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Alberto Scandola insegna Storia e critica del cinema presso l’Università di Verona. Collaboratore del Verona Film Festival e di riviste del settore («La valle dell’Eden», «Contre Bande», «Filmcronache»), ha pubblicato saggi su diversi autori tra cui Ingmar Bergman, Paul Vecchiali, Bruno Dumont e, in relazione al lavoro con l’attore, Marco Bellocchio, Luigi Comencini, Andrzej Zulawski. Tra le sue monografie ricordiamo Il fantasma e la fanciulla. Tre film di Roman Polanski (Cierre, 2001), Roman Polanski (Il Castoro, 2003) e Marco Ferreri (Il Castoro, 2004).
I S B N 978-88-7180-727-0
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788871 807270
SU t rnui v meern s tail e Film
Alberto Scandola INGMAR BERGMAN IL POSTO DELLE FRAGOLE
Ingmar Bergman Il posto delle fragole
A. Scandola
Infaticabile «costruttore d’immagini», Ingmar Bergman ha sempre amato indagare le regioni remote dell’animo umano, mettendo a nudo sentimenti come la paura della morte o l’angoscia dinanzi al nulla. Il posto delle fragole, scritto come autoterapia dopo una profonda crisi esistenziale, è un viaggio ai confini del proprio tempo perduto, in cui la realtà si confonde con il sogno, il corpo dialoga con il simulacro e il passato si mescola al presente. Ripulita dalle significative manipolazioni presenti nella versione italiana dei dialoghi, l’opera rivela oggi una purezza ineguagliata sia nella costruzione narrativa, affidata alla voce over del protagonista, sia nell’architettura visiva, felice connubio di simbolismo e realismo. La maturità stilistica è raggiunta, la maniera deve ancora venire: per Bergman è il momento, fugace come le fragole selvatiche, dell’equilibrio.
Ingmar Bergman Il posto delle fragole
Universale / Film
Altri libri su Ingmar Bergman presenti nel catalogo Lindau: Fabrizio Marini, Ingmar Bergman. Il settimo sigillo Stig Björkman, Olivier Assayas, Conversazione con Ingmar Bergman
Alberto Scandola
INGMAR BERGMAN IL POSTO DELLE FRAGOLE
© 2008 Lindau s.r.l. Corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: febbraio 2008 ISBN 978-88-7180-727-0
A Fausto
Introduzione
Profonda incertezza… quando il cercatore è al tempo stesso il paesaggio oscuro dove egli deve cercare e dove il suo bagaglio non serve a nulla. Marcel Proust
1957-2007: sono passati cinquant’anni. Cinquant’anni in cui l’occhio di Ingmar Bergman, oggi celebrato maestro tra i maestri 1, non ha smesso di indagare le regioni remote dell’animo umano, denudando sentimenti come la nostalgia di un amore perduto (Un’estate d’amore, Sommarlek, 1950), l’angoscia dinanzi al nulla (Luci d’inverno, Nattvardsgästerna 1961) o la paura della morte (Il settimo sigillo, Det sjunde inseglet 1956). Giunta mentre mi accingo a correggere l’ultima stesura di questo saggio, la notizia della scomparsa del regista lascia in chi scrive, assieme a un profondo senso di vuoto, la consapevolezza che Bergman non ha certo dovuto attendere la morte per diventare un monumento. Basta semplicemente sfogliare il corpus bibliografico raccolto da Birgitta
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Steene 2 per accorgersi di quanto si sia scritto, in questo mezzo secolo, sugli aspetti multiformi di questo infaticabile bildmakar, costruttore di immagini in costante ascolto delle vibrazioni della mente sulla propria carne o su quella dei suoi familiari, come dimostrano i recentissimi Diari stampati in memoria della moglie Ingrid von Rosen 3. Lanterna magica e Immagini 4 sono lì a dimostrarlo: fare un film è stato per Bergman non solo «vivere», come diceva Antonioni, ma soprattutto analizzare, scoprire, specchiare, svuotare, guarire se stesso. Negli ultimi dieci anni, eccezion fatta per qualche gemma (Sarabanda, Saraband, 2003), l’impulso creatore si era andato sempre più spegnendo, sostituito dall’indifferenza 5 di chi attende la propria morte come l’unica soluzione per colmare il vuoto lasciato dalla morte dell’amata. Più che inventore di forme però, alla lente della critica nostrana (in particolare quella degli anni ’60) Bergman è apparso troppo spesso un «maestro dei sentimenti» 6, imprigionato da letture spiritualistiche favorite dalla vergognosa operazione di censura compiuta dalla distribuzione italiana su molti dei titoli più significativi. E così la verbalizzazione del desiderio (Donne in attesa, Kvinnörs Vantan, 1952) viene taciuta, al pari delle pulsioni autoerotiche (Il silenzio, Tystnaden, 1963) o saffiche (Sete, Törst, 1949), mentre la scelta di abortire diventa un incidente (Persona, 1966) e l’odio verso Dio si tramuta in contenuta disperazione (Un’estate d’amore). Solo di recente, grazie alla pubblicazione in DVD delle versioni filologicamente corrette di alcune opere, il pubblico italiano ha potuto constatare quanta carne ci sia nelle pa-
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role che escono dalla bocca di questi volti, paesaggi dell’anima ma anche frammenti di corpi mascherati (Il rito, Riten, 1967), agonizzanti (Sussurri e grida, Viskningar och rop, 1970) o sanguinanti (La fontana della vergine, Jungfrukällan, 1959). Non immune da simili manipolazioni è l’opera oggetto del nostro studio, quel Posto delle fragole (Smultronstället, 1957: letteralmente Il posto delle fragole selvatiche) che ha consacrato l’autorialità del quarantenne Bergman nell’Olimpo del cinema europeo, diventando presto «il più famoso tra i film del regista» (Trasatti), il «ritratto concreto del panteismo nordico» (Mereghetti), quel mezzo «giusto e necessario di cui non potevamo fare a meno, come dell’elettricità o del telefono» (Amelio). Non ci interessa verificare la familiarità di questo film con le «alte sfere del mito» 7, quanto esplorarne la struttura al fine di delucidare, nei limiti dell’analisi filmica, l’essenza di quell’armonia tra forma e contenuto che innegabilmente pervade la composizione. L’urgenza didascalica (Il settimo sigillo) sembra assopita, la maniera (Il silenzio) deve ancora venire: è forse il momento, fugace quanto le stesse fragole, dell’equilibrio. Si tratta di un’opera fortunata, acclamata tanto dall’accademia (Orso d’oro a Berlino) quanto dalla critica (Premio della Critica a Venezia) e dal pubblico, prima di scalare l’onda di un successo che per la prima volta porta il nome di Bergman oltre oceano: Nomination all’Oscar per il miglior soggetto originale e Golden Gate della stampa estera di Hollywood. Tale fortuna, che dura sino a oggi, si spiega forse con la struttura stessa dell’intreccio, costruito mediante un’accat-
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tivante impalcatura road movie sorretta dalla voce over del protagonista, forse uno dei meccanismi narrativi più efficaci per agevolare l’immedesimazione dello spettatore. Sull’asfalto che porta da Stoccolma a Lund, assieme all’auto di Isak Borg, scorre l’immaginario bergmaniano presente, passato e futuro: la ribellione della gioventù (i tre autostoppisti), l’incomunicabilità nella coppia (i coniugi raccolti dopo l’incidente), la paura dinanzi a una gravidanza (il figlio del protagonista) e soprattutto l’elegia del tempo perduto, ispirazione fondante non solo i melodrammi giovanili (da Un’estate d’amore a Monica e il desiderio [Sommaren med Monika, 1952]) ma anche il testamento oltre il congedo (Sarabanda). La forma musicale prescelta è la fuga, con diversi personaggi che incarnano il tema del conflitto: gioventù versus vecchiaia, realtà versus sogno, ma soprattutto tempo cronologico versus flusso di coscienza. Racchiusa in un’unità di tempo (una giornata) trapunta di numerose digressioni, la fabula attraversa infatti i meandri di una memoria dove il passato, per dirla con Bergson, intacca l’avvenire e progredendo si accresce. Colui che cerca si confonde, come voleva Proust, con il paesaggio del proprio tempo perduto. E così il sorriso di una giovane autostoppista ricalca quello di un amore lontano, contemplato, accarezzato, ma mai avuto. La calma piatta sulla radura e la quiete del mattino estivo sussurrano al viandante uno «strano senso di solennità e fatalità». Sotto la superficie di quel cielo però, sfogliato da innumerevoli dissolvenze incrociate, il fantasma pronuncia parole che fanno male, mentre la sua carne si offre come involucro vuoto.
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Tutto il resto, come dice uno dei viaggiatori del film, è senza senso. Alberto Scandola, 31 luglio 2007
Post scriptum Ai fini dell’analisi mi sono avvalso, per quanto riguarda la sceneggiatura, dell’eccellente traduzione italiana di Renato Zatti 8, che ho confrontato con l’originale dattiloscritto svedese, e del découpage integrale pubblicato da «L’Avant-scène du cinéma» 9. Del film sono invece state consultate le copie in versione originale reperibili sul mercato americano (The Criterion Collection) e su quello francese (Les films de ma vie), i cui sottotitoli appaiono decisamente più fedeli rispetto a quelli proposti dalla versione italiana del DVD (BIM-QMedia), semplici trascrizioni del fantasioso doppiaggio dell’epoca. Questo libro nasce in occasione di un corso universitario svolto nel 2006 all’Università di Verona. Ringrazio Renato Zatti per la preziosa e costante collaborazione (in particolare per avermi fornito una copia del dattiloscritto inedito di Smultronstället), Giorgio Tinazzi, Rosamaria Salvatore e Francesco Netto per i loro suggerimenti, Piera Patat (La Cineteca del Friuli) per la sua disponibilità. E un grazie anche a Nina, lei sa perché.
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Ne è un esempio il Convegno Internazionale di Studi curato da Luciano De Giusti e Giorgio Tinazzi, tenutosi a Pordenone nel febbraio 2005 nell’ambito della VII edizione de Lo sguardo dei maestri. Gli atti sono raccolti nel prezioso volume, a cura di Luciano De Giusti (a cura di), L’opera multiforme di Ingmar Bergman. Oltre il commiato (1982-2003), Il Castoro, Milano 2006. 2 Birgitta Steene, Ingmar Bergman. A Guide to References and Resources, Twayne, Boston 1968. 3 Scritti a tre voci (Bergman, la moglie Ingrid e la figlia Eva) e presto editi anche in Italia, questi diari (Tre dagböcker, sammanställning av Maria von Rosen och Ingmar Bergamn, Norstedts Förlag, Stockholm 2004) raccontano uno dei periodi più difficili dell’ultima stagione bergmaniana (19941995), ovvero la difficile convivenza con la malattia della moglie Ingrid von Rosen, scomparsa nel 1995. Mano a mano che il tempo scorre le ragioni della morte prevalgono su quelle dell’arte. 4 Ingmar Bergman, Lanterna Magica, Garzanti, Milano 1990; Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, Milano 1992. 5 «Le mie opere – ha dichiarato di recente Bergman a Jörn Donner – altro non sono che beni di consumo. Che esse sopravvivano o meno alla mia morte, è una cosa che mi lascia assolutamente indifferente» (in Jörn Donner, Ingmar Bergman über Leben und Arbeit [Ingmar Bergman. Vita e Lavoro], Arte-Sveriges Television Drama, 1998). 6 Così Marco Ferreri amava ironizzare sul microcosmo bergmaniano, opponendo a quello del maestro il proprio cinema fisiologico, attento alla sostanza organica dell’attore. 7 Cfr. Enrico Terrone, Il posto delle fragole, «Segnocinema», n. 112, novembre-dicembre 2001. L’analisi di Terrone è interessante in quanto mira a demistificare alcune delle chiavi interpretative utilizzate dalla critica per la lettura del film, come la metafora del viaggio iniziatico o gli echi dell’impulso autobiografico. 8 Ingmar Bergman, Il posto delle fragole, traduzione di Renato Zatti, Iperborea, Milano 2003. 9 Ingmar Bergman, Les fraises sauvages, découpage integrale e dialoghi in extenso, «L’Avant-Scène du Cinéma», nn. 331-332, luglio-agosto 1984. 1
INGMAR BERGMAN IL POSTO DELLE FRAGOLE
Identificazione di un autore
La sola cosa che mi interessa è che ogni mia opera abbia un senso, abbia una vita propria, sia in qualche modo qualcosa di vivo. Ho il terrore di creare qualcosa di morto. Ingmar Bergman
Quando, nella primavera del 1957, termina il manoscritto de Il posto delle fragole, Ingmar Bergman è un uomo di 38 anni disteso su di un letto d’ospedale. La stanza è piccola, nemmeno un tavolo per scrivere; solo una finestra, che offre però un panorama a perdita d’occhio. Non è un paziente qualunque. È da tre anni il regista del Malmö Stadsteater, uno dei principali teatri europei, dove gli allestimenti, nella stagione 1967-57, si susseguono con un successo senza sosta: La gatta sul tetto che scotta (Tennessee Williams), Erik XIV (Strindberg) e infine il profetico Peer Gynt (Ibsen), dove la peregrinazione nostalgica del protagonista e il suo confronto con la morte anticipano la linea portante de Il posto delle fragole.
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Ingmar Bergman è soprattutto l’autore di due film che hanno appena sedotto la giuria del Festival di Cannes, Sorrisi di una notte d’estate (Sommarnattens Leende, 1955) e Il settimo sigillo. I primi applausi all’estero convincono il regista che forse il cinema (considerato alla stregua di un’amante, laddove il teatro era la «moglie») potrebbe essere qualcosa di più di una semplice occupazione estiva: l’inverno, come noto, era riservato alle attività teatrali. Ma i successi non leniscono le ferite dello spirito, poi impresse su carta non senza un certo autocompiacimento: Il peggior momento per me è il mattino. Mi sveglio quando è tardi alle quattro e mezzo, e ricomincia. Le budella si torcono. E l’angoscia ritorna subito, come un cannello che si accende. Cosa sia questa angoscia non lo so, so che è indescrivibile. Forse ho semplicemente paura di non essere all’altezza… 1
E invece in quel gruppo di fogli dattiloscritti al Karolinska Sjukhuset c’è la chiave di uno dei successi più alti di questo costruttore di immagini finalizzate, come ha riassunto Jacques Aumont nel titolo del suo saggio 2, a illustrare il paesaggio della mente del loro creatore. Nonostante ripetute dichiarazioni d’amore al pubblico 3, quello di Bergman appare un cinema tutto privato, una sorta di autoterapia in cui lo schermo non serve ad altro che a raccogliere le ombre dell’inconscio, stratificate da paure, rimorsi, rimpianti. Non saremmo così sicuri, come lo è invece Olivier Assayas, che Bergman abbia messo tutto se stesso nei suoi film 4. Netta è però l’urgenza di liberarsi, mediante l’arte, di ossessioni e pulsioni troppo pericolose se non
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mummificate nella lanterna del cinematografo. Ogni prova in teatro, ogni giorno che precede l’inizio della lavorazione di un film sono fonte di un’angoscia che assale tanto la mente quanto il corpo: l’ansia di generare qualcosa di vivo, qualcosa che abbia un senso una volta distaccato dalla placenta del suo creatore. L’unica consolazione alla pena di questo superego, affetto da un narcisismo più che mai fertile, si traduce in quella che Bergman chiama «l’incomprensibile possibilità» del cineasta: dare forma alla propria realtà, ai propri sogni, alla propria vita. Una vita che comincia in una città della Svezia centrale, nell’estate di 89 anni fa.
Menzogna, castigo e Strindberg Uppsala, a nord di Stoccolma. Secondogenito di tre figli, Ingmar Bergman nasce il 14 luglio del 1918 da Erik, intransigente pastore luterano, e Karin Åkerblom, donna dalle origini olandesi e dai nervi fragili. Al dialogo con il padre, rigido ai limiti dell’anaffettività, Ingmar sembra preferire il calore del gruppo familiare, riunito tutte le estati nella casa in campagna della nonna, in Dalecarlia. Più che la cattiva costituzione fisica, sono i metodi educativi paterni, assolutamente intransigenti, a minare l’equilibrio del bambino, ossessionato dai dogmi della religione protestante, ma soprattutto da concetti ancora astratti quali il peccato, la confessione, il perdono. A una tale educazione il piccolo Ingmar non reagisce con aggressività ma con l’inganno, imparando presto l’arte della
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dissimulazione. Se la colpa dei bambini, come si deduce anche da Fanny e Alexander (Fanny och Alexander, 1982) è aver oscurato la verità a profitto della menzogna, allora il cinema si offre non tanto come una forma d’evasione, quanto come un luogo dove replicare all’infinito il peccato per poi, dopo una faticosa confessione, prepararsi alla punizione. Come se quest’ultima fosse l’unica forma di relazione possibile con la figura paterna. È lo stesso Bergman a utilizzare il termine colpa nel descrivere la sua pratica artistica, una parola che ci interessa perché verrà pronunciata anche ne Il posto delle fragole: Quando proietto un film mi rendo colpevole d’impostura. Uso un apparecchio che è costruito in modo tale da trarre vantaggio da un particolare difetto umano, un apparecchio con il quale posso esercitare sul pubblico un’influenza di carattere altamente emotivo […]. Pertanto io sono un impostore, o meglio, poiché è il pubblico che vuole farsi ingannare, uno stregone. 5
L’infanzia scorre comunque felice, tra letture e serate a teatro, sino a quando il dodicenne Ingmar non porta a casa l’opera omnia di August Strindberg 6 e riceve il divieto paterno di leggerla. Ordine che naturalmente egli si guarda bene dal rispettare. Romanzi, racconti, teatro: quel che conquista la mente del giovane lettore non è l’eleganza dello stile, quanto l’animalità dei sentimenti espressi. Di Strindberg affascina la doppiezza, la coesistenza del volto con la maschera, il rapporto di odio-amore verso il sesso femminile.
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Molto si è ragionato sulle influenze strindberghiane nella poetica dell’autore, appoggiandosi su dati biografici come la confessione del colpo di fulmine subito a dodici anni durante la visione de Il sogno o la scelta di laurearsi in lettere con una tesi sul teatro del celebre drammaturgo. Pur rispettando due delle tre unità aristoteliche (unità di tempo e unità d’azione), Il posto delle fragole tende alla soggettività epica dello stationendrama strindberghiano, dove il personaggio si vede vivere, si vede guardare, si vede fuori da sé. Nella prefazione a Il sogno Strindberg presenta la vicenda come un mélange di ricordi, esperienze e invenzioni che si appoggiano su di un «fondo di realtà insignificante» 7 dominato da una sola coscienza, quella del sognatore. Il sollievo provato da Isak Borg al risveglio dal primo incubo sembra confermare alla lettera la tesi espressa dal drammaturgo in queste righe introduttive: «Il risveglio riconcilia il dormiente con la realtà, la quale, pur dolorosa, è in questo momento un piacere se paragonata alla tortura del sogno». I personaggi incontrati dal non-morto Isak Borg vivrebbero allora in quella sorta di eccesso di realtà verbalizzato da Strindberg per mezzo della Figlia d’Indra nel suddetto dramma, dove la poesia è definita un «sogno da svegli» 8. Al di là di curiose analogie a livello di situazioni e personaggi, come la circostanza del giubileo accademico 9 o l’umiliazione di dover subire un esame da adulti 10, le corrispondenze tra Il sogno e Il posto delle fragole riguardano essenzialmente le rispettive strutture narrative, entrambe musicali. Strindberg parla di «sinfonia polifonica, con passaggi fugati e il tema principale che ritorna, ripreso con variazioni da tutti i personaggi» 11. I passeggeri della Packard a sette posti di
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Isak Borg altro non sono che variazioni su temi che «fuggono» dal passato verso il presente sino a unire, nel momento del sogno, le due dimensioni temporali. Il tema del triangolo amoroso nasce col terzetto Sara-Sigfrid-Isak ed è ripreso nel presente dal trio Sara-Anders-Viktor, mentre il motivo dell’incomunicabilità nella coppia, esperienza vissuta da Isak, ha ben due variazioni nel presente: i coniugi raccolti per strada (Alman e la moglie) e la coppia Evald-Marianne, la quale riprende il tema per poi modificarlo leggermente (si veda la riconciliazione finale). Non è un caso se le note suonate al piano da Sara mentre Isak, voyeur dormiente, la spia dalla finestra corrispondono alle prime battute di una fuga in mi bemolle minore di Johann Sebastian Bach 12. Oltre a ispirare la struttura musicale della fuga, Il sogno potrebbe aver affascinato l’immaginario bergmaniano per quella sospensione tra l’aria e la materia che resta una delle chiavi della poetica di Strindberg: «Se Dio ci ha fatti a sua immagine – si lamenta nel finale la Figlia d’Indra – perché perdiamo i denti?» Quello di Bergman sarà un cinema di corpi che demistificano, con il loro disfacimento, qualsiasi fiducia in una vita ultraterrena. Non è un caso che nell’ultima messinscena del Sogno, risalente al 1986, Bergman abbia sostituito le due figure divine (Indra e la figlia) con il personaggio, ben più terreno, di un Poeta in cerca dei suoi personaggi: un creatore d’immagini che alla fine del sogno resta solo, proprio come Isak al rientro dalle sue rêveries. Colpisce poi l’analogia tra l’energia creativa del cineasta, capace di passare dal letto d’ospedale al set senza soluzione di continuità, e quello che Strindberg stesso ha definito il proprio «fuoco», ovvero la sete instancabile di conoscenza,
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l’impazienza dei limiti, la volontà di distruggere le barriere formali tra i diversi generi letterari e, perché no, anche tra i diversi linguaggi dello spettacolo. Nota è la cura maniacale che il drammaturgo riservava all’allestimento scenico delle sue opere, la cui staticità naturalistica doveva essere compensata da una mobilità «cinematografica» del punto vista: se lo spettatore stava fermo, la scena (ad esempio la cucina de La signorina Giulia) era costruita in modo tale da suggerire un dinamismo interno all’azione drammatica 13. Come Strindberg, intemperante enfant terrible e al contempo pittore dell’equilibrio borghese, anche Bergman chiude la sua prima stagione sotto il segno dell’ambiguità 14, dipingendo non senza nostalgia quei rituali familiari (il Natale di Fanny e Alexander) rifiutati trent’anni prima dagli adolescenti di Monica e il desiderio, ma rimpianti dal vecchio Isak Borg ne Il posto delle fragole: penso alla festa per l’onomastico dello zio Aron. Rituali che assomigliano moltissimo a quelli che il ventenne Strindberg descrive ne Il figlio della serva, autobiografia in terza persona dove la famiglia appare «il ricettacolo di tutti i vizi sociali, l’inferno dei figli, l’asilo di tutte le donne svogliate» 15. Oltre Il posto delle fragole, forse uno degli esempi più fulgidi della consonanza tra l’universo del maestro e quello dell’allievo, l’eco di Strindberg si avvertirà anche nell’attrazione per quel limen tra vita e morte che è l’agonia di un malato terminale, luogo di epifania terrena del divino (Sussurri e grida) ma anche variazione patetica sul tema del doppio (Il silenzio). Si pensi alla descrizione, ne Il figlio della serva, della malattia di Kristin, la domestica. Quel «volto scavato»,
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quelle «braccia che tremano incessantemente piegate verso l’interno» mentre le nocche che sfregano l’una contro l’altra evocano ante litteram la tensione muscolare dell’agonia di Esther (Il silenzio). Della morte interessa decifrare non il mistero quanto il linguaggio, barbarico e non verbale. Ancora più filmica è la sintassi con cui Strindberg racconta in questo romanzo l’episodio della morte della madre. Tra le righe emergono suoni (la voce del padre), ombre (il buio della notte) e dettagli fisici (gambe e braccia agitate dal freddo), con le lacrime che bagnano gli occhi del bambino a tal punto che, alterata la percezione, la fiamma della candela appare «una vescica rossa». L’inorganico si fa organico, come accadrà sotto la pelle dei muri di Sussurri e grida, immobili quanto i volti delle donne che assistono all’agonia della sorella. Guardare significa forse spalancare gli occhi sui propri fantasmi di carne. Sul letto della serva, intanto, si consuma ciò che Strindberg chiama «la fatica del morire», rantolo dopo rantolo, spasmo dopo spasmo. Dopo, il nulla: La morte era la fine. Come sarebbe stato senza la mamma? Solitudine e vuoto. Nessun conforto, nessuna compensazione, solo male. Solo massicce tenebre d’infelicità. 16
«Ascoltare il sole»: gli inizi Il protagonista de Il posto delle fragole, lo vedremo, più che un uomo di scienza è un creatore di immagini in mo-
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vimento, immagini attinte dalla fonte inesauribile delle proprie memorie d’infanzia. Per questo ci sembra utile ricordare una delle esperienze audiovisive del piccolo Bergman, seduto sotto il tavolo da pranzo ad ascoltare il sole che filtra dalle grandi finestre: «Le campane della cattedrale rintoccavano e i raggi del sole si spostavano, suonando in un modo particolare» 17. Il mito della lanterna magica, intesa come stadio prenatale della vocazione cinematografica, va dunque ridimensionato. L’immagine appare sin dall’inizio solo una parte del lucernario dell’infinito, inscindibile dal contrappunto che il suono può apportare alla percezione. Gli inizi, nel milieu del cinema svedese, sono difficili. Grazie agli insegnamenti di Herbert Grevenius, futuro collaboratore per Sete e Un’estate d’amore, Bergman impara a pulire la parola dai preziosismi del teatro sino a passare, di sceneggiatura in sceneggiatura, dietro la cinepresa. La carriera di regista comincia sotto il segno del melodramma, inquinato da codici teatrali come il sipario alzato da un narratore esterno (Crisi, Kris, 1945) o l’enfasi didascalica della recitazione (Piove sul nostro amore, Det regnar på vår kärlek, 1946). Le peripezie si accumulano sul destino dei primi personaggi, perseguitati da una sorte che prevede ostacoli di tutti i tipi al coronamento del sogno amoroso, dalla malattia (la cecità di Musica nel buio, Musik i mörker, 1948) all’incidente (l’incendio che uccide la protagonista di Verso la gioia, Till glädje, 1949). Le ambizioni per ora sono piuttosto umili: divertire, appassionare, non annoiare, mescolando se possibile gli ingredienti del mélo con meditazioni sull’arte (il dissidio del violinista di Musica nel buio) o
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piccole aperture metalinguistiche (il film nel film di Prigione, Fängelse, 1949). Più dell’intrigo interessano gli interstizi tra le azioni, lo spazio per un dialogo tra l’Io e l’altro da sé (i primi specchi in Crisi), ma soprattutto il tempo per viaggiare nella memoria. Il realismo poetico francese, da Carné a Duvivier, è in questo senso un punto di riferimento. Da Città portuale (Hamstad, 1948), escursione in un realismo più vicino a Renoir che a Rossellini, a Monica e il desiderio in questione è ciò che accade, come ha scritto Godard 18, tra due battiti di ciglia, tra due frammenti di un presente solcato per sempre dal passato come una maschera di cera. Del flash-back, espediente narrativo alla moda, Bergman si serve per arrestare la corrosione del tempo e mostrare il disfacimento interiore dei volti, scrutati sempre di più, di film in film, da una cinepresa alla ricerca di quella che Deleuze ha definito «immagine-affezione» 19. I primi piani della ballerina che rievoca il suo amore perduto (Un’estate d’amore), della futura madre sedata in sala parto (Donne in attesa) o della moglie sterile malata di noia (Sete) sono ancora lontani dal nichilismo che verrà (il fotogramma bruciato di Persona), ma tradiscono già l’attrazione del regista per il paesaggio del volto, tappeto di segni su cui l’attore scrive riducendo al massimo la mimica. L’attore è all’inizio una materia difficile da gestire. Bergman ricerca quelle imprecisate particelle che solo pochi volti, tra cui quello Harriet Andersson, sapranno emanare, convincendosi presto che il talento non supplisce le carenze della tecnica. In attesa di Ingrid Thulin e Bibi Andersson, nei primi anni ’50 tocca a Maj-Britt Nilsson ed Eva Henning sperimentare un utilizzo trattenuto del corpo, in
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lunghi monologhi rivolti verso una cinepresa immobile come i muscoli del volto. Si pensi al finale di Un’estate d’amore, quando Marie (Maj-Britt Nilsson) trattiene dentro le labbra un urlo di odio verso Dio completamente censurato nella versione italiana, la quale ha anche oscurato uno dei momenti più profetici del Bergman che verrà, ovvero il monologo dello zio di Marie nella parte centrale del film. Sconvolto dalla perdita dell’amata sorella, l’uomo si interroga se il volto che guardava era sogno o realtà, mentre «tutti gli orologi sono fermi»: l’idea portante de Il posto delle fragole è già sviluppata. Anno dopo anno i temi si trasformano in ossessioni (la solitudine, l’aborto, il suicidio), la scrittura si affina in termini di costruzione musicale 20 e ai riflettori degli studi, lentamente, si sostituisce il sole dell’estate. Lo stile di questo trentenne sta maturando, ma a Venezia, dove viene presentato Donne in attesa, non se ne accorge nessuno, eccetto Jean-Luc Godard.
L’anarchia e la tregua Filmare un paesaggio per Bergman non significa documentare, ma plasmare la natura alla sua funzione di Stimmung, figurazione di stati d’animo idilliaci (il sole nei ricordi di Donne in attesa), ma anche cupi, come dicono le nuvole che osservano l’ultimo tuffo di Henrik in Un’estate d’amore. L’amore del ragazzo per Marie era nato in un posto delle fragole: questa è una natura falsa, letteraria, caricata di senso e Il posto delle fragole lo confermerà. Recensen-
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do sui «Cahiers» l’ultima produzione del regista, il giovane turco Jean-Luc Godard consacra Bergman quale cineasta di culto, da immortalare con un altare almeno non inferiore a quello che Antoine Doinel dedica a Balzac ne I 400 colpi (Les 400 coups, François Truffaut 1959). Le scene di laghi, foreste, prati e nuvole – scrive Godard – non sono una dimostrazione dell’abilità astratta del regista, ma riflettono la psiche dei personaggi in un particolare istante. Bergman è il regista degli istanti particolari. I suoi film sono modellati dalla riflessione dei personaggi sulla situazione che stanno vivendo in quell’istante e sono resi più profondi dalla frammentazione del tempo. 21
Accecato dall’infatuazione, Godard non si accorge di quanto in realtà questa cinepresa insegua il tempo della durata, stratificata spesso sui corpi del risveglio. Monica e il desiderio, «il più originale dei film del più originale dei registi», è innanzitutto, come dice il titolo svedese, l’estate con Monica, ovvero il paesaggio e un corpo, un corpo di carne in un paesaggio tra i meno letterari del regista. Quella fisicità che in Un’estate d’amore viveva nella parola qui si espande nelle immagini d’ambiente, spoglie e grigie come gli abiti dei due giovani, colti nei momenti di pausa dal lavoro quando s’inventano la loro estate 22. Il giovane studioso di Strindberg, che dichiara di aver filmato la gioventù proprio perché non ne aveva mai avuto una, esce dalla sua prigione letteraria e ascolta il «fracasso e le urla della vita». Harriet Andersson si alza dal letto a fatica, infastidita dai rumori dei fratelli e pedinata in ogni gesto che indichi
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una relazione fisica tra corpo e ambiente: una finestra da chiudere, una porta da aprire, un vestito da indossare, senza che nessuna musica extradiegetica inquini lo splendore di questo vero. Il montaggio sembra accondiscendere l’anarchia del personaggio. Jump-cut, false soggettive e improvvise entrate in campo del soggetto hanno indubbiamente rafforzato l’aura Nouvelle Vague del film, distribuito invece in Italia solo nel 1961, dunque 4 anni dopo il più rassicurante Il posto delle fragole. Celebre è lo sguardo in macchina di Andersson seduta al tavolino di un caffè, definito da Godard l’inquadratura più triste della storia del cinema. Ma non va dimenticato che la storia di Monica finisce nel vetro lucido di uno specchio che funge, per l’amante abbandonato, da improvvisato «posto delle fragole». Quello della ragazza che corre sulla spiaggia è un corpo simile a quelli che incontreremo in questo film: al posto della carne, la materia del sogno. Il 1955 è un anno critico, Bergman ha bisogno di soldi. Ci vuole una commedia giocosa, sciolta, brillante. Sorrisi di una notte d’estate, simposio scherzoso sul tema della coppia, accontenta pubblico, critica (si legga Truffaut) ma soprattutto produttore, deciso così ad accordare fiducia a quell’allegoria dell’angoscia postbellica che è Il settimo sigillo, road movie capace, come ha detto il suo autore, di muoversi tanto nello spazio quanto nel tempo. Dio, il Male, il Bene, la Morte, il Dolore, la Speranza: Bergman comincia a diventare il cineasta dei grandi temi, il creatore di icone audiovisive che segnano in modo indelebile quello che Paolo Bertetto ha definito «l’immaginario della crisi». La struttura narrativa non si regge più infatti solamente sui poli del conflitto e del-
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l’obiettivo da raggiungere, ma implica «l’annullamento dell’oggettività nella processualità mentale e nelle difficili oscillazioni della negatività della psiche» 23. Il mondo appare un deserto come quello attraversato dai cavalieri all’inizio del viaggio: un universo assurdo racchiuso in una struttura narrativa mai così salda. L’Io non agisce o lo fa solo in prossimità della morte, confonde il sogno con la realtà, mentre i codici del linguaggio cinematografico sembrano, per ora, resistere alla dispersione. Come ha osservato Assayas, nel 1957 la forma è compiuta, il senso frontale, la ribellione sopita. Durante questa tregua nasce Il posto delle fragole.
Traduzione nostra da Ingmar Bergman, Images, Gallimard, Paris 1992, p. 18 (ed. it. Immagini, Garzanti, Milano 1992). 2 Cfr. Jacques Aumont, Ingmar Bergman. «Mes films sont l’explication de mes images», Éditions Cahiers du cinéma, Paris 2003. 3 «Non intendo che la mia opera sia dedicata soltanto a me stesso o a pochi, ma al pubblico in generale. I desideri del pubblico sono imperativi» (Ingmar Bergman, Introduzione, in Quattro film. Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto, Einaudi, Torino 1961, p. 16). 4 Olivier Assayas, Stig Bjorkman, Conversazione con Ingmar Bergman, Lindau, Torino 1995, p. 9. 5 Bergman, Introduzione cit., p. 8. 6 Prima di trasferirsi definitivamente a Fårö, Bergman viveva a Stoccolma nella casa che in precedenza era stata abitata da Strindberg. 7 Traduzione nostra da August Strindberg, Le songe, L’Arche Editeur, Paris 2003, p. 9. 8 Cfr. Sergio Arecco, Ingmar Bergman. Segreti e magie, Le Mani, Genova 2000, p. 108. 1
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I destinatari della laude accademica in Strindberg sono tre, come nel film: assieme a Isak vengono omaggiati un professore di teologia e uno di filosofia. 10 L’Ufficiale, a dispetto dei suoi prestigiosi titoli accademici, si ritrova sui banchi di scuola alle prese con un sadico esaminatore. 11 Strindberg, Le songe cit. p. 9. 12 Sulla tessitura musicale de Il posto delle fragole si veda Robin Wood, Ingmar Bergman, Movie Paperbacks, London 1969, p. 72. 13 Cfr. Vincenzo Esposito, La luce e il silenzio. L’età d’oro del cinema svedese, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2001. 14 «Quel focolare decisamente borghese – annota Bergman nel 1961 – mi diede un muro contro cui affilarmi e a cui appoggiarmi. I miei genitori mi insegnarono ad apprezzare certi valori (efficienza, puntualità e responsabilità finanziaria) che saranno pure borghesi, ma sono comunque assai importanti per un artista», Quattro film cit. p. 17. 15 August Strindberg, Il figlio della serva, Mondadori, Milano 2000, p. 24. 16 Ivi, p. 87. 17 Bergman, Quattro film cit., p. XII. 18 Jean-Luc Godard, Bergmanorama, «Cahiers du cinéma», n. 85, luglio 1958. 19 Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine tempo, Ubulibri, Milano 1990. 20 Variazione mélo sulle temperature dei diversi generi, dal dramma (il racconto di Rakel) alla commedia (la sosta amorosa in ascensore nell’ultimo episodio), Donne in attesa è costruito come una partitura a 4 voci. Sulle questioni inerenti la struttura quaternaria di queste opere vedi Riccardo Costantini, Gli inizi, in Riccardo Costantini (a cura di), Ingmar Bergman. Di silenzi e desideri, Centro Espressioni Cinematografiche-Cinemazero-La cineteca del Friuli, Udine 2005. 21 Godard, Bergmanorama cit. 22 Cfr. Alberto Scandola, Parola e desiderio. Figure del melodramma nel giovane Bergman (1945-1953), in Paolo Romano, Giancarlo Beltrame (a cura di), Schermi D’Amore. Verona Film Festival 2006, catalogo generale della manifestazione, Marsilio Venezia 2006. 23 Paolo Bertetto, L’immaginario cinematografico: forme e meccanismi, in Enciclopedia del cinema Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2004, vol. I, p. 73. 9
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Bergman e gli altri Alla fine degli anni ’40 la congiuntura economica svedese non è delle migliori: la tassa sugli spettacoli aumenta e la produzione diminuisce, al pari degli incassi. La tendenza è quella di un rinnovato interesse per uno sguardo obiettivo sugli aspetti più crudi del reale, messi in ombra da quella retorica neoromantica che esaltava i valori contadini in opere quali Sangue ribelle (Driver dagg, faller regn, 1946, Gustav Edgren), forse il più grande successo commerciale del periodo. Alcolismo, emarginazione e suicidio sono tematiche ricorrenti nella produzione di cineasti meno fortunati di Bergman, come ad esempio Arnold Sjöstrand (Synd, 1948) e Stig Jarrel (Onda ögon, 1947). Significativi sono i turbamenti provocati dai nudi di due future muse bergmaniane come Eva Dalbeck, moglie suicida in Solo una madre (Bara en Mor, 1949, Alf Sjöberg), e Ulla Jacobson, amante scandalosa nel pluripremiato Ha ballato una sola estate (Hon dansade en sommar,
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1951, Arne Mattsson). Due anni prima di Monica e il desiderio la carne della gioventù indica già la strada di una ribellione espressa mediante il linguaggio anarchico del corpo. Questi personaggi sono individui smarriti nel vuoto di ideali, ribelli senza una causa, in costante ascolto delle loro pulsioni. La società non li aiuta, piuttosto li condanna in nome di un decoro borghese sempre più crudele, mentre Dio non fa sentire la sua voce. L’eros si offre allora come estremo tentativo di restare aggrappati a un’esistenza che trova poi nel suicidio l’unico viatico verso il nulla (La notte del piacere, Fröken Julie, 1951, Alf Sjöberg). La struttura ossimorica di molti intrecci bergmaniani può essere inoltre facilmente ricondotta a quella bipolarità insita nell’humus della cultura svedese, divisa tra la rigidità apollinea del luteranesimo e l’esaltazione dionisiaca della natura. Non saremmo così sicuri che, come ha scritto Stefano Boni, «Bergman non abbia sostanzialmente nessun rapporto con la produzione svedese degli anni ’40 e ’50» 1. La questione è complessa e meriterebbe uno studio a parte, integrato con un’analisi delle opere di autori quali Alf Sjöberg (il cui Spasimo, Hets, 1950, è sceneggiato proprio da Bergman), Arne Mattsson e Hasse Ekman. Interrogato a proposito dell’esistenza di una scuola svedese alla quale egli avrebbe attinto, Bergman ha risposto di essersi ispirato, oltre al lirismo di Carné e Renoir, allo stesso Alf Sjöberg, dichiarando come agli inizi egli non facesse che imitare lo stile di quello che considerava il suo modello 2. Ci sembra che Bergman sia la punta di un iceberg nemmeno troppo esiguo. Non a caso Peter von Bagh rinviene, in un personaggio creato da Hasse Ekman per Eva
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Henning (Flicka och hyacinter, 1950), le tracce di una nevrosi al femminile indagata dal di dentro e senza eufemismi, modello di quelle «cognizioni del dolore» che Bergman costruirà attorno a interpreti come Ingrid Thulin o Harriet Andersson. Gli anni ’50, per la middle class svedese, significano prosperità economica, trionfo dello stato sociale, indebolimento dell’influenza della chiesa sulla società e libertà sessuale. Per vincere il complesso della neutralità, e i conseguenti sensi di colpa, la soluzione più istintiva per gli intellettuali è quella di accogliere i fermenti di paesi, come la Francia ad esempio, che invece conservavano della guerra fresche le ferite. In questo senso, come è stato osservato 3, l’attenzione a problematiche dell’esistenzialismo era un atteggiamento che univa orizzonti artistici diversi in una sorta di ritrovata identità nazionale.
