2004, passim; AUBET 2009, pp. 284- 295; P RÉVALET 2010; SECCI 2011 ; D E C ARO, ET AL. 2013; P EARCE 201 7; SECCI 201 7b; D ELILE 2019; E SHEL, ET AL. 166
2019; WooD, M ONTERO-RUIZ, MARTINON-TORRES 2019.
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~enfatiin ~ iisatgmi
tro=~Pmale
(11~950 a.C.) e sonaPiJe- i n l ~ specifica-"vaghi» -diccoiam::lin intenso, semplici
•
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o "'a ncèhr' d i ~ ~ prevalentemente originati da contatti con l'Oriente. A partire dal Ferro I (950-730 a.C. ca.) si diffonde un tipo di vetro trasparente e azzurrato, spesso associato a vaghi di cristallo di rocca o di ambra, come accade ad esempio ad Arcu 'e is Forros (Villagrande Strisaili), Romanzesu (Bitti), Nurdole (Orani) o nelle sepolture di Antas (Fluminimaggiore). Lo stesso tipo è attestato anche nell'importante centro di produzione dell'Italia settentrionale della Frattesina (RO). Simili perle provengono anche da strati di crollo della fortezza sardo-fenicia del Nuraghe Sirai di Carbonia (fig. 167). Dall'interno dell'officina del vetro, al momento il primo caso di produzione in loco del vetro documentata in Sardegna (intorno al 600 a.C.), provengono tuttavia vaghi di collana azzurrati ma opachi, con riflessi iridescenti, che possiamo dunque riferire con certezza a questo periodo (fig. 168). Li ritroviamo infatti anche in numerosi corredi funerari delle necropoli fenicie: nello stesso territorio citiamo le collane e gli ornamenti dalla necropoli di Monte Sirai (fig. 169). Il tipo di vetro azzurrato trasparente, invece, sembra diradarsi dopo la metà del VI secolo a.C. Da questo momento in poi si diffondono, negli insediamenti di origine fenicia e punica, altri tipi di manufatti: pendenti a maschera umana barbata, miniature policrome di anfore e brocche - la cui storia inizia tuttavia quasi mille anni prima in Egitto, in Mesopotamia e nella costa siro-palestinese - e ancora collane di vaghi policromi decorati "a occhi" e con altri motivi sempre più elaborati. I luoghi di ritrovamento degli oggetti in vetro, prevalentemente funerari, nonché l'ubicazione dell'unica officina finora ritrovata, confermano quanto il vetro testimonia durante la sua lunga storia, e cioè il grande valore attribuito a questo materiale colorato; per intere comunità diviene l'ornamento preferito per i propri defunti e la sua produzione viene messa sotto la protezione della divinità, all'interno delle aree sacre.
All'interno, nell'angolo sud-ovest, la prima fornace è una sorta di camino per la prima fusione della pasta di vetro, la fritta: davanti alla bocca è stato trovato un cumulo di schegge di quarzite rosa, la materia prima che veniva fusa dopo essere stata polverizzata mediante macine, macinelli e pestelli, rinvenuti in una quarantina di esemplari. Dalla fronte della fornace provengono inoltre le scorie leggere e bollose derivate dalla schiuma di fusione (Si02 ). I crogioli, simili a pentole ma di spessore irregolare, provengono da un'adiacente piattaforma, in frammenti, poiché dopo il raffreddamento venivano spaccati per separarne il contenuto. Nell'angolo nord-ovest si trova un vano rivestito a lastre di riolite bianca, funzionale al raffreddamento dei crogioli e delle attrezzature usate nelle fornaci. Il piccolo vano è fiancheggiato da una vasca trapezoidale a pozzetto; una giara di tradizione nuragica, ingubbiata di rosso, posizionata in origine sul suo coperchio, serviva probabilmente come contenitore dell'acqua; due situle, trovate anch'esse nel pozzetto, erano i secchi in terracotta con i quali l'acqua si attingeva. Meno certa è la funziÒne di tre piccole brocche (tipo dippers ), quasi integre; in epoca anteriore, tuttavia, contenitori simili funzionavano anche come crogioli per la fritta. Il fondo della vasca mostra un canaletto che comunica con l'adiacente camera da fuoco, delimitata da due muretti a doppio paramento. Il canaletto rendeva forse possibile un immediato raffreddamento della camera da fuoco. Davanti al suo ingresso sono state trovate un paio di pinze in ferro, utili all'estrazione dei crogioli dalle fornaci. A poca distanza si trovano due ricettacoli, e un mortaio litico, al centro di due cumuli
169. Collana, VI sec. a.e., pasta vitrea, proveniente dalla Necropoli di Monte Sirai (C8rbonia), carbonia, Museo Archeologico Comunale "Villa Sulcis·. Collana in vaghi di vetro colorato e amuleti, proveniente da una tomba fenicia; si notino i vaghi in vetro blu intenso e quelli "a occh( e anche il colore azzurrato opaco di alcuni dei vaghi.
di conchiglie del tipo Cerastoderma; con esso si frantumavano le conchiglie per ottenere il carbonato di calcio, ingrediente necessario alla definitiva fusione del vetro, che probabilmente avveniva proprio nella camera da fuoco. Al centro dell'officina si trovano due fornaci, unite in una planimetria a forma di otto. La prima è una piccola camera circolare in mattoni crudi di argilla bianca, messi in opera di taglio. L'interno era colmo di ceneri e legni semicombusti; l'ipotesi è che le ceneri siano ad alto contenuto di sodio, poiché questo era necessario ad abbassare la temperatura di fusione del quarzo: nelle vicine zone salmastre è facile trovare la salicornia o Salsola soda, più nota come "asparago di mare"; l'uso di tali erbe era diffuso in periodi anteriori e soprattutto è attestato in Sardegna almeno fino al XVIII secolo. Un segaccio in ferro trovato presso la fornace può essere stato utile al carico del combustibile vegetale. Il secondo punto di fuoco della fornace centrale è un semplice disco di terra concotta, utilizzato probabilmente per la rifusione di frammenti di metallo (ferro, piombo, bronzo, trovati insieme a scorie di ferro ), per ottenere
dei coloranti per la pasta vitrea, fra i quali annoveriamo anche diversi grumi di ocra rossa. Quanto al prodotto finale dell'officina dobbiamo citare alcune perle in vetro opaco di tonalità azzurrata, trovate nel vano (fig. 168), anche se non si può escludere che l'officina realizzasse materiale semilavorato (lingotti di vetro, per intenderci). Infine, fra le attrezzature segnaliamo un arco di corno di cervo, forato alle estremità: un dispositivo utilizzato probabilmente come propulsore (archetto) per l'accensione del fuoco per frizione. L'atelier descritto è la prima officina completa per la lavorazione del vetro finora ritrovata, sia in ambito nuragico che in ambito fenicio; nel Mediterraneo fenicio e punico, ad esempio a Cartagine e a Kerkouane, non mancano tuttavia altri ritrovamenti più episodici, che testimoniano la vasta diffusione della tecnologia.
Nota bibliografica G AUKLER 1915; M OREL 1969; U BERTI 1993; P ERRA 2008; SPANO G IAMM ELLARO 2008; ANGELI I, ET AL. 2009; P ERRA
2013; REHEN 2014; M uscuso 201 7a; READE, 201 7; P ERRA 2019, pp. 80- 101.
B ARAG, 0REN
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Il profumo nel Mediterraneo dell'Età del
170. Fiasca del pellegrino, VII sec. a.e., ceramica, h 23,6 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Sassari, Museo Nazionale · G.A. Sanna". Tra i piccoli recipienti che possono aver contenuto dei profumi, la fiasca da pellegrino, forma originaria del Mediterraneo orientale dell'Età del Bronzo, occupa un posto di rilievo in Sardegna, anche se le analisi effettuate su due esemplari rinvenuti nell'Isola ci orientano verso dei contenuti liquidi alimentari, miele misto a un prodotto lattiero-caseario in un caso, vino resinato con pece nell'altro.
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Bronzo non è solo legato alla bellezza e alla cosmetica; esso rappresenta un prodotto sacro ampiamente utilizzato nei rituali e negli scambi di doni nei rapporti diplomatici e ciò spiega la presenza di un alabastron miceneo scoperto in frammenti nelle fondazioni della torre centrale del grande Nuraghe Arrubiu di Orroli. Ben più tardi, alla fine del V secolo a.e., una testimonianza iconografica eccezionale attesta che il profumo è sempre al centro degli scambi mediterranei e conserva una valenza simbolica molto forte: la decorazione in altorilievo e dipinta della Tomba 7 della necropoli di Sulky (Sant'Antioco) rappresenta un personaggio maschile abbigliato all'egiziana che porta un piccolo balsamario fenicio (oil-bottle) appeso al polso tramite un cinturino di tipo greco (figg. 366-367). Nel mondo greco, in quello egiziano e levantino il profumo rappresenta un prodotto di forte valenza culturale, diffuso in gran parte del Mediterraneo dall'Età del Bronzo, ma in particolare a partire dall'inizio del VII secolo a.C. Per tutta l'età arcaica nel
Mediterraneo occidentale nascono numerosi atelier di profumeria, alcuni dei quali legati a una tradizione greca, come in Etruria, altri a una tradizione levantina, come in Sardegna. La mancata scoperta di atelier di profumeria in Sardegna è dovuta al fatto che la tecnica impiegata era la medesima di quella da cucina: l' enfleurage a caldo, vale a dire l'estrazione delle essenze con l'uso di sostanze grasse e l'ebollizione, e lo strumentario utilizzato era quello culinario. Così numerose forme ceramiche (calefattoio, pentola, scodellone, tegame ecc.) possono essere state utilizzate per la produzione di oli profumati, anche se qualcuna, di forma particolare, può essere stata una sorta di proto-alambicco utilizzato in una forma antica di distillazione. Il ricorso ad analisi chimiche sui contenuti dei vasi permette di ottenere delle informazioni preziose sulle caratteristiche dei profumi sardi, ma anche di quelli importati. Tra i piccoli recipienti che possono aver contenuto dei profumi, la fiasca da pellegrino (fig. 170), forma originaria del Mediterraneo orientale dell'Età del Bronzo, occupa un posto di rilievo in Sardegna. Il suo accoglimento nel repertorio ceramico nuragico è dovuto al commercio levantino attivo tra il Bronzo Finale e l'inizio dell'Età del Ferro. Da quel momento in poi è il flusso degli scambi fenici, senza dubbio con un ruolo attivo da parte di Cipro, che perpetua la presenza della fiasca da pellegrino nell'Isola. Il successo di questa particolare forma è legato a un forte valore ideologico. In Egitto le analisi provano che essa era destinata a oli profumati, mentre in Sardegna le analisi effettuate su due esemplari ci orientano verso dei contenuti liquidi alimentari, miele misto a un prodotto lattiero-caseario in un caso, vino resinato con pece nell'altro. Se le fiasche da pellegrino sarde non erano dei vasi per profumi, diverse altre forme prodotte in Sardegna sono ritenute rappresentative dei contenitori destinati agli oli profumati nel mondo fenicio: si tratta in particolare della brocca con orlo a fungo e della cosiddetta oil-bottle (balsamario). Tra i piccoli contenitori, sono state analizzate brocche con orlo a fungo (figg. 177-1 78), oil-bottle (fig. 180), alabastra, attingitoi, oltre che aryballoi etruschi e greci
171. Ba/samario, VII sec. a.e., faience , h 9,4 cm, proveniente da località sconosciuta, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Il vaso, di tipo egittizzante e di produzione egea, rappresenta una divinità fluviale, con copricapo in forma di papiro e vaso canopo stretto tra le mani e le ginocchia. 172. Ba/samario, VI-V sec. a.e., ceramica , h 11,5 cm , proveniente da Tharros (Cabras) , Londra, British Museum (© The Trustees of the British Museum). Il vaso rappresenta una scimmia , dietro la testa si trova il bordo del vaso utilizzabile per versare il contenuto; il foro di uscita si apre invece sul muso dell'animale. Si tratta di un vaso rituale, solo le analisi potranno stabilire cosa contenesse: vino, o altri liquidi.
(figg. 175-176, 179), balsamari in pasta vitrea (figg.173-174, 274-277) e infai·ence (pasta silicea) (fig. 171) del Mediterraneo orientale. I risultati delle analisi rivelano che si tratta, con l'eccezione di tre casi, di miscele complesse costituite a partire da una base grassa vegetale (olio d'oliva, olio di lentisco) alla quale erano stati aggiunti un prodotto lattiero-caseario, della resina o pece di conifera e una sostanza fortemente aromatica. Le tre eccezioni sono costituite da una brocca con orlo a fungo che ha mostrato la presenza di una pasta d'agrume senza dubbio ricavata dall'epicarpo (buccia) di cedro, un piccolo vaso a impasto e superfici nere che ha restituito del grasso animale, oleoresina (resina contenente oli volatili) di conifere e catrame vegetale, e infine dei vasetti in pasta di vetro che contenevano un distillato (tecnica della proto-distillazione) fortemente canforato ricavato da salvia mediterranea. Questi risultati
attestano che esisteva in Sardegna una produzione di oli profumati e medicinali simile a quelle del Mediterraneo greco e orientale, ma che poteva sfruttare risorse locali ( drupe di lentisco, catrame vegetale estratto da piante dell'Isola) ed esotiche ma da poco introdotte nel Mediterraneo occidentale, come è il caso dei frutti di cedro importati dai Fenici nel Mediterraneo occidentale documentati dai dati paleobotanici.
Nota bibliografica VAGNETTI 1993;BARTOLONI 1996a, p. 326, nn. 426-427; PESERJCO 1996; Lo SCHIAVO 2000, p. 21 2; Cossu, ET AL. 2003 , p. 32; fLETCHER 2006; FRÈRE 2006; BERNARDINI 2008; FLETCHER 2011; GALLORINI 201 2; f RÈRE, GARNIER 2012; FRÈRE, DODTNET, GARNIER 2012; PAGNOUX, ET AL. 2013; BAGELLA 2014, pp. 224, 242; f RÈRE, GARNIER, DODINET 2016; ZECH-MATTERNE, FIORENTINO 201 7; FRÈRE, H UGOT, GARNIER 2019; 0 RSINGHER 2019.
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177. Brocca con orlo a fungo, VI sec. a.e., ceramica, h 19 cm, proveniente dalla Necropoli di Monte Sirai (carbonia), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Le analisi eseguite su un vaso simile proveniente dalla stessa necropoli hanno rivelato la presenza di una pasta d'agrume ricavata dall'epicarpo (buccia) di cedro.
