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Italian Pages 312 [304] Year 2016
© Proprietà letteraria riservata
Gangemi Editore spa Piazza San Pantaleo 4, Roma www.gangemieditore.it Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni. Le nostre edizioni sono disponibili in Italia e all’estero anche in versione ebook. Our publications, both as books and ebooks, are available in Italy and abroad.
ISBN 978-88-492-6074-8 In copertina: Jean-Marie Straub, Rafael Alberti, Anita Ekberg.
C’era una volta il film intorno al 1968/1972
a cura di
Edoardo Nardi
Le foto sono pubblicate per gentile concessione degli autori. Le interviste e le conversazioni sono pubblicate per gentile concessione di FILMCRITICA, di cui Edoardo Nardi è collaboratore. Ringraziamo Anna Maria Bruni per l’intensa collaborazione su alcune trascrizioni. Un grande ringraziamento soprattutto a Augusto Visconti per la sua pazienza nel lavoro di impaginazione.
Introduzione
Il
tema
fondamentale
ricercato
con
passione
e
rabbia
dal
cinema degli anni Sessanta fino ai primi Settanta, recato dalle Nouvelles Vagues che sbocciavano continuamente in Europa per diffondersi poi in ogni continente, era costituito dalla ricerca della libertà. In un certo qual modo il cineasta si proponeva quale tramite che permettesse, in una fusione completa tra occhio e macchina da presa, una visione libera e pregnante delle cose, la nascita di uno sguardo nuovo. Ebbene, nonostante la nascita di complessi ed interessanti presupposti teorici che permearono la produzione cinematografica di quegli anni, ad esempio quello della definizione di una grammatica cinematografica, è sempre attraverso le parole degli autori che possiamo definire il moto incessante vòlto alla scoperta di una nuova visione della realtà tutta. Abbiamo l’occasione, dunque, di riassaporare, attraverso le interviste presentate, la temperie di anni inquieti e fecondi che segnarono per il cinema un punto di non ritorno e consentirono ad
artisti
emergenti
liberamente
su
di
o
completamente
una
utopia
che
affermati il
di
cinema
esprimersi
stesso
tenta
costantemente di raggiungere, ossia una educazione alla visione del mondo che non sia coercizione o censura preventiva, ma bensì la completa affermazione della individualità di un uomo e della sua posizione in relazione ad una moltitudine. Certo, non dobbiamo interpretare le opere degli autori di cui riportiamo le parole,
come
autentica
di
di
altri
loro
colleghi
un’indipendenza
coevi,
assoluta
dal
quali
espressione
sistema
produttivo,
politico o sociale loro contemporaneo. Per quanto animati dalle più
autentiche
ed
intime
convinzioni
circa
la
possibile
realizzazione dell’utopia di un cinema puro, interprete e fabbro della realtà, gli autori di ogni periodo storico e di qualsivoglia forma
espressiva,
permangono
figli
della
propria
epoca,
della
quale costituiscono i portavoce, a volte inconsapevolmente, di certo
anch’essi
culturale
inseriti
legato
alle
nel
complesso
pratiche
di
sistema
potere
o
di di
produzione antipotere
determinate a partire dal Rinascimento. I nostri autori, dunque,
non
fanno
eccezione.
Tuttavia,
sosteniamo
con
fermezza
due
considerazioni fondamentali nella comprensione della temperie nella quale si giocavano la produzione e la realizzazione di alcune opere essenziali del cinema moderno: da un lato che il cinema non è e non potrà mai costituire un oggetto museale, mentre, dall’altro, che leggendo le parole degli autori intervistati traspare come una sorta di impegno di vita, una pratica filosofica vera e propria
espressa
concetti
ad
attraverso
esso
collegati.
la
realizzazione
Circa
la
di
prima
un
film
e
dei
considerazione,
è
evidente a coloro i quali hanno conosciuto ed amato il periodo aureo di un Cinema che definirei ormai classico, ovvero dagli anni Venti ai primi anni Sessanta, che la principale caratteristica delle opere comprese in tale quarantennio fosse il desiderio di comprensione
della
verità
dell’uomo,
tanto
attraverso
l’espressione del suo contesto sociale e politico, quanto grazie alla definizione delle sue immagini interiori. Dunque, il cinema non doveva limitarsi ad una messa in scena del reale, come appare evidente oggi con l’uso del digitale, ma doveva raccontarne i margini
e
le
sfumature,
tanto
da
penetrarne
l’essenza
e
da
incidere profondamente nell’immaginario di massa. Fare cinema costituiva
una
concettualmente
pratica
esistenziale
distante
dalla
e,
dunque,
necessità
un’attività
contemporanea
di
racchiudere un film nelle accoglienti ma fredde sale di un museo o di una cineteca. Per ciò che concerne il cinema come vita filosofica di un autore, ritengo che tale aspetto costituisca non solo
l’essenza
riportate,
ma
del
cinema
anche
il
realizzato
senso
vivo
negli delle
anni
delle
parole
interviste
degli
artisti
e
l’espressione dell’ attualità di quest’ultime. Negli anni Sessanta e Settanta, come nei decenni precedenti, con le dovute distinzioni, fare cinema significava pensare e vivere la propria vita in modo interrogativo, suscitando concetti, interpretando fatti, scegliendo il luogo e la distanza dal soggetto di un’inquadratura quale atto etico, individuale e di assoluta serietà. I concetti di scelta delle immagini,
in
fase
di
ripresa
o
di
montaggio
e
di
limite
del
visibile, inteso come scelta di un confine da non oltrepassare nel rispetto
della
immagine
è
capacità permeata,
di
sintesi
e
dovrebbero
di
evocazione
costituire
la
di base
cui
ogni
di
ogni
possibile discussione non soltanto sul Cinema in senso stretto,
ma anche circa ogni produzione di immagine, qualunque sia il formato nella quale è realizzata e mostrata al pubblico. Ritengo che la grande lezione delle interviste riportate, le cui frasi sono talvolta
permeate
di
ingenua
fiducia
in
una
sorta
di
potenza
assoluta dell’immagine cinematografica, mentre in altri frangenti tradiscono la disillusione stanca, ma pungente dell’autore, risieda proprio nel praticare il cinema quale modo di vivere e di pensare il
reale,
una
sorta
di
esercizio
spirituale
dello
sguardo
tanto
lontano dall’omologazione, o dittatura per dirla con Godard, che l’uso del digitale impone al nostro sguardo oramai opaco. Edoardo Nardi
Prefazione
Nessuna nostalgia e nessun C’era una volta il film. Con tutte le rivoluzioni vere e non vere il cinema rimane sempre presente, la pellicola, ancora, offre il suo sostrato a chi vuole vedere il film nella sua interezza, alcuni festival hanno addirittura ripristinato la proiezione dei film restaurati con la luce a carbone, per ottenere l’illuminazione
perfetta.
Certo,
bisogna
trasformarsi
in
archeologi, bisogna smettere di andare al cinema con l’abito della domenica e indossare quello dello studioso che si avvicina al film come all’opera d’arte. Non era questo in fondo il nostro grido? “L’arte
del
film?,
il
film
come
poetica
dell’inespresso,
come
rappresentazione di uno stato d’animo?”. Scorrere le pagine di questo libro, che raccoglie le interviste, meglio le conversazioni, con i grandi registi che già negli anni settanta tracciavano le linee per un cinema del pensiero, della politica, dell’assurdo, è stato per il curatore Edoardo Nardi, che appartiene al nuovo secolo, una sorpresa. Ma il nuovo già esisteva, altro che nostalgia! Leggere sulle pagine di Filmcritica del 1972 i ragionamenti, le domande e le risposte su un cinema del futuro di Gianni Amico o di Bernardo Bertolucci, di Marco Ferreri, di Carmelo Bene, sentire parlare dell’irrazionale e dell’onirico allargando il discorso al Living Theatre, all’arte astratta, ai lunghi piani sequenza di Dillinger sino alla consumazione alienante di Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, è stata una vera sorpresa per un giovane. Ma anche ‘parlare’ con registi quali Miklós Jancsó, Elia Kazan, Joseph Losey, rileggere oggi le loro riflessioni e la grande libertà nei
confronti
della
censura
(soprattutto
per
un
film
come
L’assassinio di Trotsky che voleva, appunto, essere sopratutto un film politico “su un grande uomo che ha influenzato il corso dell’umanità”). Altro sviluppo di un cinema futuro, dal taglio politico-poetico, ‘segno’
di
alto
rigore
intellettuale
è
il
cinema
di
Jean-Marie
Straub e Danièle Huillet. Il loro arrivo a Filmcritica fu per la rivista una luce nuova nel cinema, una rivoluzione linguistica,
Chronik
der
Anna
Magdalena
Bach,
Il
fidanzato,
l’attrice,
il
ruffiano e Othon sembravano i reperti di un cinema di domani e l’introduzione ad un cinema del pensiero, della fatica, e della sintesi. La rilettura di Straub-Huillet dei testi di Vittorini, di Pavese e di Fortini, la forza della loro lingua coniugata con la visione costituiva già allora “un quid delle radici sociali, storiche –
come
diceva
Jean-Marie
–
che
provo
a
mettere
a
nudo,
a
identificare come radici appunto sociali, psicologiche, storiche.” Una
rilettura
della
traccia
politica
e
linguistica
di
una
Italia
tutt’altro che ‘nostalgica’ di c’era una volta… 1
Edoardo Bruno
1 Edoardo Bruno, direttore della rivista Filmcritica.
Interviste e conversazioni 1968-1972
Intervista – 25 giugno 1970
GIANNI AMICO D – Tropici (1968) è il primo film brasiliano sonoro in presa diretta. Come sei arrivato alla presa diretta e perché è da preferirsi la presa diretta nell’ambito del suono cinematografico?
R – Tropici è il primo film brasiliano realizzato in presa diretta, ma non si tratta di un film brasiliano, occorre precisare. D – Vuoi dire che è realizzato in Brasile.
R – Esattamente, è realizzato in Brasile. Esiste un precedente, ovvero un primo film girato in Brasile, in presa diretta, da Jabor, Opinione pubblica (1967 ), che tuttavia è un’opera di inchiesta, documentaria. Tropici rappresenta il primo film di finzione girato in presa diretta e successivamente credo che soltanto Antonio das mortes (1969) sia stato girato in Brasile. D’altra parte, anche in Italia non è che ne siano stati realizzati molti di più. D – Forse solo tu hai girato in questo modo.
R – No, Ponzi ha girato di recente un film in presa diretta e poi Rossellini l’ha usata spessissimo, credo anche Rosi. Comunque, tornando
alla
naturalmente,
domanda, mi
alla
sembra
che
presa sia
diretta
l’unica
ci
sono
soluzione
arrivato possibile.
Inoltre all’epoca ne ero convinto; oltretutto, in questo caso avevo anche un motivo pratico, poiché girare in presa diretta era l’unica soluzione per avere un’edizione portoghese del film, dato che non era possibile fare un doppiaggio in portoghese, in Italia. D – Io l’ho visto in studio, e le parti documentarie sono in italiano…
R – Sì, perché è così nel film in versione originale. D
–
Allora,
ti
chiedo
subito
se
ti
ha
disturbato
il
doppiaggio
di
Tropici
alla
televisione.
R – Non mi sono posto il problema, perché era ovvio che il film sarebbe stato doppiato; nella versione della televisione italiana, mi sembra inevitabile. D – Ma non ti disturba?
R – Mi disturba profondamente, in particolare per questo film,
ma nello stesso tempo lo ritengo un compromesso necessario alla messa in onda del film. Inoltre, se in Italia non si programmano neanche
i
film
sottotitolati
nelle
sale
cinematografiche,
mi
sembra assurdo chiederlo alla televisione. Se vogliamo affrontare seriamente questo discorso, allora occorre ribaltare i termini in questione; si dovrebbero sottotitolare i film di grande successo, interpretati da grandi star, che davvero potrebbero imporre al pubblico
il
sperimentare
gusto il
dell’edizione
sottotitolo
su
di
originale;
un
film
al
contrario,
complesso,
significa
volerlo distruggere. D – Quali sono i mezzi di lotta al doppiaggio?
R – Devo puntualizzare una cosa. Non mi considero a priori contrario al doppiaggio. Trovo che sia profondamente sbagliato doppiare
i
film
completa
del
stranieri,
film,
perché
dialoghi
si
assiste
compresi.
ad
Per
un
quel
alterazione
che
riguarda
invece i film italiani, direi che occorre distinguere caso per caso, perché ad esempio, una grande parte della creatività di Fellini e forse anche di Visconti si esprime nel doppiaggio. Al contrario, un regista come Olmi non gira in presa diretta esclusivamente per delle ragioni tecniche e finanziarie, ma è chiaro che il suo cinema andrebbe realizzato in presa diretta. Di conseguenza, non mi sembra che si possa generalizzare. D – Adesso parliamo de L’inchiesta.
R
–
L’inchiesta
è
un
film
che
ho
girato
in
presa
diretta
esponendomi a dei rischi notevoli, perché i due protagonisti sono stranieri, benché li abbia fatti recitare in italiano, interpretando però due personaggi stranieri nel film: Lei è francese e lui è sudamericano e ciò rappresenta esclusivamente una soluzione di sceneggiatura poiché era mia intenzione utilizzare tanto quegli attori
che
il
suono
in
presa
diretta,
anche
se
in
seguito
ho
doppiato tre o quattro sequenze a causa del risultato non troppo valido della presa diretta nelle scene medesime. Mi sembra che in questo momento esista un problema assai dibattuto circa l’uso della presa diretta, a partire dalla lettera di Jean-Marie Straub a Paese Sera in merito a tale argomento; ebbene, io non condivido questa
posizione
americano
si
sino
può
in
definire
fondo,
poiché
realizzato
neanche
integralmente
il
cinema in
presa
diretta. Dunque il sistema sonoro utilizzato è parte integrante della libertà di cui deve godere il regista, le cui scelte vanno rispettate.
Nel
caso
di
Olmi,
posso
esprimere
un
rammarico
dovuto al fatto che non abbia girato in presa diretta delle opere per le quali tale sistema sonoro avrebbe costituito un perfetto risultato, ma davanti ad un film di Bolognini non penso che l’uso della presa diretta avrebbe modificato sostanzialmente il film. D – Non sono d’accordo, poiché vedo nella presa diretta la realizzazione di un’ epica che
nelle
opere
di
Bolognini
è
assente,
per
cui
lo
posso
accusare
di
una
resa
estetizzante e disturbante delle immagini.
R – Bolognini disturba anche me, ma a causa del suo modo di concepire il cinema, che trovo immorale; tuttavia non penso che in presa diretta si tratterebbe di un cinema diverso, perché ciò che
conta
e
che
non
condivido,
è
la
concezione
morale
di
Bolognini. Di conseguenza, non mi ritengo un integralista della presa diretta, anche perché, come accade nei film di Godard, esiste sempre e comunque un particolare lavoro sul sonoro. D – Tropici è un film didattico sul terzo mondo, anche L’inchiesta si muove in questa direzione?
R
–
Assolutamente,
sono
due
film
completamente
diversi.
L’inchiesta è una storia molto classica, che pone le basi su di un meccanismo di suspense relativo alla ricerca di un giornalista circa un tentato suicidio che ha portato alla reclusione in manicomio di
un
misterioso
personaggio.
Il
film
riguarda
l’inchiesta
del
giornalista un anno dopo lo svolgimento dei fatti. Di fatto mi interessava fare un’esperienza di un cinema più tradizionale. D – Lo hai girato in 16mm?
R – Esattamente, a causa del solito problema relativo al sonoro, perché girare in 35mm con il suono in presa diretta, sarebbe stato costoso. D – Per ciò che concerne la direzione degli attori, esistono differenze sostanziali tra L’Inchiesta e Tropici?
R – Io non dirigo gli attori, ma li considero quali personaggi. L’inchiesta è un film scritto per gli attori, Anne e Joel, ovvero ho delineato i caratteri dei due protagonisti pensando a loro; inoltre, nel caso di Anne, il personaggio è completamente diverso da quelli interpretati negli altri suoi film, ad esempio nei film di
Godard, ne costituisce addirittura l’opposto, poiché nel mio film interpreta una donna borghese, ricca e con dei figli, anche se, allo stesso
tempo,
ritengo
che
il
suo
personaggio
sia
comunque
congeniale alle sue interpretazioni, per cui non c’è stato bisogno di
dirigerla.
attori.
Poi,
Inoltre,
non
sono
sinceramente,
non
proprio credo
capace
al
di
comune
dirigere
gli
concetto
di
attore; ad esempio non esiste Humphrey Bogart in quanto attore, ma
l’uomo
Humphrey
Bogart
che
una
volta
è
detective
ed
un’altra poliziotto, ovvero si tratta di un personaggio collocato in tante situazioni diverse. Non conosco il lavoro che ha svolto con i diversi registi che lo hanno diretto, però l’esito è costituito da un personaggio che è Bogart stesso. Mi è impossibile pensare ad un personaggio senza associarlo ad un attore; ad esempio, in questo momento dovrei dirigere un film con la Bosè e se modificassero l’attrice, cambierebbe il film. Trovo che ogni film a soggetto costituisca un documentario sugli attori. D – Questo è il punto, ogni film è un documentario.
R – In tal senso, purtroppo il problema è costituito dagli attori, che pensano di dover recitare. Esistono chiaramente dei registi che sono dei grandi direttori di attori, vedi ad esempio Visconti, ma si tratta proprio di una diversa concezione di cinema; fra i giovani registi italiani, mi sembra che anche Bellocchio lavori in maniera molto personale con gli attori, diversa da tutti gli altri. I pugni in tasca è soprattutto un film di attori. D – Parlaci adesso dell’importanza del montaggio.
R – Ho realizzato dei film di solo montaggio. Probabilmente non avete visto Appunti, che è un film sul jazz, girato in due giorni, quattro ore di materiale del quale ho montato cinquanta minuti e che, dunque, nasce in moviola. Tale aspetto riguarda sempre il cinema
documentario.
soggetto, decisivo misura
nella e
in
prima
perde cui
si
di
Per
quello
opera
il
importanza
avverte
la
che
riguarda
montaggio nelle
relativa
il
assume
opere
possibilità
cinema un
successive, di
a
ruolo nella
incidere
sul
girato; mi sembra, inoltre, che nel cinema attuale il montaggio abbia perso di importanza, ovvero la funzione che svolge non va intesa nel senso tradizionale. Ad esempio, il senso del montaggio nel filmare dei piani sequenza, risiede nella composizione dei
piani.
Si
è
persa
la
concezione
tradizionale
del
montaggio,
sostituita da un altro sistema di lavoro, creativo ma a livello di struttura del film. D – Abbiamo letto una tua dichiarazione, nella quale affermi che occorre decidere se bisogna chiudere o continuare con il cinema, piuttosto che girare certi film; al momento sei ancora a favore del cinema?
R – Dove l’avete letto? D – su «Cinema & Film».
R – Confermo che pensare ad un cinema indipendente come alternativa, costituisce un errore. La vera alternativa è fare del cinema o fare altro. In sostanza, o si fa il cinema o si fa la rivoluzione,
ma
l’idea
di
un
cinema
rivoluzionario
non
mi
convince. D – Dunque anche il cinema militante…
R – Cos’è il cinema militante? Sinceramente non so cosa sia. Ho lavorato con Godard ne Il vento dell’est (1969), nato come film militante, che a mio avviso costituisce assolutamente un film d’autore. Vorrei trovare questa forma cinematografica, ma ad oggi non mi sembra che qualcuno vi sia riuscito. Dobbiamo spostare il discorso sul linguaggio cinematografico, che anche nel caso di opere dichiaratamente politiche, come il pessimo Z (1968) di Costa-Gavras,
costituisce
la
formula
più
tradizionale
e
più
ruffiana, che usa ogni espediente per catturare il pubblico in un certo modo. D – Questo vale anche per Pontecorvo.
R – Non è che valga solo per Pontecorvo, ma anche per certi film sul maggio francese o film come Easy rider, che ha dato origine ad un filone di successo. Si adopera un meccanismo spettacolare, dove
il
pubblico
reagisce
come
si
conviene
ad
una
tale
impostazione e, magari, le produzioni hanno scoperto che oggi il pubblico desidera vedere gli scontri tra studenti e polizia, come un tempo partecipava emotivamente alla lotta tra cow-boys ed indiani. Mi sembra che l’equivoco su questi film sia davvero mostruoso. D – Credi che il cinema sia inutile per la lotta rivoluzionaria?
R – No, al contrario penso che il cinema sia importantissimo per
la
rivoluzione,
ma
sono
autori
come
Bresson
o
Straub,
che
modificano direttamente la realtà, o le opere che provocano un certo tipo di rivoluzione culturale, ad incidere concettualmente. Il cinema può svolgere un ruolo importante per la rivoluzione solo
attraverso
il
cammino
dell’estetica.
Per
coloro
che
appartengono alla mia generazione, sono fondamentali le cose che hanno imparato dal cinema di Rossellini, è un atteggiamento nei confronti della vita che va al di là di ciò che appare sullo schermo. D – Il cinema italiano, inteso come cinema di falso impegno politico, ti ha forse suggerito di girare Tropici in Brasile, e, di conseguenza, di entrare a far parte del cinema brasiliano?
R
–
No,
ribadisco
che
ritengo
Tropici
un
film
italiano
ed
oltretutto completamente diverso dal cinema che si produce in Brasile. È un film che ho girato in Brasile, poiché mi interessava realizzare un film in questo paese e ad un certo punto ho avuto l’opportunità di farlo. Tuttavia, mi sembra evidente che sia un film girato da uno straniero, perché vi si trovano un distacco ed un pudore che ovviamente un regista brasiliano non può avere. Inoltre, il fatto che il film piaccia di più in Brasile che in Europa è probabilmente dovuto al maggiore impatto che la realtà ed i problemi posti nel film comportano per il popolo brasiliano, che li conosce direttamente. Trovo
che il
film sia completamente
diverso, dal punto di vista stilistico, dal cinema brasiliano; in particolare ho sentito l’esigenza di girare con il carrello, cosa estranea
ai
registi
brasiliani
che
girano
normalmente
con
la
macchina a mano e, se questo fatto può apparire esterno alla natura del film, ritengo invece che riveli il diverso approccio che avevo con la materia trattata. D – Non parlo tanto del fatto di ritenere che il tuo film appartenga al cinema brasiliano, ma di una tua precisa volontà di entrare a far parte di quell’ambiente, magari per una certa simpatia.
R
–
Mi
sembra
veramente
che
importante
in
questo
nel
momento
mondo,
ciò
succede
che
accade
lontano
da
di
noi,
magari nel Terzo mondo, a Mosca o a New York. Davvero mi sembra di vivere alla periferia di tutto; con questo non intendo che
in
Italia
non
succedano
cose
estremamente
importanti
e
posso appassionarmi ai problemi italiani, ma tutto ciò non è
sufficientemente fondo,
si
stimolante
avverte
personaggio
tutto
al
punto
questo
latinoamericano
da
anche
girarvi
ne
interpretato
un
film.
L’inchiesta, da
Joel,
In
dove
il
rappresenta
l’elemento più ispirato del film. D – Ritornando a Tropici, ci è parso di sentire, durante tutta la prima parte del film, una
distanza
dei
personaggi
dalla
macchina
da
presa,
mentre
successivamente,
abbiamo avvertito un graduale riavvicinamento nei confronti degli stessi personaggi; tutto questo è dovuto al fatto che sei uno straniero che gira un film in Brasile?
R – No, in realtà Tropici è un film girato in senso cronologico per ragioni di produzione, ovvero il film è stato realizzato seguendo il viaggio
del
camion.
Dunque,
giorno
dopo
giorno
il
film
ha
trovato il suo stile ed una sua dimensione precisa; ritengo che tale elemento costituisca un fatto positivo nel film, perché esso cresce progressivamente, liberandosi dalla timidezza iniziale. D – Il titolo Tropici è stato suggerito da qualcosa in particolare?
R – Il film è nato perché mi sono recato in Brasile per girare un film ispirato ai Tristi tropici di Levy-Strauss; successivamente, sul luogo ci siamo resi conto da un lato delle difficoltà produttive che avrebbe comportato la realizzazione di un film seriamente incentrato sugli Indios e dall’altra di come il Indios
sia
relativamente
importante
nei
problema degli
confronti
della
realtà
brasiliana, molto complessa. Di conseguenza, si era pensato di realizzare un film diviso in due parti: La prima incentrata sugli Indios e la seconda sul Brasile più in generale, fissando certe analogie; successivamente, di questo film è stata girata soltanto la seconda parte e Tropici è un titolo trovato durante la lavorazione e
che
non
ho
modificato,
poiché
mi
sembrava
valido
nei
confronti dell’immagine tradizionale. D – Parliamo invece del tuo Appunti per un film sul jazz, di come è nato e di che progetto rappresenta.
R – Appunti per un film sul jazz è un film nato come reportage del festival di Bologna, se non ricordo male del ’65-’66 e da una serie di problemi tecnici relativi alle macchine da presa, a causa dei quali ho realizzato un film diverso da quello che avevo in mente
inizialmente.
sequenze,
che
In
definitiva,
costituiscono
ho
davvero
annotazioni sulla musica e sui musicisti.
montato degli
solo
appunti,
alcune delle
D – Ed è girato in diretta?
R – Sì, certo. D – Che importanza riveste per te il pubblico? Esiste un pubblico particolare al quale ti rivolgi?
R – Ritengo che oggi vi sia da parte mia, ma anche di amici come Bernardo (Bertolucci ndc) e Glauber (Rocha ndc), una rivalutazione del pubblico. Rispetto al passato, pensiamo che il pubblico
sia
importante,
addirittura
che
costituisca
il
motivo
principale per il quale girare un film; se un film non raggiunge il pubblico,
in
fondo
è
un
film
fallito.
Non
comprendere
l’importanza del pubblico rappresenta un grave errore da parte nostra. Tutto, evidentemente, trae origine dalla Nouvelle Vague; si tratta sostanzialmente della presa del potere di un gruppo di registi sul cinema francese. Oggi, anche se Truffaut e Chabrol continuano a soffrire questo potere, mentre Godard è deciso a rinunciarvi,
tuttavia
sono
arrivati
al
potere.
Abbiamo
sottovalutato tale importante aspetto e ciò è avvenuto, a mio parere, tanto in Italia che negli Stati Uniti ed in tutti i paesi dove si è avvertita intensamente la forza della Nouvelle Vague. Si è pensato di poter fare cinema senza tenere conto di un pubblico cui destinarlo. I risultati sono costituiti dai film estremi di JeanMarie (Straub ndc) ed anche da un’opera come Tropici, se fosse un
film
nato
per
il
cinema,
ovvero
da
film
che
si
negano
completamente al pubblico, che non tentano in alcun modo di comunicarvi,
non
concedendo
assolutamente
nulla
e
provocando, di conseguenza, un isolamento da parte dei registi che risulta sempre più accentuato, per cui oggi, anche se può apparire come un’etichetta, in realtà Straub rappresenta davvero un regista underground. Trovo che tale atteggiamento
sia allo
stesso tempo masochistico ed aristocratico; ad un certo punto, per
una
sacrificato questo
forma tutto
di
rigore
quanto;
momento
estetico al
occorrano
fine
contrario, opere
a
se
sono
pensate
stessa
abbiamo
convinto per
il
che
in
pubblico.
Questo non significa, ovviamente, che si debbano produrre opere conformi al gusto del pubblico, ma che sia necessario imporre al pubblico il nostro punto di vista, che equivale ad un’operazione di presa del potere. Non dico che Straub debba modificare il proprio cinema, soltanto occorre trovare la maniera di imporre
tale cinema al pubblico. In realtà, grazie al nostro cinema, ci siamo costruiti un ghetto ed il Filmstudio, o la Cineteca che intendete realizzare, costituiscono certo iniziative opportune per vedere film davvero rari, ma in realtà rappresentano altrettanti ghetti nei quali ci illudiamo di gestire il nostro cinema. Si tratta di una masturbazione mentale senza senso e di un’illusione della quale anche io mi sono nutrito per anni. D – Ma se l’autore non vuole rinunciare…
R
–
Non
voglio
assolutamente
rinunciare
agli
elementi
che
ritengo necessari nel fare cinema, tuttavia, allo stesso tempo, mi chiedo se il rigore estetico, magari inteso come un’attenzione costante ai piani sequenza, non costituisca una sorta di nevrosi o davvero
rappresenti
un’esigenza
fondamentale;
certo,
non
si
spiegano le tante imitazioni del cinema di Godard realizzate in giro per il mondo, se non a causa di una notevole mancanza di immaginazione. Aggiungo che gli unici film davvero straordinari che ho visto in questi ultimi anni, appartengono ancora alla vecchia
guardia,
costituita
da
Buñuel,
da
Bergman
e
da
Rossellini. I film dei giovani registi sono assolutamente pessimi, fatta
eccezione
per
le
opere
di
Garrel,
le
cui
prime
prove
rappresentano veramente qualche cosa di nuovo e di originale. Tutte le altre opere costituiscono esclusivamente delle imitazioni. D – Il fatto di lavorare per la televisione, può rappresentare per te una soluzione al problema della ricezione del pubblico nei confronti del tuo lavoro?
R – La televisione costituisce una soluzione nella misura in cui impone al pubblico il tuo prodotto, ma è una soluzione che riguarda allo stesso modo tanto un film valido che un pessimo film; sei consapevole che un certo pubblico vedrà il tuo film e questa è certo una consolazione per il tuo impegno, però non puoi
convincerti
del
fatto
che
il
tuo
film
catturi
davvero
il
pubblico, è un rapporto completamente diverso quello fra lo spettatore e lo schermo televisivo.
Intervista a
CARMELO BENE D – Lei ha detto di non voler parlare di cinema, questo significa anche non voler più fare film?
R – Non è questo il problema. Non voglio parlare di cinema. D – I suoi film, che sembrano esistere per se stessi, non ispirati ad altro che si è visto nel cinema, come si legano alla sua esperienza teatrale?
R – Non è una decisione. Non c’è un senso. È un po’ tutto. Prima di fare teatro scrivevo romanzi. Quindi già il teatro non era la mia prima cosa. D – Il Carmelo bene regista come dirige il Carmelo Bene attore?
R
–
Vale
quel
che
ho
risposto
prima.
Questo
è
il
problema
dell’uovo e della gallina. D – Lavora seguendo una sceneggiatura?
R – Qui parliamo di cinema. Ho detto che di cinema non parlo. In tutti i modi non è una legge, come capita. D – Lei si è definito un ‘arabo’; noi che la consideriamo il più italiano dei registi, desidereremmo una spiegazione.
R – Ditemi voi perché mi considerate il più italiano dei registi… non credo e nego assolutamente che nei miei film ci sia l’Italia. I film sono niente, sono pellicola impressionata. Dov’è l’Italia? La pastasciutta è italiana? Ne ho mangiata dell’ottima a New York. La pastasciutta è cinese, l’ha importata Marco Polo dalla Cina. Verdi è italiano per sbaglio. D – Le piace Verdi?
R – Moltissimo. D – In Capricci, in cui non è il quadro che deve assomigliare alla modella, ma la modella al quadro, c’è forse il suggerimento al pubblico di rendersi simile al film e non di ricercare nel film qualcosa che gli assomigli?
R – Quello che volete. D – Il suo prossimo film crede di realizzarlo in presa diretta o preferirà il doppiaggio tanto amato in Italia?
R – Non ne ho idea. Potrà essere muto. D – Sta girando un film attualmente?
R – No, ne sto preparando sei. D – La musica operistica, la paura del peccato, i valori pseudo-estetico-intellettuali e i vari aspetti del costume italiano su cui lei sembra voler satireggiare, crede di avvicinarli con una certa obiettività o scaturiscono da lei come una specie di grottesca autocritica?
R – È tutto sbagliato. Il film non è stato capito. D’altra parte dal pubblico non voglio niente e soprattutto non voglio pubblico. D – Se non vuole pubblico perché far distribuire un film e non vederselo a casa propria?
R – Il cinema è un’industria e questo mi trascende. Io li faccio distribuire in maniera alquanto fallimentare, se pensate infatti che quello è un circuito d’essai… D – Non crede che ciò dipenda dal pubblico oltre che dai distributori che non vogliono arrivare in periferia?
R – No, il pubblico non li vuole vedere nemmeno in centro. Quando finisco un film entra in me una seconda persona che non sono più io. C’è un prodotto che è costato tot, allora bisogna scegliere tra il carcere e la sala cinematografica. D – Se a lei non interessa il pubblico, quando fa un film lo fa per sé?
R – Il pubblico non mi interessa assolutamente, ma non è esatto il resto. I film non si fanno mai per se stessi. Li faccio per due, tre amici sparsi nel mondo. Morti, può darsi. D – Ma questi amici sconosciuti, per quanto poco numerosi, rappresentano il suo pubblico…
R
–
Per
la
S.I.A.E.
(Società
Italiana
Autori
Editori,
ndr)
un
consesso di pubblico è pubblico, se supera le sette persone. D – Lei ama sentirsi malato, corazzato, fasciato, sdoppiato, sanguinante?
R – Non sono autolesionista. D – Si considera il Jerry Lewis italiano?
R – No. Perché sono io e non Lewis. D – Lei vuole far divertire, far ridere questi tre, quattro amici sparsi nel mondo?
R – Non mi pongo certi problemi. Io faccio vedere le cose. Poi
sono fatti miei. D – Lei si considera nato o creato?
R – Volete sapere se credo in Dio… D – No. In genere, come attore, come regista…
R – Non so, insomma… Morto! D – Esiste il “sacro” per lei?
R – Voi. D – Lei sembra usare ciò che di più disgustoso ci sia nella natura umana nella maniera più dissacrante, più violenta, brutale e oltraggiosa, e almeno in parte sembra compiacersene; c’è qualcosa nella realtà che ancora la ripugna?
R – No. Purtroppo. D – Lei usa la morfina per le sue ferite o si sente invulnerabile?
R – Proprio non mi pongo il problema. D – Molti hanno affermato che Nostra Signora dei Turchi, che è un capolavoro di autenticità, novità, originalità, sembra contraddetto e demolito da Capricci, un film pretenzioso, arrivato sugli schermi con qualche anno di ritardo…
R – Chi l’ha detto questo? D – Per lei ha senso parlare di film politici o impegnati politicamente?
R – Per me non ha senso parlare di cinema. Figuriamoci di politica! D
–
Lei
ha
detto
all’incirca:
‘dimenticate
Chaplin,
Godard’….
Questo
suo
imperativo è basato sulla dialettica, sull’ignoranza o sulla sfiducia?
R – Sulla fiducia in me stesso, cieca. D – Non c’è forse un ritorno al sentimento quando lei dice: ‘faccio i miei film per tre, quattro amici sparsi nel mondo’?
R – Questo è un mio fatto privato, potrei essere tenuto a non rispondere un’opera
a
questa
che
poi
domanda.
pubblica,
È
da
ovvio
quel
che
chiunque
momento
è
un
faccia uomo
pubblico. È inutile cavillare sul fatto che io possa dire che faccio i film per me, o che non li faccio per me, sono sciocchezze che vanno
sempre
quindi
basta.
evitate. Ciò
Il
non
film toglie
è
nato
che
per
possa
essere restare
distribuito un
fatto
e di
solitudine, cioè che possa essere qualcosa di inaccessibile, la cui ricerca
sia
nell’inaccessibile,
cioè
nel
vero.
La
verità
è
inaccessibile. Ma questo discorso non vale per il cinema, vale soprattutto per la poesia. Allora basta, non si può parlare di cinema. Qui neanche vale più ‘fa i film per sé o per gli amici’… altrimenti si risponde malamente, si risponde in senso sbagliato, come posso fare io, piuttosto
che
rispondere
esattamente
che
sarebbe
altrettanto
sbagliato. È qui il problema. Anche i «Cahiers» hanno tradotto le mie intenzioni come desiderio di riconquistare il sentimento. Le interviste sono tutte errate. Scusate, ma sono fuori
luogo. Si
trattano due opere come si parla di due film. Si fa ancora del cinema. Vi parlo in tutta franchezza, il metodo dell’intervista è erroneo, è da rifiutare. Poi io avevo preso una decisione tacita tra me e me: che chiunque avesse capito Capricci, con quello non avrei parlato. D – Perché si considera ‘arabo’?
R – Non ve la levo questa curiosità. Se ci fosse qualcosa di preciso dietro,
questo
sarebbe
un
mio
fatto
personale.
Posso
forse
dichiararlo, ma non sono tenuto a spiegarlo. Ritornando ai motivi non italiani nei miei film: in Capricci c’è una pagina di Roland Barthes sulla cucina, e Roland Barthes è un francese; la trama di Capricci è pari pari a Arden of Faversham, anonimo elisabettiano inglese. Come vedete tutto il copione è inglese. Che cosa c’è di italiano, io non lo so. In Nostra Signora dei Turchi di italiano cosa c’è, la polemica con la Chiesa? Non c’è polemica con la Chiesa. Se per voi tutto quello che è italiano è simpatico… Guardate i signori tedeschi, che amo molto per altre vie, tutti i loro viaggi in Italia sono viaggi sprecati! Ditelo! Tutti, da Goethe in poi non hanno mai indovinato un viaggio. Un turismo spropositato, non è vero? Anche perché l’Italia non esiste. C’è della gente convinta di fare il cinema perché fa dei film, io non faccio del cinema per fare dei film, questo è il punto importante. D’altra parte, se uno trova italiano
ciò
che
faccio,
fa
già
un
errore
talmente
di
base,
aprioristico, che dopo è impossibile qualunque discorso. D – Noi abbiamo precisato: italianità nella scelta degli oggetti.
R – Gli oggetti possono anche essere italiani, ma sono pochi. La
paura del peccato è occidentale, non italiana. Se in Nostra Signora dei Turchi balena anche lontanamente la paura del peccato, vuol dire non aver capito. Se lì qualcosa manca, manca il peccato. Se quello che si rimpiange in Nostra Signora dei Turchi (c’è nel libro, ma è citato anche nel film) è che non ci sono né ingiustizia né nemici, che si rimpiange una barbarie assente, cioè che non si può
essere
occidentale
matti, senza
il
peccato
peccato.
è
scongiurato.
Adesso
abbiamo
È
la
le
prima
opere,
opera
pensate
come hanno parlato di gente non letta gli agiografi, i critici. Siete tutti fuori strada, lo dico molto amichevolmente. Intervistare un uomo,
significa
significargli
il
massimo
del
disinteresse.
Assolutamente. D – Se le opere sono state e sono in tutti tempi male interpretate, ha senso che in questo caso ci siamo rivolti all’autore.
R – Avete qui un altro autore, non avete l’autore di quelle due opere. Quello è il problema. Un autore che parla è un’altra cosa. È un autore che vede altre cose e che potrebbe interpretare quelle nel futuro, delle altre che ha sottomano da fare. Sono due oggetti completamente al di fuori di me. D’altra parte, una cosa che bisogna riconoscere a quei due film è che sono obiettivi, nel senso che non vogliono commuovere, che non prendono il pubblico, quindi c’è già il distacco. Figuriamoci ora
che
sono
finiti
da
anni.
È
questo
il
discorso,
che
io
vi
mentirei, parlandone. Non si può parlare di una cosa fatta. … Ma non c’è satira, la satira è banale, e da esseri mediocri. Io non farei mai una satira. Le satire le facciano i Cabaret. D – Le è giunta la voce che molti hanno trovato motivi godardiani in Capricci?
R – Dov’è Godard? La moglie? ‘La moglie’ è una persona che non esiste; perché tutti i criticuzzi italiani o stranieri dicono ‘la signora Godard’? perché come ente non esiste? Io non l’ho scelta perché
è
la
moglie
di
Godard…
perché
non
citare
Fellini
o
Pasolini, che prima di me in Capricci hanno usato Davoli… D’altra parte trattare della società di consumo, come fa Godard, è un compito da vigile urbano che non m’interessa. D – La protagonista di Capricci, che prepara certe ricette, non è anche lei succube di una società consumistica dove la pubblicità spadroneggia?
R – Questo aspetto è mescolato con un altro discorso, che è il È
fatto importante. Anzi a una catena di discorsi. È un melange quella scena lì, non si deve puntare su una cosa sola. Bisogna vederla quindici o trenta volte la sequenza della cucina di “Elle” per
poter
afferrare
tutte
le
sfaccettature;
io
le
ho
vissute
diversamente tutte le volte. La gente, i cretini dicono che siccome ci sono macchine che si scassano, quello è Godard, perché ricorda Week End. Tutto l’episodio che riguarda le automobili in Capricci è stato concepito da me in un’opera che si chiamava Manon, da me
scritta
nel
1959-1960,
edita
dall’editore
Lerici
nel
’62
e
rappresentata da me in teatro qui a Roma e a Napoli nel ’63-’64. Godard in quel periodo non aveva girato Week End, i film di cui parlate
voi
non
erano
ancora
venuti
fuori.
Le
date
possono
cancellare ogni sospetto. Poi non vedo che male ci sia pensare ad altro… perché no? Se pensate alla musica ve lo consento, se pensate al cinema, ve lo proibisco. Vi faccio un altro esempio, che potrebbe sconsacrare tutto quello che dite a proposito dei motivi italiani. La scena del frate in Nostra Signora dei Turchi è una teoria sulla solitudine. Ora nessun occidentale che non sia un russo vissuto a Parigi o suicidato a Venezia, avrebbe potuto concepire una scena dove gli spaghetti sono
un
modo
di
confondere
le
cose,
ma
non
un
modo
di
italianizzarle. Confonderle, renderle inaccessibili. Invito tutti a rileggere l’Uomo Nero di Esenin. Gli italiani non si sono mai buttati sulla tesi della solitudine. Nostra
Signora
dei
Turchi
è
il
contrario
dell’Italia.
Se
voi
mi
diceste vedo l’Uomo Nero, vedo Les Possédes, vedo Dostoevskij, vi capirei, anche se non è così. La Germania sì, c’è. C’è Hegel, c’è Rilke, c’è Hoffmansthal, ci sono tutti, tranne Goethe che è un coglione. Ma non c’è niente di italiano. D – Ma lei è nato in Italia, vive in Italia…
R – No!!! Cosa vuol dire nascere in un paese dove passano le capre dalla mattina alla sera… anagraficamente io sono nato nel punto più a sud dell’Italia, in un villaggio dove si parla greco, dove non esiste la lingua italiana, nemmeno lontanamente. Non capisco che cosa abbia a che fare io con l’Italia. In quanto ad abitare in Italia… perché ho un pied-à-terre a Roma? Ne ho un altro a Firenze, un altro a Mosca, uno a New York, un altro a Parigi. Che me ne frega di vivere a Roma, ho delle suites in tutto
il mondo. Nascere in un paese dove si vedono passare solo le capre non è più Italia, può essere la Mancia. Sono
nato
in
un
bel
villaggio
sprofondato,
da
dove
si
vede
l’Albania a un passo. Puglie, giù giù, dove finisce l’Italia. Paese che non mi piace assolutamente, dove torno quando voglio. Non come Raskol’nikov. D – L’unica maniera di parlare con lei o con altri autori sarebbe di comunicare alla nascita dell’opera… poi basta.
R – Altri autori non ce n’è, scusatemi. Poi anche in quel caso, io potrei dire cose che non c’entrano; siccome amo contraddirmi, posso cambiare idea un attimo dopo su quello che ho detto un attimo prima. L’opera non fa questo gioco, soprattutto nel teatro, ma il cinema lo fa. D – Per lei e con lei che cos’è parlare, dunque?
R – Niente. Significa aprire la bocca e dire parole. Inutile. Avere delle idee o scambiare delle idee è un’altra cosa. La cosa che non va è fare delle domande precise; potete andare da altri, che beati loro hanno delle risposte precise o fingono di averle. D – Se non c’è il diritto di parlare, di chiedere, c’è però il diritto di amare una persona.
Vedere
un
film
è
anche
amare
chi
lo
ha
fatto
e,
magari
da
lontano,
comunicare con quest’autore.
R – Certo, sono d’accordo. Non ho nulla in contrario. Penso anch’io così. Amare quindi può essere scambiare delle idee, non delle
parole.
Un
poeta
sceglie
la
poesia
perché
è
l’arte
della
sintesi; ora un verso si scrive in un mese, in due mesi… chi ha questo
gusto
della
sintesi
rifiuta
le
parole
a
tavolino,
perché
indubbiamente ha il gusto della selezione. In sostanza: voi mi fate una domanda, io ci penso un anno e mezzo, pubblico in un volume la risposta… allora sì. Parole, oppure mestiere. È lì il problema. Io sono un poeta scrupoloso. E poi tra le persone possono esserci solo compromessi, mentre quando un’opera è finita
non
un’opera
può
più
d’amore
essere è
il
compromessa. contrario
Allora
dell’amore:
diremo
che
pienamente
d’accordo. Allora si arriva ad un discorso sull’amore, ma non lo facciamo perché è duro… D – Se la poesia è l’arte della sintesi, la vita non lo è…
R – Il guaio è della vita. Perché se l’autore fosse morto, sarebbe un’altra cosa. Io amo Raffaello, ma non parlo con lui perché è morto.
Ogni
momento
autore
che
è
dovrebbe
stato
essere
autore.
considerato
Questo
è
il
morto
dal
punto.
La
contemporaneità, la sopravvivenza dell’autore alla propria opera dà adito al giornalismo, e soprattutto dà adito all’equivoco. Ma non ingannate me, perché anche io inganno voi. È reciproco, e l’amore che cosa è se non inganno? Bisogna rinunciare a questo tipo di amore per crearsene uno mistico, un altro tutto proprio, di responsabilità propria, di fede. Come amare un morto, è così che si ama un autore. D – Che cosa significa per lei essere autore?
R – Morto! D – Essere stato morto?
R
–
Esatto!
Ma
siccome
non
credete
alla
risurrezione…
E
comunque in questo momento io non sono quel morto risorto, sono
un
Nostra
altro.
Signora
un’altra
Perciò dei
persona.
voi
non
Turchi
O
io
o
sono
state
di
parlando
Capricci,
con
l’autore
state
parlando
di
sostituzione
responsabile
di
con di
persona o voi avete sbagliato indirizzo. Non dico queste cose come
le
dicono
molti
autorucoli
di
cinema,
che
siccome
nascondono un gran vuoto cercano di evadere dalle cose così, giocando. No! Ve lo dico con la massima coscienza. D – Lei proprio non stima nessun regista cinematografico…
R – No, no, non vado mai al cinema, mai andato, non ci andrò mai. D – Lei ha detto che ognuno può prendere una macchina da presa e fare un film. Per lei esiste la possibilità di esprimersi artisticamente nel cinema?
R – Nel cinema come con una macchina da scrivere, con una tela, come con i colori, come con il teatro. È una scelta, però il cinema comporta più compromessi, più capitali economici. Poi non
c’è
meditazione,
dall’elettricista
che
perché
si
bestemmia,
è
circondati dall’altro
da che
una
troupe,
va…
Vari
inconvenienti che non si hanno quando si lavora in una stanza, a comporre musica ad esempio. Nel cinema c’è un falso lavoro d’equipe
perché
l’
“equipe”
non
collabora,
comporta
tutti
gli
svantaggi del sindacalismo. Quindi non si può parlare di autori cinematografici, perché se giustamente Pasolini è un autore, non lo è grazie al suo cinema né grazie alla sua persona, ma alla sua voglia schopenaueriana d’artista. D – Dove metterebbe allora John Ford, che è autore in quanto cineasta, nato nel cinema, legato al cinema…
R – Stia al cinema! Io lo metto al cesso. Voi mettetelo su un altare, per me è lo stesso. A me il cinema non interessa. D – Però ci sarà qualcuno che ha parlato con lei di cinema, perché qui c’è qualcuno che sembra rispondere come se fosse lei (alludo ad un conoscente di Carmelo Bene seduto per invito dello stesso Bene con noi, ndr). Allora ne ha parlato con lui dei suoi film, o i film stessi gli hanno parlato un linguaggio tanto chiaro che può rispondere al posto di Carmelo Bene?
R – Siamo diventati amici in seguito a delle cose. Primo perché non
mi
ha
mai
fatto
intervista;
secondo
perché
quando
l’ho
conosciuto, questi problemi erano già stati superati sia da lui che da me; terzo, per analogia. D – Lei sembra voler rifiutare tutti i registi che arrivano al cinema attraverso il cinema, e salvare quelli che, ad esempio, vengono dalla letteratura.
R – Non rifiuto niente a priori, ho detto che non ne conosco, che non ce ne sono stati. Perché no? Potrebbe venire domani un Rimbaud del cinema. Comunque il cinema ha tanti difetti che anche un poeta perderebbe forza, non ne guadagnerebbe. Ripeto: l’importante è considerare morti gli autori di un’opera. Perché sono fuori da quell’opera o perché sono autori di altre cose che stanno
pensando,
quindi
non
possono
dare
nessuna
delucidazione sull’opera fatta. La morte dell’autore è la prima cosa, per cui i miei prediletti autori, in pittura, in musica, sono tutti morti. Se io domani amassi un contemporaneo cercherei di non incontrarlo. D – Ma dietro l’autore, con l’autore, c’è l’uomo che interessa.
R – Se mi interessa l’uomo, non m’interessa per parlare delle opere che ha fatto, ma tutt’al più per conoscerlo, amarlo, andarci a letto, bere assieme, parlare delle opere future, stabilire delle eventuali collaborazioni. Mai per le opere già fatte, perché per quelle
opere
lui
è
morto.
Questo
è
il
mio
ragionamento
e
chiunque vi risponderà, mentirà sempre. Vuol dire che quello che
ha fatto non gli è costato niente. Tutto falso. Poi l’uomo è peggio dell’autore.
Interessarsi
all’uomo
perché
è
vivo
depone
male,
allora preferisco la donna che è mortale. D – Potremo parlare un po’ dei film che sta preparando?
R – No, perché non siamo abbastanza amici. D – Non potendo incontrare l’autore perché morto, è concepibile per lei voler rintracciare il dove, come, quando è vissuto quell’autore?
R – No, scherziamo. Il viaggio non esiste. Io amo Rilke a patto di non averlo mai conosciuto, a patto che sia morto, a patto di non vedere Monaco. Il giorno che vedrò Monaco e la casa dove è nato non lo amerò più. D – Per amare Carmelo Bene, bisogna per forza non conoscerlo?
R – Io posso amarlo. Il fatto è che se divento simpatico io, voi tradite il giudizio sulle mie opere. Per me lo sbaglio è solo quello che dicevo prima, parlare con me a proposito di quelle opere. È il metodo. In fondo io parlo con voi non chiedendovi quello che avete fatto prima; non ho domandato a lei, a lui, a lui, ieri dove eravate. No, stiamo parlando così. D – L’autore come “colui che aumenta”, utilizzando la sua arte, potrebbe?
R
–
No!
Un
potenziamento
del
patrimonio
artistico
è
un
potenziamento dell’inutile. A meno che non renda denaro… D – Ci sono stati degli autori utili a se stessi, autori che hanno usato una tela, delle note, una macchina da presa come una psicoterapia, per esempio.
R – Va bene, se io per esempio con una carta da diecimila lire ci vado al cesso, perché non c’è altro, la uso per il contingente; però è l’uso peggiore che possa fare di diecimila lire. D – Le diecimila lire sono potenzialmente utili ed è un peccato farne un cattivo uso, se l’arte non è inutile, il paragone non regge.
R – L’arte è utile in questo senso. Se mi viene tirata contro una sedia
io
posso
usare
un
quadro
di
Raffaello
come
scudo
e
ripararmi con questo. Così posso evitare un sasso con la Notte di Michelangelo. Si può prendere Paolo Uccello, tingerlo di rosso e poi dire che quell’arte è comunista. L’utilità non ha limiti, io posso prendere dei Della Robbia e farmene un bel bidet. Questa è l’utilità dell’arte. Quando si montano i film in moviola si usano
le bande, cioè si prende una pellicola di 35 montando in 16, si taglia in due e si risparmia così la coda bianca ferrania o Kodak che costa molto di più. Ecco un modo di risparmiare, per un altro film. D – Allora vogliamo fare sempre film?
R – Per utilizzare la pellicola il modo migliore è questo: usare la mezza banda. Sono dei consigli pratici. D – Lei gira il mondo, se gli autori sono morti, i paesi non sono morti…
R
–
In
tutti
i
posti
dove
sono
stato,
non
sono
mai
uscito
dall’albergo. Non perché mi piacciano gli alberghi o me stesso, perché in albergo visito il paese. D – Chiudere la porta di una camera d’albergo non è forse chiudere la porta alla vita?
R – Io direi di chiuderla per non farla uscire. Qualcuno ha detto: “In quanto a vivere i nostri servi possono farlo per noi”, e aveva ragione. Credo ai servi perché credo alla vita, finché vivono mi stanno benissimo. D – Le piace esprimersi per citazioni?
R – Io cito cose che potrebbero essere mie. Solamente per ragioni di sintesi dico ‘l’ha detto tizio’; così, per confortarvi, perché non sia sempre lì a parlare. Quando faccio l’arte so quello che voglio, quando sono al tavolo so quello che voglio. Allora è questione di non esprimersi. D – Lei ha o dà fiducia in un amico?
R – La seconda. Dò fiducia. D – Che cosa rappresenta per lei un amico?
R – Un’elezione, una scelta. L’amore non è una scelta, è una cosa meravigliosa. D – Che pensa dell’idea di avere a Roma una cineteca, dove finalmente la visione di film sia accessibile a tutti…
R – Un cimitero di autori morti. Il cinema è nato come cattiva imitazione della letteratura. Io trovo che il tempo che uno dedica a vedere un film di Eisenstein, sarebbe meglio usato per rileggere Puškin, perché si trova di più e di meglio. Eisenstein è la brutta copia di certe cose di Puškin. Perché rifiutare di vedere il bello
per vedere il distribuito, il contemporaneo? Joyce ha fatto in Ulisse il più grande esempio di montaggio, a cui nessuno era mai arrivato. Noi non abbiamo una vita longeva per leggere tutta la biblioteca di Alessandria completa che ci è rimasta. Ogni ora tolta ad un libro, a certe altre meditazioni, a un bicchiere di vino, e data al cinema è sprecata. Con i tempi che corrono,
con la potenza della distribuzione
dell’Iris International, succede veramente che la gente non legge più. Ci sono persone che non leggono Omero e vanno a vedere un film di Godard. Ma è assurdo, signori. State attenti, Nostra Signora dei Turchi è un’eccezione non perché l’ho fatto io, ma perché è la prima volta che si rompe col cinema. E si può vedere Nostra Signora dei Turchi, veramente, come leggere Le Bateau ivre. Non ho detto che Nostra Signora dei Turchi valga Le Bateau ivre, no, per carità, anche perché non amo i confronti. Ma al cinema vedrete sempre un sottoprodotto della letteratura passata. D – Conosce i film di Griffith?
R – Perché devo andare a vedere un film di Griffith, quando tutto
parte
da
Kerouac.
L’informazione
è
giornalismo,
non
è
cultura. Freaks di Tod Browning è l’unico film che è un’opera d’arte. Perché vi ostinate ad andare al cinema quando sapete che Kandinsky, Klee, hanno fatto di più, quando sapete che Picasso ha fatto di più. Vuol dire rinunciare. Perché costringersi a questa letteratura da fumetto, da abc, da rotocalco. Non vado al cinema perché so che è un sottoprodotto. D – Non crede che sia incoerente voler giudicare ciò che si dichiara di non aver mai conosciuto?
R – Non c’è bisogno.
Allora voi
pensate che elementi
come
Proust o Joyce abbiano letto tutto quello che era stato scritto. No, erano dei geni che hanno avuto la fortuna di leggere le cose indispensabili, applicazione,
di di
dividere
lettura,
per
il
loro
caso
tempo
pescando
di
ad
cultura,
intuito,
di
chissà
come, come Shakespeare, le cose indispensabili. Invece questa dispersione ai danni dell’arte, cioè dell’espressione, per inseguire il cinema, è assurda. D – Ha detto di essere l’unico autore…
R – Sì, perché sono il solo sul quale potrei avere un dubbio, il
solo capace di incertezze. D – Dunque crede che nel cinema ci sia ancora molto da fare.
R – Non a partire dal cinema; se poi per caso troviamo un film il cui autore sia un’artista, sarà un caso su un miliardo. Non vale la pena perdere delle ore, è meglio vaneggiare con un bicchiere di vino, è meglio andarsi a documentare. Per me andare al cinema significa
non
vivere.
Madame
Bovary
di
Flaubert
e
Madame
Bovary al cinema sono due cose completamente diverse, il primo è arte, il secondo è merda. Il cinema scopre il neorealismo cento anni dopo la morte del neorealismo in tutte le arti. Se voi pensate a quanto è stato fatto nella musica, per chi ha orecchie per la musica, orecchie per vedere
con
la
musica,
come
vi
potete
adattare
ai
film
di
Eisenstein, il cui estetismo è vuoto. D – Nostra Signora dei Turchi è uno dei pochi film dove ci sia tanta musica, come in Ivan il Terribile…
R – Parliamo di Eisenstein e parliamo già di un peccato estetico. Sono
convinto
(diffido
della
che
esistono
pittura,
per
nella
letteratura,
altri
motivi…
in
certa
pittura
per
quella
sarà
contemporanea…), nella musica, tante chiavi per trovare la vita. Succede che per il 99 per cento il cinema sta scimmiottando come una scimmia l’uomo, tutte le esperienze che in letteratura, in
pittura
dal
tempo
dei
Fenici,
sono
state
già
esautorate,
consumate, esaurite. Perché cercare un “caso” cinematografico. Io vorrei darvi dei consigli, voi non li volete, fate! Se poi vi fa piacere,
come
far
l’amore,
bere,
fumare…
non
parliamo
di
cultura. D – Non ci sembra di aver parlato di cultura…
R – Tra tutte le manifestazioni artistiche, il cinema è considerato come la settima arte. L’arte non è una balla, la cultura è una balla. Ora proprio nel cinema, su cento casi, novantanove sono bluff. Trovare quell’uno percento significa ignorare il mille per mille di quello che è stato fatto in altri campi. La lettura è cieca, è un campo in cui bisogna pensarle, immaginarle le cose. Il cinema è registrazione, obbliga a questo. Nasce morto, è sempre aborto comunque. Non c’è film dove si potrà cercare l’equivalente di Borges. A me interessa tutto fuorché il cinema. Il tempo è breve,
la vita è limitata. D – C’è Sternberg, poi Borges…
R
–
Sì,
come
Raffaello
ha
visto
la
Fornarina
ed
è
diventato
Raffaello. D – Se anche il cinema fosse un sottoprodotto, c’è chi preferisce un film ad un bicchiere di vino; perché privare dunque questo qualcuno dei migliori film fatti?
R – Che si tratti di acqua o di vino è questione di fegato. Fatela fare ad altri questa selezione, aspettate che la facciano a Bruxelles, che la faccia Langlois a Parigi, tanto qualcuno la farà. C’è gente nata per questo. Perché invecchiare prima del tempo? È inutile farla noi, cioè voi. La filologia porta al peggio. D – A parte il cinema, ci resta tutto quel mondo dell’arte di cui lei parla, soprattutto della poesia; non crede che ci possa essere più poesia al di fuori dei libri a volte?
R – Certo, ci può essere in un quadro, in una musica. Poesia è tutto
quello
che
ha
condotto
alla
massima
sintesi,
in
un
determinato attimo. Anche in un film, par hasard, ma una volta su mille, per cui non vale la pena di rischiare il tempo. Di questo io ho fatto un mio metodo, non perdo tempo con il cinema, tutto lì. D – Perché continuare a fare film?
R – Ho detto a vedere, non a fare. È diverso. Io sono sicuro, non corro rischi… D – Non c’è rischio anche leggendo un libro?
R – Bisogna essere nati in una certa maniera.
Bisogna saper
scegliere. Leggere un rigo e poi comprare il libro o no. Queste sono le fortune che non capitano a tutti, sono state date a Dante, a Shakespeare, sono state date a Cervantes, a Omero. Questo non è dato tutti. Non si tratta di genio, ma d’istinto, di fortuna. D – Ma questo potrebbe valere anche per il cinema…
R
–
Quando
si
è
letto
tutto
sì,
non
avendo
letto
un
cazzo,
secondo me, no. Vedete, io stasera ho un libro: secondo voi che cosa è? Questo è Santa Teresa del Bambin Gesù. Ora io ho letto solo due righe citate di Santa Teresa quando ero bambino, eppure sono convinto che questo sia uno dei più bei libri che siano mai stati scritti. E non l’ho letto. Se vogliamo risentirci tra qualche
giorno, io vi confermerò se era vero, dato che ho girato mezza Roma,
oggi,
per
trovarlo.
Sono
sicuro
che
è
un
capolavoro.
Quando compro un libro non ho paura, sono sicuro che è un capolavoro.
Intervista a
BERNARDO BERTOLUCCI D
–
Abbiamo
sentito
che
attualmente
lei
considera
Ophüls
il
cineasta
più
importante…
R – Tutto è cominciato con un premio che ho preso per Prima della
rivoluzione,
qualche
anno
fa,
“le
prix
Max
Ophüls”.
Quando me lo hanno dato sapevo chi fosse Max Ophüls, ma non avevo mai visto i suoi film. Adesso ne ho visti tre, perché volevo capire da che cosa fosse stato suggerito questo premio al mio film, cioè se ci fossero dei legami tra il mio e i film di Ophüls, soprattutto
perché
avevo
sentito
molto
parlare
di
lui,
avevo
sentito delirare… Poi, nell’ordine ho visto Sans landermain, Lola Montez e Le plaisir; infine ho veduto cinque minuti sublimi di una telefonata tra Isa Miranda alla stazione e un uomo che lei ha abbandonato. L’uomo, che è seduto davanti ad una scrivania, mentre
parla
al
telefono
pronunciando
una
“Caro”…
fa
poi
parola un
è
molto ogni
silenzio
di
triste.
venti, trenta
Isa
Miranda
parla
trenta
secondi;
dice:
secondi…
“io
non
potevo”… poi fa un altro silenzio di trenta secondi e la telefonata va avanti così per cinque minuti. Una telefonata fatta di silenzi e di brevissime parole che mi ha molto impressionato. Sì, Ophüls è un cineasta che mi emoziona e mi commuove moltissimo. D – Quale dei tre episodi di Le plaisir l’ha maggiormente interessata?