Influenze letterarie Se Kafka (Il castello), Camus (Caligola) o Pirandello (Sei personaggi in cerca d’autore) sono universi con i quali il teatro di Bergman non ha esitato a confrontarsi, i nomi di Shakespeare, Proust e Joyce sono stati scomodati con eccessiva facilità dalla critica del tempo, come testimonia l’entusiasmo di Jean Béranger di fronte alle sollecitazioni intertestuali de Il posto delle fragole: Assistiamo a una sorta di de-teatralizzazione della sceneggiatura. Invece di essere concentrata in momenti forti, l’azione si
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trova sparpagliata in una moltitudine di istanti fugaci, la cui coesione resta affidata all’intelligenza e all’attenzione dello spettatore. […] Questo processo di de-teatralizzazione raggiunge l’ambiguità scespiriana e le innumerevoli serpentine psicologiche di uno Strindberg o di un Pirandello. Da questo punto di vista l’eredità di Zola o Maupassant è meno forte di quella di Proust o Joyce. 4
In realtà suddetti padri sono spesso rinnegati dal figlio. Restiamo a Il posto delle fragole. Nella sequenza del processo di Isak Borg è possibile avvertire l’eco della dialettica kafkiana tra colpa e innocenza. Come quella imputata a K., la colpa di Isak non è ancorata a un dato oggettivo, ma è astratta: è «colpa della colpa». Se però in Kafka le implicazioni simboliche e l’osservazione realistica si intrecciano in un connubio volto a restituire l’incertezza fantastica del sogno, Bergman non esita a verbalizzare le digressioni oniriche del suo narratore delegato, in modo da separare nettamente i due piani della rappresentazione. Come colpa, anche solitudine, ovvero l’oggetto della punizione inflitta in sogno a Isak Borg, è una parola pericolosa e «già vista», carica di storia letteraria e filosofica. Sarebbe interessante indagare le sfumature di quegli elementi del lessico bergmaniano che evocano topoi della letteratura novecentesca quali appunto la colpa (Camus), l’alienazione (Sartre) o l’isolamento, tema centrale, tra gli altri, di Solo, un romanzo breve di Strindberg spesso dimenticato quando si affronta la questione dell’intertestualità bergmaniana. Vedovo ma non ancora alle soglie della morte, il personaggio di Solo altro non fa che ritirarsi dal mondo dei
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vivi per stringere, assieme alla propria penna, ricordi che lo trasportano là dove il tempo è sospeso. «In conclusione – dice il narratore senza nome – la solitudine è questo. Avvolgersi dentro al filo di seta che fila la nostra anima, diventare crisalide e aspettare la metamorfosi, che avverrà sicuramente.» 5 Forti sono naturalmente le influenze della cultura scandinava. Oltre ai «classici» Almqvist 6 e Kierkegaard, vanno citati almeno Hjalmar Bergman 7, per l’introspezione psicologica e l’attenzione alla psicanalisi, e Pär Fabian Lagerkvist 8, moralista poliedrico che in opere come Il sorriso eterno (1920) o Barabba (1951) supera la stagione del naturalismo per inoltrarsi nelle zone d’ombra di un Io, quello dei suoi antieroi, scisso tra l’attrazione per il Male e la fede nel riscatto. Un verso di Lagerkvist, tratto dalla raccolta Angoscia (1916), sembra incarnare la crisi interiore di tanti personaggi bergmaniani, Isak in primis: «L’Amore non è nulla / L’Angoscia è tutto / L’Angoscia di vivere». Come è stato osservato 9, la matrice kierkegaardiana di quest’angoscia è rinvenibile nella reazione di personaggi come Borg e Block (Il settimo sigillo) di fronte alla morte. Il coraggio nell’affrontarla trasforma per entrambi l’attesa in una vitale ricerca di senso e ispira l’azione anziché la disperazione. Alla luce di Aut aut, il viaggio di Isak Borg si presta a essere letto come un itinerario di passaggio dalla vita estetica, dove l’Io non ha memoria e si ripete in istanti sempre identici, alla vita etica, che invece vede l’Io uscire dall’ermetismo della maschera (l’isolamento di cui parla Isak all’inizio del film) e conferire, attraverso la scelta, una consistenza temporale alla propria vita.
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È stato inoltre facile rinvenire tra le righe di alcuni dialoghi l’eco delle tesi esposte da Kierkegaard ne La malattia mortale, dove il tormento della disperazione è definito come «il non poter morire». È questo il morbo che angoscia Evald, figlio ma anche «doppio» di Isak: la malattia di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. «Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza – scrive Kierkegaard – la disperazione è l’assenza della speranza di poter morire.» 10 La disperazione accompagna tutta la vita e costringe l’Io a vivere la propria morte spirituale, quella condizione a cui sembra accennare Isak al risveglio da uno dei suoi incubi: «Ho l’impressione che sono morto, anche se vivo». Le parole di Evald sono più dure, ma l’orizzonte del desiderio non cambia: «Ho bisogno di essere morto, definitivamente, assolutamente morto». Il morire della disperazione si trasforma dunque in un eterno vivere (si pensi alla figura della madre di Isak, non-morta per eccellenza), illuminato dalla luce di una Speranza verbalizzata unicamente come citazione letteraria: eloquente è il canto Dov’è l’amico che in ogni luogo cerco, recitato a fatica da Isak, come vedremo, durante il pranzo con gli autostoppisti. Non sappiamo se tale malattia mortale provochi in Evald e Isak quell’atrofia dei sensi che invece avvertirà sul suo corpo un’altra Marianne, la moglie non-morta di Scene di un matrimonio, incapace di comunicare con gli oggetti che la circondano: I miei sensi, il tatto, la vista, l’udito, cominciano a tradirmi. Posso dire per esempio che questo tavolo è un tavolo. Posso
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vederlo, toccarlo. Ma la sensazione che mi rimane è meschina e secca.
Quando i sensi si spengono, l’immaginazione, ed è il caso di Isak, viene in aiuto.
La costruzione dello spazio: modelli pittorici L’immaginario figurativo di Bergman attinge a più riprese ai modelli del realismo scandinavo, ma rivela anche non trascurabili influenze del romanticismo tedesco. Per quanto concerne Il posto delle fragole la pastosità della luce, nelle visioni diurne di Isak Borg, rimanda ai plein-air di Carl Larsson (1853-1919), punto di riferimento imprescindibile per chiunque debba rappresentare scene di vita domestica nella Svezia di fine ’800. Non a caso Philip e Kersti French, nella loro recente monografia, hanno accostato ai fotogrammi degli interni di casa Borg un dipinto dal titolo L’angolo della punizione (1890), nel quale si vede un ragazzino seduto su una sedia accanto alla porta di una stanza arredata con quadri, tappeti e decorazioni varie. «Questi dipinti di Larsson – scrive Philip French – sono più prescrittivi che descrittivi, esprimono un ideale di armonia più che offrire una riproduzione realistica della vita di famiglia.» 11 Acquerelli come Colazione sotto il grande albero (1899) o Ragazza tra i gigli (1887) evocano quella «chiara realtà del giorno» di cui parla il veggente Isak, con la luce che riverbera sull’erba e sui tessuti degli abiti estivi. Quando si tratta di rappresentare il dialogo tra Sara e la natura (la raccolta delle fragole),
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Bergman trascura un modello forte come i nudi femminili di Anders Zorn e sceglie la compostezza nostalgica delle fanciulle di Larsson, imitandone spesso anche la posa: lo sguardo in macchina di Sara nella sequenza finale, quando stringe tra le dita le foglie di un ramo, ricorda la postura del fiabesco Principessa primavera (1898). Il pranzo di famiglia sognato da Isak (seq. 4, fig. 1) ricalca, per taglio di scena e disposizione dei personaggi, l’organizzazione dello spazio de La cena di Natale (1904, fig. 2), fonte iconografica preziosa per la scenografia di Fanny e Alexander. Secondo Philip French, invece, il modello pittorico di riferimento per suddetta scena sarebbe un dipinto di un’imitatrice di Larsson, Fanny Brate, che si intitola proprio La celebrazione dell’onomastico. Sia Larsson che il cineasta inseguono l’«effetto di reale»: se Bergman cura in modo maniacale la verosimiglianza degli ambienti, Larsson mira a restituire la dimensione della profondità. I suoi interni suggeriscono all’osservatore la sensazione di essere dentro lo spazio scenico, grazie a una struttura prospettica che rende visibili le quattro pareti della stanza. La luce che filtra dalle finestre sembra voler conferire alle scene di vita familiare un’aura sacrale, in armonia con il progetto del pittore intitolato La nostra casa (Ett hem, 1894), una sorta di album di famiglia simile a quello che ispirerà, come vedremo, le inquadrature finali de Il posto delle fragole. Alla ricerca ossessiva di riferimenti pittorici, Philip French si è spinto sino a Munch, ovvero il lato oscuro dell’iconografia scandinava, suggerendo addirittura improbabili analogie tra il volto di Isak Borg al risveglio dal primo incubo e l’autoritratto dipinto da Munch nel 1942,
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quando il pittore aveva 78 anni, l’età di Isak. French, e dopo di lui Terrone, ipotizzano affinità tra Gelosia (1895) e un atto voyeristico di Isak, ovvero il gesto di spiare da dietro la porta i preparativi del pranzo in onore dello zio Aron. Costruito sulla compresenza plastica del tradito (il volto in primo piano) e dei traditori (gli amanti sullo sfondo), Gelosia sembrerebbe piuttosto richiamare la profondità di campo adottata da Bergman per la sequenza dell’ultimo incubo di Isak, quando l’uomo osserva la moglie e il suo amante nascosti nella radura. Lasciando perdere Munch, l’idillio solare di Larsson mi sembra contraddetto, nelle ambientazioni notturne del film, da un simbolismo di forte ispirazione romantica. La natura si offre al perduto Isak come un paesaggio arcano e spento, illustrazione sin troppo didascalica di quel «non so che di fatale e di sinistro» con cui il dormiente introduce allo spettatore l’ingresso nel suo sogno. I corvi che popolano le fronde sotto le quali giace il figlio di Sigbritt (fig. 3) sembrano usciti da un notturno in controluce di Caspar David Friedrich. Penso a L’albero e i corvi (1822, fig. 4), costruito su quel leitmotiv dell’albero secco che punteggia ossessivamente gli esterni del film, fungendo da fondale dipinto per duetti tanto immaginari (Sara e Isak) che reali (Marianne ed Evald). La luce di Gunnar Fisher sembra voler imitare non solo l’irradiazione della luna tra i rami (si veda Due uomini che guardano la luna, 1819) ma anche la leggera nebbia dell’alba che avvolge molti dei paesaggi spettrali di Friedrich (Abbazia nel querceto, 1809, ad esempio), figurazioni di una Morte che si dà come scarnificazione, oscurità, scheletro. Ancora una volta non interessa il
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reale, ma le forme stratificate della sua messa in scena, come se accanto al suo alter ego Bergman viaggiasse ai confini della propria memoria figurativa.
1957: il contesto italiano Si è detto sopra che Il posto delle fragole incarnerebbe alla perfezione quello che alcuni studiosi, Paolo Bertetto in primis, identificano come l’«immaginario della crisi». L’annullamento dell’oggettività nella crisi del Soggetto è uno dei fili rossi che non a caso lega, per restare in Italia 12, alcune delle opere coeve del capolavoro bergmaniano. Siamo esattamente al crocevia tra le luci del classico e la nebbia del moderno. Con l’esordio di Chabrol (Le beau Serge) e i pamphlet di Truffaut la Nouvelle Vague smuove le acque del cinema francese, mentre a Hollywood i generi dimostrano ottima salute, ma anche individualità autoriali di sicuro avvenire (Stanley Kubrick su tutti: Rapina a mano armata, The killing). In Italia sono invece anni dove tutto, come ha notato Sandro Bernardi, odora di chiuso, dove il vecchio rimane incrostato dentro il nuovo e nulla nel panorama culturale sembra anticipare la boccata d’aria dell’imminente boom economico 13. Di questo clima asfittico e del perbenismo ispirato all’imperante morale cattolica è vittima proprio la produzione bergmaniana degli anni ’50. Nel cinema italiano del 1957 si alternano rigurgiti del neorealismo rosa (Belle ma povere di Dino Risi, I sogni nel cassetto di Renato Castellani), prodromi di commedia al-
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l’italiana (Il conte Max di Vittorio De Sica, Padri e figli di Mario Monicelli) e la ricerca personale di autori quali Visconti, Antonioni e Fellini, sopravvissuti alle ceneri del neorealismo e ora alle prese con una rivisitazione di quel genere, il melodramma, così familiare a Ingmar Bergman. Le notti di Cabiria, Le notti bianche e Il grido testimoniano la volontà di snaturare i codici di questo genere lavorando su un terreno non lontano da quello sondato dal maestro svedese, ovvero sull’immaginario del protagonista, sul suo instabile equilibrio tra realtà e immaginazione. La prostituta di Fellini, gli amanti di Visconti e il viandante di Antonioni oppongono alla fisicità del mondo reale, restituita in due casi come splendore del vero (la pioggia ne Il grido, la sterpaglia in Le notti di Cabiria), gli orizzonti di un paesaggio tutto interiore, che la cinepresa indaga attenta a quel disagio esistenziale che appare come una dolorosa e lenta «cognizione del dolore». Il viaggio di Cabiria è simbolico come quello di Isak, strutturato in senso circolare (da un tentato omicidio a un tentato omicidio) e illuminato da una luce di speranza, evidente nel sorriso grottesco disegnato nel finale sul volto di Giulietta Masina. La Bildung del personaggio avviene mediante incontri (il divo, il camionista, l’ipnotizzatore) che fungono da specchi dell’inconscio stesso dell’eroina 14. Come Isak Borg, l’operaio abbandonato ne Il grido si muove in un paesaggio che è emanazione di un animo travagliato, alle prese con il conflitto tra un desiderio (l’amore) e il suo scacco (il rifiuto). Filmare un corpo che viaggia significa non solo seguire i suoi spostamenti nel paesaggio, ma anche restituire la sensazione di un Io che si frantuma,
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incontro dopo incontro, passante dopo passante, prima dell’atteso confronto con la morte: per Antonioni essa è un banale incidente, per Bergman un sonno sereno, occasione per una meditazione attiva sulla vita. Rilevate queste affinità tematiche tra Il grido e Il posto delle fragole, tappe di due ricerche che seguiranno strade più lontane di quanto non possa apparire a una prima visione, restano evidenti le differenze a livello linguistico ed estetico 15. Dove Antonioni registra, ritornando «alle cose stesse», Bergman racconta, subordinando il rumore del vento o l’ombra delle fronde alle finalità narrative di quell’inquadratura o di quella sequenza. Da un lato, ne Il grido, si evitano le scene madri per concentrarsi sulle derive stesse del racconto, che si indebolisce nel tempo al pari del corpo del viandante. Dall’altro invece abbiamo un personaggio coinvolto in una catena di azione e reazione, mosso da un’istanza narrante pronta a trasformare ogni personaggio nell’allegoria di un sentimento o di una posizione morale (Marianne è la fiducia nella vita, Evald è la paura della vita, i tre giovani sono la speranza nel futuro e così via). Se Antonioni filma l’assenza di senso, il Bergman di questi anni inventa personaggi che ricorrono alla parola per dare senso alle cose.
Stefano Boni, Svezia. Cinematografia, in Enciclopedia del Cinema Treccani, vol. V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2004. 2 Ingmar Bergman in John Reilly, The Image maker, John Knox Press, Richmond 1971. 1
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Cfr. Fabrizio Marini, Ingmar Bergman. Il settimo sigillo, Lindau, Torino 2001, p. 20. 4 Jean Béranger, Ingmar Bergman et ses films, Le Terrain Vague, Paris 1962 p. 24-25. 5 August Strindberg, Solo, in Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 2001, vol. II, p. 972. 6 Tra i più grandi esponenti del romanticismo scandinavo, il pastore luterano Carl Jonas Love Almqvist (1793-1866) fonde la sua indole mistica con una vena anarchica di stampo rousseauniano. Interessante, sull’asse Strindberg-Bergman, è il titolo della raccolta delle sue poesie: Sogni (1840-1850). 7 Analista crudele della vanità borghese, Hjalmar Bergman (1883-1931) è soprattutto l’autore de La leggenda (Sagan, 1920), dramma portato in scena da Bergman anche a Parigi nel 1959, in coincidenza con la prima francese de Il posto delle fragole. Affine allo spirito di questa stagione bergmaniana ci sembra però il dramma La porta (1923), avventura onirica di un uomo alle soglie della morte. 8 Pär Lagerkvist (1891-1974) assorbe le influenze dell’espressionismo tedesco (L’ultimo uomo, 1917) senza mai perdere di vista il leitmotiv della sua ricerca artistica: il tentativo di superare il vuoto lasciato dalla perdita della fede. 9 Per un parallelo tra la poetica bergmaniana e il pensiero di Kierkegaard si rinvia al saggio di Antonio Napolitano (Dal settimo sigillo alle soglie della vita, «Cinemanuovo», n. 151, maggio-giugno 1961) di cui presentiamo un estratto nell’Antologia critica. 10 Søren Kierkegaard, La malattia mortale, Mondadori, Milano 1990, p. 17. 11 Philip French, Kersti French, Wild Strawberries, BFI Classics, London 1995, p. 53. 12 Ben più radicale sarà di lì a due anni la messa ai margini del tempo operata dal Resnais di Hiroshima mon amour (id., 1959), tentativo di rappresentare un infinito temporale «all’interno di un intervallo molto breve» (Rivette), quello della riflessione sul passato e sul presente. 13 Cfr. Sandro Bernardi, Gli anni del centrismo e del cinema popolare, in Sandro Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano 1954-1959, vol. IX, Edizioni di Bianco e Nero-Marsilio, Venezia-Roma 2001. 14 Cfr. Vito Zagarrio, Sulla strada di Fellini, in Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano 1954-1959 cit., p. 249. 3
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«Antonioni è un esteta, non un cineasta. Fa attenzione a un’inquadratura isolata, ma un film è un flusso continuo» (Ingmar Bergman in Jan Aghed, Rencontre avec Ingmar Bergman. Accomplir un bon travail d’artisan, «Positif», nn. 497-498, luglio-agosto 2002, p. 9). Per un parallelo tra Bergman e Antonioni si veda Peter Cowie, Antonioni, Bergman, Resnais, AS Barnes and Company, New York 1963. 15
Nascita del film
I miei film sono stati concepiti nelle interiora della mia anima, nel mio corpo, nei miei nervi, nel mio sesso, nelle mie budella. Ingmar Bergman
La genesi de Il posto delle fragole è avvolta nella nebbia di una memoria che, come accadrà anche in seguito, non si avvale di alcun archivio cartaceo. Il diario di lavorazione viene gettato immediatamente dopo la fine delle riprese, nell’agosto 1957, quando il suo redattore è atteso a Malmö dalle prove de Il misantropo. I due mesi trascorsi nella clinica Karolinska di Stoccolma, tra aprile e maggio 1957, non servono a guarire quel «caos negativo» che affligge le relazioni umane del paziente, incapace di uscire dalla crisi con la terza moglie (Ellen Lundström). Anche la relazione con Bibi Andersson sfiorisce, nonostante l’affiatamento artistico, e di nessun conforto sono i genitori, dato il vecchio conflitto che separa Bergman dalla madre: troppi scheletri nell’armadio e troppi
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malintesi lasciano nell’animo quella che il cineasta definisce «un’infinita amarezza»: Penso che una delle principali forze motrici del film risieda proprio qui. Rappresentavo me stesso nel personaggio di mio padre e cercavo una spiegazione al doloroso conflitto con mia madre. Mi sembrava di capire che ero un figlio non desiderato, essendo cresciuto in un ambiente freddo dopo essere nato in un tempo di crisi, fisica e psichica. Il diario di mia madre poi ha confermato il mio sospetto: davanti a quel neonato moribondo, i suoi sentimenti furono di una violenta ambiguità. 1
Mai come in questo caso la genesi di un film sembra riflettere in modo simbiotico la testura stessa dell’opera, un viaggio ai confini di un inconscio, quello di Isak Borg, esplorato attraverso l’inconscio del suo creatore. Si pensi al rilievo simbolico del nome del protagonista, rivelatore, a quanto dice lo stesso Bergman 2, della volontà dell’autore di identificarsi nel suo personaggio. Is come ghiaccio, Borg come fortezza. Isak Borg è Ingmar Bergman, Ingmar Bergman è una fortezza di ghiaccio: Modellavo un personaggio che era in tutto e per tutto io stesso. Avevo trentasette anni, ero tagliato fuori da tutte le relazioni umane ed ero io stesso che tagliavo queste relazioni perché volevo affermarmi. Ero un uomo chiuso, un fallito, e non poco, un fallito completo. Nonostante avessi successo e fossi forte, ordinato e disciplinato. 3
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Prendiamo le parole di Bergman con la giusta distanza, consapevoli che potrebbero presto essere smentite come accadde a quella confessione autobiografica rilasciata negli anni ’60 a Stig Björkman per Le cinéma selon Bergman, uno dei primi studi francesi sul regista. L’idea del film sarebbe nata durante un viaggio in auto in direzione di Uppsala, meta presto sacrificata a vantaggio di una sosta nella casa della nonna, in Trädgårdsgatan. L’emozione di ritrovare gli odori di un tempo, la possibilità di rituffarsi nell’infanzia: null’altro che menzogne. Perché l’infanzia, a quanto affermato in Immagini, non è il termine di un viaggio, ma una sacca amniotica da cui l’uomo e il cineasta non escono mai, se non per qualche breve attimo, presto rimpianto: «Abito senza sosta nel mio sogno, da dove a volte mi muovo per visitare la realtà» 4. Non è un caso allora che la fase più delicata e irrazionale dell’atto creativo, ovvero l’inventio, si apparenti, per affinità sensoriali, all’esperienza onirica: L’idea iniziale di un film, in me, sorge in modo assai vago […]. Può trattarsi di qualche battuta musicale di una striscia di luce attraverso la strada. […] Si tratta di impressioni fuggevoli […] che lasciano uno stato d’animo come certi sogni piacevoli. È uno stato mentale prodigo di fertili associazioni e d’immagini. È un filo colorato che esce dal sacco buio dell’inconscio. 5
Chissà, infine, se in questo stagno del rimosso non sia affiorato, in questo tormentato 1957, anche il ricordo di un
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feticcio come il primo film posseduto dal figlio del pastore, non a caso il racconto di un sogno: Il primo film che possedetti era lungo tre metri e di color marrone. Mostrava una ragazza addormentata in un prato che poi si svegliava, si stirava e quindi scompariva verso destra. Non c’era nient’altro. Questo film fu la mia grande passione, continuai a proiettarlo ogni sera finché si ruppe al punto da non poter più essere riparato. 6
Non sappiamo nulla delle immagini che cullano il sonno di questa misteriosa ragazza, ma poco importa. Alla luce di queste confessioni Il posto delle fragole non appare nient’altro che l’estremo approdo di una fuga dalla veglia cominciata tante estati prima.
Uno stile narrativo: Erik Nordgren e Gunnar Fischer Le riprese cominciano il 2 luglio 1957 nei Filmstaden Studios di Råsunda, alle porte di Stoccolma. Tra la fine della sceneggiatura e il primo ciak passano solo tre giorni. Se per il casting le procedure sono rapide, in quanto la maggior parte degli interpreti lavorava già con Bergman al Teatro Nazionale di Malmö, per quel che riguarda i collaboratori Bergman va sul sicuro. Oscar Rosander era un punto di riferimento in sala di montaggio mentre Erik Nodrgren e Gunnar Fischer avrebbero garantito quella trasparenza nei confronti del racconto necessaria per l’impianto narrativo che lo sceneggiatore aveva in mente.
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Professore di violino all’Accademia di musica di Stoccolma, Erik Nordgren 7 nel 1957 è ancora il direttore musicale della Svensk Filmindustri, anche se coltiva quelle ambizioni di compositore «alto» che in parte soddisferà con alcuni concerti per clarinetto, tre quartetti per archi e molta musica elettronica. Il posto delle fragole è l’ottavo lavoro realizzato in collaborazione con Bergman 8, che sino a Sete si era avvalso della collaborazione, più o meno imposta dal sistema produttivo, di Erland von Koch. Attento a rafforzare in termini connotativi il senso veicolato dall’immagine, Nordgren è forse il musicista più adatto all’animo classico del Bergman di quegli anni, non ancora condizionato dall’influenza artistica della moglie Käbi Laretei, che lo invoglierà a ricorrere direttamente alla musica preesistente 9. Si pensi a quel crescendo di tamburi che «racconta» l’incontro tra l’io e il suo doppio alla fine del primo incubo (seq. 1), ma ancor più all’incipit della stessa sequenza, quando gli archi che riempiono i titoli di testa attenuano il loro slancio per dare alla voce di Sjöström, introdotta da un fraseggio di arpa, la possibilità di farsi ascoltare dallo spettatore. Il tema sviluppato dall’orchestra durante i titoli di testa contiene quel leitmotiv melodico, facilmente orecchiabile, che ritorna identico in alcuni dei momenti più lirici del racconto: la prima fantasticheria nel posto delle fragole, la recita del salmo sulla terrazza, la cerimonia di premiazione a Lund. Allo stesso modo i timbri scuri dei tamburi nell’ouverture dell’incubo connoteranno anche il dettaglio dell’orologio senza lancette mostrato a Isak dalla madre e l’inizio dell’esame universitario condotto dall’in-
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gegner Alman. Le peripezie della memoria hanno dunque un tema musicale ben definito, soggetto a precise variazioni e pronto a sfumare non appena il campo è invaso dalla voce degli interpreti o da quella della natura, come accade con il canto degli uccelli durante la prima apparizione di Sara. Come ha osservato Roberto Pugliese 10, le lunghe spiagge di silenzio verbale vengono inglobate dalla partitura come se fossero pause del discorso musicale, in armonia con quella ricerca del ritmo nel racconto che ossessiona l’estetica bergmaniana. Quanto detto per la musica vale anche per l’impianto figurativo. Nato nel 1910 e ritiratosi nel 1975, il figlio d’arte Gunnar Fischer si forma alla scuola di Julius Jaenzon, direttore della fotografia dei maestri del muto svedese (Victor Sjöström e Mauritz Stiller su tutti). La sua educazione è dunque all’insegna di uno stile espressionista, dove l’immagine è nitida, contrastata e cristallina. Comincia a collaborare con Bergman nella difficile sfida di restituire il grigiore del reale in Città portuale, per poi invece inseguire i bagliori del sole estivo nei successivi Un’estate d’amore e Monica e il desiderio: l’obiettivo è accentuare in senso psicologico e drammatico i riflessi che il sole imprime sull’acqua e sui volti. Le variazioni di luce dovrebbero evidenziare le palpitazioni dell’animo dei personaggi. Fischer resterà con il maestro sino a L’occhio del diavolo (Djävulens öga, 1960), un film adatto al suo stile teatrale manierista, per poi lasciare il posto a Sven Nykvist, che darà alle immagini di Bergman una luce più morbida, leggera e avvolgente. Abile nell’utilizzare le luci d’ambiente e nello svolgere le funzioni di operatore, Fischer ha comunque il meri-
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to di quella saturazione di corpi in profondità di campo che contribuisce a restituire l’angoscia dei personaggi durante le scene madri dei melodrammi sopraccitati. Per Il posto delle fragole il taglio luministico è naturalmente simbolico, finalizzato a conferire a ogni stazione del viaggio il rispettivo «colore»: una luce sfumata e brillante per le scene ambientate nel passato, un filtro più scuro per quelle collocate nel presente e un’alternanza di sovraesposizioni e contrasti acuti a connotare di angoscia gli incubi, in particolare quello iniziale (si veda il cap. La solitudine del volto). Questa sequenza fu girata quasi completamente in studio, con l’eccezione di alcune inquadrature della scena del funerale, catturate nel quartiere di Gamla Stan a Stoccolma alle due del pomeriggio, l’ora in cui il sole in Svezia è a picco sull’orizzonte. Così Fischer racconta le difficoltà tecniche incontrate: Ho fatto in modo di avere dei metri di pellicola di riserva per poter fare degli esperimenti. In generale dovevamo lavorare con una quantità ridotta di pellicola […] ne ho scelto una rapida e molto sensibile. E siamo stati fortunati con gli esterni scelti per la scena dell’incubo. La luce del sole era fortissima, ideale per il taglio contrastato che volevo dare. Quando siamo rientrati dal pranzo il sole si era mosso – come naturale – e dritta in mezzo alla strada si stagliava l’ombra di un albero di betulla. 11
Si è detto che l’obiettivo dell’impianto luministico era quello di esprimere l’angoscia di un uomo dinanzi alla Morte. L’angoscia, a quanto pare, è però un sentimento vivo anche durante le riprese.
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«Uno stato di angoscia costante»: Victor Sjöström Bergman non ne ha mai fatto mistero. Una delle fonti di emozione più intensa, quando egli rivede il suo film nel cinema privato di Fårö, è il volto di Victor Sjöström, quella nuca fragile e quella voce appena tremolante che di lì a poco si sarebbe spenta per sempre. Quello con l’anziano cineasta, deceduto solo due anni dopo la prima svedese del film (3 gennaio 1960), è un rapporto di stima e collaborazione che comincia negli anni ’40, quando Sjöström, direttore artistico dello Studio alla Svensk Filmindustri, si reca sui set di Bergman dispensando, tra una passeggiata nel bosco e un’occhiata ai giornalieri, consigli preziosi per il suo giovane ammiratore. Ex attore di teatro presto convertitosi al cinema, Sjöström in quegli anni era una delle poche star del cinema scandinavo. Gli inizi erano stati difficili: dopo quindici anni di carriera teatrale, dietro e davanti alle quinte, era arrivato alla regia cinematografica nel 1912 con Ett hemligt giftermål [Un matrimonio segreto], melodramma di ispirazione griffithiana, per poi firmare quell’Ingeborg Holm (id., 1913) che tanto ha influenzato l’evoluzione della messa in scena bergmaniana 12. Storia di una madre che si vede vendere all’asta i propri figli dopo la morte del marito, Ingeborg Holm colpisce il giovane Bergman per la plasticità nella composizione dell’immagine, costruita in profondità di campo senza l’utilizzo del primo piano. La ricerca della durata in alcune scene di conversazione in interni (penso a Donne in attesa) deve molto alla sperimentazione del maestro.
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Dopo il successo de Il Carretto fantasma (Körkarlen, 1920), ancora oggi esemplare per l’utilizzo della sovrimpressione nella costruzione dell’atmosfera fiabesca, Sjöström aveva accolto l’invito oltreoceano della MGM, faticando però a infondere il proprio talento visivo in soggetti per lo più mediocri: La lettera scarlatta (The Scarlett Letter, 1926) e Il vento (The Wind, 1928) sono forse gli unici gioielli di questo decennio americano. Nel secondo dei due film il rapporto simbiotico tra uomo e natura conserva i toni epici ispirati da Selma Lagerlof, autrice del romanzo da cui è tratto Il carretto fantasma, ma si colora di venature nere (Lillian Gish si vendica dell’uomo che la violenta uccidendolo) che mettono in crisi quegli ideali espressi nelle opere precedenti, ovvero la vita agreste e l’armonia familiare come protezione contro la seduzione del Male. Lo sviluppo industriale della società svedese fa apparire più che mai letterario e fuori tempo il senso di comunione mistica tra uomo e natura messo in scena da Sjöström. Gli anni ’30 segnano l’addio definitivo a Hollywood e il tentativo di ritornare a calcare il palcoscenico del teatro svedese, in ruoli per lo più drammatici. Solo alla fine degli anni ’40, dopo aver maturato il proprio gusto in materia di recitazione, Bergman si decide a scritturare l’ex attore per un ruolo di secondo piano, il direttore d’orchestra testimone dell’amore tra i due musicisti di Verso la gioia. Ricordiamo di questo film una sequenza su tutte: seduti sul letto, i due coniugi sono sorpresi in un abbraccio che il personaggio interpretato da Sjöström, narratore interno, definisce «tenero ma profondamente erotico», oltre che carico di paura infantile.
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Resta il mistero su chi, tra Bergman e il produttore Cars Anders Dymling, abbia avuto per primo l’idea di scritturare Sjöström alla fine di quel maggio 1957, visto che la confessione estorta da Stig Bjorkman in Bergman on Bergman («Ho chiesto a Dymling di poter avere Sjöström») differisce da ciò che possiamo leggere in Immagini («L’idea è venuta a Dymling, io ci ho pensato su e poi mi sono convinto»). Sull’argomento l’autore è ritornato nella recente intervista concessa a Marie Nyreröd: Ho scritto con Victor Sjöström in mente, era la mia icona. Fu il manager della Svensk Filmindustri a chiamarlo, e lui disse che aveva letto la sceneggiatura. Disse che la trovava interessante ma non pensava di essere in grado di recitare la parte. […] Mi disse che ci avrebbe pensato. Ero d’accordo con la produzione sul fatto che se Victor non avesse accettato non ci sarebbe stato nessun altro al suo posto. Avevo scritto la storia pensando a lui. 13
Le precarie condizioni di salute impedirono all’attore di salire su di un’auto vera, costringendo Gunnar Fischer a ricorrere a dei trasparenti per i camera-car durante le scene di viaggio. Il risultato, a detta dello stesso direttore della fotografia, fu inferiore alle attese per il fatto che i tempi della produzione non permettevano di testare altri trasparenti. Alcuni aneddoti vogliono un Sjöström sereno e collaborativo tra un ciak e l’altro, ma poco malleabile di fronte alla direzione di Bergman, a tal punto, così afferma l’autore, da minacciare di abbandonare il set da un momento all’altro:
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In aggiunta alla sua enorme autodisciplina, viveva in uno stato di angoscia costante. Quest’angoscia deve averlo tormentato durante tutta la sua vita professionale: è una cosa che ho avvertito spesso durante la lavorazione de Il posto delle fragole. Mi è capitato di soffrire con lui, perché sentivamo il bisogno di dare il massimo, entrambi. Lo si vede anche nella sua opera di regista. Spinge le possibilità del mezzo all’estremo, ed è questo che fa la sua grandezza. 14
Come in Verso la gioia, anche ne Il posto delle fragole Sjöström si vede depositario dell’istanza narrante, ma le sfumature del ruolo sono infinitamente più sottili. La scommessa, a nostro avviso riuscita, è quella di far lavorare in levare l’ex David Holm, ormai incapace, data l’età, di contrapporre alla trasparenza della Morte (l’evanescente condottiero del carretto) l’esuberanza di un corpo ribelle: si pensi al sangue sputato sul fazzoletto, a quella porta tranciata con l’ascia che danno a Il carretto fantasma quel coté thrilling rimasto ineguagliato. Probabilmente le difficoltà di Sjöström sono state superate anche grazie al metodo di lavoro di Bergman, fondato su una sorta di «contatto umano» con l’attore ereditato della tradizione teatrale (Bergman è in fin dei conti un capocomico) e finalizzato a creare quel «clima di sicurezza» indispensabile all’autore 15. Tra i fili sotterranei che legano le motivazioni del maestro con le urgenze dell’allievo, la ricerca del padre è forse quello più scoperto. Al momento di interpretare David Holm, Sjöström ha 40 anni, più o meno la stessa età del Bergman che scrive Il posto delle fragole. Anche Il carretto fantasma è in un certo senso un racconto autobiografico,
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una sorta di faccia a faccia di un figlio celebre con il ricordo di un padre alcolizzato e violento, oggetto di un odio solo in parte riscattato dalla catarsi che purifica il personaggio. Nulla vieta di leggere nei numerosi flash-back che riportano in vita David Holm la metafora di un viaggio psicanalitico ai confini della colpa, volto a portare alla luce quelle virtù che il vizio dell’alcol aveva temporaneamente nascosto. Il padre incarnato dal figlio nel 1920 diventa ora, nel 1957, l’alter ego di un figlio alla ricerca del padre. Al momento di girare la sequenza dell’incubo notturno di Isak Borg, che analizzeremo tra breve, Bergman non ha fatto altro che ridipingere sul suo interprete quella maschera estatica scolpita, senza trucco, sul volto di David Holm. Che si tratti di una fredda notte di dicembre o della vigilia di una premiazione solenne poco importa, perché in questione è sempre l’affinità elettiva tra la Morte e un personaggio irrimediabilmente solo, rifugiato nell’alcol (Il carretto fantasma) o nello studio (Il posto delle fragole). Quando il carretto trasparente si avvicina al luogo dove David Holm è appena stato ucciso, la cinepresa di Sjöström crea una sorta di intervallo irreale tra lo spazio occupato dal vedente, inginocchiato sulla sua carcassa ancora calda, e quello percorso dal cavallo funebre. Nessun elemento profilmico assicura una contiguità spaziale al raccordo sullo sguardo del protagonista, a tal punto che Holm, nel momento in cui il cocchiere si scopre il capo, sembra passare dal ruolo di soggetto a quello di oggetto della visione. Vedremo come su questa incertezza del vedere Bergman costruirà il clima espressionista dell’unico sogno a occhi chiusi presente in Il posto delle fragole.
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Lo stile dell’attore non sembra cambiato: la schiena leggermente curva, il collo allungato verso l’alto e quegli occhi fissi nell’ignoto, mentre le labbra restano semichiuse, come incapaci di reagire allo stupore della visione.
Fuga a tre voci: Ingrid Thulin e Bibi Andersson Trattenuta è anche la recitazione di Ingrid Thulin (Marianne), futura musa qui al debutto assoluto con il maestro che la dirigerà, in seguito, in altre nove opere. Diplomata al Royal Dramatic Theatre di Stoccolma, Thulin viene scoperta da Bergman proprio sul palcoscenico e non nelle performance dirette da Gustav Molander, sceneggiatore fine ma regista mediocre, forse l’anello di congiunzione ideale tra la generazione di Sjöström e quella di Bergman 16. «Marianne – ha dichiarato Bergman – doveva essere un personaggio deciso e forte in grado di comunicare la sua fermezza. Ingrid emanava qualcosa di sostanziale. Questo è quello che volevo.» 17 Fermi sono i muscoli del volto, come dimostra la mimica impiegata nella sequenza della visita alla madre di Isak, quando la nuora stringe a sé una bambola, ovvero una maschera, dallo sguardo fisso e rigido come il suo. Come ha osservato Yann Tobin 18, Thulin porta un segno di maturità nell’universo femminile bergmaniano, sino a quel momento dominato da adolescenti immature (Harriet Andersson) o creature materne dalla femminilità fiorente (Eva Dahlbeck). Le particelle del suo volto attirano la cinepresa senza invogliarla a quell’ebbrezza panica dimostrata in Monica e il desiderio. I musco-
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li per ora non alterano, come invece accadrà nel successivo Alle soglie della vita (Nära livet, 1958), la superficie del volto dell’attrice, tappeto di segni su cui le parole del protagonista rimbalzano senza lasciare traccia, in opposizione all’esuberanza gestuale di Bibi Andersson, deuteragonista alle prese col doppio ruolo di giovane ribelle ed ex amata. Secondo Robin Wood l’accoppiata Thulin-Andersson duplica, rinnovando il conflitto tra maturità e innocenza, il dualismo instaurato a metà anni ’50 tra Eva Dahlbeck e Harriet Andersson 19, eredi di quella Maj-Britt Nilsson che resta una delle più talentuose tra le muse del maestro. Ha inoltre ragione Yann Tobin quando individua, tra i personaggi bergmaniani interpretati da Thulin negli anni ’60, un certo sgretolarsi di quella fermezza d’animo incarnata dall’austera Marianne, in nome di una repressione degli istinti che farà di Ingrid Thulin un’icona del dolore imploso: penso alle frustrazioni sessuali e sentimentali di Marta (Luci d’inverno), di Ester (Il silenzio), di Karin (Sussurri e grida) 20. Il cinema italiano, da Visconti (La caduta degli dei, 1969) a Ferreri (La casa del sorriso, 1991), contribuirà forse involontariamente a rafforzare quest’immagine di corpo decadente, arrendevole ai sensi, vittima di un lento disfacimento morale (Visconti) o più semplicemente fisico (Ferreri). Ventidue anni e dodici film alle spalle, Bibi Andersson aveva esordito nel 1951, a sedici anni, in uno spot pubblicitario diretto dallo stesso Bergman per poi intraprendere studi di recitazione ed essere di conseguenza integrata nella troupe del maestro allo Stadsteater di Malmö.
