Il diritto romano dopo Roma. Attraverso le modernità 9788892124516


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Italian Pages 352 [353] Year 2022

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Table of contents :
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Indice
Introduzione
Capitolo Primo Le persone Umberto Vincenti
Capitolo Secondo La difesa dei diritti Antonio Palma
Capitolo Terzo Forme di appartanenza Iole Fargnoli
Capitolo Quarto Successioni a causa di morte Maurizio d'Orta
Capitolo Quinto La disciplina degli atti negoziali nel ius privatum Francesco Fasolino
Capitolo Sesto Obbligazioni Riccardo Cardilli
Capitolo Settimo I mutevoli e talora incerti confini del divieto Massimo Miglietta
Capitolo Ottavo La persistenza del diritto romano dopo la sua vigenza storica Federico Fernandez de Bujan
Gli Autori
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Il diritto romano dopo Roma. Attraverso le modernità
 9788892124516

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Il diritto romano dopo Roma Attraverso le modernità

In copertina: dall’alto le immagini di Papiniano [142? d.C.-212 d.C.], Ubaldo (Baldo) degli Ubaldi [1327-1400], Jean Domat [1625-1696], Friedrich Carl von Savigny [1779-1861].

Il diritto romano dopo Roma Attraverso le modernità a cura di Antonio

Palma

contributi di R. Cardilli, M. d’Orta,

I. Fargnoli, F. Fasolino, F. Fernández de Buján, M. Miglietta, A. Palma, U. Vincenti

© Copyright 2022 – G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100 http://www.giappichelli.it

ISBN/EAN 978-88-921-2451-6

G. Giappichelli Editore

Questo libro è stato stampato su carta certificata, riciclabile al 100%

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

INDICE

pag. INTRODUZIONE

1

CAPITOLO PRIMO

LE PERSONE Umberto Vincenti 1. 2. 3. 4.

5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.

L’archetipo: il pater familias come dominus Nascita di una categoria giuridica nella Roma antica Le persone, le cose e la ‘mano’ Le persone e la libertà 4.1. Gli schiavi 4.2. Le mogli in manu, il matrimonio, la tutela muliebre 4.3. I figli Le persone e l’integrità del patrimonio familiare 5.1. La tutela e la curatela delle persone incapaci La persona come maschera Le persone ‘incorporali’ Verso la ‘disumanizzazione’ della persona L’uomo è, la persona ha (o può avere) Identità e contraddizioni sistemiche Dopo Roma Nel Medioevo e nel Rinascimento: continua il dominio del pater La modernità prerivoluzionaria: verso l’eguaglianza La parabola delle divisioni delle persone e l’affacciarsi del soggetto unico universale La crisi del soggetto unico universale Per una nuova categoria

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VIII

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pag. CAPITOLO SECONDO

LA DIFESA DEI DIRITTI Antonio Palma 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Il “luogo delle regole” Un’archeologia dell’azione Come fare cose con le parole: la iurisdictio del pretore La parola immutabile: i certa verba La parola cucita: i concepta verba Le cognizioni imperiali: il nuovo apparato ‘statale’ della giustizia

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CAPITOLO TERZO

FORME DI APPARTENENZA Iole Fargnoli 1. 2. 3.

4. 5.

6.

7.

Res quali oggetto di diritto Contrapposizione tra diritti reali e diritti di obbligazione Proprietà 3.1. Comunione 3.2. Estensione della proprietà Possesso 4.1. Tutela Modi di acquisto della proprietà 5.1. Modi di acquisto a titolo originario 5.1.1. Occupazione e acquisto del tesoro 5.1.2. Accessione 5.1.3. Specificazione 5.1.4. Commistione 5.1.5. Acquisto dei frutti 5.2. Usucapione Modi di acquisto a titolo derivativo 6.1. Mancipatio 6.2. In iure cessio 6.3. Traditio Tutela della proprietà 7.1. Rei vindicatio 7.2. Actio Publiciana ed exceptio rei venditae et traditae

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Indice

IX pag.

8.

7.3. Actio negatoria 7.4. Altri rimedi nell’ambito dei rapporti di vicinato Diritti reali su cosa altrui 8.1. Diritti reali di godimento 8.1.1. Servitù prediali 8.1.2. Usufrutto 8.1.3. Uso e abitazione 8.1.4. Superficie 8.1.5. Enfiteusi 8.2. Diritti reali di garanzia 8.2.1. Fiducia cum creditore 8.2.2. Pegno e ipoteca 8.2.3. Tutela pigneratizia

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CAPITOLO QUARTO

SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE Maurizio d’Orta 1.

L’acquisto per universitatem 1.1. Hereditas – Heres. Bonorum possessio – bonorum possessor 2. Delazione della successione 3. La «vocatio ex testamento» 3.1. Vetera testamenta 3.1.1. Testamentum calatis comitiis e adrogatio 3.1.2. Testamentum in procinctu 3.2. Testamentum per aes et libram 3.3. Testamentum iure praetorio factum 3.4. Testamentum tripertitum 3.5. Altre forme di testamento 3.6. Testamenti ‘speciali’ 4. Il regime del testamento 5. I «codicilli» 6. La «vocatio ab intestato» o «vocatio legitima» 7. La «vocatio contra testamentum». 8. L’effettuazione della «successio in ius» 9. Le conseguenze della «successio in ius» 10. La «successio mortis causa in singulas res» 10.1. I fedecommessi

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X

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pag. 11. 12. 13. 14.

La riforma ‘programmatica’ di Giustiniano Donazioni Donazioni tra vivi Donazioni a causa di morte

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CAPITOLO QUINTO

LA DISCIPLINA DEGLI ATTI NEGOZIALI NEL IUS PRIVATUM Francesco Fasolino 1. 2.

Il negozio giuridico: una categoria concettuale non romana Tra invalidità ed inefficacia del negozio: l’inutilità 2.1. Cause di inutilità del negozio 3. La forma: dall’oralità alla ‘scriptura’ 3.1. La classificazione dei negozi in base alla forma 4. La causa negoziale 4.1. L’illiceità della causa 4.2. I ‘negotia turpia’ 4.3. Causa e motivi 5. La volontà negoziale 5.1. Volontà e manifestazione 5.2. Vizi della volontà dipendenti dalla persona del soggetto agente e ‘vis absoluta’ 5.3. L’errore-vizio 5.4. Il dolo 5.5. La violenza morale 6. Gli elementi accidentali del negozio 6.1. Gli elementi accidentali del negozio e gli ‘actus legitimi’ 6.2. La condizione 6.2.1. Condizioni positive e negative 6.2.2. Condizioni sospensive e risolutive 6.2.3. Condizioni casuali, potestative e miste 6.2.4. Condizioni proprie ed improprie. Le ‘condiciones iuris’ 6.2.5. Condizioni possibili e impossibili, lecite ed illecite 6.2.6. Inquadramento giuridico del negozio ‘pendente condicione’ 6.3. Il termine 6.4. Il ‘modus’

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XI pag.

CAPITOLO SESTO

OBBLIGAZIONI Riccardo Cardilli 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.

Obligatio e obbligazione: nozione Obligatio e obbligazione: storia Obbligazioni civili, onorarie e naturali Obbligazioni e buona fede La prestazione Tipi di obbligazione in base alla prestazione: obbligazioni alternative, obbligazioni generiche, obbligazioni indivisibili Obbligazioni solidali Fonti o cause delle obbligazioni Obbligazioni contratte con la consegna di una cosa (c.d. contratti reali) Obbligazioni contratte con la pronuncia solenne di parole (contratti verbali) Obbligazioni contratte con la scrittura (contratti letterali) Obbligazioni contratte col semplice consenso (contratti consensuali) Autonomia pattizia e resistenza del tipo Contractus e contratto: nozione e storia Le obbligazioni quasi da contratto Estinzione delle obbligazioni

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CAPITOLO SETTIMO

I MUTEVOLI E TALORA INCERTI CONFINI DEL DIVIETO Illeciti pubblici (crimina) e illeciti privati (delicta) Massimo Miglietta 1. 2. 3.

Introduzione Le norme del diritto criminale nella legge delle XII Tavole Cenni intorno ai crimini nel prosieguo della storia giuridica di Roma antica. La previsione di illeciti legata ad esigenze per lo più ‘politiche’ 4.1. I ‘delitti’, nella variazione tra illecito privato e illecito pubblico. Il danno ingiusto 4.2. I capi quarto e quinto della legge Aquilia e i cosiddetti requisiti delle azioni penali

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XII

Indice

pag.

5. 6. 7.

4.3. La corruzione ‘morale’ dello schiavo altrui Il furto Le lesioni fisiche e morali Conclusioni

284 284 287 288

CAPITOLO OTTAVO

LA PERSISTENZA DEL DIRITTO ROMANO DOPO LA SUA VIGENZA STORICA Federico Fernández de Buján SEZIONE I

IL DIRITTO ROMANO DOPO IL DIRITTO ROMANO: ESISTENZA E PERSISTENZA 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

I tre pilastri della civiltà In principio era la Grecia. Conoscenza filosofica Il pensiero giudaico-cristiano. La sua influenza sull’etica e sulla cultura occidentale L’eloquente eco della grandezza di Roma Il diritto, creazione di Roma Dal diritto romano scaturì l’Università La Scuola dei Glossatori La persistenza del diritto romano. La sua recezione e la sua validità Postglossatori o Commentatori Lo ius commune come diritto vigente Umanesimo giuridico La Scuola del diritto naturale L’usus modernus Pandectarum La Scuola storica del diritto Sistemi aperti e sistemi chiusi 15.1. La dicotomia common law e civil law 15.2. I tratti caratteristici 15.3. Influenza e presenza del diritto romano, per “azione” e come “precipitato” in entrambi gli ordinamenti

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XIII pag.

SEZIONE II

L’INFLUSSO DEL DIRITTO ROMANO NEI CODICI CIVILI. IL DIRITTO NEL SECOLO XXI 1.

2.

3.

4. 5.

La codificazione 1.1. Approccio ai loro significati 1.2. I suoi fondamenti e le sue premesse ideologiche La struttura e l’impronta del diritto romana in tutti i codici civili 2.1. Il Codice napoleonico 2.2. Il BGB, Codice civile tedesco 2.3. Il Codice civile italiano 2.4. Il Codice civile spagnolo 2.5. I principali Codici civili latinoamericani 2.6. Il Codice civile giapponese Il progetto di Codice civile cinese 3.1. Il lungo cammino verso la codificazione 3.2. Il suo progetto di Codice civile, come “seconda ricezione del diritto romano” Il diritto romano, come elemento essenziale nella formazione del diritto dell’Unione europea Il diritto del XXI secolo. Diritto romano e diritto globale

GLI AUTORI  

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XIV

Indice

INTRODUZIONE Antonio Palma

Otto Colleghi ed Amici decidono di affrontare assieme la non lieve (ma stimolante) fatica di scrivere un manuale di diritto romano nell’anno del Signore 2022. Di ottimi manuali ve ne sono già tanti in circolazione, sia per qualità scientifica che per efficacia pedagogica, nei quali l’articolazione degli argomenti illustrati corrisponde a consolidati canoni espositivi, caratteristici dell’insegnamento superiore della nostra disciplina, che si radicano in una tassonomia difficile da stravolgere, in quanto sedimentazione di una millenaria esperienza pratica e didattica. Ed allora la domanda non può che sorgere spontanea: perché scrivere l’ennesimo manuale istituzionale? Perché questo non è solo un manuale istituzionale, almeno nell’accezione metodologica del termine. Gli Autori – alcuni dei quali con decenni d’insegnamento alle spalle – hanno voluto cimentarsi in un’opera che tenta di strutturarsi, quanto più possibile, attraverso caratteri di novità in grado di soddisfare la loro ambizione al rinnovamento di modelli epistemologici, di fissazione e trasmissione della conoscenza giuridica. Cominciamo dal titolo del volume: Il diritto romano dopo Roma. Attraverso le modernità, al tempo stesso sia denotativo, in quanto rispecchia puntualmente il contenuto delle pagine del testo, che si spinge in più luoghi all’analisi dell’eredità del diritto romano, che connotativo, in quanto rimanda alla problematicità dei rapporti tra esperienza antica e contemporanea, evocando suggestioni comparatistiche. Si tratta dunque di un titolo che rappresenta un manifesto programmatico e insieme un compromesso tra le diverse sensibilità dei singoli Coautori. Se il diritto romano dopo Roma è un’ovvietà storica sul piano della sequenza temporale, simbolico è invece il messaggio che il titolo esprime e che va letto in stretto rapporto con la seconda sua parte, attraverso le modernità. Perché è solo attraversando le modernità giuridiche, che s’inverano nella Storia, che può esprimersi quello scavo archeologico, laborioso ed incessan-

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Antonio Palma

te, che consente di rinvenire in apparentemente antiquari depositi – da molti ritenuti anacronistici – il diritto romano inteso quale “esperienza secondaria”, vissuta dopo la vigenza storica di quel diritto e fissatasi culturalmente nella memoria antropologica dell’Umanità. Affermazione questa che non deve essere tacciata di ingenua illusorietà, in quanto il diritto romano dopo Roma è una presenza negli studi giuridici dell’intero mondo, e non solo in quello occidentale. Una ragione di questa presenza deve pur esserci; ed infatti vi è. Risiede nel fatto che in ogni processo euristico predomina un criterio selettivo volto a salvare solo ciò che si ritiene utile sia alla pragmaticità del quotidiano che alla speculazione teoretica, che di quel quotidiano rappresenta la sublimazione più immediata. Ed il quid caratterizzante il diritto romano, che ne rappresenta il dato ontologico che ne assicura la persistenza, si rinviene, non nell’ordinamento giuridico di una comunità del Lazio sulle rive del Tevere, ma in una vicenda storica fattasi universale perché fortemente adattatasi alle più diverse realtà umane, dimostrando quei caratteri di “secondarietà debole”, che l’hanno resa, per ciò stesso, patrimonio di tutti. I Romanisti hanno il dovere di rendersi custodi di questo patrimonio conoscitivo, che ha di certo chiara derivazione dal diritto di Roma come esperienza storica, ma che porta in sé il seme di una vita e di un destino di “longue durée” che lo emancipa dall’avventura della sua emersione. Si tratta di un’autonomia condotta non solo all’interno della comunità dei dotti, ma proiettatasi anche nel profondo delle più eterogenee costruzioni giuridico-normative, in forma diversa, a volte come non apparente presupposto di istituti alieni a quell’esperienza, ma che da essa derivano terminologie, grammatica e sintassi, un lessico giuridico costitutivo delle diverse coordinate concettuali. L’illustrata circostanza temporale di un dopo (Roma) più rilevante di un prima (di Roma) pone certo la questione di quale sia il nucleo fondativo di una disciplina che si fa sempre altro nei contenuti e nelle sue letture e riletture, che ne trasformano costantemente oggetti e significati, un processo che la rendono materia debole e forte allo stesso tempo, poiché è proprio la flessibilità la ragione della sua permanenza. Ma la domanda non può di certo trovare risposte banali e burocratiche nelle tabelle ministeriali, che pongono limiti contenutistici agli Autori di questo manuale, i quali sono ben consapevoli che trattasi di limiti vaghi e per ciò stesso valicabili. Una possibile risposta, almeno quella qui adottata, è che il diritto romano è ciò che tale si ritiene senza dubbio sulla scorta di una non ignorabile tradizione, ma altresì in ragione della tensione intellettuale di coloro che continuano a studiarlo, della passione che agita i suoi indefessi cultori, delle ambizioni che li sollecitano.

Introduzione

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Può apparire una affermazione ardita quella appena indicata, ma non lo è se si guarda alle rivoluzioni metodologiche già intervenute dai Glossatori fino all’ultimo secolo appena trascorso. Non è sufficiente a smentire il nostro assunto opporre un originalismo interpretativo che assicuri il pieno rispetto delle fonti. La storia dell’evoluzione della disciplina è caratterizzata da rivoluzioni metodologiche che ne hanno profondamente mutato prospettive, si pensi alla Pandettistica, o alla critica interpolazionistica, che di quelle fonti fece riscrittura a volte arbitraria. Processo continuo, se dagli anni Settanta del secolo trascorso ha registrato la fioritura gli studi ricostruttivi, a partire da approfondimenti palingenetici, dei profili dei singoli giuristi romani, di cui si accentuano le qualità autoriali, dando enfaticamente non poca rilevanza a fonti come l’Enchiridion di Pomponio. Il diritto romano diviene allora il “diritto dei giuristi” (Juristenrecht), con una evidente forzatura della realtà, assata su plurimi ‘formanti’ di un ordine legale avente a Roma sue specificità, un ordine legale che non si fa sistema, ma corpo complessivo di materiali di carattere normativo, costituito da testi legislativamente prodotti, ma anche da testi-norme, testi-principi, testi giustificativi di decisioni. Ed ancora, testi creati dalla iuris scientia come componente di una dinamica interazione tra legislazione, giurisdizione e comportamenti sociali, all’interno di un circuito nomopoietico recettivo delle istanze della comunità nel quale gli esercenti l’imperium, nelle sue più diverse epifanie, e i giudici rappresentano i veri motori della “verbalizzazione normativa” del reale, nel quale la “parola del potere” si fa “parola del diritto”. Simile prospettiva non spoglia di autorevolezza i prudentes, quali tecnici del diritto, che attraverso la loro attività ermeneutica esprimono lo ius controversum continuamente alimentato in seno alla loro comunità dove, per il tramite di una riflessione collettiva, che attraversa il tempo su un piano di contemporaneità, personalità grandi e piccole vengono assorbite in un magma interpretativo dove tutto coesiste. Ma grandi sono stati peraltro i progressi che lo studio della iurisprudentia romana ha apportato all’evoluzione della disciplina, fino al punto d’incentivare la produzione di un ampio spettro di biografie miranti a rappresentare un diritto giurisprudenziale come costituito da figure antonomastiche di giuristi, occupati nella risoluzione topica di controversie più o meno complesse. Si tratta di una visione certo intrigante, che esercita da sempre una forte malìa in coloro che la adottano, ma che non tiene nel dovuto conto che il progresso del diritto è incontrovertibilmente legato al potere e al suo esercizio. La storia del diritto romano si determina così dal sovrapporsi di diverse visioni che esprimono nella loro conflittualità un’incertezza che, in fondo, di

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Antonio Palma

quel diritto rappresenta la forza e che rende il suo studio la disciplina più autenticamente antidogmatica e per questo motivo la più adatta ad intendere un’attualità sempre più ‘liquida’, che sfugge a schemi preconfezionati. Il manuale che segue è denso di contraddizioni, evidenti disomogeneità stilistiche e contenutistiche, rappresenta dunque lo specchio di una realtà che è scientificamente controversiale, interpretabile e reinterpretabile, ma proprio per questo suo carattere in grado di resistere al tempo, nel cui flusso è immersa senza argini e senza nostalgie. Questo è il senso del presente manuale che gli Autori hanno voluto offrire all’attenzione degli studenti nel suo pluralismo culturale volto a dimostrare che l’eternità del diritto romano si costruisce sulla sua precarietà, e che il simbolo cui dobbiamo guardare per rappresentare questa realtà non è la Torre di Babele con la sua imponenza architettonica e la sua apparente stabilità, ma l’Universo nella sua dimensione inflazionaria, sempre cangiante ma sempre identica a sé stessa. In definitiva questo libro non è altro che un invito ad entrare nei labirinti di un mondo vivo ed eterno nel suo costante cambiamento.

CAPITOLO PRIMO

LE PERSONE Umberto Vincenti SOMMARIO: 1. L’archetipo: il pater familias come dominus. – 2. Nascita di una categoria giuridica nella Roma antica. – 3. Le persone, le cose e la ‘mano’. – 4. Le persone e la libertà. – 4.1. Gli schiavi. – 4.2. Le mogli in manu, il matrimonio, la tutela muliebre. – 4.3. I figli. – 5. Le persone e l’integrità del patrimonio familiare. – 5.1. La tutela e la curatela delle persone incapaci. – 6. La persona come maschera. – 7. Le persone ‘incorporali’. – 8. Verso la ‘disumanizzazione’ della persona. – 9. L’uomo è, la persona ha (o può avere). – 10. Identità e contraddizioni sistemiche. – 11. Dopo Roma. – 12. Nel Medioevo e nel Rinascimento: continua il dominio del pater. – 13. La modernità prerivoluzionaria: verso l’eguaglianza. – 14. La parabola delle divisioni delle persone e l’affacciarsi del soggetto unico universale. – 15. La crisi del soggetto unico universale. – 16. Per una nuova categoria.

1. L’ARCHETIPO: IL PATER FAMILIAS COME DOMINUS Al centro del diritto privato romano troviamo la persona umana: una constatazione che appare ovvia se si pensa al diritto come a un insieme di regole funzionali al disciplinamento sociale. Ma le cose non sono così semplici come potrebbe sembrare. Oggi quando pensiamo alla persona ci riferiamo a qualunque uomo; e anche questa affermazione cela alcune, gravi, questioni come, per esempio, quella concernente l’inizio della vita umana che il nostro codice fa cominciare con la nascita, ma che, per taluno, dovrebbe farsi cominciare almeno da una certa fase della gestazione materna. È una questione, questa, che si intreccia con la scienza e con l’interpretazione dei dati scientifici. Ma quando diciamo che le persone umane sono tutte eguali noi esprimiamo, magari nemmeno rendendocene conto, un’opzione politica che è ferma e indiscutibile nella contemporaneità occidentale. Nell’antichità, e in Roma antica, non era così: il principio di eguaglianza non faceva parte dello statuto della persona.

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Insomma anche la categoria persona, e forse più di ogni altra categoria giuridica, dipende dalle coordinate spazio-temporali. Qui cercheremo di esporre in sintesi la storia della persona, anzi delle persone, in diritto romano (anche nei suoi sviluppi successivi, in età medievale e moderna): persone, sì, perché in Roma antica non esisteva un unico statuto della persona, ma più statuti in quanto le persone non erano, come detto, tutte eguali. Però, la nostra storia comincia prima della nascita di Roma, in quelle comunità pre-civiche stanziate sui colli romani e nelle immediate vicinanze. Il diritto romano non può essere stato creato dal nulla da un mitico fondatore, come dal nulla non nacque la Città: Roma deve avere recepito, in tutto o in parte, le strutture giuridiche immanenti nei villaggi che precedettero e, unendosi, dettero vita alla Città. Vediamo di scoprire qualcosa dai dati a nostra disposizione. Nei villaggi – agglomerati di capanne di legno, paglia e fango – che si trovavano sulle sommità del Palatino, del Quirinale, dell’Esquilino netta era la distinzione di genere, tra maschi e femmine. Già nella civiltà protovillanoviana (1200-900 a.C.) i ruoli erano rigorosamente separati: agli uomini le incursioni e i saccheggi nei villaggi vicini, alle donne la cura della casa. Nei cinerari biconici il genere del defunto era evidenziato dalle coperture: a forma di elmo per gli uomini, di ciotola per le donne. Questi villaggi erano dominati e, in certo senso, anche governati da compagnie, anche esigue, di guerrieri agli ordini di un capo, forse già appellato rex: la comunità era nelle mani di questi uomini ciascuno dei quali esercitava un potere all’interno della propria capanna e sulle persone, legate a lui in quanto sottoposte (a prescindere cioè dal vincolo del sangue), che vi abitavano. Per come erano strutturate queste società primitive dobbiamo pensare che in esse fossero presenti anche degli schiavi, uomini e donne razziati dagli altri villaggi, in un numero limitato, immaginiamo, perché la dimensione dei conflitti non era certo quella delle guerre di conquista quali Roma intraprenderà incessantemente nei secoli successivi. La conferma dell’esistenza di aristocrazie guerriere dominanti si ricava inequivocabilmente dai corredi funerari nei quali abbondano le armi e, talora, panoplie complete: come nella tomba 94 della necropoli dell’Esquilino, ove si sono rinvenuti scudo, elmo, carro, il corredo di un capo-guerriero dell’VIII secolo a.C., attivo nell’area dove stava sorgendo Roma. Questi uomini – questi capi ai diversi livelli – erano denominati patres. Patres erano i capi delle gentes, consorzi di uomini liberi e legati tra loro dalla discendenza (magari solo immaginata) dal medesimo capostipite e da una comunione di interessi all’interno delle comunità di villaggio che si identificavano con la gens insediatavi; patres erano i capi delle familiae loro assoggettate e sulle quali essi si comportavano come dei re; patres anche i compo-

Le persone

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nenti il regium consilium, quale sarebbe stato creato da Romolo, attingendo dai capi delle gentes più potenti, per sostenerlo nel governo della Città da lui fondata. Anche nella leggenda sulle origini di Roma, narrata da Virgilio, il principe troiano Enea, progenitore di Romolo, è qualificato come pater, pater Aeneas. Un grande studioso del diritto romano del secolo scorso, Pietro Bonfante, ha sostenuto che il singolo pater familias, che esercitava il dominium sulla sua capanna e sul campicello attiguo, svolgeva una funzione politica di governo: la tesi non è ardita perché dobbiamo pensare che, in età pre-civica e ancora nella prima Roma, il potere del capo della comunità di villaggio, e poi il rex, non aveva la forza per imporsi in tutto sui capi-famiglia. Egli doveva piuttosto apparire come un loro delegato per l’esercizio di quelle funzioni (la difesa esterna, per esempio) che non potevano essere svolte dai singoli patres; e nemmeno dalle gentes, anche se il potere di queste ultime doveva essere notevole, giungendo esse ad organizzare bande armate. Così la tradizione ci conferma che, all’interno delle familiae, esistevano tribunali domestici presieduti dal pater, decisore unico e definitivo: essi esercitavano la giurisdizione sui sottoposti del pater infliggendo, se colpevoli, punizioni anche corporali. Il potere assoluto del pater – su uomini, donne, animali, cose a lui assoggettate – era anticamente denominato manus: lo stesso termine che il giurista Pomponio (II secolo d.C.) adopera per identificare il potere di quei re, a noi ignoti, che avrebbero governato Roma prima di Romolo, quando questa non aveva un ordine giuridico stabilito (che avrebbe poi dato Romolo). Un giurista vissuto tra il II e il III secolo d.C., Domizio Ulpiano, definirà esattamente il pater come «colui che ha il dominio in casa» (D. 50.16.192.2): dominium è il termine tecnico che identifica la proprietà romana. Non ricorre più il termine manus (che, vedremo, verrà adoperato, superata l’età arcaica, a significare specificamente il potere del pater sulla moglie come sulle mogli dei figli); ma il dominium romano resterà in ogni tempo un potere assoluto ed egoistico sulle cose, assai distante dalla proprietà funzionale (all’interesse generale) della nostra contemporaneità. Sicché la definizione di Ulpiano attesta che la primazia del pater all’interno della familia resterà immutata nel corso dei secoli, anche se una progressiva evoluzione si verificherà in conseguenza del mutare dei contesti socio-economici. Per questo l’archetipo – delle personae in diritto romano – è il pater così come lo abbiamo sinteticamente descritto in relazione all’età delle origini: tutta la costruzione del diritto delle persone e della famiglia sarà, per così dire, immanente alla posizione del pater quale signore esclusivo della capanna dei primordi e poi della domus familiare: l’unico soggetto indipendente nella familia. Manus e dominium sono poteri giuridici; con perfetta congruenza, anche i familiari si identificano sulla base di questa relazione dominicale, di

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assoggettamento, esista o non esista, con il pater, un vincolo di sangue (che, se nella normalità dei casi esisteva, restava però giuridicamente irrilevante al fine dell’appartenenza a una familia, contando esclusivamente la potestas, termine con cui verrà definito in ultimo il potere paterno). È la comune soggezione al medesimo pater, presente o passata (se il pater fosse morto), che fonda il vincolo di parentela primario del diritto romano, l’adgnatio. La parentela di sangue era, invece, detta cognatio; e naturalmente gli adgnati potevano essere anche tra loro cognati (per esempio, due fratelli o i figli di due fratelli). Ma adgnati erano anche gli adottati rispetto a ogni altro membro della familia: determinante era la soggezione alla comune potestà e gli adottati non erano consanguinei degli altri adgnati della familia. Era vero anche il contrario: che vi potevano essere cognati che tra loro non erano adgnati in quanto appartenenti a diverse familiae e, dunque, soggetti alle potestà di patres diversi: cognati tantum, soltanto cognati come, per esempio, i figli di due sorelle (e per questo si diceva che i cognati giungevano allo stipite comune per il tramite di una persona di genere femminile; mentre gli adgnati vi giungevano per mezzo di un maschio).

2. NASCITA DI UNA CATEGORIA GIURIDICA NELLA ROMA ANTICA Oggi non sappiamo chi sia ‘persona’ dal punto vista giuridico. La questione è importante perché l’incertezza non arrovella solo i tecnici e finisce con l’influenzarci tutti: parliamo di una categoria giuridica fondante, la cui matrice è romana. Nei manuali istituzionali dei giuristi dei primi secoli dell’impero il termine persona è adoperato a indicare il destinatario di quella parte del diritto (ius), di quell’insieme di regole che non attengono alle cose, bensì agli uomini: questo insieme è il diritto delle persone, appunto lo ius personarum. Presso quei giuristi persona era sinonimo di uomo, in latino homo. In effetti il diritto romano assumeva quali personae tutti gli uomini in quanto esseri umani: e ciò a prescindere dalla loro posizione (giuridica) nella comunità, per esempio se liberi o schiavi. La categoria persona manteneva così, nel suo ingresso nel diritto, il suo sostrato naturalistico: valeva l’equazione persona = homo. Però, se pur tutti gli uomini erano personae, le personae, una volta introdotte nella dimensione artificiale dello ius, dismettevano la loro eguaglianza naturale e risultavano diverse in dipendenza del loro diverso statuto giuridico. La categoria persona aveva allora la funzione di trasferire gli uomini in un altro mondo: dalla natura allo ius. Questa attitudine trasformatrice della categoria persona è connessa al significato originario del termine: persona è, etimologicamente, la maschera

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teatrale che cela il volto e altera la voce, e le maschere, come le persone nella messinscena cui dà vita l’applicazione delle regole giuridiche, sono diverse a seconda del carattere da rappresentarsi. Secondo un’opinione riferitaci da Aulo Gellio (5.7) persona è vocabolo ricavato da personando: e personare indica quel risuonare, quell’accrescere della voce che, in effetti, dipende dalla sua concentrazione nella maschera (usualmente in terracotta). Le maschere sono tragiche, satiriche, comiche: tutte egualmente personae, ma la varietà delle loro forme determina il ruolo o la parte di ciascuno degli attori che le calano sul proprio volto. Il diritto come la comoedia o la tragoedia, il diritto come il copione: nella scena giuridica gli uomini diventano persone e ciascuno recita la parte imposta dallo statuto che gli appartiene. L’evoluzione si staglia con sufficiente chiarezza: per le sue esigenze di costruzione di una realtà istituzionale, che ha esistenza in societate e non in natura, il diritto attinge all’etimologia del termine persona, il cui significato originario di maschera è esteso, per traslato, a includere quello di parte e di ruolo in una vicenda di vita artificiale (quella che vuole il diritto). Per quest’aspetto la narrazione scenica è equivalente alla narrazione giuridica; e nella narrazione giuridica gli uomini debbono agire secondo i ruoli assegnati dalle regole e così diventano persone. Ogni persona ha la sua maschera e, dunque, la parte a essa spettante. I ruoli corrispondono agli ‘stati personali’ (status personarum); e per i Romani il ruolo di protagonista compete ab initio ai padri di famiglia: maschi, cittadini, non soggetti ad alcuna potestà che, invece, essi esercitavano su mogli e figli della famiglia, oltre che sulle cose della famiglia tra le quali erano annoverati altri uomini, gli schiavi. Abbiamo sopra descritto come dai primordi l’assetto socio-economico della Città fosse affidato a quelle personae che avevano lo status di patres: la totale irrilevanza delle altre personae (con status di figli, mogli, schiavi) implica che la categoria persona abbia valenza in positivo solo nei patres, presso i quali essa assume una connotazione autoritativa e patrimonialistica: la vera persona, in quel contesto, era il pater familias, il quale aveva potere e, dunque, diritti a esclusione di qualunque altro membro della famiglia perché così era garantita l’unitarietà nella gestione del patrimonio familiare, funzionalizzata alla sua conservazione e, con la fortuna, al suo accrescimento, il che sottende il grave disvalore della dissipazione e dello sperpero. Quest’idea che la persona sia una metafora giuridica renderà possibile l’ulteriore creazione, da parte dei giuristi romani, di personae non uomini, ma idonee alla titolarità del potere economico a cominciare dal potere del proprietario (il dominus): la metafora si astrattizza maggiormente attraverso il procedimento della finzione, conducendo a esistenza la cosiddetta persona giuridica (che può addirittura prescindere dalla presenza umana e ridursi a

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una mera dotazione di beni materiali, come nelle moderne fondazioni), capace però di essere proprietaria come se fosse un uomo. Con questi caratteri la categoria persona è, dunque, stata inventata ed elaborata nel diritto romano, poi perfezionata nel diritto medievale e rinascimentale, giungendo inalterata a contatto con la filosofia del giusnaturalismo, dalla quale essa venne profondamente cambiata a seguito di oltre un secolo di alto pensiero sanzionato dalle rivoluzionarie dichiarazioni dei diritti e dalle codificazioni civilistiche ottocentesche. La premessa dell’eguaglianza morale fra tutti gli uomini conduce non solo alla formale scomparsa della schiavitù, ma anche alla formalizzazione dell’uomo qualunque (quello del terzo stato della Rivoluzione di Francia) quale soggetto unico delle norme generali e astratte che ne fanno il centro del sistema giuridico attribuendogli la titolarità di alcuni diritti naturali o innati, a sfondo personale, primi fra tutti quelli alla vita e alla libertà, e l’attitudine alla titolarità dei diritti patrimoniali: se tutti abbiamo il diritto di rimanere vivi e liberi, nei fatti, però, solo alcuni hanno il diritto di proprietà sulle cose, tra le quali i mezzi di produzione. Ma allora nella dinamica concreta l’uomo naturale, l’uomo qualunque, il soggetto unico universale sarebbe rimasto in posizione di marginalità e non sarebbe poi cambiata molto la sua posizione dopo le Rivoluzioni e i nuovi testi, le nuove bibbie giuridiche, che ne sarebbero seguite. Al centro del sistema, si è affermato anche di recente, sarebbe rimasto, se non l’antico pater familias, almeno la sua versione rammodernata dalla borghesia, «il maschio bianco possidente»: una specie di erede della figura paterna di ascendenza romana, nelle cui mani sarebbe però stato trasmesso quasi intatto il diritto per eccellenza, il dominium, la proprietà, solo un po’ meno assoluta e meno esclusiva rispetto al paradigma romano. E anche gli altri diritti, a contenuto non patrimoniale, i diritti naturali, innati, inviolabili per eccellenza sarebbero stati modellati, dal legislatore del moderno stato di diritto, come la proprietà: diritti da avere per escludere gli altri più che per essere persona tra le persone. Il contesto assolutamente straordinario di questi ultimi decenni ha posto la categoria giuridica di ‘persona’ in una crisi forse più grande di quella che l’attraversò in conseguenza dell’Illuminismo. Alla fine del Settecento il mondo occidentale aveva a sua disposizione un armamentario ideale assolutamente nuovo che imponeva un profondo adattamento delle categorie giuridiche romanistiche; nell’epoca nostra sono scese in campo non solo nuove idee (meno nuove, parrebbe, di quel che sembra), in quanto il vecchio mondo umano è stato invaso dalla tecnologia che vuole imporre qualcosa più che un’evoluzione o una trasformazione. Cerchiamo che lo sconvolgimento ap-

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propinquantesi non obliteri definitivamente la razionalità di duemila anni di pensiero giuridico.

3. LE PERSONE, LE COSE E LA ‘MANO’ Intorno al 170 d.C. il giurista romano Gaio scriveva nelle sue Institutiones (1.8) che «tutto il diritto, di cui ci serviamo, pertiene alle persone o alle cose o alle azioni». Sia le persone che le cose sono entità del mondo reale assunte dal diritto così come esse sono in natura, ma attribuendo loro lo statuto più congruo rispetto ai suoi fini; mentre le azioni, che si esperiscono nel processo per ottenere ragione, appartengono all’artificialità giuridica, nel senso che in natura non esistono e il diritto le crea per garantire l’osservanza delle sue regole. Quanto alle persone, Gaio non ne offre una definizione, anche se afferma che «nel diritto delle persone la suprema divisione è questa, che tutti gli uomini sono liberi o schiavi» (Gai Inst. 1.9). Ciò induce a concludere che, nella prospettiva gaiana, persona sia l’equivalente di homo. Sopra così si è detto; tuttavia, occorre ora ribadire, la persona non è l’uomo tout court, ma l’uomo considerato dal diritto che, per i suoi fini, lo ascrive (come attesta Gaio) a una partizione piuttosto che a un’altra (né cosa né azione); ed è in funzione di queste partizioni normative che l’uomo è persona. Gaio non definisce nemmeno le cose (res) e passa alle distinzioni in proposito. La prima riguarda l’appartenenza: «esse sono o nel nostro patrimonio oppure sono tenute fuori del nostro patrimonio» (Gai Inst. 2.1). Il giurista vuol dire che le cose sono usualmente in proprietà privata e che, eccezionalmente, talune non lo sono perché non possono essere in proprietà di alcuno (per esempio, le cose consacrate al culto degli dei) o perché appartengono alla collettività generale (cose pubbliche). È da notare che gli schiavi, per quanto annoverati naturalisticamente tra le personae, sono cose. Le cose rilevano in quanto siano di qualcuno: lasciando da parte l’ipotesi delle cose pubbliche, si può dire, sempre con Gaio, che le cose sono private (privatae) in quanto «sono di singoli uomini» (Gai Inst. 2.11). Uomini, persone, cose in proprietà privata: tra le persone, solo alcune (gli uomini liberi) possono avere (nel loro patrimonio) le cose suscettibili di proprietà privata e tra queste cose si ascrivono anche le persone non libere (gli uomini schiavi). La dicotomia persone-cose è centrale nella trattazione di Gaio; ed è in effetti l’apogeo di tutto il diritto privato romano. Essa ha influenzato la sistematizzazione della materia giuridica, come la stessa riflessione sulla medesima, fino ai nostri giorni. Il punto di arrivo sarà questo: persone sono tutti gli uomini (secondo la prospettiva romana attestata in Gaio); la novità è che og-

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gi tutte le persone possono avere: avere cose e, più in generale e meno materialmente, ‘diritti’. Dobbiamo cercare le ragioni di questo cambiamento; e a questo scopo dovremo scavare sulla relazione intercorrente tra persone e cose. Le due dimensioni – i due mondi – naturale e, rispettivamente, artificiale intersecano anche le res: queste sono corporali o incorporali. Le prime «si possono toccare, come un fondo, un uomo, una veste, l’oro, l’argento e poi innumerevoli altre cose» (Gai Inst. 2.13). L’uomo qui è lo schiavo che, dunque, è contemporaneamente homo, persona e res: ci ritorneremo. «Incorporali sono le cose che non si possono toccare, quali sono quelle che esistono nel diritto, come un’eredità, un usufrutto, un’obbligazione» (Gai Inst. 2.14). Si capisce che l’archetipo delle cose sono le res corporales. Il diritto romano ha assunto in sé in primis la realtà naturale, che è fatta di corpi: i corpi-uomini e i corpi-cose. Qui interessa evidenziare come ab initio era attraverso la mano – toccando, afferendo, prendendo – che la persona si impossessava dei corpi: di ciò che è fuori di noi. Per esempio, chi voleva avere una cosa che non aveva, avrebbe potuto ottenerla, in antico, con il consenso di chi l’avesse in dominio, tramite la cosiddetta mancipazione (mancipatio). L’acquirente avrebbe dovuto pronunciare la formula: «io dico che quest’uomo (= questo schiavo) è mio ed egli sia a me acquistato per mezzo di questo bronzo e della bilancia bronzea» (Gai Inst. 119). Un rito antichissimo, come testimoniato dal bronzo che valeva come prezzo in un’epoca cui era ignota la moneta coniata, bronzo il cui valore era misurato dal peso riscontrato sulla bilancia. Gaio spiega l’etimologia della mancipazione: la cosa da acquistare doveva essere presa con la mano e così se ne sarebbe determinato il passaggio (Gai Inst. 1.121; 3.83). La mano assoggettava anche le persone: era il caso del debitore insolvente del cui corpo il creditore poteva impossessarsi afferrandolo con la mano, secondo l’antico rito processuale della legis actio sacramento in rem. Vedremo che alla manus – intesa come potestà – del pater familias era, nell’epoca più antica, regolarmente assoggettata anche la moglie (del pater o di un suo discendente): l’assoggettamento era così intenso che il pater aveva tutte le cose di lei: «acquistiamo così le cose della donna che abbiamo ricevuto in mano quale moglie» (Gai Inst. 2.98). Così in Roma antica le persone avevano condizione diversa a seconda che potessero o meno avere come proprie le cose. Questa capacità di avere coincide con la capacità di essere persona nel senso più pieno: chi abbia questa capacità ha la mano idonea all’impossessamento tramite presa delle cose, alla loro difesa processuale, al loro acquisto in conseguenza di una dazione da altri. Questo potere lo aveva solo il pater; ed era pater il maschio che avesse i tre status (1) di libero; (2) “di diritto proprio” (sui iuris), non soggetto, cioè, alla potestà di un altro pater; (3) di cittadino romano.

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Vi sono dunque delle persone che non solo non hanno, ma nemmeno possono avere: gli schiavi e le mogli in manu. Ma non possono avere nemmeno i figli: in antico assoggettati anch’essi alla mano o al mancipio (mancipium) paterno, quest’ultimo un potere in origine monolitico in quanto indistintamente riferito a persone e cose soggette al pater, poi selezionato in potestà (potestas) quanto alle persone e dominio (dominium) quanto alle cose. Spiega conclusivamente Gaio: «insomma si deve sapere che le persone che sono sotto potestà, mano o mancipio non possono alienare giacché queste persone non possono avere nulla di proprio e nulla pertanto esse possono rivendicare come proprio in un processo» (Gai Inst. 2.96). Le persone che non hanno la ‘mano’ che crea potere, ma che vi sono assoggettate o sono assoggettate al suo surrogato di epoca successiva, la potestà, hanno però la mano che materialmente può afferrare, prendere, impossessarsi delle cose; e dunque le cose assunte dalla mano che non ha e non può avere cadono sotto la mano di chi, nella famiglia, ha o può avere: «infatti, attraverso quelle persone che abbiamo in mano o in mancipio noi acquistiamo la proprietà a qualunque titolo» (Gai Inst. 2.90).

4. LE PERSONE E LA LIBERTÀ Nell’Occidente contemporaneo soggetto di diritto è l’uomo (o donna) in quanto capace di essere titolare di diritti o doveri in senso soggettivo: l’essere soggetto di diritto – titolare di capacità giuridica – è oggi riconosciuto a qualunque uomo, a prescindere dalla circostanza che egli sia o meno effettivamente titolare di diritti; e, anzi, ognuno di noi ha la titolarità almeno di alcuni diritti (se non tutti siamo proprietari, certamente tutti abbiamo il diritto alla vita, all’integrità fisica e morale, al nome, e così via). Ovviamente la soggettività giuridica presuppone che uno sia nato vivo (e, per diritto romano, con forme umane: erano esclusi i cosiddetti monstra o prodigia, i parti che non avessero le forme del genere umano, che il giurista severiano Paolo esclude che possano considerarsi figli: D. 1.5.14). Sappiamo già che in diritto romano non era così. Nella terminologia giuridica il termine subiectus (cioè soggetto) era adoperato rigorosamente: subiectus (participio passato del verbo subicio) è il sottoposto, il sottomesso, l’assoggettato; e subiecti sono i sudditi. Congruamente il sottoposto alla mano o alla potestà era subiectus. Precisamente gli schiavi, ma anche le mogli in manu e i figli, se sono persone, sono soggette al potere altrui, cioè del pater familias (che è l’unica persona che, nella famiglia, ha o può avere). Vengono così in considerazione le due divisiones fondamentali delle persone. Entrambe sono operate utilizzando la libertas quale criterio di discriminazione delle

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persone: la prima (la summa divisio de iure personarum) tra liberi da una parte e schiavi dall’altra; la seconda (l’alia divisio) tra pater da una parte e, dall’altra, le persone subiectae alla sua potestas, cioè moglie in manu, figli e anche schiavi. In questo contesto è importante una nota definizione di Fiorentino, un giurista del II secolo d.C.: «la libertà è la facoltà naturale di fare quel che a ognuno piace, a meno che non sia impedito dalla forza o dal diritto» (D. 1.5.4). E il giurista completa sostenendo che la schiavitù, cioè la negazione di quella naturalis facultas, è contra naturam: conclusione ovvia se la libertà è una dotazione naturale di qualunque uomo; e tuttavia il diritto romano ammetteva che un uomo potesse essere assoggettato, come una cosa, al dominio altrui. Fiorentino non va oltre; in particolare non ci dice se anche l’assoggettamento al pater di moglie in manu e figli fosse altrettanto contra naturam. Ma probabilmente lo escludeva in quanto moglie in manu e figli godevano pur sempre dello status libertatis e la loro minorità dipendeva invece dallo status familiae, cioè dalla posizione da loro occupata nella familia che, sappiamo, in Roma era organizzata intorno alla primazia assoluta (giuridica e anche morale) del pater. Forza e diritto possono in effetti menomare o annientare la libertà umana; ma la loro azione è diversa. La forza opera al livello puramente fattuale; e difatti se sono ostaggio di una banda armata il mio status – la mia condizione giuridica – non patisce alcunché, restando inalterata. Ma se sulla mia libertà intervenga, con i suoi artifici, il diritto, il mio status ne sarà determinato: assumerò lo status servitutis oppure lo status di alieni iuris (in quanto servus oppure moglie in manu o filius familias, tutti subiecti al pater). Se si scorre il Digesto si troveranno infinite discussioni dei giuristi romani circa le persone subiectae alieni iuris, specie con riferimento agli schiavi: discussioni lontanissime dai nostri principi e valori; e che conservano interesse esclusivamente dal punto di vista storico. Ma la storia da fare non è solo quella di Roma antica il cui contesto fu, dall’inizio alla fine, quello di una società rigidamente schiavista e patriarcale. La storia implicata è anche quella che, relativamente al modello romano di persona e di famiglia, si aprì dopo Roma, particolarmente quando il giusnaturalismo attaccherà a fondo le discriminazioni tra persone derivanti dal diritto romano.

4.1. Gli schiavi La schiavitù non era, però, una peculiarità di Roma e del suo diritto perché era presente presso tutti i popoli dell’antichità: presso le antiche popola-

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zioni del bacino del Mediterraneo, un uomo poteva assoggettare totalmente un altro uomo: accanto agli uomini liberi, stavano, dunque, gli uomini non liberi, cioè gli schiavi. Nella Politica Aristotele giustificava la schiavitù in quanto «fin dalla nascita alcuni sono destinati ad obbedire» e costoro sarebbero da parificarsi piuttosto agli animali «perché gli uni e gli altri, gli schiavi e gli animali domestici, si utilizzano per i servizi necessari al corpo». Ad affermare una parificazione del genere il diritto romano non arriverà mai; e, anzi, abbiamo appena letto che Fiorentino riteneva la schiavitù un’istituzione contra naturam. Addirittura fin il diritto romano più antico – lo ius civile – consentiva al dominus di manomettere, cioè di liberare lo schiavo attribuendogli non solo la libertà, ma pure la cittadinanza romana. Per ottenere questo risultato – libertà e cittadinanza – il padrone non avrebbe potuto manifestare come voleva la sua volontà liberatoria, ma era vincolato all’osservanza rigorosa delle forme a ciò imposte dallo ius civile: in sede processuale (con la manumissio vindicta: un finto processo dove lo schiavo veniva rivendicato da un terzo d’accordo con il dominus che non replicava e pertanto il magistrato ne sanzionava la libertà); o extra-processuale (con le manumissiones censu o testamento: rispettivamente, lo schiavo era iscritto, su richiesta del dominus, quale libero nei registri del censore; oppure era dichiarato libero, con una formula stabilita e inderogabile, nel testamento del dominus). Grosso modo così doveva esser stato l’assetto più antico, in un’epoca in cui gli schiavi erano pochi e preziosi. Ma a seguito delle vittoriose guerre di conquista condotte da Roma, nel corso dell’età repubblicana, intorno a tutto il bacino del Mediterraneo il numero degli schiavi crebbe a dismisura e il loro valore economico diminuì proporzionalmente. Rimase però ferma la regola per cui solo le tre manomissioni civilistiche ora ricordate avessero quale effetto l’attribuzione anche della cittadinanza romana. Lievitando il numero degli schiavi cresceva anche quello dei manomessi, anche per la diffusione di un certo spirito di liberalità; ragioni di ordine pubblico consigliavano però di evitare immissioni massicce di nuovi cittadini in conseguenza della contemporanea comparse di nuovi modi di liberazione ai quali era estraneo l’obbligo di uniformazione a forme particolari, dandosi rilevanza solo alla volontà liberatoria comunque manifestata dal dominus. Così farà il pretore assicurando nei fatti la libertà a chi fosse stato liberato senza l’adozione delle forme prescritte dallo ius civile: per esempio, tramite la inequivoca dichiarazione liberatoria resa dal dominus davanti a testimoni oppure in un documento scritto: civilisticamente il manomesso in questi modi – manomissioni dette pretorie rispettivamente denominate inter amicos e per epistulam – sarebbe rimasto schiavo ma il pretore avrebbe negato al dominus pentito la possibilità di agire in rivendica (con la vindicatio in servitutem).

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Si intuisce che l’autorità pubblica intendeva comunque favorire l’acquisto della libertà: lo spirito di liberalità assurse a criterio di politica del diritto e si cominciò a parlare di favor libertatis, un criterio che ispirerà, anche in età imperiale, l’adozione di regole volte a favorire non solo la liberazione degli schiavi, ma pure il miglioramento della loro condizione. Per esempio, Claudio sancì l’acquisto della libertà in favore dello schiavo che fosse stato abbandonato infermo dal padrone; e Costantino, anche per influsso della carità cristiana, vietò la separazione delle famiglie degli schiavi (famiglie di fatto in quanto non era consentito il matrimonio tra schiavi) in occasione delle vendite. Da quanto sopra accennato si è capito che una causa di riduzione in schiavitù – nel tempo divenuta la più frequente – era la prigionia di guerra. In antico aveva tale effetto anche la cosiddetta vendita trans Tiberim – cioè oltre la riva destra del fiume, in territorio etrusco, cioè straniero – del debitore insolvente. In entrambi questi casi si diventava schiavi da liberi quali si era. Ma si poteva nascere schiavi in quanto partoriti da madre schiava (almeno se rimasta tale durante tutto il tempo della gestazione perché se fosse stata libera anche solo per un breve intervallo durante la gravidanza il figlio sarebbe nato libero: favor libertatis). Leggiamo dunque nelle Istituzioni di Giustiniano (1.3.4) che sono schiavi coloro che nascono ex ancillis nostris, dalle nostre schiave. L’ordinamento servile era esaustivo al punto che lo ius civile contemplava il caso dell’uomo libero che diveniva schiavo vendendo sé stesso al fine di spartire il prezzo con il suo creditore. Si intende che di quest’ordinamento nulla è rimasto nella modernità. Ma all’eguaglianza e ai diritti universali siamo giunti in reazione all’ordinamento servile e patriarcale consegnatoci dal diritto romano. In questa prospettiva è probante anche solo qualche richiamo a quanto si legge al cap. 4 del libro I del Contratto sociale di Rousseau. Qui si comincia con il sostenere che nessun uomo può arrogarsi un potere naturale di dominio su un altro uomo: una premessa però comune alle Istituzioni di Fiorentino. Poi Rousseau si scaglia contro la previsione – del diritto romano – che consentiva all’uomo libero, vendendo sé stesso, di essere ridotto in schiavitù: «rinunciare alla propria libertà vuol dire rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell’umanità e anche ai propri doveri». E poi ancora contro la riduzione in schiavitù del prigioniero di guerra perché «gli uomini non sono nemici per natura»; e la guerra «non è una relazione tra uomo e uomo […] ma tra Stato e Stato». Alla fine la condanna non potrebbe essere più radicale: «queste parole schiavitù e diritto, si contraddicono, si annullano a vicenda». È il segno più caratteristico della modernità; e Rousseau non era certo ostile a Roma antica se nel IV libro del Contratto descrive la costituzione della Repubblica romana quale modello per gli Stati moderni.

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Analoga è la posizione di Rousseau in confronto della famiglia. Nel modello romano le persone alieni iuris (cioè soggette alla potestas del pater familias) anche se libere – come la moglie e i figli – subivano comunque limiti non indifferenti nell’esercizio di quella libertà: a loro era negata quella che modernamente si chiama capacità giuridica per cui non potevano avere beni propri o essere creditori o debitori in proprio. Da questo punto di vista la loro condizione non era poi molto dissimile da quella degli schiavi (anche se, differentemente da questi ultimi, i figli potevano contrarre valido matrimonio e figli e moglie in manu erano sui heredes del pater). Approfondiamo un poco la condizione di queste persone libere sì, ma alieni iuris, soggette al pater, l’unico a cui potremmo riconoscere modernamente la titolarità della capacità giuridica nella familia romana.