R – Sono tutti e tre splendidi. Quello che mi piace di più o forse quello che trovo più compiuto è il secondo: Maison Telier. Però il primo mi ha dato i brividi… nella danza è straordinario. Sì, nel ballo, anche quando – mi pare sia J. Servais, che si toglie la maschera e compare la faccia del
vecchio con
la barba sotto
quella del giovane; questo è straordinario. Ophüls mi interessa e mi emoziona molto, forse perché mi sento molto vicino a questo modo così musicale di raccontare storie e anche al partito preso che
ha
lui
sentimenti storia
di
che
stessa.
raccontarle diventano
Mi
interessa
sempre
significanti il
suo
dall’angolo
visuale
narrativamente,
sentimentalismo,
parola in senso positivo, e il suo stile così musicale.
dei
per
la
usando
la
D – Che cosa ha provato vedendo Lola Montez?
R – Anche quello è un film che mi ha molto commosso. Trovo che Ophüls abbia più felicità nel racconto che non nel romanzo. Allora
di
Lola
Montez
mi
piacciono
proprio
i
momenti,
gli
episodi, che non la cosa nella sua totalità… anche se quando dico questo
sbaglio
personaggio riesca
con
perché
da la
il
personaggio
romanzo.
macchina
Poi
da
mi
di
piace
presa
a
Lola
come
è
proprio
questo
mimetizzare,
un
cineasta
nello
stesso
tempo, con la sua presenza mobile, i sentimenti dei personaggi e i sentimenti
dell’autore
davanti
ai
personaggi;
cioè
c’è
un’identificazione, più che non con i fatti, tra la camera e i sentimenti. La cosa straordinaria di Lola Montez è che tutto il film porta verso
la
morte
di
Lola,
anche
se
in
modo
abbastanza
convenzionale strutturalmente. Infatti nel momento in cui tutti sappiamo che deve salire sul trapezio, tutti sappiamo anche che lei ha il cuore malato e che probabilmente non riuscirà a fare l’esercizio, e così ci aspettiamo la sua morte. Invece il film finisce nel
trionfo
e
non
nella
morte,
finisce
nell’adorazione
degli
uomini che vanno a baciare la mano di Lola, per tre franchi. Lola Montez tiene le mani fuori dalla gabbia e gli uomini la baciano, questo è straordinario proprio come invenzione. D – Come e dove si potrà situare Il Conformista nell’insieme delle sue opere?
R – Credo che sia il primo film non autobiografico che abbia fatto. Lo penso adesso che sono a più di metà della lavorazione, quindi alla fine il risultato mi darà ragione o torto. Comunque credo che in rapporto agli altri film sia il meno autobiografico. D – Dopo Borges perché Moravia?
R – Sono rimasto affascinato dall’intrigo, dal meccanismo della storia,
nel Conformista.
Questo
non
è
il
più
bel
romanzo
di
Moravia né il più brutto, ce ne sono di molto più brutti, ma senz’altro
è
schematico,
molto
sentimentale,
comunque
mi
ha
e
anche
interessato.
È
se
un
come
pochino se
avessi
passato un calco sopra il romanzo, e quando poi l’ho sollevato sono rimaste una serie di linee e di segni che erano un intrigo, la sua struttura. A questo punto, estraendo la struttura narrativa romanzesca da quelle che sono le psicologie dei personaggi, mi
sono ricavato una struttura romanzesca in sé. Ne sono rimasto affascinato
perché
venivo
dall’esperienza
di
Partner,
in
cui
al
contrario c’era la distruzione della storia, cioè c’era una storia che poi io distruggevo girando il film. Nel Conformista al contrario mi
interessava
e
mi
interessa
la
storia.
Perciò
la
voglia
e
la
decisione di farlo mi è venuta subito dopo Partner, però per ragioni di produzione ho dovuto rimandare fino adesso, ed è così che fra i due ho fatto La strategia del ragno, da Borges. D – Ci può dire qualcosa di La strategia del ragno?
R – Trovo che sia un film molto misterioso, che rassomiglia a una terapia psicanalitica. Il racconto di Borges, che si chiama Tema del traditore e dell’eroe, dall’antologia Finzioni, mi ha in un certo senso
ispirato.
Ho
preso
queste
tre
paginette
di
Borges,
mantenendo anche qui soprattutto il meccanismo. In Borges la storia si svolge in Irlanda nell’Ottocento, ed è tutta un discorso culturale.
La
storia
è
la
seguente:
un
giovane
in
Irlanda
fa
un’indagine su un delitto commesso molti anni prima nel quale è stato
assassinato,
in
circostante
molto
strane,
un
eroe
della
rivoluzione irlandese, un certo Fitzpatrik. L’assassinio, commesso in teatro durante una rappresentazione di Shakespeare, è legato a molte stranezze. Per esempio, chiusa in una tasca del morto è stata trovata una lettera che egli aveva ricevuto all’ingresso del teatro e che non aveva avuto il tempo di leggere, come in Giulio Cesare… prediceva
e la
poi
c’era
morte,
stata
come
la in
profezia
di
una
strega
Macbeth.
Il
giovane
che
gli
continua
a
indagare su questo delitto compiuto molti anni prima e scopre che c’era stata una congiura rivoluzionaria di cui il capo era il grande eroe assassinato, e nello stesso tempo che nella congiura c’era stato un traditore. Questa indagine retrospettiva prosegue sino
a
scoprire
le
strane
Macbeth e Giulio Cesare.
coincidenze A
questo
di
punto
questo il
delitto
giovane
si
con sente
disperato, perché dice: è possibile che la storia imiti la storia (cioè Giulio Cesare) ma è impossibile che la storia imiti la letteratura (cioè Macbeth). Riparte da zero e scopre la verità: il traditore della congiura era lo stesso capo dei congiurati, cioè l’uomo che è stato assassinato, il grande eroe. I congiurati, una volta scoperto il tradimento e il suo autore avevano deciso, con lui d’accordo, che alla causa irlandese serviva un eroe e non un traditore, ed è così
che avevano deciso di ucciderlo (facendo ricadere la colpa sugli Inglesi) e di farne un grande eroe. Nel momento in cui il giovane la scopre, si trova di fronte al dubbio se dire o non dire la verità, lo stesso dubbio di fronte al quale si erano trovati, tanti anni prima, i congiurati. Qui il giovane capisce che la strategia di questa macchinazione era talmente perfetta che prevedeva anche la scoperta stessa della macchinazione, e quindi decide di tacere. Ecco, io ho conservato soltanto la struttura di questo racconto di Borges. Il mio film è centrato su un ragazzo, un “figlio”, che si reca oggi in Emilia, convocato da una donna misteriosa che si chiama Draifa, e là indaga sulla morte del padre, un eroe antifascista ucciso in un teatro mentre davano il Rigoletto. Il meccanismo è molto simile a quello di Borges, ma la mia attenzione non è sul riflettersi ciclico delle cose, che invece è molto “borgesiano”. Il tema del film è una specie di viaggio nel regno dei morti. Infatti il paese dove è successo tutto e dove il ragazzo non era mai andato, perché la madre appena nato l’aveva portato lontano, e dove lui torna dopo tanti anni, è una specie di regno dei morti. L’indagine che il ragazzo conduce è una sorta di viaggio nella memoria atavica, nel preconscio; egli è alla ricerca della figura del padre attraverso l’indagine, e alla scoperta di una figura materna che è rappresentata da Draifa, che era l’amante del padre e che lo ha chiamato lì. In questo senso dico che è un film che ha l’iter di una terapia di tipo psicanalitico, proprio perché questo paese, che si chiama Tara, è come l’inconscio, il preconscio. D – Ci sono elementi autobiografici nella Strategia del ragno?
R – Sì, abbastanza, perché l’ho girato nei luoghi dove sono nato e in fondo mi sono molto identificato con quel ragazzo. È proprio un film sul rapporto di un figlio con il padre e con la madre, ed è un film molto sereno (momenti renoiriani: la campagna, una certa
natura)
soprattutto
in
rapporto
a
Partner,
per
esempio,
perché qui ho preso una certa distanza dalle cose che racconto, invece lì questo non era accaduto. D – Il Conformista non è girato in diretta per la difficoltà di Trintignant con la lingua?
R – A causa della mescolanza delle lingue. Sì, a causa della sua
nascita disgraziata di film molto caro, e quindi della necessità di attori di box-office, e quindi della necessità della presenza di attori stranieri, e quindi di Trintignant, e quindi della lingua. D – Tutti i suoi film sono in diretta all’infuori del Conformista?
R
–
No,
La
Commare
secca
e
Prima
della
Rivoluzione
sono
doppiati, Partner, Agonia e La Strategia del ragno sono in diretta. D – Un accento deformato, sempre e comunque, non le sembra preferibile alla falsa perfezione del doppiaggio?
R
–
È
quello
che
ho
fatto
in
Partner.
Nella
storia
c’era
un
personaggio italiano, ovvero il professore di teatro; dal momento in
cui
ho
scelto
Clementi
ho
trasformato
questo
professore
italiano in un professore di teatro, francese, che vive a Roma. La versione originale di Partner è mista, quella che adesso esce a Parigi è per il 70 per cento in francese e per il 30 in italiano. Tutto ciò nel Conformista non era possibile perché il personaggio è romano; a meno che io non rinunciassi alla chiave del film, che è di totale finzione. In un film diverso avrei potuto usare un certo tipo di contraddizione, avrei potuto avere Marcello, ragazzo nato a Roma, che è vissuto ai Parioli ed ha studiato al Tasso, e poi girando
in
diretta,
far
parlare
Trintignant
come
parla
lui
l’Italiano, cioè bene con un forte accento francese. Ma qui non ho fatto quest’operazione perché voglio che chi segue il film non venga distratto da problemi di questo genere. Lo spettatore deve seguire la storia, e la presa diretta in questo caso sarebbe un elemento di distrazione, una di quelle operazioni terroristiche che ho già fatto in Partner. D – Come vede oggi il suo primo film La Commare secca?
R – Mah, non lo so, non l’ho mai più visto da allora, quindi non lo vedo. Se ci ripenso credo che si sia trattato di un momento di meravigliosa incoscienza, di rapporto mitico col cinema. D
–
La
figura
del
soldato
è
un
attacco
al
sistema
militaristico
in
Italia,
o
è
semplicemente casuale o di colore?
R – Assolutamente casuale. L’Italia non è per niente militarista anzi, io credo che i colonnelli italiani siano dei grandi frustrati, non riescono mai a fare il “colpo di Stato”. Sono frustratissimi, invidiosissimi dei Greci, di tutti i latini-sudamericani, proprio
perché poverini non riescono mai a esprimersi in un “colpo di Stato”. D – Avendo noi riconosciuto nella Commare secca una sensibilità più propriamente italiana, ci è sembrato di scoprire più tardi un allargamento e nello stesso tempo un mutamento considerevole di questa sensibilità, nelle differenti dimensioni che vanno dal misticismo di Dostoëvskij al distanziamento cartesiano dello sguardo.
R – Quando lei dice sensibilità italiana, se ho ben capito, lei ha ragione, ma allora anche in Prima della Rivoluzione c’è un tipo di sensibilità
italiana,
differenziazione
cioè
fra
la
romantico-italiana. mia
sensibilità
tout
Allora court,
io e
farei la
la
mia
sensibilità come cineasta. Non so se sia possibile scindere le due cose, diciamo che idealmente è possibile, e che quindi c’è un conflitto tra un tipo di sensibilità romantico-italiana, umana, e una sensibilità di cineasta. Ovvero tra un certo mio modo di essere cinematograficamente, cioè di girare, di filmare, e un certo mio modo di essere di fronte alla vita. Un conflitto che a me interessa particolarmente e mi dà modo di non camminare mai dritto. Straub cammina dritto come una spada, io credo di essere molto diverso nel mio modo di camminare, cosa che vale anche per il modo
di
percorrere
una
strada.
Sono
sicuro
che
se
Straub
imbocca via Giulia la percorre tutta in un senso; io invece passo, poi faccio un giro intorno all’ambasciata francese, poi rientro da via dei Pettinari… infatti è difficile che Straub faccia dei carrelli circolari, i suoi travellings sono sempre dritti. Straub non usa le curve, che io invece uso moltissimo. D – L’impossibilità di tagliare con le sue radici sociali culturali borghesi, sembra che non le lasci altro che il cammino dell’onirismo, dell’irrazionalità per esprimere la sua posizione politica.
R – Sì, è vero. A un certo punto della mia vita mi sono reso conto che mi mancavano certe componenti bio-fisio-sociologiche per poter essere quello che avrei voluto essere politicamente. Con questa coscienza mi sono abbastanza liberato di certe velleità, in fondo di tipo politico; in questo modo ho trovato anche, sembra ridicolo, una specie di pacificazione nei confronti della politica verso il Partito Comunista che io contestavo e che mi sono reso conto di contestare da borghese. Adesso sono iscritto e condivido una
parte
discreta
della
sua
strategia
in
Italia.
È
chiaro
che
liberatomi
da
quelli
che
erano
certi
freni
in
parte
dovuti
al
velleitarismo, questa specie di fuga nell’irrazionale – che non è solo mia, credo, ma anche di altri che si trovano in una situazione simile, come per esempio Ferreri e Pasolini – è diventata un punto di partenza. L’irrazionale e l’onirismo sono un punto di partenza, perché io credo che l’unico modo che ho di ritrovare la mia identità sia quello di viaggiare nell’irrazionale, cioè nell’inconscio. Cerco di ritrovare un tipo d’identità nei termini freudiani e naturalmente questo influenza completamente i miei film. Agonia segna l’inizio di questo iter, e di questo devo ringraziare il Living Theatre, che è
stato
l’elemento
Conformista
è
una
detonante strana
di
questa
esperienza,
prima
perché
è
liberazione. fuori
dal
Il
tipo
d’impegno diretto di Prima della Rivoluzione ed è anche fuori dall’onirismo di Partner e di Agonia. È un film del quale oggi, nel momento in cui sta nascendo, non riesco veramente a capire i rapporti con me stesso. So che c’è un rapporto base, che forse è solo un paravento, di tipo culturale tra me e il film, e che passa attraverso
l’identificazione
mia
con
certi
cineasti
degli
anni
Trenta. Il Conformista si svolge in Italia nel 1937, con un prologo nel ’20 e un epilogo nel ’43, e siccome io allora non c’ero dato che
non
ero
nato
e
neanche
concepito,
ho
avuto
un
grande
problema: evitare il verismo, il naturalismo nella descrizione di un’epoca che non ho mai conosciuto. L’unica occasione che mi ha permesso di vivere gli anni Trenta è stata il cinema, sono stati i film di quegli anni. L’unica maniera di indossare i vestiti degli anni Trenta, di amare la musica, le canzoni, o affrontare la realtà con lo stile cinematografico, è quello di pensare il cinema di quegli anni come fosse la realtà da me vissuta. In questo senso l’intreccio della storia del Conformista, che all’inizio per me era una tragedia greca in cui al posto della fatalità, del fato, c’era l’inconscio, si è per prima cosa trasformato in una commedia tragica, così come lo erano i film americani degli anni Trenta. D – Quali registi degli anni Trenta ha amato particolarmente?
R – Non vorrei scendere in particolari perché temo di restringere il quadro della vita di quel tempo, che a me è arrivato attraverso il cinema. Io ho dei nomi nella testa, ma non li dico, dico invece che è il cinema il mio punto di riferimento, che è come un
pianeta visitato in quegli anni. D – Perché dopo aver lavorato nei suoi primi film con attori sconosciuti, ha poi scelto dei professionisti come Clementi e Trintignant?
R – Un po’ per pigrizia, perché si fa prima a telefonare a un attore
noto
piuttosto
che
mettersi
a
cercarne,
un
po’
per
debolezza nei confronti dei produttori, che sono più contenti di fronte al nome di un attore conosciuto. Inoltre, se allora ero convintissimo che bisognasse lavorare con dei non professionisti, come era convinto Pasolini stesso, che mi aveva influenzato, pian piano mi sono reso conto che adoro gli attori. Adoro gli attori, mi piace enormemente vederli recitare, mi piace enormemente farli recitare, mi piacciono tutti i film dove la gente recita, e più recita e più mi diverto. Nella Strategia del ragno ad esempio c’è un giovane attore di teatro, Giulio Brogi, che ha fatto dei film con i Taviani e l’ultimo di Glauber Rocha, e poi c’è un’attrice che si chiama Alida Valli, che mi piaceva enormemente in Senso, e che qui trovo straordinaria. Recita, ma è straordinaria, adorabile. D – Il suo amore per il cinema americano degli anni Trenta può essere in parte attribuito a questa sua maniera particolare di sentire gli attori?
R – Sì, ma a questo punto non è più l’amore del cinefilo per i film di questa epoca, amore meraviglioso che abbiamo provato tutti noi, un po’ colpevole, un po’ analitico, un po’ evasivo. A questo punto c’è proprio un riferimento a certi drammaturghi. Il cinema degli anni Trenta è la vita stessa di quegli anni. D – La vergogna, l’umiliazione, sembrano essere una costante nei suoi film. Questo aspetto della sua opera crede che sia ispirato e suggerito da qualcosa di precisabile?
R – Non so se nei miei film ci sia molta vergogna, non so neanche se ci sia molta umiliazione; c’è sicuramente, sempre, il tema della sconfitta. I miei personaggi sono spesso dei vinti. Io parlerei proprio di una specie di celebrazione dell’impotenza, celebrazione netta, autocosciente, celebrazione che forse esclude vergogna e umiliazione, celebrazione dell’ambiguità che scopre se stessa, che scopre di esistere. La scoperta dell’ambiguità che è nella
nostra
natura
borghese
è,
secondo
me,
politicamente
necessaria. D – La celebrazione della sconfitta è legata alla scoperta dell’ambiguità borghese?
R – Sì, perché nel momento in cui tutto crolla, in Partner, cioè quando
gli
guerrigliero,
studenti
forse
Giacobbe
non
celebra
la
vanno
all’appuntamento
propria
sconfitta.
Ma
celebrandola fa un gesto rivoluzionario, perché scrive a lettere cubitali la sconfitta di una situazione individualistica, la sconfitta della borghesia. È proprio questo che quei bravi ragazzi di «Ombre Rosse» non hanno capito, quando hanno scritto un pezzo molto duro sul film
(“È
un
film
corrotto,
decadente,
su
una
scelta
di
tipo
individualistico, l’esaltazione stessa dell’individualismo…”), no, al contrario! Sarebbe
stata
un’esaltazione
dell’individualismo
se
Giacobbe,
operando una scelta narcisistica come quella che ha operato, fosse arrivato a qualcosa. Invece il film è la storia dell’impossibilità di una soluzione individualistica, direi addirittura narcisistica, per lo sdoppiamento del talmente
personaggio. Comunque Partner
schizofrenico
estetico-politici,
che
forse
è
difficile
andrebbe
giudicarlo
giudicato
è in
in
un
film
termini termini
psicoanalitici, psichiatrici. D – Nei suoi film gli assassinii apparentemente gratuiti della Commare Secca e di Partner instaurano una problematica sesso-morte?
R – Be’ naturalmente, come tutti gli assassinii, da quando esiste il mondo.
Io
credo
che
ogni
delitto
sia
la
canalizzazione
dell’aggressività che abbiamo dentro di noi e che dirigiamo verso qualcuno, e siccome l’aggressività ha sempre un’origine sessuale, possiamo parlare di problematica sesso-morte. D – Perché proprio la donna è sempre vittima di questa aggressività sessuale?
R – Questo è quello che dice mia moglie, dice che sono un misogino. Non è sempre la donna la vittima, perché all’inizio di Partner viene ucciso un uomo, il pianista. D – L’uccisione del pianista a noi è sembrata un non-sense…
R – Siccome Partner è travestito da film di suspense, mi sembrava giusto cominciare con un delitto, che nella sceneggiatura aveva molto senso, non era gratuito; lo è diventato nel momento in cui io ho distrutto tutti i nessi logici del film. Il delitto viene a identificarsi con un’ouverture di tipo musicale, con la sinfonia di un’opera prima dell’opera stessa (anche se c’è solo il pianoforte)
in
cui
si
preannunciano
alcune
delle
frasi
musicali
che
poi
verranno svolte nell’opera. D – Il modo in cui Clementi assassina la Aumont è un riferimento diretto ad Hitchcock (La scena nella quale Newman asfissia nella stufa il tedesco in The Torn Curtain)?
R – Forse sì, devo dire che non ci avevo pensato. Ricordo che la cosa mi piaceva e l’idea deve essermi nata così. Tutta la parte con la Aumont è come idealmente dovrebbero essere i commercials, i Caroselli. Per esempio la prima parte, quando la Aumont dice il testo di Roland Barthes, e soprattutto la morte con la canzone… Volevo che tutto ciò avesse il tono di quello che secondo me dovrebbe essere la pubblicità, girandolo pensavo alla pubblicità. Posso dire anche
un’altra
cosa,
molto
privata,
che
forse
non
interesserà
nessuno… tutte le volte che vado a New York vivo davanti alla televisione, perché danno continuamente film con Bogart, film di Hawks… questi film ogni 10 minuti vengono interrotti dai commercials. vengono
Questo
nobilitati
è
dal
stupendo, film,
primo
secondo
perché
perché
i
commercials
questi
diventano
delle intrusioni – involontariamente – assolutamente godardiane all’interno del film con cui non hanno niente a che fare; terzo quando hai visto sette, otto minuti di film, nasce un nuovo tipo di
suspense
che
è
quello
dell’attesa
del
commercial
stesso…
soprattutto il pastiche di tipo godardiano è bello, è come quando in un film di Godard un gangster passa la pistola nella sinistra e comincia a leggere un libro di Eluard. Sono le intrusioni della finizione che mi piacciono. D – Godard ha affermato di non voler più fare un film usando i mezzi del sistema, è d’accordo lei con questa posizione?
R – Come posso essere d’accordo con lui se sto facendo un film che costa mezzo miliardo? Sono d’accordo con lui se lui lo vuole fare. Sono d’accordo che Godard si comporti così se crede che sia giusto.
È
vero
che
non
sta
facendo
più
film
con
i
mezzi
normali… anche se Vento dell’Est è un film fatto con i mezzi della Cineriz; ora i soldi della Cineriz sono la traduzione in lire dei dollari della Paramount che uso io per fare Il Conformista. Allora anche questo è un po’ illusorio, perché comunque la pellicola Godard
quando
la
compra
la
deve
pagare.
Alla
base
c’è
un
asservimento necessario a certe regole. Io credo che Godard abbia un grande ingiustificato complesso di colpa nei confronti dei gauchisti… D – Ci vorrebbe precisare con l’aiuto di esempi concreti ciò che vuole intendere quando dice che “non bisogna portare la Rivoluzione attraverso il cinema, ma nel cinema”?
R – Ho detto che non bisogna credere di poter fare la rivoluzione col
cinema,
rivoluzione
ma nel
si
può
cinema.
dire
che
Ovvero
con
che
i
per
film
si
mezzo
può
del
fare
cinema
la è
possibile compiere dei gesti rivoluzionari. Che un anno fa quasi tutti pensassimo di poter fare tout court la rivoluzione con i film, era soltanto un’illusione. Il cinema può essere uno strumento parallelo a tanti altri strumenti come il volantinaggio, i manifesti, un ciclostile; nelle mani di un gruppo rivoluzionario può essere uno strumento d’informazione, di documentazione. Non bisogna credere che facendo un film, soprattutto all’interno del sistema, facendolo girare nei circuiti della normale distribuzione, si possa fare un gesto veramente rivoluzionario. Mi sembra illusorio, è meglio toglierselo dalla testa. D – L’âge d’or, La vie est à nous hanno avuto difficoltà ad essere proiettati proprio perché film rivoluzionari…
R – Ce ne sono tanti di film che non si sono potuti proiettare. La vie est à nous l’ho messo nel Conformista, che comincia a Parigi nel ’37. Marcello è a Parigi nella sua camera d’albergo, all’alba, fuori c’è la luminosa Vie est à nous che è un falso perché come sapete è uscito soltanto ora… Poi volevo girare una scena in un cinema in cui si proiettava il film, adesso credo che non la girerò più… D – Che cosa pensa del cinema tedesco attuale?
R – Straub non è tedesco. Conosco pochi film tedeschi, gli unici che
conosco
sono
molto
brutti.
Non
mi
interessa
il
cinema
tedesco, ho visto anche il film di Herzog Signe de vie, ma… Credo che ci sia molto più cinema tedesco nei film americani.
Intervista a
MARCO FERRERI D – Dopo i suoi primi film, che possiamo definire neo-realistici, naturalistici (El Cochecito, El Pisito ecc..) ci sembra che a partire da L’uomo dei cinque palloni (e poi con Dillinger e Il seme dell’uomo) lei faccia un cinema sempre più onirico, basato sulla
costante
contrapposizione
reale-immaginario.
Che
cosa
crede
la
spinga
in
questa direzione?
R – Io non sono d’accordo che i miei primi film siano neorealistici o naturalistici, e che da L’uomo dei cinque palloni ci sia una costante onirica. Trovate così degli elementi che io non ho pensato
né
visto
in
questi
film.
Io
volevo
semplicemente
raccontare delle storie in una maniera più chiusa, senza mondo intorno, senza ricostruzione come nei precedenti film. Però dico che sono tutti film in cui gli elementi sono sempre reali, concreti, presenti; non vedo la direzione verso un cinema onirico. D – La parte finale di Dillinger non si spiega altrimenti …
R – La parte finale di Dillinger più che essere una sequenza onirica è la fine di una storiella. È una impostazione che dice che è una storia che continua. Questo signore può partire, può non partire …. tutto in Dillinger può esistere o non esistere, lui può aver ucciso sua moglie o può non averla uccisa; questo non è onirico, ma fa precisamente parte della nostra realtà. D – I «Cahiers» hanno parlato di contrapposizione reale-immaginario.
R – Sì, ma sono loro a tirare conclusioni molto oniriche, che sono loro ricostruzioni. Dillinger può essere tutto immaginario, o può essere tutto reale. D – L’impossibilità di un linguaggio borghese forse la spinge, come è per Pasolini o Bertolucci, verso un tipo di realtà irrazionale o di razionalità irreale…
R – Non so se qualcosa mi spinga, se no entriamo addirittura in un
campo
psicoanalitico.
Io
penso
che
l’irrazionale
sia
un
elemento fondamentale in quanto reale, presente. Se si riesce a rompere il diaframma che il sistema pone alle nostre vite determinandone l’alienazione attraverso le forme di potere, tutto quello che si muove intorno a noi diventa una proiezione irrazionale. Come borghese, tutto questo nasce perché dai primi
film fatti – se non proprio nella strada, comunque dove c’era movimento – ho fatto dei film che sono pensati e scritti per svolgersi in una stanza, ovvero in una dimensione di maggiore chiusura, al di fuori del contatto diretto con la realtà. D – I riferimenti biblici, mitici, omerici, fusi all’allegorismo di Il seme dell’uomo, segnano una terza tappa nel suo modo di accostarsi al cinema?
R – Quelli che voi definite biblici sono gli elementi più naturali, primordiali. Pensiamo al latte per esempio: più che biblico, è quotidiano. Forse siamo d’accordo sull’onirismo, bisogna però dire che cosa intendiamo.
In
un
cinema
che
non
dice
niente
come
molto
cinema, più che di onirismo parlerei di tragedia. Questa infatti è la
strada
che
può
portare
alla
pazzia:
quando
si
descrive
esclusivamente la rottura nel mondo in cui viviamo non ci resta che questo. Il Seme dell’uomo è proprio un raccontino maoista. Io pensavo di fare una cosa semplice ma poi si è trasformato, perché è
difficile
raccontare
in
modo
semplice.
Più
che
allegoria,
comunque, c’è parabola. D – Sembra che dopo i tentativi di un discorso politico-cinematografico che forse poi
può
esserle
sembrato
sterile,
lei
sia
ora
alla
riscoperta
e
riconquista
del
sentimento.
R
–
Come
elemento
negativo,
ovvero
ciò
che
fa
diventare
negativo il protagonista de Il seme dell’uomo, ad esempio. Egli è negativo perché va alla ricerca del sentimento in quanto si basa su dei concetti morali vecchi, passati. Dunque il protagonista de Il seme dell’uomo è nella coppia il personaggio negativo, proprio perché (non io, ma lui) vuole riscoprire il sentimento. Costruisce il museo, domanda se è bene avere un figlio, si appoggia sempre, è sempre dolce, cerca di vivere secondo certi schemi. Tutto ciò non è mio, ma di questo signore che fa il protagonista. D – “Abbiamo il dovere” di seminare figli, “Non abbiamo il diritto” di seminare figli sono asserzioni contenute in Il seme dell’uomo: in rapporto dialettico fra loro o tendono entrambe, in quanto assolute, verso la distruzione, il nulla?
R
–
Ma
sì,
perché
la
donna
sente
irrazionalmente,
mentre
l’animale razionale nella coppia è questo signore, e in quanto tale viene portato a ripetere gli stessi sbagli che si sono fatti fino adesso. Ovvero si può ricostruire un mondo, ma non con gli
stessi errori di quello appena lasciato. In fondo questa è la morale della favola. La signora, siccome come donna non ha bagaglio di cultura, è protesa come tutte le donne addirittura alla conquista di
un
linguaggio.
Che
non
è
quello
dell’uomo,
perché
è
un
linguaggio superato, senonché la donna non è arrivata nemmeno a questo, perciò sente solo istintivamente certi concetti senza riuscire a elaborarli coscientemente, mentre viceversa l’uomo li vuole interpretare razionalmente. È qui che lei dice di non avere diritto di avere figli in quella situazione. Il marito, la concubina, lo Stato e la Chiesa ripetono i concetti di sempre sulla coppia, non fanno un lavoro differente; vedono la coppia tradizionale come base dell’unione, della famiglia, dello Stato. L’unica che cerca di difendersi è lei che non può spiegarsi e non sa spiegarsi, anche perché presa in un momento della sua storia in cui non esiste per lei una possibilità di dare spiegazioni, perché non ha i mezzi per esprimersi. D’altra parte c’era già, in un film che a me è piaciuto abbastanza, Harem, un personaggio femminile piuttosto bello, non importa che lo avesse fatto Carrol Baker, che non poteva spiegarsi perché facesse certe cose, ma che sentiva
la
necessità
di
cambiare,
di
mettere
un’anarchia
nell’ordine stabilito. Gli uomini rappresentano la società che, per quanto moderna, per quanto avanzata, sta al gioco, cioè butta l’amo… però arriva il momento che è la stessa società ad eliminare il gioco, quando non
le
fa
più
comodo.
Gli
uomini,
che
sembrano
tanto
progrediti, tanto avanzati, sono signori che ragionano in una maniera superata. D – L’apparente misoginismo che sembrava una componente di fondo dei suoi primi film nel discorso costante della coppia, oggi sembra esploso in uno sguardo amaro ed affettuoso sull’umanità.
R – Nei miei primi film non c’è un vero discorso sulla coppia. Per
esempio
discorso
voglio
chiaro
e
riprendere
preciso
che
La
donna
non
scimmia,
interessa
che
fa
direttamente
un la
coppia. È un film di sei anni fa, dove si parla di una società consumistica dove due signori vivono in una strada strapiena di apparecchi
elettrici,
di
ditte,
di
radio
e
radioline.
Voglio
riprenderlo perché si riveda, perché è un film moderno, tanto interessante: c’è una classe, il sottoproletariato, e c’è il tentativo di
non
essere
sfruttati,
di
uscire
dall’anonimato,
e
una
certa
tendenza, propria di classe, a raggrupparsi. Anche qui c’è il tema della coppia, perché fino ad ora è stato un problema nazionale. Adesso
è
inutile
arrivano
dei
scimmia
è
parlare
palliativi
nato
di
che
quando
coppia esistono
non
perché in
esisteva
arriva
altri
il
paesi.
questa
divorzio, La
donna
possibilità,
ma
neanche l’idea. Il tema della coppia quindi era un attacco in quel momento interessante, anche se quegli obiettivi erano secondari nell’ambito del film. Così anche L’Ape regina contiene un attacco alla Chiesa che oggi non significherebbe più niente. Avevo l’idea di fare un film che si sarebbe chiamato Vaticano, ma non lo faccio
più
mentre
perché
questa
si
non
credo
smembra
più nei
all’importanza suoi
stessi
della
Chiesa
organismi.
Non
interessa più. Al momento di Ape regina serviva invece; e quel film non era un film sulla coppia, ma sulla società. Infatti è stato l’unico film che ha subito nove mesi di censura, battagliato sui giornali,
anche
neppure
il
perché
era
centrosinistra,
un e
momento
serviva
in
anche
cui
non
L’Ape
esisteva
regina
per
arrivarci. E il tema della coppia è visto nell’ambito di un mondo. Misoginia
no,
apparente
forse,
anzi
non
sono
assolutamente
misogino. D – Quindi il suo è un discorso sull’umanità inserita nella società odierna, dove la coppia è solo una particella della società stessa…
R – Infatti in L’Ape regina e in La donna scimmia appare chiaro. In
El
Cochecito,
momento
come
che
pure
quello
della
è
stato Spagna
girato
in
franchista,
un
particolare
contro
quella
particolare censura e in un clima particolare anche in ambito cinematografico, già si intravedeva. In fondo erano più utili film come El Pisito, El Cochecito o L’Ape regina che film come Dillinger o Il seme dell’uomo, perché ormai il discorso cinematografico non può più essere alle istituzioni, alla società. Un regista oggi può fare un discorso contro la censura, ma a me non interessa. Si può fare un discorso su un commissario di polizia come fa il signor Petri, non mi interessa, o fare un film su un prete o sul Papa; mi sembra tutto troppo ridotto. Non serve, adesso; allora poteva servire fare L’Ape regina, e lo dimostrano nove mesi di battaglia e di censura, o La donna scimmia, che
critica la società di consumo. E voi oggi arrivate a parlare di onirismo perché succede che uno si rinchiuda e faccia delle storie che sono sempre più per pochi, e che non servono. In sostanza: può il cinema essere ancora interessante in quanto elemento di rottura e non spettacolo? Sì, i miei film, li faccio con pochi soldi perché si senta minato un settore: ma è una cosa piccola, quasi corporativistica; può dar fastidio
a
quelli
che
dicono
raggruppiamoci
tutti,
perché
abbiamo bisogno di difendere il cinema, a cui si attaccano tutti. Perché quello degli artisti è in fondo, gira gira, un piccolo centro di potere, e il potere sono i soldi. Tutti gli artisti vogliono i soldi, non c’è niente da fare, e non centomila
lire
al
mese;
se
possono
prendere
dieci
milioni
li
prendono, se ne possono prendere venti o cinquanta li prendono, e hanno in mano un potere che è questo. Poi lo mistificano, si creano degli alibi, pensano che quello che fanno possa servire a qualche cosa. Non serve a niente, il lavoro dell’artista serve solo al potere. D – Anche Godard è fra questi, lui che ha detto di non voler più fare un film con i mezzi del sistema?
R – E con che cosa li fa? Li fa con i mezzi del sistema. Adesso sta facendo una cosa per la televisione italiana, e questa non è un mezzo del sistema? D – Conosce i film politici di Straub?
R – È uguale, è tutto uguale. Quali sono i film politici di Straub? Straub
fa
un
discorso
per
noi,
quelle
settantamila,
centomila
persone che stanno facendo la rivoluzione. Noi stiamo facendo dei discorsi pignoli. D – Certi oggetti nei suoi film sembrano assumere sempre di più valore di soggetto, così che l’elemento politico sembra subentrare a quello feticistico.
R – Certo, è fondamentale, questo è l’elemento fondamentale della nostra società. Non voglio nemmeno parlarne, è inutile, perché non posso parlarne specificatamente né tanto meno dire che faccio un’opera meritoria, importante. Oppure è necessario dirlo
in
un’altra
maniera,
non
con
i
mezzi
che
Comunque sì, l’elemento politico sembra subentrare feticistico,
ma
è
sempre
elemento
abbiamo. a quello
politico-feticistico-
personalistico. Io ho delle idee primitive per quello che riguarda la politica. Se Straub va in piazza con i dimostranti, anch’io vado in piazza, ma noi andiamo in piazza come dopolavoro, non come lavoro. D – I cineasti oggi si rendono conto di non poter fare la rivoluzione con i film, ma certamente facendo film come Il seme dell’uomo lei già porta una certa rivoluzione nel cinema.
R
–
Non
cinema, piccola.
porto
farei Gli
niente.
Se
anche
un’operazione
artisti
Esistenzialismo,
hanno
adesso
si
portassi
la
rivoluzione
corporativistica,
degli
alibi,
chiama
una
nel
un’operazione
volta
Alienazione…
si si
chiamava chiamano
sempre in un modo. E poi vengono fuori i problemi di quelli là che vogliono uccidersi perché non possono esprimersi. È chiaro che non si possono esprimere, perché se non vogliono più le centomila, le novantamila lire al mese, non hanno un linguaggio comune
con
nessuno.
Che
linguaggio
comune
hanno?
Senza
contare che la massa non elegge gli autori come rappresentanti dei suoi spettacoli. Non perché sia stupida o ignorante, la massa è intelligente, ma perché elegge a suoi rappresentanti i calciatori, cioè ha il suo happening domenicale. L’arte, i film che facciamo noi, servono per una minoranza e per dare degli alibi al potere. L’autore si rende conto di tutto questo, ma
continua
a
farlo
perché
non
vuole
perdere
i
soldi
che
guadagna ogni anno. È chiaro? Non li voglio perdere io, non li vuole perdere Bertolucci, non li vuole perdere Straub, non li vogliono perdere i Taviani. Nessuno. D – Per lei oggi non esiste altra possibilità di linguaggio che quello dei simboli?
R – Non esiste un linguaggio, né quello dei simboli, né un altro, oggi non abbiamo più un linguaggio. Non possiamo comunicare. D – Lei ha cercato, in Dillinger e in altri suoi film, di fare piani-sequenza che hanno la durata delle analoghe azioni reali. Inoltre si sente anche la volontà di abolire il montaggio riducendolo alla sua forma più elementare. Con questa ricerca vuole violentare l’attenzione dello spettatore, obbligandolo a seguire la durata reale di un’azione in tutta la sua casualità e nel suo orrore?
R – Se ripercorrete i miei film vedrete che il piano sequenza viene addirittura dai primi come El Pisito, El Cochecito e via dicendo. Poi è andato a finire nella nuova scuola tedesca, e poi l’hanno ripreso i francesi. Il piano-sequenza è la ricerca di voler fare un
cinema
che
non
sia
cinema;
ma
sono
tutti
discorsi
piccoli,
limitati. D – Allora perché fare cinema in questo caso?
R – Appunto, io non è che voglia più fare cinema. D – Non ha nessun progetto cinematografico, dopo Il seme dell’uomo?
R – Ho molti progetti, ma non ho voglia di fare niente. D – Lei ha detto di non voler perdere il suo potere d’autore.
R – Io dico che non lo voglio perdere, cerco di non perderlo, ma nello
stesso
tempo
lo
voglio
perdere.
Non
ho
voglia
di
fare
niente, e lo perderò. Lo perderò e farò i soldi in un’altra maniera, posso far soldi facendo scarpe. D – La finzione dell’olio da cucina usato per il revolver di Piccoli in Dillinger, o della radio che continua a funzionare sotto il tunnel ne Il seme dell’uomo, fino a che punto sono casuali o volute?
R – Questa finzione non è niente. L’olio della cucina è olio che serve per il revolver. D – Ha mai girato in presa diretta? Non pensa che sia importante sperimentare in diretta?
R – Non ho girato in presa diretta. Ho sempre girato senza e non mi
disturba
nella
maniera
più
assoluta.
Queste
sono
tutte
ricerche di un gruppo di mandarini. D – Quella del doppiaggio ormai in Italia è una vera e propria industria…
R – Be’, domani ci sarebbe l’industria di quelli che fanno la presa diretta. Si può anche doppiare senza andare dalle compagnie di doppiaggio. Si può doppiare con la gente del film. Inoltre per me il cinema è un’opera composita, perciò è possibile che mi serva la faccia di un signore e la voce di un altro signore. D – Lei ha detto di concepire la politica in una maniera molto primitiva…
R
–
La
politica
nazionale,
le
è
quella
assemblee
di
che
stanno
fabbrica,
il
facendo: potere
il
alla
contratto base,
un
rappresentante ogni dieci operai nella catena, questa è politica. La politica
in
questo
momento
è
rivoluzione.
C’è
tutta
una
preparazione di quella che può essere una rivoluzione generale, assoluta, delle strutture, del modo di vivere, rispetto alla quale gli autori sono completamente fuori.
D – Per lei quella del rivoluzionario dovrebbe essere professione o vita, mentre sembra non poter esistere un’attività rivoluzionaria, sia pure da dopolavoro.
R
–
No,
che
centomila
forze
uniamo?
spaventano,
ci
Il
sono
numero
loro
e
non
va
bastano.
aumentato,
Poi
che
cosa
uniamo? Poi uniamo così, perché è comodo, perché piazza del Popolo è vicina. Ma chi sono quelli che vengono da Sevegno, da Trieste, col sacchettino con dentro l’arancio? Gli unici che funzionano adesso sono qualche poeta raro – a parte
che
detesto
la
poesia
–
comunque
qualche
poeta
raro
perché piglia tre lire, perché non ha da mangiare, perché sta in fabbrica
e
scrive
abortito/io
ho
quanto/Non
delle
poesie,
lavorato
posso
dice:
fino
a
comprarmi
le
“la
oggi
mia
fidanzata
pomeriggio/
scarpe/Ma
ho
il
e
ha
tutto
diritto
alla
dignità del padrone…” E questo può capirlo la gente che sta lì. Se vogliamo essere i loro compagni di strada, diventiamolo; ma non lo vogliamo in fondo, perché diventa complicato, pauroso. Abbiamo troppo da perdere! Nelle fabbriche si fa l’arte in una maniera differente, perché si superano tante di quelle paure che non sono solo la paura della fame. D
–
La
paura
borghese
dell’autore,
associata
a
quella
della
classe
lavoratrice,
rivoluzionaria, non può tendere verso un unico fine? Se rivoluzione non è cambio di potere, non è questione di perdere un potere perché lo guadagnino altri, ma di lottare insieme per una società diversa…
R – Io ho partecipato a riunioni, e mi sono messo certe volte dentro discussioni con il padrone, ed è vero che fa paura mettersi contro il potere. È la paura del campare per un operaio o per la gente che fa la rivoluzione. È un’operazione che stanno facendo loro, che noi non facciamo. La
componente
della
rivoluzione
non
è
solo
la
fame,
è
più
complicato. Adesso va di moda il cinema latino-americano, dove si alza lo studente che dice: “Ma la rivoluzione è unica”. Siamo d’accordo. Ma il cinema latino-americano vuole rappresentare un continente che si agita in una certa maniera, e dove appunto la base è la fame. Non sono arrivati nemmeno alla ‘cinquecento’, cioè
sono
Americani,
arrivati perché
alle la
miniere gente
di
che
piombo ci
lavora
che
fruttano
viene
pagata
agli 20
centesimi di dollaro, quelli che lavorano per le compagnie di banane
vengono
pagati
cinque
centesimi
di
dollaro
o
hanno
contratti
annuali
da
schiavi.
Facciamo
tanta
confusione
per
crearci degli alibi, la verità è qui. Poi a un festival se vengono gli operai e sbattono giù una sala di proiezione o distruggono un film che non si sa quanto incassa in una settimana, piangiamo. Bertolucci, tutti quanti. Perché poi quelli
‘menano’.
Ieri
gli
slogan
erano
così
(e
anche
l’arte
si
esprime in una certa maniera): “Borghesi e padroni vi rompiamo i coglioni”. Che dobbiamo fare? Noi stiamo ancora a piangere sui film. O andiamo in piazza… Straub va in piazza… D – Crede che si possa trovare un criterio per rendere il cinema accessibile a tutti, o crede come Straub che ogni film sia fatto per un ‘milieu’ limitato?
R – Ogni film deve essere accessibile a tutti, ma non lo può essere. Se io parlo cinese e l’altro parla napoletano, come fa a capirmi? I film sono proprio per un milieu limitato e Straub lo fa, lo sa e continua a farlo. L’arte a che cosa serve, l’artista a che cosa serve? Serve a quello che è servito sempre. Una volta c’era quello che diceva: “Come sa di
sale
lo
pane
altrui,
scendere
e
salir
per
altrui
scale”
(“Tu
proverai siccome sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale”, Dante, Paradiso, verso XVII, ndr). Scriveva la Divina Commedia un capitolo qui un capitolo là, e lo leggeva a quelli che lo proteggevano. Per esempio lavorare per la televisione, nel mare di contraddizioni in cui ci troviamo, è la contraddizione più schifosa che esista. In televisione si vede il bollettino e si vede il telegiornale; come si fa poi a non essere chiari, o ad avere il paraocchi così da rifiutarsi di dichiarare “noi lo facciamo perché prendiamo i soldi. Perché ci danno i soldi. Viaggiamo. E prendiamo i soldi”. Tutti. Perché se non fosse per quello, quando ci dicono che ci sono i fatti
di
(Antonio
Annarumma, Annarumma,
la
guardia
poliziotto
che
hanno
ucciso
a
ammazzato…
Milano
nel
1969
durante una manifestazione dell’Unione Comunisti Italiani e del Movimento Studentesco, ndr) Perché lo stesso Straub come fa poi a fare un film per la televisione, se non lo spinge un disperato egocentrismo d’autore e di potere? Come fa, che alibi ha? Dà alibi
alla
televisione?
Al
Terzo
canale?
i
quarti,
i
quinti
programmi? Parliamo di censura, facciamo il discorso degli autori che sono contro la censura, poi il 70 per cento di questi autori fa
lavori
per
esercitata
la
televisione,
addirittura
dai
dove
hanno
funzionari,
una
che
censura
tagliano
interna,
quello
che
vogliono. D
–
Se
lei
dichiara
di
non
voler
più
fare
film,
questo
potrebbe
significare
di
conseguenza non voler neanche produrre film di altri, cosa che fino ad ora ha fatto, ultimamente ad esempio con i film di Rocha.
R – Non mi sento di incoraggiare altri. Io lo dico chiaramente a tutti quanti che non devono fare film. Sembra che tutti vogliano fare film, esprimersi, realizzarsi col cinema, fare il cinema/vita… Allora? D – C’è una frase tanto ripetuta dal Living Theatre: non possiamo vivere senza denaro…
R – Loro ce l’hanno i soldi. A me del Living Theatre non me ne frega niente, mi sembra talmente una stronzata. Che mi frega del Living Theatre! D – Ci sono elementi autobiografici nei suoi film?
R – Mah, non so se ci sono. Ci saranno …. D – La scomparsa di Marcia Nuziale dopo un inizio che prometteva un circuito normale di distribuzione, l’apparizione brevissima, dopo una lunga attesa di Harem, la riduzione a sketch del L’uomo dei cinque palloni, come potrebbe spiegarceli?
R – Perché non fanno soldi. Per quel che riguarda L’uomo dei cinque palloni, credevo fosse un film che non potesse funzionare e l’ho ridotto a sketch. Sono
stato
due
anni
a
difendere
il
film,
e
poi….
Non
è
importante. Non c’è mica bisogno di dire Ponti è cattivo perché mi ha tagliato il film. Ponti fa il suo mestiere come io faccio il mio. Tiriamo tutti a “piglia’ ” i soldi. D – Parlare di soldi, come ne parla lei, è constatazione amara o semplicemente un dato di fatto?
R – È un dato di fatto che poi diventerà una constatazione amara. Lo diventerà, ora è un dato di fatto. D – Noi la vediamo come un tragico dotato di humour ….
R – Sì, sì. Sarò un tragico dotato di humour. D – In che rapporto sta la sua affermazione che nei paesi socialisti c’è già una maggiore dignità umana, con il fatto di essere iscritto al Partito Comunista Italiano?
R – Io ho detto che gli uomini nei paesi socialisti, in Russia, con tutti gli errori e gli sbagli, sono preferibili… Bisogna spingere il ragionamento, stare a contatto con gli operai delle fabbriche. I film di Straub o quelli miei, gli operai non li vogliono vedere. Noi
abbiamo
il
linguaggio,
noi
parliamo
il
linguaggio
dei
padroni. D – Gli operai non sono più quelli che nel ’20, non capivano il Potëmkin…
R – Il Potëmkin a che serve? Quello era un altro buono! Quello ha pianto tutta la vita! È andato in America, fa un film di sei ore per la MGM dove c’erano dentro gli Ebrei che avevano le lavanderie e poi piange perché gliene tagliano tre ore! Cosa voleva? Dico, non l’ho capito cosa voleva! Chi glielo ha detto di farlo! Sono stati addirittura di una paziente gentilezza,
l’hanno
trattato
come
sempre
con
una
pazienza
infinita… due anni, tre anni di carteggi, di lettere. Infatti l’unico simpatico è quello che è crepato, quello che faceva anche l’attore, come si chiamava? Von Stroheim! Quello era uno che sapeva. Faceva i film di otto ore e poi glieli tagliavano, ma lo sapeva,
capiva.
Tutti
mi
dicono:
voglio
fare
un
film
su
Majakovskij, per le contraddizioni intellettuali. Ma non esistono le contraddizioni intellettuali. Se Majakovskij, non stava bene in quell’epoca, non era l’epoca sua, non capivano le sue poesie, non le potevano capire. Gli alberi di Natale con la testa in basso. O quello che ha fatto La Corazzata Potëmkin! Mai che ci sia stato uno che abbia fatto prima il film… Se uno avesse fatto il film e il giorno dopo gli operai avessero preso la Corazzata… no! prima hanno preso la Corazzata, poi quello ha fatto il film. Non se la sarebbe mai pensata di farlo! O Godard, nell’ultimo film Vento dell’est mostra ancora come si costruiscono le bombe, persino la bomba atomica, a puntate. Tutti ormai l’hanno detto, e adesso lui esce fra un mese con un pezzo su come si costruiscono le bombe. Le compagnie di assicurazione fanno la pubblicità con la bomba
Molotov,
dicono:
domani
può
succedere
questo,
assicuratevi in tempo! D – Lei ha detto che pur iscritto al Partito Comunista cerca di lavorare per il partito operaio,
il
gruppo
Rivoluzione?
di
Lotta
Continua.
Ora
come
fa
a
sentirsi
al
di
fuori
della
R – Io non mi sento al di fuori della Rivoluzione, io sono al di fuori, perché so che sto al di fuori. Dovrei entrarci. Io non dico che non si possa essere autori e rivoluzionari, l’autore quando diventa agitatore politico diventa un rivoluzionario. Perciò c’è un sacco di lavoro da fare per un autore, non solo fare film, c’è da andare
nei
quartieri,
fare
politica
di
quartiere…
ma
se
lo
ripetiamo, diventa slogan anche questo. D – Ma come si può fare questo lavoro se non c’è comunicazione, ovvero se noi usiamo il linguaggio dei padroni?
R – La comunicazione non può esistere andando in piazza a parlare, la comunicazione esiste se si partecipa, che vuol dire usare parole che sono azione, come alla Fiat ad esempio. D – Così si può comunicare anche con i film a un gruppo limitato come la Fiat?
R – Ma no! Quali film? A quale gruppo? Come influenzarlo? I gruppi che sono influenzati dai film non partecipano a una lotta rivoluzionaria. D – Ma quelli che partecipano alla rivoluzione non possono essere in qualche modo informati dai film?
R – Ma perché bisogna fare dei film per informare? Bisogna fare dei film (come per l’arte) che nascano da un linguaggio comune al maggior numero di persone. Per avere un linguaggio comune al maggior numero delle persone bisogna che si cominci ad avere un dialogo. Se questo dialogo non c’è, come si fa a comunicare? D – Allora, lei ora sta cercando di comunicare per poi più tardi continuare a fare i suoi film?
R – Può darsi che farò dei film. Non ho detto chiudiamo, l’arte è finita, l’arte non esiste. Io sono talmente ottimista da pensare che l’arte possa avere una funzione. Adesso ha semplicemente una funzione per il potere, cioè è uno strumento del potere. Tutti noi siamo
signori
al
servizio
del
potere,
compreso
Bertolucci,
compresi i Taviani, compresi perfino quelli che fanno il nuovo cinema americano. Però noi oltre che subirlo, il potere, “pigliamo i sòrdi”, gli altri invece lo subiscono e basta, perché ne prendono meno. D – Ogni uomo ha bisogni primari e secondari in alternanza, così che ogni uomo ha motivo di fare la rivoluzione e di unirsi a quel ‘popolo’ che si sta imborghesendo…
R – Certo. Appunto! Ognuno avrebbe il motivo per unirsi. Però gli artisti non si uniscono perché temono di perdere i soldi. I soldi. I soldi. I soldi. Le lire, i dollari, i franchi francesi … I soldi danno le macchine, danno la possibilità di comprarsi un biglietto d’aereo.
Dunque
si
sta
bene
attenti,
e
dopo
si
fanno
tutti
i
discorsi, gli sforzi, le paure… Per un’artista era bellissima l’epoca dell’Esistenzialismo,
così
come
oggi
quella
dell’Alienazione…
sono alibi favolosi che possono servire benissimo! D – Lei ha un settore particolare d’influenza, quartieri di Roma o altre zone dove lavora per il potere operaio?
R – Quando posso, lavoro al Nord, Milano, Torino. Ma è sempre un
lavoro
non
a
tempo
pieno,
non
è
la
piena
occupazione.
L’operaio fa la rivoluzione dalla mattina alla sera, la fa vivendo. Noi siamo fuori dalla vita, non sappiamo niente. La rivoluzione non
deve
essere
un
cambio
di
potere,
la
rivoluzione
è
la
rivoluzione. E la rivoluzione non verrà fatta quando gli operai capiranno i film di Bertolucci, magari! Sono sicuro che Agnelli farebbe
subito
i
circoli
del
cinema.
Per
loro
riconquistare
la
dignità di un uomo non è capire un film di Bertolucci. Essi non hanno bisogno di migliorare o di avere una carica. Hanno una carica
tremenda,
se
la
costruiscono
da
soli,
si
fanno
le
loro
sceneggiature dalla mattina alla sera: “tu devi dir questo, io entro, parlo, dico questo.” Lo vivono questo dramma. Meno male che gli studenti si muovono. Poi c’è il fratello di Bellocchio, con i Quaderni Piacentini…
Conversazione – novembre 1972
MIKLOS JANKSÓ INTERVISTATORI:
J – Miklos Jancsó S – Sebastian Schadhauser B – Edoardo Bruno D – Altri intervistatori S – Ho letto dei passaggi di un libro di George Orwell, 1984 ed ho scoperto che nei tuoi film è presente lo stesso disperato concatenamento, come in questo libro. Gli avvenimenti
accadono
in
una
consequenzialità
senza
scampo,
per
esempio
nelle
uccisioni; nei tuoi film le uccisioni avvengono senza discuterle in precedenza, sono prive di psicologia.
J – È giusto, si tratta di un libro senza psicologia, potremmo definirlo kafkiano. B – Di quale opera stiamo parlando? S – George Orwell, 1984. B – Ah, bel libro! Nell’ Agnus Dei (1970 ndc), trovo che la figura inquietante sia quella del prete, perché si tratta di ideologia rovesciata; tuttavia, mi sembra che l’opera prosegua il discorso sulla natura del fascismo, sulla restaurazione e circa una certa non-ragione ideologica.
J – Difatti, Agnus Dei è un film molto diretto. B – Agnus Dei è più diretto e più terribile, costituisce proprio la distruzione di questa ideologia, ma allo stesso tempo l’ossessione interna del film ne diventa la radiografia. Trovo molto bello l’inizio del film, con il prete che si spoglia e da vita a certi suoi isterismi. S – Mi sembra che in molti film siano compresenti tanto il positivo che il negativo, ovvero in certi tuoi film si trova un’immagine di cui in un altro film realizzi il negativo. Ad esempio riprendi una folla e poi una persona sola nel campo e tale procedimento è visibile in una delle ultime inquadrature di Agnus Dei. Nel momento in cui è visibile il treno, sono presenti tanto il vetro illuminato che il nero, ovvero è in atto uno scambio dal positivo al negativo.
J – Non credo, perché tutto ciò non è voluto. S – Certo, non è voluto.
J – Accade per caso.
S – Tuttavia è strano che si oppongano delle inquadrature, l’una contro l’altra. B – Mi sembra più giusto il fatto che nella totalità delle immagini non esiste una scelta particolare in questa direzione, ma una percentuale di casualità che rientra nel principio di organizzazione generale.
J – È interessante che esistano film che colpiscono per la ricerca sulle immagini, ma quest’opera è priva di tale ricerca. S – Non sostengo certo che si tratti di una ricerca, l’ho osservata soltanto come casualità.
J – Si possono definire belle immagini, ma ciò che realmente ricerco sono i campi per i movimenti degli attori nello spazio e una scena per recitare. B – Non so se conosci un breve articolo molto interessante di Antonioni, scritto dopo il suo Blow up (1967 ndc) ed incentrato proprio sulla realtà fisica che il film inventa e che in realtà non esiste.
J – Assolutamente vero. B – Applicando tale concetto al piano sequenza, direi che esiste una realtà che sfugge agli occhi durante la ripresa e che, dunque, rappresenta una scoperta anche per lo stesso
autore
che
non
può
aver
controllato
ogni
singolo
elemento
di
scena.
I
problemi importanti costituiscono per i grandi autori solo problemi di contingenza. La grande tecnica e la grande espressione, sono proprio conseguenze l’uno dell’altra. Ne La tecnica e il rito (1971 ndc), ad esempio, si affronta una problematica diversa attraverso il personaggio di Attila, che mi è parso particolarmente riuscito, poiché rappresenta
un
segno
tra
una
Storia
ed
un’altra
Storia;
si
può
affermare
che,
attraverso Attila, abbia inizio la Storia moderna, che reca relazioni disumane, ma storicamente moderne.
J – Conosco molto bene la storia di Roma antica. B – Mi sembra che stai preparando un film sull’Antica Roma (Roma rivuole Cesare, 1973)
J – Il pensiero di Cesare, ma anche quello di Ottaviano, risultano più moderni di quelli espressi da Nixon o da Pompidou. B – Lo stesso Attila è più moderno, mi sembra che tu lo dipinga come un profeta dell’età nuova, priva di moralismi ed a me è piaciuto molto per questo. Ho compreso il film a partire da quel momento; è la storia contemporanea, è l’era moderna che nasce
con
Attila.
Ho
visto
una
scultura
di
Moore
a
Firenze,
il
Guerriero
addormentato, che raffigura il guerriero con una sorta di scudo somigliante anche quello ad un tamburo; si percepivano lo stesso ritmo e la stessa sensazione che ho provato nel vedere La tecnica e il rito. Un teorico americano, Gene Youngblood, nel suo
libro
struttura
sul di
cinema tale
espanso,
cinema
lo
Expanded
spettatore
cinema
può
(1970
ndc),
autonomamente
sostiene ricreare
che
nella
ogni
film
desiderato e dedica a Michael Snow un intero capitolo, nel quale lo identifica quale
uno dei massimi rappresentanti di tale modello cinematografico. Questa teoria mi sembra molto interessante, tuttavia io la applico a tutti i film, non solo a quelli espansi; sono convinto, infatti, che ogni film si possa reinventare e, dunque, trovo arbitraria la sua distinzione tra il cinema tradizionale ed il cinema espanso. In tal senso, trovo che il tipico cinema espanso sia proprio quello realizzato da Jancsó, proprio nella scoperta continua della realtà che avviene nell’atto stesso del filmare.
J – Assolutamente vero. D – Come è nata l’idea di realizzare un circo?
J – A Parigi un amico mi ha proposto di affittare un circo. B – Un circo che comprenda tutto, ovvero teatro, clowns, umorismo.
J – Certo, diciamo un circo provvisto di sceneggiatura, diverso da quello tradizionale. B – Ritengo che un film non rappresenti altro che un gesto, un’opera, un modo di pensare; tuttavia, possiamo conoscere a fondo una persona soltanto attraverso il suo modo di pensare.
J – È vero, ma io credo che sia necessaria anche la presenza del gioco. B – Certo che il gioco deve esserci, ma questo implica anche una scelta. S – A mio avviso un film costituisce anche un modo di lavorare. B – Sono d’accordo. S – Ritengo il cinema un lavoro molto più fisico che mentale. B
–
In
un
certo
senso
hai
ragione,
ma
non
possiamo
distinguere
l’azione
dal
pensiero. S – Questo mai; tuttavia, in un film sento maggiormente la presenza del lavoro fisico che del pensiero. B – È vero, ma penso anche che un film ci permetta di riflettere profondamente. S – Lo spirito di un film si rivela quando è terminato e proiettato. B – In quel momento il film diventa davvero autonomo, ovvero, attraverso la sua proiezione, il film si distacca dalla fase di realizzazione. D – È per questo motivo che in genere non vedi i tuoi film, una volta terminati?
J – Vedo soltanto l’ultima copia e, certo, ritengo che girare un film
costituisca
anche
un
mestiere,
un’esperienza
pratica
che
comporta delle scelte. S – Il lavoro su di un’idea, comporta la costruzione dell’inquadratura.
J – Dunque, presuppone una scelta. B – Il tuo cinema rappresenta contemporaneamente una verifica ed un’invenzione.
Conversazione – novembre 1972
ELIA KAZAN D – Nei tuoi film, Wild River (Fango sulle stelle, 1960), Splendour in the grass (Splendore nell’erba, 1961), America America (Il Ribelle dell’Anatolia, 1963), hai cambiato
il
modo
di
dirigere
gli
attori:
da
un’interpretazione
più
esteriorizzata,
sembri guidarli verso una maggiore interiorizzazione del personaggio.