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La grazia ingenua raffigurata in Sorrisi di una notte d’estate e ne Il settimo sigillo, dove interpreta Mia (la moglie del saltimbanco Jof), si vela ora di venti di ribellione (Sara autostoppista) e accenti di crudeltà (Sara giudice nel sogno di Isak) che scalfiscono l’immagine della giovinezza come luogo del vagheggiamento dei sensi, dimostrando che l’interprete è forse pronta, come dimostrerà in Persona, per ruoli ancora più complessi di questo. Bibi Andersson non ha mai fatto mistero di non amare la propria performance ne Il posto delle fragole, in relazione soprattutto alla scena del primo incubo notturno nel bosco: La parte era più difficile rispetto a quelle a cui ero abituata. Bergman voleva che io fossi crudele e al contempo piena di giovinezza. Mi disse: «A causa della tua innocenza, tu non hai pietà. In quanto felice, spensierata e curiosa, tu giudichi e condanni le persone. Le qualità della gioventù in certe situazioni sono brutali, ricordatelo». Voleva che io proiettassi sul ruolo la freddezza che ogni giovane può avere dentro, la freddezza senza la pietà. Non ero sicura di sapere come interpretare quel ruolo. Quando, tempo dopo, ne compresi lo spessore, mi resi conto che forse non ne ero stata all’altezza. 21
Tale insoddisfazione è dovuta anche ad alcuni aspetti tecnici che riguardano la resa della grana della voce: Ho rivisto di recente Il posto delle fragole e ho trovato la mia recitazione terribile, terribile. Ma eravamo tutti abbastanza patetici sul set. C’era un modo di recitare diverso, oppure deve essere per colpa del suono che la nostra voce oggi risulta di-
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versa e strana. Non lo so. Le voci all’epoca risuonavano in modo diverso, oggi le sento come artificiali. Per questo avverto una certa «distanza» quando rivedo i miei primi film. 22
Costruito sulla dialettica tra parola (Andersson) e sguardo (Thulin), il duetto femminile de Il posto delle fragole anticipa gli esercizi di stile che verranno, da Il silenzio (Lindblom-Thulin) a Persona (Ullmann-Andersson, con quest’ultima ancora impegnata a riempire di parole lo spazio sonoro). Lo stile di recitazione duplica la figura dell’ossimoro così evidente a livello tematico (gioventù versus vecchiaia, sogno versus realtà). Se Thulin guarda verso un punto indefinito dello spazio, dentro le sue ferite (si pensi alle conversazioni con Isak in auto), Andersson asseconda con lo sguardo tutto ciò che si muove attorno a lei: corpi, parole, gesti. Identica è la dicotomia costruita dalla coppia maschile Von Sydow-Björnstrand: l’esuberanza gioiosa di Åkerman, il benzinaio che accoglie con un’enfasi gestuale il professor Borg, è contraddetta dalla rigidità statuaria di Evald, capace di limitare al minimo l’utilizzo dei muscoli del volto. Escludendo queste due apparizioni maschili, Il posto delle fragole è musicalmente strutturato come una fuga a tre voci. Da una lato la gravitas introversa di un corpo più incline al sussurro che al grido (Thulin); dall’altro la leggerezza di chi (Andersson) non ha ancora cercato il proprio posto delle fragole, ma conserva intatta la freschezza del tempo perduto. In mezzo, la carne pesante di un vecchio di settantotto anni, viaggiatore immobile ai confini fantasmatici della propria memoria.
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Ingmar Bergman, Images, Gallimard, Paris 1992, p. 19 (ed. it. Immagini, Garzanti, Milano 1992). 2 Ivi, p. 23. 3 Ivi, p. 24. 4 Ivi. 5 Ingmar Bergman, Introduzione, in Quattro film. Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto, Einaudi, Torino 1961, p. XIII. 6 Ivi. 7 Le sue partiture per il cinema figurano nelle filmografia di artigiani quali Alf Kjellin, Lars-Eric Kjellgren, Jan Troell, Gustav Molander e Alf Sjöberg. 8 Seguiranno Questo non accade qui (Sånt händer inte här, 1950), Un’estate d’amore, Donne in attesa, Monica e il desiderio, Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il volto (Ansiktet, 1958), La fontana della vergine, L’occhio del diavolo, Come in uno specchio (Såsom i en spegel, 1961) e A proposito di tutte queste signore (För att inte tala om alla dessa kvinnor, 1964). 9 A partire da Persona Bergman lavorerà sulle risorse espressive dei rumori (Il rito e La vergogna, Skammen 1968), avvalendosi talora di talenti come Lars Johan Werle (Persona e L’ora del lupo, Vargtimmen, 1968) oppure distillando sull’immagine frammenti di Mozart (L’immagine allo specchio, Ansikte mot ansikte 1976), Chopin e soprattutto Bach (Sussurri e grida, Passione [En passion, 1969], Sinfonia d’autunno). 10 Cfr. Roberto Pugliese, Grida, sussurri, silenzi e note. La musica classica nel cinema di Bergman, «Ciemme», n. 146, gennaio-aprile 2004. 11 Gunnar Fischer, in www.ingmarbergman.se. 12 Cfr. Gösta Werner, Ingmar Bergman parle de Victor Sjöström. Un portrait, «Positif», nn. 497-498, luglio-agosto 2002. 13 Ingmar Bergman in Marie Nyreröd, Ingmar Bergman - 3 dokumentärer om film, Fårö och livet, 2004. 14 Ivi. 15 Interessanti sono le dichiarazioni di metodo esposte in Ingmar Bergman, Dialogue on film: Ingmar Bergman, «American Film», gennaio-febbraio 1976. 16 Maestro di Greta Garbo e Ingrid Bergman, Molander dirige Thulin in un mélo enfatico dal titolo Kärleken segrar [L’amore vince] del 1949, prima di vederla tentare la fortuna hollywoodiana a fianco di Robert Mit1
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chum nel discontinuo thriller Spionaggio internazionale (Foreign intrigue, 1956), diretto da Sheldon Reynolds. I lavori forse più interessanti di Gustaf Molander restano gli adattamenti di due sceneggiature bergmaniane, quali La donna senza volto (Kvinna utan ansikte, 1947) ed Eva (id., 1948). 17 Ingmar Bergman in Stig Björkman, Bergman on Bergman. Interviews with Ingmar Bergman, Secker & Warburg, London 1973. 18 Yann Tobin, Ingrid Thulin: 1929-2004, «Positif», n. 517, marzo 2004, p. 67. 19 Cfr. Robin Wood, Ingmar Bergman, Praeger, New York 1969, pp. 14-23. 20 A differenza di quanto afferma Tobin, non vediamo nei film successivi nessun tentativo di vendetta, da parte di Bergman, nei confronti dell’equilibrio tra sensualità e sensibilità espresso dall’attrice ne Il posto delle fragole. Imbruttita (Luci d’inverno) o mascherata (Il rito), la bellezza dell’attrice risplende di una luce forse ancora più forte, esaltata proprio dalla capacità di distruggere i propri codici per rinnovarli di performance in performance. 21 Bibi Andersson, «American Film», 2, n. 5, marzo 1977, p. 33-48. 22 Ivi.
Il film
Titolo: Smultronstället (Il posto delle fragole). Origine: Svezia. Anno: 1957. Regia: Ingmar Bergman. Soggetto: Ingmar Bergman. Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Aiuto Regia: Gösta Eckman. Fotografia: Gunnar Fischer (b/n - 1.37:1). Assistente alla fotografia: Björn Thermenius. Montaggio: Oscar Rosander. Musica: Erik Nordgren; brani di Eric Nordgren, Göte Lovén, Johann Sebastian Bach (Fuga in Mi bemolle minore), Wilhem Harteveld (Marcia Carolus Rex), Carl Axel Lundvall (Marcia del Reggimento reale del Södermanland), Alwin Müller (Marcia da Parata del 18° Ussari), Herman Palm (Under rönn och syrén/Blommande sköna dalar). Suono: Aabi Wedin, Lennart Wallin. Trucco: Nils Nittel. Script-girl: Katherina Faragò.
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Scenografia: Gittan Gustafsson. Costumi: Millie Strömm. Interpreti: Victor Sjöström (Isak Borg), Ingrid Thulin (Marianne), Bibi Andersson (Sara), Gunnar Björnstrand (Evald), Folke Sundquist (Anders), Björn Bjelvestam (Viktor), Naima Wifstrand (madre di Isak), Jullan Kindhal (la cameriera Agda), Gunnar Sjöberg (ingegner Alman), Gunnel Broström (Berit, moglie di Alman), Åke Fridell (amante della moglie di Isak), Gertrud Fridh (moglie di Isak), Max von Sydow (Åkerman), Anne-Marie Wiman (moglie di Åkerman), Sif Ruud (zia Olga), Yngve Nordwall (zio Aron), Per Sjöstrand (Sigfrid), Gunnel Lindblom (Charlotta), Maud Hansson (Angelica), Lena Bergman (Kristina), Per Skogsberg (Hagbart), Eva Möller (Anna), Goran Lundquist (Benjamin), Giò Petre (Sigbritt), Lena Bergman (Kristina), Monica Ehrling (Birgitta), Vendela Rudback (Elisabeth), Helge Wulff (il rettore), Gunnar Olsson (il vescovo), Josef Norman (professor Tigre), Ulf Johansonn (il padre di Isak). Direttore di produzione: Allan Ekelund. Produzione: Svensk Filmindustri. Durata: 91’. Premi: Orso d’oro al Festival di Berlino, 1958; Premio della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia 1958; Nomination all’Oscar per il miglior soggetto originale, 1960; Nastro d’argento come miglior film, 1958; Premio dell’Associazione dei critici britannici, 1958; Primo premio al Festival di Mar de Plata, 1960; Gran Premio della cinematografia norvegese, 1958; Bodil per il miglior film europeo, 1958; Golden Gate della stampa estera di Hollywood, 1959.
IL FILM
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Riprese: Girato dal 2 luglio al 27 agosto 1957 negli studi di Råsunda (Stoccolma), nella regione del lago Vättern, nell’arcipelago di Stoccolma (Dalarö e Ängö) e all’Università di Lund. Prima mondiale: Stoccolma, 26 dicembre 1957.
Trama e sinossi
Trama Stoccolma, estate 1957. Isak Borg, vedovo, settantotto anni, vive con ansia la vigilia del suo giubileo professionale. L’indomani sarà insignito, all’Università di Lund, di un premio speciale per il suo contributo alla scienza medica. Un incubo turba la sua notte: Isak incontra un uomo senza volto in una via deserta, poi una cassa da morto scivola fuori da un misterioso carro funebre. Quando dalla bara esce un uomo identico a Isak, il sogno si interrompe. Compagna del viaggio verso Lund è la nuora Marianne, che non perde occasione per confessare al suocero il disprezzo per l’egoismo e l’indifferenza dimostrati dall’uomo nei suoi confronti. La sosta nei luoghi dell’adolescenza è occasione per un viaggio a occhi aperti nel tempo perduto: sul posto dove nascono fragole selvatiche appare la cugina Sara, di cui Isak era innamorato, ma non ricambiato. L’anziano professore rivede i familiari nel momento del pranzo, ma è subi-
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to costretto a rituffarsi nel presente dal richiamo di tre giovani autostoppisti, capitanati da una ragazza bionda identica alla perduta Sara. Ai tre Isak offre un passaggio e l’auto riparte, fermandosi poco dopo per soccorrere una coppia vittima di un incidente, l’ingegner Alman e la moglie Berit. Una volta a bordo dell’auto la coppia non smette di litigare, facendosi così cacciare. Dopo una sosta dall’anziana madre, che non perde occasione per sfogliare con il figlio l’album del tempo perduto, Isak si addormenta nell’auto, sprofondando in una serie di «sogni spietati». Nel primo egli rivede l’amata Sara, che gli rivela le motivazioni della sua scelta d’amore e lo accusa di freddezza ed egoismo. Nel secondo il professore si trova a dover sostenere un surreale esame universitario, dove un docente dal volto di Alman si fa beffe di lui, prima di condurlo con sé nella radura. Qui, al riparo delle fronde, Isak ascolta una conversazione tra la moglie e il di lei amante, da cui emerge l’accusa consueta: Isak è un uomo freddo, gelido, insensibile. Il tempo dei sogni è finito, Lund aspetta il professor Borg. Appena sveglio Isak ascolta in auto la confessione di Marianne, prima tappa verso un’imminente riconciliazione: la donna è incinta e sta tornando dal marito Evald per comunicargli la sua decisione di tenere il bambino. L’accoglienza a Lund è trionfale. Dopo la cerimonia, quando l’armonia sembra tornata tra Evald e Marianne, Isak si congeda da tutti e si rifugia nell’ultimo sogno: al di là della riva, non lontano dal posto delle fragole, i genitori gli lanciano un gesto d’affetto.
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Sinossi Prologo (2’; 11 inquadrature) Schermo nero. Sul rintocco di un pendolo, si apre la prima inquadratura. Seduto alla scrivania del suo studio, un uomo scrive alcune righe, di cui non conosciamo il contenuto. Una voce fuori campo, probabilmente la sua, ci rivela che egli è un professore in pensione e trascorre le giornate in solitudine, senza troppe emozioni, isolato dalla vita sociale e mondana. Durante la pausa per un sigaro, la sua attenzione vaga sulle foto di famiglia, disposte accanto al tavolo: vi sono ritratti il figlio, anch’egli medico, la madre molto anziana e la moglie Karin, morta molti anni prima. L’arrivo della cameriera interrompe questa rêverie. La cena è servita, all’uomo non resta che fermare i fogli sul tavolo e lasciare lo studio, seguito come un ombra dal fedele cane. Mentre l’uomo esce, la voce off ci comunica che egli si chiama Isak Borg, e che il giorno seguente avrebbe festeggiato il suo giubileo professionale. Dissolvenza in chiusura: Titoli di testa (1’ 10”) 37 cartelli in stampatello bianco su schermo nero. In sottofondo, il leitmotiv per archi scritto da Erik Nordgren. Dissolvenza in apertura: Sequenza [1] L’incubo (4’ 40”; 68 inquadrature) Primo piano di Isak a letto. L’uomo racconta di aver sognato di smarrirsi in una zona deserta della città (Stoccol-
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ma) durante la sua passeggiata mattutina. L’orologio appeso al muro di un palazzo è fermo e privo di lancette. Un rumore ritmico, come il battito di un cuore, riempie per qualche secondo lo schermo. Isak fa per allontanarsi lungo il marciapiede, quando è attratto da una misteriosa figura, immobile, di spalle. Isak si avvicina, costringe l’uomo a voltarsi ma scopre che costui è un essere senza volto, composto di una materia organica che si scioglie al contatto con il suolo. Il rintocco di alcune campane invita Isak a volgere lo sguardo verso l’angolo della strada, da dove sopraggiunge un carro funebre trainato da due cavalli neri, senza cocchiere. Il carro passa davanti all’uomo e sbatte contro il lampione, provocando così la caduta della bara. Da questa esce una mano, che lentamente si avvicina a quella di Isak, per poi afferrarla. Sul volto minaccioso dell’uomo nella bara, sosia perfetto di Isak, l’incubo si chiude. Stacco: Sequenza [2a] Isak rinuncia al viaggio aereo (3’ 10”; 28 inquadrature) Volto di Isak a letto. Turbato dal sogno, Isak decide, contro il parere della sua cameriera Agda, di partire in auto per Lund, rinunciando all’aereo già prenotato. Agda si avvia a preparare la colazione. Dissolvenza incrociata: Sequenza [2b] La colazione (50”; 10 inquadrature) Dettaglio del caffè versato nella tazza. Durante la colazione, Marianne, la nuora, si offre per accompagnare l’uomo
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in auto, risparmiando così i soldi per il viaggio verso casa. Isak accetta. Dissolvenza incrociata: L’auto di Isak in campo lungo su una strada urbana. Dissolvenza incrociata: L’auto di Isak in campo lungo su una strada extra-urbana. Stacco: Sequenza [3] Isak e Marianne (4’ 20”; 20 inquadrature) Marianne fa per accendersi una sigaretta, ma è subito frenata da Isak. La giornata è afosa. Alla domanda del suocero circa il motivo del ritorno a casa di Marianne, la donna risponde che si tratta di un semplice impulso. L’argomento di conversazione è la restituzione del denaro prestato da Isak al figlio Evald: Marianne prima confessa che il marito lavora giorno e notte per saldare il suo debito e poi critica l’avidità di Isak, che di quel denaro non ha effettivo bisogno. «Evald – dice Marianne a Isak – la odia.» Nello spazio di una sola, lunga inquadratura, Marianne sfoga a Isak tutto il suo sentimento di pietà, accusando l’uomo di egoismo: quando la donna si era rivolta a lui per chiedere aiuto, Isak l’aveva invitata a consultare un analista. Il suocero non batte ciglio di fronte a tali accuse, ma si vede opporre un rifiuto alla proposta di raccontare il sogno vissuto la notte precedente. L’uomo decide allora per una sosta. Dissolvenza incrociata: Sequenza [4] Il posto delle fragole (6’ 20”; 33 inquadrature) Marianne e Isak scendono dall’auto nei pressi di un bosco e si avvicinano, dopo una seconda dissolvenza incrociata, al
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luogo dove Isak ha trascorso le estati sino all’età di vent’anni. Seduto sul fragoleto, l’uomo sente la realtà sciogliersi nel ricordo e rivede l’amata Sara. Le parla, ma la ragazza non può ascoltarlo, impegnata a raccogliere le fragole per l’onomastico dello zio e a respingere la corte pesante del cugino Sigfrid, che però riesce a rubarle un bacio sull’erba. Un bacio di cui Isak non venne mai a sapere nulla. Isak assiste alla scena e poi si avvicina alla porta della casa di famiglia. Dissolvenza incrociata: Sequenza [5] Il pranzo di famiglia (6’ 12”; 59 inquadrature) Isak si avvicina alla porta della villa ed entra di soppiatto. A tavola è servito il pranzo della festa. Manca solo Isak, a pesca con il padre, che ha chiesto di non essere disturbato. Dopo la preghiera di rito, i ragazzi si siedono a tavola, subito rimproverati da una zia severissima: Oswald spalma il burro in modo maldestro, Benjamin si deve lavare le mani, Charlotta è responsabile del fatto che il sale è raggrumato, Sara deve parlare più forte perché lo zio è sordo. Quando le due gemelle rivelano il tradimento di Sara, scoperta a baciare Sigfrid, la ragazza scoppia a piangere e corre via. Seduta sulle scale ella confida a Charlotta la propria crisi: ama Isak per la sua bontà d’animo, ma è attratta dal fascino dell’impertinente Sigfrid. Quindi esce in cerca dello zio, seguita a passi lenti dal vecchio Isak, il quale è distratto da una voce di donna fuori campo. Stacco: Sequenza [6] I tre autostoppisti (3’; 6 inquadrature) Una giovane bionda dall’aria sbarazzina, di nome Sara, ri-
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sveglia il vecchio dal suo sogno. Le spiega che quella casa ora appartiene a suo padre. Isak si offre di accompagnare lei e i suoi due amici, l’ateo Viktor e il credente Anders, nel viaggio in autostop verso l’Italia. Dissolvenza incrociata: Sequenza [7a] L’incidente (5’ 30”; 40 inquadrature) Nell’auto, Marianne si scioglie i capelli mentre Sara racconta al conducente la sua situazione sentimentale: è fidanzata con Anders ma «sorvegliata» dall’amico Viktor, innamorato di lei. Dovrà sedurre Viktor se vorrà avere via libera ma per ora non prende impegni, è ancora vergine e si atteggia a maschiaccio. Improvvisamente, un’auto esce di strada e rischia di investire quella di Isak. Ne esce indenne una coppia di quarantenni, l’ingegner Alman e sua moglie, a quanto pare responsabile dell’incidente: i due stavano litigando animosamente. Lui lavora alla Centrale di Stoccolma, lei è un ex attrice. La donna reagisce con una risata di scherno al vano tentativo del marito di riparare l’auto. Stacco: Sequenza [7b] L’ingegner Alman e la moglie (3’; 12 inquadrature) I due sono raccolti da Isak, il cui viaggio riprende. Una volta sull’auto, il marito fischietta, infastidendo Isak, e accusa pubblicamente la moglie di isterismo e ipocondria: la donna è in preda a una forte crisi, e piange. Marianne, passata al volante, esprime la sua compassione nei confronti della donna, la quale reagisce con alcuni schiaffi al sarcasmo del
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marito. Per i tre giovani si tratta di un cattivo esempio di «vita vissuta». La coppia è così allontanata dall’auto e abbandonata sulla strada. Stacco: Sequenza [8] Sosta dal benzinaio (2’ 35”; 10 inquadrature) Isak non è lontano dalla casa della madre. Nei luoghi dove da giovane aveva cominciato a esercitare la professione di medico, si ferma per fare rifornimento. Lo serve il giovane Åkerman, figlio di amici di famiglia. Assieme alla moglie Eva, in attesa di un figlio, si dimostra affettuoso e riconoscente verso il dottor Borg, ancora stimato e benvoluto in quelle zone. Dissolvenza incrociata: Sequenza [9] Il pranzo all’aperto (3’; 31 inquadrature) Durante il pranzo all’aperto, Isak racconta le avventure della sua giovinezza di medico condotto, ma non accoglie l’invito dei due giovani a partecipare alla discussione circa l’esistenza di Dio. Mentre Anders intona con la chitarra versi di lode a Dio, Viktor, studente di medicina, esprime tutto il suo scetticismo definendo assurda la condizione dell’uomo moderno, consapevole della sua «inutilità»: «L’uomo moderno crede nella sua morte biologica». Secondo Anders l’uomo moderno invece guarda alla morte con angoscia. Isak si limita a recitare i versi di un salmo scritto dal poeta Olof Wallin: «Dov’è l’amico che il mio cuore ansioso ricerca ovunque senza avere mai riposo… Finito il dì ancor non l’ho trovato e resto sconsolato…» Continua Marianne: «La Sua presenza è indubbia e io la
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sento in ogni fiore e in ogni spiga al vento… L’aria che io respiro e dà vigore del Suo Amore è piena. Nel vento dell’estate la Sua voce intendo». Isak annuncia di volersi recare a trovare la vecchia madre. Dissolvenza incrociata: Sequenza [10] Visita dalla madre (5’; 26 inquadrature) Esterno della casa della madre. Il temporale si avvicina: una seconda dissolvenza incrociata avvicina Isak e Marianne alla porta d’ingresso della villa. Accompagnato da Marianne, Isak visita la vecchia madre, quasi centenaria: dieci figli e venti nipoti, ma solo Evald va ogni tanto a trovarla. La donna scambia Marianne per la moglie di Isak, rimproverandola poi per il fatto che ancora non ha figli. Dalla scatola di ricordi che apre vengono estratti alcuni giocattoli: una bambola di pezza, una vecchia fotografia di Isak e Sigfrid bambini (che la donna regala a Isak), un album disegnato dalle sorelle Birgitta e Kristina e infine un orologio da taschino. Apparteneva al padre di Isak e ora è destinato al nipote cinquantenne, figlio del fratello Sigfrid. L’aspetto perturbante della visione è dato dal fatto che questo orologio è privo di lancette, esattamente come quello apparso nel sogno di Isak. La madre ritorna con la memoria all’immagine del figlio di Sigbritt in fasce, addormentato sotto i lillà, nella residenza estiva appena visitata da Isak. Ma Isak non vuole rivivere tristi ricordi. Lund lo aspetta: saluta la madre e riprende il viaggio. Dissolvenza incrociata:
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Sequenza [11] Confidenze di Sara (2’ 10”; 8 inquadrature) Primo piano di Sara con la pipa in bocca. La ragazza si lamenta del fatto che Anders e Viktor discutono dell’esistenza di Dio senza preoccuparsi di lei, arrivando persino a litigare davanti all’auto. Lei non sa chi scegliere, anche se il padre vorrebbe che la preferenza ricadesse su Anders. Mentre Marianne è alla guida, il cielo si fa cupo. Dissolvenza incrociata: Tuoni nel cielo, coperto e scuro come il mare. Sequenza [12a] Sogni spietati I: Sara (3’ 15”; 27 inquadrature) Le gocce di pioggia bagnano il parabrezza dell’auto. Scoppia il temporale. Uno dei due giovani suona la chitarra, ma la cinepresa si sposta su Isak, fermandosi sul suo volto. L’uomo si addormenta e la sua voce off ci racconta che quelli a cui si abbandonò furono «sogni oscuri e spietati». Dissolvenza incrociata: Nella radura, di notte. Stormi di uccelli, forse corvi, sul posto delle fragole. Una seconda dissolvenza incrociata illustra il dettaglio di una borsa abbandonata, che subito scompare nell’ennesima dissolvenza, sostituita dalla figura di Sara. Vestita nel medesimo abito bianco della prima rêverie, la ragazza invita Isak a guardarsi in uno specchio che ella tiene in mano. «Sei solo un vecchio timoroso. Tra poco morirai – gli dice – mentre io ho tutta la mia vita davanti.» La ragazza confessa di aver avuto sempre troppi riguardi per lui e gli annuncia che sposerà Sigfrid, perché con lui ha una complicità perfetta, con lui si diverte. La ragazza invita Isak a sorridere. Quando Isak si lamenta del fatto che questa confessione gli fa del male, la ragazza re-
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plica che in quanto professore egli dovrebbe conoscere le cause del dolore. Poi si allontana, perché vicino a un albero secco la attende la culla con il figlio di Sigbritt da assistere. Prende in braccio il bambino e lo rassicura, promettendo di proteggerlo da tutto ciò che potrà turbare il suo sonno. Quindi entra in casa. Stacco: Sequenza [12b] Idillio familiare (3’; 8 inquadrature) La radura in riva al mare, di notte. Ancora uno stormo d’uccelli agita il cielo. Quando Sara rientra in casa con il piccolo, Isak si avvicina lentamente alla culla vuota, uscendo di campo a sinistra. Una dissolvenza incrociata rende ambiguo il tempo impiegato in questa contemplazione della culla. Guidato dalle note del piano, Isak si incammina verso la casa e spia dalla finestra l’idillio familiare della sua amata. Sara è seduta al piano, guardata con un sorriso dal futuro marito. I due si scambiano un bacio prima di sedersi a tavola. Dissolvenza incrociata: Sequenza [13] Sogni spietati II: l’esame (6’ 25”; 28 inquadrature) Sorge l’alba nella radura. Isak batte sul vetro della casa di Sara e si ferisce alla mano destra con un chiodo misteriosamente affisso sul muro. Dalla porta però non esce Sara, ma un uomo sconosciuto che assomiglia moltissimo all’ingegner Alman, soccorso durante il viaggio in macchina. Costui porta Isak all’interno della casa, ma Isak scopre che quella non è la villa di famiglia. È condotto in un’aula oc-
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cupata da alcuni studenti di medicina. Deve superare un esame di lettura al microscopio, ma non vede nulla. L’esaminatore lo invita poi a decifrare il contenuto di una frase scritta in una lingua sconosciuta alla lavagna. Ma Isak non capisce. Quello esposto sulla lavagna è, dice il professore senza nome, il primo dovere di un medico, ovvero «chiedere perdono». Isak è accusato di una colpa di cui non conosce il nome e il fatto di non conoscerla aggrava la sua posizione. La seconda parte dell’esame prevede l’osservazione di una paziente: Isak la giudica morta ma la donna improvvisamente apre gli occhi ed esplode in una risata di scherno. L’esame è finito: Isak viene giudicato colpevole di indifferenza, egoismo, incomprensione, accuse formulate, a quanto dice questo giudice, dalla moglie scomparsa. L’esaminatore invita poi la sua «vittima» a uscire dalla casa-scuola e seguirlo nel bosco. Dissolvenza: Sequenza [14] Sogni spietati III: la moglie e l’amante (5’ 11”; 24 inquadrature) Isak e il suo giudice si avvicinano a un laghetto nel bosco. Tra gli alberi, nascosta dalle fronde, la moglie di Isak amoreggia con un altro uomo. Forse i due hanno appena fatto l’amore. La donna ora si sta ricomponendo, pettinandosi davanti a un piccolo specchio. Il giudice previene Isak sul fatto che egli non dimenticherà mai la scena a cui sta per assistere, forse perché in realtà si tratta di qualcosa che egli ha già visto, il primo maggio del 1917. La moglie preannuncia ciò che confesserà al marito non appena rientrata a casa. Le sue sono parole che
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fanno male: «Io gli dirò che è colpa sua se sono quello che sono. Con aria rassegnata dirà di sì, ma non gliene importa niente, perché è un essere gelido». Isak fa per raggiungere il fantasma della donna, ma questi è già sparito, eliminato dalla memoria del medico come in un’operazione chirurgica. La punizione per Isak è la solita: la solitudine. Dissolvenza incrociata: Sequenza [15a] Flash-back: Evald e Marianne (4’; 25 inquadrature) Isak finalmente si sveglia. Fuori dall’auto, i tre giovani stanno raccogliendo dei fiori. Il messaggio di questi sogni è interpretato da Isak così: «Sono morto pur essendo vivo». Ma questa è una frase che Marianne aveva sentito pronunciare poco tempo prima dal marito Evald, in occasione di un diverbio in auto che ora ella rievoca in flash-back. Il dramma di Marianne è la sua gravidanza, non accettata dal marito, perduto in un nichilismo profondo che lo induce a invitare la moglie ad abortire. Ma Marianne non cede. Fuori dall’auto, la discussione procede sotto una pioggia che copre il silenzio della natura. Evald è un figlio non voluto e non vuole che il suo destino si ripeta. Afferma che la vita è assurda e che è bestiale fare dei figli con la speranza che staranno meglio. Accusato di vigliaccheria, l’uomo risponde che non vuole responsabilità che lo leghino alla vita più di quanto il destino non abbia previsto: «Se penso alla vita ho nausea – dice alla moglie – Tu vuoi essere viva, io vorrei essere morto». Stacco:
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Sequenza [15b] Marianne e Isak: riconciliazione (3’; 3 inquadrature) Primo piano di Marianne in auto. Isak si dimostra molto toccato dal racconto della nuora, che si accende una sigaretta, questa volta incoraggiata dal suocero. Il motivo che l’ha spinta a fare questa confessione è stato il senso di orrore provocatole dall’incontro con la vecchia madre di Isak, che ella definisce «terribilmente gelida». È sempre più convinta che aver preso la decisione giusta ma non vuole gelo e solitudine intorno a sé. Lo stato d’animo di Marianne è turbato anche dall’incontro con la coppia dell’incidente, coppia che ricorda a Isak alcuni momenti della propria esperienza matrimoniale. Intanto, i tre ragazzi offrono un mazzo di fiori al professore complimentandosi per i suoi cinquant’anni di servizio. Mentre la pioggia è ormai cessata, il gruppo riparte verso Lund. Dissolvenza in nero: Sequenza [16] Arrivo a Lund (2’ 10”; 10 inquadrature) All’arrivo a Lund, Evald si dimostra cordiale nei confronti della moglie e del padre. Avvisato dell’arrivo della moglie, l’uomo la invita a prendere parte al banchetto che seguirà la cerimonia. Mentre la cameriera si appresta ad aiutare Isak nella sua vestizione, l’uomo osserva al di là della porta il lento disgelo tra il figlio e la nuora. Dissolvenza incrociata: Sequenza [17] La cerimonia (2’ 25”; 22 inquadrature) Nella chiesa di Lund entrano gli amici, i parenti e il corteo
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di accademici della città. Sara si sporge dalla folla per salutare Isak. Al suono di due colpi di cannone, Isak Borg è proclamato «preclarissimus medicinae doctor». Ma il suo pensiero, mentre riceve la medaglia, vaga a quanto visto e sognato durante il pomeriggio. Fu in quel momento, ci dice la voce off, che l’uomo decise di mettere per iscritto il confuso intrecciarsi degli avvenimenti di quel giorno, in quanto vi scoprì un movente ben determinato. Mentre Isak saluta gli officianti, il rettore gli conferisce l’ambita onorificenza. Dissolvenza incrociata: Sequenza [18a] Il congedo da Agda (2’ 30”; 11 inquadrature) Congedandosi da Agda, Isak la invita a sciogliere il muro di formalità che li separa dandogli finalmente del tu. Ma la donna rifiuta, in nome di un decoro da rispettare. Il timore di essere ridicolizzata dalla gente è troppo forte. La donna augura la buonanotte al professore e si ritira nella sua stanza. Stacco: Sequenza [18b] Il congedo dai giovani (1’ 15”; 14 inquadrature) Il sonno non arriva. Seduto sul letto, Isak sente il coro delle voci dei tre autostoppisti, che intonano per lui una serenata d’addio. Sara lo saluta chiamandolo «l’eterno amore della sua vita», Isak invita loro a scrivergli una lettera. Quindi si corica. Dissolvenza incrociata:
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Sequenza [18c] Il congedo da Evald e Marianne (2’ 08”; 18 inquadrature) Prima di andare al banchetto, Evald e Marianne passano a salutare Isak, che approfitta per chiedere al figlio novità sulla sua crisi con la moglie. Evald risponde che non riesce a vivere senza di lei. Il padre accenna alla questione del credito che ha nei confronti del figlio e questi gli promette che lo salderà al più presto. Ma l’intenzione di Isak era quella di non mettere alcuna fretta al figlio. Nel frattempo sopraggiunge Marianne che, dopo essersi cambiata le scarpe per la festa, si congeda dal suocero con un bacio. Sequenza [19] L’ultimo sogno (2’; 13 inquadrature) Solo nel suo letto e alla ricerca del sonno, Isak si abbandona a quei ricordi d’infanzia che nelle ore notturne alleviano la sua angoscia. Nel sogno è seduto sull’erba, accanto al fragoleto, protetto da soffici nubi estive. La cugina Sara gli viene incontro e lo invita a cercare il padre. Isak risponde che lo ha cercato, ma invano. Sara allora si offre di aiutarlo nella ricerca. D’un tratto, i due arrivano sulla riva del mare non illuminata dal sole, a differenza di quella opposta. Laggiù, al di là dell’acqua scura, i genitori sono intenti alla pesca (il padre) e alla maglia (la madre). Isak fa per chiamarli, ma nessun suono esce di bocca. Il padre si accorge però del gesto del figlio e, assieme alla madre, lo ricambia agitando la mano. Rasserenato da questa visione, Isak si abbandona al sonno.
La sceneggiatura: struttura e varianti
La redazione della sceneggiatura è un’impresa difficile ma utile, poiché mi costringe a dimostrare logicamente la validità delle mie idee. Ingmar Bergman
Quello tra Bergman e la parola scritta è un rapporto complesso, ancora oscuro nonostante le numerose indicazioni di metodo rivelate dall’autore negli ultimi cinquant’anni. Agli anni ’60 risale forse la definizione di sceneggiatura più evocativa di quello che Bergman avverte come un conflitto interiore tra caos (immagine mentale) e logos (parola scritta): [La sceneggiatura è] qualcosa di molto complicato e difficile… la trasformazione di ritmi, stati d’animo, atmosfera, sequenze, toni e sfumature in parole e frasi. L’unica cosa che si può trasferire in modo soddisfacente, da quell’originario complesso di ritmi e sensazioni, è il dialogo, ma anche questo è una sostanza sensibile che può opporre resistenza. Il dialo-
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go scritto è come uno spartito musicale: è pressoché incomprensibile all’uomo medio. 1
Molto comprensibile, per non dire quotidiano, è invece il lessico impiegato ne Il posto delle fragole, soprattutto nelle parole messe in bocca a Sara. Presentando la propria situazione sentimentale, la ragazza accenna al ruolo del padre nella costruzione del suo triangolo amoroso (dove Viktor funge da chaperon) chiamandolo per due volte con l’appellativo di farsan, ovvero il vecchio, un termine che il doppiaggio italiano rispetta solo nella battuta che chiude il discorso: «Det ärett genialt drag av farsan», ovvero: «È stata una mossa geniale da parte del vecchio». Lasciando ai filologi lo studio della tessitura musicale della lingua bergmaniana, limiteremo la nostra analisi della sceneggiatura a una critica delle varianti che possa far emergere, oltre a possibili condizionamenti da parte di produttore, set o attori, la rilevanza espressiva di alcune scelte di messa in scena. Come gli altri script, anche il dattiloscritto de Il posto delle fragole non contiene indicazioni tecniche circa la durata o l’angolazione dei piani, il ritmo dei movimenti di macchina o la direzione degli sguardi degli attori. Come si può vedere nell’estratto pubblicato in appendice, tratto dal dattiloscritto originale, la struttura grafica rispecchia il modello classico delle due colonne. A sinistra la descrizione di gesti, sentimenti e situazioni; a destra i dialoghi, che vedremo non privi di indicazioni tecniche circa le modalità di intonazione di alcune parole. Non sono a conoscenza dei motivi per il quali Bergman è sempre stato restio
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nel pubblicare le sue sceneggiature, acconsentendo solo nel 1960 alla traduzione inglese edita da Simon & Schuster di quattro film: Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole e Il volto. Forse non voleva mettere a nudo un meccanismo del quale egli stesso avverte l’intelaiatura criptica, solo apparentemente «comprensibile»: Nei miei scenari io cerco di inserire istruzioni circa la situazione, la caratterizzazione e l’atmosfera in termini comprensibili, ma il risultato dipende dalla mia capacità di espressione grafica, e dalla perspicacia del lettore, due cose che non sono sempre prevedibili. 2
Più prevedibile è forse l’atteggiamento protettivo che l’autore dimostra nei confronti del proprio daimon, il quale attinge a un serbatoio di immagini che perderebbero la loro forza una volta ridotte a segni grafici sulla carta, senza aver avuto la possibilità di respirare l’atmosfera del set o di intonarsi alle particelle emanate dal corpo dell’attore: Se riuscissi a esprimere graficamente con simboli precisi tutto ciò che penso o immagino, i fattori irrazionali del mio lavoro sarebbero quasi del tutto eliminati e potrei lavorare con assoluta fiducia […], potrei verificare il rapporto tra la parte e il tutto, potrei mettere il dito sul ritmo, sulla continuità del film. Pertanto lo scenario è una base tecnica assai imperfetta. 3
L’unica annotazione tecnica presente nel dattiloscritto di Smultronstället è la parola övertoning («dissolvenza») posta in apertura e in chiusura del dialogo tra Marianne ed
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Evald raccontato in flash-back dalla donna (seq. 15a). Il dato è curioso in quanto la sintassi del film non rispetta questa indicazione di montaggio. Allo sguardo fuori campo di Marianne, seduta accanto a Isak, segue la mezza figura di Evald che occupa il posto del padre. Il presente è raccordato al passato con uno stacco che conferma quanto la forma, in questo cinema, aiuti e in qualche modo «preceda» il contenuto. La dissolvenza avrebbe forse indebolito l’idea che Evald fosse semplicemente una copia più giovane di Isak, un altro doppio dopo il sosia sognato: identico è il disprezzo della vita, identica la freddezza, identico l’amore per la solitudine. Confrontando il dattiloscritto con le versioni stampate dagli editori italiani (Einaudi e Iperborea), si può notare come in entrambe le edizioni siano assenti le numerazioni con cui l’autore suddivide le sue scene, come se già avesse un’idea, seppur vaga, del montaggio che legherà suddetti frammenti. Questi sono in totale 735, una quantità nettamente superiore al numero effettivo delle inquadrature di cui il film si compone, 574. Curioso è ad esempio il fatto che uno dei momenti più descrittivi dell’incubo notturno (seq. 1), ovvero lo spaesamento denunciato da Isak nel ritrovarsi in un quartiere sconosciuto, venga racchiuso in una sezione indicata con l’intervallo 17-20, come a suggerire una successione di quadri nella messa in scena: 17-20 Era uno slargo circondato da alti e brutti casermoni e da quella piccola piazza soffocata partivano strade in tutte le direzioni. Tutte erano deserte e non si vedeva anima viva. 4
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Nel testo filmico a questa descrizione corrisponde semplicemente la fugace inquadratura di una strada deserta, raccordata sullo sguardo di Sjöström. Pur «imperfetta», la sceneggiatura opera sulla mente dell’attore secondo modalità non lontane dal coinvolgimento erotico o emotivo, attuando, almeno secondo quanto ha dichiarato Bibi Andersson, una sorta di seduzione: «Bergman scrive in un modo tale che ti seduce, che ti vengono idee» 5. Forse non ci sarebbe possibilità di seduzione senza l’impalcatura «romanzesca» dello script, retto dalla voce di un narratore interno che accompagna il lettore nella diegesi assicurando la continuità del racconto. Vengono in mente le riflessioni di Pasolini sulla sceneggiatura come genere letterario informe, struttura che desidera essere un’altra struttura. Come Pasolini, Bergman individua negli «im-segni» una natura arcaica, barbarica, fatta di «umori, toni e aromi» che la parola scritta deve per forza spegnere per poter tradurre. Così facendo, però, questa parola si offre al lettore all’interno di un sistema narrativo autonomo e, per riprendere l’aggettivo scelto da Bergman, «comprensibile», tale da sopravvivere anche senza il segno audiovisivo in cui essa aspira a incarnarsi. Il caso de Il posto delle fragole è particolarmente interessante, perché il rapporto di forze sopra evidenziato appare non solo a livello del discorso, ma anche tra le maglie della storia, in quanto si tratta, come vedremo, di un racconto nel racconto: si narra di un uomo che si accinge a narrare su carta un episodio del suo recente passato.