178. Brocca con orlo a fungo, IV sec. a.e., ceramica, h 20 cm, proveniente dalla Necropoli di Sulky (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". Il vaso, con decorazione lineare dipinta in nero, appartiene a una variante evoluta della forma che nella necropoli di Sulky perdura ben oltre il VI sec. a.e. 179. Aryballos etruscocorinzio, VI sec. a.e., ceramica, h 10 cm, proveniente da Monte Sirai (Carbonia), Carbonia, Museo Archeologico Comunale "Villa Sulcis". Il vaso , prodotto a Corinto, in Grecia, presentava una decorazione a vernice bruna oggi non più leggibile. 180. Oil-bottle (ba/samario) , VII sec. a.e. , ceramica , h 8,5 cm , proveniente dalla Necropoli di Bithia (Domus de Maria), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il vaso , di piccole dimensioni, con corpo panciuto e fondo a punta, collo stretto e bordo espanso, appare funzionale a contenere un fluido prezioso quale era un unguento. Appartiene a una forma tipica dell'età arcaica che in Sardegna si trova documentata prevalentemente in contesti funerari.
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181. Pentola monoansata, VII sec. a.e., ceramica, h 15 cm, 0 19 cm , proveniente dal Santuario tofet di Sulky (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca".
La vita domestica
182. Cratere, VI sec. a.e., ceramica , h 16 cm , proveniente dal Santuario tofet di Sulky (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". 183. Anfora, V sec. a.e., ceramica, h 35 cm , proveniente dalla Necropoli di Sulky (Sant'Antioco), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. 184. Pentola biansata, IV-lii sec. a.e. , ceramica , h 14,5 cm , 0 21 cm, proveniente dal Santuario tofet di Sulky (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Ba rreca ".
· La casa e la vita domestica Melania Marana
Alimentazione Anna Chiara Farisei/i
Vesti, costumi e abbigliamento Rosana Pia Orqufn
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La casa e la vita domestica Melania Marana
Il quadro delle conoscenze sull'architettura domestica della Sardegna fenicia e punica allo stato attuale è frammentario. Questo a causa del differente metodo di indagine in uso in tempi passati, che non prevedeva un'analisi stratigrafica dei contesti e della continuità di vita degli insediamenti. Infatti, in alcuni siti come Sulci, Cagliari e Olbia l'impianto urbano moderno impedisce un'osservazione di insieme delle evidenze archeologiche. A ciò si aggiungono i cambiamenti apportati alle unità abitative dall'epoca tardo-repubblicana, come è possibile osservare per esempio negli abitati di Tharros e Nora. Il proseguimento della ricerca in Sardegna, tuttavia, sta contribuendo a chiarire alcuni aspetti legati allo spazio domestico e alla vita che veniva condotta al suo interno in ogni fase storica, da quella arcaica a quella tardo-punica. Relativamente al periodo arcaico, alcuni spazi a uso abitativo sono stati individuati nell'area archeologica del Cronicario di Sant'Antioco. A un periodo compreso tra il 750 e il 740 a.C. sono stati attributi alcuni ambienti (Settore III) in cui gli abitanti dovevano conservare le derrate alimentari in un silo e dovevano approvvigionarsi dell'acqua necessaria per le esigenze giornaliere da una cisterna. Questo punto di rifornimento dell'acqua ha continuato a espletare tale funzione fino al 650 a.C., mentre il silo non sembra più utilizzato dal 730/700 a.C., venendo coperto da un piano di calpestio in terra battuta. Dovevano essere presenti anche luoghi destinati alla preparazione e alla cottura dei cibi: infatti,nel Settore II è stato identificato un complesso abitativo nel quale i componenti del nucleo familiare si dedicavano alla lavorazione dei prodotti della pesca (Vano II F) e alla cottura dei cibi all'interno di una cucina (Vano II E); in a1tri spazi adiacenti dovevano svolgersi alcune attività artigianali, come la lavorazione dei metalli (Vano II E e II G). Alla fase arcaica sono state attribuite anche strutture presenti nei livelli inferiori della cosiddetta "Casa del lucernario di talco" a Monte Sirai, associate a due piani pavimentali sovrapposti riconducibili a una sorta di cortile. Rare tracce riferibili a un'abitazione sono state rinvenute anche in via Brenta a Cagliari, dove
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è emerso un muro, costruito sul banco roccioso, connesso a un piano pavimentale in battuto di argilla. Notizie più dettagliate sono pervenute sull'occupazione in epoca arcaica del sito di Nora, dove sono stati riconosciuti alcuni interventi di livellamento del banco roccioso con strati di argilla. Infatti, nella zona che ha ospitato in epoca successiva il foro, al di sotto del portico orientale, dell'edificio sacro posto lungo il lato settentrionale della piazza e del tempio romano, ubicato tra il foro e il teatro, sono stati riportati alla luce un focolare e alcune cavità funzionali alla costruzione delle abitazioni. Queste supportavano infatti la messa in opera di sostegni verticali in materiale deperibile che dovevano essere alloggiati negli incavi suddetti. L'insediamento, che occupava un'area pianeggiante, era costituito probabilmente da tende o capanne in legno, frasche e argilla, disposte senza un ordine preciso e forse riferibili a un uso stagionale della zona. Passando ad analizzare l'epoca successiva, compresa tra il VI e il V secolo a.C., le evidenze archeologiche mostrano il passaggio verso una progettazione urbanistica più organica. Riguardo all'area archeologica del Cronicario di Sant' Antioco, le uniche testimonianze sono riferibili a un pavimento in tufo sbriciolato e compattato, forse in relazione con un pozzo (Vano II E). Dello stesso periodo a Cagliari, in via Brenta sono stati identificati alcuni pozzi e un muro eretto secondo la tecnica "a telaio": questa è caratterizzata da pilastri verticali, costituiti da blocchi sovrapposti, intervallati da un riempimento di materiale lapideo disposto senza regolarità o in altri casi secondo filari orizzontali. In aggiunta, un altro contesto abitativo, attribuibile al V secolo a.C., è stato individuato in via Po: qui è stato riportato in luce un grande atrio con pavimento in cocciopesto, che doveva fungere da luogo di aggregazione. Tale contesto, eretto su un edificio preesistente, doveva essere porticato almeno lungo un lato. Riguardo all'insediamento di Nora, le capanne arcaiche vengono sostituite da un nuovo quartiere, ossia quello relativo alle cosiddette
insulae A e B. Le strutture dovevano essere costituite da zoccoli in opera a telaio con alzati in argilla pressata in casseforme lignee e seccata, come documenta il materiale recuperato nel crollo dell'edificio. Anche le pavimentazioni erano realizzate con argilla pressata e livellata, con grumi di calcare all'interno. I resti individuati nell'insula A sono stati ricondotti a due edifici costituiti in un caso da due ambienti paralleli di forma rettangolare allungata (PD4 e PDS) e, nell'altro, da un vano quadrangolare (PD2/3), successivamente diviso in due spazi, connesso ad altre stanze. Più frammentari sono i dati a disposizione per l'insula B, a causa della perdita totale delle strutture murarie lungo il lato sud. Gli abitanti dell'area conservavano le derrate alimentari in alcuni sili, mentre la preparazione e la cottura dei cibi avveniva in un forno impostato direttamente sul piano sterile. Inoltre, alcuni pozzi scavati nella roccia, consentivano l'approvvigionamento dell'acqua necessaria per il fabbisogno giornaliero. Le evidenze archeologiche hanno portato a proporre per questi ambienti una lettura come spazi a uso domestico o adoperati come magazzini di attività commerciali. Non è stato escluso un uso misto da parte degli abitanti dell'edificio, che probabilmente dovevano immagazzinare le riserve alimentari in alcuni vani, destinando invece la stanza quadrangolare e le altre con essa comunicanti all'ambito privato. A questo periodo sono riferibili anche i resti archeologici individuati nel sito di Pani Loriga. Il settore A, dal VI secolo a.C., fu oggetto di un progetto unitario di costruzione di nuclei abitativi a pianta regolare, affacciati su assi stradali ortogonali. Gli edifici sono delimitati da murature in pietre nella porzione inferiore e alzato in mattoni crudi, su cui poggiava un tetto piano in argilla. Una delle case indagate, a cui si accede da un ingresso situato in uno slargo dell'asse viario, è costituita da due stanze allungate e comunicanti, una delle quali interpretata come cortile. Ambienti rettangolari di forma allungata e disposti secondo uno schema regolare sono stati individuati anche nell'area B: tra questi sono stati identificati un sacello con una banchina lungo tre lati (vano 1) e alcuni spazi destinati alla preparazione e allo stoccaggio delle derrate (vani 2 e 4): queste stanze erano adibite all'immagazzinamento delle riserve alimentari in alcune anfore, posizionate con l'orlo rivolto verso il basso. Una paletta e un imbuto rinvenuti all'interno dei
contenitori ceramici dovevano essere adoperati per il prelievo sulla base del fabbisogno giornaliero. Grazie alle analisi archeometriche effettuate è stato determinato che gli abitanti dovevano consumare in parte cibi a base di carne o pesce conditi con olio vegetale. Questi dovevano essere accompagnati dal pane preparato e cotto all'interno di un forno tannur, documentato da numerosi frammenti (Vano n. 4). È stato ipotizzato che l'edificio, decentrato rispetto al nucleo dell'insediamento, potesse essere una bottega, anche se la presenza di un sacello ha suggerito che qui potessero essere preparati gli alimenti da offrire alla divinità. Inoltre, doveva essere presente un'area destinata alla tessitura, probabilmente ubicata al piano superiore sulla base del rinvenimento di pesi da telaio tra il materiale di crollo. Gli scavi archeologici in questo edificio hanno permesso di rintracciare anche i resti di un rituale di fondazione, consistente nella deposizione di una pentola sotto il piano pavimentale, presso una delle murature. Relativamente al periodo tardo-punico alcune attestazioni provengono dalla zona dell'exmercato della città di Olbia, dove sono state rintracciate consistenti evidenze del settore abitativo riferibili alla fine del IV-inizi del III secolo a.C. Le indagini hanno riportato alla luce alcune abitazioni che si inseriscono in un impianto urbanistico ortogonale. Negli edifici, costituiti da uno zoccolo a doppio paramento a secco, sono stati individuati tre punti di approvvigionamento dell'acqua, due pozzi e una cisterna a bagnarola con i lati brevi arrotondati. Inoltre, è stato identificato materiale archeologico che ha portato a ipotizzare che vi fosse uno spazio destinato al culto domestico. Altri resti edilizi sono stati identificati anche in via Romana, dove è emerso un pavimento in signino, e in via delle Terme, dove è stata rimessa in luce una muratura ricoperta di intonaco di colore bianco, entrambi attribuiti al III secolo a.C. Particolarmente significative sono le attestazioni di Monte Sirai, dove le ristrutturazioni di questa epoca hanno interessato l'intera acropoli, che risulta organizzata in insulae di forma irregolare, che si adattano alla morfologia del terreno. A tale periodo è attribuibile la costruzione delle tre case note come "Casa Fantar': ubicata nell'angolo nord-occidentale dell'insula B, "Casa del lucernario di talco" e "Casa Amadasi': nell'insula C, in uso fino al II-I secolo a.C. La prima si compone di un corridoio di accesso,
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dove è presente una canaletta per il deflusso dell'acqua verso l'esterno. Da questo passaggio, fiancheggiato da una stanza adoperata come magazzino o bottega-negozio, si entra in una cucina, oltre la quale trova posto un ambiente rettangolare allungato, il più interno della casa, forse adoperato come stanza da letto o destinato al culto domestico, sulla base del rinvenimento di cenere, offerte animali e bruciaprofumi in terracotta. L'abitazione era completata da un cortile a cielo aperto, connesso con due ambienti dove gli abitanti potevano dedicarsi alle attività lavorative. Il contesto abitativo probabilmente doveva essere provvisto di un secondo piano realizzato in legno, al quale si doveva accedere per mezzo di una scala. Relativamente alla "Casa del lucernario di talco", nel periodo tardo-punico l'edificio è stato ricostruito. L'abitazione è costituita da cinque stanze allungate di forma rettangolare, con pavimenti in terra battuta, parallele tra loro e perpendicolari alla strada adiacente. L'unità abitativa, priva di cortile, doveva essere dotata di un secondo piano accessibile attraverso una scalinata in pietra ubicata a ridosso del muro perimetrale, di fronte all'ingresso. In questi spazi dovevano trovare posto verosimilmente le stanze da letto, mentre al piano terra dovevano svolgersi la vita domestica e le attività lavorative. Il materiale archeologico porta a supporre che qui sia stato allestito un laboratorio artigianale, nel quale alcuni componenti del nucleo familiare dovevano dedicarsi alla produzione di coltelli, sulla base del rinvenimento di manici di corno di cervo semi-lavorati, coti litiche e scorie ferrose. Queste ultime sono state rinvenute anche all'interno di uno dei vani della "Casa Amadasi", che doveva essere destinato quindi ad attività artigianali. Questa abitazione, che presenta cinque punti di accesso dalle strade adiacenti, è costituita da alcune stanze quadrate e rettangolari comunicanti nell'ultima fase, ma che attestano variazioni nell'organizzazione interna durante l'intera vita del contesto: queste sono documentate dal tamponamento di alcuni passaggi muniti di soglie, non più in uso nell'ultima fase. La casa è completata da uno spazio adibito probabilmente a negozio, con accesso indipendente e non comunicante con gli altri ambienti adiacenti. Infine, meritano un accenno le evidenze archeologiche del sito di Tharros: la continuità d'uso dell'insediamento non consente di risalire a una definizione precisa delle singole abitazioni per le fasi di occupazione più antiche. L'analisi
complessiva condotta sugli edifici ritenuti residenziali al tempo degli scavi ha consentito di individuare alcuni nuclei abitativi ben definiti principalmente nel quartiere occidentale situato lungo le pendici orientali della collina di San Giovanni. I contesti, che presentano muri perimetrali comuni, sono costituiti da setti murari realizzati in molti casi con materiale lapideo di recupero messo in opera in modo irregolare, mentre in altri attestano la tecnica a telaio, realizzata talvolta con materiale architettonico proveniente da complessi preesistenti. Le abitazioni dovevano avere probabilmente un secondo piano, sulla base della presenza di incavi per l'alloggiamento delle travi di sostegno per l'ordine superiore. Le unità abitative, in alcuni casi, sono caratterizzate da una corte di accesso, dalla quale si poteva passare ad altri ambienti retrostanti. A questo tipo si aggiungono: una variante con un vano laterale ricavato dallo spazio della corte e probabilmente interpretabile come ambiente di servizio; alcuni contesti con stanze rettangolari allungate e parallele; altri che presentano una pianta quadripartita e un esempio con corridoio centrale che consentiva l'accesso a vani laterali e ad altri lungo la parete breve opposta all'ingresso. Dai dati di scavo si deduce che accanto alla corte erano presenti anche degli spazi adoperati come botteghe e altri destinati alla tessitura e alla preparazione, conservazione e consumazione dei cibi. Di un certo interesse è la presenza di alcune aree forse destinate alla cura del corpo, se si considera una possibile lettura come "stanza da bagno" di un'ambiente caratterizzato da una bassa panca a "L'' lungo due lati, rivestita di intonaco, individuato nella parte più interna di uno degli edifici del settore abitativo e così interpretabile sulla base dei confronti con la città africana di Kerkouane. L'analisi di insieme dei dati riferibili allo spazio domestico nella Sardegna fenicia e punica, pur molto lacunosi, permette di trarre alcune conclusioni. I vani adoperati come stanze da letto potevano trovarsi accanto a quelli destinati al culto domestico, mentre in spazi diversamente dislocati si svolgevano le attività connesse con il fabbisogno giornaliero del nucleo familiare, come la tessitura, la preparazione, cottura, conservazione e consumazione degli alimenti. In generale, i luoghi adibiti ad attività lavorative, talvolta connessi a botteghe, erano rivolti alla strada, mentre quelli destinati alla vita privata erano,
185. Ricostruzione ideale di un interno domestico.
come ovvio, generalmente più interni o ai piani superiori, quando presenti. Mancano informazioni sufficienti per ipotizzare con precisione una suddivisione degli ambienti della casa sulla base dei generi. Grazie ai confronti con il mondo classico e sulla scorta dei pochi riscontri concreti rintracciabili nello stesso contesto punico per esempio nella categoria delle terrecotte o fra i dati epigrafici cartaginesi che fanno riferimento a mestieri specifici - si può tuttavia presumere che la lavorazione delle derrate alimentari, la manipolazione dei cibi e la tessitura fossero riservate alle donne. Le attività artigianali come pure quelle connesse alla
vendita dei prodotti finiti, invece, dovevano essere destinate ai membri maschili della famiglia. Il contesto domestico era dunque uno spazio "misto", dove a momenti di condivisione si affiancavano funzioni fondamentali per la sussistenza e l'economia del nucleo familiare.
