Intorno al Sacro Volto. Genova, Bisanzio e il Mediterraneo (secoli XI-XIV). Ediz. illustrata 883179258X, 9788831792585

Studiosi da ogni parte del mondo si mettono sulle tracce del Mandylion, l'icona raffigurante il Sacro Volto del Sal

135 59 190MB

Italian Pages 250 [244] Year 2007

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Table of contents :
Frontispizio
Indice
Premessa
Tavole
Bisanzio, l’Occidente e Genova
L’arte bizantina dopo l’iconoclastia e la datazione dei mosaici nell’abside di Santa Sofia a Costantinopoli
Pittori greci nella chiesa domenicana dei genovesi a Pera (Arap Camıı). Per la genesi di una cultura figurativa levantina nel Trecento
Pisa bizantina. Alle origini del culto delle icone in Toscana
Byzantine icons in Genoa before the Mandylion
Il “Sacro Catino”. Percezione e memoria nella Genova medievale
Giovanni V Paleologo e i genovesi
Una lunga carriera, un breve dogato. Leonardo Montaldo doge di Genova tra il 1383 e il 1384
A Genova tra XIV e XV secolo: icone e reliquie d’oltremare
Il mandylion e l’immagine di Cristo
Note sur la représentation du mandylion dans les églises byzantines de Cappadoce
Holy face, holy script, holy gate. Revealing the Edessa paradigm in Christian imagery
Magic, the mandylion and the letter of Abgar. On a Greco-Arabic amulet roll in Chicago and New York
Un’eco della leggenda del mandylion nell’Islam
Encountering the Resurrection. The Holy Face at the Timotesubani murals
Il mandylion nel Mezzogiorno medievale
Giotto’s portrait of Christ
Il desiderio di “vedere” l’ostia: il Sacro Volto e l’eucarestia
Christ’s dazzling dark face
Postfazione
Identità culturali: Italia, Europa, Mediterraneo
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Intorno al Sacro Volto. Genova, Bisanzio e il Mediterraneo (secoli XI-XIV). Ediz. illustrata
 883179258X, 9788831792585

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COLLANA DEL KUNSTHISTORISCHES INSTITUT INFLORENZ MAX-PLANCK-INSTITUT diretta da Alessandro Nova e Gerhard Wolf

XI

Intorno al Sacro Volto. Genova, Bisanzio e il Mediterraneo (secoli XI-XIV) di Anna Rosa Calderoni Masetti Colette Dufour Bozzo Gerhard Wolf a cura

Marsilio

INTORNO AL SACRO VOLTO. GENOVA, BISANZIO E IL MEDITERRANEO (SECOLI XI-XIV)

In copertina Sciamito con animale alato, dal retro del Santo Mandylion, Genova, San Bartolomeo degli Armeni

Progetto grafico Tapiro, Venezia

© 2007 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia ISB N 88-31 7-9258 Prima edizione: settembre 2007

INDICE

INTORNO AL SACRO VOLTO. GENOVA, BISANZIO E IL MEDITERRANEO (SECOLI XI-XIV)

163

Magie, the Mandylion and the Letter o/ Abgar Glenn Peers

175

Un'eco della leggenda del Mandylion nell'Islam Antony Eastmond

181

Encountering the Resurrection. The Holy Pace at the Timotesubani murals Ekaterine Gedevanishvili

BISANZIO, L'OCCIDENTE E GENOVA

187

Il Mandylion nel Mezzogiorno medioevale Ma rina Falla Castel/ranchi

L'arte bizantina dopo l'iconoclastia e la datazione dei mosaici nell'abside di Santa Sofia a Costantinopoli Massimo Bernabò

209

Giotto's Portrait of Christ ]ulian Gardner

223

Il desiderio di "vedere" l'ostia: Il Sacro Volto e l'eucarestia Antonella Capitanzò

231

Christ's Dazzling Dark Pace Herbert L. Kessler

9

Premessa

11

TAVOLE

31

51

Pittori greci nella chiesa domenicana dei Genovesi a Pera (Arap Camii) Stephan Westphalen

63

Pisa bizantina Michele Bacci

79

Byzantine Icons in Genoa before the Mandylion Robert 5. Nelson

POSTFAZIONE

93

Il Sacro catino Rebecca Muller

105

Giovanni v Paleologo e i Genovesi Sandra Origone

117

Una lunga carriera, un breve dogato Giovanna Petti Balbi

123

A Genova tra xiv e xv secolo: icone e reliquie d'Oltremare Valeria Polonio

IL MANDYLION E L'IMMAGINE DI CRISTO

137

Note sur la représentation du Mandylzòn dans les églises byzantines de Cappadoce Catherine ]olivet-Lévy

145

Holy Pace, Holy Script, Holy Gate Alexei Lidov

247

Identità culturali: Italia, Europa, Mediterraneo Salvatore Settis

PREMESSA

Genova e il Mandylzòn sono i due centri di gravitazione di questo libro. Non si tratta , però, di un ulteriore contributo sul Sacro Volto, la famosa immagine-reliquia arrivata in questa città nel tardo Trecento per diventare il suo Palladio nei secoli successivi. I saggi di questo volume seguono piuttosto le strade del Mandylion: quelle del presunto archetipo bizantino, che secondo la leggenda non fu fatto da mano umana, quelle delle sue copie, e infine quelle della preziosa replica giunta a Genova come dono imperiale o pegno di credito. Infatti, i viaggi del Mandylion diventano guida in un percorso che vuole tracciare alcuni temi fondamentali dell'interscambio storico-artistico e storico-culturale mediterraneo nel Medio Evo: la dinamica e la diffusione degli stili paleologhi; la pittura commissionata dalla colonia genovese a Costantinopoli; gli intrecci storici tra gli imperatori bizantini e i mercanti genovesi fino alla caduta dell'impero nel 1453; i miti sacri e i palladi delle città; la ricezione, il culto e la trasformazione delle icone bizantine in Italia; le copie del Mandylion in Cappadocia, Georgia e nel Mezzogiorno italiano; la sua funzione magico-protettiva e lo spazio sacro che crea; l'eco del Mandylion nelle cronache islamiche del1'Anatolia e infine la riflessione sopra il divino che si concede e si sottrae alla rappresentazione nella pittura occidentale al tempo di Giotto e oltre. In tale prospettiva il volume affianca il catalogo della mostra "Mandylion. Intorno al Sacro Volto, da Bisanzio a Genova", curata nel 2004 da coloro che firmano questa introduzione. La mostra fu concepita come un doppio viaggio: uno all'interno dell'oggetto, che partiva dalla cornice seicentesca, attraversava quella bizantina con le sue dieci formelle che raccontano la leggenda del Mandylzòn, arrivava al suo interno presentando separatamente i diversi reperti fino a mostrare la tavola col volto scuro di Cristo e i tessuti incollati sul retro: lo sciamito con il cavallo alato del x-xI secolo e il lampasso con l'ornamento 'a melagrana' del Cinquecento. Nello stesso momento il percorso espositivo permetteva di seguire il viaggio del Mandylion stesso tra leggenda e realtà storica: l'arrivo a Gerusalemme dell'ambasciatore di Re Abgar, malato di lebbra, per invitare Cristo a recarsi nel suo regno o almeno per avere una sua immagine, l'impossibilità di ritrarre il Salvatore, Cristo che scrive una lettera ad Abgar e si asciuga il volto con un panno sopra cui rimane l'impronta iconica del suo viso, appunto il Mandylion, la sua traslazione a Edessa dove guarisce il re, i vari miracoli, come la caduta degli idoli o la vittoria contro i Persiani, infine la traslazione a Costantinopoli documentata dalle fonti per l' anno 944 e l'arrivo di un Mandylion a Genova. Certamente quest'ultimo non va identificato con l'originale già nel Palazzo imperiale, perduto durante l'occupazione latina dopo il 1204 (forse fu portato in Francia o a Roma), ma di una replica più tarda "autenticata" dalle misure e dall'impostazione del volto. Nella mostra, il doppio viaggio si coniugava con il doppio incontro: quello del Mandylion genovese con un dittico del x secolo proveniente dal monastero di Santa

Caterina sul Monte Sinai legato alla traslazione del 944, generosamente prestato in occasione dell'esposizione, e l'altro con le opere di ambito bizantino conservate a Genova. Riassumendo si potrebbe dire che il pezzo più antico e se si vuole più autentico dello "scrigno" genovese è lo sciamito di seta col leggendario animale alato, che richiama il famoso Semiurgh, di origine sassanide, emulando i modelli persiani. Nella copertina di questo volume quest'immagine ibrida funge da simbolo per i grandi processi di scambio intorno ai quali ruotano i diversi saggi. Sebbene tornino alcune delle illustrazioni presenti anche nel catalogo della mostra, il volume consiste in un'opera del tutto autonoma. Si basa su un convegno tenutosi nel maggio del 2004 a Genova con lo scopo di tracciare le linee generali in cui si colloca la storia del Mandylzòn di San Bartolomeo degli Armeni. Dalla struttura bipolare dell'impresa nasce la divisione del volume in due parti: la prima presenta saggi storici e storicò-artistici che studiano i rapporti tra Bisanzio e l'Occidente, Genova e Pisa soprattutto, dall 'xi al xv secolo; la seconda si concentra sul Mandylion e il volto di Cristo in una prospettiva comparata che include uno sguardo all'Islam da un lato e alla tradizione latina medievale dall' altro, tra cui la diffusione del Mandylzòn nel mondo bizantino e postbizantino si rivela un argomento ricco e articolato, fino a oggi non del tutto esplorato dalla letteratura critica. I campi tematici e metodologici che i saggi di questo volume sviluppano intorno ai due epicentri, hanno permesso di aprire un orizzonte ampio verso lo studio del Mediterraneo medievale, senza perdersi nel mare aperto delle sue infinite interferenze culturali e religiose. Consideriamo il libro frutto di un esperimento che ci ha portati al progetto CantiMed (Cantiere Mediterraneo), un 'impresa congiunta del Kunsthistorisches lnstitut - Max -Planck-lnstitut di Firenze, l'Università di Genova, il Museo del Mare di Genova e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Infatti siamo particolarmente grati a Salvatore Settis, che aveva aperto i lavori del convegno genovese con una conferenza sul futuro del classico, di averci concesso un contributo sulle identità culturali europee e mediterranee come postfazione per il libro, delineando perfettamente lo spirito di "apertura e tolleranza" che nutre anche questa collaborazione internazionale. I curatori esprimono la loro gratitudine e i loro più vivi ringraziamenti a Francesca Dell'Acqua, che ha proweduto a un'attenta lettura iniziale dei diversi saggi, e ad Annette Hoffmann, che ne ha compiuto un'accurata revisione finale; a Jana Graul, Susanne Pollack, Martha Zan per il loro contributo al reperimento e alla valorizzazione delle immagini, spesso di difficile acquisizione; a Gianluca Ameri per l'intelligente e costruttivo lavoro sulle bozze di stampa e per il costante ruolo di coordinatore fra gli autori, i curatori, l'editore. ANNA ROSA CALDERONI MASETTI COLETTE DUFOUR BOZZO GERHARD WOLF

9

TAVOLE

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I.

Le pecore e i guardiani di Giobbe uccisi dal fuoco celeste, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, cod. gr. 538, c. 16r

II.

Madonna col Bambino "aristerokratousa", ca. 1260-1270, Pisa, San Frediano

15

III.

Madonna di sotto gli organi, ca. 1200, Pisa, Duomo

16

I\: \'irgin and Child with Sts. Nicholas and Lawrence, ca. 1312, Genoa, San Lorenzo, portale di San Gottardo

r7

V Triptych on th e north wall, ca. 1312, Genoa, San Lorenzo

18

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Man of Sorrows, Rame, Santa Croce

19

VII. Sacro Catino,

secoli I-IV o secoli X-XI, Genova, Cattedrale, Museo del Tesoro

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Four scenes of the legend of King Abgar, Menologion, 1063, Moscow, State Historical M useum, Cod. Syn. gr. 183 (Vlad. 382)

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11. David, Ms. 125, 14 1h century, University of Chicago, illustrative unit 7

12. Suleyman's Queen 's Idol, 1388, Paris, Bibliotheque Nationale de France, Suppl. Pers. 332, c. 165a

lower horizontal frame. The Arabic contains the same messages as the Greek inscriptions. The dimensions also seem to imply that the painter Stephen made these icons at Sinai, as one would assume that the wood would be transported into the monastery and then assembled as panels and then painted. This scenario is the likeliest, I believe, and it shows that extraordinarily fine work could be done at that remote site and that care was taken to preserve the messages in the significant languages of the Melkite church. Now equally telling is the presence of figuration , beyond the bilingual nature of the icons, and it is worth addressing the use of figural images as another aspect of Christian identity, especially as perceived in the Muslim east. For the tradition of painting portraits of the prophets was an ancient one, according to Christian and Muslim traditions both. The Chest of Witnessing is a tremendously rich Muslim tradition, for instance, in which medieval writers described the foundation of portraiture at God 's hand 20 . In this tradition, Adam asked God for renderings of all the prophets among his progeny, and God produced a set of painted panels, which were placed in a special case; the originals disappeared at some unknown time, but copies were made at the hand of the prophet Daniel. Much later, follow-

ers of Muhammad visited the court of Heraclius to convince the Byzantine emperor of the error of the Christian Romans, and they were amazed when they were shown the Chest of Witnessing as the final portrait was of Muhammad himself2 1. I know of no depictions of the Chest, but the tradition does show a special prestige for portraiture among Muslims, as well as a competitive art-historical sense, for the Chest of Witnessing shows God as painter and delineator of sacred history. Muslim views of images and their revelatory power are, therefore, complex and not so divergent from Christian views in their essential concerns. The truth in painting, as it were, was a point of contention, and the scene from Tusi's Book of Wonders from 1388 shows the stigma attached in his view to unseemly attention to pictures (fig. 12) 22 . Here the painter showed Suleyman and his wife before the shattered portrait of her father, to which she had been too attached. Idolatry is a distinct danger when one is tricked by painting's illusionism. In another, related tradition, the false prophet Mani (216-74/ 77) was held as an example of art used in the service of misleading revelation 23 . He was a formidable figure , who not only wrote but also painted, and according to Tusi again, he depicted the meaning of the cosmos, the sons of lightness and darkness, in order to

MAGIC, THE MANDYLION AND THE LETTER OF ABGAR

13. Seljuk Bowl with Shaikh and Christian Woman, ea. 1200, Washington, Freer Gallery

convert new followers. In a tradition dating back to Ephraim the Syrian in the fourth century, Mani had painted his revelations on a roll, which appears to have survived till the late eleventh century. Both Christian and Muslim convention upheld Mani as the paradigm of the misuse of painting, exemplified by his own painted roll. Let me try briefly then to place the Chicago -Morgan roll into this context of medieval art histories - that is, of establishing confessional identities through figural art -, for it seems to me that the roll under discussion was also a kind of response, though indirect, to assertions Muslim theologians and historians were making. The Chest of Witnessing vividly asserted Muhammad as the final prophet through the proof of God making Muhammad's likeness at the beginning of creation. In this tradition, God is maker and prefigurer of his own history of revelation, but just the same he does not figure himself, the unknowable maker with the brush and paints. The Christian roll, obviously, asserts its own history of God's revelation and of his role as artist, as well as special men who comprised the Christian community. The Chicago-Morgan roll most fully argues its position for a divine history of art that not only places Christ at the end of the line of prophets, but also as the

divine maker of his own self-portrait. This Christian paradigm of making likeness establishes the inscription of divine features in our own human faces, whereas the Chest of Witnessing tradition presents God as first artist, not as self-portraitist of humanity. Wrong-headed image making was intimately connected in Muslim minds with Christian identity, witness this bowl from the Freer in Washington D .C. and dated ea. 1200, where the Christian woman on the right seduces the Muslim shaikh (fig. 13 )24 . The scene derives from the story of the Christian woman and Muslim shaikh found in the work The Conference on Birds, by Farid Ud-din Attar (second half of the twelfth century)25 . The beautiful Christian woman reveals her divergence from Islam in her garment freckled with figures. Those figures covering the desired body represent real danger to the shaikh. Idolatry nearly costs him his soul. According to Mohammad Muhsin, writing in the sixteenth century, such images are «Christian breaths» 26 . The Christian rolls implicitly argue their position against such accusations, and the Mandy lion is a key point in the relationship between God and humanity (fig. 14 ). That image asserts paradigms of Christianity: God is like us, he lived amongst us , his protection and presence survives his passing in testimonies and traces left behind, and he made an image that proved all of these beliefs. Moreover, he unambiguously wrote down proof of all these facts, and the roll shows that truth, in the letter and seal of Christ - and I will only mention in passing Muhammad's Seal of Prophethood, the birthmark between his shoulder blades that was inscribed on many Islamic talismansn . It seems to me that the bilingual Melkite identity in art is expressed in the Chicago-Morgan roll in ways that can only be understood as belonging to that confessional context where Islam is a major foil. Figuration , especially divine figuration, is the central concern in such a context, where God's own face and seal, not his prophet Muhammad's, endow Christians with unique signs of presence and protection. • I wish to express heartfelt thanks to Gerhard Wolf and the other organizers for the opportunity to participate in such a memorable symposium. Herbert Kessler provided advice and support when they were needed most. Many thanks, also, to Persis Berlekamp and Leslie MacCoull for stimulating conversation . 1 Byzantium. Faith and Power (12 61-1557), exhibition catalogue, ed. by H.C. Evans, New York 2004 , pp. 438-439, for bibliography. 2 On the general development of the roll in the Middle Ages, see, for example, A. Dzurova, La miniatura bizantina: I manoscritti miniati e la loro dzf/usione, Milan 2001 , pp. 18-20, 184 ; M.T. Kelly, Th e Exultet in Southern Italy , New York/London 1996, pp. 12-29; U. Horak, «Christliches und Christlich-Magisches auf illumierten Papyri, Pergamenten, Papieren und Ostraka. Das pergament P. Vindob. G. 40.204 mit Christus und den vier Evangelisten», in: Mitteilungen zur christlichen Archi:iologie, 1, 1995 , pp. 27-48, as well as W. Brashear, «Magical Papyri: Magic in Bookform», in: Das Buch als magisches und als R epri:isentationsobjekt, ed. by P. Ganz, Wiesbaden 1992, pp. 25-57. 3 Acta apostolorum apocrypha, ed. by RA. Lipsius and M. Bonnet, Leipzig 1891 , pp. 279-283. See also M. Cavana , «Lapide con presunta lettera di Gesu Cristo», in: Mandylion. lntorno a!Sacro ,'alto,

GLENN PEERS

172

14. Mandylion Healing the Paralytic, Ms. M 499, 14 1h century, New York, Pierpont Morgan Library, illustrative unit 13

MAGIC, THE MANDYLION AND THE LETTER OF ABGAR

da Bisanzio a Genova, exhibition catalogue (Genoa, Museo Diocesano, 2004), ed. by G. Wolf, C. Dufour Bozzo & A.R. Calderoni Masetti, Milan 2004 , pp . 68-71; J.B. Segal, Edessa, The Blessed City, Oxford 1970, pp. 62-76; P. Lemerle, Philippes et la Macedoine orientale d l'epoque chretienne et byzantine. Recherches d'histoire et d'archeologie, Paris 1945 , vol. 1, pp. 86-90; C. Picard, «Un texte nouveau de la correspondance entre Abgar d'Osroene et Philippes (MaceJesus-Christ grave sur une porte de ville, doine)», in: Bulletin de correspondance hellen~que, xuv, 1920, pp. 41-69; F. Nau , «Une inscription grecque d'Edesse. La lettre de N.-S. ].-C. Abgar», in: Revue de !'orient chretien, XXI , 19181919, pp. 217 -218; and E. von Dobschiitz, «Der Briefwechsel zwischen Abgar und Jesus», in: Zeitschrzft /iir wissenscha/tliche Theologie, XLIII, 1900, pp. 422-486. 4 See R. Hanna & J. Griffiths, A Descriptive Catalogue of the Western M edieval Manuscripts of St. John's College, Oxford, Oxford 2002, pp. 26-34; F. Wallis, «Medicine in Medieval Calendar Manuscripts», in: Manuscript Sources of Medieval Medicine: A Book of Essays, ed. b y M .R. Schleissner, New York-London 1995 , pp. 126-127, and Eadem, MS Oxford St. John 's College 17. A M ediaeval Ma nuscript in Its Context (Ph.D. diss ., University of Toronto, 1985), pp . 248-250. 5 See A. Ittig, «A Talismanic Bowl», in : A nnales islamologiques, xvm , 1982, pp . 88-90; S. Cammann , «Islamic and Indian Magic Squares», in: History of R eligions, VIII , 1968-60, pp. 181-209, 271-299; T. Canaan, «Arabic Magic Bowls», in: Journ al of the Palestine Oriental Society, xvi, 1936, pp. 79-127; H.H. Spoer, «Arab Magic Medicinal Bowls», in: Jou rnal of the A merican Oriental Society, LV, 1935, pp. 237-56; J. Robson , «Magic Cures in Popular Islam», in: Moslem World, XXIV, 1934, pp. 33-36; and T. Canaan , Mohammedan Saints and Sanctuaries in Palestine [London 1927] , Reprint, Jerusalem 1979, pp. 116-118. Similar patterns are found on surviving fifteenth/sixteenth-century silks in the Topkapi Collection, but those shirts also have the Seal of Solomon, names of caliphs, angels and prophets , in elaborate magical programs intended to protect the wearer. See H . Tezcan , «The Imperial Robe Collection at the Topkapi Palace Museum», in: Silks /or the Sultans: Ottoman Imperial Garments fro m Topkapi Palace, trans. by R. Bragner, Istanbul 1996, pp. 27-28, and also pp . 228-248 for plates. 6 F. Maddison & E . Savage-Smith, Science, Tools and Magic. Part One. Body and Spirit, Mapping the Universe, The Nasser D. Khalili Collection of Islamic Art, vol. xII/ 1, London 1997 , pp. 5971. 7 P.D. Berlekamp , Wonders and Th eir Images in Late Medieval Culture: "Th e Wonders of Creation" in Fars and Iraq, 1280-13 88 (Ph .D. diss., Harvard University, 2003) , pp . 186-194. s Ibid, p . 188. 9 See E. Drioton, «Un apocryphe anti-arien: Le version copte de la correspondance d 'Abgar, roi d 'Edesse, avec Notre-Seigneur», in: Revue de !'Orient chretzen , xx, 1915 -1917 , pp . 306-326 , 337373 . Geza Vermes in his Th e Changing Faces of Jesus, London 2000, p. 222, states that the letter is «devoid of doctrinal content». While this assertion holds true for the first century, naturally the letter contains doctrinal references important for the later Middle Ages. 10 Of course, early skep tics spoke against Christ having written anything at all during his lifetime, which left the door open, naturally, for the "letters from heaven". See H. Leclercq, «Abgar (la legende d' )», in: Dictionnaire d'archeologie chretienne et liturgie, ed. by F. Cabrol & H. Leclercq, Paris 1913-1953 , 1, 1, p. 97. On these letters, see L. Gougaud, «La priere dite de Charlemagne et les pieces apocryphes apparentees», in: Revue d'histoire ecclesiastzque, xx, 1924, pp. 213-216; E. Renoir, «Christ (Lettre du), tombee du ciel», in: Dictionnaire d'archeologie chretienne et liturgie, III , 1, pp. 1534-1546; H. Delehaye, «Note sur le legende de la lettre du Christ tombee du ciel», in: Bulletin de la Classes des lettres et des sciences morales et politzques, Academie royale des sciences, des lettres et des beaux-arts de Belgique, 1899, pp. 171-213; and the texts in A. Vasiliev, Anecdota graeco-byzantina, Moscow 1893, pp. 23-32 .