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Sottrazioni parte prima: il racconto nel racconto Se confrontiamo la sceneggiatura con il testo audiovisivo, ci accorgiamo che molte sono le sottrazioni e poche, e per questo particolarmente significative, le aggiunte. Sottratti (nel film), per cominciare, sono i tratti comportamentali e caratteriali della psicologia del narratore narrato, che sulla carta (ovvero nella sceneggiatura) rivela non solo abitudini e passatempi (golf e lettura, dettagli assenti nel film), ma anche una certa propensione alla manipolazione della verità. Il monito con cui esordisce la voce over, relativo alla cautela da adottare al momento di giudicare i prossimo, è in realtà preceduto dal lungo preambolo di un uomo solo di fronte allo specchio della sua coscienza: Credo che ormai, all’età di settantasei anni, sono troppo vecchio per mentire a me stesso, anche se non ne sono del tutto sicuro. Già questa serenità nei confronti della verità potrebbe essere un’ipocrita finzione, benché se così fosse non so cosa dovrei avere da mascherare o da nascondere. Non voglio però pretendere (per il solo fatto di nutrire tale sentimento) di essere diventato il paladino della verità. Piuttosto il contrario.
In principio è dunque la maschera. Non si può raccontare, e soprattutto raccontare di sé, senza riflettere sulla prossimità al vero di quanto il narratore attinge dal sacco buio della propria memoria. Queste righe potrebbero introdurre la confessione (ma quanto sincera?) di Immagini, autobiografia scritta con stile multiforme ma soprattutto con licenza di inventare, senza assicurare al lettore quella
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«serenità nei confronti della vita» verbalizzata dall’Isak di carta. Una serenità che forse induce quest’ultimo a confidare dettagli che nel testo audiovisivo resteranno impliciti o appena accennati, come il fatto che quello tra Isak e la scomparsa Karin non fosse stato un matrimonio felice. Vedremo più avanti, nell’analisi del prologo, quanto Bergman rafforzerà sul set l’opacità del suo personaggio, filmando come una massa semimuta la schiena di un uomo che invece sulla carta non risparmia particolari delle proprie idiosincrasie e ossessioni: Dovrei aggiungere che sono un vecchio pedante […]; detesto gli sfoghi emotivi, i pianti delle donne e gli strilli dei bambini. In generale i rumori forti e gli imprevisti mi danno molto fastidio.
Lette a posteriori e tenendo conto delle parole di Bibi Andersson («Bergman scrive in modo da darti delle idee»), queste sembrano indicazioni di metodo rivolte a Victor Sjöström, particolari del carattere che davanti alla cinepresa sarà sufficiente visualizzare mediante codici non verbali, senza per forza informare lo spettatore per mezzo della voce over. Ben più significativo è invece il taglio inferto alle ultime quattro righe di questa sezione iniziale della sceneggiatura, quando Isak si rivolge direttamente al lettore annunciando quella che segue come una narrazione ambigua, a metà tra il vero e la sua ricostruzione finzionale: Tornerò più avanti sul motivo che mi ha spinto a scrivere questa storia, che è il resoconto più fedele possibile di fatti, sogni e pensieri che mi sono capitati un certo giorno.
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La contraddizione è evidente: si tratta di una storia, ovvero di una finzione con tanto di personaggi e impalcatura narrativa, oppure di un resoconto? E quali sono i limiti della fedeltà al vissuto? Non è dato saperne di più. Evidenti sono solo le velleità seduttive di questo narratore senza corpo, preoccupato di attrarre il lettore promettendogli rivelazioni future («Tornerò più avanti») di eventi che questa strategia enunciativa suggerisce di risparmiare («Un certo giorno»). Se completa, da parte del personaggio, è la padronanza della retorica, parziale è l’equilibrio tra gli elementi costitutivi di tale «storia»: i fatti rispondono alla memoria dei sensi, mentre dei sogni sopravvivono nella memoria solo alcuni frammenti, che pure questo improvvisato scrittore dovrà cercare di organizzare in una forma logica e comprensibile. Esattamente ciò che fa lo sceneggiatore Ingmar Bergman quando si appresta a modellare il magma delle sue immagini. La componente autobiografica de Il posto delle fragole è dunque duplice: la ricerca del padre nasconde la ricerca di uno stile. Si prenda ad esempio la sequenza 4. È uno stile paratattico quello impiegato per elencare, come in una serie di dissolvenze incrociate, gli elementi della natura la cui percezione provoca in Isak quello «strano senso di solennità» verbalizzato anche dalla voce over nel film: La quiete del mattino estivo. La calma piatta sulla baia. Lo straordinario concerto di uccelli tra le chiome degli alberi. La vecchia casa addormentata. Il melo dolcemente inclinato contro cui mi appoggiavo. Le fragole selvatiche.
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Il narratore dunque perde la capacità di ordinare il caos, non dice più «Io», ma si lascia assorbire da ciò che i sensi gli trasmettono, minuto dopo minuto, immagine dopo immagine, suono dopo suono. Tale struttura sintattica sarà in qualche modo conservata nel sistema di dissolvenze incrociate (alberi-nuvole-fragole) che introduce l’apparizione di Sara in apertura della sequenza 4, quando Isak verbalizza l’improvviso trascolorare della realtà in sogno: per un’analisi di queste inquadrature si veda il capitolo Sfogliare il tempo. Che ciò che leggiamo faccia parte di un progetto di scrittura, ce lo ricorda lo stesso Isak durante questa sosta nel posto delle fragole, rievocando due volte il suono di un piano proveniente dalla casa dell’infanzia, ovvero un’annotazione sensoriale che invece nel film non compare nemmeno una volta: «Era qualcosa di Waldteufel, ma l’ho sicuramente già scritto». Chi legge, insomma, non deve mai dimenticare la fragilità del dispositivo di quello che poco fa ci era stato annunciato come un «resoconto fedele». Gli incidenti della memoria sono parte integrante del processo di scrittura e non solo del contenuto esposto. Aperture metalinguistiche come queste fanno della sceneggiatura un testo in qualche modo più «moderno» del film stesso, il cui dispositivo non è mai bucato dai frequenti sguardi in macchina dei personaggi, tutti diegetici e percettivi, come avremo occasione di vedere più avanti.
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Sottrazioni parte seconda: pensieri e visioni Le sottrazioni riguardano soprattutto il monologo interiore del narratore e il contesto scenografico (situazioni, oggetti, eventi), mentre i dialoghi superano quasi sempre illesi il passaggio dalla carta al corpo. Ascoltando il film in lingua originale con la sceneggiatura in mano, ci si rende conto di come lo spazio riservato all’improvvisazione degli attori fosse assolutamente minimo, come del resto conferma lo stesso Bergman nelle pagine di Immagini consacrate a Alle soglie della vita 6. Di fronte agli studenti di un seminario da lui tenuto nel 1975, Bergman è stato molto chiaro: Se vuoi improvvisare devi essere molto preparato, perché improvvisare durante un’improvvisazione è sempre una merda. Se sei preparato puoi ritornare al testo nel caso che la tua improvvisazione un giorno svanisca, ed è ciò che accade. L’ispirazione, l’entusiasmo sono cose belle, ma non mi piacciono. Quando si gira bisogna essere molto precisi. 7
Tra le rarissime modifiche apportate nei dialoghi citiamo, nella sequenza 11, la mutazione subita dal personaggio di Anders, quando Sara motiva a Isak la sua attrazione per il ragazzo. Da manlig, virile («È piuttosto virile e tenero sai») Anders diventa improvvisamente rar, gentile («È piuttosto gentile e tenero sai»). Lasciamo per ora da parte i dialoghi. In apertura della sequenza 12a l’Isak cartaceo ritorna con una excusatio non petita a ricordarci delle difficoltà in cui incorre la sua me-
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moria, motivando anche l’assenza di qualsiasi commento «in diretta» che possa fungere da guida alla lettura delle sue visioni oniriche: Le riporto come mi si sono presentate, senza la minima intenzione di commentare il loro significato. Non sono mai stato un particolare appassionato della teoria psicanalitica sui sogni come l’appagamento dei desideri, in senso negativo o positivo. Non posso però negare che in quei sogni c’era qualcosa di soggiogante e di premonitore che penetrò nella mia coscienza con una forza quasi insostenibile.
Affermando il suo disinteresse nei confronti della psicanalisi, Isak conferma, con meno sarcasmo e più ironia, la posizione espressa a Marianne durante il primo «duetto» all’inizio del viaggio: «Se hai bisogno di un po’ di masturbazione mentale posso trovarti qualche buon ciarlatano dello spirito». Bergman dunque mette le mani avanti, quasi a prevenire le moltissime letture in chiave psicanalitica che il film offrirà 8. Quest’ultime dovranno confrontarsi con un’estemporanea e apparentemente insignificante riflessione sul sogno, offerta da Isak durante la rievocazione della cerimonia di laurea (seq. 17), pochi istanti dopo aver confessato l’improvvisa decisione di scrivere gli eventi di quel giorno (confessione presente anche nel testo filmico): Pensavo già che (in quella catena casuale e tumultuosa di avvenimenti) si intravedesse una singolare causalità. Al tempo stesso non potevo evitare di ricordare le parole del mio ami-
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co vescovo: «Il sogno è una sorta di follia e la follia è una sorta di sogno. Ma si dice anche che la vita è sogno…»
Il sogno aiuta a leggere la realtà. O forse è semplicemente un mondo parallelo e non governato dalla logica del reale. Nel film scompare dunque la messa in dubbio dell’eventuale connessione causale tra i sogni e la realtà di quel pomeriggio di giugno, in virtù della mutazione subita dal personaggio di Isak: affabulatore sottile e autoironico sulla carta, laconica maschera rugosa nel film. Curiosa è poi, in relazione allo stile di questo «resoconto», l’insistenza su questioni di metodo come la scelta della struttura dialogica per riportare «il più fedelmente possibile» i frammenti forse più difficili da ricostituire, ovvero quelli del dialogo tra Marianne ed Evald sotto la pioggia, filtrato dal racconto orale della stessa Marianne (seq. 15a). Bergman racconta che Isak racconta un racconto di Marianne: parlare serve non solo ad alleviare la solitudine, ma anche ad allentare la morsa dell’oblio: Ho cercato di riferire il racconto di Marianne il più fedelmente possibile, e poiché lei riportava le parole in forma indiretta, mi è venuto naturale trasformare l’episodio in una sorta di dialogo.
Netta è ancora una volta la ricerca di una messa in forma «spettacolare» della parola (due personaggi ognuno con le proprie battute), come se la preoccupazione di avvincere il lettore fosse più urgente della ricerca della fedeltà. Questa apertura metadiscorsiva è completamente
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omessa nella prima edizione italiana della sceneggiatura, firmata da una coppia, Bruno Fonzi e Giacomo Oreglia, che era intervenuta già in precedenza a espungere la mise en abyme di cui sopra, ovvero il sorriso ironico mostrato dal narratore nei confronti dei propri vuoti memoria: «Si sentiva il suono di un piano (era qualcosa di Waldteufel, ma l’ho sicuramente già scritto)» 9. Non è questo il luogo per un’indagine sul metodo di lavoro dei traduttori degli anni ’60 10 o sul mancato rispetto delle fonti da parte di editori prestigiosi come Einaudi. Forse, ma è solo un’ipotesi che azzardiamo sul momento, queste marcature enunciative avrebbero appesantito la scorrevolezza del racconto, risultando forse inutili rallentamenti della progressione narrativa. Quarant’anni dopo, il rigore filologico di Renato Zatti assume dunque un’importanza rilevante per il futuro degli studi italiani su Bergman 11. Alcuni dettagli, si è detto, possono essere interpretati come indicazioni di metodo per gli attori. Non si spiegherebbe altrimenti l’attenzione riservata alla restituzione del tono e del ritmo della voce dei personaggi: «balbuziente e bassa» quella di Isak, «imponente» quella della zia di Sara, piena di rammarico quella di Sara all’inizio del viaggio in autostop, nervosa quella di Marianne dopo l’incidente d’auto. Allo stesso modo sono esplicitati gli stati emotivi e le posture di Evald e Marianne nell’auto sotto la pioggia (seq. 15a). Se Evald «sembrava avesse freddo», Marianne accenna a un «tremito da qualche parte nello stomaco»: «Non riuscivo a stare diritta». La recente edizione italiana presenta poi in corsivo quelle parole che nel dattiloscritto
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originale appaiono sottolineate. Prendiamo ad esempio il finale della sequenza 14, quando Alman rivela la punizione inflitta a Isak: ISAK: E quale sarebbe la punizione? ALMAN: La punizione? Non lo so, la solita suppongo. ISAK: La solita? ALMAN: Si certo, la solitudine. ISAK: La solitudine? ALMAN: Esatto, la solitudine.
Nell’ultima battuta la parola «solitudine», ensamhet, è scandita da Gunnar Sjöberg (l’ingegner Alman) con un ritmo diverso, più lento e attento a marcare le sillabe, come per evitare ogni fraintendimento da parte di chi ascolta.
Sottrazioni parte terza: eventi e situazioni Più forti però sono le sottrazioni che riguardano eventi o situazioni di cui il narratore è vittima o testimone. Spesso il fine è alleggerire il racconto: dell’incontro con la coppia in crisi (Alman e la moglie, seq. 7b) non resta traccia di una battuta della donna relativa a un evento che nel film non accade, ovvero la perdita di una ruota da parte dell’auto incidentata. Troppo banale, forse, la valenza metaforica di un evento che duplica quanto avvenuto nel sogno di Isak (la ruota perduta dal carro funebre) e giustifica un’affermazione didascalica del personaggio femminile: «La vera metafora del nostro matrimonio!».
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Alcune presenze cambiano aspetto, come i pezzi di vetro che feriscono Isak mentre costui spia Sara nel suo focolare (seq. 12b), ridotti a un polisemico chiodo piantato nel muro. Altre invece scompaiono del tutto, ed è il caso (celebre) dei serpenti che minacciano il riposo post coitum della moglie fedifraga (seq. 14) e soprattutto dell’apparizione di Sara, la terza, che nella sceneggiatura rientra in scena per chiudere la sequenza 14, acuendo in Isak la ferita morale inferta dalla fresca punizione di Alman. Andiamo con ordine. Il chiodo che sporge dalla casa di Sara funge da no-trespassing imprevisto per la pulsione scopica del voyeur. Rispetto ai pezzi di vetro, esso è un oggetto-trovato dotato di forti connotazioni simboliche. Nessuno dei personaggi ne parla, né Isak né Alman. La mano tagliata sembrerebbe rinviare alla metafora surrealista dell’occhio ferito, qui impossibilitato a contemplare l’intimità tra Sara e il rivale: sullo schermo della finestra, «cornice che protegge» direbbe Lacan, la scena primaria si spegne proprio in corrispondenza della ferita alla mano, che si appoggia al muto come per «vedere» meglio. In questo senso va l’interpretazione fornita da Robin Wood, che legge nel gesto dell’uomo la metafora di una solitudine innanzitutto sessuale (la masturbazione) 12. Qui come nel prologo di Un chien andalou (1929, Luis Buñuel), inoltre, la ferita oculare è preceduta dalla contemplazione del movimento della luna, che solca le nuvole da sinistra verso destra illuminando la foresta dei sogni. Decisamente religiosa è invece la lettura suggerita dalla coppia Philip e Kersti French, che vedono nella ferita del novello Isacco le stigmate di chi si appresta a compiere un itinerario di salvezza 13.
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Scoperta è anche la simbologia del serpente che abita la selva oscura della memoria, paradiso macchiato dal peccato di una coppia, Karin e l’amante, impegnata in una scena madre a cui non mancano le consuete decorazioni teatrali: la luce della luna come riflettore, lo spiazzo d’erba asciutta come palcoscenico, l’ombra degli alberi come sipario. Due volte il testo ritorna sul fatto che gli alberi sono morti, così come due sono i serpenti schivati dai passi fangosi del sognatore. L’improvvisa assenza dal testo filmico di questi istigatori diabolici è stata giustificata da Gunnar Fisher con una motivazione forse deludente per le aspettative del filmologo, ma tale da rivelare il clima di leggerezza «renoiriana» che si respirava su di un set aperto agli incidenti del reale: i serpenti sarebbero stati messi in fuga dalla pioggia caduta la sera precedente le riprese. Gli unici compagni di viaggio che possono incutere un po’ di paura nei viandanti sono i riflessi dei loro corpi rovesciati nell’acqua di un laghetto, ennesima struttura oggettuale che permette al tema dello specchio di «circolare» nel racconto. L’analisi della terza sottrazione, quella relativa all’ultimo incontro con il fantasma di Sara, richiede uno sforzo ermeneutico più complesso ma forse anche più gratificante. Siamo alla fine della sequenza 14. Dopo aver proferito la sua condanna, Alman lascia Isak solo nella radura. Questi ode una voce, vicinissima: SARA: Non dovevi andare da tuo padre? (La ragazza allungò la mano, ma quando vide il mio volto la ritirò subito.)
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ISAK: Sara… non era così all’inzio. Se solo tu fossi rimasta con me… Se solo tu avessi avuto un po’ di pazienza. (La ragazza sembrava non sentire quello che dicevo, ma aveva un’aria impaziente.) SARA: Sbrigati. (Facevo del mio meglio per seguirla ma lei si muoveva molto più leggera e più veloce di me.)
Tra la prima e l’ultima visione del pomeriggio il tempo sembra essersi fermato. È notte, ma la domanda di Sara ci riporta a quel pranzo di famiglia (seq. 5) da cui Isak era assente, in quanto impegnato ad assistere il padre nella pesca. Bergman forse non voleva gravare l’impalcatura onirica del racconto con un’ulteriore apparizione, o forse ha ritenuto che concludere il ciclo di sogni diurni sulla parola solitudine potesse essere la soluzione migliore per permeare d’angoscia il seguito della storia. Conoscendo l’attenzione che l’autore rivolge alla struttura musicale del plot, la parola «solitudine» appare come una nota che, non chiudendo il cerchio aperto dal «tema di Sara», risuona prolungata sotto il testo per sciogliersi solo nella sequenza finale, quando la ragazza finalmente aspetterà Isak e lo libererà dal suo isolamento guidandolo alla ricerca del padre. La selva che separa il figlio dai genitori resta per il momento oscura. Osservando l’ubiquità di questo personaggio femminile, il suo essere sempre e comunque al centro della fantasia di Isak, viene in mente l’esaltazione narcisistica verbalizzata dalla giovane attrice di Bildmakarna ([I creatori di immagini] 2002), eccitata dal fatto di potere, una volta sullo
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schermo, «appartenere a tutti, senza esserci». La cura scenografica con cui Bergman mette in quadro il corpo immaginario di Sara sottolinea la contiguità tra lo schermo cinematografico e il palcoscenico del sogno. Le sottrazioni non sono finite. Nel testo audiovisivo l’autore sembra aver alleggerito in quantità e qualità la presenza simbolica della Morte, ridotta a un unico carro funebre avvistato nell’incubo inaugurale: la sceneggiatura ci racconta invece che alcune carrozze seguivano non solo il feretro del Sosia, ma anche il carro funebre all’antica, trainato da grossi cavalli neri, che blocca il traffico nel quartiere di Lund percorso dall’auto di Isak, causando dunque un ritardo sui tempi previsti. Sarebbe stata un’occasione, quest’ultima, per l’ennesima apertura del discorso su se stesso, simile a quel collegamento che il narratore instaura tra sogno e realtà nel momento in cui osserva l’orologio senza lancette nelle mani della madre: «Ancora una volta mi ricordai del sogno del mattino e ancora una volta provai un’intensa sensazione di ineluttabile fatalità». Parole, queste, tradotte nella sequenza 10 con la ripresa del leitmotiv di Erik Nordgren.
Tracce di reale: uno specchio è uno specchio Resta da indagare una delle rare aggiunte apportate sul set: lo specchio che Karin, la moglie di Isak, utilizza per ricomporsi prima di parlare con l’amante (seq. 14). Si tratta forse di una delle sequenze più moderne del film, in virtù di quel linguaggio del corpo fatto di sguardi
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e gesti che anticipa molti dei duetti del Bergman che verrà: gli amanti parlano guardandosi, stringendosi a vicenda, sfiorandosi, rincorrendosi, abbracciandosi. Uno spazio verbocentrico come questo, dove nemmeno il rumore dell’auto disturbava la comunicazione, è improvvisamente riempito da suoni non verbali come la risata sguaiata della donna e il fruscio degli abiti che scivolano sull’erba. Allo stesso modo alcuni zoom sul volto di Isak disturbano l’armonia della composizione, imitando a livello filmico le linee spezzate disegnate dai movimenti convulsi della moglie. Classico e moderno dialogano in contrasto anche sul volto dell’attrice, coronato da una back-light divinizzante ma rivolto verso l’altrove tutto interiore del proprio sfacelo sentimentale. Il sistema simbolico su cui poggia il racconto, fondato sulla poetica del contrasto (Bene-Male, Luce-Buio, Gioventù-Vecchiaia, Realtà-Sogno), denuncia ancora una volta la sua natura didascalica. Se la bionda Sara è ritratta come una ninfa virginale, corteggiata dagli uccellini e accarezzata dal sole, la mora Karin esibisce tutto il peso della sua carne flaccida, che necessita di essere ricomposta dopo l’amplesso furtivo. La donna si alza, sfugge all’aggressione dell’uomo per poi sedersi, stanca, nei pressi di un cespuglio dal quale pronuncerà il suo disprezzo verso il marito. Interessante è il passaggio dal sublime al quotidiano, come se l’autore avesse voluto introdurre una variazione tonale su di un leitmotiv così portante come quello dello specchio. A differenza di quello mostrato da Sara al suo innamorato (seq. 12a), questo specchio non è verbalizzato e nemmeno impiegato per analizzare imperfezioni dell’animo quali
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l’egoismo, l’indifferenza o la freddezza. Anziché duplicare il volto in esso riflesso, lo lascia integro, limitandosi a disegnare sulla pelle null’altro che se stesso: un cerchio di luce illumina la parte centrale del volto di Karin, come potrebbe fare un qualunque proiettore luminoso sul palcoscenico. Di nuovo emerge la testura del dispositivo, o meglio la disponibilità degli elementi della diegesi a contribuire alla costruzione di un racconto la cui focalizzazione è ancora instabile. Chi osserva il volto di Karin? Isak o un’istanza narrante superiore? La distinzione tra quelli che André Gaudreault 14 definisce meganarratore (l’occhio della cinepresa) e narratore delegato (Isak) è assente nella sceneggiatura, dove uno solo è l’occhio che guarda. Lo script non rende conto di quella dialettica tra vicino e lontano che regola, come già in altre occasioni 15, le relazioni sintattiche tra vedente e visione. Con una serie di raccordi sull’asse, Bergman alterna infatti primo piano e campo lungo nella messa in scena della coppia fedifraga, mettendo in dubbio non solo l’appartenenza del vedente allo spazio diegetico della veduta (se Isak resta dietro le fronde, non può osservare il gioco di luce dello specchio) 16, ma anche il peso della focalizzazione interna nell’economia del racconto. Diversa è invece l’organizzazione del tessuto sonoro, veicolato da una sorta di orecchio ubiquo, capace di restituire la grana della voce di Karin nonostante la donna sia appena visibile tra le fronde del campo lungo: i sussurri di Gertrud Fridh sono sovrimpressi, durante il montaggio alternato, sul primo piano di Victor Sjöstrom, annullando così ogni verosimiglianza nell’organizzazione dello spazio.
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Face to face, volto contro volto. Se esistono più punti di sguardo, il punto d’ascolto è invece uno solo. Perché, in conclusione, aggiungere uno specchio, questo specchio? Forse semplicemente per distanziarsi da una materia drammatica controllata solo se osservata dietro la maschera dell’ironia, un’ironia viva anche oltre il commiato, come dimostrano alcune griffe autoriali presenti in Sarabanda 17.
Ingmar Bergman, Quattro film. Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto, Einaudi, Torino 1961, p. 14. 2 Ivi. 3 Ivi. 4 Questa è la traduzione di Renato Zatti (Iperborea), che da questo momento in poi utilizzeremo per tutti i frammenti della sceneggiatura. L’indicazione numerica è invece nostra, su imitazione della veste grafica del dattiloscritto. 5 Bibi Andersson, «American Film», 2, n. 5, marzo 1977, p. 33-48. 6 «I dialoghi sono sottoposti a controlli rigidi ridotti, condensati, rotti, buttati. Le parole sono testate e cambiate. Quando l’attore mi rimpiazza e modifica le mie parole attraverso un’espressione che gli è propria, io generalmente perdo il contatto con il senso originale delle battute» (Ingmar Bergman, Images, Gallimard, Paris 1992, p. 307 [ed. it. Immagini, Garzanti, Milano 1992]). 7 Ingmar Bergman, Dialogue on film: Ingmar Bergman, «American Film», gennaio-febbraio 1976 (estratto di un seminario tenuto all’American Film Institut il 31 ottobre 1975). 8 Interessanti in questo senso sono i saggi contenuti in Stuart Kaminsky (a cura di), Ingmar Bergman: Essays in Criticism, Oxford University Press, New York 1975. 9 Ci riferiamo all’edizione di Quattro film. Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto, pubblicata da Einaudi nel 1961. 1
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Suddette inserzioni metadiscorsive non sono sostituite da improbabili varianti: la «traduzione» si è fortunatamente limitata all’elisione. 10 Non è dato di sapere se Fonzi e Oreglia abbiano utilizzato il dattiloscritto svedese di Bergman o piuttosto, come crediamo, la traduzione inglese edita da Simon & Schuster nel 1960 e curata da Elisabeth Sutherland (Four screenplays of Ingmar Bergman, traduzione di Lars Malmström e David Kushner). Bruno Fonzi è stato studioso di letteratura anglosassone e ha tradotto diversi autori, da Hemingway a Twain. La firma di Oreglia farebbe pensare all’utilizzo di una fonte svedese dello script, ma nel testo italiano compaiono omissioni identiche a quelle riscontrabili nella versione inglese. Nato come italianista, Giacomo Oreglia è un importante mediatore culturale, impegnato per diversi decenni nelle relazioni tra Svezia e Italia. Prima di Renato Zatti, Oreglia è stato l’unico italiano autorizzato da Bergman a tradurre in italiano le sue sceneggiature. 11 Consultato in merito alle fonti utilizzate da Fonzi e Oreglia per la traduzione Einaudi, Renato Zatti ipotizza l’impiego del testo inglese, in virtù di alcuni errori classici come la confusione tra il tu e il voi. Quando la madre apre la scatola dei giochi (seq. 10), nell’edizione Einaudi si legge: «Ho cercato di ricordarmi quale abbia appartenuto a te», invece di: «Ho cercato di ricordare di chi erano» (il «voi», riferito ai figli, in svedese c’è, ma qui è sottinteso). 12 Cfr. Robin Wood, Lessons of Love in Ingmar Bergman, Movie Paperbacks, London 1969. 13 Cfr. Philip French, Kersti French, Wild Strawberries, BFI Classics, London 1995. 14 Cfr. André Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, Lindau, Torino 2006. 15 Si veda la seq. 1. 16 In questo ribaltamento della logica del raccordo, Jacques Aumont vede invece un modo per obbligare lo spettatore a prendere coscienza dell’esistenza di un punto di sguardo (piuttosto che di un semplice punto di vista) a cui egli è inevitabilmente legato (cfr. Jacques Aumont, Ingmar Bergman. «Mes films sont l’explication de mes images», Éditions Cahiers du cinéma, Paris 2003, p. 195). Lo sguardo che tutti guarda, secondo Bergman, è però semplicemente quello della sua infanzia (cfr. Ingmar Bergman, È stata una stagione stupenda, in Luciano De Giusti [a cura di],
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L’opera multiforme di Ingmar Bergman. Oltre il commiato (1982-2003), Il Castoro, Milano 2006). 17 Si pensi a quel fermo-fotogramma nel finale del film, quando i corpi di Marianne e Johan si irrigidiscono in una fotografia che evidenzia lo sguardo del meganarratore Ingmar Bergman (cfr. Maarat Koskinen, Alle fonti di Sarabanda, in De Giusti [a cura di], L’opera multiforme di Ingmar Bergman cit.).
Pruderie?
Per ragioni che qui è impossibile indagare in modo esaustivo, il Bergman distribuito o teletrasmesso in Italia assomiglia solo vagamente all’originale. Poco o nulla però si è scritto sulle amputazioni, talora esigue, talora notevoli, che le parole e le immagini di questo cinema hanno dovuto subire per poter circolare in un paesaggio asfittico come quello dell’Italia democristiana degli anni ’50 e ’60 1. Un paese che pure era pronto a finanziare una versione televisiva della vita di Gesù, per poi, come si legge in Lanterna Magica, fare dietrofront una volta constatata l’audacia drammaturgica dell’adattamento bergmaniano: era il 1972, il progetto fu affidato a Franco Zeffirelli 2. Monografie come quelle di Tommaso Chiaretti (1964), Massimo Maisetti (1964), Guido Oldrini (1965), Tino Ranieri (1974), Alfonso Moscato (1981) e Sergio Trasatti (1991) sono oggi utili come specchio dei tempi, in quanto gli autori si sono spesso confrontati con testi mutilati in una delle sfumature più perturbanti della Weltanschauung bergmaniana: la messa in dubbio della fede cristiana come
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luogo di salvezza e il ricorso alla voce del corpo per vincere il silenzio di Dio. Preziosa, in quanto rispettosa dell’originale svedese, è stata in questo senso la traduzione dei dialoghi de Il posto delle fragole apparsa nel 1961 su «Cinemanuovo» 3, forse la rivista italiana più attenta, pur con tutti i suoi limiti ideologici, all’opera del maestro. I tagli a cui si accennava nell’Introduzione, relativi a titoli fondamentali come Il silenzio e Persona, sono solo i più famosi, quelli evidenziati nei dizionari cinematografici (Mereghetti), chiacchierati in tanti cineforum e messi a nudo da quei cinefili che hanno avuto la pazienza di procurarsi le copie inglesi, americane o francesi di suddette opere, senza aspettare quel restauro filologico che la BIM ha solo parzialmente attuato. Non si capisce infatti perché tra i film recentemente distribuiti in DVD sul mercato italiano alcuni, come Un’estate d’amore e Donne in attesa, siano stati ripuliti dagli interventi di «censura» mentre altri, come Persona o lo stesso Posto delle fragole, siano stati presentati con sottotitoli assolutamente non rispettosi dei dialoghi svedesi. Tra le modifiche subite dal film in questione, quattro sono le più evidenti. Di queste, tre sono volte a proteggere lo spettatore dalla leggerezza con cui sono nominati temi e figure della religione (protestante), mentre una, la terza in ordine cronologico, intende semplicemente edulcorare il candore virginale del personaggio di Sara:
PRUDERIE? SEQUENZA
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TRADUZIONE
VERS. ITAL. UFF.
Seq. 3: All’inizio MARIANNE: Men del viaggio, Ma- om du behöver rianne ripete pa- lite psykisk onarola per parola il ni kan jag ordna frammento di un en bra själskvacdiscorso di Isak. kare. Eller kanske en präst det är ju så modernt numer.
MARIANNE: Se hai MARIANNE: Se bisogno di un senti il desiderio po’ di masturba- di farti confortazione mentale ti re da qualcuno posso indicare posso indirizzarun ciarlatano del- ti da uno psicalo spirito. O un nalista. Adesso prete, sono molto vanno di moda. di moda oggi.
Seq. 7a: Nell’auto, Sara confida a Isak di essere fidanzata con Anders ma controllata, per mezzo del padre, dalla «spia» Viktor, anch’egli innamorato di lei.
SARA: Bäst jag upplyser om att jag är oskuld. Det är därför jag är så fräck i mun.
SARA: Forse è meglio che spieghi a Isak che sono vergine, per questo sono così sfrontata a parole.
Seq. 11: Isak chiede a Sara quale dei due ragazzi (Anders e Viktor) lei preferisca.
SARA: Jag vet in- SARA: Non lo so. te. Fast Anders Anche se Anders ska bli präst. Fast farà il pastore. han är ju ganska Eppure è piuttorar och varm för- sto dolce e tenestås. Fast präro. Ma moglie di stfru! […] Och en un pastore! […] präst är ju nåt Un pastore è proantikverat. Fast prio fuori moda. han har snygga Però ha delle belben, killen. Och le gambe il rasöt nacke. Fast gazzo, e una nuhur kan man tro ca così bella. Ma pä gud? come si può credere in Dio?
SARA: Io preferisco le compagnie maschili. Per questo sono sfacciata.
SARA: Non lo so. Anders sarà professore. È un ragazzo gentile e premuroso. Però moglie di un professore di teologia! […] I teologi non sono mondani. Come ragazzo mi piace, è attraente. Ma perché discute sempre di Dio?
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Seq. 14: La moglie Karin anticipa le battute della discussione che avrà col marito di lì a poco, quando sarà tornata a casa dopo l’incontro con l’amante.
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KARIN: Jag vet precis vad han säger… som om han vore gud fader.
KARIN: So già cosa risponderà, come se fosse Dio padre.
KARIN: So già cosa risponderà con quel suo tono da oracolo.
Partiamo dall’ultimo brano (seq. 14): sostituire il nome di Dio con il più comodo «oracolo» è la soluzione ideale per togliere dal personaggio di Isak la macchia di una tracotanza imperdonabile, quella di paragonarsi a Dio in persona. Perché se Isak è Dio, Dio sarebbe l’ascoltatore vile descritto di lì a poco dalla tormentata moglie, ovvero una creatura fredda, apatica, indifferente, egoista, aggettivi simili a quelli impiegati, almeno nella versione originale del film, dalla sfortunata Marie nel finale di Un’estate d’amore. Uno dei sostantivi che evidentemente dà più fastidio agli adattatori dei dialoghi è la parola präst, traducibile con «prete» o, nel gergo protestante, «pastore». Nella sequenza 3 essa è semplicemente cancellata, mentre quando si tratta di italianizzare il personaggio di Anders (seq. 11) costui da pastore diventa prima «un professore di teologia», poi addirittura un «teologo». Non basta come giustificazione la volontà di evidenziare le differenze culturali tra i due paesi, ovvero il fatto che in Italia la religione protestante, che non esclude il matrimonio per i pastori, non è e non era diffusa quanto quella cattolica.
PRUDERIE?
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Lo spettatore medio, forse a corto di conoscenze riguardo ai costumi religiosi scandinavi, avrebbe potuto essere turbato dalle parole di una ragazza che non solo si aggira da sola per l’Europa con due ragazzi, ma pensa addirittura di diventare la «moglie di un pastore [prästfru]». Un pastore, per giunta, di cui non è esaltato il rigore morale quanto le gambe virili e la bella nuca (söt nacke), diventata inspiegabilmente «robusta» nella traduzione della sceneggiatura di Fonzi e Oreglia. Nella versione italiana il motivo dell’attrazione di Sara è lasciato invece all’immaginazione di uno spettatore che perde, con il doppiaggio, anche il tono scanzonato conferito al personaggio dall’inflessione e dal timbro di Bibi Andersson. Ma la pruderie cattolica tocca il culmine sul finire della sequenza, quando la domanda di Sara, alla quale Isak replica con un sorriso, perde ogni venatura polemica riguardo al rapporto tra i giovani e la fede nella Svezia degli anni ’50. Il soggetto del dubbio non è più «noi», («Ma come si può credere in Dio?») bensì «lui», Anders, del quale non si rimprovera il fatto di «credere», quanto la più innocente volontà di argomentare su Dio: «Ma perché discute sempre di Dio?» Significativo è inoltre un dettaglio rintracciabile nella sezione del dattiloscritto relativa a questa scena. L’unica parola sottolineata è proprio uno dei due verbi purgati dalla versione italiana, ovvero kan, potere, verbo che Bibi Andersson scandisce in modo da assegnargli una collocazione particolare nel ritmo della frase. Ridicolo è poi il tentativo di salvare anche la modernità di coloro che, non importa se pastori o teologi (sic!), si oc-
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cupano dei problemi dello spirito anziché concentrarsi sulle miserie terrene: tradurre antikverat (antiquati) con non mondani significa travisare completamente la spontaneità ribelle del personaggio, mettendole in bocca un’affermazione al limite del tautologico. Che i teologi non siano mondani va da sé, mentre il fatto che l’istituzione religiosa svedese stesse attraversando una forte crisi è tutto un altro discorso. In questo senso ci sembra legittima, anche se indubbiamente invecchiata, la lettura proposta da Jörn Donner nel suo Il volto del diavolo 4, dove il film è visto come un piccolo campanello d’allarme sul mutamento dei costumi in una nazione dove l’influenza della Chiesa sulle giovani generazioni era sempre più debole. Sono invece essenzialmente prosodiche le mutazioni subite dal cantico arpeggiato da Anders alla fine del pranzo all’aperto (seq. 9). Ecco l’incipit nella traduzione letterale di Renato Zatti: «Ah! Se una tale bellezza si rivela in ogni vena del creato e della vita, quanto bella deve esserne la fonte, eternamente pura!» Lo spettatore italiano invece ascolta rime baciate che l’adattatore ha creato a partire dalla musicalità del testo originale, dove l’aggettivo klara, pura (riferito alla fonte) fa rima con vara (infinito del verbo essere) 5: Ah! Se il creato a noi si manifesta / con la gioia esplosiva di una eterna festa / sarà di uno splendore inusitato/ chi la vita ci ha dato.
Bergman qui non c’entra. Sono parole note ai fedeli svedesi, comprese nel Salmo 325 (versetto 5) della liturgia eu-
PRUDERIE?