4.2. Le mogli in manu, il matrimonio, la tutela muliebre Qui si è già ricordata la definizione che di pater dà Ulpiano. Nel medesimo passo il giurista offre anche una famosa definizione della famiglia romana: «più persone che sono soggette alla potestà di uno solo per natura o per diritto», quali il padre, la madre, il figlio e la figlia, i loro discendenti ulteriori, per esempio i nipoti e le nipoti. Vedremo che si cadeva in potestà del pater familias in conseguenza della nascita (ecco il richiamo alla natura) oppure di un atto giuridico quale l’adozione o il matrimonio accompagnato dalla conventio in manum (per effetto, cioè, di una regola di diritto). I componenti di una famiglia erano così uniti dal già ricordato vincolo dell’adgnatio, un tipo di parentela, dunque, che non postulava necessariamente la consanguineità. Per quanto la sua matrice risalisse assai in antico, la definizione ulpianea sopra riportata si mantenne integra per tutta l’età della Repubblica ed era ancora valida nel Principato. Essa riflette una concezione della famiglia alquanto lontana da quella che abbiamo al giorno d’oggi, in quanto il fondamento del gruppo non è individuato nel matrimonio o nella comune ascendenza, ma nella dipendenza dal vincolo potestativo del pater: questi, abbiamo già sottolineato evocando Ulpiano, è colui che «ha il dominio nella casa». Ciò non significa, si intuisce (e, anzi, il giurista vi accenna implicitamente, evocando la natura come presupposto dell’assoggettamento), che alla famiglia romana non si accompagnasse il matrimonio tra il padre e la madre. Così accadeva nella stragrande maggioranza dei casi. Però – non solo in antico ma per buona parte dell’età repubblicana – sul matrimonio o, se si vuole, nel matrimonio l’elemento prevalente, in quanto ascrivente la moglie alla familia come definita da Ulpiano, era la già menzionata manus. Non era, infatti, concepibile che chi fosse stata scelta per generare i continuatori di una certa

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famiglia (delle sue tradizioni, dei suoi riti) non entrasse a far parte di quella famiglia: per ottenere quest’integrazione – attestata come normale nella definizione ulpianea, un po’ di retroguardia, da cui abbiamo preso le mosse – occorreva la conventio in manum. Era quest’ultima un atto formale e rilevante iure (avendo quale effetto, appunto, la sottoposizione della sposa alla potestà del marito o pater di lui). Si faceva consistere nel rito della confarreatio: la consacrazione a Giove Farreo di una focaccia di farro, che gli sposi spezzavano alla presenza, oltre che di dieci testimoni, del pontefice massimo e del flamine di Giove, a simboleggiare la comunione di vita. Il rito, piuttosto complicato, probabilmente riservato ai patrizi, finì con l’andare desueto, anche se ancora in età imperiale per essere ammessi ai sacerdozi maggiori occorreva essere nati da nozze confarreate e sposati con confarreatio. Ma la conventio in manum poteva consistere pure in una sorta di compera della donna, cosiddetta coemptio (una mancipatio a causa di matrimonio dicono le fonti), da parte del marito o del pater di lui. Comunque la pratica indissolubilità tra matrimonio e manus è dimostrata dall’usus: questo era semplicemente la convivenza della moglie presso la casa del marito per un anno, dalla quale si faceva conseguire (cioè nel difetto di confarreatio o di coemptio) l’assoggettamento alla manus. Uxor in manu era dunque la moglie e la mater familias assoggettata alla manus del pater familias, cioè alla sua potestas. Ella era considerata, nella famiglia del marito, alla stregua di una figlia (se il marito era sui iuris) o di una nipote (se il marito era alieni iuris): era, dunque, legata dal vincolo dell’agnazione, il che aveva riflessi in tema di tutela e cura e di successione ereditaria (con evidente vantaggio per la donna che, parificata ai figli e ai nipoti, ne acquisiva la corrispondente aspettativa ereditaria alla morte del pater). Tuttavia la conventio in manum andò progressivamente in desuetudine nel corso della Repubblica. Già le XII Tavole, prevedendo che la donna potesse evitare la manus conseguente all’usus semplicemente allontanandosi per tre notti consecutive (trinoctium) dalla casa maritale, attestano l’esistenza di un’alternativa al modello originario del matrimonio (cum manu appunto). Quest’alternativa è il matrimonio cosiddetto libero: espressione speculare della volontà reciproca di considerarsi marito e moglie (cosiddetta adfectio maritalis), da confermarsi e rinnovarsi tutti i giorni in quanto, se fosse venuta meno, anche il matrimonio non vi sarebbe più stato. Ecco che il matrimonio cominciò, a Roma, ad essere avvertito come un vincolo giuridico sì ma dal quale ci si sarebbe potuti liberare addirittura senza l’osservanza di certe regole o procedure. Quest’idea di un matrimonio fondato null’altro che sul persistente consenso dei coniugi si mantiene, grosso modo integra, in tutto l’arco del successivo svolgimento dell’esperienza giuridica romana. Nel corso

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del tempo muta, però, il contesto, anche giuridico, con inevitabile riflesso sulla percezione, a livello personale e sociale, del matrimonio e della famiglia stessa. Il matrimonio libero finì con il soppiantare del tutto la conventio in manum nel II secolo a.C., con la vistosa conseguenza che la moglie restava o soggetta alla potestà del pater originario oppure sui iuris e, dunque, indipendente: per la famiglia del marito e, dunque, per i suoi stessi figli ella, non diventando un’adgnata, era un’estranea. Varie cause sono state individuate per spiegare il passaggio dal matrimonio cum manu al matrimonio libero (sine manu). Si è pensato che alla famiglia del marito potesse essere conveniente riservarsi la possibilità di escludere il sorgere del vincolo agnatizio in capo alla moglie, al fine di evitare che ella acquisisse, in via ereditaria, una quota del patrimonio familiare. È però da rilevare che, da un lato, la donna non aveva, in quell’epoca, la capacità di fare testamento (e così di nominare eredi estranei alla famiglia) e che, dall’altro, ella morendo avrebbe lasciato agli adgnati, primi fra tutti ai figli. Piuttosto la progressiva scomparsa della manus è da porre in connessione con la diffusione del divorzio alla quale deve aver contribuito il più generale mutamento della mentalità e del costume determinatosi a seguito dell’espansione di Roma nel bacino del Mediterraneo. In antico, infatti, il divorzio doveva considerarsi inesistente, salvo il diritto dell’uomo di ripudiare la moglie ricorrendo sue gravi colpe (come l’adulterio o l’aborto all’insaputa del marito). Negli ultimi secoli della Repubblica si ammise che uno o entrambi i coniugi, venendo meno la adfectio maritalis, potessero divorziare; e nei fatti, stando alle fonti, i divorzi dovevano essere assai frequenti, specie nelle classi più alte della società: è così attestato che, nel II secolo a.C., una donna potesse generare più figli a famiglie diverse, e una pratica di questo genere era frequente. D’altra parte, occorre sottolineare, in questo periodo, entrò nell’uso che il marito (o il futuro marito) si impegnasse, con apposita promessa, a restituire senz’altro la dote alla moglie nel caso di divorzio. La dote era costituita da uno o più beni che la donna era solita apportare (se era alieni iuris per concessione del suo pater) al marito al fine di contribuire al sostentamento della futura famiglia: quando vi era la conventio in manum essa rappresentava una sorta di compensazione economica per la quota ereditaria che la moglie avrebbe acquisito alla morte del marito e si intende che, caduta la manus, non vi sarebbe stata ragione perché il marito trattenesse i beni dotali se il matrimonio si fosse sciolto. In questo contesto risulta congruo che la moglie non entrasse, con il matrimonio libero, a far parte della famiglia del marito; e per questo la lex Voconia del 169 a.C. vietò ai mariti ascritti alla classe di censo più elevata di istituire eredi le mogli. La famiglia ora era costituita solo dal pater e dai suoi di-

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scendenti (che, si deve ricordare, restavano nella famiglia nel caso di divorzio e non venivano affidati alla madre), i quali garantivano la titolarità familiare del patrimonio. Nella prospettiva ora delineata si capisce la definizione gaiana (diversa solo in apparenza da quella di Ulpiano) secondo cui la famiglia si identifica nel patrimonio del pater (“la sua famiglia, cioè il suo patrimonio”): familia ha, nella lingua latina, anche questo significato che, a ben guardare, non è in contraddizione con quello di «insieme di persone soggette alla potestà dello stesso pater», in quanto è proprio il vincolo agnatizio che lega queste persone ad assicurare che una certa famiglia possa mantenere la titolarità del suo patrimonio. Congruamente la moglie, non più adgnata nella famiglia del marito in seguito alla scomparsa della conventio in manum, non poteva ricevere alcunché in donazione dal consorte (o dal pater di lui) in conseguenza dell’affermarsi del divieto di donazioni tra coniugi nell’ultimo scorcio della Repubblica: è evidente che, alla base di questa pregnante proibizione, vi era l’esigenza di salvaguardare l’integrità patrimoniale della famiglia. Questa sarebbe stata compromessa attraverso le donazioni a una moglie che facilmente avrebbe poi potuto divorziare (o da cui si sarebbe facilmente potuto divorziare), con spostamento patrimoniale da una famiglia all’altra, in un contesto sociopolitico in cui la ricchezza familiare era determinante. L’eventualità, tutt’altro che remota, di un divorzio fu alla base anche della regola per cui si presumeva che, fino a prova contraria, ogni bene della moglie provenisse dal marito e dovesse spettare a lui nel caso di divorzio. Con alcune leggi Ottaviano Augusto cercò di favorire, da un lato, la natalità della famiglia romana imponendo a tutti l’obbligo di sposarsi durante l’età feconda e, dall’altro, di ridare dignità al matrimonio perseguendo, tra l’altro, l’adulterio della donna quale crimine pubblico, con l’irrogazione di gravi pene (come la relegazione) all’adultera e al suo complice. A stare alle testimonianze di cui disponiamo, il programma augusteo di restaurazione del costume sessuale e familiare risultò velleitario. Grande influenza ebbe, invece, l’ideologia cristiana che finì con l’essere ispiratrice di importanti riforme, in particolare in tema di divorzio. Questo fu decisamente contrastato, anche se non si pervenne mai a vietarlo. Il divorzio poteva avvenire senza alcuna sanzione se fosse stato giustificato da una giusta causa (quale, per esempio, l’attentato alla vita del coniuge per entrambi; l’adulterio, per la moglie, l’avere una stabile concubina, per il marito). Invece, nel difetto di una giusta causa, il coniuge che avesse preso l’iniziativa avrebbe subito sanzioni di varia natura, di carattere patrimoniale e personale (come l’incapacità di sposarsi nuovamente prima di un certo tempo o, in diritto giustinianeo, il ritiro in un convento). Sempre possibile era il divorzio consensuale, cioè con l’accordo

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di entrambi i coniugi: solo Giustiniano cercò di sanzionarlo, ma le sanzioni furono presto rimosse dal suo successore. Nonostante queste disposizioni limitative della libertà di divorziare, è da dire che l’idea fondamentale del matrimonio romano, l’essere fondato sul perdurante consenso dei coniugi, non venne mai meno. Solo nel medio evo riuscì a prevalere la diversa idea alla base del matrimonio canonico che, concependolo come un sacramento, valorizzò esclusivamente il consenso iniziale: questo, liberamente prestato, non si sarebbe più potuto revocare e il matrimonio divenne così indissolubile. Si deve ancora ricordare che, anche se sui iuris, la donna resterà comunque sottoposta per secoli a tutela perpetua sulla base di una presunta volubilità dell’animo femminile (che Gaio non esitava a considerare una giustificazione pretestuosa). Con il che la donna non avrebbe potuto disporre dei suoi beni senza l’autorizzazione del tutore (auctoritas tutoris): il tutore doveva obbligatoriamente intervenire, prestando il suo assenso, a tutti i più importanti atti di disposizione giuridica (come alienazioni, assunzioni di debiti, manumissioni) compiuti dalla donna. Se si considera che il tutore era indicato nel testamento dal pater (tutela testamentaria) o, in difetto, era un suo agnato (in pratica un maschio della sua famiglia: tutela legittima) si intende che lo scopo era sempre quello di conservare integra la ricchezza familiare. Più tardi si ammise che il tutore potesse essere nominato dal magistrato (tutela dativa). Questa protezione venne peraltro a decadere fin dagli inizi del Principato: l’assistenza tutoria si era ormai ridotta, ci informa Gaio, a mera finzione, potendo il pretore addirittura costringere il tutore a prestare il proprio assenso. In età giustinianea la tutela muliebre è del tutto scomparsa.

4.3. I figli Filii familias: sono tutti i nati da matrimonio legittimo (iustae nuptiae) da un maschio della famiglia, sia esso il pater o un filius. Come alieni iuris, anche il filius non poteva avere beni propri (né essere creditore o debitore). Così il figlio in potestà, se acquistava qualcosa (perché, per esempio, uno prometteva di dargli una certa somma di denaro a una data scadenza), acquistava al padre, nel senso che l’acquisto entrava a far parte del patrimonio paterno. Il pater avrebbe però potuto concedergli un piccolo patrimonio in godimento e in amministrazione, il peculio, la cui proprietà restava comunque paterna. Era una prassi che, grosso modo, era applicata anche in confronto degli schiavi, spesso nell’interesse del padrone che si sarebbe potuto avvantaggiare dello schiavo peculiato per aumentare il volume dei propri affari e dei propri profitti applicandosi la medesima regola per cui ogni acqui-

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sto (dei soggetti a potestà) era acquisito al pater. Augusto concesse ai suoi soldati filii familias di poter disporre eccezionalmente dei vari proventi (dal soldo militare al bottino di guerra) derivanti dall’esercizio della milizia: beni che vennero complessivamente denominati come peculio castrense per distinguerlo da quello di provenienza paterna (e denominato peculio profettizio). Si deve aggiungere che lo status di filius si sarebbe potuto acquisire in conseguenza di adozione. Ma l’adottando sarebbe potuto essere un filius familias o, anche, un pater familias. Nel primo caso, si sarebbe dovuta osservare la forma dell’adoptio, piuttosto complicata, ancora un finto processo nel quale il pater adottante rivendicava fittiziamente come propria la potestas sull’adottando. Nel secondo, l’adozione avrebbe postulato la forma pubblicistica dell’adrogatio da compiersi davanti ai comizi curiati, con il pontefice massimo che interrogava l’adottante, l’adottato e, in ultimo, il popolo curiato perché approvasse l’adozione che avrebbe comportato un mutamento interessante la civitas in quanto la familia dell’adottando si sarebbe estinta. Quest’ultimo avrebbe perso lo status di sui iuris e, da pater, si sarebbe trovato ad essere filius dell’adottante; avrebbe anche perso la proprietà dei propri beni che sarebbero stati acquisiti dall’adottante divenendone però heres suus (e, reciprocamente, l’adottante si sarebbe così garantito, in assenza di figli propri, un successore). I filii (e l’uxor in manu) divenivano sui iuris alla morte del pater, purché questi non fosse un avo (un nonno): in questo caso gli sarebbero subentrati i suoi filii i quali sarebbero divenuti patres nelle loro familiae, con la conseguenza che i loro discendenti, e le rispettive mogli, sarebbero continuati a trovarsi nella condizione di alieni iuris. Però se, in progresso di tempo, si ammise che la moglie avrebbe potuto evitare le conseguenze dell’usus allontanandosi dalla casa del marito per tre notti consecutive, si ammise pure che il filius potesse sottrarsi alla potestas paterna se il pater lo avesse volontariamente liberato tramite un atto ad hoc, l’emancipatio, anch’esso alquanto complesso dal punto di vista formale implicando due successive vendite del figlio a un compratore fittizio che lo manometteva facendolo con ciò ricadere nella potestà del pater: questi lo avrebbe dovuto vendere una terza volta con l’effetto di renderlo libero in base a un precetto delle XII Tavole che sanzionava il pater con la perdita della potestà qualora ne avesse abusato vendendo per tre volte il figlio. Nel tempo si consentì che bastasse una sola vendita; e nel tardo impero si ammise che l’emancipazione avvenisse per rescritto imperiale e poi, più semplicemente, davanti a un magistrato. Come si vede, anche da questa parte siamo molto lontani dalla modernità i cui assetti peculiari si sono però venuti a creare proprio attraverso l’eradicazione progressiva dal modello romano (avvertito piuttosto come antimo-

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dello). Nel capitolo 2 del Contratto sociale il passaggio è annunciato senza riserve: «il legame naturale» tra padre e figlio cessa quando quest’ultimo abbia acquisito la sua indipendenza, anzi «appena si trova in età di ragione, essendo egli solo giudice dei mezzi adatti alla propria conservazione, diventa per questo padrone di sé». Rousseau annuncia così i tempi nuovi che, tuttavia, acquisteranno effettività solo nel corso del Novecento, per la resistenza della tradizione alimentata dai valori cristiani che riuscirono a rallentare alquanto l’eclissi del padre quale capo della famiglia.

5. LE PERSONE E L’INTEGRITÀ DEL PATRIMONIO FAMILIARE Ricordiamo Ulpiano per il quale «padre di famiglia è appellato chi nella casa ha il dominio e correttamente viene così denominato, sebbene non abbia un figlio» (D. 50.16.195). Sicché, per essere pater e dunque persona non soggetta, rileva non l’avere una propria discendenza (e, dunque, una famiglia), ma il non avere un pater in vita e, perciò, il non essere soggetto a quest’ultimo. Questa struttura familiare, caratterizzata da un potere paterno e maritale così pregnante, sarebbe stata prerogativa pressoché esclusiva dei Romani, come Gaio ci informa in una rapida notazione a sfondo sociologico, assolutamente eccezionale in un giurista così tecnico, attento cioè al solo dato normativo: «questo diritto è proprio dei cittadini Romani, giacché non vi sono forse altri uomini che abbiano sui propri figli una potestà tale quale noi l’abbiamo» (Gai Inst. 1.55). Ora, per quale ragione nella famiglia romana una sola persona aveva (o poteva avere)? Vediamo un poco. Ogni indagine deve prendere le mosse dall’eccezionale rilevanza che, presso i Romani, ebbe la ricchezza familiare: è un dato, questo, evidentissimo nei primi secoli e durante tutta la Repubblica, e che, per quanto attenuato, rimase anche in epoca imperiale. Nel manualetto gaiano è scritto, a proposito del testamento del pater familias, che questi, almeno fino al III secolo a.C., affidava a una persona di fiducia l’incarico di dare esecuzione alle sue ultime volontà relativamente alla sorte «della sua famiglia, cioè del suo patrimonio» (Gai Inst. 2.102). L’essere della famiglia si identifica con le sue cose, vale a dire la famiglia coincide con il patrimonio familiare. Questa identificazione è, in effetti, reale e funzionalizza il potere economico assoluto di chi ha, del pater. Nella comunità agro-pastorale dei primi secoli il patrimonio familiare è costituito essenzialmente dalla casa (domus) e dal campicello avito (fundus). Domus e fundus erano le cose che alla famiglia risultavano indispensabili per garantire la sua sopravvivenza generazionale: la famiglia era e continuava a essere in quanto essa avesse e continuasse ad avere le sue cose. La famiglia era, dunque, il suo patrimonio; e questo era garanzia di future

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generazioni e, allo stesso tempo, di identità, di misura del valore, della famiglia. Il podere era così significativamente denominato heredium: l’etimologia (da heres, l’erede) lascia intendere che il dominio su di esso doveva essere trasmesso integro di padre in figlio. E almeno fino al IV-III secolo a.C., fino dunque al cuore dell’età repubblicana, i figli erano eredi necessari del pater (i cosiddetti sui heredes) e non potevano rifiutare l’eredità. D’altra parte, non si può escludere che, ancora nel V-IV secolo a. C., il pater non potesse disporre per testamento del patrimonio familiare in presenza di figli ai quali quel patrimonio sarebbe dovuto inderogabilmente trapassare. L’identificazione della familia con il suo patrimonio postulava la necessità che alcune regole fossero schierate a salvaguardia della ricchezza familiare. La prima la conosciamo: vi era un solo titolare, il pater, perché si credeva che la conservazione fosse maggiormente assicurata se vi fosse stata unità nel potere di amministrazione e di disposizione dei beni della famiglia. D’altra parte, la proprietà unica del pater era avvertita come funzionale al superiore interesse della comunità familiare: si è appena accennato alla destinazione necessaria dei beni paterni ai figli al fine che la famiglia non perdesse la sua posizione all’interno della civitas prima ancora che ne venisse compromesso il suo tenore di vita. Per questa ragione è anche possibile che, in antico, il pater nemmeno potesse disporre in vita dei beni di cui pur era dominus: il paradigma parrebbe esser stato appunto quello della proprietà funzionale. Come si vede, siamo agli antipodi dell’individualismo oggi trionfante. Si può dire che fosse diffusa una vera e propria sindrome conservativa della ricchezza all’interno della famiglia che l’ha prodotta: le persone che hanno (e, particolarmente, le persone che hanno molto) non possono compromettere la famiglia, intesa come patrimonio e, indirettamente, come future generazioni. Le donne, che pur generano i figli alla famiglia, rappresentano un pericolo, almeno a partire dall’affermarsi del matrimonio libero: alle vedove, ormai estranee alla famiglia, non spetta ereditariamente alcuna cosa in proprietà, ma solo in usufrutto, con la conseguenza che, morta la vedova, il bene sarebbe ritornato nella piena disponibilità della famiglia. L’indagine sulle norme a disciplina del regime patrimoniale della famiglia romana conferma che, in essa, una persona aveva e doveva avere; e, si aggiunge, a questa persona spettava in esclusiva il potere di amministrare il patrimonio familiare. In questo contesto è evidente la congruenza dell’opzione per cui il potere decisorio, in merito al governo della famiglia e, dunque, delle sue res, non dovesse essere condiviso, in quanto l’unicità del comando evitava in radice le inevitabili divisioni con pregiudizio del superiore interesse familiare. La sindrome conservativa doveva corrispondere a una virtù familiare se il giurista Servio Sulpicio Rufo scriveva a Cicerone, appena colpito dal grave

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lutto per la morte dell’amata figlia Ottavia, che la massima aspirazione di un padre consisteva nel generare dei figli che dimostrassero di essere in grado di mantenere integra la ricchezza familiare ricevuta in successione.

5.1. La tutela e la curatela delle persone incapaci Vi sono poi le regole che si applicavano in confronto di quelle persone sui iuris (e, se maschi, definiti anche patres) che non avevano ancora raggiunto l’età minima per potere liberamente disporre (alienandoli, per esempio) dei propri beni: per esempio, il figlio che, in tenera età, si fosse venuto a trovare orfano di padre e di cui avesse ereditato il patrimonio. Occorre sapere che fin da antico il diritto romano distingueva tra puberi e impuberi: i primi erano coloro che avessero la capacità di generare, i secondi non l’avevano ancora per la troppo giovane età. A rigore una discriminazione del genere era fondata sulla fisicità; e congruamente alle origini si postulava l’accertamento caso per caso tramite l’ispezione corporale (inspectio corporis). Successivamente si cominciò a dar rilievo (eventualmente in una con l’inspectio corporis, almeno per i maschi) al compimento di una certa età: quattordici anni per i maschi, dodici per le femmine. Con Giustiniano si pose fine a ogni discussione e queste età vennero definitivamente confermate. Ma a che serviva discriminare tra puberi e impuberi? Si intuisce che al raggiungimento della pubertà si doveva accompagnare qualcosa d’altro, giuridicamente rilevante; e ciò era la presunzione che il pubere conseguisse anche una sufficiente maturità mentale, per cui si riteneva che egli si dovesse rendere conto di quel faceva, particolarmente nelle attività produttive di effetti giuridici. Insomma, possiamo dire, con terminologia moderna, che con la pubertà si acquisiva la capacità di agire: l’idoneità a compiere atti validi dal punto di vista del diritto. Ora nella normalità dei casi gli impuberi avevano un pater e, dunque, non avevano beni propri. Ma se il pater fosse morto durante l’impubertà del filius? E se mancasse un ascendente in linea maschile intermedio? La conseguenza la conosciamo: quel filius sarebbe divenuto sui iuris e, ereditando dal pater premorto, avrebbe avuto beni propri provenienti dal patrimonio familiare. Per amministrare questi beni, e per provvedere alle necessità dell’impubere, era prevista fin da antico la nomina di un tutor. Anche la tutela degli impuberes poteva essere, alla pari della tutela muliebre, legittima e testamentaria. I primi chiamati alla tutela legittima erano gli adgnati (un fratello maggiore, uno zio paterno): cioè coloro che erano chiamati alla successione legittima dell’impubere, appartenenti alla sua stessa familia. Sottostante vi è l’esigenza di tutelare non solo l’impubere, ma anche la conservazione dei suoi beni all’interno della familia. Una preoccupazione, questa, che certamente era anche del pater che, nel testamento, nominasse il

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tutore al filius. Mancando sia il tutore testamentario che quello legittimo, il tutore (cosiddetto dativo) era nominato dal magistrato, su disposizione della legge Atilia del 210 a.C. Giustiniano innoverà parecchio chiamando alla tutela legittima anche i cognati. Alle origini i poteri del tutore, rispetto al patrimonio pupillare, erano quelli di un padrone, per cui egli avrebbe potuto amministrare secondo quanto ritenesse più opportuno, salvo il dovere di comportarsi in conformità al valore della fides, che connotava naturalmente il rapporto di tutela: era necessario che il tutore si mantenesse sempre degno del massimo affidamento, che poteva venir meno anche in assenza di vere e proprie frodi, come nei casi di grave negligenza, inettitudine o insolvenza. Nell’ultimo secolo della Repubblica si introdusse, per far valere la responsabilità del tutore, l’azione di tutela (actio tutelae), esperibile dal pupillo a tutela finita, e diretta ad ottenere il risarcimento dei danni cagionati a causa della mala amministrazione tutoria del patrimonio pupillare. Con l’evolversi della struttura socio-economica e, dunque, con il diffondersi delle relazioni commerciali cominciò ad apparire eccessivo che adolescenti, per quanto puberi, da soli potessero compiere atti giuridici senza limite alcuno, e produttivi di effetti direttamente nei loro confronti se essi fossero sui iuris: qualcuno avrebbe potuto approfittare della loro inesperienza, e indurli ad atti per loro dannosi. Per questo già nel III secolo a.C. una lex Laetoria (o Plaetoria) introdusse un’azione a salvaguardia dei puberi minori di venticinque anni (minores aetatis) che fossero stati raggirati nel compimento di atti giuridici: si pensi al minore che presti denaro a persona di nessuna fiducia, o alieni un bene a prezzo irrisorio o addirittura senza prezzo, o rinunci a un credito senza nessuna contropartita. Per quest’azione il raggiratore, la controparte del rapporto, sarebbe stato passibile di condanna al pagamento di una pena pecuniaria. Successivamente il pretore completò congruamente questa salvaguardia, introducendo nell’editto la previsione di strumenti processuali con i quali gli effetti degli atti posti in essere dal minore si sarebbero potuti annullare in presenza del presupposto del pregiudizio economico del minore. L’esigenza conservativa si manifesta anche in confronto della persona adulta non più soggetta alla potestà paterna (e, dunque, sui iuris), né alla tutela (e, dunque, pubere), ma affetta da un vizio di mente o da prodigalità. Questa persona ha o può avere; ma il suo patrimonio potrebbe essere compromesso dall’agire inconsulto conseguente alla patologia. Fin dalle XII Tavole erano sottoposti a cura i soggetti infermi di mente, benché maggiori di venticinque anni. La curatela (legittima) dei furiosi o dementes spettava a uno stretto congiunto, a quello che era indicato al primo posto in linea di successione ereditaria: ancora una volta un adgnatus; in mancanza ai gentili.

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Più tardi si ammise che la nomina del curatore potesse essere fatta dal pretore. Nell’età tardoantica alla curatela degli agnati subentrò quella dei cognati, cioè dei parenti di sangue, mentre era da tempo scomparsa la curatela dei gentili. Una volta che l’infermità di mente fosse nota, non era necessario, almeno fino a Giustiniano, un provvedimento formale di accertamento della medesima, e il curatore cominciava ad amministrare il patrimonio dell’incapace, sorvegliandone pure la persona. A curatela erano sottoposti, per precetto decemvirale, anche i prodighi, cioè coloro che non avevano cognizione del valore del denaro e così esponevano sé stessi e la propria famiglia al rischio di dilapidare il patrimonio ereditato per successione paterna e, in progresso di tempo, qualunque patrimonio del quale essi fossero titolari. In età giustinianea il regime della curatela dei malati di mente e dei prodighi si avvicinò a quello della tutela: anche la curatela si distinse in testamentaria, legittima e dativa.

6. LA PERSONA COME MASCHERA   Le persone che avevano, i patres, anzi le persone che avevano molto, decidevano le sorti della res publica Romana. Almeno dal V secolo a.C. la massima assemblea popolare, il comizio centuriato, era organizzata attraverso la distribuzione dei cittadini in cinque classi distinte a seconda del censo, cioè della ricchezza posseduta e registrata ufficialmente ogni cinque anni attraverso il censimento curato dai censori che raccoglievano le dichiarazioni rilasciate dai patres familias. Siccome la maggioranza si computava non per teste ma per unità votanti, le centurie, la classe dei più ricchi, cioè la prima classe, disponeva della maggioranza delle centurie e così decideva anche per le altre (quattro) classi: anzi, la stragrande maggioranza dei cittadini non votava nemmeno perché era inutile. Dalla prima classe erano eletti tutti i magistrati supremi e dagli ex magistrati era composto il senato cui spettava il potere di indirizzo e di controllo dell’azione di governo. L’eccezionale successo della politica romana nei secoli centrali della res publica è da ascriversi all’assoluta coesione delle grandi famiglie animate dalla ricerca del prestigio e del potere anche economico e, per questo, assai attente nell’impartire ai propri figli un’educazione idonea al mantenimento della primazia. In questo contesto, nel quale erano protagoniste le persone che più avevano, si comprende la necessità di conservare la ricchezza familiare. È così fondato pensare che le costruzioni dei giuristi romani e il diritto romano in genere fino al III secolo d.C. siano stati elaborati avendo quale destinatario ossia centro di imputazione delle norme sulla ricchezza relativamente a proprietà, contratti, eredità, il cittadino economicamente provve-

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duto, dominus di fondi non esigui o negoziatore in transazioni commerciali di valore cospicuo. Si è già osservato che, nella lingua latina, persona significa innanzi tutto la maschera teatrale e, per traslato, la parte recitata dall’attore: questo cittadino così qualificato (il pater in una delle famiglie dell’élite patrizia prima, patrizio-plebea poi) è l’unico uomo a poter essere persona nei rapporti giuridici patrimoniali governati dal diritto romano. Diversamente, nel contesto di questi rapporti, gli schiavi hanno lo statuto delle res, perché si acquistano e alienano come qualunque altra cosa mobile. Quanto alle altre personae, né padri di famiglia né schiavi, se esse non sono res in quanto libere, il loro stato di personae subiectae, soggette al potere del pater, esclude che possano acquistare cose per sé. Alla pari degli schiavi, mogli sotto la mano maritale e figli sotto la potestà paterna non possono essere parte, non possono atteggiarsi come personae, nei rapporti giuridici patrimoniali: se le personae subiectae possono comparire nella dinamica di questi rapporti, esse, tuttavia, agiscono come meri strumenti del pater, al quale soltanto compete l’effetto dell’azione compiuta dai sottoposti, cioè l’acquisto del potere (o, anche, l’assunzione dell’obbligo). Così le regole giuridiche instaurano una scena artificiale alla pari del proscenio teatrale. Nel proscenio gli attori si muovono secondo i dettami del copione e le loro successive movenze sono finalizzate all’epilogo costruito dal commediografo. Nel diritto le persone sono uomini veri, ma le divisioni tra le persone creano i ruoli: liberi e schiavi; padri di famiglia, da una parte, mogli e figli, loro sottoposti, dall’altra. In una prospettiva pregiuridica i Romani ritengono persone tutti gli uomini: la natura umana o la realtà fisica sono, in effetti, identiche nel libero come nello schiavo, nel marito come nella moglie, nel padre come nel figlio. Invece, nel mondo del diritto non v’è posto per l’eguaglianza, perché le persone si presentano con maschere che configurano profonde distinzioni. Per questo, nella prospettiva giuridica, i giuristi romani adoperano frequentemente l’espressione personam sustinere a sottolineare che l’uomo sostiene un ruolo, una funzione, una parte precisa; e il ruolo, la funzione, la parte non sono eguali per tutti. Il diritto fa diseguali gli homines, i quali assumono consequenzialmente personae diverse. Il punto è proprio questo: gli uomini non sono tutti personae eguali. Il termine persona, che il diritto riceve dal teatro, mantiene così, anche nel copione delle regole giuridiche, la valenza della maschera: derivi persona dall’etrusco φersu o dal greco πρόςωπον o dal latino personando, in ogni caso la sua etimologia radica, nel contesto del diritto delle persone, veicola l’idea della parte che l’uomo deve assumere nella vita. Tutto ciò presupponeva il fatto naturale della nascita. Se l’attitudine al dominio sulle cose qualificava, in Roma, il soggetto protagonista delle vicende della vita manipolate dal diritto, era scontato l’esito del ragionamento

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condotto dai giuristi romani ai fini dell’individuazione del momento iniziale della rilevanza giuridica della vita umana. La regola fondamentale è questa: «il feto, prima di essere partorito, è una porzione della madre o delle sue viscere» (D. 25.4.1.1). In effetti, solo il neonato, sempre che non abbia in vita il proprio pater, ha l’attitudine al dominio e, anzi, se vi sia una eredità paterna, egli ne ha automaticamente il dominio perché è tra gli uomini: nel mondo del diritto l’attitudine all’essere dipende, anche da questo punto di vista, dall’attitudine all’avere. I giuristi tendono, dunque, a negare che il feto, di cui pur può considerarsi l’esistenza in rerum natura, sia o possa ritenersi uomo e, dunque, persona: inequivoca è l’affermazione di Papiniano (siamo tra il II e il III secolo d.C.), secondo cui «il feto non ancora partorito non può rettamente dirsi uomo» (D. 35.2.9.1). Quel che appare comunque indiscutibile è l’esclusione del feto dalle vicende giuridiche, dalle res humanae. Il massimo che si consentì, riguardo al concepito, fu la tutela dell’aspettativa a divenire dominus: se, per esempio, il pater avesse istituito erede il figlio non ancora nato alla sua morte, il concepito, non essendo homo, non avrebbe potuto acquisire l’eredità paterna. Ma si tutelò l’aspettativa del nascituro interdicendo l’acquisto a chi sarebbe venuto, in linea successoria, dopo di lui, se non fosse nato; e, per la più piena tutela dell’aspettativa successoria del nascituro, si ammise che si potesse nominare un «curatore del ventre» con funzioni di amministrazione delle cose ereditarie. Il vantaggio patrimoniale gli era così assicurato; sebbene il «non ancora nato» sarebbe divenuto dominus solo alla nascita, che ne condizionava pertanto l’acquisto. In effetti nelle «cose umane» – e l’acquisire un’eredità e il divenire proprietario lo erano – occorreva essere uomini (e, per giunta, occorreva avere forme umane: non erano uomini i cosiddetti mostri). Il che implica l’ulteriore conseguenza che nessuno avrebbe potuto reclamare diritti assumendo che siano stati a lui trasmessi da chi avesse avuto solo una vita intrauterina.

7. LE PERSONE ‘INCORPORALI’ Accade che gli uomini possono, in certe occasioni, unire le loro forze per raggiungere un dato scopo comune. L’organizzazione che ne consegue si denomina modernamente associazione o corporazione (i Romani parlavano di universitas, sodalicium, collegium). Il fenomeno sarebbe stato presente fin dall’epoca delle XII Tavole, nelle quali si riconosceva ai consociati la facoltà di darsi proprie regole per la disciplina dei rapporti reciproci, purché non contrastassero con le disposizioni della legge pubblica: si poteva trattare di confraternite religiose o anche di corporazioni fra gli esercenti uno stesso mestiere. Dopo i torbidi delle guerre civili, durante i quali molti collegi ave-

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vano assunto scopi politici ritenuti eversivi (come la corruzione elettorale), una lex Iulia de collegiis, attribuita ad Augusto, subordinò la costituzione di nuove consociazioni a specifica autorizzazione, da concedersi da parte del senato; e dispose lo scioglimento di tutte le consociazioni, fatta eccezione per quelle di antica origine, forse risalenti, quanto a tipi, alle menzionate previsioni decemvirali. Ci si deve domandare se, in diritto romano, una consociazione privata, e non i suoi partecipanti singolarmente considerati, abbia mai avuto la capacità di essere parte di un rapporto giuridico: creditrice, proprietaria, debitrice. La risposta è senz’altro positiva, essendo attestata la conclusione, da parte delle corporazioni, di svariati tipi di atti (vendite, locazioni, mancipazioni, etc.). Limiti sussistevano, invece, per quanto concerne gli acquisti mortis causa, peraltro progressivamente attenuatisi, attraverso il riconoscimento, all’epoca di Marco Aurelio, della capacità di acquistare legati e, con Giustiniano, di ereditare. Il giurista Marcello attesta che le consociazioni autorizzate hanno un loro patrimonio (res communes) e propri amministratori, i quali agiscono per il perseguimento dell’interesse comune. È da aggiungere che le società private, volte a perseguire finalità di guadagno, non costituirono mai entità distinte dai soci. A questo risultato si pervenne, in conseguenza di un processo di astrazione, che prese le mosse dalle fonti romane ora ricordate, solo ad opera della scuola pandettistica del XIX secolo, con gli esiti attestati nei nostri codici, ove alle corporazioni è attribuita una soggettività giuridica distinta da quella dei singoli partecipanti. Modernamente si soggettivizzano anche patrimoni destinati al perseguimento di certi scopi, specie benefici o, comunque, ideali, e si parla a questo proposito di fondazioni. Ora, in diritto romano si trovano tracce di questo fenomeno solo in età giustinianea, probabilmente per influsso del cristianesimo che favoriva la realizzazione in tal modo di scopi caritatevoli (piae causae). In età del Principato si usò piuttosto destinare, con disposizione di ultima volontà, somme di denaro a corporazioni (anche private dopo il senatoconsulto sopra ricordato), con l’onere di elargire il lascito (in tutto o in parte) in favore di persone bisognose o simili. Nel De officiis (1.34.124) Cicerone scrive che «è preciso dovere del magistrato rendersi conto che egli rappresenta la persona della città (personam civitatis)». Ma la città o un’associazione privata erano persone nel diritto romano? Se persona è da intendersi come l’equivalente di uomo, la risposta è senz’altro negativa. Se, però, persona, conformemente al suo significato etimologico di maschera, allude piuttosto al ruolo svolto nella vita, al ruolo, in particolare, che il diritto impone nella vita sociale, il discorso torna. In effetti, nel De officiis Cicerone insegna che la persona è essenzialmente un ruolo; e vi sono i ruoli assegnati dalla natura (l’uomo e l’animale, perché la raziona-

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lità divide i ruoli; l’uomo arguto e l’uomo serio, cioè il carattere di ciascuno marca un possibile ruolo), il ruolo determinato dalla nostra volontà (vi è, infatti, una persona che sta in noi decidere di assumere: alcuni divengono filosofi, altri giuristi, altri oratori); e vi è anche un ruolo imposto dal caso o dalle circostanze. Da questo punto di vista, il diritto vale come casus: perché è il casus ad attribuire, nell’interazione di fattualità e normatività, poteri e ricchezze. Così, ai nostri giorni, una città ossia un comune è qualificato come persona giuridica, altrettanto un’associazione, almeno sussistendo certi requisiti formali; i Romani parlavano di universitas, sodalicium, collegium. Tuttavia i giuristi romani non adoperano mai il termine persona in riferimento a enti astratti del genere, nemmeno se questo ente fosse stato il populus Romanus o la res publica. Nel testo ciceroniano sopra riportato si vuol dire che il magistrato assume il ruolo della città, se si vuole la personifica; e in questo senso il termine persona conferma di essere mezzo per una metafora o metafora essa stessa, considerato il suo significato etimologico. Però, se si analizza l’esperienza giuridica romana senza la pretesa di trovare, nel linguaggio dei giuristi, l’uso del termine persona in riferimento agli enti di cui si va ora discutendo, si rinvengono svariate situazioni nelle quali è attestato il superamento «dell’uomo singolo nella imputazione di una o più relazioni giuridiche» (l’espressione è di un altro grande romanista del secolo scorso, Riccardo Orestano). In effetti, intorno al dominio delle cose o alla partecipazione a un rapporto giuridico patrimoniale, il collegio, il sodalizio, la corporazione, il municipio si animavano. Fin da antico e, in progresso di tempo, in situazioni sempre più numerose e complesse, queste universitates, queste civitates, né uomini né padri di famiglia, assumono ruoli da protagonista nella vita economica e sociale, anch’essa sempre più ricca e complicata, in un impero che, da sopranazionale, diventa mondiale. Le troviamo proprietarie di immobili e di cospicue dotazioni finanziarie, creditrici o debitrici di somme o, comunque, di prestazioni a contenuto economico variabile in dipendenza dei diversi rami dell’attività esercitata. Il dominio, il credito, il debito non facevano capo, secondo la riflessione giurisprudenziale più matura, alle persone degli associati o dei cittadini, ma erano imputate direttamente all’associazione o alla città. A cavaliere tra il II e il III secolo d.C., il giurista Ulpiano enunciava un principio destinato a fare chiarezza definitiva e a condizionare i futuri assetti imprenditoriali dell’Europa rinascimentale e moderna: i crediti dell’associazione non sono dei singoli partecipanti; e, reciprocamente, questi ultimi non sono tenuti per i debiti dell’universitas. Egli afferma ancora la permanenza dell’universitas, anche se i partecipanti si siano ridotti ad uno soltanto; e si affaccia l’idea che le decisioni (come quella di instaurare una lite) debbano essere prese a maggioran-

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za o, almeno, della metà dei partecipanti presenti. Quando si fosse manifestata l’esigenza della difesa processuale, un actor (o un syndicus) appositamente nominato avrebbe assunto, nella scena giudiziaria, la parte dell’ente e con ciò l’avrebbe fittiziamente, ma validamente per il diritto, fisicizzata: congruamente Ulpiano spiegava che, in un caso del genere, l’actor non si sarebbe dovuto ritenere un rappresentante delle persone, in quanto egli interveniva in luogo della res publica o dell’universitas, non dei singoli cittadini o, rispettivamente, associati. Le premesse per l’inclusione di questi enti astratti tra le personae vi erano tutte; e la trasformazione era, a ben guardare, operazione semplice, essendo sufficiente procedere per astrazione con la metafora della persona come maschera del destinatario delle regole giuridiche. Una società come un pater familias. Operazione, però, un poco ardita, ma non troppo, se ciò che conta, almeno nelle prospettive di un diritto spiccatamente patrimoniale (come il diritto romano e il diritto borghese di epoca moderna), è la persona del dominus o, come usa dire nel linguaggio giuridico, di chi sia capace di essere parte di un rapporto giuridicamente rilevante. Il che si può ben predicare anche a proposito di una società di capitali.

8. VERSO LA ‘DISUMANIZZAZIONE’ DELLA PERSONA Nel linguaggio dei giuristi dei primi secoli dell’impero era già usuale l’uso del termine corpus a identificare la struttura dell’associazione, della società o del municipio: ricorreva, in particolare, l’espressione «corpo della società o del collegio» (così, per esempio, Gaio in D. 3.4.1.1). L’espressione era, peraltro, di uso comune, perché ampiamente attestata nelle fonti letterarie. Che un’associazione potesse avere un proprio corpus nel linguaggio figurato del tecnicismo giuridico dimostra la tendenza, consapevole o meno (ma, probabilmente, consapevole), a includere l’ente non personale tra le personae la cui struttura materiale consiste proprio nel corpo. La tendenza è confermata ed è, anzi, resa evidente sullo stesso piano terminologico in fonti non giuridiche, ma significative dal punto di vista tecnico, come gli agrimensori: nelle fonti gromatiche si rinvengono non sporadicamente espressioni quali persona coloniae (Gromatici, Lachmann 1.16.8 ss.) che attestano la sussunzione di una città (qual era una colonia) nel novero delle personae, sia pur, si intende, in senso figurato. La tendenza si riscontra, peraltro, anche nelle fonti giuridiche: almeno Gaio, in un passo famoso e avvertito con valore esemplare, afferma che, nel diritto, «le città sono considerate come privati cittadini» (D. 50.16.16) e, pertanto, possono legittimamente avere. L’evoluzione semantica e, insieme, concettuale prosegue, anche se senza si-

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stematicità e piuttosto sporadicamente, nel tardo impero. Per esempio, in una legge dell’anno 439 d.C. l’imperatore Teodosio II afferma solennemente che gli schiavi, si intende dal punto di vista giuridico, è «come se non avessero persona» (Nov. Theod. 17.1.2) e, pertanto, non possono prender parte in un processo. Vi è sottostante l’idea che la nozione di persona possa essere astratta dalla sua dimensione naturalistica, nella quale essa era stata adoperata, per esempio, da Gaio per la classificazione degli homines considerati nel particolare contesto del diritto: se naturalisticamente lo schiavo è persona (= non può non esserlo, per l’immutabilità della natura umana), giuridicamente è come se non lo fosse sicché egli non può recitare il ruolo della parte, la quale compete solo a chi ha, nella scena processuale. Così, in un’operetta del V secolo d.C., la Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, si esprime una concezione identica, laddove è detto, a proposito del rappresentante processuale invalidamente nominato dal rappresentato, che si tratta di nulla persona (Cons. 3.2). Quando l’impero diventa cristiano (e lo diventa integralmente), la legislazione si affretta a riconoscere, e a ribadire più volte, che chiese e monasteri, in fondo associazioni di fedeli o, rispettivamente, di monaci, potevano avere proprietà immobiliari e mobiliari, anche per successione ereditaria. Si affaccia, inoltre, un’idea nuova, riprendendo uno spunto presente nel pensiero dei giuristi dei primi secoli dell’impero: un passo ulteriore verso la ‘disumanizzazione’ della nozione di persona in un manuale istituzionale, che doveva aver avuto una certa notorietà, già un giurista del II secolo d.C., Fiorentino, era pervenuto a dire che la cosiddetta eredità giacente, cioè il patrimonio lasciato dal defunto e non ancora acquisito dall’erede, «fa le veci della persona, alla stessa stregua di un municipio, di una corporazione, di una società» (D. 46.1.22). La novità sta nell’assimilazione alla persona di un insieme di beni, qual è appunto il patrimonio relitto dal defunto; e il ragionamento analogico, che sorregge l’equiparazione sul piano normativo, è improprio. Infatti, un municipio, una corporazione, una società hanno una base personale; ma non l’eredità la cui parificazione a questi enti è possibile solo attraverso la nota comune della capacità di essere parte in un rapporto giuridico patrimoniale, attraverso, dunque, la nota metafora della persona come maschera del diritto. Fiorentino riferisce un caso: se sia morto il debitore che aveva promesso di dare una somma al creditore e l’erede non abbia ancora accettato l’eredità, un terzo può presentarsi e costituirsi garante (fideiussore è il termine tecnico) dell’adempimento della promessa, nonostante che la persona del debitore non vi sia. E non vi è perché il promittente è defunto e l’erede tuttora manca; ma la garanzia non può per questo essere impedita perché il diritto deve favorire il pagamento del debito. Si finge così che l’eredità sia persona o, più precisamente, che essa, un complesso di cose, possa assumere la

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parte (la maschera) del debitore, almeno nella virtualità giuridica. Sotto vi è la volontà, diciamo politica o di politica normativa, volta alla tutela del credito: favor creditoris, cioè il diritto favorisce il creditore perché se questi viene soddisfatto nella sua pretesa il diritto stesso consegue uno dei suoi obiettivi istituzionali. L’impero romano-cristiano agevola la realizzazione di finalità benefiche se controllate dalle gerarchie cattoliche: cura degli infermi, assistenza degli orfani e dei bambini abbandonati, soccorso dei poveri, e altre. Le fonti usano in proposito l’espressione piae causae: materialmente le prestazioni venivano erogate da ospedali, orfanotrofi, brefotrofi, ospizi. Tra il V e il VI secolo d.C. la legislazione imperiale riconobbe a queste piae causae la capacità di avere propri beni in conseguenza di donazioni, vendite, eredità. Ma le piae causae non erano associazioni di persone, trattandosi di dotazioni di beni funzionali all’erogazione delle prestazioni. Come l’eredità giacente, anche le piae causae si vedono riconosciuta dal diritto la qualità pregnante del pater familias: alla pari di questi, esse hanno o possono avere, nonostante che il loro esistere non sia nella realtà fisica, bensì solo in quella giuridica, nella quale, se l’autorità così voglia, tutto può venire ad esistenza ed essere persona.

9. L’UOMO È, LA PERSONA HA (O PUÒ AVERE) L’esperienza giuridica romana testimoniata nel Digesto giustinianeo ha consacrato, in Occidente, due o tre idee in tema di persone: vediamole, in parte ricapitolando quanto già sopra esposto. I Romani dei primi secoli e ancora in età repubblicana avanzata hanno costruito il loro diritto soprattutto attraverso l’osservazione della realtà. Questa consisteva nella natura fisica oppure nella struttura, spontanea o indotta dalla valutazione normativa, del rapporto interindividuale (che ha anch’esso, si può dire una sua natura attingibile non già a livello fisico, ma istituzionale). La natura intesa come realtà fenomenica accomuna gli uomini: da questo punto di vista gli homines sono tutti egualmente personae. Questo è, in effetti, il presupposto naturalistico da cui muovono i giuristi romani che se ne servono per individuare uno dei termini di riferimento del diritto: il diritto riguarda le persone (e le cose e le azioni). Anzi, si potrebbe dire che il diritto riguarda soprattutto le persone, essendo esso stabilito «a causa degli uomini» (D. 1.5.2), per regolare, cioè, i loro rapporti. Ma i rapporti tra gli uomini non sempre intercorrono tra eguali o, addirittura, possono non essere riconosciuti dal diritto se gli uomini sono schiavi o se uno dei due uomini di un rapporto è uno schiavo. Così non basta affermare che, per i Romani, gli

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homines sono tutti personae per la loro comune natura fisica, in quanto occorre aggiungere che le personae sono ‘divise’ dal diritto che le colloca in posizioni alquanto diverse, a seconda della presenza o meno di certi presupposti. Esistono, pertanto, una pluralità di posizioni o status in cui, per diritto romano, la persona può venirsi a trovare: in particolare, una persona può essere indipendente (il pater familias) e un’altra (un figlio, la moglie, uno schiavo) può essere assoggettata alla prima; la persona indipendente ha o può avere cose, la persona dipendente no, e se ne acquista la disponibilità, esse cadono sotto il dominio della persona a cui l’acquirente è assoggettato. Schematizzando si potrebbe affermare che, per natura fisica, tutti gli uomini sono; invece, per natura istituzionale, alcuni uomini, alcune personae (una minoranza) hanno (le cose e la capacità di averle). Vi sono poi gli stranieri (peregrini): a loro si riferisce il terzo status personarum, che vale a dividerli dai cittadini (gli uomini liberi nati da pater cittadino o, se nati fuori dal matrimonio, da mater cittadina). Dei tria status personarum del diritto romano – libertatis, familiae e, appunto, civitatis – la discriminazione tra cittadini e stranieri permane, attenuata, ancora al giorno d’oggi. In effetti, secondo l’antico diritto civile romano, gli stranieri soffrivano gravi limitazioni nei diritti civili; non potevano essere proprietari, creditori, far testamento. Sicché, se un rapporto era riconosciuto solo dallo ius civile, ne conseguiva che esso restava riservato ai cittadini romani nel senso che essi, e non gli stranieri, avrebbero potuto ottenere la tutela giurisdizionale nel caso di insorgenza di controversia nel contesto di quel rapporto civilistico. Ma, nel corso della Repubblica, per opera del pretore, questi limiti furono alquanto ridotti in conseguenza della progressiva internazionalizzazione dei traffici commerciali: i peregrini potevano essere parte di rapporti riconosciuti dallo ius gentium, che era applicabile tanto ai cittadini quanto agli stranieri; e, in caso di controversia (con un cittadino o, anche, con un altro straniero) adire il tribunale del pretore peregrino. In una condizione intermedia tra cives e peregrini erano collocati i Latini. Lo status di latino non era uniforme, in quanto poteva conferire più o meno prerogative a seconda dei casi: vi erano così i Latini coloniarii, abitanti nelle colonie create dai Romani in Italia, e vi erano i Latini Juniani, schiavi liberati nelle forme pretorie. Più estesa era la capacità dei cosiddetti Latini prisci, appartenenti a popolazioni stanziate nel Lazio già nel primo millennio a.C.: questi Latini, in comunione di stirpe con i fondatori di Roma, furono confederati dei Romani finché durò la lega latina (cioè fino al 338 a.C.). Ciò spiega perché essi godettero di una capacità esplicabile addirittura nel campo dello ius civile: potevano così concludere, utilizzando uno degli atti librali, validi negozi di scambio con i Romani (ius commercii), sposare un cittadino romano (ius conubii), essere istituiti eredi da cittadini romani (testamenti factio passiva).

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Storicamente accadde che il numero dei peregrini residenti dentro i confini del territorio romano si venne a ridurre in seguito alla concessione della cittadinanza, talora in segno di beneficio a singole persone o a singole comunità, ma soprattutto attraverso provvedimenti di valore generale, come le leggi attributive della cittadinanza agli Italici del 90 e dell’89 a.C. Poi nel 212 d.C., con una famosa costituzione dell’imperatore Antonino Caracalla, la cittadinanza romana venne estesa, con qualche limitata eccezione (come i barbari stanziati nei territori di Roma), a tutti gli abitanti dell’Impero. Nelle istituzioni giuridiche romane, nella dinamica dei rapporti privati e nella stessa organizzazione della res publica, vale la massima che solo chi ha (o può avere) è persona idonea ad assumere la parte dell’uomo indipendente da qualunque altro. L’equazione avere uguale essere conforma gli assetti di potere nella repubblica romana e condiziona il futuro. Essa dà fondamento, per esempio, all’idea, di lungo corso nella storia dell’Occidente, che solo l’essere umano, nato, vivo, con forme umane è persona, in quanto solo per costui (ma non per il feto) vi è la certezza che, sussistendone i presupposti (mancanza del pater), sia in grado di avere le cose e di trasmetterle ad altri. L’equazione avere uguale essere apre altresì il percorso intellettuale che conduce, tra il II e il III secolo d.C., ad abbozzare l’idea dell’assimilazione di un insieme di cose – unificate nella destinazione – a una persona, anzi a una persona che può avere. Consideratone il significato etimologico, l’uso, da parte dei giuristi romani, del termine persona si rivela perfettamente adeguato. Se, per ragione di opportunità, il diritto sceglie di non (limitarsi a) rappresentare la misura normativa di ciò che appare nella natura fisica, l’alternativa è il ricorso alle finzioni, funzionali alla determinazione di effetti che hanno consistenza (solo) nella virtualità giuridica: in tal caso il termine persona riferito a un insieme (o a una dotazione) di res si riappropria della sua originaria valenza semantica, mascherando la realtà fisica e ottenendo che, nella rappresentazione giuridica, le res assumano la sembianza della persona. Una finzione del genere è portata a compimento a proposito della già ricordata eredità giacente, il patrimonio relitto dal defunto e non ancora acquistato dall’erede, giuridicamente qualificato come «cosa di nessuno» (res nullius). In parecchi frammenti del Digesto giustinianeo questo insieme di cose viene appellato come persona o come domina, cioè padrona. Per esempio, in un passo del giurista Ermogeniano si qualifica esplicitamente l’eredità «come un padrone» (pro domino: D. 41.1.61 pr.). Se così è (o si finge che sia), si capisce che l’acquisto compiuto da uno schiavo ereditario (appartenuto al defunto e, pertanto, da annoverarsi tra le cose ereditarie) è fatto proprio dall’eredità «alla stessa stregua di un padrone» (ut domino): così, per esempio, qualora egli abbia ricevuto un prezzo dalla vendita dei prodotti del

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fondo caduto in successione. Sicché, secondo la valutazione di Ulpiano (in D. 9.132), si dovrà senz’altro dire che l’eredità «sarà considerata un padrone». Ma già Gaio era arrivato a declinare al femminile e a dire così che l’eredità è «padrona» (domina: D. 28.5.31.1).

10. IDENTITÀ E CONTRADDIZIONI SISTEMICHE Ora esaminiamo criticamente le equazioni su cui ci siamo intrattenuti dicendo delle persone in diritto romano. Homo = Persona (≠Res) È l’equazione fondante, a ben guardare una bipartizione degli enti quali si possono percepire attraverso i sensi. Le actiones appartengono a un’altra dimensione, quella puramente artificiale dello ius. Gaio contamina la visione naturalistica della realtà: nelle sue Institutiones il diritto è diviso in tre parti, persone cose e azioni. Ma il suo tardo epitomatore – autore dell’Epitome Gai, probabilmente del V secolo d.C. – espunge le azioni e si limita alla bipartizione personae-res. Molto probabilmente questa è una scelta dettata dall’esigenza di semplificare; tuttavia la bipartizione ha il merito di sottolineare un’essenza del diritto romano e, cioè, che è un diritto di corpi. Dobbiamo pensare che in principio la comunicazione tra realtà fisica e diritto doveva essere diretta favorendo la trasposizione degli enti naturali nella dimensione giuridica. Così gli umani sono trasformati in persone (personae) e quel che non è umano – ivi compresi gli animalia – in cose (res). In questo modo la natura è come asservita al pensiero astratto che connota il diritto, lo ius e si viene a creare, per l’effetto, un altro mondo, quello giuridico: la trasformazione è conseguenza dell’operare dello ius. La prima trasformazione è rispettosa dell’eguaglianza naturale. Ma le ulteriori trasformazioni creano varie diseguaglianze: la summa divisio separa i liberi dai servi (Gai Inst. 1.9); poi vi è l’alia divisio (Gai Inst. 1.48), che separa le persone sui iuris (giuridicamente indipendenti in quanto non soggetti alla patria potestas) da quelle alieno iuri subiectae (come schiavi, mogli in manu, figli). Altre trasformazioni assumono piuttosto la forma di deviazioni perché introducono equazioni che consistono in autentiche finzioni. Ricordiamole. Hereditas = Persona, anche se si riconosce la forzatura quando si afferma che l’eredità propriamente non è persona, ma ne fa le veci (hereditas personae vice fungitur: così in D. 44.1.22). Municipium (o societas o collegium) = Persona, cioè una città o una società o un’associazione sono persone o ne fanno le veci.