Nota bibliografica PESCE 1966; SANCIU 2000; PISANU 2007; STIGLITZ 2007; BO NETTO 2009; POMPIANU 201 Oa; POMPIANU 201 Ob; Borro 2012a; BOTTO 2012b; G UIRGU!S 2013; U NALI 2013; MONTANERO VICO 2014; BONETTO 2018; MARANO 2019.
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Alimentazione Anna Chiara Farisei/i
.. 186. Terracotta raffigurante una donna che dispone pani nel forno, 750-480 a.e., proveniente da Cipro, New York, The Metropolitan Museum of Art (foto Archivio P. Bartoloni ).
L'incremento di interesse e dati sui costumi nutrizionali dei popoli mediterranei prima di Roma registrato nell'ultimo decennio va ascritto alla sempre più puntuale connessione fra le tradizionali metodologie della ricerca archeologica, le cosiddette "scienze dure", cioè in particolare la fisica e la chimica, e alcune discipline complementari agli studi di antichistica, come l'antropologia culturale e l'etnografia. Le indagini archeozoologiche, archeogenetiche, paleobotaniche e paleopatologiche, insieme alle verifiche tassonomiche e sperimentali su ceramiche da fuoco, da mensa e stoccaggio, oltre a comparazioni etnografiche e studi "di genere", hanno infatti sempre più circostanziato le informazioni tratte dalla lettura degli autori classici, spesso generiche, se non addirittura fuorvianti rispetto alla realtà storica. La predisposizione punica per una cucina "povera" con una limitata manipolazione degli alimenti, per esempio, è ben resa dall'irridente soprannome «mangiatore di pappa» che Plauto affibbia al protagonista del Poenulus (Poen., 54): il nomignolo marchia i Cartaginesi come rozzi consumatori di cibi insapori e indefiniti, perciò guardati con disprezzo e dileggiati dai più raffinati ed esigenti palati romani. Le consuetudini alimentari fenicie, nella
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madrepatria orientale così come nel contesto delle colonie occidentali dove ovviamente i Levantini esportano le proprie tradizioni, sono in realtà più varie, pur non discostandosi troppo da quella che oggi si è soliti definire "dieta mediterranea". Le moderne analisi paleopatologiche su resti antropologici dalle necropoli di Cartagine, ma anche della Sicilia e della Sardegna punica, evidenziano molteplici deficienze nutrizionali: carenze di ferro, carie generate dall'eccessiva assunzione di carboidrati o usure dentali provocate dalla masticazione di residui di macine e pestelli in pietra. Il dato corrobora quanto sostenuto da Appiano a proposito della presenza a Cartagine di capienti depositi per cereali nella cinta fortificata (Pun., VIII, 95) e conferma i dati palinologici acquisiti da contesti punico-mauritani, iberici e sardi. Il rinvenimento di silos sotterranei per il deposito e la conservazione di granaglie a Mozia, Sulci e Nora rappresenta un ulteriore indizio sul volume di tali voci della produzione agricola. Per la Sardegna, nello specifico, la presa in carico del ruolo di "granaio" cartaginese, in parallelo al riassetto geopolitico ed economico dei territori amministrati dalla città nordafricana soprattutto dal IV secolo a.C., è anche adombrata da un ben noto passo dello Pseudo Aristotele (Mir. Ausc., 838 b, 2029 ). Vi si riferisce del presunto divieto imposto da Cartagine di organizzare colture arboree in Sardegna, a favore di una completa conversione dell'attività agricola isolana alla produzione di cereali. Tuttavia, le ricerche archeologiche e archeometriche recenti manifestano la vivace attività, soprattutto in fase tardo-punica, di altre coltivazioni, fra cui in particolare quella vitivinicola, il che suggerisce di ridimensionare e contestualizzare il dato informativo restituito dal passo letterario in questione, forse indebitamente assurto a livello di topos e come tale citato dagli scrittori antichi nel contesto di un'acritica generalizzazione, ovvero forgiato su riscontri solo parzialmente attendibili. Per quanto riguarda la produzione cerealicola, se è possibile presumere una destinazione dei vasti territori nordafricani alla coltura dell'orzo, la Sardegna parrebbe per lo più
187. Vaso configurato a doppio "biberon", IV sec. a.e. , ceramica , h 12,7 cm , proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La figura antropomorfa è femminile , come suggerisce la plasmatura dei due beccucci a rappresentare i seni , mentre l'indicazione dell'ombelico ne sottolinea le potenzialità nutritive e la capacità rigeneratrice. La posizione delle mani evoca la gestualità della dea gravida con mani ai seni nota su diversi supporti come iconografia di tradizione orientale. La schematica decorazione in color rosso richiama motivi vegetali e floreali tipici della pittura vascolare punica , che convergono a esaltare il valore del vaso nel quadro di rituali fertilistici e di protezione dell'infanzia.
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188. Coppa carenata, fine VIII sec. a.e., ceramica, 0 21 cm, proveniente dalla Necropoli di San Giorgio (Portoscuso), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La coppa è internamente rivestita a Red Slip (vernice rossa).
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orientata su quella del grano. Insieme al riscontro delle analisi palinologiche su campioni d'età punica da Tharros che, sebbene episodicamente, registrano appunto una netta prevalenza del grano sull'orzo, sarebbero un indizio della stabilizzazione di tale orientamento economico le serie monetali di probabile zecca sarda del 241-238 a.C., con testa di Core al D/ e tre spighe al R/ (figg. 268-271), queste ultime ben distinguibili dalle spighe d'orzo al R/ su serie coeve di zecca incerta (nordafricana?) con testa femminile velata al D/. Quanto alle modalità di lavorazione dei cereali va segnalato il recupero in vari contesti della Sardegna punica, per esempio Tharros, Sulci o Nora, di parti di forni domestici, ossia pannelli rettilinei o leggermente concavi di terracotta a impasto refrattario, spesso muniti di file parallele d'impressioni digitali profonde che ne agevolano la presa, assemblabili a comporre strutture troncoconiche di dimensioni variabili analoghe al moderno tabun o tannur per il pane delle comunità berbere e medio orientali. Tale consuetudine è precisamente documentata nella classe delle figurine fittili, che a Cartagine e Cipro attestano proprio il soggetto della donna intenta a deporre pani rotondi lungo le pareti interne nel forno a cupola (fig. 186). In merito a questo tema è degno di nota il ritrovamento, soprattutto in contesto funerario, di matrici o stampi fittili, forse impiegati per decorare pani e dolci prodotti durante specifiche ricorrenze religiose, fenomeno all'origine di un costume ancora oggi profondamente sentito nell'Isola (figg. 532-534). Formaggio e uova dovevano costituire il companatico principale, ma erano largamente consumati anche fave, piselli, lenticchie e ceci, in zuppe o piatti unici dall'alto potenziale nutritivo, tanto che alcune specie di legumi, come il Cicer Punicum ( Columella, De re rust. II, 20-21), secondo gli antichi scrittori di
agronomia sembrerebbero proprio selezionate in contesto nordafricano. Per quanto concerne gli ortaggi, in Sardegna l'attuale scarsità di riscontri scientifici si giustificherebbe pensando alla probabile dimensione familiare delle coltivazioni orticole. Cipolle, agli, porri, cetrioli, cavoli, cardi e carciofi sono tuttavia citati dagli autori classici come cibi diffusi nel Levante e nel Mediterraneo centrale: certamente crescevano in Nord Africa, nei floridi orti del Capo Bon, con altri ortaggi e alberi da frutto che ne costellavano i lussureggianti giardini. Sin dall'età nuragica si può ritenere venissero sfruttati in Sardegna olivastri spontanei, mentre le specie coltivate sembrano introdotte dall'età fenicia sia per il consumo di olive sia per la produzione dell'olio. Le testimonianze archeologiche isolane sono però ancora carenti rispetto a quanto si attesta invece in Palestina, Nord Africa e Spagna. Per quanto concerne la frutta, uva e uva passita, fichi, noci, mandorle, mele, datteri e melagrane, stando ai riscontri paleobotanici rientravano probabilmente nella consuetudine alimentare della Sardegna fenicia e punica. Alcuni tra questi frutti, considerati simboli fertilistici già nel Levante fenicio, sono rappresentati sulle stele votive_cartaginesi o riprodotti in terracotta per essere deposti nei corredi funerari e nelle aree sacre, come documentano, in ambito isolano, gli ex voto da Neapolis, Padria e Tharros. Numerosi reperti faunistici, a fronte di meno abbondanti resti di animali da cortile e selvaggina, attestano il consumo prevalente di ovicaprini e bovini. Se per l'età arcaica si registra un'assunzione contenuta di proteine animali, se ne presume invece un incremento dal VI-V secolo a.C. in poi, forse anche grazie alla miglior specializzazione delle tecniche di allevamento. Tale mutazione della dieta
189. Vaso a "biberon" con ansa doppia ritorta, IV-lii sec. a.e., ceramica, h 12,7 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Londra, British Museum (© The Trustees of the British Museum). Sulla spal la la decorazione a rilievo è interpretata come resa schematica di una testa di anatra e di una protome di capra.
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190. Askos zoomorfo, VII-VI sec. a.e., ceramica , h 13,4 cm, lungh. 20, 1 cm , proveniente da Tharros (Cabras) , Oristano, Antiquarium Arborense. Askos a forma di volatile munito di tre piedini. Sul dorso, in corrispondenza dell'attacco dell'ansa, l'elemento troncoconico ospita il filtro forato mentre il becco dell 'animale è adibito a versatoio. Gli askoi avevano una specifica applicazione in attività di libagione e in particolare parrebbero connessi a rituali funerari per l'infanzia.
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quotidiana sarebbe anche intuibile, secondo alcuni studiosi, dalla differente morfologia dei piatti che, da piccoli e profondi, per contenere cibi fluidi o sugosi, acquisirebbero nel tempo una tesa più larga e una vasca più stretta in funzione della disposizione di pietanze solide, come carni arrostite o bollite (figg. 197-199). Per quanto riguarda la Sardegna punica e tardo-punica, le analisi archeozoologiche condotte su campioni da Tharros, Cagliari, Olbia e Sulci mostrano la predominanza degli ovicaprini su tutte le altre specie allevate; non è tuttavia irrilevante, come accennato, la presenza di bovini ed è testimoniata quella di suini. Quest'ultimo dato nega dunque l'esistenza di veti o prescrizioni religiose specifiche, connettendo piuttosto la povertà delle attestazioni in Oriente a ragioni ambientali, mentre il recupero in Occidente di resti di individui giovani in connessione, spesso non macellati, potrebbe spiegarsi nel quadro di ipotetici obiettivi sacrificali. Carni bovine e ovine con tracce di macellazione, in alcuni
casi forse essiccate e avvolte in foglie di vite per la conservazione e il trasporto, rappresentano il contenuto di anfore puniche databili fra VI e III secolo a.C. da Nora, Sulci, Olbia, Santa Gilla, Santa Giusta. Come si riscontra in ambito iberico e nordafricano, anche da Sulci provengono resti ossei di Canis familiaris che mostrano segni di taglio. L'epitomato re Giustino (.XIX, 1, I 0-12) afferma che l'incidenza di questo costume a Cartagine avrebbe addirittura determinato la promulgazione di un editto del Gran Re di Persia Dario perché tale uso alimentare, contrario alla considerazione del cane come animale sacro in contesto iranico, venisse interrotto. Ancora a Sulci si consumava carne di ghiro, pietanza prelibata pe_r i Romani. La presenza di gusci d'uovo di gallina ò di altri volatili in contesti tombali tharrensi e sulcitani, in linea con quanto si rileva in Sicilia e Nord Africa, ne attesta l'inserimento nella dieta punica nonché la più che probabile finalità rituale. Tra i prodotti di derivazione animale, nella Sardegna
191. Askos zoomorfo, VI sec. a.e. , ceramica dipinta, h 14 cm, proveniente da Sulci (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca ". Askos zoomorfo con decorazioni in nero che delineano la silhouette di un volatile dal lungo collo.
punica il latte, bevanda usuale a Cartagine in base alla documentazione epigrafica, secondo alcuni studiosi era forse contenuto nei cosiddetti vasi a "biberon" (figg. 90, 187, 189,369, 370) o negli askoi zoomorfi (figg. 101,116, 190-191), frequentemente associati a sepolture infantili o a incinerazioni nei tofet. Inoltre, lo sporadico recupero di grattugie bronzee in alcuni corredi sepolcrali, ritenute amuleti da certi studiosi, consentirebbe di localizzare anche in Sardegna, come nella Sicilia punica, la pratica di grattugiare formaggio nel vino, secondo la ricetta di una sostanziosa bevanda connessa alla tradizione greca e ricordata nell'epica omerica con il nome di kikeion. Naturalmente, parlando di genti tanto legate alla vita marinara non stupisce il fatto che il pesce rappresentasse una voce fondamentale dell'alimentazione. Fra i più salienti indicatori del consumo antico del pescato in Sardegna, di cui le moderne tonnare e le saline ancora in funzione costituiscono senza dubbio un retaggio, si segnala il magazzino "pescheria"
di via delle Terme a Olbia. Qui, insieme a resti. di ricci, orate e molluschi eduli bivalvi sono state rinvenute anfore databili alla fine del IV secolo a.C. eccezionalmente ancora provviste del contenuto di zerri, zerri musilli e cefali dorati conservati sotto sale. Non meno degno di menzione è pure il costante recupero di conchiglie e vertebre di pesce, dai contesti abitativi e tombali, in particolare tharrensi e sulcitani. Molluschi e differenti varietà di pesci occupavano inoltre pozzetti rituali pertinenti a una possibile area sacra in viale Trento a Cagliari. L'importanza dell'alieutica e della raccolta di molluschi per il sostentamento della popolazione in Sardegna si manifesta in parallelo al durevole valore simbolico di alcune specie nel mondo punico: tonni, delfini, ippocampi, polpi, orate, murene, seppie, aragoste, vongole e granchi, sono talora impressi su bolli anforici - in alcuni casi forse per segnalare il contenuto del vaso -, resi naturalisticamente nella pittura vascolare, incisi su matrici fittili o forgiati in osso, steatite
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192. Brocca trilobata , V sec. a.e. , ceramica , h 22 cm , proveniente dalla Necropoli di Sulci (Sant'Antioco), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La brocca è rivestita da engobbio rosso scuro e munita di decorazioni lineari, puntiformi e astrali in bianco sul corpo. Sotto al bordo è dipinto un occhio apotropaico interamente campito in bianco.