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UN'ECO DELLA LEGGENDA DEL MANDYLION NELL'ISLAM''' Antony Eastmond

Questo intervento si concentra su un elemento della storia della "creazione" del Mandylion, ed esamina l'eco che di esso viene registrata nei testi sull'arte nel sultanato selgiuchide di Rum alla metà del secolo XIII. Essi ri velano delle rimarchevoli affinità nel dibattito sull'arte entro le due culture, cristiana e islamica, nell'Anatolia medievale. Allo stesso tempo dimostrano quanto radicalmènte differenti siano le interpretazioni date circa l'abilità degli artisti di rappresentare il divino; l'efficacia delle immagini; la relazione tra immagine e prototipo. Il punto di partenza di questa trattazione è il coinvolgimento dell 'artista Anania da parte del re di Edessa Abgar nel tentativo di ottenere da Cristo una cura contro la propria lebbra e artrite. Secondo la leggenda, Abgar inviò il pittore Anania a Cristo con una missiva con la quale gli chiedeva di fargli visita a Edessa al fine di curarlo, oppure, nel caso in cui fosse impossibilitato a venire colà, che Anania potesse dipingere una sua immagine, in modo che Abgar potesse conoscere le fattezze del volto del Salvatore. In alcune, ma non in tutte le versioni della storia, Anania tenta di dipingere un 'immagine di Cristo appena lo vede, ma fallisce , o perché non riesce a fissarne i tratti nella propria mente, o perché viene confuso dallo splendore emanato dal volto santo. Ecco che allora Cristo produce miracolosamente una impronta del proprio volto su un telo - il Ma ndylion. La figura di un artista compare precocemente nei racconti sull'origine del Sacro Volto, come testimonia la Doctrina Addai di origine siriana. Essa afferma semplicemente che per ordine del re Abgar, l'archivista Hanan (questo il nome attribuito al messaggero in tale versione) dipinse un ritratto di Cristo per il re 1• Questa storia sembra essere stata aggiunta al testo nel secolo v, e non fornisce alcuna indicazione sulla natura miracolosa dell'immagine2. Nell'epoca dell'Iconoclastia, comunque, la storia fu emendata al fine di dimostrare ben altro. Gli Atti di Taddeo, uno scritto greco di data incerta3 , e l' Esposizione della fede ortodossa di Giovanni Damasceno, della prima metà del secolo VIII, menzionano l'artista (ora chiamato Anania) dicendo della sua incapacità di rappresentare Cristo. In queste versioni viene attribuito alla difficoltà dell'artista di catturare le reali fattezze di Dio in terra lo spunto a Cristo di sciacquarsi il viso e imprimere miracolosamente la propria immagine su un tel0 4 • Il fallimento di Anania nel raffigurare Cristo non com pare nella versione più autorevole della leggenda, la Narratio de imagine Edessena risalente al secolo x e attribuita a Costantino vn Porfirogenito. Questa semplicemente menziona il fatto che l'artista era sul punto di

eseguire un ritratto di Cristo quando venne convocato dinanzi a lui, che preparò una lettera per Abgar e quindi produsse la miracolosa immagine, dal momento che sapeva, sebbene non gli fosse stato detto, che il re la desiderava5. Le difficoltà affrontate da Anania comunque ricompaiono in versioni alternative della leggenda, quale il Sinassario di Costantinopoli, pure risalente al secolo x, che influenzò le versioni successive del racconto, come il Compendium Historiarum di Giorgio Cedreno, della metà del secolo xn 6 . In seguito queste difficoltà divennero un elemento fisso nella storia del Mandylion. Compaiono, ad esempio, nella seconda scena del ciclo dedicato a illustrare la storia della miracolosa immagine edessena entro la cornice in argento dorato, sbalzato e smaltato del Mandylion conservato presso San Bartolomeo degli Armeni a Genova. Questa cornice venne aggiunta all'icona nei primi decenni del secolo xrv. Alla scena di Anania incapace di raffigurare il volto di Cristo è data particolare rilevanza, essendo quella centrale del lato superiore, direttamente al di sopra del volto di Cristo dipinto su tavola 7 . La difficoltà dell'artista nel catturare le reali fattezze di un personaggio santo, e il resoconto del conseguente intervento divino che rimedia a tale difficoltà - sebbene non sempre chiaro e diretto quale quello di Cristo nella creazione del Mandylion - sono un topos nelle Vite dei santi bizantini. Si conoscono numerose storie a proposito del desiderio di venerare alcuni santi facendo richiesta ad artisti di dipingerne le fattezze, usualmente in ambito privato8 . L'artista fallisce, finché Dio non interviene a produrre la versione finale , autentica, di quei volti. L'icona risultante, quindi, è dipinta sì da mano umana, ma guidata da Dio. Questo è quanto ad esempio, accade nella Vita di San Nikon Metanoietes 9. Lo scopo delle storie è il medesimo: enfatizzare l'importanza delle vere fattezze riguardo l'efficacia delle immagini, a sostegno della teologia iconofila e della necessità assoluta di una identificazione esatta tra rappresentazione e prototipo. Come la storia dell'incapacità di Anania di dipingere Cristo sottolinea la natura miracolosa del Mandylion, lo stesso accade da un punto di vista teologico nel caso di altre immagini dipinte. L'episodio chiaramente emerge in epoca iconoclasta quale contributo alla giustificazione dell 'esistenza di raffigurazioni di Cristo: dal momento che il Salvatore creò la propria immagine, ciò sanziona la presenza e l'uso delle icone. Al contempo, l'incapacità di Anania di cogliere il vero aspetto di Cristo serve a sottolineare la veracità del Mandylion stesso e la sua preminenza tra le immagini eristiche. Esso infatti illustra le autentiche fattezze che nessun artista a\'rebbe

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potuto rappresentare mediante alcun artificio. L' episodio seguente della storia, che parla della creazione del Keramion, attesta la capacità del Mandylion di riprodursi miracolosamente quale copia esatta. Il problema in relazione alla teologia delle icone risiede nel fatto che Anania si era dimostrato incapace di catturare l'immagine di Cristo dal vivo, a causa della divina radiosità che questi emanava. Ciò suggerisce che le rappresentazioni realizzate dagli uomini non siano in grado di fissare i tratti del volto di Cristo, e che quelle non create da mano umana possano essere rispondenti al prototipo. Questo indica una potenziale pecca nella tesi iconofila che le icone di Cristo sarebbero efficaci proprio perché gli artisti sono capaci di dipingere l' esatto e vero aspetto del loro modello reale. Non c'è testimonianza che questo tema sia stato assunto quale argomentazione iconoclastica contro il dipingere le immagini, ed è improbabile che sia mai stato adottato, in quanto avrebbe dimostrato che gli iconoclasti avevano accettato la veracità e l'efficacia del Mandylion. In ogni caso, la presenza di questa vicenda in alcune versioni della storia del Mandylion insidia il valore teologico della moltitudine di immagini raffiguranti Cristo prive di un 'origine miracolosa. E forse per questa ragione che la storia non fa parte della principale versione della leggenda, e ne diventa una sua componente stabile soltanto dopo che la supremazia delle icone è ormai fuori discussione. L'eco della storia dell'incapacità dell'artista di catturare le vere fattezze del santo compare nella Konya selgiuchide alla metà del secolo xm, nel circolo del mistico sufi Jalal al-Din Rumi Mevlana, il fondatore dei dervisci rotanti. Mevlana visse a Konya a partire dal 1228 circa e sino alla sua morte nel 1273; oltre ai suoi numerosi scritti, la sua vita, le sue opere e i suoi insegnamenti vennero registrati da Shams al-Din Ahmet-e Aflaki nel M enaqib al-Are/in (Le abilità di coloro che conoscono Dio) lD. Questo testo venne scritto nel primo secolo xrv, e comprende le vite di Mevlana e dei suoi principali discepoli, ma è chiaramente dipendente dalla tradizione orale di coloro che avevano conosciuto il maestro di persona. Al tempo della morte di Mevlana, Konya - la bizantina Iconium - era la capitale del sultanato selgiuchide da più di mezzo secolo. Le moschee, le scuole coraniche e i palazzi costruiti dai sultani selgiuchidi, in particolare la moschea di Alaeddin completata dal sultano Keykubad r nel 1221, avevano impresso un carattere marcatamente islamico alla città. Sebbene in alcune occasioni venissero reimpiegati spolia bizantini, era senza dubbio diventata un centro islamico. Conservava ancora un'ampia popolazione cristiana, e la tradizione del matrimonio misto tra la famiglia del sultano e quelle dei dominatori dei confinanti stati cristiani, inclusi gli stati bizantini di Nicea e Trebisonda, il regno di Georgia e quello della Cilicia armena, assicurò la presenza di cristiani di alto rango in città, spesso accompagnati da preti e icone. Per molti aspetti i sultani selgiuchidi consideravano il proprio regno quale nuova versione isla-

mica dell'impero bizantino, come si riflette chiaramente nel nome che attribuirono al proprio dominio: il Sultanato di Rum. Il testo di Menaqib al-Are/in contiene numerose testimonianze di questa cultura mista a Konya. In particolare, presenta Mevlana come il fulcro di una straordinaria cultura sincretistica nel cuore dell'Anatolia. Alla morte di Mevlana, Aflaki registra che il suo funerale fu accompagnato non soltanto da musulmani, ma anche da cristiani ed ebrei, i quali non si volevano allontanare nonostante respinti con bastoni e spade, proclamando: «Questo campione della religione è il nostro capo, imam, e guida [ .. . ] noi lo riconosciamo quale Mosé della nostra era, e Gesù del nostro tempo» 11. Ci è stato tramandato che Mevlana abbia passato anche del tempo presso un monastero cristiano nei dintorni di Konya, che si suppone dedicato al filosofo Platone. Le sue azioni di uomo santo sono per molti aspetti confrontabili con quelle dei santi venerati a Bisanzio, poco numerosi nel secolo xm 12 . Egli viene presentato quale asceta che cerca rifugio nel mondo spirituale, ma proprio questo atto gli conferisce l'autorità di intervenire negli affari mondani 13. Da un lato egli era capace di stare immerso sino alla cintola in acqua fredda per una settimana, dall'altro di rimproverare apertamente l'emiro Muin al-Din Solimano Pervane (l'amministratore nominato dai Mongoli ed effettivo reggente del Sultanato di Rum nel terzo quarto del secolo xm) per la sua cooperazione con i Mongoli contro i suoi fratelli musulmani 14 . Mevlana attrasse un gran numero di importanti e influenti sostenitori, tra i quali preminente fu una principessa georgiana di nome Tamar, figlia e nipote di due recenti regine della Georgia che avevano dominato di diritto il paese: Rusudan , al trono tra il 1223 e il 1245, e una omonima Tamar, che aveva retto l'Anatolia orientale tra il 1184 e il 1210. La principessa Tamar era andata dapprima in sposa al sultano selgiuchide Giyath alDin Kaykhusraw II (1237-1245), per via di un'alleanza che legava la Georgia e i Selgiuchidi, ma dopo la morte di questi ella sposò Muin al-Din Sulayman Pervane 15 . Le cronache e vari testi la chiamano universalmente con il suo soprannome turco, Gurji Khatun, la signora georgiana. La condizione che era stata posta al momento del suo matrimonio con Kaykhusraw II era che ella potesse conservare la sua fede cristiana, e i cronisti cristiani ricordano che Tamar si trasferì a Konya con un entourage che includeva preti, monaci e una collezione di icone 16 . A un certo punto, in ogni caso, la situazione dovette mutare, e Gurji Khatun si convertì all'Islam. In base alle fonti georgiane, questa apostasia era stata forzata: la donna era stata percossa da suo marito, che distrusse la sua collezione di icone 17 • Al contrario il Menaqib al-Are/in attesta che la conversione era stata voluta e ispirata soprattutto dalla devozione a Mevlana. A conferma di questa versione, Aflaki registra che Gurji Khatun contribuì alla costruzione della tomba del sant'uomo a Konya. È su questo sfondo, avente come protagonisti principali Mevlana e Gurji Khatun, che può cogliersi un'eco

UN' ECO DELLA LEGGENDA DEL MAN DYLION NELL' ISLAM

della storia del Mandylion. Ricorre nel Menaqib al-A re/ in uno degli aneddoti che attesta la devozione di Gurji Khatun a Mevlana. Ella gli sarebbe stata talmente devota, che non intendeva spostarsi da Konya, dove quegli risiedeva. Allo stesso tempo , in ogni caso, l'astuzia politica che aveva ereditato per linea materna, l'aveva condotta a guadagnare un'ampia influenza sul suo primo marito, il sultano, il quale ne aveva richiesto la presenza durante il viaggio che intendeva condurre a Kayseri (la Caesarea bizantina), in modo da potersi giovare del suo consiglio e del suo sostegno. Al fine di sormontare la separazione dal suo consigliere spirituale Mevlana, Gurji Khatun commissionò a un artista di eseguirne un ritratto 18 . L'artista coinvolto era un greco, cristiano, chiamato 'Eyn al-Dowla, al quale era stato chiesto di ritrarre Mevlana «in una espressione di estrema bellezza» in modo che l'immagine potesse essere a lei di conforto durante il distacco fisico da lui: ['Eyn al-Dowla] rivolse lo sguardo [a Mevlana] e iniziò a ritrarne le fattezze. Disegnò un 'immagine molto graziosa su un pezzo di carta. La seconda volta che gli indirizzò lo sguardo, vide che ciò che aveva notato la prima volta non appariva più lo stesso. Su un altro foglio di carta approntò un secondo disegno. Quando lo ebbe finito , Mevlana si mostrò ancora una volta diverso. Alla fine l'artista ne aveva schizzato le fattezze su venti fogli di carta, dal momento che il volto cambiava di continuo. Pertanto si infuriò, lanciò un urlo e cadde svenuto. Spezzò le sue penne, e, come se fosse privo di forze , si prostrò in terra 19 .

È chiaro dal testo di Aflaki che ciò avvenne dopo la conversione di Gurji Khatun all'Islam, dal momento che egli la descrive come sostenitrice sincera e intima seguace di Mevlana. L'atto di commissionare tale ritratto non reca però i tratti di una mentalità islamica, e dimostra piuttosto quanto profonde fossero le radici cristiane di Gurji Khatun. La storia chiaramente riecheggia la vicenda di Anania e il suo fallito tentativo di ritrarre Cristo. La fonte della storia narrata da Aflaki circa il ritratto di Mevlana non è chiara, sebbene essa debba aver avuto origine in ambito cristiano, dove circolavano appunto storie circa artisti alle prese con il ritratto di uomini venerabili. In ogni caso è possibile che la storia possa aver "viaggiato " con la principessa georgiana dalla sua terra di origine sino a Konya, e che avesse le sue radici nella leggenda del Ma ndylion. La Georgia aveva un antico interesse per il Mandylion . Sebbene la principale traduzione della leggenda in lingua georgiana, a opera di sant'Eutimio e di suo figlio Giorgio, entrambi monaci dell' Athos, non ponesse particolare enfasi sull'origine miracolosa del Mandylion e sulla vicenda di Anania, intorno alla fine del secolo XII il culto del sacro panno era alquanto diffuso 20 . La versione del Mandylion più famosa in Georgia nel corso del Medioevo era l'immagine conservata nella cattedrale di Anchi nella provincia di Tao-Klarjeti (attualmente nel nord-est della Turchia) 21 . Inoltre, una versione del Keramion era ospitata presso il monastero di Martqopi,

a nord-ovest di Tbilisi. L'immagine di Martqopi è andata perduta, ma la A nchiskhati (l'icona di Anchi), è tuttora conservata presso il Museo Statale d'Arte della Georgia a Tbilisi. È solitamente datata al secolo VII , ma il rivestimento che la ricopre conserva una testimonianza importante del culto che si sviluppò in seguito intorno a essa. Significativamente, la prima teca venne aggiunta durante il regno della regina Tamar, la nonna di Gurji Khatun. Nel 1180 la regina commissionò un nuovo rivestimento argenteo per l'immagine a Beka Opizari, il più famoso orafo della sua epoca in Georgia. Ciò è attestato nell 'iscrizione a sbalzo che è al di sotto del volto di Cristo sulla cornice: Per ordine e grazie alla donazione della più grande regina tra le regine, Tamar, incoronata da Dio, lo, loane Rkinaeli, [vescovo di] Anchi, commissionai con reverenza l'ornamentazione della cornice di questa straordinaria icona. Possa Cristo proteggere questo regno ora e sempre. Montata dalle mani di Beka, che Cristo ne abbia pietà22• Nuovi inni vennero pure commissionati per celebrare l'immagine in quest'epoca 23 . In base a una più tarda iscrizione aggiunta nel secolo xvrn , essa veniva considerata quella originaria edessena, portata ad Anchi da Costantinopoli agli esordi dell 'Iconoclastia per sottrarla all'imperatore Leone m ; rimane oscuro tuttavia se questa tradizione fosse già attestata nel secolo xm 24 . Le dimensioni e la qualità del nuovo rivestimento eseguito da Beka Opizari ne fanno l'esempio di teca iconica più importante degli anni del regno di Tamar. Il Mandylion era, quindi, tra le immagini più venerate nella Georgia agli inizi del secolo xrn 25 , e trovava posto regolarmente nei programmi decorativi delle principali chiese dipinte della Georgia in quest'epoca, come nel caso di Vardzia (ca. 1184-1186)26; inoltre si diffuse in quelle regioni che passarono sotto il controllo georgiano all'epoca di Tamar, come dimostra la chiesa di Kobayr nell'Armenia settentrionale (primi del secolo xrn)27 . Sia che la fonte per la storia narrata da Aflaki si possa rintracciare in corrispondenti esempi cristiani, sia che essa sia stata trasmessa a Konya tramite Gurji Khatun , è certo che Aflaki ne mutò radicalmente le caratteristiche. 'Eyn al-Dowla tentò, come Anania, di replicare le fattezze di un uomo santo, e come lui fallì. Ma nel caso del pittore del secolo xm nessuna immagine venne in seguito prodotta mediante intervento divino. Invece egli stesso esegue un certo numero di ritratti, nessuno dei quali può effettivamente catturare l'essenza del sant'uomo. Non c'è una soluzione semplice. La morale del racconto è sintetizzata dallo stesso Mevlana in un ghazal (poesia): «Quanto privo di colore e segno son'io ! [ ... ] I Come potrà la mia anima diventare serena I essendo al contempo ferma e in movimento quale io sono?» 28 . Così, la conclusione alla quale giunge il testo di Aflaki è esattamente l'opposto di quella della storia cristiana. Sebbene la leggenda riproponga in larga parte elemen-

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ti di agiografie cristiane e della storia di Anania in relazione al Mandylion, la fine è diametralmente opposta. L'Islam non può consentire all'immagine di condividere il potere del suo prototipo. Sebbene la teologia degli iconofili fosse stata sviluppata per giustificare e spiegare le immagini, la teologia musulmana aveva sempre tentato di argomentare che soltanto Dio può creare: egli è l'unico vero artista , e i pittori possono soltanto replicarne le opere in modo imperfetto. Tali idee compaiono spesso negli insegnamenti di Mevlana. Aflaki riporta che Mevlana descriveva Dio quale «pittore la cui opera è il mondo, da Adamo a tutto ciò che è in terra e in cielo» 29 , e in contrasto con gli stessi scritti di Mevlana, rivela la falsità delle immagini dipinte: Se esegui un ritratto su carta quale dolente, esso non insegna nulla sul dolore o sulla gioia. Il suo aspetto è dolente, ma in fondo è libero da ciò; oppure il suo aspetto è sorridente, ma non rivela l'intima disposizione alla gioia30 . L'anima e le vere fattezze di un uomo non possono essere replicate. La conclusione è che l'arte non può duplicare il lavoro di Dio nella creazione umana. L'arte è un mero simulacro, e non può condividere la vita. Queste citazioni sull'arte negli scritti di e intorno a Mevlana rivelano l'importanza attribuita all'arte in quel momento a Konya. Ma allo stesso tempo chiariscono il modo diverso in cui essa era vista dal pubblico musulmano. Ciò è attestato anche da un racconto pressoché contemporaneo, trascritto da Muhyi al-Din ibn Arabi viaggiatore, studioso e mistico - nel suo A l-Futuhat alMakkiyya (Le rivelazioni della M ecca) . Narrando della propria visita a Konya nel 1210 circa, rievoca l'incontro con un pittore bizantino (greco ?): Viene dal nome di Dio, dal Creatore [ ... ] l'ispirazione ai pittori di riprodurre bellezza e armonia alle proprie immagini. In proposito, io sono stato testimone di una cosa straordinaria a Konya, nella terra dei Rum. C'era un pittore che abbiamo messo alla prova e abbiamo assistito durante il lavoro riguardo a una specifica invenzione artistica, nella quale egli sbagliava. Un giorno eseguì un'immagine di una pernice e fece in essa un errore pressoché impercettibile. Quindi me la recò al fine di mettere alla prova il mio discernimento artistico circa la sua armonia. L'aveva dipinta su un ampio piatto, di modo che le dimensioni fossero pari al naturale. In casa c'era un falcone, che, non appena vide il dipinto, lo attaccò , pensando di avere di fronte una vera pernice con il suo piumaggio riccamente colorato. In verità tutti i presenti erano stupiti dalla bellezza dell'immagine. Conquistato il favore degli altri, il pittore chiese la mia opinione sul suo lavoro. Gli risposi che sebbene l'immagine fosse perfetta, aveva un piccolo difetto. Quando mi chiese cosa fosse , gli dissi che la lunghezza delle zampe era sproporzionata per poco. Quindi egli mi venne incontro e mi baciò la testa 31 . Il racconto di ibn Arabi chiaramente deriva da una serie di testi classici nei quali gli animali sono imitati con mezzi artistici. La storia più famosa è quella che riguarda la competizione tra Zeusi e Parrasio nella Historia