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Collegium = Corpus, vale a dire che un’associazione è – come l’uomopersona – un corpo (D. 47.22.3.1), con evidente finzione giuridica (ma ancor oggi le associazioni sono chiamate corporazioni). La deviazione – ma anche la contraddizione sistemica – più rilevante concerne lo schiavo: Servus = Res, con il che, essendo il servus = homo = persona, ne deriva, appunto, la contraddizione per cui Homo (= Servus) = Res corporalis nonché Persona = Res. La tradizione ci ha consegnato delle identità confuse; e la confusione è conseguente al prevalere delle istanze socio-economiche sulla realtà di cui il diritto dovrebbe essere il più possibile specchio. La confusione ha generato ambiguità e queste ultime sono causa di scompiglio nella nostra contemporaneità: vediamo. Due identità ambigue sono giunte sino a noi e ci hanno condizionato introducendo oggi questioni fortemente divisive. Eccole: Homo = Corpus (humanum) = Persona, cioè la persona è il suo corpo; Animal = Res. La seconda identità è ritenuta inaccettabile dagli animalisti; e non mancano i Paesi che hanno riconosciuto legalmente alcuni diritti fondamentali delle persone umane agli animali. La prima identità, oltre ad essere contestata, introduce nella contemporaneità una grave questione: oggi si vorrebbe da molti che la persona fosse altro dal corpo perché la (nuova) pretesa è che la persona abbia il dominium sul proprio corpus. La tradizione parrebbe contraria: nel Digesto (9.2.12 pr.) si legge che «nessuno sembrerebbe proprietario delle sue membra». Ma il dominium sul corpo umano non era impossibile: se non sul proprio, sull’altrui, quello del servus. Ecco dunque l’identità alternativa, egualmente consegnataci dalla tradizione: Corpus = Res corporalis (il corpo è, ovviamente, quello dello schiavo). Sicché in assoluto la nostra tradizione non esclude che il corpo possa essere oggetto di proprietà. L’ambiguità – la contraddizione sistemica di matrice romana – ha navigato lungo tutta la nostra storia giuridica come uno di quei rottami provenienti dal passato di cui suggestivamente scriveva Vico nella Scienza nuova: un rot-

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tame che continua a navigare ancora ai giorni nostri e carica di tensione la contemporaneità. Perché, da una parte, la struttura identitaria – persona = corpo – e dominante resiste, ma è sotto attacco come non mai; dall’altra, l’ambiguità – che conduce all’alternativa del corpo come cosa e, così, come oggetto di dominio da parte del titolare – quest’ambiguità preme come forma astratta, depurata cioè della sua matrice storica legata alla schiavitù, e vuole reificare il corpo dell’uomo in vita al fine che la persona – quid ormai indefinito, ma avvertito da parecchi come altro dal (suo) corpo – ne possa disporre, più o meno liberamente (è da vedere). Dietro a tutto ciò troviamo l’uomo, l’uomo comune, l’individuo narcisista dei giorni nostri che vuole essere dominus del proprio corpo e utilizzarlo e disporne quasi fosse una cosa. Un conflitto si profila, anzi è già tra noi: l’homo technologicus, l’uomo della scienza e della tecnica, stringe l’homo iuridicus, l’uomo della tradizione giuridica; e lo bolla di inattualità. L’identità tra persona e corpus ha informato di sé le strutture del diritto occidentale per duemilacinquecento anni. L’homo technologicus pretende e vuole scioglierla ed ergere la persona a domina del proprio corpus. Ma l’homo iuridicus resiste come può. Un confine ritenuto inviolabile sta per essere violato ed egli teme che l’ordine nello ius civile possa venire compromesso o, addirittura, sconvolto; l’homo iuridicus sente che, violando quel confine, si entra in una terra ignota. Fino a che punto la persona potrà disporre del corpus come di una res? E, soprattutto, se la persona è altro dal corpus, chi è giuridicamente la persona? Perché se il corpo è proprietà della persona che forma – quale maschera – il diritto può attribuire a una persona deprivata di ogni fisicità o materialità? Questi gli interrogativi che si pone l’homo iuridicus: le sue categorie restano sconvolte ed egli avverte il turbamento derivante dall’incapacità di costruire un nuovo ordine. Non si può più distinguere, e categorizzare, in base a ciò che si vede e si tocca: da una parte i corpi-persone e dall’altra i corpi-cose. L’homo iuridicus avverte così la presenza del mistero e non semplicemente dell’ignoto.

11. DOPO ROMA Il Digesto di Giustiniano è ultimato nel 533: il 30 dicembre di quell’anno entra in vigore nell’impero bizantino e nel 554, riconquistata parte dell’Occidente, Giustiniano ne dispose l’estensione all’Italia. Di lì a pochi anni i bizantini furono scacciati dai Longobardi (a. 568) e il diritto romano – e, in particolare, la sua fonte più colta, il Digesto – perse molto del suo rilievo: «quindi crediamo esser quello avvenuto: che, nella crudezza della barbarie ricorsa, le nazioni sconobbero le leggi romane […] onde il corpo delle leggi di Giustiniano e altri del diritto romano occidentale tra noi latini, e i libri Ba-

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silici e altri del diritto romano orientale tra i Greci si seppellirono». Così Giambattista Vico nella Scienza nuova. Non è qui necessario soffermarsi sugli orientamenti in tema di statuto della persona propri dei diritti delle popolazioni barbariche (come i Visigoti, i Burgundi, gli Ostrogoti) che occuparono i territori dell’ex impero romano d’Occidente successivamente alla sua caduta; né è necessario soffermarsi sullo stesso diritto longobardo. Come si vedrà, dall’XI secolo in avanti il diritto romano giustinianeo tornerà in auge a governare l’Europa continentale e le elaborazioni dei grandi giuristi del secondo medioevo avranno quale base testuale essenzialmente il Digesto (insieme alle altre compilazioni giustinianee, il Codice e le Istituzioni). È comunque da sottolineare che in nessun diritto germanico si assume una concezione della persona di tipo naturalistico: persona come uomo o uomo come essere umano. Non vi è spazio per la prima possibilità: lo impediscono, per esempio, la divisione tra liberi e schiavi e il mundio, la suprema potestà del padre o di un parente, a cui la donna è sottoposta per tutta la vita (così il cap. 204 dell’Editto del re Rotari), venendo spesso considerata un oggetto. Non vi è spazio per la seconda possibilità: addirittura non era sufficiente la nascita, ma occorreva passassero alcuni giorni (dieci secondo la legge dei Visigoti: Lex Wisigoth. 6.2, c. 17-18) perché il neonato potesse essere considerato un uomo; e comunque l’attitudine (di un libero) ad avere (proprie cose e, in genere, propri diritti) dipendeva dalla sua capacità di difendere in concreto l’appartenenza, giungendo a coincidere con la solenne vestitura delle armi, che avveniva a un’età variabile a seconda delle circostanze. La concezione germanica si rivelò piuttosto diversa da quella romana in tema di proprietà e responsabilità facenti capo agli enti diversi dalle persone fisiche quali le corporazioni o le associazioni. I diritti germanici vedevano in tali casi l’insieme delle persone e non una persona immateriale distinta da queste ultime. Era caratteristica la cosiddetta mano comune (gesammte Hand): il patrimonio veniva configurato come appartenente ai singoli sia pur come collettività, per cui i partecipanti rispondevano personalmente delle obbligazioni conseguenti alla comune proprietà ed era pertanto necessaria la presenza di ciascuno per il compimento degli atti giuridici relativi alla comunità. Analogamente i patrimoni destinati a scopi caritatevoli, le piae causae, durante l’alto medioevo vennero intesi come appartenenti alla comunità dei beneficiati; e le stesse dotazioni di chiese o monasteri furono ascritte, quanto a titolarità, al santo protettore delle istituzioni religiose, tanto che per esse le alienazioni avvenivano sull’altare del santo, e i contenziosi giudiziari alla presenza delle sacre reliquie. Si offusca così l’esito del pensiero giuridico romano che aveva solidamente fondato l’esistenza, nel mondo costruito dal diritto, di persone diverse da-

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gli uomini. Questa involuzione, se dipende dalla contaminazione con diritti meno evoluti e meno propensi all’astrazione, fu, almeno in parte, incoraggiata dalla generale decadenza economica, che faceva ritenere preferibile, nell’individuazione del proprietario e del responsabile, non introdurre iati tra persone fisiche e patrimoni.

12. NEL MEDIOEVO E NEL RINASCIMENTO: CONTINUA

IL DOMINIO DEL

PATER

Negli ultimi decenni del secolo XI nasce a Bologna una delle prime università al mondo. Nasce come scuola giuridica e, per una serie di fattori, riesce a rimettere, nel circuito del diritto vivo, il diritto romano giustinianeo, la cui vigenza pratica finisce con l’affermarsi in tutti i territori del Sacro Romano Impero d’Occidente ossia nell’Europa continentale. Nelle facoltà giuridiche (dopo Bologna, Padova e poi molte altre in Italia e in Europa) il Digesto venne introdotto quale libro di testo e di esercitazione per gli studenti. Nel contempo esso, avvertito come la quintessenza del diritto occidentale, fu oggetto (con le altre compilazioni giustinianee) di uno studio attento, appassionato, di livello sempre più alto, tale che, dai frammenti dell’esperienza giuridica romana, si riuscì a costruire un diritto nuovo e perfettamente adeguato alle istanze economiche e sociali della nascente civiltà dei liberi Comuni. Già i primi giuristi bolognesi, i glossatori, avevano rinvenuto quei testi dei giureconsulti romani, nei quali si parlava delle città o delle associazioni o delle eredità come personae. Il percorso fu tuttavia lento: la concezione germanica, diffusasi nell’alto medioevo, aveva lasciato il segno. Per questo nella glossa di Accursio (m. 1259 circa), detta Magna Glossa in quanto vi sono rappresentati gli esiti della scuola dei glossatori, è sostenuto che l’universitas, l’ente collettivo, «non è nient’altro se non i singoli uomini che sono in essa» (glossa ord., v. non debetur, ad l. 7 D. 3.4). Il che non fu senza effetti anche in confronto dell’ente più collettivo di tutti, il Comune: questo si identificava talmente nei suoi cittadini che, almeno agli inizi dell’esperienza comunale, il singolo rispondeva con tutto il suo patrimonio per i debiti del Comune. Furono gli studiosi del diritto canonico, peraltro imbevuti dei contenuti e del metodo del diritto romano, a perfezionare l’idea della corporazione come persona. Essi erano agevolati dalla tradizionale trasfigurazione della congregazione dei fedeli nel corpo mistico del Cristo, e della Chiesa nella madre dei fedeli o nella sposa del Cristo: i fideles o l’Ecclesia esprimevano comunque interessi o rapporti materiali, ma la terminologia figurativa ora indicata ne realizzava la spiritualizzazione e, nel contempo, individuava un soggetto a cui riferire la titolarità di quei rapporti. Su questa complessa base Sinibaldo

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dei Fieschi (il futuro papa Innocenzo IV) introdusse una terminologia nuova a significare un concetto delineato, però, con sufficiente chiarezza dalla giurisprudenza romana: l’universitas, l’ente collettivo, è una persona ficta, fittizia, non una realtà fisica dunque, ma un nome giuridico (Innocenzo IV, Super V decretalium, Venetiis, 1570, in c. 57, 10.2.20 [c. 2.6.2.10].325). La strada così segnata fu percorsa dai grandi giuristi del Trecento, quali Bartolo da Sassoferrato e il suo allievo Baldo degli Ubaldi, di cui resterà famosa la definizione per cui «l’universitas è una certa immagine che si percepisce più con l’intelletto che non con i sensi» (Comm. ad Cod. 7.53.5.11). Così, alla fine del Medioevo, il pensiero giuridico era riuscito a collocare definitivamente, accanto alle personae fisiche, le cosiddette personae fictae o rapraesentatae. Come scriveva, agli inizi del Seicento, il giurista piemontese Nicolaus Losaeus, l’universitas «rappresenta una persona, la quale è un qualcosa di diverso dagli uomini partecipanti a quell’universitas». Ma gli homines continuavano a essere giuridicamente diversi, in quanto non tutti erano egualmente personae. Fino a tutto il XVIII secolo persisterà la schiavitù, nonostante che la tendenza affermatasi nel corso del medioevo fosse verso la sua rarefazione. Nelle case patrizie o borghesi era sempre presente una servitù straniera: avari o slavi (schiavi appunto), saraceni, africani – preda bellica o acquistati in regioni lontane (soprattutto dai mercanti veneziani) – erano giuridicamente cose, in conformità alle vedute del diritto romano. Fino a tutto il XVIII secolo si manterranno le minorità di alcuni liberi. Alle donne non erano generalmente riconosciuti i poteri degli uomini. Dall’epoca della legislazione romano-cristiana apostati, eretici, ebrei continuavano a soffrire varie limitazioni; e, per converso, i pieni poteri in senso giuridico, tanto nel diritto privato quanto nel diritto pubblico, erano riconosciuti solo ai cristiani. Fino alla rivoluzione francese particolarmente ristretto fu lo status degli ebrei: subivano limiti alla libertà personale, costretti, tra l’altro, a vivere in quartieri circoscritti (ghetto, giudecca), erano interdetti dall’esercizio di certe industrie o professioni, avevano una tutela giurisdizionale attenuata. In Piemonte non poterono avere immobili in proprietà fino al 1770. Se si tiene presente che, specie nell’alto Medioevo, limitazioni di vario genere affliggevano anche gli stranieri (ai quali il diritto feudale interdiceva, per esempio, di esercitare alcune professioni o di prestare testimonianza), ne deriva che i principi e gli schemi in tema di statuto della persona derivanti dal diritto romano vennero tutti trasmessi, ancora nelle opere dei giuristi del Cinquecento e del Seicento, inalterati nella forma e, in buona parte, nella sostanza. Così si trasmise inalterata alla nascente età moderna la figura del pater familias come sola persona con attitudine ad avere, la quale, per pregiudizio o protezioni economiche o di ceto, continuava però a non essere ugualmente riconosciuta a tutti gli homines; e, tuttavia, sotto la potente spin-

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ta degli affari, questa attitudine era agevolmente attribuita per intero a enti o, addirittura, a patrimoni. Il tempo delle grandi rivoluzioni, culturali e istituzionali, si stava approssimando: lo statuto della persona ne uscirà alquanto trasformato, ma senza rinnegare il pater o dominus come tipo fondamentale e caratterizzante la categoria.

13. LA MODERNITÀ PRERIVOLUZIONARIA: VERSO L’EGUAGLIANZA Può stupire che, nell’Europa continentale, i giuristi del Settecento continuino a proporre, ancora pochi anni prima della Rivoluzione francese, nei loro trattati di diritto civile una gamma di divisioni tra le persone a seconda del loro status in perfetto ossequio della tradizione romanistica (la quale era, però, in piena sintonia con gli interessi materiali dei ceti dominanti), nonostante il fervore e la diffusione dell’ideologia giusnaturalistica ormai venuta a maturazione, come dimostrerà la Rivoluzione del 1789 e come preannunzierà la Rivoluzione americana, il cui inizio data 1775. Così, negli Elementa iuris civilis del 1725, un testo fortunatissimo con innumerevoli riedizioni lungo tutto il secolo, il professore tedesco Johann Heinecke, meglio noto come Heineccius, imposta la trattazione della persona seguendo le divisioni di Gaio: i nati liberi (gli ingenui) e gli schiavi, gli schiavi liberati (i liberti) e coloro che possono essere titolari di diritti perché non sono assoggettati ad alcuno (i sui iuris). In Francia ha grande seguito, anche nella prassi, l’opera di Robert Joseph Pothier, magistrato e professore all’Università di Orléans. Nel Trattato sulle persone e sulle cose (titolo primo) del 1772 Pothier individua sei ‘divisioni’ delle persone: la prima concerne gli stati o ordini sociali (ecclesiastici, nobili e «la gente del terzo stato», cioè la gente comune, più gli schiavi); la seconda divisione ha riguardo alla cittadinanza, distinguendosi tra cittadini e stranieri; la terza marca le persone a seconda del godimento dei diritti civili, che si perdono (Pothier registra appunto coloro che hanno perduto la «vita civile») per la morte civile conseguente a particolari condanne penali (a morte, all’ergastolo, al bando perpetuo dal reame) o diminuiscono a causa dell’infamia che grava (anche) sui condannati alle pene afflittive minori; la quarta divisione discrimina tra figli legittimi e bastardi; la quinta verte sull’età e sul sesso; la sesta divisione individua le persone soggette a potestà (maritale o paterna). Stupisce che questo grande giurista si limiti a elencare e non si ponga alcuna domanda di fronte a queste ‘divisioni’ che, nel giro di qualche anno, sarebbero state spazzate via. Nulla egli osserva, nemmeno a fini giustificativi, a fronte di privilegi davvero incomprensibili, quale, per esempio, quello che

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riduce, per i nobili, da cinque a tre gli anni di studio per il baccellierato in diritto civile e canonico. Peraltro, circa la «gente del terzo stato», destinataria della generale normativa privatistica, Pothier si astiene da qualunque considerazione e neanche ne individua i ceti appartenenti: «su quest’ordine di persone» – egli scrive – «non v’è nulla di particolare da rilevare». Eppure un giurista che avesse inteso costruire nuove categorie avrebbe dovuto guardare proprio alla gente del terzo stato, se si vuole, all’uomo ordinario o senza qualità, perché l’assenza di privilegi, che lo caratterizzava, lo poneva naturalmente al centro della riflessione giusnaturalistica, che tendeva a configurarlo come il tipo di uomo, o di persona, attorno al quale elaborare nuovi sistemi giuridici orientati secondo il principio di eguaglianza. Il costituzionalismo stava per iniziare il processo di positivizzazione giuridica; e assai significativo in questa direzione sarà già la sezione I della Dichiarazione dei diritti della Virginia del 12 giugno 1776 ove, appunto, si statuisce che «nessun uomo o gruppo di uomini ha diritto a particolari emolumenti o privilegi».

14. LA PARABOLA DELLE DIVISIONI DELLE PERSONE E L’AFFACCIARSI DEL SOGGETTO UNICO UNIVERSALE

Quando Pothier scriveva beatamente il suo Trattato i giusnaturalisti avevano già detto tutto; e con ciò avevano determinato le sorti del futuro. Secondo una delle fondamentali direttrici del giusnaturalismo qualunque uomo doveva ritenersi titolare di diritti fondamentali, definiti naturali o innati perché inerenti l’uomo in quanto tale. La metafora dello stato di natura è, in fondo, funzionale alla tutela dell’uomo qualunque: nello stato di natura non esistono le qualità, con le conseguenti divisioni tra le persone, e tutti gli uomini hanno eguali diritti cui, con il contratto sociale, essi rinunciano a vantaggio dello Stato che glieli restituisce modulandoli come diritti civili. L’uomo, l’uomo comune, viene proiettato, in uno slancio ideale nobile e appassionato, al centro dell’universo; a quell’uomo, alla persona senza ‘divisioni’ conseguenti ai diversi status, è assegnato il ruolo di fulcro di un sistema giuridico di cui si reclama l’esigenza della semplificazione razionale a cominciare dalla fissazione di proposizioni concise e intelligibili a tutti. Quest’idea, della costruzione di un sistema giuridico semplificato e, nel contempo, ordinato ‘geometricamente’, articolato in proposizioni normative tra loro coordinate, e strutturate in soggetto, l’uomo generale, e predicato, il diritto o dovere, congiunti per il tramite di una copula, compare nelle opere giusfilosofiche di Wilheinn Gottfried Leibniz (e siamo nella seconda metà del Seicento). Come è stato rilevato, probabilmente fu questa la prima volta che il ter-

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mine subiectus smise di essere adoperato nel suo senso proprio, derivante dal diritto romano: fino ad allora i ‘soggetti’, erano i sottoposti, gli assoggettati, i sottomessi alla potestà paterna o maritale; e, nel campo pubblicistico, i subiecti erano i sudditi. Con Leibniz, i subiecti non sono più gli uomini alieno iuri subiecti (l’espressione è in Gai Inst. 1.126), le persone, cioè, dipendenti dal potere di altre persone come il padre o il marito; i soggetti assumono il significato di persone senza maschera di privilegio o di minorità, ai quali riferire la titolarità generale dei diritti o degli obblighi. L’evoluzione semantica e concettuale ora sommariamente tracciata può ben cogliersi nell’opera di Christian Wolff. Questo filosofo tedesco, nelle sue compendiose Istituzioni di diritto naturale e delle genti del 1750, raccomanda, riprendendo fedelmente Leibniz, che il sistema giuridico sia composto di proposizioni normative rigorosamente concepite, strutturate di soggetto e predicato precisamente determinati, e tra loro armonicamente coordinate in modo che si proceda logicamente dalle più generali verso le meno generali e così fino alle più particolari. Wolff qualifica espressamente questo soggetto di diritti e obblighi come persona e, ai fini della titolarità, persona è qualunque uomo, in quanto gli uomini sono eguali tra loro e (ora) hanno gli stessi diritti e obblighi. Questi diritti e questi obblighi sono innati (ius connatum, obligatio connata); e però, nel sistema wolffiano, all’uomo-persona-soggetto i diritti sono dati in quanto su di lui grava naturalmente un fascio di obbligazioni naturali. Vale a dire che i diritti sono come degli strumenti che il soggetto deve poter avere al fine esclusivo di adempiere alle obbligazioni a cui non può sottrarsi. Così, per esempio, l’uomo naturale ha il dovere di conservarsi e di conservarsi bene; per questo egli ha tutta una gamma di diritti, dal diritto a disporre in misura adeguata del cibo e via di conseguenza ad avere tutte le cose che fanno la vita comoda e gioiosa. Rispetto alla tradizione del diritto romano queste costruzioni giusfilosofiche rappresentano una cesura. Infatti, le obbligazioni e i corrispondenti diritti innati sono tendenzialmente universali, giacché tutti gli uomini hanno comune essenza naturale: la strada verso la fissazione di un soggetto unico universale con uno statuto uniforme è, almeno come meta, additata, il che evidentemente contrasta con la pluralità delle persone del diritto romano e, ancor più, della successiva tradizione romanistica, perfettamente rappresentata dalle «divisioni delle persone» di un Pothier.

15. LA CRISI DEL SOGGETTO UNICO UNIVERSALE Quali sono questi diritti di cui ogni uomo è indeclinabilmente titolare? Vi è innanzi tutto un nucleo fondamentale che si riscontra in tutte le fonti

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internazionali e che comunque si imporrebbe a tutti gli Stati a prescindere dalla loro positivizzazione: diritto alla vita (con il conseguente divieto di esecuzioni in massa e del genocidio), diritto a non subire trattamenti disumani e degradanti (come la tortura), diritto a essere giudicati da tribunali non fantoccio e secondo procedure che garantiscono la possibilità di una difesa effettiva. Vengono poi i cosiddetti diritti di prima generazione, che si traducono nelle fondamentali libertà tutelate dal costituzionalismo classico (libertà di pensiero, di associazione, di religione, ecc.). Seguono poi i diritti di seconda generazione che si risolvono nelle pretese dei cittadini a ottenere dallo Stato determinate prestazioni necessarie per assicurare a tutti un certo livello di benessere materiale (diritto al lavoro, alla salute, all’ambiente, ecc.). A questi si dovrebbero aggiungere i diritti cosiddetti di terza generazione o di solidarietà, da affermarsi in confronto degli Stati più ricchi e potenti, diritti aventi, pertanto, dimensione collettiva, con la conseguenza che di essi non sarebbero portatrici le persone in quanto tali, ma nel loro complesso: diritto allo sviluppo, alla salubrità dell’ambiente, alla pace. Dalla positivizzazione dei diritti naturali nei testi normativi (dichiarazioni dei diritti, costituzioni, codici civili) emerge, più o meno, questa massima generale: Qualunque uomo ha dei diritti. E, però, se certi diritti li hanno tutti (i diritti a contenuto non patrimoniale: diritto alla vita, all’integrità fisica, alle libertà, ecc.), altri diritti (quelli a contenuto patrimoniale come la proprietà) nei fatti li hanno solo alcuni (anche se in astratto tutti li possono avere). D’altra parte, occorre sottolineare, una volta positivizzati, il destino dei diritti naturali è consegnato alla legge, il che implica l’ammissibilità di nuove divisioni tra le persone alla condizione della salvaguardia, magari solo formale, del principio di eguaglianza: ne possono sortire discipline complesse o confuse attraverso le quali aprire il varco ad abusi e privilegi occulti. Insomma, l’idea che qualunque uomo (nobile o borghese, ricco o povero, bianco o nero, uomo o donna) abbia eguali diritti in senso giuridico, possa cioè far valere le proprie pretese allo stesso modo di tutti gli altri, è finita con l’apparire inaccettabile perché è apparsa formalistica e, perciò, iniqua. Il soggetto, si è pensato, è veramente titolare dei diritti se si rimuovano o attenuino le condizioni che in fatto favoriscono alcuni. Nei fatti, si sostiene da alcuni, solo chi è provveduto di ricchezza può accedere alla proprietà o agire giudiziariamente per la tutela dei propri diritti; solo chi è maschio può sperare, impegnandosi, di migliorare la propria condizione lavorativa o i propri redditi; solo chi è in salute può usufruire appieno delle opportunità della vita. Si potrebbe continuare nell’esemplificazione; ma conta soprattutto registrare che istanze del genere, evidentemente protezioniste o protettive, hanno determinato l’introduzione di normative, talora complicate, di favore dalle quali si sono originati altrettanti status speciali. E, in effetti sotto il velo del

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principio di eguaglianza, gli status delle persone, tutte egualmente soggetti di diritti sono tanti: uomo o donna, padre o madre, genitori o figli minorenni, padre o madre affidataria, anziano, datore di lavoro o lavoratore subordinato, libero professionista o imprenditore, piccolo imprenditore, consumatore, coltivatore diretto, ecc. Con il che, si potrebbe anche dire, si manifesta una (preoccupante) tendenza al ritorno a quelle divisioni tra le persone, o diversità di status, che originarono la Rivoluzione di Francia, anche se, è bene precisare, le antiche divisioni erano funzionalmente diverse dalle nuove, le quali sono ispirate dall’intento di proteggere i meno dotati (e non i più dotati, come era il caso degli ecclesiastici e dei nobili dei primi due stati della Francia prerivoluzionaria).

16. PER UNA NUOVA CATEGORIA Per il diritto romano, la titolarità dei diritti patrimoniali dipendeva dal positivo riscontro, nel singolo, della sequenza uomo-libero-cittadino-padre di famiglia: in altre parole, aveva i diritti il maschio romano non soggetto alla potestà del pater (perché premorto o, anche, perché il pater lo aveva emancipato). Il pater era il padrone esclusivo della ricchezza familiare: solo lui aveva la capacità di essere parte in un rapporto giuridico patrimoniale, di essere cioè titolare dei diritti a valenza economica. Pater era, dunque, la qualifica familiare del dominus, ma per divenire dominus occorreva (anche) la capacità fattuale di impossessarsi della res: il possesso – che ha il dominus o colui che lo diventerà per effetto dell’usucapione – è fondamentalmente relativo alle cose corporali, alle cose che si possono toccare, afferrare, maneggiare. Per questa ragione il feto prima dell’espulsione dall’utero materno, anche sufficientemente sviluppato e dotato di mani, non può fisicamente toccare una cosa del mondo esterno: egli non può così avere il possesso, la proprietà, i diritti, perché è ancora «una porzione della madre o delle sue viscere» (Ulpiano in D. 38.16.12). L’identificazione della persona capace del potere proprietario nel maschio familiarmente autonomo non è stata nemmeno scalfita dalle rivoluzioni settecentesche, che hanno cercato di realizzare l’eguaglianza eliminando fondamentalmente lo stato di ecclesiastico e di nobile. Non è così casuale che nel codice-modello, il codice civile francese del 1804, al soggetto di diritto fosse dedicata soltanto qualche disposizione frammentaria, in quanto il destinatario principale del sistema normativo continuava a essere il proprietario, come dimostra il fatto che quel codice fosse rivolto a disciplinare soprattutto i rapporti patrimoniali. La forma del potere del proprietario, con le sue peculiari facoltà, era la

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forma del potere di qualunque soggetto di diritto e qualunque diritto soggettivo aveva conseguentemente i caratteri della proprietà. Dalla proprietà è conseguita la generalizzazione di una tipica facoltà del dominium, l’espulsione di chiunque si ponga in una posizione di contrasto, di negazione; è una mutuazione che si è data anche in confronto dei diritti umani, il che può spiegare l’aggressività o l’indisponibilità al compromesso, pur quando la competizione sia tra soggetti titolari di diritti umani diversi e in conflitto tra loro. Ma se vogliamo davvero progredire dobbiamo essere consapevoli che oggi non è più accettabile, né sostenibile dire che le persone hanno dei diritti (quali essi siano) e basta. La constatazione andava bene per quel pater-dominus che, a ragione o (magari) a torto, ha fatto il suo tempo; e viene anzi ricordato come modello organizzatorio della famiglia e della società da additare alla pubblica censura. Di conseguenza, non è più attuale nemmeno il noto principio secondo il quale «chi esercita il proprio diritto non danneggia nessuno»: vero è, invece, che chiunque applichi una regola attributiva di un potere può essere chiamato a renderne conto. Generalmente le leggi evitano di dare la definizione di persona o di capacità giuridica, il che rimette innanzi tutto alla dottrina il compito di elaborare e rielaborare la nozione o la categoria. Se è vero che la categoria della persona in senso giuridico ci deriva dalla tradizione, è pur vero che la tradizione è in evoluzione continua e, in particolare, il significato tradizionale non è più congruo rispetto al contesto in cui siamo oggi immersi. Almeno in thesi, se le persone sono tutte eguali, la capacità giuridica compete alla stessa stregua a ciascuna persona: libertà, sesso, cittadinanza, autonomia familiare sono qualità della tradizione passata che non hanno rilevanza e non condizionano il godimento della capacità giuridica. Sicché continuare a definire quest’ultima come l’attitudine a essere titolare di diritti e di doveri in senso soggettivo non ha più molto senso, in quanto tutti gli uomini hanno tale attitudine solo che esistano o, secondo l’art. 1 cod. civ. italiano, solo che siano nati. L’essere uomo in senso fisico dovrebbe (finalmente) coincidere con l’essere persona in senso giuridico: la persona identifica, dunque, l’uomo che è, che esiste giuridicamente. All’essere di una persona si accompagna, eguale, l’essere delle altre persone: in questa prospettiva l’interferenza o ingerenza altrui non può essere semplicemente respinta, ma deve essere valutata e, nei limiti del possibile, civilmente contemperata. La filosofia non è più, né può essere, quella dell’esclusione: ora si tratta di regolare e di conciliare. Più prosaicamente si tratta di prendere atto che la prospettiva proprietaria, del terribile diritto del dominus che pone la mano sulla cosa sua, è definitivamente tramontata; ma il tramonto è generale, cioè si impone a tutte le persone e a tutti i loro diritti, persone e diritti che non si devono reciprocamente sopraffare, ma civilmente confrontare e costruire delle intese.

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È necessaria un’abilità nuova, è indispensabile una consapevolezza maggiore, occorre, oggi, conoscere e comprendere di più. Nasciamo tutti eguali, e tuttavia il contesto socio-economico e anche il diritto sono pronti a fornirci una pluralità di status personali dai quali ricevere protezione o, viceversa, discriminazione: nella società contemporanea si agitano gruppi forti e gruppi deboli, da cui scaturiscono nuove divisioni tra le persone. È necessario che la si smetta di considerare certe persone o certi diritti come delle ‘briscole’ in grado di spiazzare l’avversario. Da questo punto di vista, la coltivazione del mito illuministico del soggetto unico universale è non solo attuale, ma anche in grado di innescare quel circuito virtuoso nel quale le persone non brandiscano più i loro diritti come delle lance e riconoscano, piuttosto, nell’altro una persona che è anch’essa: è, dunque, necessario individuare soluzioni di coesistenza secondo criteri di ragionevolezza, senza annientamento o prevaricazione di alcuno. L’abbandono del progetto del soggetto giuridico unico universale ha parecchi inconvenienti; ha cagionato, e cagiona, talvolta, e non di rado, ingiustizie e decisioni ingiuste. Chi abbia solo un poco di pratica giudiziaria, sa bene che in certi settori, al di là e, anzi, spesso contro il vero, lo sforzo è quello di calare la parte in causa in uno degli status di protezione al fine di suggestionare e, comunque, di usufruire astutamente dei benefici connessi. È tempo di ripensare la categoria giuridica della persona portando a compimento quella sua trasformazione inaugurata dall’Illuminismo giuridico e poi arrestata dal diritto borghese dell’Ottocento. L’obiettivo è quello di costruire un diritto sempre più comune, arrotondandolo, laddove necessario, per includere un numero sempre più ampio di soggetti. La costruzione del soggetto unico universale postula la rottura con la tradizione romanistica che non è più sostenibile nel contesto contemporaneo radicalmente mutato rispetto a quello, lontanissimo, in cui si è originata l’idea di persona con le sue divisiones conseguenti ai diversi status. Occorre, insomma, che la persona si identifichi fondamentalmente con una sola ‘maschera’ perché i tempi non accettano più il ‘teatro delle maschere’ e, dunque, le più o meno gravi disuguaglianze dei ruoli assegnati agli uomini. Occorre, inoltre, che la maschera-prototipo non sia quella del proprietario perché i tempi sono maturi perché si realizzi un significativo progresso nella civilizzazione giuridica, con superamento della logica di esclusione e di prevalenza che connotava il diritto dominicale della persona protagonista assoluta, il padre padrone. Molte incoerenze dei nostri sistemi giuridici dipendono, in fondo, da questo e cioè che la modernizzazione dei modelli si è attuata semplicemente estendendo o trasferendo ad altri soggetti le prerogative un tempo proprie del pater sulle terre in sua proprietà; mentre è indispensabile l’assunzione di una logica, e di un’anima, nuova se si vuole dar vita a un soggetto giuridico veramente nuovo.

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CAPITOLO SECONDO

LA DIFESA DEI DIRITTI Antonio Palma SOMMARIO: 1. Il “luogo delle regole”. – 2. Un’archeologia dell’azione. – 3. Come fare cose con le parole: la iurisdictio del pretore. – 4. La parola immutabile: i certa verba. – 5. La parola cucita: i concepta verba. – 6. Le cognizioni imperiali: il nuovo apparato ‘statale’ della giustizia.

1. IL “LUOGO DELLE REGOLE” Una trattazione istituzionale del processo civile romano necessita di alcune premesse isagogiche volte a chiarire che cosa s’intenda con la parola ‘processo’ (iudicium); quale sia la natura dell’azione processuale (actio); il rapporto tra processo e azione nei tre modelli procedurali nei quali il processo civile romano si declinò nel tempo, da quello più antico delle legis actiones (451 a.C.-17 a.C.); a quello intermedio per formulas (242 a.C.-342 d.C.); per finire con quello proprio delle cognitiones extra ordinem (17 a.C.). Ancor prima di enucleare i temi succitati, è opportuno chiarire come l’esperienza giuridica romana sia stata considerata da sempre, e a ragione, uno strumento ermeneutico in grado di cogliere le implicazioni di un sistema di fonti di produzione del diritto orientato in chiave processuale; il processo è infatti la sede privilegiata nella quale calare il diritto romano come diritto controversiale (ius controversum) che rappresenta il luogo da cui emerge il principio di diritto (regula iuris) applicabile nelle diverse fattispecie sottoposte ai giudici. Per questo motivo si è creduto opportuno descrivere il processo come “luogo delle regole”, in quanto è nella interlocuzione forense (disputatio fori) – che si instaura tra giurista (prudens; iurisconsultus), magistrato (praetor urbanus/peregrinus) e giudice (iudex) – che le norme vengono prima plasmate e poi applicate, in un circuito nomopoietico che principia con il fatto storico

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oggetto della lite, destrutturato nella dimensione controversiale, e che si conclude nell’individuazione di un principio di diritto da applicare alla fattispecie oggetto della disamina del giudice. Nel dare atto di tutto ciò si deve evidenziare però come l’approccio istituzionale alle questioni processuali sia stato fortemente condizionato dalla principale fonte di cognizione al riguardo: le Istitutiones del giurista Gaio, operante nel II secolo d.C. Ed infatti la sequenza manualistica dettata dal giurista dell’età degli Antonini (96-192 d.C.) nel trattare il tema del processo ha rafforzato negli interpreti moderni l’idea dell’esistenza di un vero e proprio rito processuale tanto che si sono tradotte riflessioni didattiche in canone processuale. E così le Istituzioni di Gaio come codice della procedura formulare hanno alterato la costitutiva natura caotica del processo formulare, indiscutibilmente confermata dal disordine dell’editto del pretore nelle sue ricostruzioni postume. Di qui i tentativi di applicare alla prassi processuale romana categorie proprie della moderna tecnicalità processuale, tentando così di colmare con l’individuazione di forme pur presenti nella descrizione gaiana, ma non costituenti luoghi regolativi dell’agire giuridico, quell’insuperabile aspetto deformalizzato del processo privato romano, nel quale il punto cruciale è costituito dalla individuazione di una regola di diritto soggetta alla verifica successiva della sua compatibilità con gli elementi costitutivi del fatto. Ebbene nelle pagine che seguono si tenterà di far emergere questa natura deformalizzata e caotica del processo romano, non trascurando, a fini didattici, di offrire comunque al discente un quadro sintetico degli istituti processuali, descritti nella loro forma tradizionale.

2. UN’ARCHEOLOGIA DELL’AZIONE La definizione di azione (actio), tanto per il diritto moderno quanto per il diritto romano, in particolar modo per quello classico (27 a.C.-235 d.C.), si colloca essenzialmente nella dimensione processuale anche se un’azione nel senso odierno del termine il diritto romano arcaico, preclassico e classico non la conobbe. Di seguito verranno sintetizzati alcuni tra i tentativi definitori più significativi che i giuristi moderni ed antichi hanno offerto in merito al concetto di azione. Giuseppe Chiovenda (1987-1937) intese l’azione come la capacità di chiedere tutela all’ordinamento e che si estrinsecherebbe nella forma della domanda giudiziale, come si desume dalla lettura dell’art. 2907 cod. civ.: «alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte».

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Secondo Salvatore Satta (1902-1975) alla base dell’azione non sta il diritto, ma la pretesa, che è una direzione della volontà verso l’effetto giuridico. Considerata sotto questo angolo visuale la formula latina del giurista del II secolo d.C. Giuvenzio Celso, che a breve si vedrà, rivela tutto il suo profondo significato: perché in sostanza l’azione, secondo Satta, è la volontà che si muta in giudizio. La teoria di Satta dell’azione come pretesa viene mutuata dalla speculazione di Bernhard Windschied (1817-1892) il quale aveva creato una equivalenza tra il concetto di azione e quello di pretesa, ossia del potere di ottenere il riconoscimento giudiziale in capo a terzi della doverosità di un comportamento positivo o omissivo. I giuristi romani invece, corrispondendo pienamente ai moduli concreti del loro operare, non si sono mai posti problemi astratti circa il significato della categoria actio; ma qualora volessimo tentare di ricostruire quello che questi pensavano quando parlavano di actio si deve inquadrare quest’ultima nel modo con il quale i Romani presentavano la trattazione del diritto sostanziale è cioè quello di aktionenrechtliches Denken (= modo di pensare il diritto mediante il riferimento al sistema delle azioni); in questa prospettiva l’actio è concepita come il meccanismo attraverso il quale pervenendo al processo si raggiunge l’esistenza della norma. I diritti, dunque, non sono presupposti, ma si manifestano all’interno del processo, come scrive il giurista Giuvenzio Celso figlio (II secolo d.C.) in un passo contenuto nel Digesto: «Azione non è altro che il diritto di perseguire nel processo ciò che ci è dovuto» [= «Actio nihil aliud est quam ius persequendi iudicio quod sibi debetur»] (D. 44.7.51 Celsus 3 dig.). Il diritto romano mostra continuamente dunque la sua essenza spiccatamente processuale, il giudice regola da solo, secondo dei propri parametri argomentativi, il bene oggetto della lite (res litigiosa); lo svantaggio di un simile approccio potrebbe essere quello di una mancata certezza del diritto; ma la certezza del diritto si è rivelata un valore non più realizzabile, alla luce, soprattutto oggi, della molteplicità delle fonti che concorrono alla regolazione della vita sociale e che per la loro eterogeneità dissolvono ogni aspetto di certezza nell’applicazione del diritto (basti pensare al rapporto tra le fonti normative interne e quelle esterne). La giurisdizione (iurisdictio) si trova di fatto articolata su una struttura doppia: la prima, quella, già accennata, attraverso la quale il fatto storico è sussunto e reso fattispecie; la seconda, quella attraverso la quale individua lo strumento più adatto per regolare quella fattispecie. E la giurisdizione si applica quando le parti controvertono per più ragioni: per accertare un diritto; per

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soddisfare un diritto già accertato; per paralizzare situazioni fattuali in vista di un futuro accertamento o di una futura esecuzione: ecco, da questa diversità di fini emerge la diversità esistente tra il processo dichiarativo, esecutivo o cautelare. Il procedimento di accertamento giudiziale si risolve così in un mero accertamento; in un accertamento con condanna del convenuto; oppure in un accertamento con effetti costitutivi, modificativi od estintivi di rapporti giuridici. In definitiva si può dire che il privato intenta un’azione ogni qual volta intenda rivendicare l’esistenza di un diritto soggettivo, o voglia obbligare i terzi al rispetto di quest’ultimo o tutelarlo da eventuali turbative dei terzi stessi; intendendosi per diritto soggettivo una posizione di interesse dell’individuo per un bene della vita (come il godimento di una casa; la disponibilità di una somma di denaro, ecc.). Il diritto soggettivo si configura di conseguenza come una posizione d’interesse su un bene tutelato dall’ordinamento.

3. COME FARE COSE CON LE PAROLE: LA IURISDICTIO DEL PRETORE L’esercizio del diritto nell’antica Roma ebbe un orientamento spiccatamente orale. In principio, si potrebbe dire, c’era la ‘parola’, l’attività qualificata del ‘dicere’, che creava il diritto, ristabilendo l’ordine e l’equilibrio sociale che rischiava di essere irrimediabilmente turbato. Si trattava di una “parola qualificata” che si manifestava all’interno del processo dove i litiganti esprimevano innanzi ad una autorità le proprie pretese. Leggiamo a tale proposito quanto ha scritto Riccardo Orestano (19091988): «[…] moltissime delle espressioni che anche in età posteriore indicano attività normativa, di comando, di decisione, di designazione, di dichiarazione da parte di organi pubblici (dicere, dictare, dicare, edicere, ius dicere, indicere interdicere, pronuntiare, vocare, nominare, nuntiare, renuntiare, obnuntiare, proclamare, ecc.) ci riconducono […] a manifestazioni verbali; e quando anche, nel corso dei secoli, talune di esse porteranno a una redazione scritta (come ad esempio l’edictum pretorio), il termine con cui continueranno a essere designate manterrà vivo il ricordo della loro origine orale; mentre per altri l’osservanza della pronuncia orale costituirà sempre condizione essenziale per la loro esistenza ed efficacia, come ad esempio per le sentenze» (R. ORESTANO, Fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Giappichelli, Torino, 1967, 204). Giurisdizione, iuris dicto, significa tecnicamente “dire il diritto”, ma dictio è un sostantivato del verbo dicere nella sua accezione di pronunzia autoritativa. Rinviando alle categorie concettuali elaborate dal linguista John Langshaw Austin (1911-1960) si può dire che il linguaggio giuridico non ha la so-

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la funzione di dichiarare qualcosa, ma può anche costituire di per sé un’azione creativa di un aspetto della realtà prima di allora inesistente; a questo proposito viene introdotto il concetto di atto performativo ossia quell’atto verbale che nella sua stessa verbalizzazione crea la realtà. Così anche la iuris-dictio del pretore che è espressione del potere (imperium) dello stesso verbalizza normativamente la realtà costruendola, attraverso un algoritmo logico-linguistico che può essere come di seguito schematizzato: 1) fatto naturale, che nella contemplazione del magistrato prima e del giudice poi giudice diventa ‘fattispecie’ più precisamente problema da risolvere; 2) elaborazione delle regole del giudizio, cioè di quello schema che risolve il conflitto tra le parti, facendo prevalere la tesi di una parte sulla tesi dell’altra; 3) accumulazione topica, cioè casistica, delle regole di giudizio, pervenendo anche con l’apporto del diritto controverso (ius controversum) dei giuristi – i quali offrono per il caso soluzioni differenti e talvolta conflittuali – a principi generali. Si veda il seguente esempio: 1) un soggetto proprietario di un bene (res) si rivolge al pretore per recuperare dal ladro ciò che è stato sottratto; 2) si tratta dunque della sottrazione di un bene altrui da parte di un terzo (fattispecie di furtum) che nella visione normativizzante del pretore diviene azione di furto (actio furti) con condanna ad un multiplo della cosa sottratta; 3) le regole del giudizio stanno nella restituzione del bene attraverso un multiplo, da cui discende nell’elaborazione dei giuristi la classificazione del furtum come illecito civile (delictum) e per astrazione maggiore nella delineazione della responsabilità da illecito. Dapprima, in età monarchica, questa funzione giurisdizionale spettava al rex, poi passò, in età repubblicana, ai consoli ed infine ai pretori, prima quello urbano, nato nel 367 a.C. con le leges Liciniae Sextiae, e poi quello peregrino, costituito nel 242 a.C., cui era affidata la giurisdizione per le liti che fossero sorte tra cittadini (cives) e stranieri (peregrini) o per quelle nelle quali i litiganti erano solo stranieri. L’esercizio della iurisdictio da parte del pretore (urbano e peregrino) trova la sua massima espressione nell’attività che il magistrato pone in essere utilizzando il suo imperium come strumento performativo: è attraverso il potere di cui è investito dalla collettività che il pretore può risolvere in via interinale o definitiva determinate situazioni di conflittualità, come nella assegnazione (addictio) di un soggetto ad un altro, ad esempio del debitore insolvente al creditore di quest’ultimo, o nella tutela ‘interdittale’ (per interdicta). In questo caso le parole sono l’epifania sonora di un potere; e così anche

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nella stesura del dettato formulare il magistrato traduce il linguaggio volgare in linguaggio tecnico, conferendo valore prescrittivo alle parole che vengono così adattate, ‘cucite’ (concepta), sulla fattispecie al suo vaglio. La prima parte del processo si svolgeva presso il tribunale del pretore (in iure), ed infatti la parola ius è parola polisemica che significa molte cose: diritto; sistema normativo; luogo dove il diritto si crea. Per questo motivo fase in iure significa fase del processo che si svolge nel tribunale del magistrato che esercita la giurisdizione ma che non ha funzione giudicante. La distinzione del processo romano in due fasi evidenzia la netta distinzione tra la iurisdictio, intesa come giurisdizione nell’accezione di dire il diritto (ius dicere), e la iudicatio, intesa come il potere di conoscere la questione ed emettere la sentenza. La frattura tra iurisdictio e iudicatio è strutturale al processo civile romano perché la prima fase in iure (questo avviene sia nelle legis actiones sia nelle formule) serve a determinare il programma processuale, cioè lo schema decisorio nell’ambito del quale dovrà poi essere accertato il fatto ed emessa la sentenza. Quindi il fatto litigioso è poco rilevante nella fase in iure, nella quale viene individuata la regola del diritto; questo perché in un sistema di diritto non scritto le regole vanno di volta in volta determinate, non sono mai stabilite una volta per tutte da un provvedimento autoritativo. Solo nella seconda fase, quella davanti al giudice (apud iudicem) si realizza quello che per noi moderni è il giudizio, una decisione che scaturisce dal confronto, esame ed analisi di un fatto nei suoi elementi rilevanti rispetto alla regola da applicare. Pare allora doversi ridimensionare l’idea che il giudizio avesse una sua fase fondamentale in iure e poi una ancillare apud iudicem di natura applicativa della norma di diritto precedentemente individuata: i giuristi romani presentarono in questi termini il meccanismo processuale al solo fine di esaltare il loro ruolo nella formazione della regula iuris e minimizzare di conseguenza l’operato del giudice a mero esecutore di quanto da loro stabilito. Il giudice della fase apud iudicem non era un magistrato bensì un privato cittadino (iudex unus), scelto di concerto fra le parti all’interno di liste redatte annualmente (album iudicum); questi non doveva mancare di alcuni requisiti necessari, per questo motivo non potevano ricoprire l’incarico (officium) quanti fossero stati sordi, muti, impuberi, pazzi, rimossi dal senato per condotte infamanti, donne e schiavi. Prima di emettere la sua decisione il giudice era solito consultare persone di sua fiducia autorizzate ad assisterlo nella fase apud iudicem (consilium), e ciò a copia di quanto accadeva per il magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, in ossequio ad un antico principio romano, per il quale la decisione veniva presa all’interno di una discussione collegiale. Il decidente aveva talvolta il nome di arbiter per la sua maggiore libertà di

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apprezzamento, soprattutto qualora si vertesse in giudizi aventi carattere divisorio, e in questo caso potevano costituirsi anche collegi di tre arbitri (si pensi, ad esempio, alle azioni divisorie di eredità e di beni in comproprietà: actio familiae erciscundae e actio communi dividundo). Potevano essere inoltre nominati per estrazione a sorte e ricusazioni reciproche delle parti in giudizio collegi di recuperatores, che traevano la loro origine da convenzioni esistenti tra Roma ed altre città per dirimere determinate controversie. Vi erano poi alcuni collegi come quello dei Centumviri (cento uomini) che avevano competenza nei giudizi ereditari o quello dei Decemviri (St)litibus Iudicandis, giudici i quali, fino ad Augusto, decidevano in questioni concernenti la libertà degli individui. La composizione del registro dal quale nominare i giudici fu una delle questioni più dibattute nella società romana perché ci fu un confronto durissimo tra i ceti dominanti a Roma, i nobili, il patriziato ed i cavalieri (l’ordine equestre); ciò in quanto si trattava di assicurarsi la gestione di un potere rilevantissimo, sia nelle controversie civili di cui ci stiamo occupando, sia nella composizione delle corti penali. Anche in questo caso vi è una vulgata che si deve smentire: i giudici non erano privati cittadini del tutto inesperti di diritto; si trattava speso di persone appartenenti alle classi sociali più elevate e dunque forniti di una cultura e di una sapienza pratica volta a vagliare accuratamente le circostanze di fatto, visto che la regola del giudizio era stata già determinata nella fase in iure.

4. LA PAROLA IMMUTABILE: I CERTA VERBA L’espressione “azioni di legge” (legis actiones) ha più significati: secondo Gaio (Gai Inst. 4.11) può infatti significare che si tratta di azioni previste in una legge (lex), intendendo per lex la fonte di produzione di norme che proviene dai soggetti che hanno il potere costituzionale di emanarle e in questa accezione il rinvio sarebbe al dettato normativo delle XII Tavole (Lex Duodecim Tabularum) del 451-449 a.C.; oppure perché si tratta di azioni il cui contenuto veniva adattato ad un testo di legge. Si tratta in ogni caso di formule che vincolano le parti al loro utilizzo ed entro un formulario che preesiste e dunque precede la lite; le legis actiones consistevano in espressioni non modificabili (certas), la cui enunciazione aveva un carattere rigidamente formale e solenne (sollemnes): tale cioè da rendere obbligatorio al momento della pronuncia, l’utilizzo delle stesse parole nello stesso ordine, secondo uno schema prescritto; dunque l’attore doveva necessariamente esporre la propria richiesta inquadrandola in uno schema formale indipendente dai fatti di causa.

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Un simile rigido formalismo ha una spiegazione precisa: nel mondo romano, soprattutto delle origini, buona parte della comunità non conosceva la scrittura e questo analfabetismo rendeva indispensabile veicolare il messaggio verbale attraverso strutture linguistiche condivise, non fraintendibili; in un simile contesto sociale la forma si ergeva a garanzia della certezza della comunicazione. Le legis actiones secondo quanto leggiamo nel manuale di Gaio (Gai Inst. 4.12) erano cinque: per giuramento (sacramento); per richiesta di giudice o di arbitro (per iudicis arbitrive postulationem); per intimazione a comparire (per condictionem); per imposizione della manus (per manus iniectionem); per presa di pegno (per pignoris capionem); di queste azioni le prime tre avevano carattere dichiarativo erano utilizzate infatti per accertare un diritto; le ultime due invece avevano carattere esecutivo in quanto dirette a soddisfare un diritto già riconosciuto. Ci si può domandare se queste azioni fossero realmente solo cinque o cinque sono quelle che Gaio ci riferisce pur essendocene in realtà altre. A nostro giudizio pare plausibile che le legis actiones fossero solo cinque poiché i diritti tutelabili non erano molti e questi tutti derivanti da situazioni simili, differentemente ai sistemi normativi attuali che disciplinano ogni aspetto della nostra esistenza, sia in modo diretto che in modo indiretto. Oggi si assiste infatti ad una estrema diffusione di norme, ad un dilagarsi della prescrittività giuridica e per questo motivo le posizioni d’interesse che definiamo diritti soggettivi sono tantissime e per ognuna delle quali corrisponde una forma di tutela giudiziaria. Nel mondo antico in cui era rilevante la struttura federativa della civitas, gran parte della conflittualità era lasciata alla giustizia domestica (iudicium domesticum), presieduta dal pater familias. Quindi possiamo dire che la maggior parte della vita romana era regolata da sistemi normativi alternativi a quello ‘statuale’. Si capisce per questi motivi perché le legis actiones erano solo cinque; vi era però un artificio volto ad intercettare quante più pretese: le formule delle legis actiones erano contenitori vuoti, adattabili a vari forme di tutela. La legis actio sacramenti (o per sacramentum; Gai Inst. 4.13-17) era uno schema contenutisticamente aperto ed è per questo motivo, cioè per la sua adattabilità a diverse pretese, che Gaio la definisce generalis; si trattava di una azione che poteva essere in rem o in personam, a seconda che l’obiettivo della controversia fosse la rivendicazione di un diritto sulla cosa (diritto reale tutelabile in via assoluta) o un diritto di credito (diritto obbligatorio tutelabile in via relativa). Ognuna delle parti in lite (attore e convenuto) s’impegnava a versare all’erario, in caso di soccombenza nel giudizio, una somma (sacramenti) che il dettato delle XII Tavole, più precisamente la tabula 2.1a), aveva stabilita in 500 assi, qualora l’oggetto della lite avesse un valore di 1000 assi o più, e in

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50 assi, nel caso in cui il valore della controversia fosse inferiore o la lite avesse ad oggetto un accertamento relativo allo status della persona (status libertatis: libero o schiavo; status civitatis: cittadino romano o peregrino; status familiae: titolare di capacità giuridica o sottoposto alla potestà di un paterfamilias). Per il pagamento di tali somme ciascuna delle parti era tenuta a dare al pretore la garanzia di terzi (praedes sacramenti). Quando l’azione veniva esperita in via reale si rendeva necessario portare davanti al pretore la res oggetto del contendere o, se ciò era impossibile stante la natura del bene, se ne portava una sua parte: poteva dunque avvenire che se oggetto dell’azione fosse un gregge si portasse un solo capo di bestiame o in caso di fondo una zolla. A questo punto ciascuna parte teneva in mano una verghetta (vindicta), sostitutiva della lancia di guerra che, nel codice simbolico romano, rappresentava l’esercizio di un potere, e, afferrata la cosa o parte di essa, affermava che questa era sua e la toccava con la verghetta. Il magistrato imponeva allora ai contendenti di lasciare libera la cosa. A queste forme, che rappresentano una liturgia ibrida tra il religioso e il laico, seguiva la provocazione reciproca fra le parti al giuramento (sacramentum), che comportava la condanna a divenire sacro agli dei, e per ciò stesso uccidibile impunemente da chiunque altro membro della comunità (sacer esto), di colui che avesse giurato il falso in quanto perturbatore del rapporto pacifico tra Uomo e Divinità (pax deorum), che non si esauriva nel rapporto intimo del singolo individuo con il divino ma coinvolgeva l’intera comunità, poiché il culto (religio) era un fenomeno fortemente collettivo e così chi giurava il falso faceva un torto non solo a se stesso ma anche alla comunità tutta. Il pretore infine assegnava ad uno dei contendenti il possesso interinale della cosa litigiosa (vindiciae) fino alla estinzione della lite, purché i terzi – anche in questo caso si può notare la partecipazione in veste di garanti di rappresentanti della comunità in rapporto individuale – s’impegnassero a che egli, se rimaneva soccombente, rendesse al vincitore la cosa e i suoi frutti. Conclusasi così la legis actio, attore e convenuto comparivano apud iudicem, innanzi allo iudex privatus, il quale, valutati i rispettivi mezzi di prova introdotti in giudizio dalle parti, dichiarava di quale delle due parti il sacramentum era da considerarsi iustum e quale al contrario iniustum. La legis actio per iudicis postulationem (Gai Inst. 4.17a) era una forma procedurale ammesso dalle XII Tavole (Tab. 2.1b) per i crediti che avevano origine da una promessa verbale solenne, come la stipulazione. L’attore chiedeva al convenuto di affermare o di negare il suo debito e nel caso in cui quest’ultimo negasse allora chi agiva si rivolgeva al pretore affinché questi gli desse un giudice o un arbitro; ed il pretore procedeva così alla nomina di quest’ultimo. Questo modo di agire evitava che il soccombente subisse la

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poena sacramenti e per questo motivo ciò Gaio rileva, che in questo tipo di azione chiunque può negare senza temere alcuna pena. Le XII Tavole avevano inoltre stabilito, che allo stesso modo si dovesse agire per la divisione di una eredità fra coeredi, e questa legis actio venne prevista da una lex Licinnia, come ci informa il Digesto (D. 4.7.12), anche per la ripartizione della cosa fra condomini. La legis actio per condictionem (Gai Inst. 4.17b-20) si radicava nella sua parte iniziale in forma analoga a quella con la quale aveva inizio la legis actio per iudicis arbitrive postulationem: l’attore chiedeva al convenuto di affermare o di negare, che dovesse dargli una determinata somma di denaro (certa pecunia) o una determinata cosa (certa res), e costui negava di doverla. Ma in questo caso, al diniego del convenuto, chi agiva gl’intimava di ritrovarsi al trentesimo giorno dinanzi al pretore per la scelta del giudice che doveva decidere circa l’esistenza del debito. La legis actio prendeva il nome appunto da questa intimazione a comparire (condictio). Essa fu introdotta da una lex Sillia per i crediti di una determinata somma di denaro ed estesa da una lex Capurnia ai crediti di ogni altra cosa determinata. Gaio riferisce, ch’era assai discusso il motivo del sorgere di questa legis actio potendosi agire per i crediti o sacramento o per iudicis arbitrive postulationem. Queste tre legis actiones hanno tutte natura dichiarativa, cioè tendono ad accertare un diritto della cui esistenza si controverte, però la distinzione tra di loro è molto importante: perché la prima è una azione generale, dunque atipica, attraverso di essa si possono tutelare diritti di qualsiasi natura, mentre le altre due (per iudicis arbitrive postulationem e per condictionem) sono azioni tipiche ed in quanto tali sono dirette a tutelare diritti di natura specifica, come le obbligazioni a dare una somma di denaro certa. La legis actio per manus iniectionem (Gai Inst. 4.21-25) era data principalmente contro chi era stato condannato a pagare una somma di denaro. Trascorsi trenta giorni dalla condanna, il creditore aveva il diritto di trascinare il debitore in giudizio. Dopo averlo afferrato, si rivolgeva alla controparte e dichiarava: «siccome sei giudicato a mio favore per diecimila sesterzi, e siccome non hai pagato, io, in rapporto a ciò, ti metto la mano addosso per diecimila sesterzi del giudicato». E se il debitore non eseguiva il giudicato o un terzo idoneo (vindex) non lo liberava dalla sua obbligazione, assumendo a proprio rischio la lite circa la esistenza o la efficacia del titolo esecutivo, che si pretendeva di far valere, il creditore era autorizzato dal pretore a trascinarlo a casa sua, dove poteva trattenerlo incatenato per un periodo di sessanta giorni, avendo però l’obbligo di ricondurlo intanto, in tre giorni consecutivi di mercato, dinanzi al pretore per proclamare ancora la sua condizione di insolvente. Qualora nessuno lo riscattasse nei giorni di mercato, allora il creditore, secondo un versetto decemvirale (partes secanto), poteva ucciderlo o

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venderlo come schiavo al di là dal Tevere, e cioè peregre, mentre le conseguenze furono, in seguito alla lex Poetelia Papiria de nexis del 326 a.C., limitate alla prigionia. Una simile legis actio poteva essere esercitata anche contro chi avesse confessato innanzi al pretore il suo debito di una determinata somma di danaro; e aspettava altresì per certi crediti privilegiati chiamandosi in questo caso manus iniectio pro iudicato, in quanto quei crediti si riguardavano come titoli esecutivi. In tal caso il creditore, dopo aver dichiarato per quale causa agiva, soggiungeva: «in rapporto a ciò io ti metto la mano addosso come per giudicato». Ma talvolta il credito privilegiato si faceva valere, sempre in conformità di precetti legislativi, con la manus iniectio pura, e cioè non pro iudicato, ch’era una procedura esecutiva meno gravosa, perché non occorreva l’intervento di un garante (vindex), potendosi il debitore difendere autonomamente. In quest’altro caso l’attore non pronunciava nella legis actio le parole pro iudicato. La legis actio per pignoris acpionem (Gai Inst. 4.26-29) consisteva nell’impossessarsi di propria autorità di cose del debitore inadempiente, pronunciando certe parole solenni. Era stata introdotta dalle XII Tavole (Tab. 12.1) per rapporti attinenti al diritto sacro: contro colui che, comprato un animale destinato ad un sacrificio, non ne pagava il prezzo o che, preso a nolo un animale, non ne pagava il fitto, che doveva essere erogato a scopo religioso. Era stata poi accordata dai censori agli appaltatori delle imposte (publicani) contro i contribuenti. Era concedibile, inoltre, al soldato che chiedesse il pagamento del soldo militare o il danaro per l’acquisto del cavallo di servizio o dell’orzo necessario al nutrimento del cavallo. La pignoris capio si compita extra ius cioè non dinnanzi al pretore e spesso in assenza dell’avversario, mentre tutte le altre legis actiones non potevano aver luogo se non davanti al pretore e alla presenza della controparte. La pignoris capio si compiva anche nei giorni nefasti, nei quali non era lecito agire in giudizio lege agere.