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193. Otpe, V-IV sec. a.e., ceramica, h 12,5 cm, proveniente dalla Necropoli ipogea di Nora (Pula) , Pula, Museo Archeologico "Giovanni Patroni".
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o pasta vitrea come amuleti. Dati recentemente acquisiti da contesti indigeni con una certa persistenza di occupazione, tuttavia, documentano la lontana tradizione dell'uso alimentare della maggior parte delle conchiglie marine e lagunari: in questi casi l'utilizzo rituale dei gusci si può considerare, cioè, un impiego secondario. In riferimento ai modi del bere, di certo il consumo del vino nella Sardegna fenicia e punica affonda le radici in una consuetudine millenaria e ben si interseca con indirizzi produttivi locali. Nel solco di una specializzazione tecnologica già consolidata all'inizio dell'età del Ferro che nel Mediterraneo orientale aveva reso celebre il vino prodotto a Biblo, Tiro, Sidone e Berito, l'apprezzamento della bevanda riguarda tutto l'Occidente fenicio e punico. Ciò è principalmente suggerito dalle fonti antiche e dai documenti iconografici, come le stele votive cartaginesi che mostrano spesso grappoli d'uva e vasi tipicamente destinati a contenere vino, per esempio il kantharos. Di notevole rilievo documentario è anche l'inserimento in vari contesti funerari, sin dall'età arcaica, di vasellame tipico dell'equipaggiamento simposiale etrusco e greco, la cui diffusione tuttavia non è generalizzabile. La Sardegna fornisce ancora una volta dati perspicui sulla produzione del vino sin dalle più antiche fasi della presenza levantina, che s'innesta su probabili esperienze nuragiche rivolte alla lavorazione della vite selvatica. A Sant'Imbenia, dalla fine del IX secolo a.C. , si contestualizza la produzione di anfore vinarie di tipo orientale (fig. 18). Ancora nell'VIII-VII secolo a.C. la presenza di tali contenitori a Cartagine, Utica, Huelva, Toscanos, Malaga e Dona Blanca, presso Cadice, talora insieme a brocchette askoidi tradizionalmente legate al consumo vinario, documenta l'esportazione a lungo raggio del pregiato vino della Nurra. Anfore vinarie e coppe-tripodi raggiungono i mercati di Etruria e Latium Vetus nel flusso di beni suntuari destinati a comporre i fastosi corredi tombali dei "principi" tirrenici nel periodo detto "Orientalizzante". Nel contesto di una più ampia condivisione del cerimoniale di autorappresentazione proprio delle aristocrazie vicino orientali mediante il ricorso agli stessi criteri di ostentazione del lusso, il dato è sintomo dell'appropriazione, da parte di tali comunità, del particolare modo di bere vino secondo il costume delle corti levantine, cioè con l'aggiunta di spezie e sostanze aromatiche.
194. Brocca trilobata , V sec. a.e., ceramica , h 21 cm , proveniente dalla Necropoli di Sulci (Sant'Antioco) , Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". La brocca è rivestita con engobbio rosso scuro e decorazione in nero a tremuli sul collo e a fasce e linee sul corpo del vaso. Sotto il bordo sono presenti occhi apotropaici.
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195. Pentolina monoansata, VII-VI sec. a.e., ceramica, h 10,5 cm , proveniente da Tharros (Cabras) , Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Cooking poto pentolina monoansata impiegata per la cottura di zuppe o cibi semiliquidi. Proprio per il carattere consuetudinario della forma domestica questo tipo di pentola è tuttavia spesso impiegato anche come cinerario. 196. Coppa a calotta, prima metà VI sec. a.e. , ceramica , h 5,7 cm, proveniente dalla Necropoli ipogea di Bithia (Domus de Maria), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.
L'uso del vino sembra un elemento significativo di alcune procedure funerarie nella Sardegna fenicia e punica sin dall'VIII-VII secolo a. C. Sono anfore da vino i cinerari nella necropoli di San Giorgio di Portoscuso, associate a vasellame per bere greco ed etrusco che ricorre anche, più tardi, a Bithia, Tharros e Othoca. A Monte Sirai, l'attingitoio e l'anfora della ricca inumazione arcaica n. 88, oltre alla spiana fittile con residui di vinaccioli associata a una deposizione femminile della stessa necropoli, esprimono la persistenza di tale consumo in funzione del culto dei morti almeno fino all'inizio del VI secolo a.C. La collocazione in necropoli di altarini lapidei muniti di vaschette e "comignoli" come pure l'intaglio di coppelle collegate a canalette comunicanti con cavi sepolcrali, come ben documentato per esempio a Tharros, manifestano la predilezione per offerte libatorie in cui verosimilmente il vino, oltre ad altri liquidi, poteva avere un ruolo di rilievo. Il noto
bronzetto itifallico riproducente un personaggio che inclina verso una coppetta un vaso askoide dal sacello di Monte Sirai, inquadrato nell'VIIIVII secolo a.C., sembrerebbe evocare una simile azione rituale (fig. 26). Dal VI-V secolo a.C. l'incremento di tipi anforici stranieri in Sardegna, in particolare di ambito greco orientale, magnogreco, siceliota, etrusco e massaliota, indica come probabile l'intensificazione dell'acquisto di vino "straniero" da parte dei mercati sardopunici, non tale, tuttavia, da far ipotizzare l'interruzione della produzione locale, che anzi i dati provenienti da diverse aree rurali mostrano attiva ancora in fase tardo-punica. Nel tempo, la produzione vinaria isolana dovette piuttosto subire una flessione in termini qualitativi, tanto che in età repubblicana e imperiale i funzionari inviati in Sardegna si spostavano da Roma muniti di scorte vinarie proprie (Plutarco, Gr., I, 5).
Nota bibliografica 2003a; SPANO G!AMMELLARO 2004; 2008a; TRONCHETTI 2010; B ARTOLONI 201 2; DELGADO, F ERRER 2014; Z AM ORA L OPEZ 2015; P EROTTI, S ECCI 2016-1 7; U SAI, ET AL. 2018. B ERNARDINI
CAMPANELLA
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197. Piatto , VI sec. a.e., ceramica, 0 19 cm, proveniente da Tharros (Cabras) , Oristano, Antiquarium Arborense. Piatto con vasca poco profonda. 198. Piatto ombelicato, IV sec. a.e., ceramica , 0 16 cm, proveniente dalla Necropoli meridionale di Tharros (Cabras) , Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna". Piatto con decorazioni concentriche in color rosso scuro. 199. Piatto ombelicato, IV sec. a.e., ceramica , 0 19,5 cm , proveniente dalla Necropoli ipogea di Monte Sirai (Carbonia), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.
200. Anfora domestica , V sec. a.e. , ceramica, h 16,1 cm , proveniente dalla Necropoli di Tuvixeddu (Cagliari), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Anfora domestica adibita alla conservazione di liquidi. 201. Anfora domestica con spalla carenata, VI sec. a.e., ceramica , h 22 ,5 cm , proveniente da Pani Loriga (Santadi), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. 202. Anfora domestica cordiforme , V sec. a.e., ceramica, h 32 cm , proveniente da località sconosciuta , Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Anfora con decorazione in color rosso-bruno , lineare e a gocce. 203 . Anfora domestica quadriansata, VI sec. a.e., ceramica, h 26,5 cm , proveniente da Tharros (Cabras}, Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna ". Anfora con decorazione in rosso a fasce e tremuli verticali in nero.
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Vesti, costumi e abbigliamento Rosana Pia Orqufn
Nell'antichità furono molto apprezzate le stoffe tinte con la porpora di Tiro e le pregevoli vesti multicolori, in lino e lana, che i Fenici arricchivano con elaborati ricami e cinture frangiate. Preziosi i costumi e i tessuti che appaiono con frequenza elencati fra i tributi e i bottini di guerra raccolti dai sovrani assiri nelle città fenicie e che venivano indicati come elementi suntuari e di prestigio nelle fonti scritte bibliche e greco-latine: si ricordi, ad esempio, un noto passaggio dell'Iliade
204. Stele , IV sec. a.e., tufo, h 36,5 cm, proveniente dal Santuario toret di Sulky (Sant'Antioco), Sant'.Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". Sulla parte frontale della stele è scolpito in bassorilievo un naiskos grecizzante con due pilastri quadrangolari sormontati da un listello, una gola egizia e da un frontone triangolare con acroteri. Tra i pilastri appare una donna in piedi con la gamba sinistra lievemente flessa e con capigliatura raccolta di tipo ellenico, vestita con un mantello dai bordi rilevati e una tunica che lascia trasparire le forme morbide del corpo. Le braccia sono congiunte all'altezza del petto, la mano sinistra sorregge il tamburello mentre la mano destra ne percuote la membrana. 205. Placca , VI-V sec. a.e ., argento, h 4,2 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. 206. Stele, seconda metà V sec. a.e., tufo, h 55,1 cm , proveniente dal Santuario tofet di Sulky (Sant'Antioco) , Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.
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(VI, 288-304) dove viene evocato un grande peplo ricco di ricami in diversi colori, realizzato da artigiane fenicie della città di Sidone, che venne offerto in dono alla dea Atena dalla regina di Troia. La natura deperibile dei tessuti ha determinato una limitata conoscenza generale sugli abiti in uso nella Sardegna dell'Età del Ferro e specificamente sull'aspetto e sulla foggia delle stoffe. Il vestiario per questo periodo storico è noto per via diretta soltanto attraverso il
repertorio figurativo plasmato sulle terrecotte ma anche scolpito in diversi rilievi funerari e, specialmente, nella numerosa serie delle stele in pietra depositate nei vari tofet insulari, che con il passare dei secoli hanno perso, in buona parte, l'originale policromia. Seguendo lo sviluppo del panorama figurativo, si distinguono nel tempo, nei caratteri stilistici e negli elementi del costume indossato dalle donne e dagli uomini rappresentati, alcuni influssi levantini ed egittizzanti - con qualche sporadico accenno anche alle tradizioni locali della Sardegna-, dominanti durante tutto il periodo arcaico (IX-VI sec. a.C.), per poi svilupparsi, a partire dal IV secolo a.C., in maggiore aderenza alle soluzioni suggerite dall'influsso greco. Nelle comunità fenicie occidentali le vesti, così come in Oriente, dovevano variare in materiale, foggia e colore a seconda del rango della persona che le indossava. La semplicità delle vesti e delle tuniche veniva correntemente movimentata e arricchita da un largo uso di copricapi, calzature e ornamenti che completavano l'abbigliamento e contrassegnavano, attraverso una sorta di dress code, le funzioni sociali o lo status dell'individuo. Come sostengono diversi studiosi, il vestiario raffigurato sui bronzetti, sulle stele e sulle terrecotte non veniva comunemente usato nella vita quotidiana ed è forse da considerarsi eccezionale e riservato, oltre che alle varie divinità, alle donne e agli uomini dell'aristocrazia e, soprattutto, alle persone legate all'ambiente del culto. Durante l'epoca arcaica (VIII-VI sec. a.C.) e fino al V secolo a.C. gli indumenti, così come le pettinature e gli atteggiamenti corporali di uomini e donne, sono fortemente vincolati alla moda e agli stili levantini ed egittizzanti. Alla maniera fenicia sono acconciate le protomi fittili maschili di Sulky e Monte Sirai, con folta capigliatura riccia e lunga barba liscia bipartita con doppio cordoncino in rilievo. Alcuni uomini scolpiti sulle stele del tofet di Sulky (Sant'Antioco), anche essi con barba e lunghi capelli, portano morbidi copricapi a punta e indossano tuniche che coprono le spalle, lasciano scoperti i piedi e vengono sorrette da una cinta alla vita (fig. 206); sono vestiti allo stesso modo dei Fenici di Tiro raffigurati sui rilievi bronzei delle celebri porte della città assira di Balawat (Iraq), intenti a recare il tributo al sovrano Salmanassar III. Su una placchetta argentea da Tharros è possibile apprezzare il
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copricapo conico e la ricca decorazione della veste, retta in vita da una fascia, che si suddivide in quattro bande verticali percorse da un motivo a spina di pesce (fig. 205). Il tipo maschile più diffuso per questo periodo è il personaggio incedente, con un braccio piegato al petto e l'altro disteso lungo il fianco, vestito da un corto gonnellino riprodotto su svariati supporti: dagli amuleti alle stele, fino ai grandi rilievi funerari dalla necropoli di San t'Antioco (figg. 363, 366-367). Il caratteristico capo di abbigliamento, noto in ambito egiziano come shendy t, era costituito da un grande panno semplice, verosimilmente in lino, che si arrotolava attorno alla vita e veniva sorretto da una cintura, anche essa in stoffa; in alcuni casi i gonnellini sono più ricercati e vengono rappresentati con maggior quantità di dettagli con un devanteau trapezoidale o con motivi geometrici e/o verticali a indicare la varietà di decori ricamati o la plissettatura dei tessuti. In queste figure virili la presenza o meno della barba non sembra indifferente, infatti l'assenza della stessa potrebbe rispondere a specifici valori sociali o religiosi, come un'indicazione della giovane età dell'individuo oppure, con più verosimiglianza, a indicare la rasatura rituale effettuata dalle persone impegnate nei sacri riti o consacrate alla divinità. Nella veste di sacerdote officiante/partecipante in una sorta di danza sacra, in Sardegna è nota la raffigurazione di un altro personaggio agghindato con il caratteristico gonnellinoshendyt, ripreso mentre sorregge sulla testa una protome taurina: la scena è scolpita a tutto tondo in un enigmatico monumento betiliforme in arenaria proveniente da Tharros. Il vestiario fe~minile durante il periodo arcaico si presentava assai multiforme. Il più distintivo costume che indossavano le timpaniste plasmate sull'argilla e scolpite sulle stele è composto da un lungo e aderente indumento a maniche corte che arrivava fino alle caviglie, sorretto alla vita da una cintura (figg. 204,212,491,493). Queste vesti dovevano presentarsi esuberanti, colorate e addobbate da una serie di complementi quali pettorali, collane, bracciali e larghe cinture annodate all'altezza della vita o dei fianchi, spesso pendenti sul davanti come mostrano alcune terrecotte da Cartagine, nelle quali si è conservata fortunatamente l'originaria policromia. Terrecotte con vestiti e acconciature di particolare interesse datate al VI secolo a.C. provengono dalla necropoli
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207. Le suggestioni per la ricostruzione dell'abbigliamento di questo offerente sono molteplici. Liconografia dell'uomo con stola è una delle più ricorrenti nelle stele del tofet di Sulky: uomini sbarbati portano appunto una stola sulla spalla sinistra e un simbolo di Tanit nella mano destra; in un caso un uomo con le stesse vesti è impegnato a versare dell'incenso su un bruciaprofumi. A Cartagine i grandi sarcofagi antropomorfi maschili, vestiti con la stola , portano nella mano destra una piccola pisside, simile a quella raffigurata in questa immagine. Lanello indossato nell'annullare della mano sinistra è una consuetudine largamente documentata, ad esempio, nella Necropoli di Monte Sirai (Carbonia) (consulenza R. Pia Orqufn). 208. Stele, lii sec. a.e., tufo, h 24,2 cm , proveniente dal Santuario tofet di Sulky (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca ". Sulla stele è scolpita in bassorilievo la parte anteriore di un tempio, nella luce tra i pilastri è rappresentata una figura maschile stante, abbigliata con una lunga tunica che lascia scoperti i piedi scalzi. Il braccio destro, steso lungo il fianco , regge un oggetto simile al cosiddetto simbolo di Tanit, il braccio sinistro è piegato sul petto e la mano stringe una lunga e stretta striscia di stoffa, identificabile con una stola.