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caristica nazionale. Scritto nel 1818 dal pastore e poeta svedese Johan Olof Wallin 6, il testo è contenuto all’interno dello Svenska Psalmboken, il libro svedese dei Salmi 7, il quale è diviso in diverse sezioni tematiche. Singolare il fatto che Bergman abbia attinto dalla sezione consacrata a uno dei leitmotiv del suo cinema, ovvero la «Speranza del cristiano di fronte alla morte» 8. Quello che a prima vista potrebbe apparire un piccolo dettaglio filologico è invece utile per rivedere la collocazione de Il posto delle fragole all’interno di questa stagione bergmaniana, dove forse gli echi teologici e teleologici de Il settimo sigillo non si sono ancora del tutto spenti. Il viaggio del cavaliere Block continua, anche se la Morte non è più una creatura antropomorfa dalla maschera bianca e nemmeno un carretto fantasma: la Morte ora non è altro che la nostalgia di se stessi, il punto di arrivo di un ritorno doloroso. Presto Anders dovrà recitare questo canto nelle sue funzioni. La Sara «italiana» ribadisce il fatto che Anders si limita a studiare teologia, quando invece nel testo originale è detto che diventerà pastore. «Non capisco come un uomo moderno possa farsi pastore»: questa affermazione di Viktor doveva, chissà, risultare troppo lesiva del prestigio delle istituzioni cattoliche. Quanto alla visione dell’uomo moderno, l’opposizione tra le teorie dei due giovani (uno razionalista, l’altro spiritualista) perde nella versione italiana una delle chiavi di lettura della tanto commentata angoscia bergmaniana, ovvero il suo porsi al soggetto come oggetto di uno sguardo faccia a faccia. Evidente nel discorso di Viktor (Björn Bjelvestam) è la parola ser, guardare: «Jag anser att den moderna mänskan ser
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sin meningslöshet», ovvero: «Credo che l’uomo moderno guardi la propria assurdità» (letteralmente: assenza di significato). L’uomo moderno della versione italiana è invece semplicemente «consapevole della sua inutilità», dove la parola inutilità non conserva la radice mening (meaning), ovvero qualcosa che ha a che fare con la dimensione del senso più che con quella dell’utile. Anche la conclusione del ragionamento è «tradita»: «Allting annat är nonsens» [Tutto il resto è senza senso] diventa: «Tutto il resto è zero». Naturalmente è possibile che le esigenze del labiale abbiano influito su entrambe le varianti, in particolare sulla seconda: la parola zero è bisillabica come l’originale nonsens. Se si perdono le venature lessicali dell’esistenzialismo bergmaniano, rimangono scelte di messa in scena eloquenti come la mezza figura che isola Isak dal gruppo in seguito alla domanda, rivoltagli dai ragazzi, circa la sua fede religiosa. Il silenzio e il taglio di inquadratura, rigorosamente frontale (fig. 5), sono identici a quelli che accompagnano la celebrazione del pastore Ericsson all’inizio di Luci d’inverno (fig. 6), il secondo capitolo di una recherche, quella del padre, che forse comincia con questo film. Non è improbabile che il giovane Bergman abbia sentito spesso il padre recitare questo salmo durante le sue funzioni Un salmo in cui è già questione di assenza, di vuoto, di silenzio da parte di colui il cui Amor si confonde nel respiro della natura, «ovunque una forza si sveli, un fiore profumi, una spiga si pieghi». Ovunque, si direbbe con Luci d’inverno, il sole faccia brillare i suoi raggi attraverso le vetrate di una chiesa.
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Lo sguardo in macchina è qui inatteso perché non c’è Sara dall’altra parte dello schermo. C’è uno spettatore che assiste a una interruzione nell’interruzione, una pausa liturgica durante la pausa del viaggio: il recitativo di Isak sospende dunque non solo il viaggio, ma anche il ritmo del montaggio e quello del racconto. Fanno infine sorridere le piccole correzioni relative alla libertà di linguaggio di Sara (seq. 7a). Il buon costume nostrano forse non apprezzava il fatto che una ragazzina con tanto di pipa e compagnia maschile sbandierasse al primo venuto la propria condizione di purezza, trovando in essa non tanto una virtù quanto la causa della sua sfrontatezza verbale. Finalizzata invece a preservare l’integrità morale di Isak è la leggera modifica apportata al resoconto dei trascorsi di gioventù dell’uomo, contenuto sempre nella sequenza 7a: la versione originale ci rivela che Sara non è stato il primo amore, ma semplicemente uno degli amori giovanili: «Jag hade en ungdomskärlek som hette Sara» [Io avevo un amore giovanile che si chiamava Sara]. Interventi come questo sono frequenti nei melodrammi precedenti Il posto delle fragole, come se in Italia si fosse voluto «romanticizzare» la visione di un cineasta che del sentimento amoroso ha sempre mostrato non solo la caducità (Un’estate d’amore, Sete) ma anche la componente ossessivo-patologica (Sarabanda, Un mondo di marionette), le venature masochistiche (Sussurri e grida) o le derive incestuose (Il silenzio, Come in uno specchio). Il silenzio dimostrerà come l’amore, in Bergman, sia soprattutto pulsione dei sensi, attrazione irrazionale che può sostituire ogni altra forma di comunicazione (si veda la re-
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lazione della sorella di Ester con lo sconosciuto) prima di porre il soggetto che ama in un rapporto di alienazione con se stesso: «Devo controllare la mia mente – dice Ester annebbiata dall’alcol e dal dolore – sono conosciuta come una persona di spessore intellettuale». Ma controllare la mente è difficile se si è in ascolto di un corpo che chiede di essere riempito di cibo, di alcol, di sesso. Questo è il dilemma che angoscia anche l’adolescente che, in un pomeriggio d’estate del primo ’900, confida alla sorella l’eterno dissidio tra le ragioni del cuore e quelle del corpo. La Sara di oggi è come in uno specchio la Sara di ieri, divisa tra la luce della retta via (Isak/Anders) e l’oscurità della passione (Sigfrid/Viktor). Tutto ritorna in un tempo che le lancette non possono più scandire. Isak è sicuramente buono, gentile e morigerato, bacia al buio e parla della vita ultraterrena: il perfetto innamorato secondo la visione cattolica, proprio come Anders, il suo doppio. Ma Sigfrid esercita in Sara qualcosa che la versione italiana del film non dice: brivido, attrazione, eccitazione. Sigfrid non è infatti «insinuante e impertinente», bensì fräck och spännande, ovvero «impudente ed eccitante».
All’«ipoteca cattolica» nella diffusione italiana di Bergman accenna Paolo Mereghetti nella postfazione alla sceneggiatura di Il posto delle fragole (Iperborea, Milano 2003). Apprezzabile poi la comparazione delle diverse edizioni (italiana, francese e inglese) de Il silenzio proposta da Sergio Arecco, in relazione alla presenza/assenza della parola hadjek, pronunciata nella versione italiana assieme alla sua traduzione (anima). Cfr. Sergio Arecco, Ingmar Bergman. Segreti e magie, Le Mani, Genova 2000, p. 68.
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Il progetto di Bergman concentrava la vicenda nelle 48 ore che precedono la morte di Cristo, dedicava gli episodi ai singoli personaggi della Passione (Pilato, Pietro, Maria Maddalena) ma soprattutto prevedeva come unica location l’isola di Fårö. 3 La prima parte dei dialoghi è contenuta in «Cinemanuovo», n. 144, marzo-aprile 1960, pp. 169-177; la seconda parte nel numero successivo: «Cinemanuovo», n. 145, maggio-giugno 1960, pp. 260-274. 4 Cfr. Jörn Donner, Il volto del diavolo, Cineforum, Venezia 1964. 5 Questa la frase pronunciata da Anders: «Hur skön då måste sjålva källan vara, den evigt klara!» Ovvero: «Quanto la fonte deve essere bella, per sempre pura». 6 Nella monografia su Il posto delle fragole edita dal BFI sono riportate integralmente le parole del salmo recitate dai personaggi (cfr. Philip French, Kersti French, Wild Strawberries, BFI Classics, London 1995). 7 Renato Zatti ci informa che il salmo in questione è il numero 325 dell’ultima edizione del libro (1986). Quando uscì Il posto delle fragole l’edizione vigente era quella del 1937 e il salmo era il numero 564. 8 La fonte è ancora una volta Renato Zatti. 2
Il verbo, il corpo, il simulacro
Contrappunti «Nella nostra relazione con gli altri, è importante discutere e giudicare il comportamento e il carattere del prossimo.» In principio è la parola. Una parola acusmatica, proveniente da un altrove ignoto ma scandita con una certa dolcezza, come se il parlante fosse in qualche modo emotivamente lontano da ciò che racconta. Due colpi di gong precedono l’entrata in scena di un verbo, quello di Isak Borg, che ci accompagnerà per tutta la durata del racconto, ricordandoci a più riprese che quella a cui assistiamo è una narrazione nella narrazione, ovvero la rievocazione verbale di un’esperienza vissuta in un tempo precedente a quello fissato in questo prologo. Mediante il ricorso alla cornice, paratesto piuttosto raro nel Bergman di questi anni, Il posto delle fragole si offre subito come storia di una parola che diventa prima testo (i fogli di Isak Borg) e poi immagine. In questione è proprio l’urgenza di fissare l’evanescenza del ricordo.
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La voce off di Sjöström – ha scritto Eithne O’Neill – è stregoneria. Continuo di violoncello, talora straziante, talora vellutato, il suo dire scandisce l’azione. Il rifiuto di incarnare tanto il protagonista giovane che il marito adulto permette di mantenere ciò che a partire dalla nascita riveste il personaggio, ovvero la sagoma scarna di un vecchio. 1
Mentre la voce scorre, protetta da agenti esterni e più che mai onnisciente, il corpo di un uomo senza nome è seduto alla scrivania. Non fa alcun rumore, se non quello prodotto dalla penna che scorre sul foglio, sovrastato però da uno dei suoni più cari all’autore: il rintocco del pendolo, anch’esso acusmatico. Delle undici inquadrature di cui si compone il prologo, solo cinque sono dedicate a quest’uomo, restituito però come superficie opaca, di spalle o al massimo di profilo: INQUADRATURA
IMMAGINE
SUONO
1 Totale di una stanza
Isak Borg seduto alla scrivania.
2 PP
Profilo di Isak. Accen- Voce over de il sigaro e aspira.
3 Dettaglio: panoramica Foto di famiglia: il fida dx a sx. glio e la nuora. 4 Dettaglio
Tic-tac del pendolo: costante in tutta la sequenza. Voce over
Voce over
Foto: l’anziana madre. Voce over
5 Piano ravvicinato: pano- Isak si versa un bicramica verso l’alto. chiere di cognac e beve.
˜
6 Dettaglio
˜
Foto: la moglie Karin.
IL VERBO, IL CORPO, IL SIMULACRO
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7 MF
La cameriera entra e annuncia la cena.
Voce in della cameriera
8 Campo medio: travelling in avanti
Isak si volta, risponde alla donna e si affretta a ordinare i fogli sul tavolo. Isak si alza e si avvicina alla porta della stanza. Il cane si alza e segue il padrone.
Voce in di Isak Voce over
9 FI: travelling verso dx
10 FI: travelling verso dx.
11 Totale della stanza La stanza vuota. (angolazione leggermente diversa rispetto all’inquadratura iniziale).
Voce over
Voce over Voce over
Più che un volto la prima inquadratura, costruita per linee simmetriche (il cane disteso secondo una linea diagonale che riprende quella della sedia), ci mostra una massa pesante, china sulla scrivania e immobile quanto i mobili antichi o i libri che arredano lo studio. Nulla ci dice che questo corpo sia vivo, fino a quando uno stacco di montaggio (inq. 2) non ci avvicina permettendoci di osservare un movimento contrario al gesto stesso della scrittura. Se la voce dilata l’attenzione verso un «noi» universale («Nella nostra relazione con gli altri»), la cinepresa si concentra invece sulla fatica particolare di questo corpo, colto nell’attimo in cui sospende la scrittura per accendere il sigaro e abbandonarsi a una fantasticheria muta (fig. 7). Il gesto che dovrebbe fissare il tempo rimane dunque invisibile, infilmabile come il processo stesso della creazione artistica.
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INGMAR BERGMAN. IL POSTO DELLE FRAGOLE
Anziché illustrare l’immagine o potenziarne i segni, la parola agisce per ora come un contrappunto, allontanandosi dall’immagine proprio come il nostro occhio è costretto a fare nei confronti di quei misteriosi fogli di carta. Nulla ci è detto riguardo al gesto sospeso dall’uomo, anzi. Potrebbe trattarsi di appunti di lavoro o di una lettera indirizzata a un familiare. La voce parla di lavoro («Tutta la mia esistenza è stata consacrata al lavoro, ma non ho rimpianti»), mentre l’immagine ci mostra l’abbandono a un tempo vuoto, consacrato al corpo (il fumo e l’alcol) e fecondo, forse, di suggestioni per un testo che mai leggeremo. Distribuiti in due inquadrature, sono trascorsi cinquanta secondi. Il racconto deve ancora cominciare e la scrittura è già un atto mancato, nascosto in uno strato dell’immagine familiare solo all’immaginario di questo narratore narrato. Isak Borg guarda verso il bordo sinistro del quadro. Oggetto di quella che immaginiamo essere una soggettiva sono alcune fotografie racchiuse in modeste cornici verticali, collocate, è dato di pensare, a sinistra della scrivania. Per la prima volta immagine e parola seguono dunque il medesimo tragitto narrativo, quasi questi ritratti costituissero una sorta di galleria di presentazione dei personaggi della storia. In realtà altro non sono che frammenti della macrocornice costituita dal prologo, come se il narratore/scrittore avesse ideato una sorta di supporto iconografico ai suoi appunti. La terza inquadratura (fig. 8) è talmente satura di volti che la cinepresa, per assecondare il ritmo delle parole, scorre con una panoramica da destra verso sinistra al fine
IL VERBO, IL CORPO, IL SIMULACRO
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di completare la biografia del figlio Evald, medico come il padre e come il padre coniugato. Della moglie però vediamo il volto ma non ci è detto il nome: lo stesso destino in cui incorre la vecchia madre presentata, dopo uno stacco, nella quarta inquadratura, fissa come lo sguardo severo della donna. Ma la galleria non è finita. Forse la voce vorrebbe continuare, del resto appartiene a un non-luogo in cui non è avvertibile il rintocco del pendolo. Il corpo però reclama per la seconda volta attenzione alle proprie esigenze: inquadrato di profilo, Isak versa il liquore nel bicchiere e lo beve, costringendo così il narratore a una pausa che evidenzia la natura fantasmatica di questo corpo. La voce non esce dalla bocca, ma finge di essere influenzata da gesti quali bere o fumare. L’inquadratura che segue questo profilo di Isak è quella centrale, esattamente a metà della sequenza, ed è consacrata all’unico defunto tra i ritratti imbalsamati sugli scaffali: la moglie Karin, morta da diversi anni e viva, come vedremo, solo in sogni inquietanti, ambientati alla luce della luna. La sua irruzione muta sullo schermo introduce come una cesura la seconda parte del prologo, dove la contemplazione cede il passo all’azione: Isak esce dal suo studio assieme al cane 2 e il film comincia. Per ora fermiamoci nella stanza e analizziamo, con un breve excursus nella filmografia bergmaniana, la portata simbolica di questi ritratti. Poco importa se Isak guardi o no le fotografie, interessante ci sembra il tempo a noi concesso per osservarle.
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Fotografie: oltre il simulacro «Fotografare una persona – ha scritto Susan Sontag – equivale a violarla, vedendola come essa non può vedersi, conoscendola come essa non può conoscersi: trasformarla in un oggetto che può essere simbolicamente posseduto.» 3 Di oggetti simbolicamente posseduti, in questo cinema, ne abbiamo visti molti, su tutti il diario di Henrik in Un’estate d’amore, ricco di parole ma privo di quelle immagini incise solamente nella mente audiovisiva di Marie, la cui storia d’amore incominciò proprio all’ombra di un fragoleto. Quelle de Il posto delle fragole sono infatti tra le primissime fotografie filmate da Bergman, che nei melodrammi di cui sopra sceglie di far scattare i battiti di ciglia a partire da un vagheggiamento della mente spesso indipendente dallo sguardo. La Marta di Donne in attesa, ad esempio, rivede il suo passato mossa dalla semplice necessità di riempire il tempo dell’attesa per il parto, mentre per il compagno di Monica (Monica e il desiderio) l’unica traccia del passato è quella scolpita nello specchio in cui egli, nel finale, proietta un frammento di idillio perduto (il bagno di Monica sugli scogli). Ambientato in un’agenzia di moda, l’incipit di Sogni di donna è invece rivolto a restituire non solo la materialità della riproduzione fotografica, ma anche la pulsione scopica di chi assiste agli scatti e soprattutto quel che resta del corpo della modella: si pensi a quelle labbra rosse che «nascono» nella camera oscura durante i titoli di testa. La fotografia è qui maschera, messa in scena, alterazione del vero.
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Dopo Il posto delle fragole, gli interni da Kammerspiel di Luci d’inverno e Il silenzio, vuoti e silenziosi, incoraggeranno il dialogo muto del corpo con il simulacro di chi se ne è andato 4. Pensiamo ai due ritratti della moglie del pastore Ericsson (Luci d’inverno), estratti dall’agenda assieme alla lettera d’amore successivamente «videoletta» da Ingrid Thulin. Distaccato con i suoi comunicandi, il pastore dimostra un attaccamento morboso alla propria agenda: la stringe, la accarezza, la tiene con sé anche durante il breve colloquio con Anna. Quando si siede, la cinepresa si avvicina per mostrarci, attraverso le fotografie, due «momenti» del volto della donna, sorvolando invece sulla figura intera che intravediamo appena alla fine della scena (una foto ricordo quest’ultima, forse scattata durante una vacanza). Nella prima fotografia la moglie sembra sorridere all’obiettivo, il volto appoggiato sulle mani incrociate (fig. 9). C’è dunque un dialogo tra il simulacro, che guarda, e il corpo del vedente, che sembra rispondere con un sussurro: «Mia cara!». La seconda immagine però, più ravvicinata e priva di qualsiasi commento verbale, ci mostra la stessa donna ritratta in una posa totalmente differente: ha lo sguardo rivolto verso il basso, indice di una non precisata gravitas, ma soprattutto del rifiuto di qualsiasi comunicazione (fig. 10). Questo secondo volto si fa semplicemente possedere dallo sguardo, ma resta opaco. Curiosa è la scritta incisa sulla fronte della donna: räkopia, ovvero «copia non ritoccata». Il meccanismo riproduttivo è dunque esibito nel modo più crudele e asettico, come a voler preservare colui che guarda dall’illusione di un contatto con il simulacro. Il volto bidimensionale forse parla, ma pur
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«non ritoccato» resta sempre una copia, qualcosa che rinvia a un originale perduto come perduto è il corpo di cui la luce ha impresso questa immagine. Con un semplice gesto delle mani, dunque, l’incorporeo si rianima sotto la pelle dell’amato, offrendo allo sguardo un volto più mobile e vivo di quello che il pastore, del quale lo spettatore condivide la focalizzazione, sta per guardare dietro la carta della lettera: la maschera sofferente di Marta, la maestra innamorata e non ricambiata. Il feticcio fotografico è allora occasione per una variazione sul volto come luogo dell’iscrizione del tempo: da un lato un volto fisso filmato come mobile, dall’altro un volto mobile (perché vivo, quello di Ingrid Thulin) filmato come fisso, grazie all’eccezionale riduzione dei segni nella mimica dell’interprete durante la «recitazione» della lettera 5. Diverso è il discorso quando si tratta di recuperare il proprio tempo perduto, cercando di lenire la nostalgia per un congiunto a cui solo in età adulta il figlio riesce a restituire l’affetto 6. Karins ansikte (Il volto di Karin, 1986) è in questo senso un atto d’amore verso i tanti simulacri che restano quando il corpo non c’è più. Il cortometraggio è composto unicamente di immagini fisse, ritratti di famiglia sui quali la cinepresa indugia con movimenti lenti in avanti, quasi a voler penetrare la grana, già graffiata, delle lastre d’epoca, prolungando all’infinito quel gesto di Isak sulla riva che chiude Il posto delle fragole. Nessun commento verbale; solo le note del piano di Käbi Laretei, allora moglie del regista, accompagnano la successione delle immagini, disegnando nel tessuto sonoro intervalli lunghi, come a voler restituire a livello materico il
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sentimento della perdita. Rare didascalie aiutano a contestualizzare gli eventi immortalati, come il fidanzamento con il pastore Erik, con la cinepresa che scompone l’unità del ritratto in diversi frammenti. E non è un caso che quelli che più durano sullo schermo siano i dettagli delle mani e del volto, le parti del corpo che la cinepresa di Ingmar Bergman non ha mai smesso di accarezzare 7. Il volto di Karin altro non è che un documentario sulla potenzialità affettiva del feticcio fotografico, capace, a quanto si legge sotto le immagini, di attrarre l’anziana donna in una solitudine dalla quale ella non uscì mai più. Proprio come fa il nonno di Jenny in L’immagine allo specchio, rifugiato in una contemplazione solitaria di vecchie foto di famiglia che la cinepresa si guarda bene dal mostrarci. Più che dare durata all’immagine fissa, Bergman spesso preferisce trasformare il volto dell’attore in icona immobile, letta ad alta voce da un secondo volto interno all’inquadratura. Si pensi agli innumerevoli duetti a letto, da Persona (Alma ed Elisabeth dopo la confessione dell’infermiera) a Sarabanda (Henrik e la figlia durante la confessione d’amore del padre): in entrambi i casi il volto è disteso orizzontalmente e dunque ci appare come altro da noi, un oggetto forse più facile da possedere con lo sguardo. Quello di Liv Ullmann è forse il volto più «fotografico» di questo cinema, il più abile a ridurre i segni della mimica offrendosi come perfetta persona, immobile nella durata. Penso in particolare alla sospensione estatica che ella disegna, le labbra semiaperte, durante la lezione di piano in Sinfonia d’autunno, e forse non è un caso se proprio a Ullmann Bergman affida, in Sarabanda, un ruolo molto simi-
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le a quello del vecchio Isak. Rileggiamo Il posto delle fragole alla luce di quello che è l’ultimo dei testamenti dell’autore.
Sarabanda di spettri Un tappeto di fotografie, viste dall’alto, distese su di un ampio tavolo. Sarabanda comincia così: nessun corpo, solo immagini di carta, non ancora incorniciate come quelle di Isak e forse per questo impenetrabili all’occhio della cinepresa. Dopo alcuni secondi una donna, interpretata da Liv Ullmann, entra in campo e si siede a quel tavolo, in posizione frontale rispetto alla cinepresa. Questo incipit ribalta come in uno specchio il prologo de Il posto delle fragole, finendo inevitabilmente per rievocarne l’eco. Si osservino le differenze a livello di focalizzazione. La voce è qui unita al corpo, che è quello intradiegetico di Liv Ullmann/Marianne, narratrice non solo narrata ma anche responsabile di quello sguardo in macchina che buca fin da subito il velo della finzione configurandosi, secondo Andrea Martini, come una ricerca disperata dello spettatore 8. Di colei che narra vediamo il volto, e non più la nuca. Dei personaggi della storia, invece, ancora una volta ci sono offerte le riproduzioni fotografiche, ma non di tutti vediamo il volto. Marianne entra in campo tenendo in mano un paio di fotografie, per poi confonderle nel mucchio sparso sotto i suoi occhi. Il gesto della donna, che distende le braccia su quel tappeto di carta, riprende quello compiuto dalla stessa interprete nel precedente Scene da un matrimonio (Scener ur ett äktenskap, 1973) e introduce quella dimensio-
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ne tattile assente nell’incipit de Il posto delle fragole, ma centrale, come vedremo, nello sviluppo drammatico di Sarabanda. Dopo aver mostrato le immagini in bianco e nero del marito Johan e della sua casa di campagna, illustrandole proprio come fa la voce di Isak nei confronti delle cornici, la donna prende in mano i ritratti delle due figlie, Sara e Marta, e li guarda, senza però condividerne la visione con lo spettatore. Pur «simbolicamente posseduto» (Marianne stringe e accarezza le fotografie), il feticcio diventa qui luogo di un altrove inaccessibile esattamente quanto la memoria scritta di Isak Borg. Cronaca di un’impotenza affettiva aggravata dal narcisismo della vecchiaia, Sarabanda sembra chiudere il cerchio aperto da Il posto delle fragole seminando sui volti dei personaggi quelle ombre che il giovane Bergman aveva invece scelto di dissipare nel finale del film di cui ci occupiamo 9. Le corrispondenze tra le due opere sono molte, come ha notato anche Maaret Koskinen sintetizzando le affinità tra le due opere nel trittico infanzia-veranda-fragole 10. Johan è una sorta di novello Isak, apprezzato nel mondo della ricerca (ha ricevuto il dottorato ad honorem), ma non illuminato dalla la luce del perdono. L’odio per il figlio Henrik si è tradotto in quell’indifferenza che resta uno dei sentimenti più ossessivi in questo cinema 11. Musicista fallito, a sua volta, Henrik riversa sulla figlia Karin un amore morboso e votato alla solitudine, ovvero l’oggetto della punizione inflitta a Isak dal misterioso giudice Alman. Karin 12 è il nome che abbiamo evocato sopra, il nome della moglie di Isak, spettro capace di gravitare nella mente dei personaggi de Il posto delle fragole in misura decisa-
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mente minore di quanto fa in Sarabanda Anna, la moglie di Henrik, riprodotta in quella fotografia che Marianne guarda nella cornice finale. Alla luce di queste considerazioni, più che viaggi nei meandri della memoria Il posto delle fragole e Sarabanda appaiono due riflessioni sulla relazione che lega chi resta a chi non c’è più, il corpo stanco della vecchiaia allo spirito incorporeo del non-morto. E il non-morto ha in entrambi i casi un volto femminile. Partiamo da Il posto delle fragole: se di Karin Isak parla poco, è sempre una donna, Sara, a turbare i sogni diurni dell’uomo, costringendolo a guardare allo specchio le rughe profonde della propria indifferenza. Incorniciato in un ritratto in bianco e nero e accarezzato da numerosi zoom in avanti, il volto di Anna (Sarabanda) è invece metafora della fascinazione bergmaniana per quel processo mentale mediante il quale il corpo e la voce del defunto diventano ricordo e il ricordo immagine. Di Anna sappiamo poco, eppure tutti i personaggi ne parlano come di colei che ha influenzato decisioni, sentimenti e scelte di vita. La parola è impiegata per rendere presente un assente che si comporta come uno spettro benigno: quando Marianne penetra nella casa di Johan non incontra nessuno, le porte sembrano chiudersi da sole. A Bergman non interessa riprodurre le nevrosi che marciscono nel corpo di chi vede avvicinarsi la morte, ma indagare quelle zone del rimosso che i suoi personaggi non riescono a sollevare se non con le parole. E nel rimosso spesso si nasconde l’ombra di una persona perduta, che in questo caso, secondo Maarat Koskinen, incarna semplice-
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mente l’immagine bidimensionale della Morte 13. Anna è un volto fatto di parole, disteso sulla superficie dello schermo ma al contempo compresso nell’istante irripetibile della fotografia. Più che conservare, il simulacro fotografico evoca ciò che di questo volto non è possibile fermare, come le variazioni dello sguardo o le sfumature del sorriso («Mi chiedo quale fosse il suo sguardo», dice Marianne). Cinquant’anni dopo Il posto delle fragole, il mestiere di vivere non è cambiato. Se il corpo è fermo, la mente vaga verso un tempo perduto, ma non abbastanza per non influenzare il presente 14.
La messa in ordine del tempo Torniamo ora nello studio di Isak Borg. La cena è servita. Oltre a spezzare il dominio della voce over, l’irruzione della cameriera distoglie l’uomo dalla sua rêverie allontanandolo per sempre da quei manoscritti a cui la cinepresa invano cerca di avvicinarsi, finendo invece per farci intravedere una scacchiera di legno che sembra uscita dal set de Il settimo sigillo. Assieme alla cena la storia sta per cominciare, ma è proprio durante l’uscita di scena di Isak che si delineano meglio le impronte del narratore esterno. Seguendo i passi dell’uomo da sinistra verso destra sono ben visibili, sul tavolino accanto alla porta, le fotografie del figlio e della moglie mostrate in precedenza (fig. 11). Ora però esse ci appaiono disposte secondo una successione diametralmente opposta a quella nota. Il mezzo busto di Evald, dal quale partiva la panoramica all’inizio della
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terza inquadratura, è infatti collocato a sinistra rispetto al ritratto nuziale (Evald e Marianne sposi), che chiude la galleria di cornici all’estremità destra del tavolo. Anziché offrire una porzione di reale, la terza inquadratura svela dunque a posteriori la sua natura di inserto extradiegetico, espediente drammaturgico utile ai fini esplicativi del racconto, ma completamente avulso dallo spazio della diegesi e anche dal suo tempo, di cui la scacchiera di legno sembra preannunciare l’arresto. Un occhio altro rispetto a quello di Isak impone allo spettatore il suo sguardo over 15. Il reale dunque non pulsa, appesantito da un’istanza narrante che, confrontata con quella di Sarabanda, appare per ora lontana dagli orizzonti del moderno. Accanto alla voce over, la presenza di un’immagine over (fig. 8) potenzia ancor di più l’impalcatura affabulativa dell’opera, affidata a una mise en scène che è soprattutto una messa in ordine del tempo. Quell’abbandono al flusso della durata frequente nei film precedenti, appartenenti a quella fase che Richard Corliss ha identificato come «the Harriet period» 16, sembra per un attimo perduto nella polvere silenziosa di questo studio. Bergman seziona il suo frammento di realtà con un inserto forse perché, mediante il totale dello studio di Isak, si tratta di rappresentare il luogo dove il tempo sta per essere fermato: la panoramica sulle cornici mette a morte una durata che già da sola racconta un’esperienza di «mummificazione» come la scrittura. Il posto delle fragole si annuncia dunque fin da subito come un racconto fragile, sospeso tra due sguardi (quello
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dell’autore e quello del suo alter ego narrato), ma soprattutto incerto tra l’ascolto delle pulsazioni del mondo sensibile (i rumori d’ambiente, le vedute del protagonista) e la prepotenza di un io narrante più che mai egocentrico, deciso a imporci che cosa e con quale ritmo guardare (la panoramica dell’inq. 3). Una battuta del giudice Alman, in chiusura della sequenza 14, rafforzerà questa identificazione tra personaggio e autore accomunando immaginazione e scrittura quali metafore di una invisibile ma efficace morte al lavoro. Alla domanda di Isak circa la sparizione del corpo della moglie, Alman risponde così: Tutto è stato asportato professor Borg, è stato un vero capolavoro di chirurgia. Niente che fa male, niente che sanguina o pulsa.
Leggiamo in questa frase una dichiarazione di poetica: fare cinema è per Bergman una sorta di operazione chirurgica, ovvero trapiantare sullo specchio dello schermo quel magma di sangue, dolore e pulsazioni che l’istinto di sopravvivenza rimuove, confinandolo nel buio dell’inconscio. Si è spesso parlato di Freud a proposito de Il posto delle fragole, letto da psichiatri e psicologi come un viaggio esemplare nelle fratture edipiche dell’inconscio. Ci si dimentica però che proprio Freud fu uno dei primi, nel suo Disagio della civiltà 17, a riflettere sulla fotografia come artificio atto a fermare il tempo, descrivendo tale medium esattamente come nel secolo precedente veniva descritta la scrittura. La fotografia altro non sarebbe, secondo Freud, che un’estensione della mano, proprio come la
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penna stretta nelle mani di Isak: un membro mostruoso, artificiale, morto. Alternate al profilo dell’uomo, le fotografie dei familiari scorrono sullo schermo in luogo della mano sul foglio. Mano che invece non è rivolta all’esterno ma pronta, come insegnavano Buñuel e Dalí, a «sporgersi dentro». La relazione tattile che Marianne instaurerà con le sue fotografie (Sarabanda) colpisce proprio perché in questo incipit del 1957 non c’è tatto, non c’è esplorazione del vero, non c’è contatto del corpo con il simulacro. Prima ancora di conoscere la punizione che Alman infliggerà a questo personaggio (la solitudine), constatiamo come il corpo di Isak abbia fin da subito contatto solo con sé stesso, un contatto finalizzato a un piacere tutto privato: alcol e fumo. Isak è sempre stato solo, solo col suo corpo come saranno in futuro la repressa Karin (Sussurri e grida) e la paziente schizofrenica di Jenny (L’immagine allo specchio). Nell’ultima inquadratura del prologo però questo corpo scompare. Nella stanza vuota la voce galleggia, creando una sorta di «ritratto sonoro»: «Mi chiamo Isak Borg e ho settantotto anni» 18. Il personaggio deve uscire perché la storia possa cominciare. Non c’è racconto senza esperienza della perdita.
Eithne O’Neill, Les fraises sauvages: «Je vais te montrer quelque chose», «Positif», nn. 497-498, luglio-agosto 2002, p. 59. 2 Fereydoun Honeyda vede nella figura di questo animale il compagno di una solitudine che, dopo quanto accaduto durante il viaggio a Lund, non potrà più essere uno stato naturale, ma la condizione forzata di uno 1
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scrittore. (Cfr. Fereydoun Honeyda, Le plus grand anneau de la spirale, «Cahiers du cinéma», n. 95, maggio 1959). 3 Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1973. 4 Ringrazio Francesco Netto per i suoi suggerimenti sull’utilizzo del feticcio fotografico in Luci d’inverno. 5 Come filmare un volto che dice una lettera senza leggerla? Una lettera verbalizzata è ancora una lettera? La ricerca bergmaniana ha probabilmente ispirato Truffaut per le lettere «orali» in Le due inglesi (Les deux anglaises et le continent, 1972) e Adele H. (L’histoire d’Adèle H., 1975). 6 Ci sembra appropriata la lettura di Luigi Cancrini, che legge il finale luminoso del film come metafora dell’esito salutare di una terapia psicanalitica: il paziente virtuale Isak Borg comprende le ragioni delle difficoltà affettive dei genitori e restituisce loro l’affetto ricevuto. (dall’intervista contenuta negli extra del DVD Il posto delle fragole, BIM). 7 «La foto di famiglia – ha scritto Pierre Bourdieu – non è altro che la riproduzione dell’immagine che il gruppo familiare dà della propria integrazione» (Pierre Bourdieu, Une art moyen, Minuit, Paris 1965). Il volto di Karin sarebbe allora la riproduzione di una messa in scena, l’involontaria demistificazione di un disperato atto teatrale: convincersi che famiglia è unita, felice, viva. 8 Cfr. Andrea Martini, Parole e immagini in mio potere, in Luciano De Giusti (a cura di), L’opera multiforme di Ingmar Bergman. Oltre il commiato (1982-2003), Il Castoro, Milano 2006, p. 102. 9 Secondo Emanuele Severino Il posto delle fragole è sorprendente proprio perché «oltre allo splendore del linguaggio cinematografico, c’è anche lo splendore della crescita della speranza del protagonista». Se l’immagine non può che illustrare la morte di Dio, l’unica speranza di salvezza dell’uomo risiede dunque nella potenza stessa dell’immagine, unico luogo dove può abitare lo «splendore». (dall’intervista contenuta negli extra del DVD Il posto delle fragole, BIM). 10 Cfr. Maaret Koskinen, Alle fonti di Sarabanda, in De Giusti, L’opera multiforme di Ingmar Bergman cit., p. 179. Koskinen nota come in una veranda Isak si ritrovi dopo la prima visione di Sara e in un’altra veranda Johan ci è mostrato per la prima volta in Sarabanda. La veranda simboleggia la sospensione ambigua tra esterno (estraneità) e interno (calore affettivo) in cui gravitano i due personaggi.
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Ricordiamo il duetto tra Liv Ulmann (moglie) ed Erland Josephson (amante) in Sussurri e grida, quando l’uomo evidenzia sul volto della donna le rughe prodotte dalla di lei indifferenza. 12 Karin è uno dei nomi feticcio di Bergman: la vergine stuprata in La fontana della vergine, l’ultima delle Donne in attesa, la visionaria schizofrenica di Come in uno specchio, la donna divisa in due de L’adultera (Beröringen, 1971), la sorella agonizzante di Sussurri e grida. In molti casi dunque si tratta di un personaggio a contatto con il soprannaturale, un contatto (beröringen) attuato come sempre mediante il corpo. Quanto alla ricorrenza simbolica di un altro nome feticcio, quello di Marianne, si veda Koskinen, Alle fonti di Sarabanda, cit. 13 Ivi, p. 185. 14 Al pari di Isak, come abbiamo visto illuminato da un’idea durante la cerimonia di Laurea, Marianne ci rende partecipi di un’intuizione al contempo dolce e tragica, ispirata forse dalla lettera lasciata da Anna (ancora un feticcio) al marito, exemplum di un amore filiale che emana dallo spettro e arriva al corpo (Marianne). Come fa Isak durante il congedo serale dai suoi cari, usciti in carne e ossa dalle cornici di cui sopra, Marianne va oltre il simulacro di carta (la fotografia) recandosi a trovare in ospedale la figlia Marta, catatonica. 15 Questo sguardo onnisciente è simile a quello che accoglie lo spettatore all’inizio di Passione, quando una voce over (Max von Sydow) fornisce notizie biografiche riguardanti il personaggio interpretato dal «proprietario» di questa voce. 16 Cfr. Richard Corliss, God, Sex and Ingmar Bergman, «Film Comment», giugno 1983. 17 Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1978. 18 Un ritratto assente in sede di sceneggiatura, dove il nome dello scrivente non compare e inferiori sono gli anni dichiarati, come si legge nell’incipit: «Credo, che ormai, all’età di settantasei anni sono troppo vecchio per mentire a me stesso» (traduzione di Renato Zatti). 11
Figg. 1 e 2 Family life. Ingmar Bergman e Carl Larsson.
Figg. 3 e 4 Il vento, il mare, i corvi: la notte pittorica di Isak.
Figg. 5 e 6 Frontalità dello sguardo: Il posto delle fragole e Luci d’inverno.
Fig. 7 Il tempo sospeso del narratore. Fig. 8 Le foto di famiglia.
Figg. 9 e 10 Luci d’inverno e il simulacro: quel che resta del corpo.
Figg. 11 e 12 Esse est percipi. Gli oggetti hanno gli occhi.
Fig. 13 Il tempo immobile del sogno. Fig. 14 Incarnazioni del perturbante.
Figg. 15 e 16 Il falso specchio: occhi aperti chiusi.
Fig. 17 Un’illuminazione espressionista. Fig. 18 Isak si vede vedere.
Figg. 19 e 20 Il vedente nella visione: Fanny e Alexander e Il posto delle fragole.
Fig. 21 Il posto della morte. Fig. 22 Il posto delle fragole.
Fig. 23 Sara e le fragole. Fig. 24 La solitudine del voyeur.
Figg. 25 e 26 Dissolvenze analogiche: dalla realtà al sogno.
Fig. 27 Il fantasma ci guarda. Fig. 28 Il fantasma si muove.
Figg. 29 e 30 L’ingresso dell’Altro: Il settimo sigillo e Il posto delle fragole.
Figg. 31 e 32 I genitori e la zia, soggettive del tempo perduto.
La solitudine del volto
Quando si riebbe, vide che i cavalli lo portavano per una strada che non conosceva. A destra e a sinistra cupe ombre di boschi e ovunque solitudine e deserto. Fëdor Dostoevskij, Il sosia
Delle diverse avventure oniriche di cui si compone Il posto delle fragole, quella compresa nella sequenza 1, ovvero «il sogno del primo giugno», è forse la più celebre. La posizione occupata nel sistema del racconto invita a decifrarla come una sorta di chiave di lettura per le successive visioni, prodotte da una mente così turbata da voler esternare subito il contenuto dell’incubo 1. Lontano, almeno a livello sintattico, da qualsiasi tentazione surrealista, Bergman delimita con attenzione la frontiera che separa il reale dall’immaginario, ricorrendo a uno degli stilemi più frequenti nel cinema classico: primo piano del dormiente e lenta dissolvenza incrociata a guidarci nel paesaggio del sogno, un sogno che è anche annunciato come tale da quel-
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la voce over che ormai conosciamo bene: «Sognai che durante la passeggiata del mattino…» Se il contenuto è onirico, la scrittura è più che mai desta. Lo spettatore può stare tranquillo: le immagini introdotte dalla voce over appartengono a una dimensione presentata come altra rispetto a un mondo reale che però non vacilla, se non per alcuni minuti, ma soprattutto all’interno di un flash-back. Dunque egli non ha nulla da temere, né per il personaggio, che da quell’avventura è sopravvissuto, né per sé. L’illusione che vincola ogni processo di identificazione del vedente con il mondo diegetico non sarà distrutta. Non l’incertezza tra reale e immaginario è mostrata, ma il racconto di questa incertezza, come già notarono alcuni critici dell’epoca 2. Il posto delle fragole si conferma un film sul passaggio dal caos al logos, dove ciò che interessa è il processo mediante cui le visioni e le sensazioni da esse evocate diventano racconto.