5. LA PAROLA CUCITA: I CONCEPTA VERBA Gaio ci informa che le legis actiones a poco a poco vennero in odio, in quanto anche un minimo errore nella loro pronuncia avrebbe potuto comportare la perdita della lite. Per questo motivo continua ancora il giurista tramite una lex Aebutia (del 120 a.C. circa) e due leges Iuliae (del 17 a.C.) fu stabilito che si procedesse in giudizio non più per legis actiones, se non in casi residuali come davanti alla corte dei Centumviri in giudizi ereditari, ma per concepta verba, cioè per formulas. Ed infatti nel definire questo nuovo

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modo di agire in giudizio Gaio usa due espressioni per indicare la nuova procedura: per concepta verba, id est per formulas. Ormai era sempre più socialmente accettata la convinzione che nella fase in iure più che recitare una parte predefinita bisognava, invece, esporre i termini della controversia per garantire al magistrato giusdicente di poter, con il concorso delle parti, liberamente determinare la regola del giudizio. Sappiamo infatti che la formula consisteva in un enunciato o in una serie di enunciati, che, nella fase in iure del processo, venivano concordati fra il magistrato e le parti. A discrezionalità del pretore, nella formula potevano così essere introdotte determinate situazioni di fatto, cosa ovviamente impossibile quando l’azione è condotta per legis actiones. La formula si configura dunque in un insieme sintetico di enunciati in cui vengono esposti gli elementi della controversia attraverso l’inserimento di clausole concordate dall’attore, dal convenuto e dal magistrato. Grazie alla possibilità di ‘cucire’ insieme questi enunciati si arrivò a superare l’eccessiva pignoleria degli antichi (nimia subtilitas veterum: Gai Inst. 4.11) del processo strutturato attraverso i certa verba e a correggere le storture provocate dalla rigida formalità dello ius civile. Rispetto al procedimento per legis actiones attraverso le formulae le parti avevano maggiori possibilità d’interloquire con il magistrato per decidere quali elementi inserire nella formula e lo stesso magistrato aveva maggiore libertà d’intercettare le istanze delle parti. La parola giuridica che si articolava sotto forma di concepta verba costituiva dunque una forma di enunciazione libera ma, nello stesso tempo, controllata. Lo sfondo costituito da uno schema formale, condiviso e predeterminato, forniva infatti garanzie di validità alla molteplicità di enunciati, necessariamente diversi, richiesti di volta in volta da situazioni o necessità altrettanto diverse. La differenza più importante rispetto alle legis actiones non risiede pertanto nella fase apud iudicem, che resta la stessa, ma quello che cambia in modo profondo e radicale è la fase in iure dove le parti sono ora libere di esporre le domande sganciandosi da formulari definiti; quindi dalla forma vincolata che abbiamo visto già fortemente attenuarsi nella legis actio per iudicis postulationem e nella legis actio per condictionem si arriva alla più assoluta libertà di esposizione delle domande; questo è il dato rilevante e decisivo. Il processo di trasformazione non fu repentino ma entrambe le procedure coesistettero per un lungo periodo di transizione; non si deve dimenticare che l’ordine giuridico romano non conosceva, se non rarissimamente, il fenomeno della abrogazione della legge; l’avvicendarsi delle formule alle azioni di legge è stato un processo graduale scandito da una progressiva tacita abro-

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gazione del sistema pregresso. L’abrogazione, sebbene sia preferibile parlare di desuetudine progressiva, venne favorita dal fatto che fu creata una nuova magistratura competente a conoscere le controversie tra cittadini romani e stranieri e tra stranieri e stranieri, il pretore peregrino (praetor peregrinus). Questa magistratura viene istituita allorquando Roma divenne una città multietnica, solo allora si rese indispensabile provvedere tramite questo nuovo pretore, che fungeva anche da medium linguistico tra soggetti spesso parlanti idiomi diversi, alle controversie che sorgevano nel settore degli scambi commerciali tra stranieri e Romani e tra stranieri tra di loro. Il dato che si doveva registrare era che nella maggior parte dei casi gli stranieri non conoscevano il diritto romano e spesso neppure il latino; di qui l’esigenza di semplificare il processo consentendo alle parti di parlare liberamente, quindi non più pronunciare una formula rigida in latino ma lasciandole libere di esporre i loro problemi senza vincoli linguistici. Questa è la ragione per la quale la fase in iure cambia: l’origine del nuovo processo si rinviene all’interno della giurisdizione del pretore peregrino. Però non vi è solo un problema di forma, ma in generale le controversie che venivano portate di fronte al pretore peregrino erano controversie relative agli scambi commerciali e dunque l’affermarsi della iurisdictio del praetor peregrinus segnala anche l’emersione di un settore speciale di norme caratterizzate dalla libertà delle forme e dall’emersione dell’importanza della volontà. Questo settore è definito ius gentium; in questo caso l’espressione ius gentium significa quella parte dello ius civile accessibile anche dagli stranieri, ma in quanto utilizzabile anche dagli stranieri connotato in modo diverso dal diritto proprio dei cittadini romani e cioè più informale a garanzia della tutela sostanziale della volontà. Basti pensare che i contratti tipici dello ius gentium furono quelli consensuali, detti anche nova negotia: la locazione, la compravendita, il mandato e la società. Questa procedura era applicabile in Roma e in Italia: alcuni passi di Gaio mostrano come essa potesse anche essere applicata ai cittadini romani nelle provincie. Chi voleva agire doveva prima della chiamata in giudizio (in ius vocatio) far conoscere all’avversario di quale azione intendeva avvalersi, perché questi potesse decidere, se gli convenisse cedere o affrontare il processo, e sapesse ad ogni modo quale sarebbe stato l’oggetto del contendere. Aveva così luogo una prima editio actionis stragiudiziale. Comparse le parti davanti al magistrato, non essendo possibile un giudizio in contumacia, l’attore doveva procedere ad una seconda editio actionis, che, poiché era richiesta per l’esercizio dell’azione, si denominava postulatio actionis. Il magistrato poteva negare l’azione (denegatio actionis) in base ad un suo apprezzamento discrezionale o assistere le parti nella definizione dei termini della controversia, e, raggiunta l’intesa su questi e sul giudice, accordare la formula.

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Iniziava la formula il nome del giudice: “sia giudice Tizio” (Titius iudex esto). Le parti principali della formula, indicandosi nei suoi vari modelli l’attore come Aulo Agerio e il convenuto come Numerio Negidio, erano: la demonstratio, l’intentio, la adiudicatio e la condemantio (Gai Inst. 4.39-43). La demonstratio era la parte della formula inserita in principio della formula e aveva lo scopo di esporre il fatto dal quale il processo traeva origine. L’intentio era la parte della formula che determinava la pretesa dell’attore. L’adiudicatio serviva a dare al giudice la potestà di assegnare a ciascuna delle parti la proprietà di singole cose o di parti di esse, allorché l’azione era esperita fra coeredi per la divisione del patrimonio ereditario, o fra condomini per la divisione della cosa comune, o fra vicini per il regolamento dei confini. Da ultimo la condemnatio serviva a dare al giudice la potestà di condannare o di assolvere. Non tutte queste parti erano in ogni formula. Mentre però la demonstratio, la iudicatio e la condemnatio non potevano da sole costituire una formula, ben poteva farlo l’intentio come nei giudizi di mero accertamento, per esempio, dello status della persona. Il giudice allora non doveva né condannare né assolvere, ma esprimere soltanto il suo convincimento in merito allo statuto personale di uno o più individui. Formule siffatte si dicevano praeiudiciales, perché importavano una decisione, che influiva su altre eventuali controversie: ad esempio i doveri che Numerio Negidio aveva, come liberto, verso Aulo Agerio. Dove invece il discorso si fa più complicato è nella differenza tra intentio in ius e intentio in factum, intenzione cioè concepita in diritto e intenzione concepita in fatto. Il processo si realizza attraverso formule che vengono predisposte nella fase in iure in concorso con le parti ma ovviamente chi stabilisce la formula è il magistrato. La formula può essere determinata sulla base di circostanze anche nuove e in questo caso il pretore individuando una formula assolutamente nuova adotta un provvedimento che si chiama editto repentino, con il quale decide in quel momento che quella è la formula adatta al caso nuovo che non si è mai prima registrato; però ciò che accade normalmente è che la controversia che è portata all’esame del magistrato è già stata esaminata in passato e quindi vi è già una formula pronta, predisposta che si trova scritta nell’editto annuale pubblicato all’inizio della carica del magistrato. Con l’editto il pretore rende così pubblici i criteri ai quali si atterrà nell’esercizio della giurisdizione. A forza di trasmettersi da un pretore all’altro l’editto tende a stabilizzarsi, ad essere “una sorta di codice”, meglio ancora un repertorio di soluzioni giurisprudenziali che si cristallizzano e ciò perché ogni pretore che entra in carica conferma quanto ha pubblicato il suo predecessore.

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Questo progressivo sedimentarsi di soluzioni giurisprudenziali crea un nuovo ordinamento, un nuovo settore dello ius civile che si chiama ius honorarium, in riferimento all’honor dei magistrati collegato all’esercizio della loro carica. Nell’ambito dello ius civile, che è l’ordinamento della civitas, abbiamo già individuato lo ius gentium, quello che si sviluppa nell’ambito della giurisdizione del pretore peregrino che è parte dello ius civile utilizzabile anche dagli stranieri. All’interno dello ius civile come sottosettore si pone lo ius honorarium che ha come sua fonte l’editto del pretore e che come scrive il giurista Papiniano (II secolo d.C.) è il diritto introdotto dai pretori (ius praetorium) al fine di convalidare, integrare, correggere il ius civile (D. 1.1.7 pr.: “adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia”). Il problema dell’aggiornamento normativo è stato così risolto non attraverso un continuo succedersi di leggi, ma attraverso un continuo aggiornamento delle soluzioni giurisprudenziali e ciò al fine di rendere l’ordinamento costantemente recettivo delle istanze della comunità. Ciò o lo si fa con una continua produzione legislativa o con l’incessante lavoro della giurisprudenza: i Romani hanno fatto questa la seconda scelta. L’editto non era organizzato secondo uno schema logico in modo sistematico, ma secondo i casi trattati, secondo cioè un sistema topico che si organizza in base a quello che accade, alla frequenza delle controversie e alla loro natura. Nell’ambito dell’editto il pretore conosceva formule di antica tradizione, cioè costruite su istituti di origine legislativa, di origine tradizionale, e questo si sostanziava nello ius civile in senso proprio; però poi vi erano formule fondate su soluzioni individuate dai pretori e che non avevano avuto il tempo di cristallizzare: se, pertanto, una domanda era fondata su uno degli istituti tradizionali propri dello ius civile era una formula in ius concepta, cioè concepita in diritto, nei termini propri del diritto stabilizzato, cioè già recepito dall’ordinamento sulla base della legge e della tradizione; se invece la domanda fosse stata fondata su una formula individuata dal pretore relativamente ad un fatto riconosciuto rilevante per il caso specifico era allora una formula concepita in factum. Si vedano i seguenti due casi; primo caso: «Se sembra che Numerio Negidio debba dare ad Aulo Agerio, attore, 10000 sesterzi sulla base di una stipulatio», si tratta di una formula che rinvia espressamente ad contratto verbale proprio dello ius civile ed in questo caso la formula sarà in ius concepta perché la stipulatio è un contratto riconosciuto come fonte di diritto dallo ius civile;

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«Se sembra che il convenuto, Numerio Negidio, debba dare ad Aulo Agerio il valore del piatto d’oro che io il 20 marzo gli ho consegnato perché lo custodisse tu giudice condannalo.»; in questo caso la struttura della formula in factum cambia notevolmente: nel primo caso è sufficiente il rinvio alla stipulatio, nel secondo caso devo descrivere la vicenda. L’actio depositis è un’azione concepita in fatto, nel caso descritto; pertanto stabilire se l’intentio sia in ius o in factum è un dato estremamente importante in quanto fa riferimento al sistema normativo di riferimento: ius civile in senso stretto oppure ius honorarium. Le parti di cui abbiamo sino ad ora parlato erano inserita nella struttura formulare dal pretore su istanza dell’attore; il convenuto poteva difendersi avverso la pretesa attrice chiedendo che il magistrato gli accordasse una eccezione (exceptio) per rendere efficaci disposizioni di legge o aventi valore di legge, o più generalmente per arrestare invece la validità del ius civile. Con essa il convenuto invocava una circostanza riconosciuta dal pretore idonea a togliere efficacia all’azione. Questi strumenti a disposizione del convenuto o erano proposti nell’editto, come quelli che avevano riferimento a di legge o aventi valore di legge (eccezioni civili) e molte accezioni pretorie, o erano accordate di volta in volta dal pretore, a sua discrezione, dopo un sommario esame del caso concreto (eccezioni in fatto). In forma di condizioni negative che escludevano la efficacia della pretesa dell’attore erano inserite nella formula tra l’intentio e la condemnatio, in modo tale che il giudice doveva esaminare non solo il fondamento della eccezione, ma anche se sussistesse la ragione che il convenuto faceva valere. Gaio (Gai Inst. 4.120-123) distingue le eccezioni in peremptoriae e dilatoriae; erano peremptoriae quelle che si potevano opporre sempre e che perciò paralizzavano in perpetuo l’azione; erano dilatoriae quelle che si potevano opporre solo per un certo periodo di tempo, trascorso il quale non avevano più luogo. Concordata fra il pretore e le parti l’impostazione della lite e scelto il giudice, il magistrato attribuiva la formula all’attore che la comunicava al convenuto (edere iudicium), il quale accettava di sottoporre la controversia al giudice nei termini della formula stessa (accipere iudicium). Con tale atto aveva luogo la litis contestatio che prendeva il nome dalla antica usanza di invitare solennemente i presenti a testimoni dell’avvenuta intesa circa i termini del giudizio. L’importanza della litis contestatio era fondamentale. Durante la procedura delle legis actiones aveva avuto già vigore il principio del bis de eadem re ne sit actio, e cioè che ad uno stesso scopo non si potesse compiere due volte una legis actio. Poi, durante la procedura formulare, si applicò la dottrina per cui se si era fatta valere un’actio in personam con intentio in ius concepta, non si poteva agire ipso iure una seconda volta per

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chiedere quello che si era già chiesto, mentre si poteva in tutti gli altri casi, ma allora era possibile paralizzare la nuova azione con l’exceptio rei iudicatae vel in iudicio deductae. Ciò avveniva per i legitima iudicia, che erano quelli costituiti a Roma o dentro un miglio da Roma fra cittadini romani con giudice unico e cittadino romano. Nei iudicia imperio continentia, vale a dire in quelli tenuti oltre il primo miglio da Roma ed in quelli, ove più erano i giudici o il giudice unico era straniero o era straniera una delle parti, la exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae era sempre necessaria, perché l’azione non si estingueva mai ipso iure. La litis contestatio consumava dunque l’azione relativa al rapporto dedotto in giudizio, sostituendo al vincolo giuridico, preesistente tra le parti, un nuovo vincolo, che sorgeva appunto fra esse di continuare il giudizio e di sottostare alla pronuncia del giudice. La litis contestatio aveva poi grande importanza anche da un altro punto di vista e cioè in quanto il giudice si doveva riferire al momento nel quale essa era avvenuta, per decidere circa l’esistenza o meno del diritto dell’attore e per determinare l’ammontare della condanna. L’azione esperita dopo la litis contestatio non poteva più estinguersi per decorso del tempo, rendeva trasmissibili azioni che tali non erano e dava diritto all’attore a tutto ciò che avrebbe potuto conseguire, se il processo fosse stato deciso quando essa era avvenuta, come, per esempio, ai frutti della cosa. Prima di esporre alcune nozioni sul processo apud iudicem è opportuno fare cenno a due istituti che avevano la comune caratteristica di essere atti compiuti dalle parti che potevano evitare la continuazione del procedimento: la confessio in iure e il iusiurandum in iure delatum. La confessio in iure consisteva nel positivo riconoscimento da parte del convenuto della ragione che l’attore faceva valere. Un tale riconoscimento se si riferiva al debito di una somma determinata, esauriva senz’altro la controversia, perché sin dall’età delle XII Tavole (Tab. 3.1) il confessus si aveva per giudicato, mentre negli altri casi l’ufficio del giudice era circoscritto alla valutazione in denaro dell’oggetto del quale si trattava. Lo iusiurandum in iure delatum che aveva salda base nel costume romano era il giuramento che in alcuni casi l’attore deferiva al convenuto circa l’esistenza del credito. Questo doveva o pagare o giurare. Se giurava negando il suo debito la controversia era risolta senz’altro in suo favore, e così anche nel caso, in cui l’attore, cui avesse controdeferito il giuramento, come poteva fare in seguito allo sviluppo dell’istituto, ricusasse di prestarlo; se però l’attore giurava l’esistenza del credito, un tal giuramento a lui deferito valeva da giudicato. Compito del giudice era quello di condannare o di assolvere secondo il proprio convincimento sulle circostanze di fatto esposte nella formula. La

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prova di tali circostanze costituiva pertanto l’obiettivo fondamentale del processo apud iudicem. Essa si poteva dare dalle parti o mediante dichiarazioni di testimoni o mediante produzioni di documenti. Il giudice poteva formare il proprio convincimento liberamente: non vi erano norme che richiedessero ora la prova scritta, ora quella orale, che attribuissero particolare valore alle dichiarazioni di un dato numero di testimoni o di testimoni di un certo tango sociale o che si limitassero in genere la sua libertà di apprezzamento. Non gli competeva tuttavia di istruire a suo modo il processo: in ragione del principio dispositivo – che informava il processo per formulas – egli era un arbitro tra le parti, e pertanto doveva stare alle prove che queste nel loro interesse sottoponevano al suo esame. Nei legitima iudicia il giudice doveva pronunciare la sentenza entro diciotto mesi dalla litis contestatio, mentre i iudicia imperio continentia dovevano essere condotti a termine durante la carica del magistrato, che li aveva costituiti; in caso contrario nell’uno caso come nell’altro il rapporto processuale si estingueva e l’attore non aveva più alcun mezzo di far valere la sua pretesa. Il giudice che attraverso le prove addotte dalle parti non riusciva a formarsi un proprio convincimento poteva giurare non poteva essere da lui risolta e pertanto rinunciare all’incarico e farsi sostituire (iurare sibi non liquere). La pronuncia del giudice (sententia) non era legata ad alcuna forma, per quanto avvenisse di solito alla presenza delle parti. Il suo contenuto costituiva la res iudicata. Se il convenuto era condannato, l’attore aveva la facoltà di procedere esecutivamente contro di lui, mentre, se era stato assolto, poteva opporre all’attore, che tornasse a far valere contro di lui la stessa pretesa, la exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae. Questa che fu dapprima concepita in rapporto all’effetto estintivo della litis contestatio, non tardò a riferirsi pure alla esigenza sociale del rispetto dovuto alle decisioni legalmente emesse. Di seguito verrà fatta una sintesi di alcune delle più comuni tipologie di actiones accolte nell’editto pretorio come ricostruito da Otto Lenel (18491935). Verrà poi approfondito il tenore della condemnatio formulare in rapporto alla struttura della corrispettiva actio. Azioni pretorie. Si trattava di rimedi volti a colmare le lacune di ius civile in quanto tutelavano rapporti non tutelati dal diritto civile. Potevano essere: utiles, con trasposizione di soggetti e in factum. Nonostante sia le azioni utili che quelle in factum avessero la stessa funzione, diversa era la struttura delle rispettive formule. Nell’intentio delle azioni utili e con trasposizione di soggetti si faceva comunque espresso riferimento allo ius civile (tant’é che avevano intentio in ius concepta); si estendevano così azioni civili a situazioni iure civili non contemplate. Nelle azioni in factum si prescindeva invece dal ius

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civile (esse avevano intentio in factum concepta), pertanto si invitava il giudice a condannare o ad assolvere a seconda che verificasse o meno che certi eventi avevano avuto luogo. Con le azioni utili l’estensione della tutela civilistica poteva realizzarsi mediante diverse forme, una fra queste, la fictio. In tali azioni, dette actiones ficticiae, il giudice era invitato a giudicare sulla base di una finzione giuridica come esistesse una circostanza in effetti mancante ma che secondo il ius civile sarebbe stata necessaria per dare luogo ad una situazione riconosciuta e tutelata. Erano ficticiae l’actio Serviana e l’actio Publiciana, di cui di seguito la struttura: C. Aquilius iudex esto. Si quem hominem A. Agerius emit et is ei traditus est anno possedisset, tum si eum hominem de quo agitur ex iure Quiritum eius esse pareret si ea reas arbitrio C. Aquilii iudicis A.Agerio non restituetur, quanti ea res erit tantam pecuniam C. Aquilius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito [Sia giudice G.A. Se, qualora A.A. avesse posseduto per un anno lo schiavo che ha comperato e gli è stato consegnato, risultasse che lo schiavo di cui si tratta è suo in base al diritto dei Quiriti e la cosa non sarà restituita a A.A. in conformità alla valutazione arbitrale del giudice G.A., il giudice G.A. condanni N.N. nei confronti di A.A. per una somma pari al valore che avrà la cosa; se non risulta, lo assolva]. Nelle azioni con trasposizioni di soggetti, al fine di consentire al giudice di condannare il convenuto nonostante il difetto nell’attore di legittimazione attiva, si indicava nell’intentio il nome del soggetto effettivamente legittimato e nella condemnatio il nome della parte che stava effettivamente in giudizio al posto del legittimato. Ad esempio azione con trasposizione di soggetti era l’azione Rutiliana che si dava al bonorum emptor per la tutela di pretese per le quali era rimasto titolare il debitore insolvente. Di seguito la struttura formulare di una azione a trasposizione di soggetti l’actio venditi quod iussu. Actio venditi quod iussu. C. Aquilius iudex esto. Quod iussu N. Negidii A.Agerius Gaio, cum is in potestate N. Negidii esset, togam vendidit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Gaium A. Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius C. Aquilius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato, si non paret absolvito. [Sia giudice G.A. Poiché su autorizzazione di N.N. A.A. ha venduto una toga a Gaio, che era in potestà di N.N. – materia del contendere – con riguardo a tutto ciò che, per tale causa, Gaio deve dare a favore di A.A. secondo buona fede, il giudice G.A. condanni N.N. nei confronti di A.A.; se non risulta lo assolva].

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Altra distinzione era quella tra actiones in rem e actiones in personam. Con le prime si realizzavano diritti reali, con le actiones in personam si realizzavano invece diritti di credito. Nell’intentio delle azioni reali figurava solo il nome dell’attore, quello del convenuto appariva poi nella condemnatio, in quanto la pretesa dell’attore era esperibile verso tutti (erga omnes) perché si affidava al giudice il compito di accertare la spettanza all’attore di un potere assoluto sulla cosa che era oggetto di lite. Nelle azioni in personam la pretesa dell’attore è specifica verso un soggetto determinato, per cui il nome del convenuto figura già nell’intentio oltre che nella condemnatio. Erano azioni in personam la condictio, i giudizi di buona fede e le azioni penali. Actio in rem. Vindicatio rei. C. Aquilius iudex esto. Si paret fundum quo de agitur ex iure Quiritium A. Agerii esse neque is fundus arbitrio C. Aquilii iudicis A. Agerio restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam C. Aqulius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito. [Sia giudice G.A. Se risulta che il fondo di cui si tratta è di A.A. in base al diritto dei Quiriti e il fondo non sarà restituito ad A.A. in conformità alla valutazione arbitrale del giudice G.A., il giudice G.A. condanni N.N. nei confronti di A.A. per una somma pari al valore che avrà la cosa (al momento della sentenza); se non risulta, lo assolva]. Actio in personam. Actio certae pecuniae ex testamento. C. Aquilius iudex esto. Si paret N. Negidium A. Agerio sestertium X milia ex testamento dare oportere, qua de re agitur, tantam pecuniam et alteram tantam C. Aquilius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito. [Sia giudice G.A. Se risulta che N.N. deve dare ad A.A. diecimila sesterzi in base a testamento – materia del contendere – il giudice G.A. condanni N.N. nei confronti di A.A. per quella somma e altrettanto; se non risulta, lo assolva]. Le azioni in rem e le azioni in personam avevano diverso regime processuale. Nel caso di indefensio erano diverse le conseguenze che ne scaturivano. In caso di azioni in personam il pretore poteva dare corso all’esecuzione sulla persona indefensus autorizzando l’attore a trascinare presso di sé l’avversario e tenerlo in stato di assoggettamento oppure dare corso all’esecuzione patrimoniale, missio in bona. Nelle azioni reali il convenuto avrebbe potuto si rem non defendere, ma avrebbe dovuto comunque consentire all’avversario l’esercizio di fatto del diritto che questi reclamava, attraverso la translatio possessionis. Se il convenuto non avesse nemmeno soddisfatto l’onere del trasferimento del possesso si davano sanzioni che erano volte alla translatio possessionis, ossia l’actio ad exhibendum quando si trattava di beni mobili e

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l’interdictum quem fundum quando si trattava di beni immobili. Azioni reali e azioni in personam avevano un diverso regime per quanto riguarda gli effetti preclusivi della litis contestatio. Ed infatti, se una prima volta si era agito con actio in personam, iudicium legitimum la cui formula avesse intentio in ius concepta, la lite non era ripetibile ipso iure, dunque il credito fatto valere si considerava estinto. Ma se uno di tali requisiti non sussisteva, l’azione era ipso iure ripetibile ma il convenuto avrebbe opposto validamente l’execeptio rei iudicatae vel in iudicium deductae. Erano poi mixtae quelle azioni che sono in parte personali e in parte reali, come l’actio familiae (h)erciscundae, che aveva questo tenore: C. Aquilius iudex esto. Quod L. Sempronii heredes de familia erciscunda deque eo quod in ea hereditate ab eorum quo postea quam heres factus sit gestum admissumve sit iudicem sibi dari postulaverunt: quantum adiudicari alteri praestare oportet, eius C. Aquilius iudex alterum alteri condemnato. [Sia giudice G.A. Poiché gli eredi di Lucio Sempronio hanno richiesto che fosse loro dato un giudice per la divisione dell’eredità e per gli atti di amministrazione compiuti e i fatti commessi in relazione a tale eredità da ciascuno di loro dopo che è divenuto erede; il giudice G.A. aggiudichi a Tizio … quanto deve essere aggiudicato. Con riguardo a tutto ciò di cui, per tale causa, l’uno deve rispondere a favore dell’altro, il giudice G.A. condanni l’uno nei confronti dell’altro; se non risulta, lo assolva]. Azioni arbitrarie. Sono dette arbitrarie le azioni la cui formula conteneva una particolare clausola secondo la quale il giudice, verificata l’intentio, prima di procedere alla condanna pecuniaria avrebbe dovuto invitare il convenuto a restituire, e condannarlo solo nel caso di mancata restituzione; in tal caso a stabilire l’importo della condanna pecuniaria sarebbe stato l’attore, sia pure sotto il vincolo di giuramento, (giuramento estimatorio). Ciò comportava un temperamento al principio per cui la condanna doveva sempre essere espressa in denaro. Ad avere la clausola restitutoria erano soltanto le azioni reali, nonché le azioni penali de dolo e metus e l’actio aquae pluviae arcendae. Actio aquae pluviae arcendae. C. Aquilius iudex esto. Si paret aquam pluviam quae, opere facto agro A. Agerii nocet N. Negidium A. Agerio arcere oportere neque ea res arbitrio C. Aquilii iudicis A. Agerio restituetur, quanti ea res erit tantam pecuniam C. Aquilius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito. [Sia giudice G.A. Se risulta che N.N. è obbligato verso A.A. a tenere lontana l’acqua piovana che, data l’opera che è stata costruita, minaccia il fondo di A.A. e la cosa non sarà restituita in conformità alla valutazione arbitrale del giudice G.A., il giudice G.A.

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condanni N.N. nei confronti di A.A. per una somma pari al valore che avrà la cosa; se non risulta, lo assolva.]. Quando la clausola restitutoria mancava il giudice avrebbe dovuto condannare il convenuto anche se questi dopo la litis contestatio avesse soddisfatto le pretese dell’avversario, e ciò in quanto, per la decisione si doveva fare riferimento alla situazione giuridica esistente al tempo della litis contestatio. Per quanto riguarda invece i iudicia bona fidei, in difetto di clausola arbitraria, si giunse ad ammettere che, se dopo la litis contestatio il convenuto avesse adempiuto al suo obbligo, il giudice avrebbe dovuto assolverlo. È incerto se talune azioni che le fonti designano con il termine di in bonum et aequum conceptae, la cui formula concede al giudice la facoltà di fissare l’ammontare della condanna secondo equità (quod aequius melius erit o quanta mob rem aequum videbitur), costituiscano una categoria distinta da quella dei iudicia bonae fidei. Iudicium bonae fidei = Actio tutelae. Inter illum actorem illius filium et illum reum dumtaxat denarium MMD recuperatores sunto. Quo dille illius pupilli tutelam gessit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem illum illi dare facere oportet ex fide bona, eius recuperatores illum illi dumtaxat denarium MMD condemnanto; si non paret absolvunto. [Fra il Tale, figlio di Y, attore, e il Tale, siano recuperatori X, …, Z, con una competenza sino a duemila e cinquecento denari. Poiché il Tale ha gerito la tutela del Tale pupillo – materia del contendere – con riguardo a tutto ciò che, per tale causa, quello deve dare o fare in favore di questo secondo buona fede, i recuperatori condannino il Tale nei confronti dell’altro entro un massimo di duemila e cinquecento denari; se non risulta, lo assolvano]. Iudicium in bonum et aequum conceptum = Actio funeraria. C Aquilius iudex esto. Quod A. Agerius in funus L. Titii sumptum fecit., quantum bonum et aequum C. Aquilio iuidici videbitur N. Negidium eo nomine condemnari, tantam pecuniam C. Aquilius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito.[Sia giudice G.A. Poiché A.A. ha sostenuto delle spese per il funerale di Lucio Tizio, il giudice G.A. condanni N.N. nei confronti di A.A. per una somma di denaro corrispondente a quanto sembrerà buono ed equo al giudice G.A. che, per tale causa, N.N. sia condannato; se non risulta, lo assolva.]. Azioni penali e azioni reipersecutorie. Con le azioni penali, azioni in personam, il privato, vittima di un illecito, perseguiva dall’autore di esso una

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pena, che aveva una funzione affittiva, punitiva, che poteva essere corporale o pecuniaria; se corporale veniva inflitta dalla vittima, se pecuniaria, era percepita dalla vittima stessa. Con le azioni reipersecutorie si perseguiva la res, intesa come ogni interesse patrimoniale che si assumeva leso e nel quale chi agiva pretendeva di essere reintegrato. Essa aveva pertanto una funzione risarcitoria. Poiché nel processo formulare la pena era sempre pecuniaria, la distinzione tra le due azioni può basarsi sul differente regime giuridico. Le azioni penali, al contrario delle azioni reipersecutorie, potevano essere esercitate solo contro l’autore dell’illecito e non anche contro i suoi eredi, erano in sostanza passivamente intrasmissibili. Le azioni penali, inoltre, si cumulavano: se più erano gli autori dell’illecito per cui sorgeva azione penale, questa avrebbe dovuto essere esercitata per l’intero contro ognuno di essi, e l’azione contro uno non precludeva l’azione contro gli altri; si parli in tali ipotesi di azioni solidali cumulative. Sono inoltre cumulabili pena e risarcimento; se nascenti dallo stesso illecito, si possono cumulare l’azione penale e l’azione reipersecutoria, mentre è impossibile cumulare per lo stesso fatto più azioni reipersecutorie. Nelle azioni reipersecutorie, l’interessato che esigeva una volta il risarcimento per l’intero doveva ritenersi soddisfatto. Le azioni penali potevano essere esperite anche in via nossale. Le azioni nossali erano le stesse azioni penali che si esercitavano per gli illeciti commessi dai soggetti a potestà, quindi in sostanza da schiavi e filii familias, contro l’avente potestà, il quale, se soccombente, era posto dinanzi all’alternativa di pagare la pena prevista per l’illecito o dare a nossa il colpevole soggetto a potestà. La noxae dedere si compiva mediante mancipatio, per cui sul servo l’attore avrebbe acquistato il dominium o sul filius il mancipium. Esempio di azione penale è l’actio de pauperie di seguito riportata: Actio de pauperie. C. Aqulius iudex esto. Si paret quadrupedem pauperiem fecisse, qua mob rem N. Negidium A. Agerio aut noxam sarcire aut in noxam dedere oportet, quanti ea res est tantam pecuniam aut noxam dedere C. Aquilius idex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito. [Sia giudice G.A. Se risulta che il quadrupede ha causato un danno, per la qual cosa N.N. deve risarcire il danno a A.A. oppure dare il quadrupede in espiazione, il giudice G.A. condanni N.N. nei confronti di A.A. per la somma pari al valore che ha la cosa oppure a dare in espiazione; se non risulta, lo assolva]. Si deve precisare che la condemnatio doveva precisare l’oggetto eventuale della sentenza di condanna; e i termini della condemnatio formulare erano tali che la sentenza di condanna doveva essere espressa in denaro pure se la

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pretesa dell’attore fosse stata di diversa natura. Questo singolare regime aveva una ragione di ordine tecnico perché l’eventuale procedimento esecutivo contro il convenuto condannato e inadempiente presupponeva, nell’ambito del processo formulare, come già nella legis actio per manus iniectionem, un debito espresso in una somma determinata di denaro. È bene precisare che quando l’intentio era certa e la pretesa attrice espressa in denaro il giudice, verificati i termini della formula, condannava il convenuto alla somma indicata nell’intentio. È il caso della formula della condictio volta a perseguire crediti in denaro, detta anche, nelle sue applicazioni contrattuali, actio certae creditae pecuniae, si trattava di un iudicium strictum, in ius, in personam: Titius iudex esto. Si paret N. Negidium A. Agerio centum dare oportere, iudex N. Negidium A. Agerio centum condemnato. Si non paret absolvito. [= Sia giudice Tizio. Se risulta che N. Negidio è obbligato a dare cento ad A. Agerio, tu giudice condanna N. Negidio a dare cento ad A. Agerio. Se non risulta, assolvilo]. Nelle formule con intentio certa non espressa però in denaro la formula indicava al giudice i criteri da adottare per procedere ad aestimatio di quanto preteso dall’attore in modo da emettere, se del caso, condanna pecuniaria: a volte si invitava il giudice a stimare la res per cui si litigava nel quanti ea res est (in quel che vale al momento della litis contestatio); altre volte nel quanti ea res erit (in quel che verrà al momento della sentenza); altre volte ancora nel quanti ea res fuit (in quel che fu il suo valore in un momento precedente di volta in volta precisato). La condemnatio delle formule con demonstratio e intentio incerta era espressa in maniera generica, e fu interpretata dalla giurisprudenza in modo da attribuire al giudice ampia discrezionalità: il giudice avrebbe dovuto valutare l’id quod actoris interest, l’interesse dell’attore all’adempimento. Ecco alcuni esempi: la formula della rei vindicatio (in ius, in rem e arbitraria): Titius iudex esto. Si paret rem, qua de agitur, ex iure Quiritium A. Agerii esse, neque ea res arbitrio iudicis A. Agerio restituetur, iudex quanti ea res erit, tantam pecuniam N. Negidium A. Agerio condemnato. Si non paret, absolvito [Sia giudice Tizio. Se risulta che la cosa di cui si tratta appartiene ad A. Agerio ex iure Quiritium, e la cosa stessa non verrà restituita ad A. Agerio arbitrio iudicis, tu giudice condannerai N. Negidio in favore di A. Agerio in tanto denaro quanto sarà il valore della cosa. Se non risulta, assolverai (condemnatio al quanti ea res erit)].

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La formula dell’actio empti: Titius iudex esto. Quod A. Agerius de N. Negidio fundum Cornelianum emit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem N. Negidium A. Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato. Si non paret, absolvito [Sia giudice Tizio. Poiché A. Agerio ha comprato da N. Negidio il fondo Corneliano, della qual cosa si tratta, in tutto quel che in dipendenza di ciò N. Negidio è obbligato ex fide bona a dare e fare in favore di A. Agerio, tu giudice condannerai N. Negidio in favore di A. Agerio. Se non risulta assolverai.]. Si tratta di formula (in personam e in ius ex fide bona) con demonstratio (Quod – igitur), intentio incerta e di buona fede, condemnatio espressa semplicemente con eius … condemnato (che la giurisprudenza interpretò nel senso che il giudice dovesse valutare l’id quod actoris interest). Nelle azioni penali la condemnatio era generalmente in un multiplo del pregiudizio subito dall’attore. Così la condemnatio dell’actio furti nec manifestum era nel doppio valore della cosa rubata calcolato con riguardo al tempo in cui era stato commesso il furto. Ecco la formula: C. Aquilius iudex esto. Si paret A.Agerio a N. Negidio opeve consilio N.Negidii furtum factum esse paternae aureae sestertium X milium plurisve qua mob rem N. Negidium pro fure damnum decidere oportet quanti ea res fuit cum furtum factum est tantae pecuniae duplum C. Aquiliua iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito. [Sia giudice G.A. Se risulta che, ai danni di A.A. è stato commesso furto di una coppa d’oro del valore di diecimila sesterzi o superiore, ad opera di N.N. o con l’aiuto o su istigazione di N.N. per la qual cosa N.N. deve pagare la composizione legale in quanto ladro, il giudice G.A. condanno N.N. nei confronti di A.A. per una somma pari al doppio del valore che aveva la cosa al momento in cui è stato commesso il furto; se non risulta, lo assolva]. Il processo esecutivo. Il vincitore della lite qualora non venisse soddisfatto dal soccombente, che in virtù della sentenza era divenuto debitore di una somma di denaro ‘accertata’ giudizialmente, poteva promuovere contro il debitore il processo esecutivo tramite l’actio iudicati, che nel sistema formulare era venuta a sostituire l’antica manus iniectio e che di questa conservava il carattere di esecuzione di natura personale. Il processo esecutivo inteso a premere sulla volontà del soccombente perché adempisse alla sua obbligazioni aveva inizio con la consueta in ius vocatio. Se il convenuto avesse riconosciuto la condanna subita, il magistrato autorizzava il credito a condurlo nel suo carcere privato, ove sarebbe rimasto fino a che avesse con proprio lavoro scontato il debito. Se, al contrario, il

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convenuto negava l’esistenza o la validità del giudicato o il mancato adempimento, il processo aveva il suo consueto sviluppo, ma egli era condannato al doppio, se quel disconoscimento (infitiari) risultava infondato. Accanto all’esecuzione sulla persona del debitore vi era la possibilità della esecuzione sui suoi beni, alla quale il creditore poteva ricorrere a sua discrezione quando, in particolare, l’esecuzione personale era impossibile. Si poteva infatti verificare il caso che il debitore, comparso davanti al magistrato, non si difendesse o sfuggisse alle ricerche del suo creditore o fosse assente o non difeso da alcuno. A tali situazioni provvide il pretore autorizzando la immissione del creditore nei beni del debitore e, dopo l’espletamento di alcune formalità, la loro vendita (bonorum venditio). L’immissione nei beni del debitore era decretata dal magistrato su istanza del creditore e di tale immissione (missio in bona) il richiedente doveva dare pubblica notizia (proscriptio bonorum) perché gli altri creditori potessero unirsi a lui nel procedimento o qualche persona intervenisse a favore del debitore. Trascorsi dalla missio in bona trenta giorni, se il debitore fosse vivente, o quindici giorni, se fosse morto senza eredi, per ordine del pretore i creditori sceglievano tra di loro un magister, che aveva specialmente l’incarico di vendere dopo dieci giorni i beni del debitore vivo o dopo cinque giorni quelli del debitore defunto (Gai Inst. 3.79). I beni venivano aggiudicati in blocco a chi offriva di pagare la più alta percentuale dei crediti e l’acquirente (bonorum emptor) subentrava nei diritti e negli obblighi del debitore. Prima di chiudere il discorso sul processo formulare si dovranno vedere alcune altri strumenti processuali contenuti nell’editto, parliamo di: interdetti (interdicta); stipulazioni pretorie (stipulationes pretoriae); immissioni nel possesso (missiones in possessionem). Spesso vengono definiti mezzi complementari della procedura formulare, ma questa definizione è molto lontana dalla verità: nell’ambito dell’editto sono presenti una serie di strumenti ai quali fa ricorso il pretore a sua discrezione, quindi non è che ci siano mezzi principali e complementari, tutto discende dal potere, imperium, del magistrato giusdicente. Imperium non potestas: dunque quindi potere costituzionale di tipo funzionale che si manifesta nella giurisdizione. Partiamo dagli interdetti (interdicta) che consistevano in ordini che il magistrato emanava su richiesta dell’interessato, tenute vere in ipotesi le circostanze allegate da lui. Gli interdetti possono quindi essere definiti anche provvedimenti di polizia perché le fonti li definiscono magis imperii quam iurisdictionis, ovvero il magistrato che concede il provvedimento controlla che vi sia una parvenza di ragione (fumus boni iuris) e basa il proprio provvedimento non sulla iurisdictio, perché non ha tempo di accertare se i fatti allegati dal-

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l’interessato siano fondati oppure no, ma basa il provvedimento sul proprio imperium. Vi erano poi le immissioni nel possesso (missiones in possessionem) che erano provvedimenti diretti ad autorizzare un soggetto o alla detenzione (piuttosto che il possesso) di tali beni a scopo cautelativo, coercitivo o preparatore di ulteriori misure. Ci si trova in una situazione per cui si svolgerà un processo, ma il magistrato deve tutelare i beni oggetto del futuro giudizio e quindi sempre grazie al suo imperium autorizza una delle parti in lite a detenere il bene che poi sarà oggetto del processo e ciò a fine cautelativo, magari, in modo che il bene non si disperda, non venga occultato, non venga distrutto; si tratta di provvedimenti che hanno alla base una situazione di urgenza. Vi sono infine le stipulazioni pretorie (stipulationes praetoriae) suscettibili di venire promosse non solo dai pretori ma anche dagli edili curuli e dai governatori provinciali, cioè da coloro che hanno la iurisdictio: consistevano nell’imporre ad un soggetto di obbligarsi mediante un contratto verbale (stipulatio) a versare ad un altro soggetto una certa somma di denaro o a tenere verso di lui un comportamento determinato, soprattutto a titolo di garanzia in occasione di un processo. Si ponga attenzione al seguente caso: un soggetto occupa a titolo di possesso un piano di una domus a più livelli; dal piano superiore a quello nel quale il soggetto vive nasce una infiltrazione d’acqua. Poiché il responsabile della porzione di immobile dalla quale si origina l’infiltrazione nulla fa per porre rimedio all’inconveniente, il possessore del piano inferiore chiede al pretore un interdetto per rimuovere l’infiltrazione. In sostituzione dell’interdetto che il pretore ritiene ad esempio del tutto inutile per il caso specifico, lo stesso magistrato può costringere, sempre sulla base del proprio imperium, il responsabile della porzione di immobile dalla quale si origina l’infiltrazione a vincolarsi tramite stipulazione a versare a colui che occupa il piano sottostante un’ingente somma di denaro qualora l’infiltrazione non cessi.

6. LE

COGNIZIONI IMPERIALI: IL NUOVO APPARATO ‘STATALE’ DELLA GIUSTIZIA

Come si passa dal modello procedurale formulare a quello della cognitio extra ordinem? Viene indicato come procedura extra ordinem perché si colloca al di fuori dell’ordo iudiciorum privatorum sancito dalla lex Iulia iudiciorum privatorum voluta da Augusto nel 17 a.C. Interessante è il domandarsi perché si parli di cognitiones e non più di iurisdictio. Come abbiamo visto la iurisdictio è l’attività del ius dicere, potere

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del pretore e dei magistrati che hanno giurisdizione e consiste nella potestà di determinare la regola del giudizio quindi tecnicamente dire quale è il diritto applicabile. Le cognitiones sono il prodotto del cambiamento dell’ordinamento costituzionale. Alla fine del I secolo a.C. la costituzione repubblicana subisce una modificazione importantissima, viene creato e introdotto nel sistema costituzionale romano il Principato. Il Principato sostanzialmente è una svolta autoritaria del sistema in cui il potere reale non viene più esercitato dai magistrati ordinari (consoli, pretori, edili, ecc.), dalle assemblee popolari (il comizio centuriato), ma da una persona, il principe (princeps), che formalmente ha poteri costituzionali simili a quelli degli altri magistrati ma che nella realtà questo poteri hanno caratteristiche molto particolari: sono a vita, non sono collegati all’esercizio di una magistratura; è del tutto evidente quindi che il principe è al di sopra delle magistrature repubblicane ed è titolare di un potere sovrano. A questo punto comincia un lento lavoro di eversione della costituzione repubblicana per cui si affiancano agli organi repubblicani funzionari imperiali che esercitavano funzioni delegate dal principe. Si crea una struttura burocratica di dipendenti dal potere imperiale che hanno la funzione dal punto di vista giuridico di mandatari: il principe delega una parte dei suoi poteri ad altri soggetti; così nasce la burocrazia, attraverso questo meccanismo fondato su un contratto privatistico che è il mandato. I funzionari imperiali che sono appunto mandatari del principe godono dal punto di vista sociale di un rilevante prestigio in quanto sono lo specchio dell’unico potere reale, che è quello di Augusto e di chi gli succederà. Così nascono la cognitiones extra ordinem, cioè attraverso la prassi di coinvolgere come giudici di controversie private i funzionari imperiali. E nel fare ciò il funzionario imperiale non dice diritto, la iurisdictio appunto, ma applica regole che vengono da un altro soggetto, dal principe attraverso i suoi atti autoritativi (constitutiones). Si preferisce parlare di cognitiones extra ordinem piuttosto che di cognitio in quanto sotto questa denominazione, cognitio extra ordinem, non vi è un solo procedimento ma ve ne sono tanti che si differenziano a seconda del funzionario imperiale chiamato a giudicare; una cosa è rivolgersi al proconsole d’Asia, una cosa è rivolgersi al prefetto della città. Tante procedure extra ordinem, non una sola dunque, però accomunate da alcune caratteristiche comuni: 1) l’unicità del procedimento. Non vi è più la scansione del processo in due fasi, in iure e apud iudicem. Il processo è unificato per una ragione evidente: non c’è più necessità di una fase in iure in cui il magistrato deve individuare la regola del giudizio; il processo si semplifica e si modernizza al contempo (il nostro processo è modellato su quello delle cognitiones non sul-

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la procedura formulare, tantomeno su quello delle legis actiones). Dunque, la struttura monofasica indica che si tratta di un processo nel quale si fa applicazione di una regola di giudizio che preesiste al giudizio; 2) possibilità di procedere in assenza della parte convenuta (processo in contumacia) la quale non deve più accettare il giudizio; non deve più collaborare a definire la regola del giudizio, ma si limita a subire la cognitio del funzionario imperiale; 3) viene meno il principio dispositivo che informa il processo che si svolge attraverso l’attività posta in essere dalle parti. Le cognitiones extra ordinem sono dominate dall’officium del funzionario imperiale; 4) le sentenze potevano essere emesse in forma specifica, quindi non più soltanto sentenze a condanna pecuniaria, come avveniva nella procedura formulare; 5) nasce l’appello, cioè possibilità di chiedere ad un altro soggetto la revisione del processo di primo grado. Le cognitiones extra ordinem sono caratterizzate da moltissimi gradi di appello, non un solo; sono teoricamente tutti quelli che separano il funzionario che ha emesso la sentenza dall’imperatore. Viene introdotto l’appello perché la burocrazia imperiale è di tipo gerarchico, quindi era lecito rivolgersi al superiore gerarchico di chi ha adottato la sentenza; intorno al principe si verrà creando in tal modo un tribunale imperiale, cui appartennero grandi giuristi, che ebbe una grande funzione di diffusione e omogeneizzazione del diritto romano in chiave universale. Le cognitiones extra ordinem, modificate poi in periodo tardoclassico soprattutto intervenendo sui meccanismi di chiamata in giudizio delle parti, vengono disciplinate normativamente nel Codice Teodosiano e poi nel Codice Giustinianeo. Nella chiamata in giudizio che si attuava mediante litis denuntiatio (uno scritto in cui sommariamente venivano esposte le pretese dell’attore) interveniva un organo pubblico (a differenza che nella in ius vocatio e nel vadimonium). Nel diritto giustinianeo la citazione del convenuto in giudizio viene fatta attraverso un libellus conventionis, questo è un atto scritto in cui sono esposti succintamente l’oggetto delle pretese dell’attore ed il fondamento di esse. L’attore consegna il libellus da lui sottoscritto al magistrato, il quale, delibata sommariamente la pretesa ivi esposta, ne rimette, a mezzo di un funzionario chiamato executor, una copia al convenuto, intimandogli di presentarsi in giudizio in un dato termine. Le indicazioni date dall’attore nel libellus conventionis hanno grande importanza, in quanto è in base ad esse che si determina se vi è pluris petitio processuale. La pluris petitio tempore, cioè la richiesta giudiziale prima del tempo, in cui si è perfezionato il diritto dell’attore, espone quest’ultimo a sanzioni pecuniarie e a dover attendere un

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tempo doppio prima di riproporre l’azione. La pluris petitio re (richiedere una prestazione superiore a quella che realmente spetta) ove commessa dolosamente, può importare la perdita dell’azione. Nel caso di pluris petitio loco e in caso di minus petitio provvede di ufficio il giudice. Il convenuto che non si presentava in udienza dopo esservi stato chiamato era considerato contumace. Il giudizio si sarebbe svolto, come già detto, nonostante l’assenza del convenuto e il giudice avrebbe dovuto comunque valutare per quanto possibile le ragioni dell’assente, sicché era teoricamente possibile che desse torto all’attore. Il magistrato dichiarava la contumacia del convenuto quando questo, malgrado tre intimazioni fatte da un executor al suo domicilio, non aveva potuto esser citato, sia perché assente senza giustificazione e senza alcuno che lo rappresentasse, sia perché si fosse reso intenzionalmente irreperibile, sia quando pur essendo stato citato non si fosse presentato in giudizio. L’attore che entro quattro mesi dalla denuntiatio non compie attività procedurali decade dall’azione, anche se può ottenere una proroga (reparatio temporum).

CAPITOLO TERZO

FORME DI APPARTENENZA Iole Fargnoli SOMMARIO: 1. Res quali oggetto di diritto. – 2. Contrapposizione tra diritti reali e diritti di obbligazione. – 3. Proprietà. – 3.1. Comunione. – 3.2. Estensione della proprietà. – 4. Possesso. – 4.1. Tutela. – 5. Modi di acquisto della proprietà. – 5.1. Modi di acquisto a titolo originario. – 5.1.1. Occupazione e acquisto del tesoro. – 5.1.2. Accessione. – 5.1.3. Specificazione. – 5.1.4. Commistione. – 5.1.5. Acquisto dei frutti. – 5.2. Usucapione. – 6. Modi di acquisto a titolo derivativo. – 6.1. Mancipatio. – 6.2. In iure cessio. – 6.3. Traditio. – 7. Tutela della proprietà. – 7.1. Rei vindicatio. – 7.2. Actio Publiciana ed exceptio rei venditae et traditae. – 7.3. Actio negatoria. – 7.4. Altri rimedi nell’ambito dei rapporti di vicinato. – 8. Diritti reali su cosa altrui. – 8.1. Diritti reali di godimento. – 8.1.1. Servitù prediali. – 8.1.2. Usufrutto. – 8.1.3. Uso e abitazione. – 8.1.4. Superficie. – 8.1.5. Enfiteusi. – 8.2. Diritti reali di garanzia. – 8.2.1. Fiducia cum creditore. – 8.2.2. Pegno e ipoteca. – 8.2.3. Tutela pigneratizia.