di Tharros. Una presenta l'acconciatura a caschetto egittizzante con i particolari della veste ben evidenziati in rilievo, ovvero le maniche e una frangia che scende verticale sul davanti. L'altro esemplare tharrense degno di nota raffigura una donna che suona un tamburello, con una acconciatura a fitte onde che incorniciano la fronte e cadono sulle spalle; il capo è coperto da un manto che scende dal diadema per disporsi lateralmente al corpo, vestito con una tunica fermata alla vita da una cintura. Questa statuetta conserva tracce di policromia che disegnano una veste a corte maniche nella quale si alternano larghe bande nere e rosse; le spalle sono coperte da una corta
pellegrina o mantellina delimitata da tre linee dipinte in nero; si intuiscono infine piccoli tratti di colore scuro che decorano il mantello. Dalla Tomba 91 della necropoli di Tuvixeddu (V sec. a.C.) proviene un gruppo di 5 terrecotte raffiguranti altrettante donne sedute in trono con la capigliatura raccolta e divisa in due bande, coronata da un diadema (figg. 148-151, 213); tutte le figure sono vestite da una lunga tunica di colore rosso intenso e da un pesante mantello bianco aperto sul davanti che avvolge completamente il corpo. Una grande veste di taglio egittizzante realizzata in sottili garze di lino trasparente è visibile in una stele del tofet di Tharros. All'interno del
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209. Figura femminile, V-IV sec. a.e., ceramica, h 19,6 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna ". Terracotta di donna stante, la testa è coronata da un po/os e la capigliatura a morbide onde, divisa da una scriminatura centrale, scende dritta sulle spalle. Il vestito è composto da una sottoveste panneggiata, realizzata verosim ilmente in un tessuto leggero, coperta da un soprabito rettangolare liscio, con largo collo tondeggiante.
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tempietto è raffigurata ad incisione una figura femminile di profilo a destra con braccia protese in alto intente a suonare un tamburello; il vestito lascia intuire il profilo del corpo e termina ad arco lasciando i piedi scoperti. Vesti analoghe sono particolarmente diffuse nel mondo fenicio e punico, come documentano le rappresentazioni su avori orientali e su alcuni rasoi in bronzo rinvenuti a Cartagine. Un simile vestito in lino sottile, sempre da Tharros, si intuisce altresì in una placchetta di avorio frammentaria raffigurante una suonatrice di doppio flauto, con una veste aderente fermata all'altezza del petto, con collo tondeggiante e larghe maniche plissettate che scendono fluidamente fino a metà del braccio (fig. 489). Un caso a sé, di particolare interesse, è costituito da un sarcofago ligneo della necropoli di Sulky che presentava sul coperchio la sagoma intagliata di una donna in posizione solenne con un indumento decorato in policromia (fig. 365): il braccio sinistro, disteso e aderente al corpo, mostra la presenza di alcuni bracciali colorati; sulla testa parzialmente conservata si distingue una frangia di capelli dipinti in nero sovrapposti da una stretta fascia rossa ravvivata da gocce di colore celeste; il resto dei capelli dovevano cadere dritti sulle spalle, mentre un nezem di bronzo era infilato nelle narici. L'acconciatura, anche se molto deteriorata, è confrontabile con le protomi femminili di terracotta e pietra calcarea in stile egittizzante databili al VI secolo a.C. recuperate negli impianti necropolari di Tharros, Sulky e Cagliari. I volti di queste donne sono incorniciati da una particolare pettinatura - forse una parrucca all'egiziana - caratterizzata dalla frangia dritta sulla fronte e dalle larghe bande di capelli discendenti dietro le orecchie, trattenuta sulla fronte da una fascia orizzontale che avvolge tutta la testa, talora dettagliatamente decorata da motivi geometrici (fig. 210). Tornando alla descrizione della veste visibile sul sarcofago, si distingue dalla vita in giù parte di una gonna formata da due ali che si chiudono sul davanti, le cui piume si dispongono in bande diagonali colorate alternativamente in rosso e azzurro. L'iconografia del vestito piumato affonda le sue radici nell'estetica egiziana, in quanto la gonna alata distingue alcune dee quali Iside e Nefti, così come numerose raffigurazioni di donne di alto rango nell'ambito della vita politica e religiosa egiziana del Terzo Periodo Intermedio (1070-672 a.C. ca.) e della successiva XXVI dinastia saitica (VII-VI sec. a.C.). A partire dal VI secolo, e fino al I secolo a.C., la veste alata
210. Protome femminile , VI-V sec. a.e., ceramica , h 17 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. 211. Si è voluto rappresentare in questa tavola una donna con un caratteristico vestito distinto dalla gonna configurata da due ali colorate che si incrociano nella parte anteriore. L'.iconografia della veste alata è nota in contesti santuariali e funerari fenici e punici del Mediterraneo orientale e occidentale. Una delle più antiche testimonianze proviene della Necropoli ipogea di Sa nt' Antioco dove fu raffigurata sul sarcofago ligneo della capostipite di un'importante famiglia sulcitana (consulenza R. Pia Orqufn).
si diffonde nel mondo fenicio e punico acquisendo un particolare significato nell'ambiente del culto; il caratteristico vestiario, oltre che nel sarcofago sulcitano, è raffigurato su numerose terrecotte rinvenute nel santuario in grotta di Es Culleram (Ibiza) e nel tempio di Thinissut (Tunisia), nonché sul coperchio del noto sarcofago in marmo dalla necropoli des rabs, des pretres et des pretresses di Cartagine. Non esistono particolari indizi sull'abbigliamento dei più piccoli membri delle comunità della Sardegna dell'Età del Ferro e più in generale dell'ambiente culturale fenicio e punico del Mediterraneo centro-occidentale. Sono infatti molto scarse le rappresentazioni di bambine e bambini, il più delle volte raffigurati nudi. Un'unica notizia relativa al vestiario degli infanti si rintraccia nelle Storie di Polibio, che ricorda come i figli minori di Asdrubale, generale delle armate cartaginesi, indossavano delle semplici tunichette poco prima della loro morte avvenuta assieme alla distruzione della città nel 146 a.C. (:XXXVIII 20, 7). Anche un piccolo amuleto in avorio da Tharros sembra raffigurare una bambina con i capelli a caschetto vestita da una tunica a maniche corte lunga fino alle ginocchia (fig. 216). L'abbigliamento dei bambini era arricchito molto spesso con l'utilizzo di collane e bracciali composti da vaghi e pendenti in bronzo e in
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212. Suonatrice di tamburello, VI-V sec. a.e., ceramica, h 26,5 cm, proveniente da Tharros (Cabras) , Oristano, Antiquarium Arborense. 213. Figura femminile seduta, V sec. a.e., ceramica, h 11,3 cm, proveniente dalla Necropoli di Tuvixeddu, area Predio lbba (Cagliari), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La piccola statuetta di terracotta fu rinvenuta insieme ad altre quattro della stessa tipologia nella Tomba 91 di Predio lbba , scavata da Taramelli nei primi decenni del secolo scorso. La donna, raffigurata seduta su un trono, conserva il vivido colore rosso della veste; sulla faccia è visibile il belletto rosso utilizzato per abbellire le guance e le labbra .
.. 214. Stele, IV sec. a.e., marmo, h 35 cm , proveniente dal Santuario tofet di Sulky (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". La stele raffigura un tempietto con coronamento timpanato e acroteri. Ne/l'edicola, tra le due colonne, una figura femminile veste una tunica leggera o chitone, lunga fino ai piedi e un himation che copre il capo e awolge il corpo. 215. Questa figura femminile è colta nell'atto di scostare il velo, mentre con la mano sinistra sorregge un cesto con offerte alimentari. Veste una tunica leggera panneggiata e il capo e il corpo sono awolti da un leggero velo. L'iconografia della donna offerente con il velo, di derivazione greca, si diffonde nell'ambiente punico a partire dal IV sec. a.e. , e sarà plasmata soprattutto nelle terrecotte. In Sardegna è raffigurata su diverse stele marmoree depositate nel santuario tofet di Sulky (Sant' Antioco) (consulenza R. Pia Orqufn).
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pasta di vetro colorata, amuleti e conchiglie. Ciò sembrerebbe dimostrato dal registro funerario di alcune necropoli indagate in Sardegna. Oltre ai modelli "codificati" nelle opere artistiche, gli abiti usati nella vita quotidiana durante l'Età del Ferro dovevano essere molto più vari di quanto non appaia a un primo esame e in Sardegna fu sicuramente rilevante l'influenza esercitata dalle tradizioni nuragiche e dai relativi vestiari, in analogia a quanto verificabile in tanti altri aspetti della cultura materiale domestica e artigianale. Un indizio in questo senso è fornito proprio da una sepoltura infantile datata al VI secolo a.C. e recentemente indagata nella necropoli di Monte Sirai, dove è stato ritrovato un bottone in bronzo conico con appendice sagomata e corpo traforato verticalmente che ricorda i bottoni tipici della tradizione sarda della Prima Età del Ferro. Il bottone della piccola defunta della Tomba 351, conservava ancora "concrezionati" al bronzo
minuscoli frammenti dell'originario tessuto in lino della tunica o mantello indossato al momento del seppellimento: ciò è stato possibile grazie a una specifica osservazione dei frammenti al microscopio elettronico a scansione (SEM) che ha mostrato l'esistenza di fibre di lino intrecciate secondo un caratteristico andamento diagonale. Alcuni studiosi hanno tentato di riconoscere una forte impronta autoctona anche in alcune stele del tofet di Monte Sirai, dove solitamente le donne rappresentate indossano delle tuniche che non arrivano fino ai piedi; in un paio di esemplari è visibile un mantello piegato sopra la spalla sinistra (fig. 456) ,. ovvero un capo di vestiario ignoto nell'abbigliamento femminile di tradizione orientale che viceversa trova un sintomatico raffronto in un bronzetto di donna offerente proveniente dal complesso nuragico di Abini (Teti). A partire dal V secolo a.C. si documenta a
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Sant' Antioco un particolare abbigliamento maschile che appare scolpito su molteplici stele del santuario tofet. Il caratteristico vestiario, insolito nel resto della Sardegna, contraddistingue personaggi raffigurati su rilievi, sarcofagi e riprodotti in terracotta in varie località dell'Oriente mediterraneo e a Cartagine. Gli uomini raffigurati sulle stele sulcitane si presentano costantemente senza barba e con diversi elementi distintivi: un copricapo, una tunica liscia o panneggiata che lascia scoperti i piedi scalzi, talora coperta da un mantello che cade lungo la schiena e, infine, una lunga e stretta stola, verosimilmente in tessuto fine, che pendeva dalla spalla sinistra (fig. 208). In alcuni esemplari il berretto è costituito da una sorta di tiara cilindrica, in altri si presenta in forme più simili a un basso turbante; un particolare esemplare presenta un copricapo solcato da una serie di incisioni che creano dei motivi romboidali a voler
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216. Amuleto, VII-V sec. a.e. , avorio , h 4,8 cm , proveniente da Tharros (éabras) , Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna ". 217-219. Anelli crinali, V-IV sec. a.e., oro, rispettivamente: 0 2,3 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale; 0 1,2 cm , proveniente da Monte Sirai (Carbonia), Carbonia, Museo Archeologico Comunale "Villa Sulcis"; 0 2,1 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Gli anelli crinali, noti come fermatrecce, venivano impiegati per abbellire e sostenere ciocche di capelli o trecce.