Naturalis di Plinio (libro xxxv, cap. XXXVI): I contemporanei nonché rivali di Zeusi erano Timante, Androcide, Eupompo e Parrasio. Quest'ultimo, si dice, entrò in competizione con Zeusi, il quale aveva dipinto dell'uva, in modo talmente rispondente al naturale che degli uccelli vi si awicinarono per beccarne. Dal canto suo, Parrasio mostrò una tenda dipinta con tale veridicità, che Zeusi, esaltato dal giudizio sul suo lavoro rivelato dal1' accorrere degli uccelli, con arroganza chiese che fosse spostata per rivelare il quadro del suo rivale. Resosi conto dell 'inganno, con un grande candore ammise di essere stato superato, dal momento che egli stesso aveva semplicemente ingannato l'occhio degli uccelli, mentre Parrasio era riuscito ad ingannare lui, un artista32 . Come nel caso del racconto di Aflaki, nel testo Al-Futuhat al-Makkiyya la storia ha subìto un certo numero di cambiamenti rispetto ali' originale greco-romano. L' abilità dell'artista di illudere gli animali rimane, ma ora il punto centrale è la mancanza di desiderio da parte di un artista musulmano di tentare di imitare o ingannare Dio. Lo scopo dell'arte si è mutato nella rinuncia alla perfezione. L'artista è attento a mantenere una chiara divisione tra arte e vita. Con un pizzico di vanità, la morale della storia comporta anche che ibn Arabi si presenti quale fine conoscitore del prototipo greco , essendo capace di scoprire l'artificio che ingannò Zeusi. Il contesto islamico nel quale si collocano questi testi fa sì che le conclusioni che essi raggiungono non siano sorprendenti. È nondimeno interessante che, nonostante l'esito innegabilmente musulmano della storia di Aflaki, egli includa un 'appendice insolita. Il suo commento finale sul ritratto di Mevlana è che in seguito al fallimento di 'Eyn al-Dowla, Gurji Khatun raccolse i venti fogli di carta, che di lì in poi ella condusse con sé durante i suoi viaggi: «E in qualsiasi situazione ella si sentisse travolta da una appassionata attesa di Mevlana, questi prendeva forma e aspetto in modo che ella si tranquillizzasse» 33. Sembra che qui la mentalità cristiana di Gurji Khatun venga di nuovo a galla. L'ammesso fallimento dell'artista sembra essere superato e, sebbene agli occhi dell'artista e del pubblico musulmano le immagini prodotte non riescano a catturare le vere fattezze del sant'uomo, per la regina dei Turchi selgiuchidi, di origine cristiana, esse invece "funzionano " esattamente come un'icona cristiana. Le immagini paiono avere una doppia funzione: sono da un lato un esempio morale per il lettore musulmano circa la "impossibilità" dell'immagine, ma dall'altro, per il loro principale fruitore che è la regina Gurji Khatun, esse detengono un potere che si fonda sulla visione cristiana della natura dell 'immagine. Queste storie rivelano un milieu culturale nell'Anatolia centrale nel quale la pittura figurativa è chiaramente un fattore importante. Pochi esempi dell'arte figurativa selgiuchide del secolo xm sono sopravvissuti, come le sculture dalle mura di Konya e le piastrelle dal palazzo di Kubadabad (ora nel Museo della Medrese Ince Minare a Konya) 34 , e anche dei manoscritti alquanto rari

UN ' ECO D ELLA LEGGENDA DEL MANDYLIO N N ELL ' ISLAM

quali il trattato illustrato sugli angeli prodotto per Kaykhusraw m ad Aksaray e Kayseri nel 1272-1273 (ora nella Bibliothèque Nationale a Parigi, MS Persan 17 4 )35 • In ogni caso le testimonianze scritte citate suggeriscono che l'arte figurativa era considerevolmente presente nella regione nel corso del secolo xm , molto più di quanto non lascino intendere i pochi resti materiali. Questi stessi testi dimostrano anche la varietà di modi nei quali i diversi pubblici presenti in città potessero percepire l'arte figurativa. Agli occhi musulmani, il lavoro dell'artista dimostrava la verità di Dio attraverso l'imperfezione e l'impossibilità di creare un 'autentica somiglianza, mentre per i cristiani valeva esattamente l'opposto. Le storie di Anania e Zeusi erano state convertite all'Islam nelle due versioni di 'Eyn al-Dowla e ibn Arabi. Nondimeno c'era ancora una zona grigia tra le due vicende. Questo è quanto viene rivelato in una delle storie finali del libro di Aflaki , Menaqib al-Are/in, che narra come il pittore 'Eyn al-Dowla in seguito si fosse recato a Costantinopoli al fine di rubare un 'icona della Theotok os che, gli era stato detto, era a tal punto meravigliosa che nessun artista la poteva copiare: «Pittori erano giunti da ogni angolo del mondo, ma non erano capaci di eseguire niente di simile a questo dipinto»36 . Di nuovo la storia allude all'impossibilità per gli artisti di cogliere la vera essenza del divino . Ma a questa storia è stato dato un taglio molto diverso da Aflaki, dal momento che egli ricorda come tornando a Konya 'Eyn al-Dowla avesse mostrato l'icona della Theotokos a Mevlana. La miracolosa immagine avrebbe parlato al sant'uomo, seguendo l'esempio di molte altre raffigurazioni cristiane miracolose. Ma la discussione che Mevlana ha con la Madre di Dio riguarda non la natura favolosa dell 'icona, bensì la non plausibilità di venerare un oggetto che non può vivere, mangiare o dormire e che non ha anima. Si dà il caso che questa argomentazione circa i limiti dell'arte convinca 'Eyn al-Dowla a convertirsi all'Islam. I miracolosi poteri di un'icona cristiana sono usati qui per inficiare la sua vera ragion d'essere. È una rete complessa di interazione tra la Cristianità e l'Islam, e tra l'arte e la vita quella che si delinea attraverso quest'episodio. Un'icona, rubata per la sua straordinaria bellezza, diventa un portavoce del pensiero musulmano, e alcuni ritratti di un sant'uomo musulmano, disegnati per provare l'impossibilità di ricreare un 'autentica similitudine, sono delle efficaci riproduzioni del loro prototipo agli occhi di una regina musulmano/ cristiana quale Gurji Khatun. Questi echi distanti della leggenda del Mandylion mostrano come la vivacità del dibattito circa la natura dell'arte risuonasse nel corso del Medioevo.

• Questo saggio si basa sul testo presentato al convegno geno\'ese sul Man dylion, che a sua volta era basato su quello pubblicato con il titolo «Art and Frontiers between Byzantium and the Caucasus», in: Byzantium: Faith and Power: The Symposium (New York 2005), a cura di S. Brooks, in corso di stampa. Sono grato a Gerhard Wolf per l'invito al convegno di Genova e a Michele Bacci per i suoi utili commenti. 1 The Teaching o/ A ddai, trad . da G. H oward, Chico, CA 1981, p. 9; H.J.W. Drijvers, «The Abgar Legend», in: New Testament Apocrypha, a cura di W. Schneemelcher, Westminster 199 1, vol. I , pp. 492-500. 2 H.J. W. Drijvers , «The Image of Edessa in the Syriac Tradition», in: Th e Holy Pace and the Paradox o/ Represen tatzOn . Villa Spelman Colloquia 6, Papers from a Colloquium held at the Bibliotheca H ertziana , Rome and the Villa Spelman (Firenze 1996), a cura di H.L. Kessler & G. Wolf, Bologna 1998, pp. 1516. J E. von Dobschiitz, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende, Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur 18, Lipsia 1899 , tomo 1, pp. 182-183 . 4 Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa , 89, a cura di B. Kotter, Berlin 1973 , vol. 11 , p. 208; trad. da A. Siclari, Giovanni di Damasco: La fede ortodossa , Parma 1994 , p. 207 . 5 Na rratio de imagine Edessena, in: Patrologia Graeca , t. CXIII , a cura di J .P. Migne, Paris 1864, col. 43 0; trad. da I. Wilson , Th e Turin Shroud, London 1978, appendice C. 6 Synaxarium ecclesiae Constantinopolitanae. Propylaeum ad AASS Novembris , a cura di H . Delehaye, Brussels 1902 , p. 896; Giorgio Cedreno, Compendium Historiarum , in: Corpus scriptarum historiae byzantinae, t. xm , a cura di I. Bekker, Bonn 1838, p. 309. 7 A.C. Cataldi Palau, «Le iscrizioni greche», in: Mandylion. Intorno al Sacro Volto, da Bisanzio a Genova, catalogo della mos tra (Genova, Museo Diocesano, 2004), a cura di G. Wolf, C. Dufour Bozzo & A.R. Calderoni Masetti, Milano 2004, p . 168. 8 A. Kazhdan & H . Maguire, «Byzantine H agiographical Texts as Sources on Art», in: Dumbarton Oaks Papers, XLV, 199 1, pp . 123. 9 C. Mango, The Art o/ the Byzantine Empire 312-1453, Toronto 19862 , pp. 212-213. 10 Shams al-Din Ahmet-e Aflaki, The Feats o/ the Knowers o/ God (Manaqeb al-'are/in); trad. da John O 'Kane, Islamic History and C/vilization. Studies and Texts 43, Leida/ Boston/ Koln 2002. 11 Ibid. , p. 405. 12 R. Macrides , «Saints and Sainthood in the Early Palaiologan Period», in: The Byzantine Saint, xiv Spring Symposium of Byzantine Studies (Birmingham 198 1), a cura di S. H ackel, London 198 1, pp. 67 -87. B Ciò è molto simile al coinvolgimento di san Simeone Stilita il Vecchio in questioni politiche, nonostante il suo dichiarato desiderio di sfuggire la mondanità vivendo su una colonna; si veda A. Eastmond , «Body vs. Column: The Cults of St Symeon Stylites», in: Desire and Denial in Byzantium, Society /or the Promotion o/ Byzantine Studies, Publications 6, a cura di L. James, Aldershot 1999, pp. 87 -100. 14 Djalal al-Din Rumi, Fihi md /ihi (Discorsi di Rumì); trad. da A.J. Arberry, London 1961, Discorso 1, p . 17 . Nell'accettare il suo consiglio, Pervane precipitò la propria fin e: si affiancò a Baybars, il reggente mamelucco, contro gli Ilkanidi, fu convocato presso l'ilkanide Arghun e giustiziato. Cfr. «Annales d'Abu'lFéda», in : Receuil des Historiens des Croisades. Historiens Orien taux, Paris 1872 , vol. 1, p . 155. 15 C. Cahen , The FormatzOn o/ Turkey. The Seh·ukid Sultanate o/ Rum: Eleventh to Fourteenth Century, London 2001, pp. 173207. 16 Kartlis tskhovreba (Gli Annali della Georgia), a cura di S. Qaukhchishvili, Tbilisi 1959, vol. 11: pp . 172, 199-200; trad. da M.F. Brosset, Histoire de la Géorgie depuis l'antiquité jusqu'en 1469 de ]-C. , Sankt Peterburg 1849, pp. 501-502 , 524. 17 Kartlis tskhovreba, vol. n, pp . 199-200; trad . da Brosset. l 9 (vedi nota 16) , p . 524.

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La mia attenzione su questa storia è stata attirata da S. Vryonis, «Another note on the inscription of the church of St. George of Beliserama», in: Byzantina, 1x, 1977 , pp. 21-22 , che però non la discute. 19 Aflaki, 2002 (vedi nota 10) , p. 293. 20 Z. Skhirt'ladze, «Canonizing the Apocrypha: the Abgar Cycle in the Alaverdi and Gelati Gospels», in: Kessler & Wolf, 1998 (vedi nota 2), pp. 69-94. 21 W. Djobadze, EaJly Medieval Georgian Monasteries in Histo ric Tao, Klar;ét'i and Savfet'i, Stuttgart 1992, pp. 54-56. 22 L'iscrizione è trascritta e tradotta da S. Amiranashvili, Beka Opizari, Tbilisi 1964, pp. 12-13. 23 Circa la storia del culto dell'immagine in Georgia sino al secolo xm dr. Skhirt'ladze, 1998 (vedi nota 20), pp. 71-72. 24 Amiranashvili, 1964 (vedi nota 22) , p. 9. 25 Skhirt'ladze, 1998 (vedi nota 20), pp. 71-72, ha tracciato le origini della comparsa di questa immagine. 26 G. Gaprindashvili, Ancient Monuments o/ Georgia: Vardzia. Architecture, Wall Painting, Applied Arts, Leningrad 1975, tavv. 76 e 109. 27 N . Thierry, «Les peintures de la Cathédrale de Kobayr (Tachir)», in: Cahiers Archéologiques, xxix, 1980, pp. 103-121; in part. figg. 2-4. 28 Aflaki, 2002 (vedi nota 10), p. 293 . 29 Aflaki, 2002 (vedi nota 10), p. 382. 30 Mathnawi, Libro 1, vv. 2766-67; trad. da RA. Nicholson, The Mathnawi o/ ]aldlu'ddin Rumi, E.] W Gibbs Memoria! Publications. New Series 4, London 1926, voi. II , p. 151. 31 Al-Futuhat al-Makkiyya (Le rivelazioni della Mecca), voi. II , p. 424; trad. da S. Hirtenstein, The Unlimited Merczfier: The Spiritual Lz/e and Thought o/ Ibn 'Arabi, Oxford 1999, p. 7. Si desidera ringraziare Stephen Hirtenstein e Jane Clark per l'aiuto offerto a proposito di questo testo. 32 Plinio il Vecchio , Naturalis H istoria, Libro xxxv, cap. xxxv1. 33 Aflaki, 2002 (vedi nota 10), p. 293. 34 Per esempio vedi Turks. A Jo urney o/ a Thousand Years, 6001600, catalogo della mostra (London, Royal Academy of Arts, 2005), a cura di D.]. Roxburgh , London 2005 , schede 58-69. 35 F. Richard, Catalogue des manuscrits persans, voi. 1: Anciens /onds. Biblzòthèque Nationale, Département des manuscrits, Paris 1989, pp. 191-195. 36 Aflaki, 2002 (vedi nota 10), pp. 382-383 ; questo argomento verrà sviluppato prossimamente da A. Eastmond, A rt and Frontiers between Byzantium and the Caucasus.

ENCOUNTERING THE RESURRECTION The Holy Face at the Timotesubani murals Ekaterine Gedevanishvili

The present article highlights the Holy Face in the murals of the main church of the Timotesubani monastery 1 . The Mandy/ion which is badly damaged and today almost lost, was chosen as the subject matter of this paper because of its very unusual location and consequently the very unusual context of its representation. The Mandy/ion appears in Timotesubani on the southern wall of the north pilaster (fig. 1). In Ekaterina Privalova's monograph 2 , the Timotesubani murals date back to the beginning of the 13,h century (1220s) while, according to Privalova's observation, the Holy Face was painted later; actually the Mandy/ion presented here is the only repainted section of the Timotian murals 3 . The Holy Face replaced the original image of Hades (fig. 2). The composition represents a huge dragon with a naked figure inside it embraced by flames and horrible faces 4 . The Mandy/ion was depicted directly on the original composition without applying the plaster and, as Privalova suggests, this might be the reason for its poor state of preservation 5 . Today the two overlapping compositions are visible, part of the Mandy/ion and the remnants of the Hades scene. One can distinguish the outline of the Mandy/ion - a huge image of Christ with shoulders and a big red halo inscribed in the square shaped cloth. Beneath the red halo, weeping faces with gnashing teeth can be seen. The composition of the Holy Face is quite large, almost twice as large as the other figures close to it. It is especially delineated by the thick red square border that gives the iconic shape to the depiction of the Mandyllon. The Holy Face in the Timotesubani painting is inserted in the Last Judgment composition which occupies the western wall of the cross-arm and the southern and northern walls of the western arm (fig. 3). It is so striking that the Holy Face is included directly in the scenes of hell. Due to its location and symbolic context, the Timotesubani Mandy/ion becomes one of the most arresting and enigmatic examples of this iconographic type. The Holy Face, presented against the background of the scenes of hell from the Last Judgment, certainly requires particular insight and reflection. I suggest that the appearance of the Mandy/ion, after the Timotesubani painting was completed , might have been stimulated by the new arrangement of the church space. The Timoti monastery is a cross-in-square type of building; it has two entrances - one in the west and another one in the southern part. Later on, two gates

were added - the brick gate on the western side and the stone one on the southern part6 . The appearance of the Holy Face may be connected with this design. Entering the church from the west, the depiction of the Holy Face is almost hidden to th e beholder: it is the image of the Virgin and Child in the apse that attracts the eye immediately; then moving toward the center, the beholder is fascinated b y the splendid image of the glory of the Cross in the summit of the dome. The Mandy/ion becomes "visible" only when the faithful stand in prayer in the central part of the church . Entering from the southern entrance, the beholder's impression is totally different (fig. 4). The southern entrance is located in the western part of the wall, so entering through this part you can find yourself in the western arm of the cross, just in front of the northern pillar with the image of the Holy Face. The northern pointed arch in front of the southern gate, accentuated by the vividly painted cross inscribed into the colored segments on the summit of the arch, gives the direction : it leads the beholder's eyes to the Holy Face located on the pillar (fig. 6). As was stated above, the latter is especially highlighted by its red iconic frame and the enlarged scale of its design. So the beholder, entering the church from this part, is "faced" with the Mandy/ion, thus the presence of God is palpably felt here. One could recall the psalm verse, which perfectly reflects the meaning and the context of this composition: «Where could I go from you? Where could I get away from your presence? If I went to Heaven, you would be there: if I lay down in the world of the dead, you would be there» (psalm, 138, 7-8). It could not be a mere coincidence that the main entrance was the southern one; consequently the appearance of Mandy/ion might be connected with its design. It is obvious that the Holy Face was the very image the faithful "encountered " entering from this part of the church; this "meeting " was fully appreciated from this entrance. This juxtaposition of the Mandy/ion and the entrance of the church is not accidental but has a long history and tradition 7 . It was derived from Abgar's story itself. According to the legend, King Abgar placed the Acheiropoieton image on the gate of Edessa as a special protector of the city. The Mandy/ion, due to its apotropaic function, was often placed above the entrance in the decorative programmes of Byzantine churches 8 . In any case, the inclusion of the Holy Face in the Last Judgment scenes requires special explanations. The-

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1. Holy Face, dating after the 1220s, Timotesubanz; church, southern wall of the north pilaster

3. Timotesubani, church, scheme of western arm

2. Hades, dating to the 1220s, Timotesubanz; church, southern wall of the north pilaster

ENCOUNTERING THE RESURRECTION

4. Southern entrance, dating after the 1220s, Timotesubanz; church

5. South-west wall decoration, 11 84-1186, Vardzia, Dormition church

matically Christ in hell immediately triggers the memory of the Descent into Hell 9 ; it could not be a mere coincidence that the Timotian Holy Face has a huge red halo, which gives an association with the Anastasis from the colour peculiarity as well, since the red colour (as a divine light ) has often been deliberately used in Resurrection compositions to emphasize the divine nature of Christ 10 . In contemporary Georgian examples , you will easily find the Anastasis compositions with Christ dressed in a red garment (Vardzia the church of Dormition, the Shiomgvime monastery, the church of the Ascension of the Cross) . I would even like to draw attention to one iconographic detail that at first glance seems less important. The halo with the double contours extends beyond the border of the square framing of the cloth, delineating the "boundlessness " of the halo, so even on the level of iconographic details the icon of Incarnation turns out to be an icon of the Resurrection 11 . I would say that the impressive images of hell, with the inscriptions 12 «the Thirst», «Blazing Gehena», «Sleepless Worm», «Eternal Darkness», make these scenes "physically" tangible and thus create a kind of sharp contextual contrast. Especially striking is the opposition between the scene of the Eternal Darkness and the symbol of the eternal light assumed by the Holy Face. Thus , the icon of Incarnation in the Timoti mu rals palpably becomes the image of the one who gives light to the world: this symbolic context is stressed , as

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6. The northern wall, 1220s, Timotesubanz; church

7. The Last Judgment, 1220s, Timotesubanz; church, the western wall

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stated above, by the big red nimbus and by little red stars "glittering" on the white cloth . Thus , this very unusual location adds a totally new context to the image of Incarnation. If we take into consideration the fact that the Holy Face was added later, applied directly onto the scene of Hades and seems to have been created to "hide " this accumulative scene of hell, this symbolic context becomes even more dramatic. An artistic antecedent of the Timotian composition is a Vardzian image in the church of the Dormition (11841186), where the Holy Face appears on the tympanon, just below the Descent into Hell. But in Vardzia we have two images of Christ: Christ's figure in hell in the Katastasis scene and Christ's fa ce below, in the tympanon of th e entrance (fig. 5 ); while in the Timotesubani murals the two images are somehow conflated . The superimposition of the Holy Face onto the H ell scene shows the reverse side of Hades transfigured by the Savior's image. On th e southern wall, just in front of the Mandylion, the prophet Daniel appears. H e actually opens the scenes of the Last Judgment with his prophecy of the second coming: «I behold till the thrones were cast down , and Ancient of Days did sit, whose garment was white as snow and the h air of his head like the pure wool.. .» (Daniel, 7, 9). In that case, he is directly linked to the central composition of the Last Judgment and to the Deesis, where Christ is presented as the Ancient of days in accordance with Daniel's vision 13 . However in front of th e Mandy lion the portrait of the prophet Daniel also assumes another symbolic connotation. The juxtaposition of the Acheiropoieton and D aniel 's portrait recalls the popular passage from the Old Testament, when the prophet gave an explanation of Nebuchadnezzar's dream about the stone which was «cut out without h ands , and which smote the image upon his hand ... » (Daniel, 2 , 34 ). In the exegesis, the stone cut without hands was interpreted as a symbol of the Virgin and the Incarn ation 14 , and here even textually gives an immediate association with the Icon not made b y human hands (the Icon of Incarnation !) , located in front of the prophet's image. Somehow even thematically, it recalls the history of the Holy Face itself, the p assage when the M andylion , like the stone from Daniel's book, had crushed the idol at the city entrance, the scene that occupies a very special place on the metal chasing of the famous Geno a icon (xrv century) 15. In the Timoti church this motive of triumph is linked to victory over the lower world. To understand the Timoti Mandylion properly, I think we need to look at the western wall frescoes. The Timotesubani murals present a very unusual interpretation of the Last J udgment. The focal image of the Last Judgment in Timotesubani is a huge Deesis in the centre of the western wall and an enormous composition of P aradise. The latter is allotted an exceptionally important place here, taking up the whole length of the second tier; it turns ou t to be a leading accent of

the western wall (fig . 7) . The whole register is occupied by the sequence of the Salvation scenes - the Bosom of Abraham, the Virgin enthroned between angels, the penitent robber, the gates of Paradise and St. Peter leading the righteous into Paradise. In comparison with Byzantine monuments, the idea of the Judgment and retribution of sins receives no emphasis here . The scenes of torturing , generally located in very prominent places in the composition of the Last J udgment16 in Byzantine churches , in the case of Timotesubani are scattered on the northern and southern walls of the western cross-arm . The beholder even forgets their existence, because the sizable Paradise scene (it occupies almost twenty meters !) with its scale and vivid coloring (the depiction of the red pomegranate and apple trees ) puts them in "shade" and becomes a significant core of the whole painting. I think the scene of Paradise became a kind of incentive for the Timotian painter who, after the murals had been accomplished , added the Man dylion . With this addition the painter ended th e huge iconographic programme, whose focal image was the splendid picture of Paradise. Consequently, as evidence of the aim of the en tire programme of the Timotian painting, the Holy Face, depicted later, concealed Hades and created a second "laconic " image of "Paradise " for the beholder entering from the southern gate of the church .