1. RES QUALI OGGETTO DI DIRITTO Come sono da attribuire i beni? A chi appartengono? Le soluzioni a questi problemi fondamentali del vivere sociale sono state concepite dai Romani in modo talmente ingegnoso che la relativa disciplina si ritrova oggi, pur con declinazioni in parte diverse, in tutti gli ordinamenti moderni. Per meglio comprendere il contenuto e l’articolazione delle forme di appartenenza conosciute dall’esperienza giuridica romana, è tradizione fare riferimento innanzitutto all’oggetto di tale appartenenza, le cose (res). Il concetto assume nelle fonti un’accezione molto ampia ed è così introdotto da Gaio nel suo manuale istituzionale: «Corporali sono le cose che si possono toccare, come un fondo, uno schiavo, una veste, l’oro, l’argento e altre innumerevoli cose. Incorporali sono quelle che non si possono toccare, quali sono quelle che consistono in un diritto, come l’eredità, l’usufrutto, le obbligazioni in qualsiasi modo contratte» [Corporales hae sunt, quae tangi possunt,

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velut fundus homo vestis aurum argentum et denique aliae res innumerabiles. Incorporales sunt, quae tangi non possunt, qualia sunt ea, quae in iure consistunt, sicut hereditas ususfructus obligationes quoquo modo contracta] (Gai Inst. 2.13-14). Il concetto gaiano di res è talmente ampio da ricomprendere sostanzialmente non solo ciò che noi oggi intendiamo come bene, ma qualsiasi possibile oggetto di diritto e quindi anche l’usufrutto o l’obbligazione, che vengono tuttavia qualificati quali cose incorporali. Cose corporali sono tutte le rimanenti, quelle per cui è possibile un rapporto fisico del soggetto sul bene. All’interno delle res è poi basilare una distinzione sulla base di un diverso criterio, quella tra res mancipi e nec mancipi, elaborata in età arcaica sulla base dell’alto valore delle res mancipi nell’allora economia agricola. Nell’Epitome Ulpiani si evidenzia che: «Tutte le cose sono o res mancipi o res nec mancipi. Tra le res mancipi rientrano i fondi italici e i fondi rustici, come il podere, ma anche quelli urbani, come una casa; parimenti le servitù prediali, come per esempio il diritto di passaggio a piedi e con il bestiame, a piedi, con il bestiame o di fare passare l’acqua. Allo stesso modo rientrano tra le res mancipi gli schiavi e i quadrupedi da tiro e da soma e cioè i buoi, i muli, i cavalli e gli asini; tutte le altre sono res nec mancipi. Gli elefanti e i cammelli, benché siano da tiro o da soma, sono res nec mancipi, perché sono animali selvatici» [Omnes res aut mancipi sunt aut nec mancipi. Mancipi res sunt praedia in Italico solo, tam rustica qualis est fundus, quam urbana, qualis domus; item iura praediorum rusticorum, velut via, iter, actus, aquaeductus; item servi et quadrupedes, quae dorso collove domatur, velut boves, muli, equi, asini; ceterae res nec mancipi sunt. Elefanti et cameli, quamvis collo dorsove domentur, nec mancipi sunt, quoniam bestiarum numero sunt] (Ulp. Ep. 19.1). La categoria delle res mancipi mantiene attualità per secoli se ancora ai tempi di Gaio, nel II sec. d.C. non può essere estesa a ricomprendere elefanti e cammelli che, pur essendo quadrupedi idonei al trasporto, sono ovviamente estranei alla tradizione romana degli animali utilizzati per l’agricoltura. La distinzione è centrale nelle dinamiche del trasferimento della proprietà a titolo derivativo. Le res mancipi non possono essere trasferite se non con i modi solenni e formali di trasferimento della proprietà e cioè la mancipatio e la in iure cessio, mentre solo per le res nec mancipi è ammesso un trasferimento informale e flessibile quale la traditio. Altre classificazioni delle res hanno minore impatto sul piano pratico, come la distinzione tra res divini iuris e humani iuris, che rileva sotto il profilo della circolazione dei beni, soprattutto perché le prime ne sono sempre sottratte a differenza delle seconde che si distinguono a loro volta in res privatae e publicae. Quest’ultima bipartizione è quella che ha fondato la distinzione fondamentale in quasi tutti gli ordinamenti moderni tra diritto privato

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e diritto pubblico. Le res publicae sono le cose appartenenti al popolo, destinate all’uso collettivo e amministrate dagli organi di governo con finalità di interesse pubblico, quali strade, teatri e acquedotti. Da queste si differenziano però le cose illimitatamente a disposizione di tutti, come l’aria, l’acqua piovana e il mare, che sono diversamente denominate da alcuni giuristi come res communes omnium. Le res privatae sono, invece, le cose che appartengono a soggetti privati e che entrano a fare parte del loro patrimonio. Per quanto riguarda la distinzione tra beni mobili e immobili, così importante nel diritto vigente, essa è elaborata nell’esperienza giuridica romana, ma ha rilevanza solo nell’ambito di determinati istituti come l’usucapione, che prevede un termine diverso per i fondi rispetto agli altri beni, e il pegno, che ebbe riconoscimento giuridico con riferimento alle cose mobili. La bipartizione tra cose fungibili e non fungibili ha importanti effetti pratici, allora come oggi, in rapporto a certi istituti, come il mutuo, che può avere a oggetto solo res quae pondere numero mensura consistunt. Rilevante nella prassi è anche la differenziazione tra cose consumabili e inconsumabili, di cui solo le seconde sono per esempio di regola destinate ad essere oggetto di un contratto di comodato.

2. CONTRAPPOSIZIONE TRA DIRITTI REALI E DIRITTI DI OBBLIGAZIONE Per risolvere i problemi dell’attribuzione dei beni e della loro appartenenza, i Romani hanno configurato diritti tutelati da un’azione reale, esperibile nei confronti di chiunque. Sono i diritti che rientrano oggi nella categoria dei diritti reali, contrapposta alla categoria dei diritti di obbligazione. Nella prospettiva della tutela di questi diritti è Gaio nel suo manuale a introdurre la distinzione tra azione personale e azione reale, che corrisponde a quella moderna tra diritti di obbligazione e diritti reali: «È personale l’azione con cui agiamo contro qualcuno che ci è obbligato per contratto o per delitto, ossia quando pretendiamo ‘doversi dare fare effettuare una prestazione’. È reale l’azione quando pretendiamo che una cosa corporale sia nostra, o che ci competa qualcosa per diritto, come di uso o di usufrutto, di passare in proprio e con animali, o di condurre acqua, o di costruire edifici più alti, o di veduta; o quando l’azione dell’avversario contrapposto è la negatoria» [In personam actio est, qua agimus cum aliquo, qui nobis vel ex contractu vel ex delicto obligatus est, id est cum intendimus DARE FACERE PRAESTARE OPORTERE. In rem actio est, cum aut corporalem rem intendimus nostram esse, aut ius aliquod nobis conpetere, velut utendi aut utendi fruendi, eundi agendi aquamve ducendi vel altius tollendi prospi-ciendive; aut cum actio ex diverso adversario est negativa] (Gai Inst. 4.2-3).

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Tramite la distinzione dei rispettivi mezzi di tutela (actio in personam e actio in rem) il giurista illustra come il diritto tutelato da un’actio in personam implichi per un soggetto passivo l’obbligo (oportere) di cooperazione per la realizzazione dell’interesse di un soggetto attivo. Invece, nei diritti tutelati da un’actio in rem, il soggetto passivo è tenuto a un non facere e solo nel momento in cui si verifichi la violazione di tale dovere giuridico di astensione, l’autore della violazione è costretto a svolgere suo malgrado un’attività per ricostituire la situazione quale si trovava anteriormente alla trasgressione. Con tale azione non si invoca l’esistenza di un dovere giuridico altrui, ma si afferma semplicemente l’appartenenza a sé della cosa o il proprio diritto di fare con essa una determinata utilizzazione esclusiva. Ciò è evidente nella formula processuale dell’actio in rem: non si fa menzione del soggetto passivo contro cui l’azione è diretta, destinatario dell’azione è sì il soggetto convenuto, ma questi viene definitivamente individuato solo dopo che il giudice abbia accertato la sopravvenuta incompatibilità tra l’obbligo di astensione imposto dal diritto reale e il comportamento posto in atto dal convenuto. Ne deriva dunque che il titolare del diritto reale ha un potere sulla cosa a prescindere da altri soggetti, un rapporto diretto con la res, da cui deriva la denominazione ‘actio in rem’ e quella oggi dell’intera categoria, vista nella prospettiva di diritto sostanziale, come ‘diritti reali’.

3. PROPRIETÀ Il diritto reale per eccellenza, conosciuto come diritto di proprietà, corrisponde ad un potere pressoché onnicomprensivo sulla cosa. Comporta per il titolare il pieno godimento della stessa con la pretesa, al contempo, che altri riconoscano l’esclusività di tale godimento. Un tentativo di definire che cosa significhi ‘meum est’ è fatto dal giurista Celso in un passo tramandatoci nel Digesto: «È mio ciò che rimane nel mio patrimonio e che ho diritto di rivendicare» [Meum est, quod ex re mea superest, cuius vindicandi ius habeo] (D. 6.1.49.1 [Celsus 18 dig.]). L’appartenenza di una cosa è spiegata dal giurista nella prospettiva processuale come legittimazione a esperire l’azione di rivendica e cioè come diritto a fare valere in giudizio la propria signoria assoluta sul bene con l’esclusione di qualsiasi terzo. Come accade anche nelle definizioni codicistiche degli ordinamenti moderni, il più importante dei diritti reali viene quindi identificato dal giurista romano da un punto di vista negativo come obbligo per i terzi di astenersi da ingerenze sulla cosa oggetto di proprietà altrui piuttosto che, dal punto di vista positivo, con l’enumerazione delle facoltà spettanti al proprietario.

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L’elementare ‘meum est’ risulta elaborato concettualmente nell’esperienza giuridica romana e si concreta nella previsione di tre diverse forme di appartenenza. La più antica e più accentuata dal punto di vista dei contenuti è quella riconosciuta dal ius civile, il dominium ex iure Quiritium o proprietà civile. È riservato ai cittadini romani e può avere ad oggetto solo beni mobili o beni immobili situati sul suolo italico. A tale forma di appartenenza si affianca con il tempo l’in bonis habere o proprietà pretoria. Gaio introduce l’argomento con la menzione della sua origine successiva al dominium ex iure Quiritium: «Una volta anche il popolo romano seguiva questo criterio: ognuno infatti o era proprietario per diritto dei Quiriti o non lo si considerava proprietario. Ma poi la proprietà ammise una distinzione, per cui uno può essere proprietario per diritto dei Quiriti e un altro per avere la cosa nei propri beni (in bonis)» [Quo iure etiam populus Romanus olim utebatur: aut enim ex iure Quiritium unusquisque dominus erat, aut non intellegebatur dominus. sed postea divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure Quiritium dominus, alius in bonis habere] (Gai Inst. 2.40). Il giurista distingue la proprietà del ius civile dalla proprietà pretoria, quella introdotta successivamente dal pretore come nuova forma di appartenenza. Si trova in tale situazione degna di tutela chi abbia conseguito il possesso di una res mancipi senza l’osservanza delle forme necessarie al trasferimento o chi abbia acquistato dal non proprietario. Sui beni immobili situati sul suolo provinciale, su cui è escluso per i privati il dominium ex iure Quiritium, è riconosciuta la possessio vel ususfructus o proprietà provinciale. Tale terza forma di appartenenza riguarda un territorio che, essendo situato nelle province e quindi in zone di occupazione militare, consente ai titolari di godere del fondo come fossero proprietari o usufruttuari, anche con la possibilità di alienare il diritto o trasmetterlo agli eredi, ma esso rimane del popolo (nel caso di provinciae populi) o dell’imperatore (nel caso di provinciae Caesaris). Pertanto, a differenza di quanto accade per il dominium ex iure Quiritium e ovviamente, di conseguenza, per l’in bonis habere, il titolare della proprietà provinciale è obbligato a versare periodicamente un’imposta, denominata stipendium per le province del popolo e tributum per quelle imperiali.

3.1. Comunione Il concorso di più soggetti nell’appartenenza di una cosa viene ammesso e qualificato come communio. La comunione può costituirsi su iniziativa dei soggetti che vi partecipano, come accade ad esempio se i beni vengono conferiti da più persone per costituire una società (comunione volontaria), oppure in via di fatto ed a prescindere dalla volontà dei comunisti, come acca-

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de nel caso del lascito in eredità a più coeredi che si trovano comproprietari della stessa cosa (comunione necessaria). I Romani conoscono due regimi di comunione, il consortium ercto non cito e la communio pro indiviso. Il consortium ercto non cito si costituisce tra i fratelli sui beni del paterfamilias defunto con la conseguenza che ognuno dei consorti ha la disponibilità piena in concorrenza con il corrispondente diritto pieno degli altri comunisti. Per esempio, ogni consorte può validamente disporre della cosa comune, salvo il diritto di veto (ius prohibendi) degli altri. Dalla communio pro indiviso deriva invece la comunione che ha trovato maggiore accoglimento negli ordinamenti moderni, per cui ogni comproprietario è titolare di una quota ed esercita il diritto sulla propria parte ideale nei limiti della compatibilità con i diritti degli altri. Per esempio, il comproprietario può disporre della propria quota, ma non dell’intera cosa, salvo nel caso in cui gli altri comproprietari dispongano della rispettiva quota nello stesso senso, come in caso di alienazione, costituzione di usufrutto o manomissione. La comunione può estinguersi per volontà dei comproprietari tramite l’esperimento di un’azione, il iudicium communi dividundo, che consente di convertire la quota del bene comune in un dominium autonomo su quella parte oppure permette al comproprietario di conseguire un corrispondente in denaro nell’ipotesi in cui la cosa sia materialmente indivisibile e debba essere assegnata ad uno solo.

3.2. Estensione della proprietà Il dominium si estende, allora come oggi, non solo alla cosa, ma anche ai suoi frutti e alle sue pertinenze. Frutto è tutto ciò che costituisce reddito della cosa e quindi indica sia le parti staccate della cosa (frutti naturali) sia ciò che proviene dall’impiego o dalla sua gestione economica, come gli interessi di un capitale o il lavoro di uno schiavo (frutti civili). Significativa sui frutti naturali è la testimonianza di Gaio: «Tra i frutti del bestiame rientra anche il feto, come il latte, il pelame e la lana […]» [In pecudum fructu etiam fetus est sicut lac et pilus et lana (…)] (D. 22.1.28 pr. [Gai 2 res cott.]). Il proprietario per esempio della pecora risulta proprietario a titolo originario anche dell’agnello che nasce dalla pecora stessa. Al proprietario appartiene anche ciò che gli serve da mezzo per l’adempimento della funzione economico-sociale della cosa, le pertinenze. Il concetto viene elaborato dai giuristi a partire dagli instrumenta fundi e cioè attrezzi, animali o schiavi destinati all’agricoltura, che, se pattuiti in caso di alienazione, vengono trasferiti come pertinenza del fondo stesso.

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4. POSSESSO L’ordinamento giuridico tutela non solo il titolare del diritto reale, ma anche chi ha semplicemente un potere di fatto sul bene: il possessore. La difesa della proprietà è infatti così centrale per i Romani che ad essere tutelata è anche la sua proiezione nella realtà dei fatti, a prescindere dalla titolarità del diritto reale. La tutela di tale situazione di fatto è ancora oggi la soluzione elementare per la conservazione della pace sociale e la via per disincentivare sovvertimenti, dato che la disponibilità di un dato bene fa presumere una condizione legittimamente acquisita. Possessio è la disponibilità di fatto su una cosa, accompagnata dall’intenzione di tenerla come propria. Soltanto la compresenza dell’elemento oggettivo (corpore possidere) e di quello soggettivo (animus possidendi) configura una situazione come possesso. Il proprietario, che ha il diritto assoluto di godere e di disporre del bene proprio, può coincidere con il possessore, ma il possesso può aversi anche in capo a chi non è proprietario. La diversità rispetto alla proprietà è evidente nel pensiero del giurista Ulpiano in un passo del Digesto: «La differenza tra proprietà e possesso consiste nel fatto che la proprietà continua a spettare a colui che non vuole essere proprietario, mentre il possesso viene meno, non appena quello decida di non volere possedere. Se qualcuno consegna la cosa mediante traditio con l’idea che gli venga restituita cessa di possedere» [Differentia inter dominium et possessionem haec est, quod dominium nihilo minus eius manet, qui dominus esse non vult, possessio autem recedit, ut quisque constituit nolle possidere. Si quis igitur ea mente possessionem tradidit, ut postea ei restituatur, desinit possidere] (D. 41.2.17.1 [Ulp. 76 ad ed.]). Per essere possessore, come evidenzia il giurista, non è sufficiente l’effettiva disponibilità della cosa, ma è necessaria anche l’intenzione di continuare a tenerla per sé nell’esclusivo o predominante interesse proprio e senza altrui interferenza. Un importante effetto della possessio civilis è la possibilità di maturare l’usucapione. Il possessore che esercita il potere sulla cosa in base ad una iusta causa possessionis (p.es. compravendita, donazione, acquisto ereditario), in presenza degli altri requisiti necessari, può usucapire la cosa, diventandone proprietario. Il possesso è da distinguere dalla semplice detenzione (possessio naturalis), in cui si ha l’elemento oggettivo (corpore possidere), ma manca quello soggettivo (animus possidendi), perché chi detiene lo fa per conto altrui. Si acquisisce la detenzione di regola per effetto di un contratto che obbliga a restituire la cosa all’altra parte (di deposito, comodato, locazione) oppure in forza di un diritto reale su cosa altrui, come l’usufruttuario che detiene la cosa per conto del dominus.

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Diversa è la possessio ad interdicta che, nonostante la mancanza dell’animus possidendi, viene equiparata al possesso dal punto di vista della tutela. Si tratta di tre casi che fanno eccezione alla necessarietà congiunta della disponibilità di fatto della cosa e dell’intenzione di tenerla come propria. Si trovano in questa situazione di possesso e non di detenzione: 1) il creditore pignoratizio che ha presso di sé la cosa, perché il debitore gliel’ha consegnata in garanzia; 2) il sequestratario, cui la cosa oggetto di lite è stata consegnata dai contendenti perché la renda a chi risulterà vincitore; 3) il precarista, che su sua richiesta ha ottenuto provvisoriamente la cosa e ne può godere, ma dovrà restituirla a qualunque richiesta del concedente. Per particolari vicende storiche di tali tre istituti, questi soggetti sono tutelati tramite gli interdetti come se fossero possessori civili.

4.1. Tutela La tutela del possesso è assicurata tramite rimedi dedicati, gli interdetti (interdicta), volti essenzialmente a stabilire a quale dei due contendenti sia da riconoscere il potere interinale sulla cosa fino alla decisione sulla spettanza della proprietà. Da tale efficace difesa è peraltro escluso chi abbia ottenuto la disponibilità della cosa in malafede, come il ladro o il rapinatore, nonostante costoro dispongano materialmente del bene e abbiano anche l’intenzione di goderne con esclusione di altri, proprietario incluso. Tra le varie distinzioni degli interdetti possessori quella più rilevante è tra interdetti proibitori e restitutori. Proibitori sono quelli volti a tutelare il possessore da turbative o molestie; con essi il pretore vieta all’autore della turbativa di disturbare colui che attualmente dispone del potere sulla cosa. Esempi paradigmatici ne sono l’interdetto uti possidetis per i beni immobili e l’interdetto utrubi per quelli mobili. Gli interdetti restitutori vengono invece concessi in caso di spoglio: chi abbia perso il possesso li richiede al fine di recuperare la cosa. Particolarmente diffusi sono l’interdictum unde vi e l’interdictum de vi armata. Il primo difende il possessore di un immobile che ne sia stato spogliato contro la sua volontà, ma senza l’impiego di armi. Colui che possiede nec vi nec clam nec precario può richiederlo entro un anno dallo spoglio per ottenere la reintegrazione del possesso. L’interdictum de vi armata presuppone invece una violenza a mano armata e, alla luce della maggiore gravità della condotta, viene concesso senza limiti di tempo, anche qualora il possesso di chi subisce la violenza sia iniustus.

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Tra gli interdetti che tutelano il possessore, si distingue per efficacia e latitudine dell’ambito applicativo l’interdictum quod vi aut clam, ossia un provvedimento esperibile in ogni caso in cui venga intrapresa un’opera all’insaputa dell’interessato (clam) o contro il suo divieto (vi). Il pretore ordina all’intimato di restituire o di ripristinare la situazione precedente all’opera intrapresa illegittimamente.

5. MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETÀ La proprietà non può costituirsi se non nel momento in cui si verifichi uno dei fatti considerati dall’ordinamento giuridico in grado di creare tale diritto oppure di trasmetterlo. Nell’ambito dei modi di acquisto della proprietà si distinguono quelli a titolo originario, quando il diritto viene creato ex novo sulla cosa, senza che vi sia alcun collegamento immediato con un precedente diritto altrui, e quelli a titolo derivativo, quando il diritto, derivato dal rapporto del precedente titolare sulla cosa stessa, viene trasmesso.

5.1. Modi di acquisto a titolo originario L’acquisto è originario quando prescinde dalla presenza di un precedente diritto: il titolo non deriva da una altra posizione giuridica, ma ne prescinde. I modi tipici ammessi per l’acquisto della proprietà sono stati elaborati dall’esperienza giuridica romana e si ritrovano oggi pressoché in tutti gli ordinamenti moderni. 5.1.1. Occupazione e acquisto del tesoro Il più caratteristico dei modi di acquisto della proprietà a titolo originario è l’occupazione, possibile sia su beni mobili sia su beni immobili. L’occupatio consiste nell’elementare impossessamento di una res nullius (una cosa che non appartiene a nessuno, come pesci o animali che vengono cacciati) o di una res derelicta (una cosa abbandonata dal precedente proprietario). La cosa smarrita, a differenza della cosa abbandonata, non può essere oggetto di occupatio, perché continua a essere in proprietà di chi non la trova più. Purché appunto la cosa sia abbandonata o non appartenga a nessuno, l’occupazione prescinde dallo stato soggettivo del soggetto occupante, che diventa proprietario sulla semplice base dell’impossessamento. Se si è persa ogni traccia di danaro o cose preziose, si ha un particolare caso di occupazione, l’acquisto del tesoro. La soluzione prevalsa, con alterne vicende, a partire dall’imperatore Adriano, è che il tesoro ritrovato su un

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fondo proprio, ovvero sacro o religioso, divenga proprietà del ritrovatore per l’intero; mentre, se trovato casualmente su fondo altrui, spetti per metà al ritrovatore e per l’altra metà al proprietario del fondo; se ritrovato su fondo pubblico spetti invece per metà al ritrovatore e per l’altra metà al fisco. 5.1.2. Accessione Altro modo di acquisto della proprietà a titolo originario, attestato nelle fonti romane, è l’accessione, sebbene questo termine sia di età successiva. L’accessione si verifica nei vari casi in cui si abbia unificazione tra due cose appartenenti a soggetti differenti. Il principio è emblematicamente formulato nel brocardo ‘superficies solo cedit’ (la superficie cede al suolo) che ricorre spesso nelle fonti. Il criterio è quello per cui il proprietario della cosa principale, cioè dotata di maggiore importanza o autonomia, acquista la proprietà della cosa accessoria (o meno autonoma) all’atto dell’unificazione, come accade nel caso in cui viene costruito qualcosa sul suolo. Sulla base delle fonti è possibile invero distinguere tre tipi di accessione: 1) accessione di cosa mobile ad altra cosa mobile, come la ferruminatio, cioè l’unione di due pezzi di uno stesso metallo per costruire, ad esempio, una statua, la scriptura e la pictura; 2) accessione di mobile ad immobile, come la semina (satio) e l’edificazione (inaedificatio), in cui il proprietario dell’immobile diventa proprietario di quanto vi viene seminato o costruito con materiale altrui; 3) accessione di immobile a immobile, che si verifica per esempio con gli incrementi fluviali, come l’alluvione (alluvio) o la formazione di un’isola nel fiume (insula in flumine nata). 5.1.3. Specificazione La proprietà si può acquistare anche per specificazione e cioè tramite la trasformazione di una materia in una nuova cosa, come per esempio il vino dall’uva, il vaso dall’oro, l’abito dalla lana. Quando l’autore della specificazione è persona diversa dal proprietario della materia prima e non ha prestato la sua opera per conto di quest’ultimo, bensì di propria iniziativa, si pone il problema dell’appartenenza della nuova cosa all’uno o all’altro o a entrambi. Sulla soluzione da adottare in merito all’appartenenza della nuova cosa nasce un’accesa controversia tra le due scuole di pensiero di età augustea, i Sabiniani e i Proculiani, e non si risolve, nonostante un tentativo di compromesso, per tutta l’epoca classica. Per i Sabiniani la nuova cosa appartiene al proprietario della materia, come

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emerge da: «Sabino e Cassio ritengono equo che il proprietario del materiale sia anche il proprietario dell’oggetto che è prodotto da esso, perché senza il materiale non può essere realizzato alcun prodotto: come se, per esempio, dal tuo oro, argento o rame io produco un vaso o dal tuo legname una nave, un armadio o una poltrona o dalla tua lana un abito, dal tuo vino e miele il vino mielato […]» [Sabinus et Cassius magis naturalem rationem efficere putant, ut qui materiae dominus fuerit, idem eius quoque, quod ex eadem materia factum sit dominus esset, quia sine materia nulla species effici possit: veluti si ex auro vel argento vel aere aliquod fecero, vel ex tabulis tuis navem aut armarium aut subsellia fecero, vel ex lana tua vestimentum, vel ex vino et melle tuo mulsum (…)] (D. 41.1.7.7 [Gai 2 res. cott.]). I Proculiani, al contrario, ritenendo estinta la materia col nascere della nuova cosa, ritengono questa in proprietà dello specificatore, come si desume da: «Se qualcuno ha realizzato un qualche prodotto da materiale altrui, Nerva e Proculo ritengono che lo specificatore diventi il proprietario, perché il risultato del suo lavoro in precedenza non apparteneva a nessuno» [Cum quis ex aliena materia speciem aliquam suo nomine fecerit, Nerva et Proculus putant hunc dominum esse qui fecerit, quia quod factum est, antea nullius fuerat (…)] (D. 41.1.7.7 [Gai 2 rer. cott.]). È il giurista Paolo a individuare una soluzione intermedia che si affianca alle altre due senza diventare quella necessariamente adottata nella casistica della prassi, ma che prevale in età giustinianea. Se la trasformazione della materia in una nuova specie è reversibile, l’oggetto resta del proprietario della materia prima, mentre va allo specificatore nell’ipotesi di irreversibilità della trasformazione stessa: «Per quanto riguarda tutti i prodotti che non possono essere ricostituiti nella stessa specie, bisogna dire che, se la sostanza rimane ma la specie è stata accidentalmente cambiata in qualche modo, per esempio se hai prodotto una statua con il mio minerale o una coppa con il mio argento, io rimango il suo proprietario» [In omnibus, quae ad eandem speciem reverti non possunt, dicendum est, si materia manente species dumtaxat forte mutata sit, veluti si meo aere statuam aut argento Scyphum fecisses, me eorum dominum manere] (D. 41.1.24 [Paul. 14 ad Sab.]). 5.1.4. Commistione Altro modo di acquisto della proprietà a titolo originario è la commistione (o confusione) che si ha quando più quantità di materie suscettibili di essere mescolate (beni fungibili, come grano o olio), appartenenti a proprietari diversi, si fondono in una massa unica senza che sia più possibile distinguerle. La mescolanza irreversibile fa scaturire tra i proprietari delle due quantità un regime di comunione, in cui le quote risultano dall’ammontare dei rispet-

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tivi apporti, salvo che non sia originata una nuova res, nel cui caso si configura la specificazione. Fa eccezione il caso di commistione di denaro in cui non si instaura un regime di comunione, ma è il possessore a diventare proprietario. 5.1.5. Acquisto dei frutti Infine si può acquisire la proprietà sui frutti che, come già visto, spettano al proprietario della cosa madre, al momento della separazione dalla stessa. In caso di usufrutto o di possesso in buona fede dei frutti, l’acquisto della proprietà sugli stessi è, a detrimento del proprietario della cosa madre, dell’usufruttuario o del possessore di buona fede.

5.2. Usucapione Di grande importanza nella prassi tra i modi di acquisto della proprietà nell’esperienza giuridica romana svetta l’usucapione cui non consegue in senso proprio un acquisto a titolo originario, perché l’istituto presuppone l’esistenza di un precedente proprietario. Allo stesso tempo non si tratta neanche di un acquisto a titolo derivativo, perché l’usucapiente non deriva il suo diritto da tale proprietario. A cavallo quindi tra le due categorie e conservatosi in molti ordinamenti moderni, l’usucapione comporta l’acquisto per il possessore della proprietà con perdita per il proprietario del diritto stesso senza che sia previsto nessun obbligo di versare un corrispettivo. Il termine usucapio significa letteralmente ‘acquisto (capio) tramite il possesso (usu)’. Riservato ai cittadini romani, l’istituto persegue lo scopo di fare conseguire certezza giuridica a situazioni inizialmente irregolari, protrattesi per un periodo ragionevolmente lungo, e premiare chi utilizza il bene a scapito di chi non se ne cura. Altro vantaggio che deriva dall’istituto è quello di evitare a chi ha attualmente la signoria sulla res di dovere dimostrare l’esistenza della propria proprietà, esibendo le prove della regolarità del suo acquisto e di quelli dei precedenti titolari, che risalendo molto indietro nel tempo diventano man mano più ardue, per cui si parla di probatio diabolica. Chi ha usucapito la cosa, può semplicemente dimostrare l’avvenuta usucapione. «L’usucapione è l’acquisto della proprietà tramite la continuità del possesso nei tempi stabiliti dalla legge» [Usucapio est adiectio dominii per continuationem possessionis temporis lege definiti] (D. 41.3.3 [Mod. 5 pandect.]), afferma il giurista Modestino. La proprietà si acquista mediante il possesso per un certo periodo continuativo della cosa altrui in presenza, oltre che del possesso, degli ulteriori requisiti elencati nell’esametro medioevale ‘res habilis titulus fides possessio tempus’:

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– res habilis sta ad indicare che la cosa deve essere usucapibile, deponendo chiaramente nel senso che non tutte le cose sono suscettibili di usucapione. Ne sono escluse le res incorporales, le res extra commercium, le cose che sono state oggetto di furto (res furtivae) e quelle prese contro la volontà di chi ne dispone (res vi possessae). L’inusucapibilità di tali beni non si limita al loro primo possessore, ma caratterizza indelebilmente le cose anche nei successivi trasferimenti a diversi soggetti; – titulus (o iusta causa usucapionis) consiste nel rapporto che giustifica il passaggio di proprietà – che tuttavia per una qualche ragione non si è verificato – quale compravendita, permuta, dote o altro; per esempio in caso di compravendita di una cosa da parte di chi non aveva la legittimazione ad alienare, la proprietà non passa, ma la compravendita funge da titulus; – l’usucapiente deve inoltre essere in una condizione di bona fides e cioè essere convinto di non ledere con il suo possesso un diritto altrui. Tale stato soggettivo deve ricorrere nel momento iniziale del periodo in cui si ha il possesso: non rileva di regola il suo successivo venir meno (mala fides superveniens non nocet); – l’ultimo dei cinque requisiti richiesti per l’usucapione è il tempus, il periodo richiesto perché il possessore diventi proprietario. Già le XII tavole prevedono un periodo di due anni per le res soli (le cose del suolo e quindi sostanzialmente gli immobili) e un anno per le ceterae res (tutte le altre cose e quindi sostanzialmente i beni mobili): «La garanzia fornita dall’alienante per l’uso del fondo da parte dell’acquirente è di due anni, per tutte le altre cose di un anno» [Usus auctoritas fundi biennium, ceterarum rerum annus ] (Tab. 6.3). Il versetto decemvirale riporta il differente termine per immobili e altri beni, facendo perno sull’auctoritas che costituisce la garanzia data dall’alienante, in caso di mancipatio, per l’ipotesi in cui qualcun altro rivendichi la cosa. Infatti, dopo rispettivamente un biennio e un anno, tale garanzia non è più dovuta dall’alienante, perché l’acquirente acquisisce la proprietà tramite il possesso, cioè usucapisce la cosa. Sui beni immobili situati nelle province si introduce intorno alla fine del II secolo d.C. una nuova forma di salvaguardia del possesso prolungato, denominata praescriptio longi temporis. Essa, derivante verosimilmente da un istituto noto al mondo greco, è prevista a favore di chi possiede continuativamente per un tempo ben più lungo di quello necessario per usucapire: tramite questo rimedio processuale si può opporre alle rivendicazioni altrui il proprio possesso continuativo. Il periodo è di dieci anni, se il vero proprietario e il possessore risiedono nella stessa località (praesentes) e di venti anni, se i due non risiedono nella stessa località (absentes). In seguito ad un avvicinamento in età tardoantica, i due istituti si fondono in uno solo in età giusti-

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nianea, in cui l’usucapione è riservata alle cose mobili con un termine di tre anni e la praescriptio diventa non più solo un rimedio per opporsi alle pretese altrui sul bene, ma una prescrizione direttamente acquisitiva della proprietà in dieci/venti anni. Giustiniano introduce anche la praescriptio longissimi temporis che prevede termini di trenta/quaranta anni e rende possibile l’acquisto persino in assenza di iusta causa.

6. MODI DI ACQUISTO A TITOLO DERIVATIVO Non ammettendo che il contratto crei diritti reali (come oggi contemplato per esempio nel diritto italiano vigente), il diritto romano ha conosciuto, nel corso della sua evoluzione, tre diversi modi tipici di trasferimento della proprietà.

6.1. Mancipatio Il più antico e solenne atto traslativo è la mancipatio. Gaio descrive le formalità necessarie nel dettaglio: «La mancipatio è una specie di vendita immaginaria; il che è diritto proprio dei cittadini romani; e la cosa si svolge così: con l’impiego di non meno di 5 cittadini puberi, e inoltre di un altro della stessa condizione che sorregga una bilancia di bronzo che si chiama libripens, colui che riceve la proprietà, tenendo del rame dice: ‘io quest’uomo per diritto dei Quiriti dico che è mio e mi sia comprato con questo rame e con questa bilancia di bronzo’; poi, col rame, percuote la bilancia, ed il rame lo dà quasi in funzione del prezzo a colui dal quale riceve in mancipio» [Est autem mancipatio, ut supra quoque diximus, imaginaria quaedam venditio: Quod et ipsum ius proprium civium Romanorum est; eaque res ita agitur: Adhibitis non minus quam quinque testibus civibus Romanis puberibus et praeterea alio eiusdem condicionis, qui libram aeneam teneat, qui appellatur libripens, is, qui mancipio accipit, rem tenens ita dicit: HUNC EGO HOMINEM EX IURE QUIRITIUM MEUM ESSE AIO ISQUE MIHI EMPTUS ESTO HOC AERE AENEAQUE LIBRA; deinde aere percutit libram idque aes dat ei, a quo mancipio accipit, quasi pretii loco] (Gai Inst. 1.119). Il giurista evidenzia innanzitutto che questo atto traslativo è riservato ai cittadini romani e si sofferma sul rituale: oltre all’acquirente e all’alienante, è necessaria la presenza di cinque cittadini puberi che fungono da testimoni e di un soggetto estraneo alla transazione, detto libripens, con la funzione di tenere una bilancia di bronzo, su cui in funzione della moneta – il rituale risale a un’epoca precedente all’introduzione della moneta coniata – doveva essere pesato del rame. Inoltre sono da pronunciare le parole precise che Gaio riporta letteralmente

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e da compiere determinati gesti: l’acquirente percuote la bilancia col rame e lo consegna in funzione del prezzo, mentre l’alienante tace. Solo la combinazione di formula solenne e gestualità in presenza dei testimoni e dell’addetto alla verifica della correttezza del prezzo fa sì che avvenga il trasferimento della proprietà dall’alienante all’acquirente. Nella mancipatio l’alienante presta l’auctoritas, con cui si obbliga a garantire l’acquirente contro le pretese di terzi che rivendichino la cosa, come risulta indirettamente già dal versetto decemvirale 6.3 che fa riferimento all’usucapione come usus auctoritatis. In caso di rivendica del terzo, l’alienante viene condannato con l’actio auctoritatis al doppio del prezzo ricevuto. La mancipatio è riservata al solo trasferimento delle res mancipi e quindi solo delle cose considerate di maggior valore fatte rientrare in tale categoria; se il rituale è compiuto per trasferire res nec mancipi, esso non produce effetto e il passaggio di proprietà da alienante ad acquirente non ha luogo. Questo atto tipico di trasferimento della proprietà, caratterizzato, come visto, da rigido formalismo, non rivela la causa del trapasso di proprietà, adattandosi a essere giustificato da una pluralità di cause e a essere quindi impiegato anche per funzioni diverse dall’atto traslativo: – con la mancipatio si redige anche testamento tramite l’intervento di una persona di fiducia che acquisisce la proprietà delle cose nel patrimonio con l’impegno di eseguire la volontà del testatore (l’alienante) al momento della sua morte con il trasferimento dei beni ai soggetti beneficiari; – la mancipatio può costituire una forma di matrimonio, la coemptio. Con il rituale che la contraddistingue è infatti possibile concludere un matrimonio e fare sì che il marito acquisisca la manus sulla donna; – un altro importante caso di applicazione è l’emancipazione del figlio. Tramite il trasferimento del figlio si estingue la patria potestas del padre e il figlio acquista la capacità giuridica. In concreto si tratta di tre mancipationes seguite per le prime due volte da una manumissio; con la terza mancipatio si perfeziona l’emancipatio, per cui il figlio si libera dalla potestà del padre e diventa sui iuris.

6.2. In iure cessio In alternativa alla mancipatio il trasferimento della proprietà può avvenire con in iure cessio, una cessione in iure che avviene cioè davanti al magistrato. Adatta al passaggio di proprietà sia sulle res mancipi sia sulle res nec mancipi, l’in iure cessio deriva dal rituale della rei vindicatio intentata tramite l’actio in rem. Tra le formalità richieste vi è anche qui, come nella mancipatio, il compimento di determinati gesti e la pronuncia di determinate parole cui deve

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corrispondere il silenzio dell’alienante. Astenendosi infatti dalla contravindicatio che avrebbe l’onere di opporre nel caso in cui venga effettivamente convenuto per la rivendica del bene, l’alienante o cedente vi rinuncia e giustifica così l’acquisto della proprietà in capo alla controparte.

6.3. Traditio Il terzo atto traslativo della proprietà è il più recente dell’esperienza giuridica romana e quello che è confluito in molti ordinamenti moderni: la traditio e cioè l’informale consegna della cosa. Essa mostra la sua modernità non solo nella piena informalità che la caratterizza, ma anche nella sua accessibilità pure ai peregrini; non è quindi riservata, come accade per mancipatio e in iure cessio, ai solo cittadini romani. Gaio la descrive così: «Tra res mancipi e res nec mancipi c’è una grande differenza. Invero le res nec mancipi diventano altrui di pieno diritto con la semplice consegna, purché siano corporali e in quanto tali passibili di consegna. Di conseguenza, se ti avrò consegnato una veste o dell’oro o dell’argento a titolo di vendita, o di donazione, o di qualcos’altro, quella cosa diventa subito tua, purché io ne sia proprietario» [Magna autem differentia est inter mancipi res et nec mancipi. Nam res nec mancipi ipsa traditione pleno iure alterius fiunt, si modo corporales sunt et ob id recipiunt traditionem. Itaque si tibi vestrum vel aurum vel argentum tradidero sive ex venditionis causa sive ex donationis sive quavis alia ex causa, statim tua fit ea res, si modo ego eius dominus sim] (Gai Inst. 2.18-20). La descrizione del giurista comincia nello specificare quale sia la differenza tra le res mancipi e le res nec mancipi: queste ultime diventano altrui di pieno diritto con la semplice consegna, purché siano corporali e in quanto tali passibili appunto di consegna. Il passaggio gaiano esplicita anche i due requisiti imprescindibili, perché un semplice atto di messa a disposizione della cosa – che di per sé potrebbe conferire la semplice detenzione o il possesso senza proprietà – possa fungere da valido trasferimento della proprietà: – è necessaria innanzitutto una specifica causa traditionis e cioè una funzione socio-economica che giustifichi il trasferimento, come accade in caso di vendita o di donazione; a differenza di mancipatio e in iure cessio che sono negozi astratti, la traditio si rivela causale, per cui non può avere diverse funzioni, ma produce effetto solo se giustificata da un titolo valido; – l’altro presupposto è che l’alienante sia proprietario della cosa, cioè sia legittimato a trasferire la proprietà; se invece trasferisce una cosa altrui, la proprietà non passa. La maggiore flessibilità della traditio rispetto agli altri atti traslativi emer-

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ge anche dalla possibilità di surrogarla in tre situazioni tipiche in cui sono ammesse le c.d. traditiones fictae: – il primo atto ritenuto equivalente alla traditio è quello dell’indicazione a distanza della cosa, la c.d. longa manu traditio, in cui il possesso è trasferito tramite l’indicazione della cosa da lontano, a prescindere dalla consegna e sulla base sostanzialmente del mero consenso tra le parti; – il secondo caso è quello, speculare nella denominazione, della brevi manu traditio. La situazione è peraltro diversa: qui a diventare possessore sulla base del mero accordo tra le parti, è chi ha la detenzione della cosa. Così accade se chi ha preso in locazione un bene, decide poi di acquistarne la proprietà: la consegna non è necessaria per una cosa di cui già dispone e il consenso surroga anche in questo caso la traditio, per cui il detentore diventa possessore brevi manu; – figura inversamente reciproca della brevi manu traditio è il constitutum possessorium, in cui sia ha la situazione opposta del possessore che diventa detentore. Si verifica qui, con il mero consenso, la traditio a chi acquista il bene, ma non immediatamente la sua piena disponibilità; ciò si verifica se l’acquirente lascia in un primo momento all’alienante il comodato o il deposito della cosa. Anche in questa particolare situazione il mero accordo tra le parti surroga la traditio.

7. TUTELA DELLA PROPRIETÀ L’effettiva forza del diritto assoluto per eccellenza è la sua tutela.

7.1. Rei vindicatio Al dominus ex iure Quiritium spetta innanzitutto la rei vindicatio, l’azione reale per antonomasia. Può essere esperita contro chiunque (erga omnes) possegga la cosa dal proprietario che abbia perso la materiale disponibilità della stessa. La formula dell’azione è tanto semplice quanto efficace: «Se risulta che il fondo di cui si tratta è di Aulo Agerio in base al diritto dei Quiriti e il fondo non sarà restituito ad Aulo Agerio in conformità alla valutazione arbitrale del giudice Aquilio, il giudice Aquilio condanni Numerio Negidio nei confronti di Aulo Agerio per una somma pari al valore che avrà la cosa; se non risulta lo assolva» [Si paret fundum quo de agitur ex iure Quiritium A. Agerii esse neque is fundus arbitrio C. Aquilii iudicis A. Agerio restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam C. Aquilius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito]. L’attore è tenuto a provare l’esistenza della sua proprietà sulla cosa, dimostrando, per esempio, il precedente tra-

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sferimento della proprietà a titolo derivativo (tramite mancipatio, traditio o in iure cessio) oppure di aver ereditato la cosa oppure di averla acquisita a titolo originario. Nella prassi tale prova può essere così perversamente complessa da essere chiamata probatio diabolica.

7.2. Actio Publiciana ed exceptio rei venditae et traditae Alla tutela del proprietario tramite la rei vindicatio si affianca l’actio Publiciana. Il rimedio è uno degli esempi per eccellenza dell’efficacia dell’intervento pretorio nella materia dei rapporti di appartenenza; esso, insieme all’exceptio rei venditae et traditae, ha consentito la configurazione dell’in bonis habere o proprietà pretoria accanto al dominium ex iure Quiritium. Con tale rimedio il magistrato colma le lacune del trasferimento della proprietà fino a quel momento disciplinato solo dal ius civile. Gaio descrive l’azione che spetta a chi abbia perso il possesso della sua cosa: «Quest’azione viene concessa a colui che non abbia ancora usucapito una cosa che gli è stata consegnata per giusta causa, quando la rivendichi avendone perso il possesso. Infatti, dal momento che non può affermare nell’intentio che è sua in base al diritto dei Quiriti, si finge che abbia usucapito la cosa e perciò formula la sua pretesa quasi che fosse divenuto proprietario in base al diritto dei Quiriti» [Datur autem haec actio ei, qui ex iusta causa traditam sibi rem nondum usucepit eamque amissa possessione petit; nam quia non potest EAM EX IURE QUIRITIUM SUAM ESSE intendere, fingitur rem usucepisse, et ita quasi ex iure Quiritium dominus factus esset, intendit] (Gai Inst. 4.36). L’espediente cui ricorre il pretore per ritenere proprietario chi non è dominus ex iure Quiritium, ma abbia comunque una situazione degna di tutela è una finzione giuridica: nonostante il tempo di un biennio o di un anno rispettivamente per gli immobili e per i mobili non sia ancora trascorso, si fa come se il possessore abbia già usucapito il bene, fingendo il decorso del tempo. L’actio Publiciana è concepita dal pretore per proteggere due situazioni tipiche che costituiscono gli esempi paradigmatici della proprietà pretoria: – quando le res mancipi siano state trasferite non con mancipatio o in iure cessio, ma solo con traditio. Per questa ipotesi l’acquirente, se si trova nella situazione processuale inversa e cioè non è attore, ma è convenuto in giudizio dal dominus ex iure Quiritium con una rivendica, dispone di un’eccezione (exceptio rei venditae et traditae); con tale eccezione può paralizzare la pretesa dell’attore; – in caso di acquisto a non domino cioè dal non proprietario; in questa situazione, tramite l’actio Publiciana, il proprietario pretorio può agire solo contro l’alienante e non contro il proprietario quiritario con cui perderebbe

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il processo, dato che il dominus ex iure Quiritium può opporre una exceptio iusti dominii; contro l’alienante che ha traslato una cosa altrui o contro terzi, l’acquirente può invece esperire l’azione con successo. L’actio Publiciana e l’exceptio rei venditae et traditae trovano applicazione finché non sia effettivamente trascorso il tempo necessario dell’anno o del biennio; se ciò accade, l’accipiente della res mancipi trasferita tramite traditio o della res acquisita a non domino consegue già per il ius civile stesso, con l’usucapione, il dominium della cosa. È allora evidente che la proprietà pretoria che scaturisce da questa tutela rappresenta uno stato transitorio, coincidendo con la fase di intermezzo tra l’acquisto non valido per il ius civile e l’acquisto per usucapione.

7.3. Actio negatoria Altro importante rimedio a tutela della proprietà, ereditato pressoché da tutti gli ordinamenti moderni, è l’actio negatoria che spetta al proprietario contro chiunque altro vanti sulla sua cosa diritti reali parziari e cioè servitù prediali e usufrutto. Con tale azione il proprietario nega la presenza di diritti altrui sulla propria cosa sia mobile sia immobile. Nella prassi si è avuta applicazione di tale rimedio anche in tema di immissioni di fumo, odori, umidità e altro che invadono il fondo altrui, nonostante l’attività esercitata dal vicino sia nell’ambito delle sue facoltà. Nel Digesto è riportato un caso peculiare: «Aristone risponde a Cerellio Vitale di non reputare che egli, dal caseificio, possa con diritto immettere il fumo nell’edificio soprastante, a meno che non sia soggetto ad una servitù a tale effetto: infatti, egli ammette tale servitù» [Aristo Cerellio Vitali respondit non putare se ex taberna casiaria fumum in superiora aedificia iure immitti posse, nisi ei rei servitutem talem admittit] (D. 8.5.8.5 [Ulp. 17 ad ed.]). Nel responso dato dal giurista Aristone ad un certo Cerellio Vitale l’immissione di fumo dal caseificio vicino sul fondo di Cerellio stesso è da ritenersi inammissibile, a meno che il suo fondo sia gravato da una servitù a vantaggio del proprietario del caseificio. A Cerellio Vitale compete dunque l’actio negatoria, con cui può pretendere la libertà del fondo dal gravame e negare l’esistenza della servitù.

7.4. Altri rimedi nell’ambito dei rapporti di vicinato L’esperienza giuridica romana attesta anche altri mezzi di tutela, in particolare nell’ambito delle controversie che scaturiscono nei rapporti di vicinato. L’actio finium regundorum o giudizio di regolazione dei confini permette all’attore di pretendere l’accertamento dei confini della sua proprietà, quan-

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do questi siano contestati dai proprietari dei fondi confinanti. La sua eredità nell’ordinamento italiano vigente conosce lo sdoppiamento in due rimedi: l’azione di determinazione dei confini e l’azione di imposizione dei termini. Con l’actio aquae pluviae arcendae può agire il proprietario del fondo rustico contro il vicino che abbia realizzato sul suo fondo un’opera che modifichi il naturale deflusso dell’acqua piovana con danno sul proprio fondo. Il proprietario del fondo vicino è tenuto a pagare all’attore una somma di denaro determinata dal giudice, qualora non rimetta in pristino la situazione. Pur essendo a tutela del proprietario del fondo, l’azione è in personam e non in rem. La cautio damni infecti consiste in una promessa di pagare del proprietario di un immobile pericolante o di chi abbia compiuto un’opera sul proprio fondo che possa recare danno al vicino. Su impulso del pretore adito dal vicino che teme un danno al proprio fondo, il proprietario è tenuto a prestare la cautio. Solo se il danno si verifica, il promittente è tenuto a pagargli la somma promessa. In caso di rifiuto a prestare la cautio, il pretore immette il vicino nella detenzione dell’immobile tramite una missio in possesionem. Dal rimedio romanistico si è evoluta l’odierna denuncia di danno temuto. L’operis novi nuntiatio costituisce una solenne diffida a desistere da un’attività intrapresa da parte di chi tema che lo stato dei luoghi venga modificato. Se il diffidato non ottempera, il pretore prevede un interdetto demolitorio volto a ripristinare la situazione precedente. La nuntiatio spetta non solo al proprietario del fondo vicino, ma anche a chiunque abbia interesse nel caso in cui l’opera sia costruita sul suolo pubblico. Denominazione, finalità e aspetti del regime si ritrovano oggi nell’odierna denuncia di nuova opera. L’interdictum quod vi aut clam, infine, è un rimedio pretorio già incontrato nella tutela del possesso con la funzione di impedire ogni attività intrapresa contro la volontà del proprietario o possessore o in modo clandestino. L’interdetto tutela la proprietà, anche se il suo ambito di applicazione è molto più ampio, potendo essere accordato anche a chi non ha né proprietà né possesso, ma un mero interesse a che l’attività venga fatta. Un esempio emblematico della sua applicazione si riscontra in un caso descritto da Labeone: «Se qualcuno abbia gettato nel pozzo di un vicino qualcosa in modo che, a causa di ciò, abbia contaminato l’acqua, Labeone dice che egli è tenuto con l’interdetto ‘ciò che con violenza o clandestinamente’: infatti l’acqua viva è considerata una porzione del fondo, come se avesse fatto un’opera nell’acqua» [Is qui in puteum vicini aliquid effuderit, ut hoc facto aquam corrumperet, ait Labeo interdicto quod vi aut clam eum teneri: portio enim agri videtur aqua viva, quemadmodum si quid operis in aqua fecisset] (D. 43.24.11 pr. [Ulp. 71 ad ed.]). Nel responso del giurista risulta evidente che a richiedere l’interdetto quod vi aut clam è legittimato sì il proprietario del fondo contiguo, ma anche chiunque abbia interesse a che l’acqua del pozzo non venga inquinata.

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8. DIRITTI REALI SU COSA ALTRUI Il concorso di più soggetti in una situazione di appartenenza si può avere con la comunione se si tratta di comune appartenenza dello stesso diritto, ma viene concepita dai Romani – con un modello di imperituro successo negli ordinamenti giuridici successivi fino a quelli odierni – anche con una ripartizione delle facoltà spettanti sulla stessa cosa. L’ordinamento romano elabora infatti diritti reali su cosa altrui (c.d. iura in re aliena) che accrescono e migliorano la possibile utilizzazione di una stessa cosa. Diversamente dalla proprietà, tali diritti non sono assoluti, ma a contenuto limitato per cui sono denominati diritti reali parziari o diritti reali minori. Essi hanno infatti ad oggetto non la piena disponibilità della cosa, ma solo una o più facoltà, in quanto si esercitano su una res appartenente ad altri e presuppongono quindi l’esistenza, sulla medesima cosa, di un diritto di proprietà altrui che risulta così gravato e compresso dal diritto reale minore. Quali diritti reali, su modello della proprietà, attribuiscono al soggetto titolare la facoltà di pretendere la non ingerenza nel proprio diritto, protetto da un’azione reale esperibile erga omnes. Tipico dei diritti reali cu cosa altrui è anche la loro aderenza alla cosa: non solo insistono direttamente su di essa, ma permangono anche se varia il soggetto titolare del diritto stesso oppure il soggetto proprietario della cosa gravata. I iura in re aliena possono essere distinti – e continuano ad esserlo negli ordinamenti moderni – a seconda della loro funzione in diritti reali di godimento e in diritti reali di garanzia.

8.1. Diritti reali di godimento Tra i diritti reali di godimento le figure più antiche sono le servitù prediali e l’usufrutto, dal quale derivano uso e abitazione; ad esse si aggiunse poi la superficie e infine, in età tardoantica, l’enfiteusi. 8.1.1. Servitù prediali Le servitù prediali (note come servitutes praediorum o iura praediorum), attestate già nell’età arcaica dell’esperienza giuridica romana e confluite pressoché in tutti gli ordinamenti moderni, consistono in un rapporto di subordinazione di un fondo, detto ‘fondo servente’, rispetto ad un fondo vicino, detto ‘fondo dominante’. Sulla base di questo rapporto il titolare della servitù o proprietario del fondo dominante può esigere dal proprietario del fondo servente un determinato comportamento, esclusivamente di omissione o tolleranza, conferendo così un vantaggio oggettivo al fondo stesso (utili-

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tas). Questo rapporto giuridico di subordinazione è quindi giustificato dall’utilità al fondo dominante e segue il fondo come un suo modo di essere: anche là dove uno o entrambi i proprietari cambino, la servitù continua ad esistere. Oltre alla vicinanza fra i fondi e all’utilità oggettiva del rapporto per il fondo dominante, la giurisprudenza elabora altri principi caratteristici delle servitù prediali: esse riguardano solo fondi appartenenti a proprietari diversi (nemini res sua servit), il rapporto di servitù è indivisibile, il relativo diritto è inalienabile separatamente dal fondo e il proprietario del fondo servente non può essere tenuto ad un facere, ossia ad un’attività positiva in favore del proprietario del fondo dominante. Quest’ultimo principio è esplicitato dal giurista Pomponio: «La natura delle servitù non è che qualcuno faccia qualcosa, come per esempio togliere piante o rendere più amena la veduta o, a tal fine, far dipingere sul suo , ma che sopporti o non faccia qualcosa» [Servitutium non ea natura est, ut aliquid faciat quis, veluti viridia tollat, aut amoeniorem prospectum praestet, aut in hoc ut in suo pingat, sed ut aliquid patiatur aut non faciat] (D. 8.1.15.1 [Pomp. 33 ad Sab.]). Per condotte attive come togliere piante o migliorare la veduta è possibile costituire un rapporto obbligatorio, ma non il diritto reale di servitù, che appunto deve necessariamente avere ad oggetto un non facere o un pati. Le prime servitù riconosciute come tali sono denominate rustiche perché costituite su fondi rustici (fondi destinati alla coltivazione o all’allevamento) e sono soltanto quattro: iter (passaggio a piedi su fondo altrui), actus (passaggio con animali e carri), via (passaggio a piedi e con animali o carri) e aquaeductus (passaggio dell’acqua). Queste sono così preziose da essere state fatte rientrare in età arcaica tra le res mancipi e da necessitare di una mancipatio o in iure cessio per la loro costituzione. Possibile, come modalità di costituzione, è anche la deductio (sottrazione) da una mancipatio o da una in iure cessio: il proprietario trasferisce formalmente la proprietà di uno dei suoi fondi, trattenendo per sé la servitù a vantaggio di quello rimastogli. Col passare del tempo vengono riconosciute anche altre servitù costituite su edifici che si trovano in campagna o in centri abitati, denominate urbane. Queste ultime non prevedono un numero chiuso e consistono, ad esempio, nel diritto di riversare l’acqua piovana dal proprio tetto sul fondo altrui (stillicidi) oppure nel diritto di esigere dal proprietario del fondo servente la non elevazione dell’edificio al di sopra di una certa altezza (altius non tollendi) oppure nel diritto di appoggiare l’edificio a quello contiguo del vicino (oneris ferendi). Possono essere costituite più informalmente con un accordo, anche se formale, noto come pactio et stipulatio. A tutela del titolare della servitù è prevista la vindicatio servitutis o actio confessoria, la cui formula è costruita a modello della rei vindicatio, come ri-

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sulta per le servitù di via, actus e iter: «Se risulta che Aulo Agerio ha diritto di passare e condurre (bestiame) per il fondo di cui si tratta e la cosa non sarà restituita ad Aulo Agerio in conformità alla valutazione arbitrale del giudice Aquilio, il giudice Aquilio condanni Numerio Negidio nei confronti di Aulo Agerio per una somma pari al valore che avrà la cosa; se non risulta, lo assolva» [Si paret A. Agerio ius esse per fundum quo de agitur ire agere neque ea res arbitrio C. Aquilii iudicis A. Agerio restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam C. Aquilius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito]. Esattamente speculare risulta la formula dell’actio negatoria che spetta non già al titolare del diritto reale su cosa altrui, ma al proprietario che voglia negare la sussistenza del diritto reale minore: «Se risulta che Numerio Negidio non ha diritto di passare e condurre (bestiame) per il fondo di cui si tratta contro la volontà di Aulo Agerio e la cosa non sarà restituita ad Aulo Agerio in conformità alla valutazione arbitrale del giudice Aquilio, il giudice Aquilio condanni Numerio Negidio nei confronti di Aulo Agerio per una somma pari al valore che avrà la cosa; se non risulta, lo assolva» [Si paret N. Negidio ius non esse per fundum quo de agitur ire agere invito A. Agerio neque ea res arbitrio C. Aquilii iudicis A. Agerio restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam C. Aquilius iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvito]. Le uniche differenze tra le due formule processuali, altrimenti identiche, sono l’inversione di attore e convenuto – ad agire è nel primo caso il titolare della servitù, nel secondo il proprietario del fondo gravato da servitù – e la presenza di un ‘non’ nella seconda in cui l’attore – il proprietario del fondo gravato da servitù – pretende la libertà del suo fondo e quindi nega l’esistenza della servitù. 8.1.2. Usufrutto Di poco più recente rispetto alla servitù è l’usufrutto. La definizione che ne dà il giurista Paolo è talmente esemplare da essere confluita quasi letteralmente in diversi codici moderni: «L’usufrutto è il diritto di usare delle cose altrui e di percepirne i frutti, facendone salva la sostanza» [Usus fructus est ius alienis rebus utendi fruendi salva rerum substantia] (D. 7.1.1 [Paul. 3 ad Vitell.]). Il diritto dell’usufruttario sulla cosa altrui consiste non solo nel godimento, ma anche nella facoltà di fare propri i frutti della cosa stessa. Unico limite è l’impossibilità per il titolare del diritto reale minore di cambiare la funzione economica della cosa e quindi di trasformare il bene, con l’obbligo di provvedere alla sua conservazione e di apportare le riparazioni, là dove siano necessarie. L’usufruttuario può essere tenuto a prestare una cautio usufructuaria con cui si obbliga a usare la cosa secondo i criteri del buon padre di famiglia e di restituirla alla scadenza del diritto.