R – Io non credo di essere cambiato, credo che i temi affrontati siano cambiati nel tempo; la visione che ho degli altri è cambiata, sono meno alla ricerca di simpatia e, di conseguenza, i personaggi appaiono
più
complicati;
cerco
di
non
proporre
degli
eroi
perfetti, che si comportino in modo assolutamente corretto e per questo sembrino più umani, almeno questo è ciò che penso. Non ho propriamente cambiato il mio modo di lavorare con gli attori, piuttosto ho cambiato il mio gusto nello stile interpretativo. Ho fatto la stessa cosa in The Arrangement (Il Compromesso, 1969); non
sono
presenti
personaggi
totalmente
piacevoli,
né
completamente sgradevoli, essi rappresentano persone normali, con i loro problemi e vengono osservati ad una certa distanza; sembra essere presente un minore attaccamento ai personaggi, un limitato senso di simpatia e lealtà. Quale autore, io non sostengo nessuno ed in tale aspetto, credo risieda la differenza essenziale. Tutti gli attori con cui ho lavorato nei film che hai menzionato, sono attori con cui avevo girato in precedenza. Li conoscevo bene,
con
l’eccezione
di
Warren
Beatty.
In
sostanza
non
ho
lavorato in maniera diversa. Siete tutti membri della cineteca qui? D – Si
R – L’avete fondata voi? Quanti film avete nella vostra collezione? D – A dire il vero stiamo solo iniziando. Perché in Italia esiste il problema della presenza di due importanti cineteche, entrambe chiuse al pubblico. Noi vorremmo una cineteca aperta al pubblico.
R
–
Per
studenti.
Perché
le
cineteche
pubblico? D – Non lo sappiamo.
R – Sono chiuse anche ai giovani studenti?
non
sono
aperte
al
D – Si, a tutti. Inoltre sussiste il problema della versione originale dei film. In Italia non
è
possibile
vedere
un
film
in
versione
originale.
Esistono
soltanto
versioni
doppiate.
R – È terribile. Buona fortuna. D – Dopo il film America America, dove è presente un cast di non professionisti, come mai hai utilizzato nomi da box-office per The Arrangement?
R
–
Non
credo
semplicemente
siano
attori
esattamente che
hanno
nomi
da
box-office.
interpretato
alcuni
Sono
film
di
successo e che hanno goduto di molta pubblicità. Credo siano tutte stupidaggini. Molti nomi da box-office non sono garanzia di
successo
sicuro
e
non
costituiscono
una
fonte
di
grandi
guadagni. Sono soltanto attori nel giro da tanto tempo. Hanno i loro problemi, difficoltà ed incertezze, come tutti gli altri. Mi sarebbe
piaciuto
avere
dei
migliori
interpreti
per
alcuni
dei
personaggi presenti in America America. In realtà, sono presenti moltissimi attori sconosciuti nel film. Provengono dal teatro di New York e li ho portati in Grecia. In quest’ ultimo film, invece, l’unico attore che non conoscevo è Kirk Douglas, con tutti gli altri avevo girato in precedenza. Sono tutti miei amici. Non so esattamente se si possano considerare
attori
da box-office.
Se
interpretano un buon film sono da box-office, altrimenti non lo sono. Tutto questo non esiste più, il sistema è crollato. Non ci sono più stelle, sono tutti in difficoltà. È crollato tutto questo stupido sistema. D – In The arrangement è presente il tema principale che percorre tutti i tuoi film. Il film ha luogo o dovrebbe aver luogo fra l’ideale e la realtà. The arrangement è quindi il prosieguo di America America?
R – Da un certo punto di vista lo è. Il tema trattato è simile. Ma non ne costituisce il seguito. Si tratta di un nuovo inizio, dopo un lungo intervallo di tempo da America America; tuttavia il tema è prevalente in gran parte del mio lavoro. Ovviamente, tratto anche altri argomenti, ma questo è un tema persistente in quello che
faccio,
costituisce
il
conflitto
interiore
che
nasce
tra
un
obiettivo e l’altro. Uno degli obiettivi è indotto dalle pressioni esercitate dalla società ed un altro è indipendente da esse. Tale definizione sembra riduttiva, ma è qualcosa di simile. Parlandone in modo sintetico è certamente riduttivo. D – In Wild river ed in A face in the crowd (Un volto nella folla 1957), descrivi
aspetti della vita americana in relazione alla politica. Anche The Arrangement segue tale direzione ?
R – In parte certamente. Credo che la politica debba essere intesa in senso lato, in quanto ogni cosa ne è permeata. Il mondo sta diventando un complesso intreccio di eventi, e la politica può essere definita non solo come una serie di comportamenti in ambito politico, ma anche come una gamma di ripercussioni sull’individuo. raggiungere politiche effetto
e
Forse,
le
persone,
delle
sullo
rappresenta
modo
dimostrando
tensioni
spettatore,
il
i
sociali
le
in
cui
conseguenze
sull’individuo.
personaggi
possiamo
sullo
Per
delle
avere
schermo
un
devono
apparire simili al pubblico in modo che quest’ultimo non abbia vie
di
fuga.
È
così,
particolarmente
in
America,
dove
devi
indicare al pubblico: “questo sei tu e questa è la ragione del tuo comportamento”.
Esistono
pressioni
di
natura
sociale
che
comportano delle conseguenze psicologiche. Questo è ciò che il film The arrangement cerca di esaminare. Verificare la struttura complessiva
della
piccolissima
vita
americana,
dell’individuo.
In
attraverso
altre
la
parole,
fessura
attraverso
l’osservazione dell’individuo si comprende qualcosa della società. Questa è l’idea di fondo. In alcuni casi affronto tale indagine in questo modo, mentre in altri utilizzo un approccio più generale, come in Wild river o in A face in the crowd. Di conseguenza osservo le stesse cose ma da angolazioni diverse. D – Ti consideri un outsider, rispetto ad Hollywood, dove sei comunque costretto ad usare gli stessi distributori e produttori ? Non ci sono altre soluzioni, secondo te, per uscire dalla morsa del sistema?
R – Il sistema non mi ha disturbato troppo; non mi avvalgo di produttori, mi auto produco. Da loro ricevo solamente il denaro, ma non interferiscono. Per contratto, non possono farlo. Ma ci sono anche altre risorse, sempre più disponibili e credo che tutto questo
porterà
ad
un
cambiamento
nell’operato
di
tutti
noi;
esiste un numero sempre maggiore di risorse economiche, e molti di noi cambieranno. Penso davvero che, se sei sufficientemente forte, tutto ciò sia possibile e che tu possa evitare le pressioni che provengono dall’esterno. Il sistema ha interferito in alcuni film, ho avuto dei problemi di censura e hanno distrutto i miei film in televisione, ma in generale non mi posso lamentare.
D – Prima del prossimo film hai intenzione di scrivere un libro, come hai fatto per America America?
R
–
No,
sto
facendo
un
film
scritto
da
Budd
Schulberg,
lo
sceneggiatore di A face in the crowd. Parla dei portoricani. In questo momento voglio soltanto girare il film, non diverrà un libro. Allo stesso tempo, sto scrivendo un libro, ma non credo che ne farò un film. D – In Italia, invece di mostrare i film in versione originale li doppiamo. Cosa ne pensi?
R – Penso che dovrebbero esserci i sottotitoli. A me piace la versione originale e non amo le voci doppiate. Sono terribili. Se il doppiaggio è buono, è ancora peggio. Tutte le voci hanno lo stesso suono e migliori sono le voci, peggiore è il risultato. Sono simili in tutti i film. Tutti i personaggi parlano allo stesso modo. E le donne eseguono sempre l’interpretazione di come dovrebbe essere una voce sexy. Fanno ridere. Non riuscivo a vedere il mio film, l’altro giorno. Ho spento dopo qualche minuto. Suppongo che sia colpa mia, per non aver tentato con insistenza di ottenere che non venisse doppiato; il fatto è che non ne ho avuto il tempo.
Mi
piacciono
i
sottotitoli,
ma
brevi.
Non
voglio
che
riportino tutto ciò che viene detto; è corretto che diano un’idea del dialogo, permettendo al pubblico di comprenderne il senso. Un
sottotitolo
breve,
così
da
indovinare
ciò
che
viene
detto
dall’intonazione, dal comportamento. D – Non si ha il controllo sui propri film, per non farli doppiare?
R – No. Forse lo potrei avere se solo volessi, se insistessi; c’è molto che si potrebbe fare, ma se facessi tutto questo, non potrei girare un altro film; dovrei andare personalmente in un altro paese, oppure dovrei inviarvi qualcuno. Potrei forse farlo, non lo so, ma sarebbe uno sforzo enorme e la cosa impiegherebbe tanto tempo. Dipende da cosa si vuole fare nella vita. Tuttavia non mi piace, lo detesto; forse dovrei ingaggiare una persona di fiducia, potrebbe essere la soluzione. D – Per noi, rappresenti in modo particolare la società multietnica Americana: nato in Turchia, di origine greca, frequenti le scuole pubbliche americane, fai esperienza in teatro e poi nel cinema. La tua estrazione sociale deve aver dato origine a diversi conflitti, affrontando le contraddizioni e le complessità della vita, che sono presenti nei tuoi film. La domanda, quindi, è la seguente: questa tua condizione ha portato
ad una situazione positiva o ad un conflitto perenne?
R – Questa è una buona domanda. Potrebbe dare origine ad un’autobiografia. L’unica risposta che posso darvi, è di vedere i miei film perché è evidente che il conflitto continua. Io amo il mio
paese,
provo
dei
sentimenti
molto
intensi
verso
di
esso,
nutro una grande ammirazione nei confronti delle sue tradizioni e delle persone. Ricevo anche delle critiche forti e dolorose, che non sembrano diminuire, ma peggiorare nel tempo. Tuttavia, penso che sia dovere di ogni cittadino di contestare in maniera leale.
Tutti
dovrebbero
denunciare
lo
stato
gridare
delle
con
cose.
rabbia
In
il
proprio
fondo,
gli
sdegno,
studenti
si
comportano in modo analogo quando dichiarano: “L’America che
avete
America”.
creato
non
Affermano
è di
un’America voler
giusta,
prendere
il
non
potere;
è
la
nostra
annunciano
slogan come “potere agli studenti, potere ora”. Hanno ragione, io sono dalla loro parte. Per contro, coloro che governano oggi il paese non godono della mia simpatia. Come risposta alla tua domanda, ritengo in un certo qual modo di essere tollerato. Ho guadagnato del denaro con alcuni dei miei film; spesso le opere migliori non fanno soldi e la gente non si interessa al tuo lavoro, ma,
giunto
a
questo
punto,
ritengo
di
poter
fare
i
film
che
desidero. E penso, come ho già detto, di girare dei film che rappresentino la società attraverso l’individuo o che la illustrino in modo più generale. Non penso di essere condizionato. Mi muovo in un conflitto perpetuo, il che significa che sono vivo. Se sei
vivo,
sei
in
conflitto.
Un
matrimonio
silenzioso
è
un
matrimonio morto, no? Quando due persone vivono insieme senza parlarsi, il matrimonio è finito, ma nel momento in cui cominciano a litigare, allora tutto migliora, non credi? In realtà, non si ambisce ad uno stato in cui tutti siano soddisfatti. D – Quanto tempo hai impiegato per girare The arrangement?
R – Cinque mesi di girato, cinque mesi per il montaggio e ci sto ancora lavorando. Devo fare altri cambiamenti. D – Quanto è costato?
R – Non si dovrebbe dire… D – Dove l’hai girato?
R – New York. D – È possibile lavorare con una troupe ridotta?
R
–
Sarebbe
bello
poterlo
fare,
ma
i
sindacati
sono
comprensibilmente preoccupati a questo riguardo, perché non vogliono che il proprio lavoro sia compromesso. Tutto questo crea un problema, ma le troupe sono troppo grandi. Siccome si produce di meno, aumentano lo staff; non è certo un problema che possiamo ignorare, ma da un punto di vista artistico, una troupe
di
grandi
dimensioni
è
un
disastro,
perché
quando
salgono i costi, si debbono, inevitabilmente, accontentare più persone e girare film che non piacciono a tutti. Bisogna tenere i costi al minimo; la cosa è possibile, come dimostra il fatto che esistono molti film fatti, per così dire, clandestinamente, grazie a delle
troupe
ridotte
di
tre
o
quattro
persone.
Tuttavia,
non
appena dovessero ricevere dei fondi, i sindacati si metterebbero immediatamente in azione. Penso che la soluzione sia quella di ottenere delle troupe ridotte, accordandosi con i sindacati. D – Che considerazione hai dei film clandestini?
R – Questa parola ha molteplici significati; può significare film di contenuto a sfondo sessuale, che mi piacciono… D – Andy Warhol?
R – Non mi piacciono i suoi film. D – E cosa pensi di Shirley Clarke?
R – Mi è piaciuto uno dei suoi film, Portrait of Jason (Ritratto di Jason 1967), un buon film. Un gran numero di film è prodotto clandestinamente, senza che lo sappiano i sindacati e la cosa è significativa; si tratta di film che parlano di sesso o girati senza la partecipazione di troupe del sindacato. Questo vuol dire girare in set dove le comparse non vengono pagate, al massimo un dollaro al giorno. Tutto ciò promuove un atto di indipendenza e rende il film
espressione
di
un
individuo,
e
non
di
un
gruppo.
Certamente mi aiuterebbe avere una troupe ridotta. D – Recentemente hai visto film che consideri politicamente importanti?
R – La battaglia di Algeri di Pontecorvo, è il film che preferisco. Ritengo
sia
indirettamente
un
film
di
notevole
importanza
politica. Fa un ritratto comprensibile del colonnello francese. Nel film
si
comprendono
le
sue
azioni,
pur
se
imperialiste
ed
il
motivo che lo spinge ad agire. Si può disapprovare, ma si capisce la
complessità
Pontecorvo
fa
della del
situazione
personaggio.
attraverso In
questo
il
ritratto
senso
è
che
un’opera
educativa, racconta agli spettatori ciò che è accaduto veramente. Ammiro moltissimo quel film, anche se non conosco le altre sue opere. È un ottimo film; tuttavia, non ne ho visti altri, non ne fanno. Perché sono film che non portano ad incassi rilevanti e, di conseguenza, non destano interesse. Il sistema cinematografico è interessato a fare soldi e non c’è nulla di male, dunque non vedo molti film politici in circolazione. Ce ne sono? D – C’è Robert Kramer, che ha fatto In the country(In campagna, 1966) e The edge (Il margine, 1967). Li hai visti?
R – Ho visto The edge. Non voglio commentare. D – Quale regista italiano attuale consideri più importante?
R – Odio questo tipo di domanda. Sembra adatta ad un trafiletto gossip, mentre voi siete persone serie; capirei se mi chiedessi perché
considero
caratteristiche, importante”?
tale
quali
Si
regista i
tratta
importante,
meriti
di
una
artistici,
lista
e
vi
quali ma
sono
sono
“chi
le
sue
consideri
troppe
liste
nel
mondo del cinema. Potrei nominare Pontecorvo, Fellini, Pasolini. Tutti
citano
significa
quei
nulla.
nomi,
gli
Gradirei
articoli
una
ne
domanda
sono
pieni,
tecnica.
ma
Ho
non
appena
spiegato che ne La battaglia di Algeri, il regista descrive le cose nella
loro
complessità,
comprendere
il
perciò
problema
del
lo
spettatore
colonialismo;
è
in
grado
anche
se
di
non
condivido il comportamento del personaggio, allo stesso tempo ne
comprendo
le
azioni
e
intuisco
le
pressioni
cui
doveva
sottostare. In tale senso, ha fatto un buon film di sinistra, un film politico migliore di un semplice ritratto. Non amo indicare i dieci migliori film della storia del cinema o cose del genere. D – Quali sono allora i registi che consideri più importanti nella storia del cinema?
R
–
Rossellini
ha
influenzato
molti
autori.
Oggi
è
stato
dimenticato, ma Roma, città aperta e Paisà sono opere molto importanti. Fellini scrisse per Rossellini, influenzando a sua volta molti registi. De Sica è oggi dimenticato, è solo un attore, ma i
suoi film Sciuscià e Ladri di biciclette hanno esercitato una grande influenza
sul
cinema
americano.
Non
bisogna
dimenticare
il
personaggio del padre. Poi c’è Pasolini, il cui cinema è molto intenso ed interessante. Ricordo anche Visconti che, con Rocco e i suoi Fratelli,ha segnato il cinema americano. Si possono girare film buoni o cattivi, ma si lavora con pari intensità tanto su di un film
meno
riuscito
che
su
di
uno
valido;
si
gira
in
maniera
sincera, con le stesse intenzioni. Ritengo che Pontecorvo abbia meritato tutto l’interesse di cui è stato oggetto, anche solo per quell’unico film. D – Il motivo della domanda è di capire la prospettiva, il punto di vista di un americano.
R – Tutti i film che ho menzionato hanno significato molto, in America. D – Voi magari vedete le cose diversamente. A noi oggi piacciono registi come Bertolucci.
R – Si, mi piace Bertolucci. Lo avevo dimenticato. Ha fatto La Cina è vicina… D – No, quello è Bellocchio…
R – Ah, Bellocchio. Cosa ha fatto Bertolucci? D – Prima della rivoluzione.
R – Si. L’ho visto, mi è piaciuto. Seguiamo i vostri film con grande simpatia, ci piacciono. Sono importanti, senz’altro per alcuni di noi. Vivendo a New York posso vederne in numero maggiore rispetto ad altri registi che vivono in California. D – Abbiamo visto Sweet charity (Sweet charity, una ragazza che voleva essere amata, 1968, di Bob Fosse) e l’abbiamo trovato simile a Le notti di Cabiria, di Fellini. (risate…) Ne hanno fatto un musical, genere fantastico negli anni 50, penso ai musical di Busby Berkley, ma oggi di certo in crisi ed alla ricerca di un nuovo linguaggio.
R – Il musical non è finito, di certo tornerà in voga. Ho inserito svariati elementi musicali in A face in the crowd, molto belli. In parte era un musical. Ora devo andare. Un’ultima domanda? D – Sì, una cosa della quale discutiamo spesso tra di noi. In passato hai fatto alcune dichiarazioni politiche importanti, hai espresso delle opinioni direttamente al Film Board
of
Directors.
The
Arrangement
ha
costituito
una
spiegazione,
una
giustificazione del tuo atteggiamento?
R – Non mi interessa giustificare niente di quello che ho detto. Inoltre, oggi non credo del tutto in ciò che ho detto allora o anche
ieri
sera
e
di
certo
non
cercherei
di
giustificarmi.
È
evidente che ho espresso la prospettiva del racconto della classe media, attraverso il punto di vista di un personaggio. In tale senso, è auto-esplicativo. Domani potrei forse fare un altro film sulla classe media, ma in modo completamente diverso. Non sarebbe diverso nella sostanza, ma nella forma. Vi auguro buona fortuna, con la vostra cineteca. È importante averla. Ce n’è una a Parigi ed è fantastica. D – Ci hanno lavorato trent’anni!
R – È splendida. Hanno proiettato il mio film, l’altra sera. Ero presente, c’erano tanti spettatori ed ero felice per loro. D – Ho qui un manifesto per la richiesta di una cineteca pubblica. Lo firmeresti?
R – Certo, mettici pure il mio nome. (Si parla di un presunto assistente di Pasolini)
K – Che tipo è Pasolini? Che uomo è? D – Lo incontreremo la prossima settimana.
Intervista a
JOSEPH LOSEY LOSEY – RL RISPOSTA INTERPRETE – RI DOMANDA – D D – Partiamo dalla sceneggiatura: pare che Losey abbia trovato l’accordo per la pubblicazione con un editore italiano.
RI – Sì, me ne hanno parlato. Gli hanno proposto di farlo, ma non esiste sceneggiatura e, dunque, non c’è niente da pubblicare. Inoltre, non ne detiene i diritti. (rivolta a Losey) Sta parlando della
pubblicazione
della
sceneggiatura
del
film
su
Trotsky
(L’assassinio di Trotsky, 1972 ndc). Ho detto che c’è stata una richiesta, ma non esiste una sceneggiatura da pubblicare. RL – La sceneggiatura è stata riscritta durante le riprese e non esiste
un
copione
trasformato,
completo.
abbiamo
Tutto
continuato
a
è fare
stato
completamente
ricerche
su
ciò
che
Trotsky ha scritto e detto e tutto questo è stato aggiunto; ad ogni modo, i diritti appartengono all’autore ed al produttore. Nel corso della ricerca del materiale e della realizzazione del film, almeno fino ad ora, si sono presentate notevoli contraddizioni. Tenendo
da
parte
i
fatti
in
merito
all’assassinio,
per
ogni
informazione rintracciata ne esistono due che la contraddicono. Molte persone hanno dichiarato di essere state presenti durante la sua morte, ma sappiamo che quando è morto, erano presenti soltanto il suo avvocato, la moglie, i medici e uno, o al massimo due,
segretari.
L’assassino
non
si
è
mai
discostato
dalla
sua
versione dei fatti, che rappresenta una chiara copertura, perché falsa e piena di contraddizioni ed inoltre, sono passati trenta anni. Dunque, per quanto riguarda il film, descriviamo i fatti, il resto è lasciato aperto all’interpretazione. D – Hai interpretato alcune cose?
RL – Dipende da cosa intendi per interpretare. D – Se hai interpretato determinati fatti dal tuo punto di vista.
RL – Se ho espresso le mie opinioni? Ho filmato ciò che ritenevo credibile, probabile e possibile. D – A parte questo, avrai anche selezionato i fatti.
RL – No, i fatti sono i fatti. Non si selezionano, esistono. D – Per scelta, intendo magari l’esclusione di alcuni avvenimenti.
RL – Non credo proprio di aver escluso dei fatti, magari posso aver inserito eventi non accertati, ma che mi sono stati riferiti da persone per le quali nutro il massimo rispetto. D – Dunque, il tuo film si basa su fatti che permangono interpretabili, dato che non li hai sottoposti ad alcuna indagine.
RL – Per quanto riguarda la dottrina di Trotsky, abbiamo tentato negli anni, attraverso l’ascolto dei dittafoni, a comporre le linee principali
del
suo
pensiero
teorico,
in
modo
totalmente
oggettivo. Il mio fine principale è quello di delineare il grande ascendente
di
quest’uomo,
che
ha
influenzato
il
corso
dell’umanità. Dunque, racconto la storia della sciagurata, sordida distruzione di un grande uomo e degli ultimi momenti della sua vita, tentando di definirne il contesto. D – Vorrei sapere se il fatto che Losey abbia scelto l’ Italia, piuttosto che il Messico, quale scenario per il film, risponda ad una particolare esigenza.
RI – Avrebbe voluto girarlo in Messico, ma successivamente gli è stato
comunicato
il
parere
negativo
del
governo
messicano;
avrebbe poi dovuto girarlo in Spagna, ma sussisteva lo stesso problema. RL – Mi sono trovato in una situazione difficile, nella quale avrei mancato ad un preciso impegno non girando il film. Dunque, mi sono trovato in trappola. La condizione che ho chiesto in Spagna era
che
non
vi
fossero
censure
ed
invece
scattarono
immediatamente. RI
–
Di
conseguenza,
finanziamento
del
film
il
produttore
attraverso
una
ha
organizzato
coproduzione
il
Italo-
Francese. D – Mi sembra partecipi anche Losey quale produttore.
RL
–
Ma
produttore.
non
in
relazione
al
finanziamento.
Solo
come
RI – Una volta esaminata la situazione, Losey si è reso conto del fatto che girare interamente il film in Italia avrebbe rappresentato un’impresa impossibile e, dunque, si è recato in Messico dove ha ottenuto il permesso di girare alcuni esterni per sei settimane. Non ha scelto di girare il film in Italia. D – Cosa ti ha portato alla scelta del soggetto?
RL – In parte è una reazione ad alcune mie esperienze personali; poco più di un anno fa, mi fu proposto da uno scrittore della lista nera di Hollywood e lo trovai affascinante, probabilmente proprio a causa delle mie passate esperienze. D – Non vuoi aggiungere altro?
RL – Non c’è molto da dire; procedendo con le mie ricerche su Trotsky,
mi
sono
reso
conto
di
conoscere
ben
poco
sull’argomento. Negli anni trenta, il trotskismo era conosciuto e divulgato non tanto attraverso le parole del suo protagonista, ma grazie alle operazioni politiche di coloro che esprimevano le sue idee,
le
quali
apparivano
provocatorie,
nichiliste
e
disfattiste.
Successivamente, abbiamo compreso come il pensiero comune su Trotsky non ne esprimesse autenticamente azioni e parole. Di conseguenza, mi sembrava opportuno chiarire tale aspetto oscuro nella
storia
degli
anni
Trenta
e
questa
rappresenta
la
mia
motivazione soggettiva. D – Per quale motivo avete intitolato il film L’assassinio di Trotsky e non L’omicidio di Trotsky?
RL – Perché si è trattato senza dubbio di un assassinio politico. Quando il film uscirà nelle sale costituirà l’oggetto di attacchi portati
da
diverse
angolazioni
e,
di
conseguenza,
è
assai
importante che tutto quello che dico sia tradotto con precisione. D – Preferisci parlare dell’aspetto artistico del film piuttosto che di quello politico?
RL – No, perché in un certo senso questo è certo un soggetto politico, ma non si tratta di un film politico; darà origine a riflessioni e discussioni. D – E verrà messo in relazione con il tua storia politica…
RL – È possibile. Senza dubbio. D – Parliamo allora della tua storia politica, all’origine di tanti tuoi problemi.
RL – Anche di parecchie cose positive. D
–
Sono
interessato
all’argomento,
perché
lo
scorso
anno
abbiamo
incontrato
Kazan e gli abbiamo posto tutta una serie di domande che non ha gradito molto; tu sei stato costretto a lasciare gli Stati Uniti?
RL – Non sono stato assolutamente costretto a lasciare il paese. Certo,
non
avrei
potuto
lavorare
nel
cinema,
in
teatro,
nelle
scuole, nella pubblicità, nella radio o in televisione. Avrei potuto però
lavorare
in
una
merceria
o
scavare
fossati
e,
dunque,
guadagnarmi da vivere; tuttavia, non potendo svolgere la mia professione, me ne sono dovuto andare. D – È stato a causa di idee ufficiali?
RL – Nulla di tutto questo era dovuto a idee ufficiali; durante gli interrogatori, a nessuno fu chiesto di chiarire la propria idea di comunismo o di marxismo, ma soltanto di affermare o negare la propria appartenenza al partito comunista e questa di certo non costituisce l’espressione di un’opinione. La mancata risposta a questa domanda inseriva automaticamente l’imputato nella lista nera, mentre il tentativo di dare una risposta gli procurava una serie
di
lunghi
procedimenti
legali,
o,
altrimenti
ne
faceva
obbligatoriamente un informatore. L’unico vero elemento illegale di
tutta
la
vicenda
fu
proprio
la
lista
nera,
ovviamente
mai
ammessa ufficialmente, poiché costituiva una totale violazione della
Costituzione
identificato
come
americana.
Io
appartenente
ero
all’
di
sinistra,
estrema
ero
sinistra
e
stato
le
mie
attività erano di sinistra. Tutto ciò non costituiva di certo un segreto, ma, che io sappia, nessuno si è interessato alle mie idee o a
quelle
di
nessun
altro.
Dalton
Trumbo
rilasciò
una
dichiarazione molto interessante a riguardo: “Le mie posizioni sono pubbliche, le mie opinioni sono private. Chiunque desideri conoscere le mie opinioni è invitato a venire a casa mia e le possiamo chiunque
discutere stia
apertamente
investigando
in
qualsiasi
pubblicamente
in
momento.
merito
alle
A mie
opinioni, mi rifiuto di rispondere”. Tali parole potevano magari costituire
una
politica
sbagliata,
ma
esprimevano
un
pensiero
comune piuttosto diffuso. D – Il film Imbarco a mezzanotte (1952), cui partecipasti alla regia in Italia senza esserne accreditato, fu modificato?
RL – Completamente. D – E non hai potuto farci niente?
RL
–
Assolutamente.
Innanzitutto,
coinvolgeva
cinque
o
sei
personaggi presenti nella lista nera, inoltre rappresentò il primo episodio
di
estensione
della
lista
nera
all’Europa,
cosa
molto
importante perché tale lista andava resa effettiva anche in Europa e
non
solo
negli
USA,
altrimenti
non
poteva
funzionare,
in
particolare perché il film costituiva una produzione americana. Di
conseguenza,
completamente
il
tutti
i
nomi
girato;
non
furono so
rimossi
nemmeno
e
rimontarono
dove
si
trovi
il
materiale. D – Il film è stato distrutto?
RL – No, è stato ripresentato recentemente. D – Risulta completamente incomprensibile.
RL – Lei lo ha visto? D – Si, lo hanno proiettato qui in Italia, precisamente al Filmstudio, due anni fa. Fu concesso dalla Cineteca Nazionale.
RL – Io non ho mai visto l’edizione modificata, ma so che è più corta di mezz’ora. D – Il film è conservato anche in Germania, al Museumfilm di Monaco. Lo si può vedere privatamente, poiché non effettuano proiezioni per il pubblico. Attualmente il tuo cinema viene censurato, o ne viene alterato il senso attraverso il doppiaggio? Hai il controllo della produzione?
RL
–
L’unica
comunque laddove
cosa
che
importante,
vengano
sono è
il
apportate
riuscito
diritto
ad
di
ottenere,
togliere
modifiche,
anche
il a
elemento
mio causa
nome della
censura. D – Una domanda importante per noi. Consideri il cinema un semplice mezzo di intrattenimento o anche un valido mezzo per affrontare le tematiche sociali?
RL – La parola intrattenimento è stata utilizzata per anni come una
specie
Ritengo
di
che
coinvolgere
lo
frusta
ed
è
assolutamente
l’intrattenimento spettatore,
se
dipenda
opera
ad
priva da
un
di
significato.
quanto livello
riesca
a
puramente
superficiale o in maniera profonda. Comunque, qualsiasi forma di
comunicazione
responsabilità
nei
di
massa
confronti
della
dovrebbe società
assumersi nella
quale
delle agisce;
responsabilità
circa
l’aspetto
educativo,
culturale
o
espressivo,
cosa che accade raramente. Dal momento che la comunicazione di massa è invischiata con il grande business, succede cha vi siano artisti dalle opere molto personali, consapevoli della società in cui operano e responsabili nei confronti del pubblico che, tuttavia, dipendono
per
la
maggior
parte
da
persone
tutt’altro
che
responsabili, che traggono guadagni dalla droga, dal mercato del sesso o dalla politica, tanto di estrema destra che di estrema sinistra. Tale dialettica ti porta a combattere nella speranza di realizzare
opere
che
supportino
le
tue
idee,
anziché
le
loro.
Tuttavia, si tratta sempre di un compromesso e lo sarà sempre. Il pensiero di Trotsky è di grande valore a questo proposito, perché sostiene l’inutilità e la depravazione dell’arte, a meno che essa non esprima una critica della società,
perché questa è
la sua
funzione. D – Prendi in considerazione le critiche ai tuoi film?
RL – No. D – Come le consideri?
RL – Non le considero affatto. Non faccio film per la critica. Mi dispiace dirlo. (risata) Beh, voi siete dei critici. D – Al contrario. Noi siamo interessati al cinema, ma non siamo dei critici.
RL – Se una critica è davvero seria, potrebbe essere di valore nell’indicare certe debolezze dell’opera. Tuttavia, è molto difficile incontrare tale serietà da parte dei critici. Nella maggior parte dei casi,
è
semplicemente
l’espressione
di
un
parere
personale.
Ritengo che il mio lavoro non sia mai stato influenzato dalla critica. D – Altre due brevi domande. La prima è legata alla suggestione che mi deriva dal tuo gusto per gli interni, che determina una sorta di domesticità dei soggetti. Per questo motivo, mi sono trovato spiazzato in Figures in a landscape (Caccia sadica, 1970 ndc).
RL – In Figures in a landscape, gli esterni costituivano gli interni. Tutto dipende da dove collochi specificamente i soggetti. Ciò può avvenire in un interno o in un esterno. Un vasto esterno può generare altrettanta claustrofobia, ma qual è la domanda? D – Volevo sapere se si tratta di una percezione soltanto mia ed ero interessato a
quella che definisco la domesticità dei soggetti presente nel tuo cinema.
RL – Troverai che, nel film su Trotsky, vi sono molte riprese di scene investigative girate in esterni, ma racchiuse da mura; questo forse si avvicina a ciò che sostieni. D – L’ultima domanda riguarda la promozione. Ti piace promuovere i tuoi film?
RL – Lo odio, ma è necessario, come fare soldi. D – Questo è il tuo unico commento?
RL – L’unico, eccetto che amo parlare con persone che sono realmente interessate al mio cinema, ad esempio nei cineclub, ma queste
manifestazioni
stimolanti,
non
accendono
sono
seguite
discussioni
dalla
preziose
stampa
dalle
quali
e
sono
traggo
profitto. In quell’ambito comprendi la chiarezza o meno delle idee
espresse
attraverso
il
tuo
cinema;
inevitabilmente
dal
pubblico e dalla critica emergono domande sulle relazioni tra i vari
film,
delle
quali
però
non
sono
consapevole
e
tale
consapevolezza può limitarti. In certe mie opere, ho girato in modo da spiazzare il pubblico, per allontanarmi dall’etichetta posta sui miei film. D – Dunque non hai una cattiva opinione della pubblicità.
RL – La pubblicità è sempre una distorsione ed il mio lavoro non è quello di parlare dei film che realizzo, fatta eccezione per un pubblico
genuino,
assai
raro.
Capovolgendo
il
concetto,
la
maggior parte delle pubblicazioni non raggiunge un pubblico autentico, ma un pubblico completamente inventato. Time ha inventato il suo pubblico, così come ha fatto Reader’s Digest.
Intervista – 24 settembre 1970 su “Amore coniugale”
DACIA MARAINI Dacia Maraini: Si tratta di un’offerta che mi è stata fatta da un produttore
che
aveva
visto
una
regia
teatrale.
Mi
ha
detto:”
perché non fai il cinema…” io ero molto incerta, non ero molto convinta… poi mi ha offerto di fare questo libro di Moravia, e allora ho detto: “ perché no, proviamo!” E così è cominciata. D – Quindi la scelta di “Amore coniugale” di Moravia è stata del produttore, Baldi…
R – Baldi, l’idea è stata sua. D – Quindi anche la scelta della moglie come protagonista…
R – No, ero d’accordo, perché in effetti lei ha un fisico che si adattava
al
personaggio,
e
quindi,
sono
stata
assolutamente
convinta che andava bene per il ruolo. D – E come si è trovata nella regia cinematografica avendo già esperienza di regia teatrale?
R – Sono due cose completamente diverse. In un certo senso forse il cinema è più facile, dal punto di vista tecnico; dal punto di vista dell’espressione è altrettanto difficile. È sempre difficile esprimersi, dire delle cose originali, quello è difficile in qualsiasi arte, però tecnicamente il teatro come l’ho fatto io è più difficile del
cinema,
finanziarie;
perché inoltre,
è
teatro
fare
povero,
teatro,
non
con
so,
è
poche come
possibilità camminare
nell’acqua, come quando di notte si sogna di camminare e non si può,
perché
terribili,
c’è
come
qualcosa il
che
disinteresse
ce
lo
del
impedisce;
pubblico,
ed
esistono è
una
freni cosa
tremenda perché quando si lavora tanto e si ha l’impressione che il pubblico non stia neanche a sentire, tutto ciò rappresenta una mortificazione
continua.
Poi
sono
terribili
le
difficoltà
economiche, quelle proprie della vita teatrale in ogni paese, in questo caso in Italia, un sistema che funziona malissimo per tante ragioni:
oltre
al
disinteresse
del
pubblico,
perché
è
male
organizzato, perché è eccessivamente statalizzato, perché ha delle tasse altissime, perché è nelle mani del ministero, insomma per tante ragioni. E allora fare teatro è un po’ un atto di eroismo, in
Italia. Almeno farlo in condizioni di difficoltà; poi ci sono alcuni privilegiati che lo fanno in condizioni più favorevoli. Parlo del teatro ufficiale, diciamo così, ma io certamente non faccio parte di quell’ambiente, quindi… D – È un po’ la stessa cosa nel cinema…
R
–
Nel
cinema
assolutamente
no,
perché
il
cinema
è
un’industria che funziona molto bene. D – Anche qui ci sono registi che lavorano al di fuori…
R – È molto più facile fare il cinema che il teatro. Naturalmente dappertutto
ci
sono
i
principianti,
che
non
ce
la
fanno
a
cominciare, che provano; c’è molta concorrenza, però in fondo oggi in Italia ci sono tanti giovani registi, almeno una trentina, che ogni anno girano il loro primo film, mentre in teatro è difficilissimo. cinque
Parlando quale autore, perché ho fatto quattro,
commedie,
difficilissimo,
di
cui
mentre nel
tre
rappresentate,
cinema ad un
da
autore
è
certo momento, una
volta trovata la propria strada, occorre soltanto seguirla. Insomma l’industria del cinema funziona, quindi in un modo o nell’ altro è possibile
inserirsi,
artigianato,
anzi
invece
la
vera
il
teatro
non
differenza
è
è
un’industria,
questa,
che
il
è
un
teatro
è
artigianato, il cinema è un’industria, quindi oggi sappiamo come funziona
l’artigianato
in
Italia
e
funziona
male,
anzi
non
funziona per niente. D – Quindi di problemi economici con questo produttore non ne ha avuti
R – Sì, ne ho avuti, comunque il film è andato avanti, perché quando si comincia poi bisogna portarlo a termine; inoltre, un regista è aiutato dai tecnici, da tante persone che fanno parte dell’organizzazione, mentre in teatro devi fare tutto da solo, con l’aiuto degli attori. Il mezzo tecnico c’entra fino a un certo punto, mentre anche un film che non sia veramente bello può essere salvato, ad esempio, da una magnifica fotografia, da musiche meravigliose, da bravi attori, magari famosi, no? tutto è più facile nel
cinema,
certo
fare
un
film
veramente
originale
è
difficilissimo, ma fare un film medio è facile; invece in teatro anche fare una commedia media è difficile. D – Quanto è costato questo film?
R – 90 milioni. D – Parliamo delle difficoltà tecniche del film, per esempio il montaggio della carrellata dell’inizio. Chi l’ha fatta?
R – L’ho fatta io (ride) quella lì, con l’automobile; è una camera car. D – Sì, ma lei la ha montata dopo? L’ha fatto lei il montaggio?
R – Il montaggio l’ho curato io, insieme al montatore. D – Sì ma perché non l’ha fatto con un presa sola?
R – Perché non bastava, non avevo tutto il tempo; occorreva il tempo dei titoli, no? Adesso non mi ricordo bene, ma insomma sono quasi tre minuti, è molto lungo… D – Sì, ma ci sono macchine da presa che possono…
R – Certo, però in questo caso non si poteva fare, per ragioni pratiche. Ad esempio, se avessi dovuto realizzare la scena nel momento di maggior affollamento, non avrei potuto farlo per ragioni assai stupide, perché avevo l’automobile con un enorme attrezzo di legno sopra, il cameraman sdraiato, e, dunque, mi era impedito di farlo durante l’ora di punta, quando c’era molto traffico, mentre quando non c’era traffico non potevo girare due ore sempre nello stesso punto, il paese non è tanto grande… D – No, perché mi è piaciuto molto l’ingresso…
R – L’ingresso… D – …Quando è arrivata, e dopo però ha svoltato e sono rimasto deluso…
R – …Ho capito, ho capito, avresti voluto che fosse stata una sola scena… D
–
Ci
sono
tutti
questi
studi
di
quando
lui
è
a
casa,
immerso
nella
vita
quotidiana… lui che si fa la barba… perché questa estremità, in questi studi in particolare…
R – Estremità in che modo, non ho capito… D – Estremizzati, se si può dire così… D – L’analisi dei particolari della vita di ogni giorno…
R – Be’ perché questa è la storia di un intellettuale, di uno scrittore… d’atmosfera,
non e
succede
niente,
l’atmosfera
si
in
crea
fondo,
no?
attraverso
i
È
un
film
particolari,
attraverso le piccole cose. Se si fa un film di guerra occorrono le cannonate, compone
i
morti,
attraverso
i
feriti,
piccole
mentre cose:
i
un
film
particolari,
d’atmosfera gli
oggetti,
si i
movimenti, le luci; tali cose diventano molto importanti. D – Cioè il problema a cui ha accennato ieri sera, come rendere viva la vita di un intellettuale…
R – Sì, in fondo è difficilissimo, perché è fatta di pensieri, e i pensieri non si possono riprodurre al cinema. D – ma lei ha fatto anche vedere questi pensieri…
R – Più che pensieri, sono costituiti dal materiale che lui scrive; ho voluto evitare la voce fuori campo, a mio avviso un pessimo espediente. Di solito, quando si mette in scena uno scrittore, si utilizza una voce fuoricampo, una voce che, parlando, diventa letteraria;
di conseguenza,
ho cercato di
rendere tutto questo
attraverso le immagini, ma è molto difficile. D – C’è un’altra voce fuori campo, quando lei fa dire al protagonista“quando io faccio l’amore non posso scrivere”… perché ha semplificato il problema, con questo, anticipando anche il film?
R – Questo però è il libro; nel libro, in realtà, questo giornalista che vuole diventare scrittore, si reca in una villa con sua moglie e fa all’amore con lei, cerca di scrivere e non ci riesce ed allora, ad un certo punto, pensa che la sua incapacità di scrivere derivi dal fatto
che
fa
troppo
all’amore…
cioè
che
non
sublimi,
come
diceva Moravia ieri sera. Lui si rende conto di tutto questo e, di conseguenza, lo dice alla moglie decidendo in questo modo di non fare all’amore. D – Con questa sequenza tutto il film è anticipato…
R – Lo so, poiché, in fondo, la storia del film incomincia quando il
protagonista
decide
di
non
far
più
all’amore,
non
prima.
Comincia in quel momento, perché lì ha inizio la storia del suo egoismo, egli si dimentica di sua moglie, fa all’amore con lei, ma soltanto nel libro, non più nella realtà; difatti lei alla fine lo tradisce, un po’ come una ripicca. D – Lei vede questo come un fatto di egoismo…
R – Sì. D – …Non come un fatto della società, ovvero di come un uomo normale non
potrebbe mai scrivere un libro perché vive una vita…
R – No, in fondo lui fallisce perché crede di dover sacrificare la sua
vita
matrimoniale
all’arte;
al
contrario,
vanno
coltivate
entrambe le cose, non è che l’arte rappresenti una divinità alla quale
sacrificare
quotidiana,
dei
tutto, nostri
poiché
essa
sentimenti,
e,
vive di
anche
della
conseguenza,
vita
egli
ha
sbagliato a trascurare la moglie. D – Ma i nostri sentimenti, in quanto non li viviamo, li sentiamo di più. Così potrebbe riuscire di più a scrivere…
R – Infatti dovrebbe essere così, ma non gli riesce; la storia del libro è quella, in fondo, è una specie di educazione sentimentale: L’uomo che crede di poter inseguire i fantasmi dei suoi libri e di trascurare la realtà e la realtà che alla fine gli dà torto. Egli ha sbagliato, e ha scritto un brutto libro; di conseguenza, si rende conto di tale fallimento e quindi si riscatta, ovvero potremmo dire che la sua nobiltà emerge dal fatto che riconosce di aver avuto torto, no? Alla fine, invece di cacciare sua moglie di casa, accetta tutto questo poiché riconosce la propria colpa. In fondo è questa la particolarità di tale carattere. D – Ma questo suo accettare, non è un compromesso anche questo?
R
–
In
Italia,
no!
secondo
il
nostro
costume
non
è
un
compromesso, tutt’altro. D – …accettare una moglie infedele…
R – Certo… a meno che uno non lo faccia per ipocrisia, ma lui non lo fa per il mondo, lo fa per se stesso, capisci? Se uno accetta il tradimento della moglie per non fare brutta figura o perché non vuole scandali è un ipocrita, è un conformista, ma se uno lo fa
perché
è
convinto
di
avere
avuto
torto
e
di
mantenere,
nonostante tutto, un rapporto con la moglie, allora è una persona coraggiosa, no? È quella la differenza. D – Lei ha cambiato certe idee del libro, ha cambiato anche certe immagini…
R – Altrimenti non avrei fatto più il film, dovevo mantenere certe cose del libro; io ho aggiunto, non ho tolto niente, ho aggiunto… D – Aggiunto, sì…
R – Ho aggiunto l’elemento sociale, questa storia Siciliana con il contadino, suo figlio, gli studenti, tutta quella parte. D – Questa passività degli attori nel film è giustificata dal fare giustizia del libro? Questo
giudizio
che
lui
dà
sul
suo
libro,
rappresenta
una
giustificazione
della
passività degli attori?
R – Perché, trova che gli attori siano passivi? D – I personaggi.
R – Ah, i personaggi; lui è passivo, lei no. D – Anche la moglie, c’è questo contadino che la deruba continuamente e lei non reagisce mai, ogni volta che ci prova, quando va nella casa, vede questa miseria e …
R – Infatti è così, ma perché lei non riesce evidentemente a trovare un rapporto con questa gente, non sa come trattarla, non ha un rapporto autentico ed allora rinuncia ad avere qualsiasi rapporto. D – Lei fa all’amore con questo barbiere e anche questo è un atto più o meno passivo.
R – Più che passivo è una specie di vendetta contro il marito, in un certo senso rappresenta la dimostrazione che lui ha torto. Ciò che
la
attrae
quest’ultimo
del è
barbiere,
una
persona
è
tutto
raffinata,
il
contrario colta,
del
molto
marito,
delicata
e
invece il barbiere è il contrario, è un uomo brutale, incolto, rozzo, no? D – Perché è così tipico questo barbiere… D – Il bell’uomo, il maniaco sessuale, così tipico… un po’ tutti i personaggi, tutti gli attori sono troppo tipici…
R – Ah, tipici? D – Lui è un raffinato, lei anche, a suo modo, mentre i tre del movimento, sono siciliani sgradevoli allo sguardo; appare una sorta di razzismo.
R – No davvero, anzi ho cercato di non avere mai disprezzo verso i personaggi. D – Non le risulta neanche un po’ ?
R – Non lo so, questa è una cosa che non posso dire; il mio atteggiamento verso i personaggi non è mai di disprezzo. D – No, perché sono troppo estremi… D – Forse perché, essendo tipici, di conseguenza la tipicità deriva dall’accettazione di
certi canoni.
R
–
Non
sono
tanto
tipici
a
dir
la
verità,
sono
abbastanza
comuni. D – Questo barbiere non mi sembra tanto comune.
R – Accidenti, in Sicilia è molto comune! L’interprete è un vero barbiere, che ragionava a quel modo. Difatti, io ho scritto la sceneggiatura, ma in realtà lui ragionava come il personaggio, anzi anche in modo più caratterizzato, e molti sono così. D – In una inquadratura, mi sembrava che lui facesse la barba con la parte del rasoio sbagliata…
R – No, è un’impressione sbagliata, perché lui è un vero barbiere ed è molto preciso. D – Ma lei lo ha fatto agire come per eseguire un movimento molto veloce… mi è sembrato, in quel momento, quasi che avesse girato il rasoio nella mano…
R – Ho capito … quando lo ferisce forse? D – No, non quando lo ferisce, era nella prima inquadratura, quando si vede per la prima volta.
R
–
Veramente
non
mi
sembra,
anche
se
ora
non
ricordo
esattamente. So che teneva molto ad eseguire esattamente i suoi gesti, in modo realistico, tanto è vero che, ad un certo punto, gli ho detto “ metta il rasoio a destra” e lui mi ha detto “no, la barba si comincia da sinistra” e non c’è stato verso di fargli cambiare posizione, capite? Penso che si debbano continuare le prove, avete finito con le domande? D – No, c’è ancora qualcosa. Ad esempio, sarebbe stato piuttosto facile girare un film del genere grazie alla presa diretta, piuttosto che attraverso l’uso del doppiaggio, dato che è girato quasi interamente in interni. È dovuto a motivi di produzione?
R – No, è dovuto al semplice motivo che Thomas Milian parla un italiano spagnoleggiante e, di conseguenza, non si possono fare le cose a metà, o si gira tutto in presa diretta, o almeno in gran parte, o non si gira. Io volevo farlo in presa diretta, ma siccome Thomas Milian è sempre sulla scena, non era possibile eseguire
la
presa
italiano. D – Ma anche la…
diretta,
perché
non
era
credibile
che
fosse
R – Sì, ma lei risulta francese, mentre lui non posso far finta che sia cubano! Insomma è un siciliano, sarebbe stato un po’ strano, no? Per la protagonista, invece, il fatto che fosse francese andava bene. Alcune cose sono in presa diretta, comunque, ad esempio il dibattito è in presa diretta. D – Ma lei si è doppiata da sola?
R – Lei si è doppiata da sola. D – Altri progetti cinematografici?
R – Sì, adesso ho avuto un’offerta, ma preferisco non parlarne ancora perché devo concludere. D – Sarà possibile utilizzare in futuro la presa diretta?
R – Sì, a me piace molto la presa diretta, ma purtroppo in Italia non
c’è
l’abitudine
di
girare
film
in
questo
modo
ed
allora
risultano più costosi e laboriosi, poiché occorrono dei microfoni particolari, da disporre sotto agli abiti; non esistono molti tecnici specializzati in Italia, proprio perché non si girano film in presa diretta,
o
risulta
piuttosto
raro
che
si
faccia,
al
limite
si
producono documentari o cose per la televisione ed allora diventa tutto molto complicato. Io ho fatto un provino in presa diretta e gli
attori
se
ne
andavano
in
giro
con
dei
fili
lunghi
che
muovevano da tutte le parti … era una cosa insopportabile, non erano in grado di nascondere il microfono ed allora si infilava magari nel reggiseno o nelle tasche e tutto si complicava. La nostra
industria
conseguenza,
cinematografica
propone
non
è
esclusivamente
ben il
attrezzata
e,
doppiaggio;
di il
doppiaggio è una delle cose che viaggia speditamente, perché l’abitudine è questa. D – Però pensa, come nuova regista, di sostenere la lotta contro il doppiaggio?
R – Sì, io odio il doppiaggio, se esiste una cosa fasulla è il doppiaggio,
ma,
d’altronde,
non
è
che
da
soli
si
possano
modificare le regole di un’industria cinematografica; ce ne vuole, non
è
una
organizzarsi
cosa bene.
tanto Inoltre
semplice. ho
avuto
Si
può
poco
fare,
tempo,
ma non
bisogna potevo
girare in presa diretta, perché occorrono molto tempo e silenzio assoluto; i nostri tecnici invece, sono abituati a lavorare facendo un chiasso tremendo e quando tutto quanto un sistema funziona
in un certo modo, è difficile farlo funzionare in un’altra maniera, questo è il punto. D – Quanto è durata la lavorazione?
R – Tre settimane e mezzo. Poco. D – E successivamente per il montaggio e tutto il resto ?
R – Un altro mese e mezzo. D – Quale sarà il circuito di distribuzione?
R – Va in tutta Italia. Sabato esce a Milano, poi va in giro. Uscirà a Roma non so ancora bene in quale cinema, ma di certo ai primi di ottobre, quando debuttiamo. D – Il circuito normale?
R – Il circuito normale, sì. D – Un’ultima cosa, se non le dispiace; lei ha detto che il dibattito è in presa diretta; gli attori provengono realmente da Bagheria?
R
–
Sì,
quello
d’accordo,
in
è
un
una
vero
sezione
dibattito,
ovvero
comunista,
mi
con
sono
un
messa
consigliere
comunale che conosco, molto simpatico, giovane, e con delle altre
persone
che
si
occupano
di
politica,
e
gli
ho
detto
di
organizzare un dibattito sul piano regolatore di Bagheria. Loro lo hanno organizzato. Solo che non volevano restare, poiché tutto il soffitto della scena era coperto di lampade e faceva molto caldo ed allora volevano andarsene, invece poi sono rimasti; è stata una cosa simpatica. Purtroppo, naturalmente il dibattito è durato due ore, ed ho dovuto ridurlo a tre minuti, di conseguenza… anzi, la produzione
voleva
che
lo
tagliassi
ancora,
ma
io
ho
insistito
perché il dibattito è importante. I produttori volevano che lo riducessi a un minuto e mezzo, ma era troppo poco, non era niente. D – Come vede il film ora che è terminato, è soddisfatta?
R – Oggi ho ancora fatto fare dei piccoli tagli, perché alcuni momenti mi sembravano un po’ lenti. La visione col pubblico fornisce sempre un’impressione più precisa. D – Forse è anche quando cala un po’ la tensione…
R – Sì, succede anche a teatro. Dopo la prima, incominciano i
tagli, perché è il pubblico a dare la dimensione precisa della cosa, noi non ci accorgiamo più, ad un certo punto. D – Questo è come nel film. Ci sono tre dimensioni nel film, di Moravia, del protagonista e di lei. Queste tre dimensioni…
R – I personaggi ci assomigliano fino ad un certo punto, inoltre sono
la
rappresentazione
della
nostra
visione
del
mondo;
di
conseguenza ci assomigliano, ma non sono mai autobiografici, sono qualcos’altro.Va bene? D – Grazie.
Intervista su «I recuperanti» a
ERMANNO OLMI D – Parlaci del racconto.
R – Ci sono dei momenti in cui, forse perché siamo eredi della cultura greca e tendiamo a tradurre qualsiasi concetto in solide immagini, accade che, nella storia dell’arte, che è una delle storie della
verità
–
noi
un
giorno
faremo
la
storia
della
verità
dell’uomo anche attraverso la storia dell’arte o la storia della scienza – necessariamente abbiamo bisogno di cristallizzare in un’idea solida un momento, un concetto. Di conseguenza, nel momento in cui si è avvertito per la prima volta il desiderio di rappresentare
l’uomo,
sopraggiunta
la
soprattutto
necessità
di
nella
una
sua
interiorità,
rappresentazione
è
eseguita
attraverso dei concetti solidi. Ad esempio, considera la Bibbia, una narrazione spirituale, eppure realizzata attraverso l’uso delle parabole, immagini solide, grazie alle quali il Padreterno viene raffigurato
con
rappresenta
il
la
barba
desiderio
o
di
seduto
fermare,
su
di
una
nuvola;
solidamente,
ciò
determinate
immagini. Questo, evidentemente, ha determinato anche, nella storia
dell’arte,
esempio
certi
modi
nell’editoria,
di
che
è
esprimersi; una
delle
di
conseguenza,
arti
che
ad
possono
maggiormente essere accostate al cinema, è nato il racconto, la lapide, la novella – non dico in ordine cronologico – ma in quanto
classificazioni.
affresco
romanzesco,
Troviamo elementi
il che
racconto
breve,
coincidono
il
grande
con
precisi
momenti storici: l’ottocento è tipico del romanzo ad intreccio, in cui per raccontare le angosce umane o la spiritualità, c’è bisogno di
muovere
eventi
l’uomo
intrecciati.
raggiungono
un
lungo
degli
itinerari
Evidentemente
culmine
di
felicità
molto
complessi
tali
momenti
e
esaltazione,
di
di
narrativi seguito
successivamente dal desiderio distruttivo delle nuove generazioni. Tutto questo rappresenta una consuetudine nella storia dell’arte, nell’evoluzione degli avvenimenti e dei moduli di espressione; è successo in pittura con i ritratti di una certa misura dovuti a situazioni periodo
contingenti delle
che
miniature.
li
determinavano,
Accade
che
il
oppure
momento
con
il
storico
determina e condiziona gli avvenimenti: l’autore, lo spettatore ed il critico ne risentono, tanto che oggi, se uno di noi desiderasse autenticamente
raccontare
una
storia
di
tipo
ottocentesco,
si
vergognerebbe. Difatti, oggi è necessario il saggio, una forma di racconto
svincolato
da
tale
impianto
narrativo;
tutto
ciò
costituisce un condizionamento, bisognerebbe certo esserne privi ed inoltre diventa un elemento consumistico, nel momento in cui ci si reca dal distributore per annunciare: “senta, io ho un film che dura un’ora, un film che dura tre minuti, uno di un quarto
d’ora,
uno
di
un
minuto
e
mezzo”;
certo,
saremmo
considerati dei pazzi. Eppure, hai sentito l’esigenza di dire tutto in un minuto e mezzo. Si potrebbe obiettare che un film di un minuto e mezzo è difficilmente collocabile, ecco perché sostengo che
vi
siano
una
serie
di
condizionamenti,
determinati
dalle
mode o dal momento storico, da cui consegue una determinata misura ed un certo tipo di impianto narrativo. D – Esiste anche il condizionamento da parte della distribuzione.
R
–
Ogni
elemento
condiziona;
la
distribuzione
condiziona,
poiché al giorno d’oggi, avendo lo spettatore a disposizione al massimo due ore di tempo ogni sera e trascorrendole al cinema, necessita automaticamente di uno spettacolo che abbia quella precisa durata, e, di conseguenza, il distributore chiede un film di due ore, costringendo il regista ad adeguarsi. Considero giusta evidentemente
tale
durata,
così
come
può
essere
corretta
la
misura del soffitto per questa stanza; è una dimensione corretta nel condurre una storia da fruire con lo stile di vita odierno. In fondo, anche una conferenza non ha una durata maggiore. Di conseguenza,
abbiamo
sentito
il
bisogno
di
svincolarci
dal
condizionamento dovuto alle forme del romanzo ottocentesco, dato che ogni vicenda, anche al cinema, si costruiva in questo modo. Addirittura esisteva una second story, ossia una seconda storia che bilanciasse la storia principale; si architettava il tutto in sede di sceneggiatura, anche se ogni narrazione ha bisogno delle proprie
formule
peculiari.
Penso
che
non
si
debba
rimanere
vincolati ad un certo tipo di impianto narrativo, ma nemmeno distruggerlo a tutti i costi per sentirci liberi. Essere liberi significa fare
il
saggio
quando
si
ritiene
necessario
l’uso
del
saggio,
il
grande romanzo o il film breve quando avvertiamo tali diverse
necessità. D
–
In
questo
momento,
si
sostiene
che
una
storia
raccontata
in
ordine
non
cronologico rappresenti un segnale di modernità.
R – Ma pensa… D – Insomma, 8 1/2 di Fellini o L’anno scorso a Marienbad di Resnais, rappresentano il segno della modernità. Ritengo che ciò sia sbagliato, perché non so se hai visto L’Angelo sterminatore di Buñuel
…
R – No D – Racconta in ordine cronologico gli avvenimenti ed è il film più moderno che esista.
R – Certo, ritengo che ogni discorso ha l’ordine cronologico che merita. D – Il personaggio principale è un uomo molto schietto e preciso, non mi sembra limitato in qualche senso; invece la ragazza rifiuta i suoi soldi perché sono quelli di un recuperante. È un passo avanti della ragazza o del ragazzo verso l’amore?
R
–
La
ragazza
rifiuta
i
soldi
del
ragazzo
perché
sente,
giustamente, che costruire qualche cosa insieme significa non affrontare delle avventure chimeriche come quella della corazzata. In fondo il tema del recuperante, privato di ogni significato, rappresenta un’attività utile alla società, essendo il lavoro di un uomo che libera il terreno da ordigni pericolosi. Tuttavia, tale riflessione non appartiene né a Gianni, né alla ragazza, visto che entrambi
considerano
tale
lavoro
nella
prospettiva
di
vivere
insieme e di costruire la propria casa. Dunque lei non lo accetta, come
moglie,
prima
di
tutto
perché
è
un’avventura
che
non
permette di costruire nulla ed in secondo luogo perché è assai rischioso. Soprattutto, non permette di costruire niente. Difatti, al termine di tale riflessione, da una parte troviamo la corazzata del vecchio, il mito, che deve riscattare la tragicità quotidiana di questo lavoro, altrimenti non puoi lavorare per 20 chili di rame e con il rischio di morire se non possiedi la speranza di trovare una corazzata; tutto questo richiama evidentemente Moby Dick. Di conseguenza troviamo da una parte il mito e dall’altra i morti, ovvero nel cercare le bombe ti imbatti nei cadaveri. Si tratta di un lavoro che non costruisce nulla. Gianni non svolge tale mestiere quale cacciatore di mine dell’esercito, ma soltanto per recuperare il ferro; egli non si avventura per liberare il terreno dalle bombe.
Di conseguenza la ragazza, attraverso il sentimento dell’amore, rifiuta i soldi, rifiuta questa avventura, poiché si tratta di denaro virtuale. D – Ma alla fine li accetta?
R – Come? D – Li accetta?
R – La ragazza? D – Sì.
R – No, è lui che torna per fare il muratore. D – Quindi non costruisce la sua casa.
R – No, lui è un operaio. Infatti il vecchio dice “vai dal tuo padrone,
vai
che
ti
chiama…
operai,
borghesi,
schiavi
della
società”. D – Una cosa molto interessante è che il personaggio del vecchio diventa quasi musicale.
R – È un personaggio ruzantiano. D – Legato alla natura.
R – Legato alla natura, con tali danze che fa per davvero. D – Si trova nelle montagne, in luoghi isolati; io ne ho trovato uno simile in Germania, nella profonda campagna.
R – Infatti, al giorno d’oggi, in città tali personaggi non esistono più. È ancora possibile trovare tali colori umani nei paesi, in campagna. D – Trovo perfetti i colori creati dal personaggio nei paesi, attraverso il vestito che portava in casa, di un colore tra il giallo ed il grigio e che sottolineava un distacco dalla società più in generale.
R – Certo non sono cose predisposte a tavolino, ma improvvisate sul posto; recandomi in quei luoghi ho trovato nei bauli delle case certi vestiti dell’epoca, dato che quella gente di montagna tende a conservare tutto. Tale scenografia non rappresenta un risultato ottenuto attraverso una pur felice attività intellettuale, ma grazie ad un rapporto diretto. Poi è ovvio che si compiano delle scelte. D – Anche se il film si svolge nel dopoguerra, è un’opera sul presente.
R – Assolutamente. Perché non è cambiato niente. D – Non è cambiato niente ed ho visto il film come se i fatti accadessero oggi.
R – Infatti, non abbiamo modificato niente. D – Il film mi sembrava tagliato nella versione televisiva.
R – No, questa è la copia che è andata in onda. D – Ma in televisione sembra più lungo.