1 The article dedicated to the Holy F ace of Timotesubani is published in «G eorgian Antiquities», n. 1, 2002 , pp . 79-84. The article presented here has some alterations. I am grateful to D r. Bissera V. Pentcheva for helpful comments in correspondence. 2 E. Privalova, Rospis' Timotesubani: issledovanie po istorii gruzinskoj srednevekovoj monumental'noj fivopisi, Tbilisi 1980, pp. 11 and 121. 3 Privalova, 1980 (see note 2), p. 95. 4 The scheme was made by E. Privalova. 5 Privalova, 1980 (see note 2), p . 95. 6 In Privalova, 1980 (see note 2), p . 6, the date of the gates is not specified. According to P. Zakaraja the southern gate dates back to the XIV century, while the western one to the period of the church , see P. Zakaraia, «K nekotorim voprosam gruzinskoi srednekovoi arkitekturi (Kintsvisi , Timotesub ani )», in: Vestnik gos.muzeia gruzil im.akad. S.Djanashia , T. XXII, 1961 , p. 100. The same d ate is suggested by D. T'umanisvili, Kincvisis cm.nikoloZis tazris kurotmozgvrebis gagebisatvis (cerilebz; narkvevebz), tb. 2001 , p. 135. 7 For the location of the Mandylion over the entrance in Byzantine churches see: A. Grabar, La Sainte Face de Laon: le mandylzon dans l' art orthodoxe, Prague 1931 , p. 31; A. Lidov, «La veneraz ione de! Ma ndylio n nel Prologo Lobkov» , in: Mandylion. Intorno al Sacra Volta, da Bisanzio a Genova, exhibition catalogue (Genoa, Museo Diocesano, 2004 ), ed. by G. Wolf, C. Dufour Bozzo, A. R. Calderoni Masetti, Milan 2004, p. 93; H. Kessler, «Config uring the invisible by copying the Holy Face», in: The Holy Face and Paradox of Representation , Bologna 1998, pp. 149- 150; A. Lidov, «Mandilion i keramion kak obras-archetip sakral' nogo prostranstva», in: Vostocnok ristianskie relikvi, Moskva 2003 , pp. 249-280. 8 However, in some examples where the Madylion is located over th e en trance, usually the passage, moving th ro ugh the "living .. way (the entran ce with the image of Ch ris t) assumes a particular relevance, while in the Timoti church it is not the passageway ir-

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self but rather the encounter, and the facing of Christ's portrait that becomes the most important aspect. 9 It must be noted that the Descent into Hell has never been represented in the Timotesubani murals. This "omission" is strange because this "standard" scene occupies a particularly prominent place in contemporary Georgian church programs (Shiomgvime church of the Ascension of the Cross, Kintsvisi church of St. Nicolas, Vardzia the church of the Dormition). 1 °For the iconography of the Anastasis see: A. Katsonis, Anastasis, making of the image, Princeton 1986; for the symbolic meaning of the red colour see: L. James, Light and colour in Byzantine Art, Oxford 1996. 11 The direct link of the Incarnation and the Reresurrection is interestingly shown in the chant of the famous Georgian himnographer Ioane Minchki (x century): «You Logos, who came down from Heaven, you descent the lower world as the eternal fire», verse, which perfectly reflects the meaning and the context of Timotian image, cited in: A. Okropiridze, «Tsiteli peris simboluri gaazrebis zogierti aspekti shua saukuneebis kartul mkatvrobashi» («Some aspects of the symbolic meaning of the red colour in Georgian medieval painting»), in: Rcmena da codna, Tbilisi 2003, p. 30. This link is also reflected in the Homily of the Archdeacon Gregorios dedicated to the Holy Face, see: G. Wolf, «From Mandylion to Veronica», in: The Holy Face and the Paradox of Representation, Bologna 1998, p. 153. 12 All inscriptions are cited in: Privalova, 1980 (see note 2). 13 Privalova, 1980 (see note 2), p. 92. 14 T. Khundadze, Zveli aktmis cinascarmetkvelebi. Ksnis tema danielisa da iobis gamosakulebebshi kartul reliepshi (IX-XIIIss), (The profits of the Old Testament: the depiction of salvation of Daniel and Job in the Georgian stone carvings IX-XIII cent.) , Tbilisi 2004, p. 12; N. Burchuladze, Ubisis monastris katebi da kedlis mkatvroba - XIV s. (The Ubisi monastery icons and wall painting), Tbilisi 2006, p. 68. 15 Mandylion. Intorno al Sacra Volta, da Bisanzio a Genova, exhibition catalogue (Genoa, Museo Diocesano, 2004), ed. by G. Wolf, C. Dufour Bozzo & A.R. Calderoni Masetti, Milan 2004, fig. p. 55. 16 Compare for example with the Torcello mosaics, which are regarded as a characteristic example of the Byzantine composition of the Last Judgment, see: I. Andreescu, «Torcello», in: Dumbarton Oaks Paper 26, 1972, pp. 185-223.

IL MANDYLION NEL MEZZOGIORNO MEDIOEVALE

Marina Falla Castel/ranchi Ai miei allevz; dottori di ricerca e dotto randi delle Università di Lecce e Suor Orsola Benincasa di Napoli: intelligenti; curiosz; generosi Nell'ampio e articolato quadro relativo alla produzione pittorica, monumentale e non, del Mezzogiorno medioevale, che riflette la variegata realtà, sotto ogni profilo , di queste terre che a lungo costituirono la provincia più occidentale dell'impero bizantino, le immagini e il culto stesso del Mandylion appaiono quanto mai rarefatte. In linea generale, dall 'analisi dei programmi iconografici emerge che questa pittura non fu sedotta dalle novità sperimentate a Bisanzio in questo settore, soprattutto a partire dal secolo xI, dove la liturgia, l'agiografia e ancora, per esempio, l'inno acatisto, giocarono un ruolo significativo nell'arricchimento dei programmi iconografici. Certamente ha elaborato proprie peculiarità e, sotto il profilo più squisitamente formale , mostra di essere aggiornata alle tendenze più innovative, almeno fino alla fine dell'epopea normanna, alla luce della vasta produzione pittorica di segno tardocomneno attestata in Italia meridionale e in Sicilia: è probabile, sotto questo aspetto, che la conquista latina di Costantinopoli (1204-1261) e la conseguente creazione dell'impero di Nicea e di potenti despotati indipendenti, abbiano contribuito a recidere il cordone ombelicale che continuava a irrorare di linfa greca la cultura, non solo artistica, di questi territori, insieme con la mutata tem perie storica e il ruolo egemone in ogni campo che via via acquistò la Napoli angioina, sostituendosi a Bisanzio. Altrettanto rare del Mandylion sono , per esempio, le immagini della Comunione degli Apostoli, solo due documentate, una delle quali - campita nell'abside della chiesa monastica italo-greca di Sant' Angelo a San Chirico al Monte Raparo (Potenza) - è scomparsa1, anche se non mancano rappresentazioni, rare e colte, che attestano la profonda cultura del clero, dei monaci italo-greci e dei loro committenti, come per esempio la probabile immagine del monaco bizantino Michele "il Sincello", fino a oggi non documentata nella pittura bizantina - campita sulla parete della chiesa rupestre detta della Cirimanna a Supersano (Lecce)2 - e altre ancora3. Circa il Mandylion, si tratta, come è noto, della celebre Acheropita, attestata nelle fonti a Edessa fra la metà e la fine del secolo vI4, a partire probabilmente dalla stessa Ekphrasis della cattedrale di Edessa - la celebre Sugitha in siriaco5 - ricostruita intorno alla metà del secolo vr dopo l'ennesima inondazione provocata dal fiume Skirtos, e poi dalla Storia Ecclesiastica di Evagrio di Epifania del 593 ca. (Evagrio di Epifania, H.E. IV, 27 ): il passo, però, potrebbe essere stato volutamente interpolato e manipolato in seno a circoli iconoduli costantinopolitani, gli stessi che stavano proclamando il concilio Niceno II del 7 87 , come suppongono Joseph

Munitz e Julian Chrysostomides , e Jan Willem Drijvers6, ai fini di una sua decisa strumentalizzazione in questo senso. Tale aspetto segnò la storia e le fun zioni del sacro oggetto nel suo originario recesso, la città di Edessa, fra i secoli VII e vrII7, nel periodo che coincide con l'occupazione araba prima, e l'inizio della fase iconoclasta poi, in una temperie cioè in cui l'immagine, negata, svolse un ruolo cruciale in particolare nella città che custodiva l'icona di Cristo per antonomasia, il Mandylion. Nel corso delle campagne militari mesopotamiche intraprese da Romano I nel 944 , in seguito ad alcune trattative con gli Arabi di Edessa , la preziosa immagine-reliquia, insieme all'altro palladio di Edessa, la lettera di Gesù ad Abgar, fu ceduta ai Bizantini in cambio di circa 200 prigionieri arabi e di 12 .000 monete d'argento, e quindi trasferita a Costantinopoli, insieme a una copia, dove arrivò il 15 di agosto, il giorno della Festa della Dormizione della Vergine: l'Acheropita fu quindi custodita, al termine di solenni processioni che toccarono celebri santuari della capitale e lo stesso magno palazzo, nella chiesa della Theotokos del Faro 8 , insieme al1' altra reliquia edessena. L'ingresso trionfale del Mandylion a Costantinopoli, secondo uno schema che ricalcava gli adventus imperiali, accolta dal sovrano, dalle cariche più alte dello Stato e dalla popolazione della capitale, ebbe come prima tappa, stando al testo della Narratio de Imagine Edessena - attribuito a Costantino VII Porfirogenito (913-959 ), che si dilunga in particolare sulla descrizione di questi momenti-, la celebre chiesa delle Blacherne, dedicata alla Theotokos 9 : come si è detto , l'avvenimento si verificò il 15 di agosto, festa della Koimesis, e l'arrivo dell'Acheropita di Cristo simbolicamente evocava, nella sua valenza di seconda parusia, il manifestarsi del Figlio al momento della morte della Madre. Alla luce della celebre processione romana con l'Acheropita del Laterano in testa, che iniziava alla mezzanotte del 14 di agosto e culminava a Santa Maria Maggiore all'alba del 15, cioè nella festa dell'Assunzione, il cui significato riverbera quello della processione costantinopolitana dell'Acheropita di Edessa, sarebbe interessante stabilire se l'origine di questo dramma liturgico sia da ricercarsi, come credo, nella capitale sul Bosforo. All'apparenza le fonti romane sono più antiche, ma menzionano, inizialmente, solo l'Acheropita e il suo ruolo all 'interno della liturgia processionale e stazionale. Il corteo con l'Acheropita è attestato a partire dal 1' età di Stefano II (752-757 ), e dunque in piena epoca iconoclasta, nel momento in cui Roma era assediata dai Longobardi: il pontefice stesso portò sulle proprie spal-

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le l'icona dal Laterano a Santa Maria Maggiore. Circa il suo significato, Enrico Parlato sottolinea la funzione segnatamente penitenziale della processione 10 : in ciò essa riverbera, io credo, quella che si era verificata a Costantinopoli pochi anni prima quando, intorno al 717, la città era assediata dagli arabi e l'icona dell'Odigitria fu portata in processione sulle mura a scopo profilattico11, fatto che del resto si era già verificato nel 626: in quel caso si trattava probabilmente dell'icona del Cristo di Kamuliana 12 . Solo più tardi, al tempo di Leone IV (847-855) , si registra la prima descrizione della cerimonia di Ferragosto, decisamente sintetica, nel Liber Pontt/icalis, ma indicazioni più ampie sono contenute nell'Orda Romanus e nel Liber Politicus di Benedetto Canonicus, come ricorda Parlato 13 : l'Acheropita usciva dal suo recesso, la cappella di San Lorenzo al Laterano, alla mezzanotte del 14 di agosto e, lungo un percorso prestabilito che toccava i più significativi luoghi della Roma pagana e di quella cristiana, incontrava via via alcune icone mariane, per concludersi all'alba del 15 agosto a Santa Maria Maggiore, dove l'icona di Cristo visitava la Madre al momento della Dormizione. Mi sembra che questa processione sia, grosso modo, speculare a quella costantinopolitana relativa all 'incontro del Mandylion con la Vergine il 15 di agosto del 944, nel giorno della festività liturgica della Koimesis. Per ciò che concerne la cronologia della cerimonia, che si svolgeva a Roma nella stessa ricorrenza e con le stesse cadenze e valenze, va sottolineato che la citazione più antica relativa alla visita dell'Acheropita di Cristo alla Madre il 15 di agosto, sembrerebbe l'inno Sancta Maria quid est, composto per la visita a Roma di Ottone III nell'anno 1000 14 . Esso, dunque, si verificò circa cinquant'anni dopo l'arrivo del Mandylion a Costantinopoli e il suo coinvolgimento in una processione che culminava, come si è detto, al pari di quella romana, nella visita del Figlio alla Madre nel giorno della Koimesis, getta, io credo, ampia luce sull'origine in senso squisitamente costantinopolitano del significato di queste processioni: si ricordi, inoltre, che Ottone III era figlio di una principessa bizantina, Teofano, la quale sensibilizzò la corte germanica alla cultura ellenica, anche attraverso i legami con l'ambiente monastico italo-greco. Tornando al Mandylion, allo scadere del primo anniversario dell 'arrivo del prezioso oggetto, fu composto un encomio, la Narratio de Imagine Edessena, attribuito all'imperatore Costantino VII Porfirogenito 15 - genero di Romano I - più tardi incluso nel menologio di Simeone Metafraste, e fu anche stabilita la festa liturgica del Mandylion, il 16 agosto. Questo rapporto sembra cogliersi anche in alcune icone d'epoca moderna, per esempio nell'icona-menologio della prima metà del secolo XIX, d'origine russa, relativa ai santi e alle festività liturgiche del mese di agosto, in cui compaiono, rispettivamente, ai giorni 15 e 16 di questo mese le scene della Dormizione della Vergine e, accanto, il Santo Mandylion 16 . Com'era avvenuto a Edessa a partire dal secolo VII, quando furono create alcune copie dell'icona e della

1. Tremisse merovingio con il Mandylion, Londra, British Museum

2. Croce processionale dall'Asia Minore, Ginevra, collezione Ortiz

lettera, distribuite in edifici di culto pertinenti alle diverse comunità cristiane attestate nella città, cioè Melkiti (Calcedonesi), Monofisiti e Nestoriani 17 , in sincronia con la trasformazione del ritratto di Cristo da icona su tavola a Mandylion , ritratto impresso su una tovaglietta di lino come sottolinea Jan Willem Drijvers 18 , anche a Costantinopoli l'immagine fu replicata. Altre ancora, legate alla leggenda di Abgar, riflettono gli avvenimenti che si stavano verificando in quegli anni significativi, per esempio l'elaborazione della celebre icona, conservata al Sinai ma confezionata a Costantinopoli, che ritrae Abgar - in realtà si tratta di un criptoritratto di Co-

IL MANDYLION NEL MEZZOGIORN O MEDIOEVALE

3. Immagine teofanica, Eraclea sul Latmos (presso), grotta del Pantocratore

stantino Porfirogenito - con il Mandylion sfrangiato sulle ginocchia; si tratta dell'anta destra di un probabile trittico la cui parte centrale, scomparsa, doveva accogliere l'immagine del Mandylzòn mentre, su quella sinistra, sono campiti l'apostolo dell'Osroene, Taddeo (Addai in siriaco) e, al di sotto, i santi Paolo di Tebe, Antonio, Basilio ed Efrem Siro 19 : queste figure sono oggi racchiuse entro una cornice più tarda. Un recente saggio di Lucia Travaini su un tremisse merovingio della zecca di Aventicum - Avenches, nell'attuale Svizzera - emesso nel 625 ca., sul cui dritto è raffigurato il volto di Cristo (fig. 1) 20 , giustamente posto dalla studiosa in rapporto con il Mandylion edesseno, pone il problema relativo alle più antiche citazioni e repliche della celebre immagine, di cui la moneta rappresenta a tutt'oggi, credo, la più antica testimonianza: essa, conservata in esemplare unico al British Museum, insieme ad altri pezzi perduti, può aver forse giocato il ruolo di cassa di risonanza per la precoce diffusione in Occidente dell'immagine della reliquia edessena. In merito al problema della disseminazione di copie o citazioni precoci, più o meno coeve o di poco successive alle prime

menzioni nelle fonti documentarie sul Mandylion edesseno, questa significativa testimonianza potrebbe idealmente saldarsi a due manufatti del secolo VI, entrambi legati all'Asia Minore, che presentano, nell'impaginazione iconografica, un 'immagine per così dire inquietante, di difficile interpretazione. Mi riferisco alla decorazione pittorica della grotta detta del Pantocratore al Latmos, in Caria, una delle più celebri montagne sacre, e a una croce processionale in argento dorato con iscrizioni in niello, oggi conservata in una collezione privata svizzera, e proveniente, sembra, dall'Asia Minore. Nel primo caso si tratta dei dipinti murali più antichi conservati nel territorio del Latmos, datati da Oskar Wulff ai secoli vnvm e al rx da Marcell Restle21 , indicazione cronologica, a mio avviso, da anticipare al pieno secolo VI , la cui analisi, in specie sotto il profilo iconografico, va approfondita, anche e soprattutto in ragione di alcuni elementi desueti che ne ispessiscono le già significative valenze. All 'interno della grotta, dove secondo la leggenda si consumavano gli amori notturni di Selene ed Endimione22, sulla volta è campita l'immagine di Cristo in una mandorla retta da due angeli (fig. 3) , da cui fuo riescono

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4. Mandylion, San Cesario di Lecce, chiesa di San Giovanni Evangelista, interno (foto M. De Giorgz; L ecce)

i quattro viventi della visione di Isaia (Is. vr, 3 ), ciascuno dei quali regge un libro su cui compare il trisaghion, il cui testo prosegue, in lettere capitali, intorno alla mandorla del Cristo: «Aghios, aghios aghios, kyrios sabaoth [ .. .]» (Is. , VI, 3). Finora non si è posto l'accento sul trisaghion: la presenza dell'incipit di un canto liturgico con una significativa storia alle spalle mi sembra un prezioso segnale in merito agli ambiti religiosi e culturali sottesi alla sperimentazione di questa immagine e potrebbe svolgere un ruolo non certamente marginale nei riguardi di una sua più circoscritta collocazione cronologica23 . Un altro aspetto di significativa rilevanza si coglie nella presenza di un volto campito sopra un drappo disteso, con capelli lunghi disposti a ventaglio - che sembrano assecondare il movimento delle pieghe della stoffa posto in asse con la figura del Cristo, sul quale gli studiosi non si sono soffermati. La tipologia del volto, e della stessa capigliatura, apparentemente tenderebbero a escludere che possa riferirsi al Mandylion edesseno: si tratta, piuttosto, dell'Antico dei Giorni in una delle sue prime attestazioni24 ? Si tenga poi presente che, nel Bios di san Paolo del Latros, o Latmos (955), composto poco dopo la morte del santo, compare una delle più antiche

5. Volto di Cristo e della Vergine Regina, Monte Sant'Angelo, cappella del castello

citazioni del Mandylion, menzionato come 1mmagme Acheropita 25 . Il fatto è che, in Asia Minore, questa effigie non appare un unicum. Nella fronte della citata croce processionale, oggi conservata a Ginevra nella collezione Ortiz e datata al secolo VI, nella parte inferiore del braccio longitudinale, in asse con un clipeo posto all'incrocio dei brac-

IL MANDYLION NEL MEZZOGIORNO MEDIOEVALE

6. Pulpito, Capaccio Vecchia (Salerno), Santa Maria del Granato, interno

7. Pulpito, Volto di Cristo, Capaccio Vecchia (Salerno), Santa Maria del Granato, interno

ci che contiene il busto di Cristo, è incastonato un volto con baffi e barba a punta contornato da una capigliatura a treccia (fig. 2)26 . Non penso si tratti di Adamo, il cui teschio, posto nella grotta del Golgotha, è spesso - in specie a partire da un'epoca successiva - campito sotto il Cristo Crocifisso: né esso pare presentare affinità con il tipo del Mandylion edesseno ma, per un 'epoca così alta, di sperimentazione figurativa, legata peraltro alla nascita dell'icona in senso squisitamente orientale, tutto è possibile e lecito, io credo! In ogni caso, mi pareva giusto segnalare queste immagini per suscitarne la discussione, tenendo presente che, come dimostra l'effige del Mandylion riprodotta in Occidente sulla citata moneta merovingia emessa nel 625 , che a tutt'oggi appare la più antica "fotografia" dell'Acheropita di Edessa, il processo di riproduzione, in certi casi una sorta di "autoriproduzione", certamente si verificò con anticipo in Oriente, per cui un 'interpretazione dei due volti in senso di citazione della reliquia edessena, in questo primo momento di sperimentazione, potrebbe giustificare il fatto che essi non obbediscano ancora a un canone.