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A differenza della servitù, l’usufrutto può essere anche su una cosa mobile, purché sia inconsumabile e fruttifera: a Roma è frequente l’usufrutto su animali da tiro o da soma e sugli schiavi. Con il tempo si introduce una variante, il quasi usufrutto, che ha ad oggetto cose consumabili, anche danaro. In questo caso alla scadenza deve essere restituito il tantumdem eiusdem generis, cioè la stessa quantità, peso o misura della cosa data in usufrutto. Altra importante differenza dalla servitù, illimitata nel tempo, è la durata dell’usufrutto, che non può superare la vita dell’usufruttuario: la sua morte o la sua capitis deminutio estinguono il diritto, che non si trasmette agli eredi. La genesi dell’usufrutto è infatti nell’ambito delle disposizioni testamentarie di chi intende favorire la vedova o il figlio senza reddito o la figlia non sposata con un diritto reale che consenta al proprio caro il sostentamento. Infatti l’usufrutto viene di frequente costituito con legatum per damnationem, oltre che, come è per la servitù, con in iure cessio. Altra modalità possibile è, anche qui analogamente alla servitù, la deductio (sottrazione) da una mancipatio o da una in iure cessio: il proprietario trasferisce formalmente la proprietà del suo fondo, trattenendo per sé l’usufrutto. La difesa giudiziaria dell’usufrutto è analoga a quella delle servitù: la vindicatio ususfructus o actio confessoria spetta all’usufruttuario erga omnes e quindi contro il proprietario e anche contro qualunque terzo. Anche a tale azione, come accade per la servitù, si contrappone dal punto di vista della tecnica formulare l’actio negatoria usufructus, che spetta invece al proprietario che voglia negare l’esistenza di un usufrutto. 8.1.3. Uso e abitazione Diritto analogo all’usufrutto, ma senza la possibilità di percepire i frutti della cosa è l’uso, che è ancora previsto in alcuni codici moderni. Nel Digesto ne troviamo la definizione: «Colui al quale sia stato lasciato l’uso, può usare , ma non può percepirne i frutti» [Cui usus relictus est, uti potest, frui non potest] (D. 7.8.2 pr. [Ulp. 17 ad Sab.]). Dall’impossibilità di percepire i frutti deriva che l’usuario può trarre dalla cosa solo quanto è indispensabile per il sostentamento proprio e della famiglia. Anch’esso è un diritto reale parziario intrasferibile con un regime del tutto simile a quello dell’usufrutto. Analoga all’usufrutto e quindi anche all’uso è l’habitatio, che è il diritto di godere di una casa di abitazione, senza però il diritto di trarne i frutti. Poco diffusa all’epoca, permane anch’essa nella disciplina di diversi codici moderni.

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8.1.4. Superficie Diffusa nella prassi romana è la superficie, nonostante la sua genesi sia stata alquanto difficoltosa, in quanto una sua configurazione stride con il principio di accessione. In forza della regola ‘superficies solo cedit’(la superficie cede al suolo) il proprietario del suolo acquista infatti la proprietà di tutto quanto vi viene costruito sopra, in quanto cosa principale rispetto a quella accessoria. La compresenza di proprietà sul suolo e diritto di un altro soggetto su quanto sopra edificato non è in un primo momento ammessa. È solo con il contratto di locatio conductio che si ammette per esigenze pratiche la disponibilità di una costruzione sul suolo altrui sotto forma di locazione del suolo dietro pagamento del canone. Ciò si configura innanzitutto per costruzioni sul suolo pubblico – per esempio nel caso di costruzione di botteghe (tabernae) che vengono date in concessione dietro il pagamento di un canone –, ma poi si diffonde anche per costruzioni sul suolo privato. Al superficiario vengono riconosciuti alcuni diritti sul piano appunto obbligatorio tramite le azioni che derivano dalla locatio conductio: in caso di vendita della proprietà del suolo, l’acquirente si obbliga verso l’alienante al rispetto della concessione fatta al superficiario per esempio per l’edificio, mentre in caso di cessione del godimento e della disponibilità di quest’ultimo, il superficiario stesso si obbliga nei confronti dell’acquirente al rispetto della concessione da parte del proprietario del suolo. A tutela del superficiario nei confronti dei terzi viene peraltro previsto un interdetto, l’interdictum de superficiebus. Solo in un momento successivo il diritto di superficie viene ammesso dai giuristi romani quale eccezione al principio di accessione e, pur essendo controverso in quale momento accada – se già alla fine dell’età classica o solo successivamente –, viene poi configurato come diritto reale su cosa altrui. Solo allora il superficiario ha piena disponibilità dell’edificio dietro pagamento di un canone periodico, il solarium, al proprietario del suolo nonché facoltà di alienarlo senza bisogno del suo consenso, modificarlo e persino demolirlo. Recepito dagli ordinamenti moderni, il diritto reale di superficie risulta molto diffuso, in alcuni Paesi anche come strumento per controllare in una certa misura il mercato immobiliare tramite il mantenimento nelle mani pubbliche della proprietà dei fondi. 8.1.5. Enfiteusi L’ultimo ad essere riconosciuto quale diritto di godimento su cosa altrui nell’esperienza giuridica romana è l’enfiteusi. Su modello forse dei principi che in età classica regolano l’attribuzione degli agri vectigales, terreni di pro-

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prietà per esempio di municipi e colonie che vengono dati in concessione a privati dietro corrispettivo di un canone annuo (vectigal) e come tali trasmissibili e alienabili a chiunque, l’istituto si configura in età tardoantica sui soli beni immobili. Soprattutto per fare fronte al rischio che i fondi siano lasciati incolti, l’istituto ha avuto grande fortuna soprattutto in età medioevale e moderna, mentre la sua importanza nei tempi recenti è fortemente diminuita. L’enfiteuta può disporre del bene immobile quasi come un proprietario. Infatti può non esistere un limite temporale, visto che il diritto può essere perpetuo. L’enfiteuta può anche trasmettere il bene ai suoi eredi. Dal proprietario si distingue tuttavia per l’obbligo di corrispondere il canone, un corrispettivo periodico invariabile (anche quindi in caso di raccolto scarso) da versare a chi rimane proprietario della cosa.

8.2. Diritti reali di garanzia La cosa di proprietà di un soggetto può essere messa a disposizione non solo per consentirne l’utilizzazione altrui, ma anche a scopo di garantire il soddisfacimento di un credito preesistente. 8.2.1. Fiducia cum creditore Prima che venga concepita la possibilità di costituire un diritto reale con tale funzione di garanzia, tale scopo viene raggiunto nell’esperienza giuridica romana con un trasferimento della proprietà della res tramite una forma applicativa della fiducia. Se la fiducia cum amico prevede il trasferimento di una res mancipi a scopo di deposito o comodato, con la fiducia cum creditore il debitore trasferisce tramite mancipatio o in iure cessio la cosa al fiduciario a scopo di garanzia, obbligandolo a ritrasferirgliela una volta che il debito sia adempiuto. Per costituire una garanzia il debitore è tenuto quindi a rinunciare, almeno provvisoriamente fino al soddisfacimento del credito, alla sua proprietà. 8.2.2. Pegno e ipoteca La costruzione giuridica del pegno come diritto sulla cosa altrui – e superamento della fiducia e quindi del trasferimento della proprietà della cosa a scopo di garanzia – comincia a delinearsi con la fine della Repubblica. È infatti intorno al I sec. a.C. che si concepisce una tutela a prescindere dal trasferimento della proprietà, che rimane invece in capo al debitore. Con l’introduzione dell’actio Serviana, si consente la configurazione per la prima volta del pegno come diritto reale su cosa altrui, consentendosi l’apertura della

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via alla costituzione della categoria moderna dei diritti reali di garanzia. Gaio tenta di individuare l’etimologia del termine ‘pegno’: «La parola pignus deriva da pugno, poiché le cose che si danno in pegno vengono consegnate con la mano. Pertanto sembra anche vero quanto ritengono alcuni e cioè che il pegno viene costituito propriamente su una cosa mobile» [‘Pignus’ appellatum a pugno, quia res, quae pignori dantur, manu traduntur. unde etiam videri potest verum esse, quod quidam putant, pignus proprie rei mobilis constitui] (D. 50.16.238.2 [Gai 6 ad leg. XII Tab.]). Il pegno nasce come dazione della cosa mobile (datio pignoris) al creditore, al fine di assicurare la realizzazione del suo credito, da parte del debitore che ne mantiene la proprietà. Viene peraltro ammessa anche la costituzione di garanzia su una cosa senza il passaggio del possesso della cosa stessa. L’accordo fra debitore e creditore senza la consegna della cosa viene denominato pignus conventum (in luogo della datio pignoris che prevede invece il trasferimento della cosa) e successivamente, con un termine di derivazione greca, hypotheca. Il giurista Ulpiano descrive così, in un passo del Digesto, la differenza fra i due istituti di garanzia: «Propriamente chiamiamo pegno quello che passa al creditore; ipoteca, quando al creditore non passa nemmeno il possesso» [Proprie pignus dicimus, quod ad creditorem transit, hypothecam, cum non transit nec possessio ad creditorem] (D. 13.7.9.2 [Ulp. 28 ad ed.]). L’origine del pignus conventum o hypotheca è verosimilmente nell’ambito di una fattispecie di contratto di affitto per fare fronte all’esigenza che il locatore di un fondo rustico ha di garantirsi il pagamento del canone di affitto da parte del conduttore. A garanzia di tale canone il conduttore attribuisce, mantenendone al contempo il possesso, un diritto di pegno su animali e attrezzi da lui portati sul fondo per servire alle sue necessità (invecta et illata, letteralmente cose condotte e portate dentro). In seguito la costituzione di pegno senza trasferimento della cosa al creditore viene ammessa per qualsiasi oggetto. Il fatto di potersi costituire senza passaggio di possesso contribuisce a rendere l’ipoteca lo strumento tipico per garantire beni immobili e a farne la sua fortuna negli ordinamenti moderni come il tipico diritto reale di garanzia su beni immobili.

8.2.3. Tutela pigneratizia Per la tutela reale del diritto di pegno è deputata, come visto, l’actio Serviana, che spetta al creditore contro chiunque (erga omnes). L’azione nasce verosimilmente, come evoluzione di un primo interdictum Servianum, quale rimedio contro il debitore concesso al creditore per impossessarsi degli invecta et illata dati in garanzia, in caso di inadempimento nella corresponsio-

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ne del canone di affitto. Dall’ambito delle locazioni rustiche l’actio Serviana viene poi estesa a qualsiasi specie di obbligazione con qualsiasi oggetto in caso di pegno. Si applica quindi non solo al pignus conventum, ma anche alla datio pignoris, con la denominazione anche di actio pigneraticia in rem o vindicatio pignoris. Sulla base del suo rapporto diretto sulla cosa, il creditore pignoratizio dispone quindi di un’azione reale per il recupero della stessa. Se possessore della cosa pignorata, in caso di turbativa o spoglio il creditore può ricorrere anche agli interdetti possessori. Il carattere innovativo del pegno emerge non solo dalla sua difesa sul piano reale, ma anche dalla sua parallela tutela obbligatoria, visto che il pegno si costituisce per contratto, da cui derivano obbligazioni a carico del debitore e del creditore: si tratta pertanto di un istituto a cavallo tra i diritti reali e i diritti di obbligazione. Il creditore pignoratizio è difeso solo eventualmente sul piano obbligatorio con un’actio pigneraticia contraria. L’azione gli spetta per chiedere la restituzione di spese che abbia sostenuto a causa della cosa in garanzia o il risarcimento di danni che abbia subito (per esempio, nel caso di pegno di bestiame che abbia richiesto costi di foraggiamento o abbia provocato danni a beni del creditore pignoratizio). Sempre sul piano obbligatorio è al debitore che spetta l’azione principale corrispondente, l’actio pigneraticia in personam directa, in due ipotesi: – in caso di adempimento dell’obbligazione sottostante, il debitore può agire per la restituzione della cosa che il creditore abbia trattenuto; – in caso di mancato adempimento dell’obbligazione sottostante, il debitore può agire per la restituzione della somma residua (superfluum) dal ricavato della vendita forzata del bene su cui il creditore si è soddisfatto. Il superfluum è pertanto la differenza tra la somma ricavata dalla vendita e l’ammontare del debito garantito. La restituzione del residuo è peraltro possibile solo se le parti abbiano previsto, proprio per questa ipotesi del mancato adempimento, un pactum vendendi; se non si sono accordati nel senso della vendita della cosa, il creditore diventa legittimamente proprietario della res, con lo stesso effetto che si aveva in caso dell’antica fiducia a danno del debitore, che perde completamente la cosa. È peraltro con l’imperatore Costantino che il pactum vendendi sostanzialmente si istituzionalizza. Una legge costantiniana proibisce infatti il patto contrario, la lex commissoria, con un divieto che perdura e vige ancora oggi negli ordinamenti moderni. Anche se non esplicitamente pattuito, il creditore è tenuto a vendere il bene, perché creditore e debitore non possono concordare che, in caso di inadempimento dell’obbligazione, il primo possa trattenere l’intera cosa data in garanzia senza obblighi di restituzione al secondo.

CAPITOLO QUARTO

SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE Maurizio d’Orta “Mors omnia solvit”

SOMMARIO: 1. L’acquisto per universitatem. – 1.1. Hereditas – Heres. Bonorum possessio – bonorum possessor. – 2. Delazione della successione. – 3. La «vocatio ex testamento». – 3.1. Vetera testamenta. – 3.1.1. Testamentum calatis comitiis e adrogatio. – 3.1.2. Testamentum in procinctu. – 3.2. Testamentum per aes et libram. – 3.3. Testamentum iure praetorio factum. – 3.4. Testamentum tripertitum. – 3.5. Altre forme di testamento. – 3.6. Testamenti ‘speciali’. – 4. Il regime del testamento. – 5. I «codicilli». – 6. La «vocatio ab intestato» o «vocatio legitima». – 7. La «vocatio contra testamentum». – 8. L’effettuazione della «successio in ius». – 9. Le conseguenze della «successio in ius». – 10. La «successio mortis causa in singulas res». – 10.1. I fedecommessi. – 11. La riforma ‘programmatica’ di Giustiniano. – 12. Donazioni. – 13. Donazioni tra vivi. – 14. Donazioni a causa di morte.

Nel giro di anni, intorno alla metà dello scorso secolo, in cui venivano alla luce studi specialistici su temi di diritto ereditario romano, altra produzione occupava un terreno di confine col giuridico offrendo apporti e conoscenze su quei medesimi temi. Contributi della dottrina sociologico-giuridica prestati a una materia di tradizionale interesse del giurista positivo, e del giurista storico, volti a recuperare la dimensione assiologica del fenomeno ereditario. La vicenda del diritto ereditario romano, i modi di devoluzione mortis causa, denotavano la non omogeneità dei registri successori. Se con la successione ‘testamentaria’ (vocatio ex testamento) sarebbe stata predominante l’esigenza di assicurare perpetuità alla volontà del de cuius; con la successione ‘legittima’ (vocatio ab intestato o legitima) apparivano prevalenti le esigenze di coesione familiare; con la successione necessaria (vocatio contra testamentum) si propendeva per la tutela del diritto dei sui heredes (formale) o dei liberi (sostanziale) a non essere estromessi dal testamento.

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Maurizio d’Orta

Esigenze di fondo non omogenee e sarà pertanto indispensabile richiamare il criterio storico, e il criterio epistemologico, onde riprodurre i percorsi del diritto ereditario romano. Il criterio storico sostiene l’edificio scientifico, l’impianto stesso del diritto successorio, delineandone l’ampiezza diacronica e vi si coordina il criterio epistemologico così da proficuamente pervenire all’essenza del diritto ereditario romano. Il criterio epistemologico dispiega la qualità degli istituti successori, definisce gli sfondi concettuali, delimita gli spazi entro cui quel diritto diacronicamente si svolge. Vi è altro da richiamare e si allude, specificamente, ai caratteri ‘istituzionali’ e ‘drammatici’ del diritto successorio che attengono ai modi di devoluzione mortis causa – testamentario, ab intestato, contra testamentum – ma afferiscono ai linguaggi e alle pratiche utilizzate. La famiglia, il patrimonio, l’autonomia della volontà dei soggetti di diritto individuano i caratteri istituzionali e, quanto ai caratteri drammatici, ineriscono a situazioni trascendenti il piano umano come l’evento naturale della morte, il succedersi delle generazioni. Al di sopra si colloca esponenzialmente la ‘persona’, entità insuperabile per la cultura giuridica romana, restitutiva della dimensione identitaria, valoriale, del soggetto-individuo vivente, di talché, la persona costituisce epicentro semantico di assetti giuridici e di valenze etiche. Tali condizioni, coerenti, si riscontrano nella figura del pater familias investito del ruolo di conduzione e fattore di coesione familiare: intendere il novero dei diritti soggettivi è passare ‘per la porta simbolica della persona’, fissare una soglia identitaria che è propria del pater familias. La famiglia romana costituisce un gruppo sociale forgiato secondo caratteri di appartenenza ‘esclusiva’ serbato «quanto all’organizzazione esteriore […] il suo carattere primitivo» (P. Bonfante, Corso di diritto romano, 1. Diritto di famiglia, rist. della 1a ed., a cura di G. Bonfante, G. Crifò, Milano, 1963, p. 10) sino in avanti, sino al diritto giustinianeo stabilmente fondando «sulla pietra angolare della patria potestas» (P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, tr. it. della 4a ed. francese, Milano, 1909, p. 148); il patrimonio assume rilievo in funzione del tipo di nessi instaurati tra elemento personale e beni; quanto all’autonomia della volontà dei soggetti vi è da rimandare al testamento istituto giuridico che traduce necessità interiori del de cuius e motivi reconditi infissi nell’intimus della persona. L’evento della morte conforta indefettibili ragioni naturali appurato che ogni legame terreno si infrange inesorabilmente – ‘mors omnia solvit’ – e i giuristi romani, trasposta l’analisi dal piano descrittivo a quello valutativo, avvertono come si innervino, intorno al fulcro assiologico di natura e natura-

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lità, esigenze individuali e collettive che esigono forte tutela giuridica. La giurisprudenza – pontificale prima e in seguito laica – si adopera nella prospettiva di rafforzare le risposte del diritto accolto l’assunto che dare un senso al morire è attendere, sì, all’ars moriendi ma avvinta, questa, all’ars vivendi e che restituire un senso al morire avrebbe assicurato perpetuità alla persona. Esaurito il processo di laicizzazione del diritto, agli inizi del II secolo a.C., la giurisprudenza elaborerà nuovi modelli giuridici, istituti e paradigmi intrisi di razionalità, appresterà tipi, avanzerà soluzioni coerenti a un registro laico anteponendo l’aspetto del ‘prendersi cura’ della persona. Senso profondo della interpretatio sarebbe stato di ‘medicare’, sanare la persona dalle tante afflizioni procurate da sentori avvertiti lungo l’arco della vita e, incombendo il tempo della morte, confortare le ultime decisioni, le scelte, confidando in modi giuridici consoni a restituire certezze e a confortare lo scenario in cui cala l’ultimo displacement. Il senso della vita, il rapporto col sacro, si denotano differenti rispetto al prima, d’altronde, se nel profondo antico la ‘potenza’ degli dei era invitta, insormontabile, e il giuridico arcaico si ammantava di ritualismo formale, in prosieguo di tempo, la semantica giuridica potrà fare a meno, anche per la materia successoria, della pervasività del sacro e la persona, affrancata dai sacri vincoli, pienamente esprimerà il ‘potere’ di rivolgersi senza mediazioni agli dei esercitando libero arbitrio. L’azione umana si denota, ora, non già il portato di dichiarazioni meramente enunciative ma di un agire performativo, ovvero, dell’azione come «volontà messa in atto e trasformata in azione [così che] il suo tendere a scopi e fini è la risposta significativa dell’io agli stimoli e alle condizioni del proprio ambiente» (L. von Mises, L’azione umana, sel. an. a cura di G. Vestuti, in Il realismo politico di L. von Mises e F. von Hayek, Milano, 1989, p. 33). Comporre i dati in funzione di stadi e fasi coerenti al processo storico sarebbe stata operazione ineludibile e sono le consapevolezze che avvincono i prudentes convinti che il diritto successorio esprima in pieno il senso della romanità. Un rilievo è da aggiungersi e vale da monito. Da «rischi gravissimi» – avvertiva autorevole dottrina – è necessario si premunisca chi intenda intraprendere un percorso di ricostruzione della successio mortis causa. Rischio insidioso è «scambiare, nella valutazione delle regole proprie dell’istituto progredito, gli elementi che provengono dal costume originario con quelli che sono il risultato del lungo travaglio della giurisprudenza pontificale e laica, soprattutto nei primi secoli della Repubblica» (V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, rist. Napoli, 197614, p. 512). Queste le difficoltà nell’approcciare una materia complessa, permeata da ‘arcana potenza’, e restituirne la prospettiva storica.

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1. L’ACQUISTO PER UNIVERSITATEM 1.1. Hereditas – Heres. Bonorum possessio – bonorum possessor La materia «de hereditatibus et legatis» ricopre cinque, forse sei, dei diciotto libri iuris civilis di Quinto Mucio e apre l’opera civilistica. Medesimo ordine riprodurrà Sesto Pomponio in età antoniniana: i primi dieci libri dell’opera pomponiana di commento a Q. Mucio rispettano lo schema dell’opera civilistica muciana, situata la materia dei testamenti, e dei legati, a esordio della trattazione. Si rinviene un senso in questo inizio e rimanda a un’ascendenza valoriale della vicenda mortis causa intrisa di implicazioni morali oltre che giuridiche. All’esito di lunga elaborazione analitica la giurisprudenza sarebbe pervenuta a una ‘definitio’ dell’hereditas e Gaio, nel medio principato, restituirà l’imprimatur tecnico accreditando il concetto di l’hereditas nel senso di res incorporalis: Gai Inst. 2.14: «Incorporali sono quelle cose che non si possono toccare, quali quelle che si realizzano in un diritto, come l’eredità […]. Né ha rilievo che nell’eredità siano contenute cose corporali […]; incorporale, infatti, è il diritto di successione in sé». Asseriva il giurista che eredità e legato corrispondono a differenti modi della vicenda mortis causa – successione e acquisto derivativo – e se è corretto ritenere che la successione comporti anche un acquisto derivativo non altrettanto vale per l’inverso in quanto non ogni acquisto derivativo determina subingresso nella posizione giuridica del predecessore. Sovviene il criterio di qualità, né potrebbe essere diversamente posto che, in forza del criterio di qualità, il succedere si distingue dal non succedere. Sul legato si avrà modo di tornare. Sufficiente dire, in questa fase, che le fortune del legato risiedono nella predisposizione a produrre effetti che non sarebbe stato possibile conseguire con la successione, d’altronde, il legato modifica le regole dell’ordo successorius e rilevano differenze profonde col testamento. Restituire una definitio di hereditas – si diceva – avrebbe costituito pregevole esito ermeneutico e prodotto di confluenza di culture già nel corso dell’età repubblicana. Rendono testimonianza i ‘Topica’ di Cicerone e la pregevole definizione riportata nei Topica comprova i raccordi di giuridico e letterario avvertendosi l’eco delle tante interlocuzioni culturali:

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Cic., Top. 6.29: «Questo è il precetto degli antichi: “quando avrai prese le qualità che quella cosa che intendi definire ha in comune con altre, occorre proseguire fino al predicato che è assolutamente proprio essa e non trasferibile ad altro soggetto”. Così: “l’eredità è un capitale”; fino a questo punto il predicato non è assolutamente proprio: molti sono infatti i generi di capitale. Aggiungi ciò che segue: “… Che in morte dell’uno ad altri si trasferisce”. Non è ancora definizione: perché in più di un modo si può pervenire alla proprietà dei beni di un defunto senza l’istituto dell’eredità. Aggiungi il solo termine “in forza del diritto”. Già la cosa sembrerà disgiunta da ciò che ad altro è comune, sì che la definizione trova questa enunciazione: “l’eredità è un capitale che in morte di alcuno passa ad altri per diritto”. Né basta; aggiungi “… non per legato né perché ritenuto dal defunto a titolo di possesso”. Compiuto». Il taglio della definitio ciceroniana denunzia il lungo riflettere sulle tematiche ereditarie e l’Arpinate riversa nella definizione di hereditas quanto sedimentato dall’interpretatio pontificale: vengono evocati due responsi emanati da Tiberio Coruncanio, primo pontefice massimo di origini plebee, dei quali uno relativo ai sacra familiari, ovvero, ai culti della famiglia da preservare e la cui tutela, e la continuazione, incombeva sull’erede – Cicerone ricorda nel De legibus che «per i culti uno è il principio, che essi siano perennemente conservati» (Cic., de leg. 2.19.47) – figura nel III secolo a.C. corrispondente, attendibilmente, al figlio in potestate. L’indice di rischio restava sensibilmente elevato, tanto da allarmare i pontefici, ove mancasse l’erede, producendosi un vuoto incolmabile e il massimo pericolo: era in forse la sopravvivenza stessa della familia priva di sacra da tramandare. Così, le escogitazioni pontificali si sarebbero fatte particolarmente sofisticate e si giunse a prevedere, ricorrendo tale congiuntura, che l’onere della continuazione dei sacra dovesse incombere su coloro che acquisivano il patrimonio: sugli adgnati, prima di altri, ai quali la lex XII tabularum attribuiva il diritto di apprendere il patrimonio del pater familias defunto sebbene a questi non si riconoscesse il titolo giuridico di erede. Solo in seguito, gli adgnati verranno ritenuti a tutti gli effetti eredi, posto in evidenza il contenuto economico-patrimoniale dell’eredità – svincolata dal meccanismo tecnico della successione sino a quel momento riferito esclusivamente del suus – aprendosi il varco all’istituzione di erede anche del soggetto estraneo. Quando accada che il giuridico assorbe l’economico finisce che ne reca i segni e questo sarebbe accaduto: i contenuti economici delle vicende giuridiche, disgiunti dalle situazioni personali, avrebbero assunto rilievo con la conseguenza, ampliato il fascio degli heredes, che sarebbe caduta la indefettibile esigenza della preservazione dei culti familiari, e dell’assunzione degli

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oneri connessi e delle obligationes gravanti sul pater familias defunto, solo ed esclusivamente in capo all’erede. Capaci di notevoli intuizioni i pontefici sciolgono un nodo difficile a districarsi e Tiberio Coruncanio emette il celebre editto con cui è disposto, comunque fermo in prima istanza l’obbligo dell’erede se l’erede esista, che siano astretti ai culti familiari coloro i quali ricevevano tanto quanto tutti gli altri eredi: l’hereditas ora è sistema di assetti personali ed economici. Non deve stupire che Cicerone, nel primo secolo a.C., esponga nei Topica una definizione di hereditas evocante antiche suggestioni pontificali richiamata la vexata questio delle persone tenute a provvedere ai culti familiari (Cic., de leg. 2.19.48). Né da meno, che nella definitio ciceroniana, oltre al richiamo dell’editto di Coruncanio, si colgano tracce consistenti dell’elaborazione contestuale di Q. Mucio, maestro della iurisprudentia di fine repubblica, autore di un catalogo di persone tenute ad adempiere alla tutela dei sacra – «qui adstringantur sacris» si legge nel De legibus (Cic., de leg. 2.19.48.) – e si avverte come, nella definitio dei Topica, interpretatio pontificale e interpretatio laica interagiscano. Tradizione e modernità, vecchie e nuove prospettive del diritto, si avvicinano e si distanziano e vi è più di una ragione per cogliere, nella definitio ciceroniana di hereditas, l’epilogo di un processo teorico inerente al sacro, ai nessi di sacro e giuridico, di sacro e sociale. Si trattava di saldare passato e presente del ius – diritto pontificale e diritto civile – riconvertendo utilmente il patrimonio culturale antico: la teorica del De legibus presenta un merito innegabile accreditando un dato, rimasto nascosto nelle pieghe delle riflessioni giurisprudenziali, ed è il deflettere del rilievo autonomo del diritto sacro. Testimone-narrante di tali processi è Cicerone ma occorre rimandare a Q. Mucio per intendere tecniche e modi di composizione del circolo del consenso tra uomini e dei e il maestro repubblicano ricorrerà all’unica soluzione percorribile: assumere nel medesimo disegno ordinativo del ius diritto pontificale e diritto civile come si evince dalla questione – su cui si esprime – dei soggetti «qui adstringantur sacris». Nella fucina del I secolo a.C. germina la raffinata attività analitica di una giurisprudenza che attende al sostanziale perseguendo obiettivi di semplificazione, disciplinamento, razionalizzazione del ius, avvertita l’esigenza di confezionare una gerarchia di contenuti che si denoti valida, sostenibile, per il diritto civile riordinato. In questa cornice si inscrive il prestare cura ai processi informativi decisamente in risalto perché in risalto è la funzione dalla comunicazione giuridica: ha contezza la iurisprudentia, le élites culturali, dell’utilità di implementare percorsi di corretta comunicazione del diritto, di circolarità delle soluzioni giuridiche, indefettibile esigenza al fine di garantire

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la divulgazione dei saperi, del sapere giuridico, apprestata una semantica appropriata. Nella tarda età repubblicana il giurista-interprete si fa comunicatore del diritto. Da un tempo all’altro della storia della civitas si perverrà, allora, a un assetto tecnicamente definito del concetto di hereditas, e di heres, e con Q. Mucio e Cicerone, pecunia indica il patrimonio della persona e sarebbe persino accaduto di confondere – incorrerà in tale confusione l’Arpinate – hereditatis petitio e bonorum possessio. D’altronde, «La definizione, riferita da Cicerone, mostra come sia un residuo di tempi passati la frase heres sacrorum, familiae nominis» (P. Voci, Diritto ereditario romano. 1². Parte generale, Milano, 1967, p. 84) –, definizione che rispecchia tutte le difficoltà incontrate dall’intellettualità romana e dalla giurisprudenza, ancora alla fine della repubblica, circa la prospettazione del sacro e l’incidenza del sacro nel diritto ereditario. La cautela è d’obbligo ma sembra potersi con attendibilità affermare che l’erede – erede testamentario o ab intestato, familiare o estraneo – «non raccoglie soltanto le cose corporali comprese nel patrimonio del defunto, anzi si sostituisce a lui in tutti i rapporti giuridici attivamente o passivamente trasmissibili, e non solo nei patrimoniali ma anche in altri che col patrimonio non hanno niente a che fare, come lo ius sepulchri e la prosecuzione dei culti (sacra) familiari» (V. Arangio-Ruiz, Istituzioni, cit., p. 510 s.). Il rigoroso concetto della successio, come elaborato dalla iursprudentia, consente pertanto di argomentare, trasposta l’analisi sul piano della responsabilità giuridica dell’erede, che tale «responsabilità dell’erede verso i creditori dell’eredità non sia limitata all’attivo del patrimonio, cioè ch’egli non possa liberarsene abbandonando i beni: anzi si opera fra i patrimoni dell’ereditando e dell’erede una confusione così inscindibile che questo è tenuto a rispondere anche ultra vires hereditatis. Il solo rimedio che il diritto civile possa offrire al malcapitato è la rinuncia all’eredità; ma questa rinuncia, che è lecita ai parenti collaterali ed agli estranei istituiti nel testamento, non è lecita agli eredi familiari, discendenti e schiavi dell’ereditando, investiti dell’eredità indissolubilmente fin dal giorno della sua morte» (V. Arangio-Ruiz, Istituzioni, cit., p. 510). Una materia di tanto elevato lignaggio, quale è la successio mortis causa, avrebbe richiesto il continuo costante apporto della interpretatio e la giurisprudenza non si sarebbe sottratta insistendo nell’indagare, approfondire, escogitare rimedi e soluzioni, modulare le analisi alle congiunture, pervenire ad esiti sofisticati. Nel II secolo d.C., in età antoniniana, il giurista Gaio occupandosi del regime dell’adquisitio delle cose per universitatem (Gai Inst. 2.97) riferirà – per un momento accantonando il fenomeno dell’acquisizione delle singulae res

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mediante l’istituto del legato – che acquisire le cose nella totalità equivaleva ad acquisire l’insieme delle cose, o anche, ad acquisire le cose che compongono l’insieme non già trasmesse direttamente ma singolarmente. Illustrando i modi di trasferimento delle res il giurista chiarisce che assumono portata differente (Gai Inst. 2.98): trattasi della successione ereditaria, della bonorum possessio, della bonorum venditio – regolate le ultime due dal ius honorarium –, dell’adoptio, della conventio in manum. La successione ereditaria da Gaio viene allocata a inizio della trattazione della bonorum possessio e della bonorum venditio. Ancora in età antoniniana Sesto Pomponio esporrà la materia asserendo che l’insieme di beni e relazioni compresi nella successione risponde a precipue valenze di ordine giuridico, non già materiale, valendo a prescindere dal rilievo economico ed anche quando non vi fosse un attivo ereditario: hereditas è insieme di cose corporali e incorporali (corpora e iura), di crediti e debiti, o di soli debiti, o con prevalenza di debiti e, in questo caso, trattasi di hereditas damnosa (D. 50.16.119 [Pomponius 3 ad Q. Mucium]). Superate residue indecisioni, rimosse superstiti incoerenze, l’interpretatio inclina per l’ottimizzazione dei concetti e dire ius successionis, nel medio principato, avrebbe significato dire hereditas e l’hereditas costituiva universitas e res incorporalis, pertanto, rappresentava un’entità distinta e separata – ricorda Gaio che il carattere incorporale dell’hereditas non risulta alterato dalla circostanza che contenga res corporales (Gai Inst. 2.14) – rispetto agli stessi elementi che la componevano. Visione che si inscrive nell’unico coerente scenario e Sesto Cecilio Africano, anche questi giurista di età antoniniana, potrà argomentare – contestualizzando a un registro concettuale che rimandava alla bonorum possessio e alle innovazioni apportate dal pretore al sistema successorio civilistico – dunque, rapportando al contesto in cui hereditas e bonorum possesio costituivano assetti allo stesso modo afferenti al regime ereditario costituito di beni e relazioni – che il termine ‘beni’, come il termine ‘eredità’, designa una determinata universitas e un diritto di successione e non già le singole cose (D. 50.16.208 [Afranius 3 quaest.]). Ne conseguiva che, così come era denominato heres il successore universale mortis causa, era denominata hereditas l’oggetto della successione, universitas, assetto complessivo e unitario. Ancora nel corso del II secolo d.C. il giurista Salvio Giuliano tornerà a riflettere sulle tematiche mortis causa argomentando puntualmente che hereditas è insieme delle relazioni giuridiche afferenti al defunto e universum ius è insieme di beni e relazioni giuridiche (D. 50.17.62 [Iulianus 6 dig.]). A partire da Giuliano il filo ininterrotto della interpretatio condurrà a Ulpiano, in età severiana, che avrebbe confortato sostanzialmente gli assunti pregressi ribadendo che sia da ascrivere all’erede lo stesso potere, e lo stesso

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diritto, che furono del defunto (D. 50.17.59 [Ulpianus 3 disp.]) radicato il fermo concetto che subentrare in universum ius avrebbe comportato l’acquisizione delle relazioni giuridiche, e della potestas, che vi ineriscono. Ulpiano eleva il livello dell’analisi coordinando nei profili tecnici al piano sostanziale il piano processuale: argomenta il giurista che se l’erede si determini a reclamare l’eredità esperendo l’azione civilistica – hereditatis petitio – deve ritenersi che abbia agito per l’intero e la formula processuale concessa dal pretore assumerà tale tenore: «… se risulta che l’eredità di Lucio Titio (sc: il defunto) sia di Aulo Agerio (sc: l’attore che rivendica la qualità di erede), secondo il diritto dei Quiriti» così procedendosi all’accertamento dell’intero. Il linguaggio utilizzato assume ora prevalenti tonalità processuali e rimanda al sintagma corpora-actiones (D. 37.1.3 pr. [Ulpianus 39 ad ed.]): «… nella giurisprudenza si è ritenuto che tutte le cose ereditarie formino oggetto di questo giudizio, sive iura sive corpora sint: siano esse incorporali o materiali» (D. 5.3.18.2 [Ulpianus 15 ad ed.]). La progressione analitica su questi temi avrebbe comportato affinamenti dell’idea di ‘universitas’ e di ‘adquirere per universitatem’ e ancora argomenterà Paolo, in età severiana, che tali espressioni assumono valenza onnicomprensiva significante il totum, l’insieme delle cose, ma anche sono indicative delle singole cose che compongono il totum: in concreto, dal defunto al successore si trasmettono anche le cose dell’universitas che per natura, e caratteri, in linea di principio sarebbero intrasferibili. Assunto scolpito dall’interpretatio paolina: «Determinate cose, che non possono essere alienate da sole, passano a mezzo dell’universitas, come all’erede passa il fondo dotale e la cosa per cui egli non ha il commercium: infatti, benché questa non possa essergli data in legato, tuttavia, se egli è stato istituito erede, ne diventa padrone» (D. 41.1.62 [Paulus 2 manual]) e gli esempi prodotti appaiono in tutto pertinenti come per la vicenda del fondo dotale in quanto questo non è passibile di trasferimento se non al marito, pure, se compreso nell’universitas, acquisito dall’erede con i caratteri di cosa non commerciabile per l’erede stesso e da lui non acquisibile, tuttavia, ex converso, la stessa res – il fondo dotale – verrebbe da questi acquisita nel caso venga trasmessa nel coacervo dell’universitas. Nella eventualità che l’assegnazione dei beni del defunto si effettuasse a seguito di decisione del pretore tutelata dai rimedi del ius honorarium ricorreva la bonorum possessio a beneficio dei soggetti che, aequitate cogente, fossero equiparati agli eredi (‘loco heredum’). E il pretore si avvaleva di una tecnica giuridica finemente elaborata concedendo, nel corso del II secolo, la protezione interdittale nei confronti dei terzi e prospettando la maturazione dell’usucapione in funzione al possesso delle sole res corporales. Orbene, non rivestiva il bonorum possessor, in linea di principio, la qualità di erede in quanto era sfornito delle azioni speciali di cui beneficiava il defunto trasmes-

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se all’erede civile nella qualità di proprietario delle res hereditariae e di creditore dei crediti ereditari; né cadeva nella sua sfera di titolarità l’azione in rem generalis – petitio hereditatis – strettamente inerente alla qualità di erede. Solo in seguito, nel corso del I secolo a.C., elaborati processi analogici, il pretore accorderà al bonorum possessor le medesime azioni spettanti all’erede previo l’inserimento nella formula dell’inciso ‘si heres esset’ asserendo legittima l’equiparazione delle qualitates di heres e di bonorum possessor. In sostanza, in conseguenza delle varie possibili congiunture – esistenza o mancanza del testamento, individuazione della forma che il testamento riveste e delle disposizioni in esso contenute –, verranno approntate tre modalità di bonorum possessio (= b.p.) che sopravviveranno nel medio principato, pervenendosi alla redazione definitiva dell’editto del pretore ad opera del giurista Salvio Giuliano su commissione del principe Adriano, smussate le incompatibilità tra ius civile e ius honorarium e cristallizzandosi la ferma separazione tra hereditas e bonorum possessio. In età postclassica la bonorum possessio troverà allocazione nei libri 37-38 del Digesto, mentre l’hereditas nei libri 28-29, sebbene già prima di Giustiniano la distinzione era dispersa e si procedesse a una fusione dei regimi dell’hereditas e della bonorum possessio sino a concepire la nuova ‘hereditas’ la cui regolamentazione attingerà, ma divergerà, dai precedenti assetti classici. Tornando alle tre modalità di bonorum possessio: a) b.p. secundum tabulas risulta conforme al testamento se questo adempi al minimo di formalità richieste dal pretore; b) b.p. sine tabulis sovviene mancando il testamento ora apprestando il pretore un ordine di successione intestata, in parte afferente al diritto civile, in parte estranea al diritto civile (normalmente la maggior parte); c) b.p. contra tabulas contro il testamento (= successione necessaria formale e materiale). All’esito della concettualizzazione delle modalità di bonorum possessio potrà contemplarsi, un’organica tutela giurisdizionale del successor nei confronti di chiunque ledesse la sua situazione giuridica. Tutela approntata lungo due direttive: a) tutelando i singoli diritti conseguiti per successione mediante l’esperimento di consoni meccanismi processuali, dunque, rimandando all’esercizio della rei vindicatio, dell’actio ex stipulatu e di ogni altra azione esperibile; b) asserendo la propria qualifica di heres e chiedendo la riparazione della violazione subita, pertanto, all’heres civilistico spettava quale strumento di tutela giudiziaria del suo titolo di erede un’actio in rem denominata ‘hereditatis petitio’; al bonorum possessor pretorio veniva concesso a tutela del suo

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potere giuridico di acquisire i beni del defunto – altresì, di acquistarli anche nei confronti dell’heres civilistico con la bonorum possessio cum re – l’‘interdictum quorum bonorum’. L’hereditatis petitio, petizione di eredità, era un’azione spettante all’heres promossa contro quanti, ignorandone la qualifica, ne pregiudicassero i diritti assoluti o relativi da lui acquisiti a seguito della successio. Accertata previamente la qualifica di erede questi agiva per la condanna di chi si fosse impossessato delle res hereditariae, o di chi si fosse sottratto all’adempimento di una obligatio parte dell’attivo successorio. Si trattava di actio in rem e il convenuto si considerava possessor, di talché, se venisse accertato l’indebito possesso delle res hereditariae, questi era condannato al loro controvalore al momento della emanazione della sentenza – «quanti ea res erit» – sebbene gli fosse comunque concesso di ripristinare lo status quo ante, ottenendo l’assoluzione, se adempisse in modo spontaneo e preventivo, in quanto l’heredis petitio era iudicium arbitrarium. La qualifica di legittimato passivo costituiva vexata quaestio e, in età classica, si riconoscerà tale qualifica sia al «possessor pro herede» che possedesse i beni ereditari in buona o mala fede rivendicando la qualifica di heres, sia al «possessor pro possessore» che possedesse senza reclamare la qualifica di heres in forza di mero «animus sibi habendi». E i giuristi classici, invocato il Sc. Iuventianum (129 d.C.), pervennero al convincimento che potesse convenirsi in giudizio anche chi, attualmente, non possedesse le res hereditariae per averle prima alienate. Ulteriore estensione del trattamento giuridico incorse con il ius novum imperiale ammettendosi che l’azione inerisse anche al possessore fittizio – «finctus possessor» – che avesse brigato per sbarazzarsi delle res hereditariae – «qui dolo desiit possidere», o che avesse suggestionato facendo credere di essere egli il possessor delle res hereditariae – «qui dolo liti se optulit» – così da consentire al legittimo possessore di acquistarle per usucapione. Solo al tempo di Giustiniano si introdusse, accanto alla hereditatis petitio, una «hereditatis petitio possessoria». Quanto all’«interdictum quorum bonorum», del tipo adipiscenade possessionis, consentiva al bonorum possessor di conseguire la restituzione delle res hereditariae a lui attribuite dal pretore da chi ne fosse attualmente in possesso e anche, eventualmente, nei confronti dell’heres trattandosi di bonorum possessio cum re. Il regime dell’interdetto comportava che, allo stesso modo in cui il possessore cedeva di fronte a chi provasse di essere proprietario, così il bonorum possessor cedeva di fronte a chi provasse la qualità di erede a meno che, in continenti, egli divenisse titolare dei beni per usucapione: si giungerà a teorizzare, in questo caso, la sussistenza della c.d. ‘bonorum possessio sine re’ anche se, a ben vedere, ricorrendo tale eventualità, il bonorum possessor in effetto aveva la res ma appariva come se non l’avesse dal momen-

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to che l’erede poteva riprenderla esercitando la petitio hereditatis. Orbene, sarebbe accaduto che il pretore, a seguito di pressione sociale orientata decisamente a revisionare talune rigidità del regime civilistico, al declinare della repubblica concedesse la bonorum possessio e non già per la ragione di essere il richiedente il probabile erede, ma fondando su ulteriori requisiti, analoghi a quelli sussistenti per la vocazione ereditaria, più conformi agli orientamenti dei tempi. Ovverossia, quando rilevassero difetti di forma, come richiesta per il testamento civile, inficianti il documento in cui il richiedente veniva istituito erede e, viceversa, ricorrendo altri requisiti d forma: si pensi alle ipotesi per le quali il richiedente fosse un figlio emancipato dell’ereditando, o quando la richiedente fosse la moglie superstite non in manu, persone escluse dalla successione intestata. Tale applicazione nuova della bonorum possessio in un primo tempo fu sine re e l’investito conservava le res solo ed esclusivamente se l’erede non si presentasse o si presentasse dopo il compimento dell’usucapione; di poi, subentrò, rispetto a queste situazioni, la bonorum possessio cum re esaudendo l’esigenza avvertita che i soggetti a cui si attribuisse la bonorum possessio la conservassero comunque se fossero, o meno, eredi civilistici. Di tal guisa, insorto un contrasto giudiziale tra l’heres e il bonorum possessor sarebbe stato il primo ora a dover cedere e accade ricorrendo il bonorum possessor alla denegatio della heredis petitio; diversamente, se risulterà necessaria un’indagine giudiziale da parte del giudice, allora, verrà accordata l’hereditatis petitio contro il bonorum possessor salvo quest’ultimo a ottenere l’assoluzione facendo inserire nella formula l’exceptio doli. Infine, il pretore estenderà a favore e contro il bonorum possessor, utilizzando formulae ficticiae, i rimedi giudiziari ordinariamente spettanti all’erede, e contro l’erede, nei confronti dei terzi si tratti di creditori, debitori dell’eredità, legatari, o altri soggetti coinvolti. Altresì, va aggiunto che il pretore intese concedere il rimedio giudiziale, nella forma dell’‘interdictum quod legatorum’ (a carattere restitutorio) al bonorum possessor nei confronti del legatario ma la concessione avrebbe preventivamente richiesto la prestazione per garanzia di una cautio legatorum servandorum causa: di talché, l’interdetto quod legatorum, concesso a beneficio del bonorum possessor, ricorreva quando risultasse inammissibile accedere all’interdictum quorum bonorum al fine di recuperare le res hereditariae da parte di chi se ne fosse impadronito indebitamente accampando le ragioni del legatario e pretendendo di possedere pro legato. Le maggiori difficoltà che vi si annettono ineriscono agli effetti prodotti restando insoluto il vero nodo, ovverossia, se l’interdetto dovesse ritenersi rimedio provvisorio da non respingersi quando si fornisse la prova del diritto in modo da non risultare il diritto pregiudicato, o rimedio definitivo, fondato su una prova completa, non comportando dubbi di sorta né, tanto meno, il rischio di instaurare un nuovo giudizio tra le parti.

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2. DELAZIONE DELLA SUCCESSIONE L’effettuazione della successio in ius comportava l’acquisizione del patrimonio del de cuius da parte del successor, esito che supponeva il verificarsi dell’evento naturale della morte dell’antecessor. Poteva ben accadere, sovente, che tale automatismo richiedesse ulteriori fatti o atti giuridici non realizzandosi ipso iure e in via simultanea, di talché, normalmente, si svolgeva in due differenti fasi: l’apertura della successione e l’acquisizione del patrimonio successorio da parte del chiamato (‘vocatus’). L’apertura della successione coincideva con la morte del de cuius, contestualizzata a tale evento, e traduceva l’astratta chiamata (‘vocatio ad hereditatem’, ‘vocatio ad bona’) in una concreta delazione (‘delatio’), ovvero, nella effettiva messa a disposizione del patrimonio successorio al chiamato, L’intervallum temporis che separava l’uno dall’altro momento, ossia, dall’accertamento della vocatio all’individuazione del chiamato alla successione, si considerava come non trascorso e consentiva tale fictio di far risalire la delatio al momento della morte del de cuius. Pertanto, l’acquisizione del patrimonio successorio atteneva a un momento distinto rispetto a quello dell’apertura della successione e, a seconda delle circostanze, ciò accadeva ipso iure non concorrendo, in tal caso, la volontà del chiamato e coincidendo con la delatio, ovvero, presupponeva necessariamente l’accettazione del successibile, l’aditio, in via subordinata alla delatio. Orbene, i meccanismi che sovrintendevano all’acquisizione ipso iure del patrimonio successorio erano tecnicamente: a) la delatio hereditatis (ex testamento e ab intestato) a un heres suus, ossia, a un discendente in potestate del de cuius al momento della sua morte; b) la delatio hereditatis ex testamento (non già ab intestato) a un servus cum libertate heres institutus, ossia, a uno schiavo dichiarato al contempo libero ed erede. L’heres suus, come il servus cum libertate institutus, erano ‘heredes necessarii’, per ciò stesso, necessitati e costretti ad acquistare l’hereditas: specificamente, il primo ‘heres suus et necessarius’, il secondo ‘heres necessarius’. Diversamente, sovvenendo l’aditio, l’acquisizione del patrimonio ereditario seguiva due ipotesi: a) quando nell’assenza di heredes necessarii, l’hereditas venisse deferita a successori ‘extranei’ alla familia proprio iure del de cuius – liberi non in potestate, adgnatus proximus, gentiles, altre persone istituite dal de cuius – e questi heredes, in quanto non costretti ad accettare, erano anche denominati ‘heredes voluntarii’; b) quando ricorresse la bonorum possessio e i bonorum possessores, evidentemente, erano heredes voluntarii. Si deferiva l’hereditas ricorrendo al testamento – hereditas testamentaria, secundum tabulas testamenti – e l’erede sarebbe stato ‘testamentario’ (heres ex testamento); oppure, in forza di legge – hereditas legitima – e l’erede sa-

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rebbe stato ‘legittimo’ (heres legitimus). Ovvero anche, ricorrevano situazioni per le quali, comunque, sussisteva il testamentum ma si intese che le preferenze espresse dal de cuius sacrificassero soggetti ‘non trascurabili’, ma effettivamente trascurati dal de cuius, pervenendo a delineare una ‘successione necessaria’, per ciò stesso, una ‘vocatio contra testamentum’. In tali casi, si parlò di praeteritio degli heredes sui, praeteritio dei liberi, violazione dell’officium pietatis. Lo stesso per la bonorum possessio pretoria – bonorum possessio secundum tabulas, bonorum possessio ab intestato – e poteva accadere che la successione, iure civili come iure praetorio, fosse deferita in presenza di testamento, in mancanza di testamento, persino contro il testamento.

3. LA «VOCATIO EX TESTAMENTO» Il testamento è atto di ultima volontà espresso dal de cuius compiuto mediante il ricorso a certa e solemnia verba e produttivo di effetti giuridici per il tempo successivo alla sua morte. Prevede all’esordio la clausola della istituzione dell’erede – heredis institutio – e affinché produca effetti giuridici occorre che venga redatto nelle forme legali da persona capace, a beneficio di erede capace, e che non sia colpito da cause di nullità. Rilevano i seguenti indefettibili requisiti che assicurano validità: 1) forma del testamento; 2) modalità formali richieste per la sua apertura; 3) capacità del testatore; 4) istituzione di erede; 5) assenza di cause di nullità tali da procurare la ‘rottura’ del testamento. Superfluo soffermarsi sulla questione della antecedenza storica di un tipo di successione all’altra, né si tratta di argomento decisivo e avvincente nella prospettiva diacronica. Ma va rilevato, senz’altro il dato essenziale, che a compimento di un intenso percorso analitico la giurisprudenza individuerà nella indicazione dell’erede – heredis institutio – l’essenza del testamento, di talché, dire heredis institutio avrebbe significato dire testamentum e Gaio potrà sostenere, nelle Institutiones, che i testamenti «prendono forza giuridica dall’istituzione di erede» rilevando tale clausola alla stregua di «capo e fondamento dell’intero testamento» (Gai Inst. 2.229). Difficile dire in quale tempo della lunga stagione repubblicana si pervenga alla saldezza del principio, patrimonio stabile della scientia iuris di età posteriore, se pure sia attendibile che determinati processi decisivi per intendere il senso della saldatura logica di heredis institutio e testamentum vadano ricondotti all’età medio-repubblicana quando la giurisprudenza perviene ad esiti logici non ambigui mutato il volto alla civitas; quando il ius consegue esiti di esaustiva laicità e ai giuristi appartiene una volontà meno forte, ri-

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spetto a quella pontificale, di preservare forme e modi di una società condizionata dal sacro; quando i processi mortis causa rimandano alla progressiva disgregazione del consortium fratrum suorum e alla formulazione del principio sacra cum pecunia. Solo verificandosi tale ultima circostanza gli heredes extranei, alla morte del pater, acquisteranno una condizione giuridica analoga a quella dei sui heredes e il ‘modellarsi’ della posizione degli extranei su quella dei sui contribuirà ad accentuare gli aspetti economici della successio rispetto ai caratteri propriamente familiari. Anche l’eredità, assumendo rilievo i contenuti economici delle situazioni giuridiche, si scinderà dalla successione e l’editto di Tiberio Coruncanio sui sacra – sacra cum pecunia – prova questi percorsi: mancando l’erede – si ricorda – non sarebbe rimasto altro rimedio ai pontefici, per preservare i culti familiari, che attribuirne l’onere a chi avesse acquisito i beni ereditari. Sono sviluppi che impongono cambiamenti di prospettive al diritto ereditario e si radica il convincimento che l’heredis institutio costituisca l’essenza – caput et fundamentum – del testamento romano. Di talché, indicata l’heredis institutio in capo al testamentum sarà possibile inserirvi ogni altra disposizione testamentaria, i legata, le manumissiones, le tutelae. Qualcosa di molto singolare si determina nella civitas della mediarepubblica e al progressivo occultamento dei valori antichi si oppone la tendenza a favorire le aspirazioni individuali e la corsa alla ricchezza. Il fare testamento diviene espressione di status sociale: «entra nelle abitudini e quasi può dirsi tra le soddisfazioni della società romana. I padri considerano come un solatium mortis il far valere la propria volontà oltre la vita», di modo che, «più di tutto a diffondere l’uso dei testamenti contribuì la passione di mostrare alla morte che si possedeva molti amici, facendo legati ad una quantità di persone, e quella di avere ai funerali molti servi manomessi nel testamento» (S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, 1, Roma, 1928², p. 523 nt. 5, ma v. anche Istituzioni, 2, Roma, 1928², p. 464). Ma ogni eccesso di cui una società si macchia è destinato, prima o poi, a rovesciarsi nel suo opposto e l’indiscriminata libertà di testare avrebbe generato patologia sociale tanto da procurare reazioni dell’ordinamento e il varo di misure legislative tese a comprimere la pratica delle manomissioni testamentarie e dei legati: di poco successiva alla seconda guerra punica è la lex Furia testamentaria (all’incirca del 170 a.C.), intesa a protezione dell’erede, diretta a ridimensionare l’entità delle disposizioni mortis causa a titolo particolare oneranti il patrimonio ereditario. Fermarsi sulla heredis institutio è allora indagare la storia del testamentum. Si può dubitare dell’alta antichità della heredis institutio: l’incontro col testamentum avverrà allorché maturino condizioni a lungo preparate dalla interpretatio pontificale prima, laica poi.