R – Certamente, perché al cinema avviene una lettura diversa ed è come vedere un film in moviola, rispetto alla sala. Il ritmo è diverso, dato che in televisione, nel vedere i due protagonisti immagini cinema,
tutto
per
il
resto.
leggere
L’immagine
tutta
l’immagine
può
scadere.
devi
partire
Invece dai
al
due,
successivamente vedi un albero, una foglia, una luce, ed allora tutto ti sembra più breve, perché il tuo tempo di lettura è più lungo. Anzi, aggiungo che la pellicola al cinema scorre ad una velocità inferiore, perché in televisione passano 25 fotogrammi al secondo, mentre al cinema sono 24; Di conseguenza, dovrebbe risultare più lento. D – È quello che sostengo anche io, per cui, quando programmano dei film muti alla televisione, risultano distrutti perché proposti in 16.
R – Ecco, nella vostra cineteca dovreste avere una macchina con la proiezione a 16. D – Certamente ciò risulta essenziale soprattutto perché al pubblico suscita ilarità la visione dei personaggi che si muovono in un certo modo, mentre semplicemente si tratta di film proiettati a 16 fotogrammi.
R – Perché l’accelerazione è dovuta alla velocità del sonoro. D – Certo esistevano film girati nel 1928, come Wedding March di Stroheim, che erano già sonorizzati e ricordo una pessima proiezione al Cinémathèque lab di Parigi dove il film era proposto in 16 e aveva perso tutto il suo ritmo, fino a quando gli addetti
compresero
che,
nonostante
fosse
muta,
l’opera
era
sonorizzata
semplicemente con la musica, restituendole il ritmo originale. D – Un’altra cosa che ci interessa sapere, è lo stato della società “22 Dicembre”.
R – Sono uscito da questa società, perché era nata con degli intendimenti rispettati.
che
in
Costituiva
seguito certo
per
non me
sono
stati,
un’occasione
a
mio di
avviso,
guadagno,
perché mi corrispondevano uno stipendio, tuttavia tale iniziativa non coincideva con le mie aspettative e, di conseguenza, me ne
sono andato. Dopo circa un anno la società è stata sciolta, perché non aveva più ragion d’essere. L’idea era quella di proporre, grazie alla “22 Dicembre”, un certo tipo di cinema e infatti, abbiamo prodotto il primo film della Wertmüller, un film di Prandino Visconti,
uno
di
De
Bosio,
uno
di
Caldara
e
così
via.
Successivamente, Lina Wertmüller ha realizzato dei film musicali, Prandino Visconti attualmente, a parte La monaca di Monza, gira Michele Strogoff e non so più cosa stia realizzando. D – La Wertmüller fa anche teatro, a Roma.
R – Teatro? D – Sinceramente, non sembrava molto interessante.
R – Tuttavia, lei è una ragazza che ha dei numeri proprio nel varietà. I Basilischi, invece, non era male perché raccontava una storia sua, raccontava la sua vita, la sua gente; non so se lo hai visto I Basilischi. D – Sì, proprio in televisione.
R – Si percepivano certe influenze felliniane, però era una sua storia.
Intervista a
ERMANNO OLMI D – Vogliamo scrivere un libro sul nuovo cinema italiano, dove ci saranno tra gli altri Gianni Amico…
R – La Cavani… D – Non mi interessa molto il cinema della Cavani.
R – Ma I cannibali (1970)… D – Mi sembra che la Cavani realizzi un cinema impegnato in maniera un poco disonesta.
R – È influenzata da un momento culturale disastroso, ma è una donna. D
–
L’esito
soddisfacente
della per
prima te
e
puntata
quindi
può
de
I
recuperanti,
segnare
un
punto
in a
televisione, favore
del
è
risultato
futuro
della
televisione come canale distributivo?
R – Il film alla televisione ha avuto un ottimo risultato, tanto di pubblico che di critica. Considero la televisione un canale di distribuzione estremamente importante, sia per la quantità degli spettatori che per la contemporaneità alla lettura. Ossia, mentre nel circuito cinematografico ad un film occorrono tre anni per raccogliere dieci milioni di spettatori, la televisione, in una sola serata, raccoglie ben dieci o quindici milioni di spettatori attorno a questo schermo piccolo ma grandioso. D – Per I recuperanti?
R – Non parlo de I recuperanti, ma si valuta comunque che, proprio perché il film è particolarmente apprezzato, comporta che in televisione piaccia alla gran parte degli spettatori. Tutto ciò rappresenta un grande vantaggio ed a me non è mai capitato di avvertire da parte del pubblico tale partecipazione ad un mio film,
come
è
avvenuto
per
I recuperanti;
ad
esempio,
ne
ho
sentito parlare da tante persone, anche sconosciute. Inoltre, nel cinema accade che, quando realizziamo un film, esprimiamo il nostro stato in quel dato momento, in un arco di tempo magari di uno, due o tre anni. Successivamente ci modifichiamo, ovvero superiamo gli interessi che ci hanno spinto a realizzare il film ed
approdiamo
ad
altri
argomenti,
ad
altre
curiosità,
ad
altri
interrogativi. Ebbene, in televisione, tutti vedono il film proprio nel momento in cui lo hai realizzato e tutti approfondiscono con te l’argomento. Con il cinema invece questo non succede, mentre io
al
contrario
lo
ritengo
un
vantaggio.
Esistono
inoltre
dei
vantaggi di ordine economico, che ti consentono non tanto di guadagnare a posteriori, ma di fare il film. Ovvero, la televisione contribuisce, con l’apporto di propri capitali, alla produzione del film, magari di un film che il noleggio italiano, ad esempio, non accetta; questi sono i vantaggi della televisione. Lo svantaggio è soprattutto costituito da un rapporto diverso nella visione, dove lo
spettatore
ha
un
atteggiamento
più
distaccato,
meno
coinvolto. Avete visto I recuperanti soltanto al cinema? D – Sì.
R
–
Ecco,
tra
quest’enorme
il
cinema
differenza
e
la
televisione
dovuta
al
esiste
fatto
naturalmente
che
lo
schermo
cinematografico ti dona delle sensazioni che la televisione non è capace di suscitare. Forse in futuro, quando i televisori in casa saranno costituiti da schermi di altre dimensioni, dato che esiste un formato ideale, conforme alla nostra costituzione fisica… D – Ed anche il colore…
R
–
In
essendo
questi un
giorni
grande
seguo
i
campionati
appassionato,
tuttavia
di
calcio;
ritengo
pur
che
non siano
avvenimenti importanti, soprattutto a livello popolare, dove uno stadio gremito ed un agonismo estremo generano entusiasmo, rappresentando una delle manifestazioni più esaltanti e bestiali dell’uomo. Ho avuto modo di vedere una parte di un incontro di calcio a colori e debbo dire che è proprio un’altra cosa. Direi che accresce,
dà
risalto
all’
emozione:
Il
prato
verde,
le
maglie
colorate dei giocatori, il pallone… ad esempio, nel film di ieri sera, il colore ed il paesaggio sono una componente della storia, mentre
in
televisione
questa
componente
scompare
completamente, generando un’altra lettura; si tratta proprio di due film diversi. D – Ma quando hai girato I recuperanti per la televisione, pensi di aver reso più intimo il tuo stile?
R – In realtà, non mi sono posto limiti; non ho mai pensato ad
inquadrature destinate alla televisione, mantenendo un’ estrema libertà; addirittura per questo film esisteva semplicemente una stesura
di
dialoghi
con
qualche
indicazione
di
massima,
ma
assolutamente non c’era alcuna sceneggiatura tecnica. Quando giro
un
film,
non
stabilisco
mai
la
composizione
dell’inquadratura, ma propongo prima l’azione improvvisata agli attori, quindi mi metto alla macchina da presa e giro un primo piano od un campo lungo, a seconda del risultato. Molte volte, quando ripeto un ciak, raramente faccio la stessa inquadratura; anche se si tratta sempre di un primo piano, varia comunque un poco. Addirittura, a volte passo dal primo piano al campo medio ed
al
campo
lungo,
o
ad
un
movimento
di
macchina
e,
di
conseguenza non seguo niente di preordinato; allo stesso modo, non ho modificato il mio metodo di lavoro pensando al mezzo televisivo. D – Tuttavia, realizzi l’inquadratura una volta che gli attori hanno compreso la scena.
R
–
Certamente;
io
non
costruisco
quadrucci,
non
realizzo
inquadrature inserendo elementi artificiosi, ma lascio che l’attore viva la sua azione nel modo più spontaneo possibile, mentre riprendo l’azione, la scena. D – Direi che nel film di ieri non si avverte l’evidenza dell’inquadratura.
R
–
Il
mio
primo
film,
Il
tempo
si
è
fermato,
è
girato
in
Cinemascope, un formato appena uscito all’epoca e del quale sono contento di essermi servito, nel quale la macchina da presa finisce sul cavalletto costringendoti a predisporre l’inquadratura; ecco il motivo per cui la macchina a mano risulta essere per me un fatto essenziale. Non si deve mai costruire l’inquadratura in modo preordinato. D – In italiano non abbiamo una terminologia precisa, mentre in francese questo si chiama cadrage, ovvero girare proprio come se si realizzasse un quadro pittorico e quello che fai tu è un plain, ossia l’istante che intercorre tra l’inizio e la fine della ripresa. In italiano il termine “inquadratura” vale per entrambi i concetti. D – Essendo tu particolarmente interessato al suono ed al colore, non temi che la televisione non costituisca il mezzo più adeguato da questo punto di vista, oltre che per il formato che propone?
R – Sento tale limite da parte della televisione per ciò che in questo momento tale mezzo rende possibile, ma per quello che
concerne ad esempio la questione del suono, della presa diretta e della dimensione dello schermo, è ovvio che l’ideale sarebbe poter lavorare con la macchina a mano, in presa diretta, destinando le immagini
ad
una
sala
proiezione,
frequentata
rappresenta
l’ideale,
dove da
poi,
si
abbia
spettatori
un
assai
ovviamente,
ottimo
sistema
disponibili.
devi
fare
delle
di
Questo
scelte
in
funzione del rispetto delle tue idee. Ovvero individuare i limiti della
tua
idea,
fino
a
che
punto
possa
essere
sottoposta
a
determinati sacrifici, fino a che punto si possano compiere delle rinunce, nel rispetto delle tue idee. Ovvero, se desidero realizzare un certo tipo di cinema, sono costretto a rinunciare alla presa diretta;
inoltre,
i
mezzi
per
girare
il
film
me
li
fornisce
la
televisione e non il Noleggio Cinematografico e, di conseguenza, lo realizzerò per la televisione. Alla fine avrai il tuo film e lo vedranno dieci milioni di spettatori in televisione, ed inoltre, sarà visto in sala da ulteriori mille persone, in quanto film, quelle stesse mille persone che vanno a vedere i miei film nel circuito cinematografico a pagamento. L’ideale è poter lavorare con tutti i mezzi di tuo gradimento, però, se vuoi fare delle cose, piuttosto che
non
farle,
al
limite
del
rispetto
delle
tue
idee,
occorre
accettare quello che le circostanze ti consentono di realizzare. Ad esempio, I recuperanti è un film che non nasce da una mia idea, ma da un racconto di Rigoni Stern e da una proposta che mi ha fatto la televisione; ero ad Asiago, mi è piaciuto l’ambiente, mi sono piaciuti alcuni aspetti della storia ed ho realizzato il film. In questo modo passerà in televisione e poi all’estero, come film. D – Pensi che sarà distribuito in Italia?
R
–
Attualmente
esiste
l’
interessamento
di
una
casa
di
distribuzione per il circuito cinematografico. D – Si tratta di un’ottima soluzione, che ricorda quella utilizzata per La presa del potere di Luigi XIV di Rossellini, visto in televisione, ma anche al cinema.
R – Ed al cinema è tutto un altro film! Completamente un’altra cosa, non solo perché lo ha girato in presa diretta per il cinema. Io
l’ho
visto
in
presa
diretta,
poi
alla
televisione
doppiato
e
risultano due opere distinte. Di conseguenza, sono d’accordo con voi
a
proposito
della
presa
diretta;
si
tratta,
infatti,
del
mio
problema costante; con questo film non ho potuto farlo per le
ragioni di cui vi ho parlato. Altro limite che pone la televisione, è che un film deve essere compreso da tutti, occorre comprenderne le parole e, dunque, non si può utilizzare il dialetto, altrimenti ne nascerebbe un’opera regionale. La televisione non può mandare in
onda
un
film
dove
si
fa
appello
all’intelligenza
o
alla
sensibilità, perché è un ente di Stato e, dunque, deve mandare in onda opere che tutti possano capire. D – Non esiste l’idea di massa secondo i dettami della televisione, ma esiste un pubblico
molto
specializzato.
Prendi
il
tuo
film:
se
lo
avessi
girato
in
diretta,
proponendo gli accenti locali, penso che avrebbe guadagnato un 50 per cento.
R – Per lo meno. D – Dunque alla televisione esiste una tipologia di pubblico che non coincide con la massa, ma un soggetto al quale indirizzare il tuo film.
R – La televisione si pone nelle condizioni, come ente di Stato, di fornire un servizio, come l’erogazione del gas e della luce; questa è un’altra delle rinunce che sono stato costretto a fare. D – Tuttavia come la televisione non offre gratuitamente tale servizio, allo stesso modo lo Stato non dovrebbe permettersi di offrire un servizio a suo piacimento.
R – La televisione è come la Standa, presenta un prodotto che possono acquistare tutti. La stessa cosa vale anche nel cinema, ovvero un’industria privata dove esistono svariati padroni con la conseguenza
di
adottare
decisioni
diverse;
ad
esempio
pensi
davvero che questi signori abbiano realizzato un circuito d’essai in funzione di un discorso culturale? Tutt’altro; hanno verificato che esiste un certo numero di spettatori che ama tale cinema. Di conseguenza,
se
il
mio
conto
economico
considera
i
mille
spettatori che la sala può contenere, ottengo un incasso di dieci milioni.
Inoltre
nei
cinema
d’essai
carattere pseudo culturale, che
proiettano
quei
film
tutta una cresta di fanatici
di di
intellettualismo corre a vedere per sentirsi una classe intellettuale. D – Su questo siamo assolutamente d’accordo.
R – Dunque, anche in questo caso il film diventa un prodotto di consumo; ora, nel movimentare capitali per realizzare un film, dobbiamo necessariamente fare i conti con coloro i quali tentano di utilizzare i medesimi capitali a livello consumistico, altrimenti dovremmo trovare continuamente un mecenate che ci consegni cento milioni per girare un’opera da proiettare soltanto per due
persone,
così
condizione
da
si
soddisfare
può
il
verificare
proprio una
piacere sola
estetico
volta
e
nella
tale vita,
miracolosamente. Di conseguenza, sei costretto a compiere delle rinunce. Quando ho girato Il tempo si è fermato ero alla Edison e tutto
andava
a
meraviglia,
perché
svolgevo
un
lavoro
cinematografico nell’ambito di un’azienda elettrica. Il tempo si è fermato
non
è
stato
girato
a
scopo
commerciale,
non
erano
nemmeno a conoscenza del fatto che avrei girato un film ed in tale modo ho potuto girare il mio film; è stata l’unica volta nella mia vita. Con Il posto invece, il secondo film, eravamo un gruppo di amici ed io ho venduto la casa, un altro ha messo un milione e così via. Ebbene, nonostante fosse un amico a prestarmi dei soldi, come atto di affetto e di stima, se il film non avesse incassato una lira, avrei avuto sempre sulla coscienza i prestiti ricevuti. Il posto, l’ho sempre sostenuto, è un film furbo e l’ho realizzato per due ragioni: la prima appunto di ordine economico, e l’altra per i critici,
i
quali
hanno
definito
“documentario”
Il
tempo
si
è
fermato. D – Una classificazione
R – La definizione di “documentario” nasceva dal fatto che non vi fossero attori e non esistesse una trama, come se si dovesse tornare sempre alle trame ottocentesche; ma come, dico io, ci sono due persone che vivono per due giorni in una baracca in montagna e questa non è una storia? Di conseguenza girai questo secondo film cercando proprio la simpatia del pubblico e ci è caduto anche il critico, il quale ha realizzato una lettura più o meno
esatta
del
contenuto,
divertendosi
successivamente
ad
interpretare i dettagli. Con I fidanzati invece, film migliore de Il posto, ma più sofferto, tanto la critica quanto il pubblico sono completamente spariti. Il film non ha incassato una lira. Dopo aver realizzato Il posto avevo in mente di sganciarmi un poco dal vincolo economico, ma, pur essendo un film a bassissimo costo – perché I Fidanzati è costato 60-65 milioni – e nonostante fosse distribuito dalla Titanus, si è trattato di un fiasco commerciale. Dunque, la scelta è tra opere che ammiccano al pubblico, o film sinceri e sofferti, ma che non badano ai risultati commerciali. Ad ogni modo, dovrei girare il mio prossimo film in 16 mm., dato che non rinuncio a filmare con la macchina a mano e non posso
girare in presa diretta con l’Arriflex. Tuttavia detesto il 16 mm, dovrei trasferirlo in 35mm., ma sono molto perplesso; so che Straub gira in 16, no? D – Gira in 16 coltivando il sogno dei circuiti in 16mm.
R – Comunque la macchina da presa non deve costituire una barriera fra te e l’avvenimento.
Pensa alla macchina da presa
tradizionale, circondata da tutti come la signora del set, tutti dipendevano
dal
suo
occhio,
mentre
è
quest’ultimo
che
è
in
funzione della vita che si svolge davanti a te e che catturi, a seconda dello stato d’animo. D – Pensavo a certi film girati da Godard con l’Arriflex, realizzando tuttavia la presa diretta, anche se non so come sia arrivato a poterlo fare.
R – Chissà come ci sarà riuscito utilizzando l’Arriflex normale. Sento la necessità della presa diretta. D – Ti disturba molto vedere tutti i film stranieri doppiati?
R – Certo, mi infastidisce vedere un film straniero doppiato senza averlo ascoltato nella versione originale, ma siamo cresciuti con il cinema doppiato. D – Mi sembra che ciò avvenga con il fascismo, poiché precedentemente in Italia si proiettavano film in lingua originale, mentre, una volta assunto il potere, il regime fascista ha utilizzato il doppiaggio per conservare la purezza della lingua italiana.
R – Può essere, questo non so dirlo con certezza, ma è nello stile fascista, dunque è verosimile. Sin da bambini, siamo cresciuti ascoltando il cinema straniero doppiato e nel tempo ci siamo abituati. La cosa ha cominciato ad infastidirci vedendo un’opera in versione originale e successivamente in quella doppiata; penso, ad esempio, ai film giapponesi con suoni unici nelle versioni originali. D – Ci interessa anche la tua esperienza con gli attori professionisti, ad esempio quella con Rod Steiger.
R – Il lavoro con Rod Steiger è stata una triste esperienza, perché (E venne un uomo, 1965 ndc) è un film sbagliato, non tanto nelle intenzioni, quanto nel risultato, che è quello che conta. In realtà avevo intenzione di esprimere una determinata spiritualità senza legarla ad un certo volto, perché ritengo che certi valori debbano corrispondere all’idea di uomo in generale, non all’idea di un
uomo in particolare, fatto salvo l’affetto che ci lega ad una certa immagine.
Ad
ogni
modo,
per
quanto
riguarda
l’attore
professionista, dal lato umano si è trattato di un rapporto molto piacevole; Steiger dimostrava di essere interessato ad un cinema svincolato
dalle
convenzioni
di
Hollywood;
tuttavia
era
un
attore, ossia di una razza particolare. L’attore strumentalizza se stesso, annullandosi o esaltandosi a seconda dei casi, in funzione della
rappresentazione
di
un
personaggio.
Quindi
svolge
una
forma di mediazione. Io invece desidero trovare immediatamente il personaggio. Il cinema – a differenza del teatro che ha bisogno della meno
mediazione
dell’attore
simbolico,
un
che
rappresenta,
personaggio
–
in
modo
consente
di
più
o
entrare
direttamente a contatto con il personaggio. D – Tornando a I recuperanti: mi sembra che il vecchio reciti in modo ancora più caratterizzato di un vero attore.
R – Il vecchio è tale anche nella vita, è uno che “si” recita, ossia tende
a
rappresentarsi
particolare,
sempre,
caratteristico;
facendo
soltanto
in
di
sé
rari
un
personaggio
momenti
diventa
realmente se stesso, ad esempio di fronte al paesaggio che gli ricorda la trincea. Ebbene, quest’uomo che per molti rappresenta l’immagine forma
di
stessa
della
libertà.,
ma
libertà, non
è
è
costretto
affatto
libero.
a
vivere È
certo
una
certa
libero
di
dormire dove vuole, di mangiare quando e quello che vuole, di bere la crema marsala quando gli pare e piace, di scavar bombe o no, ma non è libero di voler bene a qualcuno. Difatti, egli ha bisogno di Gianni, ha necessità di un amico che non possiede. Ecco perché recita sempre, mentre Gianni è se stesso. Un uomo che non riesce ad amare muore. Muore o perché si uccide o perché inizia ad odiare, come reazione ad un mancato amore. Si tratta di una morte terribile perché costituisce una sofferenza continua, difatti chi odia, o chi disprezza, rappresenta davvero colui che soffre. Il vecchio ha bisogno di bussare ad una porta e di sentirsi accogliere non perché ha i soldi in tasca, ma perché si tratta di lui. In realtà egli aspira alla libertà. D – Ammesso che ne Il posto vi siano alcune concessioni allo spettatore, oggi rifaresti mai un’esperienza simile?
R – Solo se fossi costretto, ovvero se per esprimermi non mi fosse
consentito altro che percorrere questa strada pur nel rispetto delle mie idee, sarei disposto a scendere anche a tali compromessi. Però fino a quando io potrò parlare liberamente, sarei disonesto prima di tutto con me stesso se lo facessi. Se consideriamo il pubblico esclusivamente come un insieme di spettatori paganti, è ovvio che lo strumentalizzeremo in funzione economica; esiste però un altro
tipo
di
rapporto
con
il
pubblico,
che
è
quello
profondamente cristiano di considerare il tuo prossimo come te stesso. Di conseguenza, se pensi a te stesso quale spettatore del tuo
film,
non
puoi
ingannarti
e
scherzare
anziché
affrontare
seriamente l’espressione delle tue idee. In tal senso lo spettatore è chiamato in causa responsabilmente nelle scelte del cinema e non deve lagnarsi della presenza di un cinema immorale, dato che lo sottoscrive pienamente, finanziandolo quale spettatore! Si tratta di
una
sorta
di
viltà
morale
che
avviene
non
soltanto
nei
confronti del cinema, ma di tutti gli aspetti della vita dell’uomo oggi. D – È ancora fondamentale, per te, un certo isolamento dal mondo cinematografico?
R – Non considero il cinema né come un mestiere, né come un atteggiamento culturale. Mi interessa soltanto esprimermi.
Di
conseguenza, mi annoierei terribilmente se, una volta tornato dal set, dovessi parlare nuovamente di cinema; bisogna vivere! La commedia dell’arte nacque nelle strade, lungo gli itinerari che i comici seguivano e dove gli attori portavano ciascuno il proprio contributo di vita vissuta; impersonavano Napoleone o Enrico VIII
non
certo
con
rigore
storico,
ma
secondo
l’espressione
umana di ciascuno. Trovo splendido tutto questo. La cultura deve nascere dalla vita. D – A noi sembra che la realtà, i personaggi ed i volti del tuo cinema, siano sempre molto particolari, eccezionali.
R – Ritengo che ognuno di noi debba raccontare quello che conosce. Di conseguenza il mio mondo coincide con il mondo che vedete nei miei film. I personaggi che rappresento li conosco personalmente; li metto in scena perché le esperienze e la natura morale di ciascuno di loro, coincidono con le mie. Si tratta di un appuntamento meraviglioso con i tuoi personaggi. Vi parlo di storie uniche, che, talvolta, durano pochi istanti e si vivono senza
la necessità delle parole. Queste storie mi spingono a realizzare il mio cinema. D – Hai parlato di cristianità, ovvero della grazia che è un fatto morale e rappresenta un elemento che si ritrova in tutto il cinema di Rossellini.
R – Difatti io amo moltissimo il cinema di Rossellini, al punto di poterlo, talvolta, persino copiare; eppure non si tratta di una trascrizione, ma di un’identificazione. In fondo io non ho scelto il cristianesimo, perché è il cristianesimo che ha scelto me; ovvero è
il
mio
essere
morale
che
ha
coincidenza
continua
col
cristianesimo. È questo il motivo per cui, quando devo fare un riferimento, scelgo il cristianesimo. D – Tutto ciò è molto interessante.
R – Non si tratta di un fatto dottrinale, ecco tutto. D – Realizzare un cinema dove i temi principali coincidono con la propria infanzia ed il proprio ambiente sociale, implica un sistema autobiografico; quale ritieni, tra i tuoi film, il più autobiografico?
R – Il tempo si è fermato, Il posto, gli stessi Fidanzati, anche se io non facevo l’operaio, ma l’impiegato. D – I titoli dei tuoi film, sembrano un mosaico di frammenti particolari della tua vita.
R – Olmi: Può essere. D – Il tempo s’è fermato, Il posto, I fidanzati
…
R – Perfettamente. Difatti, ora che mi ci fate pensare, Un certo giorno
è
proprio
il
film
della
mia
crisi,
quella
tipica
del
quarantenne, dove si affaccia per la prima volta il sentimento della morte, che naturalmente non significa soltanto la morte fisica, ma rappresenta lo spegnimento di determinati interessi; evidentemente, pericolo
di
sono
arrivato
diventare
un
Un
cadavere
certo nel
giorno mondo
a
percepire
del
cinema
il in
quanto cadavere nella vita, ossia rischiare di fare del cinema una professione e non un atto di vita. Rischiare di sentirmi padre di famiglia
solamente
in
quanto
responsabile
dell’istituzione
familiare e non invece di riconoscermi come un uomo che ha compiuto famiglia,
delle e
che
scelte è
grazie
felicemente
alle
quali
costretto
è a
circondato compiere
da
tali
una
scelte,
poiché le scelte che ti costringono a compiere le persone che ami
sono scelte tragiche ma meravigliose. Tragiche, a volte ti sembra di
scegliere
per
conto
loro,
ma
meravigliose
proprio
perché
questa è l’azione che devi compiere, è un tuo splendido atto di vita. Essere uomini significa proprio porre tutto in questione quotidianamente, chiedersi ogni giorno il motivo di ogni scelta, avere il coraggio di contraddirsi ed il coraggio di lottare. Quindi i miei titoli, molto probabilmente, segnano queste tappe; difatti, il film che sto girando adesso si intitolerà Durante l’estate, e se in un primo momento ho trovato questo titolo provvisorio, perché si tratta di una storia che si svolge proprio durante l’estate, ora comprendo che si tratta di un’estate più emblematica, ovvero l’estate dell’uomo, il momento in cui dovremmo essere maturi, o crediamo di esserlo quando invece tale maturità ancora non la possediamo.
Ebbene,
non
dobbiamo
illuderci
di
tale
falsa
maturità, ma tentare di essere sempre innocenti, liberi, perché un giorno o l’altro possiamo incontrare un interrogativo a cui non sappiamo
rispondere
ed
allora
tutto
crolla.
La
Tebe
che
noi
costruiamo sulla nostra presunzione, non è certo un mezzo per metterci in contatto con la vita, ma è una prigione terribile; ci difende da certe inquietudini, perché attraverso la nostra cultura individuale troviamo una risposta ad ogni domanda, ad esempio agli interrogativi su Dio rispondiamo sul piano filosofico, mentre circa i sentimenti, magari troviamo utile Freud, ma allo stesso tempo tale autodifesa ci imprigiona. Nel film che girerò e che si intitola Durante l’estate,
si narra la storia di un professore di
filosofia, volutamente uno studioso di filosofia, che si sente in possesso
di
una
forza
culturale
ed
intellettuale
tale
da
permettergli di affrontare con successo la vita. Tuttavia la vita è davvero straordinaria e non riusciremo mai a possederla, si tratta di un mistero che si rinnova continuamente. Ecco forse spiegato il motivo per cui molti uomini di grande cultura si sono uccisi; essi credevano di avere trovato il fondo di questo mistero, in realtà irraggiungibile. Ecco che anche la sicurezza del professore di cui si narra nel film è messa in crisi dall’imprevedibilità della vita. D
–
Proprio
a
proposito
di
questo
tuo
progetto,
ci
hai
detto
che
non
scrivi
sceneggiature, ma prendi soltanto qualche appunto.
R
–
Esatto,
solo
appunti,
scrivo
anche
qualche
brandello
di
dialogo,
che
successivamente
magari
getto
via,
perché
è
sui
personaggi che lavoro. Con le mie idee provoco i personaggi, determinando una reazione, dunque in fondo il personaggio lo creiamo
insieme.
Somiglia
un
poco
alla
Commedia
dell’Arte,
dove all’indicazione del personaggio con il suo dramma umano l’attore aggiungeva tutto se stesso creando una comunione tra personaggio
e
responsabile
del
personaggio.
Ad
esempio,
a
proposito del professore di filosofia del mio film, anche se l’attore che lo interpreterà non sarà realmente un insegnante di filosofia, mi
avvalgo
della
collaborazione
di
Pasqualino
Fortunato,
che
insegna davvero filosofia e che mi suggerisce alcune riflessioni. Successivamente
utilizzo
l’attore,
che
possiede
comunque
una
preparazione culturale in grado di interpretare il comportamento di un professore di filosofia e lo provoco con tali interrogativi, ottenendo la sua reazione. Di conseguenza, questo personaggio risulterà la fusione tra me, Pasqualino Fortunato e l’attore. Ieri sera, alla proiezione del film sono tornati due o tre collaboratori de I recuperanti che avevano già visto il film; tutto ciò rappresenta un appuntamento d’amore che si ripeterà sempre ed è un altro concetto cristiano. D – Tra Il tempo si è fermato ed I recuperanti, che cosa pensi sia cambiato?
R – Ti rispondo attraverso un esempio. Se fossi un pittore, direi che ne Il tempo si è fermato ho costruito il
quadro partendo
ancora dal disegno sottostante, successivamente l’ho colorato fino a realizzare una bella opera. Ora non parto più da un disegno preesistente, ma getto direttamente i colori sulla tela e il disegno si forma da solo. D – La pittura è stata una tua passione giovanile?
R – La pittura ha costituito la mia prima passione, un amore non del tutto sopito che forse un giorno tornerò a frequentare con la stessa intensità con la quale oggi faccio cinema. D – Che tipo di esperienza soggettiva ritieni che un autore possa provare attraverso il documentario?
R – Ritengo che il documentario sia utilissimo dal punto di vista della
preparazione
tecnica,
perché
consente
un
approccio
al
cinema svincolato dalla macchina industriale che normalmente lo costituisce.
Il
documentario
consente
insomma
una
maggiore
libertà e si impara a rispettare la verità, non a modificarla, cosa che,
a
morale
mio di
avviso,
cui
importante.
proprio
parlavamo
Quando
si
in
gira
sul
piano
di
precedenza, un
quell’atteggiamento
è
straordinariamente
documentario,
non
possiamo
inventare dei pescatori o dei montanari, ma riprenderli dal vero. Una volta entrati nella macchina industriale del cinema, avremo magari l’esigenza di girare la scena di un montanaro che taglia un albero, ma ci troveremo di fronte un ambiente completamente ricostruito, provando una grande nostalgia per il vero albero ed il vero
boscaiolo;
tuttavia,
la
tua
esperienza
documentaria
ti
consentirà di riprodurre le condizioni giuste per realizzare quella scena, magari attraverso dei simboli di cartone che cercherai di avvicinare il più possibile alla realtà. Inoltre, tale realtà non è soltanto fisica, perché una faccia giusta si può sempre trovare, mentre
l’albero
all’originale
e
lo
puoi
persino
il
ricostruire
suono
perfettamente
dell’albero
che
cade
uguale si
può
riprodurre, ma evidentemente nelle cose reali esiste una verità interiore che costituisce l’elemento che determina quella esteriore e che solo le cose vere posseggono. Ecco perché il documentario, a
mio
avviso,
è
il
primo
contatto
che
un
uomo
di
cinema
dovrebbe avere con la realtà. Prendere la macchina da presa ed andare in giro a raccontare.
Conversazione – 7 febbraio 1970
PIER PAOLO PASOLINI D – Quali sono le varianti e le innovazioni che lei pensa di aver apportato nella lavorazione
dei
suoi
film,
riguardo
alla
direzione
attori,
alla
sceneggiatura
e
al
montaggio, da Accattone a Medea?
R – Non ho capito se sta parlando di variazioni e di innovazioni interne a ciascun film, oppure se intende l’insieme dei film… D – L’insieme dei film.
R – Direi che c’è una prima fase da cogliere che è fondamentale, seppure
in
modo
schematico.
Diciamo
che
i
miei
film
appartengono a due diversi momenti. Il primo finisce con il Vangelo secondo Matteo, comprende i miei primi
film
nell’Edipo. secondo
cominciando Con
Uccellacci,
momento.
Gramsci, carattere
cioè
da
I
sotto
Uccellini
primi l’idea
Accattone,
film che
nazional-popolare.
e
in
invece
sono
fatti
Gramsci
Cosa
si
parte
determina
sotto
aveva
ritorna
il
di
implicava
un
segno
un’opera
questa
di a
idea?
Implicava che il destinatario delle opere, sia pure ideale, non reale, non concreto, fosse il popolo. Il popolo concepito come classe
dominata
autonoma
alla
che
classe
contrapponeva dominante,
una
cioè
propria
alla
classe
cultura
borghese.
Idealizzato in questo modo, si potevano concepire delle opere a carattere
nazional-popolare.
Ora
il
popolo
esisteva
oggettivamente al tempo di Gramsci, ed esisteva oggettivamente anche durante la mia giovinezza. Io ho conosciuto questo popolo, a livello culturale, completamente distinto dalla borghesia. Parlo soprattutto del popolo contadino, rimasto escluso dalla storia per secoli, appartenente ad aree marginali e quindi proprietario di una propria cultura attraverso cui giudicava la realtà, il mondo, i rapporti tra persona e persona, fra persona e realtà e via dicendo. Il mondo contadino, o il mondo operaio del paleo-capitalismo, in
cui
il
popolo
era,
talmente
segregato
culturale
ancora
in
dalla
molto
quanto storia,
povero,
da
autonomo.
vivere Ora
talmente in
un
questo
sfruttato,
suo
mondo
popolo
così
caratterizzato, che rendeva possibile concepire opere a carattere
nazional-popolare contraddetto,
in
Gramsci
distrutto,
e
in
vanificato
me
giovane,
dalla
è
stato
rivoluzione
neo-
capitalistica. Perché questa rivoluzione anche in Italia ha creato quella che si chiama “cultura di massa”. Ha elevato, in qualche modo,
attraverso
contadina
sia
la
il
benessere
condizione
economico,
operaia,
e
sia
ha
la
condizione
creato
una
certa
omologazione tra infima borghesia e popolo. Così che adesso i prodotti sono obiettivamente oggetto di un consumo di “massa”. Ma la nozione di “massa” non si può identificare con un numero esteso, come è la nozione di “popolo”, e non si può identificare nemmeno con “piccola borghesia”; è una nozione astratta che comprende “popolo” e “piccola borghesia”. Infatti i consumatori di
film
sono
contemporaneamente
operai,
contadini,
piccolo-
borghesi, medio-borghesi: la massa consumatrice di un film non è definibile in base alla classe. È proprio quella che i sociologi chiamano queste,
“massa”,
la
con
le
caratteristica
sue
caratteristiche
principale
è
la
ben
precise.
consumazione.
Tra Una
consumazione alienante, che deforma l’opera, la rende altro da quella che essa è. Questo avveniva, come voi sapete, già all’inizio degli anni ’60, quando io ho cominciato a fare film. Arrivato perciò al Vangelo secondo Matteo mi sono reso conto del donchisciottismo gramsciano delle mie prime opere, e mi sono reso conto che non era il popolo ideale, che avevo in testa io, che consumava le mie opere. Le mie opere venivano consumate dalla “massa”, con tutto il processo mistificante che questo implicava. E allora ho avuto una specie di reazione istintiva, di cui mi sono reso conto più tardi. Mi sono ribellato a questa consumazione di massa rinunciando a fare film a carattere epico e mitico come erano Accattone o il Vangelo secondo Matteo, e cominciando a fare film
a
carattere
problematico.
Il
primo
è
stato
Uccellacci,
Uccellini, e da lì sono arrivato a Medea. Film problematici, che in fondo sono dei contes philosophiques, oppure delle allegorie, il cui tema
strutturale
è
sempre
ideologico
e
mai
propriamente
narrativo, oppure brechtiano in senso, diciamo così, più vasto. Dunque
ci
sono
queste
due
fasi
nella
mia
opera,
però
c’è
evidentemente anche una continuità. Che consiste, sempre per dirla
in
modo
schematico,
in
un
rapporto
innaturale
con
la
natura. In un rapporto sacrale con la realtà. Cioè come avrete
notato, mancano nei miei film i
piani-sequenza,
che
sono la
tecnica dove meglio si esprime in modo naturalistico la visione della realtà. I miei film sono tutti montati, non dico fino alle estreme conseguenze, come in un Eisenstein per esempio, ma sono sempre molto montati. Giro sempre film frammento per frammento, oggetto per oggetto, viso per viso; e poi li monto, togliendo
quindi
rappresento.
naturalezza
Questa
è
una
e
naturalismo
caratteristica
alle
sempre
cose
che
presente,
da
Accattone fino a Medea. Voglio dire che quella doppia fase che vi dicevo non contraddice il fatto che ci sia una continuità. Solo che mentre questa sacralità in Accattone aveva un carattere, diciamo così, stilistico, di una essenzialità soprattutto poetica, da Uccellacci, Uccellini in poi, e soprattutto con Teorema e con Porcile, questa essenzialità più che poetica, è diventata funzionale a quello che io voglio dire. In sostanza c’è un cambiamento nella struttura di ciò che, secondo me, è essenziale nel girare un film. D – Per lei la “massa” non è quindi un gruppo omogeneo, incolto, come ad esempio per Ortega y Gasset …
R – Ma infatti Ortega y Gasset probabilmente diceva queste cose venti, trenta anni fa, quando ancora la cultura di massa non esisteva.
Cioè
si
è
incominciato
ad
usare
la
parola
“massa”
nell’accezione in cui la uso io da quindici, venti anni. Da quando di “cultura di massa”, almeno in Europa, si comincia a parlarne. Forse in America se ne parlava già tanto tempo fa, cinquanta anni fa; in Europa si comincia a parlarne adesso. Ortega y Gasset, probabilmente,
usava
“massa”
nel
senso
di
grande
numero,
diciamo così. Siccome le masse nel senso di grande numero erano contadine, analfabete, ecco che probabilmente poteva usare la parola
“massa”
in
questo
senso.
Io
invece
la
uso
nel
senso
canonico in cui la usano i sociologi oggi. D
–
Lei
ha
dichiarato
di
voler
trattare
nel
Decameron
soltanto
le
novelle
di
ambientazione napoletana. Perché questa scelta?
R – Perché l’idea di girare il Decameron mi è venuta girando la prima
parte
di
Medea.
Quella
è
una
parte
corale
in
cui
rappresento, mescolata al sacro, la vita quotidiana di un popolo nel quale c’è anche Medea che viene fuori piano piano. E la
rappresento in modo fantastico, visionario, ma con un fondo di realtà preso soprattutto da libri di Storia delle Religioni. Nel rappresentare questo popolo nella sua vita quotidiana, sacra e tragica, ho pensato che avrei potuto invece fare un film che fosse sempre ugualmente popolare, corale, ma in una chiave di pura vitalità, di salute, di allegria, di sensualità, di erotismo, di follia, che è l’altra faccia dell’aspetto mitico. Infatti in Medea c’è il Centauro che dice a Giasone: “Ciò che è mitico è realistico, ciò che è realistico è mitico”. Io
volevo
rappresentare
l’altra
faccia
del
popolo
che
ho
rappresentato nella Medea. Allora mi è venuto in mente di fare il Decameron
come
radicalmente
un
popolare.
film
a
Allora,
carattere
dove
trovare
profondamente un
mondo,
e
così,
veramente popolare, oggi in Italia? – perché naturalmente è qui che io posso trovare il popolo che capisco di più, essendo io italiano
-,
nel
Meridione.
E
qual
è
la
città
dove
il
mondo
boccaccesco si possa realizzare autenticamente? Napoli. Tanto più che
molte
storie
di
Boccaccio
sono
napoletane,
e
che
lui
ha
passato la sua gioventù a Napoli; e quindi Napoli si inserisce anche obiettivamente nella storia del Boccaccio. D – Sappiamo che lei si interessa molto del colore; quale uso pensa di farne nel San Paolo e nel Decameron?
R – Nel San Paolo vorrei che il colore non esistesse; forse giusto il colore
del
documentario
a
colori,
perché
è
un
film
molto
documentario, come se fosse accorpata una serie di repertorio. Nel Decameron invece, vorrei che fosse tutto sui bruni, sui grigi, sui neri, basta. Un po’ come nelle scene di popolo della prima parte di Medea, insomma. D – Che cosa le ha suggerito di scegliere il tema mitologico di Medea dopo quello di Edipo?
R – La scelta è molto diversa, cioè la connessione tra Edipo e Medea è soltanto esteriore; c’è solo il fatto che due tragici greci hanno fatto uno l’Edipo e l’altro Medea, e che c’è un mondo mitologico dietro, ma in realtà sono due film totalmente diversi. L’Edipo
è
la
proiezione
del
mito
del
complesso
d’Edipo
in
psicoanalisi; era questo che mi interessava nel film. Invece Medea è tutto costruito, come vi dicevo prima, su trattati di Storia delle
Religioni. Quello che mi interessava in questo caso era ricostruire un mondo religioso arcaico che a un certo punto dovesse subire l’urto di un mondo laico e moderno. Quindi sono due film completamente diversi, non c’è nessuna analogia di contenuto tra i due. D – D’accordo sulla diversità dei due film, ma la sua adesione sensibile a questi due temi così diversi…
R – No, non sono molto diversi, perché ambedue sono legati a un modo mitico di vedere la realtà. Avrei potuto benissimo fare un film sul complesso d’Edipo, mostrando in modo realistico la storia del bambino che rappresento all’inizio, attraverso un suo complesso edipico verso la madre, un suo rapporto violento col padre,
eccetera.
mondo
Cioè
borghese
avrei
moderno,
potuto e
mantenermi
farne
un
caso
al
livello
clinico
tipico
del di
Freud. Invece ho sentito il bisogno di proiettare tutto questo nell’archetipo da cui deriva. Nell’altro invece c’è un mondo che io
ho
ricostruito
leggendo
libri
di
Storia
delle
Religioni,
dal
Frazer a Mircea Eliade, ed è coeso e coerente col sentimento mitico che io provo nei rapporti di questo mondo. D – Aver doppiato la Callas in tre giorni significa dover preferire sempre comunque la falsa estetica del doppiaggio?
R – Non l’ho doppiata in tre giorni. Ci ho lavorato molto di più, realizzando due doppiaggi, e per ragioni puramente pratiche. In Francia, all’estero va col doppiaggio della stessa Callas, in Italia invece tengo l’altro doppiaggio, semplicemente per evitare cose sgradevoli al film. Purtroppo il circuito non è quello delle cinemateche e dei cinema d’essai ma quello dei film commerciali, e arrivando alle seconde visioni a Roma, Napoli, Torino il pubblico avrebbe protestato di fronte
all’accento
non
italiano
della
Callas.
Ha
recitato
straordinariamente, però con degli accenti tra veneti e balcanici; il pubblico italiano sarebbe stato distratto e non avrebbe più seguito il film, dunque tra i due mali ho scelto il minore. D – Se il suono in presa diretta contribuisce a fare film attuali, film sul presente, col doppiaggio si rischia anche…
R
–
…Non
suono…
vedo
la
connessione
tra
l’inattualità
e
l’uso
del
D – Per esempio la Marseillaise di Renoir, che è un film del ’38, riesce ad essere più un
documento
sull’epoca
in
cui
è
stato
fatto
piuttosto
che
sulla
Rivoluzione
Francese…
R – Non riesco a capire come si dia più storicità a un film facendolo in presa diretta. Se il suono diretto rende attuale una certa realtà lo fa in un senso puramente fisiologico; si cade nel naturalismo, dicendo questo. Ora io, come dicevo,
detesto il
naturalismo. Non considero la natura naturale, la natura non è naturale, e un film è una ricostruzione completa del mondo e quindi
non
è
naturalistico.
Ma
se
si
pone
un’esigenza
naturalistica, io alzo proprio le barriere del mio modo di avere un rapporto con il mondo. Quando, mettiamo, Proust pensa un personaggio,
non
pensa
mai
a
un
personaggio
reale,
non
lo
descrive; se Proust lo descrivesse tale e quale com’è nel mondo reale, farebbe un tentativo di naturalismo, che tra l’altro non sarebbe
neanche
compositi.
realizzabile.
Quando
uno
I
personaggi
scrittore
pensa
sono
un
sempre
personaggio,
compone sempre il ricordo di vari personaggi. È una sintesi di esperienze umane, quella che lui fa. E così è anche il cinema. Quando io decido un personaggio non lo voglio catalogare, incollare ad un momento naturalistico; lo costruisco attraverso il montaggio, attraverso tutti gli strumenti stilistici che ho a mia disposizione. Inoltre ci sono degli aspetti pratici di cui è necessario tenere conto,
uno dei
quali è che
bisogna storicizzare i vari momenti in cui si gira un film. È necessario avere delle prospettive storiche; se si vuole pretendere del cinema che sia attuale, storici dovremmo essere prima di tutto noi. Renoir, a Parigi, può benissimo fare un film in presa diretta, ma un autore italiano, oggi a Roma, non lo può fare, perché in Francia c’è unità linguistica, dovuta a ragioni politiche, nate dalla centralizzazione
burocratica
e
politica
della
Francia
già
da
quattro, cinque secoli a questa parte, mentre in Italia questa non c’è. Dunque a livello naturalistico va benissimo; siamo qui che parliamo ognuno con un accento, venissero qui venti italiani parlerebbero uno siciliano, uno veneto, uno non so che cos’altro. Ma
lei
non
può
portare
questa
realtà
fisiologica
a
livello
dell’opera d’arte, a meno che lei non lo faccia con la volontà di farlo, ma allora sarebbe un film particolare.
D – Io personalmente, ammesso che la presa diretta sia un’operazione naturalistica, preferisco questa al doppiaggio, a ogni livello.
R – Secondo me quel che lei afferma è retorico, perché lo pone come principio. Se lei si apre, se lei non si formalizza, lei ha ragione, ma nel momento in cui si formalizza fa della retorica, perché ci sono casi completamente diversi. Prendiamo
il
caso
di
un
attore
che
ha
una
presenza
fisica
straordinaria ed è un cane come attore. È una cosa che succede spessissimo
in
Italia,
appunto
per
le
ragioni
storiche
che
le
dicevo, ovvero che non c’è una lingua nazionale. Nel momento in cui un attore italiano con una bella espressività fisica diventa un
cadavere
parlante
perché
parla
una
lingua
imparata
all’Accademia, cosa orribile a sentirsi, con tutto il ‘birignao’ che c’è in quel modo di parlare, io preferisco mettere un’altra voce, vera. Quindi non esiste una legge… D – D’accordo, non esiste una legge, ma a me interessava sapere perché lei doppia i suoi film.
R – Li doppio sempre per ragioni pratiche. A meno che non voglia fare un film sperimentale, e quindi fare di queste diversità un canone stilistico, non posso mettere ad esempio un attore straniero che parla con un accento straniero in mezzo ad attori italiani. Diventerebbe un’assurdità fuori dal mio sistema di segni stilistico. D – Lei ha detto di aver fatto due versioni della Medea, una italiana, l’altra francese, in cui è la Callas stessa che si doppia…
R – Sì, voglio dire, per me quello bello è il doppiaggio della stessa Callas, perché recita straordinariamente bene; in modo molto strano, un po’ assurdo, un po’ fuori dalla regola, però molto bene. Però con degli accenti che il pubblico italiano non avrebbe accettato
creando,
all’interno
del
film,
degli
scompensi,
falsificando il film. D – Questo è dunque un problema che lei si pone in Italia, per gli italiani.
R – Sì, però per esempio per Porcile ho voluto il doppiaggio in francese,
ma
per
ragioni
diverse.
Ovvero
non
ho
voluto
che
uscisse in Francia con i sottotitoli – ecco qui un’altra cosa che contraddice il principio – perché Porcile è parlato in poesia. Ora la poesia si può tradurre; benché non sempre perfettamente bene,
ci si può approssimare ad una traduzione fedele. Una traduzione, non un riassunto, e i sottotitoli in questo caso sarebbero stati un riassunto che avrebbe tradito, non dico la bellezza estetica della poesia, ma il senso del dialogo. Per capirci, “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” nelle didascalie diventerebbe “Questo colle mi piace”, perciò ho voluto che Porcile fosse doppiato, facendo la traduzione dei versi in francese. D – Leaud, Clementi, si doppiano loro stessi?
R – In questo caso… vede le disgraziate condizioni del cinema… Jean Pierre Leaud in quel momento era partito per paesi ignoti. È stato irreperibile, e quando è stato reperito, era malato in uno stato da non potersi doppiare. Il film doveva essere pronto perché aveva la data d’uscita, quindi ho dovuto prendere un altro che però l’ha doppiato benissimo. Cioè ha aggiunto al personaggio quel
tanto
di
inesplicabile,
di
ambiguo,
di
misterioso,
che
attraverso la verità in quel caso non avrei potuto raggiungere. Se invece faccio un film di interviste, sarebbe proprio una follia doppiare. In questo caso la realtà coincide con lo stile, in altri casi non è così. D – Non so come arrivano a doppiare i film di Godard, per esempio…
R – Qui lei mi fa il caso che dà ragione alla sua regola. Infatti Godard parte con l’idea di fare un film in presa diretta, perché questo fa parte della sua estetica, della sua poetica. Allora lui tradirebbe la sua poetica se non lo facesse. Ma non è la mia. Mentre ho visto dei film giapponesi il cui doppiaggio era orrido –
mi
ricordo
I
racconti
della
luna
pallida
d’agosto,
una
cosa
inaudita – ma si sarebbero potuti fare dei doppiaggi dignitosi. D – Ma non la disturba vedere un giapponese e sentir parlare in italiano?
R – Tra i due disturbi sono meno disturbato a sentire un buon doppiaggio. Intendiamoci, un cattivo doppiaggio mi disturba sì, ma
un
buon
doppiaggio
mi
disturba
meno
che
i
sottotitoli,
perché i sottotitoli deturpano l’immagine. Io quando concepisco un’immagine sto lì mezz’ora, scelgo un’inquadratura, tormento l’operatore di macchina, mi raccomando che tenga l’immagine a quel
punto
sottotitolo
là, che
la
metta
me
la
a
posto
copre
così…
tutta.
È
e
poi
una
mi cosa
vedo
un
orribile,
insopportabile, non li sopporto i sottotitoli, io. Tra i due mali preferisco dire: va be’, questo doppiaggio non corrisponde alla realtà… tengo conto di questo, e supero. Invece il sottotitolo cambia il senso dell’immagine. D – Abbiamo letto che di Medea sono state fatte cinque edizioni diverse…
R
–
No,
ho
doppiaggio
fatto
della
due
Callas
edizioni, stessa,
e
come una
le
dicevo,
col
una
doppiaggio
col
della
Savagnone. È stato un film molto difficile da montare, perché non ho potuto girare alcune scene che nella sceneggiatura avevo scritto e quindi ho dovuto inventarlo un po’ nel montaggio, soprattutto la seconda parte. Perciò è stato un montaggio molto difficile, ma la versione che ho fatto è stata l’unica e la definitiva. D
–
Cristo
e
Marx
sembrano
essere
protagonisti
culturali
di
alcune
sue
opere.
Instaura lei una dialettica teleologica fra i due?
R – Questa è una domanda che mi mette in uno stato di choc… perché
proprio
semplificazione,
la è
rifiuto, una
la
rifiuto
volgarizzazione
completamente. che
mi
riduce
È
una
a
una
formula, a uno schema a cui mi ribello. Anche perché sfiderei chi mi fa questa domanda a mostrarmi qual è lo scrittore, l’autore contemporaneo
dove
non
contano
Cristo
e
Marx.
Sono
due
fenomeni tipici, storici di un uomo contemporaneo. Quindi non faccio che subire supinamente la cultura storica del mio tempo. Croce ha scritto un libro che si intitola Perché non possiamo non dirci Cristiani; lui non era credente, non era cristiano, però lui liberale, moderno, laico eccetera eccetera, non poteva non dirsi cristiano perché nato in un ambito culturale dove vigeva una civiltà
nata
da
due
secoli
di
cristianesimo.
Questo
oggettivamente, a parte i giudizi di valore che si possono dare, a parte
la
mancata
realizzazione
di
qualsiasi
spirito
evangelico,
insomma. D’altra parte nell’Ottocento Marx ha aperto la lotta di classe,
cioè
ha
reso
consapevole
della
propria
cultura
e
della
propria realtà la classe sfruttata. Ora noi ci muoviamo tra questi due poli, cioè non possiamo non dirci cristiani e non possiamo non dirci marxisti, tutti, non solo io. Perciò dico che nella cultura di ogni uomo moderno c’è questa doppia presenza che può essere drammatica e può essere equilibrata. D – Siamo cristiani e marxisti perché nati in questa epoca e società particolare;
supponiamo che lei non si trovasse in questa epoca e in questa società, sceglierebbe di essere cristiano o marxista?
R – Tra i due, be’, non si può scegliere, perché sono due entità talmente
incommensurabili
fra
loro.
Uno
rappresenta
la
metastoria, cioè il momento della storia che è fuori da se stessa, in
cui
la
l’altro
storia
è
contempla
dentro
la
se
stessa
storia.
come
Quindi
fenomeno. sono
Mentre
due
entità
incommensurabili, non si possono paragonare e quindi scegliere. Voglio dire, prendiamo un tipo marxista veramente impeccabile: Gramsci, che è il fondatore del Partito Comunista Italiano. Ora nel momento in cui Gramsci, al di fuori della razionalità e della logica
attraverso
cui
era
marxista
e
ideologo
del
marxismo,
accetta di passare la vita in carcere, questa sua accettazione di martirio e di sacrificio è al di là della logica e della sua razionalità. È un momento, direi, metastorico in lui, che non si spiega altro che
attraverso
un’altra
gamma
di
valori
che
quelli
logici
e
razionali del marxismo. D – L’eredità culturale della nostra società sono i borghesi che la diffondono, e se ne sono
impossessati
così
da
ucciderla…
Lei
sembra
voler
distillare
gli
elementi
costitutivi di questa cultura per recuperarne le energie che la giudicano severamente. Non trova lei che questo ritorno venga però condotto secondo categorie critiche comuni al mondo intellettuale borghese?
R – Dovrebbe rileggermi ’sta domanda, perché è un po’… …. Ma questa domanda è formata da una serie di elementi e di clausole che andrebbero discusse una a una. Cioè ci sono molte affermazioni che andrebbero criticate, discusse, e rielaborate. Per esempio un’obiezione di fondo che potrei fare è questa: che la storia di oggi è la storia borghese. Anche se vogliamo considerare la storia di oggi come storia della lotta di classe, uno dei due protagonisti
sarebbe
sempre
la
borghesia
quindi,
in
un
certo
senso, niente è al di fuori della borghesia. Tutto, in qualche modo, fatalmente rientra in questa storia che o è borghese, là dove non c’è lotta di classe, almeno apparentemente, e quindi non c’è altro che un’evoluzione dell’entropia borghese con i suoi cambiamenti qualche classe. perché
interni
modo,
Quindi in
di
valori,
borghese non
si
quest’eredità
oppure
continua
dialetticamente,
può si
è
sfuggire
a
là
dove
a
c’è
quest’eredità
incapsulata
l’eredità
essere, lotta
in di
borghese,
della
civiltà
contadina preborghese, preindustriale, elaborata da un secolo di capitalismo, cioè di borghesia. Perciò questa domanda è senza confine,
cioè
si
estende
a
tutto
ciò
che
è
comprensibile,
concepibile a noi. È chiaro che ci sono nella mia operazione i rischi che lei dice, ma sono inevitabili. Un po’ come dicevamo prima, per Cristo e Marx. D – La parola teorema sembra riunire nel medesimo tempo la dimensione razionale del suo uso geometrico, e la dimensione profetica della sua radice etimologica (parola di Dio). Gli stessi elementi, geometrismo e profetismo, si ritrovano nel film. C’è stato per lei l’intento di mostrare geometricamente l’opacità della borghesia a ogni profetismo?
R – Sì, avete dato una definizione molto esatta e suggestiva di Teorema,
sia
nel
suo
aspetto
formale
che
nell’aspetto
del
messaggio. D – Ha un significato per lei che in Teorema la serva, la meno borghese fra tutti, l’unica che sembra avere una capacità di amare, abbia creato l’effervescenza propria a un fatto sociale, mentre gli altri personaggi sembrano rimandati a una solitudine “pasoliniana” (deserto e borgate di Roma…)?
R – L’ultimo pezzettino, beh, è un po’ troppo brillante, per essere vero. Sì. Non vedo però perché voi pensiate che il personaggio della serva-contadina crei queste effervescenze sociali. In realtà non mi pare che le crei. È l’unico personaggio capace di amore, cioè
di
concepire
ancora
quel
sentimento
del
sacro
di
cui
parlavamo, perché è un personaggio che viene da un mondo preindustriale,
preborghese,
contadino,
dove
vige
ancora
il
sentimento del sacro. Però, come dicevo prima, la storia è la storia della borghesia oppure la storia della lotta di classe, della classe operaia cosciente, e della borghesia. Il mondo contadino è tagliato
fuori
in
quanto
mondo
contadino
classico,
cioè
preindustriale, preborghese, e quindi anche l’amore di questo mondo è ormai tagliato fuori dalla storia. Ecco perché io lo vedo come un fatto positivo, ma ormai fuori dalla storia. Una specie di sacca storica, dove questo personaggio è visto, in qualche modo, umoristicamente. Lei è vista come una santa, sì, ma una santa matta, che ormai non ha più presa nella realtà del mondo d’oggi, dei borghesi, che non sono più capaci di concepire il sacro e sono in uno stato di crisi che nel film si presenta come insolubile. D – Il “coito ergo sum” di Teorema, “linguaggio religioso che si fonda, per analogia,
con una sorta di immenso feticismo sessuale” e che implica violenza, per lei è soprattutto un fatto esistenziale biologico?
R
–
No,
qui
intenzioni,
forse
che
ci
si
è
sono
caricata
forse,
la
ma
mia
che
intenzione
sono,
così,
di
altre
marginali,
fiancheggiatrici. Il rapporto, diciamo così, sessuale, tra l’ospite che è la teofania e la ierofania, e i personaggi reali, è un sistema di segni
linguistico.
Cioè,
come
voi
sapete,
la
semiologia
ha
allargato immensamente la nozione di lingua; i sistemi di segni sono infiniti, e uno di questi è il sistema del sesso. Il sesso ha un suo linguaggio, ha un suo sistema di segni, abbastanza logico, ampio
e
definito,
direi
quasi
articolato.
Ora
per
questo
personaggio, che è la teofania o la ierofania, non poteva esserci un
rapporto
personaggi.
linguistico,
Prima
di
nel
tutto
senso
perché
di lui
verbale, non
era
con
i
suoi
venuto
lì
a
evangelizzare, quindi non aveva bisogno di parlare, di convincere attraverso
la
evangelico,
lingua, un
come
dio
figlio,
ha
fatto
è
un
Cristo. dio
Non
è
epifanico,
un un
dio dio
manifestazione, un dio padre, e quindi il parlare non sarebbe stato
coerente
dovesse
col
parlare,
personaggio.
mi
sarebbe
Se
stato
poi
avessi
impossibile
deciso
che
lui
materialmente
attribuirgli delle parole. Dunque era inerente al suo significato stesso, alla sua funzione stessa il fatto di esprimersi attraverso un linguaggio prelogico, preistorico, cioè il linguaggio dei sensi. D – Il tema del deserto della solitudine, da quali fonti le proviene? da Dostoevskij, dalla Bibbia…?
R – Il senso della solitudine credo provenga proprio dalla mia costituzione l’ossessione psicologica,
psicologica. della che
L’amore
solitudine, poi
è
investe
della
proprio capitali
solitudine, una
mia
letterari:
addirittura
caratteristica la
Bibbia,
figurativamente ed esteticamente, ma che in realtà io odio – la trovo un libro orribile – a differenza del Vangelo. I personaggi di Dostoevskij, Antonio Machado … Ma è un fatto intimo mio, privato. D – La sua vocazione estetica non teme che la possa portare a una mancanza di semplicità film-linguistica?
R – Ma… cosa vuole… non bisogna mai temere la mancanza di semplicità. Però sono complicato, inutile negarlo. E la paura di
essere complicati, è una parte della paura di essere intellettuali, cioè della paura di essere quello che si è. D
–
Da
una
dichiarazione
rilasciata
a
Parigi,
lei
sembra
avere
dei
progetti
da
realizzare in America con la Callas, da un’opera di Brecht…
R
–
Mah,
sono
le
solite
chiacchiere
che
nascono
intorno
a
semplici abbozzi di idea. Io a un certo punto avevo avuto l’idea, un vago progetto, di fare la Santa Giovanna dei Macelli, non certo Madre Courage, a Chicago. D – Ci potrebbe anticipare qualche cosa del San Paolo?
R – Il San Paolo è la vita di San Paolo esattamente come è realmente avvenuta, con tutti i suoi episodi, i fatti, i processi, i linciaggi, le sue collette, eccetera eccetera, che avviene, anziché ai suoi
tempi,
ai
tempi
d’oggi.
E
quindi
c’è
tutta
una
serie
di
sostituzioni, per analogia. Invece che Roma c’è New York, invece che
la
capitale
dell’imperialismo
romano
c’è
la
capitale
dell’imperialismo americano. Al posto di Gerusalemme c’è Parigi, cioè un centro della vecchia cultura. Al posto di Atene c’è Roma, città cinica, qualunquistica, storico-epicurea. Al posto di Efeso, città dove nella vita di San Paolo ci sono stati molti periodi di superstizione popolare metterei Napoli, e così via. D – Troviamo che la direzione degli attori dai suoi primi film ad oggi sia molto cambiata.