Nella pittura mediobizantina, il Mandylion impresso sulla tovaglietta di lino è la variante più accreditata: esso venne inserito, sia pure in modo limitato, nei programmi iconografici di alcuni edifici di culto in Grecia, Cappadocia, Georgia e via enumerando. A partire grosso modo dal tardo secolo xn , questa effigie di consueto appare nel santuario in posizione gerarchicamente significativa - anche se in Cappadocia ubicazione e significati di questa pregnante immagine sono già documentati intorno alla metà del secolo XI nel diakonikon o nella nicchia della prothesis27 - e la sua valenza è innanzitutto liturgica, in sincronia del resto con i grandi cambiamenti che si registrano in relazione al programma del santuario28. La sua specificità materica è ben indicata in specie dalle frange , che ne accentuano il processo mimetico dall'umile salvietta di lino, e ciò sembra alludere anche ai teli utilizzati nel corso della liturgia29. Soprattutto il Mandylion, in questa posizione, appare strettamente associato al tema del sacrificio eucaristico, come emerge dalla lettura di alcune fonti, per esempio la già citata Narratio, e a quello dell 'Annun-

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ciazione, tant'è che, a partire dal secolo xn, esso è spesso raffigurato al centro di questa scena30 : si tratta, dunque, di una effigie-reliquia di inusitato spessore, che, inoltre, fu più volte utilizzata nelle discussioni dei Padri delle Chiesa a favore delle immagini durante le sessioni del Concilio Niceno n31. Va poi sottolineato che l'ubicazione del Mandylion sulle pareti del santuario è piuttosto varia, a seconda dei messaggi e dei significati che intende esprimere. In Cappadocia, per esempio, esso appare campito al di sopra della nicchia che si apre all'estremità orientale del muro settentrionale o meridionale, presso la prothesis o il diakonikon, o sopra l'altare, e in quest 'ultimo caso i suoi nessi con il sacrificio eucaristico si colgono con im mediatezza; altrove è dipinto sopra la porta d'ingresso, posizione che ne accentua la valenza protettrice32 . In ambedue i casi queste funzioni saranno proprie, come si vedrà, anche della Veronica: la reliquia romana, infatti , condivide alcuni tratti in comune con il suo prototipo orientale, come le funzioni via via eucaristiche, a partire soprattutto dal maturo secolo xrv33, e ancora, per esempio , la valenza protettrice, in riferimento al1' addensarsi del Volto di Cristo sulle porte di città e di edifici di culto34 . In Grecia e nei Balcani, invece, sembra prevalere l'ubicazione del Mandylion sopra o presso l'altare, e ancora, come si diceva, al centro della scena dell' Annunciazione, per la sua associazione con questa immagine che compendia la storia della salvazione35 . In Georgia, in linea generale, esso appare collegato con la Deesis, riflettendo le valenze legate all'intercessione insite nel DNA di questa immagine trimorfa 36 . Circa l'ubicazione del Mandylion sulla parete dell'abside in relazione al1' altare e ai suoi significati simbolici e liturgici, essa riflette certamente il testo della Narra tio de Imagine Edessena, redatto a Costantinopoli poco dopo l'arrivo della reliquia nel 944 e attribuito a Costantino vn Porfirogenito. La fonte descrive, indugiando sui particolari, il trasferimento della reliquia, nel corso di un appuntamento liturgico che si svolgeva a Edessa la domenica precedente la prima settimana di Quaresima, dallo skeuophylakion al santuario, dove il Sacro Lino veniva esposto a est dell'altare, su di una tavola sistemata all'uopo, di modeste dimensioni ma alta quanto l'altare principale37 : l'ubicazione dell'immagine Acheropita, dunque, rappresenta anche la memoria della sua reale presenza nell'abside, nel corso delle cerimonie descritte dalla Narratio, e il suo rapporto ombelicale con la città di Edessa. Nel Mezzogiorno medioevale, come si è anticipato, le rappresentazioni del Mandylion sono estremamente rare. In aggiunta a quello di Monreale, campito sull'arco trionfale di fronte al Cristo Pantocratore - di cui si conserva ben poco - che Ernst Kitzinger pone nel solco degli approfondimenti intorno al tema del Pantocratore che si stavano sperimentando a Costantinopoli nel corso del secolo xn 38 , per quanto concerne la pittura monumentale, se ne conserva solo una seconda immagine. Quest'ultima è incastonata entro una piccola nicchia che

8. Ritratto di Urbano v, Irsina (Potenza), chiesa di San Francesco, interno

9. Ritratto di Urbano v, Aversa (Caserta), chiesa di Santa Ma ria a Piazza, interno

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10. Ritratto di papa Urbano v, Casaranello (Lecce), chiesa di Santa Maria della Croce, interno

11. Mandylion, particolare del Ritratto di papa Urbano v, Irsina (Potenza), chiesa di San Francesco, interno

si apre nella parete absidale della chiesa di San Giovanni Evangelista a San Cesario di Lecce: l'edificio, che ha subito nel corso dei secoli un ribaltamento dell'asse, tant'è che l'entrata principale attualmente si apre al centro dell'originaria abside oggi scomparsa, fu innalzato nel 1329 su committenza di un esponente del clero di Sternatia (Lecce), come recita un'iscrizione in greco campita sull'attuale parete sinistra39 . La posizione del Mandylion è di grande interesse in quanto sembra trattarsi di un unicum iconografico dato che, come si è detto , l'immagine appare inalveolata entro una nicchia quadrata, posta sulla originaria parete absidale a sinistra: si tratta della nicchia della prothesis, dove il diacono preparava la prosphorà, il pane liturgico. L'associazione fra il Mandylion e l'Eucarestia in questo caso appare rafforzata dalla sistemazione della copia della reliquia direttamente nella nicchia, e non sopra, come si verifica talvolta in Cappadocia, dove peraltro si registrano alcuni casi di immagini di Cristo a mezzo busto dipinte nello stesso incavo della medesima prothesis4°. A San Cesario di Lecce il Volto di Cristo (fig. 4) si manifesta sopra una tovaglietta di lino sfrangiato alle estremità laterali; le fran-

ge sono nere, come in altre immagini della reliquia, e potrebbero alludere, secondo Herbert Leon Kessler, alla cortina del tempio di Gerusalemme, com'è indicato in alcuni testi41 : l'ovale è allungato, con grandi occhi chiari, quasi ipnotici, posti in evidenza da spesse arcate sopracciliari, le quali si saldano a una lunga e stretta cannula nasale che giunge fino alle labbra a segnare il modulo allungato del volto. Quest'ultimo, dal colorito caldo e dall'epidermide compatta, appare solcato da spesse lumeggiature che ne sottolineano i tratti salienti; la capigliatura è gonfia, bruna, dalle ciocche rese con sottili pennellate parallele, la barba è a punta: insomma si tratta della iconografia, oramai canonica, del Mandylion bizantino. Del resto il ciclo di dipinti murali che si dispiega sulle pareti della chiesa, ali' analisi stilistica e iconografica, appare ancora legato a questa stessa tradizione ed è accompagnato da iscrizioni in greco a partire da quella dedicatoria; così anche in gran parte di origine orientale, tranne alcune eccezioni, sono i santi campiti sulle pareti, al di sotto del ciclo cristologico. Presso il Mandylion, a destra, si notano labili tracce, forse dariferire a un clipeo che doveva contenere le ultime due ler-

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tere del monogramma di Cristo in greco, come si nota in altre immagini della sacra reliquia. La perdita della decorazione della parete e soprattutto del catino absidale, di cui rimangono scarni brani nel settore sinistro sopra la nicchia con il Mandylion , non consente di approfondire la questione in merito a ulteriori connessioni fra questa immagine e il programma del santuario. Circa i lacerti superstiti, si tratta della figura monumentale di un santo, verosimilmente un diacono a sinistra, cui segue una figura forse femminile di taglia inferiore a destra, da assegnare probabilmente a epoca successiva. È però possibile ipotizzare che, come in altri casi attestati nella stessa Terra d'Otranto - a Carpignano, Muro Leccese e via enumerando - nei programmi iconografici bizantini, ai lati dell'abside in alto, prendesse posto l'Annunciazione, tenuto anche conto del fatto che il ciclo cristologico inizi sulla parete destra con la Natività: manca dunque proprio la scena introduttiva dell'Annunciazione, che doveva quindi essere sistemata altrove, e la sua ubicazione più o meno canonica è quella sulla parete absidale. In tal caso la presenza del Mandylion nella nicchia della prothesis obbedirebbe non solo all'associazione con l'Eucaristia, ma anche al suo stretto legame con l'Incarnazione, di cui è testimone indiscutibile, sottolineandone le origini squisitamente orientali. E ancora si potrebbe ipotizzare la presenza nel catino di una Deesis, immagine protagonista di questo significativo spazio nei contesti bizantini dell 'Italia meridionale 42 : come in Georgia, dove il Mandylion è spesso associato alla presenza della Deesis nel catino absidale, anche in questo caso l'ubicazione e il significato della reliquia verrebbero a riflettersi pienamente in questa scena di intercessione per antonomasia. Ancora una volta, dunque, la sperimentazione, l'utilizzazione e la fruizione delle immagini nella cultura artistica del Mezzogiorno d 'Italia, saldamente legato a Bisanzio pur nel pieno secolo xrv, appaiono pienamente consapevoli di sé, del loro spessore, coltivate e in molti casi aggiornate. Apparentemente lontane, come prive di vita, le immagini, solo a una superficiale analisi più banali, sono in realtà il risultato di riflessioni profonde, in stretta connessione con le discussioni teologiche del tempo, per di più legate fra loro da nessi iconologici spesso impalpabili. Un altro probabile Mandylion è quello scolpito sullo stipite settentrionale del vano di accesso alla cappella della torre quadrata del castello di Monte Sant'Angelo, accanto alla testa di una Vergine Regina con il capo inclinato verso quello del Figlio (fig. 5). La scultura, oggi conservata presso il Museo Tancredi nella stessa città, è a rilievo molto basso : essa è probabilmente da riferire al tardo secolo xm, come ipotizza Gioia Bertelli43 . Elemento distintivo della testa di Cristo sono i capelli e la barba, che terminano con due punte rivolte all 'insù; un 'iscrizione in latino, che corre sul bordo inferiore del concio, consente di identificare con chiarezza i due personaggi: «D(e)i Vult(us)» e «M(aria)V(irgo)». Certamente stupisce trovare queste rare immagini scolpite sugli stipiti di una cappella medioevale nel castello di

12. Volto di Cristo, particolare, Roma, San Giovanni in Lateran o, ciborio, chiave dz volta

Monte Sant' Angelo, immagini che, ormai sedimentate nelle loro valenze e destituite dei loro complessi profili, obbediscono a leggi diverse rispetto a quelle di Bisanzio. Tuttavia potrebbe cogliersi un nesso fra i due ritratti, effigiati in modo da suggerire, nella postura del volto della Vergine, una stretta simbiosi fra loro. Come è noto, nelle absidi mediobizantine, di consueto l'immagine della Vergine empie il catino 44 : nei casi in cui il Mandylion appare nell'abside, esso spesso è posto al di sotto della figura della Vergine, e questa ubicazione non è certamente casuale, in quanto evoca il dogma dell'Incarnazione, di cui la Vergine è strumento e a cui il Mandylion è associato 45 . Un ulteriore collegamento potrebbe emergere dalla posizione delle teste, quella della Vergine teneramente china verso il Figlio. Non potrebbe scorgersi in esso la volontà di riproporre, in modo audacemente sintetico, la visita del Figlio alla Madre al momento del Suo trapasso, il 15 agosto, come suggeriva la colta regia delle processioni romane e costantinopolitane, in modo fortemente evocatore e fastosamente teatrale? Del resto , in un'immagine analoga per quanto riguarda gli intenti, a giudizio di Kitzinger46 , cioè nel gruppo centrale del mosaico del secolo XII di Santa Maria in Trastevere, le figure della Vergine, anch'essa Regina come a Monte Sant' Angelo, e del Cristo al centro dell'abside evocherebbero l'incontro dell'Acheropita del Laterano con l'icona di Maria, evento cruciale della processione di Ferragosto47 .

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13. Rosone, Orvieto (Ternz), Duom o, facciata

14. Volto di Cristo al centro del rosone, Orvieto (Ternz), Duomo, fa cciata

Altrettanto rari dell'immagine del Mandylion sono, in Italia meridionale, i cicli di Abgar, un genere di consueto sconosciuto alla pittura monumentale, che sembra specifico del libro miniato e delle arti cosiddette minori48. Una copia della Cronaca di Michele Glykas , redatta a Otranto nel 1289, oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale Marciana a Venezia (Cod. Mare. Gr. Z 402), comprende un riassunto della storia di Abgar, che però menziona solo la lettera, corredato da un 'immagine del M andylion (f. 208r): esso presenta precise affinità, soprattutto iconografiche, con immagini di altri Mandylia dipinti riconducibili ad ambito bizantino 49 . Un ulteriore caso è costituito da un codice prodotto a Tropea, in Calabria, conservato a Grottaferrata nella Biblioteca del Monumento Nazionale (Crypt. µ , vm, ff. 44r-46v), che trasmette, in aggiunta alla Vita di san ta Marina, alcuni scritti minori50 , fra cui la corrispondenza fra Gesù e Abgar, illustrata da una miniatura che mostra il Cristo, la cui testa è sovrapponibile al Mandylion canonico, nell'atto di scrivere la lettera al re edesseno (f. 45r): il manoscritto è datato al 1332-1333 . Circa la Puglia medioevale, fili quasi invisibili la collegano con Edessa, la città del Mandylion , almeno in due casi. Secondo una leggenda tarda relativa a un 'icona pugliese del secolo xm, la Madonna di Corsignano , dal nome dell'omonimo casale in cui era custodita in origine - og-

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15. Volto di Cristo, Galatina (Lecce), chiesa di Santa Caterina, interno, contro/acciata

gi conservata nella cattedrale di Giovinazzo (Bari) - la tavola sarebbe stata portata in Puglia dalla Terrasanta da un certo capitano Gereteo51 : essa sarebbe stata in origine posta sull'altare principale della cattedrale di Edessa! In una delle chiese di Gallipoli, invece, nella prima metà del Duecento come trasmette il testo di un epigramma di Giorgio Cartofilace, uno dei poeti italogreci del circolo letterario del celebre egumeno di san Nicola di Casole, Nicola-Nettario (1219-1235 ), si conservava un dipinto murale o un'icona - il testo non è chiaro in proposito - che raffigurava i tre confessori di Edessa, cioè i santi Guria, Samona e Abibo, con il committente Pantaleone, vescovo della città (1220-1250 ca.): si trattava dell'unica raffigurazione, in Italia meridionale, dei santi edesseni, il cui culto è registrato nel celebre calendario marmoreo di Napoli del secolo rx52 • Di recente, nel corso di uno dei miei tanti pellegrinaggi meridionali, mi sono imbattuta in un Volto di Cristo ubicato, fatto del tutto desueto, sotto un pulpito ottenuto con pezzi di spoglio (fig. 6) nella chiesa di Santa Maria del Granato non lontano da Capaccio Vecchia (Salerno), una struttura, cioè, che probabilmente poteva, più d'ogni altra, evocare il ciborio che custodiva la Veronica romana; sulla volta a crociera del pulpito è campito un ciclo da collocare verosimilmente fra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, di alta qualità, relativo ai miracoli di san Biagio53: sotto l'arcata meridionale, nella porzione destra, emerge da questo strato

un Volto di Cristo che si staglia contro un panneggio bianco, cioè l'iconografia canonica della Veronica romana, con il nimbo crucigero di pastiglia dorata (fig. 7). L'immagine, che va collocata nell'arco della prima metà del secolo xrv - e probabilmente da attribuire alla sfera del Maestro di Giovanni Barrile54 - seppure interessata da cadute di colore e segnata da un disegno impreciso, si pone come una testimonianza preziosa all'interno di questo quadro rarefatto: sarebbe interessante sapere se essa, nel programma iconografico dello strato pi~torico più antico, fosse isolata o piuttosto inserita in ud preciso contesto legato alla vicenda della Veronica romana. Un caso di estremo interesse è poi costituito da un ritratto di Urbano v (1362-1370) in trono, Qella cripta della chiesa di San Francesco a Irsina (Potenza): si tratta di un affresco poco noto 55 che comprende, in alto a sinistra, la presenza di un Mandylion dall'epidermide bruna come sospeso alla cornice del riquadro, cui fa da pendant, a destra su uno dei montanti laterali dell'ampio trono di tipo cosmatesco, uno stemma, forse quello dello stesso papa, oggi poco leggibile (fig. 8). Il pontefice, che indossa il triregno - purtroppo in corrispondenza del volto v'è un'ampia lacuna - benedice con la destra, mentre nella sinistra regge una sorta di coppa che contiene le teste di Pietro e Paolo, suo attributo iconografico peculiare. Nel 1369, due anni dopo il suo rientro a Roma da Avignone, il 16 settembre del 13675 6 , il papa francese ritrovò nel Sancta Sanctorum le teste dei

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16. Santa Veronica, Sternatia (Lecce), chiesa di San Vito, interno

corifei degli apostoli, che vennero successivamente collocate nella basilica lateranense, sotto un monumentale ciborio che egli stesso fece costruire, affidando l'impresa a Giovanni di Stefano da Siena, che dirigeva i lavori di ricostruzione della chiesa in seguito all'incendio del 1361. Alla costruzione e decorazione del ciborio e di parte dei reliquiari contribuì Carlo v di Francia e probabilmente Giovanna di Napoli57 • Si tornerà più avanti sul ciborio, che può aver svolto un certo ruolo circa il problema dell'associazione di questo papa con la Veronica sotto diversi aspetti. La presenza di un Mandylion correlato con un ritratto di Urbano v appare desueta almeno nella pittura monumentale - un Volto di Cristo compare in un acquarello della fine del secolo XVII e inizi xvm, copia di una tavola tardomedievale, oggi conservato a Parigi nella Bibliothèque Nationale de France58 - ma probabilmente va indagato anche il settore della produzione miniata di fine secolo xiv e prima metà xv, periodo in cui si colloca la maggior parte dei suoi ritratti: suoi attributi specifici sono innanzitutto i reliquiari con le teste di Pietro e Paolo, oppure i ritratti degli stessi corifei tenuti nella mano destra, come è il caso della tavola di Simone dei Crocifissi conservata a Bologna59 . Altri attributi iconografici rari in relazione a questo papa, per il quale già all'indomani della sua morte fu avviato il processo di beatificazione, sono un reliquiario in forma di ciborio cuspidato, che evoca quello lateranense da egli stesso fatto innalzare, documentato in un disegno di Cassiano del Pozzo e conservato, insieme ad altri ritratti dello stesso papa, nella Royal Library di Windsor segnalato da John Osborne6°, e la tavola scomparsa, di cui si conserva una riproduzione, che rappresenta verosimilmente Urbano v seduto sotto un baldacchino di fronte a Giovanni II il Buono con un personaggio, inginocchiato al centro, che mostra al papa due tavolette cuspidate in cui sono raffigurati il Volto di Cristo e quello della Vergine 61 . Circa il ritratto di Irsina e il problema dell'associazione di Urbano v con la Veronica, va sottolineato che, nel corso del Trecento, si intensifica il culto per la reliquia romana, che acquista ulteriori spessori e diviene meta di pellegrinaggi: ai cosiddetti pictores veronicarum, che godevano di una sorta di copyright da parte dell'amministrazione della basilica vaticana che controllava questa attività 62 , era concesso il permesso di eseguire copie dell'insigne reliquia. Fra i pellegrini di rango che visitarono Roma nel breve periodo del soggiorno romano di Urbano v, va ricordato Carlo IV di Boemia che, nel 1368, venne in questa città per incontrare il papa63 e che in quella occasione, stando ad alcune fonti, avrebbe cercato di impossessarsi della Veronica64 che era custodita nella basilica vaticana, almeno fino al sacco di Roma del 1526, presso l'atrio, vicino al celebre oratorio di Giovanni vII : non essendovi riuscito, si procurò alcune copie della sacra immagine che poi fece ulteriormente riprodurre in Boemia e che svolsero un ruolo significativo nel cerimoniale imperiale. Soprattutto egli ottenne dal papa uno dei veli della Veronica, che portò a Praga insieme con le copie del su-

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17. Volto di Cristo, To rre dei Passeri (Pescara), abbazia di San Clemente a Casauria, interno, ciborio

dario 65 . Si vengono in tal modo a chiarire i rapporti di Urbano v con il Volto Santo, sublimati, almeno in questo caso, dai suoi legami con l'Italia meridionale, in specie con Giovanna di Napoli. In un suo soggiorno in Italia nel 13 61 , egli era stato incaricato di assolvere la regina dal mancato pagamento del censo; l'anno successivo era tornato a Napoli in seguito alla morte di Luigi di Taranto, marito di Giovanna, per proporle, da parte di papa Innocenzo VI, un nuovo matrimonio con Aymone di Ginevra 66 , ma la regina più tardi sposò Giacomo m di Maiorca. Proprio mentre si trovava a Napoli ricevette la notizia della sua elezione a pontefice, il 28 settembre 1362 67 • La stessa regina Giovanna compare nell'elenco dei sovrani che, dopo la morte del papa, ne chiesero la canonizzazione68 : tengo anche a ricordare che la sovrana contribuì alla spesa per la confezione del prezioso reliquiario che conteneva le teste di Pietro e Paolo nella basilica lateranense e forse dello stesso ciborio alla cui sommità il reliquiario era stato sistemato. A queste vicende vanno dunque collegati, io credo, rari ritratti inediti dello stesso papa, conservati in alcuni edifici di culto in Campania, Lazio meridionale e Puglia, in aggiunta al significativo caso di Irsina in Basilicata. Si tratta di un'immagine del papa con i ritratti di Pietro e Paolo retti nella mano sinistra, un dipinto del tardo se-

colo XIV ca. , campito nella chiesa di Santa Maria a Piazza (fig. 9) ad Aversa (Caserta) 69 ; e ancora di un ulteriore ritratto dello stesso papa nella chiesa di Santa Maria Annunziata a Minturno (Latina) 70 , dove però Urbano v regge un dipinto in forma cuspidata entro cui pr,endono posto non due, come accade di consueto, bensì tre personaggi ritratti a mezzobusto, disposti a piramide, ad assecondare la forma del manufatto - mi sembra che non si tratti di Pietro e Paolo in basso, e comunque il terzo personaggio, posto in alto, è anch'esso da identificare. A questi va aggiunto il ritratto del papa nella chiesa di Santa Maria della Croce a Casaranello (Lecce), già noto 71, di alta qualità: il pontefice, campito sotto un baldacchino cosmatesco ad archi intrecciati, con nimbo a raggiera, indossa la tiara con un unico giro (fig. 10) ed è accompagnato dall'iscrizione «Beatus Papa Urbanus», la stessa che spesso compare in altre sue immagini72 e che non appare «unusual», come pretende Osborne73 : egli regge fra le mani una sorta di vassoio - spesso si tratta di una grande coppa - con le teste di Pietro e Paolo. Secondo questo studioso, inoltre, il ricco dossier iconografico che riguarda le immagini di questo papa e che si colloca grosso modo tra la fine del secolo xiv e i primi decenni del successivo - sarebbe in stretta relazione con il processo di canonizzazione, avviato nel

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18. Ciborio affrescato, Vitto rito (Pescara), chiesa di San Mich ele Arcangelo, interno

1381 da papa Clemente vn, pochi anni dopo la sua morte avvenuta il 19 dicembre 13 707-1. La rilevanza del ritratto di Irsina - che si data probabilmente agli inizi del secolo xv e non alla fine del Trecento come ipotizzava Margherita Nugent - mi ha suggerito di ampliare la forchetta cronologica della ricerca agli inizi del secolo xv, periodo che, per molti versi, a queste latitudini appare come un prolungamento della precedente stagione culturale, con risultati davvero interessanti. Tornando al ritratto Urbano v a Irsina, ubicato nella cripta della chiesa, che si apre sotto il braccio settentrionale del transetto - uno spazio che probabilmente svolgeva funzioni funerarie per la presenza di una tomba ad arcosolio collocata nella parete meridionale e campito specularmente a quello di Ludovico da Tolosa, l'analisi del Volto di Cristo svela alcuni significativi elementi. Esso mi sembra più affine al Mandylion che alla Veronica per i tratti orientaleggianti del volto - con i capelli lunghi e la barba a due punte (fig. 11) - e per il drappo percorso da una fascia con motivi geometrici bianchi e neri all 'altezza del mento e da una banda nera più sottile in alto: questo elemento, in relazione alla Veronica, come sottolinea Gerhard Wolf, si trasforma via via in un velo bianco75 , perdendo le decorazioni colora-

te lineari che paiono intessute nella stessa trama della tela; il drappo potrebbe anche alludere alle tende dietro le quali si celava la Veronica vaticana. L'accentuato colorito scuro che segna l'immagine di Irsina, e pure altri celebri Mandylia, sarebbe da imputare, stando a una fonte medievale relativa al celebre Volto Santo di Laon, al lungo peregrinare di Cristo sotto il sole della Palestina76. In linea generale va anche sottolineata la posizione preminente del ritratto di Urbano v all'interno del programma iconografico della cripta della chiesa lucana, che si staglia sulla parete piana dell'abside: il ciclo comprende alcune scene cristologiche che si snodano sulle pareti, intrecciate a iconografie di matrice francese, quali l'Incoronazione della Vergin e sulla parete settentrionale e l'immagine di san Ludovico da Tolosa su quella occidentale. La Dormizione della Vergine 77 , invece, non appare direttamente associata all'Incoronazione, secondo la tradizione francese, bensì sembra obbedire a istanze più schiettamente bizantine, nei cui programmi, infatti, questa scena è di consueto campita sulla parete occidentale in relazione a uno spazio con valenza funeraria . Si è dunque di fronte a una immagine colta, stratificata, progettata fin nei dettagli da una mente au dace e sintetica. La figura del papa infatti, così come era stata concepita, diveniva il punto nodale e "snodale ''