220. Fibula , VII sec. a.e. , ferro e argento , lungh. 10 cm , proveniente dalla Necropoli di Bithia (Domus de Maria), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Dalla Tomba 219 di Bithia , ricca in gioielli e ornamenti realizzati in metallo prezioso , proviene questo elemento impiegato per l'allacciatura
degli abiti di trad izione allogena; le cosiddette fibule a doble resorte sono infatti originarie della penisola iberica, dove si diffondono durante la Prima Età del Ferro. Solitamente questa tipologia di fibule veniva realizzata in bronzo, l'esemplare di Bithia invece era bagnato in argento.
rappresentare l'intrecciatura della stoffa del turbante, confrontabile per stile e dimensioni con il copricapo del busto maschile barbato dalla necropoli di Tuvixeddu, il quale presentava tracce di pittura nera al momento del rinvenimento. Sempre con riferimento alle stele sulcitane, sia la stola che il simbolo di Tanit o ankh (che molte delle figure imberbi portano nella mano destra) sembrano essere allusivi all'ambito cultuale nel quale i personaggi operavano. Secondo le indicazioni di Silio Italico (Pun. III 23-28) coloro che frequentavano il penetrale del Tempio di Melq art a Gadir ( Cadice) dinanzi agli altari indossavano la medesima veste in lino sottile e ornavano il capo con stoffa pelusia (lino); l'autore antico aggiunge inoltre che quando erano impegnati nell'offerta d'incenso indossavano abiti senza cintura e nel momento dei sacrifici, rasati e con i piedi scalzi, ornavano la veste con un'ampia balza di porpora. In progresso di tempo, gli usi e i costumi della società punica subirono una marcata influenza ellenizzante; anche in Sardegna l'impronta grecizzante nell'arte e nella moda del vestire si rende percepibile a partire della seconda metà del IV secolo a.C. È soprattutto nei vestiti femminili che si colgono i maggiori cambiamenti e anche su diverse terrecotte e stele figurate le donne presentano acconciature di stile greco: i capelli sono raccolti e suddivisi da una scriminatura centrale, talvolta alcune ciocche arricciate ricadono da dietro le orecchie. Le donne recano sulla testa un ampio e sottile velo o himation che avvolge il corpo e si raccoglie solitamente su una delle braccia (fig. 214), mentre in alcuni casi il capo è coronato da un polos o da un diadema (fig. 209). Le vesti erano spesso rappresentate da un grande rettangolo di stoffa di lino o lana fissato sulle spalle, che veniva drappeggiato intorno al corpo formando ricche pieghe che ricadevano in forme elaborate sino all'altezza dei piedi.
Nota bibliografica MOSCATI 1972, pp. 34-48; Q UATTROCCHI PISANO 1974; CECCHINI 1981; CHARLES-PICARD, CHARLES-PICARD 1982, pp. 144-154;BARTOLONI 1986;MOSCATI 1986b; MANFREDI 1988; MAES 1989; BIS! 1990; CIASCA 1991; MAEs 1991; CECCHINI 1992; M ATTAZZI 1996; CHERIF 1997; L6PEZ GRANDE, TRELLO ESPADA 2004; ZAMORA L6PEZ 2006; GARC!A VARGAS 2010; 0 GGIANO 2013; BENICHOU-SAFAR 2014; GUIRGUIS 2017a; PLA 0RQUfN 2017; POMPIANU 2017c.
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221. Ipotesi ricostruttiva dell'abbigliamento di una bambina vissuta nell'insediamento di Monte Sirai e morta in tenera età durante il VI sec. a.e. Essa indossa i vaghi, gli amuleti e i gioielli, così come furono ritrovati durante lo scavo della sua tomba (T. 351), indagata durante l'estate del 2015 dall'Università degli Studi di Sassari. Oltre ai due braccialetti e alla collana, un anello e un vago a occhioni erano deposti sulla testa;
sull 'omero sinistro era presente un bottone di tradizione nuragica sul quale erano visibili piccoli residui di tessuto in lino (consulenza R. Pia Orqufn). 222. Collana, IV sec. a.e., pasta vitrea, 0 max 1,2 cm , proveniente dalla grotta di lspinigoli (Dorgali), Dorgali, Museo Archeologico Comunale. 223. Bracciale, V-VII sec. a.e., pasta vitrea, pietre dure, argento, 0 max 5,5 cm, proveniente dalla Necropoli ipogea di Sulky
(Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". Secondo una lunga tradizione orientale, anelli, orecchini , bracciali in argento e oro, collane con svariati vaghi, pendagli e amuleti in avorio, pietre preziose, fai'ence o pasta di vetro adornavano uomini, donne e bambini: ne sono una chiara testimonianza i ricchi corredi personali rinvenuti all 'interno delle sepolture ubicate nelle diverse necropoli della Sardegna.
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224. Pendente , VI-V sec. a.e., oro, h 3,8 cm, proveniente da Tharros (Cabras) , Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.
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Società e potere
· Istituzioni e organizzazione politica e sociale Sandro Filippo Bandì APPROFONDIMENTI
Gli scarabei Anna Chiara Farisei/i
Famiglie e parentele nella Sardegna del I millennio a.e. Rosana Pia Orqufn
Guerra e armati Anna Chiara Farisei/i
La scrittura Rossana De Simone APPROFONDIMENTO
La stele di Nora Rossana De Simone
La monetazione Anna Chiara Farisei/i
Il lusso: vetri e gioielli Anna Chiara Farisei/i
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Istituzioni e organizzazione politica e sociale Sandro Filippo Bandì
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225. Base frammentaria con iscrizione punica, lii sec. a.e., pietra, lungh. 17,5 cm, proveniente dal Tempio di Antas (Fluminimaggiore), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il testo contiene una formula di datazione ("nell'anno del sufeta [o dei sufeti l") che cita la massima magistratura cittadina di un centro di cui non è conservato il nome.
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La nostra conoscenza delle istituzioni della Sardegna fenicia e punica è condizionata negativamente da una serie di fattori, o meglio da notevoli lacune. Da un lato, infatti, vi è una totale assenza di fonti scritte per tutto il periodo precedente all'inclusione dell'Isola nel sistema di potere cartaginese e dall'altro, anche per questa fase più recente, nessuno dei siti di cui pure conosciamo qualche magistratura consente di definire un quadro sufficientemente esauriente dei vari livelli decisionali. Una collazione delle diverse notizie forniteci dalle fonti epigrafiche e da quelle letterarie permette tuttavia di comporre un quadro attendibile della struttura politica e amministrativa del mondo punico di Sardegna (per la fase fenicia questo tentativo, come abbiamo accennato, non è praticabile). V'è comunque da fare una distinzione per ciò che concerne le varie forme di autorità presenti in Sardegna nell'età cartaginese: da un lato occorre valutare su un piano più generale lo status dell'Isola nei suoi rapporti con la potenza egemone; e dall'altro esaminare la struttura amministrativa dei singoli centri per i quali si dispone di una conoscenza adeguata. Sulla prima di queste due questioni soccorrono anzitutto i testi dei trattati stipulati tra Cartagine e Roma, a partire da quello del 509508 a.C._Nel primo di essi (Polibio, III, 22) la Sardegna è citata con riferimento ai commerci esercitati dai Romani. Essi, come nel Nord Africa (e questo è un elemento di straordinaria
importanza), verranno garantiti da Cartagine se definiti alla presenza di un funzionario cartaginese, banditore o segretario. Dal punto di vista istituzionale ciò significa che la Sardegna è considerata parte integrante dello Stato cartaginese, alla stregua dei possedimenti nordafricani della potenza punica e che la sua autorità sull'Isola, evidentemente acquisita a seguito delle campagne militari ivi condotte tra il 540 e il 525 a.C., viene riconosciuta in un documento internazionale. Si noti che tale clausola riguarda la Sardegna nel suo insieme e non la parte dell'Isola in possesso dei Punici come accade, nel medesimo trattato, per la Sicilia, il che suggerisce un sostanziale controllo di Cartagine sull'insieme del territorio insulare, almeno nei limiti in cui questo poteva avvenire nell'evo antico. Questo controllo si fece più stringente con il passare del tempo e soprattutto con il IV secolo a.C., una fase che segnò un'inversione nella politica punica, tesa ora a una gestione più diretta, dal punto di vista economico e territoriale, dei possedimenti transmarini. Mentre la Sicilia vede per la prima volta la costituzione di una vera e propria "provincia punica" che i Greci chiameranno eparchia, in Sardegna le clausole del trattano romanocartaginese del 348 a.C. (Polibio, Ili, 24) registrano un atteggiamento assai più guardingo di Cartagine: ai Romani è ora impedito di dedicarsi al commercio e di fondare città e, se costretti a fermarsi per cause
226 . Base di altare con iscrizione trilingue in greco, latino e punico, Il sec. a.e. , bronzo, proveniente da San Nicolò Gerrei, Torino, Musei Reali - Museo di Antichità. Nell'epigrafe si cita , per un centro non indicato, la magistratura sufetale, che dunque risulta ancora in uso nella piena età romana .
227. Particolare dell'iscrizione punica tracciata su una coppa , lii sec. a.e., argento, proveniente da Sulky (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca ". l.'.epigrafe menziona alcuni funzionari della città: i "controllori" o contabili , i due sufeti e il sommo sacerdote , anch'esso evidentemente titolare di qualche prerogativa pubblica.
di forza maggiore (la necessità di rifornirsi di viveri o di riparare la nave) ovvero obbligati da una tempesta, essi dovranno allontanarsi entro cinque giorni. È probabile che questo maggiore controllo fosse affiancato, dal punto di vista istituzionale, dall'introduzione di specifiche magistrature con autorità sull'intera Sardegna. È quanto lascia intendere Polibio (I, 79) allorché cita un funzionario di nome Bastar a cui fu attribuita una funzione di coordinamento militare sull'intera Isola. Anche se il passo è riferito al III secolo a.C., è probabile che l'introduzione di tale carica risalga al IV secolo a.C., al periodo cioè in cui Cartagine irrobustì le difese territoriali, come attesta una serie di scoperte archeologiche effettuate nei principali centri urbani. Dal punto di vista dell'amministrazione delle singole città, invece, sembra che esse abbiano potuto godere di una certa autonomia, pur nel quadro di una struttura istituzionale in tutto simile a quella vigente a Cartagine. Collazionando i dati provenienti da vari insediamenti si può ricostruire infatti la presenza di diverse istanze decisionali, attestate in un consistente numero di siti, sicché può affermarsi che tale ordinamento fosse quello abituale per i centri punici dell'Isola. Elemento costante di tale struttura era una suddivisione in tre diversi livelli deliberativi: il sufetato, il senato cittadino e l'assemblea popolare, i primi due - come vedremo più avanti - espressione dei ceti di vertice della comunità. Il sufetato, di durata annuale e di tipo bicefalo,
costituiva la magistratura principale della città, tanto che le formule di datazione registravano il nome dei due sufeti ("giudici" nella lingua fenicia ), con l'espressione "nell'anno dei sufeti X e Y'~ L'epigrafia attesta la presenza del sufetato a Cagliari, a Sulky, a Bithia e a Tharros, ma la documentazione si amplia comprendendo le iscrizioni in cui sono menzionati magistrati con questa funzione per i quali non è indicata (o non è più ricostruibile) la città di appartenenza: ciò accade ad Antas, dove in alcune epigrafi sono nominati dei sufeti in formule di datazjone relative a città il cui nome è perduto (fig. 225 ), e a San Nicolò Gerrei: da questa località proviene un'importante iscrizione trilingue in punico, latino e greco in cui, in una dedica a Eshmun (interpretato rispettivamente come Esculapio e Asclepio nelle versioni latina e greèa del testo), si fa menzione dei due sufeti di un centro non specificato: difficilmente essa sarà stata la località di ritrovamento dell'epigrafe, non abbastanza grande per ospitare una tale magistratura, e si pensa a Cagliari, naturale riferimento sulla costa di quella parte della Sardegna (fig. 226). Il fatto che in alcune iscrizioni personaggi dotati dell'autorità sufetale risultino esponenti di famiglie in cui la stessa funzione era stata ricoperta in precedenza da altri membri suggerisce che questa carica fosse appannaggio di un ristretto numero di gruppi familiari, evidentemente costituenti un'"aristocrazia" di diritto e di fatto all'interno delle singole città. L'esempio più
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228. Placca con iscrizione punica, 111-11 sec. a.e., marmo, h 41,5 cm, proveniente da Tharros (Cabras). Oristano, Antiquarium Arborense. Nel testo si citano almeno otto sufeti, spesso legati tra loro da vincoli di parentela, indizio della trasmissione della massima magistratura all'interno di una stessa famiglia. La funzione sufetale era evidentemente appannaggio di un ristretto numero di gruppi familiari , che costituivano una sorta di aristocrazia cittadina.