R – No, io invece non trovo. Se lei confronta Accattone, il mio primo film e Medea, vedrà che la Callas è incastrata dentro il contesto del film, delle inquadrature, dei primi piani, eccetera eccetera, come Accattone-Franco Citti. L’ho usata esattamente come ho usato lui. D – Leaud e Clementi in Porcile?
R – Anche lì, se lei osserva il montaggio del personaggio di Accattone e quello del personaggio di Pierre Clementi non troverà una gran differenza. In moviola non la trova, la differenza c’è all’interno del personaggio. Accattone è un eroe, diciamo così, a tutto tondo, masaccesco; in chiaroscuro potevi vedere che era un pezzo
di
realtà,
molto
poetizzato.
Mentre
Clementi
è
un
personaggio ambiguo, doppio, con una sola faccia ma allegorico. È cannibale, ma il suo cannibalismo è soltanto in parte realistico,
perché
in
realtà
è
allegorico:
rappresenta
una
forma
di
contestazione globale. In sostanza, nei contenuti c’è una forte evoluzione,
quella
di
cui
parlavo
all’inizio,
ma
stilisticamente
l’uso tecnico dell’attore è rimasto molto simile. D – Le sue sceneggiature, le prepara in maniera molto dettagliata?
R
–
Le
periodo,
mie
sceneggiature
quello
che
erano
definisco
molto
dettagliate
nazional-popolare;
nel
primo
molto
meno
dopo. Perché prima credevo in un racconto totale, pieno, ad andamento epico e mitico e quindi strutturato in un certo modo, con un principio e una fine. Dopo invece, credendo meno in questo, una volta stabiliti gli schemi, addirittura geometrici, del film, non avevo bisogno di sceneggiarlo come si sceneggia un racconto.
Per
esempio
di
Porcile
non
esiste
praticamente
sceneggiatura. Teorema l’ho scritto sul canovaccio del libro, cioè sul trattamento di quaranta, cinquanta pagine, e anche Medea l’ho girato su un canovaccio di trenta, quaranta pagine. D – Tra i suoi film ce n’è uno che lei ama particolarmente?
R
–
Be’…
sì.
Se
si
tratta
di
amore
puro
e
semplice,
direi
Uccellacci, Uccellini. D – A proposito di Uccellacci, Uccellini, mi sembra chiaro il messaggio d’AMORE. Ora il fatto di essere psicologicamente, costituzionalmente, portato alla solitudine, come lei ha detto poco fa, sembrerebbe rendere più penosa la concretizzazione di questo “amore”. Cioè sembra difficile la conciliazione del suo amore per la solitudine e il passo concreto che si fa verso gli altri, amandoli…
R – Be’, l’amore per la solitudine e l’amore per gli altri, inteso in senso apostolico, evangelico, vanno visti sempre caso per caso, perché enunciati astrattamente sono appunto un’astrazione… in ogni caso sono i due poli attraverso cui si muove la mia vita. Sono i due estremi tra cui sono sbattuto. Quindi non è che l’uno escluda l’altro, uno rende difficile l’altro. Ma forse Uccellacci, Uccellini è il film dove è meno espressa questa solitudine, cioè dove io mi sono più oggettivato negli altri. Infatti i due sono i personaggi che autobiograficamente mi assomigliano di meno, non so come dire, sono i più oggettivi fra i miei personaggi. D – Avendo io personalmente amato Pierpaolo Pasolini dapprima come scrittore, e più tardi come regista, mi sono posta quasi una priorità di questo genere. Per lei essere regista è invece semplicemente continuare a essere poeta, cioè creatore?
R – Be’, sì. Quando faccio del cinema, mi illudo sempre di usare un sistema di segni diverso da quello verbale, attraverso il quale comunque questo,
essere
non
autore
avrei
e
poeta
neppure
la
egualmente. forza
di
Se
non
mettermi
credessi
dietro
la
macchina da presa, la considererei un oggetto noioso, fastidioso, e basta. D – Fare un film comporta un lungo faticoso dispendio di tempo, il Pasolini scrittore non si ribella?
R – No evidentemente. Evidentemente quando si fa una cosa, vuol dire che è necessitata. Vuol dire che se non perdessi tanto tempo a fare del cinema, lo perderei a fare niente, magari. È chiaro che si tratta di un vuoto che si riempie. D – Attualmente sta lavorando ad un libro?
R – Sì, ho continuato sempre a scrivere molto; ho scritto sei tragedie in versi che usciranno tra un po’. Poi ho scritto sempre poesie,
molti
saggi
sul
cinema,
un
altro
genere
ma
sempre
un’attività di scrittura, non cinematografica. D – Tornando al cinema, in Cosa sono le nuvole, la morte di Otello per un momento genera il sospetto che tutto cambi, ma in effetti sembra non cambiare nulla.
R – La gente che uccide Otello è un po’ come i contadini che arrivano alla fine di Porcile. Hanno la stessa presenza innocente, e l’innocenza non cambia le cose. In Porcile è l’innocenza quieta, mansueta e gentile del contadino. Qui invece c’è un momento di violenza
che
convivono
la
è
tipica
massima
del
mondo
gentilezza
puramente e
la
popolare,
massima
dove
dolcezza
e
i
momenti di ferocia e di rabbia improvvisa. Se lei va nelle borgate, vedrà
convivere
i
due
aspetti:
la
spietatezza
più
totale
e
la
dolcezza più disarmata. E così in una tribù di negri. E altrettanto in questo mondo contadino che io idealizzo – ma che per me, oggettivamente,
è
abbastanza
reale
–
convivono
mitezza
e
violenza. Ora questi spettatori hanno, nella loro mitezza, nella loro bontà, nella loro generosità, un momento di violenza che passa sulle cose e le distrugge fisicamente, ma non le può mutare radicalmente. Perché soltanto la coscienza, cioè la mancanza di innocenza trasforma la storia. D – Come il personaggio di Silvana Mangano, che se muore o non muore è la stessa cosa.
R – Sì, è innocente. Sono degli innocenti, non hanno coscienza di sé e vivono così come gli uccelli, direbbe il Vangelo, quindi su loro la storia passa senza toccarli, e loro passano sulla storia senza trasformarla. D – Nei suoi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta c’è una cura e una precisione quasi scientifica nel citare quartieri, rioni e strade di Roma; essendo venuto lei a Roma soltanto nel ’49, poco prima di scrivere questi libri, sembra quasi che si sia dato una pena fisica di girare, annotare…
R – L’ho fatto, ma non è una pena fisica per me camminare, vedere le cose, è una gioia fisica, un’estrema gioia. Soprattutto allora, ma anche adesso. Anzi, niente mi dà più piacere di andare in giro a vedere strade, posti, luoghi, personaggi. Quindi tutti i luoghi che ho citato li avevo visitati realmente, c’ero andato con i miei piedi, e anzi ce n’è una minima parte di quelli che ho visitato
camminando.
In
qualche
caso
mentre
scrivevo
mi
è
capitato di non ricordare il nome di una strada, allora ci sono tornato apposta per vederla. D – Potrebbe, se non le dispiace, dirci qualcosa sulle sei tragedie nominate prima?
R – Ci sarebbe da fare un discorso molto lungo… D – Come crede di essere arrivato alla tragedia?
R – Fa parte della mia ribellione a quella “cultura di massa” di cui parlavo prima. Per esempio in Porcile la parte tedesca del film è tratta quasi alla lettera da una di queste tragedie, che infatti si intitola nello stesso modo. Ecco, lei può avere un’idea di queste tragedie se ricorda un po’ il testo della parte tedesca di Porcile. Sono nate da questo mio desiderio di sfuggire alla coazione della cultura di massa, producendo cose che venissero consumate da delle “élites”. Questo apparentemente è un fatto aristocratico, invece in realtà è profondamente democratico, nel momento in cui queste “élites”- quelle che ho in mente io non sono certo élites di privilegiati – sono formate da gruppi di persone in carne e ossa che non saranno mai dei consumatori della “cultura di massa”. Perché il teatro non potrà mai essere, proprio per sua natura, un prodotto della “cultura di massa”, dal momento che ci deve essere l’attore in carne e ossa, e non in serie o in copia. E ci devono essere quel dato numero di persone col loro nome, cognome e profilo anagrafico. Là, presenti, enumerabili uno a uno. Il teatro
è un luogo dove la “cultura di massa” non può arrivare, perché per quanto enorme sia il suo numero di spettatori, non sarà mai definibile
come
donchisciottesco
“massa”. per
Quindi
sfuggire
alla
è
un
coazione
modo
idealistico,
della
“cultura
di
massa”. Questo principio, come idea materiale iniziale, diciamo così; successivamente intervengono mille altri elementi forse più profondi di questo. L’aver letto durante la mia malattia il Convito di Platone mi ha dato l’impulso per cominciare a scrivere, quasi senza rendermene conto, la prima di queste tragedie. Poi era tanto che non scrivevo più in versi, e scrivere delle tragedie è stato
un
modo
per
farlo.
Però
per
“interposte
persone”,
cioè
attraverso personaggi. Insomma c’è tutta una serie di altre ragioni concomitanti, ma direi che quella pubblica è questa. In realtà, faccio un teatro che è fuori sia dalla tradizione che dalla moda, perché ho ripreso esattamente lo schema della tragedia greca,
tutto
parlato
senza
un’ombra
di
azione;
le
azioni
avvengono tutte fuori dal palcoscenico, come nel teatro greco, del resto. Sul palcoscenico si parla solo delle azioni passate e delle azioni future, se ne discute e si hanno quindi soltanto azioni psicologiche
e
ideali
o
ideologiche,
le
azioni
materiali
non
avvengono mai lì. Quindi il mio è un teatro molto teatrale, in quanto il massimo della teatralità è il teatro greco; ma poco spettacolare, quindi un teatro per pochi. D – Oltre allo schema della tragedia greca, ha tenuto presente un tragico greco particolare, per cui nutre particolare simpatia?
R – No, la mia simpatia è per tutti i tragici greci, che considero la più bella lettura che si possa fare al mondo, insieme con Platone. Ma a parte questa simpatia per i tragici no, ho preso proprio lo schema
esterno
della
tragedia
greca,
con
intervalli
in
cui
interviene un coro; nelle mie tragedie non interviene sempre il coro, ma non ha importanza. Negli intervalli avvengono le azioni che non si vedono, poi se ne parla nell’episodio seguente. Questo è lo schema. D – Per Medea da che cosa le è stata suggerita la scelta della Callas?
R
–
Ma
succede,
sono
cose
che
accadono
così,
come
un’ispirazione improvvisa. Avevo pensato alla Callas quattro anni
fa, quando volevo fare Edipo, così, per puro caso, magari dopo aver visto una fotografia su un rotocalco. Avevo pensato di farle fare Giocasta ed ero rimasto a lungo attaccato a questa idea; poi allora non ho potuto raggiungerla e ho pensato alla Mangano, che probabilmente era più adatta al personaggio. Poi, quando mi si
è
presentata
l’occasione
di
averla,
attraverso
il
produttore
Rossellini, ho ripreso questa mia prima ispirazione. D – Per la Medea lei ha detto di essersi ispirato non a Euripide, ma a testi sacri…
R – Sì, i fatti non sono quelli narrati nella tragedia di Euripide; solo a un certo punto, nella seconda parte, ci sono quasi delle citazioni, ci sono dei brevi dialoghi. Mentre la prima consiste praticamente
in
un
grande
cerimonia
religiosa,
che
ho
tratto
appunto dai libri che citavo prima. D – La Medea di Euripide è essenzialmente la storia del suo amore tragico per Giasone…
R – La mia non è un’operazione realistica, come in Euripide. Non è la storia d’amore, ma la catastrofe che nasce da questo, come se da una donna del terzo mondo giungesse un colonialista.
Intervista a
MAURIZIO PONZI D – Partiamo da un elemento concreto, il titolo del film.
R – Il film si intitola Equinozio (1970 ndc), ma probabilmente dovrò modificarlo, perché la distribuzione non lo gradisce. D – Per Equinozio ha deciso di utilizzare il doppiaggio?
R – Ho deciso di doppiarlo, dato il basso costo del film ed una certa rapidità di riprese cui sono costretto per ragioni finanziarie. Mi
spiace
anche
perché,
precedentemente,
ho
girato
per
la
televisione, in presa diretta, Interno giorno; si tratta di un film che ho terminato da un mese e di cui sono molto soddisfatto, poiché vanta
un
sonoro
splendido
e
per
me
ha
rappresentato
un’
esperienza notevole. Tra le altre cose, ritengo che si tratti di un sonoro
particolarmente
completamente
in
un
interessante, carcere
e,
poiché
il
dunque,
film
si
svolge
comporta
una
situazione tra le più difficili per girare in presa diretta, dato che ero circondato da numerosi detenuti che occorreva gestire. Di conseguenza, non c’è mai stato un momento di assoluto silenzio, ma abbiamo goduto di una continua presenza umana, assente dal set, ma presente attraverso i suoni e trovo notevole tale aspetto del film. Tuttavia, una parte del film è girata in studio e, dunque, parte
del
suono
fuori
campo
è
tratto
dal
sonoro
che
avevo
registrato separatamente nel carcere e successivamente utilizzato quale commento di questa parte del film girata in studio; quindi esiste una certa artificiosità. D – Come è arrivato alla presa diretta?
R – Sono arrivato alla presa diretta, perché mi sono reso conto che il doppiaggio è nemico delle immagini, dato che l’atmosfera, il suono ed i rumori di un set non sono riproducibili e si perdono completamente, non potendoli ricreare in studio. Ritengo che tale necessità non sia certo estranea agli altri registi italiani. Credo che Bertolucci abbia girato Strategia del ragno (1970 ndc) in presa diretta.
Però
sta
girando
Il
conformista
doppiaggio e si torna al solito punto.
prevedendone
il
D – Crede che la soluzione sia di condurre una lotta contro il doppiaggio?
R – Per lottare contro il doppiaggio, occorrerebbe da un lato girare un maggior numero di film utilizzando il suono in diretta, magari estendendo alla televisione tale metodo; dall’altro ritengo che sia indispensabile avere l’appoggio degli attori e degli stessi doppiatori, i quali dovrebbero intuire che nel corso del tempo, ad una diminuita attività di doppiaggio, potrebbe seguire il ruolo di attori
veri
aprire
un
e
propri.
Occorrerebbe
numero
maggiore
convincere
di
sale
gli
che
esercenti
proiettino
ad
film
sottotitolati, o, quantomeno, tentare di superare il doppiaggio dei film italiani. Tuttavia, vorrei aggiungere che trovo, in tale giusta campagna che stiamo conducendo, una mitizzazione del suono in presa diretta, soprattutto da parte di certi registi, che io non approvo. In quanto regista del film, vorrei sentirmi libero di girare in presa diretta e, magari, modificare un suono in fase di missaggio, proprio per raggiungere un risultato più congeniale allo
sviluppo
narrativo
dell’opera.
Difatti,
paradossalmente
il
suono in diretta non risulta particolarmente verosimile, ma in generale appare falso e vira sul fantastico, poiché figura ampliato, ovvero
possiede
regista
deve
sonoro
in
delle
riservarsi diretta,
caratteristiche il
di
diritto,
tecniche
anche
elaborare
in
specifiche.
sposando
libertà
la
l’idea
causa di
Un del
suono
congeniale alla sua opera. D – La proposta del sottotitolo, quale soluzione al problema del doppiaggio, le è congeniale o pensa che esistano altre possibili soluzioni?
R – Non conosco altre soluzioni di carattere tecnico, dunque adotterei il sottotitolo, anche se magari risulta sempre un poco ostico.
Comunque,
doppiare
i
film
stranieri
rappresenta
una
pessima abitudine, si tratta di un malcostume veramente grave che va contro il cinema e, soprattutto, contro il cinema italiano, perché
non
solo
il
pubblico
in
Italia
non
conosce
il
sonoro
autentico dei film americani o francesi, ma soprattutto possiede un udito viziato. D – Tante grazie.
Conversazione con Jean-Marie Straub, con l’intervento di Danièle Huillet, tenuta a Roma il 12.2.1970, in lingua francese, italiana, tedesca.
JEAN-MARIE STRAUB S = Jean-Marie Straub DH = Danièle Huillet D
–
Tu
hai
detto:
Machorka-Muff
è
un
film
di
vampyr,
Nicht
Versöhnt
(Non
Riconciliati, ndr) un film mistico, Chronik der Anna Magdalena Bach (di seguito Bach, ndr) un film marxista, Il fidanzato, l’attrice, il ruffiano un film-film…. Che film è Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer (o Othon, ndr)?
S – Non so, non so ancora. Se rimaniamo in questo giochetto della classificazione, si potrebbe dire che è un film politico perché è proprio il contrario di un film di agitazione. D – La prima volta che ho visto Les yeux l’ho visto come un documentario.
S – Ogni film è un documentario. Godard quando girava A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, ndr) diceva: è un documentario su Belmondo e Jean Seberg. D – Mi è molto piaciuto in Les yeux l’impiego degli attori. Mi sembra che tu scelga l’inquadratura nella quale gli attori sbagliano e così rivelano se stessi. È per me un documentario su Albiane e Albin qui presenti.
S – Non credo che Albiane sbagli. Ciò che ella fa è il colmo dell’artificio al contrario, in positivo. Credo che l’importante sia di far saltare degli ostacoli agli attori. Ciò che è importante, sono gli ostacoli. Sono gli ostacoli che li rivelano. A me ciò che è piaciuto è proprio ciò che ella non arriva a dire, la difficoltà che incontra.
Sono
appunto
questi
gli
ostacoli
che
cerco
di
trasformare in ritmo. È molto più forte che dica: “il arrête… les… voeux…” che dire: “il arrête les voeux”. Ciò che sognano i produttori, come dice Renoir, è di fare film nei quali non ci siano difetti.
Il
contrario
sono
dei
film
nei
quali
non
ci
sono
che
difetti… nei quali i difetti, gli strappi, sono ciò che c’è di più importante. In Nicht Versöhnt c’è qualcosa di simile, che non è su di un attore. È quando la macchina parte davanti all’Abazia, e strappa perché si sono male ingranate le marce. Evidentemente ciò ha fatto sghignazzare tutti i critici tedeschi, perché si sono detti:
‘ahahah, non è stato neppure capace di girare di nuovo questa inquadratura e di riprendere una buona partenza’. Come nelle parodie dei film polizieschi americani. In realtà ciò non è vero: avevo tre inquadrature nelle quali la macchina partiva veramente come nei film americani, e invece si è tenuta quella, che era una quarta. Non solo a causa di questo, ma anche perché si sentiva un aereo
a
reazione
dell’esercito
tedesco
che
passava
sopra
la
chiesa… DH ….e una nuvola. S – E una nuvola, bon. I film di Tati sono un succedersi di strappi. DH – Proprio ciò che è più difficile ritrovare al cinema è ciò che si vede continuamente nella strada: dei gesti maldestri, dei gesti che si interrompono. S – La più bella inquadratura di Déjeuner sur l’Herbe (Colazione sull’erba, ndr) di Renoir è quando in cucina Paul Meurisse ritrova Nénette: lei esce, va a cercare del filo, e una volta uscita Renoir resta su Meurisse. È evidente che Meurisse (non era previsto nell’inquadratura) in quel momento guarda la morte, lo si sente molto bene. Sembra che abbia 40 anni di più della sua età. È il momento in cui prende la decisione di sposare la ragazza. Cioè di mandare
tutto
al
diavolo
e
di
rivoltarsi…
questo
si
sente.
Qualunque produttore avrebbe tagliato ciò. Renoir giustamente lo ha tenuto. DH – I produttori e parecchi montatori. S – Sì, il 95 per cento dei montatori, perché sono i furieri dei produttori. D – Tu moltiplichi gli ostacoli per rivelare…
S – Sì, è per questo che volevo degli Italiani, anche. Perché gente che ha ostacoli con la lingua che è obbligata a parlare, che è una lingua
difficile,
fa
sì
che
si
riscopra
la
lingua.
Essi
stessi
la
riscoprono, lo spettatore la riscopre; non solo la lingua francese, non solo Corneille, ma propriamente il parlato… il verbo, se si vuole. Se si vuole Othon è un documentario sull’afasia, in questo senso.
Ma se mi divertissi a continuare la mia piccola classificazione così, come boutade per forzare la gente a riconsiderare le cose, direi
che
è
proprio
perché
Nicht Versöhnt
aveva
un
soggetto
politico che ho affermato che era un film mistico, ed è vero che lo è. E lo è nel senso che è dantesco: è fatto su dei cerchi, ed è composto di duetti che si abbozzano, e che falliscono. Ma era una provocazione, perché appunto era un soggetto politico. Ma è un film vero, perché è meno marxista del Bach. Bon, se si vuole continuare, il film-film Der Bräutigam dopo il Bach lo è perché comincia come la vita, o come un brutto sogno, continua
nel
mostrare
la
teatro,
vita,
che
ma
in
in
realtà
altro
è
ancora
modo,
e
una
termina
maniera nel
di
cinema,
all’interno del quale c’è un teatro di un altro genere, che è il teatro liturgico: è il cinema che assume il teatro e la vita. È la dialettica del teatro, del cinema e della vita. È in questo senso che è un film-film. E Othon anche, per terminare la classificazione (così smettiamo di dare etichette), è un film politico proprio perché, è bene dirlo, credo che la gente non lo veda perché è moralmente cieca, in generale. D – Ma ogni film è politico comunque.
DH – Diciamo che il soggetto del film è la politica. D – Sì, come indica il titolo…
S – Non solo in questo senso, non solo perché comincia con un travelling
a
partire
dal
popolari,
e
termina
su
Campidoglio, una
caverna
passa nella
su
dei
quale
i
quartieri comunisti
nascondevano le armi. Questo è ‘della’ politica, per esempio. Ma consideriamo l’affermazione di Vinius “Ci perderanno presto se noi non li perdiamo. È una verità che si vede troppo manifesta”: nella
prima
parte
politicamente,
è
una
è
un
che
mostruosità tutt’uno,
morale.
per
me.
Moralmente
Se
la
gente
e
non
l’acchiappa al volo è perduta, e se prende la seconda affermazione alla
lettera,
ovvero
se
prende
per
buono
ciò
che
dice
il
personaggio, di nuovo è perduta. Poiché il personaggio non è affatto una caricatura – perché ciò sarebbe rendere le cose troppo facili allo spettatore, a meno che non lo sorprenda in flagrante delitto di cattiva fede – chi guarda lo prende sul serio perché si presenta
come
un
uomo
“charmant”
(nel
senso
del
generale
Massu:
un
uomo
charmant,
addirittura
sentimentale,
dal
momento che faceva provare la tortura su se stesso prima di produrla in Algeria. E in Italia i fascisti sono ancora più charmant che altrove). E come chiosa finale: “E su questo fondamento, signore, io passo al resto”. Se la gente non è stata scossa da tre versi che si distruggono l’un l’altro – e questa è la dialettica di Corneille – è perduta. O anche dalla frase di Albiane, allorché dice: “Benché noi dobbiamo tutto alle potenze supreme” – prima affermazione stessi”.
–
Con
“Signore, la
noi
dobbiamo
seconda
ella
qualche
distrugge
cosa
a
noi
completamente
l’affermazione precedente, perché se si deve tutto alle potenze supreme non si deve niente a se stessi, oppure bisogna fare un discorso
teologico.
palesemente
una
Ma
rimanendo
contraddizione.
In
sull’affermazione,
questo
senso
è
un
è
film
politico. D – La macchina da presa puntata su Albin nell’ultima inquadratura di Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer, è una soluzione tecnica di controbilanciamento alla prima inquadratura, o significa qualcosa di particolare politicamente?
S – Spero che il film non significhi niente, l’ultima significazione del film è quella che dice il titolo, perché in se stesso non ha nessuna significazione. Credo che dobbiamo fare dei film che non
hanno
alcuna
significazione
perché
se
no
si
fanno
delle
porcherie. Un film – diciamo un film che non ho visto – che è meglio perché altrimenti diventa più complicato – come Z per esempio,
sono
convinto
che
significhi
qualcosa
e
per
questa
ragione non può che essere una porcheria, perché conferma la gente nei suoi clichés. C’è bisogno che un film distrugga ogni minuto, ogni secondo quello che dice nel minuto precedente; perché soffochiamo nei clichés, perché è importante aiutare la gente
a
distruggerli.
In
questo
senso
spero
che
l’ultima
inquadratura non significhi niente. Questo per iniziare. L’altro “significato”, con delle virgolette, che potrebbe avere il film (e questo credo che ci sia, ma non come significato) è che si tratta di un film sull’ ‘assenza del popolo’. Il film è una serie di specchi: lo specchio di Tacito sulla storia che conosceva direttamente o indirettamente, lo specchio di Corneille su Tacito, lo specchio di me
su
Corneille,
lo
specchio
della
realtà
contemporanea
su
Corneille, e poi di me su tutto questo. Il film è sull’assenza del
popolo, credo che questo sia il soggetto del film, assenza del popolo in senso assoluto… Bertolucci era proprio terrorizzato perché si aspettava di vedere al posto delle macchine il popolo, invece non lo ha visto perché non c’è. DH – …Non c’è. S
–
Non
c’era,
non
c’è
ancora,
non
ci
sarà
ancora.
Bon.
Ritornando ad Albin direi poi di no, perché Albin fa parte di quel
mondo,
è
un
amico
di
Othon.
No,
credo
che
sia
una
proiezione tua su Leo perché è un personaggio simpatico, e poi siccome
alla
fine
rimane
solo,
fa
un
po’
pietà…
ma
proprio
perché è cosciente del vuoto che sta intorno a lui, perché è chiuso nel vuoto e quel vuoto non è per niente una speranza; la speranza è nella violenza possibile che si nasconde dietro le inquadrature, ma alla fine la violenza non c’è più, credo che sia soffocata dalla tristezza. DH – La prima inquadratura non è quella di Adriano Aprà, alias Othon e di Leo, ma quella prima dei titoli di testa. S – Il Bräutigam finisce sul futuro, Othon inizia su un futuro possibile ma finisce sul contrario, perché è un film sul passato, è una riflessione politica sulla storia, che non esiste. La storia non esiste, direbbe Marx, e a ragione. Quindi riflessione sulla storia di Tacito e di Corneille, sulla storia che esisteva nella testa di quella gente che si vede nel film. Non vedo come il personaggio di Leo potrebbe essere una speranza, perché lui è complice di tutto quello che succede e si bagna in quel vuoto come gli altri. Bon, Leo è Leo… e si vede. La stessa cosa
si
può
dire
per
Anthony
Pensabene,
ovvero
Vinius,
che
credo sia il più bel ruffiano che si sia mai visto sullo schermo, anche
se
non
salta
agli
occhi
subito;
lo
dico
perché
è
un’invenzione di Corneille e non mia, io ho soltanto provato a trovare un’incarnazione di quella ruffianeria. Siccome Anthony è un personaggio gentile, anche se è ciò che è, quello che succede con il ruffiano Vinius è lo stesso di quel che succede con il povero Albin… con Leo. Nella storia di Machorka-Muff, per interpretare il colonnello ho preso un personaggio “di sinistra” in Germania, e non un fascista. L’ho conosciuto che faceva un gran discorso contro il riarmo È
tedesco in una piazza pubblica di Monaco. È un borghese, senza dubbio, però è un uomo che fa una certa lotta; diciamo che è una specie
di
Kerenskij
tedesco.
Perché
questa
scelta?
Non
per
illustrare una teoria, ma per quello che Brecht chiamava l’uso del “controtipo”: per incarnare un fascista Brecht non prendeva un fascista; prima ragione perché con un fascista non si può lavorare, seconda
ragione
perché
anche
se
si
potesse,
per
alcune
ore,
quando si lavora non ci si limita al lavoro proprio, e terza e fondamentale,
perché
mancherebbe
di
dialettica,
sarebbe
un
fascista fiacco; meglio far recitare un fascista da un antifascista. D
–
Renoir
a
un
certo
punto
della
sua
vita
decise
di
“lavorare
in
un
senso
assolutamente nazionale” per fare dell’internazionalismo… per te fare dei film per un milieu limitè di lingua eccetera si pone dei fini…?
S – Non capisco la domanda. D – Fare dei film per un milieu limitè è fine a se stesso o è mezzo per arrivare a qualcos’altro?
S – Non capisco nemmeno la cosa di Renoir: che cosa ha fatto Renoir? D – A un certo punto capì quanto fosse meglio lavorare in un senso assolutamente nazionale per arrivare all’internazionalismo…
S
–
Ma
è
un’evidenza,
i
film
che
hanno
un
successo
internazionale vero sono film profondamente nazionali. Perché? Perché
nei
paesi
dove
vengono
proiettati
diventano
un
documento sul paese dove sono nati… Il cinema non può che essere una verità particolare. E soltanto partendo dal particolare si può arrivare a dire il generale. Quelli che fanno il contrario non fanno che una zuppa di idee generali che non hanno radici nella realtà. In nessuna realtà. Un film è la cosa più concreta che esista. Brecht diceva che la verità è sempre concreta, ma per il cinema lo è ancora di più, e concreta significa particolare, e dunque in questo caso nazionale. Ma già l’aspetto nazionale del film è un aspetto più generale, un film è ancora più particolare. D – Sei nella stessa posizione di Renoir, vuoi quindi parlare anche a gente di altri paesi, ma attraverso un linguaggio nazionale.
S – Ma il linguaggio non c’è, il linguaggio non esiste, non credo al linguaggio; sì, il linguaggio come lingua parlata… si può fare dei
film
muti;
questi
sono
più
accessibili,
più
facilmente,
diciamo, esportabili. DH – Ma dipende, perché anche un film muto tedesco, per esempio,
del
periodo
prima
degli
anni
Trenta,
visto
da
un
cinese… S
–
Non
significa
niente,
può
interessare
il
cinese
se
è
un
documento sul pianeta tedesco. Nessun documento può essere internazionale.
Se
c’è
un
documento
che
fin
dall’inizio
si
pretende internazionale non è più un documento, non è niente. D – Che cosa significa essere internazionale?
S – Significa che può essere venduto in tutti i paesi possibili. D – D’accordo nel senso di prodotto di esportazione, ma che cosa è una cosa internazionale?
S – I prodotti sono internazionali, ma le opere no; le opere diventano internazionali, ma non lo sono, nascono particolari… DH – Marx era profondamente tedesco. Quando si legge Marx si pensa che le sue idee fossero possibili soltanto perché collocate nel paese di riferimento… poi sono diventate qualcosa che ha permesso di mettere a fuoco la situazione degli altri paesi; ma questa è un’altra cosa. S
–
È
soltanto
appunto
perché
scavava
profondamente
nella
realtà tedesca che ha avuto un senso, perché se dall’inizio avesse scritto in generale sarebbe stato generico, e non avrebbe permesso di mettere a fuoco niente. D – Allora il tuo milieu limité è la verità concreta in senso brechtiano.
S – Sì, anche. DH – Poi è molto semplice, se si fa un film dove si parla una lingua che non è l’Esperanto, questa lingua fa il film accessibile a quelli che parlano la stessa lingua. S – L’Esperanto è un sogno borghese; che intendi per linguaggio? D – Non la lingua, anche un film muto può avere un suo linguaggio.
S – Bon. Cerco di fare dei film che non hanno nessun linguaggio, quando sento che c’è un linguaggio cinematografico cerco di distruggerlo ancor prima che nasca. Provo a eliminare tutti gli
ostacoli tra lo spettatore e quello che faccio vedere e la realtà, o tra me e la realtà. Il linguaggio in quel modo per me sarebbe un ostacolo; allora in questo senso faccio dei film internazionali. Perché se uno vede tra cinquant’anni un film di oggi che si è dichiarato profondamente filmico, non potrebbe capire niente, perché per lui sarebbe un cattivo sogno di retorica; non vedrebbe più niente altro che la retorica o il linguaggio o “l’arte” o l’aspetto “filmico”, ed è quello che cerco di evitare. Faccio delle cose senza arte e senza linguaggio, e in quel senso sono cose internazionali. D – Il linguaggio è una forma di colonizzazione, no?
S
–
Ma
chi
lo
inventa
il
linguaggio?
La
classe
al
potere,
la
borghesia. DH – Non esiste un linguaggio al cinema, esiste una realtà e il film cerca… S
–
Gli
Italiani
hanno
sempre
creduto
che
il
cinema
sia
o
potrebbe essere un linguaggio, ma non c’è un linguaggio, e non è un linguaggio. C’è lo stile, nel senso che lo stile è l’uomo stesso che fa il film, e niente altro. Bisogna cercare di eliminare tutto – come diceva Buffon: “Le style c’est l’homme même” – tra lo stile che è l’uomo stesso che fa il film e la realtà che si riprende, provando a sorprenderla o a scoprirla. Se c’è ancora il linguaggio fra questa realtà e lo stile-uomo, crea un vetro che può diventare un pezzo di cemento armato, crea degli occhiali deformanti, o comunque
coloranti.
Con
un
film
bisogna
stupire
la
gente,
stupirla nel senso che veda una cosa senza quegli occhiali. D – Ma gli occhiali sono pur sempre quelli dell’interpretazione personale…
DH – No, se uno è frappé de stupeur (colpito dallo stupore, ndr). Anche se dopo aver visto il film fa una ricostruzione, perché tra quello che sente e tra quello che poi cerca di esprimere c’è sempre un abisso… S – Nel momento in cui lo spettatore è colpito, stupito, non c’è, non può, il vetro salta in pezzettini. Anche se dopo si mette a ricostruire i suoi pezzettini, il suo vetro, i suoi occhiali. Dopo questo è normale, perché si difende. Ma bisogna prendere la gente in un momento e colpire in modo che non si possa più difendere, perché vede una cosa strana e almeno per un’ora e
mezza o per venti minuti gli occhiali gli cascano a terra; e se se li riprenderà sarà per uscire e per vedere in strada, che è bene, perché se no sarebbe troppo. Il cinema è già sufficientemente pericoloso così, se in più si continuasse a ossessionare la gente a casa loro… È bene ossessionarla durante un’ora e mezza, e poi, se vuole rimettere gli occhiali li rimetta pure, o se vuole farne a meno in seguito, o per un certo tempo, questa è una decisione libera. Ma nel momento in cui il film viene proiettato non si è più liberi, se il film esiste veramente… D – Hai detto che il cinema non è un linguaggio, ma fare un linguaggio…
S
–
Sì,
sì,
è
un
linguaggio
sfortunatamente;
ma
io
provo
a
distruggerlo, provo a fare dei film che non tengono conto di quel linguaggio. D – Distruggere quel linguaggio vuol dire consegnare alla gente una chiave per rileggere quel film secondo la propria interpretazione…
S
–
Usare
quel
linguaggio
sarebbe
al
contrario
mettere
in
condizione di leggere il film secondo una retorica preesistente. DH – Ma non è complicato! È lo stesso lavoro che fanno i poeti. Prendono
una
lingua
che
in
molti
casi
è
diventata
rigida,
è
diventata un sistema, un’abitudine, dunque una lingua morta, e d’un colpo cercano di fare delle cose che non erano state fatte o che si era dimenticato di fare da molto tempo. S – Ma proprio con le parole più semplici, le parole più usate, e prendendone il meno possibile. Non è con parole poetiche che si fa la poesia. DH – Se nel momento in cui Verlaine scriveva le sue poesie la gente in campagna avesse potuto leggerle, per loro forse non sarebbe
stato
mostruoso,
a
differenza
dei
borghesi
per
cui
Verlaine era uno scandalo. E qui è la stessa cosa per i film. S – Perché? Perché Verlaine distruggeva una certa retorica poetica che però la gente di campagna ignorava. Allora avrebbero letto quelle poesie come avrebbero letto altro. Forse considerandolo un po’
strano,
ma
una
stranezza
positiva,
non
un
ostacolo
alla
comprensione. D – Ora non è importante vedere se lo spettatore è libero o no, perché in effetti è libero. Ma se io vedo… questa sedia, per esempio, il problema non è che io sia libero
o no, ma che vedo questa sedia. Cioè il problema non è tanto fra la mia libertà e me, ma che sono posto di fronte a questa sedia.
DH – Infatti lo spettatore è libero di andarsene. S – Però non è libero di non vedere la sedia, se il film esiste veramente.
È
importante;
questo
cioè
se
che
uno
rende
prova
il
a
cinema
fare
film
tanto dove
terribile
non
c’è
e
più
linguaggio, non ci sono più ostacoli, non c’è più vetro, occhiali tra lui e ciò che fa vedere, lo spettatore è costretto a vedere ciò che colui che ha fatto il film fa vedere, ovvero la sedia. D – In quel senso il cinema diventa violenza per l’intelligenza…
S – Diciamo fascino. D – Parola pericolosa.
DH – Ma anche la violenza… S – Bon, violenza, ma vediamo se possiamo andare avanti sul punto di cui parlavamo a proposito di Renoir… D – Renoir è stato preso a introduzione del discorso…
S – Non c’è bisogno di difendersi! D – Non c’è difesa, ma tentativo di spiegazione. Ritornando alla domanda vera e propria… per te fare un lavoro nazionale è fine a se stesso, cioè è un fatto concreto fine a se stesso?
S – Non si può dire un lavoro, diciamo un oggetto-lavoro; non so, no, in che senso fine a se stesso, no… D – Sembra che il fine sia questa verità in senso brechtiano…
S
–
Quando
si
fa
un
film
non
si
sogna
un
pubblico
internazionale… Fare un lavoro internazionale mi sembra un po’ pretenzioso! Ma è chiaro che i film americani, quando il cinema americano
esisteva
ancora,
rendevano
conto
della
realtà
americana; i film tedeschi prima del ’33 lo stesso. In quel senso uno
che
fa
un
film
fa
un
lavoro
internazionale,
ma
basta.
Diciamo che aiuta la gente di altri paesi a scoprire e a capire un po’
quello
particolare
che
succede
posto,
quella
nel
paese
particolare
oggetto verità,
di
del quel
film.
Quel
particolare
paese, con la specificità della gente, e del luogo dove è stato scritto il film. È chiaro? D – Come vedi la situazione in merito a censura, produzione e distribuzione nel
mondo cinematografico attuale?
S – È una domanda gigantesca! Come vedo tutto questo? Io vedo un niente. I film non sono distribuiti. Per quel che riguarda la censura, che si può dire? Ogni censura è un’assurdità, che altro posso dire? Quanto al problema della distribuzione, è il problema più importante per i film, oggi. Affinché i film arrivino alla gente per
la
quale
bisognerebbe
sono
stati
cambiare
sognati, la
o
società
per
la
tutta
quale intera.
li
si
sogna,
Giocare
al
missionario senza cambiare la società, e percorrere il paese con un proiettore e i propri film e quelli degli altri non sarebbe ancora una soluzione, cioè non sarebbe che una soluzione provvisoria. Perché
ciò
vorrebbe
dire
andare
“alla
gente”
come
si
va
“al
popolo”, e questa non è ancora una soluzione. Nella società attuale la gente dovrebbe poter scegliere tra i film che le si impongono con ogni violenza, e altri… Ma appunto questo non deve essere! perché allora si avrebbero delle sorprese. E allora l’industria andrebbe più svelta al fallimento. Ma essa è già sul punto di riconvertirsi, come si dice. Con le mini-cassette, eccetera,
mentre
già
ora
ha
colonizzato
il
cosiddetto
cinema
underground americano, e anche in Germania è sul punto di farlo. Voglio dire che tutto ciò che è possibile colonizzare sarà colonizzato, presto o tardi. Ma appunto ciò abbisogna a quei mascalzoni, e non si ha il diritto di essere altrimenti: loro non lo vogliono,
perché
vogliono
continuare
a
decidere
per
sempre.
Perciò non capisco per niente la domanda. Come io vedo ciò? Io non vedo niente. Io vedo un niente. D – Qui in Italia lavori per la televisione, o hai in ogni caso già lavorato per la televisione. Lo fai perché la ritieni un mezzo appropriato per arrivare alla gente, comunque?
S – Io non ho lavorato per la televisione. Due dei miei film sono stati coprodotti dalla televisione: il Bach e questo Corneille. Anzi neanche coprodotti, ma comprati prima di girarli. Per un quarto del prezzo, circa. È chiaro che il Bach in Germania grazie alla televisione ha raggiunto non so quante centinaia di migliaia di persone in più che in qualunque ghetto di cinema d’arte o d’essai. Ma la televisione è anche l’invenzione più totalitaria che si sia mai fatta, particolarmente la televisione italiana. Anche se un certo film una volta è mostrato dalla televisione italiana, anche di
straforo, bon, questo non cambia le cose! Loro non parlano che di comunicazione quindi
la
di
massa.
televisione
Innanzitutto
sarebbe
la
massa
interessante
non
esiste,
solamente
se
e si
accettasse di diversificare il pubblico, in luogo di sognare un pubblico unico. La massa è un’invenzione fascista, che serve da alibi
a
tutto
ciò
che
vi
si
fa,
e
che
avvilisce
e
opprime
più
profondamente proprio la cosiddetta “massa”. D
–
Dunque
se
vivi
qui
in
Italia
non
è
perché
qui
hai
migliori
condizioni
di
produzione…
S – No, per niente, queste sono anche peggio che altrove. Perché qui l’industria trionfa ancora, ora che dappertutto nel mondo essa crepa lentamente. Appunto perché gli Americani cercano di investire qui e di mantenere ancora in vita o di rianimare ciò che era già un cadavere puzzolente. E anche perché la televisione italiana è un’invenzione totalitaria. Ma in questo modo possono mostrare
all’esterno
la
faccia
della
liberalità.
No,
io
vivo
qui
perché avevo in progetto un film, questo Corneille, e anche un altro, il Mosè e Aronne da Schönberg, per il quale ho bisogno di un paesaggio italiano. Verso il sud. Ma è chiaro che anche qui presto o tardi… Ho già due progetti più piccoli in italiano che sono per la gente di qua. Othon non è un film per gli Italiani. Io non ho ancora affrontato del tutto il sistema, a parte una piccola guerriglia con quelli della televisione, che esitano ancora a mostrare
i
eccetera…
miei ma
film, io
o
non
perché avevo
vogliono
alcuna
forzarmi
ragione
di
a
doppiare
affrontare
il
sistema qui, perché i film che ho fatto erano dei film in tedesco, che si indirizzano alla gente in Germania, e Othon è un film in francese, che si indirizza alla gente in Francia. Ciò che bisogna fare adesso è far uscire il film il più presto possibile in Francia, e per la maggior parte possibile della gente. Se mai sarà mostrato alla televisione italiana dopo che lo hanno anche comprato, e a condizione che essi finiscano per accettare la versione con i sottotitoli – se no bloccherò tutto, se posso – allora il
film
sarà
mostrato
come
una
rarità
artistica
qualunque,
esattamente come Nicht Versöhnt, che si indirizzava alla gente in Germania, pensato e fatto “senza arte”, nudo. Io credo che per il momento la migliore cosa che si possa fare è appunto fare dei film che non si possano doppiare, o che siano
per quanto possibile difficili da doppiare. E per i quali bisogna anche
battersi
indirizzano
affinché
a
paesi
essi
non
specifici,
siano
che
doppiati;
siano
loro
film
dedicati.
che
si
Perché
l’industria sogna dei prodotti internazionali, e perché il meglio che si possa fare è il contrario. D – Ti indirizzi dunque, per così dire, non a dei gruppi sociali, ma a dei gruppi nazionali.
S – Io non direi questo, dato che i gruppi sociali non sono nemmeno internazionali. Il proletariato è internazionale, bon. Ma il proletariato non esiste in sé, esistono i proletari, ed è ciò che voglio dire quando dico nazionale. È chiaro che un film come Nicht Versöhnt, per la gente della Ruhr – dove l’ho mostrato perché avevo una possibilità di farlo senza “andare dal popolo” – non creava difficoltà. Ed è chiaro anche che Othon urterà con una grande resistenza dapprima in Francia, là dove potrà uscire, cioè
nei
cosiddetti
cinema d’art
e
d’essai;
e
per
far
esplodere
questo ghetto, per saltare questo ostacolo – perché Othon non si indirizza per niente a questa gente che lo vedrà per prima – c’è bisogno di tempo. E poi, l’ho già detto, perché possa raggiungere la gente per la quale l’ho fatto, bisognerà daccapo cambiare tutto da cima a fondo, far saltare tutto e cambiare tutto. Così, per tutto il tempo che non si farà ciò, bisogna cercare di far passare il film di contrabbando… DH – Noi abbiamo girato in 16 mm, è una specie di sogno… perché
in
16
mm
è
più
facile
mostrare
dei
film
lì
dove
c’è
appunto gente diversa dagli intellettuali, dai borghesi, che vanno nel
ghetto
dei
cinema
d’arte.
Per
questo
sogno
noi
abbiamo
girato in 16 mm… S – E non solamente come dichiarazione di guerra a chi vorrebbe girare
solamente
internazionali.
delle
superproduzioni
O per fare il
e
dei
superscope
contrario dell’industria del
paese
dove essa trionfa, ma anche perché credo che per la gente che in Francia
non
ha
mai
sentito
parlare
di
Corneille,
che
non
appartiene ai privilegiati che hanno avuto la fortuna di leggerlo, per quella gente per la quale l’ho fatto, io credo che non farebbe difficoltà, o in ogni caso molto meno che per gli intellettuali, che cominceranno
col
rivoltarsi.
Il
dominio
della
lingua
è
il
più
sensibile
di
tutti,
ed
essi
reagiranno
come
gli
intellettuali
in
Germania a Nicht Versöhnt; forse addirittura più aggressivamente, perché i Francesi per quel che riguarda la lingua sono ancora più vanitosi… D – In questo momento sta lavorando a Mosè e Aronne?
S – Sì, il découpage è finito e cerchiamo i soldi. È stato spedito al Kuratorium
Giovane
sovvenzione… costruire
Cinema
Dapprima
tutto
il
Tedesco
bisogna
finanziamento;
per
una
procurarsi e
i
domanda diritti,
parallelamente,
e
di poi
dobbiamo
garantirci e difenderci contro quelli che ci danno i soldi. È il lavoro più importante, quando si cerca di finanziare un film e si costruisce una produzione, al fine di essere sicuri che nessuno, in un momento qualunque – nemmeno più tardi, quando il film è terminato
–
avrà
la
minima
tentazione
di
dire
qualcosa,
o
soltanto di dare un consiglio… Se tutto andasse bene, si potrebbe girare il film l’anno prossimo. È un vecchio progetto: l’ho avuto a Berlino alla fine del ’59. D – Di che tratta?
S – Non si dovrebbe parlare di film che non esistono ancora. Cerco di non avere intenzioni quando giro un film. Appena noto un’intenzione apparire dietro un albero qualunque, la distruggo. Comunque diciamo, per amicizia, che sarà un film sul popolo. Il contrario
di
Othon,
che
era
un
film
sull’assenza
del
popolo.
Questo sarà un film sul popolo e sulla sua presenza. Non posso dire di più. Ciò che mi interessa qui è che Schönberg, come ho già
detto,
ha
creato
un’opera
che
ha
pensato
del
tutto
antimarxista, credo, ma che, dal momento che era assolutamente onesto, non è per niente a-marxista. E ciò che mi interessa, è di fare il mio film nella stessa maniera e di vedere ciò che ne uscirà. Forse ne uscirà un film che proprio… Be’, lo vedrete, ciò che sarà.
Questo
mi
attira
appunto,
fare
un
film
partendo
da
un’opera apertamente anti-marxista. D – Il carattere nazionale di un film (dal punto di vista della lingua) non distrugge in nessun modo la lotta sociale?
S – Assolutamente no. Non si deve aver paura di affermare che si fanno film che si vogliono nazionali. È tutto. È un’espressione un po’ pericolosa. Fa reagire violentemente un tedesco, perché essi È
hanno avuto la loro crisi nazionale che è terminata come si sa. È la più violenta che si sia prodotta in Europa. Si comprende che non si fidino tanto di questa parola. È normale ed è bene; ma ciò detto,
se
linguistico,
si è
intende un
film
“nazionale” per
i
nel
Francesi,
senso
del
significa
complesso
anche
per
i
Canadesi o gli Svizzeri, della Svizzera romana, o per i Belgi. DH – Sì, ciò non toglie il fatto che, tra quelli che parlano la stessa lingua, il film possa essere accessibile a gente che non è intellettuale, o addirittura del genere che si vede nei cinema d’art et d’essai. Credo che qui Rocha abbia ragione: in un certo senso Othon, benché in Brasile non si parli il francese, è più facile per i contadini brasiliani che per tanti intellettuali parigini. S – Sì, in Brasile un giorno hanno visto il Bach quattro volte; c’erano ogni volta duemila persone in sala. E in un film senza sottotitoli; era una copia che non so quale Goethe Institut della Germania gli aveva inviato, in versione originale. La gente è restata lì; ho chiesto a Rocha se qualcuno era uscito, e lui mi ha detto di no, che non uno è uscito. Ora in Germania, quando si mostra il Bach, tocca tutti più direttamente perché capiscono ciò che accade, e che le tante informazioni contenute – perché è anche un film di informazioni – sono date per il commento, la lingua, eccetera. Ma benché siano più occupati, o che possano esserlo maggiormente, molti escono. Lì in Brasile sono rimasti. DH – Molti escono… dipende dove! Per esempio all’Università di Francoforte tre anni fa per Nich Versöhnt la metà della sala si svuotava, adesso non escono più. Ma ora escono per il Bach. S – Lo stesso pubblico! DH – Non lo stesso pubblico, in tre anni gli studenti non sono più del tutto gli stessi. Ma infine, è comunque la stessa classe. S – È questo che è interessante con i film. I film di produzione commerciale sono gli stessi per ogni individuo; i film che noi e altri cerchiamo di fare, sono differenti per ogni spettatore. È questa la differenza, e in più ci si rende conto che quei film non trovano un’eco che quando il pubblico cambia, nel corso di due o tre anni. Questo lo abbiamo sperimentato noi proprio con Nich Versöhnt. Con questo film siamo stati nello stesso cineclub di
Francoforte tre anni fa (1966, ndr), lì un terzo della sala è uscito, e tra quelli che sono restati alcuni mi hanno detto: “Che cosa dicono lì?”. Veramente, credevano di non capire “acusticamente” – come dicevano – cosa dicessero gli attori. Quando Joseph per esempio dice: “Es lebe das dynamit” (evviva la dinamite, ndr), non capivano. Successivamente siamo ritornati per vedere il Bach, e poi hanno proiettato di nuovo Nich Versöhnt, e a quella frase la sala ha applaudito. Era quasi imbarazzante, sembrava quasi di essere al Cabaret, tanta era la reattività tra gli spettatori e il film. Perché? Perché il clima è cambiato in Germania, politicamente qualcosa si è mosso, dunque Nich Versöhnt ha avuto un’eco. E nel 1965-66 era ancora una specie di meteora. Al contrario per il Bach è accaduto ciò che era accaduto nel ’66 per Nich Versöhnt, e sono sicuro che se si ritorna mettiamo fra due anni a proiettare il Bach nello stesso cineclub, saranno attenti e
interessati,
e
nessuno
uscirà.
Mentre
uscirebbero
tutti
per
Othon, per avere un punto di riferimento simile. Anche se Othon fosse
un
tedesco,
film
in
tedesco,
uscirebbero
anche
tutti,
se
perché
Corneille le
cose
fosse
un
autore
hanno
bisogno
muove
molto
di
tempo. Ed è tutto. DH
–
Ciò
vuol
dire
che
il
pubblico
si
più
velocemente che i produttori. S – Certo! Ai produttori servono vent’anni per muoversi, ci vuole che
trenta
dei
loro
simili
vadano
in
fallimento
prima
che
capiscano. La gente si muove nello spazio di due anni. D – Aver fatto un primo film a colori significa anche aver voluto accostarsi in maniera nuova alla realtà?
S – Sì, sì… È molto più facile fare un film in bianco e nero, perché si arriva più direttamente a una certa astrazione. Quello che si cerca facendo un film è di partire dal concreto per arrivare a una certa astrazione, e con il colore è più difficile perché si è più, diciamo – naturalisti… costringe a scavare, ad approfondire. Diciamo che il bianco e nero è un po’ troppo facile, il colore esige che si lavori un po’ più su se stessi, per non ricadere nel pittoresco. Per lo spettatore invece è più facile il colore, ma è più difficile per chi gira… D – Avresti potuto fare il maestro di grammatica, il musicista, e poi hai capito che
era il cinema ciò che maggiormente ti interessava; come sei arrivato a questa certezza, e alla decisione?
S – Non è una decisione o una certezza, non so, forse un giorno comincerò a insegnare la grammatica ai bambini se sceglierò di non continuare a fare film. DH – Poi non era l’idea di fare del cinema, ma quella di fare un film preciso. S – Avevo un’ossessione, e di ciò ho dovuto liberarmi: era di girare quel film che finora abbiamo chiamato Bach, cioè Chronik der
Anna
Magdalena
Bach.
Non
ho
mai
pensato
di
fare
del
cinema; ho voluto scrivere sul cinema, all’inizio, un po’ così, e l’ho fatto, anche se molto poco; poi un giorno mi è cascato sulla testa quel progetto, e ci sono caduto dentro… Ma non ho potuto farlo subito, e nel frattempo sono arrivati altri due progetti. Il secondo
era
Non
riconciliati,
ma
neanche
questo
ho
potuto
girare, mentre il terzo è quello che ho potuto girare per primo, perché
era
quello
che
costava
meno.
Non
è
stata
mai
una
decisione. D – In sostanza ci sono state delle cause contingenti, ma ad interessarti era il progetto di Bach, non il cinema in se stesso.
S – Io non credo al cinema, il cinema non mi interessa… Ovvero sì, mi interessa molto… ma in relazione al soggetto. Ci sono due categorie di persone: quelli che hanno sempre voluto fare del cinema – ed io non sono fra questi perché non ho mai voluto e provo a non fare mai del cinema – benché fra loro ci sia anche chi fa cose molto belle e interessanti; e poi ci sono altri che vogliono
soltanto
girare
un
film
particolare,
e
poi
un
altro
particolare progetto… io, se non c’è un soggetto che mi interessa fare mi dico che preferisco abbandonare e andare a insegnare la grammatica ai bambini. Il cinema non è un fine in se stesso. D – Per te fare un film è lavorare a una cosa che ti interessa e nello stesso tempo rivolgerti ad un gruppo di persone da informare, o è lavorare soprattutto per dare armi a queste persone?
S – Ma tutte e due. “Wissen ist Macht”. D – Sapere è potere.
DH – Sapere è potenza.
S – Ma potenza è “puissance”, non è “pouvoir”. DH – Sapere è potere. D – In francese come tradurresti?
S – Non so. Lo so in tedesco. D – “Savoir c’est pouvoir agir”. Sapere è poter agire.
S – No, è molto più forte di questo. È la possibilità di prendere il potere, è avere coscienza della possibilità di prendere il potere. D – Allora è proprio “Sapere è potere”, è “poter fare”.
S – È meglio in tedesco: “Wissen ist Macht”. D – Che cosa significa per te preferire la presa diretta?
S – Avere delle sorprese. Avere delle sorprese e scoprire una realtà. Trovare delle combinazioni che sono molto più ricche di quelle che si potrebbero trovare con delle piccole intenzioni. Darsi la possibilità di arrivare a fabbricare un oggetto molto più aleatorio di quello che si potrebbe fare senza la presa diretta. Per esempio – parliamo dei film che ho fatto perché siamo qua per questo e poi perché
li
conosco.
In
Non
riconciliati
c’è
il
momento
dove
Nettingler dice a Schrella – che gli ha chiesto: “Che ne è stato di Trischler?”, e lui non sa che rispondere – dice: “… il vecchio Trischler, Vacano stesso lo ha interrogato, ma non ne ha tirato fuori nulla, assolutamente nulla, nemmeno dalla moglie…”. E al momento dove dice: “…l’ha interrogato”, succede qualcosa fuori dal ristorante, sulla strada: passa un altoparlante ambulante, e subito lo si associa alla polizia… Quell’idea, fatta senza presa diretta, inventata dopo, sarebbe stata molto artificiale; qui rimane una cosa aperta, ricca di un certo peso che non avrebbe mai avuto altrimenti. Altro esempio simile, in Othon: c’è il momento dove Galba dice: “Roma non può soffrire, dopo questa abitudine, né piena libertà, né piena servitù. Vuole dunque un padrone…”. In quel momento si sente rombare una motocicletta, ed ecco che tutto ciò prende un senso. Ammettiamo che uno doppiando il film
girato
muto
avesse
avuto
l’idea
di
mettere
la
stessa
motocicletta, io sostengo che quella motocicletta avrebbe preso non un senso, ma una significazione. E siccome Othon è in presa diretta, questa motocicletta rimane un senso, qualcosa di più
ricco di un significato. Così l’aereo in Non riconciliati, davanti all’Abbazia… ma ce ne sono mille di queste cose, quando si gira in presa diretta. E poi, l’unico dovere per uno che fa film, è di non falsificare la realtà e aprire occhi e orecchie alla gente con quel che c’è, con la realtà. E ancora: creare degli ostacoli per gli attori. E per gli attori la presa diretta è un ostacolo in più – i rumori, il vento – e quell’ostacolo aiuta gli attori a diventare più concreti, più veri, e a saltare nuovi ostacoli. E poi non si inganna la gente che vede film, perché se c’è uno che parla nel vento, nei rumori, ed ha pena a parlare, si sente, si vede… Far sembrare il contrario è una menzogna. Se un film non serve ad aprire gli occhi e le orecchie della gente, a che serve? È meglio rinunciare… l’unica cosa che si può
fare
cambiare
è
questa.
È
mestiere,
molto, o
e
andare
se a
si
fa
il
contrario
pescare
o
è
meglio
insegnare
la
grammatica… D – Tu e Rivette avete dichiarato già qualcosa a proposito del film storico in presa diretta.
S – Siamo stati d’accordo senza fare gran discorsi che un film si gira sempre al presente. È tutto. Rivette diceva che Intolerance, il film di Griffin, è un documento non su Babilonia, ma molto di più sull’epoca in cui è stato girato. Anche muto… ancor di più… la
tentazione
di
fare
un
film
“storico”
finisce
sempre
in
una
catastrofe, perché un film storico non esiste, non si può fare, si può fare una riflessione sul passato… Il cinema, come diceva Cocteau, prende “la mort au travail”, la morte
al
lavoro,
e
questo
significa
che
prende
il
tempo
che
sfugge, è l’unica arte che ne è capace. Allora un film storico mi pare un’illusione, e quell’illusione o quella pretesa può averla uno che gira muto, ma se gira con il suono in presa diretta deve disciplinarsi … Poi girando con il suono in presa diretta non si possono fare certi giochetti artistici che si fanno quando si gira senza il suono. Inoltre concentra gli attori, e costringe la gente intorno a non disturbare quello che succede davanti alla macchina da presa. E siccome le nostre orecchie sono poco esercitate, dal microfono si apprende a sentire obiettivamente, cosa che costringe anche lo spettatore
a
sentire
obiettivamente,
e
a
non
fare
del
cinema
psicologico. Uno che gira in muto e poi fa un doppiaggio e prende dei rumori dopo, corre sempre il rischio di fare un film storico o un film psicologico o un niente… Bon, si possono fare dei film anche così, ma è molto più difficile… Gli Americani hanno
sempre
girato
prendendo
il
suono,
come
se
avessero
l’intenzione di tenere tutto. D – Quando giri sei molto preciso. Sai giustamente quale quadro vuoi, dove mettere gli attori, ciò che debbono dire, ma lasci comunque un posto al caso.
S – Sì, tutto il resto è casuale. D – Per esempio, quando un cane è entrato in campo hai interrotto, ma quando ci sono
stati
altri
incidenti,
per
esempio
il
ragazzino
che
grida
“piove!”
nell’inquadratura prima dei titoli di testa, lo hai tenuto. Come fai la scelta?
S – Non so. La scelta è ciò che c’è di più lungo. Montare un film si fa velocemente anche alla fine quando si taglia un fotogramma, all’inizio e alla fine di ogni inquadratura, ciò si fa velocemente. Dapprima se ne taglia un metro, due metri, in seguito si arriva a tagliare sei fotogrammi, tre, uno. Bon, si fa velocemente. Ma ciò che è molto lungo è la scelta. Non so come si fa. È molto… Non ci sono ragioni, si direbbe; bisogna domandarlo a Danièle, lei mi vede scegliere. Deve sapere, forse, io non lo so. DH – Ci sono tentazioni, per esempio nella colonna sonora, o nell’immagine: una nuvola che passa, o un cane che abbaia, ma è un caso; ciò su cui lui sceglie sempre, è sugli attori. Anche se bisogna sacrificare un caso sublime, una luce sublime, un suono sublime.
Per
esempio
io
non
l’ho
mai
visto
prendere,
anche
quando si verifica un caso interessante, che so, le campane che suonano, una inquadratura meno buona per gli attori. S
–
Sì,
io
in
quel
caso
lì,
all’inizio
mi
direi
che
prendo
le
campane. Ebbene, ripasso l’inquadratura forse sette volte, o forse trenta volte, e ogni volta finisco per eliminare le campane se ho un’altra
inquadratura
profondamente,
sono
nella più
quale
giusti.
Lì
gli
attori
sacrifico
vanno
tutto,
più
anche
la
fotografia, la luce, tutto. D – Sì, infatti c’erano le campane che hai fatto registrare, a Villa Pamphili, che non sono nel film.
S – Perché non volevo aggiungerne.
DH – Un’altra cosa, è che non ha mai accettato, anche quando era
possibile,
di
prendere
il
suono
di
un’inquadratura
per
metterlo sull’immagine di un’altra. S – Il cinema consiste nel sorprendere. È ciò che gli Olandesi chiamano il “Bioscope”, la stessa cosa che “La mort au travail”: qualche cosa che non si rinnoverà mai. Dunque se si mette il suono, anche se è un’inquadratura di tre secondi, di un’immagine su un’altra, è falso. È meglio non farlo; ci sono quelli che lo fanno, a me ciò non parrebbe onesto. D – Che cosa ti interessa nell’impiego del fuori campo?