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19. Volto di Cristo, Vittorito (Pescara), chiesa di San Michele Arcangelo, lato settentrionale del ciborio

dell'intero ciclo - come indica del resto la sua stessa ubicazione - per i suoi nessi iconologici con altre immagini distribuite nell'invaso, come un grumo di fili preziosi che si dipanano singolarmente per tessere ulteriori trame più o meno cifrate. Innanzitutto, come si è visto con il Mandylion, anche la Veronica romana, che a partire proprio dal pieno secolo xrv in specie in relazione a episodi che cadono nell'ordito del tempo di Urbano v, in una sorta di processo di autoriproduzione, si manifesta presso altre corti europee, per esempio in Boemia, assorbendo anche le fun zioni liturgico-cerimoniali del cosiddetto prototipo. Inoltre v'è il suo radicarsi in un luogo che faceva parte del territorio del regno di Napoli, con cui il papa ebbe reiterati rapporti già prima di salire al soglio pontificio e dove lo colse la notizia dell' elezione78 . Ulteriori associazioni si colgono con le immagini di Ludovico di Tolosa, campito specularmene al ritratto del papa, e di san Francesco - e del resto si è in un edificio legato al suo Ordine - per i rapporti che il pontefice intrattenne con i provinciali francescani di parte dell'Italia meridionale79 e per i legami fra due santi entrambi francesi - la causa di beatificazione di Urbano v fu infatti avviata pochi anni dopo la sua morte. Inoltre, l'impaginazione del ritratto di Urbano v, solenne, monumentale, sembra evocare il ritratto di Innocenzo III nel Liber Regulae Hospitalis SanctiSpiritus, del 1350 ca. 80 . Quest'ultimo (1198-1216) fu il promotore del culto della Veronica: va anche ri-

cordato a questo proposito che, nel 1208, egli istituì una processione annuale che coinvolgeva il Sacro Volto partendo da San Pietro e toccando l'ospedale di Santo Spirito da lui stesso fondato 81 . Sembra quasi che si voglia presentare, e rappresentare, il pontefice come una sorta di nuovo Innocenzo III , come indicano anche altre immagini, per esempio il dipinto francese iiYcui il papa dona le icone del Sacro Volto e della Madonna d'Aracoeli a Giovanni n il Buono, cui si è accennato 82 . In quest'ottica andrebbero interpretati come Veroniche due Volti di Cristo collegati a opere del tempo di Urbano v, una delle quali è incastonata nello stesso ciborio monumentale della basilica lateranense di cui il papa fu il committente, costruito probabilmente dal senese Giovanni di Stefano e aiuti nel 1368-13 70 per custodire le teste di Pietro e Paolo, che lo stesso pontefice aveva rinvenuto nel 1368 nel Sancta Sanctorum: le preziose reliquie furono collocate alla sommità del ciborio, entro un reliquiario prezioso83 . Il tabernacolo stesso svolse il ruolo di modello per un contenitore architettonico che compare nelle mani del papa in uno dei suoi ritratti, attribuiti a Cassiano del Pozzo e segnalati da Osborne, cui si è accennato 84 • Nella chiave di volta della crociera del ciborio, infatti, è scolpito un Volto di Cristo85 con lunghi capelli che scendono sulle spalle e barba a due punte (fig. 12) , immagine anch'essa, a mio avviso, splendidamente evocatrice di una summa di citazioni. Questa ulteriore Vero-

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20. Volto di Cristo, Vittorito (Pescara), chiesa di San Michele Arcangelo, interno del ciborio

nica dell'età di Urbano v poteva certamente richiamare la celebre immagine di Cristo a mezzobusto, d'origine paleocristiana, che si palesava miracolosamente, in certe occasioni, nell'abside della basilica lateranense86 , ma soprattutto la Veronica romana custodita, almeno a partire dal 1193, in un ciborio ubicato presso l'oratorio di Giovanni vn in Vaticano, entro un reliquiario con inferriate nella parte superiore, come indicano alcuni disegni di Giovan Francesco Grimaldi87 . Il modello di riferimento riguardava dunque, a esclusione dell'ubicazione, diversa, contenitore e contenuto: un ciborio cioè che custodiva una reliquia - e fin qui niente di più banale, tranne che almeno in questo caso la valenza di reliquia poteva essere estesa anche al contenitore. Nel tabernacolo del Laterano la citazione della Veronica conservata all'ombra di quello di San Pietro veniva così a collegare simbolicamente fra loro, in questo particolare momento, le più preziose reliquie della città di Roma, ovvero le teste di Pietro e Paolo e la Veronica, alla luce del fatto che, nel corso della "liturgia stazionale " del giubileo, le ultime e più significative tappe del pellegrinaggio erano costituite dalla visita alle tombe dei corifei e soprattutto alla Vera Icona88 . Attraverso l'evocazione non solamente simbolica del prototipo che a San Pietro sembrava aver trovato la sua naturale collocazione, il complesso del Laterano tornava a giocare un ruolo da ca-protagonista, dopo la translatio - e ciò in molti sensi - a San Pietro della residenza papale89. Im-

magini dei corifei e della stessa Veronica si trovano spesso ineludibilmente associate fra loro, per esempio nella lettera dello scrittore pontificio Silvestro del 1300, ove un grande Volto di Cristo appare affiancato dalle figure, di taglia piccola in confronto al Volto, di Pietro e Paolo stanti: si tratta di immagini sdoppiate e inversamente sistemate all 'interno della stessa pergamena90 . La medesima valenza viene a segnare la scelta, desueta, di sistemare un Volto di Cristo al centro del rosone della cattedrale di Orvieto (figg. 13-14 ), in una ubicazione spesso riservata, nella stessa regione , alla rappresentazione dell'Agnus Dei: Augusta Monferini ricorda l'attività di Giovanni di Stefano nel cantiere della città umbra proprio in sincronia con gli anni del papato di Urbano ve con i probabili interventi dell'artista al Laterano91 . La critica non è però unanime nell'attribuire a Giovanni di Stefano e alla sua bottega la decorazione della parte alta della facciata del duomo di Orvieto, che è invece assegnata alla bottega di Andrea Pisano, anticipandone in tal modo la datazione di circa un trentennio92: in ogni caso si registrano, sempre nella parte superiore della facciata, determinati interventi dell'epoca di Urbano v, nella fattispecie mosaici 93 . Mi sembra però che la scelta di sistemare in posizione ombelicale un Volto Santo, cada entro un preciso ordito romano: Augusta Monferini, che segnalava alcuni documenti relativi a disegni per il rosone eseguiti da Giovanni di Stefano, sottolineava alcune affinità fra i due Volti del Salva-

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tore, come li definisce la studiosa94 . Le affinità ci sono ma sono modeste e ciò dipende, io credo, dalla differente funzione di ciascuna di queste due immagini, restando ferma la loro appartenenza alla categoria dei Volti Santi e il loro probabile collegamento con l'età di Urbano ve la bottega di Giovanni di Stefano: il Volto Santo di Orvieto è più plastico, con maggiore aggetto dal fondo e con barba e capelli più folti e mossi, a evocare le potenti teste di certe personificazioni di fiumi d'epoca romana. Se poi ci si allarga al secolo successivo, che in alcuni territori appare come il prolungamento di quello precedente, la mappa di diffusione dei Volti Santi si arricchisce di alcuni significativi episodi. Mi riferisco al bell' affresco di Galatina (Lecce), ingemmato su un fondo blu notte entro uno stretto timpano , nella parte alta della controfacciata della celebre chiesa di Santa Caterina (fig. 15): esso, privo di collo, con una capigliatura a ciocche scomposte, barba divisa in due punte e baffi sottili, è campito entro un clipeo, su uno sfondo di un bianco abbagliante percorso, come il Volto Santo, da guizzanti e luminose lumeggiature. Il clipeo è bordato da una fascia rossa da cui fuoriescono sottili raggi dorati. Al dipinto , che si data alla campagna degli inizi del secolo xv, è dato risalto anche a ragione del suo splendido isolamento, ma non va dimenticato comunque il suo contesto, un ciclo apocalittico che comprende anche alcune scene del Giudizio Universale 95 , come del resto accadeva circa il ricco e complesso programma iconografico scolpito sulla facciata del duomo di Orvieto. Sempre in Salento, e collocabile all'incirca nel medesimo giro di anni, nella chiesa di San Vito a Sternatia (Lecce) si conserva parzialmente una probabile immagine di Santa Veronica, con tracce del panno bianco su cui doveva essere impresso il Volto di Cristo, una figura elegante posta, a mo ' di statua, su di un piedistallo marmoreo (fig. 16) 96 . V'è inoltre un territorio, tradizionalmente legato a Roma sotto il profilo geografico e storico, in cui appaiono sperimentate diverse tipologie del Sacro Volto, ovvero l'area di Teate, ove si raggrumano alcune significative testimonianze che sembrano anticipare l'apparizione di quel manufatto controverso - a mio avviso d'epoca moderna, che ben poco ha a che fare con la Veronica romana - che è il Volto Santo di Manoppello 97 , in un arco di tempo che va dalla prima metà del Trecento al secolo successivo. Nella volta del ciborio trecentesco di San Clemente a Casauria si manifesta solitario, entro un fondo stellato, uno splendido busto di Cristo98 , tagliato all'altezza delle spalle (fig. 17 ), che svela, sotto il profilo formale , specifiche coordinate romano-assisiati, con esiti vicini a Torriti, rinviando a un'epoca non successiva alla metà del Trecento o poco prima, che merita un intervento conservativo. Ancora una volta, dunque, il Volto di Cristo appare associato alla volta di un ciborio, fatto non casuale, anche alla luce delle valenze cosmogoniche d'antica origine di questo spazio, rivisitate nell'ottica cristiana: l'immagine nuovamente, come nel caso del ci-

borio lateranense, veniva a sintetizzare e coniugare i modelli romani, lateranense e petrina, nel senso che il Sacro Volto evocava l'apparizione di Cristo nell'abside laterana e, al contempo, la Vera Icona custodita in un ciborio a San Pietro. La citazione di quest'ultimo significativo modello diveniva poi totalizzante, come nel caso del più tardo ciborio di Urbano val Laterano, nel senso che contenuto e contenitore appaiono in perfetta simbiosi, quasi interscambiabili e inscindibilmente legati, l'uno mimetizzato nell 'altro, oramai reliquie ambedue. Circa questo significativo caso si venivano a riannodare, in tal modo, i legami dell 'antica abbazia benedettina di Casauria con Roma , che avevano segnato le origini del monastero stesso, fondato da Ludovico 11 nell'875, il quale si trovava a Roma al momento dell 'arrivo delle reliquie di papa Clemente dalla Crimea, di cui probabilmente ottenne alcune particelle deposte in un'urna romana - la stessa citata nei rilievi del portale risalente al tempo dell'abate Leonate99 . In questo stesso territorio si conserva , inoltre, un manufatto che appare come una sorta di laboratorio di sperimentazione di immagini di Cristo nelle varie iconografie e allegorie, all'interno del quale la Veronica appare due volte. Si tratta, ancora una volta, di un ciborio dipinto internamente ed esternamente, com'è tradizione di alcuni esemplari abruzzesi per altro poco noti - e che meriterebbero indagini approfondite - addossato all'abside della chiesa di San Michele Arcangelo a Vittorito (fig. 18), non lontano da Sulmona (L'Aquila) e da Chieti. Nei triangoli di risulta dell'arcata esterna del ciborio, volta verso la navata, il ciclo è inaugurato dall'episodio dell'A nnunciazione, immagine sintetica che viene a compendiare tutto il ciclo della salvazione. Sull'arcata destra , sempre all'esterno, un Agnello di Dio vittorioso è campito al centro, mentre ai lati sono disposte le figure di santa Caterina a sinistra e di un santo vescovo a destra , con un pastorale a riccio. Dalla parte opposta, sulla faccia sinistra in alto, si manifesta'un Volto Santo privo di collo, i cui capelli lisci, insieme alla barba, formano tre punte geometrizzate (fig. 19), come nei Mandylia del Sinai, di Genova e di Roma 1° 0 . Il viso, con lo sguardo volto a sinistra di chi guarda, pare inscritto in un perfetto cerchio, con un nimbo crucigero che risalta sopra un luminoso giallo oro, ed è campito contro un fondo purpureo che evoca una lastra di porfido: intorno all 'arco si dispongono due santi vescovi stanti, un probabile san Nicola a sinistra, un vescovo anonimo a destra. La scelta del primo non è probabilmente casuale e potrebbe esser posta in relazione con uno degli itinerari di pellegrinaggio alla basilica di San Nicola di Bari, lo stesso per esempio seguito alla fine del Trecento da santa Brigitta di Svezia 101 . All'interno del ciborio si registra una concentrazione di iconografie cristologiche. Nelle vele della volta trovano posto gli evangelisti con i loro simboli, incastonati entro archi trilobati, con cartigli dispiegati che contengono, come di consueto, l'incipit del loro testo evangelico. Sulla parete piana dell'abside cui si addossa il ciborio , ancora una volta v'è un agglutinarsi di iconografie cristologiche, a iniziare da un

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21. Imago Pietatis, Vittorito (Pescara), chiesa di San Michele Arcangelo, interno de{ciborio

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22. Volto di Cristo, Castello di Copertino, cappella di San Marco, architrave

ulteriore Volto di Cristo con un accenno di collo e spalle (fig. 20), campito in alto sulla finestra con profondo strombo, anch'esso con nimbo crucigero, immagine per la quale si viene a confermare il rapporto ombelicale con il ciborio; in basso, ai lati della finestra, sono rappresentati due angeli inginocchiati che reggono torce accese, mentre ancora più in basso a sinistra si staglia una imago pietatis segnata da una certa monumentalità (fig. 21), cui fa da pendant, sul lato destro, la figura di Cristo entro una mandorla, immagine teofanica per eccellenza. Circa l'imago pietatis, va sottolineato che spesso essa è associata con la Veronica, per esempio nella tavola attribuita al Maestro della Madonna Strauss 102 , conservata a Firenze: in questo caso la figura del Cristo non è collocata all'interno di un sarcofago, come di consueto, bensì è appoggiata con le braccia incrociate a una sorta di altare con il piano ribaltato, su cui sembra impresso un volto che non corrisponde all'immagine riflessa , per quel poco che si può scorgere. Tale raffigurazione sembra inoltre condividere con la citata tavola fio rentina una segnata valenza liturgica, sublimata anche dalla sua posizione dietro l'altare, al di sotto del Sacro Volto. Alla luce di queste testimonianze si può ipotizzare che in origine le copie della Veronica romana disseminate in questo territorio fossero decisamente più

numerose. La ricerca andrebbe estesa, io credo, all 'Italia centrale: penso, ad esempio, alla rappresentazione di Santa Veronica che esibisce un monumentale Volto di Cristo all'interno di un trittico affrescato di cui fa parte anche sant' Agata, campito sulla parete meridionale della chiesa a pianta centrale di Sant' Angelo a Perugia (secolo xrv) e ancora all'interessante affresco che rappresenta il Volto di Cristo, ai cui lati sono campiti i santi Pietro e Paolo, proveniente dalla chiesa di San Niccolò de Criptis a Todi (Perugia), e oggi conservato nella Pinacoteca di Todi, della seconda metà del xrv secolo. A partire dall'età tardomedievale la Veronica, com'è noto, si trasforma via via in immagine della Passione e mostra il capo cinto dalla corona di spine 103 . Questa evoluzione in Salento, per esempio, si registra con un certo ritardo a partire soprattutto dal Cinquecento: mi riferisco al Volto di Cristo, della metà ca. del secolo xv, campito al centro dell'architrave nel portale della cappella di San Marco (fig. 22 ) nel castello di Copertino (Lecce) 104 , o a quello sul portale della chiesa dell ' Annunciata a Sanarica (Lecce), dell'inizio del secolo xvn 105 . Sia pur tarde , queste immagini conservano ancora la memoria dell 'ubicazione, preferibilmente sulle porte, del Mandylion edesseno, come indicano numerosi casi in Cappadocia, che passa poi alla Veronica ro-

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mana anche in relazione, come si è visto, alle porte di città: questa funzione è chiaramente connessa anche al celebre passo del Vangelo di Giovanni: «Io sono la porta. Chi entrerà per me sarà salvo ; entrerà e uscirà e troverà pascoli» (Gv., x, 9) . In linea generale, come è emerso dalla ricerca sicuramente non esaustiva, le rappresentazioni del Volto Sacro nel Mezzogiorno medievale sono rare: meraviglia per esempio che, nel quadro ricco e variegato della pittura bizantina soprattutto della Puglia, che copre un ampio arco di tempo , si registri un unico caso di raffigurazione del Mandylion edesseno nella chiesa di San Giovanni Evangelista a San Cesario di Lecce, i cui dipinti murali, datati al 1329, sembrano aver assorbito dal prototipo tutti gli aspetti peculiari di questa specifica categoria di immagini. Appare invece più ricca di significative tessere la mappatura delle immagini del Sacro Volto nell 'arco di tempo che, grosso modo, con rare eccezioni - per esempio il Volto di Cristo di Casauria - va dalla fine del secolo xrv alla metà ca. del secolo successivo: le immagini superstiti, in questo caso, sembrano in parte coagulate nell'epoca di papa Urbano v (13621370) - per motivi storici- e nei decenni successivi, ma non si tratta di copie del Mandylion edesseno, bensì della sua manifestazione romana, la Veronica, intesa, nella maggior parte dei casi superstiti, nella sua indissolubile associazione con il ciborio sotto il quale, a San Pietro, era custodita la reliquia. Inoltre, a confermare l'attualità di questo antico culto, nella città di Roma proprio recentemente, il 25 marzo 2006, il cardinal Ruini ha presieduto alla cerimonia di consacrazione di una chiesa intitolata al Santo Volto, ubicata all 'angolo fra via Caprese e via della Magliana, che ha visto coinvolti nella sua progettazione e decorazione noti architetti e artisti, quali Carla Accardi, Chiara D ynys, Eliseo Mattiacci, Mimmo Paladino, Marco Tirelli, Nathalie Grenon e Piero Sartogo 106 . Le testimonianze, sia pur scarne, databili nell'arco di tempo che va dalla fine del secolo xm alla metà ca. del xv, attestano comunque la conoscenza e l'utilizzo del Sacro Volto nel Mezzogiorno medioevale e tardomedioevale, piegato e strumentalizzato via via da ideatori e forgiatori di immagini che ben ne conoscevano le molteplici valenze.

1 M. Falla Castelfranchi, «La teologia trinitaria: aspetti teologici e iconografici. Le origini e il suo sviluppo in area bizantina», in: Il concilio di Bari del 1098, Atti del convegno storico interecclesiale e celebrazioni del IX centenario del concilio (Bari, 30 settembre-4 ottobre 1998), a cura di S. Palese & G. Locatelli, Bari 1999, pp . 285-315; Ead. , «La decorazione pittorica medioevale del complesso monumentale» , in: Cimitile e Paolino da Nola . La tomba di San Felice e il centro di Pellegrinaggio. Trent'anni di ricerche, Atti della Giornata tematica dei Seminari di Archeologia Cristiana (École Française de Rome, 9 marzo 2000), a cura di H. Brandenburg & L. Ermini Pani, Città del Vaticano 2003 , pp. 295-324. 2 Ead., «La decorazione pittorica bizantina della cripta della Celimanna», in: Sup ersano. Un paesaggio antico del Basso Salento, a cura di P. Arthur e V. Melissano, Galatina 2004, pp. 71-80.