Struttura La sequenza si compone di 68 inquadrature, per una durata complessiva di 4’ 40’’. Possiamo suddividerla in quattro parti, in base agli incontri che il sognatore fa durante il suo breve viaggio mattutino: Parte A: L’orologio senza lancette (inqq. 1-12) Parte B: L’uomo senza volto (inqq. 13-22) Parte C: Il carro funebre (inqq. 23-42) Parte D: Il sosia (inqq. 43-68)
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Isak percorre un tratto di strada relativamente breve, restando confinato all’angolo di una strada a lui nota (stando almeno a quanto egli dice) ma improvvisamente abitata da oggetti e corpi non familiari. La costruzione della tensione nasce infatti non solo dal regime di focalizzazione interna, che ci vede condividere il medesimo sapere diegetico del personaggio, ma anche dalla coesistenza freudiana del familiare (heimlich) con il non familiare (unheimlich): «visitatori» apparentemente quotidiani come un carro funebre o un uomo con un cappello violano lo spazio familiare riservato alle passeggiate quotidiane. L’effetto emotivo ottenuto si risolve in quella che Hitchcock e Truffaut denominavano sorpresa, come se l’autore non volesse mai lasciare il suo eroe solo, senza il calore, seppur oculare, dello spettatore. Bergman lavora proprio sui confini tra il favoloso e l’horror, ovvero su quella impossibilità di distinguere il reale dall’irreale che costituisce, secondo Todorov, l’essenza stessa del fantastico 3. Per gli occhi del personaggio al mondo reale non si oppone un universo altro, come accade ad esempio nel cinema di fantascienza. Il reale è lacerato al suo interno dall’irruzione di alcuni elementi incongrui che sconvolgono i principi stessi della verosimiglianza. Ma vediamo in dettaglio la successione delle inquadrature, analizzate per quel che riguarda il loro contenuto, la loro struttura formale e l’utilizzo di eventuali commenti sonori:
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INGMAR BERGMAN. IL POSTO DELLE FRAGOLE
Parte A. L’orologio senza lancette INQUADRATURE
1 PP e poi CL
2 MF
IMMAGINE
SUONO
Isak guarda fuori campo. Campane. Poi si dirige verso il fon- Rumore di passi do del quadro. dell’uomo Isak guarda verso l’alto. ˜
3 Dettaglio
Orologio appeso al muro del palazzo senza lancette.
4 Piano americano
Isak tira fuori l’orologio da taschino.
5 Dettaglio
L’orologio da taschino in Battito di un cuore soggettiva.
6 MF (come inq. 2)
Isak si leva il cappello Battito di un cuore continuando a guardare verso l’alto. Quindi si avvicina al muro. Orologio appeso. Battito di un cuore
7 Dettaglio 8 Movimento di macchina in avanti verso Isak 9 CLL, travelling verso sinistra e poi ritorno verso destra 10 PP
11 Totale 12 PP
˜ Battito di un cuore
Isak si piega sulle ginocchia e si volta verso sini˜ stra. Isak cammina sul marcia- Rumore di passi piede, ma poi torna sui suoi passi. Isak di profilo guarda verso destra, poi in dire˜ zione della cinepresa. Lo sfondo è nero. Una via deserta. ˜ Isak si gira e guarda verso sinistra.
˜
LA SOLITUDINE DEL VOLTO
141
Parte B. L’uomo senza volto La seconda parte del sogno è articolata in un numero di inquadrature (10) quasi identico a quello della prima (12). Anche la struttura dell’evento raccontato è simile: il personaggio si avvicina a qualcosa che attira il suo sguardo, abitando fisicamente lo spazio della visione e partecipando così appieno della natura unheimlich del corpo osservato: INQUADRATURE
IMMAGINE
13 CL
Un uomo di spalle sotto il lampione.
14 PP
Isak guarda ed esce di campo.
SUONO
˜ Rumore di passi
15 CM, movimento di Isak raggiunge l’uomo Rumore di passi macchina in avanti di spalle e appoggia una mano su di lui. 16 PP Isak sconvolto. ˜ 17 PP
Uomo dai tratti del volto confusi.
˜
18 PP
Isak sconvolto.
19 CM
˜
L’uomo cade a terra sot- Rumore di stracci to lo sguardo di Isak. che cadono
20 MF dal basso
Isak guarda l’uomo per terra.
Rintocco di campane
21 Dettaglio
L’uomo senza volto si scioglie.
Rintocco di campane
22 MF, travelling late- Isak alza la testa e guarda Rintocco di campane rale verso sinistra verso sinistra. Si muove Rumore di passi in quella direzione lungo il marciapiede.
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INGMAR BERGMAN. IL POSTO DELLE FRAGOLE
Parte C. Il carro funebre La terza parte, come la successiva, è articolata in un numero di inquadrature doppio rispetto alle due precedenti sezioni. Il montaggio si fa leggermente più rapido, mano mano che aumenta la sensazione di spaesamento del vedente. Cambia però la relazione tra vedente e oggetto della visione: il vedente non si avvicina a ciò che turba la sua attenzione, ma instaura con esso una relazione puramente ottica: INQUADRATURE
23 PP 24 Totale
25 CLL
26 PP 27 CM
IMMAGINE
SUONO
Isak guarda fuori campo. Rumore di trotto Rintocco di campane Una carrozza trainata da Rintocco di campane due cavalli entra in cam- Rumore di trotto po dal fondo del quadro. Isak all’angolo della stra- Rintocco di campane da. La carrozza passa da- Rumore di trotto vanti a lui e lo supera. Isak volta lo sguardo ver- Rintocco di campane so sinistra. Rumore di trotto Isak guarda la carrozza Rintocco di campane davanti a lui.
28 Dettaglio
La carrozza colpisce il lampione.
29 PP
Isak guarda la scena.
Rintocco di campane Rumore dello scontro Lo scontro: 1° colpo
30 Dettaglio
Una ruota del carro.
Lo scontro: 2° colpo
31 FI
Isak inquadrato dal basso.
Lo scontro: 3° colpo
32 Dettaglio
Il carro urta e rompe il lampione.
Lo scontro: 4° colpo
33 Dettaglio
La ruota esce dal cardine Rumore della ruota e si dirige verso Isak. che scivola
LA SOLITUDINE DEL VOLTO
143
34 FI
La ruota sfiora Isak e si ˜ infrange contro il muro. 35 Dettaglio in contre- La carrozza vacilla. Cigolio della bara plongée 36 Dettaglio La bara ondeggia. Cigolio della bara 37 MF
Isak guarda la scena.
Cigolio della bara
38 Dettaglio
Il putto decorato sulla carrozza vacilla.
Cigolio della bara
39 MF ravvicinata
Isak guarda la scena.
Cigolio della bara
40 Dettaglio
La bara ondeggia.
Cigolio della bara
41 PP
Isak.
Cigolio della bara
42 Dettaglio
La bara ondeggia e poi scivola dalla carrozza.
Rumore della bara che cade
43 Totale
La carrozza parte.
˜
Parte D. Il sosia Lo spazio diegetico adesso è ristretto: tutto si gioca nel pugno di metri che separa Isak dalla bara sfasciata per terra. La struttura verticale del montaggio lavora in funziona di un progressivo annullamento della distanza tra l’io e il suo Altro. INQUADRATURE
44 CM
IMMAGINE
Isak immobile.
45 Semisoggettiva MF Isak guarda la bara di spalle aperta. 46 MF Isak guarda.
SUONO
Tema musicale di Nordgren per tutta la sequenza. Nessun altro rumore
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INGMAR BERGMAN. IL POSTO DELLE FRAGOLE
47 Dettaglio
La mano esce dalla bara.
48 PP
Isak guarda.
49 Dettaglio ravvicinato La mano fuori dalla bara. 50 Totale
51 Dettaglio
La mano in primo piano e Isak sullo sfondo. Isak si avvicina. La mano si apre. L’uomo nella bara è vivo.
52 PP
Isak sconvolto.
53 Dettaglio
La mano tocca quella di Isak.
54 PP
Isak.
55 Dettaglio
La mano stringe quella di Isak.
56 PP
Isak.
57 Piano ravvicinato
L’uomo si alza dalla bara.
58 PP
Isak.
59 PP
Il sosia nella bara.
60 PP
Isak si ritrae.
61 Dettaglio
La mano della bara non molla quella di Isak.
62 PP
Il sosia di Isak.
63 PP
Isak.
64 PPP
Il sosia di Isak.
65 PPP
Isak.
66 PPP
Il sosia di Isak.
67 PPP
Isak.
68 PPP
Il sosia di Isak.
LA SOLITUDINE DEL VOLTO
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Come si può vedere da una prima analisi, la struttura della narrazione è ben più complessa di quanto sembri. Se la focalizzazione, come vedremo, segue solo apparentemente le regole del racconto in soggettiva, il montaggio è utilizzato con finalità che non sono semplicemente narrative: mai prima d’ora Bergman ne aveva impiegato in senso così espressivo le potenzialità ritmiche, adattando perfettamente la sintassi al contenuto delle sequenze. Vale ciò che si è detto a proposito della variazioni neorealistiche di Città portuale o Monica e il desiderio 4: Bergman respira il cinema che lo precede (Sjöström, Murnau, Dreyer) per poi incorporarlo in un’estetica assolutamente personale. Al di là delle conclusioni a cui porterà l’analisi testuale, resta la dimostrazione di un talento proteiforme, capace di assorbire le influenze di altre esperienze artistiche (espressionismo e surrealismo su tutte) senza smarrire la propria identità. L’allucinazione di Isak concerne essenzialmente due sensi, la vista e l’udito. La sfida, indubbiamente riuscita, è quella di evocare all’interno della struttura narrativa la palpitazione sensoriale che provoca il déréglement audiovisivo del flâneur. È sufficiente osservare la tabella precedente per notare quante volte ricorra la voce Isak guarda. Come ogni incubo che si rispetti, anche questo prevede che solo una volta chiusi, perduti nelle nebbie del sonno, gli occhi si possano spalancare sugli orizzonti non verbalizzabili di una delle visioni più perturbanti di sempre: quella dell’altro da sé.
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INGMAR BERGMAN. IL POSTO DELLE FRAGOLE
Falsi specchi Tutto comincia come una tragedia dantesca, ovvero con la ricerca della retta via 5. Isak si è smarrito in quelle che egli ci dice essere strade familiari, ma che ora, come conferma l’immagine, sono strette da case in rovina. E soprattutto sono strade deserte, vuote come quelle amate dalle avanguardie surrealiste. L’immagine di un uomo solo in uno spazio urbano e desolato ci fa pensare al Buñuel di Un chien andalou o al chierico de La coquille et le clergyman (1926, Gernaine Dulac), ovvero corridoi della mente più che vene del corpo cittadino, dove l’occhio di colui che vi cammina non incontra ostacoli se non quelli prodotti dalla propria immaginazione. Non nelle tenebre si manifesta l’Altro, ma sotto il sole di una mattina d’estate. La prima inquadratura (fig. 12) è una delle più lunghe nella sequenza, come se l’istanza narrante volesse permettere allo spettatore di ambientarsi nello spazio. Camminando verso il fondo del quadro il personaggio spazializza un ambiente che per ora la cinepresa si rifiuta di esplorare. Il taglio di ripresa è funzionale alla messa in scena di uno spazio aperto-chiuso, come dimostra il muro che delimita i passi di Isak ma soprattutto la leggera angolazione verso il basso della cinepresa. Non vedremo nemmeno un frammento di cielo negli esterni di questo incubo. Il corpo del viandante è schiacciato su di un asfalto crepato, secco come gli alberi visibili sul fondo, ai lati di quello che appare il portone di un edificio religioso. Ciò che dà vita a Isak, che lo desta dalla paralisi in cui tutto sembra caduto, è per ora la pulsione scopica, mossa
LA SOLITUDINE DEL VOLTO
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dalla vista di quell’orologio appeso al muro (fig. 13). Non è il primo e nemmeno l’ultimo degli orologi attorno a cui Bergman organizzerà le linee di forza dei suoi quadri 6, di certo è quello più perturbante ed è strano non figuri nel breve catalogo inventariato da Jacques Aumont nella sua recente monografia 7. Quest’orologio infatti non ha lancette, ovvero non si configura come quello che Baudelaire definiva l’emblema del moderno, «figura di un Dio sinistro, spaventoso e impassibile». Se quella di Isak può apparire una disperata e involontaria flânerie, lo stato emotivo dell’uomo è opposto a quello del poeta che per primo ha teorizzato l’esperienza della deriva dei sensi durante una balade. Il flâneur di Baudelaire lottava, invano, contro la brutale dittatura del tempo. Isak, al contrario, ricorre al suo orologio da taschino per lasciarsi volutamente inghiottire dal «giocatore avido». Il tempo però qui non scorre, non divora nulla. Anzi, è come sospeso, divorato da qualcosa che Isak non comprende. L’unico modo che egli ha per avvertire lo scorrere del tempo è quello di camminare, avanzando nello spazio in modo da istituire un prima e un dopo negli stadi della sua deriva. Ma non è finita. Non sapremo mai, data l’assenza di verbalizzazione, se l’uomo sia più sconvolto dall’assenza di lancette o dalla presenza, in qualità di mostruosa appendice, di quei due occhi aperti che galleggiano sotto la cassa circolare dell’orologio. Inquadrati solo nel primo dei due dettagli raccordati sullo sguardo di Isak, essi sono occhi incerti tra il maschile e il femminile e disegnati in un modo molto simile, nella loro astrazione sessuale, a quello
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INGMAR BERGMAN. IL POSTO DELLE FRAGOLE
che ci guarda nel Falso specchio (1928) di Magritte (fig. 16). Non è questa la sede per un approfondimento dell’immagine dell’occhio nel cinema di Bergman, per cui ci limiteremo a evidenziare le eventuali filiazioni con un retroterra iconografico, quello surrealista, che trova terreno fertile nell’immaginario di un artista da sempre attratto dall’universo del sogno. Bisogna intendere l’onirismo in Bergman – ha scritto Barthélemy Amengual – nel suo senso più comune, ovvero come qualcosa che non è né fantastico, né irrazionale, né ideale. Comprendere il sogno nella sua gravità, nella sua importanza vitale, nella forza che, dagli inizi della Storia, lo fece dotare di premonizione, di divinazione, di capacità di orientare gli uomini. 8
Alla decostruzione ironica di Magritte rinvia innanzitutto la testura stilizzata di questi occhi, dipinti su di un pannello a forma di occhiali e dunque palesemente falsi, copie inanimate di un referente animato, a differenza di quello che nell’incubo successivo guarderà Isak dal buio di un microscopio (la sequenza dell’esame di medicina, fig. 15). Ciò che dovrebbe aiutare lo sguardo, ovvero una lente, è invece riempito dalla riproduzione posticcia dell’organo dello sguardo. Non solo il reale non è trasparente e non si lascia guardare, ma esso addirittura ci guarda. Esse est percipi, essere significa essere visti: anziché guardare un batterio, durante l’esame Isak sarà visto da se stesso, da un «sé» molle, vitreo e organico come molti degli occhi spalancati sugli schermi cinematografici 9. Questo è ciò accade
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anche negli esterni rarefatti di Magritte, dove l’organico subisce un processo contrario a questo: ciò che è opaco, come un occhio (Il falso specchio) o un corpo di donna (La magia nera, 1945) diventa trasparente, permeato da un cielo tanto azzurro quanto irreale. Isak per ora è semplicemente guardato da ciò che egli crede di poter guardare. Assenti le lancette, l’unico movimento che avviene all’ombra di quel muro è il battito delle sue palpebre. Anche Robin Wood ha individuato in questa sequenza un’affinità con il repertorio surrealista, leggendo però il tutto in una chiave esplicitamente sessuale: l’orologio senza lancette significherebbe l’impotenza spiritual-sessuale di Isak, mentre il contatto ritmico tra la carrozza e il lampione evocherebbe l’unica forma di sessualità concessa all’isolato eroe, la masturbazione 10. L’orologio fermo può far pensare al Dalí della Persistenza della memoria (1931) e ai mille orologi riprodotti nella pittura surrealista, come questo appesi nel vuoto sotto il sole. Nell’incubo di Isak c’è esattamente la messa ai margini del tempo, non più agente corrosivo ma reliquia di un reale oscurato dall’allucinazione. Altrove, e penso al primo piano di Elisabeth (Liv Ullmann) che ascolta Bach in Persona, Bergman ci farà sentire il tempo che scorre anche se il corpo non fa nulla. Anche se non agisco, – ha scritto Jacques Aumont – soprattutto se non agisco, non posso impedire che il tempo scorra su di me, in me, attraverso di me e dia a questo presente in cui sono immerso un gusto di cenere. 11
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Qui invece accade il contrario: il tempo non scorre anche se il corpo agisce. Il corpo di Isak diventa orologio, segno semovente dove il tempo lascia solchi sonori dall’evidente testura organica, come le pulsazioni cardiache che punteggiano la successione delle inquadrature 4-7. È un battito che dura pochi secondi, il tempo di uno sguardo.
Corps trouvés Trasformando l’orologio in una figura liquida, Dalí invita l’osservatore a riconsiderare la dimensione del tempo come qualcosa di organico e in quanto tale sottoposta alle derive del desiderio. Davanti a Isak però non si scioglie un orologio, ma un corpo. Un corpo che come tutti i corps trouvés del cinema surrealista appare incrostato nell’immagine, già dentro lo spazio quando, preceduto da uno sguardo fuori campo di Isak, lo notiamo fermo accanto al lampione (fig. 14). Viene in mente la rigidità posturale dell’androgino di Un chien andalou, creatura tanto inquietante quanto fragile, incapace di resistere al primo contatto con il vettore meccanico della pulsione erotica (l’auto). Basterà il semplice contatto con il suolo per uccidere questo passante muto. Facile pensare, osservandone la postura e l’abbigliamento, a certe figure maschili di Magritte come l’uomo con la bombetta de Il maestro di scuola (1955), Sogni di un passeggiatore solitario (1926), Il canto della violetta (1951) o I misteri dell’orizzonte (1955). Ciò che appare familiare (una sagoma antropomorfa) nasconde uno strato di
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mistero conferito all’immagine da quello che Magritte definiva un puro atto del pensiero: la pittura non è qui riproduzione analogica, ma reinvenzione mentale del reale, modello ideale per chi, come Bergman, deve restituire le forme di una percezione onirica. Il posto delle fragole è in un certo senso il Bildungsroman di una mente, il paesaggio di un cervello tanto agile e vivace quanto invece stanco e pesante è il corpo che lo sostiene. Come il saltimbanco Jof, anche Isak riveste il ruolo di un metteur en scène, offrendo alla cognata una digressione visiva al lungo viaggio verso Lund: «Ti voglio mostrare qualche cosa». Secondo Eithne O’Neill, Isak agirebbe come una sorta di bildmakar interno: Mettere in scena? Storia di ricomposizione dinamica. Con la sottigliezza del demonio, senza artitificio, Borg lo dimostra. Colui che si ricorda, si realizza. Voyeur accovacciato nella radura, egli indica l’immagine da lui stesso restaurata. 12
L’incontro tra Isak e il passante è costruito mediante una sintassi semplice: campo-controcampo e focalizzazione interna. Quello dell’uomo di spalle è un non-volto, o meglio così appare alla luce dello sguardo del viandante, che lo spettatore è costretto a condividere. Ciò significa che su questo volto il depositario dello sguardo filmico proietta quelle angosce che fanno parte del suo inconscio. Niente appare ciò che è, niente è ciò che appare: uno dei più grandi drammi dei personaggi bergmaniani è la mancata coincidenza tra il reale e l’immaginario. La suggestione magrittiana aiuta a interpretare la confusione dei lineamenti dell’uomo come metafora della Morte, se pensiamo a quel topos
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del lenzuolo sul viso che ricorre in moltissimi volti del pittore fiammingo, riproduzione dello choc determinato nel giovane Magritte dalla vista della madre morta annegata. Si parlava di negazione della mimesi. L’illusione mimetica è rifiutata quando si tratta di restituire il suono del corpo che cade: l’immagine ci mostra un liquido organico che scivola sull’asfalto, mentre il rumore è quello di un mucchio di stracci non vischiosi, dall’eco anzi quasi metallica. Il suono mentale di un’immagine mentale.
Fratture Isak si guarda in giro. Forse qualcuno lo guarda. Quelle intorno sono però finestre chiuse, coperte da tende che fungono da palpebre simili a quelle evocate da Samuel Beckett nel futuro Film (id., 1965, Alan Schneider), apologo sulla coincidenza tra esistenza e percezione. Quasi dieci anni prima di Beckett, Bergman riflette non solo sul tema dello sguardo come conditio sine qua non dell’esistenza (la morte arriva solo quando cessa la percezione di sé), ma anche sulla connessione tra percezione, memoria e oblio. Il protagonista di Film sfoglierà alcune fotografie dove è incisa la propria immagine, strappandole in quanto cristallizzazione della propria percezione del passato. Anche la storia di Isak comincia con una volontà di rimozione del passato (le fotografie nel prologo non sono raccordate sul suo sguardo), connessa all’isolamento fisico del personaggio (l’uomo è rinchiuso nel suo studio). Questo passato però piano piano riemergerà, portando l’uomo a osservare,
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per la prima volta in soggettiva, la fotografia che lo ritrae bambino accanto al fratello. Ciò accadrà durante la visita all’anziana madre, volto solcato dal tempo, che uscirà dalla cornice (il prologo) e si farà finalmente carne. Se essere è essere percepiti, l’unico modo che Isak ha per affrontare a viso aperto la morte è quello di offrirsi allo sguardo degli altri (i passeggeri dell’auto) e soprattutto di se stesso. L’anziano professore prenderà il simulacro dalle mani della madre e lo metterà in tasca, ripetendo nella veglia l’esperienza che sta per accadere qui. L’epifania dell’Altro avviene in un paesaggio luministico dove i contrasti tra luce e ombra sono fortissimi. Sven Nykvist non c’è ancora e Gunnar Fisher conferma la sua predilezione per un’elaborazione teatrale degli effetti di luce, utilizzati come sineddoche di elementi d’ambiente mai filmati. Durante il travelling che accompagna Isak nel suo tentativo di fuga, ad esempio, pesanti masse d’ombra coprono la strada restando simulacri senza referente, proprio come accade in certi esterni del cinema espressionista, dove le ombre vivono senza essere legate a un corpo. Tutto è però scopertamente didascalico, come quella macchia di nero che accoglie, senza però inglobarlo, il profilo destro di Isak (fig. 17), luogo in cui il dormiente elabora la seconda della sue visioni (l’uomo di spalle). Più interessante ci sembra il lavoro che Bergman fa sull’articolazione del punto di vista, regolata da una struttura binaria: da un lato il primo piano del vedente (inquadrature pari), dall’altro i raccordi su questo sguardo (inquadrature dispari). Tale sintassi resta immutabile sino all’inquadratura 24, ovvero al momento in cui entra in campo il car-
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ro funebre trainato da cavalli senza padrone. Anziché raccordare sullo sguardo del vedente, la cinepresa arretra di alcuni metri e ci mostra nella stessa inquadratura (25, fig. 18) Isak e l’oggetto della sua allucinazione, confinandoli nel punto dove convergono le linee di fuga del quadro, in modo tale che per un effetto di schiacciamento dello spazio essi appaiano posti esattamente sotto gli occhi, ora illuminati, dell’orologio di cui abbiamo parlato. Forma e contenuto vanno nella stessa direzione: l’incontro con la Morte è annunciato all’interno della scrittura filmica, mediante una frattura della continuità di sguardo che rinvia allo sgretolamento della percezione visiva del personaggio. Si tratta di una soggettiva indiretta libera identica a quella che interromperà la nostra identificazione con Alexander nell’incipit di Fanny e Alexander, quando uno stacco in campo medio ci permetterà di guardare il bambino che guarda attraverso il vetro (fig. 19) 13. Il discorso diventa metadiscorso e l’enunciazione si dà a vedere, contraddicendo la focalizzazione interna che regola, come abbiamo visto, la struttura narrativa della sceneggiatura. L’inquadratura 26 sembra ricucire la frattura, ma non è un primo piano come gli altri, perché l’inquadratura che segue (27, fig. 20) contiene al suo interno, sulla destra rispetto al carro, anche il corpo di Isak. Costui dunque vede se stesso molto in anticipo rispetto a quanto sarà mostrato a livello profilmico. L’autore ha dunque sottratto il ruolo di depositario dello sguardo al suo personaggio, sintonizzando però sulla di lui allucinazione il registro della propria scrittura. A partire da questo momento la dinamica dei raccordi sullo
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sguardo non obbedisce più alle regole della grammatica, come dimostra l’episodio della rottura della ruota del carro: a una plongée che mostra Isak guardare verso l’alto (inq. 29), segue il dettaglio della ruota che si sta sbriciolando (inq. 30). Non sappiamo più chi guarda chi, mentre la cinepresa sembra voler scendere sempre più in basso, occludendo ogni possibile via d’uscita alla prigione claustrofobica di questo esterno filmato come un interno. Si osservi in questo senso l’inquadratura 31, dove il volto di Isak è completamente oscurato dall’asse che sostiene la ruota al carro, filmato come una sorta di gabbia che assieme al muro di fondo trasforma l’itinerario del vedente in un cul-de-sac sempre più cupo (fig. 21). Qualcuno, come Sylvain Roux 14, si è soffermato sulle sfumature simboliche di questa scena, ipotizzando come l’incidente del carro possa far pensare a una sorta di richiamo verso la vita da parte del sosia, un avvertimento che possiamo riassumere così: il funerale non è ancora pronto e Isak, come il cavaliere Block, ha ancora un po’ di tempo per abbattere il muro della sua indifferenza e mettersi in ascolto del prossimo. Attendendoci più strettamente al testo, ci limitiamo a denotare l’attenzione portata al tessuto sonoro, ancora una volta costruito sul ritmo ossessivo di un tic-tac che rinvia alla voce del tempo (il pendolo del prologo), attraverso mediazioni che curiosamente prima erano organiche e ora invece si fanno sempre più inorganiche. Il battito del cuore, ennesimo simbolo sospeso tra il senso letterale e quello figurato 15, cede il posto al rintocco delle campane di una
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chiesa. Esse fungono da sottofondo al dialogo tra due suoni simili nel ritmo ma diversi nel timbro, come lo scalpitio degli zoccoli e l’infrangersi del carro sul lampione. Mentre il supporto superiore del carro batte contro l’ostacolo di ferro, i cardini della ruota stridono secondo il ritmo binario di un orologio impazzito, in modo sempre più veloce. Sino ad arrestarsi, improvvisamente.
L’io e il suo doppio I cavalli della Morte se ne sono andati, Isak è rimasto solo davanti alla bara. Il corpo non si muove più, tocca al montaggio regolare il dialogo muto tra un corpo e una mano. Sineddoche di un non-morto, questa mano bianca esce dalla bara e, a quanto suggerisce il découpage, sembra contraccambiare lo sguardo di Isak. Come se fosse dotata di occhi, come se fosse un’estensione mostruosa dello sguardo della Morte. Le parentele col surrealismo sono finite, perché questa mano non si staccherà dal corpo come quella osservata dall’androgino sull’asfalto di Un chien andalou e nemmeno si insinuerà sul collo dei presenti al pari di quella pugnalata nella stanza de L’angelo sterminatore (El angel exterminador, 1965, Luis Buñuel). Ha scritto Fortunato Depero: La mano è un dramma plastico, psicologico, magnetico e misterioso. È uno strumento vivo, autonomo e dipendente nello stesso tempo. È un essere senza occhi, senza udito e senza favella. Ma vede e parla continuamente.
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Se in questo caso il dettaglio della mano obbedisce ai codici del racconto di suspense, ritardando lo svelamento dell’identità dell’uomo nella bara in modo tale da acuire la tensione dello spettatore, è pur vero che Bergman dedicherà sempre un’attenzione particolare al volto della mano, strumento di piaceri autolesionisti (la masturbazione di Thulin in Sussurri e grida), ma soprattutto luogo di visualizzazione del grido. «Mano» e «volto», non a caso, sono due delle tre parole che Esther (Thulin) traduce in svedese al nipote ne Il silenzio. Penso alle mani gonfie con cui Thulin (Alle soglie della vita, Il silenzio) e Hariett Andersson (Sussurri e grida) stringeranno le lenzuola dei loro sudari, ma soprattutto alla polisemia delle mani di Liv Ullmann in Persona, capace di passare dal pugno chiuso dell’incomunicabilità alla leggerezza che traspare dalla carezza ai capelli di Bibi Andersson. Ma torniamo alla mano dell’Altro. Nel momento in cui essa si muove, denunciando così di appartenere a un corpo vivo e dunque pericoloso, Isak comincia a perdere la capacità di guardare. Al primo piano di Isak segue infatti un dettaglio delle mani osservate, dal basso, da un’istanza narrante che ritorna in possesso della focalizzazione al fine di orchestrare l’incontro con il Perturbante come una sorta di volto contro volto, ansikte mot ansikte. Un volto disposto in orizzontale è ancora un volto? O si configura piuttosto come persona, maschera in grado di guardare lo spettatore e offrirsi come materia molle, opaca, impassibile? Il disincantato Tim ne Un mondo di marionette (Aus dem Leben der Marionetter, 1981) dirà che, mentre il corpo invecchia, l’anima è nel tempo, è il tempo. Non solo
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l’anima, ma anche il corpo di questo Sosia sembra integro. Gli occhi distesi non traducono alcuna fatica del corpo, nonostante la difficoltà del gesto in atto, ovvero trascinare con sé una massa di carne viva. Quello che esce dalla bara è solo il primo dei tanti cadaveri non definitivi di questo cinema, dalla paziente dichiarata morta dallo studente Isak (seq. 13) alla mummia di Fanny e Alexander, passando per gli occhi sbarrati dell’anziana nell’obitorio di Persona o per la rediviva Maria di Sussurri e grida 16. Fondamentale è la padronanza della mimica facciale dimostrata da Victor Sjöström. Tra volto verticale e volto orizzontale il dialogo, muto, è costruito proprio sulle differenze grafiche tra le due superfici. Convulsa, ricca di spasmi e grinze è quella di Isak. Liscia e immobile appare invece quella del Sosia, in grado di tradurre uno spazio vuoto simile a quello garantito dal trucco bianco sul volto della Morte ne Il settimo sigillo. Entrambe sono maschere impossibili da staccare dai rispettivi corpi, nascosti nel primo caso da un mantello nero e nel secondo dal fuoricampo. La distanza tra vivi e morti è ancora una volta una questione affidata ai codici non verbali: Bergman racconta semplicemente scolpendo con la luce. Mano a mano che il montaggio avvicina i due personaggi, enormi macchie nere divorano le guance e le cavità oculari di Isak, filmato dunque come uno scheletro, mentre il sosia gode di un’illuminazione più quotidiana, come se egli appartenesse più che mai al regno dei vivi. Il sogno è finito. Isak è tornato da un viaggio verso la morte che tanto ci ricorda, per ambientazione paesaggistica
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e sonora, quello intrapreso dal Jakov Petrovič Goljadkin ne Il sosia di Dostoevskij: simili sono i cavalli senza guida, il sangue che batte «come una polla ardente nella testa», ma soprattutto quella strada sconosciuta, «a destra e a sinistra cupe ombre di boschi e ovunque solitudine e deserto» 17. Ma Dostoevskij è lontano da questo universo 18, così come lo era Magritte in precedenza: a Bergman interessa mettere in scena la solitudine come disperazione dell’essere, come stato di abbandono di un corpo isolato da ogni contatto umano eccetto il contatto più terrificante, quello con se stesso. Vivere con un corpo, in questo cinema, non è solamente vivere la decomposizione in diretta 19, ma anche avvertire a ogni istante la distanza tra sé e i corpi con cui invano si cerca di entrare in contatto: ognuno di questi corpi rimanda inevitabilmente a se stessi, sino ad assumerne le sembianze (Persona). Prima di Bergman, però, Strindberg aveva già descritto la solitudine come esperienza del doppio. Rileggiamo una battuta dello Sconosciuto di Verso Damasco: Non è la morte, è la solitudine che temo, perché nella solitudine si incontra sempre qualcuno. Non so se è qualcun altro o me stesso che incontro, ma nella solitudine non si è mai soli. L’aria si fa più spessa, l’aria germoglia e poi cominciano a pigliar forma esseri che non si vedono, ma si sentono e hanno vita. 20
Dieci anni dopo, Passione confermerà che il sogno è il luogo dove, per gli umiliati eroi bergmaniani, meglio si materializza l’angoscia della solitudine come esperienza
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sensoriale. «Ero sola sulla strada – dice la voce di Liv Ullmann sulle immagini in bianco e nero di Anna in Passione – avevo solamente bisogno di una presenza, di un braccio attorno a me, pur sapendo che non li avrei mai più avuti.» Per poter esistere Anna avverte lo stesso bisogno che sentiranno Maria in Sussurri e grida davanti alla sorella morente, Charlotte nei confronti della figlia in Sinfonia d’autunno e Tim di fronte a Katherina in Un mondo di marionette: toccare l’altro, sentire una pelle altrui sfiorare la propria, come se nel contatto corporeo il muro che ognuno erige attorno a sé (pensiamo allo zio di Marie in Un’estate d’amore) potesse, almeno in parte, accennare a sgretolarsi. Che cosa chiede Monica (Monica e il desiderio) al suo amante se non di essere toccata, accarezzata, come ella fa nei confronti della natura che partecipa, durante l’estate, alle palpitazioni del suo discorso amoroso? Ricordiamoci delle ultime parole di Marianne in Sarabanda, a proposito della visita in ospedale alla figlia malata: «Mi sembrava come se mi avesse toccata». Vede bene Vincent Amiel quando sottolinea come non ci sia, in questo cinema, illusione nelle capacità della carne di mantenere ciò che essa promette, ovvero la comunione con l’altro: «Il desiderio dell’Altro, desiderio insoddisfatto, rinvia in ultimo luogo all’incapacità di assumere la propria condizione» 21. Essere, in conclusione, non è solo «essere percepiti», ciò che suggerisce l’orologio «vedente» appeso al muro del palazzo. Essere è anche toccare ed essere toccati, un bisogno che la cinepresa de Il posto delle fragole sembra esaudire, come dimostra la climax audiovisiva finale:
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Penso che la cinepresa sia erotica – ha dichiarato Bergman – Per me vedere un volto attraverso la cinepresa e stringere su di esso con uno zoom, osservandone i mutamenti, è la cosa più affascinante che esiste. 22
Sguardo dopo sguardo, mentre il battito del tamburo si fa sempre più assordante, l’occhio dello spettatore sale i gradini della scala dei piani e sbatte contro la pelle del Sosia, sino a superare, nelle pieghe rugose del vedente, la regione stessa del visibile.
1 Appena iniziato il viaggio, Isak vorrebbe raccontare a Marianne il suo sogno, ma la donna non si dimostra per nulla attratta dalla proposta: «Non mi piacciono i sogni». Il problema per questo inventore di immagini è quello di trovare il suo spettatore: nel posto delle fragole egli sarà spettatore unico della propria fabula. 2 Si veda l’analisi di Ferydoun Hoveyda pubblicata nell’Antologia critica. 3 Cfr. Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977. 4 Cfr. Alberto Scandola, Parola e desiderio. Figure del melodramma nel giovane Bergman, in Paolo Romano, Giancarlo Beltrame (a cura di), Schermi D’Amore. Verona Film Festival 2006, catalogo generale della manifestazione, Marsilio Venezia 2006, Verona Film Festival-Schermi d’Amore. 5 Questa ouverture legittima la lettura «cristologica» offerta da Egil Törnqvist nel suo Filmdiktaren Ingmar Bergman, Arena, Stockholm 1993. Secondo Törnqvist il primo incubo rappresenterebbe la selva oscura dell’Inferno, mentre la visione finale simboleggerebbe l’ascesa in Paradiso. 6 Ricordiamo tra gli altri i pendoli rococò di Sorrisi di una notte d’estate, Sussurri e grida e Una lezione d’amore. 7 Jacques Aumont, Ingmar Bergman. «Mes films sont l’explication de mes images», Éditions Cahiers du cinéma, Paris 2003, pp. 126-131.
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Barthelemy Amengual, Ingmar Bergman Thèmes, style, techniques et génie, «Positif», 427-428, luglio-agosto 2002, p. 26. 9 In merito all’immagine dell’occhio nel cinema moderno si veda Alberto Scandola, Il fantasma e la fanciulla. Tre film di Roman Polanski, Cierre, Verona 2001. 10 Cfr. Robin Wood, Ingmar Bergman, Movie Paperbacks, London 1969. 11 Aumont, Ingmar Bergman cit., p. 130. 12 Eithne O’Neill, Les fraises sauvages: «Je vais te montrer quelque chose», «Positif», nn. 497-498, luglio-agosto 2002, p. 58. Il progetto di Isak, secondo O’Neill, è al contempo esistenziale e artistico. 13 Si veda l’analisi semiologica proposta da Nicola Dusi, L’ombra del sensibile, in Luciano de Giusti (a cura di), L’opera multiforme di Ingmar Bergman. Oltre il commiato (1982-2003), Il Castoro, Milano 2006, p. 57. 14 Cfr. Sylvain Roux, La quête de l’altérité dans l’œuvre cinématographique d’Ingmar Bergman, L’Harmattan, Paris 2001, p. 135. 15 «L’organo della vita e il simbolo dell’amore ritmano il tempo, ma le ore non hanno senso che secondo le pulsazioni della forza d’amare, assente dalla vita di Borg», Sylvain Roux, La quête de l’altérité dans l’œuvre cinématographique d’Ingmar Bergman cit., p. 137. 16 Cfr. Aumont, Ingmar Bergman cit., p. 115. 17 Fëdor Dostoevskij, Il sosia, Mondadori, Milano 1985. Curiosamente anche la madre di uno dei personaggi del poema pietroburghese, ovvero la madre di Anton Antonovič, prima di morire vide il proprio sosia. 18 Dostoevskij individua una natura manichea nell’uomo del suo tempo, scisso in due personalità, l’Io e il sosia, assolutamente contrapposte: il sosia incarna la parte oscura dell’Io, non illuminata dalla Grazia e nemmeno glorificata da quella Sofferenza che purifica l’anima. In Bergman invece la lotta tra Bene e Male è assente, in quanto il singolo ha perso anche la capacità di distinguere la differenza tra ego e alter ego: il nulla si spalanca davanti a un corpo che urla una disperazione fine a se stessa. 19 Cfr. Yannick Lemarié, Présence du corps, «Positif», nn. 497-498 cit. 20 August Strindberg, Verso Damasco, Adelphi, Milano 1974 p. 13. 21 Vincent Amiel, La peau mensongère, «Positif», nn. 497-498 cit., p. 39. 22 Ingmar Bergman, Dialogue on film: Ingmar Bergman, «American Film», gennaio-febbraio 1976. 8
Sfogliare il tempo
Trovo che il montaggio sia molto erotico: è un lavoro che voglio a qualsiasi costo riservarmi per dopo le riprese. Ingmar Bergman
Bergman ha più volte affermato di elaborare la struttura del montaggio già in sede di sceneggiatura, quando il magma di atmosfere diventa parola. Il ritmo, ovvero ciò che a detta dell’autore determina la respirazione di ogni film 1, nasce nel momento stesso in cui la penna traduce sulla carta gesti, parole, movimenti, situazioni, spazi. La giuntura dei diversi frammenti del girato sarebbe dunque un’operazione solo in parte creativa, in quanto tutto risponderebbe a linee guida prestabilite ancor prima di accendere il motore della cinepresa. Il concetto di ritmo è evocato da Bergman in relazione alla struttura embrionale del film: «Questo nucleo originario tende ad acquistare una forma definita con un processo che al principio può essere lento e torbido, e che è ac-
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compagnato da variazioni e da ritmi che sono peculiari a ciascun film» 2. Quando però si tratta di delucidare quello che l’autore definisce «l’essenziale», ovvero il processo mediante cui le varie inquadrature entrano in rapporto tra di loro, nessuna dichiarazione di metodo è possibile. L’artista si scontra con il volto irrazionale della propria creazione: E qui si arriva all’essenziale, e cioè al montaggio, […] quella famosa terza dimensione senza la quale il film è semplicemente un prodotto grezzo. Qui non mi è possibile dare chiaramente una chiave, come sullo spartito musicale, né un’idea specifica delle cadenze che determinano il rapporto tra i vari elementi del film. Mi è del tutto impossibile indicare il modo in cui un film «respira» e pulsa. 3
Respirazione e pulsione sono esattamente ciò che, nel sistema teorico bergmaniano, allontanano il cinema dalla letteratura e lo avvicinano alla musica, anch’essa arte del ritmo. Sul set la procedura è molto semplice: le scene, in particolare quelle di dialogo, sono filmate in continuità, con interruzioni dovute esclusivamente a correzioni di messa in quadro come il cambio di angolazione o di focale. «Quando filmo so quasi esattamente quanto durerà la scena, perché ho una sorta di ritmo interno che provo a ricreare sul set» 4, ha dichiarato il regista. Al tavolo di montaggio viene poi affidata la scelta definitiva della durata della singola inquadratura o sequenza, operazione resa più semplice dal fatto che non esistono diverse riprese di
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una scena (con angolazioni differenti, ad esempio), ma una sola 5. La corrispondenza tra le due operazioni retoriche, quella dell’inventio e quella della dispositio, pone però problemi estetici complessi. Non siamo sicuri infatti che nell’arco della sua carriera, e penso a film come Il rito, Bergman non si sia divertito proprio a girare contro la propria sceneggiatura, o a montare contro il respiro interno del materiale girato. L’ipotesi, per Il posto delle fragole, è quello di un montaggio finalizzato essenzialmente a soddisfare impellenze narrative, come ad esempio indicare il passaggio di tempo tra un evento e l’altro, ma soprattutto rispettoso della respirazione suggerita dalla sceneggiatura. Si consideri ad esempio la sintassi impiegata sulla carta per la scansione ritmica del primo incubo di Isak Borg (seq. 1). Le sensazioni del sognatore si susseguono secondo una cadenza sincopata, da un senso (la vista) all’altro (l’udito), senza che la mente del lettore, così come capita allo spettatore, possa fermarsi e visualizzare dettagli quali il sole, il silenzio o le ombre: In alto il sole splendeva bianco e i raggi di luce penetravano tra le case come lame di coltelli. Avevo così freddo che tremavo in tutto il corpo. […]. Sentii un suono di campane e improvvisamente mi trovai in uno spiazzo aperto davanti a una chiesa. 6
A una percezione uditiva come il suono di campane segue immediatamente, come per stacco («improvvisamente»), la descrizione di un’esperienza visiva (lo spiazzo
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aperto davanti a una chiesa). Impressioni fisiche si registrano sulla tela di un corpo che però poi non esita a verbalizzare le palpitazioni, anch’esse cangianti, del proprio animo, sconvolto da una paura ancora viva nel momento in cui il vissuto diventa racconto: Mi sentii sopraffatto da un inspiegabile senso di smarrimento. […] Tutto avvenne in modo così spaventevole che anche ora, mentre lo scrivo, ne provo un vivo disagio.