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Il processo storico va approfondito. Il lessema tecnico – testamentum – avrebbe originariamente corrisposto a una sorta di termine di riferimento, paradigmatico, un involucro formale che avrebbe accompagnato la storia della più antica civitas scivolando lungo il tempo, un paradigma formale che la lingua avrebbe consentito. A questo riferimento formale, verbale, non avrebbe corrisposto un effettivo contenuto e una reale sostanza, più esattamente, non avrebbe corrisposto il contenuto e la sostanza propri del testamentum storico e per lungo tempo, fino al secondo secolo a.C., quando comparirà il testamentum per aes et libram. In definitiva, non sussisteva omogeneità tra il termine testamentum e il contenuto del testamentum e per tutto un lungo periodo storico il termine testamentum avrebbe funzionato come termine di copertura, di talché, la giunzione di forma verbale e contenuto sostanziale sarebbe avvenuta in seguito quando si ricomporranno, nella fisionomia del testamentum per aes et libram del secondo secolo, forma e sostanza dell’atto risultando propizie talune condizioni di ordine giuridico e sociale. Si avrà modo di chiarire con ulteriori elementi che tale processo interrelato di forma e contenuto, sfociato nell’assetto finito del testamentum civilistico, risulterà pienamente compiuto allorquando l’heredis institutio risulterà incardinata nel testamentum, quando verrà adottato in via definitiva il testamentum per aes et libram: alla nuncupatio che accompagna la mancipatio librale si accorderanno le tabulae testamentariae e l’heredis institutio verrà indicata in capo al testamentum. I testamenti di età antica pre-decemvirale – il testamentum calatis comitiis celebrato innanzi ai comitia curiata e il testamentum in procinctu effettuato in procinto di andare in battaglia – di cui riferisce Gaio nelle Institutiones (Gai Inst. 2.101), richiamati nei Tituli ex corpore Ulpiani (Tit. Ulp. 20.2) e nelle Institutiones di Giustiniano (I. 2.20.1) –, erano privi della clausola della heredis institutio e, pur detti testamenta, corrispondevano ad atti giuridici del tutto differenti, quanto ai contenuti, rispetto al testamento civilistico privato e autonomo, non accostato al comizio, su cui si innesterà l’heredis institutio. Questo è il testamentum per aes et libram pervenuto a Giustiniano. Ai maestri di diritto giustinianei il binomio heredis institutio – testamentum sarebbe apparso assolutamente ovvio e alla heredis institutio, ai profili problematici che vi inerivano, i compilatori avrebbero prestato espressa cura: nei Digesta (D. 28.5, ‘De heredibus instituendis’), nel Codex (C. 6.24, ‘De heredibus instituendis et quae personae heredes institui non possunt’), nelle Institutiones (I. 2.14, ‘De heredibus instituendis’).

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3.1. Vetera testamenta 3.1.1. Testamentum calatis comitiis e adrogatio Della risalenza del testamentum calatis comitiis e del testamentum in procinctu, entrambi di età pre-decemvirale, informa Gaio: Gai Inst. 2.101: «All’inizio vi furono due generi di testamenti: invero, facevano testamento o a comizi convocati – e i comizi erano fissati, per fare i testamenti, due volte all’anno – o in procinto, cioè quando a causa di guerra prendevano le armi; procinto è infatti l’esercito pronto e armato. Uno, dunque, lo facevano in pace e quiete, l’altro, sul punto di uscire in battaglia». e prosegue il giurista nella descrizione delle pratiche testamentarie evocando l’esistenza del posteriore testamento civilistico – testamentum per aes et libram – ancora ai suoi tempi diffusamente praticato caduti in desuetudine i primi più risalenti testamenti. Il tentativo gaiano di restituire la storia del testamento risponde a quell’«attitudine semplificatrice» del giurista che «divide per meglio comporre, non per analizzare» (F.P. Casavola, Giuristi adrianei, Napoli, 1980, p. 160). Vi è un principium anche del testamento e recuperare il principium è realizzare il pefectum, cogliere quell’apprezzabile risultato che unicamente si ottiene col trasmettere ogni pars della storia dell’istituto: se costituisce indefettibile esigenza storiografica attestare l’imprescindibilità del diritto, la storia, allora, «conoscenza dell’antefatto», consente di «possedere il presente nella circostanziata nettezza dei suoi attuali confini». Si spiega: il ricordo storico ha una sua intrinseca utilità nella descrizione dell’ius quo utimur. Ciò che è, non è sempre stato: olim non ut nunc. Così, «olim non ut nunc», vigevano il testamentum calatis comitiis e il testamentum in procinctu e costituivano il principium: prima di questi non vi era altra pars. Sopravverrà il testamentum per aes et libram e si realizzerà il perfectum. Gaio si muove in funzione di questa linea metodologica e la storia dei genera testamentorum, anche questa, costituisce pars di un più ampio sistema che attiene a un più ampio perfectum: vi si connette la storia dei genera legatorum (2.192 ss.), dei limiti e riduzioni nei legati (2.224-227), dell’eredità fedecommissaria (2.252-259), del fedecommesso (2.286-289), della successione intestata (3.1 ss.). Torniamo ai genera testamentorum. Importante notare che la trattazione gaiana dei genera testamentorum non comporta la descrizione della forma-tipo di un atto, di un modello giuridico

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insuscettibile di variazioni, viceversa, l’illustrazione di atti differenti non omogenei per struttura e funzione. Si svolgeva il testamentum calatis comitiis innanzi ai comizi curiati, per l’occasione riuniti due volte l’anno – il 24 marzo e il 24 maggio giorni che l’antico calendario celebrava come comiziali previa l’indicazione Q.R.C.F. = ‘Quando rex comitiavit fas’ –, in adunanza pubblico-religiosa (comitia calata) presieduti dal pontifex maximus a comprovare la solennità sacrale dell’atto che si svolgeva, né è dato sapere se i partecipanti al comizio esercitassero un ruolo di testimonianza e presa d’atto o avessero potere di approvare o disapprovare. L’impianto tecnico-giuridico conservava strette assonanze con l’adrogatio e, come per l’adrogatio, l’esigenza prevalente sarebbe stata precauzionale onde colmare una lacuna dell’antico diritto avvertita alla stregua di danno irreparabile e lesione inferta alla comunità e alla sopravvivenza stessa della familia. In concreto, occorreva sopperire alla mancanza del filius naturale continuatore del pater garante dei sacra familiaria – Lari, Mani, Penati –, divinità familiari, codice genetico della famiglia romana. Riuniti i comizi in forma calata, il pater familias privo di discendenza dichiarava la propria volontà di accogliere, loco filio, altro pater familias che, acconsentendo, cadeva sotto la potestas del primo ed entrava, con lo stato giuridico di sottoposto, nella familia del pater-testator: l’accettazione comportava la detestatio sacrorum, l’abbandono dei propri sacra da parte del pater familias che acconsentisse e l’acquisizione dei sacra dell’altro con l’assunzione dei relativi oneri. La tendenza a perseguire la piana regolarità espositiva induce Gaio, talvolta, a semplificare i risvolti problematici. Accade per l’adrogatio: Gai Inst. 1.99: «Per autorità del popolo adottiamo coloro che sono giuridicamente autonomi: la qual specie di adozione è detta ‘adrogatio’, perché colui che adotta è rogato, cioè interrogato, se voglia che colui che adotterà gli sia figlio legittimo: e colui che è adottato è rogato se permetta che ciò avvenga; e il popolo è rogato se ciò autorizzi che avvenga […]». Seguendo la narrazione gaiana l’adrogatio è pars di un sistema incomunicante rispetto a quello dei testamenta: contenuto dell’atto è l’adozione «populi auctoritate», di coloro che sono sui iuris. Ciò nonostante, adrogatio e testamentum calatis comitiis sono istituti «strettamente apparentati» (M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 126) ed entrambi si svolgono avanti ai comitia curiata convocati due volte l’anno dal pontifex maximus. Orbene, se vi è analogia di forme tra adrogatio e testamentum calatis comitiis sussiste, altresì, discrasia di tempi quanto alla produzione degli effetti giuridici: vere antinomie tra i due istituti – fermo l’aspetto deliberante

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o assistenziale del popolo riunito nel comizio – non ve ne sono e il filo tenace della ‘parentela’ istituzionale conferma l’origine comune. In concreto, sarebbe valsa la scelta dell’individuo orientata nell’immediato, alla creazione di un rapporto di filiazione, ovvero, rivolta al futuro con l’esito di differire post mortem l’efficacia giuridica e, in questa ipotesi, si dava luogo, in sostanza, a un’adrogatio con effetto mortis causa per la quale era necessario che l’adrogatus vivesse al momento della morte del de cuius. Si pone un’ulteriore questione. L’adrogatio è atto di investitura della persona nella qualità di filius mentre il testamentum calatis comitiis connette, a quella di filius, la qualità giuridica di heres. Affinché l’ordine dell’eredità, come vigente nei mores, «che metteva al primo posto i sui e limitava il diritto degli adgnati» (P. Voci, Linee storiche del diritto ereditario romano. 1. Dalle origini ai Severi, in ANRW, II.14, Berlin-New York, 1982, p. 395 = Studi di diritto romano, 2, Padova, 1985, p. 6), venisse ripristinato occorreva che l’atto di designazione del testatore riconoscesse, nel prescelto, la qualità di filius, insieme, la qualità di heres così che, anche per il testamentum calatis comitiis – come per l’adrogatio – sarebbe stato indefettibile il consolidamento di un vincolo di parentela, allo stato, tra testatore ed ereditando. Sarebbe stato questo l’unico modo per limitare le aspettative degli adgnati e ribadire la linea di discendenza parentale diretta pater-filius. In avanzata età repubblicana si provvederà ad approntare una modifica alla formula dell’adrogatio, ad opera di Q. Mucio, e un noto testo di Gellio delle Notti Attiche conserva il ricordo dell’innovazione muciana. Si intende meglio il senso dell’innovazione apportata dal maestro repubblicano leggendo il contesto in cui è ospitato il raffronto tra adoptio e adrogatio: Gell., n. a. 5.19.5-9 Ma le arrogazioni non sono fatte superficialmente né sconsideratamente; 6. infatti dai pontefici mediatori sono convocati i comizi, che sono detti ‘curiati’, e si considera l’età di colui, che vuole arrogare, se sia idonea piuttosto a generare figli, e affinché i beni di colui, che viene arrogato, non siano ingannevolmente desiderati, e nell’arrogare si giurava una formula legale che si dice stabilita dal pontefice massimo Q. Mucio. 7. Ma non si può essere arrogati, se non già giunti alla pubertà. 8. Detta poi ‘arrogatio’, perché questo genere di passaggio in un’altra famiglia avviene attraverso una richiesta del popolo. 9. queste sono le parole di tale richiesta: «Vogliate, ordinate, che L. Valerio sia così per diritto e per legge figlio a L. Tizio, come se fosse di questa famiglia nato da quel padre e madre, e che per lui ci sia presso costui la potestà di vita e di morte, come avviene a un padre per il figlio. Chiedo a voi Quiriti, queste cose, così, come ho detto».

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Si avverte il significato dell’apporto pontificale in materia di adrogatio apprendendo che ai pontefici era riservata la cognitio istruttoria preliminare alla convocazione dei comizi. Questa la prassi sino a Q. Mucio e il giurista introduce l’ulteriore adempimento del giuramento dell’arrogante a riprova della sua lealtà. Vi sarebbe stato motivo per intervenire. Alla fine della repubblica l’adrogatio accusava una sensibile involuzione a seguito del diffondersi di condotte estranee ai valori antichi: si sceglieva di arrogare per procurarsi il filius ma, sovente, al fine di impossessarsi del patrimonio e la modifica apprestata da Q. Mucio alla formula dell’adrogatio sarebbe stata decisiva avendo presto eco non solo presso la cultura giuridica ma presso la cultura letterario-antiquaria in considerazione di valori richiamati anche non immediatamente rapportabili al giuridico. Gaio recupererà le accezioni tecnico-giuridiche dell’intervento muciano. Risulta da Gai Inst. 1.99 e quanto viene detto in Gellio, in Gaio viene omesso, e viceversa: i percorsi culturali che conducono al secondo secolo d.C. alternativamente si sostanziano apprendendo dalle testimonianze dell’antiquario e del giurista. Gli è, che Gellio mostra di non credere che l’adrogatio sia species adoptionis: la cura riposta nel descrivere la differenza delle forme di adrogatio e di datio in adoptionem mostra quanto fossero dissimili gli assetti istituzionali. Diversamente, Gaio non si ferma alle forme, non alla cognitio pontificale, e considera species adoptionis l’adrogatio, come la datio in adoptionem, entrambi istituti che perseguono il medesimo scopo dell’assoggettamento alla patria potestas. Il criterio di lettura gaiano è solo ed esclusivamente giuridico: giuridico è il tipo di domande rispettivamente rivolte a chi intenda arrogare, a chi accetti di essere arrogato, al popolo su cui incombe l’onere di autorizzare l’adrogatio. Resta fermo un dato che costituisce il senso di una differenza: l’innovazione muciana della formula dell’adrogatio viene rilevata da Gellio e trascurata da Gaio. Non è solo l’introduzione muciana del giuramento dell’adrogator a provare l’accentuato interesse prestato all’adrogatio. Nel 95 a.C. la lex Licinia Mucia de civibius redigundis – proposta dai consoli L. Licinio Crasso e Q. Mucio Scevola – regolava la concessione del diritto di cittadinanza, istituendo un’apposita quaestio, ma interveniva ancora sul regime dell’adrogatio e la modifica apportava corrispondeva ora all’esigenza di secondare una politica di recupero dei valori nazionali arginando prassi permissive, cagione di gravi nocumenti per la comunità dei cives, che subordinavano l’acquisto della cittadinanza, da parte di Latini e Italici, al mero adempimento del trasferimento a Roma del domicilio. L’‘adrogatio è istituto in pieno declino alla fine della repubblica. Il popolo non si adunava nelle curiae ma rappresentato dai soli trenta littori – in antico gli stessi littori addetti ai curiones (Cic., de lege agr. 2.12.31. –

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«semplici figuranti» (M. Talamanca, Istituzioni, cit., p. 126) che si presentavano al cospetto del pontifex maximus. L’equilibrio originario congegnato sulla contestualità dei ruoli – i soggetti attori dell’adrogatio; i pontefici titolari della cognitio e arbitri della convocazione dei comizi curiati (Gell., n.a. 5.19.6), il popolo riunito nelle curiae testimone e garante dell’atto (Ulp. 8.2) – avrebbe finito col cedere alle trasformazioni della civitas. Venuto meno il controllo e l’assenso corale del popolo i littori – non abilitati a esprimere l’assenso all’atto che si compiva – avrebbero surrogato il popolo e riservato al pontifex maximus il solo esercizio dell’attività di controllo. Sebbene le reazioni pontificali a tanto declino fossero ferme e i pontifici si proponessero di riattivare il circuito giuridico-sacrale decisi a ristabilire la competenza delle curiae svilite, arginare il declino dei comizi curiati, confermare il significato di rogatio populi alla rogatio rivolta al popolo respingendo il carattere di rogatio testium, tale poderoso sforzo sarebbe stato di poca fortuna. Difettano notizie atte a comprovare, per l’età successiva alla lex Licinia Mucia, il buon esito dell’iniziativa assunta da Q. Mucio e dal collegio pontificale, viceversa, attestano le fonti che ancora per lungo tempo – almeno sino al III secolo d.C. – i trenta littori avrebbero continuato a riunirsi nei comizi curiati confermando l’adrogatio in rappresentanza delle curiae. Deve arguirsi che i pontefici avessero sbagliato i tempi del loro intervento e troppo temporeggiato: agli inizi del primo secolo a.C., allorché verrà approvata la legge, il contesto sociale non avrebbe consentito operazioni che troppo sapevano di antiquario infrangendosi l’aspirazione pontificale di restituire all’ordinamento della civitas un istituto originato nei mores. Sopravviverà il ricordo dell’antica adrogatio per populum e della lex curiata adrogationis che ne concludeva l’iter. Ne parlerà ancora Tacito rievocando il desiderio di arrogare Pisone: «… Se in virtù della legge curiata, io, quale privato cittadino, ti adottassi dinanzi ai pontefici, secondo la consuetudine …» (Tac., Hist. 1.15). In conclusione, la vicenda dell’adrogatio prova il tipo di difficoltà in cui si imbatte la cultura giuridica nel volgere all’attualità registri del patrimonio giuridico antico e verificarne le compatibilità al presente storico della civitas. 3.1.2. Testamentum in procinctu Alla fine della repubblica il testamentum in procinctu è un «lontano ricordo storico» (B. Biondi, Successione testamentaria. Donazioni, Milano, 1955², p. 35). Cicerone ne parla come di istituto da tempo in desuetudine:

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Cic., de nat. deor. 2.3.9: «[…] pertanto le azioni più importanti per la vita dello stato e fra essa le guerre da cui dipende la sua salvezza vengono condotte senza trarre gli auspici. Non si rispettano i presagi prima di attraversare un fiume, non si rispettano le fiammelle in cima alle lance, non è più in uso la rituale convocazione dei soldati prima delle battaglie, ed è perciò scomparso l’uso di far testamento ad esercito schierato. I nostri comandanti infatti incominciano a condurre le guerre dopo aver deposto gli auspici». Il declino dell’istituto si connette al più ampio fenomeno di desuetudine che investe le «consultazioni magistratuali e augurali per certe attività: […] desuetudine di certi auspicia […] dovuta proprio alla logica del diritto augurale, rigidamente mantenuta, per la quale (ad una certa epoca) i promagistrati dovettero esser considerati privi di auspicia» (P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, 1, Torino, 1960, p. 108). Che i promagistrati fossero sforniti di auspicia dipendeva dalla mancata previsione per essi di una lex curiata e Cicerone avrebbe colto il nesso tra auspicia militari e testamentum in procinctu, in de nat. deor. 2.3.9, dolendosi della decadenza di questa forma testamentaria: solo si apprende che si svolgeva oralmente alla presenza dei commilitoni di schiera che avrebbero funto da testes, all’occorrenza, garanti delle ultime volontà se il miles perisse in battaglia. Non vi è straordinarietà in tale prassi in quanto in antico non era straordinario l’evento della guerra evento fenomenico coerente alle relazioni tra le comunità, alle dinamiche di vita, e il ricorso alle armi ritenuto legittimo in ragione dello stato di necessità: ciascuno dei contendenti si proponeva di annientare la resistenza dell’altro e accettava il rischio dell’annientamento, di talché, condivisa tale visione, ne sarebbe conseguita assoluta conformità di agire. Quanto alla ricostruzione tecnica l’exercitus è ‘procinctus’ed ‘expeditus’ non prima di Servio Tullio posto che, conformemente alle verifiche testuali, non prima dell’età etrusca (dal VI sec. a.C.) il costituirsi della classis avrebbe forgiato l’inedito nesso: essere soldato era riconoscersi nella figura del civis e vestirsi dell’armatura oplitica rendeva il singolo cittadino-soldato, civis-milis. Chiamati alla classis sono allora i cives in grado di sopportare gli oneri della guerra e dirà Festo «Classis procincta, exercitus instructus» (49.10 L.). L’exercitus è ‘expeditus’ perché pronto a combattere – dunque ‘paratus’ –, allestito con armi di difesa e di offesa, adatte allo scontro, e in formazione da combattimento: a questa ‘tecnologia militare’ si perverrà non prima di Servio Tullio. Vi è un tempo intermedio tra il momento in cui il comandante dell’esercito ordina «chiamo gli uomini, che entrino in battaglia», predisponendosi l’esercito «in schieramento», e l’inizio del combattimento: tempo di ten-

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sioni e di bilanci, di pensieri ultimi e struggenti. Tutto accade apertamente e Cicerone valuterà il profilo della pubblicità come presupposto indefettibile a che l’atto produca efficacia giuridica, di talché, presi gli auspici, sarà possibile testare nella imminenza dello scontro: ante pugnam il miles pronunzia la nuncupatio alla presenza dei commilitoni vicini nella schiera, che fungono da testes, e il rispetto delle forme preserva da rischi di alterazione della volontà testamentaria: i testes-milites accolgono la nuncupatio, registrano ma non partecipano, di poi riportano.

3.2. Testamentum per aes et libram Un compito può dirsi assolto dai pontefici all’esito di una lunga stagione di operosità analitica ed è la continuità conseguita tra antico e nuovo della civitas: fermo progetto pontificale. Q. Mucio ne avrebbe colto il senso. La posizione muciana è chiara e recuperare il circolo del consenso tra uomini e dei avrebbe supposto, per il maestro repubblicano, accogliere l’unica soluzione percorribile assumendo, nel medesimo assetto d’ordine, diritto pontificale e diritto civile. A repubblica quasi spenta si risolve un obbligo che i pontefici avevano assunto al tempo delle XII Tavole quando urgente era disegnare strategie che salvaguardassero il sacro. Per merito pontificale il sacro si manifesta alla civitas repubblicana in modo meno appariscente, più sobrio, rispetto ai primordi, comunque, in modo efficace e presente: quanto appaga i pontefici. Non sarebbe stato remoto il tempo in cui si avvertirà imprescindibile la presenza dell’erede testamentario pervenendo al testamentum per aes et libram. All’origine era la preoccupazione pontificale «De sacris … una sententia, ut conserventur semper» (Cic., de leg. 2.19.47) e Tiberio Coruncanio, già nel III secolo – si ricorda –, motivato a ottemperare all’«una sententia» del diritto pontificale, si spingeva a disporre che ai sacra fossero astretti coloro che ricevevano tanto quanto tutti gli eredi decretando la priorità dei profili economici dell’hereditas. La interpretandi scientia pontificale – cerniera di mediazione tra divino e umano, tra fas e ius – apre ora una breccia nel sistema della successione familiare legittimando l’istituzione dell’erede estraneo, e comunque, fermamente rimarcando l’essenzialità della presenza dell’erede. Possibile spingersi sino a immaginare che i pontefici detenessero ab origine una visione coerente dei processi che avrebbero condotto al testamentum per aes et libram e, innescati questi, ne ‘pilotassero’ gli sviluppi. L’idea positiva, concreta, praticabile sarebbe stata di ricorrere alla mancipatio confidan-

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do nella duttilità di tale risalente figura giuridica e l’«uti lingua nuncupare», opportunamente, ne avrebbe consentito la torsione funzionale adattativa. Tramandano le dodici tavole: Tab. 6: «Cum nexum faciet manicipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto». Sarebbe stata questa l’intuizione pontificale e dirà Gaio nel medio-principato: Gai Inst. 2.104: «[…] ‘nuncupare’ vale infatti nominare pubblicamente, e, senza dubbio, le cose che il testatore abbia nelle tavole del testamento specificamente scritto appare con generico discorso nominare e confermare». nel descrivere le variazioni di assetto della mancipatio familiae: Gai Inst. 2.103: «[…] un tempo colui che acquista la famiglia, cioè chi dal testatore riceveva in mancipio la famiglia, prendeva il posto d’erede, e perciò il testatore lo incaricava di quel che a ciascuno volesse fosse dato dopo la sua morte; oggi, invece, uno è istituito erede nel testamento e pure i legati si lasciano a suo carico, e un altro è impiegato pro forma come acquirente della famiglia ad imitazione del diritto antico». La narrazione gaiana è segnata da un’aporia. Sono due i tipi di mancipatio familiae che si avvicendano nel tempo della civitas. Orbene, il vocabolo ‘testator’, quando riferito alla forma più risalente di mancipatio familiae – quella che riconduce all’«olim» – si mostra palesemente incoerente mancando l’heredis institutio a questa originaria mancipatio familiae, di talché, si consuma anche la possibilità di un’assimilazione al testamento. Diversamente sarebbe accaduto con la forma ‘evoluta’ di mancipatio familiae introdotta dal «nunc vero». Sarebbe bastato a Gaio, del resto, seguire l’andamento della interpretatio pontificale per avvedersi di tale distonia ma il giurista era già caduto nell’equivoco allorché, nel ricordare che i più antichi «due generi di testamento caddero in desuetudine e solo quello che si fa per rame e bilancia restò in uso», avrebbe aggiunto «Oggi, certo, è organizzato [sc.: il testamento per rame e bilancia] diversamente da come soleva un tempo» perché «Un tempo colui che comprava la famiglia, cioè colui che dal testatore riceveva in mancipio

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la famiglia, prendeva il posto dell’erede, e per ciò il testatore lo incaricava di quel che a ciascuno voleva fosse dato dopo la sua morte». Il ricorso alla fisionomia evoluta della mancipatio familiae (del ‘nunc’) avrebbe aperto al testamentum per aes et libram e – riferisce Gaio – il familiae emptor si sarebbe ora ridotto a mero ‘figurante’ che nulla acquista dell’eredità, che non si ingerisce direttamente nella esecuzione delle disposizioni del de cuius, ma solo si limita a pronunciare le parole «la tua famiglia e i tuoi beni in mandato e custodia mia, perché tu possa fare testamento secondo la legge, con questo rame e – come alcuni aggiungono – con la bilancia di bronzo, mi siano comprati». Questo è il testamentum per aes et libram, utilizzato dalla metà del secondo secolo a.C. al medio-principato – ancora in vigore al tempo di Gaio –, che si svolge mediante il recupero dell’antica mancipatio e operandone la ‘torsione funzionale’ nella prospettiva mortis causa: in concreto, chi utilizzasse la mancipatio per fare testamento si avvaleva della presenza di cinque testes cittadini romani puberi che avrebbero apposto i sigilli individuali, di un libripens munito di stadera, e redatte le tavole testamentarie il mancipio dans – testator mancipava la familia pecuniaque a un familiae emptor che a sua volta pronunciava l’espressione rituale «la tua famiglia e i tuoi beni in mandato e custodia mia, perché tu possa legalmente far testamento secondo il diritto pubblico, con questo rame e – alcuni aggiungono riferisce Gaio – con la bilancia di bronzo, mi siano comprati». A questo punto il testore, tenendo le tavole del testamento, pronunciava la formula: «‘secondo quel che è scritto in queste tavole cerate io do, io lego, io faccio testamento, e voi, o Quiriti, prestatemi testimonianza’, il che vien detto nuncupazione – continua Gaio – posto che ‘nuncupare’ è nominare pubblicamente, invero, le cose che il testatore abbia specificamente scritto nelle tavole testamentarie appare nominare e confermare» (Gai Inst. 2.104). Il testamento librale prevede dunque, quale ‘caput’ e ‘fundamentum’, la clausola della istituzione dell’erede, o degli eredi – heredis institutio – a pena di nullità (testamentum ‘ruptum’), nella forma «L. TITIUS HERES ESTO o L. TITIUS C. SEIUS, … HEREDES SUNTO». Solo a seguito della indicazione della clausola in capo al testamento – testamentum per aes et libram – si sarebbero potute legittimamente inserire le ulteriori disposizioni testamentarie, exheredationes, legata, donationes mortis causa, datio tutoris testamentaria, manumissiones testamento. Insistendo nella necessità di assicurare la presenza dell’erede testamentario l’interpretatio pontificale imprimeva una spinta potente ai processi orientati a imprimere ‘unità di senso’ al fenomeno testamentario. Anche al fine di preservare i sacra si rendeva improcrastinabile la presenza stabile dell’erede.

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Negli ultimi due secoli della Repubblica la stabilità del testamentum per aes et libram verrà assicurata dall’alto grado di condivisione sociale. Ricorrendovi si esaurisce la fase storica risalente, consumata nella ricerca di soluzioni che compensassero ragioni di equità e antica ambizione a disporre del proprio, e si riconosce il pregio al testamentum per aes et libram di comporre le differenti esigenze dei vari interlocutori della vicenda ereditaria. Del testamento librale l’heredis institutio è ‘caput’ e ‘fundamentum’ e potrà dire Gaio che avrebbe narrato le progressioni storiche del testamento a partire dalle antiche forme, «vetera testamenta», sebbene queste mancassero della clausola della heredis institutio e non potevano dirsi testamenta, quanto alla sostanza, ma solo nella forma, nel nomen: Gai Inst. 2.229: «Prima della istituzione di erede si lega inutilmente, perché i testamenti prendono forza da tale istituzione, e, per ciò, la istituzione di erede si considera come il principio e il fondamento dell’intero testamento».

3.3. Testamentum iure praetorio factum Le ragioni che avrebbero indotto il pretore a concedere il possesso del patrimonio del defunto – bonorum possessio secundum tabulas – ai soggetti beneficiati in un testamentum per aes et libram rispondono all’esigenza di concedere la possessio dei beni ereditari in ogni caso, conformemente alla voluntas del de cuius, anche in assenza delle formalità richieste dal ius civile per il testamentum, in concreto, mancando il testamento civilistico delle solennità richieste proprie della mancipatio. Trattasi dunque di istituto di fattura pretorile in vigore nell’ultima repubblica come narra Cicerone nelle Verrine che richiama le infrazioni perpetrate dal governatore della Sicilia che faceva a meno dell’esibizione delle tavole accontentandosi solo della prova della loro esistenza –, una facoltà introdotta tempo dopo e attestata nell’editto dell’età adrianea –: «… nascendo questione di alcuna eredità; e producendosi a me il testamento, suggellato di tanti suggelli, di quanti è richiesto dalla legge, darò principalmente l’eredità secondo l’ordine del testamento» (Cic., in Verr. II.1.45.117). La bonorum possessio è istituto che comprova le interrelazioni di ius civile e ius honorarium evocando un criterio di funzionalità operativa traducibile nella esigenza di coordinazione degli ordinamenti. Molto dopo, nel III secolo d.C., in età severiana, il maestro di diritto Emilio Papiniano si fermerà su questi assunti, nei Libri definitionum, e la testimonianza papinianea perverrà ai compilatori di Giustiniano accolta nei Digesta: D. 1.1.7.1 (Papiniano 2 def.): «Il diritto pretorio è quello che fu introdotto dai pretori, per ragioni di pubblica utilità, allo scopo di migliorare, in-

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tegrare e correggere il diritto civile. Esso viene anche detto diritto onorario con denominazione tratta dalla carica del pretore». La dottrina romana di avanzata età repubblicana avrebbe inteso il nesso ius civile-ius honorarium secondo assetti di reciprocità funzionale pregiato l’assunto che «il diritto pretorio presuppone il civile, ma lo modifica» (M. Lauria, «Ius civile-ius honorarium», in Scritti G. Ferrini, Pavia, 1946, p. 422): l’assetto unitario del diritto avrebbe assicurato equilibrio giovandosene il ius in termini di stabilità, né richiedendosi una forma giuridica rigida e chiusa alle complessità. L’essere soggetto attivo di tali processi, per la giurisprudenza repubblicana, avrebbe significato partecipare a un destino comune al ius oggetto della sua osservazione, di talché, all’epilogo della repubblica, lo sforzo scientifico giungerà alla massima elaborazione e il diritto – civile e onorario – sarà ora capace di restare saldo nell’unitario ius. Intendere tali processi che involgono il diritto civile della media e tarda repubblica è accedere, allora, a un’analisi funzionale che attenga al ius nel suo insieme, e alle parti che lo compongono, consentendo di verificare come le parti del ius funzionino secondo nessi e interrelazioni, come eventualmente non funzionino, come dovrebbero funzionare. Approccio analitico-critico che, nel valutare gli aspetti funzionali, avverte contestualmente le ‘disfunzioni’ così da consentire alla iurisprudentia di intervenire e correggere agendo dall’interno del ius: intuiscono i giuristi che sarebbe stato produttivo operare in tal senso sostenendo il processo di rigenerazione degli istituti. Lungi dal contrapporsi, allora, ius civile e ius honorarium si pongono in rapporto interattivo comunicando, interagendo, all’interno dell’ordo iuris repubblicano ed è legittimo sostenere che il ius honorarium assicuri al ius civile la più lunga sopravvivenza. Offre prova di tali processi il testamentum iure praetorio factum. Convinto il pretore che il rilievo giuridico dell’atto mortis causa verta essenzialmente sulla testimonianza offerta dai sette soggetti presenti – familiae emptor, libripens, cinque testes mancipationis – avrebbe valutato la mera testimonianza sufficiente, anzi, addirittura bastevole l’esibizione delle sole tabulae munite dei sigilli dei testes. Di seguito, la bonorum possessio secundum tabulas diverrà cum re, inclusiva dell’hereditas, e Antonino Pio concederà al bonorum possessor il potere di paralizzare, ricorrendo alla exceptio doli, l’hereditatis petitio rivolta contro di lui dagli heredes ab intestato civili.

3.4. Testamentum tripertitum Di epoca postclassica il testamentum tripertitum – così denominato nelle Institutiones di Giustiniano (I. 2.10.3) – costituiva il prodotto, ‘utilitate co-

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gente’, di una prassi orientata alla composizione delle precedenti forme testamentarie – civilistica, pretoria, imperiale – promuovendosi la consumazione delle differenze tra hereditas e bonorum possessio. Sarebbe accaduto che il testamentum civilistico per aes et libram alienasse, progressivamente, connotati assolutamente propri facendo a meno del suo nucleo identitario, la mancipatio familiae, sostituita da un atto notarile e richiedendosi la mera scrittura olografa di pugno del testatore. Si incontravano, in tal modo, le necessità dei soggetti che intendessero sottoporre il testamento ai sigilli dei testes pur mantenendo riservate le disposizioni incluse, sebbene, nulla impedisse di presentare il testamento olografo in modo ‘aperto’ consentendone la lettura ai testes, o di presentare il testamento olografo già chiuso redatto da persona di fiducia del testatore. La sottoscrizione del testator, l’apposizione del sigillo dei testes, sarebbero state effettive innovazioni formali apportate dalla legislazione imperiale e al tempo di Giustiniano subentrerà un ulteriore requisito non già di mera forma. L’avanzamento tecnico consegue a una diversa duttilità della redazione dell’atto mortis causa richiedendosi la presenza di un tabularius – sorta di notaio –, investito della redazione scritta, che avrebbe garantito l’autenticità dell’atto stesso: la professione del tabellio andò nel tempo evolvendo in modo del tutto particolare essendo egli redattore dell’atto mortis causa ma coinvolto ex lege nelle responsabilità che ne discendevano attribuito, al tabellionato, il coerente potere-dovere di controllo.

3.5. Altre forme di testamento Testamentum militis, introdotto in età augustea, è il tipo di testamento affrancato da vincoli di forma in considerazione dell’assoluta mancanza, o della carenza, di cognizioni giuridiche del miles ma anche, dell’afflusso nell’esercito della componente provinciale. Gaio (Gai Inst. 2.109-110) insisterà su questi motivi nell’illustrare le differenze col testamentum per aes et libram: «… da questa rigorosa osservanza nel far testamento furono, da costituzioni dei principi, dispensati i soldati, per la loro troppa inesperienza. Infatti, anche se non abbiamo impiegato il numero legale di testimoni, né venduto la famiglia, né nuncupato il testamento, tuttavia [sc.: i soldati] fanno regolarmente testamento. Inoltre è loro permesso istituire eredi anche degli stranieri e dei latini, o fare loro dei legati, mentre gli stranieri non potrebbero per un principio di diritto civile prendere l’eredità e i legati, e i latini non lo potrebbero per disposizione della legge Giunia [19 d.C.]». Diverrà ‘straordinario’ questo testamento solo utilizzabile in tempo di guerra e non più riservato ai soli milites ma anche ai civili al seguito dell’exercitus.

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3.6. Testamenti ‘speciali’ Oltre all’antico testamentum calatis comitiis, e al testamentum militis, forme ‘speciali’ di testare furono il ‘testamentum tempore pestis conditum’ e il ‘testamentum ruri conditum’ di età postclassica: il primo richiamato in una costituzione del 290 d.C. (CI. 6.23.8) richiedeva la presenza di testes, non necessariamente sette persone, che potevano assistere anche in via separata e a prudenziale distanza dall’ammalato all’effettuazione dell’atto mortis causa; il secondo, di cui vi è menzione in una costituzione del 534 d.C. (CI. 6.23.31), diffusosi in tempi di abbandono delle campagne, prevedeva la presenza di almeno cinque testes dei quali almeno uno capace di firmare per sé e per gli altri e, comunque, tenuti tutti a confermare, prestato giuramento, la presenza della heredis institutio. Testamenta publica, in età postclassica, furono i testamenti del cieco e dell’analfabeta per i quali si rendeva imprescindibile la presenza del tabularius come menzionato in una costituzione del 521 d.C. (CI. 6.22.8), e i testamenta a favore dei poveri, incertae personae, devolute loro pie disposizioni e valorizzato il ruolo dell’esecutore testamentario (CI. 1.3.21, a. 468 d.C.; CI. 1.3.48 [49], a. 531 d.C.; Nov. 131 coll. 11-12). Ancora, i testamenta a favore del culto apprestati da benefattori della Chiesa cattolica o da chi fosse indotto da meritori motivi religiosi a beneficio delle piae causae (CI. 1.3.24, a. 455 d.C.; CI. 1.3.28, a. 468 d.C.). Cure specifiche vennero riservate da Giustiniano a peculiari forme di testamento: il ‘testamentum parentis inter liberos’che contemplava la ripartizione, per il tempo successivo alla morte del de cuius, dei beni paterni ai liberi, ai figli sui o emancipati, in adesione a quanto loro spettante applicata la successio ab intestato; il ‘testamentum inter liberos’ che supponeva una divisione del patrimonio ereditario tra i figli da parte dal genitore in vita, di tal guisa, precludendo la possibilità di apporre variazioni alle decisioni assunte.

4. IL REGIME DEL TESTAMENTO L’assetto finito del testamento a partire dalla media repubblica – si è detto – prevedeva a esordio la clausola della istituzione di erede – heredis institutio – designazione del chiamato, o dei chiamati, alla successione dal testatore (es.: «L. Titius heres esto») a cui si accompagnava: per il ius civile l’espressa diseredazione, ‘exheredatio’, dei sui heredes discendenti in potestà che il testatore intendesse escludere dalla successio in forza del principio «sui heredes aut instituendi sunt aut exheredandi»; per il diritto onorario, l’exheredatio effettuata dal testatore dei liberi, sui o emancipati, non istituiti.

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Al tempo della scrittura del De oratore di Cicerone il principio «sui heredes …» è in vigore: Cic., de or. 1.38.175: «[…] se non solo le cause di poco conto, ma spesso anche le cause di grande importanza sono basate sul diritto civile, con quale coraggio un avvocato si presenterà a discutere quelle cause senza alcuna conoscenza di tale diritto? Quale causa si può pensare più importante di quella di quel noto soldato? Dal campo era arrivata a casa la falsa notizia della sua morte; il padre prestando fede alla notizia, mutò il testamento e nominò erede un altro, a suo piacere; dopo che questi morì, tornò a casa il soldato la questione fu portata davanti al tribunale dei centumviri vedendosi il soldato diseredato in base al testamento, intentò un procedimento giudiziale per entrare in possesso dell’eredità paterna. Certo quella causa era interamente basata sul diritto civile, se cioè un figlio poteva essere diseredato dei beni paterni, quando il padre non l’aveva espressamente nominato nel testamento né come erede né come diseredato». Cicerone dà atto ai giuristi di mostrare sensibilità per la questione della presenza dell’erede. Divulga gli esiti della interpretatio: Cic., de inv. 2.42.122: «[…] un padre di famiglia che aveva una moglie, ma neanche un figlio, scrisse così nel testamento: “se mi nasce uno o più figli, questo sarà mio erede”. Seguono le formule di rito. Poi: “se questo muore prima della maggiore età, allora sarà il mio erede”. Il figlio non nacque. Gli agnati si oppongono a quello che è stato indicato come erede in caso di morte del figlio, prima della maggiore età». Il principio «sui heredes vel instituendi sunt vel exheredandi» è certamente regula iuris alla fine della repubblica e non già il portato di mero formalismo ma di una diffusa esigenza sociale inerente alla necessità di richiamare alle proprie responsabilità quel testatore che non intendesse istituire i sui heredes. L’equità invocata corrispondeva a un criterio avvertito dalla iurisprudentia: elevare l’aequitas a misura della libertà testamentaria, questa, sarebbe stata la condizione unica e indefettibile onde arginare la rovinosa intemperanza dei testatori. Effetto vistoso l’annullamento del testamento già confezionato quando si accertasse la nascita di un suus sopravveniente alla presenza in vita del filius, o dei filii, del disponente. Informa intrinsecamente la logica della diseredazione dei sui heredes, e dei liberi, una ragione precauzionale – applicata ancor prima della possibilità di impugnare il testamentum inofficiosum – protesa a richiamare il testatore,

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provvisto di filii e di nepotes agnatizi, alle responsabilità che andava assumendosi nel diseredare la sua stessa discendenza. Inevitabile che si richiedesse a tali fini, in tempi risalenti, il rigido requisito di forma, l’utilizzo di verba solemnia; requisito che andò scemando sino a scomparire del tutto con Costantino (320 d.C.) che ammetterà la facoltà di istituire, e diseredare, ricorrendo il testatore ad ogni espressione utile. Rivestire la qualità di erede comportava la titolarità dell’intero patrimonio ereditario – ‘asse’ («as hereditarius») – e l’erede unico sarebbe stato «heres ex asse», oppure, comportava la titolarità di una quota ponendosi un fenomeno di accrescimento nelle quote degli eredi superstiti nel caso mancassero per qualche ragione, o venissero meno, le quote degli altri eredi: questo meccanismo avrebbe comportato, per ricaduta, che l’heredis institutio, a pena di nullità del testamento, non potesse assumere le fattezze di «heredis institutio ex certa re» con riferimento a un cespite determinato; neanche di «heredis institutio excepta re sottratto un dato cespite. In seguito, anche in ordine a tali ipotesi, sarebbe intervenuta una evoluzione e in età classica la giurisprudenza introdurrà il criterio del favor testamenti sino a ritenere che non andasse in ogni caso inficiato l’intero testamento, piuttosto, che dovesse ritenersi nulla la menzione della certa res valendo legittimamente il testamento depennata l’indicazione invalidante («detracta rei certae mentione»). Passibile di sottoposizione alla condizione sospensiva l’heredis institutio era insuscettibile di apposizione del termine iniziale e finale: la vigenza dell’heredis institutio non era sottoponibile al termine in quanto non coartabile entro un tempo definito e contingentato. Acquisito lo status di heres si è sempre heres e sempre se ne riveste la qualità – «semel heres semper heres» –, di talché, si sottrae l’istituzione di erede all’apposizione del termine iniziale o finale. Il registro giuridico del testamento così definito all’esito di sofisticata elaborazione analitica dei giuristi già di età repubblicana avrebbe indotto la stessa giurisprudenza a verificare soluzioni rapportate a circostanze specifiche e a confluire su un fascio di questioni tra cui assumerà rilievo la designazione del c.d. ‘erede di riserva’. Tale è il fenomeno della «substitutio heredis» declinata nelle forme della sostituzione ordinaria («substitutio vulgaris») nomina di altro o di altri eredi sostituiti, e della sostituzione pupillare («substitutio pupillaris») nomina di un erede da parte del testatore al proprio discendente impubere nella eventualità che questi morisse prima del raggiungimento della pubertà e prima di acquistare la capacità di disporre col testamento il patrimonio ereditato. La capacità di testare («testamenti factio» attiva) e la capacità di essere vocati ex testamento («testamenti factio» passiva), dovevano sussistere rispetto a tria momenta (I. 2.19.4):

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1) la confezione del testamentum; 2) la morte del testator; 3) l’acquisizione successoria a seguito della morte del testator. La testamenti factio attiva non si discostava dal regime generale della capacità giuridica, e della capacità di agire, ritenendosi invalsa l’inibizione di testare per talune categorie di soggetti: a) le vittime di capitis deminutio maxima (condannati alla pena capitale e in particolare condannati alla poena cullei), di talché, il testamento effettuato anteriormente alla capitis deminutio si ritenne nullo, almeno, sino al tempo della emanazione della lex Cornelia dell’81 a.C. introduttiva di una fictio che ne avrebbe ribadito la validità; b) gli impuberes; c) i Latini Iuniani; d) si consentiva la testamenti factio alle mulieres trascorso il tempo della originaria incapacità; e) i filiifamilias avrebbero potuto testare in età classica in ordine al peculium castrense; in età postclassica in ordine al peculium quasi castrense; f) ai servi publici verrà consentito di testare in ordine alla metà del peculio. La testamenti factio passiva, in età classica, spettava a ogni soggetto anche se incapace di agire ed era tipico il caso del furiosus. Se nelle tavole testamentarie si contemplasse la manumissio del servus questi poteva essere istituito erede e sarebbe stato legittimo istituire filii e servi altrui con l’effetto di far acquistare il compendio ereditario ai rispettivi aventi potestà. Si consentirà, ancora in età classica, quanto in età precedente risultava precluso: a) istituire eredi i discendenti non ancora in vita sebbene concepiti («postumi»); b) istituire eredi discendenti del testatore maschio («postumi sui») che, se non istituiti, andavano diseredati nominatim; c) ai fini della bonorum possessio istituire eredi «postumi alieni» nascituri, già concepiti, che non sarebbero comunque caduti in potestate del testatore se fosse sopravvissuto. La revoca del testamentum si ritenne possibile e lecita in ogni momento della vita e sino alla morte del testatore in forza del principio «ambulatoria est voluntas defuncti usque ad vitae supremum exitum». Anche in questa eventualità, stabile il principio di massima, sarebbero variate le modalità applicative e occorrerà, per il ius civile, che altro testamentum per aes et libram sostituisse il primo infranto, ruptum, dunque inefficace. Viceversa, sarebbe

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rimasto assolutamente fermo e invariato il principio di ‘esclusività’ del percorso successorio intrapreso, e pertanto, una volta che il testator avesse optato per il percorso testamentario – anche se in seguito distruggesse le tabulae, strappasse i lacci avvolgenti le tabulae, dichiarasse una volontà contraria –, comunque, gli sarebbe preclusa l’alternativa e fatto divieto di piegare nel verso della successio ab intestato: vigeva il principio «semel testator semper testator». L’ambito di efficacia del testamento era delimitato entro assunti precisi. Infranto (‘ruptum’) era il testamentum travolto da eventi sopravvenuti come accadeva quando, successivamente alla sua confezione, nascesse un suus heres che il testatore non fosse stato preveggente di istituire o diseredare quale postumo («adgnatio postumi»), o quando il testamentum venisse revocato da un posteriore testamento. Disertato (‘desertum’) e abbandonato (‘destitutum’) si riteneva il testamento nel caso che alcun chiamato a succedere acquistasse il compendio ereditario: nel primo caso, in ragione di premorienza dell’istituito al testatore; nel secondo caso, a cagione del rifiuto dell’istituito di accettare se heres voluntarius. Diversamente dal ius civile, il ius honorarium non escludeva la facoltà del testator di distruggere le tavole testamentarie associando a tale scelta la volontà di revocare l’atto (Gai Inst. 2.151 a). Conseguentemente il testamento non smarriva la validità civilistica e il pretore si trovava costretto a concedere, ai successibili ab intestato, la «bonorum possessio sine tabulis» conseguendone effetti sul piano giudiziale: nel confronto delle posizioni giuridiche il bonorum possessor sine tabilis, che avesse avanzato istanza dell’eredità, aveva modo di opporsi all’erede testamentario respingendone l’iniziativa mediante il ricorso all’exceptio doli mali. Con un rescritto di Antonino Pio si disporrà che il patrimonio del de cuius venisse corrisposto all’aerarium, come già prescritto per gli indigni, se nessuno chiedesse la bonorum possessio ab intestato. Il ius novum imperiale, in età postclassica, interverrà ancora sulla questione della revoca testamentaria prevedendo senz’altro del testamento: a) se posteriormente alla confezione dello stesso se ne redigesse un altro valido; b) se il testatore distruggesse il testamento approntato; c) se il testatore dichiarasse «apud acta» o alla presenza di tre testes di voler revocare il testamento approntato (CI. 6.23.27). Le modalità di pubblicità a cui il testamentum era sottoposto ne richiedevano la ‘pubblicazione’ all’indomani della morte del testatore consentendo a interessati, e terzi, di venirne a conoscenza evitandosi la successio ab intesta-

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to. Il testator usava depositare le tavole presso una persona di fiducia o presso sacerdoti-custodi e all’indomani della morte si procedeva alle operazioni di apertura infrangendo il linum e rompendo i sigilli: verificata l’autenticità del documento nel luogo in cui erano i signatores – se per qualche ragione non fossero al momento presenti e si presentasse urgenza di procedere all’apertura del testamento sarebbe stato possibile ricorrere a optimi vires – e aperte le tavole, esaminatone il contenuto, queste erano inviate ai signatores che avrebbero controllato «ad inspicienda sigilla sua». Adempiuta ogni necessaria formalità si procedeva alla recitatio delle disposizioni ereditarie. Nel proto-principato con una lex Iulia de vicesima hereditatum (5 d.C.), proposta da Augusto, si introdusse un’imposta successoria, pari al 5% sulle eredità e i legati, a beneficio dell’erario militare, regolando con particolare minuziosità la procedura relativa all’apertura del testamento e stabilendo che dovesse obbligatoriamente effettuarsi entro cinque giorni dalla morte del de cuius. Si prevedevano eccezioni relativamente alle sostanze minime e alle successioni tra genitori e figli – le famiglie latine o peregrine che avessero da poco ottenuto la cittadinanza avrebbero fruito della dispensa invocando la concessione del ius cognationis – disponendo che la procedura di apertura delle tavole andasse svolta innanzi agli stessi testes che avevano preso parte alla redazione del testamento nella ‘statio vicesimae’ preposta alla riscossione del tributo.

5. I «CODICILLI» I «codicilli» (piccoli ‘codices’ di due o più tavole di legno) costituivano un documento autonomo, pressoché mancante di requisiti di forma, contenente disposizioni di ultima volontà redatto prima o dopo un testamento. Vi si ricorreva, solitamente, per disporre un fedecommesso ed è la ragione per cui codicilli e fedecommessi seguiranno percorsi storicamente paralleli come esposto nelle Istituzioni di Giustiniano (I. 2.25 pr.). Se ne attribuisce l’ideazione a Caio Trebazio Testa, giurista dell’età di mezzo tra repubblica e principato, richiesto da Augusto circa una delicata questione successoria – tale Lucio Lentulo si sarebbe avvalso di codicilli, posti a carico del principe, contenenti fedecommessi a cui venne riconosciuta validità giuridica in quanto confermati mediante successivo testamento –: orbene, il giurista avrebbe pregevolmente contemperato ratio iuris e utilitas consigliando Augusto di eseguire la disposizione fedecommissaria così procurando efficacia e pregnanza ai codicilli. Il dato funzionale che chiarisce le ragioni sottese all’utilizzo dell’istituto codicillare attiene, allora, alla consapevolezza del disponente fornito di ca-

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pacità di testare di non poter osservare, per qualche ragione, le formalità richieste per il testamento, di modo che, la soluzione sarebbe stata redigere codicilli, prima o dopo la confezione del testamento, persino, lasciare codicilli ab intestato. A seguito di complessa elaborazione ermeneutica, fermo il criterio della validità della disposizione fedecommissaria ordinata in un codicillo, i giuristi elaboreranno la differenza tra codicilli ‘semplici’ e ‘confermati’ in ragione di assunti tecnicamente delineati. Gli è, che si sarebbe diffuso l’uso di inserire nel testamento una clausola in forza della quale i futuri codicilli valessero come se le relative disposizioni fossero attualmente comprese nel testamento e, ricorrendo tale ipotesi, ci si orientò nel senso che le stesse disposizioni dovessero ritenersi del testamento parti integranti. Le conseguenze sarebbero state notevoli, e difatti, i legati disposti in codicilli confermati sarebbero valsi come tali consentendo l’esperimento delle azioni giudiziarie a tutela dei tipi di legato; diversamente, se disposti in codicilli non confermati avrebbero assunto mera pregnanza di fedecommessi. Allo stesso modo, per le altre disposizioni mortis causa: così, la manomissione ordinata in un codicillo avrebbe prodotto l’immediato acquisto della libertà in presenza di codicilli confermati, altrimenti, sarebbe valsa come fideicommissaria libertas; ancora, il tutore testamentario poteva legittimamente essere nominato in codicilli confermati, diversamente, se la designazione venisse effettuata in codicilli non confermati, al più, comportava un suggerimento al pretore nella ipotesi della nomina del tutore dativo (‘confirmatio tutoris’). In via di principio, risultava preclusa la possibilità di immettere nel codicillo l’istituzione di erede, le sostituzioni, le diseredazioni, sebbene, in progressione di tempo, si ammetterà che il testatore potesse lasciare incerta nel testamento l’indicazione dell’erede riservandosi di indicarla nei codicilli. In definitiva, la giurisprudenza, sensibile a riconoscere validità giuridica ai codicilli confermati, elaborò il principio che, inseriti nel testamento, i codicilli ne costituissero parte integrante esattamente come se fossero comprese nel testamento le relative disposizioni. Comunque, finzione (‘fictio codicillaris’) non estremizzata sino addirittura a supporre, in caso di nullità del testamento, che la nullità si estendesse comunque, in ogni caso, ai codicilli nel testamento menzionati. Si riconobbe, in seguito, validità giuridica anche ai codicilli non confirmati nel testamento e ab intestato e nel corso del III secolo d.C. il processo di evoluzione dell’istituto andrà completandosi giungendosi a ritenere invalso l’utilizzo sistematico della ‘clausola codicillare’ a cui faceva ricorso il testatore, di talché, ove mai il testamento fosse colpito da nullità questo valesse come codicillo. Sarà questo lo avanzato della elaborazione dell’istituto che necessiterà, in età postclassica, in linea di controtendenza, un’adeguata ‘co-

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pertura’ formale così che i codicilli e il testamento potranno, ora, ulteriormente avvicinarsi: disporrà Costantino (IV sec. d. C.) che i codicilli ab intestato dovessero essere redatti alla presenza di sette, o almeno cinque, testes e Teodosio (V sec. d. C.) estenderà tale disposizione a ogni tipo di codicillo prescrivendo, per testamenti e codicilli, l’inderogabilità della presenza di sette testes. Con Giustiniano (VI sec. d. C.) l’istituto codicillare decade prescrivendo l’imperatore che se i codicilli mancassero dei prescritti requisiti di forma l’onorato era legittimato a deferire il giuramento all’istituito gravato di fedecommesso.