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Ead., «Del ruolo dei programmi iconografici absidali nella pittura bizantina in Italia meridionale, e di un'immagine desueta e colta nella cripta della Candelora a Massafra», in: Il popolamen to rupestre del!' area mediterranea: la tipologia delle fonti. Gli insediamenti rupestri della Sardegna, Atti del seminario di studio, (Lecce 1984 ), a cura di C.D. Fonseca, Galatina 1988, pp. 187208; Ead., «Santa Maria di Anglona fra Roma e Palermo. Sulla decorazione delle navate laterali», in : Santa Marza di A nglona, Atti del convegno internazionale di studi (Potenza-Anglona, 1991 ), a cura di C.D . Fonseca e V. Pace, Galatina 1996, pp. 8997. 4 Sul Mandylion in generale cfr. A. Grabar, La Sainte Pace de Laon . Le Mandylion dans l'art orthodoxe, Praha 1931 ; T. Velmans , «L'église de Khé en G éorgie», in: Zograf, x, 1979, pp. 7182; N. Thierry, «Deux notes à propros du Mandylion», in: Zograf, XI , 1980, pp. 16-19 ; C. Jolivet-Lévy, Les églises byzantines de Cappadoce. Le programme iconogra/ique de l'abside et de ses abords, Paris 1991 ; E. Kuryluk, Veron ica. Storie e simboli della «vera immagine» di Cristo, Roma 1993; H. Belting, Likeness and Presence. A H istory o/ the Image be/ore the Era o/ Art, Chicago and London 1994 , trad. da H. Belting, Bild und Kunst. E/ne Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Munich 1990; E. Kitzinger, «The Mandylion at Monreale», in: A rte profana e arte sacra a Bisanzio, a cura di A. Iacobini & E. Zanini, Milion III, Roma 1995 , pp. 575-5 90; Holy Pace and The Paradox o/ Representation, Papers from a Colloquium held at the Bibliotheca Hertziana, Rome and the Villa Spelman (Florence 1996), a cura di H.L. Kessler & G. Wolf, Bologna 1998; G. Wolf, «"Pinta della nostra effige"», in: Romei e Giubilei. Il pellegrinaggio medievale a San Pietro (3 50-1350), catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 29 ottobre 1999-26 febbraio 2000), a cura di M. D 'Onofrio, pp . 211-218 ; S.E.J. G erstel, Beholding Sacred Mysterzés. Programs o/ the Byzantine Sanctuary , Seattle and London 1999; H.L. Kessler, «Il Mandylion», in: Il Volto di Cristo, catalogo della mostra (Roma, 9 dicembre 2000-16 aprile 2001 ), a cura di G . Morello & G. Wolf, Milano 2000, pp. 67-76; Santa Croce e Santo Volto . Contributi allo studio dell'origine e della fortuna del culto del Salvatore (secoli IX-XV) , a cura di G. Rossetti, Pisa 2002; G. Wolf, Schlezér und Spiegel. Traditionen des Christusbildes und die Bildkonzepte der Renaissance, Mi.inchen 2002; Mandylion. Intorno al sacro Volto, da Bisanzio a Genova, a cura di G . Wolf et al. (Genova, Museo Diocesano, 2004 ), Milano 2004. 5 K.E. McVey, «The Sogitha on the Church ofEdessa», in: A ram, v, 1993 , pp. 329-3 70 (Festschrift Sebastian Brock), con la bibliografia precedente. 6 H.J.W. Drijvers, «The Image of Edessa in the Syriac Tradition», in: Holy Pace, 1998 (vedi nota 4), pp. 13-31. 7 A. Cameron , «The Mandylion and Byzantine Iconoclasm», in: Holy Pace, 1998 (vedi nota 4), pp. 33 -54. 8 La chiesa della Theotokos del Faro era uno straordinario reliquiario monumentale: alla fine del secolo x11 Nicola Mesarite trasmette un prezioso elenco delle reliquie che vi erano custodite, fra cui il Mandylion: cfr. B. Flusin, «Didascalie de Constantin Stilbés sur le Mandylion et la Sainte Tuile», in: R evue des Études Byzantines, LV , 1997, pp. 53 -7 9, con la bibliografia precedente. 9 P.G. 113 , col. 425 s. ; Gerstel 1999 (vedi nota 4), pp. 68 ss., con la bibliografia precedente. Sull'evento cfr. É. Patlagean, «L'entrée de la Sainte Face d'Édesse à Costantinopole en 944», in : La religion civique à l'époque médiévale et moderne (chrétienté et Islam), Actes du colloque organisé par le Centre de recherche "Histoire sociale et culturelle de l'Occident, x11e-xv11' siècles, de l'Université de Paris x' -Nanterre et l'Institut Universitaire de France, (Nanterre 21-23 Juin 1993) , Collection de l'École Française de Rome, 213, a cura di A. Vauchez, Roma 1995 , pp . 21-35. 10 E. Parlato, «Le icone in processione», in: A rte e iconografia a Roma. Da Costantino a Cola di Rienzo , a cura di M. Andaloro & S. Romano, Milano 2002 , pp. 55 -72. 11 R. J anin, La géographie écclésiastique de l' empire byzantin: III. Les églises et les tnonastères, Paris 1969, p. 200. 12 N. Patterson Sevè'enko, s.v. Virgin H odegetrza , in The Oxford

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Dictionary o/ Byzantium, III , New York-Oxford 1991 , pp. 217221 73 ; A. Weyl Carr, «The Mother of the God in Publie>>, in: Mother o/ God. Representation o/ the Virgin in Byzantine A rt, catalogo della mostra a cura di M. Vassilaki (Athens, Benaki Museum , 20 October 2000-20 January 2001), pp. 325-337 , e A. Kartsonis, «The Responding Icon», in: Heaven on Earth. Art and the Church in Byzantium, a cura di L. Safran, Pennsylvania University Press 1991, pp. 58-80, p. 66, fig. 3.11 , p. 67, e B.V. Pentcheva, Jeans and Power. Th e Moth er o/ God in Byzantium, Pennsylvania University Press 2006 , pp. 37 ss. 13 Parlato, 2002 (vedi nota 10). 14 E. Kitzinger, «A Virgin's Face: Antiquarianism in Twelfth Century Art», in: Art Bulletin, LXII, 1980, pp. 3-19. 15 Cfr. supra , nota 9. 16 B. D 'Onorio, A ntiche icone a Montecassino, Pescara 2004 , p. 136, figg . a p. 14 (particolare) e 137. 17 S. Brock, «Iconoclasm and Monophysites», in: Iconoclasm , Papers given at the Ninth Spring Symposium of Byzantine Studies (University of Birmingham, 1974), a cura di A. Bryer & J. Herrin, Birmingham 1977 , pp. 53-57; M. Mundell Mango, «Monophysite Church decoration», ivi, pp. 59-74. 18 Drijvers, 1998 (vedi nota 6). 19 K. Weitzmann, The Mo nastery o/ Saint Catherine at Mo unt Sinai. The Icons. I. From the Sixth to the Tenth Century, Princeton 1976, pp. 94 ss. , tavv. XXXVI-XXXVII ; Belting, 1994 (vedi nota 4) , pp. 209 ss.; A. Lidov, «Il Dittico del Sinai e il Mandylion», in: Mandylion, 2004 (vedi nota 4), pp. 81-89. 20 L. Travaini, «La zecca merovingia di Avenches e le prime monete con il Volto di Cristo», in: Quaderni Ticinesi, xxx11 , 2003 , pp. 291-297. 21 O . Wulff, «Die byzantinischen Malereien der Asketenhi:ihlen im Latmos», in: Der Latmos, a cura di Th. Wiegand, Berlin 1913 , pp. 191 ss.; M. Restie, Byzantine Wall Painting in Asia Minor, New York 1967, I, pp. 78 ss. (traduzione inglese del testo originale tedesco, pubblicato simultaneamente da A. Bongers a Recklinghausen). 22 Nell'impaginazione iconografica dell'immagine compaiono i clipei con la luna e il sole, la luna raffigurata come una giovane donna con una falce di luna sospesa sui capelli, mentre il sole è un bel giovane con folta capigliatura a ricci. Mi chiedo se non si tratti della più antica raffigurazione, in queste fattezze , dei due astri principali, e se questa iconografia non sia stata condizionata dai geni del luogo, ovvero dall'iconografia di Selene ed Endimione, dato che proprio in questo recesso, come s'è detto, si consumavano i loro amori notturni. Così raffigurati, come un bel giovane e una donna con la falce di luna sui capelli, essi compaiono, in specie in scene della Crocifissione, in numerose pittu re della Cappadocia di epoca più tarda: questa precoce iconografia, che affonda le proprie radici nella tradizione classica, potrebbe esser stata rivisitata proprio in questo recesso della montagna sacra per trasmettere il ricordo dei due amanti leggendari, che avrebbero potuto prestare le loro fattezze ai simboli del sole e della luna. 23 Finora i pochi studiosi che si sono interessati a questo dipinto murale non mi sembra abbiano posto l'accento sul trisaghion , ovvero sull'iscrizione aghios aghios aghios relativa al testo di Isaia (vI, 3) che compare sul cartiglio retto dalle figure del tetramorfo e che poi prosegue, in lettere capitali di discreta fattura, intorno alla mandorla con il Cristo. Il medesimo testo corre intorno a uno stampo eucaristico in bronzo con San Filippo a Hierapolis. In questo caso si coglie un preciso nesso tra la funzione del manufatto e la citazionedell'inczpit dell'inno che, nel corso della liturgia, era vcantato prima della consacrazione del pane. Cfr. N. Patterson-Sevcenko, «Bread stamp with St. Philip», in: A ge o/ Spirituality. Late A ntique and Early Christian A rt, Third to Seven century , catalogue of the exhibition at the Metropolitan Museum of Art, New York, November 19, 1977 , through February 12, 1978 , a cura di K. Weitzmann , scheda nr. 530, pp. 590-591. Intorno a questo canto si sviluppò infatti, nel corso del secolo VI, una disputa fra Monofisiti e Calcedonesi: secondo i primi - si trattava di un testo cantato a Costantinopoli durante la proces-

sione ali' inizio dell'Eucarestia, a partire dalla metà circa del secolo v, che poi, dal secolo VI , divenne parte permanente del servizio liturgico (cfr. R.F Taft , s.v. Trisagion, in The Oxford Dictionary o/ Byzantium, III , New York/Oxford 1991, p. 2121)- era diretto a Cristo, mentre per gli Ortodossi alle tre persone della Trinità. Sul versante delle immagini il trisaghion, limitatamente alla presenza di arcangeli che reggono il cartiglio con la citazione del brano da Isaia, appare diffuso in specie in ambito copto, in alcune delle celebri absidi di Bawit, del secolo VI-VII e su due capitelli conservati al Museo Archeologico di Istanbul con l'immagine di serafini sugli angoli, mentre intorno all'abaco corre l'iscrizione con questo testo: i capitelli si datano fra secolo v e VI (A. Iacobini, Visioni dipinte. Immagini della contemplazione negli a/freschi di Biiwit, Roma 2000, pp. 126 ss. , 154 ss. , 169). Il testo compare anche, retto da arcangeli posti presso lo spiccato del!' abside, a Sant'Apollinare in Classe, in riferimento ai mosaici della seconda fase, del secolo VII pieno, e nei perduti mosaici della chiesa della Dormizione a Nicea, di discussa datazione (all'epoca pre o posticonoclasta). Di consueto la traduzione in immagine appare come la ripercussione immediata di alcuni significativi aspetti e momenti della liturgia, riflettendone appieno le discussioni teologiche in / ieri: quelle intorno al trisaghion, in linea generale non superano la soglia del secolo VI, in perfetta sincronia con l'attestazione di un a forte presenza monofisita , non più documentata in regioni quali l'Asia Minore. A questo proposito ricordo che Eraclea sul Latmos si trova in Caria, ovvero in una delle regioni dell'Asia Minore in cui si registra una cospicua presenza di diocesi di segno monofisita (cfr. G. Fedalto, Hierarchia Ecclesiastica Orien talis, Padova 1988), accanto a quelle ortodosse, come del resto accade nell'Egitto copto, ovvero in quei territori in cui i Monofisiti erano ampiamente radicati. 24 Iacobini, 2000 (vedi nota 23) , p. 153. 25 H. Delehaye, «Vita S. Pauli Iunioris in Monte Latro», in: Analecta Bollandiana, XI, 1892, pp. 5-74, 150 ss. 26 E. Cruikshank Dodd, «Three Early Byzantine Silver Crosses», in: Dumbarton Oaks Papers, xu , 1987 , pp. 165-179. n Jolivet-Lévy, 1991 (vedi nota 4), p. 85 ; Gerstel 1999 (vedi nota 4), p. 70. 28 Velmans, 1979 (vedi nota 4); Gerstel 1999 (vedi nota 4), pp. 71 ss. ; C. Jolivet-Lévy, Études Cappadociennes, London 2002 , p. 383 s. 29 Gerstel, 1999 (vedi nota 4), pp. 71 ss. 30 G erstel, 1999 (vedi nota 4), pp. 70 e 126, Kitzinger in: Art Bullettin 1980 (vedi n. 14); Jolivet-Lévy 1991 (vedi nota 4) , p. 85 ; Delehaye in: Analecta Bollandiana 1892 (vedi nota 25). 3 1 Grabar, 1931 (vedi nota 4) , pp. 26 ss. 32 Thierry, 1980 (vedi nota 4); Jolivet-Lévy 1991 (vedi nota 4) , pp. 85-86 e 268. 33 G. Wolf, «Or fu sì fatta la sembianza vostra? Sguardi alla "vera icona " e alle sue copie artistiche», in: Il Volto di Cristo, 2000 (vedi nota 4), pp. 103-114. 34 G . Wolf, «Il Volto che viaggia: premessa a un incontro», in: Mandylion 2004 (vedi nota 4), pp. 7-24 ; Brock, 1977 (vedi nota 17 ), p. 24. 35 Kitzinger, 1995 (vedi nota 4); Gerstel, 1999 (vedi nota 4), pp. 68 ss. 36 Velmans, 1979 (vedi nota 4). J7 Cfr. supra, nota 9. 38 Kitzinger, 1995 (vedi nota 4). 39 A. Cassiano, «Edifici ed arredi sacri: San Giovanni Evangelista», in: San Cesario di Lecce. Storia-Arte A rchitettura, Galatina 1981 , pp. 49-68; G . Passarelli, Le scritte di San Giovanni Evan gelista a San Cesario, ivi, pp. 71-7 8; A. Jacob , «Inscriptions Byzantines datées de la province de Lecce. Carpignano-CavallinoSan Cesario», in: R endiconti della classe di Scienze Morali; Storiche e Filologiche, ser. VII , XXXVIII , fase. 1-2 , gennaio 1982 (1983 ), pp. 41-62. 40 N .B. Teteriatnikov, Th e Liturgica! Planning o/ Byzantine Ch urches in Cappadocia, Roma 1996 (Orientalia Christiana A nalecta 252) , pp. 84 ss. 41 Kessler, 2000 (vedi nota 4) , p. 74.

IL MANDYLION NEL MEZZOGIORNO MEDIOEVALE 42

Falla Castelfranchi, 1988 (vedi nota 3); K.R. Althaus, Die Apsidenmalereien der Hohlenkirchen in Apulien und in der Basilikata. Ikonographische Untersuchungen , Hamburg 1997. 43 G. Bertelli, «Il Sacro Mandylion e la Vergine», in: I.:Angelo, la Montagna, il Pellegrino. Monte Sant'Angelo e il santuario di San Mich ele del Gargano. Archeologia, Arte, Culto, Devozione dalle origini ai giorni nostri, Foggia 1999, pp. 140 ss. 44 Sui programmi iconografici mediobizantini cfr. O. Demus, Byzantine Mosaic Decoration, London 19763; J. Lafontaine Dosogne, L'évolutzòn du programme décoratzf des églises, Actes du xv" Congrès International d'Études Byzantines, Athènes 1976, III , pp. 129-156 ; H. Maguire, «The Cycle ofimages in the Church», in: Heaven on Earth. Art and the Church in Byzantium , a cura di L. Safran, Philadelphia 1998, pp. 121 -151. 45 Gerstel, 1999 (vedi nota 4), p. 70. 46 Kitzinger, 1980 (vedi nota 14). 47 Ibid. e Parlato, 2002 (vedi nota 10). 48 Come indica, p.e. , la situazione in Georgia: cfr. Z. Skhirtladze, «Canonizing the Apocrypha: the Abgar Cycle in che Alaverdi and Gelati Gospels», in: Holy Pace, 1998 (vedi n. 4), pp. 69-93. 49 Kessler, 2002 (vedi nota 4) , p. 93, fig. a p. 84. 50 Manoscritti greci dell'Italia meridionale, catalogo della mostra (Grottaferrata , 2000), a cura di P. Canart & S. Lucà, Roma 2000, pp. 137-138. 51 M. Milella Lo Vecchio, «Madonna con Bambino (Madonna di Corsignano)», in: Icone di Puglia e Basilicata dal M edioevo al Settecento, catalogo della mostra (Bari, 1988), a cura di P. Belli D 'Elia, Milano 1988, p. 110. 52 M. Falla Castelfranchi, Pittura monumentale bizantina in Puglia, Milano 1991, p. 211. 53 Fra le illustrazioni del denso saggio di F. Bologna, «Momenti della cultura figurativa nella Campania Medievale», in: Storia e civiltà della Campania. Il M edioevo, a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli 1992, pp. 171-275 , compare a p. 342 la bella immagine di san Biagio in trono, etichettata come di prima metà del secolo xrv, ma di cui non v'è cenno nel testo: mi sembra più tarda, seppure legata ancora a stilemi trecenteschi, tenendo poi conto del fatto che essa viene a obliterare uno strato precedente, cui appartiene il Sacro Volto, databile, io credo, entro la prima metà del secolo XIV. 54 Questa è l'opinione di Francesco Abbate - cui ho mostrato alcune riproduzioni di questo dipinto - che mi pare condivisibile: penso ali' affresco che raffigura la scena della Moltiplicazione dei pani e dei pesci, conservato nella sala capitolare dei frati minori a Santa Chiara, degli anni trenta del secolo XIV ca.: cfr. F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli. 1266-1414, Roma 1969, pp. 200 ss., tav. XIV e figg. v, 10, 19-23. 55 M. Nugent, A/freschi del Trecento nella cripta di 5. Francesco a Irsina , Bergamo 1933 , pp. 67 ss .: un recente accenno a questi affreschi si trova in M. D 'Elia, «Un profilo dei Beni Artistici e Storici della Basilicata», in: La Lucania e il suo patrimonio culturale, a cura di G. Appella & F. Sisinni, Roma 1991 , pp. 45-57. Per queste informazioni bibliografiche ringrazio affettuosamente il mio allievo dott. Giuseppe Castelluccio, dottorato nel corso dell'Anno Accademico 2004-2005 presso la Facoltà di Beni Culturali dell'Università di Lecce, la cui tesi verteva sulla pittura del Duecento in Basilicata, relatrice io stessa, correlatrice la prof.ssa Marina Righetti Tosti-Croce dell'Università di Roma "La Sapienza". 56 Nugent, 1933 (vedi nota 55 ); N . Del Re, s.v. «Urbano v, papa, beato», in: Bibliotheca Sanctorum , XII, [Roma 1969], seconda ristampa, Roma 1990, coli. 844-47; Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Bari 2001 , pp. XXVII, 154 e 358; M. Hayez, s.v. «Urbano v, beato», in: Enciclopedia dei Papi, II , Roma 2000, pp. 542-550. 57 Ibid. 58 M. Bacci, «Kathreptis, o la Veronica della Vergine», in : Iconographica. Rivista di Iconografia medievale e moderna, III , 2004 , pp. 11-37. 59 G. Dalli Regoli, «Restauri a San Miniato. Una effigie di Urbano V e una testimonianza di Franco Sacchetti», in: Arte Cristiana, LXXXVII, 1999, pp. 183-188. 60 J. Osborne, «Last Roman Images of Pope Urban v (1362-

1370)», in: Zeitschri/t fur Kunstgeschichte, u v, 1991, pp. 20-32. Bacci, 2004 (vedi nota 58). 62 Wolf, 2000 (vedi nota 33). 63 Bacci, 2004 (vedi nota 58). 64 Wolf, 2000 (vedi nota 33 ), e O. Pujmanova, zbid. , schede IV, 17 e IV, 18, pp. 181-183. 65 Bacci, 2004 (vedi nota 58). Sui rapporti fra Carlo IV di Boemia e Urbano v cfr. anche S. Romano, «Nielli alla corte di Carlo Iv di Boemia e gli eventi del 1368-1369 in Italia», in: Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, s. III , XXI, I, 1991 , pp. 315-327. 66 Enciclopedia dei Papi, 2000 (vedi nota 56) , p . 543. 67 Cfr. Bibliotheca Sanctorum, 1969 (vedi nota 56), col. 843 ; Enciclopedia dei Papi, (vedi n. 56), p. 543. 68 Cfr. supra, nota 56 , e Osborne, 1991 (vedi nota 60), p. 22. 69 Esso mi è stato segnalato dalla mia allieva dott.ssa Manuela De Giorgi, dottore di ricerca presso la Facoltà di Beni Culturali dell'Università di Lecce la quale, insieme con un'altra mia allieva, anch'ella dottoranda , la dott.ssa Maria Rosaria Marchionibus, sta studiando un gruppo di affreschi medioevali conservati in alcune chiese di questa città. 70 Per la segnalazione di questo affresco ringrazio caldamente la dott.ssa Francesca Maresca e il dott . Sergio Ortese, entrambi dottorandi presso la Facoltà di Beni Culturali dell'Università di Lecce. In Puglia un ulteriore ritratto di Urbano v si trova questa volta in una chiesa rupestre, quella di Sant'Antonio abate a Massafra (Taranto), cfr. C.D. Fonseca , Civiltà rupestre in Terra fo nica , Milano 1970, p. 112. 71 A. P randi, «Pitture inedite di Casaranello», in: Rivista dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'A rte, n.s. , x, 1961 , pp. 227-292 , ristampato in Paesi e fig ure del Vecchio Salento, a cura di A. de Bernart, Galatina 1980, pp. 273-327 , e M. Milella Lovecchio, in Restauri in Puglia, 1971-1991, I, pp. 105 ss., Fasano (Brindisi) 1993. 72 Per esempio. nel ritratto di Urbano v campito sulla parete destra della chiesa di San Flaviano a Montefiascone (Viterbo). Si tratta certamente di questo papa , come indica l'iscrizione in latino , identificazione che sembra dubbia in Osborne, 1991 (vedi n. 60), p. 26. 73 Osborne, 1991 (vedi nota 60), p. 28. 74 Ibid., pp. 27 ss. 75 Wolf, 2000 (vedi nota 33 ), p. 107. 76 Ibid. 77 Su questo dipinto murale rinvio al volume della mia allieva M. De Giorgi, La Dormizione della Vergine nella pittura medievale dell'Italia meridionale e della Sicilia. Ico nografia e fonti liturgich e, Spoleto, CISAM, in corso di stampa. 78 Cfr. supra, note 51 e 33 . 79 Enciclopedia dei Papi, (vedi nota 56) , p. 548. 80 A. Tornei, «Liber Regulae Hospitalis Sancti Spiritus», scheda rv, 15 , in: Il Volto di Cristo , 2000 (vedi nota 4), p. 180, fig. a p. 126. 8 1 G. Wolf, «From Mandylion to Veronica: Picturing the "Disembodied" Face and Disseminating the True Image of Christ in che Latin West», in: The Holy Pace, (vedi nota 4) , pp. 153-179, 167 ss .; C. Egger, «Papst Innocenz III und die Veronika. Geschichte, Theologie, Liturgie und Seelsorge», ivi, pp . 181-203 . 82 Bacci, 2004 (vedi nota 58). 83 N ell'Enciclopedia dei Papz; alla voce Urbano V (vedi nota 56), p. 549, si legge, invece, che si «procedette al riconoscimento dei due principi degli apostoli (marzo 1364) che furono quindi custoditi in un doppio reliquiario commissionato a Giovanni di Bartolo [ .. . ]». In queste righe sono contenuti gravi errori poiché il rinvenimento avvenne nel marzo del 1368 - nel 1364 il papa era ancora ad Avignone-, l'architetto non era Giovanni di Bartolo bensì Giovanni di Stefano e certamente non sono, come si legge nel testo, i due Principi degli Apostoli a essere custoditi nel ciborio, ma le loro teste! Si spera che gli errori siano da imputare alla brutta traduzione italiana. 84 Osborne, 1991 (vedi nota 60). 85 A. Monferini, «Il ciborio lateranense di Giovanni di Stefano», in: Commentari, xm, fase. III-Iv, 1962 , pp. 182-212. 61

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M. Andaloro & S. Romano, «L'immagine nell'abside», in: Arte e iconografia a Roma, 2002 (vedi nota 10) , pp. 73-102. 87 Wolf, 2000 (vedi nota 33 ), p. 103 e S. Aini, ibid., schede IV, 5861, pp. 207-209. 88 E. Mori & G. Wolf, scheda 1v, 9, in: Il Volto di Cristo (vedi nota 4), p . 177. 89 A. Monciatti, Il palazzo vaticano nel Medioevo, Firenze 2005 (Fondazione Carlo Marchi, Studi, 19). 90 Il Volto dz Cristo, 2000 (vedi nota 4) , fig. a p. 123. 91 Monferini, 1962 (vedi nota 85). 92 R. Bartalini, «Andrea Pisano a Orvieto», in: Scritti in ricordo di Giovanni Prevziali, Prospettiva, un-LVI, 1988-1989, pp. 164-172. 93 C. Harding, «The Production of Medieval Mosaics: the Orvieto Evidence», in: Dumbarton Oaks Papers, XLIII, 1989, pp. 73102. 94 Monferini, 1962 (vedi nota 85). 95 P. Belli D 'Elia, «Gli affreschi di Galatina. Apocalissi nel Salento», in: Art Dossier, xxxvin, settembre 1989; Ead. , «Principi e mendicanti. Una questione di immagine», in: Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimentale. Il ruolo degli Acquaviva tra XV e XVI secolo, Atti del I convegno internazionale di studi sulla casa d'Acquaviva di Atri e Conversano (Conversano-Atri, 13-16 settembre 1991), a cura di C. Lavarra, Galatina 1996, pp. 283292. 96 L'affresco è allo studio del dott. Sergio Ortese, dottorando presso il Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia della Facoltà di Beni Culturali dell 'Università di Lecce, che ringrazio affettuosamente per la segnalazione di questo affresco e anche del Sacro Volto di Galatina. Nello stesso territorio ricordo anche il Sacro Volto campito in una nicchia presso l'abside nella chiesa della Madonna dell 'Istria presso Lociglia (Lecce), e quello nella chiesa di Santa Maria dell 'Alto a Felline, collocato nella parte superiore di un dipinto che raffigura la Trinità, entrambi del xvi secolo circa. 97 H. Pfeiffer, Il Volto Santo di Manoppello , Pescara 2000. 98 Ringrazio affettuosamente l'amica e collega, dott.ssa Iole Carlettini dell'Università di Chieti, per avermi segnalato questa splendida immagine. Essa sembrerebbe più o meno coeva del busto di Cristo nel battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli, che ha le peculiarità di un Santo Volto: bisognerebbe capire se realmente fosse collegato con la figura di una Vergine, come si legge (cfr. P. Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, Firenze 1986, p. 289, fig. 15 p. 302, con la bibliografia precedente). 99 M. Falla Castelfranchi, «Ludovico n, San Clemente e la fondazione di Casauria», in: Chieti e la sua provincia. Storia arte cultura, a cura di U. De Luca, Chieti 1990, pp. 210-221; F. Gandolfo, Scultura medievale in Abruzzo, Pescara 2004 , pp. 116 ss. 100 Wolf, 2004 (vedi nota 4), p. 21. 101 R. Stopani, La viafrancigena. Una strada europea nell'Italia del Medio evo, Firenze 1988. 102 Wolf 2000, «Imago pietatis con Maria e Maria Maddalena» (vedi nota 4), 1v, 23, pp. 185 ss. 103 Ibid. , pp. 108 ss. 104 M. Cazzata, Guida ai castelli pugliesi, Galatina 1997, pp. 51 ss: per la segnalazione di questa immagine ringrazio affettuosamente la mia allieva Dott.ssa Giulia Rella. 105 R. Poso, «Le chiese», in: Sanarica, a cura di A. Cassiano, Galatina 2001 , pp. 123-46, pp. 132 ss. 106 Cfr. C.A. Bucci, «Luce e pittura in periferia: è nata la chiesa degli artisti», in: La Repubblica , venerdì 24 marzo 2006, p. IX.