S – Il fatto che esiste. È un’altra cosa che si scopre quando si gira con il suono. Quelli che girano in “muto” non possono. E lì hanno Hanno
gran
torto,
perché
l’impressione
di
vanno
contro
fotografare
l’essenza
soltanto
ciò
del
cinema.
che
hanno
davanti alla macchina da presa, ma non è vero; si fotografa anche ciò che si ha dietro, e ciò che si ha intorno al quadro. È ciò che aveva notato Bazin a proposito del Van Gogh di Resnais. È uno dei suoi primi film, un cortometraggio nel quale fotografa i suoi quadri. Bazin ha notato che la cornice del quadro non è per niente la stessa del quadro con la macchina da presa. Se si prende un quadro che si confonde con la cornice della pittura, la realtà dipinta da Van Gogh si prolunga in alto, in basso, a sinistra e a destra. Mentre la cornice della pittura di Van Gogh la limita. Ed è lo stesso per davanti-dietro. Ma se ci si sforza di prendere il cinema per ciò che è, cioè qualche cosa che fotografa in due dimensioni una realtà in tre dimensioni, non si può impedire che si senta ciò che c’è dietro, e ciò che c’è davanti; è il suono a dare lo spazio. Dunque un tipo che gira in “muto” può dimenticare che prende lo spazio. D – Nella lunga inquadratura nella quale Lacus e Martian camminano insieme, quale ruolo ha la macchina da presa? È uno sguardo o qualcosa che piomba sui personaggi?
S – Dapprima bisogna che la macchina da presa non sia un occhio, ma appunto uno sguardo. Questo è il lavoro. Bisogna soprattutto
non
avere
l’impressione
che
sia
un
occhio
che
si
sposta, ma proprio uno sguardo. E sapere la distanza morale e materiale, che è uguale, tra ciò che si mostra e la macchina da
presa. I Tedeschi dicono, per inquadratura, “Einstellung”. Einstellung vuol dire anche disposizione morale. È evidente che quando si vedono Locus e Martian che fanno la loro piccola passeggiata, è l’idea di complicità, semplicemente. Io credo che ciò che ci vuole è l’idea. Un’idea ma che non sia un’intenzione simbolica,
né
psicologica,
né
altro.
Un’idea
morale,
dunque
politica. D
–
Nei
suoi
film
Fritz
Lang,
quando
fa
un
campo-controcampo,
dà
sempre
l’impressione che la macchina da presa occupi realmente il posto del personaggio situato dalla sua parte.
S – Fritz Lang è colui che ha il senso morale più sicuro tra quelli che fanno film. D – Per te allora è come ha detto Godard: un travelling è affare di morale.
S – Ma sì, esattamente come si dice Einstellung in Germania. Non c’è una parola in Italiano. Einstellung è quello che i Francesi chiamano
“cadrage”
e
“plan”
(quadro
e
inquadratura,
ndr).
Materialmente vuol dire: porsi “Ein”, porre la macchina da presa in una direzione. Fritz Lang ha una morale di ferro, ciò si sente in ciascuna delle sue inquadrature e dei suoi quadri, ma ciò si sente anche nei suoi rapporti con i produttori; è il solo che riesce a fare una superproduzione che non sia un superprodotto. Der Tiger von Escnapur (La tigre di Eschnapur, ndr) e Das Indische Grabmal (Il sepolcro indiano, ndr) sono i soli film che siano delle superproduzioni senza essere dei superprodotti: sono fatti con tutti i soldi che aveva a sua disposizione senza gettare polvere negli occhi. E tuttavia non sono fatti contro i soldi; perché ora è più
facile:
Godard,
nella
sua
evoluzione,
ha
scoperto
che
bisognava fare dei film “contro”! ma per uno della generazione di Fritz Lang non era possibile un’idea così. Eppure è riuscito a fare questi due film – che sono un unico film in due parti, di un’ora e mezza ciascuno – nei quali ha dato ai Tedeschi che erano morti di fame per anni, (dal ’33 e anche prima, fino alla “WahrungsReform” che gli intellettuali tedeschi di sinistra disprezzavano tanto, ovvero fino al momento in cui la gente cominciò di nuovo a poter sapere un po’ ciò che è vivere: quello che è stato chiamato “il miracolo economico tedesco”. Per un bel numero di persone era
la
prima
volta
che
si
tornava
a
vivere
finalmente,
che
potevano
mangiare
normalmente.
Beninteso
c’era
anche
la
speculazione e tutto il resto, bon. Non ho bisogno… L’arrivo della società di consumo, questo è l’aspetto negativo) un regalo d’oro.
Senza
essere
un
vitello
d’oro!
È
quello
che
è
forte.
Chiunque altro al suo posto avrebbe fatto un vitello d’oro. Il produttore aveva una gran voglia di fare un vitello d’oro. Fritz Lang ha fatto un film; ha trasformato il vitello d’oro in un regalo d’oro… D – Un’altra cosa che mi ha molto interessato nei vostri film è come viene trattato il tempo. Ad esempio in Machorda-Muff, che è pieno di avvenimenti, questi sono mostrati in soli venti minuti…
S – In Machorda-Muff c’è un arrivo, un sogno e poi una giornata nella quale questo sogno stupido, come solo un sogno di militare può essere, si realizza. E poi un breve epilogo che accade non so quando. Se è lo stesso giorno o cinque anni dopo, non lo so. Infine c’è l’arrivo di notte, il sogno, la giornata nella quale il sogno si realizza, al di là delle speranze del personaggio. D – Quanti anni di storia tedesca ci sono in Nicht Versöhnt? Cinquant’anni?
S – Sì. Il presente di Nicht Versöhnt è quello nel quale è stato girato, ma è un presente che era già un po’ passato. In breve, non c’era niente da cambiare. Allora, va dal 1900… non si sa bene quando
comincia.
Tutto
ciò
che
è
localizzabile
nella
storia
è
quando il vecchio – da giovane – guarda verso la sua finestra, fuma una sigaretta, e prima ha visto la guerra del ’14. Ciò che vede
non
sono
fatti
del
momento,
ma
noi
li
vediamo
come
attuali. Lui è alla finestra, e si crede che veda i fatti nel momento in cui avvengono. Dunque vede la gente partire per la guerra del ’14. E il presente del film sono gli anni ’60. D – Nel Bach ci sono trent’anni di creatività musicale intensa in un’ora e mezza.
S – Nel Bach, non è complicato, c’è solo il ritorno indietro del film. L’inizio, e il presente dell’inizio, che sarebbe il 1720, e Bach è
morto
nel
1750.
Ma
c’è
un
ritorno
indietro
sulla
sua
giovinezza. D – È come se i tuoi film preesistessero già allo stato del découpage. Che importanza dai al montaggio?
S – Ma tutti fanno i film al montaggio!
D – …s’incolla…
S – No. Non si incolla. Ci sono quelli che danno l’impressione di fare tutto al montaggio, e quelli che danno l’impressione che non fanno niente al montaggio. Tutti fanno tutto al montaggio. D – Ma mi sembra che tu faccia tutto al livello découpage.
S – Ma è la stessa cosa! Non c’è alcuna differenza tra scrivere un découpage o averlo nella testa, è uguale. D – Nei tuoi film il tempo è compresso.
S – All’interno di ogni inquadratura anche. La condensazione del tempo, è proprio questo il cinema! È ciò che cerco di filmare, o di sorprendere, è il puro presente condensato. D – È l’essenziale.
S – Non so se è l’essenziale. Ma è il presente che passa e che non si rinnoverà mai, che è là, che lo spettatore sente come una condensazione. Diciamo che il fatto di mostrare “la morte al lavoro”
deve
dare
alla
gente
il
gusto
di
vivere,
perché
deve
rendersi conto che ogni momento che passa “c’est fini”, non lo recupera più. Deve esserci una minaccia lì dentro. Perché se non si rendono conto di ciò, non vivono. Quando vedono un film sono
obbligati
a
sentire
che
ciò
che
avviene
non
si
rinnova.
Anche questa è una delle virtù del suono in presa diretta. Perché il suono doppiato può essere riprodotto, è come la stampa, è ciò che Renoir chiama “blue-print”. D
–
Hai
parlato
di
minaccia;
il
campo
vuoto
all’inizio
o
alla
fine
di
certe
inquadrature è una minaccia, o come nel Gertrud di Dreyer, questi campi vuoti possono essere la morte?
S – Non so. DH – Non è vuoto, perché ci sono sempre dei rumori. S – Appunto, è ancora uno degli diretta.
I
personaggi,
quando
si
aspetti gira
in
del
suono in
presa
diretta,
presa sono
presenti ancor prima d’essere in campo. Se vengono li si sente venire. Non si può montare un film girato in suono diretto nella stessa maniera che un film girato muto, perché se un personaggio arriva, in suono muto, lo si può far venire da un chilometro di distanza,
e
prendere
l’inquadratura
proprio
nel
momento
nel
quale arriva in campo. Questo è molto artificiale. Mentre se lo si sente venire, non si può tagliare in un punto qualunque dei suoi passi; non li si può sbattere così nella pattumiera. I campi che si vuotano, non so cosa siano. Sta a voi saperlo. Io posso solo dirvi che è un elemento di ritmo. Tutto ciò che faccio sono elementi di ritmo.
È
tutto.
Ora,
che
questi
ritmi
prendano
non
un
“significato” ma un senso, questo è chiaro. C’è un vuoto in Nicht Versönhnt nel momento in cui la vecchia bacia suo figlio e gli dice “Perdonami, non ho potuto salvare l’agnello”: “Ich konnte das Lamm nicht retten”, lì si è tagliato sulla porta bianca, e non si vede niente; la si sente aprire, e questo contavo di tagliarlo al montaggio; e non ho potuto tagliarlo perché prendeva un senso. Dopo che lei dice “Ich konnte das Lamm nicht retten” si sente il rumore della maniglia, si vede questa superficie bianca, e si vede solo Robert, cioè suo figlio, che arriva in campo due metri più in là, nel corridoio, e che ha già passato la porta. Lì ciò prende un senso. Una superficie bianca, un rumore d’arma dopo la frase. E se
si
vedono
dei
personaggi
che
escono
di
campo,
vivi,
e
si
vedono delle rovine quando sono usciti, è evidente che prende un senso. In quel caso io non ci posso far niente. D – Ho avuto l’impressione che la prima parte di Les yeux ne veulent…. fino al dialogo di Camille con Galba e poi quello di Camille con Othon, sia quasi un gioco; e che da quel momento il film cambi e divenga duro, serio, tragico.
S – Dopo che Galba è andato via? Sì, tu hai sentito esattamente il film. D – Personalmente non ho capito il testo, io non capisco il francese.
S – Nel tuo caso ciò mi fa ancora più piacere, poiché dopo che Galba è andato via, esattamente lì, si lascia il terreno drammatico per
arrivare
all’epico.
Anche
politicamente
è
il
momento
più
importante, è il solo momento nel quale una possibilità è offerta, e
dimora
aperta.
È
molto
bello
che
tu
abbia
sentito
questo,
soprattutto se dici di non aver per niente capito il testo. Poiché questo vuol dire che è veramente nel film, ed ero molto triste poiché notavo che tanta gente si annoia in quel momento – infine non tanta gente, poiché molti ancora non hanno visto il film, ma la maggior parte di quelli che lo hanno visto finora. Ed è appunto il momento nel quale il film diventa epico, è in quel
momento
che
Camille,
che
rappresenta
in
un
certo
modo
il
paese, si offre ad Othon, perché lei… come si potrebbe dire… si sopravvaluta. E Othon non coglie questa “fortuna”: primo perché non ne è all’altezza, e poi perché è opportunista. Se un giorno potrai leggere il testo in tedesco o in italiano vedrai che è il più bel testo di tutta la tragedia. E ho cercato di farlo così. Ciò che dici significa che sono riuscito, e ciò mi fa tanto piacere. D – Forse mi sono male espresso quando ho detto “gioco”, avrei forse dovuto dire “leggerezza”.
S – No. Assolutamente, fin là loro giocano al teatro. Fanno del teatro partendo da qualcosa di dato, con il quale combinano o cercano di fare combinazioni. Quando Galba appare, c’è allora la violenza, non solo la violenza nel senso corrente, ma anche la violenza… come si dice… del potere, la potenza. Poi se ne va, e lascia Othon e Camille confrontarsi l’un l’altra. È in quell’istante che il teatro cambia. Fin là hanno giocato come si gioca in teatro. Sono persone di oggi che danno una tragedia di Corneille su delle rovine romane, certamente in costume, ma dei giovani di oggi – e in quell’istante ci si accorge che Camille è un’altra cosa. Si ha già l’intuizione di ciò un po’ prima, quando Galba è ancora lì.
E
quando
Galba
se
n’è
andato,
allora
lei
lascia
cadere
la
maschera. E tutto ciò che fin là era del teatro, gioco e giocato, in cui ogni individuo era in una strada senza uscita – in quell’istante diviene un presente aperto, un presente che sarebbe aperto per un futuro, il solo momento nel quale qualcosa sarebbe possibile. Eppure non lo è, perché Othon non coglie la “fortuna” e perché è un povero opportunista. Eppure se osasse… In ogni modo Camille si sbaglia. Lascia cadere la sua maschera e dice: “Voi potete vedere da lì la mia anima tutta intera” – Lì comincia tutto. Lei lascia cadere la sua maschera, ed è ciò che era la vecchia signora di Nicht Versönhnt o la ragazza del Bräutigam. Di colpo lei è lì, e offre una possibilità che non sarà colta, non riconosciuta, o che non può essere riconosciuta né colta… infine, un futuro sarebbe possibile, ma tutto ricade nel povero gioco degli
intrighi
borghesi.
Ma
spazzato via. D – Tu hai insegnato grammatica….
in
quell’istante
ogni
intrigo
era
S – No. No, ho fatto tutto quel che esige l’Università francese per averne il diritto, per essere pronto a farlo; ho un diploma di insegnante, diciamo. D – La grammatica come elemento base del linguaggio lo è anche di un colloquio fra te e un’altra persona; ora nel momento in cui tu fai un film che, per principio o di fatto, è rivolto a poche persone, non crea una contraddizione di natura psicologica se non logica?
S – Insegnando la grammatica, tu l’insegni a pochi ragazzi per volta. D – Questo per ragioni pratiche.
DH – Ma anche per il film. D – Studiare la grammatica è in un certo senso risalire alle origini del linguaggio.
S – Meglio:
l’eliminazione del linguaggio,
per
ricominciare
a
livello della grammatica e per non riprendere una retorica usata. D – Cioè per arrivare alla parola come significante abolendo clichés… e ciò dovrebbe pervenire alla gente più facilmente proprio perché più diretta e non contaminata.
S – Questo è il problema, è un paradosso normale. Succede a tutti noi di arrivare con difficoltà alle cose più semplici, perché viviamo con i clichés. Se uno fa vedere un oggetto dove i clichés o le abitudini sono abbandonate, è chiaro che la gente a cui è mostrato si dice ‘non può essere così semplice’. D – Questo dimostra da parte tua un’esigenza e una certa volontà di chiarire a te stesso i motivi di questo discorso.
S – Chiaro, il primo lavoro lo faccio su me stesso e sono i miei clichés che provo a scartare prima di tutto. D – Tutti i tuoi film hanno avuto un numero limitato di pubblico; per un tuo prossimo film, pensi che faresti tesoro della tua esperienza passata così da mutare un pochino la strutturazione stessa del film?
S – Se lo faccio, so bene che faccio delle cose che altri fanno meglio di me, allora perché farlo? D – Pur rimanendo intatta questa ricerca di un oggetto al di fuori dei clichés, riscoperto nella sua essenzialità….
S – Devo interrompere, se no andiamo falsamente avanti. Questa ricerca non è fine a se stessa, ma un mezzo per far parlare il soggetto del film, ovvero qualcosa di concreto dal quale provo a eliminare temi. L’uomo e il potere è ad esempio un tema, sul
quale si può discutere, ma io provo a eliminarlo perché è già troppo generale, è un cliché. Qual è il tema del Bach? Non ce n’è uno, c’è un soggetto dove sono stati eliminati tutti i temi; è questo che fa il film marxista. Un film con dei temi, non può essere un soggetto marxista, perché è antidialettico. D – Una dialettica può essere sempre proposta fra un certo significato del tema e una parte d’impostazione del tema stesso.
S – No. No, un tema è una cosa concettuale, ma un soggetto è un blocco di realtà. I film più marxisti che ci sono, sono i film di Mizoguchi, per me, e in questi film non ci sono temi. D – Che cos’è per te fare un film da un soggetto?
S – Scoprire una realtà e poi comunicarla alla gente, comunicare quello che ho scoperto. D – Escludendo i temi si rischia di accettare tutto quello che c’è in un soggetto….
S – Ma un soggetto non esiste nell’aria, è una cosa che ha delle radici
sociali,
storiche,
che
provo
a
mettere
a
nudo,
a
indentificare come radici, appunto sociali, psicologiche, storiche. Perché una radice è una radice, non ha un’etichetta. DH
–
Quello
che
io
non
capisco
è
come
si
può
parlare
diversamente a seconda della gente a cui si parla; se si fa questo, si finisce che quando si parla con un uomo con la pelle nera… S – Si parla con degli verbi all’infinito! DH – Poi alla fine, quelli a cui si parla non capiscono, e lui stesso che parla non capisce più. D – La forma del verbo all’infinito è senz’altro insufficiente, anche se può essere un primo punto di contatto; comunque quando un uomo parla, non lo fa per se stesso, dal momento che vuole esprimere qualcosa, lo fa verso qualcuno, con qualcuno, nella forma più accessibile.
S – Però non per esprimersi. Devo interrompere già, perché io non
ho
niente
comunicare
da
certe
dire
personalmente.
reazioni
o
certi
fatti
Provo o
a
una
esprimere,
rabbia
o
a
una
tristezza, è tutto, ma non ho nessuna idea da esprimere. Pasolini ha delle idee da esprimere, perché lui è un saggista. D – Ci sono però i sentimenti da esprimere, che ritieni necessari almeno per te.
S – Sì. Sì, ma di fronte a sentimenti, a fatti, a soggetti.
D – Già esprimi un tuo linguaggio, anche se comunichi qualcosa di non tuo, è comunque personale.
S
–
No,
provo
a
proporre
questi
soggetti
alla
gente
in
una
maniera tale da non mettere all’inizio i miei sentimenti, la mia rabbia o la mia tristezza, ma eliminandoli affinché, proponendo alla gente la cosa in maniera nuda, la gente risenta la mia stessa rabbia di quando ho scoperto la cosa. Tutto ciò quindi senza comunicare prima i miei sentimenti. La cosa che mi fa arrabbiare nei film di Kluge – anche se il suo primo film mi ha toccato – e anche quello che rifiuto in certi film di Godard, è l’intervento, quel
brechtianismo
che
si
fa
oggi.
Ciò
consiste
appunto
nel
comunicare le proprie reazioni insieme con la cosa che si mette davanti alla gente. D – Con quale criterio ricavi i tuoi soggetti dalla realtà, dal momento che è fonte innumerevole di soggetti?
S – Non siamo mica profeti, i soggetti sono scelti a caso. Scelgo i soggetti per intuizione, e ci lavoro su razionalmente. Un soggetto è l’incontro con una persona; l’incontro può essere violento o no, ma resta l’incontro con la persona. Questo è razionale, o non è razionale? D – Il Bach è marxista… ti consideri marxista?
S – So bene che ho fatto un film marxista, non so se sono marxista. Non lo so, perché ci sono tante maniere per essere marxista. Non ho letto tutto Marx. Il marxismo è un metodo, non è un’ideologia… ovvero è evidente che il marxismo è anche un’ideologia… DH – Diciamo che l’antimarxismo è un’ideologia. D – Sembri disfattista. C’è qualcosa che accetti senza criticare?
S – Non mi sento disfattista. DH – Eliminare i clichés non è distruggere, sono i clichés che distruggono. S
–
Se
uno
vuole
distruggere
una
società
capitalistica
che
distrugge tutto, è un disfattista? Mi sembra di essere anche uno che crede che c’è qualcosa da salvare. DH – Non sono da salvare i temi, sono gli uomini da salvare.
D – Ritorniamo così a una specie di umanesimo…
S
–
L’umanesimo
è
stato
all’origine
del
colonialismo,
e
il
colonialismo all’origine della pratica di tagliare le teste in piazza, in massa; per non andare troppo lontano, in Madagascar hanno ucciso duecentomila persone…. Il meglio è di non andare in giro con le etichette… sono umanista, sono marxista… D – Faresti un film su commissione, se ti offrissero 100 milioni come paga?
S – Non lo so… preferisco dire rinuncio ai tuoi 100 milioni e mi faccio coproduttore, se ho voglia di fare il film. Oppure faccio come Godard (ma non lo faccio, perché non sono Godard e perché non ci sarà mai uno a offrirmi 100 milioni): accetto tutto ciò che consegue e poi faccio dei regali ai giovani che hanno da fare un film, o ai marxisti-leninisti. Per me 10 milioni sono già troppi. D – Quanto tempo impieghi per fare un film?
S – Per fare un film, fra tutto, c’impiego almeno un anno. Si possono
fare
al
massimo
due
film
in
un
anno.
Si
potrebbe
arrivare a tre con un cortometraggio. Io voglio vivere, non mi interessa fare del cinema per fare del cinema, io non vorrei fare due film l’anno. Per trovare anche una stazione noi giriamo a lungo: quella di Colonia in Non riconciliati viene dopo una lunga ricerca, ed è scelta tra quaranta…. D – Farai mai un film comico?
S – Othon è un film comico. Machorda- Muff è un film comico. In un certo senso è una specie di commedia alla Tartufe: se uno ce la fa, può ridere tutto il tempo.
Conversazione – 1971
PAOLO e VITTORIO TAVIANI D – Comincio con una domanda molto semplice: perché non lavorate con la presa diretta? Qualche tempo fa ho visto Sotto il segno dello Scorpione, e sono rimasta abbastanza spaventata dal fatto che non fosse in presa diretta, cosa che ora mi ha confermato anche Sebastian.
PT – Be’ allora io posso rivoltarti la domanda chiedendoti perché mi fai questa domanda… la presa diretta per me è uno dei modi con
cui
un
regista
sceglie
di
girare;
uno
dei
tanti,
e
non
è
teorizzabile. Nel mio caso non è vero che si debbano fare film in presa diretta. In ogni caso ti potrei rispondere perché in Italia è difficile farli, oppure perché, come nell’esempio che hai citato, lo Scorpione lo giravamo in un posto in cui passavano aerei, c’era la strada vicina… rumori che non avevano nulla a che vedere con l’epoca in cui lo abbiamo ambientato, e che inoltre ci avrebbero reso impossibile girare da un punto di vista pratico. Dal punto di vista teorico invece dico che ci sono autori per cui la presa diretta è importante, se ne servono e diventa un loro modulo espressivo. Noi invece abbiamo una necessità completamente diversa. Il film per
noi
è
un’elaborazione
sceneggiatura
continua,
dettagliatissima,
eppure
dall’idea
iniziale
nuovamente
alla
verificata
durante le riprese, soggetta quindi a nuove modifiche dettate dal lavoro
sugli
attori,
e
successivamente
in
montaggio,
e
poi
il
doppiaggio… per noi un ulteriore momento creativo del film. Con la presa diretta saremmo condizionati da quel che abbiamo girato e non potremmo più cambiare. D – Se ricordo bene c’era per esempio Olimpia Carlisi che ha una voce piuttosto particolare, che mi sembra fosse doppiata da un’altra persona…
VT
–
Perché
anche
la
scelta
di
una
voce
su
un
volto
può
emergere in un secondo momento. Se penso di fare un film con un
personaggio
imponente
cui
serve
una
voce
esilissima,
il
doppiaggio mi propone una soluzione di carattere espressivo che il dato naturalistico della voce del personaggio non mi darebbe. In questo film abbiamo voluto gli stessi attori per dare la voce ai personaggi,
salvo
caratteristiche
in
quel
espressive,
caso:
la
sua
cinematografiche,
voce
non
foniche
aveva
che
le
invece
aveva quel volto, perciò abbiamo tranquillamente scelto di darle un’altra voce. PT – Un altro esempio: c’era un arabo francese che parla una lingua tra l’inglese e il francese che non aveva niente a che vedere con l’equilibrio generale del film, per cui sarebbe stato doppiato comunque. In ogni caso la presa diretta in Italia presuppone anche dei costi altissimi. In Italia un certo tipo di cinema è difficile
farlo.
creando
il
La
presa
vuoto
diretta
intorno;
è
possibile
Visconti
ha
girando potuto
in
teatro,
usarla
con
Bellissima, con Le notti bianche. Ma anche in questo caso, noi giravamo in un teatro in cui stavano smontando la scenografia del
teatro
accanto,
con
un
rumore
enorme,
dunque
neanche
volendo sarebbe stato possibile. VT – Va considerato poi il piano espressivo: per esempio certi fondi
naturali
durante
la
ripresa,
a
noi
non
occorrono.
Per
esempio un dialogo di due personaggi che si svolge sotto il sole, al momento del montaggio ci appare più coerente accompagnato dal rumore di un tuono lontano; questa è un’invenzione che introduciamo al momento del mixage. Cioè la ripresa diretta, d’accordo con Paolo, per alcuni autori è proprio una scelta, come la macchina a mano o altro; per noi invece può essere limitatrice della possibilità reinventiva nel momento del mixage, e quindi della nostra capacità espressiva. Infatti tutta la battaglia che è stata fatta, e che voi fate in particolare sulla ripresa diretta, se è giusta in senso polemico nei confronti di un certo malcostume che c’è oggi in Italia sul doppiaggio va benissimo, ma se invece diventa una posizione teorica no, io la combatto assolutamente. Può darsi che un giorno anche noi faremo un film in presa diretta, ma perché quel film nascerà con quella esigenza, ma in un film che ha altri moduli espressivi voglio essere libero fino all’ultimo
momento
perfino
di
cambiare
il
dialogo.
Quando
arrivo al mixage il film si rivela in una sua fisionomia che posso arricchire
in
quel
momento,
perciò
voglio
avere
questa
possibilità. PT – In sostanza non è teorizzabile, né in un senso né nell’altro. Sono strumenti che uno ha in mano, utilizzabili volta per volta. VT – Perché altrimenti vi domando: se si dovesse accettare il
principio della ripresa diretta in assoluto non vedo perché allora si
dovrebbe
accettare
che
a
un
certo
punto
intervenga,
per
esempio, il commento musicale… Come interviene il commento musicale, che è chiaro non sarà mai in ripresa diretta, così altri fatti sonori nascono in un secondo momento. D – È chiaro che non può essere presa in assoluto, semplicemente se io dovessi fare un film lo farei in presa diretta e quindi di fronte a dei registi che stimo mi pongo questo problema. Mentre invece credo che sia assoluto – direi addirittura – l’orrore che io provo, e che penso e spero voi proviate, contro il doppiaggio non nei casi che avete fatto, dei nostri film, ma dei film stranieri.
VT – Ah i film stranieri sì! è pazzesco! Assolutamente! PT – Di fatti io so che in Germania I Sovversivi è stato doppiato, e non ho la più pallida idea di cosa possa essere venuto fuori… PT
–
Anzi
quando
i
nostri
film
vanno
fuori
d’Italia,
salvo
appunto in questo caso qui, chiediamo che vengano proiettati con i sottotitoli, assolutamente. D – Voi potete controllare i vostri film?
VT
–
No;
come
autori
abbiamo
un
margine
di
manovra
limitatissimo sul prodotto cinematografico, e oltre quello no. Per esempio I Sovversivi, mi sembra che lo acquistasse anche una casa televisiva che lo voleva doppiato, e noi non abbiamo potuto fare niente. D – Avete detto che ogni vostro film è un po’ una negazione di quello precedente, in che senso questo ultimo è una negazione rispetto allo Scorpione? Lo chiedo sia da un punto di vista tematico che linguistico.
VT – In genere possiamo dire che un autore fa sempre un po’ lo stesso film, cioè colloca la sua esperienza di vita in rapporto agli altri
in
una
serie
di
proposte
che
sono
i
suoi
film.
Però
d’importante c’è questo, che la realtà intorno si modifica, per cui la tua posizione, anche se omogenea, reagisce al variare delle cose al di fuori portando a una variazione nella tua poetica. PT – Un esempio, dal punto di vista apparente, sono proprio lo Scorpione e S. Michele aveva un gallo: lo Scorpione è la scoperta di fare un racconto di tipo corale, questo invece è un monologo. In questo senso è proprio l’opposto, tant’è vero che alcuni sono venuti
a
vedere
S.
Michele
aspettandosi
l’esasperazione
del
precedente, cioè quella coralità portata alle estreme conseguenze, e
sono
rimasti
molto
sorpresi
di
trovarsi
di
fronte
a
un
personaggio, proprio perché il film è costruito sul canto di una sola persona e non su una polifonia. VT – Cioè se nello Scorpione c’era una tensione continua al campo lungo, in S. Michele c’è una tensione continua al primo piano, e sono due fatti che si negano. Poi a un esame più attento la matrice è la stessa: con la stessa violenza con cui nello Scorpione si perseguiva il campo lungo qui si persegue il primo piano, per cui ecco che i due opposti trovano una matrice comune. D – A me per esempio è piaciuto molto il fatto che mentre nell’altro c’erano due discorsi comuni, c’è la vecchia classe che tiene, qui c’è una sintesi del conflitto politico,
nei
due
discorsi
tra
il
personaggio
che
rappresenta
un’ideologia
più
utopistica, e un gruppo che segue una politica più realistica. Ed è molto significativo il momento in cui sono sulla barca: il personaggio, che esce dopo dieci anni e ancora pensa alle spedizioni, alle lotte, e il gruppo che gli dice ‘caro mio, qui nessuno fa più spedizioni’… in questo senso vedo una distruzione di fronte al precedente nel senso di un maggiore rigore nel conflitto tra l’ideologia e una politica più reale, più concreta, marxista. Io vedo il personaggio positivo, e mi piacerebbe sapere come lo avete visto voi.
VT – Il personaggio del protagonista? D – Sì, ovvero per me rappresenta l’ideale di una rivoluzione permanente, e alla fine si trova escluso e si butta giù dalla barca perché gli amici gli dicono che ormai è finita, però la sua ribellione continua. Nel film secondo me appare chiaro che è quella che rimane, quando si butta nel lago sembra rappresentare…un interrogativo aperto.
VT – Esatto. Infatti il suicidio finale, usando una terminologia abusata e consunta, è un suicidio che non chiude, non ha un valore negativo; sostanzialmente è la riaffermazione di qualcosa che non potendo più trovare un riscontro nell’immediatezza si ripropone come un assoluto, disperato, però assoluto. Ci è molto difficile dire cos’è per noi il personaggio principale, se stiamo con lui o se stiamo con gli altri… son due anime in fondo che stanno un po’ sulla barca di Giulio e un po’ sulla barca degli altri, e proprio in rapporto al passaggio delle stagioni, al passaggio del tempo. Cioè, probabilmente nel momento in cui Giulio esce dal carcere non è più richiesta quella tensione rivoluzionaria che lui rappresenta, ma ciò non significa per noi che questa sua tensione vada negata, o che domani non si riproponga. Tant’è vero che –
tornando indietro ai preparativi del film – noi avevamo previsto una
parte
nella
addirittura
sequenza
questo,
“oggi
finale mi
in
cui
Giulio
seppellite,
e
arrivava
a
probabilmente
dire oggi
avete ragione voi” – lo diceva a se stesso in uno di quei suoi monologhi impossibili che faceva in cella – “però io so che altri domani
verranno
a
resuscitarmi”.
Questo
passaggio
era
stato
sceneggiato, poi ci è sembrato inutile perché espresso già nel film. D – Questo oltre ad essere un fatto di contenuto, mi sembra che investa un fatto ideologico
molto
più
ampio,
ecco
perché
io
questo
film
l’ho
amato
più
del
precedente. L’altro rimaneva nell’ambito di una dialettica marxista, ovvero di una classe nuova che deve abbattere la vecchia per affermarsi, qui invece c’è l’ideologia incarnata dal personaggio che si afferma autodistruggendosi. Gli altri sono figure che magari faranno veramente qualcosa, andranno al governo, e però la sua ideologia terrà
aperta
la
dialettica
anche
all’interno
della
rivoluzione
che
quel
gruppo
realizzerà. Questo mi sembra un passo importante.
VT – Sì credo anch’io. PT – Anche perché un film vien fatto sempre di giudicarlo da come finisce, e questo è vero, ma è vero fino a un certo punto. Tant’è vero che io sono d’accordo con te; alcuni ci hanno chiesto se il film non dava una luce un po’ pessimista alla realtà di oggi, che indubbiamente nel film c’è, però significa appunto affidare il suo significato solo agli ultimi 15 minuti. Mentre qui c’è una parte, che è quella della cella, dove un uomo riesce a inventarsi la realtà e a sopravvivere con una forza come quella che Giulio ha, che sostanzialmente è una conferma delle possibilità dell’uomo del
dominio
della
realtà.
In
sostanza
in
un
film
esiste
sia
la
conclusione finale, sia quello che è stato detto prima, che vale quanto il finale. Nel suo insieme, questo porta a una conclusione come la tua. S – Un momento, Vittorio prima ha parlato del suo discorso ‘impossibile’ nella cella: è nel contenuto del discorso o come discorso in generale?
VT – Non nella cella, sulla barca. PT
–
È
‘impossibile’
sulla
barca;
cioè
quest’uomo
che
nelle
dimensioni di una cella ha sviluppato la sua fantasia, portandola al
massimo
per
dominare
quelle
quattro
pareti,
e
che
per
sopravvivere cerca di usare gli stessi moduli di sopravvivenza e di lotta, quando si trova all’esterno nello scontro con gli uomini,
con la luce, con la natura, quel discorso diventa impossibile, gli strumenti devono essere altri. Lui si aggancia ancora alle vecchie armi che ha usato, ma che lì non gli servono più, perché non è più
dentro
una
cella,
perché
è
uscito
fuori,
annientato
dalla
natura e dalla storia che sono i giovani sull’altra barca. È chiaro che lui capisce quando dice ‘probabilmente hanno ragione loro e devo
inventarmi,
ricominciare
tutto
da
capo’,
però
fisiologicamente non ce la fa più, e lo dice: “non ce la faccio”. VT – Cioè la sua carica dialettica, come diceva lui, se dovesse essere ancora operativa non potrebbe essere con i mezzi che lui usava in cella, bisognerebbe che si concretizzasse in fatti nuovi, in mezzo
agli
altri,
cosa
per
lui
praticamente
impossibile,
ecco
perciò la fine.
D – Però per lui rimane questa invenzione, ed è il bello del film. Anche di fronte agli altri, quando sulla barca cerca di trasmetterla, è bellissima la scena in cui dice ‘lo butto giù al poliziotto’ e gli altri gli dicono ‘“che cazzo lo butti giù ma non risolvi mica niente’. Questo voler trasmettere l’invenzione è la metafora di una politica, e il film la trasmette allo spettatore; non al gruppo, che lo considera un illuso, uno che è fuori dal tempo, ma la necessità di inventarsi continuamente una cosa rimane oltre loro. VT
–
D’accordo,
però
un
attimo
dopo
che
ha
cercato
di
trasmettere come tu dici questa sua invenzione della rivoluzione, questa
sua
vorrebbe
e
utopia, perciò
si
accorge
passa
che
all’ultimo
non
viene
strumento
percepita che
gli
come
rimane,
l’unico possibile, che è il suicidio. In questo senso la barca è diversa dalla cella. Cioè lui dovrebbe dialettizzarsi nei confronti della storia, ma gli strumenti che ha a disposizione appartengono al passato, e quindi non c’è per lui altra risposta. D – Ma io ci vedo un aggancio ad un altro livello, anche se ideologicamente diverso, con altri film che hanno lo stesso finale, per esempio Mouchette di Bresson.
VT – Sì Mouchette di Bresson infatti è un parallelo pertinente. D – Mi pare che il protagonista a un certo punto dica qualcosa come ‘la normalità genera i mostri’…
VT – “L’equilibrio partorisce mostri”.
D – Ecco quindi io vedo questo film come un bellissimo elogio della pazzia, diciamo, elogio della pazzia rivoluzionaria. D – Un elogio della follia inventiva. D – Della follia inventiva, chiamiamolo pure elogio della follia in genere… D – È ideologico? D – Ecco appunto questo volevo sapere: è un elogio della follia in genere, oppure è un elogio della follia politica? Oppure ogni tipo di follia è politica, per il fatto stesso che è follia? Cioè ha una rilevanza ideologica per voi la questione della follia?
VT – Be’ io direi che non… dico subito che teorizzare così sui propri film mi imbarazza moltissimo perché molte componenti nascono da altre miriadi di componenti che poi raggiungono un’unità o non la raggiungono, per cui è difficilissimo scindere quello che invece si è composto nel film. Detto questo è chiaro che noi non ci siamo mai posti il problema di un elogio della follia
così
in
astratto,
ma
di
quella
follia
che
è
agganciata
fortemente a un dato reale, che può essere la follia del politico come la follia dell’artista. Direi che tra la follia di Giulio e la follia di un autore che fa un film su Giulio le due cose vanno quasi a combaciare. Una follia in astratto mi sembra proprio che non…
cioè
il
problema
della
pazzia
come
elemento
di
contraddizione della non pazzia… può darsi che ci sia ma io non me lo son posto ecco! D – Quindi diciamo che le scelte metaforiche del film trovano un limite, una dialettizzazione con quello che è il discorso a cui voi restate sempre agganciati…
VT – Sì, direi di sì. D – In tutti i vostri film, nei film precedenti specialmente, il discorso ideologico mi sembra che porti a una sorta di sovradeterminazione, ovvero a una metafora filmica che si giustifica come metafora in se stessa, nel linguaggio filmico, ma che ha anche una
sua
giustificazione
dal
punto
di
vista
narrativo.
Cioè
voi
sentite
sempre
la
necessità di giustificare qualunque follia con uno svolgimento narrativo e con un aggancio ideologico.
VT – Sì direi assolutamente sì, vero? PT
–
Sì.
Però
addentrarsi
nella
definizione
di
metafora
è
spaventoso e mi rifiuto… posso dire che mentre Sotto il segno dello Scorpione era una favola, e quindi come tale portava in sé gli elementi della metafora, questo film qui lo è meno, almeno per noi. È chiaro che quando si fa un film, sia che si svolga nel ’300 sia che sia contemporaneo, si parla sempre del proprio tempo,
questo è evidente, se no sarebbe un’illustrazione storica e basta, però
in
questo
caso,
usare
una
storia
particolare
con
degli
elementi favolistici come nello Scorpione per esprimere quello che oggi è il nostro tempo c’è meno. È veramente una storia molto più elementare, abbiamo scelto un momento storico questa volta trattato anche con molta esattezza, e ci appassionava proprio la vicenda
di
quest’uomo,
senza
mire
metaforiche.
Anche
se
è
chiaro che, come dicevo prima, i significati che assume un film sono
i
significati
di
una
posizione
nostra
nei
confronti
del
momento in cui viviamo. Però in questo caso in forma molto meno esplicita di quella che poteva essere nello Scorpione. VT – Stilisticamente il film potrebbe essere anche letto in chiave storica; in rapporto allo Scorpione è un film che ha anche una sua credibilità di carattere storico. D – Però io insisto sul fatto che questo personaggio non è superato, piuttosto sembra sia cent’anni nel futuro perché la sua ideologia è più valida, e mi pare che voi la fate un po’ vostra… Continuo a dire che lui è un anarchico. Tra l’altro la cosa viene da una novella di Tolstoj che è un poeta anarchico, ma al di là di questo lo vedo come cent’anni avanti, nel superamento della lotta di classe insomma. Per questo dice più del film precedente, perché lì era una metafora che portava alla realtà attuale, cioè alla lotta di classe; qui va oltre, cioè anche quando la classe nuova avrà vinto ci dovrà essere un superamento.
VT – Sì, ma era previsto proprio che lui avesse questo spirito, e quel che dici è senz’altro giusto per S. Michele, però secondo me c’era anche nello Scorpione. Infatti qualcuno ne ha parlato come di un film post-marxista, cioè anche per lo Scorpione si pone il problema di una dialettica nell’ambito delle forze rivoluzionarie. Il personaggio di Volonté non è la classe borghese, è invece di una classe rivoluzionaria, che ha fatto la sua rivoluzione e si è seduta. E quindi è sempre nell’ambito della sinistra. D – Però qui mi sembra che si vada oltre, perché qui c’è una rivalutazione della rivoluzione a livello individuale. E non c’è un termine per la rivoluzione se non nell’anarchia, cioè quando tutti gli individui vivranno in una società come quella che crea Giulio, libera, fantastica.
VT – Ho capito… tu sei un anarchico! A parte gli scherzi, è evidente l’adesione all’utopia rivoluzionaria di Giulio, ma per noi è un momento, in cui noi crediamo moltissimo, ma che vediamo dialettizzato con gli altri momenti che la storia rende necessari. Tu lo prendi più come un assoluto.
D – Perché per lui non ha importanza la morte, questo è il bello, perché dice io sparisco però rimane questa mia continua capacità inventiva che gli altri non hanno perché al momento che si siedono sulla poltrona non inventano più un cavolo… anzi inventeranno le leggi per ostacolare questo…
VT – Secondo me nel film i giovani hanno abbastanza coscienza di questa prospettiva a cui tu accenni, infatti loro sono molto più melanconici
e
più
vecchi
rispetto
a
quanto
rimane
giovane
Giulio. Però la coscienza di avere questo compito dalla storia dà loro una maturità che rende la proposta veramente seria. D – Infatti io non è che abbia odiato quel gruppo, però ci vedevo solamente la coscienza ideologica, non hanno assolutamente la forza delle intenzioni che invece ha Giulio, e che ci vuole sempre in una società rivoluzionaria. Loro hanno soltanto la coscienza …
PT
–
E
il
d’accordo,
commento
tempi
malinconia
di
sulla
lunghi’,
una
e
posizione
coscienza, l’altro di
quando
dice
questo
‘che tipo,
uno
dice
allegria…’,
è
determinata
‘sì la dal
momento storico. D – Hanno soltanto una coscienza storica, non hanno più coscienza di Giulio, non sono avanzati…
VT – Sì, però loro hanno una forza in più di Giulio… quella di aver vissuto, proprio come elementi della storia, il passaggio dalla fase contadina alla fase industriale; Giulio non ha questo dato della
realtà
sul
quale
costruire.
Nei
confronti
di
Giulio
loro
hanno in più questo elemento, che gli consente la valutazione storica. Ora il problema sarebbe, con questo elemento, di nuovo fare il salto dell’inventiva. D – Io ho visto il film in maniera opposta a quanto si è detto finora. Ovvero lo vedo soltanto
come
una
finzione,
perciò
non
vedo
un
contenuto
politico,
vedo
un’invenzione un po’ grottesca… fin dall’inizio mi sembra che non si colleghi con niente
e
che
costruisca
dati
di
fatto
uno
dietro
l’altro.
Non
si
fa
una
ricerca
interpretativa né imitativa dal punto di vista storico, tutto mi sembra soltanto un po’ simbolico, per dimostrare dei fatti simbolici. Anche gli atti di Giulio nel carcere, benché concreti, sono costruiti, inventati, non sono collegati a qualcosa di esistente. Io ho visto soltanto dei dati di fatto uno dietro l’altro.
VT – Bisogna vedere se questi dati di fatto creano un organismo che poi può essere letto a livelli diversi. Un film è politico non perché porta delle interpretazioni politiche o dà dei messaggi politici, ma in quanto è un materiale politico. Che può essere usato o meno.
D – Non lo vedo causale, non vedo causalità nel film. Potrebbe essere una cosa e il suo opposto.
VT – No, su questo non son d’accordo. D – Voglio dire che una cosa deve risultare dall’altra… D – Stai dicendo che non c’è alcun rapporto causa/effetto, ma è un mosaico di cose inventate che però danno un risultato… D – Innanzitutto perché lui si suicida; questo non me lo aspettavo, mi ha abbastanza colpito, e qui ho visto proprio un atto improvvisato … D – Cioè improvvisato a livello di sceneggiatura, o …improvviso?
PT – Fa parte della sua fantasia, cioè del suo vivere usando sempre la fantasia a livello di intuizione volta a volta… VT – …Non essere passivo nei fatti ma inventare i fatti. Ma in questa interpretazione io sinceramente non mi ci ritrovo, per me invece il film ha una sua necessità. D – Io sono spettatore, e come tale ho dato un’interpretazione.
VT – Sì certo, ma per me il film ha una sua interna necessità per cui una cosa nasce dall’altra. D – Circa l’invenzione dei fatti legati all’immaginazione di Giulio, volevo sapere perché non vengono mai visualizzati. Se lui immagina della musica, questa si sente, se lui invece immagina cose, personaggi, questi non si vedono. È stata una scelta precisa?
VT – Sì, è stata una scelta precisa, su cui peraltro mi sembra difficile poter dire perché. Quel che si può dire è che a livello dello stile del film, o dei materiali espressivi del film, per noi ha avuto
importanza
poetica, sonoro
evocativa, rientra
il
sonoro.
espressiva
Intendo
del
idealisticamente,
sonoro.
anche
se
proprio Forse
l’importanza per
inventato,
questo nella
il
sua
immaginazione. Mentre invece personalmente noi sentiamo una certa diffidenza nell’evocazione immaginifica della figurazione. Non andrei oltre questo. PT – No, è un film audio-visivo, ecco, almeno per quella parte. D – Perché si sarebbe dovuti ricorrere a una specie di flash-back?
VT – Ecco; aggiungerei che il sonoro ci dava la possibilità di creare il ritmo che cercavamo, e questo è proprio risolto dal fatto sonoro, invece la rievocazione di figure o paesaggi ci avrebbe portato ad elementi naturalistici…
PT – Probabilmente con il flash-back sarebbe diventato un altro film. D – Capisco. Mi aveva semplicemente colpito questo trattamento diverso dell’audio.
PT – Ma il cimento nostro è quello di due autori. Ci sono i vari stadi, come dicevo prima…c’è il momento in cui tu inventi il film, e potrebbe essere la storia di come si fa un’opera, ecco, potrebbe essere anche letto in questa chiave. E lo stesso vale per il contenuto. Per esempio quando lui parla con se stesso tre volte, comincia in modo realistico, e poi a un certo punto le battute arrivano
ad
realistico
di
accavallarsi, partenza
e
l’elemento
diventa
un’altra
anche
cosa,
minimamente
che
è
il
risultato
poetico, come se lui fosse un artista. Perciò nella cella, il film potrebbe essere anche letto come la creazione di un’opera d’arte di
un
uomo,
con
gli
stessi
momenti
di
invenzione,
di
abbattimento, di entusiasmo, in cui tu fai entrare nella tua stanza tutti
i
fantasmi
possibili
e
cerchi
di
districarli
dal
caos
per
immobilizzarli in un momento che diventi espressivo. D – Io lo vedo come un film nel film, è uno dei pochi casi dove il personaggio in un certo senso viene annullato come personaggio, cioè come conduttore del film, e rispecchia la struttura del film. C’è una lucidità perfetta nella struttura, che crea una connessione tra il personaggio come segno con tutti gli altri segni del film, con tutte le scene del film, con i brani musicali, fino ad atti compiuti da lui, che la musica finisce. A mio parere c’è un’unità perfetta tra personaggio e linguaggio del film… non
perché
il
personaggio
è
anarchico,
positivo,
come
si
diceva,
ma
perché
l’anarchismo viene fuori da questa lucidità con cui è strutturato dialetticamente il linguaggio con il personaggio. D – Io però non ho capito bene quello che tu Sebastian volevi dire, cioè che in questo
film
per
te
non
c’è
un
messaggio
politico,
non
c’è
nessuna
espressione
chiara… D – No, io non l’ho trovata… D – Forse a livello politico, ma piuttosto come diceva Paolo, che mi pare abbia bene espresso quello che volevi dire tu, il personaggio crea la sua opera d’arte, questi frammenti inventivi di Giulio fanno sì che alla fine risulti l’opera d’arte… D – Innanzitutto anche per questo, perché all’inizio Giulio riesce molto meno a esprimersi, è un po’ più indifferente che nel carcere, e alla fine ricade in questa mancanza. Anche con il viso, è meno attore. D – Sì, ma questo è Giulio Brogi, o Giulio? D
–
Giulio
rispetto
alla
Brogi.
All’inizio
situazione,
e
qualche
altrettanto
volta alla
mi
fine
sembrava
sembrava
sbagliare
che
lui
l’espressione
non
riuscisse
a
esprimere le cose che diceva e che doveva dimostrare. Invece nel carcere lui riusciva
benissimo a esprimere tutto, e anche a trasmettere ciò che sentiva. D – Sì ma quel che dici, per concludere il tuo discorso, cosa dimostra?
VT – Ecco, a che cosa porta? D – Perché io non ho capito onestamente, cioè, non c’è un messaggio politico, non è un film politico nel senso ovvio della parola, ma?… D – Per me sono materiali che formano qualcosa di inesistente, perciò se anche c’è un messaggio, è un messaggio che non si può cogliere. Ovvero io, come spettatore, mi devo inventare l’interpretazione, perché anche l’ultimo punto del film resta da interpretare. D – Certo, allora vuol dire che sono riusciti… D – È un film che ha una struttura aperta. D – No, ogni film ti porta a una conclusione, ti dà delle strade, e una di queste ha una soluzione, e tu la devi prendere. Generalmente il film è costruito così, tu hai soluzioni che sono già dentro, invece in questo film non ce l’hai, tu devi crearla. D – Lo spettatore è libero, libero di interpretare.
PT – Potrebbe essere questa: la grandezza e i limiti della potenza dell’individuo. Questa può essere. D – Cioè c’è un tema. D – Possono essere tanti, ecco perché io non parlo di messaggio; non è che non ci sia, come dici tu, secondo me ci sono un sacco di significazioni, io lo vedo molto ricco. D – C’è anche un significato molto chiaro quando lui sta aspettando Sergio, e questi mille soldati che devono arrivare; la macchina fa una panoramica sulla strada vuota dove ci si aspetta che debbano arrivare, invece taglia, e si vedono i personaggi che lo giudicano. Perciò si rientra subito nel carcere, ormai è deciso, e lui viene giudicato. Non si vede che lui viene preso, che lotta, che cerca di trovare una soluzione quando quello punta il fucile contro un suo amico. Lui non ricerca più una soluzione, e aspetta questi soldati che dovrebbero arrivare e che non arrivano… D – Cioè è lui che non si dà una soluzione anche se si suicida, quindi non dà una soluzione allo spettatore…non lo so forse non riesco a capire perché… D – Però senti, paragoniamolo ad altri film, adesso facciamolo perché il film va inquadrato in un ambito secondo me, di cui è esemplare. Cioè mettiamo l’ultimo Godard, il film politico, in quel senso è quel film che dici tu, cioè è un film di frammenti, che vuole portare a un messaggio… D – No, Godard dice così: io ti faccio vedere due cose, tu devi capire che cosa collega queste due cose, questo è il discorso di Godard. Se lui ti fa vedere una donna nuda e un operaio che lavora in una fabbrica, lui ti dice questi sono due fotogrammi, adesso tu mi trovi la soluzione per collegarli. Che significa questo? Questo significa per Godard che l’operaio lavora troppo, e non ha tempo per la sua famiglia, per andare a letto con la sua donna. Questo in questo film non c’è. Perciò questo non è il modo di fare
film
come
Godard
adesso…
in
questo
film
io
alla
fine
mi
dovevo
cercare
qualcosa che non ho trovato. Avevo dei pezzi, molto precisi in mano, con cui non sapevo fare niente. D – Per me invece è proprio il contrario, cioè che il film mi ha dato dei materiali precisi,
anche
se
mi
ha
lasciato
un
ambito
ancora
impreciso
in
cui
io
posso
intervenire. D – Io invece ho dei bellissimi materiali in mano, con cui non ho capito cosa posso costruire. D – Ma ti è dato dal personaggio, che va visto come un elemento del film, come il montaggio. D – Ma io non vedo… questo personaggio per me è un dato di fatto, una persona, ma non è un personaggio storico, non è un personaggio di qualsiasi genere che posso incontrare in strada, un operaio, o un rivoluzionario, o altro, non lo è per me, è una persona ma non individuata. D – Infatti non lo incontri in strada perché non c’è. Questo è il bello, lui è il personaggio che non c’è nella realtà, ci sarà fra cent’anni, capisci… D – No! Io so che non ho incontrato questi oggetti, ovvero li ho in mano ma non li ho incontrati, perciò non so cosa fare con questi oggetti, non ho la coscienza per questo, questo mi risulta dal film, che ci sono degli elementi di cui io non ho coscienza… D – Sì, puoi avere ragione, ma per me è il contrario… D – Per te forse è chiaro tutto… D – Evidentemente ognuno lo ha visto a suo modo, è chiaro, qui dipende dalla propria condizione ideologica, psicologica…
PT – Infatti a me interessa molto quello che dite voi, non quello che posso dire io. Mi interessa sentire il dibattito vostro. Per noi sai alla fine c’è il film, puoi dire quello che c’era prima, cosa hai pensato mentre lo facevi e via dicendo, ma in fondo è sempre una violenza… D – Parliamo di un altro punto interessante, ora. A me interessa sapere della vostra collaborazione. Io non credo personalmente al collettivo, però credo a due persone che hanno la stessa educazione ideologica e artistica e che lavorano insieme, però mi domando comunque come possa funzionare una collaborazione.
VT – Guarda la prima cosa da dire è che è un caso. PT – Sono d’accordo, la collaborazione non è teorizzabile in maniera assoluta. VT – Nel nostro caso trova moltissimi agganci con i dati di realtà, cioè stesso sangue, che è un fatto che conta… PT – …Magari al contrario…
VT – …Ma a questo punto pigliamola in senso positivo… la stessa
esperienza
politica,
familiare,
artistica…
Ora
la
che
stessa il
formazione
cinema
sia
ideologica,
una
fonte
di
collaborazione è vero, perché l’apporto che ti danno moltissimi collaboratori è fondamentale, però il film a un certo punto è un organismo che ha un solo respiro. Finché io e lui, inconsciamente e
consciamente
respiriamo
allo
stesso
ritmo
bene,
questo
è
possibile e noi vigiliamo su questa coincidenza che c’è anche oggi, di più non si può proprio dire. Il giorno che finisse questo finirebbe la collaborazione. Alla fine un’opera ha una sola testa; nel caso nostro dovremmo dire che è una bi-testa ecco, non credo a
due
teste
perché
è
che
abbiano
sempre
di
la
uno
responsabilità solo.
Nel
intima
nostro
di
un
film,
caso
c’è
uno
sdoppiamento, finché c’è, ed è un po’ un caso ripeto, il giorno che non ci fosse più non c’è volontà che tenga secondo me. D – Tornando al film, c’è un episodio che io ho trovato un po’ slegato dal contesto, e vorrei il vostro parere. Qual è la ragione della scena familiare del ministro?
PT
–
Ma
intanto
avevamo
bisogno
di
abbandonare
per
un
momento Giulio, avevamo bisogno di non vedere più la sua faccia per ritrovarcela poi nuovamente carica di fatti avvenuti al di
fuori
di
lui.
Cioè
abbandonare
il
tema,
lasciarlo
e
poi
riprenderlo in un’altra chiave; si potrebbe dire, musicalmente, e poi narrativamente, era necessario. D – In questa scena familiare però c’è una cosa mostruosa, la bambina, con una mente lucida, cattiva… mi ha molto spaventato. D – Ecco, non potrebbe essere la bambina il futuro… D – La bambina io l’ho trovata spaventosa, innanzitutto forzare un bambino a dire cose crudeli…
PT – Guarda che i bambini passano dall’estrema crudeltà … D – Sono diabolici…
PT – È quando diventiamo grandi che celiamo… mediamo… i bambini passano da intuizioni di quel tipo ad altre di estrema dolcezza. Sempre in modo ingenuo, ma categorico. VT – Categorico ed effettuale, cioè allo scopo. PT
–
Sono
esaminandoli
molto me
ne
elementari, rendo
no?
conto,
Io
ho
seguono
due
una
figli,
logica,
ed che
chiaramente è quella dell’ambiente in cui vivono, e la portano alle estreme conseguenze, sia in una direzione che nell’altra. D – Ma è proprio questo seguire la logica, a questo punto, che mi sembra non possa essere di un bambino.
VT – Però è una logica della favola, attenzione, è una favola che si racconta. D – Sì è una favola, ma non lo è quando lei dice “dopo si spara”, qui non è più una favola.
PT – Sì, perché quello è l’orco, e il buono è il re. Per lei che vive in quell’ambiente, dove vede che il padre viene messo in una situazione di imbarazzo, i cattivi sono quelli di fuori e non la sua famiglia. Perciò lei la favola la costruisce per distruggere il nemico della famiglia, non per distruggere quello che invece è il nemico oggettivo, che è suo padre. VT – E poi quella fantasia favolistica nasce in un ambiente in cui c’è una certa raffinatezza nel modo di essere, di pensare, che giustifica questa sua prima forma di cultura. D
–
Voi
prima
avete
accennato
al
fatto
che
lavorate
con
una
sceneggiatura
preliminare molto dettagliata, che poi nel corso delle riprese vi riservate di variare in tutta libertà. Questo approccio iniziale mi meraviglia molto perché sembra andare contro la prassi attuale di tutti i cineasti…
PT – Sì ma vedi, il fatto è che finora lo sceneggiatore è stato un letterato,
per
cui
il
regista
doveva
fare
un’operazione
supplementare molto più forte nei confronti della materia scritta. Al contrario noi scriviamo un film come se stessimo girando, l’immaginazione è sempre legata al risultato. VT
–
La
nostra
sceneggiatura
nasce
come
un’emozione
cinematografica, mai come fatto narrativo, anzi quando nasce come fatto narrativo mi sembra pericoloso, non mi interessa, non mi suggestiona, proprio perché quando invece nasce quella giusta porta con se, come un ritmo cinematografico che riesci a fermare fotogramma per fotogramma.
D
– Mi hai fatto venire in mente le parole che dice Pasolini nel Decameron: “Perché
realizzare un’opera quando si può solo immaginarla”…
VT – Allora io parafraserei Pasolini con Goethe quando dice: “Perché
da
quando
si
è
pensata
un’opera
a
quando
poi
si
è
realizzata si è perso così tanto per strada”. Ecco, io mi riconosco molto in questa descrizione. PT – Io amo moltissimo quella battuta finale di Pasolini, perché è una grossa verità. La fantasia improvvisamente si accende sulle tue immagini e ti dà una felicità, poi vai a concretizzarla e hai sempre il 60 per cento di quello che ti era balenato davanti, perché
migliaia
di
elementi
condizionano
la
realizzazione
di
un’idea. Alcune volte capita che questa venga accresciuta, ma spesso no, non è così. D – È chiaro che gli stimoli che vi dà la verità profilmica non sono programmabili.
VT – In parte sì! PT
–
Altrimenti
finisce
per
passare
una
concezione
un
po’
miracolistica della macchina da presa. E d’altra parte non si può teorizzare,
perché
ci
sono
altri
autori
che
vanno
con
un
canovaccio e hanno bisogno di avere solo quello per essere liberi di inventare lì per lì. D – Invece leggevamo ultimamente di un grande autore che noi amiamo, che diceva “non posso andare se tutto in me non è chiaro fino al dettaglio”.
PT – È Bergman. D – E un po’ tutti adesso si orientano verso la rivalutazione della sceneggiatura come schiarimento dell’idea del film.
PT – Ma in ogni caso devi fare i conti con gli attori, con i paesaggi…
è
chiaro
che
se
tu
non
fossi
pronto
a
lasciarti
sommergere e a farti distruggere per poi ricostruire, faresti una forzatura tra i tuoi pensieri e la realtà che ti trovi intorno. D – Vedi i due casi limite, cioè Godard e Bresson. Bresson scrive dettagliatamente la sceneggiatura, ma non credo la realizzi così come l’ha scritta. Però sente il bisogno di chiarire prima a se stesso ogni punto.
PT – Lo stesso Eisenstein… VT – Infatti, noi parliamo di sceneggiatura di ferro così come della possibilità di modifica. Vedi la scena della cella, quello che abbiamo girato è un terzo in più di quello che abbiamo scritto nella sceneggiatura, e c’è perché al momento della ripresa certe cose che erano previste in sceneggiatura, pur avendole girate, non ci davano la stessa emozione che ci dava la pagina scritta. E
ancora, in sede di montaggio finale e di mixage, certe cose erano possibili sulla pagina ma non nel film. Appare chiaro perciò come un film si modifica. PT – È una ricerca continua di equilibrio che trovi solo – se lo trovi – alla fine del film, e i mezzi con cui ci si arriva non sono teorizzabili assolutamente, al limite sono delle curiosità e basta. D – Il film è stato prodotto dalla Rai?
PT – In coproduzione con l’Ager Film sì, ma penso che verrà distribuito nei cinema prima di uscire in televisione. D – Ci sono state difficoltà con la Rai, per la sceneggiatura?
PT – No, direi che siamo stati molto liberi. VT
–
Era
Conoscendo
inutile
chiamarci
su
giù
per
i
per
nostri
poi
film,
fare una
il
tira-e-molla.
volta
che
hanno
chiamato gente come noi e fatto la proposta di un soggetto di cinque
pagine,
la
cosa
è
andata
avanti
fino
in
fondo
tranquillamente. D – Il padre che segue la ragazza che significato ha?
VT – Mi spaventi, mi spaventi con la ricerca di significati, mi spaventi! Ma che ti dico, non lo so! (ridono) D – No, per me non è così casuale…
PT – Ma niente è casuale, per carità… D – A quel livello il rapporto figlia-padre, si poteva benissimo lasciarlo fuori…
PT – Be’ allora di questo passo ti dico che potrebbe darsi che se lasci fuori il padre crolla tutta quella sequenza… VT – Può darsi che la luce retrospettiva che il padre getta sulla figlia renda più credibile quello che la figlia fa e dice. Potrebbe essere una risposta. È una delle risposte. D – Tu prima hai parlato di un anarchico, però non penso che tu abbia in mente l’anarchico ottocentesco classico, piuttosto un anarchico moderno… in fondo è più una
battuta
che
altro,
ma
per
essere
un
anarchico,
cioè
un
rivoluzionario
individualista, per esempio nelle allucinazioni di … come si chiama?