rilevante è rappresentato da un'iscrizione da Tharros, in cui i membri di una stessa famiglia si trasmettono la dignità sufetale per almeno sei generazioni (fig. 228). L'autorità detentrice delle massime capacità decisionali doveva essere, in Sardegna come nel resto del mondo punico, il senato cittadino, anch'esso come accade per il sufetato già ampiamente noto nella madrepatria fenicia (diverse fonti vi citano "consigli degli anziani", cioè appunto assemblee senatorie) . Ben attestato soprattutto a Cartagine, dove era formato dagli esponenti delle maggiori famiglie ed era espressione degli interessi e delle posizioni politiche della classe di vertice della popolazione, il senato era dotato di un'ampia quantità di prerogative civili e militari e può essere definito il custode della continuità legislativa e dei caratteri fondamentali dell'ordinamento repubblicano. Per la Sardegna, in realtà, le attestazioni di un'assemblea senatoria sono molto esigue, limitandosi alla menzione di un senato in un'epigrafe bilingue punico-latina da Sulky che ricorda l'erezione di un sacello in onore
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della dea Elat (fig. 572). L'iscrizione riveste una notevole importanza per la sua datazione alla piena età romana (si situa infatti nel I sec. a.C. ), che testimonia la persistenza a tale livello cronologico di costumi religiosi e civili tipici della cultura punica (il senato cittadino, il culto di una divinità orientale quale è Elat) . Va anche notato che il testo menziona alcuni personaggi dal tipico nome punico e questo conferma il forte radicamento della cultura punica nei primi secoli dell'età romana. L'altra componente essenziale della vita istituzionale nelle città puniche di Sardegna è l'assemblea del popolo. Anche in questo caso i centri punici dell'Isola si conformano all'ordinamento di Cartagine, che non solo registra la presenza di questo organismo, ma vede un progressivo allargamento delle sue prerogative, a partire soprattutto dall'età annibalica (III -II sec. a.C.) . Per la Sardegna abbiamo informazioni meno numerose e dettagliate, ma è accertata la presenza dell'assemblea popolare in vari centri, da Cagliari a Tharros, da Bithia a Olbia. È difficile specificare quali fossero le sue attribuzioni,
perché l'unica informazione in proposito ci viene dall'iscrizione neopunica di Bithia, datata al II secolo d.C., che ricorda che "l'intero popolo" della città - e dunque evidentemente l'assemblea cittadina - decretò l'erezione o il restauro di alcuni altari. È importante invece il contesto in cui emerge in genere la menzione di tale assemblea: si tratta della dichiarazione di cittadini di diversi centri che nelle epigrafi dedicatorie deposte in luoghi di culto affermano di esserne membri. 'sb' m, 'che è nel popolo' è la formula usata in tali occasioni, il che indica non solo la provenienza geografica di tali personaggi, ma anche il fatto che essi disponessero della titolarità dei diritti civili, in sostanza della cittadinanza a pieno titolo, in quanto appunto partecipanti dell'assemblea popolare. Va comunque precisato che la parola ' m, in genere da tradurre come popolo, è usata in vari contesti per citare non l'assemblea popolare bensì per indicare una sorta di congregazione religiosa. In Spagna ad esempio un'iscrizione da Cadice cita il termine ' m come il destinatario dell'offerta di un anello assieme al dio Milkashtart, sicché non sempre è possibile individuare in questo vocabolo il riferimento a un'assemblea popolare. L'esempio appena riportato ci introduce alla discussione di un altro importante aspetto, quello cioè relativo al rapporto tra cariche pubbliche e religiose, già adombrato da Aristotele (Politica, II, 11 ) quando cita tra le istituzioni cartaginesi le etairiai, assimilate alle fiditia spartane di cui è nota la connotazione religiosa. In Sardegna la questione è ben evidenziata da un'epigrafe ritrovata a Sulcis e tracciata su una coppa d'argento (fig. 227). In essa si ricorda la dedica al dio Baal Addir della coppa stessa, ma tra i magistrati citati vi sono sia funzionari amministrativi (i "controllori"), sia i sufeti dell'anno, sia un sommo sacerdote. Se ne può arguire che i vertici istituzionali e quelli religiosi fossero strettamente connessi e ciò in ragione della comune appartenenza a quella fascia della popolazione a cui erano affidate a un tempo le prerogative politiche e quelle di natura religiosa. In qualche modo si può concludere che ' m inteso come assemblea popolare e lo stesso termine ' m che designa una congregazione religiosa si possono considerare coincidenti, in quanto costituiti entrambi dagli esponenti della classe di vertice della comunità cittadina. Il tema appena affrontato si lega strettamente a quello della struttura gerarchica, etnica ed
economica della società nelle colonie fenicie e puniche della Sardegna. In primo luogo va detto che il dato essenziale che vi si coglie è il carattere fortemente composito. Questo può dirsi già per le fasi iniziali della presenza fenicia nell'Isola. Anche se in genere i fenomeni migratori sono nutriti da individui o gruppi che ricercano in nuove patrie condizioni di vita migliori di quelle che si lasciano alle spalle (la cosiddetta "manovalanza della colonizzazione", come è stato detto anche per il mondo fenicio), non v'è dubbio che l'attività di promozione del moto espansionistico sia dovuta a un ceto di imprenditori, mercanti e armatori dotati di forti capacità organizzative e finanziarie. È a questa classe, del resto, che possono attribuirsi, sul suolo delle colonie occidentali, tombe di consistente ricchezza, quali sono quelle che si trovano in taluni insediamenti della penisola iberica; e certamente la struttura oligarchica delle stesse istituzioni dei centri coloniali (almeno da che ne abbiamo notizie consistenti) è l'espressione delle esigenze di questa classe: un'aristocrazia di sangue (cioè di origine fenicia) o di censo che monopolizza i poteri decisionali delle proprie città e regioni. V'è poi un altro tipo di articolazione costituito dalla presenza negli insediamenti fenici•· d'Occidente, e dunque anche della Sardegna, di gruppi etnici di varia provenienza, che lasciano talora nei sedimenti archeologici tracce più o meno evidenti. Si pensi anzitutto a nuclei ellenici rivelati dalle ceramiche a essi afferenti (anche se in buona parte queste saranno il portato di scambi commerciali piuttosto che di stanziamenti sui luoghi della colonizzazione fenicia). Del resto la compresenza di genti di varia etnia provenienti dal Mediterraneo orientale nei tempi delle prime navigazioni verso l'Isola è un elemento ormai ampiamente dimostrato dalle indagini archeologiche recenti. Ancora più consistente è, nei secoli iniziali della presenza fenicia in Sardegna, l'apporto delle popolazioni di tradizione nuragica. In questo caso l'osservatorio più favorevole per la conoscenza del fenomeno è senz'altro Sulky, dove accanto ai corredi di cultura materiale fenicia è notevole la presenza di ceramiche indigene. L'isola di Sant'Antioco ospita numerosi abitati nuragici prima e durante l'avvio della colonizzazione fenicia, il che rende ragione dell'esistenza di questi elementi ascrivibili alla popolazione locale, ma soprattutto il fenomeno si lega alla pratica dei matrimoni misti, che Sulky illumina assai
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229. Lamina a foglia , V sec. a.e., oro, h 17,5, proveniente dalla Necropoli ipogea di Nora (Pula) , Pula, Museo Archeologico Comunale "Giovanni Patroni ". La lamina è decorata con motivi vegetali e un gorgoneion. 230. Orecchino, VII sec. a.e. , oro, h 3,6 cm, proveniente da Tharros (Cabras) , Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Orecchino con corpo a sanguisuga e pendente a croce ansata. 231. Anello, IV-lii sec. a.e., oro, 0 2,1 cm, proveniente dalla Necropoli ipogea di Nora (Pula), Pula, Museo Archeologico Comunale "Giovanni Patroni ". Anello con castone ovale recante il nome del proprietario, Azorbaal .
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bene ma che certo fu un costume abitualmente diffuso negl'insediamenti fenici, in Sardegna come nel resto della diaspora. Ma accanto al capoluogo sulcitano, varie altre località testimoniano questa convivenza tra Fenici e popolazione locale: tra di essi andranno almeno citati gli esempi del Nuraghe Sirai e di Sirimagus, nonché vari insediamenti dell'Oristanese. All'articolazione della società fenicia dell'Isola contribuì potentemente anche un altro fenomeno, cioè l'arrivo di nuclei consistenti di popolazione punica proveniente dal Nord Africa. Esso è soprattutto legato al controllo 184
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232. Collana , VI-V sec. a.e. , oro, proveniente da Tharros (Cabras), Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. I grani della collana sono di varia forma e il pendente è decorato con i motivi del crescente lunare e del disco solare. Tutti questi reperti aurei , per lo più provenienti da necropoli, sono rappresentativi dell'opulenza delle tombe appartenenti alle famiglie di rango elevato nei principali centri della Sardegna fenicia e punica.
cartaginese della Sardegna, avvenuto nella seconda metà del VI secolo a.C., ma vi sono indizi di ciò anche nei decenni precedenti, come attestano una precoce modifica dei costumi funerari (con il passaggio dall'incinerazione all'inumazione), l'introduzione di talune categorie artigianali di pretto stampo nordafricano (dalle uova di struzzo decorate ai rasoi votivi in bronzo, figg. 131-132) e l'emergere di una nuova "aristocrazia" che si installa nelle colonie sarde accanto alla popolazione già residente e che si palesa con una serie di atteggiamenti di autocelebrazione e di ostentazione di grandi capacità economiche.
Monte Sirai e ancora Sulky offrono da questo punto di vista la documentazione più esplicita. Per Monte Sirai va ricordata la Tomba a inumazione 88 della locale necropoli, che si data alla prima metà del VI secolo a.C. e che presenta un corredo ricco di varie forme ceramiche, anche d'importazione corinzia, e diversi gioielli in oro e argento, solo in parte indossati dal defunto e per altra parte deposti come indicatori del suo rango e della sua ricchezza. Per Sulky il contesto più rilevante riferibile a un'"aristocrazia" che si nutre di elementi culturali nordafricani è dato dalla Tomba 7 della necropoli, datata alla seconda
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metà del V secolo a.C.: un esempio straordinario dell'ideologia funeraria della classe dominante, con intenti evidenti di ostentazione e di autocelebrazione, ben rappresentati dall'immagine, di chiara ascendenza egiziana e già presente nel repertorio iconografico del Vicino Oriente fenicio, del defunto scolpita su un pilastro della cella con ampio uso del colore e con una serie di elementi (la posa con braccio piegato sul busto, il corto gonnellino, il klaft, i monili) che pure rimandano a un'ambientazione egittizzante verosimilmente veicolata da esponenti della punicità cartaginese (figg. 366367) . Il fatto stesso che il sepolcro sia stato riservato a un solo defunto indica l'eccezionalità del contesto, dovuta sicuramente all'altissima posizione sociale del personaggio, qui rappresentato in una veste "eroizzata': Certamente la politica di Cartagine in Sardegna, al di là degli obiettivi militari della sua azione, rimase aperta al contributo di altre componenti, in primis quella di origine nuragica, con cui i Cartaginesi intrattennero rapporti di convivenza e con i quali tentarono anche operazioni di organico coinvolgimento. L'esempio più esplicito di questo stato di cose, per l'età punica, è fornito dalla fondazione del Tempio di Antas, nel cuore dell'Iglesiente (figg. 404-408). In questa regione ricca di risorse minerarie i Cartaginesi realizzarono, in una zona già segnata da presenze nuragiche, un luogo di culto dedicato a Sid, dio di origine orientale destinato a diventare la divinità dell'insieme delle comunità puniche di Sardegna (il santuario di Antas, peraltro, non è legato ad alcuna specifica città); ma tale dio fu connesso a un nume locale (non a caso in età romana identificato con il Sardus Pater), sicché entrambe le componenti della popolazione, quella punica e quella indigena, vi si poterono riconoscere. È evidente che tale operazione si rivolgeva non all'insieme delle genti nuragiche, bensì alle loro classi di vertice e più acculturate, che i Cartaginesi cooptarono, se non da un punto di vista politico almeno da quello economico e di gestione delle ricchezze della regione, nel loro sistema di potere in Sardegna. Di questa ormai compiuta integrazione si avrà una significativa prova nei primi decenni della fase romana, quando una ribellione contro i nuovi padroni dell'Isola sarà sostenuta proprio da uno dei più autorevoli rappresentanti della classe sardo-punica che ormai si identifica pienamente con gli interessi della politica
cartaginese. La sommossa anti-romana scoppiata in Sardegna nel 216 a.C. (in coincidenza certo non casuale con la disfatta romana di Canne) venne infatti guidata da un personaggio, Ampsicora, definito da Livio CXXIII, 32) «di gran lunga il primo per prestigio e per ricchezze» e ritenuto dagli studiosi del nostro tempo un autorevole esponente dell'oligarchia terriera sardo-punica. La ribellione ebbe esito sfavorevole, ma è importante la dimostrazione che ne deriva di una vicinanza dell'aristocrazia punicizzata a una Cartagine che ha ormai perso il controllo militare ed economico dell'Isola. La perdita della Sardegna da parte di Cartagine non recise affatto i vincoli tra l'Isola e il Nord Africa: al di là dei fenomeni di mera sopravvivenza di costumi e istituti amministrativi già presenti nella Sardegna punica, v'è da rilevare che la cultura materiale dell'Isola nei primi secoli della dominazione romana mostra un flusso intenso e continuo di elementi di provenienza nordafricana. Lo testimoniano in specie aspetti dell'artigianato e anzitutto delle stele votive, presenti in molti centri non interessati in precedenza dalla diffusione della colonizzazione fenicia e dalla presenza cartaginese. Le comunità puniche della Sardegna, all'indomani della conquista romana dell'Isola, seguitano dunque a registrare notevoli aspetti di vitalità, legati soprattutto, come è stato sostenuto da più parti, proprio all'arrivo di nuovi gruppi di popolazione dal Nord Africa per motivi connessi ai commerci, all'attività militare o semplicemente alla ricerca di più favorevoli condizioni di vita. In questo quadro, dunque, si evidenzia nuovamente l'aspetto fondamentale della società punica di Sardegna, che vorremmo indicare nella costante apertura a stimoli, apporti e arrivi dalle altre regioni mediterranee e dalle fasce non fenicie della popolazione dell'Isola. Sarà questo che ne determinerà il ruolo di componente a pieno titolo della cultura della Sardegna ancora per molti secoli a venire.
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233-234. Scarabeo, VI sec. a.e., pasta silicea smaltata, lungh. 1,6 cm, proveniente dalla Necropoli ipogea di Sulci (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca•. Elitre, torace e testa dello scarabeo sono tracciati da linee sottili. Sulla faccia piatta sono incisi un cartiglio faraonico e due piume maat.
Nell'ambito dei molteplici attestati della profonda e antica connessione culturale tra la civiltà fenicia e quella nilotica, gli scarabei rappresentano un esempio paradigmatico di adozione dell'ideologia religiosa e della consuetudine funzionale di cui sono strumento in Egitto. A ben guardare, anzi, quello che si osserva nello studio della propagazione degli scarabei nel Mediterraneo antico è un vero e proprio fenomeno di globalizzazione. Fra i cosiddetti aegyptiaca infatti, gli scarabei, più che gli amuleti, hanno una diffusione pressoché generalizzata presso le culture preromane, da
quella siro-palestinese a qùelle persiana, greca ed etrusca. In Egitto se ne documenta f utilìzzo nel quadro dell'escatologia funeraria, grazie al portato simbolico dell'iconografia naturalistica, quella dell'insetto stercorario, che evoca il principio cosmogonico della rigenerazione; tuttavia, non è meno rilevante l'impiego del medesimo oggetto come sigillo. La presenza dei nomi, e talvolta anche del mestiere dei portatori nelle iscrizioni in geroglifico poste sugli originali nilotici, ne testimonia infatti l'impiego in transazioni di carattere amministrativo. Fin dalle origini, quindi, non vi è dubbio circa la connessione dell'oggetto con ruoli e potenzialità che superano quella talismanica, per molto tempo erroneamente riconosciuta come funzione esclusiva del manufatto. L'inserimento degli scarabei nell'equipaggiamento delle élite dirigenti nelle città-stato della costa siro-palestinese si può fissare al II millennio a.C. quando l'afflusso dall'Egitto diventa più cospicuo per dare poi luogo a manifatture locali e, nel corso del I millennio, alla piena divulgazione dello "strumento" sulle rotte della diaspora fenicia. Nella Sardegna fenicia e punica, prevalentemente nelle necropoli di Tharros, ma anche a Othoca, Pani Loriga, Cagliari, Sulci e Monte Sirai, gli scarabei più diffusi fra VII e VI secolo a.C. sono in pasta silicea,fai"ence o steatite. In minore percentuale si attestano anche scaraboidi nello stesso materiale, ossia manufatti che condividono la forma ovale ma sono meno definiti nel dorso o, al contrario, sono configurati a volto umano o a conchiglia. La maggior difficoltà rispetto a questo filone di manifatture si appunta sull'assenza pressoché generalizzata di indagini archeometriche che consentano di discernere gli oggetti in steatite da quelli in pasta vitrea, soprattutto se rivestiti da smalti. Per diretta conseguenza è spesso impossibile distinguerne i contesti di produzione. Alcuni supportano 187
235-236. Scarabeo , VI-V sec. a.e., diaspro verde, lungh. 1,5 cm, proveniente da Monte Sirai (Carbonia), Carbonia, Museo Archeologico Comunale "Villa Sulcis". Scarabeo a soggetto egittizzante. Il dorso del manufatto è intagliato secondo un linguaggio formale assai naturalistico, che prevede la dettagliata definizione delle elitre, del torace, della testa e delle zampe. Sulla faccia piatta a lettura verticale, inquadrato in un registro ovale da una sottile cornice a catenella , è inserito un grifone a becco spalancato con corona dell'Alto e del Basso Egitto. !.'.animale fantastico è adagiato su cinque fiori di papiro schematici dal lungo stelo.