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Christ is enthroned frontally, but not judgementally, in the central panel of the Ste/aneschi Triptych once signed by Giotto and commissioned for the basilica of San Pietro in Vaticano 1 (fig. 1). He is robed in a gold-bordered blue mantle with a white lining patterned in gold. Beneath it he wears a darker blue tunic with a goldembroidered panel on the breast. He is heavily bearded and his luxuriant yellow-blonde hair is parted in the centre and falls to his shoulders on either side. He blesses with his right hand, and supports a closed book on his left knee. A guard of eighteen angels flanks him, nine on either side2 . On an elaborate carpet, decorated with birds, the donor of the triptych cardinal Giacomo Stefaneschi kneels at Christ's right. What is Giotto's authority for this choice of Christ representation? The gabled and crocketed Gothic marble throne on which Christ sits in the central panel of the Ste/aneschi Triptych differs from anything which can be found in Roman mosaic or wall-painting during the thirteenth and early fourteenth centuries. The enthroned Christ commissioned by Pope Nicholas rv on the fa~ade of Santa Maria Maggiore and signed by Filippo Rusuti before his departure for the French royal court, sits on a traditional lyre-backed jewelled throne3 (fig. 2). The papal throne in the apse of the Upper Church at San Francesco at Assisi is simpler, and the triumphal iconography of its predella relief defines a distinct meaning (Psalm 90,13) 4 • The Stefaneschi throne argues for a northern European context for such ceremonial furniture, although nothing comparable appears however in French royal seals or manuscripts, nor in the sculpture of the great thirteenth-century Gothic cathedrals5. The pre-eminent surviving example is the Coronation Chair in Westminster Abbey. A document of ea. 1300 concerning a throne with crocketed gable suggests that it was part of a series: «[ ... ] quadam cathedra de ligno facta per Magistrum Walterum pictorem Regis loco dicte cathedre que prius ordinata fuit de cupro»6. This being the case should we also seek similarities between the features of Christ in northern contexts? In the period between ea. 1210 and 1270 a significant change took place in the design of Gothic portals on major French cathedrals, with the growing importance of the trumeau Christ, perhaps associable with the growing popularity of the Last Judgement in their tympana7. It appears to have been a design choice, for it is difficult to link it to substantive exegetical developments, or changes in popular piety8. The quotidian aspect of the sculpture of cathedrals such as Amiens and Bourges has however, been little studied, although it should be noted that in both Last Judgement tympa-

na Franciscan friars are represented 9 . The friars opened a house at Amiens in 1235 and in Bourges seven years earlier, so they must have been a novel phenomenon at the time of the creation of the relief sculpture 10 . The tympanum began to surrender its previously dominant role in portal design. This is particularly clear in the Beau Dieu portal on the west fa~ade at Amiens, where the splay Apostles are composed around the trumeau Christ rather than referring to the tympanon itself11 . The facial features of the Beau Dieu are strongly symmetrical, the hair centrally parted and falling in gentle waves to a point behind his shoulders. The beard divides beneath the point of the chin. A comparable head of Christ was visible, until its destruction in 1914, on the Christ of the north transept portal of Reims 12 . This head of Christ conforms to the transfigured type which appears early in Byzantine iconography. The growing importance of the trumeau Christ does little therefore to answer our question. One other unnoticed nuance of the Stefaneschi panel is its ceremonial aspect. When the newly-consecrated Pope arrived in Rome and entered San Pietro, he was taken, according to the Ceremonial of Gregory x (12701276), to the sanctuary: «Demum ad magnam et eminentem sedem post altare beati Petri ducitur et in ea a priore diacono cardinali intronizatur et ponitur. Et ibi sedens recipit ad pedem et ad osculum oris omnes cardinales ordinate et omnes canonicos Sancti Petri» 13 . The ceremony of kissing the Pope's foot had a long history reaching back to Roman imperial ceremonial1 4 . In the Triptych painted for cardinal Stefaneschi for the basilica of San Pietro he is shown kneeling at the feet of the Enthroned Christ at the moment prior to kissing the Saviour's foot. This kneeling posture of the fourteenthcentury cardinal is in marked contrast to the 1rpoaxvv'f)utq of Pope Honorius III at the foot of Christ in the preserved portion of the original apse mosaic of San Paolo fuori le mura 15 . We know that the mosaicists responsible for the completion of the apse mosaic had been requested by Honorius III from Doge Pietro Ziani, and sent to Rome from Venice in or shortly after 1216 16 . The prostration of the Pope at Christ's feet surely derives from their knowledge or reminiscence of Byzantine court ceremonial, and its origins lie in representations such as that of the Emperor Leo the Wise in 1rpouKvv'f)utq at the feet of Christ in the tympanum of the Great Church 17 • The surmise of Otto Demus may be correct and the mosaicists sent on from Venice by Doge Ziani had already worked in the imperial capital prior to the Sack of 1204, and subsequently on the A gony in the Garden panel in the south aisle of San Marco 18.

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1. Glotto, Stefaneschi Triptych, around 1300, Clttd de! Vatlcano, Musel Vatican/

This reflection of ancient ceremonial is only one strand in the formation of the iconography of the central panel of the Ste/aneschi Triptych. An enthroned frontal Christ decorated Innocent m 's apse mosaic of San Pietro and it was soon repeated at San Paolo 19 • Giotto's sensitivity to these strands suggests a considerable familiarity with Roman iconography. The enthroned frontal Christ had an immensely influential precedent within Rome in the acheiropoietos Christ panel of the Sancta Sanctorum , which had been reframed in silvergilt by Innocent III, and reset between great porphyry slabs above the high altar of the Lateran papal chapel, the Sancta Sanctorum, by Nicholas III in 1278-127920 . By the end of the thirteenth century (and probably much earlier) this image was effectively illegible, largely as a consequence of its intensive processional function and the ritual washing of its feet from which it suffered throughout the middle ages 21 . Its aspect was however kept immediate in public consciousness by the imitative series of processional icons, the focus for derivative cults in numerous small towns of Lazio 22 . A consider-

2. Filippo Rusutti Christ Enthroned, detail, 1293-1297, Rome, Santa Marla Maggiore

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3. Enth roned Christ with Virgin Mary and John the Evangelist, first half of Xlilth century, Viterbo, church of Santa Marta Nuova

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4. Bust of Christ, detail of apse mosaic, Rome, San Giovanni in Laterano (state be/ore demolition of 1876)

5. Enthroned Christ, 1277-1280, Rome, Sancta Sanctorum, altar wall

able number of these panels survive, and they were often given folding wings in which standing saints were represented 23 (fig. 3). There can be no doubt that the enthroned Christ of the Vatican triptych partakes in some measure of this Roman tradition. There is a powerful presumption that knowledge of these ceremonies and their actions was transmitted to the painter by cardinal Giacomo Stefaneschi, a notable liturgist and papal master of ceremonies . Whereas the seated pose of Christ implicitly identifies him as ruler or teacher, it would be as exaggerated to characterize this iconography as imperial as to interpret its non-imperial aspects as being consciously anti-imperial. It is the transfigured divinity of Christ which is emphasized. An important example of this phenomenon is the apse mosaic of Santa Pudenziana, a mosaic whose meaning has been variously interpreted 24 . The Franciscan minister-general Girolamo d' Ascoli, who had returned from his lengthy legation to Constantinople for the oecumenical Council of Lyons in 127 4 was created Cardinal priest of Santa Pudenziana by Pope Nicholas m in 1278. When in due course he became pope Nicholas IV in 1288, one of his first major commissions was to restore the apse mosaic of the Lateran basilica, where his mosaicist Jacopo Torriti carefully preserved the ancient bust of Christ in the apse itself2 5 (fig. 4). This bust had the revealed authority of a vision.

Contemporaneously Nicholas IV donated to his native Ascoli Piceno an Opus Anglicanum cgpe which he had inherited, and which had apparently been a gift of the English king Edward I to his crusading- friend Gregory x26 . It displays the contemporary features of a Gothic Christ, which could have influenced - but evidently did not - the Pope's choice. Nicholas m's own preference the traditionalist view of Christ's physiognomy represented by the mural on the altar wall of his chapel of the Sancta Sanctorum , reflecting, if the suggestive interpretation of Serena Romano is to be believed, a subtle reminiscence of the Acheiropoietos itself - is something different again 27 (fig. 5 ). This Lateran Christ is powerful and compassionate but withdrawn and unengaged. We have already noted how the first Franciscan pope Nicholas IV scrupulously preserved the miraculous image of Christ in the apse of the Lateran, and other images of the Saviour created by his mosaicist Jacopo Torriti have also survived, both on the Lateran fai;ade and in the apse Dormition at Santa Maria Maggiore28 (fig. 6) . They also represent a conservative Roman tradition which has little to do with Giotto's depictions of Christ. Apart from the enthroned Christ of the Ste/aneschi Triptych, we have the seated Christ of the Last Judgement at Arena Chapel in Padua, the frontal busts of the vault roundel and th~ apex of the chapel Cruczfix2 9 (figg. 7, 8, 9). The vault roundel and the apex of the Crucz/ix

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6. Jacopo Torritz; Dormition of the Virgin, detail, 1288-1296, Rome, Santa Maria Maggiore

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7. Giotto, Last Judgement, detail, 1304-1305, Padua, Arena Chapel

engage directly with the spectator, whereas the Christ of the Last Judgement directs his transforming gaze at the Elect below. All three are certainly autograph creations of Giotto and his workshop 30 . It should be further emphasized that differences of opinion about the date or chronology of the two panels on which this discussion concentrates would be unaffected by minor shifts either of detailed attribution or chronology. They are marginal to their importance. The Raleigh Pentaptych is of undetermined provenance (figg. 10, 11 ). It shows the blessing Christ flanked by saint John the Evangelist, Mary, the Baptist and Francis. The "testimonial" aspect of this programme has not heretofore been noticed 31 . The three persons who knew Christ intimately are accompanied by the modern saint who was his greatest mediaeval witness. At La Verna, Francis had seen, in the authoritative words of Bonaventura, «Christo [ ... ] sub specie seraph» and for the remaining years of his life bore the indelible marks of that experience on his body32 . It was an episode which had already formed the main subject of Giotto's signed panel once in San Francesco at Pisa33 . The frontality of the central Christ in the polyptych is remarkable within the always carefully controlled contexts of Giotto's depictions - in the Arena Chapel frescoes for example3 4 . The bust-length Saviour and saints of the Raleigh Polyptych have an immediate precedent in the 1271 panel by

Meliore35 (fig. 12) . But the central Christ is rare in Florentine painting. An influential current of contemporary opinion connected bust-length figures with Byzantine representations: the papal official and liturgist Durandus noted, somewhat condescendingly, that «Graeci etiam utuntur imaginibus pingentes illas, ut dicitur solum ad umbilico supra et non inferius ut omnis stultae cogitationis occasio tollatur»36 . In Giotto's own oeuvre the early high altarpiece of the Florentine Badia was a composition of bust-length figures 37 . The bust format of Christ must be sharply from the Veronica, the «neckless face» in Gerhard Wolf's lively phrase, which is always conceived of as a disembodied visage with a necessarily diminished physicality38 . Certainly half-length icons of Christ had long existed in the Byzantine context, and it is possible that new ones had reached Rome after 1204 39 . It was a composition widely disseminated in ivories and, less commonly, steatite plaques40 . In the surviving ivories the intense gaze of Christ is directed at the spectator, and, interestingly enough the cross is often without a nimbus 41 . In the Raleigh Saviour the cross (which has been subsequently strengthened) is unusually prominent, and the incised border of the halo is now virtually undetectable. The carpentry construction of the Raleigh Polyptych, on thick horizontal polar panels, is decidedly old-fashioned, and suggests a date some time before 132042 . It seems very likely to have been the high altarpiece of an as yet unidentified Franciscan church43 . Such considerations are secondary nonetheless to the purpose I wish here to pursue. Profound changes have occurred, when one compares it with Giotto's Badia high altarpiece. Pre-eminently it is now centred on a resurrected Christ displaying the marks of the stigmata on both hands and the wound in his right side. In this he is faithfully followed by the figure of Francis on the right, who looks down meditatively whilst displaying the wounds on his hands and on his side. Christ's straight tawny hair is softer and more undulating, although it still reaches to his shoulders. The widely spaced almond-shaped eyes reflect a physiognomical shift in Giotto's workshop toward this facial formula during the second decade of the Trecento 44. It very probably reflects an increasing concern with vision in the period. What prompted this highly unusual and strongly affective representation of Christ in the leading Italian workshop of the first half of the Trecento ? The importance of the Christ of the Raleigh Polyptych lies however elsewhere. In his serious divertissement for the emperor Otto m the Otia Imperialia, Gervaise of Tilbury memorably describes the Acheiropoietos in the Sancta Sanctorum in the following phrase: There is also another image of the Lord's features, this one imprinted in a similar miraculous way on a panel, which is in the oratory of St. Lawrence in the Lateran palace. A pope of our time, Alexander m of holy memory, had it covered with a large silk cloth, because it caused such violent rembling in people who gazed at it too intently that there was a risk of death 45 .

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Contemporaneously, Giraldus Cambrensis rep orted similar precautions at San Pietro46 . Images of Christ were dangerous to contemplate. But Francis had seen the crucified Christ at La Verna in September 1224 and been marked by His wounds. During the Franciscan General Chapter of 1251 in Genoa, a surviving witness, Fra Bonizo of Bologna, described seeing and touching the saint's stigmata47 . At Rome in 1257 pope Alexander 1v attested that he too had seen the Stigmata with his own eyes 48 • The celebrity of Francis's imitatio brought a new immediacy to his Order's engagement with the depiction of Christ 49 . The introspective gaze mural of the Sancta Sanctoru m contrasts with the piercing gaze of the polyptych Christ which transfixes the worshipper. A searching glance can be found in earlier works by Giotto. The roundel Christ in the eastern section of the nave vault at Padua can be compared with the earlier lost Byzantine mosaic at Holy Apostles in Constantinople, vividly described by Nicholas Mesarites: His eyes are joyful and welcoming to those who have a clean conscience, [ ... ]but to those who are condemned by their own judgement they are wrathful and hostile50 . 8. Giotto, Christ, Vault Detail, 1304-1305, Padua, A rena Chapel

9. Giotto, Christ, detail of the Crucifix from the Arena Chapel, 1304-1305, Padua, Museo Civico

In the Giottesque polyptych this encounter has been brought closer, and the half-length bust of Christ has radically accentuated the performative aspect of the Saviour's gaze5 1 . It is no longer the unfocused outward gaze of Meliore, or the deflected glance of the Sancta Sanctorum mural. The polyptych Christ is dangerous to contemplate because his piercing glance penetrates the believer's souP 2 . That this change takes place in Giotto's circle is doubly significant because he, more than any other fourteenth-century painter was sensitive to the problems of seeing the invisible Godhead - as is eloquently demonstrated by the angels in the apex of the Baroncelli polyptch who view the Almighty «through a glass darkly»53 (fig. 13 ). Francis as a "copy of Christ", alter Christus, could be more safely contemplated5 4. It is clear that in the increasing conjunction of representations of Christ and the observed/ observer, the experience of Francis at La Verna and the reception of that visionary experience in italian society has had a significant impact. Reciprocity of gaze was something which had been commented on since Christian Late Antiquity, but here it gains a different immediacy55 . We encounter this engagement in devotional literature such as the influential Meditationes Vitae Christi; probably composed for a Franciscan nun by Johannes de Caulibus. Recently a consensus has emerged that this treatise was written substantially later than previously assumed56 . Reflections of the writings of st. Elizabeth of Toss in the text of the Meditationes make it clear that it must date from the mid-fourteenth century57 . This redating has the extremely important effect of emphasizing the innovative nature of painted representations - it is they that make the affective innovations in iconography later reflected in the devotional literature58. The Meditationes says of Francis and Clare:

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10. Ciotta (?), Polyptych, 1312-1315, Raleigh, North Carolina M useum of A rt

As a result of their devout meditation on his life their souls were not residing in their bodies but in that of Christ59 . It is within and for a Franciscan context that Giotto has created the powerful figure of the half-length Saviour in the Raleigh Pentaptych. The reception of representations of Christ such as that in the Raleigh Polyptych can be traced in a variety of ways. The imposing Tuscan polyptych once in the Bromley Davenport collection shows at its centre the broken body of Christ now depicted on a monumental scale60 (fig. 14). This polyptych was also created for an as yet unidentified Franciscan setting. Connected, to my mind unconvincingly, with the young Taddeo Gaddi, the pentaptych is itself an important iconographical innovation, taking an image which had already appeared in altarpiece predellas and small folding diptychs, and placing it in the centre of a monumental polyptych 61• Here however, the Dead Christ is observed rather than observing, and the angels in the upper spandrels mourn eloquently. A second reflex can be seen in the frescoed figure of the glorified st. Francis, who presides Christ-like above the high altar in the crossing fresco of the Lower Church of Assisi 62 (fig. 16). To quote again the words of the Meditationes: «Finally Jesus himself compelling and perfecting him through the impression of the sacred wounds, Francis was totally transformed into him» 63 . The Glorified Francis here is visible principally to the laity from the nave of the Lower Church, set directly above the altar which surmounted the saint's tomb 64 . The most important reflection of the Ste/aneschi Triptych in Florence itself is the polyptych painted for the Strozzi family chapel in the north transept of the Dominican church in Florence Santa Maria Novella65 . Designed by Orcagna for Tommaso Strozzi in 1357, it shows a full-length Christ handing the seal of his

11 . Ciotta (?), Christ, detail of a Polyptych, 1312-1315, Raleigh, North Carolina Museum of A rt

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12. M eliore, Polyptych, 1271, Florence, Uffizi

13. Ciotta, God the Father and Angels, Apex of the Baroncelli Polyptych, 1332-1333, San Diego, San Diego Museum of Art

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14. Polyptych, Tuscan c. 1335, Formerly Bromley Davenport Collection

15. Andrea di Cione called Orcagna, Strozzi Altarpiece, 1357, Florence, Santa Maria Novella, Strozzi Chapel

authority not to saint Peter, who, surprisingly, is placed to the Saviour's left, but to Thomas Aquinas, the third, and most recently created of the Order's saints66 (fig. 15). During the period the Dominican Order, probably in response to the Franciscan lead, attempted to distinguish the individual Christz/ormitas of their founder Dominic67 . To conclude. The enthroned Christ venerated by the

kneeling donor cardinal Giacomo Stefaneschi is an image deeply rooted in Roman tradition. Christ, placed within a defined ceremonial context, gazes serenely beyond the Roman aristocrat kneeling at his feet. The universalizing compass of His glance deprives it of specificity. Within the context of Franciscan engagement with the Divine, sealed by the unprecedented phenomenon of Stigmatization, the engagement with

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Analecta Romana Instituti Danzci, xxm, 1996, pp. 61-82. For an overview see]. Stubblebine, «The Development of the Throne in Dugento Tuscan Painting», in: Marsyas, vn, 1957 , pp. 25-39. 4 J. Wiener, Die Bauskulptur von San Francesco in A ssisi. Franziskanische Forsch ungen 37, Werl 1991 , pp. 162 ss. 5 M. Dalas, Les sceauxAdes Rois et de Regence (Corpus des Sceaux Fran1tru1s lnnns jlllhOIJl,m $ .. U11111W i4rooon lf\lnU l u tt, 4l\1Dt1'tt «u11ttlh rrg:r9:-.:,atru,uri ~po mi ,f0tu1ruri; 1>uo1n111 florunu i,anthalr'f'UUtntJ ~rt,q, ;)f.rff'Omnt '1,ìo,·o onv .Jiir l\110brrn ' "''l)l\lV '\IJ>OUi>lUll'l l>t nlP mrmlrru;r nrJ't1· UIMUIU fl\ -oontnn,iù)nm,.,; i:,, rolltl o ..... ... limanti i 1'!il'llt fµùi., 1\rblJllU' ft~ UliJ)llfltl&!ii 'flrìntnti]1ll'.llllmllllll9' lllr;ll) SU?llm•

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