L’utilizzo sincopato dello stacco è però solo una delle soluzioni di assemblaggio impiegate nel film. Quando si tratterà di passare dal narrativo al simbolico, come vedremo, emergerà la dimensione tattile del dispositivo, volto a restituire, mediante l’utilizzo della dissolvenza, la sensazione fisica ricorrente in chiunque cerchi di afferrare il proprio passato: l’evanescenza.
Il montaggio come respirazione: Isak e Marianne In questione è innanzitutto l’equilibrio tra l’intensità drammatica di una scena e la sua durata sullo schermo. Rare sono le inquadrature particolarmente lunghe, ovvero superiori ai 3 minuti, all’interno di una struttura sintattica che predilige il découpage classico. I raccordi sullo sguardo sono invisibili e il tempo concesso al personaggio che parla è spesso equivalente a quello concesso all’ascoltatore. Colui che parla, inoltre, normalmente è inquadrato, mentre l’ascoltatore è fuoricampo.
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Conferma questa regola l’eccezione adottata nella sequenza 3, che racchiude la prima tappa del viaggio di Isak verso Lund. Nell’auto emergono i primi dissapori tra Marianne e il suocero, infastidito sia dal fumo della sigaretta che dalla sicurezza dimostrata dalla donna nelle accuse a lui rivolte. Sentimenti, quelli di Isak, evidenti però solo in sede di sceneggiatura, dove si fa cenno agli stati di inquietudine e irritazione che assalgono la mente del guidatore 7. Niente di tutto questo tra le righe delle immagini. Inizialmente contenuti in piani d’insieme simmetrici, alternati in campo-controcampo, i due interlocutori si separano a metà della sequenza, quando Marianne confida al suocero le conseguenze dell’impegno del figlio di fronte al debito da saldare al padre: la loro relazione ne soffre, non hanno più tempo di vedersi perché Evald è costretto a lavorare giorno e notte. Da questo momento in poi il montaggio suddivide i personaggi in due quadri distinti. Vediamo nel dettaglio le otto inquadrature che formano questa microsequenza, utilizzando una traduzione letterale dei dialoghi svedesi: 1 PP di Marianne
2 PP di Isak 3 PP di Marianne
4 PP di Isak
MARIANNE: Per noi questo vuol dire che non abbiamo mai tempo di stare insieme. Tuo figlio si ammazza di lavoro. ISAK: Tu hai il tuo reddito. MARIANNE: Specie poi se si pensa che tu sei ricco sfondato e che non hai affatto bisogno di quei soldi. ISAK: Quel che è detto è detto, mia cara Marianne. E so che Evald mi capisce e mi rispetta.
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5 PP di Marianne
MARIANNE: Sarà. Ma ti odia anche.
6 PP frontale di Isak
Silenzio
7 PP di Marianne
Silenzio
8 Dettaglio della strada
Rumore del motore
Con il passaggio dall’inquadratura 5 alla 6 (dalla parola al silenzio) non è il ritmo del montaggio che cambia, quanto l’angolazione della cinepresa, che diventa frontale. Tra le rughe del volto di Isak l’istanza narrante sembra sondare l’apertura di una cicatrice tutta interiore, l’odio nutrito dal figlio Evald. Liberato dalla catena dialogica azione-reazione, il volto parlante (inq. 4) diventa immagine-affezione (inq. 6), luogo del passaggio dalla percezione a una reazione (inq. 9) che non si farà attendere. La tensione sale. Il modo migliore per conservarla è quello di interrompere il respiro «duale» del dialogo con una cesura che ci porta per qualche istante fuori dall’auto (inq. 7): le ruote dell’auto scorrono sull’asfalto come per dare allo spettatore il tempo di metabolizzare il contenuto verbale dei piani precedenti. Il timing del montaggio è dunque funzionale a favorire una progressiva partecipazione dello spettatore al crescendo drammatico della scena. Quando la cinepresa ritorna nell’auto, la pulsione del campo-controcampo si spegne e il respiro si comprime in una sorta di inspirazione prolungata. Questi nel dettaglio i piani contenuti nell’inquadratura 9, dove il montaggio è effettuato da quattro movimenti di macchina:
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9a PP Isak Carrellata all’indietro
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ISAK: Cos’hai contro di me?
9b Piano d’insieme: Isak e Marianne MARIANNE: Devo essere franca? ISAK: Visto che te lo chiedo. MARIANNE: Tu sei un vecchio egoista papà Isak. Sei senza scrupoli e non hai ascoltato altri che te stesso. Ma lo nascondi dietro la tua aria di uomo raffinato e di buone maniere. Invece sei un inscalfibile egoista, per quanto ti dipingano come un amico dell’umanità. Ma noi che ti conosciamo da vicino sappiamo chi sei. Non ci inganni. 9c Carrellata in avanti PP Marianne
MARIANNE: Ti ricordi quando sono venuta da te un mese fa? Ho avuto la stupida idea di pensare che potessi aiutarci. Ti ho chiesto di poter stare da te per qualche settimana. Ricordi cosa mi hai risposto? ISAK: Ti ho detto che potevi restare da me volentieri. MARIANNE: Forse te lo sei dimenticato, ma hai detto:
9d Panoramica verso destra PP Isak
MARIANNE: Non provate a immischiarmi nei vostri problemi matrimoniali. Me ne infischio, dovete risolvervela da soli. ISAK: Ho detto questo? MARIANNE: Non solo questo. Ecco le tue parole esatte: «Non ho rispetto per le sofferenze psichiche, quindi non venire da me. Se hai bisogno di un po’ di masturbazione mentale dovresti vedere un ciarlatano».
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9e Panoramica verso sinistra PP Marianne
MARIANNE: O perché non un prete? Sono di moda oggi. ISAK: Ho detto questo? MARIANNE: I tuoi giudizi sono molto categorici Isak. Sarebbe terribile dover dipendere da te.
Per un minuto e trenta secondi il respiro interno del film si ferma sui volti dei due personaggi, in una sorta di apnea che termina nella seconda cesura della sequenza, ovvero nel dettaglio degli alberi che, osservati dal basso verso l’alto, circondano l’asfalto. Il dialogo tra Isak e Marianne è dunque filmato come un processo binario di inspirazione-espirazione: le due cesure circolari sciolgono all’esterno la materia patetica accumulata all’interno. Analizziamo la testura di questa materia.
Parola versus volto Diversi amanti della ripresa in continuità, come Welles o Polanski, hanno affermato che tale soluzione impedisce all’energia dell’attore di disperdersi. Non sappiamo se questa fosse anche una delle motivazioni di Bergman; di certo il piano sequenza è uno stilema molto frequente nei melodrammi di inizio decennio, da Sete a Donne in attesa: si pensi in particolare all’incipit di quest’ultimo film, con la cinepresa che si sposta da una narratrice all’altra prima che il presente si sciolga nel flash-back.
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Ne Il posto delle fragole l’attenzione ci sembra rivolta non solo al valore semantico della parola, quanto alla sua capacità di esprimere la durata all’interno dello spazio claustrofobico dell’auto. I leggeri movimenti di macchina, che prima ci allontanano (inq. 9b) e poi ci avvicinano ai volti (inq. 9c), restituiscono la massa non verbale degli intervalli tra le frasi, permettendo al tempo di depositarsi come materia densa, durativa, non scolpita. Proprio mentre cerca di conservare l’unità del frammento, la cinepresa svela la sua natura di occhio finzionalizzante, istanza che ordina il caos nel momento in cui lo riproduce. Un esempio: la panoramica che scorre da Marianne (9c) a Isak (9d) indica la volontà di filmare, attraverso il primo piano, uno degli stati dell’essere forse meno indagati dal cinema, ovvero l’atto di ascoltare; la carrellata degli spettatori in ouverture a Il flauto magico (Trollflojten, 1975) sarà il punto d’arrivo di questa ricerca, tesa a restituire qualcosa di invisibile come i riverberi della musica sul paesaggio del volto. Qui interessa anche restituire l’esecuzione di una messa in scena. Quella di Marianne non è una semplice accusa, è una recita. La sua non è un parola errante, come quelle mummificate nei piani sequenza di tanto cinema moderno, ma una parola-teatro 8, atta a verbalizzare stati d’animo, definire la psicologia dei personaggi e soprattutto a colmare gli spazi vuoti della memoria. Di fronte alla rimozione di Isak, Marianne cita in discorso diretto le parole perdute dell’uomo (9b), trasformato dall’inquadratura in una maschera mostruosa: volto di uomo e voce di donna. Isak ascolta. Ma potremmo anche di-
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re che Isak parla con la voce di Marianne, così come nove anni più tardi Liv Ullmann parlerà con la voce di Bibi Andersson (Persona), confermando la predilezione di Bergman per l’inquadratura vista come campo di forze attive e tra loro contrastanti. Ci riferiamo naturalmente alla conversazione finale tra Alma ed Elisabeth, quando il dramma della madre afasica (il rapporto con il figlio non voluto) è rievocato dalle parole dell’infermiera impresse sulla maschera di Liv Ullmann. Oltre a Persona viene in mente il già citato duetto allo specchio tra Josephson e Ullmann in Sussurri e grida, esempio di come il primo piano possa essere anche uno spazio sonoro: paralizzato dalla tensione muscolare della mimica, il volto di Maria (Liv Ulmann) è qui decifrato dalle parole del partner, che galleggiano sullo schermo come particelle impalbabili, segni invisibili su di un paesaggio tutto da connotare. La sfida è quella di togliere al volto la sua parola per poi farlo interagire con una parola non solo acusmatica, ma anche dotata di occhi: la deleuziana immagine-affezione diventa in questo senso un’immagine-testo, dove la potenza intensiva del volto è subito elevata ad atto dalla parola. Dietro questa esibizione della testura del dispositivo, scisso in immagine e suono, potrebbe nascondersi, velata mise en abyme, una riflessione sulla potenza fascinatoria di quel cinema muto su cui l’immaginario bergmaniano si è formato. Le voci di Erland Josephson (Sussurri e grida) o di Bibi Andersson (Persona) fungerebbero allora da moderni imbonitori per gli spettatori costretti a contemplare il paesaggio silenzioso di Liv Ullmann.
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Animato dalla voce di Ingrid Thulin, Sjöström è già persona, ovvero involucro opaco pronto per essere «indossato», manipolato, giudicato, svuotato, riempito di ricordi. «Queste sono le tue parole esatte»: la memoria di Marianne non fa sconti, come un daimon omnisciente che si appresta ad abitare, per ferirlo, lo spirito della sua vittima. In conclusione, il montaggio in continuità non fa che rendere palpabile la prossimità spazio-temporale tra la maschera maschile e il suo «corpo vocale» femminile, il quale però sul finire della sequenza nega la propria disponibilità a offrirsi come maschera. Anche Isak infatti ambisce al ruolo di narratore, avrebbe un racconto dettagliato da proporre a Marianne, quello del recente incubo. Marianne però dice no. I sogni non le interessano, e non solo quelli raccontati. Quando Isak si siede sul suo posto delle fragole la donna è lontano, sulla riva di un mare detto ma non mostrato, in un altrove dove la vita è preferita alla veggenza.
Il palcoscenico del ricordo In assenza di un vero e proprio découpage tocca dunque ai movimenti di macchina guidare l’occhio dello spettatore, aiutandone il processo di identificazione. Più difficile per costui è scegliere che cosa guardare in uno dei più lunghi frammenti di unità spazio-temporale nell’intero film: i giochi proibiti tra Sara e il seduttore Sigfrid durante la prima visione di Isak nel posto delle fragole (seq. 4).
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Seduto sotto le fronde, il veggente crede di poter contemplare il corpo della perduta Sara, ma assiste alla rivelazione di una verità ignota, quella della passione della ragazza per il fratello rivale. Pensiamo alla pièce allestita e interpretata da Minus all’inizio di Come in uno specchio, unica soluzione che il ragazzo escogita per esprimere al padre il suo odio: lo spettacolo in Bergman riesuma ciò che la vita rimuove, come se la maschera più pesante fosse quella indossata dagli spettatori (Isak) e non quella dietro cui si celano gli attori (Sara). Non il passato appare a Isak, ma la sua messa in quadro, la sua organizzazione calligrafica e composta: la sua mente scientifica non può che costruire immagini chiare e distinte. Per fare questo Isak prima nomina il «titolo» del suo spettacolo («Smultrönstallet!»), aiutando l’immersione dello spettatore nella finzione, e poi guarda verso la cinepresa (fig. 22), istituendo con la visione di Sara un rapporto non molto dissimile da quello instaurato dal giovane Freder nei confronti di Maria in Metropolis (id., 1926) di Fritz Lang, avventura fiabesca di uno sguardo teso, tra seduzione e fascinazione, ai confini stessi del visibile 9. Inginocchiato sull’erba, Isak non solo indirizza la percezione dello spettatore, ma ne favorisce l’identificazione situandolo all’interno di quella che Paolo Bertetto definirebbe la «dinamica emozionale» dello spazio filmico. Come Metropolis, Il posto delle fragole è un racconto punteggiato da visioni che sorprendono il protagonista restando però facilmente abitabili dal di lui sguardo, in quanto lo spazio naturale è plasmato secondo un’organizzazione simmetrica e centripeta delle linee di forza.
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Legittima è anche la lettura psicanalitica proposta da Lucilla Albano, che individua nella fantasticheria di Fanny e Alexander una messa in quadro del fantasma già evidente qui, ma soprattutto carica di sfumature lacaniane: il fantôme Sara diventa fantasme proprio perché incorniciato, disposto all’interno di un quadro volto più a nascondere che a far vedere 10. Isak mette in scena ciò che non vuole guardare. Quella de Il posto delle fragole è dunque una natura strutturata all’insegna di un ordine e di una chiarezza compositiva che regolerà anche le visioni notturne successive a questa, dove il contrasto luce-tenebre non limiterà l’atto di lettura dello spettatore. Gli elementi che arredano questo paesaggio sono essenziali e ben distinti tra loro, come in una scenografia teatrale: cespugli, fiori e soprattutto un albero biforcuto, presenza ossessiva in tutti gli esterni ambientati nel posto delle fragole, compresa la scena della conversazione tra Evald e Marianne. Basta osservare lo stato di questi rami, prima fioriti, poi secchi e poi di nuovo fioriti nell’ultima rêverie, per decifrare la temperatura emotiva del protagonista. Quando il veggente segue i fratelli nel rientro verso casa per la festa in onore dello zio (seq. 4), Bergman filma questa struttura oggettuale come una soglia tra lo spettatore e il suo spettacolo, mostrandoci il corpo di Isak al di là di quei rami: penetrare nella casa dei ricordi significa oltrepassare un limen che non offre alcuna resistenza. Ma torniamo da Sara. Sigfrid entra sul palco del prato da una quinta (il cespuglio) visibile alla destra del quadro, al centro del quale, illuminata dal sole estivo, risplende l’ama-
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ta vestita a festa e pettinata all’inglese (fig. 23). La cinepresa resta ferma, ad altezza «platea», per alcuni minuti, il tempo necessario perché la tensione provocata dal corteggiamento di Sigfrid sfoci in quel bacio rubato, sottolineato dagli archi di Nordgren, che chiude il piano sequenza. La continuità spazio-temporale e il corpocentrismo del quadro conferiscono a questa visione quella natura teatrale propria delle apparizioni che, pur brevi, allietavano il viaggio del saltimbanco Jof ne Il settimo sigillo. Gli occhi del capocomico in fuga dalla peste coglievano la Vergine in un momento simbolico quanto il gesto di Sara: raccogliere fiori o fragole significa condividere il respiro panico della natura, e questo è un dono di molte eroine bergmaniane, Monica in primis. Qui come ne Il settimo sigillo il prato è filmato come palcoscenico a sé stante, intoccabile per coloro che hanno la fortuna di guardarlo, un hortus conclusus che non ha alcun rapporto di contiguità con il quadro che lo precede (ovvero il primo piano del vedente): se dietro gli amanti splende il sole, il volto di Isak si staglia su di una base nera che annulla completamente lo sfondo naturale (fig. 24), secondo un’architettura luministica che ricorda il Murnau de L’ultima risata (Der letzte Mann, 1924) 11. Questo dettaglio rafforza la sensazione che il blocco spazio-temporale del ménage à deux appartenga a uno spazio altro rispetto a quello del presente, isolato per mezzo di una punteggiatura tale da separare nettamente vedente e visione. Non così accade nell’interludio che precede l’apparizione di Sara.
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Dissolvenze analogiche Sino a questo momento, e non siamo ancora a metà del racconto, la dissolvenza è utilizzata per indicare lo scorrere del tempo. Si vedano l’intervallo tra le sequenze 2 e 3, quando l’auto di Isak esce dal centro di Stoccolma, e le due dissolvenze che incrociano le immagini dell’approdo dei viaggiatori al posto delle fragole, in ouverture alla sequenza 4. Quando Isak guarda la sua casa d’infanzia, però, il tempo sembra arrestarsi in una dimensione soggettiva, priva di riferimenti cronologici concreti, un po’ come accadeva nell’incipit de Il settimo sigillo: penso alle dissolvenze incrociate che sciolgono gli elementi d’ambiente (le nuvole, il mare, la scacchiera) e introducono l’apparizione della Morte sulla spiaggia, annunciando quel tempo sospeso in cui il cavaliere gioca la sua ultima partita. Ma torniamo a Isak. Sul totale della casa, una casa molto simile a quella riprodotta nella fotografia mostrata nell’incipit di Sarabanda, si incrosta per qualche secondo l’immagine della stessa casa modificata in alcuni dettagli: la luce è più forte e gli alberi sono più ricchi di foglie. Nel momento in cui il presente cede il passo al tempo perduto, Isak si riappropria del ruolo di narratore. Oltre che mostrata, la dissolvenza incrociata è infatti detta, con l’impiego di un verbo dalla forte rilevanza visivo-gestuale come scivolare: «La realtà chiara del giorno è scivolata verso le immagini, più chiare ancora, del ricordo». Chiara, ai limiti del didascalico, è indubbiamente la struttura del discorso, come se il narratore non avesse fiducia nel potere affabulatorio delle immagini. Alla tecnica
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del contrappunto impiegata nel prologo è qui preferita la ridondanza, ovvero dire e mostrare nello stesso tempo: dire ciò che si mostra, mostrare ciò che si dice. Non tutto però è verbalizzato. Tre elementi del paesaggio sfuggono alla sistemazione del logos e scivolano uno sull’altro per mezzo di tre dissolvenze incrociate. Sono nell’ordine alberi mossi dal vento, nuvole nel cielo e fragole selvatiche, frammenti di natura non solo indeterminati ma anche tali da disorientare lo spettatore. Avevamo appena intravisto una «luce più chiara» sull’orizzonte della casa. Ora invece il vento che agita gli alberi sembra annunciare una tempesta, confermando la visione bergmaniana della natura come Stimmung, paesaggio mutevole come quello dell’animo. Si consideri l’articolazione del punto di vista. Se il cielo è inquadrato dal basso verso l’alto, le fragole selvatiche sono osservate con un’angolazione opposta (fig. 25), quasi a suggerire la presenza di un occhio incorporeo in qualità di depositario di questa fantasticheria. Ma ciò che più colpisce è la qualità analogica di questo montaggio, abile a incrociare elementi di diversa testura (la solidità degli alberi e l’inconsistenza della nuvole, fig. 26) in modo tale da preparare visivamente lo spettatore all’immagine delle fragole. Piegate dal vento, le fronde trasformano gli alberi in una massa circolare molto simile, da un punto di vista grafico, a quella disegnata dalle nuvole bianche, le quali poi si sciolgono in un fragoleto filmato come un antro carnale, pronto a inghiottire l’immaginazione del revenant. Liberata da ogni compito narrativo, la dissolvenza non ordina più: confonde e scioglie gli oggetti creando corri-
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spondenze plastiche interne all’immagine, la quale accede a una dimensione lirica dove la parola è rimpiazzata dalla musica (l’arpa) e dai rumori (le foglie al vento). Il tempo viene così sfogliato restando in qualche modo fermo, poiché nulla ci permette di individuare i gradini di una successione cronologica nel passaggio dall’immagine degli alberi a quella delle fragole. Tali immagini potrebbero essere disposte in un ordine diverso e la logica della sequenza non perderebbe la sua verosimiglianza. Il piacere di decostruire la funzione narrativa della dissolvenza incrociata ritornerà nell’incipit di Luci d’inverno, dove la voce off del pastore rinvia a una durata contraddetta dalla successione descrittiva di alcuni quadri del paesaggio che circonda la chiesa: anziché raccontare, la parola funge qui da sfondo per un racconto che fatica a nascere. Meno analogiche e più narrative sono invece le due dissolvenze incrociate che annunciano, nella sequenza 12, l’apparizione notturna di Sara, giudice bella e impietosa dell’egoismo di Isak. Costui si addormenta in auto. Quando i suoi occhi si chiudono, uno stormo di uccelli in volo si stacca da un albero che l’illuminazione contrastata trasforma in una figura spettrale, presto divorata dall’immagine, più edificante, del cestino di Sara appoggiato sul posto delle fragole. Ancora una volta il fantasma dell’amata nasce per gemmazione prodotta dal dialogo incrociato tra i quadri della natura, dialogo che allenta la respirazione del film sintonizzandola sul ritmo acronologico della visione onirica. Per passare dal reale all’immaginario Karin, la veggente di Come in uno specchio, dovrà oltrepassare la superficie
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sottile di una carta da parati. Alla mente di Isak, e di conseguenza anche al suo spettatore, è invece sufficiente sfogliare la testura di una natura che il montaggio restituisce come impalpabile, molle, inafferrabile. Come la materia del sogno.
Attraverso lo specchio: il paesaggio si fa volto Analizziamo ora, per concludere, le soluzioni di montaggio impiegate nella sequenza finale, quando il viaggio fisico di Isak è terminato. L’indifferenza iniziale cede il posto all’affetto, il silenzio è sostituito dal dialogo, sino al momento in cui il sonno reclama la mente del veggente. La riconciliazione è una questione di raccordi. Durante l’incubo notturno ambientato nel posto delle fragole (seq. 12a) Isak e Sara occupavano inizialmente lo stesso quadro, prima che un montaggio in campo-controcampo li separasse al ritmo delle loro battute. Questa volta la casa dell’infanzia è illuminata dalla luce del giorno, all’interno di un’immagine finalmente stabile, resistente agli «scivolamenti» temporali. Annunciata dal fraseggio d’arpa, i capelli mossi dal vento che agita le foglie, Sara entra nel quadro dal fondo e si ferma sulla soglia, come faceva nelle visioni precedenti (fig. 27). Ora però il suo sguardo buca la superficie del sipario e, dirigendosi verso la cinepresa, invita a guardare il fuoricampo abitato dal veggente: per la prima volta l’oggetto della visione vede, o meglio guarda il corpo del suo creatore. Difficile stabilire se questo sguardo possa, come quel-
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lo della Maria di Metropolis, trascendere la dimensione diegetica della percezione e raggiungere le forme metalinguistiche della seduzione. Indubbiamente si tratta di uno sguardo da molto tempo atteso, la cui negazione, nel corso della visione diurna, aveva deluso e frustrato colui che ora è oggetto della percezione: «Sono io, Sara… sono un po’ invecchiato, quindi non sembro la stessa persona». Come quello dell’eroina di Lang, lo sguardo di Sara non distrugge né esibisce la struttura del dispositivo, perché il suo fine non è interpellare lo spettatore ma assorbirlo nel ritmo del racconto preparandolo piano piano alla visione conclusiva. La ragazza esce di campo oltrepassando il sipario dello schermo (fig. 28) e rientra nel posto delle fragole (fig. 29) mediante un raccordo sul movimento identico a quello che avvicina la Morte al cavaliere Block nella sequenza iniziale de Il settimo sigillo (fig. 30). La fanciulla e la Morte appartengono a un mondo altro, dove il tempo si è fermato, e le loro apparizioni perturbano tanto l’animo dei revenants (Borg e Block) quanto le giunture della sintassi filmica. Sara si avvicina alla cinepresa e attraversa quel sipario che invece, come dimostrerà il Woody Allen di La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985) è interdetto allo spettatore. Lo specchio è finalmente infranto, al pari delle paure, dei rimorsi, dei sensi di colpa che offuscavano i ricordi d’amore di Isak. Se la selva è oscura, se il viaggiatore si è perso durante la ricerca del padre, una novella Beatrice è lì per guidarlo verso la luce della riconciliazione. Il tempo per arrivarci sembra non quantificabile, o quanto meno lungo, come
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evidenziano le due dissolvenze che incrociano i corpi dei viandanti con gli elementi della natura. Riemerge allora nel montaggio la dimensione del tattile, poiché il tempo è restituito come qualcosa di soggettivo, relativo alla coscienza e quindi molle. La qualità fascinatoria dello sguardo di Sara risplende prepotentemente nel momento in cui ella porta Isak sulla sommità del promontorio sul mare, luogo dai forti connotati simbolici: sotto c’è il vuoto, davanti la luce di una dimensione che qualcuno (Jacques Aumont ad esempio) ha letto come ultraterrena. Allo sguardo diegetico diretto «oltre» la cinepresa Sara aggiunge il gesto della mano, quasi a voler selezionare il magma del visibile che si spalanca ai suoi occhi. L’atto del guardare presuppone sempre l’esclusione di qualcosa che resiste alla messa in scena, ma soprattutto è dato come esperienza compresa tra due inquadrature, ovvero in un intervallo, seppur minimo, di tempo. Il vedente non è qui «interno» alla sua visione, forse perché a Bergman non interessa riflettere sulle sfumature metalinguistiche dello sguardo, ma sedurre lo spettatore invitandolo a condividere l’esperienza estatica del personaggio. L’assenza del corpo dell’osservatore aumenta il potere feticistico della celebre immagine finale, letta dalla critica come metafora della riconciliazione del figlio con i genitori. Staccata dal corpo di Isak, questa immagine può essere facilmente strappata e conservata con cura e nostalgia, magari dentro un’agenda, come faceva il pastore di Luci d’inverno con le fotografie della moglie. La sfida di Bergman è dunque quella di filmare il reale come se fosse un simulacro.
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Di che cosa è fatta suddetta visione? Atteniamoci agli elementi visivi, dato che il canto degli uccelli aggiunge all’immagine un valore che appartiene anche al quadro occupato dal primo piano di Isak. Il padre è intento alla pesca, mentre la madre legge un libro. Grazie al recente documentario di Marie Nyreröd (Ingmar Bergman: 3 dokumentärer om film, Fårö och livet, 2004) sappiamo che il taglio di questa inquadratura è ispirato a una foto di famiglia, scattata probabilmente negli anni ’20 vicino alla residenza estiva dei Bergman: si intravedono alcuni componenti della famiglia nell’atto di pescare. A partire da questa immagine Fischer ha ricreato non solo l’angolazione del punto di vista, dall’alto verso il basso, ma anche le variazioni dei riflessi del sole nell’acqua. Armonia tra i dettagli della natura, equidistanza tra gli elementi dell’insieme, giochi di ombre e di riflessi tra acqua e cielo (fig. 31): sono tutte caratteristiche del pittoresco, quella categoria estetica dove l’ispirazione prevale sull’imitazione e l’emozione ha la meglio sulla ragione 12. Si tratta forse dell’esterno più interiore di tutto il cinema di Bergman, incarnazione di quell’idea di cinema come estensione del visibile teorizzata trent’anni prima da Bela Balázs: grazie alle sue potenzialità riproduttive, il dispositivo cinematografico secondo Balázs non solo restituisce all’uomo il corpo perduto (L’uomo visibile 13) ma, presentandosi come «arte di superficie», annulla anche le distanze tra interno ed esterno, tra contenuto e forma, tra volto e paesaggio. Non c’è un viso, diceva Deleuze, che non celi un paesaggio sconosciuto, non c’è paesaggio che non si popoli di un viso amato o sognato, che non sviluppi un viso a
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venire o già passato. Amalgamati nell’ambiente, i corpi dei genitori altro non sono che tratti di un viso luminoso, di cui l’occhio del veggente registra micromovimenti divisi, ancora una volta, in due tempi: nel primo dei due quadri è la madre che alza il braccio in un gesto di saluto, mentre il padre, che all’inizio è intento alla pesca, ricambia lo sguardo del figlio solo nella seconda inquadratura. La comunicazione tra il revenant e la sua visione è espressa, direbbe Godard, mediante un battito di ciglia del montaggio. Se la mimica del paesaggio edenico è visibile, resta opaca la superficie del volto del veggente, sulla quale la cinepresa torna a soffermarsi dopo aver registrato i microeventi di cui sopra. Racchiuso nel primo piano, Sjöström è ora una massa compatta, «fotogenica» (Balázs) in quanto sintesi di visibile e di invisibile, come illustra il contrasto tra la leggerezza sospesa dello sguardo, affacciato verso l’interno, e la pesantezza della carne, gonfia e solcata dal tempo. La fisionomia cosciente, direbbe Balázs, si mescola alla microfisionomia inconscia, prima che l’ultima dissolvenza incrociata ci riconduca a un volto, quello del viaggiatore nel letto, inteso come sineddoche di un corpo stanco, infreddolito (la coperta alzata sino al mento), ma sereno (il sorriso prima della dissolvenza in nero). Dal verbo, protagonista del prologo, al volto, paesaggio del finale: Il posto delle fragole è la storia di una parola in cerca della sua carne.
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Cfr. Ingmar Bergman, «Positif», n. 517, marzo 2004. Ingmar Bergman, Quattro film. Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto, Einaudi, Torino 1961, p. XIII. 3 Ivi, p. XIV. 4 Ingmar Bergman in Charles Samuels, Encountering Directors, Capricorn Books, New York 1972. 5 «Non voglio avere la possibilità di scegliere in sala di montaggio. Quando mi siedo alla moviola, è un divertimento» (Ingmar Bergman in John Reilly, The Image Maker, John Knox Press, Richmond, 1971). 6 Ingmar Bergman, Il posto delle fragole, Iperborea, Milano 2003, p. 14. 7 «[Marianne] mi irritava con quella sua aria imperturbabile e con la sua freddezza. Inoltre ero molto perplesso e un po’ inquieto»: Isak Borg in Ingmar Bergman, Il posto delle fragole, cit., p. 23. 8 Cfr. Michel Chion, Il cinema, un’arte sonora, Kaplan, Torino 2007. 9 Per un’analisi dello sguardo come fascinazione nel cinema di Lang si rinvia a Paolo Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Lindau, Torino 2001. 10 «L’angoscia, il fantasma, è sempre incorniciato. La cornice […] sta nel doppio senso di qualcosa che inquadra e quindi limita, protegge, isola (in modo tale da contenere la mancanza, il vuoto che fa esplodere l’angoscia) e di ciò che è inquadrato» (Lucilla Albano, Alexander, ovvero l’arte dell’acchiappafantasmi, in Luciano De Giusti [a cura di], L’opera multiforme di Ingmar Bergman. Oltre il commiato (1982-2003), Il Castoro, 2006, p. 26). 11 L’ambiente dove lavora l’ultimo uomo, ovvero l’albergo, si scioglie in un fondo nero quando il protagonista viene licenziato. L’annullamento della persona coincide con la defigurazione dello spazio. L’ultima risata compare nella lista dei titoli più ammirati da Bergman (cfr. Olivier Assayas, Stig Bjorkman, Conversazione con Ingmar Bergman, Lindau, Torino 1995). 12 V. Raffaele Milani, Il Pittoresco. L’evoluzione del Gusto tra classico e romantico, Laterza, Bari 1996. 13 Si tratta di un capitolo di Bela Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino 1952. 1 2
Alle soglie del reale
L’odore e il sapore durano ancora per molto tempo sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile l’edificio immenso del ricordo. Marcel Proust
Dal 1957 a oggi in tanti hanno cercato di decrittare la foresta di simboli che Bergman costruisce attorno al suo personaggio, senza paura di scomodare archetipi quali il viaggio come iniziazione, la morte come necessità, il sogno come rivelazione. Di questo travaglio critico rendiamo in parte conto nell’Antologia critica che segue, invitando però il lettore a rileggere, non fosse che per semplice curiosità storica, le pagine che Guido Oldrini scriveva nell’aprile del 1960, nel tentativo di offrire un primo bilancio degli orizzonti della critica bergmaniana 1. Non si contano poi le citazioni e gli omaggi che imitatori ed epigoni hanno voluto rendere al culto di questo film. Tra André Téchiné (il conflitto generazionale di Ma saison
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préférée, 1993) e Alessandro di Robilant 2 (il protagonista de Il giudice ragazzino, 1993, assiste alla proiezione del capolavoro bergmaniano), spicca Woody Allen: da Un’altra donna (Another Woman, 1988) a Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors, 1989), da La rosa purpurea del Cairo a Io e Annie (Annie Hall, 1977), il viaggio di Isak Borg rivive in frammenti eterogenei che contribuiscono a rafforzare l’aura mitica del modello 3. Mitico è ciò che trascende il contingente (il letterale) per assurgere allo stato di exemplum (il figurato). La traduzione italiana di Smultronstället perde non solo un dettaglio «naturalistico» importante, ovvero la natura selvatica e dunque caduca delle fragole in questione, ma anche la sfumatura figurata che il termine ha assunto nella lingua svedese dopo il 1946. La fonte è l’autorevole Svenska Akademiens Ordbok, edito guarda caso proprio dall’Università di Lund: oltre che «luogo dove crescono molte fragole», Smultronställe significa oggi (e anche al momento della realizzazione del film) «posto ameno», «posticino preferito», ma soprattutto «luogo o periodo in cui una persona ha vissuto momenti felici». Da uno spazio concreto e particolare si scivola a un luogo universale, e da qui a un’articolazione del tempo. L’ambiguità del titolo riflette la coesistenza, nel tessuto narrativo del film, di due livelli espressivi contrapposti come il simbolismo e il realismo. Il posto delle fragole, in quanto «classico», racchiude i nodi della Weltanschauung bergmaniana, ma contiene tracce di quel reale che affascinerà l’autore sino a indurlo, nei decenni successivi, a effetti di straniamento metalinguistico: si vedano le interpellazioni
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rivolte allo spettatore in Passione, Sinfonia d’autunno o Sarabanda, dove sarà messa in evidenza, oltre alla presenza plastica dell’attore, anche la materialità del dispositivo. Per ora più che di realismo si può parlare di naturalismo, di attenzione più o meno filologica alla corrispondenza tra il referente reale (un ambiente, una classe sociale, un’epoca) e la sua ricostruzione scenografica. Realistico forse avrebbe voluto essere il ritratto di quella gioventù che fa da spettatrice al viaggio mentale di Isak, ritratto che il giovane turco Bo Widerberg giudicò scadente in quanto privo della necessaria critica sociale, alla moda tra i giovani filmaker svedesi. Quella del realismo, per Bergman, è vista spesso come una sfida impossibile: Penso che sia assolutamente impossibile catturare la realtà. È molto meglio prendere uno specchio e provare a scegliere una piccola parte di realtà ed esprimerla mediante una forma stilizzata. 4
La «presa» del reale si scontra, tra le altre cose, con la superficie codificata dell’attore, una coscienza che si aggiunge a quella dell’autore, il quale però accetta volentieri questa situazione. Fondato sull’intuizione, il metodo bergmaniano mira essenzialmente a liberare il potere creativo dell’attore artisticamente educato: Non potrei mai usare attori non professionisti. Widerberg utilizza attori non professionisti per esprimere il bisogno di mutare lo stile di recitazione teatrale in uno stile prettamente cinematografico. Io devo sempre lavorare con attori, non pos-
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so impiegare altra gente perché ora, ad esempio, la nostra presenza qui è piena di espressioni, tensioni, luci e piccoli movimenti che non riuscirei mai a ricreare in studio con nessuno. Certo, posso accendere la cinepresa e catturare solo questo momento. 5
Folke Sundquist e Björn Bjelvestam dovrebbero incarnare la gioventù svedese del 1957. Più che specchio dei tempi, però, gesti e costumi agiscono come correlativi oggettivi che inchiodano i personaggi di Anders e Viktor nella loro opposizione ideologica. Viktor l’ateo veste curato e porta i capelli alla moda, mentre il futuro pastore Anders non si preoccupa della camicia aperta e sdrucita che permette a Sara di contemplare la «bella nuca». Quanto a Sara, pipa, occhiali scuri e lessico gergale aiutano Bibi Andersson a esprimere una sfrontatezza più gentile che ribelle. La confusione che ella dimostra in materia biblica, quando, presentandosi a Isak, confonde Sarah con la moglie di Isacco, non fa che aumentare il grado di simpatia del personaggio. Meno schematica è la definizione del personaggio di Agda, cameriera che osserviamo nell’intimità della camera da letto (al risveglio il giorno della partenza), ma anche nelle vesti di confidente paziente e materna (si veda l’attenzione con cui si occupa di Isak all’arrivo di questi a Lund). Il suo pudore è incarnazione di una dignità di classe che ritornerà intatta nella rappresentazione della servitù di Fanny e Alexander, da alcuni (Eithne O’Neill) considerato come il secondo tempo di un’opera unica 6. Evidenti sono le affinità tra le facoltà visionarie di Isak e quelle del bildmakar Alexander, anch’egli ipersensibile alle creazioni
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audiovisive della propria immaginazione. Gesti, situazioni e oggetti «circolano» da un film all’altro. Il nudo di porcellana che si anima nella rêverie di Alexander, ad esempio, è pressoché identico a quella statuetta visibile dietro il giovane Hagbart, il ragazzo a cui la zia (seq. 5) chiede di passare il burro; ma nessuno, nemmeno Isak, sembra prestarle attenzione. Aumont, inoltre, nota come in entrambi i film circoli l’immagine della famiglia colta in un momento di idillio estivo, nei pressi di un battello pronto per una gita: nel finale de Il posto delle fragole assistiamo alla partenza del gruppo familiare privo di Isak, mentre nella seconda parte di Fanny e Alexander di questo gruppo ci è mostrato il rientro a terra dopo l’escursione. Sulla retorica dell’allucinazione e sulla gemellarità dei due film rimandiamo alla letture di Jacques Aumont e Sergio Arecco 7. Limitiamoci qui ad analizzare la messa in scena del pranzo di famiglia nella casa dell’infanzia, l’unico evento onirico ambientato in un interno (seq. 4). Non si tratta di respirare il presente, ma di restituire il più fedelmente possibile l’atmosfera di un rito composto non solo di parole, ma anche di odori, rumori e sapori, madeleines indispensabili per ricostruire le tracce del tempo perduto. Dopo aver spiato l’incontro tra Sigfrid e Sara, Isak segue sia i passi della ragazza che la propria immaginazione e assiste a una festa (l’onomastico dello zio Aron) dalla quale, circa sessant’anni prima, era stato escluso. Siamo nel 1897: il XX secolo è alle porte e con esso anche la fine di quell’unione tra Svezia e Norvegia simboleggiata dalla bandiera issata da uno dei fratelli di Isak. Ma a Bergman interessa ciò che accade nell’intimità della sala da pranzo. La volon-
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tà di conferire alla scena un peso narrativo particolare è evidente nella scelta di anteporre il brusio acusmatico dei personaggi alla rappresentazione dei volti, creando nello spettatore una dinamica di desiderio e attesa simile a quella impiegata per l’apparizione di un divo. Il canto ideale degli uccelli che aveva introdotto la visione bucolica è sostituito dal caos reale di bicchieri appoggiati sul tavolo, bambini che litigano, note stonate di un vecchio pianoforte. Curiosamente, e questa forse è la variante più singolare apportata dalla distribuzione, nella copia italiana del film suddetto brusio è sostituito dalle sollecitazioni con cui la zia sprona i nipoti a prendere posto a tavola. Sono parole non solo ben udibili, ma assolutamente inesistenti in sede di sceneggiatura: Avanti ragazzi, sbrigatevi a lavarvi le mani e venite a tavola! Tu lascia stare quel giornale, mettiti seduto, non è bello fare aspettare lo zio Aron! Siete sicure che non manchi nulla a tavola? Tu levati quel grembiule, che è sporco! Coraggio, coraggio, a tavola! E voialtre smettetela di cantare! Avete provato abbastanza. Ti ho detto di posare quel giornale, quante volte devo ripetertelo? Ci vorrebbe più disciplina qui, più disciplina!