VT – Manieri. D – Manca un elemento fondamentale, manca l’allucinazione sessuale. Questa è
stata una vostra scelta precisa?
VT – No, non è vero, non manca… c’è una sublimazione, che porta a una certa frustrazione sul piano sessuale, ma questo mi sembra che sia abbastanza detto nel film. PT – C’è una disponibilità ridotta, proprio perché non avere avuto figli, non avere donne… infatti lì viene fuori che lui va con delle prostitute e ne ha coscienza come anche forse di un proprio limite
e
di
uno
scotto
che
paga
per
una
sublimazione
della
propria vita in un’altra direzione. D – Appunto, ecco perché non è tanto anarchico, cioè gli manca una componente.
PT – Ma l’elemento anarchico non è nella struttura del film. D – La componente dell’anarchismo moderno gli manca insomma, e questo è ancora un po’ ottocentesco, un anarchico ottocentesco. D – Ma che significa “anarchico ottocentesco”? A me interessa il vivere… prendi la figura di Bakunin per esempio. Non era un individualista, al contrario, e quello che c’era di grandioso in lui era vivere la rivoluzione, mentre gli altri davano vita a dei prodotti, il professore scriveva, lo stesso Tolstoj faceva i suoi bei romanzi, invece lui la viveva, si inventava continuamente la rivoluzione. Ora in questo ci sarà pure un limite, però per me c’è anche una cosa grandiosa, che è questa capacità di inventare continuamente che è bellissima, e che ritrovo un po’ in Giulio. D – Avete già chiesto perché il film si chiama S. Michele aveva un gallo?
PT – S. Michele aveva un gallo è una filastrocca toscana. D – Voi siete toscani?
PT – Sì VT – Ce la cantava nostro babbo quando s’andava nel lettone da piccoli. PT – E nel film, quando all’inizio il bambino è chiuso in uno stanzino buio,
per farsi coraggio si aggancia a degli
elementi
infantili che lui ha in mano, perciò recita S. Michele aveva un gallo, come potrebbe dire Giro Giro tondo, cioè una cosa che conosce, che abbia un suo ritmo e che gli permetta di vincere la paura del buio. E poi quando lui è nella cella, si ritrova in una situazione
simile
a
quella
dell’infanzia
e
si
ricorda
questa
filastrocca, che diventa quasi uno strumento di violenza al buio e alla solitudine a cui lui si appella nei momenti in cui sente di perdere terreno, e allora di nuovo ripete questa S. Michele aveva
un gallo. D – Quindi è anche una reminiscenza della vostra infanzia.
PT – (ride) Eh be’ …sì. VT – I materiali sono quelli… D – Come Giulio aveva dieci anni di carcere a disposizione, e il gruppo dieci anni fuori. Siamo sempre nell’ambito dei materiali che uno ha a disposizione.
PT – Esatto. Così come la doppia porta della scena iniziale del film, che era in effetti in casa nostra. Quando hai delle idee poi ti accorgi che non le hai per caso. Pensi ecco qui mettiamo una doppia porta, e poi ti accorgi che fa parte della tua memoria. D – Così come nella scena in cui lui poteva perdere il passo perché si è inchinato, e dice a se stesso “dieci passi uguali, tutto va bene”.
PT – Sì…ti capita mai a te di saltare le mattonelle e dire “Se riesco a farle tutte, questa cosa mi va bene” … sono i totem di cui è costellata la quotidianità… Almeno la mia lo è. D – Sì anche la mia, giusto adesso mi è capitato al telefono… mi sono detta “se questo numero risulta occupato…” o “se è libero”… o cose del genere.
PT – Io non rispondo mai al telefono se non ha suonato almeno tre volte. Per noi fa parte del nostro repertorio infantile, e San Michele aveva un gallo è la canzone che almeno dove stavamo noi faceva
parte
dei
canti
del
paese,
e
in
casa
mia
si
sentiva
moltissimo.
(entra Edoardo Bruno) EB – Avete fatto già tutte le domande terribili, belle? A me il film è piaciuto moltissimo, per questo ieri ho detto che mi sarei astenuto, perché io lo vedo come un film molto libero, molto fantasioso, è una metafora di una follia politica bellissima. E
non
so
quanto
rispecchi
poi
le
vostre
intenzioni…
inoltre
a
me
è
piaciuta
moltissimo tutta la parte del carcere, che invece non credo sia piaciuta a tutti nella stessa misura… D – A Sebastian è piaciuta moltissimo…
PT – È l’idea del film, il film nasce da lì. EB – È la sua chiusura in questa follia che non è follia, che se vogliamo è una summa di ideologie. E poi il discorso sulla barca, i dialoghi sui massimi sistemi intorno alle possibilità o meno di una rivoluzione.
PT – A livello elementare però… EB – Però ambiguo, perché voi siete nostri contemporanei, e da qui nascono le dodicimila
implicazioni
che
avete
innescato.
Apparentemente
è
tutto
a
livello
didascalico, e a quel livello c’è il ragionamento che dieci anni dopo si vede che non ha portato a nulla. Però c’è la speranza dei giovani, la cui forza è nell’attesa del tempo massimo di una generazione. Ma noi siamo compresenti, e sappiamo che son passati altri 60 anni e che probabilmente quel discorso non porta a nulla…
VT – Infatti fra i molti politici che l’hanno visto alcuni,
di
tendenze diverse, comunisti ufficiali o meno, si domandano “ma in che barca siamo noi”… ed è vero!… EB – Sì certo per le scene della barca è così, ma se ci limitassimo a questo discorso stravolgeremmo il senso dell’operazione stilistica, che invece è la cosa che conta di più. Anzi mi sono detto “finalmente, voglio fare un discorso a tavolino quando sarà il momento”, perché ci siamo rincorsi per anni, ma non mi è mai capitato di trovare un film che mi piacesse tanto come questo. Ogni volta c’erano delle riserve, e questo mi dava fastidio perché non mi permetteva di fare un discorso franco con voi. Per esempio I fuorilegge del matrimonio, oppure…
VT
–
Su
quello
sono
d’accordo
assolutamente,
non
sullo
Scorpione. PT – Su quello non sono d’accordo nemmeno io. EB – Ma dello Scorpione io ne ho parlato abbastanza bene, non te lo ricordi?
VT – Eh be’, a me piace molto di più di quanto piace a te. EB – E sono d’accordo con te che io l’ho letto su un piano inferiore, però non sono d’accordo con le valutazioni degli amici francesi perché ancora non lo ritengo risolto, mentre qui è tutto risolto. Lo trovo più intenzionale, anche se molto più avanti dei Sovversivi da un punto di vista di linguaggio, di ricerca, di coerenza tra intenzione e realizzazione. C’era anche lì la stessa grande carica dei Sovversivi, però a mio parere si disperdeva in un’intenzionalità che andava al di là dei risultati, benché il discorso a livello di linguaggio filmico era enunciato. Voglio dire che voi a un certo punto avete optato per un cinema “muto”, ovvero per un cinema di gesti, per un cinema di sguardi, ma questa era un’operazione di testa che non era ancora risolta. Qui invece avete optato quanto volete, però il risultato è che è un film totalmente libero, che è totalmente invenzione, è tutto ciò che c’è a livello ideologico e linguistico, qui il significato è il significante. Questo non mi pareva che fosse in quell’altro, dove però c’erano delle intenzioni, c’era la volontà di fermare un discorso ai visi, alle immagini, c’erano tutte cose bellissime a livello di enunciato. A livello di realizzazione invece, alcune cose erano raggiunte e altre no, c’era però una volontà di essenzialità per cui avete tolto, asciugato; un’operazione intellettuale che è molto importante.
VT – Parla in te il critico, ma io non son d’accordo. EB – Grazie! Perché a te a questo livello, piace di più lo Scorpione.
VT
–
No,
è
che
noi
li
si
considera
molto
simili,
entrambi
musicali. PT – Uno corale e uno un assolo, ma praticamente simili. EB – Ho capito. E gli altri cosa hanno detto? D – Questo è molto più bello. EB – Questo per me è un film esemplare. Non so se ognuno di loro ha le stesse opinioni, ma siccome in questi anni stiamo lottando proprio sul tema del cinema politico, noi diciamo che è politico non il film che trasmette un messaggio politico. Ma altri danno connotazioni diverse a ciò che è cinema politico. E questa diversa impostazione
c’è
sia
con
i
cubani,
che
magari
sono
più
sottili,
sia
con
certi
dell’America Latina ancora più sottili, fino allo sbracamento dei vari italiani che conosciamo perfettamente, e che non sostengono questo discorso. Ma dico che l’equivoco riguarda entrambi i filoni, uno in maniera meno vistosa, l’altro in maniera più vistosa. Per noi il cinema politico è intanto una politica già a priori, cioè prima della scelta è una politica di linguaggio, ovvero la scelta dei mezzi per tradurre un determinato discorso. Quindi è anche nella selezione del pubblico che si fa una determinata politica, che è politica consumistica quando opta per una larga udienza, quando questa non trasmette niente di nuovo ma assorbe cose già digerite. Un esempio è il poliziotto Volonté, che dice (imita l’accento siciliano) ‘agente Rosario, toglietevi
di
torno
questi…’;
faccio
ridere
tutti,
e
trasmetto
un
messaggio
comprensibile a una larga udienza. Ma questo è il tipo di cinema in cui la politica è a livello
della
forma,
mentre
quello
che
noi
sosteniamo
è
che
il
cinema
politico
determina la dinamica del film.
VT – Mi sembra che si vada chiarificando un po’ il discorso. Rimane la questione del successo dei film di Petri: io non ho niente
contro
i
suoi
film
in
se
stessi,
è
tutta
la
loro
strumentalizzazione che è pericolosa. EB – Però il secondo film di Petri è peggio ancora, è a livello di barzelletta. Petri per me è il simbolo del film falso, sia come film che come politica. Sono operazioni mistificanti. D – Anche nei vostri film precedenti, non so se per vostre ragioni, eravate più vincolati a un’impostazione ideologica; ma mi pare che dal Segno dello Scorpione, e in quest’ultimo soprattutto, abbiate fatto un salto di qualità.
PT – Il fatto è che noi viviamo in mezzo ad amici e a persone che operano
nella
politica,
–
più
o
meno
oggi
operano
tutti,
e
comunque è un interesse diffuso, prima lo era meno – e abbiamo vissuto sempre in questo tipo di ambiente, conosciamo questo tipo di umanità, più che altro. Allora accade che noi, quando pensiamo
la
storia,
questa
si
articola
sempre
in
un
certo
ambiente, con certi personaggi che si muovono nella politica, e quindi i nostri film parlano sempre di uomini che agiscono la
politica. Però da lì ad avere un significato ideologico da voler trasmettere,
il
passo
è
lunghissimo.
Cioè
per
noi
si
tratta
solamente di un dato narrativo, capisci, invece purtroppo quando parli di un comunista oggi, assume subito un altro significato. D – Si tratta di far combaciare perfettamente la parte artistica, perché se questa rimane su un piano inferiore si apre il problema, e io in questo film ci vedo una corrispondenza perfetta…
PT – D’accordo, io parlavo delle premesse, per cui a un certo punto ti trovi che parlando di certi personaggi nel campo della politica automaticamente assumono un significato. Ma noi non volevamo trasmettere questo.
EB
– Comunque il loro discorso, dall’Uomo da bruciare in poi, tutto sommato se
vogliamo da un punto di vista ideologico è sempre coerente, semmai ha trasferito l’idea su un piano filmico. Ora fino all’altro ieri, non fino a ieri, se il discorso su l’Uomo da bruciare lo si portava su questo livello di contenuto, il personaggio del sindacalista Carnevale era un personaggio sfaccettato in maniera non convenzionale, ed era già allora una rottura, ma era una rottura operata a livello contenutistico. E già produsse uno shock sui vari critici contenutistici di allora, più o meno ottusi, per aver individuato in una società una contraddizione. Quindi ecco gli elogi da parte del cinema
nuovo,
che
aveva
l’ambizione
di
essere
più
dirozzato
rispetto
a
quello
tradizionale. E poi a un certo punto il discorso è diventato più imperioso, per voi diventava più importante la ricerca della forma, però c’era ancora la questione della linea
ideologica
che
potesse
essere
rappresentata
a
livello
formale.
Non
era
il
contrario, cioè non era un’esigenza espressiva o di linguaggio che poi diventava per il vostro tramite anche un’esigenza ideologica. Era prima un’esigenza ideologica che diventava una ricerca di linguaggio, a mio parere. Da qui quelle punte bellissime dei Sovversivi come quel discorso immediato del venezuelano, che, secondo me è una delle
cose
più
memorabili.
Il
resto
francamente
non
lo
so,
erano
fatti
che
poi
diventavano privati, diventavano narrativi… Nota bene: Alcune domande hanno carattere retorico perché l’intervista era condotta dialogando. EB = Edoardo Bruno.
Estratti di presentazioni INCONTRI CON IL CINEMA ASIATICO Asiaticafilmmediale 2000-2015
Come, cosa e perché
Asiaticafilmmediale
è
un
progetto
ideato
e
patrocinato
dal-
l’Associazione Culturale Mnemosyne, realizzato con il contributo ed il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Dipartimento
dello
Spettacolo
e
con
le
professionalità
dell’Università degli Studi di Siena - Dipartimento di Scienza delle Comunicazioni. Asiaticafilmmediale nasce dal desiderio di creare una dialettica dinamica tra culture diverse e lontane tra loro, tra Yin e Yang. L’intreccio
tra
innovazioni
culture
sia
sul
invade
piano
un
pensiero
sociale
che
statico,
politico
stimolando
e
generando
manifestazioni di tolleranza che garantiscono la convivenza di filosofie,
religioni
inconciliabili.
Il
ed
attitudini
cinema
è
sociali
un’espressione
apparentemente
artistica
concentrata
sulla visione di forme politiche, sociali, conviviali, fantastiche, critiche, idealistiche del proprio ambiente vissuto. Portare queste visioni fuori dal paese di origine significa esporsi e confrontarsi con altre culture, significa vivere e far vivere questa dialettica dei contrasti all’interno di un equilibrio armonico. Ed
è
nell’ottica
del
raggiungimento
di
questo
equilibrio
armonico che Mnemosyne si propone di creare un terreno di incontro tra l’occidente e l’oriente sotto un duplice aspetto: un incontro “virtuale” con un portale omnicomprensivo, unico nel suo
genere,
sul
cinema
asiatico;
un
incontro
“fisico”
con
la
manifestazione “Incontri con il cinema asiatico”. Il portale, con la sua vastità di informazioni sul cinema asiatico (archivio onnicomprensivo e “luogo” di scambio) consente di dare
completezza
ed
interattiva
ed
esistente
all’interno
omogeneità
aggiornata, del
alla
di
accesso,
discontinuità
macrocosmo
e
in
vasta
“cinema
maniera differenza asiatico”,
realizzando una tipologia di scambio di informazioni unica nel suo genere. L’originalità di questa impostazione, infatti, consente di allargare
gli orizzonti dell’incontro “virtuale”, abbracciando tutti gli aspetti fondamentali delle società di quei paesi: dalla cinematografia alla politica, dalla cultura all’economia, dall’innovazione tecnologica alla ricerca universitaria. Sebastian Schadhauser
L’età
della
ragione
filosoficamente
è
spesso
coincisa
con
la
soppressione dei sogni della giovinezza. La
prima
edizione
di
asiaticafìlmmediale
si
proponeva
innocentemente un incontro tra l’oriente e l’occidente per scambi dialettici
di
culture,
costumi
e
innanzitutto
di
modi
di
fare
cinema. Con la cancellazione delle due Torri di New York e le bombe
sull’Afghanistan
si
è
trasformata
in
uno
scontro
che
supera la più perfida produzione di fiction cinematografica. Le immagini che sono state e vengono trasmesse via televisione “non sono cinema”. In varie occasioni si dice che i film sono spesso un incitamento al crimine per i giovani. Invece credo che il cinema esorcizzi la violenza perché la fa vivere senza esserlo. E come si è visto in televisione, la realtà supera di molto la finzione filmica. Alla base c’è un atto concreto: l’arte ha bisogno di costruire per sollecitare interessi e la cultura dell’informazione reale ha bisogno che si manifesti la distruzione per coinvolgere il suo pubblico. Due mondi, due scritture diverse, l’età della ragione e l’eterna giovinezza nell’utopia della finzione filmica dove dopo la scena l’uomo ucciso risuscita non per miracolo ma per volontà sua di attore
sublime.
distruzione
ci
Lo
stesso
vuole
un
accade
miracolo,
nel
mondo,
per
per
ricomporre
fermare il
set
la
cine-
matografico è sufficiente l’impegno del genio umano. Ciò che ci stupisce è il fatto che l’essere umano non usi lo stesso genio per fermare la violenza, ma accusa l’arte cinematografica di darne esempio.
“L’homo
faber
politico”
e
“l’homo
faber
cinematografico” non hanno lo stesso genio ispiratore? Perché il politico violenza,
ha e
sempre
ragione,
l’uomo
nel
e
con
e
per
cinematografare
essa
naufraga
nella
sempre
torto
ha
realizzando eterni sogni del nulla? Cosa, come e perché. L’asiaticafìlmmediale
è
uno
sguardo
alla
produzione
cinematografica verso una parte geografica della nostra terra che per molti e per molto tempo ancora non sarà facile da visitare per ragioni di lontananza e adesso anche per ragioni di conflitto in atto. Ma questo sguardo sullo schermo è sicuramente un viaggio alternativo per non essere sedentario nella propria conoscenza geografica europea.
Sebastian Schadhauser
Questa è la settima edizione: incontri con il cinema asiatico… Asiaticafilmmediale,
l’associazione
culturale
Mnemosyne
ha
tentato, come nelle precedenti edizioni di estendere la conoscenza di forme filmiche che vivono nell’ombra del grande circuito e di un area geografica vasta, ma poco conosciuta, che ha subito negli ultimi decenni grandi trasformazioni politiche, sociali, conflitti violenti. Si tratta di un area geografica che muta i suoi requisiti economici e forme ideologiche e religiose. Un area geografica che invade l’occidente e che da questo è invasa. Nei precedenti anni abbiamo proiettato molti documentari sui problemi del lavoro nei paesi asiatici, quest’ anno nel film “China Blue” di Micha X. Peled l’impressione che si riceve già dalle prime sequenze è che si passa da una situazione in apparenza idilliaca, ma sofferta, ad una esistenza squallida neo industriale. E ciò
senza
una
disoccupazione.
garanzia Tanto
sociale
meno
sulla
una
salute,
garanzia
pensione
di
e
retribuzione
adeguata. Nei vari documentari proiettati da Asiaticafilmmediale si può vedere quanta poca attenzione si presta nella lontana Asia ad
aspetti
ambientali,
quanta
poca
attenzione
ai
problemi
di
inquinamento. Nel
film
“Dombivli
inquadrature
su
una
Fast”
di
Nishikant
macchinetta
che
Kamat,
conta
le
dalle
prime
banconote,
realizziamo l’incessante accelerazione del ritmo della vita che non porta
alla
soluzione
dell’individuo canzone
e
dell’esistenza
metaforicamente
notturna
dei
viaggiatori”
sociale della di
ma
sua
alla
morte
coscienza.
Chapour
fisica
In
“La
Haghighat
la
poetica ci rivela un mondo dove il cielo è azzurro ovunque ma una
lettera
o
una
parola
mal
pronunciata
o
scambiata
ci
fa
perdere il luogo sotto questo cielo. Luogo che contiene il nostro passato e il nostro futuro. Non ci resta null’altro che cercarlo nell’infinito di un mare senza orizzonte. “Sogni” l’Iraq,
di
Mohammad
sollecita
un
Al-Daradji,
pensiero
più
candidato
generale,
nel
all’Oscar senso
che
per le
condizioni individuali sembrano apparire globalmente isolate a luoghi, momenti creati dalla licenziosità della letteratura e dal cinema, ma non come esempio del destino umano in generale. Al
contrario in “I sussurri degli dei” di Tasushi Omori la singolare esperienza del protagonista viene tratta da un pregiudizio diffuso sul comportamento di religiosi cattolici. Funge più da pretesto che
non
primario
da in
trascendenza
umana
contrapposizione
afferrabile
con
il
nel
conflitto
suo
istinto
innescato
dalla
censura morale, requisito di una evoluzione sociale. Ma vorrei proporre una riflessione più ampia che ha le sue radici nel vivere culturale in generale. Mentre
le
leggi
civili
pretendono
di
regolare
una
pacifica
convivenza tra esseri umani, le imposizioni religiose tendono più a controllare il comportamento intimo delle persone e questo crea
una
conflittualità
espressione
nei
nell’individuo
per
con
La
rapporti
gli
altri.
una
sua
cultura
e
libera la
sua
conoscenza aiuta a formare la tolleranza tra persone e spesso le imposizioni
religiose
bloccano
l’acquisizione
della
conoscenza.
Ciò non fanno le leggi laiche. Ma nulla ha da invidiare una legislazione
dettata
da
una
dominante
ideologia
che
produce
effetti simili a quelli religiosi, se esercitata come conduzione di uno
stato
abitato
da
esseri
umani
e
non
da
sudditi
(i
quali
dovrebbe essere una categoria lessicale della storia e non una realtà dei nostri tempi). Il
discorso
si
fa
poi
più
sottile
quando
si
tratta
delle
leggi
cosiddette “del mercato” e oggi giorno del “mercato globale”. Dove globale è l’espressione di numeri di nazioni, persone, esseri umani inglobati come fonte di guadagno e non rispettati come individui. Su i quotidiani si possono leggere frasi come: “…che ci vuole
tempo
per
i
diritti
umani…”
(ovviamente
espresse
da
politici). Ma da quando l’uomo si è scoperto, diciamo in maniera darwiniana come specie umana, sono passati milioni di anni e finora questo “umano” non è stato capace di darsi quel diritto “definito
umano”.
definizione
Nelle
dell’umano
pretese
la
religiose
situazione
non
– è
mistiche migliore.
della Anche
l’auto-definizione dell’essere umano non corrisponde poi con la realtà
del
comportamento
che
hanno
i
religiosi
con
ciò
che
volentieri predicano: il rispetto “del creato da Dio”. Il
diritto
religioso,
umano
sociale,
non
è
un
problema
culturale
ma
è
un
politico,
problema
ideologico,
della
umanità
stessa.
Evidentemente,
storiche
l’umanità
durante
non
si
è
tutte del
le
sue
tutto
fasi
evolutive
compresa.
e
Sembra
continuamente in conflitto con la propria specie che vede come ostacolo alla propria sopravvivenza, volendo ampliare confini del suo territorio, immaginato o preteso. Non come un partner nel percorso della vita in evoluzione. Non lo vede come abitante dello stesso pianeta e complementare alla sua capacità mentale e fattiva. Addirittura ancora oggi talvolta l’umanità comprende se stessa
come
risorsa
del
proprio
arricchimento
singolare
o
personale e lo fa senza rispetto per la natura e per l’uomo. Le parole
egemonia,
dominio,
guerra,
bomba,
fucile
sono
nel
dizionario dell’umanità contestate soltanto da una minoranza. Se ci fosse un vero progresso nella comprensione dell’essere umano queste
parole
sarebbero
nel
dizionario
soltanto
per
l’analisi
dell’etimo. L’umano ha sviluppato il tabù dell’incesto ma non della
sottomissione
economico
attiva
industriale
e
passiva.
tecnologico
Il
recente
progresso
dell’occidente
è
stato
conquistato in grande parte con la sospensione dei diritti umani. Le
catene
di
montaggio
sono
diventate
il
simbolo
dei
tempi
moderni e così via. L’Oriente ha acquisito questi modelli con la sospensione dei diritti umani e sta superando con essi il progresso dell’occidente. E non in una misura ridotta l’Occidente aiuta l’Oriente a importare questi modelli. Questo paradosso resiste alle
filosofie
proclamate
tramandate
dalle
per
istituzioni
secoli,
resiste
internazionali
per
alle i
intenzioni
diritti
umani,
resiste alle testimonianze culturali create dall’umano, resiste ai credenti in Dio e ai profeti di Dio e resiste alla logica che è praticamente osservabile quando si vedono distrutti con il lampo di una bomba emblemi culturali per cui l’umano ha speso secoli per costruirli. Ma resiste anche quando l’umano stesso viene in massa ucciso e così i suoi pensieri, i suoi amori, i suoi sogni, il suo futuro; e la sua identità fa posto ad un domani senza di lui e di tutto ciò che era. Dall’inizio dei tempi dell’essere umano egli ha cominciato a definirsi come barbaro o civile, come cattivo o buono, come credente o miscredente, come suddito o regnante. Questo modo di comprendersi come categoria e non come essere umano ha fatto si che egli si sia intrappolato in una prigione di blocchi
che
si
confrontano
in
infiniti
conflitti
perché
non
è
praticamente più capace di ridursi alla sua essenza umana. Una delle vie da percorrere per trovare l’umanità nell’umano è la via della
conoscenza,
manifestazioni
nelle
culture,
artistiche,
nelle
nel
pensiero
scritture
filosofico, letterarie,
nelle nelle
manifestazione visive di cui fa parte il cinema. Nella
sua
storia,
l’umano
non
ha
mai
compreso
come
atto
culturale le guerre, la distruzione, il conflitto violento, ma ha compreso la cultura come forma evolutiva ed etica nei filosofi, negli scrittori, nelle opere artistiche, nel suo operato artigianale e fattivo. Ma purtroppo ha ceduto la sua maggiore energia nelle costruzioni ideologiche, religiose, guerresche e con tutte le sue conquiste di conoscenza fino ad oggi non è riuscito, per questa dispersione di energia, a spezzare questo infido paradosso. Buona visione dei film. Sebastian Schadhauser
Il
simbolismo
religioni,
o
simboli
credenze,
come
istituzioni
e
rappresentanza
semplice
marchi
di
Nazioni,
di
industrie
includono valori spesso molto astratti o, nel caso delle industrie, valori commerciali da difendere. Il passaggio da simbolo a valore etico
come
capacità
di
quando
si
eccitare
tratta
forti
di
religione
emozioni
al
è
molto
limite
del
legato
alla
fanatismo.
Il
simbolo legato al riconoscimento delle Nazioni è legato a valori semplici riconoscitivi, o almeno cosi dovrebbe essere. Attribuire a questi simboli un valore etico, o un valore assoluto intoccabile, lede in fondo il diritto dell’umanità di sentirsi rappresentata o non
rappresentata,
perché
questo
costruisce
confini
che
sono
politici ma non di un’umanità globale. La cultura è per definizione un’evoluzione del genere umano e non della politica. La cultura
non
ha
cittadinanza
se
non
nella
capacità
del
genere
umano di esprimersi in tutte le sue forme. Il caso recente della pretesa della Repubblica Popolare della Cina di togliere la bandiera di Taiwan dalla Mostra di Venezia è perciò un sopruso. Ma l’errore è della dirigenza della mostra cinematografica
di
Venezia
che
fa
la
mostra
con
l’ausilio
di
simboli nazionali, e non sotto l’emblema, non espresso di un simbolo,
ma
nell’atto
concreto
di
ciò
che
rappresenta:
cioè
cultura senza confini politici. La cultura è anche un atto politico ma non una espressione dei simboli politici. Sembra però che non si possa fare cultura senza aggregarsi a partiti politici e agire culturalmente corrente
senza
politica
l’ausilio
prevalente
della e
bandiera
questo
virtuale
anche
in
di
una
una così
democratica Europa. La
democrazia
in
se
è
interessante
ma
oggi
è
diventata
l’emblema politico da democrazia socialista a democrazia liberale. Come ogni forma politica è anacronistica rispetto alla coscienza e conoscenza
dell’uomo.
“homocrazia”
dato
Oggi
che
semmai
l’uomo
è
si
dovrebbe
l’unico
essere
parlare in
di
grado
d’influenzare con la sua tecnologia l’assetto di questa terra nei suoi equilibri naturali e sociali (esclusi
i
microorganismi).
La
politica opta con pensieri filosofici sulla storia dell’uomo e lo fa cittadino, popolo, seguace, cristiano, comunista ecc. allo scopo di gestirlo come tale ignorando spesso la sua essenza che è in prima
linea uomo con diritti che vanno al di là dell’essere cittadino. La politica priva l’uomo della sua autodeterminazione e lo include primariamente nel suo ruolo di essere animale sociale con diritti circoscritti
da
ordinamenti,
situazioni
nazionali,
geografiche,
religiose e altro ma non globalmente umano. Se non fosse così a che servirebbe una corte per i diritti umani? I diritti umani sono un aspetto molto controverso perché sono un paradosso nel senso che l’umano applica a se stesso dei diritti che sono impliciti nel suo essere e ne fa un atto come se fosse applicato a un’altra specie. Nell’ottava
edizione
degli
“incontri
con
il
cinema
asiatico”
presentiamo un documentario sulla Birmania e l’autore di questo documentario afferma che l’ottanta per cento dell’introito delle risorse
naturali
della
Birmania
viene
dal
governo
usato
in
armamenti per i militari. Viene spontaneo chiedersi che cosa faccia l’Afganistan con gli introiti del traffico dell’oppio, l’Iran con gli introiti del petrolio, i governi africani con gli introiti dei diamanti, dell’uranio, del petrolio e di altre risorse naturali, la Somalia con il petrolio, la Russia con le sue immensi risorse naturali e in cosa vengano convertiti introiti che derivano dai grandi monopoli petroliferi, diamanti, e cosi via, visto che in questi
paesi
esiste
quello
che
si
chiama
la
“fame
del
terzo
mondo”. Effettivamente cosa ne è dei guadagni dei monopoli farmaceutici?
Nel
passato
si
è
avuta
la
rivoluzione
contro
la
monarchia, si è scesi in piazza contro le guerre, ma si è mai pensato
che
le
risorse
naturali
sono
dell’umanità
e
non
dei
monopoli globalizzati? Si dice che la rosa è una rosa, una rosa, una rosa, ma i film non sono sempre un film, come la cultura non è sempre cultura. Un fucile esprime un periodo tecnologico come
la
fionda
il
dell’insegnamento fucile
esprime
suo.
Saper
culturale.
cultura
o
distinguere
È
non
dunque piuttosto
i
lecito la
periodi
fa
parte
domandarsi:
criminalità
un
umana?
Perché trasformare l’ottanta per cento delle risorse naturali in fucili mentre la maggior parte della popolazione soffre la fame, non ha cure mediche, e deve vivere nel fango? Questo è un crimine. In un paese con delle legislazioni civili chi si fa complice di un crimine viene condannato. Sebastian Schadhauser
Questa è la decima edizione di Asiaticafilmmediale, incontri con
il
cinema
asiatico.
Gli
anniversari
si
prestano
bene
a
riflessioni sul proprio operato, non ai bilanci, cioè a tirare le somme del dare e avere. La riflessione è qualcosa come alzare gli occhi, guardare le nuvole, aspettare l’ispirazione che porta con sé la
memoria
del
tempo
trascorso.
Gli
incontri
con
il
cinema
asiatico erano una Intenzione che in questi anni si è in parte concretizzata
nelle
sale
dove
abbiamo
proiettato
film
e
documentari provenienti da quell’area geografica ma che, in un certo senso, non ha oltrepassato lo spazio delle proiezioni e non ha ancora dato vita ad un dialogo più vasto. La reciprocità del dialogo
ha
continuato
documentario.
Quel
ad
orbitare
vasto
intorno
universo
di
al
singolo
immagini
e
film
storie
o
del
cinema asiatico è rimasto lì a farsi ammirare, come le stelle nel firmamento
notturno.
Quell’Intenzione
di
costruire
Asiaticafilmmediale un ponte tra lontane concezioni
con
religiose,
politiche, sentimentali, intellettuali, tra conoscenze e approcci filosofici, rimaneva in un circuito stretto interpersonale legato al singolo evento di ogni film o documentario proiettato. Ad est come ad ovest, da una parte e dall’altra, è stata percepita l’iniziativa come una delle tante iniziative culturali, come un evento
stagionale
qualche interesse, progetto
da
a
cui
si
poteva
della curiosità e
molti
condiviso
e
partecipare anche per
sentito
per
soddisfare
far parte di
come
un
un’importante
Intenzione, sempre latente, come il sogno prima del risveglio. Forse, non si è fatto nulla per far partecipare lo spettatore, il pubblico,
a
questo
sogno.
I
film
sono
un’arte
per
realizzare
l’immaginario, ricostruire delle realtà, per dare ad esse un punto di
vista
morale,
etico
con
la
propria
capacità
espressiva,
ma
singolare, nella quale lo spettatore può o non può riconoscere affinità con la sua esperienza di vita o con interpretazioni del suo mondo conoscitivo, del suo sentire, del suo rifiuto. Nel buio della sala lo spettatore è solo con tanti altri spettatori ad
accrescere
la
sua
opinione
sul
film
o
sul
documentario
proiettato. Questa opinione può poi dividerla con tanti o con pochi,
dopo
opinione,
la
nata
proiezione, nelle
sale
ma
di
soltanto
in
pochi
Asiaticafilmmediale
casi
ha
questa
varcato
i
confini ed è stata percepita anche nel paese da dove veniva il film o il documentario. Causa la barriera linguistica o l’inadeguatezza dei
mezzi
di
comunicazione,
questa
ulteriore
possibilità
di
dialogo è rimasta sospesa. Lo
sforzo
necessario
a
rendere
questa
possibilità
di
comunicazione realizzabile si presenta tutt’oggi troppo gravoso per le capacità di Asiaticafilmmediale. La mancata realizzazione di parte dell’Intenzione iniziale ha generato un’altra conseguenza. Tra i due emisferi culturali si creava un dialogo filtrato da quella Asiaticafilmmediale che faceva passare i film e i documentari da una forma di civiltà ad un’altra, ma l’effetto di questi film e documentari sul pubblico è stato rilevato soltanto attraverso il riconoscimento del gradimento, l’assegnazione di un premio del pubblico
e
attraverso
l’iniziativa
di
quegli
autori,
produttori,
interpreti, attrici e attori che al loro rientro nel loro paese hanno comunicato l’esperienza fatta con il pubblico, qui in Italia. In definitiva
però,
Il
risalto
che
i
“media”
italiani
davano
agli
incontri con il cinema asiatico non produceva pari effetto nei paesi di origine dei film e dei documentari
proiettati. Per
la
stampa estera, Asiaticafilmmediale è sempre rimasto un evento italiano o in qualche caso addirittura soltanto romano. Nei paesi asiatici non si è sviluppata in questi dieci anni una manifestazione analoga ad incontri con il cinema asiatico, alias un
“incontri
con
caratteristiche bene
il
il
della
cinema
cinema
nostra.
I
occidentale,
dell’occidente”,
paesi ma
i
dell’Asia film
non
con
le
stesse
conoscono
molto
supportati
da
un
minimo di distribuzione difficilmente raggiungono lo spettatore dell’emisfero mediale
ha
asiatico. reso
Ed
è
possibile:
proprio vedere
questo film
che
che
Asiaticafilm-
altrimenti
non
sarebbero mai stati proiettati in occidente. Non accade lo stesso in Cina, Giappone, Corea, India ecc.. È difficile immaginare una società
che
non
comprenda
la
scienza,
la
politica,
l’arte,
la
religione e le basilari regole di convivenza, forgiate dall’etica e dalla morale in quel particolare arco temporale in cui la società si è strutturata. Le immagine dei disegni preistorici, delle pitture rupestri,
hanno
superamento
dei
svolto
un
confini
compito
culturali
in
nella cui
diffusione si
e
movevano
nel gli
agglomerati
umani
di
quel
lontano
momento
della
storia
dell’uomo. Oggi l’immagine filmica occupa una parte rilevante dei compiti della diffusione e della affermazione di ogni cultura, affianco alla parola scritta e ad altre espressioni divulgative, per fissare il momento epocale nel suo insieme, superare i confini e restare testimonianza per i posteri. Ma i film poco distribuiti non possono quasi mai partecipare a quest’ampio processo e tanto meno incidere sulla formazione di una
visione
equilibrata
delle
culture
del
nostro
tempo.
Una
ragione fondamentale del perché questo accada, è da cercarsi nello “star system” di Hollywood. L’attenzione che i media danno a questo fenomeno è in netto contrasto con il valore delle opere filmiche artistiche riprese soltanto da riviste di critica, con un effetto molto marginale. Tutto questo è facilmente riconducibile ad
interessi
economici,
ma
non
ad
interessi
artistici
che
dal
nostro punto di vista etico dovrebbero formare lo stato espressivo della cultura di una società. D’altronde, lo stato economico di una società si può esprimere politicamente in tanti altri campi. Quando
la
forma
coincidono, monetaria,
culturale
si
crea
che
porta
una al
e
la
forma
società
politico-economica
culturale
conseguente
aumento
esclusivamente e
sviluppo
di
conflitti per il dominio economico. Nell’arte non c’è dominio, ma
confronto
comprensioni
espressivo, filosofiche,
comunicazione
del
divulgazione delle
sentimento,
dell’immaginario,
interpretazioni
del
dell’informazione
reale, su
delle della
popoli
e
natura, su speranze e delusioni. Nell’arte, c’è l’umano nella sua essenza e non nel suo valore monetario. I film, insieme ad altre forme artistiche, esprimono questo. Le politiche economiche del nostro tempo non riservano più uno spazio riconoscente a queste realtà espressive. Il film è l’arte delle generazioni del secolo scorso, una forte espressione del novecento che si protrae, subendo con il digitale una
trasformazione
tutta
da
comprendere.
Il
film
è
per
l’inclusione nella realizzazione, un’arte quasi collettiva. Per questo è tra le arti la forma più sociale. Ma l’evoluzione dell’idea di sociale ha in sé molti aspetti interessanti da indagare. Uno di questi aspetti è, per così dire, l’abolizione dell’umanità. L’umanità
esiste
in
quanto
ha
una
funzione
sociale.
L’individuo
umano
acquista valore soltanto nella sua funzione sociale. Per questo è stato necessario ricorrere alla stipula di carte dei “diritti umani”, proprio come di convenzioni per la protezione degli animali in fase d’estinzione. Il culto della persona che si è formato nei secoli è rivolto solo a persone eccezionali, nel “bene e nel male”. L’idea del “bene e male” è legata al momento storico sociale, ma anche all’eccezione
del
momento
transitorio,
delle
mode.
Un
Che
Guevara potrebbe essere definito un eroe o anche un terrorista, come lo ha chiamato una trasmissione di Canale 4. Al momento storico si contrappone il momento di moda. Nei film, visti come una espressione compatta, ho la sensazione che si tenti di estrarre l’individuo dalla sua cornice sociale per dargli un volto umano, quasi
come
per
contraddire
l’esistenza
sociale,
trasferendo
i
personaggi in un mondo immaginario dove gli aspetti sociali sono, per ragioni drammaturgiche, resi in prestito al reale. Così,
un’arte
sostanzialmente
sociale
riconduce
il
sociale
all’umano e la realtà si rivela attraverso questi film come l’aspetto più
disumano.
La
selezione
dei
film
e
dei
documentari
che
Asiaticafilmmediale ha operato in questi anni rispecchia a pieno questo
fattore
del
racconto
filmico.
In
questo,
Asiatica
film-
mediale si distingue da altre manifestazioni che hanno messo al centro delle loro attività il tappeto rosso mediatico dell’evento e perciò il culto della persona, la funzione sociale ma non quella umana. La società nella sua evoluzione ha sviluppato sempre di più
il
bisogno
di
rappresentare
l’immagine
del
valore
sociale
abbandonando i valori empirici dell’essere umano. Nella società l’uomo non si comprende più come un essere umano, ma come un automa sociale e si comprende soltanto come entità religiosa, mediatica, politica, economica, scientifica, di una classe 0 di una casta. In questi dieci anni di Asiaticafilmmediale, durante i nostri incontri con il cinema asiatico si potevano percepire tante voci nei corridoi del cinema, riflessioni tra gli spettatori, ma i media non sono riusciti a cogliere queste voci e a riproporle. I media sono
una
espressione
sociale,
ma
oggi
non
sono
in
grado
di
percepire l’importanza di un film, perché si concentrano troppo sul cinema come luogo di evento mediatico e poco sul film, men
che meno sui film che non rappresentano altro che una vera posizione etica dell’essere umano. Sebastian Schadhauser
La concentrazione morale su se stessi (cioè l’essere responsabile del
proprio operare con la propria coscienza) si può
come
il
ritiro
nel
privato
e
l’abbandono
definire
dell’operare
per
il
collettivo sociale. Si fa una scelta tra il valore collettivo e quello individuale. diversità
La
Cina
etniche
e
ha
un
pensiero
collettivo
sociale,
filosofico,
molto
per
numeri,
esteso.
Non
aggiungo religioso, per non introdurre un punto controverso: in quanto la dottrina “comunista in Cina” considera la religione come un bisogno umano, a ragione o torto, obsoleto. E questo non significa l’assenza di una presenza religiosa ma significa una diversa
concezione
culturale
del
bisogno
che
l’individuo
deve
avere o vuole nelle sue partecipazioni sociali e spirituali. La Cina, come espressione governativa politico-culturale, non è ripiegata su se stessa ed è certamente espansionista. La Cina fa conoscere la sua
millenaria
cultura
attraverso
i
Centri
Confucio
che
sono
sparsi in grande parte del mondo, con oltre trecento presenze. Solo
in
Italia
esistono
più
di
dieci
centri.
Il
tema
della
propaganda nel cinema o diciamo nelle espressioni, creazioni di immagini
filmate
in
“Incontri
con
cinema
riflessione
che
il
tracci
pubblicitario,
Cina
le
che
presentiamo
asiatico”
affinità
tra
indottrinamento,
offre
quest’anno
una
propaganda, messaggio
negli
possibilità
di
suggerimento subliminale,
disinformazione e comunicazione attraverso le immagini filmate. L’affinità
è
nella
forma,
nella
capacità
creativo-espressiva.
La
differenza è che la pubblicità stimola desideri, promette attraverso l’acquisto di un prodotto un aumento del benessere fisicosociale,
una
valorizzazione
estetica,
qualitativa
della
propria
immagine. La propaganda pretende la sottomissione della propria essenza
a
valori
altrui.
La
pubblicità
intende
produrre
l’uniformarsi a modelli altrui e la propaganda il sottomettersi a questi. Colui che subisce la propaganda paga il benessere di colui che rincorre la pubblicità. La propaganda è un atteggiamento usato non soltanto da sistemi governativi ma anche dall’industria e
da
altre
istituzioni
di
concentrazione
finanziaria,
religiosa,
ideologica che devono o vogliono divulgare messaggi a proprio favore. Anche nel privato si ricorre alle immagini per diffondere il proprio apparire in maniera più favorevole.
Nei
filmati
esiste
un
punto
di
vista
verso
il
filmato.
Cioè
l’elemento guida del mezzo macchina da presa, della telecamera e della fotocamera. Analogamente prendo anch’io una posizione per parlare di propaganda. Per questo, il mio testo non è un assoluto ma soltanto una mia posizione che non corrisponde per volontà a quella di Asiaticafilmmediale. Asiaticafilmmediale fa conoscere, nel limite del possibile, filmati, foto e testi e non esprime un punto di vista, tranne quello di voler espandere un dialogo
culturale
tematica
e
sulle
forma
molteplici
filmica
e
di
forme
dell’immagine,
espressioni
connesse
della
come
la
scrittura e la fotografia. La propaganda come la pubblicità, con i mezzi di diffusione di oggi è un’intrusione nel privato molto violenta
perché
l’occhio,
l’orecchio
le
incontra
ovunque.
Per
strada, in televisione a casa, nella sala cinematografica, nei mezzi pubblici, nei mercati e supermercati, su auto private e taxi, come adesivi
su
biciclette,
abbigliamento,
come
nell’intimo
scrittura
su
toilette,
nelle
delle
magliette riviste
e
di nei
giornali, in internet e nella posta privata, sul parabrezza della propria macchina e in tutti i posti dedicati ad altro, come i centri sportivi e sulle bandiere trainate da piccoli aerei. I testi, i suoni e le immagini, con le loro onnipresenze, sono così massicce che offuscano
talmente
la
mente
da
rendere
difficile
fuggire
nel
proprio giudizio personale. Prima o poi, si crea una mescolanza del proprio pensiero con quello ricevuto dai messaggi che immagazziniamo durante le attività della vita, che si compie giorno per giorno, ora per ora, stagione per stagione con ritmi frenetici o rilassati in contemplazione, dovuti e voluti. La cernita del privato dall’essere pubblico, sociale e molto difficile perché l’uno è spesso in funzione dell’altro. Per questo l’individuo è anche cittadino che può diventare un essere in rivolta quando suo malgrado i suoi obblighi
sovrastano
mettendo
a
le
sue
repentaglio
capacità
la
di
inibizione
una
adeguata
che
lo
risposta
difende.
La
propaganda compie questa funzione con l’intento di rafforzare l’inibizione e allineare l’individuo in una direzione comunitaria, funzionale.
Scopi
l’astrazione
non
composta
da
che
ha
la
propaganda
volontà)
persone,
e
che
che
le
sono
si
prefigge
persone
artefici
o
della
le
(dato
che
istituzioni
propaganda,
predichino. La propaganda nel suo contenuto è spesso di dubbio
valore
nel
rispetto
individuale, espressione contenuto
ma
di
ciò
gode
che
vogliamo,
sia
nella
sua
forma
artistico-estetica
che
contrasta
messaggistica.
Il
contenuto
non
la di
il
del
vita
etica
rado
suo
di
o
una
condensato
messaggio
rivela
la
richiesta all’obbligo di una dottrina ideologica. Talvolta è difficile far coincidere con i bisogni primari di una persona che lotta per il
suo benessere di salute fisico e psichico, il
suo
fabbisogno
economico e le sue relazioni sentimentali, non ultimo, le sue aspirazioni
a
relazionarsi
socialmente
in
maniera
di
essere
riconosciuto nella sua unicità. (Mi chiedo, si possono relazionare circa
250.000
propagandistica
suicidi della
in
Cina
dottrina
di
all’anno Stato?
a
una
“Servire
diffusione il
popolo”,
questo non diventa un eufemismo per dire: tu devi essere servo a ciò che ti viene chiesto dallo Stato senza pretendere un “feedback”? E mi chiedo se questo essere servo dello stato non crea una sofferenza psichica. Si calcola che sono circa 170 milioni cinesi che hanno disturbi psichici. Questo interrogazione si espande in ogni caso ad altre nazioni. Prendo la Cina soltanto in prestito per il ragionamento. Mi chiedo se lo stress di avere un volto umano e più grande dello stress di corrispondere alla dottrina dello stato. La richiesta del 1979 fatta dal governo in Cina di concepire soltanto un figlio per famiglia ha questo volto umano? Avere un successo
sociale
ad
ogni
costo
è
una
aspirazione
umana
o
è
soltanto un modello dell’indottrinamento sociale? C’è sicuro un connubio tra propaganda e pubblicità che si integrano con scopi diversi
ma
obbligato
a
ottengano
lo
corrispondere
stesso al
risultato.
modello
L’individuo
proposto.
si
sente
Questo
non
spacca il cuore, l’anima della persona in due parti? Una parte si sente obbligata e un’altra è in conflitto con le proprie risorse di forza e capacità. Chiedere a un miliardo e trecento milioni di persone di rincorrere un unico modello non è disumano? La propaganda
non
è
differenziata
per
ogni
individuo.
La
propaganda e rivolta a tutti e la pubblicità e rivolta a fasce sociali, estrazioni sociali, di vari gusti, interessi e aspirazioni perché il prodotto da vendere è differenziato. La propaganda non tiene conto
della
differenza
delle
persone
e
pretende
l’unicità
nel
modello proposto. La pubblicità suggerisce invece che si diventa unico
acquistando
il
prodotto
reclamato.
La
presenza
della
pubblicità
e
della
propaganda
in
contemporanea
crea
nell’individuo un conflitto perché il modello della propaganda include
la
rinuncia
e
il
modello
della
pubblicità
spinge
al
possesso. Da una parte l’educazione patriottica. Dall’altra parte lo standard economico di altre nazioni e i prodotti di importazione inclusi
comportamenti
culturali.
In
questo
periodo
è
passata
l’informazione che si devono salvare le banche e ciò per salvare l’economia.
Questo
l’informazione.
Non
è
una
significa
coincidenza altro
che
di il
propaganda
trasferimento
con delle
risorse del ceto socialmente povero verso il ceto socialmente ultra ricco. Una
massiccia
informazione
presenza
di
tendenziosa
propaganda
deforma
la
combinata
democrazia.
con
La
una
società
civile subisce uno squilibrio economico e di conseguenza una parte
di
cittadini
viene
defraudato
nella
sua
autonomia,
ciò
impedisce che l’umano si realizzi come un essere sociale. Non subire la propaganda e non essere attirato dalla pubblicità rende l’umano un essere in rivolta. I signori della propaganda credono che soltanto il cittadino che li ascolta è un buon suddito. Al suddito rimane allora nient’altro che la fuga nel privato perché la propaganda ha rafforzato l’inibizione a tale punto che la rivolta gli si rivela anacronistica e la democrazia propaganda. Sebastian Schadhauser
Generalmente non importa perché le “cose” siano. È sufficiente che le cose ci sono e che sono come sono. Il “perché“ porta nella sfera
metafisica.
Pensando
in
astratto,
i
film
sono
come
una
apparizione, pensando metaforicamente, tra la fisica della luce e l’illusione di una presenza irreale, di personaggi, ambienti scenici, paesaggi fotografati in tempi passati. Non più esistenti cosi come visti, parole udite, spesso non dette dalle persone che appaiano sullo
schermo,
caratteristiche
ma
appiccicate
umane
differenti
da
doppiatori
dall’attore
che
che
recita
hanno o
dalla
persona che viene documentata. Domande, sollecitazioni che il documentarista
fa
muovendo
qua
e
la
le
persone
da
documentare. In Passion di Byamba Sakhya le parole sono come fiocchi di neve al vento destinati a scomparire con le stagioni, non di primavera, ma della politica. Sono come i film che non sono adeguati ai tempi nuovi. Ci si domanda quali siano i tempi per un autore che si legano a ciò che esprime e non a ciò che gli si chiede di esprimere. Un film, un documentario è un collante tra individuo creativo e società in cui vive. La società è fatta di esseri umani differenti l’uno dall’altro, con pensieri, sentimenti, bisogni, idee, comprensioni del reale e dell’irreale. La sintesi di tutto ciò fa la società. L’espressione singola crea la comunicazione nella società. La soppressione della singola espressione crea un conflitto. La dominazione di una singola espressione sulle altre manifestazioni
dell’essere
umano
porta
alla
distruzione
della
cultura della comunicazione e, non raro, all’eliminazione fisica dell’essere umano. Se non questo, alla distruzione dell’operato del singolo.
Asiaticafilmmediale
tenta
di
ancorare
la
singola
espressione nel tempo indipendentemente dal suo contributo ai tempi
nuovi,
alle
richieste
politiche,
economiche,
ai
gusti
propagandati, alle imposizioni di mercato e ai valori “artistici”. Il valore artistico e l’espressione artistica sono aspetti difficili da interpretare
e
da
definire
in
assoluto.
Mentre
il
diritto
alla
creatività dovrebbe avere una prerogativa ad “essere” che si deve sostenere in una qualsiasi società. Ma non è cosi! Gli ostacoli sono multipli. Un primo punto di ostacolo è quello economico che è sostenuto dalle idee politiche. In una costruzione politica democratica
la
libera
diffusione
creativa
è
ostacolata
dalla
restrizione economica perché questa è una forma di censura che
non chiede un bavaglio aperto e consente l’alibi della difficoltà che il bilancio dello Stato attraversa e il sacrificio che tutti i cittadini devono fare, compresi quelli creativi. È un argomento a cui nessun cittadino si può sottrarre. Il
passaggio
da
una
economia
produttiva
ad
una
economia
finanziaria ha offuscato il controllo della società civile sulla reale situazione del bilancio dello Stato. Non è la singola Nazione che controlla la sua economia ma la finanza globale. Una finanza globale ha interessi diversi dalla cultura sociale di una Nazione. Uno Stato deve la sua struttura alla presenza delle sue etnie, alla sua evoluzione storica, religiosa, alla sua capacità produttiva e inventiva, su una visione collettiva di aggregazione tra singoli e gruppi ideologici, al suo interesse comunicativo con altre Nazioni e alla sua espansione commerciale e culturale. Il film Black Blood di
Miaoyan
Zhang
comunica
una
sensazione
atroce.
Per
soddisfare un standard sociale (per non essere più sotto il minimo di sopravvivenza) il padre di famiglia vende il suo sangue. Il film The
old
donkey
intraprende
un
di
Li
lavoro
Ruijun
racconta
ciclopico
di
(relativo
un
alle
vecchio
sue
che
forze)
per
proteggere la tomba dei suoi antenati da una duna di sabbia che altrimenti seppellirà la sua memoria. Ma si deve anche difendere da una sorta di esproprio della sua terra che ha dato da mangiare a
lui
e
a
tante
generazioni
prima
di
lui.
Sono
due
film
emblematici per spiegare che in tempi diversi la società chiede un modo diverso per procurarsi il necessario per vivere. Uno deve sacrificare il sangue e l’altro la terra. Uno muore moralmente e l’altro
fisicamente.
ventunesimo finanza
La
secolo
globale.
è
conclusione la
Non
morte
è
che
il
cambiamento
dell’individuo
vediamo
in
una
a
favore
“struttura
del
della
sociale”
l’integrazione dell’essere umano ma la sua denigrazione verso una “struttura virtuale” che il cinema sa creare come illusione, come finzione prospettando mondi non reali per soddisfare spettatori in
cerca
di
emozioni
al
di
fuori
del
quotidiano.
Quasi
si
è
rovesciato il compito, la realtà di questa terra mostra le vere o false assomiglianze della finzione e i film proiettano la vera realtà del ventunesimo secolo. La finanza globale uccide la reale cultura a favore di una cultura virtuale. Il disastro è che la finanza globale è concreta nei suoi effetti. La partecipazione a proiezioni di film è
una
espansione
emozioni”che
del
le
proprio
sapere
tematiche
dei
oltre film
a
“il
percepire
propongono.
le
Ogni
partecipazione a eventi artistici culturali e mostre d’arte sollecita in noi domande, giudizi. La partecipazione aiuta a non essere indifferenti a ciò che accade intorno a noi, essere attivi in una società che noi stessi possiamo plasmare con criteri che riflettano non
solo
i
suoi
aspetti
estetici.
Pretendere
che
le
espressioni
basilari delle manifestazioni culturali non vengano distrutti da una politica incapace come accade adesso in Europa. Attraverso la crisi economica presente tentano, come pretesto, di soffocare la cultura perché è l’unica comunicazione capace ad illuminare la mente di fronte alla massiccia disinformazione di tutte i media che subiscono il ricatto della finanza globale. Istituzioni come la Banca Centrale Europea agiscono contro il loro statuto che proibisce di comprare debiti delle Nazioni. Il cittadino
che
lavora
e
perciò
crea
una
economia
reale
è
il
bersaglio da mungere. Le persone che governano sono il mezzo con cui la finanza globale prosciuga la linfa vitale dei cittadini. Le persone che sono state elette per salvaguardare gli interessi dei cittadini
della
incrementare
i
loro
Nazione
guadagni
trasferiscono
della
finanza
questa
globale.
linfa
In
un
per
docu-
mentario cinese un anziano scriveva una frase sulla busta di una lettera (cito a memoria): se non
sei
pronto a ricevere questa
lettera allora non leggerla. Interpretando questa frase si può dire che anche se non si conosce il contenuto di ciò che uno si accinge a
guardare
si
deve
aver
aperta
la
mente
e
non
avere
dei
preconcetti. Non rifiutare a priori. Nella televisione possiamo vedere una Cina piena di luce e grattacieli, gravida di “progresso” e in alcuni documentari una Cina rurale del ventunesimo secolo desolata.
Umani,
con
una
disperazione,
dentro
uno
squallido
ambiente. Noi, per esempio, potevamo leggere su “Il Giornale” che
lo
sciopero
del
6
Settembre
era
stato
un
flop
mentre
si
potevano vedere le strade e piazze occupate dagli scioperanti. Una è la costruzione del reale e l’altro è il reale. La finzione del cinema è la costruzione del reale e il documento filmico può essere la ricostruzione del reale. Siamo noi a scegliere di distinguere tra l’uno
e
l’altro.
Siamo
noi
a
distinguere
se
siamo
tassati
per
estinguere il debito del nostro Paese o incrementare il guadagnò
della finanza globale. Se vogliamo estinguere il debito del nostro paese allora dobbiamo incrementare le garanzie per poter lavorare e aumentare l’accesso alla cultura. I film sono una parte di questa cultura. Tenere sempre presente che la televisione manipola, per l’interesse di tanti, il singolo dentro la propria casa. Il film è visto con un sociale intorno con cui il singolo può confrontare la propria interpretazione di ciò che ha visto. Sebastian Schadhauser
Tra persone religiose e quelle che non lo sono, o non lo sono più, c’è un problema di comprensione. Dio ha creato la fauna, la flora, l’umanità, la terra e in conseguenza l’universo. Questo è uno
dei
postulati
delle
scritture
sulle
quali
si
basano
alcune
religioni. Anche in altri credi si trovano delle somiglianze in tal senso. Nella sua ricerca l’uomo, inteso come umano, ha dedicato la sua devozione al
credo e parallelamente alla comprensione
della “realtà“. La realtà compresa come fattore indagabile con i sensi a disposizione dell’uomo e con le stampelle che l’uomo si è creato nella sua evoluzione. Qui la parola stampelle sta per le tecnologie che servono ad indagare la realtà del piccolo e del grande, sia biologico, che chimico e fisico. Una realtà creata o una realtà a priori da comprendere e da riconoscere. Il dilemma è lì: questa realtà è, o è stata creata? Non importa come l’uomo la percepisce. Per l’umanità e la comprensione di se stessa. Dio è stato
sempre
un
ostacolo.
Ad
ogni
fenomeno
incompreso
dell’esistente, l’uomo non poteva non fare a meno di considerare l’esistenza
di
un
creatore,
e
ciò
per
spiegare
il
fenomeno.
Fenomeno incompreso che ha avvicinato l’uomo ad un creatore. Compreso
il
fenomeno
l’uomo
ha
di
nuovo
allontanato
il
creatore da se, ma il credente rimase fermo nella sua convinzione dell’esistenza
di
religioni
hanno
dittature
ed
Dio.
Nell’avvento
avvicinato
altre
forme
delle
l’assolutismo,
sociali
che
strutture le
sociali
le
monarchie,
le
convivono
oggi
con
le
democrazie. Strutture di politica ideologica o in paesi dove regna la
religioni
di
Stato.
Il
dilemma
non
si
è
mai
risolto.
La
conflittualità tra laicismo e religione è intatta. È rimasta in tutta la storia dell’umanità non priva di violenza. Anche se la violenza è stata postulata in molti religioni da bandire dal comportamento umano. La libertà di essere religioso non garantisce agli altri di non esserlo. Uno Stato laico non è in grado di esserlo se non fa una legislazione in cui siano rispettate le credenze religiose giuste o ingiuste per i non credenti. Questo paradosso si perpetua in tutte le forme sociali. Cioè in tutte le forme sociali Dio c’è. “È possibile mettere in dubbio se Dio ha creato l’universo e tutto ciò che lo compone, ma è una realtà che Dio domina la forma sociale umana della nostra terra.”
Dio è il giudice tra il bene e il male. L’umanità ha intrapreso misfatti
in
nome
di
Dio
ed
erano
un
bene.
I
laici
hanno
intrapreso misfatti in nome dell’umanità ed erano propagandati per un bene. Un bene per chi? Se Dio esiste allora questi misfatti sono un male perché hanno compromesso il suo creato. Se Dio non esiste, hanno ucciso i nostri simili ed un male perché è un crimine contro l’umanità. Se noi umani intraprendiamo azioni violente compiamo un torto alla nostra specie. Nel
lontano
1997
abbiamo
scritto
per
presentare
l’Asiaticafilmmediale come progetto da realizzare: ”La formula deve essere la diffusione della conoscenza del cinema asiaticoorientale e attraverso questa l’amplificazione di culture che sono nonostante
tutto
ancora
lontane
da
noi.
Conosciamo
la
loro
potenza produttiva, le loro culture, parzialmente, attraverso le loro forme religiose. Ma praticamente dalle loro strutture sociali, familiari,
dei
loro
costumi
vitali
conosciamo
soltanto
degli
stereotipi importati come curiosità“. Ancora non circolava con insistenza la voce globalizzazione che ha intrecciato oggi tutte le Nazioni con le loro strutture politiche, religiose, economiche, finanziarie virtuali, facilitate dall’avvento dell’internet. L’Asiaticafilmmediale ha dato un contributo localmente circoscritto e con una focalizzazione precisa filmica che forse ha aiutato il suo pubblico a farsi una conoscenza individuale delle tematiche del vasto agglomerato delle Nazioni asiatiche e della loro popolazione. Quest’anno c’è il Focus sulle Filippine, e il tema della religione induce alla riflessione di questo scritto. La popolazione delle Filippine è a maggioranza cristiana e di questi l’ottanta per cento è cattolica. Per il focus sulle Filippine sono stati selezionati tra gli altri: Manenya
(Waiting)
di
14
min
di
Richard
Soriano;
Pasahero
(Passanger) di Mario “Max” Celada; Ang Paghi Hintay Sa Bulon (Waiting to Whisper) di Sigrid Andrea L. Bernardo e As he Sleeps di Sheron Dayoc. Il contenuto di questi documentari evidenzia in maniera diversa la conflittualità umana nel
comprendere i
dieci comandamenti dati (secondo la bibbia) da Dio a Mosè per integrarli nelle tradizioni dei loro costumi sociali. Il
parallelismo
tra
comandamenti
(leggi)
di
Dio
e
le
leggi
“laiche”, formulate da espressioni parlamentari o da governi con aspetti di dittatura, non è il contenuto, ma tutte e due sono infrante da persone che le conoscono e anche da coloro che le ignorano. Si è insidiato nella specie umana il concetto di essere in grado di superare il blocco naturale che salva la sopravvivenza della
specie
a
favore
della
sopravvivenza
dell’individuo.