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temi propri del repertorio vicino orientale, ma molti ospitano iconografie egizie. In quest'ultimo gruppo, certi esemplari registrano correttamente figure divine e nomi egiziani qualificandosi verosimilmente come importazioni originali; altri se ne discostano poiché i segni geroglifici vi acquisiscono un puro valore grafico, o sono integrati da elementi tipicamente fenici: fra tutti, un simbolo similare al "segno di Tanit''. Possiamo quindi affermare che, mentre molti di questi scarabei sono originali prodotti nilotici, altrettanti ne sono presumibili imitazioni, per quanto fedeli, e altri ancora sono dichiaratamente egittizzanti. In qualche caso, infatti, accolgono sulla faccia piatta grossolani fraintendimenti dei geroglifici, rivelandosi in modo patente come produzioni di artigiani digiuni di cultura egizia. Alcuni, documentati sia in Sardegna sia altrove nel Mediterraneo fenicio, ospitano cartigli faraonici: sono particolarmente presenti quello di Thutmosis III, con il suo appellativo Men-Kheper-Ra, o quello di Menes-Narmer, elementi che manifestano straordinaria longevità permanendo fino al VI secolo a.C. e oltre, talvolta in associazioni ibride con temi figurativi fenici. Il ricorso al cartiglio faraonico si lega al carattere magico del nome regale, valore applicabile in particolare a figure di sovrani leggendari nella storia egiziana, e ovviamente non corrisponde alla cronologia dello scarabeo. Tali sigilli sono in gran parte veicolati dall'emporio di Naucratis nell'ambito di una vivace corrente produttiva massificata
nella fase corrispondente alla XXVI dinastia saitica, cui, oltre ai succitati tipi arcaicizzanti, rimandano anche molti esemplari con il nome, regale e comune, "Psammetico': Tra i manufatti egittizzanti si possono annoverare sia i sigilli prodotti da maestranze fenicie nell'emporio del Delta, sia gli scarabei realizzati negli atelier recentemente riconosciuti in contesto siro-palestinese - a Tiro e Akhzive cipriota - a Kition e Amathus -, operativi soprattutto dalla fine del IX al VI secolo a.C.; sia gli scarabei forse prodotti in contesto sardo. Riguardo a questo aspetto, tuttavia, non sussistono solide evidenze archeologiche, a differenza di quanto avviene a Naucratis, dove sono stati trovati stampi per le produzioni in pasta vitrea. Analogo problema si pone rispetto alla determinazione dei vettori di tali manufatti, che si tende a identificare con i Fenici coinvolti nella frequentazione del mercato naucratite, senza escludere però, né la diretta commercializzazione dei prodotti da Tiro, Achziv o Cipro, in alcuni casi molto simili a quelli dei contesti sardi, né una compartecipazione greca alla redistribuzione. A prescindere dal luogo di produzione originario, poi, non va sottovalutata neppure la mediazione di Cartagine, come dimostrerebbe la presenza nella città nordafricana di alcuni scarabei identici a quelli rintracciabili nell'Isola. Dal VI-V secolo a.C. le produzioni in pasta e fai'ence sono sopravanzate da quelle in pietra dura, soprattutto diaspro verde, ma anche pietra nefritica, diaspro rosso, agata, corn.tlina,
237. Scarabeo, VI-V sec. a.e., diaspro verde, lungh. 1, 7 cm, proveniente da Tharros (Cabras), Sassari, Museo Archeologico Nazionale "G.A. Sanna". Scarabeo a soggetto egittizzante, a lettura verticale. Un personaggio a testa di ibis coronato da disco solare, interpretabile come il dio egizio Thot munito di scettro was, si accosta a un bruciaprofumi a corolle rovesciate con fiamme accese. Alla base è presente il cesto nb reticolato. La scena è sormontata da un disco solare alato. 238. Scarabeo, V-IV sec. a.e., diaspro verde, lungh. 1,6 cm , proveniente dalla Necropoli ipogea di Sulci (Sant'Antioco), Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "Ferruccio Barreca". Scarabeo a soggetto ellenizzante, a lettura verticale. Inquadramento a catenella. Un guerriero nudo, munito di elmo con alto cimiero e pennacchio ricadente sulla nuca, è riprodotto nell'atto di incoccare una freccia nell'arco.
ollite o, più genericamente, calcedonio. Si rinvengono in particolare a Tharros, ma anche a Othoca, Cagliari, Sulci, Monte Sirai, Monte Luna come supporto di iconografie più varie oltre che di tecniche d'incisione differenziate. Per quanto riguarda le tematiche figurative vi trovano posto soggetti egittizzanti, tradizionali o di maniera, temi propri della mitografia vicino orientale, immagini di stile greco, soggetti definiti "etrusco-ionici" e composizioni prettamente puniche, come gli assemblaggi apparentemente caotici di teste negroidi, sileniche e animali. La lavorazione della pietra dura richiede l'impiego, nelle varie fasi, di scalpelli, mole, polveri abrasive, punte metalliche sottili, bulini a punta tonda e forse persino di cristalli con la funzione di lenti d'ingrandimento, ma è testimoniato anche l'uso di trapani a punta sferica impiegabili nella cosiddetta tecnica "a globolo", che ha come esito figure stilizzate composte da segmenti tondeggianti, considerata peculiare della specializzazione glittica etrusca. L'addensamento dei rinvenimenti a Tharros e la vicinanza dei giacimenti di diaspro localizzabili nella zona di Monte Arei sono stati ritenuti per molto tempo elementi probanti per localizzarvi l'industria glittica almeno nel V secolo a.C. Con l'evolversi delle ricerche, questo ruolo è stato ridimensionato, perché si è preso atto dell'esistenza di cave di diaspro anche in Egitto e a Cipro, oltre al fatto che non è sempre certa la natura diasprigna dei manufatti, confondibile con le serpentiniti
verdi; di conseguenza è apparsa verosimile la possibilità di riconoscere in alcuni scarabei importazioni da altri contesti del Mediterraneo. Non va trascurato il complesso ruolo di Cartagine, potenzialmente esprimibile sia come collettore di materia prima, luogo di manifattura e di esportazione sia, viceversa, come eventuale mercato di ricezione dei sigilli tharrensi o di redistribuzione di quelli greci ed etruschi. Specificamente per alcuni materiali, come l'agata o la cornalina, infatti, nemmeno si può sottovalutare l'industriosità degli opifici tirrenici. Va detto, però, che tanto la testimonianza delle fonti ottocentesche, quanto gli scavi recenti attestano il rinvenimento nei quartieri funerari tharrensi di resti di lavorazione o di nuclei non manufatti, ma appena sbozzati, di diaspro e cornalina. Lo studio degli scarabei non può valutarsi disgiuntamente da quello delle cretule, ossia delle impronte di argilla seccata, talvolta cotte da incendi, derivanti proprio dal sistematico uso amministrativo degli scarabei su masse argillose crude impiegate a sigillo di contenitori, rotoli di papiro o porte. In particolare, a fronte della notizia del recupero di cinque cretule dal presunto santuario di Cuccureddus di Villasimius (figg. 68-72), non si può prescindere dallo studio delle cretule di Cartagine, rinvenute a migliaia nell'edificio sacro di Rue Ibn Chabbat, e delle centinaia dall'archivio del Tempio C di Selinunte. Queste appaiono talvolta iconograficamente affini a scarabei dalla stessa Cartagine, da Kerkouane, Tharros, Palermo e Ibiza, il che ha indotto
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tutto il Mediterraneo. La risoluzione del dilemma può essere in parte affidata alle indagini petrografiche, pur consapevoli che queste consentono solo di individuare il luogo
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È mblico; nei.suoi p-tessi, inoltre, dovevano svolgersi le attività commerciali con mercati permanenti o stagionàli. Il santuario era in una posizione sovrastante la piazza del Foro che, seppure con diverso orientamento, corrisponderebbe all'odierna piazza del Carmine. Tutto intorno erano altri edifici pubblici verosimilmente di tipo sacro o amministrativo, di alcuni dei quali sono state individuate le strutture di fondazione. La particolarità di questo luogo sacro è data dal fatto che presenta una planimetria altrimenti sconosciuta in Sardegna, propria di una tipologia architettonica, di origine ellenistica, diffusa in area centro italica e nel cui schema poteva ritrovarsi anche la comunità punica: un'area recintata, nella quale il naturale pendio del terreno era stato organizzato in terrazze e al cui interno era presente un tempio, posto nella parte alta e una cavea di tipo teatrale in asse con esso, in quella inferiore. Delle strutture del santuario - oggi non più visibile essendo ormai coperto dal palazzo che vi fu costruito sopra - si conservavano solo alcune parti dei filari di base del muro di cinta, la platea di fondazione del tempio, una decina di gradini della cavea e un pozzo. La ricostruzione planimetrica, effettuata sulla
5 74. Moneta dei sufeti Aristo e Mutumbal figlio di Ricoce (verso), 42-36 a.e. ca., bronzo, proveniente da località sconosciuta, Sassari, Museo Nazionale "G.A. Sanna·. La moneta sarebbe stata coniata dalla zecca di Karalis durante il Secondo triumvirato, tra il 42 e il 36 a.e. Vi è raffigurato un edificio templare con quattro colonne sulla fronte e la legenda VENERIS KAR(ALES?).11 riferimento a Venere testimonierebbe che nella città sorgeva un tempio dedicato alla dea. Il rinvenimento di tre chilogrammi di corallo grezzo tra i materiali trovati, la presenza del giardino con il pozzo e la cavea teatrale destinata alle rappresentazioni sacre, che ben si adatterebbero al culto della dea e del suo amato Adone, ha fatto ipotizzare che l'edificio raffigurato nella moneta possa essere identificato proprio con quello scoperto nella via Malta a Cagliari.
base dei rinvenimenti, restituisce un santuario terrazzato almeno nella parte superiore nella quale sorgeva il tempio. Quest'ultimo, dotato di quattro colonne (tetrastilo), poste sul davanti (prostilo), sembra fosse circondato da un ampio spazio libero, forse organizzato come giardino, inquadrato a sua volta da un portico colonnato. Sul lato destro dell'edificio, nel giardino, era presente il pozzo scavato nella roccia ma con un'imboccatura costruita. Lo spazio terrazzato dove si ergeva il tempio era delimitato da un muro curvilineo che compensava il salto di quota con la parte sottostante nella quale era posizionata la cavea teatrale. Sulla base di questi elementi ritenuti propri del mondo fenicio, quindi, il santuario fu interpretato inizialmente come punico, salvo poi essere riportato a confronti geograficamente più vicini, di ambito italico, in particolare, al tempio di luno a Gabii, un'antica città del Lazio, distante circa 20 km da Roma. La diffusione nell'Isola di una moneta, prodotta dalla zecca di Karalis nella seconda metà del I secolo a.C. , che rappresenta al dritto (fig. 571 ) due figure maschili, indicate dalla legenda come sufeti, e al rovescio (fig. 574) l'immagine di un tempio con quattro colonne sulla fronte, seguito dal nome al genitivo della divinità a cui era dedicato, VENERIS, ha fatto associare la moneta all'edificio individuato in via Malta. Tale abbinamento, che sembra plausibile, non solo fornirebbe il nome della divinità il cui culto era praticato al suo interno ma ci darebbe prova del fatto che, ancora nella seconda metà del I secolo a.C., a Karalis sopravviveva la magistratura di origine punica, per la presenza dei due sufeti in essa
iscritti con caratteri punici accanto ai quali non mancano quelli in latino - sia la presenza in città di tessitori o di commercianti di tessuti che si ponevano sotto la protezione della divinità nel tempio. La presenza di circa tre chili di corallo non lavorato, rinvenuti a ridosso della platea del tempio, il pozzo, scavato al suo lato in uno spazio quasi sicuramente adibito a giardino e la legenda VENERIS della moneta, sono indizi utili per l'interpretazione del culto praticato nel tempio e si presentano come elementi comuni alla tradizione religiosa di entrambe le comunità. Essi, infatti, richiamano i riti praticati in onore di Adone, la divinità di origine orientale legata al ciclo stagionale della vegetazione, che fu amato da Venere. Le celebrazioni, che si svolgevano in primavera o estate, consistevano nella rappresentazione del lutto, che ricordava la morte prematura del dio avvenuta durante una battuta di caccia, alternata alla festa per il suo ritorno alla vita, concessogli dal padre degli dei. Se si considera che alla fine del II secolo a.C. la città punica, prima localizzata sulle rive dello stagno di Santa Gilla, era ormai stata sostituita da quella romana posizionata nella zona dell'attuale porto, il cui centro aveva il suo fulcro nel Foro, si può ritenere che il santuario di via Malta fosse il segno della nuova città, della quale le componenti sardopunica e romano-italica erano le protagoniste.
Nota bibliografica 1949; ANGIO LILLO 1986-87; Bo 2007; IBBA 20 12; I BBA, XELLA 2014.
MINGAZZINI P ORRÀ
ETTO
2006;
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..
575. Ricostruzione ipotetica del santuario di via Malta a Karalis (Cagliari). La ricostruzione proposta si basa sui dati di scavo e sul confronto con santuari del centro Italia di età tardo repubblicana . Si è ipotizzato che il santuario fosse costituito da un peribolo di circa 120x43 m all'interno del quale sorgevano il tempio e una cavea di tipo teatrale. Il tempio, di modeste dimensioni (8,60x14,50 m ca .), sorgeva nella parte alta del pendio, in uno spiazzo terrazzato . Da qui, si raggiungeva, attraverso una breve scalinata , la parte inferiore nella quale era situata la cavea . Il dislivello di circa 3,5 m tra lo spazio terrazzato e quello sottostante era sottolineato da due muri curvilinei con una breve scalinata centrale. L'.edificio templare tetrastilo , prostilo, cioè con quattro colonne
575
sulla fronte, era verosimilmente circondato per tre lati da un giardino nel quale, nella parte occidentale, si apriva un pozzo scavato nella roccia che attingeva da acque sorgive. Lo scavo del pozzo rivelò due fasi costruttive: una più antica che ancora conservava sulla roccia il segno dello sfregamento delle corde utilizzate per attingere l'acqua ; una successiva , probabilmente coeva all'edificazione del tempio, caratterizzata della costruzione di un'imboccatura a dado, costituita da quattro filari di blocchi giustapposti sui quali era posta la ghiera vera e propria, consistente in un blocco con un foro centrale di circa 40 cm di diametro. La presenza di due basi di colonna nel muro di cinta, ha fatto ipotizzare che la parte alta fosse circondata da un portico (consulenza M.A. lbba).
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