Naturalmente non stupisce che né la versione inglese del film né quella francese contengano queste fantasiose e tutto sommato divertenti battute della zia, la cui paternità è incerta: forse un adattatore dei dialoghi troppo premuroso o forse un’idea del distributore, preoccupato di quel vuoto verbale che accompagna l’ingresso di Isak nel foco-
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lare perduto. In questo modo viene meno, però, l’effetto di reale di una voce che Bergman ha riprodotto come materia indistinta, rumore tra gli altri rumori, e non come verbo. Si pensi solo alle sfumature psicanalitiche nascoste sotto queste parole, feticcio acusmatico di una madre assente: l’Isak della versione italiana non entra nella nebbia dei suoi ricordi, ma in un ventre qualificato subito come materno, dove la voce funziona come una sorta di prosecuzione del cordone ombelicale 8. Spostandosi verso destra, il dormiente lascia alla cinepresa il privilegio di varcare per prima la soglia del tempo, sullo slancio di un travelling fluido, pronto a sposare i movimenti degli undici commensali attorno al tavolo. Volte a rappresentare la frenesia dei preparativi del pranzo, le prime due inquadrature sembrano dettate dall’ingresso in campo della zia e ancora prima da quello di Charlotte, il cui punto di vista è fedelmente riprodotto da una cinepresa che non esita a «sedersi» a tavola con i commensali (fig. 32). Il realismo è una questione di mimesi. Senza insistere con i dettagli sugli elementi d’arredo (i candelabri, i quadri, i disegni sulla tappezzeria), lo sguardo abbandona la pesantezza calligrafica del campo-controcampo per respirare l’atmosfera eccitata della festa, mentre la luce che filtra dalle finestre annulla ogni ombra sugli abiti bianchi, proprio come accade nei ritratti di Carl Larsson. Gesti e oggetti sono parte di un rito che Bergman conosce a memoria e di cui nulla ci è risparmiato: gli ordini inflessibili della zia, i fiori freschi sulla tovaglia, la preghiera prima di sedersi, il tovagliolo da inserire nel colletto, le mani da lava-
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re, l’attenzione nel sollevare la brocca dell’acqua, il burro premuto sul pane, il rumore delle posate sulla porcellana, la voce disturbata dal cibo durante la masticazione. Pur immaginari, questi sono i personaggi del film che più degli altri mostrano di avere un corpo. Le parole non sono più scandite come in un teatro di posa (si pensi ai duetti tra Isak e Marianne nell’auto), ma coperte dal brusio e gettate da una parte all’altra del tavolo assieme alle risate, ai rumori, alle grida. Per rivendicare allo zio il suo merito nella raccolta delle fragole, Sara è costretta a urlare nell’apparecchio acustico dell’uomo. Quanto alle fragole, la metafora del tempo che fugge si è trasformata in un dessert di cui pregustare il profumo tra una portata e l’altra oppure alla fine, mentre il corpo è impegnato nell’ascolto di una canzone: le gemelle cantano in onore dello zio Aron nonostante egli sia sordo. Tali effetti di reale, plastici quanto sonori, risaltano più forti se accostati a quanto accade durante il secondo incubo di Isak (seq. 12b), quando il tentativo di penetrare nell’intimità di Sara e Sigfrid è frustrato dall’intervento del «giudice» Alman: tutto ciò che la cinepresa ora tocca, scontrandosi nei travelling con oggetti e corpi, più avanti sarà oggetto di uno sguardo puramente ottico, protetto da un vetro e strutturato dalla cornice di una finestra come un film nel film, con il suono del piano di Sara che accompagna l’immagine muta del bacio di Sigfrid e l’unico gesto rituale visibile, ovvero il brindisi dei due amanti. I tre minuti del pranzo di famiglia restano dunque una breve oasi di reale nel deserto dell’allegoria.
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Il corpo, probabilmente Un anno dopo, nel 1958, la struttura allegorica di questo «cinema pacificato» (Assayas) si scioglie: la radura incantata lascia il posto a una spoglia corsia d’ospedale. Scritto da Ulla Isaksonn e fotografato da Max Wilén, Alle soglie della vita costringe Bergman a confrontarsi con un territorio in parte rimosso come l’esperienza fisica della maternità, solo sublimata nelle parole di Marianne Borg, desiderosa di portare a termine una gravidanza più che mai simbolica. La partoriente che si agita sul letto all’inizio di Alle soglie della vita è il controcanto carnale al simbolo, pettinato e composto, seduto in un’auto finta negli Studi di Råsunda. Thulin capovolge posture e gesti di Marianne facendo di Cecilia un corpo in attesa della morte, quella del feto che ella sente già morto in quanto non voluto: il dramma materno di Elisabeth (Persona) non è lontano. Non sappiamo se il bambino accudito nel bosco da Sara sia «l’icona dell’uomo bergmaniano afflitto da Paura» (Trasatti) o invece lo spazio vuoto lasciato nella culla preannunci, come sostiene Sylvain Roux, la rinascita di Isak a se stesso 9. Qui non le icone interessano ma le urla, le lenzuola umide, il vuoto lasciato dal silenzio di un’infermiera. Abbassando gli occhi non troviamo più le fragole, ma il vomito lasciato dalla vicina di letto. Al posto della culla bianca assalita dai corvi è mostrata una serie di letti anonimi e sudati. La minaccia non è nella notte della natura, più che mai letteraria (il mare, il vento, gli alberi secchi), ma nel mistero stesso del ventre, laddove è sufficiente un’imperscruta-
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bile anomalia per trasformare il figlio atteso in un grumo di sangue. Anche la testura dell’immagine muta, così come la costruzione dell’inquadratura: dal chiaroscuro del simbolo si passa al grigio del reale, mentre l’armonia dei primi piani frontali è distrutta da quel volto di Thulin che deborda i limiti del quadro nella prima sequenza, quando Cecilia chiede al marito se davvero egli vuole quel figlio. Scritte di getto e girate con altrettanta sollecitudine, le opere del biennio 1957-58 (Il posto delle fragole, Alle soglie della vita, Il volto) vanno lette l’una come il riflesso dell’altra. Accanto alla riflessione metalinguistica sullo spettacolo come arte del falso, ad esempio, ne Il volto emerge anche il grido di chi avverte il disfacimento del proprio corpo. Si pensi alle parole del viandante alcolizzato raccolto da Vögler: la morte non è più un innocuo presagio onirico, ma una lama affilata che strappa dal corpo viscere, cuore e sesso. Alla luce del realismo di Alle soglie della vita, inoltre, traspare più evidente l’ironia nascosta dietro l’impalcatura cristallina del film precedente, allegoria del tempo che fugge, ma anche divertimento affabulatorio di un vecchio che, quando la cena è servita, non esita a mollare foglie e ricordi per soddisfare le esigenze del corpo. Proprio del corpo è questione nella sceneggiatura di Ulla Isaksonn. I passeggeri di Isak Borg riflettono, esprimono sentenze, meditano restando in un certo senso al di là del loro corpo: Alman (alleman in svedese significa «chiunque») e la moglie escono di strada e restano incolumi, la madre di Isak gode di una lucidità che sfida le leggi della natura, mentre la coppia di benzinai è l’icona di una fertilità mostruosamente sana. Le tre partorienti in attesa non
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sono invece che corpi in ascolto delle loro sensazioni, masse prive di spessore intellettuale con l’eccezione di Cecilia, pronta a trovare una giustificazione morale (il figlio non era voluto) per reagire alla tragedia dell’aborto, articolazione concreta di quell’«assurdità» del destino teorizzata da Viktor durante il pranzo con Isak Borg. Il posto delle fragole ci ha detto che essere «assolutamente morti», lo abbiamo visto, è difficile. Come Evald, Cecilia sembra soffrire il fatto di non poter morire, come se l’impellenza dei bisogni del corpo fosse una sorta di condanna per il suo animo tormentato: «Non morirò di dolore. Mangerò di nuovo, riderò, dormirò… tutti saranno gentili con me, portandomi libri e fiori». Le due facce di Ingrid Thulin, in conclusione, si attraggono come in uno specchio. Lamentandosi per la freddezza del marito, Marianne grida la sua voglia di dare la vita per vincere la malattia mortale di chi la circonda, ma quella di cui parla è una gravidanza ideale, è l’idea della Vita. Cecilia altro non è che il volto nascosto sotto questa maschera, così come il figlio mai nato non è l’idea della Morte, ma una sensazione fisica, quella di essere «vicina alla vita», fugace quanto le fragole selvatiche. Come l’acqua, essa vibra nella carne e poi scivola via, senza lasciare alcuna traccia.
Cfr. Guido Oldrini, Lo sfondo culturale della critica su Ingmar Bergman, «Cinemanuovo», n. 144, marzo-aprile 1960. 2 Dobbiamo queste informazioni alla documentatissima monografia di Philip e Kersti French, Wild Strawberries, BFI Classics, London 1995. 1
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Per un approfondimento dell’influenza di Bergman sull’immaginario di Allen si veda Carlotta Iacobacci, Faccia a faccia. Woody Allen sulle tracce di Ingmar Bergman, Bulzoni, Roma 2004. Le parentele più strette sono forse con Un’altra donna. Fotografato da Sven Nykvist e scritto su misura per Gena Rowlands, Un’altra donna racconta il viaggio interiore di una cinquantenne che abbandona il rifugio del proprio ego per aprirsi, lentamente, alla vita che la circonda. 4 Ingmar Bergman in John Reilly, The Image maker, John Knox Press, Richmond 1971, p. 44. 5 Ivi. 6 Quelle con Fanny e Alexander sono solo le corrispondenze più evidenti instaurate dal film con il resto della produzione bergmaniana. I personaggi di Isak ed Evald anticipano anche i duetti padre-figlio di Come in uno specchio (David-Minus) e Sarabanda (Johan-Erik), e replicano posture e toni di un personaggio di Un’estate d’amore, lo zio di Marie, colui che invita la ragazza a erigere un muro attorno a sé per proteggersi dall’aggressione della vita. 7 «L’onnipresenza della famiglia in Fanny e Alexander – scrive Aumont – è la spiegazione di quell’antica e commovente immagine» (Jacques Aumont, Ingmar Bergman. «Mes films sont l’explication de mes images», Éditions Cahiers du cinéma, Paris 2003, p. 27). 8 Cfr. Denis Vasse, L’ombilic et la voix. Deux enfants en analyse, Seuil, Paris 1998. 9 «Marianne rianima la vita abortita del vecchio: la scena di Isak che si piega sulla culla vuota è l’espressione dell’imminente apparizione del suo vero volto» (Sylvain Roux, La quête de l’altérité dans l’œuvre cinématographique d’Ingmar Bergman, L’Harmattan, Paris 2001, p. 138). 3
Antologia critica
Peter John Dyer In un’epoca in cui tolleranza, bontà e sicurezza sono sparite dalla vita, quando la fede è ai livelli più bassi della sua storia, non sorprende che la ricerca senza pausa di un regista non commerciale come Bergman abbia un impatto unico nel panorama cinematografico. Non c’è nessuno come lui. È crudelmente a-sentimentale, eppure mostra i sentimenti umani nella loro profondità. Possiede lo stupore estasiato del poeta, eppure è pienamente conscio del mondo confuso e borghese che lo circonda. Si aggrappa alla gioventù e alla vita, eppure resta ossessionato dalla vecchiaia e dalla morte. È austero, eppure accessibile; acclamato, eppure solo; colto, eppure selvaggio. E Il posto delle fragole ci rimanda più forte che mai a questi paradossi. Wild Strawberries, «Films and Filming», vol. 5, n. 3, dicembre 1958.
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Eric Rohmer Tutte le immagini sono caratterizzate da un tocco di irrealismo, senza perdere però di credibilità. Bergman evita in modo superbo lo scoglio del cinema soggettivo. Distrugge la convenzione del passaggio all’immaginario sovrapponendogli un’altra convenzione: appaiono sullo schermo non presente e passato, ma due specie di passato, più o meno lontane, entrambe purificate di tutto ciò che è esterno alla meditazione del vecchio. «Arts», 22 aprile 1959.
Ferydoun Hoveyda Se dovessi paragonare Il posto delle fragole a un altro film, sceglierei Il settimo sigillo. Ma le differenze sono evidenti. La ricerca di Isak Borg sovrastruttura non più un’allegoria ma un ritratto psicologico di un genere nuovo, almeno in campo cinematografico. All’analisi di tipo proustiano si aggiunge la ricostruzione, alla maniera di un Joyce, dell’unità sintetica di un’affettività, attraverso un ricorso costante agli strati profondi della personalità. In questo senso considero Il posto delle fragole il più originale dei film dell’autore. L’abbandono dei flash-back a profitto dell’utilizzo sistematico del sogno costituisce l’audacia più evidente del film. Con Il posto delle fragole Bergman tenta un’esperienza: abbandonando la strada abituale della psicologia cerca di adattare al cinema il metodo metapsicologico. Il suo personaggio non sarà più solamente ciò che appare ma soprattutto ciò che nasconde nel profondo del suo
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mondo psichico. Tutta questa parte rimossa dell’individuo, tutto questo mondo segreto che ognuno porta dentro di sé, riappare nel linguaggio speciale del sogno. Trasformandosi in vero psicanalista, Bergman sonda l’inconscio del suo personaggio. Chiunque sia un po’ familiarizzato con la psicanalisi ritroverà nel film l’arsenale dei simboli onirici repertoriati da Freud: lo stagno, la scala, il chiodo che ferisce, le strade deserte, le case abbandonate, i corridoi, l’orologio senza lancette ecc. Tutto respira la soggettività qui, non soltanto i sogni, ma anche la realtà. Il posto delle fragole è il film della soggettività totale, è insomma un racconto cinematografico alla prima persona singolare che non ha bisogno di aggrapparsi alla tecnica di quella che chiamiamo inquadratura soggettiva. Le plus grand anneau de la spirale, «Cahiers du cinéma», n. 95, maggio 1959.
Jean Béranger I riferimenti al patrimonio culturale delle epoche precedenti sono costanti. E Bergman non si nasconde quando dichiara: «Con un’amara tristezza offro tutto quello che possiedo e quello che posso acquistare o rubare». Il vecchio professore di medicina de Il posto delle fragole raggiunge l’ora della sua verità percorrendo in auto (e al contempo nel pensiero) i diversi luoghi dove ha trascorso l’infanzia, l’adolescenza e alcune tappe della sua maturità. Per fare questo prende la stessa strada scelta da Proust, con la sua madeleine inzuppata in una tazza di tè, e da Welles,
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con la scritta Rosebud leggibile sulla slitta da bambino del cittadino Kane. Da un punto di vista strettamente biblico, questo professore si chiama Isak, e poi apprendiamo che la sua fidanzata del passato si chiamava Sara. Ma quando compare, in sogno, davanti a un esaminatore che gli pone una serie di domande assurde, abbandoniamo ogni sfondo cristiano per penetrare, senza alcuna controparte, nell’universo ultra-moderno e folle di Kafka. Ingmar Bergman et ses films, Le Terrain Vague, Paris 1960.
Antonio Napolitano Non siamo qui di fronte a un mero panteismo, ma ci sembra che Bergman avverta e trasmetta quel disagio della civiltà moderna, quel senso di equilibrio instabile che, come spiegava Freud, era dovuto soprattutto alla forte menomazione della vita istintiva e degli stessi impulsi erotici che sono tradotti in impulsi di morte. Da questo punto di vista i dialoghi più indicativi e più «suoi» assumono il carattere di dibattiti drammatici. Quando nel professor Borg de Il posto delle fragole si metterà in moto il processo di autocoscienza mediante il quale egli ritroverà un ponte verso gli altri, gli torneranno in mente i versi di un’antica poesia: «Ovunque una forza si svela un fiore profuma una spiga si piega in ogni sospiro che tiro nell’aria io trovo il suo amore». Ed è per questo che egli sarà dalla parte della nuora, cui il figlio del professore ha rimproverato: «Tu hai uno stramaledetto bisogno di essere viva, di essere nella vita, di
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creare la vita». L’aver accettato l’accusa di egoismo sarà per Isak l’unica possibilità di rigenerazione. La sua vera laurea honoris causa sarà appunto la lode che gli faranno i giovani autostoppisti: «Che egli sa tutto della vita e ha imparato a usarla». Proprio da quando ha saputo di «essere morto sebbene viva» Isak Borg si è salvato e ha recuperato la coscienza delle «essenze-valori». Dal settimo sigillo alle soglie della vita, «Cinemanuovo», n. 151, maggio-giugno 1961.
Eleanor Mc Cann Si tratta di un melodramma? Lo schematismo è più verboso che pieno di senso? Non necessariamente, sebbene le esplosioni di retorica possano essere sia una distrazione che una rivelazione nei confronti del conflitto esistenziale narrato. E Bergman può essere ambiguo o fallace nella scelta dei suoi simboli. Per esempio, il chiodo che ferisce la mano di Isak è sembrato un errore, a meno che Bergman non costruisca Cristo come una vittima della sua stessa bontà d’animo. Un conflitto sotterraneo tra simboli in contrasto tra di loro e simboli che si presentano sotto falsa identità deve colpire anche il cuore e il cervello più resistente, e gli spettatori potrebbero identificarsi con i personaggi sofferenti per ragioni sbagliate. In particolare, l’episodio della moglie di Alman è tanto una trappola quanto una spiegazione di quello che sarebbe potuto accadere. Eppure gli estimatori di Bergman trovano che la sfida valga lo sforzo. Possono prendere la retorica così com’è oppure abbando-
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narla, ma sono attratti dal richiamo dell’eterno conflitto e dall’allusione a ciò che sembra eterno, caldo e dolce. The Rethoric of Wild Strawberries, «Sight and Sound», vol. 30, n. 1, inverno 1960-1961.
Guido Aristarco Bergman ne Il posto delle fragole mostra di prediligere il monologo interiore, il concetto di tempo bergsoniano, il surrealismo, i sogni, le associazioni e dissociazioni di pensiero. E in questo ambito sono esatte le citazioni e i rimandi: Proust, Joyce, Faulkner. Dalla critica francese, così tesa e incantata ai richiami della moda esistenzialista, si è fatto talvolta, è vero, anche il nome di Kierkegaard. Ci sembra tuttavia che al buon ascolto non sia seguita una precisa concatenazione di ragionamenti, o quanto meno di conclusioni critiche, che comportano limiti di natura artistica, morale e storica. Il mestiere del critico, Mursia, Milano 1962.
Robin Wood Il tema de Il posto delle fragole, incarnato dalle successive generazioni dei Borg, è la morte-nella-vita, l’atrofia emotiva e spirituale. Non è un tema semplicemente riscontrato, ma anche sviluppato. Lo vediamo nella anziana e riverita madre di Isak (Naima Wifstrand), simbolo di una durezza d’animo compiaciuta, mascherata nel realismo dell’aspet-
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to disilluso. I figli la visitano solo quando vogliono chiederle soldi. Le reliquie del passato, le fotografie, sono solo spazzatura. La sua esistenza è una specie di prigione spirituale. Lei non troverà mai comprensione e serenità, cose invece che Isak acquista durante il film. Nessuno le ha parlato di come lei è. Bergman ce la fa vedere come la bella e vecchia signora secondo la convezione borghese e allo stesso tempo noi siamo consapevoli della sua durezza. Come lo zio di Marie in Un’estate d’amore ella non muore: sia gli uomini che le donne sembrano aggrappati alla vita in un estremo sforzo di volontà. Isak, al contrario, può ancora redimersi. La facciata protettiva dell’autocompiacimento e quella coerenza verso se stesso che preclude il contatto spirituale con il prossimo possono in questo caso essere spazzate via. Marianne gli dice cose che nessuno ha detto a sua madre: lei rappresenta un aspetto della crudeltà di Bergman. In Evald vediamo che questa condizione spirituale, trasmessa dalla vecchia, ha raggiunto un alto livello di consapevolezza: se Evald sembra il più tormentato dei Borg, questo è il segno che lui ha la possibilità più ampia di rompere il suo isolamento. Ingmar Bergman, Movie Paperbacks, London 1969.
Sergio Trasatti Il posto delle fragole è un film della nostalgia per la giovinezza, l’estate che è passata e che non potrà più tornare. È un film sugli affetti come valore primario della vita. La costruzione è perfetta, l’intrecciarsi di realtà, sogni e ricordi è
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dato da una sceneggiatura rimasta come un classico della storia del cinema. A differenza di molti altri film di Bergman qui è tutto lineare, nulla è oscuro. I pochi simboli sono chiarissimi, a cominciare dall’orologio senza lancette che indica la fine del tempo […]. L’itinerario dal primo incubo al rassicurante sogno finale è quasi un inno alla vita e una esortazione a capirne la bellezza nel rapporto con gli altri. Quanto al problema religioso esso è sfiorato con delicatezza, ma Bergman non rinuncia a una lezione sull’amore come momento di soluzione di ogni crisi, anche intellettuale. Il posto delle fragole è anche un film sul tempo, sul cambiamento, sulla paura, sulla maschera. Il tempo è protagonista del racconto sia nel confronto tra le diverse epoche presentate, sia nel contrasto tra le generazioni. Il cambiamento, uno degli incubi di Bergman, è un fattore positivo nella metanoia del protagonista, ma negativo nel rivelarsi delle crisi di coppia […]. La paura è presente nel bambino che Sara toglie dalla culla per consolarlo. Il bimbo che piange in riva al mare, esposto ai venti e alle intemperie, è l’uomo bergmaniano in crisi che troviamo in tutti i film. Ingmar Bergman, Il Castoro, La Nuova Italia, Firenze 1991.
Sergio Arecco Il vecchio Isak Borg, come poi imparerà a fare il giovane Alexander, incarna col suo passo incerto ma in realtà infallibile da revenant la logica illogica del sogno senza leggi e distinzioni – per cui il sogno a occhi aperti, l’allucinazione e la rêverie di Isak non sono tra loro morfologicamente inassimi-
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labili come lo sarebbero nella psicanalisi – di quel sogno che per il cineasta Bergman è la visione permanentemente doppia, bifronte, fungibile delle cose e delle persone, maschere perpetue di quella perpetua mascherata che è la vita e conseguentemente il cinema, il quale della vita è simulacro. Per questo anche il visionario Isak, che è sempre presente alle sue visioni e quindi complice sempre attivo dei loro sviluppi, può dirsi adepto – e tra i più illustri – di quella grande troupe di visionari che popola il cinema di del regista. Come chiamarlo, quello de Il posto delle fragole? «Cirkus Borg». […] Sulla carrozza del Cirkus Borg vengono a trovarsi a un certo punto ben sette girovaghi, titolari di ben tre tipi di spettacolo: lo spettacolo tutto finte scaramucce e finti alterchi dei tre giovani in spavalda e incontenibile vacanza, lo spettacolo tutto ingiurie e sadismi della coppia assai bene addestrata al gioco perverso della vita coniugale, lo spettacolo tutto consapevolezza e senso di responsabilità della coppia Borg, garante in prima persona del buon andamento del viaggio e della varia, circense umanità che lo anima. Ingmar Bergman. Segreti e magie, Le Mani, Genova 2000.
Enrico Terrone Le quartine di Wallin esprimono un inno appassionato alla bellezza e alla sensualità della natura quale creazione di Dio: «Vedo le Sue tracce qui nel potere della natura»; «Quanto luminosa può essere la sorgente di questo riflesso». L’atmosfera conviviale, la quiete serena del lago, l’ebbrezza del vino, la purezza della luce sembrano fornire un equiva-
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lente visivo al sentimento panico della vita che domina i versi recitati. Ma in Bergman l’adesione a questo stato di grazia non può mai essere assoluta, cioè sciolta dai lacci e dai tarli dell’intelletto, che vede «le tracce» ma dubita che queste tracce possano portare da qualche parte, che vede il «riflesso» ma dubita che ci sia una sorgente di questo riflesso. L’intuizione del carattere sublime del piacere estetico e della dimensione gnostica della bellezza (della musica, della natura, del volto femminile) si accompagna sempre alla consapevolezza dell’impurità e dell’imperfezione di queste forme sensibili, che non è soltanto legata al loro essere temporali ed effimere, ma intrinseca al loro rimandare comunque a qualcos’altro, a un altrove che sembra possedere la loro verità ma che non si dà mai come tale. Così Bergman non può arroccarsi nella condizione pessimistica e privilegiata dello spettatore disinteressato che guarda al mondo sensibile con disinganno e disprezzo, ma neanche abbandonarsi ciecamente alla felicità e all’ebbrezza del «sì» alla vita e del carpe diem. Al cuore del suo cinema si trova l’impossibilità dell’indifferenza: sia nei confronti del carattere intenso dell’esperienza della natura e della vita che culmina nella bellezza, sia nei confronti del carattere critico e inquietante della riflessione culturale nei suoi risultati più profondi. Il cinema è, per Bergman questa stessa impossibilità dell’indifferenza: sempre rimandato alla realtà, in quanto meccanismo riproduttivo, ma anche essenzialmente legato al pensiero, in quanto dispositivo linguistico. Il posto delle fragole, «Segnocinema» n. 112, novembre-dicembre 2001.
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Eithne O’Neill Sfolgoranti, le tre componenti de Il posto delle fragole, ovvero la pratica dello spettacolo, la permanenza dell’angoscia e il ricordo, sono a monte e a valle i fari del regista. Inoltre, costui è cosciente della loro parentela. Riprendendo il regalo che Mia fa assaggiare al cavaliere de Il settimo sigillo, reinserendo il motivo del frutto presente già in Un’estate d’amore ed echeggiando il lirismo di Peer Gynt che aveva appena diretto a teatro, Bergman chiude la prima parte del suo lavoro. Il posto delle fragole prefigura la saga familiare di Fanny e Alexander che, venticinque anni dopo, mette fine all’opera. I pannelli di art nouveau scandinava circondano gli Ekdahl, attori inscatolati in mise en abyme prodigiose. Rivestimenti di legno che vengono dalla sala da pranzo di Isak Borg. Isak si riconcilia con la Donna tramite un’autostoppista. Evocazione del nipote diventato ragazzo, nonna Helena Ekdahl confida al suo amante fedele: «Sei stato il più delizioso degli amanti, come le fragole selvatiche». Sinfonia a colori, Fanny e Alexander è una Nave dei folli sulla quale si aggrappano le istituzioni. In filigrana esse si profilano già nel film del 1957, con in premio il cattolicesimo! Matrimonio, famiglia, religione, professioni liberali, mestieri, ambizioni studentesche: gli attori hanno i loro rappresentanti. La convenzione degli album di foto lega i due film. Al filantropo garagista, sposa ed embrione rendono omaggio. I suoi convivi apprezzano la sua recita della poesia (Wallin). Secondo i riti della giurisprudenza, però, colui che è onorato è poi giudicato inadempiente.
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Fanny e Alexander culla, Il posto delle fragole ossessiona. Le fragole sono selvatiche? Il conflitto è sessuale. Due fratelli innamorati della stessa bella faccina. La costellazione triplice del gioco dell’amore risplenderà. Un trio di oscuri antenati affida ai posteri la propria Angst. Les fraises sauvages: «Je vais te montrer quelque chose», «Positif», nn. 497-498, luglio-agosto 2002.
Appendice
Lettera di Erik Bergman a Victor Sjöström Caro Victor Sjöström! Permetta a me, padre di Ingmar, di rivolgerle i miei più rispettosi e accorati ringraziamenti per sua brillante performance nell’ultimo film di Ingmar. E grazie per tutto quello che lei ha dato a Ingmar, a me e innumerevoli altri spettatori attraverso la nobile maestria e l’ispirazione spirituale della sua intera opera. Ricorderò sempre con gratitudine le parole amichevoli e incoraggianti che lei rivolse a Ingmar quando lui era ancora molto giovane e io pieno di dubbi e incertezze. Mia moglie si unisce nell’esprimerle i nostri più calorosi ringraziamenti. Con rispetto il vostro Erik Bergman 4 gennaio 1958
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Dattiloscritto della sceneggiatura originale di Il posto delle fragole.
Nota bibliografica
Nella selezione del materiale sono stati privilegiati, tra i titoli non tradotti in italiano, quelli editi in lingua inglese, francese e tedesca. Per una bibliografia più esaustiva, anche se non aggiornata, si rinvia al citato Ingmar Bergman. A Guide to References and Resources di Birgitta Steene (1987). Per tutto ciò che concerne appunti di lavorazione, documenti, testi inediti è ora possibile consultare l’archivio privato di Ingmar Bergman presso la Ingmar Bergman Foundation (Stoccolma).
Sceneggiatura BERGMAN Ingmar, Quattro film. Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto, traduzione di Bruno Fonzi, Giacomo Oreglia, Einaudi, Torino 1961. BERGMAN Ingmar, Les fraises sauvages, découpage integrale e dialoghi in extenso, «L’Avant-Scène du Cinéma», nn. 331-332, luglio-agosto 1984. BERGMAN Ingmar, Il posto delle fragole, traduzione di Renato Zatti, Iperborea, Milano 2003.
Scritti di Ingmar Bergman con riferimenti a «Il posto delle fragole» BERGMAN Ingmar, Lanterna Magica, Garzanti, Milano 1990. BERGMAN Ingmar, Immagini, Garzanti, Milano 1992.
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INGMAR BERGMAN. IL POSTO DELLE FRAGOLE
Volumi su «Il posto delle fragole» FRENCH Philip, FRENCH Kersti, Wild Strawberries, BFI Film Classics, London 1995.
Principali volumi su Ingmar Bergman con studi o capitoli su «Il posto delle fragole» SICLIER Jacques, Ingmar Bergman, Éditions Universitaires, Paris 1960. BÉRANGER Jean, Ingmar Bergman et ses films, Le Terrain Vague, Paris 1960. BÉRANGER Jean, GUYON François D., Ingmar Bergman, Premier Plan, Lyon 1964. NELSON David, Ingmar Bergman: The Search for God, Boston University Communications-Art Division, Boston 1964. CHIARETTI Tommaso, Ingmar Bergman, Canesi, Roma 1964. MAISETTI Massimo, La crisi spirituale dell’uomo moderno nei film di Ingmar Bergman, Centro Comunitario di Rescaldina, Varese 1964. DONNER Jörn, Il volto del diavolo, Cineforum, Venezia 1964. OLDRINI Guido, La solitudine di Ingmar Bergman, Guanda, Parma 1965. RANIERI Tino, Ingmar Bergman, La Nuova Italia, Firenze 1974. KAMINSKY Stuart, HILL Joseph F. (a cura di), Ingmar Bergman: Essays in Criticism, Oxford University Press, New York 1975. MICHALCZYK John J., Ingmar Bergman ou la passion de l’homme d’aujourd’hui, Éditions Beauchèsne, Paris 1977. BERGOM-LARSSON Maria, Ingmar Bergman and Society, A.S. Barnes, South Brunswick 1978. KAWIN Bruce, Mindscreen: Bergman, Godard, and the First-Person Film, Princeton University Press, Princeton 1978. LANGE-FUCHS Hauke (a cura di), Der frühe Bergman, Amt für Kultur, Lübeck 1978. MARION Denis, Ingmar Bergman, Gallimard, Paris 1979. MOSCATO Alfonso, Ingmar Bergman: La realtà e il suo «doppio», Edizioni Paoline, Roma 1981. MOSLEY Philip, Ingmar Bergman: The Cinema as Mistress, Marion Boyars, London-Boston 1981.
NOTA BIBLIOGRAFICA
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Principali saggi e articoli su «Il posto delle fragole» BÉRANGER Jean, Le rêve d’Ingmar, «Cinéma 58», n. 31, novembre 1958, pp. 13-23. DYER Peter John, Wild Strawberries, «Films and Filming», n. 3, dicembre 1958, p. 24. ARCHER Eugene, «Film Quaterly», n. 1, inverno 1959, pp. 46-47. CAVANDER Kenneth, Wild Strawberries, «Sight and Sound», n. 3, inverno 1958-59, p. 35. ROHMER Eric, Les fraises sauvages, «Arts», 22 aprile 1959. DE BARONCELLI Jean, Les fraises sauvages, «Le Monde», 21 aprile 1959. TAILLEUR Roger, Les fraises sauvages, «Positif», n. 31, novembre 1959. MAC CANN Eleanor, The Retoric of Wild Strawberries, «Sight and Sound», n. 1, inverno 1960-61, pp. 44-46. NAPOLITANO Antonio, Dal settimo sigillo alle soglie della vita, «Cinemanuovo», n. 151, maggio-giugno 1961, pp. 210-214. STEENE Birgitta, Archetypal Patterns in Four Bergman’s Screenplays, «Scandinavian Studies», vol. 37, n. 1, febbraio 1965, pp. 56-76. STEENE Birgitta, The Isolated Hero of Ingmar Bergman, «Film Comment», vol. 3, n. 2, primavera 1965, pp. 68-78. BACH Seldon, Discussion of Greenberg’s Paper on Bergman’s Wild Strawberries, «American Imago», n. 1, primavera 1970, pp. 83-89. GREENBERG Harvey R., Rags of time, «American Imago», n. 1, primavera 1970, pp. 66-82. JACOB Gilles, «L’Express», 16 giugno 1975. ERIKSSON Erik, Reflections on Dr. Berg’s Life Circle, «Dedalus», n. 2, primavera 1976, pp. 1-28.
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Principali dichiarazioni, interviste, testimonianze su «Il posto delle fragole» BÉRANGER Jean, Rencontre avec Bergman, «Cahiers du cinéma», n. 88, ottobre 1958. BÉRANGER Jean, Conversations et nouveaux entretiens, in Ingmar Bergman et ses films, Le Terrain Vague, Paris 1960, pp. 83-106. BJÖRKMAN Stig, Bergman on Bergman. Interviews with Ingmar Bergman, Secker & Warburg, London 1973. ANDERSSON Bibi, «American Film», 2, n. 5, marzo 1977. JONES G. William (a cura di), Talking with Ingmar Bergman, Southern Methodist University Press, Dallas 1983. GERHARDT Paul, JONES Derek, BUSCOMBE Edward, Working with Ingmar Bergman, Thames Television-Channel Four Television-British Film Institute, London 1988. OLIVIER R. W., Ingmar Bergman. Il cinema, il teatro, i libri, Gremese, Roma 1999, (con dichiarazioni di F. Fellini, J.-L. Godard, M. von Sydow, W. Allen, P. e V. Taviani, J. Donner, R. Attenborough, E. Scola, E. Josephson, G. Lindblom, A. Kurosawa, W. Wenders, A. Wajda, J. Simon. Traduzione italiana del dossier Ingmar Bergman, «Chaplin», nn. 215-216, 1988). ASSAYAS Olivier, BJÖRKMAN Stig, Conversazioni con Igmar Bergman, Lindau, Torino 1995. WERNER Gösta, Ingmar Bergman parle de Victor Sjöström, «Positif», nn. 497498, luglio-agosto 2002, pp. 15-16. AGHED Jan, Rencontre avec Ingmar Bergman. Accomplir un bon travail d’artisan, «Positif», nn. 497-498, luglio-agosto 2002, pp. 8-14. BERGMAN Ingmar, Souvenirs de Victor Sjöström, «Positif», n. 505, marzo 2003.
Interviste televisive e documentari con riferimenti a «Il posto delle fragole» VON SIVERS Malou, Ingmar Bergman: Reflections on Life, Death and Love with Erland Josephson, trasmesso su TV4 AB Sweden il 5 aprile 2000. NYRERÖD Marie, Ingmar Bergman - 3 dokumentärer om film, Fårö och livet, 2004 (DVD, v.o. sottotitolata in inglese).
NOTA BIBLIOGRAFICA
Siti Internet www.bergmanorama.com www.ingmarbergman.se www.ingmarbergmanfoundation.com
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Indice
7 15 31 45 63 67 83 107 119 137 163 187 199 211 213
Introduzione Identificazione di un autore Il contesto storico-culturale Nascita del film Il film Trama e sinossi La sceneggiatura: struttura e varianti Pruderie? Il verbo, il corpo, il simulacro La solitudine del volto Sfogliare il tempo Alle soglie del reale Antologia critica Appendice Nota bibliografica
Universale / Film G. Cremonini, Stanley Kubrick. L’arancia meccanica F. Vanoye, Jean Renoir. La regola del gioco F. La Polla, Stanley Donen, Gene Kelly. Cantando sotto la pioggia D. Tomasi, Ozu Yasujiro. Viaggio a Tokyo U. Mosca, Sam Peckinpah. Il mucchio selvaggio E. Dagrada, Woody Allen. Manhattan A. Pezzotta, Martin Scorsese. Taxi Driver G. Alonge, Vittorio De Sica. Ladri di biciclette F. Ballo, John Ford. Sfida infernale L. Gandini, Howard Hawks. Scarface D. Buzzolan, George A. Romero. La notte dei morti viventi B. Fornara, Charles Laughton. La morte corre sul fiume F. Prono, Bernardo Bertolucci. Il conformista P. Bertetto, C. Monti, Robert Wiene. Il gabinetto del dottor Caligari G. Cremonini, Stanley Kubrick. Shining G. Frasca, Dennis Hopper. Easy Rider R. Menarini, Ridley Scott. Blade Runner A. Curti, Peter Greenaway. I misteri del giardino di Compton House C.G. Saba, Alfred Hitchcock. La finestra sul cortile S. Murri, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma C. Simonigh, Krzysztof Kieslowski. Film Blu P. Cristalli, Victor Fleming. Via col vento E. Comuzio, Mark Sandrich. Cappello a cilindro R. Menarini, C. Bisoni, Stanley Kubrick. Full Metal Jacket A. Morsiani, John Ford. Sentieri selvaggi F. Marini, Ingmar Bergman. Il settimo sigillo S. Alovisio, Roman Polanski. Chinatown V. Costanzia, Martin Scorsese. Casinò M. Comand, Dino Risi. Il sorpasso G. Gariglio, Wim Wenders. Nel corso del tempo V. Pravadelli, Alfred Hitchcock. Notorious P. Pilard, Stanley Kubrick. Barry Lyndon A. Boschi, Alfred Hitchcock. Intrigo internazionale M. Del Ministro, Alfred Hitchcock. La donna che visse due volte J. Chessa, Jean-Luc Godard. Fino all'ultimo respiro A. Costa, Marco Bellocchio. I pugni in tasca R. Curti, Stanley Kubrick. Rapina a mano armata D. Bruni, Roberto Rossellini. Roma città aperta D. Bruni, Vittorio De Sica. Sciuscià F. Villa, Nanni Moretti. Caro Diario R. Menarini, Nanni Moretti. Bianca L. Malavasi, David Lynch. Mulholland Drive
Finito di stampare nel mese di gennaio 2008 presso Grafiche Ponticelli - Castrocielo (Fr) per conto di Lindau - Torino