La
capacità di tramandare le esperienze e le conoscenze non soltanto geneticamente ma anche attraverso l’informazione (per esempio: scienza essere
biologica
capaci
di
evoluzionistica) ricostruire,
al
ha
creato
momento
la
convinzione
opportuno,
anche
di la
specie umana senza amplesso naturale di procreazione.”Non ha sviluppato un senso di onnipotenza divina ma di autosufficienza individuale”. La dominazione di etnie su altre, di Nazioni, di forme sociali, la supremazia economica finanziaria, i monopoli di singoli, sono espressioni del credo di autosufficienza dell’uomo. Moralmente
considerato
egoismo.
Se
la
morale
e
l‘intelletto
creano la coscienza come testimone e giudice, come certezza del sapere
e
perciò
condivisione
di
questa
certezza,
allora
questa
umanità ha dimostrato, da quando esiste la sua cultura, di non possedere né morale né intelletto. Nell’evoluzione l’umanità è l’unica specie che ha sviluppato una forma di aggressione per sterminare
la
propria
tecnologie
che
specie.
rendono
Oltre
possibile
a
questo
questa
ha
forma
di
sviluppato aggressione
contro la propria specie. L’uomo ha consolidato un continuo desiderio
di
moralmente possibile,
esercitare
potere.
sconsiderato
l’umanità
lo
ha
fare
Se
è
tutto
ignorato.
eticamente
discutibile
ciò
tecnicamente
È
che
è
indiscutibile
che,
se
e
la
scienza o la religione diventa un mezzo per acquisire potere, si corrompe la ricerca della verità e della spiritualità e la ragione diventa il servo di religioni e ideologie. Per questa riflessione non rimane altro che mettere in evidenza la parte della nostra cultura che si esprime in opere di pittura, scrittura, musica, scultura, altre espressioni visive e udibili, come
anche
nei
film,
per
insistere
sull’unico
modo
per
ricreare
la
morale e l’intelletto degno della nostra umanità. Sebastian Schadhauser
“Dio è morto”, è di dubbia esclamazione. Tra i mortali c’è l’umano. Dio esiste nella mente umana. È preferibile mettere l’esistenza di Dio in dubbio e conquistare con la stessa mente il ragionamento: questo
“l’uomo,
mondo
riferimenti
di
etici
inteso
conquista
e
morali
come
umanità,
tecnologico
che
è
sono
costituivano
morto.”
morti
la
In
tutti
i
quintessenza
filosofica dell’evolversi dell’umanità. Il pensiero umano includeva l’armonia tra viventi ed elementi della natura inanimata. Con il progresso tecnologico questa armonia veniva infranta per volontà dell’uomo (sempre inteso come oggetto umano). L’uomo non sta morendo, è morto. Cosa si sostituisce all’umanità. All’umanità si sostituiscono
imprese,
legislazioni
di
religioso
disprezzo
e
forme
gestione,
governative,
intrecci
per
l’essere
interessi
globali, umano
economici,
fondamentalismo che
ha
condotto
all’annientamento dell’umanità in noi. All’umano si sostituisce la soluzione tecnologica, globalmente il derivato della infaticabile mente umana a trovare risposte alle sue esigenze. Esigenze che implicano dominio su tutto. Ricchezza e potere sono soltanto sinonimo
di
questa
premura
mentale.
Le
proteste
delle
minoranze con una mente non conforme a ciò venivano tollerate fino alla soglia in cui le legislazioni trovavano un pretesto per impedirle. Le persone che scrivono e parlano analizzano il perché del
comportamento
umano
ma
non
tutti
prendono
atto
che
siamo tutti noi ad essere responsabili del nostro essere. Si trova sempre una ragione per essere cosi e non per non essere cosi distruttivo. Anche nella ragione di Stato si dimentica che lo Stato è
l’umano,
non
il
cittadino,
perché
come
tale
è
difficile
comprendersi come umano. Con le scelte che sono state attuate abbiamo chiuso gli occhi di fronte a questa evoluzione. Abbiamo interposto tra la comprensione di delle
scelte:
tormentano
l’informazione, la
mente
con
multi
strutture
cognizioni
questo percorso mediatiche
ambigue,
che
informazioni
pilotate ed immagini mirate a sollecitare l’istinto, il desiderio primordiale
per
l’aumento
del
consumo
sfrenato
e
perciò
l’aumento di spazzatura. Non c’è ritorno. È uno stato di entropia. L’umanità ha dato più importanza alle sue illusioni per crearsi un sempre maggiore benessere, invece di vedere la distruzione che
questa
illusione
apporta
alla
terra
che
era
ed
è
la
sua
unica
dimora. Una delle indicazioni è stata la costituzione dei “diritti umani”. Ciò che era implicito nell’essere umano doveva essere sancito per legge. Questo paradosso non ha aperto gli occhi all’umanità per riconoscere l’auto estinzione. Su questa terra tutto ciò che deve essere protetto dalla estinzione si evolve verso l’estinzione di ciò che è protetto.
Gli animali delle foreste, i
pesci e perfino le
foreste stesse. Il mare viene inquinato, l’acqua e l’aria vengono invasi da scariche nocive dell’attività umana. Questo nonostante tutte le convenzioni inventate dalle varie legislazioni e accordi “parzialmente” internazionali. Per la non osservanza prevalgono interessi
nazional-economici
che
sono
su
questa,
quasi,
sfera
terrestre cosi globali come non è mai stato il “diritto umano”. È impensabile
di
portare
le
varie
legislazioni
davanti
ad
un
tribunale. I rappresentanti di una legislazione sono schermati come il Dio cattolico (subentra come spiegazione il dono del libero arbitrio), quando non si capisce come “Egli” permetta l’infrangere dei suoi comandamenti o l’ingiustizia verso il “di Lui creato”. II bianco e nero, metaforicamente, è una divisione tra il bene ed il male, tra il dominato e il dominatore, tra schiavo e padrone. Il mondo però è a colori e il cinema non poteva farne a meno. Con le scale di miscelazione del colore la distinzione bianco e nero si è offuscata e la psicoanalisi ha spiegato che il padrone è schiavo dello schiavo. Il carnefice è vittima della vittima. C’è una sorta di dialettica tra l’uno e l’altro. Il biblico “nessuno è senza colpa” si è avverato con la spiegazione che c’è una dialettica intrinseca tra le cose, tra i fatti. Non esiste l’uno senza l’altro. Cosi il povero è lo specchio del ricco. La colpa della miseria è anche della miseria. La colpa della ricchezza è insita nella ricchezza soltanto perché la miseria dilaga nel mondo. Se esiste una gerarchia tra le cose, fatti e persone anche perché questa crea chiarezza e senza chiarezza non c’è una definizione degli eventi. Questa gerarchia chiarisce anche
dialetticamente
perché
deve
esistere
il
suddito
e
il
regnante: “per la chiarezza dello stato delle cose.” Gli eventi sono fatali, e irreversibili sono le leggi della natura che conducono
all’entropia. Ma se l’illusione dell’umanità è di essere, con il suo intelletto, al di sopra della natura, perché conduce le sue azioni verso l’irreversibile? L’illusione è come un film, dipende da che punto di vista lo si vede e da che punto di vista sono state girate le
scene.
Se
si
vedono
gli
eventi
dal
punto
di
vista
delle
multinazionali allora l’obbiettivo umano di creare benessere è raggiunto. [Identificato con dei felici pochi). Nel film è lo stesso: in una
scena
neanche
di
un
duello
per
momento
colui
di
che
soccombe
percezione
della
spesso
sconfitta.
non Nel
c’è
film
spesso lo sconfitto è il cattivo, nel mondo reale purtroppo gli sconfitti sono identificati come innocenti. Ma come insegna la psicoanalisi: “loro innocenti non sono”. Non esiste un punto di vista assolutamente neutrale, si è sempre parte
dell’osservato.
E
si
determina
l’osservazione
stessa.
L’osservazione è di per se soggettiva. Con l’uso del digitale nel cinema
si
tenta
di
spostare
il
punto
di
vista
nell’infinito
del
contenuto informatico. Metaforicamente diventa come vedere la centralità
della
dell’universo,
terra
a
e
con
piacere
lei
l’umano
posizionato
nascosto
secondo
nell’infinito
l’esigenza
della
mente umana. La chirurgia plastica ha dato la possibilità di usare gli attori insieme alla tecnologia digitale come cartoni animati. Nei volti dei attori non si nota più il passare del tempo. Le generazioni mentre
le
degli
interpreti
stagioni
dei
climatiche
film della
trascorrono terra
immutati,
mutano
con
la
partecipazione all’inquinamento prodotto dagli esseri umani. Il cinema visualizza la giovinezza perpetua nello spettacolo delia catastrofe
universale.
La
libertà
creativa
filmica
racconta
l’incomprensibile per mostrare la confusione della mente umana, che diventa l’alibi del: “Non sanno che cosa fanno”. Con questo l’umano ricorda la bibbia. Con la bibbia si ricorda Dio e con Dio si ricorda il proprio stato di essere mortale. Essere mortale significa essere un peccatore, perché colui che è senza peccato entra nel regno dei cieli nel giorno del giudizio. Egli si guadagna la vita eterna. In un film posso raccontare questa storia e far vivere l’umano in eternità. Però di reale (per quello che
l’umano
percezione
percepisce
della
realtà
come è
una
realtà)
è
questione
soltanto della
il
film.
mente
La
come
l’illusionismo filmico. La mente è in grado di scegliere tra le due opzioni. Può scegliere di comprendersi come umana e mortale e rispettarsi come tale. Se abbandona un Dio che gli ha dato il libero arbitrio di distruggersi insieme alla sua dimora terra, e questo prima di cinque miliardi di anni (più o meno), allora ha abbastanza tempo per rinascere come se stesso. La fine della terra accade quando il sole ha esaurito il suo combustibile e la terra viene inghiottita dall’espansione del sole. L’umano
può
rinascere
come
quell’umano
che
ha
dipinto
capolavori, scolpito un estetica con la materia, scritto capolavori della letteratura, come poeta, pensatore dell’etica, filosofo della conoscenza, artigiano dell’habitat, conoscitore della fauna e flora, che comprende perciò la gioia del piacere, che ha rispetto di se è dell’ambiente in cui vive e non ha bisogno della metafisica, ma può percepirla tra se e lo schermo filmico. Sebastian Schadhauser
La riflessione è: che cosa ha a che fare Asiatica Film Mediale con l’Europa o meglio con la sua politica e con la politica in generale? Anche un film è politica, come ogni altra espressione culturale. Ma questo fatto sembra appartenere ai tempi lontani, perché sembra che oggi non ce ne sia più cognizione. Quando le cose, l’esperienza, offuscate,
le
cioè
conquiste sotterrate
culturali
da
eventi
sono
nuovi,
soltanto da
eventi
presenze di
moda
transitori, allora la cultura in generale è passeggera e non è più capace di incidere sull’evolversi della struttura sociale. Può essere sostituita,
come
un
abito,
da
una
moda
nuova.
Roberto
Perpignani scriveva a Monaco, il 13 novembre del 2013, un testo per Bianco e Nero e nel sommario del testo proponeva uno scritto di Werner Herzog, intitolato No trespassing: “Una società che non è in grado di elaborare un linguaggio adeguato a rappresentare la propria civiltà è destinata all’estinzione”. È difficile estinguere una società, se prima non si estingue la sua umanità. La società è un’aggregazione di umanità. Alcuni singoli uomini hanno compreso l’importanza della loro crescita culturale e si sono distinti; altri no, e si sono sempre più distinti come politici e affaristi finanziari. Non c’è dubbio che questi politici e affaristi finanziari, culturalmente educati, non hanno però compreso e riconosciuto l’importanza della cultura. La distruzione dell’habitat, della fauna, flora, degli oceani, delle distese
terrestri
decidono
su
naturali,
guerra
e
è
loro
pace.
responsabilità. Sono
loro
che
Sono
loro
vedono
che
nella
costruzione d’armi una priorità, destinando la fatica del lavoro, cioè l’economia che il lavoro produce, alla costruzione di armi. Non solo, con l’accumulo di capitali fanno si che la rendita del capitale superi la rendita che produce il lavoro. Ciò ha come conseguenza che l’uomo che lavora non può più competere con gli affaristi della finanza globale e non ha più influenza sulle decisioni politiche. Il linguaggio a cui soccombe l’uomo lavoratore, culturalmente aperto, è dominato dalla informazione. Un esempio: la libera circolazione della merce nasconde nelle pieghe dei suoi trattati l’autorizzazione
a
vendere
e
commercializzare
prodotti
che
il
cittadino culturalmente attento rifiuta, perché sono prodotti che contrastano
con
la
sua
etica.
Un
cineasta,
uno
scrittore,
un
filosofo, un pittore, uno scultore ed altri che vivono la cultura come aspetto prioritario della loro umanità non partecipano alla distruzione delle foreste amazzoniche, non inquinano i mari, non uccidono animali per il solo gusto della caccia. Questi uomini non hanno interesse a conquistare territori altrui per dominarli. Neppure hanno la volontà di cacciare gli indigeni dal loro habitat per accedere alle risorse che sono nel sottosuolo del territorio. Il territorio fa parte della tradizione culturale di questi indigeni. Le persone con cultura non devastano interi territori soltanto allo scopo
di
partecipa
arricchirsi. alla
proporzione.
La
creazione È
devastazione del
di
benessere
sproporzionata
interi
territori
dell’umanità
rispetto
in
non
uguale
all’arricchimento
che
traggono gli affaristi finanziari e i loro vassalli politici. Anche tanti
politici
eletti
nei
nostri
parlamenti
e
nel
parlamento
europeo sono privi di una coscienza culturale e partecipano alla distruzione dell’habitat terrestre dell’umanità. I loro accordi con le lobby degli
affaristi
finanziari
fanno
inevitabilmente
si
che
questo habitat terrestre venga sempre più inquinato, defraudato e reso invivibile per l’umanità. Se i politici riterranno più importanti le richieste degli affaristi finanziari
della
comprensione
e
del
rispetto
culturale
che
è
necessario usare verso ogni società, la vita su questa terra, come la conosciamo oggi, non durerà certo quanto è durata l’era dei dinosauri. L’umanità che tenta di far evolvere quel pensiero etico che garantisce la convivenza su questa terra senza conflitto tra etnie,
religioni,
tra
nazioni,
tra
espressioni
di
pensiero
e
tra
gruppi sociali più o meno abbienti, ricchi e poveri e che accetta tradizioni diverse, sarà spazzata via. Per sua natura, un affarista finanziario non è in grado di inglobare nel suo pensiero quella coscienza etica propria della cultura di uno scrittore o di un poeta. La finalità del suo pensiero è rivolta altrove. Un politico ha ancora la possibilità di orientarsi su un pensiero etico e di porre un limite alla sfrenata corsa verso il dominio che gli affaristi finanziari vorrebbero imporre. Solo che i politici fanno spesso promesse sapendo che non le manterranno. Il Parlamento nel suo insieme, come luogo del contraddittorio, fornisce l’occasione e
l’alibi per non dover mantenere le promesse fatte e il singolo politico
spesso
importanza.
rafforza
Un
con
conduttore
le
promesse
di
un
soltanto
programma
la
sua
televisivo,
obbligato dall’audience (che una volta significava essere ricevuti da)
non
esigenze
dà di
affiancano
l’informazione fare
e
pubblico.
danno
pura,
ma
Così,
entrambi
sempre
corretta
conduttore
e
un’informazione
dalle
politico
si
addomesticata,
con uno scopo in fondo identico: attirare consenso. Il consenso significa, quindi, potere economico e non ha nulla a che fare con la diffusione di conoscenza o di informazioni utili alla scelta di voto. Non importa se l’informazione è vera o falsa. L’importante è che l’informazione crei l’audience e il voto. Un
cineasta,
invece,
uno
scrittore,
un
artista,
non
hanno
bisogno di fare promesse per ingannare il cittadino. Lo spazio che la cultura ha in una Nazione è ben rappresentato dai fondi economici che il governo di questa Nazione dedica alla cultura stessa. E questi spazi sono minimi. I
Governi
continuano
ad
elaborare
la
libera
circolazione
di
merce e di soldi, ma non hanno mai creato un meccanismo per la libera circolazione della cultura. Nessun artista ha un passaporto diplomatico che magari gli consenta anche l’immunità per la sua espressione artistica. Esiste una libertà di religione e l’artista di certo la rispetta. La religione però può decidere se un’opera è artistica o è un vilipendio contro la religione. Non è provato scientificamente che Dio esista, ma le religioni possono affermare che esiste. Se si insulta un politico si può essere
querelati.
dell’immunità
Se
un
politico
nell’esercizio
insulta
delle
sue
tutti
i
cittadini
funzioni
gode
pubbliche.
Il
contenuto della fede non è indagabile scientificamente. Ma la cultura, secondo atteggiamenti sociali, deve rispettare i canoni di merito. L’arte,
un
film,
fanno
parte
dell’espressione
umana,
non
riflettono la realtà, ma fanno si che la realtà trovi un’espressione culturale
che
altrimenti
resterebbe
circoscritta
ad
interessi
estranei alle vere esigenze dell’essere umano. Se la finanza di oggi gode del suo potere (la finanza è il termine dietro il quale si
celano singole persone) lo deve alla cultura di persone che hanno avuto delle intuizioni per esplorare mondi sconosciuti, che hanno descritto la complessità della vita biologica, comprese le strutture fisiche della materia. Gli affaristi della finanza devono il loro potere a un Galileo, a un Einstein, a Colombo, lo devono ai filosofi
Greci
e
agli
illuminati
Arabi,
lo
devono
ai
pittori
e
scrittori che hanno dato l’input per capire la natura umana; nei tempi moderni, ai cineasti che hanno speculato sul futuro e sul passato dell’umanità. Ma tutti questi eventi culturali li hanno esclusivamente trasformati in denaro. I morti nei conflitti e nelle guerre non sono serviti per comprendere la sofferenza ma solo per capire come si potrà usarla per trarne ricchezza in forma di denaro. Loro sono rimasti nello stato di quei sciagurati alchimisti che
per
tutta
la
vita
hanno
tentato
di
trasformare
metalli
secondari (per loro) in oro. Il problema della loro arretratezza culturale è che loro sono riusciti nell’impresa di trasformazione. Loro non sono degli apprendisti stregoni. Loro sono stregoni che hanno stregato l’umanità e che hanno fatto credere che il denaro è l’unica meta valida nella vita. Sono stato interrotto nella scrittura. Oggi è il 16.6.2014. Un infarto è un’esperienza che può far capire che il percorso della vita può essere interrotto in qualsiasi momento. Il suggerimento di non fumare più mi ha fatto venire in mente il suicidio. Perché continuare, nonostante tutto, a fumare significa programmare la propria morte. La civiltà umana ha avuto spesso una posizione ambigua verso il suicidio. La letteratura ha esaltato il suicidio, la religione
lo
considera
deplorevole,
alcuni
lo
considerano
una
vigliaccheria ed altri un atto di coraggio. La civiltà umana è l’unica
presenza
biologica
su
questa
terra
che
è
in
grado
di
estinguere la propria civiltà e il resto della vita biologica. Ma non soltanto
questo.
La
civiltà
umana
ha
costruito
i
mezzi
per
bloccare il percorso evolutivo su questa terra. Pensando a questo non posso non considerare l’incoscienza e l’avidità un fattore della civiltà umana. E l’incoscienza e l’avidità dell’umanità stanno distruggendo
la
fauna,
la
flora
di
questa
terra.
Quell’habitat
dovrebbe essere dimora di tutta la vita biologica e non come lo considera la finanza, solo di alcuni. L’umanità non ha il coraggio di lanciare la bomba atomica per commettere il suicidio globale e
cosi
ha
scelto
il
suicidio
programmato
dell’inquinamento
dell’habitat finché diventa invivibile. Un suicidio per incoscienza e non per coraggio romantico o per disperazione esistenziale. Non si può non considerare incoscienza l’atto di scatenare delle guerre che abbiamo avuto nella storia. Le vite uccise, le sofferenze procurate,
i
conseguenze
patrimoni accettate.
artistici
Questa
storici
non
può
distrutti
non
essere
furono chiamata
incoscienza, dato che suggerisce un comportamento passivo. Di fatto
si
sommano
dell’incoscienza
della
due parte
comportamenti dominante
e
passivi.
l’inerzia
Quello
della
parte
dominata. In gioventù l’incoscienza è sperimentazione, talvolta aiuta a crescere. In età matura rimane incoscienza. Ritornando all’infarto, sarebbe incoscienza continuare a fumare. Non essere passivo significa: non fumare più. I postulati cinematografici sulla fine della nostra terra sono spesso rivolti a catastrofi naturali. Era glaciale, meteoriti, assenza del campo magnetico terrestre ecc. E quasi sempre c’è un eroe che riesce ad evitare la sciagura totale. Sembra una cinematografia che trasforma i fumetti per bambini in film per adulti. Ma il messaggio è identico: l’umano è in grado di evitare la cosiddetta: fine del mondo. L’ottimismo sconfigge le tematiche climatiche, l’inquinamento, L’ottimismo
di
l’invasione vincere
di
microorganismi,
sollecita
conflitti,
la
fomenta
fame.
battaglie
armate, tenta di allargare i propri confini territoriali ecc.. Per quell’ottimismo di alcuni abbiamo la conseguenza di tanti morti, di tanta sofferenza, di tanta distruzione, di tanti destini amorosi spezzati, lacrime di madri che non si asciugano più. Un vero diluvio che non bagna i malfattori. Zhang Yimou, regista Cinese, ha firmato film come Non uno di meno e Hero. Non uno di meno ricorda il cinema del vecchio mondo (in stile Ladri di Biciclette): un cinema del dopoguerra. Hero, invece, si avvicina al cinema del nuovo mondo. Un cinema spettacolare, tecnologico. Un cinema del melting pot, di mescolanza di stili, di concetti romanzeschi, filosofici, politici, sentimentali, metafisici. Uno stile della metafora. Uno stile, dove la metafora assume il concetto
filosofico
che
si
sostituisce
alla
concretezza
dell’inquadratura del cinema del vecchio mondo. Di un mondo esplicito. Di un mondo, in cui l’etica assumeva la posizione della macchina
da
presa.
Un
mondo
dove
estetica
e
essenza
si
fondevano nel coraggio dell’esplicito. Dove relativo e assoluto erano concetti filosofici e non politici. Un mondo dove il cinema era un film e non uno spettacolo. Un mondo dove lo spettacolo si identificava come tale. Era un mondo dove la gente aveva l’orrore
della
telegiornale.
guerra La
nelle
sagoma
ossa
e
dell’eroe
non
nei
cinque
nell’enorme
minuti
portone
del
che
si
imponeva tra il potere e l’ignoto poteva significare la domanda: “Perché ho risparmiato il tiranno?” Perché il tiranno unificasse i vari regni così da non avere più guerre! Ma intanto l’eroe viene infilzato dalle frecce davanti al portone. È stato così ripagato per aver risparmiato la vita del tiranno e il tiranno gli concede la cerimonia che spetta a un eroe. Se racconto questo, sapendo o presumendo che molti non abbiano visto i film di Zhang Yimou, è
perché
film
spettacolari
come
Nero,
con
tutte
le
buoni
intenzioni, e la loro bellezza, rimangono uno spettacolo che non si manifesta come tale. Diventano opere cult come alcuni film di Quentin Tarantino. Così anche la cinematografia sulla^ne del mondo non
è
un
ammonimento,
ma
uno
spettacolo.
Questa
cinematografia è una cinematografia che comunica messaggi, in cui l’alternativa alla distruzione è l’eroe di turno. Ciò mi fa venire in mente Bertolt Brecht: “Beato quel popolo che non ha bisogno d’eroi”.
Una cinematografia dove la distruzione del
conseguenza,
e
non
causa,
dell’esistenza
mondo è
dell’umanità.
È
una
cinematografia dove l’umanità è vittima salvata. Asiatica Film Mediale in questi anni ha continuato a ricercare e proiettare film davanti a portoni aperti e non ha fatto spettacolo di sé. Questo è un contributo concreto alla politica europea. Sebastian Schadhauser
Come, cosa e perché, quest’anno avrebbe bisogno di un altro titolo. Esiste soltanto il “come” è riuscito Asiaticafilmmediale a essere
ancora
presente.
Questo
come
ha
una
sola
risposta:
il
pubblico ha reso possibile la manifestazione. A voi pubblicospettatore si deve tutto. Grazie. “La teoria del tutto”, (TheTheory of Everything), non ha molto a
che
fare
con
Asiaticafilmmediale,
ma,
in
un
certo
senso,
metaforicamente, è un film che spiega molte cose sugli eventi dell’ultimo periodo. James Marsh, il regista del film interpone la m.d.p. tra il pensiero di Eddie Redmayne, attore che interpreta Stephen
Hawking
e
la
questione:
se
Dio
esiste,
o
più
precisamente se Stephen Hawking crede in Dio. In questa scena l’attore, prima di rispondere alla domanda: “lei crede in Dio?” interpone
una
domanda
visualizzata
filmicamente
cosi:
una
ragazza presente nel pubblico perde una penna (stilo o simile). Si vede l’attore Redmayne/Hawking alzarsi, scendere le scale del podio, prendere la penna e consegnarla alla ragazza. Ma, tutto questo non succede. A questo punto lui risponde: “finché c’è vita c’è
speranza”.
Stephen
Hawking
soffre
di
atrofia
muscolare
progressiva e per questo motivo è per lui impossibile alzarsi dalla sedia e scendere le scale. Sarebbe un miracolo, o sarebbe solo nel suo pensiero, la conferma dell’esistenza di Dio. Questo vuol dire, se
è
un
reale
pronunciarsi
documento
di
definitivamente
Hawking, e
che
che
egli
risponde
ha
paura
di
filosoficamente
come un filosofo greco: “tutti gli esseri umani muoiono e siccome sono un umano, anche io morirò, ma finché non sono morto il postulato non è valido”. Se invece è un’introduzione della regia: si può affermare che l’umano non riesce definitivamente a negare l’esistenza di Dio? Ma in ogni caso la questione di Dio è annidata e irrisolta, in molti esseri umani. In questo film ci sono alcuni momenti che danno la possibilità di contraddire la scena descritta prima. L’attore viene preso in braccio da un suo amico ed alla domanda come è possibile che con la sua malattia egli abbia delle erezioni. L’attore risponde: “questa funzione è guidata da un’altra semisfera del cervello”. Strettamente legata a questa risposta è la scelta nel film dell’attore che interpreta Hawking, di rinunciare ad un amore spirituale
rappresentato da sua moglie che si dedica con anima e corpo a lui, malato, in favore di una donna che rappresenta più un amore materiale
e
sessuale.
Una
rinuncia
all’amore
con
implicazioni
spirituali a favore di un rapporto garantito, fisico e materiale. Credere è una sfera spirituale che concede anche l’esistenza di Dio. Il rapporto fisico, materiale presuppone una spiegazione scientifica e non necessita di Dio. Amore, pietà, sentimento sono legati al credo in Dio. Il sesso fisico è anche possibile in assenza di Dio? Quando si promette un paradiso con delle vergini, si promette un piacere senza Dio? Quando si uccide senza pietà, lo si può fare in nome di Dio? Quando si uccide senza mostrare sentimento, si uccide in presenza di Dio? Non credo che i signori che vanno a combattere e uccidere per l’iSIS si pongano queste domande. Per questo credo che la cultura è fondamentale. Entrare in un cinema oggi è importante perché spesso la lettura è solitaria. Ma l’umano ha bisogno di confrontarsi nell’apprendere informazioni e, fare ciò, in una sala guardando un film è più facile. Uno scambio di opinioni senza un’arma in mano è più illuminante di una
disputa
risolta
con
dei
morti.
Perché
la
morte
è
fisica,
materiale e definitiva, non è spirituale e risponde alla questione dell’esistenza di Dio con un no. La cultura è lavoro, si esprime con risultati visibili. Sollecita l’immaginazione, ma non pretende un credo spirituale. La presenza dell’arte non è metafisica e non conduce
al
distruzione
paradiso.
Dio
dell’ambiente
non
si
manifesta.
perpetrata
Le
dall’umanità
guerre aprono
e
la
alla
domanda: a che cosa serve il libero arbitrio da “Lui” Dio biblico concesso, quando a condurre questo “libero arbitrio” è l’istinto primordiale comune agli esseri biologici senza cultura? La forma culturale comune della convivenza sociale chiamata politica si è definitamente allontanata dall’espressione culturale ed è diventata espressione
dell’istinto
primordiale.
Affiora
da
ciò
la
manifestazione di far sopravvivere la specie. Questa volta non una specie biologica, ma una specie sociale. La specie della classe politica e finanziaria e perciò quella capace di dominare. Non domina l’umano che è culturalmente evoluto, ma
quello
che
è
culturalmente
regredito.
Alcuni
scienziati
si
occupano
di
riformare
la
teoria
di
Darwin
“The
origin
of
species”. Essi sono convinti che non tutto è riducibile a geni e selezione. “Morfologie e comportamenti che cambiano al variare delle circostanze ambientali, senza modificazioni genetiche sono una strategia adattativa potente e diffusa che può causare anche la diversificazione
della
specie.”
Invece
non
ha
causato
un
bel
niente, perché la specie umana che ha sviluppato la cultura, ha plasmato l’ambiente, come i castori che costruiscono delle dighe per viverci dentro, ha perfezionato soltanto la selezione naturale che garantisce la sopravvivenza del più forte. Riscontrabile nel fatto che hanno sviluppato un comportamento come i leoni che uccidono
la
prole
del
rivale
per
accoppiarsi
e
generare
la
discendenza del loro seme. Questo comportamento si evidenzia nel
nepotismo
che
viene
applicato
nelle
cariche
pubbliche
e
istituzionali. Per questo motivo, in questa disputa tra riformisti e aderenti alla teoria di Darwin, vincerà chi ottiene più consensi. Avrà l’opportunità di pubblicare più articoli e così via. Questo è come nel cinema di oggi. I film che vendono più biglietti sono oggi i più gettonati, premiati e diffusi. I film che rimangono l’umanità,
nella
loro
essenza
culturalmente
sconfitta,
sono
in
filmica
evoluta, fase
ma
in
una
come
d’estinzione
nicchia
specie e
per
umana
schiavizzati.
Asiaticafilmmediale ha tentato per 15 anni di opporsi a questa tendenza, ma si è vista man mano strangolata per mancanza di fondi, mentre per manifestazioni dedicate a film di “cassetta” si è ampliato il sostegno economico. Anche Asiaticafilmmediale non si poteva sottrarre ad un altro progresso. Il progresso digitale. Dal momento dell’avvento del digitale, in un certo senso, non si poteva più soltanto parlare di film in modo ristretto, ma si doveva parlare di proiezione d’immagine. La proiezione tramite pellicola (film) è diversa dalla la proiezione digitale. Il negativo (pellicola)
è
il
risultato
della
ripresa
e
ha
subito
una
mani-
polazione nel montaggio.Taglio delle scene riprese, accostamento temporale delle scene nel senso di prima e dopo e viceversa. Riprese
in
piano
sequenza.
Riprese
con
fondo
reale
o
in
trasparenza, con sonoro in diretta o doppiato in studio. Una diversità di metodi per imprimere la realtà filmica. Una volta
fatto il taglio del negativo, dopo il montaggio definitivo e la stampa del positivo, il film rimane tale, come era concepito. La proiezione
poteva
essere
mutilata
soltanto
con
un
inter vento
meccanico del taglio dei fotogrammi. Nel digitale si può mutilare la ripresa anche a posteriori. Si ha una mutilazione della realtà filmata, come si ha una manipolazione della storia filmata. Si ha un
nuovo
metodo
artistico
tutto
da
indagare.
Con
questa
possibilità spesso si ha un’estetica violenta e una violenza resa estetica. L’immagine proiettata non è più la realtà della messa in scena,
ma
ultime
l’estetica
proiezioni
sublimazione
dell’immaginario nelle
sale
dell’immagine
c’è della
artistico.
una
Guardando
prevalenza
violenza.
di
L’estetica
le
una della
violenza è diventata espressione artistica. Come tale ha invaso gli scenari reali della telecomunicazione sui conflitti in atto in questo periodo nel nord Africa e medio Oriente. Dalla rappresentazione filmica (pellicola) risultata dalla messa in scena traspariva una certa teatralità perciò riconoscibile come realtà filmata. L’immagine
digitale
rivela
difficilmente
la
mutilazione
della
realtà ripresa. Anche nei colori il digitale consente una pittura che la pellicola rivela soltanto per l’esposizione alla luce, operata dalla sensibilità della pellicola, dall’obbiettivo utilizzato e dalle impostazioni fotografia,
è
fonti
mentre
lavorazione digitale
delle
di
il
di
luci
colore
ingegneria
artificiali
del
digitale
artistica
predominantemente
del
direttore
proviene
informatica.
virtuale
e
della
da
una
L’immagine
scompare,
come
nel
guadagno finanziario, l’aspetto della produttività lavorativa. Il mestiere
lavorativo
della
regia/
autore
fa
posto
all’ingegnere
informatico regista /autore. L’immagine sistema
reale
digitale.
dell’attore Ma
come
fa si
posto
all’attore
devono
ritoccato
interpretare
con
queste
immagini, che arrivano nelle sale cinematografiche, che sono un ibrido
tra
“film”
“storyboard”, Sono
da
un
e
pittura
fumetto
interpretare
di
come
digitale
movimentata,
infantile pubblicità
natura per
le
reso
più
uno
spettacolo.
maestrie
degli
ingegneri informatici; sono manifestazioni del progresso; della ricerca per una fuga dal mondo reale in uno virtuale. Con questa espressione si riesce finalmente a spezzare le catene che ci legano
ad una realtà limitante e ci portano dentro ad un immaginario senza né confini di regole né di morale. Diverso dal film in pellicola che una volta faceva sognare. Quando ci si sveglia dal sogno si sa di aver sognato. Con il digitale è diverso, anche quando si aprono gli occhi le immagini sono nella nostra mente per la loro persuasione sulla reale creazione dell’impossibile non più riconoscibile come tale. Sebastian Schadhauser
Postfazione
1968.
I
cinema
che
frequentavo
erano
l’Induno,
il
cinema
Olimpia, il Filmstudio e qualche sala parrocchiale di Roma. La prima proiezione, cosiddetta privata in anteprima presso ANICA, fu “La sua giornata di gloria” di Edoardo Bruno. Non c’erano altre giornate di gloria all’orizzonte. Il cinema digitale ha riscritto in parte anche la storia dei film. I film confluiti nelle sale sono diventati
cinema
di
immagine.
Con
una
certa
intuizione
subconscia visionaria, Adriano Aprà ha nominato la sua rivista “Cinema e Film”. In tempi odierni la critica dei film ha di fronte le
serie
televisive
e
(“film”?)
costruiti
con
la
tecnica
digitale.
Emblematico è per esempio “Forest Gump” di Robert Zemeckis 1994 e “Evita” di Alan Parker del 1996. In questi film si vedono attori attuali accanto a personaggi della storia socialpolitica. Una sorta
di
melting
confondere
le
specialmente
pot
tra
reale
generazioni se
quell’antagonista
usato della
ed
future in
film-art.
irreale. su
Un
eventi
televisione. Allora
crogiolo
ha
del
La
per
passato,
televisione,
senso
rileggere
cosa
hanno detto certi autori di film negli anni 1968-1972, per capire il
tentativo
dell’era
digitale
di
rimodellare
i
film
in
concetti
puramente di immagine e trafugare questi prodotti come film. In tal senso il cinema per la proiezione di film diventa il cinema di immagine. Non più l’arte dei film ma l’arte delle immagini. Non più
la
parola
tradotta
in
scene
filmiche
ma
l’immaginario
tradotto in immagine. Non più un racconto con svolgimento scenico ma un bombardamento di immagini raccontate. Non più inquadrature di un set, ma Pixel composti ad immagine dalla tastiera
di
un
computer
di
un
virtuoso.
Gli
attori-eroi
delle
pellicole sono diventati anche essi reinventati come immagini. Gli
effetti
speciali
di
Thuerey
e
Theodore
Kim
(Avatar)
per
esempio, impressionano più di James Dean che sopravvive più come mito, non per le sue interpretazioni. “Al di là dell’Eden” è per il pubblico di oggi neanche un vago ricordo. E “Gioventù bruciata”
un
modo
di
definizione
per
ragazze
e
ragazzi
poco
integrati. Mentre scrivo leggo alcuni brani di Edoardo Bruno
(Filmcritica evocare
659)
film
mancanza
e
mi
degli
delle
identificare
il
coincidano
con
accorgo
anni
che
1968-1972
retrospettive
momento
anche
di
della
l’articolo
di
e
si
film.
scrittura Edoardo
lui
ha
bisogno
rammarica
Questo di
queste
Bruno.
di
della
giusto
per
parole,
che
Una
nostalgica
melancolia. Moralmente, eticamente la memoria non serve al futuro.
La
memoria
accorgiamo
che
in
ci
rivela
tutti
i
soltanto
campi
che
sociali
nel
presente
l’umanità
ci
non
ha
imparato niente della storia. L’arte, la cultura, perciò l’artista, viene emarginato perché esprime da solo il monito che disturba il collante politico, sociale e religioso. Un collante espresso con bugie,
propaganda
malcontento
dei
e
disinformazione
sudditi.
In
questa
che
tiene
bolla
a
bada
il
social-politica
si
esprimevano i film di quegli anni delle interviste nel libro. Il film di
Bernardo
periodo
e
Bertolucci:
il
film
“Dreamers”
“L’assedio”
2003
1998,
circonda
sempre
di
questo
Bernardo
Bertolucci, rappresenta un vano tentativo di rimanere nel guscio di questa bolla. Tutte due i film poco compresi dalla critica. Sono i film non italiani che aprono una visione metafisica sociale: “The
Fountain
-
L’albero
della
vita”
(per
la
Cabala
simbolicamente le leggi dell’universo) di Darren Aronofsky 2006, “Tree of life” di Terence Malick 2011 e in un certo senso anche “Hereafter”
di
Clint
Eastwood
2010,
sono
un
tentativo
di
collegare tematiche sociali in un universo poco comprensibile per spogliarsi
del
compito
di
trovare
immagini
con
soluzioni
soddisfacenti alle ingiustizie sociali. Ci voleva poi lo spunto della “The teory of everything” di James Marsh 2014 a sancire la convivenza conflittuale tra scienza, darwinismo, Dio e religione. E poi il film di Giuseppe Tornatore: “La corrispondenza” che fa trovare
nell’universo
dell’amore
virtuale
una
soluzione
per
svincolare il film da schematiche impostazioni di film di genere e trovare
la
risposta
alla
imperfezione
digitale.
La
soluzione
è
empirica: graffiando con una matita sulla carta apparentemente vuota,
riappare
Fornisce
così
ciò
una
che
è
traccia
stato per
scritto intuire
sul la
precedente chiave
per
foglio. potersi
ricollegare con l’aldilà. Il vecchio nuovo collante sociale dei film è l’amore e non necessita di violenza né di scienza, religione o altro. Il
film
di
Giuseppe
Tornatore
è
autosufficiente,
metafisico,
universale e prima di tutto l’unica offerta filmica non indagabile per la sua verità reale anche se virtuale. Con questo film l’autore ha la possibilità di sottrarsi al fuoco incrociato del pro e contro e lo spettatore di godersi finalmente un film fatto bene senza che venga violentato dalle immagini. Nel 1996 dopo una lunga pausa mi è venuta l’idea di creare degli incontri con il cinema asiatico. Idea che è stata realizzata grazie alle situazioni favorevoli di una presenza ministeriale e alla capacità fattiva di un amico. Realizzazione che è durata fino ad oggi, alcuni testi per il catalogo sono in allegato. C’era latente l’illusione che una impresa culturale poteva incidere socialmente e politicamente. Ma come detto era una illusione come soltanto i film potevano manifestare sullo schermo. Perché oggi, 2016, mi sentivo di dover scrivere ad una amica: “Tu hai sicuramente letto: Le
onde
gravitazionali
che
Einstein
ha
previsto
sono
state
confermate recentemente dalla scienza”. La tecnologia scientifica fa
progressi
giganti
ed
in
contemporanea,
di
pari
passo
si
riducono l’etica e la morale della evoluzione dell’umanità. Ho sempre pensato che la disponibilità dell’apprendimento culturale dell’umano
portasse
ad
un
miglioramento
della
comprensiva
convivenza. La banalità del male è molto più diffusa di quanto Hanna Arendt potesse allora probabilmente immaginare. Questa banalità
è
di
fatto
molto
più
ancorata
nel
comportamento
burocratico e politico. Nell’Europa dei diritti umani non si è riusciti neanche ad abolire la prima classe in aerei, treni e navi o uniformare
la
motorizzazione.
patente Gli
di
guida
accordi
per
i
tempi
transatlantici
sono
moderni
della
evidentemente
dannosi per i cittadini, ma nonostante tutto si vogliono fare, con la certezza che rendano l’umanità sempre più dipendente dalle persone
della
finanza
senza
scrupoli.
In
questo
modo
i
parlamentari dell’Europa e degli Stati nazionali diventano degli Eichmann contro le loro convinzioni etiche (se mai ne avessero). Sono questi accordi transatlantici
la causa per
cui
le persone
annegano nel mediterraneo e si ammalano davanti ai recinti di filo spinato e si disperano. Sono questi gli accordi per i quali si giustificano i bombardamenti. Nel nome di una comprensione democratica che chi subisce non comprende o democraticamente non
può
trovare
giusta
questa
perpetua
ingiustizia.
Per
la
destituzione
di
un
popolazione
con
cosiddetto
tiranno,
bombe
si
le
e
si
tiranneggia
camuffa
la
l’espansionismo
geopolitico. La banalità di questo agire è così evidente che si può dire “non si vede il bosco per l’abbondanza di alberi”. Anche l’informazione dei media diventa la banalità del male. La banalità del male è così espansa che l’umanità non ha una via di uscita. La totalità dell’umanità viene, dagli interessi della finanza, confinata in un campo di concentramento. Già all’inizio del 1900 si è coniugato in America il detto del darwinismo sociale che vuole la sopravvivenza del più forte. In questo caso riferito alla convivenza sociale e non ad animali o specie. Persone come Pasolini, che ciò hanno compreso, si sentono sempre di meno per alzare la voce di protesta. I portatori di cultura di oggi che si oppongono contro questo sviluppo, sono sempre meno. Sento poco o nulla sulla proibizione aumenta
della
la
demolizione delle
società
compiti private
pubblicità delle
legittime
La
portatori dilaga.
a
delle
del
istituzioni
private
sociali. di
pubblicità
sigarette,
gioco
ma
le
istituzioni cittadini
di
La
soppressione
qualche
modo
il
passa
nelle
delle
cittadino
la
l’espansione
pubbliche
dei
In
che
Aumenta
aumenta
protezione pistole.
osservo
d’azzardo.
sociali,
sostituire
ma
ha
con
mani
proteste perso
la
possibilità di difendersi da questa evoluzione della repressione e adesso
è
troppo
tardi
per
fermare
questo
sviluppo
senza
una
rivolta radicale. È possibile che in una cerchia minore questi problemi vengano discussi, ma ciò che si sente e si vede nei lavori culturali pubblici è che sono autocensurati, eleganti critiche di taglio
estetico
e
non
con
la
necessaria
volontà
di
aggredire
i
misfatti. Per me il poetico imbrunire diventa la tetra fine della giornata. In questo quadro si inserisce lo sciacallaggio delle opere di film in televisione (pubblica e privata) con l’inserimento di pubblicità per vendere cose inutili alla vita con metodi
insulsi
e spesso
offensivi della cultura e della dignità umane. In questi anni delle interviste, le icone da consultare per i film erano Georges Sadoul e
Roland
Barthes.
Ma
oggi
vorrei
indicare
allo
spettatore
di
cominciare a fidarsi della propria mente per non cadere in un pensiero
unico
suggeritori
suggerito.
occulti.
Quei
Le
opere
suggeritori
di
oggi
che
sono
Marshall
pervase
da
McLuhan
allora aveva evidenziato e che oggi vivono anche nella critica, come non mai perfetta nell’indagare le proiezioni su schermo e TV,
ma
priva
manipolazioni
della che
volontà potrebbe
di
difendere
subire.
E
lo
qui
spettatore mi
fermo
dalle sulla
manipolazione estetica. E questo è già un enorme danno per la società. Chi legge queste interviste può estrapolare, non soltanto uno stato del passato, ma un aiuto per il futuro. Sebastian Schadahuser
Tra approssimazione e omissioni
Non
pensavo
certo
che
raccontando
a
Sebastian
della
mia
limitata ma fervida esperienza di spettatore di cinema, egli me ne richiedesse poi la versione scritta, adattata a questa pubblicazione. Ci
provo
con
esitazione
ed
entusiasmo,
nonostante
il
mio
mestiere sia tutt’altro. Il cinema è morto. Il film è finito. Sebastian ce lo rammenta in un’aura
positivamente
romantica
ma
inflessibilmente
realista.
Cos’è che ha veramente cessato di vivere? O in che modo si è trasformato? Come riassumere in spietata sintesi più di cento anni di storia senza trascurare e omettere protagonisti, esperienze, teorie, per approdare a quello che costituisce l’essenza salina del pensiero di Sebastian? Comincerò – in una carrellata veloce e manchevole – ricordando con emozione il momento in cui nelle vecchie sale si spegneva la luce che attraversava la spessa coltre di fumo di sigaretta e perveniva sullo schermo – non candido ma da quel fumo ingiallito – e apparivano i titoli di testa del film. L’attenzione si concentrava non senza palpiti e ci si preparava ad entrare
nel
mondo
magico
della
narrazione
filmica.
Roba
romantica certamente. Fascinazioni perdute. Tra i 60 e i 90 del millenovecento i trattati, i manuali e i libri di storia del cinema, raccontano delle due principali tendenze che fondarono l’anima e l’industria del racconto cinematografico. In Europa i Lumière dalla parte del realismo documentaristico e Meliès con il suo universo fantastico e creativo. Dopo quasi un ventennio, in America, Griffith inventa il montaggio alternato e pone le basi tecniche per creare quel meccanismo della suspence tanto sfruttato nei generi d’azione, spy, poliziesco, o fantascienza che
fosse.
In
Europa,
cinematografie
in
nazionali
attesa
dell’avvento
producono
del
nazismo,
esperienze
le
immense.
L’espressionismo in Germania con Lang, Murnau e Dreyer, il formalismo Pudovkin
russo e
propagandistico
nell’unione
Eisenstein. delle
Il
immagini
sovietica fascismo e
se
ne
con
Eichenbaum,
scoprì servì
per
il la
potere propria
ideologia senza approfondire le virtù linguistiche di quella che, nonostante
gli
strenui
tentativi
di
teorici,
registi
e
filosofi,
stentava ad essere classificata come arte. Il
nazismo
costrinse
discriminazione
razziale,
numerosi ad
registi,
allontanarsi
minacciati
dalla
Germania
di e
a
recarsi in quella che stava diventando la più possente industria che
il
mondo
cinematografico:
Von Sternberg,
Hollywood.
Lubitsch,
Ophuls e tanti altri. La colonia dei
Wilder, trasfughi
contribuì a formare, con sapienza, le trame e le strutture narrative che sedussero il mondo e divennero una specie di “prigione” creativa da quel momento in poi, per tutti coloro, soggettisti, sceneggiatori
e
registi
che
si
avventuravano
nel
mondo
del
cinema per saggiarne le possibilità artistiche. Dal film come arte al film come industria il passo era stato brevissimo. Nell’Europa delle rovine si affermano, nell’ambito delle cinematografie nazionali, esperienze capaci di controbattere le proposte americane. De Sica, Rossellini, e De Santis tra gli altri, edificarono, attraverso quello che fu battezzato neorealismo, una forma relativamente sottoposta alle ferree leggi del profitto. Trame semplici a sfondo sociale realizzate con pochi mezzi ma con grandissima genialità. Hollywood dall’altra parte dell’oceano dominava
e
i
vari
De
Mille
scorrazzavano
con
le
loro
mega
produzioni in tutto il mondo raccontando di tuniche, di corse di cocchi e di capelli tagliati a forzuti biblici. Anche di sporchi pellerossa e di altre canaglie del genere. Mentre gli eredi del neorealismo in Italia, da metà anni 50 a tutti
gli
anni
60,
avviano
una
brillante
inventiva
tecnica
e
narrativa, mentre i cugini d’oltralpe inventano la nouvelle vague, il cinema di Hollywood entra in crisi e si trasferisce dalla parte dell’Atlantico.
A
New
York
i
vari
Coppola,
Scorsese
ecc.
ricominciano con nuovi soggetti e nuove attenzioni al mondo e contribuiranno a ricostituire quel capitale hollywoodiano che si era
bruciato
e
che
di
lì
a
poco
sarebbe
ricomparso,
mostruosamente, più forte e letale (letale per gli altri produttori mondiali ma anche per i pubblici) che mai. Trascurato il problema se il film fosse arte o no, negli anni 60, nacque
un
movimento
orientato
all’uso
della
semiologia-
semiotica
per
l’analisi
linguistica
del
film.
Ritengo
sia
stato
l’ultimo tentativo – peraltro vano – di ridurre il film a oggetto di indagine
più
o
meno
scientifica,
testo
decodificabile
come
discorso con tutte le sue parti costitutive. L’arte non può essere trattata alla stregua delle scienze che indagano l’oggetto tramite dispositivi e metodologie. Le
interviste
collocano
nel
e
le
conversazioni
quinquennio
che
presenti vede
il
in
questo
trionfo
libro
delle
si
analisi
semiotiche e il proliferare di scuole critiche. Si affermano metodi analitici già praticati dalla nouvelle vague (ovviamente non solo) con
interessanti
e
innovative
pratiche.
Attorno
ai
Quaderni
Piacentini di Bellocchio e Agosti ruotavano giovani geniali che sezionavano la sequenza alternata di Griffith e la verificavano al cronometro
per
violarne
gli
intimi
segreti.
Ogni
scena
contrapposta mostrava un ritmo crescente-decrescente con una logica temporale quasi scientifica che poteva produrre notevoli effetti
di
suspence.
Anche
metodi
e
sistemi
funzionanti
alla
perfezione. I protagonisti delle interviste, da Ferreri a Straub, esprimono tutta la sapienza – ma anche i dubbi – circa la validità artistica e industriale del cinema che praticavano, ancora lontani dal cinema digitale e dall’istituzione della tirannia delle immagini. Universi costituiti,
autoreferenzialmente,
annientare
il
cinema
del
con
il
dichiarato
“rispecchiamento”,
della
intento realtà
di
come
base per la narrazione e la rappresentazione. Universi dispotici e ossessivi. Sebastian
ci
ricorda
caldamente,
casomai
ce
ne
fossimo
dimenticati, quale fosse il ruolo storico dell’artista nella difesa dei diritti fondamentali dell’uomo. Ci ricorda come, banalizzando il male, la politica abbia dimenticato il suo impegno sociale e usi l’informazione per fondare il
principio tirannico del
schiavista. Ci ammonisce, citando
Darwin,
dominio
che dimostrava le
ferreità della legge del più forte, muovendo l’implacabile accusa a colui, che in ultima istanza, sancisce e determina l’impossibilità di difendersi del cittadino nella società attuale, del dominio del “digitale”. Il
cinema
digitale
si
sbarazza
di
tutti
i
riferimenti
storici
e
culturali nell’orgia cancellativa degli effetti speciali. Non c’è più bisogno
del
“filmabile”.
È
sufficiente
usare
l’arsenale
degli
archetipi e vestirlo con storie adeguate. Il pubblico e la “cassa” rispondono a meraviglia. Augusto Visconti
Postscriptum
Cera
una
volta
il
film
è
una
frase
nostalgica,
addirittura
melancolica. Non credo sia da interpretare come l’inizio di una favola. È quel poetico che Edoardo Bruno compiange nel suo articolo
“Un’avventura
interrogativo.
Il
film
quasi
ha
metafisica”.
subito
una
Ma
è
anche
trasformazione?
un
Anche
il
concetto d’arte ha subito un adattamento a forme espressive che si discostano dal vecchio concetto d’arte dove c’era il passaggio mente-mani-materia
in
forma
diretta.
Oggi
si
instaura
una
connessione da idea a manodopera e materia industriale con il nome installazione. Il concetto “arte” abbraccia oggi il disegno industriale,
l’oggettistica
industriale
e
barattoli
di
zuppa
“Campbell”. L’idea stessa si manifesta come “arte”. Segno del suo tempo. Avere l’idea finisce inevitabilmente con il dominare l’era moderna. Il lampo di genio si sostituisce alla fatica che la mente compie per captare il segno del proprio spazio tempo per poi condurre questo segno attraverso le mani su una materia visiva. Il lento, riflessivo processo mentale che insidia la filosofia ha fatto posto
alla
fulminea
idea
perché
esprime
al
meglio
lo
spazio
tempo di oggi. Ma per quale motivo usurpare il vecchio concetto d’arte?
Perché
non
si
cerca
una
parola
geniale
per
le
forme
espressive di oggi? Perché Christo Vladimirov Yavachev e JeanneClaude
Denat
de
Guillebon
prefigurano
le
loro
opere
come
“arte”? Non c’è risposta direbbe Gianni Toti. Il neorealismo ha introdotto la sostituzione di attori scolastici con persone della vita reale e ha creato nel film un avvicinamento tra finzione e realtà. Questo ha avuto anche la conseguenza dello spostamento del
set
nello
spazio
reale
come
protagonista
scenico.
Mentre
prima lo spazio reale era concepito come fondo pratico di scena. Involontariamente
si
è
anticipata
con
il
neorealismo
“l’arte”
cosiddetta moderna. I confini si erano infranti e così il successivo passo di definire il cinema digitale film, era inevitabile. Si, c’era una volta il film è nostalgico, è melancolico. Il digitale manca del poetico.
Sebastian Schadahuser
Foto gentilmente concesse dagli autori
1. Carmelo Bene, in posa davanti a falce e martello.
2. Capricci, 1969, Anne Wiazemsky e Carmelo Bene.
3. Capricci, 1969, Carmelo Bene.
4. Capricci, 1969, Carmelo Bene, Anne Wiazemsky.
5. Carmelo Bene con falce.
6. Carmelo Bene con falce e martello.
7. Capricci, 1969, Carmelo Bene, Anne Wiazemsky.
8. Capricci, 1969, Carmelo Bene.
9. Amore e Rabbia, 1969, Bernardo Bertolucci.
10. Strategia del Ragno, 1970, Bernardo Bertolucci; Alida Valli.
11-12. Living Theatre, da Amore e Rabbia, episodio “L’agonia”, 1969, Bernardo Bertolucci; Julian Beck.
13-14. Il Conformista, 1970, Stefania Sandrelli, Jean-Louis Trintignant.
15. Disegno di Bernardo Bertolucci, eseguito durante l’intervista.
16. Il Conformista, 1970, Bernardo Bertolucci.
17. Partner, 1968, Bernardo Bertolucci; Pierre Clementi.
18. Partner, 1968, Bernardo Bertolucci.
19. Partner, 1968, Bernardo Bertolucci.
20. Partner, 1968, Bernardo Bertolucci.
21. Il Conformista, 1970, Bernardo Bertolucci.
22-23. Il Conformista, 1970, Bernardo Bertolucci.
24. Il Conformista, 1970, Bernardo Bertolucci; Dominique Sanda.
25. Il Conformista, 1970, Bernardo Bertolucci.
26. Episodio “L’agonia”, 1969, da Amore e rabbia, Bernardo Bertolucci.
27. Episodio “L’agonia”, 1969, da Amore e rabbia, Bernardo Bertolucci.
28. Il Conformista, 1970, Bernardo Bertolucci.
29. Il Conformista, 1970, Bernardo Bertolucci; Stefania Sandrelli.
30. Il Conformista, 1970, Bernardo Bertolucci; Stefania Sandrelli.
31. Il Conformista, 1970, Yvonne Sanson.
32. Il Conformista, 1970, Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli.
33. “L’Agonia”, episodio di Amore e rabbia, 1969, Bernardo Bertolucci.
34-35. “L’Agonia”, episodio di Amore e rabbia, 1969, Bernardo Bertolucci.
36. Il Seme dell’uomo, 1969, Marco Ferreri; Anne Wiazemsky.
37. Il Seme dell’uomo, 1969, Marco Ferreri.
38. Il Seme dell’uomo, 1969, Marco Ferreri, Rada Rassimov.
39. Il Seme dell’uomo, 1969, Marco Ferreri; Marco Margine e Anne Wiazemsky.
40. Il seme dell’uomo, 1969, Marco Ferreri.
41. Dillinger è morto, 1969, Marco Ferreri; Annie Girardot.
42. Il Seme dell’Uomo, 1969, Marco Ferreri.
43. Il seme dell’uomo, 1969, Marco Ferreri.
44. Il seme dell’uomo, 1969, Marco Ferreri.
45. Dillinger è morto, 1969, Marco Ferreri; Michel Piccoli.
46. Dillinger è morto, 1969, Marco Ferreri; Michel Piccoli.
47-48. Dillinger è morto, 1969, Marco Ferreri; Michel Piccoli.
49. Dillinger è morto, 1969, Marco Ferreri; Michel Piccoli.
50. Dillinger è morto, 1969, Marco Ferreri; Michel Piccoli.
51. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan, Deborah Kerr, Kirk Douglas.
52. Elia Kazan sul set de Il Compromesso (The Arrangement), 1969.
53. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan, Faye Dunaway.
54. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan; nella foto Elia Kazan con Kirk Douglas.
55. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan.
56. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan.
57. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan.
58. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan, Kirk Douglas.
59. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan, Kirk Douglas.
60. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan, Deborah Kerr.
61-62. Il Compromesso, 1969, Elia Kazan; Kirk Douglas, Faye Dunaway e Deborah Kerr.
63. I Recuperanti, 1970, Ermanno Olmi.
64. I Recuperanti, 1970, Ermanno Olmi.
65. Non Riconciliati, 1964-65, dal libro di Heinrich Böll “Biliardo alle 91/2”, di Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Henning Harmssen e Heinrich Hargesheimer.
66. Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Gustav Leonhardt.
67. Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967, Christiane Lang.
68. Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Paolo Carlini, Ernst Castelli e Hans-Peter Boye.
69. Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967, Christiane Lang.
70. Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Paolo Carlini, Ernst Castelli e Hans-Peter Boye.
71. Non Riconciliati, 1964-65, Johanna Fahmel.
72. Non Riconciliati, 1964-65, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Heinrich Hargesheimer, M. Trieb.
73. Othon, 1970, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Anthony Pensabene.
74. Anno Schmidt, 1973, Sebastian Schadhauser; Anita Ekberg, Rafael Alberti e Sebastian Schadhause.
75. Danièle Huillet all’isola d’Elba sul set di Geschichtsunterricht, 1972, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet.
76. Danièle Huillet, Jean-Marie Straub in pausa, Mosè e Aronne, 1973.
77. Geschichtsunterricht, 1972, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Danièle Huillet.
78. Geschichtsunterrich, 1972, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Danièle Huillet.
79. Danièle Huillet, Jean-Marie Straub e il direttore della fotografia Saverio Diamanti sulla torretta per Mosè e Aronne, 1973.
80. Geschichtsunterricht 1972, Danièle Huillet, Jean-Marie Straub e Renato Berta.
81. Il direttore della fotografia Saverio Diamanti sul set di Mosè e Aronne, 1973.
82. Il direttore della fotografia Renato Berta in Geschichtsunterricht, 1972.
83. Messa a fuoco mdp sul set di Mosè e Aronne, Jean-Marie Straub, 1973.
84. Durante Mosè e Aronne, Jean-Marie Straub nella nebbia.
85. Giovanna Cau, Gianni Amelio al Bifest Bari.
86. Gunther Reich, Luis Devos fuori set, Mosè e Aronne, 1973.
87. Lezione di storia, 1972, Renato Berta direttore della fotografia, fonico Jeti e assistente operatore Bestetti.
88. Mappa Geschichtsunterricht, 1972, Renato Berta, Jean-Marie Straub.
89. Maria Teresa Leon, Ennio Lauricella, Galba in Othon e voce in Solaris.
90. Maria Teresa Leon, Fanfani, 1971, Mostra di Rafael Alberti.
91. Montaggio binari per Mosè e Aronne, 1973, Jean-Marie Straub.
92. Mosè e Aronne, preparazione di scena, 1973.
93. Mosè e Aronne, 1973, Jean-Marie Straub cerca pezzi di sigarette per terra, nel teatro-arena di Avezzano.
94. Mosè e Aronne, 1973, Paolo Benvenuti, Jeti fonico e il direttore della fotografia Saverio Diamanti, teatro-arena di Avezzano.
95. Othon, 1970, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Jean-Marie Straub.
96. Pulire il set di Mosè e Aronne, 1973.
97. Rafael Alberti, compagni di lotta in Spagna.
98. Geschichtsunterricht, 1972, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Sebastian Schadhauser.
99. Set Geschichtsunterricht, 1972, Danièle Huillet, Jean-Marie Straub; Renato Berta.
100. Set Mosè e Aronne, 1973, Avezzano, teatro-arena.
101. Set Mosè e Aronne, 1973, in pausa.
102. Set Mosè e Aronne, 1973.
103. Set Mosè e Aronne con alcuni attori.
104. Set Mosè e Aronne, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet.
105. Set, Geschichtsuntericht, 1972.
106. Geschichtsunterricht, 1972, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; Jean-Marie Straub.
107. Teatro-arena Avezzano, 1973, per Mosè e Aronne.
108. Traversata in barca per Geschichtsuntericht, Renato Berta, Danièle Huillet.
109. Il dio nero e il diavolo biondo, 1964, Glauber Rocha.
110. Il dio nero e il diavolo biondo, 1964, Glauber Rocha.
111. OMAGGIO, Il Grande cielo, 1952, Howard Hawks.
112. OMAGGIO, Marco Bellocchio.
113. OMAGGIO, Jean-Luc Godard.