6. LA «VOCATIO AB INTESTATO» O «VOCATIO LEGITIMA» In età risalente la morte del pater familias comportava – si è detto – l’applicabilità del meccanismo detto ‘automatismo dei mores’, con il che, il filius in potestate surrogava il pater deceduto nella posizione apicale a questi spettante all’interno della familia, divenendo egli pater, persona sui iuris a capo della familia, acquisendo il requisito dell’autonomia familiare Ove mancasse il figlio naturale – di modo che il suddetto meccanismo risultava inapplicabile – il pater familias aveva modo di accedere all’istituto dell’adrogatio, o al testamentum calatis comitiis, procacciandosi ‘artificialmente’ il filius convocati i comizi curiati. E tuttavia, poteva comunque accadere che il pater fosse privo di figli naturali, né adempisse alle operazioni dell’adrogatio (o al testamentum calatis comitiis), e il legislatore decemvirale avrebbe assunto l’onere di colmare la grave lacuna mediante la previsione di un’apposita norma tavolare. Si recuperava con la regola decemvirale il valore identitario dell’homo, del civis, immerso nel tradizionale humus delle relazioni private familiari e parafamiliari: Tab. 5.4: «Se il padre muore senza aver fatto il testamento, e manchi il Suus heres, avrà la famiglia l’adgnatus proximus. 5. Se manca anche l’adgnatus proximus (avranno) la famiglia i gentiles». Le XII Tavole non ‘creano’ l’erede se l’erede manchi. L’adgnatus proximus – si avverte dalla lettura del quinto versetto della quinta tavola –, piuttosto, è acquisitore della familia del defunto e appunto tale status la legge non esita a riconoscere ma, senza dubbio, l’adgnatus proximus non è erede. E difatti, già pater della sua familia egli non è coinvolto nel cambiamento dello stato familiare e in capo a lui non si realizza la successio m.c considerato che la vicenda della successio m.c. si attua, solo ed esclusivamente, previo cambiamento dello status giuridico familiare: il filiius che, alla morte

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del pater, diviene egli pater surrogandone la posizione all’interno della familia. Se mancasse l’adgnatus proximus acquisiranno la familia pecuniaque i membri sui iuris della gens del defunto (Tab. 5.5) – chance possibile per i soli patrizi in quanto «plebs gentes non habet» riferisce Livio (ab Urbe condita 10.8.9 ss.) – e se mancassero anche i gentiles, o non accettassero, l’hereditas verrebbe ritenuta nullius e passibile di appropriazione (‘occupatio’). Quanto ai soggetti affrancati dalla condizione di servus, o dalla condizione di liber in causa mancipii – ‘manumissi’ –, vigevano modalità apposite in quanto questi erano privi di collaterali agnatizi e, mancando costoro di heredes sui, l’hereditas spettava al dominus manumissor, ovvero, se fossero liberi in mancipio, spettava al parens manumissor, dunque, al patronus. Mancando anche quest’ultimo se premorto al de cuius, o nel caso questi non accettasse, l’hereditas perveniva ai discendenti agnatizi. La divaricazione mores – lex è ferma e decisa. L’intreccio di giuridico, economico ed etico, motivo a fondamento della rivalutazione decemvirale dell’adgnatio, torna ai fini della regolamentazione della tutela e si avvalgono i decemviri di un assetto di analogie che avrebbe posto al riparo da vistose contraddizioni il disegno volto a favorire l’adgnatio paventandosi la crisi irreparabile della familia mancando il suus heres. Motivi che resistono al tempo e Gaio evocherà l’antico regime decemvirale: Gai Inst. 1.155: «A coloro ai quali non sia dato un tutore per testamento, sono tutori gli agnati in base alle XII tavole, e questi si chiamano legitimi» sebbene il giurista parli di «agnati» anziché di adgnatus proximus. Orbene, ritenevano i veteres che, ricorrendo alla stessa prescrizione decemvirale, sarebbe stato possibile attribuire sia l’eredità intestata del liberto al patrono o ai suoi figli, sia la tutela, nel convincimento che gli adgnati chiamati all’eredità fossero anche tutori. E Gaio riprenderà queste sollecitazioni: «In base alla stessa legge delle XII tavole, la tutela delle liberte e dei liberti impuberi spetta ai patroni e loro discendenti. Anche questa tutela è chiamata legittima, non perché in quella legge espressamente se ne parli, ma perché è stata ammessa per interpretazione, quasi fosse stata introdotta con le parole della legge. Per il fatto stesso che la legge aveva disposto che le eredità dei liberti e delle liberte, se questi fossero morti senza testamento, spettassero ai patroni e loro discendenti, credettero gli antichi che la legge avesse voluto che anche le tutele spettassero a loro, in quanto aveva pure stabilito che gli agnati, che chiamava all’eredità, fossero anche tutori». Il tempo ha le sue regole. Il diritto ha i suoi tempi. Colpisce il repentino deteriorarsi del regime decemvirale della successione intestata:

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Gai Inst. 3.17: «Se non ci sia alcun agnato, la stessa legge delle XII tavole chiama all’eredità i gentili. Chi siano i gentili abbiamo riferito nel primo Commentario; e siccome lì avvertimmo che tutto il diritto gentilizio è caduto in desuetudine è superfluo che anche qui trattiamo minuziosamente l’argomento». Una serie di aporie rovinò quell’assetto: Gai Inst. 3.19-24: «[…] appena emancipati, i figli, per quella legge, non hanno più diritto all’eredità del genitore, in quanto hanno cessato di essere eredi propri. [20.] Nella stessa condizione sono i figli che non si trovino in potestà del padre, in quanto, pur avendo avuto insieme con lui il dono della cittadinanza romana, non siano stati dall’imperatore ridotti in potestà. [21.] Analogamente gli agnati che abbiano subito una ‘capitis deminutio’ non sono da quella legge ammessi all’eredità, perché la ‘capitis deminutio’ toglie la qualità di agnato. [22.] Così, non adendo la eredità l’agnato prossimo, colui che legalmente lo segue non viene più ammesso. [23.] Così tutte le femmine agnate che eccedono il grado dei consanguinei non hanno per legge alcun diritto. [24.] Analogamente non sono ammessi i cognati, uniti da vincolo parentale tramite persone di sesso femminile: al punto che nemmeno fra madre e figlio o figlia compete il reciproco diritto di prendere l’eredità, salvo che fra loro sussistessero i diritti di consanguineità per effetto dell’essere la madre venuta in mano». Così elaborata era la disciplina mortis causa in assenza di testamento come regolavano le dodici tavole. Dalla media età repubblicana il diritto onorario avrebbe concesso – si ricorda – la «bonorum possessio intestati», nell’accezione «sine tabulis», riconoscendo il pretore il possesso del patrimonio ereditario interessata una pluralità di soggetti, nei confronti di quanti fossero coinvolti iure civili, sino a individuare quattro classi di successibili – ‘ordines’ – graduate all’interno –: in sequenza gerarchica ordo unde liberi, ordo unde legitimi, ordo unde cognati, ordo unde vir et uxor e passare al successivo ordine comportava l’esaurimento dei gradi interni all’ordine precedente. Tali sono i termini della «successio ordinum et graduum», individuata dal diritto onorario, richiesta al pretore e da questi concessa (‘data’) a istanza (‘adgnitio’) di chi fosse interessato: un edictum successorium accordava cento giorni utili affinché i chiamati in un ordo effettuassero l’aditio e, disatteso il tempo utile, si procedeva passando la vocatio al successivo ordo: a) l’«ordo unde liberi» era costituito dai discendenti liberi del de cuius ma-

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schio, il paterfamilias, in potestate o meno, in vita al momento della sua morte: si trattava dei sui heredes emancipati dal pater. Anche ai postumi sui si assegnava una quota ereditaria e per essi vigeva una specifica disciplina: se la datio possessionis era concessa dal pretore agli altri richiedenti prima della nascita del concepito si previde l’accantonamento in attesa dell’evento della nascita nominandosi un ‘curator ventris’, curatore del ventre, investito dell’onere di seguire, coadiuvare, la donna in attesa, in tal caso, ricorrendo la «bonorum possessio ventris nomine». La bonorum possessio dei liberi era inclusiva dell’eredità – «cum re» – con prevalenza sugli eredi civili; b) l’«ordo unde legitimi» era costituito dai successibili secondo l’ordine di successibilità decemvirale: erano gli heredes sui se non avessero già chiesto, e conseguito, i beni ereditari in quanto liberi; in via subordinata l’adgnatus proximus; ancora, i gentiles. Soccorreva la bonorum possessio non inclusiva dell’eredità – «sine re» –, di talché, non vi sarebbe stata prevalenza sugli heredes legitimi di grado preferito che avessero omesso di rivolgersi al pretore optando per l’esercizio delle azioni civili; c) l’«ordo unde cognati» era costituito dai parenti di sangue – «cognati» – in quanto non ammessi al precedente ordo secondo una graduazione parentale («proximitas») sino al sesto grado compreso. Ora, la bonorum possessio era sine re; d) l’«ordo unde vir et uxor» era costituito dal coniuge superstite del de cuius e la bonorum possessio era sine re. Se il de cuius fosse manumissus – il caso del liberto – procedendo alla vocatio dell’«ordo unde liberi» accadeva che venivano chiamati per la metà i liberi e la uxor in manu e per l’altra metà il patronus; secondo l’«ordo unde legitimi» risultavano chiamati gli eredi civili compreso il patrono; secondo l’«ordo unde cognati» i chiamati erano i parenti di sangue. In via subordinata conseguivano la bonorum possessio – «unde familia patroni» – i familiari e i parenti del patrono anche non agnatizi. Nel medio principato due senatoconsulti – il Sc. Tertulliano di età adrianea, il Sc. Orfiziano emanato nel 178 d.C. – colmeranno un vuoto regolamentativo garantendo la successione della madre ai figli e dei figli alla madre: con il primo si dispose che la madre fornita di ius trium vel quattuor liberorum dovesse annoverarsi tra i successibili ab intestato del proprio filius rientrando tra gli heredes sui; con il secondo che i soli figli discendenti di primo grado partecipassero alla successione ab intestato della madre defunta, equiparati all’adgnatus proximus, con precedenza rispetto agli altri collaterali agnatizi che risultavano esclusi. In età classica e postclassica il ius novum imperiale interverrà sulla disciplina civilistica nel proposito di meglio coordinare alla disciplina onoraria e

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integrare, e correggere, le più gravi mancanze del regime della bonorum possessio, in particolare, il carente richiamo alla cognatio. Si adopererà ancora Giustiniano a migliorare il sistema successorio intestato con due celebri Novellae – la 118 del 543 d.C. e la 127 del 548 d.C.– riordinando le classi di successibili ed esemplando sulla «successio ordinum et graduum» del ius honorarium. Orbene, all’esito di un complesso procedere elaborativo si pervenne a individuare quattro classi di successibili: a) i discendenti in linea maschile e femminile; b) gli ascendenti e fratelli germani (parificati ai genitori); c) i fratelli per parte di un solo genitore consanguinei o uterini; d) gli altri collaterali.

7. LA «VOCATIO CONTRA TESTAMENTUM» Il de cuius che omettesse nel testamento di designare, o diseredare, i sui heredes a beneficio di altre persone ledeva il principio «sui hredes aut instituendi aut exheredandi sunt» violando i crismi del ius civile. L’omissione di soggetti testamentariamente non trascurabili assumeva i contorni tecnici della praeteritio degli heredes sui, praeteritio dei liberi, violazione dell’officium pietatis. La praeteritio degli heredes sui nel testamento supponeva la violazione dei canoni civilistici e il testatore, nonostante la presenza dell’erede o degli eredi, non avrebbe provveduto a istituire, né a diseredare nominatim, come pure gli era d’obbligo. L’obbligo di diseredazione nominatim si attuava concretamente mediante l’indicazione espressa dei nomi dei singoli colpiti da diseredazione e atteneva ai filii maschi di primo grado viventi al momento della morte del de cuius; ai postumi sui già concepiti e nascituri al momento della sua morte; agli altri discendenti in potestate diseredati cumulativamente utilizzando la formula «ceteri omnes exheredes sunto»; agli altri discendenti in potestate, ovverossia, le filiae, l’uxor in manu, i nepotes. Il meccanismo approntato comportava, omessa la diseredazione di un filius maschio, che conseguiva l’invalidità del testamento e contestualmente l’apertura della successio ab intestato; che omessa la diseredazione degli altri sui heredes solo in parte restava invalidato il testamento conferendosi ai discendenti accantonati: il diritto di concorrere in parti eguali con i sui istituiti alla divisione dell’hereditas; il diritto di ottenere, quando non vi fossero heredes istituiti, la metà del patrimonio attribuito con il testamento mancante della loro exheredatio. Quanto ai modi tecnici di operare la diseredazione, e le sanzioni comminate in conseguenza della mancata exheredatio, riferisce Gaio: «Se un pa-

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dre disereda un figlio deve farlo nominativamente: altrimenti il figlio non si considera diseredato. Nominata appare la diseredazione se si diseredi così: “Tizio, figlio mio, sia diseredato”, o così: “mio figlio sia diseredato”, senza aggiungere il nome proprio. Gli altri discendenti, sia di sesso femminile che maschile, basta diseredarli tra gli altri, cioè con queste parole: “Tutti gli altri siano diseredati”; le quali parole … si sogliono aggiungere dopo la istituzione degli eredi» (Gai Inst. 2.127-128). La prateritio liberorum, omissione dei liberi, prevista dal ius honorarium, imponeva che il testatore diseredasse nominatim tutti i discendenti liberi di sesso maschile – sui ed emancipati – che non intendesse istituire mentre comportava, esclusivamente per i liberi di sesso femminile, la diseredazione cumulativa. Di talché, la praeteritio del filius in potestate maschio produceva, anche iure honorario, la nullità del testamento e il pretore concedeva ai liberi che ne facessero richiesta la «bonorum possessio intestati cum re», per ciò stesso, il possesso del patrimonio ereditario in mancanza di un testamento, titolo giuridico potente da far valere se si esperisse la petitio hereditatis da parte degli eredi civilistici. In definitiva, il pretore, sussistendo un testamento utilizzabile iure honorario «septem testium signis signatum» provvedeva a correggere le iniquità della successione, come confezionata dal testatore, conseguendone la «bonorum possessio contra tabulas» e, se non risultassero iniquità, concedeva la «bonorum possessio secundum tabulas». Si aggiunga che i liberi ammessi alla «bonorum possessio contra tabulas» corrispondevano a una categoria più ampia a confronto di quella ammessa alla «bonorum possessio unde liberi» restandovi inclusi i figli che si trovassero in potestà di altro pater al momento della morte del de cuius ammessi alla «bonorum possessio sine tabulis» nell’ordo unde cognati. Violazione dell’officium pietatis ricorreva allorché il testator ignorasse, o richiamasse solo in via marginale, i parenti nel testamento, anche solo cognati, contravvenendo all’affectio e al comune sentire. La tutela giudiziale di questi soggetti, dapprima, si affidò all’esercizio della petitio hereditatis indirizzata contro gli eredi istituiti onde ottenere un pronunciato del collegio dei centumviri che riconoscesse una quota del compendio ereditario. Nel I secolo a.C. verrà escogitato un apposito rimedio tecnico, la «querela inofficiosi testamenti», sorta di reclamo giudiziale che avrebbe consentito agli stretti parenti di impugnare il testamento impietoso chiedendo la partecipazione diretta alla successione del testatore. In età classica l’esperimento dell’azione legittimerà gli esclusi – liberi in potestate e non in potestate del de cuius, genitori, fratelli e sorelle, non già il coniuge superstite – ad agire contro gli eredi testamentari entro il termine di decadenza di cinque anni dall’acquisto della successione e la querela innestava un giudizio discrezionale di fatto valendo la presunzione che spettasse ai soggetti lesi la «portio debita», quota di riser-

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va, pari almeno a un quarto della quota che sarebbe spettata loro ab intestato – per analogia con la «quarta Falcidia de legatis» riservata agli heredes nei confronti dei legatarii – ed è la ragione per cui la portio debita avrebbe acquisito la dizione di «portio legitima» o solo «legitima». Accolta la querela il testamento era riconosciuto inofficiosum, e invalido, di talché, i reclamanti potevano persino conseguire per l’intero la quota ab intestato e non già per il quarto: ragione per cui gli eredi testamentari, convenuti in giudizio, erano indotti a soddisfare, in via extraprocessuale, le richieste dei reclamanti onde evitare una sentenza centumvirale a proprio danno affinché i reclamanti desistessero dal coltivare l’azione e si accontentassero della legittima. Va precisato che l’eventuale exheredatio, o la praeteritio, dei sui heredes sarebbe stata ammessa purché effettuata «bona mente», corredate le scelte del testatore da «iusta causa irascendi» – accadeva nelle circostanze di condotta disdicevole nei confronti del testatore o di condotta di vita fondata su costumi malsani –, e tuttavia, se l’exheredatio, o la praeteritio, fossero indotte «mala mente» sarebbe stata la condotta del testatore a ritenersi impietosa, carente di affectio, e il testamentum sugellato da «color insaniae». Il regime della querela prevedeva nella veste di legittimato passivo l’erede testamentario che avesse acquisito il compendio ereditario ipso iure, o mediante aditio, ma potevano convenirsi in giudizio il fedecommissario universale, coloro che avessero ottenuto la bonorum possessio, inoltre, il fisco che acquisisse il patrimonio ereditario: la legis actio promossa innanzi al tribunale centumvirale presentava originari caratteri di actio in rem, sebbene si ammetterà il ricorso alla legis actio in personam fondata su una sponsio praeiudicialis tra le parti, duttile meccanismo che consentiva di avanzare la querela anche nei confronti del successore iure honorario. ll ius novum postclassico apporterà correzioni intervenendo su talune malformazioni tecniche del regime della querela, così, negando la stessa a chi avesse già usufruito di un’attribuzione successoria dal testatore, sia pure insufficiente, riconoscendo a questi solo un’actio ad supplendum ligitimam, esperibile extra ordinem, a integrazione della portio debita. L’elaborazione ermeneutica che la giurisprudenza profuse in materia di querela infficiosi testamenti e la verifica costante circa la effettiva utilità del rimedio indusse ad estenderne il regime, di talché, al termine dell’età classica si produssero con procedura extra ordinem: la querela inofficiosae donationis, reclamo contro la donazione impietosa esercitabile dagli stretti congiunti del de cuius al fine di pervenire all’annullamento delle donazioni da questi effettuate in vita procuranti lesioni alla quota di riserva; la querela inofficiosae dotis, rispondente alla medesima ratio, rimedio introdotto in età postclassica.

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8. L’EFFETTUAZIONE DELLA «SUCCESSIO IN IUS» L’acquisizione del patrimonio ereditario da parte del successor esauriva ordinariamente la vicenda della successione mortis causa e tale effetto coincideva con la morte del de cuius. Poteva tuttavia accadere che l’effettuazione della successio in ius si realizzasse non già ipso iure, né in un solo momento, ma richiedesse modi realizzativi e fatti o atti perfezionativi. La iurisprudentia individuerà due momenti separati e distinti: a) l’apertura della successione; b) l’acquisizione del patrimonio successorio da parte del chiamato. L’evento naturale della morte del de cuius determinava l’apertura della successione comportando la modifica della chiamata astratta – «vocatio ad hereditatem» o «vocatio ad bona» – nella delazione, ovvero, nella messa a disposizione del patrimonio successorio – «delatio» – al chiamato. Il giurista Terenzio Clemente, nel II secolo d.C., affermerà che «si intende hereditas delata quella che è possibile venga acquisita con l’adesione» (D. 50.16.151 [Ter. Clem. 5 ad leg. Iul. et Pap.]), di talché, ricorrendo a una fictio, si considerava come non trascorso il segmento di tempo occorrente per accertare la vocatio appropriata e per individuare il chiamato alla successione: si ritennero coincidenti i momenti della delatio e della morte del de cuius facendo risalire la delatio all’evento della morte del de cuius. Un solco temporale separava l’acquisizione del patrimonio successorio dall’apertura della successione e l’acquisizione avveniva – lo si richiama –, in taluni casi, ipso iure prescindendo dal volere del chiamato e coincidendo nel tempo con la delatio; in altri casi, richiedendosi l’aditio atto formale di accettazione del successibile in via subordinata alla delatio. L’acquisizione ipso iure ricorreva in due circostanze: a) di delatio hereditatsi a un heres suus ex testamento o ab intestato; b) di delatio hereditatis ex testamento (non ab intestato) a un servus cum libertate heres institutus schiavo nel testamento dichiarato libero ed erede. Orbene, l’heres suus, come pure il servus cum libertate institutus, erano denominati «heredes necessarii» e costretti ad apprendere l’hereditas anche se dissentissero: il primo, nella qualità di «heres suus et necessarius»; il secondo, nella qualità di «heres necessarius». Nell’una come nell’altra situazione il patrimonio ereditario si acquisiva mediante aditio ma, se mancassero gli heredes necessarii, l’hereditas era deferita a successori extranei alla familia proprio iure del defunto, dunque, all’adgnatus proximus, ai gentiles, alle altre persone istituite dal de cuius entro, o al di fuori, della cerchia parentale e quando ricorresse la bonorum possessio. Diversamente dagli heredes necessa-

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rii gli heredes extranei non erano vincolati all’atto formale dell’accettazione bensì liberi di accettare – «heredes voluntarii» – e sicuramente extranei erano i bonorum possessores. Si profilarono vari modi civilistici di aditio hereditatis: a) la «cretio» era atto di accettazione a forma vincolata del tipo «hereditatem Lucii Titii adeo cernoque». Assumeva sembianze di «cretio continua» invitato l’erede ad accettare entro un dato tempo dall’apertura dell’eredità; di «cretio vulgaris» ritenuti utili, ai fini dell’accettazione, solo i giorni «quibus scierit quisque se heredem esse institutum et possit cernere» provvedendo all’exheredatio dell’heres voluntarius che non accettasse nei termini; di «cretio imperfecta» se mancasse la formale exheredatio. Un regime modulato secondo le congiunture e se il testatore avesse provveduto alla nomina di un substitutus, e la cretio era imperfecta, decorso il termine, il substitutus diveniva erede, sebbene potesse accadere, decorso il medesimo tempo, che divenisse erede l’institutus intervenuta la pro herede gestio La giurisprudenza classica intese che dovessero ritenersi coeredi l’institutus e il substitutus ma Marco Aurelio (II sec. d.C.) considerò erede il solo institutus: «et pro herede gerendo ex asse fiat heres» (Tit. Ulp. 22.34) escludendo il substitutus; b) la «pro herede gestio» consisteva nel concreto comportamento tenuto dall’accettante, ininterrotto, come se fosse erede, proteso all’effettuazione di atti concludenti quali l’impossessamento di beni ereditari o il pagamento di debiti del de cuius. Per il ius honorarium la concessione da parte del pretore della bonorum possessio legittimava la richiesta dell’elargizione dei beni, «adgnitio bonorum possessionis» – il riconoscimento e la conseguente accettazione della bonorum possessio – e l’adgnitio abbisognava della datio praetoris per essere efficace a pieno titolo. Si perverrà alla confluenza dei percorsi, civilistico e onorario, solo in età postclassica diluite le differenze tra hereditas e bonorum possessio e accantonate definitivamente le formalità della cretio sarà invalso parlare della sola aditio, al punto, che si ammetterà, oltre alla pro herede gestio, la aditio nuda voluntate, accettazione libera del tutto affrancata dalle forme. Questione delicata si poneva allorché il patrimonio ereditario restasse privo di un titolare a causa di tardiva accettazione. Questo è il caso della «hereditas iacens» e la iurisprdentia elaborò nel tempo opportuni rimedi onde contrastare sì perniciosa evenienza: a) la «repudatio hereditatis» era la rinuncia all’eredità prestata spontaneamente dall’heres voluntarius prima che la delatio fosse rivolta ad altri; b) la «heredis institutio cum cretione» atteneva alla circostanza che la he-

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reditas passasse ad altri soggetti in adesione alla prescrizione del testatore che avesse inteso imporre agli istituiti un termine per la cretio, solitamente cento giorni, diseredandoli se non si pronunciassero, o se si pronunciassero intempestivamente; c) infine poteva ben accadere che i creditori ereditari assumessero in proprio l’iniziativa di rivolgersi al pretore affinché stabilisse un tempus ad deliberandum al fine di indurre il vocatus ad accettare, ovvero, autorizzasse la formale interrogazione in giudizio del vocatus – «interrogatio in iure» – chiedendogli se egli fosse erede («an heres sit») e, di conseguenza, per quale quota lo fosse («quota ex parte»). Altro ambito che richiedeva le cure dei giuristi atteneva agli ‘impedimenti’ all’acquisizione successoria ex testamento, sia a titolo di eredità che di legato, ovvero, gli impedimenti dovuti dalla presenza di qualifiche soggettive, in capo all’heres o al legatarius, viste con disfavore dalla coscienza sociale. In tali casi, ricorreva l’«incapacitas» del successor, in senso specifico e non generale, definita pertinentemente ‘incapacità apprensiva’, dunque, inidoneità del successor ad acquistare – capere – il relictum. Di conseguenza, i cespiti negati all’incapace si consideravano «caduca» e attribuiti ad altri soggetti, o all’erarium, e al fiscus dal II secolo d.C.: il beneficiario dei caduca era tenuto a distrarre dal relictum gli oneri incombenti – debiti, legati, fedecommessi, donationes mortis causa, obblighi ex modo, e ogni altro – riservando a sé il solo residuo attivo («caduca cum suo onere fiunt»). La casistica mortis causa puntualmente raccordata alla realtà sociale prevedeva che l’incapacità apprensiva risultasse circoscritta alle ipotesi considerate ex professo dalla lex Iulia et Papia Poppaea nuptialis, di età augustea (9 d.C.), che dispose l’incapacità apprensiva a carico degli heredes, e dei legatarii, se fossero ‘coelibes’ od ‘orbi’ – soggetti di ambo i sessi non coniugati sebbene di età matrimoniale, o soggetti coniugati privi del numero minimo di filii – colpiti anche da incapacitas successoria. Concerneva il divieto di acquistare (‘capere’), in tutto o in parte, quanto loro fosse lasciato per testamento, il relictum e le limitazioni disposte a carico di queste categorie di persone risultavano esattamente speculari, all’inverso, ai privilegi accordati ai coniugi forniti di prole: pe ciò stesso, sarebbe occorso che i celibi passassero repentinamente a nozze, diversamente, restando inibito l’acquisto di quanto fosse loro lasciato, entro i cento giorni dall’apertura della successione o nei termini della cretio se istituiti cum cretione; quanto agli orbi potevano acquisire solo la metà di quanto loro attribuito acquistando il solidum esclusivamente da cognati entro il sesto grado. E analoghe limitazioni sembra colpissero il vedovo con figli nella posizione di ‘solitarius pater’. Ancora in età augustea la lex Iunia Norbana (19 d.C.) comminava l’inca-

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pacità apprensiva a carico dei Latini Iuniani – schiavi affrancati utilizzando modalità non solenni e incoerenti alla tradizionale manumissio iusta ac legitima, privi della civitas Romana, privi di capacitas testamentaria – con la conseguenza che tutto quanto questi stessi soggetti lasciassero mortis causa confluiva nel patrimonio del patronus, processo di confluenza che giustificava il principio «vivunt quasi ingenui, moriuntur ut servi». Orbene, questi effetti negativi e deleteri, potevano vanificarsi a condizione che tali soggetti acquistassero la civitas Romana conformemente ai modi prescritti dall’ordinamento entro cento giorni dall’apertura della successione. In età classica – il diritto postclassico non avrebbe seguito dissonanti orientamenti – si ritenne doversi estendere la incapacità apprensiva alle feminae probrosae, donne di malaffare pure, al contempo, abolita ogni altra incapacità. Lo stato di incapacitas a seguire le elaborazioni giurisprudenziali si denotava, per molti versi, istituto sinergico, comunque coerente, all’indignitas situazione indecorosa in cui versava la persona e produttiva di impedimenti nella prospettiva della conservazione del patrimonio successorio, sia che il patrimonio dovesse ancora acquisirsi, sia che fosse già acquisito. In diritto classico ricorreva tale stato di indignitas quando l’heres, o il legatarius, si macchiassero di gravi colpe nei confronti del de cuius – vicende non peregrine furono l’omicidio e il tentato omicidio – e l’acquisizione successoria, che fosse questa ex testamento o ab intestato, risultava sminuita ricorrendosi alla sottrazione forzosa del relictum – ‘ereptio’ – in capo all’indegno con conseguente assegnazione all’erarium, di seguito al fiscus. Orbene, se l’hereditas fosse attiva e l’aerarium interessato all’ereptio questo provvedeva a impossessarsi del relictum, rivendicarlo presso l’erede come proprio, intervenire affinché si denegassero all’indegno le azioni successorie. Questione delicata ricorreva se l’hereditas si devolvesse agli heredes voluntarii, ex testamento o ab intestato, restando in uno stato di limbo in attesa dell’acquisizione successoria, in attesa di aditio, presentandosi in continenti come ‘hereditas iacens’e sino al momento in cui intervenisse l’accettazione. Evenienza a dir poco rischiosa prestando il fianco l’hereditas a palese debolezza: passibile di sottrazioni da parte di terzi, di costituire oggetto di cattiva amministrazione, di restare esposta al rischio della dispersione dei sacra, oltre tutto, ponendosi la pratica impossibilità di provvedere al pagamento dei debitori del defunto o soddisfare le pretese dei creditori. Alle tante complessità evidenziate presterà soluzione la giurisprudenza tardo-classica, avvertita dell’esigenza di preservare l’integrità del compendio ereditario, e il rimedio escogitato segnerà un momento elevato, sofisticato, della interpretatio: così, rilevando tali perniciose congiunture argomentano i giuristi che l’hereditas iacens debba supporsi ‘soggetto giuridico immateriale’, ‘autonomo’ e ‘autosufficiente’.

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In realtà, a guardare a ritroso, già in tempi precedenti all’elaborazione dell’istituto della hereditas iacens altre fisionomie tecniche furono all’uopo individuate – l’‘usucapio pro herede’ e la ‘in iure cessio hereditatis’ –, di grande impatto sociale e orientate, in linea di tendenza, a sostenere le ragioni del soggetto estraneo che assumesse il titolo di heres in luogo del vocatus. Sicuramente di alta ascendenza, prodotto con ogni probabilità di interpretatio pontificale post-decemvirale, fu l’istituto dell’‘usucapione a titolo di erede’ (‘usucapio pro herede’) che ricorreva allorquando l’heres voluntarius non intendesse accettare l’eredità, di talché, ammettendosi che un qualsiasi soggetto-terzo potesse esercitare un comportamento, svolgere una condotta, confacente e coerente a quella propria di erede e incidente sul patrimonio relitto così maturandosi in capo a questi, trascorso un anno, il titolo di heres del defunto essendo maturata l’usucapione. Risultava in tal modo garantito un fascio di esigenze sinergiche: la sopravvivenza dei sacra familiaria, la preservazione del patrimonio, le ragioni dei creditori del defunto sebbene, in principio, il regime decemvirale non richiedesse, per maturare l’usucapione, né il requisito soggettivo della buona fede, né il giusto titolo, al contrario di quanto inteso alla fine della repubblica costituendo ora, buona fede e giusto titolo, indefettibili presupposti ai fini della maturazione dell’usucapione. Orbene, il ‘titulus usucapionis’, la ‘causa usucapionis’– lo specifico accadimento distinto dalla materiale consegna della cosa – atteneva, in materia di hereditas, all’intento dell’extraneus di acquistare pro derelicto e non sfugge, certo, che la ratio sottesa all’usucapio pro herede – ovviamente non applicabile in presenza di heredes sui o necessarii considerato che, in tal caso, esisteva il titolare dell’hereditas – risiedesse nel motivo di deterrenza: in concreto, tale ipotesi di usucapione, l’occupazione dell’hereditas, supponeva la potente pressione affinché l’erede volontario si decidesse ad accettare. Lo ricorda Gaio: «Succede poi anche […] che usucapisca chi sa di possedere una cosa altrui, come se uno abbia posseduto una cosa ereditaria il cui possesso l’erede ancora non ha ottenuto: gli è infatti concesso di usucapire, purché si tratti di cosa passibile di usucapione. Questa specie di possesso e di usucapione è detta al posto di erede. Tale usucapione è concessa per modo che si usucapiscano in un anno anche le cose inerenti al suolo. Del perché poi in questo caso si sia fissata un’usucapione annuale anche per le cose del suolo, la ragione è che un tempo col possesso delle cose ereditarie si credeva che si usucapissero praticamente le eredità stesse, s’intende in un anno. Invero la legge delle XII tavole stabilì che le cose del suolo si usucapissero in un biennio, le altre invece in un anno. Ora l’eredità appariva rientrare fra le altre cose, perché non è una cosa del suolo, in quanto non è nemmeno una cosa corporale. E benché poi si sia creduto che le eredità in sé non si potessero usucapire, tuttavia per tutte le cose ereditari, anche quelle legate al suolo, rimase l’usucapione annuale. Del perché poi addirit-

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tura siano stati concessi un così iniquo possesso ed una così iniqua usucapione, la ragione è che gli antichi vollero che le eredità si adissero al più presto, in modo che ci fossero coloro che provvedessero agli uffici di culto, in quei tempi strettamente osservati, e in modo che i creditori avessero da chi conseguire il dovuto». La storia dell’istituto presenterà una chiara regressione nel corso del II secolo d.C. sino a vanificarsi del tutto – salvo sopravvivere la regola per cui le singole res hereditariae, se pure si trattasse di fundi, sarebbero state comunque usucapibili al termine dell’anno soccorrendo la bona fides – a seguito dell’emanazione del senatoconsulto «ex aucoritate Hadriani» che consentiva all’erede, in ogni momento e senza restrizioni, di esercitare la hereditatis petitio contro l’usucapiente pro herede, e Marco Aurelio dispose che l’usurpazione, la depredazione, il saccheggio dei beni ereditari in attesa di accettazione, benché mal custoditi, dovesse avere pregnanza di delitto pubblico, «crimen expilatae hereditatis» (Gai Inst. 2.52-55). La «in iure cessio hereditatis», in vigore sino a tutta l’età classica, comportava la cessione, per vie giudiziali, dell’intero patrimonio ereditario rivestendo caratteri di sofisticata tecnicità. Era attuata dall’heres voluntarius, chiamato all’eredità ab intestato, che cedeva a un terzo cessionario il proprio diritto all’acquisizione ereditaria nel tempo precedente all’aditio e il cessionario diveniva heres – ‘vocatus ad hereditatem’ –, in luogo del rinunziante, sebbene tale possibilità venisse riservata al solo l’heres ab intestato e non già all’heres ex testamento. Tali caratteri davano luogo alla in iure cessio hereditatis ‘impropria’ effettuata successivamente all’acquisizione ereditaria – si pensi alla circostanza che fossero rinunzianti gli heredes necessarii o l’heres voluntarius che avesse già accettato – realizzandosi, per ciò stesso, la confusio dei patrimoni del defunto e dell’erede. Orbene, la iurisprudentia presto consapevole dei notevoli guasti procurati dalla vicenda della confusio hereditatis escogiterà una via d’uscita riferendo tali situazioni a un assetto ‘improprio’ della in iure cessio hereditatis, di modo che, se l’heres operasse realmente la in iure cessio hereditatis questi restava titolare dei debiti ereditari, ora parte integrante del suo patrimonio, rinunciando ai crediti ereditari del defunto, destinati così a estinguersi, e trasferendo al cessionario i suoi diritti assoluti trasmissibili sulle res costituenti il relictum. Illustrerà Gaio gli aspetti tecnici dell’istituto riferendo di una disputa giurisprudenziale insorta nel protoprincipato tra Sabiniani e Proculiani, così, i primi ritennero invalida la in iure cessio hereditatis effettuata dagli heredes necessarii; i secondi inclinarono per la legittimità dei limitati effetti della cessio se effettuata dopo l’accettazione degli heredes voluntarii: «Così se un erede, prima di aver adito formalmente o di essersi comportato da erede, ceda ad un altro l’eredità legittima in tribunale, il cessionario diventa erede a pieno titolo come se all’eredità fosse per legge chiamato lui. Se invece l’erede abbia fatto la cessione dopo esserlo di-

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ventato, continua a rimanere erede e, per ciò, sarà tenuto lui verso i creditori, ma le cose corporali le trasferisce come se in tribunale le avesse cedute una per una, mentre i debiti si estinguono, e, per tanto, i debitori ereditari ci guadagnano. Lo stesso avviene se l’erede scritto nel testamento, dopo essere divenuto erede, abbia ceduto in tribunale l’eredità; prima di averla adita, invece, col cederla non fa nulla. Se l’erede proprio e quello necessario, cedendo in tribunale l’eredità, facciano qualcosa, è discusso. I nostri maestri reputano che non faccia nulla; gli autori dell’opposta scuola ritengono che facciano quello stesso che fanno gli altri dopo avere adito: non conta, infatti, se uno diventi erede adendo formalmente o comportandosi da erede, oppure sia astretto alla eredità per obbligo giuridico» (Gai Inst. 3.85-87). Va richiamato, infine, il divieto di «transmissio delationis» agli heredes, non consentendo a questi di astenersi dall’acquisto dell’eredità e di trasmettere a loro volta agli eredi il diritto di accettare la delazione ereditaria. Scolpito nella massima «hereditas delata et nondum adquisita non trasmittitur ad heredes» il principio civilistico, inizialmente rigido, subirà contemperamenti in età classica e postclassica: di età classica è la «transmissio ex capite in integrum restitutionis» diretta alla concessione di una in integrum restitutio all’erede per consentirgli di accettare l’hereditas che l’antecessore non avesse adito per qualche ragione; di età postclassica sono la «transmissio Theodosiana» concessa ai discendenti di un heres ex testamento istituito da un ascendente nell’ipotesi che il vocatus fosse premorto all’apertura delle tabulae; e la «transmissio Iustiniana» concessa a tutti gli eredi di un heres ex testamento, o ab intestato, che non avesse effettuato l’aditio ma a condizione che l’accettazione di costoro si compisse entro un anno dal giorno in cui il loro antecessore avesse conoscenza della delazione. Se accadesse, per ipotesi, che l’hereditas restasse priva di successori ex testamento, o ab intestato, era costituita da beni vacanti, «bona vacantia» e ricorda Gaio: «Si vendono i beni dei vivi o dei morti: [...]. I beni dei morti si vendono nel caso in cui è certo che non esistono eredi né possessori dei beni né alcun altro legittimo successore» (Gai Inst. 3.78). La lex Iulia de maritandis ordinibus (18 a.C.) di Augusto dispose che si attribuissero tali beni all’aerarium, in seguito al fiscus, a titolo di «caduca» e nel caso residuasse solo il passivo l’hereditas era messa a disposizione dei creditori ereditari legittimati alla «bonorum venditio».

9. LE CONSEGUENZE DELLA «SUCCESSIO IN IUS» Acquisito il patrimonio ereditario il vocatus diveniva egli titolare dei diritti trasmissibili, assoluti e relativi, già nella titolarità del de cuius costituenti l’attivo successorio, al contempo, si onerava dell’adempimento dei debiti tra-

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smissibili gravanti sul de cuius e costituenti il passivo successorio. In concreto, risultavano assorbite, nel patrimonio del successor, le situazioni giuridiche, attive e passive, che ascendevano al defunto, sino a confondersi, con la conseguenza che accettata l’eredità, la confusio risultava irrimediabile, né sarebbe stato possibile ripristinare lo status quo ante. Tale vicenda – si diceva – assume i contorni della confusio ereditaria, talvolta limitata nell’interesse dei creditori o degli eredi, talvolta complicata quando ricorresse una pluralità di successores. Afferenti alla confusio erano gli istituti della «separatio bonorum» e dei «beneficia heredis». La separazione dei beni del defunto – separatio bonorum –, prevista dal ius honorarium, era ingegnata a tutela degli interessi dei creditori del de cuius. Poteva ben accadere che se ad acquistare l’eredità fosse un extraneus al defunto, di per sé gravato di debiti ed esposto alla bonorum venditio, si aprivano due percorsi a) l’apporto patrimoniale proveniente dal de cuius era a tal punto consistente da soddisfare sia i debiti del successor sia i debiti del defunto; b) l’apporto patrimoniale del de cuius viceversa era insufficiente a sottrarlo alla bonorum venditio E in quest’ultimo caso, i creditori ereditari detenevano la fondata aspettativa di conseguire dal pretore l’attivazione della procedura della venditio in via separata dei due compendi di beni così da poter destinare il ricavo della vendita dei soli beni del defunto al rimborso esclusivo dei creditori ereditari. In età classica analoga richiesta non si consentirà ai creditori del successor se costoro, in ragione della propria utilità, non intendessero far partecipare i creditori del de cuius alla liquidazione dei beni del successor. Occorrerà pervenire all’età postclassica affinché si rimodulasse l’istituto della sepratio bonorum introducendo un dies ad quem, massimo un lustrum, per poter avanzare istanza di separatio consentendo, atteso che la liquidazione fallimentare avveniva a mezzo della distrractio bonorum, di procedere a modalità di liquidazione con criteri avveduti così che la vendita dei bona defuncti soddisfacesse le pretese creditorie ereditarie e restituisse un residuo attivo. Sul residuo attivo della vendita legittimamente incombevano anche le pretese dei legatarii ai quali fu consentito di trarne soddisfazione e solo in prosieguo, all’esito di aggiustamenti della disciplina della separatio bonorum, si permise che i creditori del successor potessero conseguire la separatio così da evitare la confusio e l’invadenza dei creditori del defunto evitando che concorressero alla liquidazione dei beni del successor. A limitare il fenomeno della confusione successoria furono apprestati, altresì, i beneficia heredis che consentirono al successore di esimersi dall’accettare l’hereditas se fosse di incerta redditività – «suspecta» – e sottrarsi, come possibile, alle dannosità procurate dall’acquisizione del patrimonio del defunto. Si distinguevano in: «beneficium abstinendi», beneficio di astenersi,

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introdotto dal ius honorarium e rivolto agli heredes sui et necessarii per sollevarli dalle dannose incombenze dell’acquisizione ipso iure e ridurne la responsabilità obiettiva. Occorreva che l’erede non compisse atti di «immixtio», immissione nel patrimonio ereditario, e il pretore consentiva di astenersi dall’assumere gli oneri del passivo ereditario, «abstinere se hereditati». Primo considerevole effetto sarebbe stato che la venditio bonorum si attuava nel nome del de cuius su questi ricadendo l’infamia; inoltre, che i creditori ereditari potessero soddisfarsi esclusivamente sul ricavato della venditio bonorum; e ancora, che ogni acquisto dell’heres al di fuori della successio fosse a lui imputato integralmente: a) «beneficium separationis», beneficio di separazione, introdotto dalla giurisprudenza classica, prevedeva un trattamento di favore riservato agli heredes necessarii sebbene in misura ridotta se confrontato al trattamento riservato agli heredes sui et necessarii. Ne era presupposto la circostanza che l’istituzione del necessarius – designazione di un servus come soggetto libero ed erede – rispondesse alla scelta di procedere alla venditio del patrimonio ereditario nel nome di lui, così da far ricadere su di lui la conseguente infamia, non si intese estendere al servus cum libertate institutus la possibilità di «abstinere se hereditati» pur riconoscendogli la possibilità di ottenere, a condizione che non vi fosse stata immixtio, che gli eventuali suoi futuri acquisti successivi alla vendita del patrimonio ereditato fossero sottratti alle pretese dei creditori ereditari. Si procedeva alla bonorum venditio in suo nome ma si impediva ai creditori ereditari di rivalersi su di lui per la parte dei loro crediti non soddisfatta dal ricavo della vendita; b) «beneficium inventarii» beneficio dell’inventario, introdotto da Giustiniano, sopperiva all’esigenza di incoraggiare gli heredes voluntarii all’aditio di una hereditas ritenuta passiva. Aperta la successione, entro trenta giorni, un notaio – «tabularius» – ottemperava all’onere di inventariare l’attivo ereditario e, adempiuta questa previa operazione, l’heres sarebbe stato ora nelle condizioni di accettare entro i limiti dell’attivo: «entra vires hereditarias». Ricorrendo una pluralità di successores i diritti trasmissibili, provenienti dal de cuius, si acquisivano a titolo di communio ereditaria – originata nell’humus decemvirale e afferente al consortium ercto non cito dei fratres sui heredes («consortium fratrum suorum») – e la responsabilità per i debiti contratti dal defunto avrebbe gravato su tutti i successori. Quanto al calcolo delle quote Il compendio ereditario era denominato asse – «as» – suddividendosi, quanto al calcolo delle quote, in dodici «unciae»; in due dodicesimi pari a un sesto di asse – «sextans» –; in tre dodicesimi pari a un quarto – «quadrans» –; in quattro dodicesimi pari a un terzo – «triens» –; in cinque dodicesimi – «quincunx» –; in sei dodicesimi – pari a mezzo as; in sette dodicesimi – «sep-

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tunx» –; in otto dodicesimi pari a due volte un triens – «bes»; in nove dodicesimi pari a un asse meno un quadrans, «de asse quadrans» o «dodrans» –; in dieci dodicesimi pari a un asse «dempto sextante» o dextans»; in undici dodicesimi pari a un asse «dempta uncia» o «deunx». Si ricorreva a un preventivo accordo per operare la divisione del compendio ereditario – «divisio» –, alla spartizione della communio hereditatis tra i comunisti, e in mancanza di accordo all’esperimento dell’azione divisoria dell’eredità all’«actio familiae erciscunadae»così denominata in quanto chiamati («ciere») i coeredi a dividere («erciscere») il patrimonio ereditario («erctum ciere»); lo stesso accadeva se rilevasse communio tra bonorum possessores ed era accordata, iure honorario, un’«actio familiae erciscundae utilis». Se il vocatus rinunciasse, per qualche ragione, ad acquisire l’hereditas, o non potesse acquisire, aveva luogo il diritto di accrescimento – «ius adcrescendi» –, meccanismo che comportava l’implementazione della quota del vocatus, del quantum che già gli spettasse in attivo e in passivo, secondo parametri maggiori così incidendo sulla commisurazione delle quote degli altri successori. In presenza di più discendenti del de cuius e avendo questi attribuito in vita cespiti all’uno o all’altro, o concesso la facoltà di fare acquisti per proprio conto, al fine di evitare inique sperequazioni a danno dei discendenti non identicamente gratificati, si congegnò l’istituto della ‘collazione dei beni’ – «collatio bonorum» – che operava secondo le varie situazioni che si presentavano: a) la «collatio emancipati», prevista dal ius honorarium, era la collazione posta a carico dell’emancipato in ordine alle due ipotesi di bonorum possessio liberorum contra tabulas e di bonorum possessio ab intestato unde liberi annoverandosi tra i liberi, sia i sui heredes, sia i discendenti che il de cuius avesse in vita emancipato pervenendo, questi, allo status di soggetti giuridici in forza di emancipatio e capaci di costruire un proprio patrimonio. Tali soggetti non avrebbero potuto giovare della datio bonorum possessionis a loro favore se previamente non avessero garantito ai sui heredes, a mezzo della «cautio de bonis conferendis», di dividere con loro i propri beni nei limiti del saldo attivo, «deducto aere alieno»; b) la «collatio dotis», prodotto ermeneutico della giurisprudenza classica, sovveniva nel caso di bonorum possessio contra tabulas o unde liberi per costringere la filia, sua heres o emancipata, a promettere ai sui heredes di dividere la «dos profecticia» attribuita dal pater al marito, nel suo stesso interesse, con diritto alla restituzione; c) la «collatio discendentium», collazione dei discendenti, istituto costruito all’esito di sinergie di hereditas e bonorum possessio, prevedeva che i di-

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scendenti chiamati alla successione conferissero alla massa ereditaria – «conferre in medium» – il controvalore del quantum avessero ricevuto in vita gratuitamente dal de cuius di talché si procedesse alla ripartizione dell’intero tra tutti gli aventi diritto.

10. LA «SUCCESSIO MORTIS CAUSA IN SINGULAS RES» La «successio mortis causa in singulas res» – l’espressione rimanda all’età postclassica – richiedeva la previa confezione del testamentum, l’indicazione dell’erede mediante la clausola della heredis institutio, affinché si realizzasse legittimamente l’acquisizione successoria da parte dell’erede istituito. Indicato previamente l’erede sarebbe stato possibile inserire nel testamento ulteriori clausole e disposizioni – legata, manumissiones, datio tutoris, donationes mortis causa – altrimenti invalide, e inefficaci, se mancasse l’istituzione dell’erede. La possibilità che il testatore, una volta indicato l’erede, compisse un atto di liberalità a titolo particolare a beneficio di soggetti che non erano continuatori della sua persona, né tenuti ai suoi debiti, né obbligati ai suoi sacra, rimanda all’istituto del legatum che onera l’erede istituito. E in età augustea verrà contemplato altro modo di liberalità ed è il fideicommissum a titolo particolare, non necessariamente contenuto in un testamentum, a carico di chiunque ricevesse un quid dal defunto. Se legatum e fideicommissum si presentavano in origine antitetici progressivamente si avvicineranno sino a condividere l’unitaria disciplina con Giustiniano. Entrare in medias res è richiamare la mole di elaborazione giurisprudenziale profusa, già in età repubblicana, in materia di legati, come in materia di testamenti, e Q. Mucio Scevola determinato a restituire ordine al ius civile, e alla materia successoria, sarebbe pervenuto a elaborare morfologia del legato, dei tipi di legato, come del testamento e dei vari tipi di testamento, individuando un’area semantica definita e separta per il testamento e il legato. La partizione dei tipi riconduce alla differente efficacia giuridica dei singoli legati – reale e obbligatoria – e affinché correttamente possano intendersi i nessi logici sottesi allo sforzo giurisprudenziale sarà necessario accedere a un criterio storico, oltre che epistemologico. Così, indagato funditus il terreno delle liberalità in singulas res, si è chiarito che «Il concetto generale del legato non è originario, ma è il risultato di un progressivo processo di astrazione, che non si può supporre in epoca primitiva», E ancora Gaio, nelle Institutiones, accingendosi a illustrare l’istituto del legato «premessa la consueta frase di transizione post haec videamus de legatis (2,191), inizia la trattazione insegnando: legatorum itaque genera sunt quattuor (2,192)» (B. Biondi,

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Successione testamentaria. Donazioni, Milano, 1955², p. 267). Che il legato sia un istituto che non presenta radici repubblicane è inconfutabile e più di un indice testuale induce a ritenere che i tratti originari dell’istituto risalgano a quel tempo incerto delle origini atto a restituire alla storia giuridica materia grezza da affinare. Dall’humus primigenio affiorano tracce importanti e molti processi, iniziati in un tempo precedente al V secolo a.C., vengono a maturazione con le XII tavole traduttive dello sforzo di offrire alla nascente civitas un diritto meno controverso, meno orientato dai pontefici, meno patrizio. In tal senso, la legislazione decemvirale svolge opera stabilizzatrice, riduttiva delle complessità, specchio di una fase storica più avanzata e matura in cui affiora l’esigenza di individuare un ordine giuridico cittadino. Il principio decemvirale ‘uti legassit’ ne costituisce prova: Tab. 5.3: «Se il pater familias abbia disposto (= ‘dicere legem’, ossia, eserciti il ‘ius disponendi’) sul proprio patrimonio e la tutela delle sue cose, ciò è giusto». Straordinario momento di innovazione, che ‘spezza’ la rigidità dei mores, l’uti legassit consente al civis del V secolo di gestire la sua res con discrezionalità in funzione di necessità inerenti a nuovi ritmi della civitas. Patrizio o plebeo che sia al civis del V secolo è concesso di gestire la sua res: le tavole glielo consentono, né gli impongono vincoli di alcun tipo. Una svolta. La vera ricchezza è pur sempre ricchezza di terra ma si profilano altri tipi di economia, altro tipo di ricchezza, e lievita una differente vitalità all’indomani dell’avvento etrusco: l’uti legassit restituisce una chiave di lettura per intendere le dinamiche sociali ed economiche, il fermento che permea la nascente civitas tra VI secolo e prima metà del V secolo. Manca, in Tab. 5.3, il riferimento alle gentes. La norma sull’uti legassit non prevede richiami alle gentes, diversamente da altri contesti delle tavole che vedono le gentes coinvolte e attive: accade per la regolamentazione della successione intestata e della tutela. Non alle gentes, ma al civis, si rivolge l’uti legassit: il civis è al centro di un progetto di società alternativo rispetto all’ordinamento gentilizio e messo nelle condizioni di esprimere le proprie esigenze, effettuare le scelte, valutare strategicamente gli obiettivi. Il civis è lasciato libero di decidere. Decideva il civis patrizio, di talché, mancando i sui heredes, questi avrebbe potuto, o meno, ricorrere al testamento comiziale. Nel ricorrervi nulla avrebbe ostato a che usufruisse anche dell’uti legassit, dalla metà del V secolo, per destinare ad altri la ricchezza familiare, d’altronde, non vi è traccia

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nelle fonti che escluda tale possibilità. Mancando di ricorrervi questi era consapevole che si sarebbe aperta la successione intestata decemvirale e nulla gli vietava di godere delle opportunità offerte dall’uti legassit. Decideva il civis plebeo, che aveva costruito la propria fortuna emergendo dalla multitudo, ed è per concedere al civis plebeo possibilità negate dai mores che i decemviri avrebbero approntato un assetto duttile di regole. L’economia plebea presenta, nel V secolo, valenza composita: economia di artigianato e di scambio non omogenea ai modi di produzione propri di una economia chiusa e tendenzialmente autosufficiente come quella delle gentes. Differenti modi di produrre ricchezza comportano differenti modi di essere civis ed essere nella civitas: l’uno involto su se stesso ed è il modo patrizio e gentilizio; l’altro proiettato verso l’esterno ed è il modo plebeo, di una plebe intraprendente. Guadagnare la plebe alla città significava, anche, approntare uno strumento giuridico, del tipo dell’uti legassit, che consentisse di non disperdere la ricchezza accumulata. Colpisce una intransigenza della norma decemvirale. Non solo è estraneo all’uti legassit il ricordo delle gentes, ma dell’adgnatio, opzione che spoglia di ogni velo il disegno dei decemviri. Non menzionare l’adgnatio, né attribuire all’adgnatio funzioni suppletive, confortava il proposito di demandare al singolo, al civis, ogni decisione sul proprio in piena discrezionalità. Si trattava di recidere i legami dell’individuo con gli assetti personali allargati, parentali e paraparentali, all’interno della civitas, pertanto, negligere l’adgnatio allo stesso modo in cui si evitavano riferimenti alla gens: il civis è ora nelle condizioni di ‘legare’, ‘legem ferre’, e al ‘ius esto’ riferito agli status personali si connette il ‘ius esto’ riferito alla ‘res sua’. Colpisce la forza della disposizione. L’uti legassit non altera lo statuto giuridico del pater familias restando intatto l’assetto dei suoi legami familiari, le regole potestative, l’esclusività della posizione del pater. Né si aliena la pregnanza giuridico-sociale del testamentum calatis comitiis, né residuano tracce di abrogazione del testamentum in procinctu, sopravvivendo i «duo genera testamentorum» più antichi alla novità decemvirale: l’uti legassit individua lo sforzo della ragione giuridica di corrispondere alla ragione civile, così che, ‘legare’ la ‘sua res’ è riconoscere al pater quella originaria ‘latissima potestas’ sorgiva dell’‘heredem instituere’, del ‘dare legata et libertates’, del ‘constituere tutelas’ (D. 50.16.120 [Pomponius 5 ad Q. Mucium.]). La disposizione decemvirale impone una svolta al regime successorio dei mores. Vi si connette il fascino di una primogenitura e il suo valore simbolico non verrà smarrito nel tempo. Il legato, come il testamento, alla fine della

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repubblica individua un’area semantica definita: la partizione dei tipi riconduce alla differente efficacia giuridica – reale e obbligatoria – e i confini tra i tipi dividono e uniscono, pongono le distinzioni, ma descrivono i caratteri di quel che sottende il diverso. Un registro analitico avvertito da Q. Mucio che riversa la materia «de hereditatibus et legatis» in cinque libri, forse sei, a esordio dell’opera civilistica. Si adopera Q. Mucio al fine di restituire l’assetto ordinativo in genera dei testamenti (Gai Inst. 2.101 ss.), della tutela (Gai Inst. 1.188), del possesso (D. 41.2.3.23 [Paulus 54 ad ed.]) ed è attendibile che ascenda al maestro repubblicano la sistemazione in genera dei legati (Gai Inst. 2.192 ss.), come delle obbligazioni (Gai Inst. 3.88), delle azioni (Gai Inst. 4.1). L’ordine muciano verrà rispettato da Sesto Pomponio. I primi dieci libri dell’opera pomponiana di commento a Q. Mucio riproducono lo schema dei diciotto libri iuris civilis muciani e anche Pomponio situerà la materia dei testamenti e dei legati al principio della trattazione. Sintomatico che dei tredici testi del commento pomponiano a Q. Mucio in cui residua traccia del nome del maestro repubblicano, sono centotredici in totale i brani tratti dai libri ad Q. Mucium di Pomponio trasmessi nel Digesto di Giustiniano che attengono specificamente ai legati e la formula «do lego» ricorre in D. 33.1.7 (Pomponius 8 ad Q. Mucium); D. 34.2.10 (Pomponius 5 ad Q. Mucium.); D. 34.2.33 (Pomponius 4 ad Q. Mucium); D. 34.2.34 (Pomp. Pomponius 9 ad Q. Mucium); mentre in D. 33.2.40 (Alfenus 8 dig. a Paul. ep.) compare la formula del solo «lego». Attingendo, verosimilmente, ai “Libri iuris civilis” di Q. Mucio potrà asserire Sesto Pomponio nel medio-principato: D. 50.16.120 (Pomponius 5 ad Q. Mucium): «Una ‘latissima potestas’ è riconosciuta al testatore nel disporre mortis causa secondo il precetto decemvirale “uti legassit suae rei, ita ius esto” e consiste nell’istituire l’erede, disporre legati e affrancazioni, costituire tutele […]». Orbene, non è azzardato sostenere riferita la sistemazione di Q. Mucio, rielaborata la copiosa riflessione profusa in materia dalla scientia iuris repubblicana, restituita la classificazione gaiana dei quattuor genera legatorum, che l’istituto del legato attinga alla storia risalente della comunità né si intenderebbero i percorsi ricostruttivi, sino all’assetto storicamente finito e definito, se si rinunciasse a coglierne le differenze con l’eredità: questa la summa divisio del diritto ereditario. Eredità e legato delineano modi differenti della vicenda mortis causa – fenomeno della successione e dell’acquisto derivativo – e se corretto è ritenere che «ogni successione importa anche un acquisto derivativo», non altrettan-

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to è l’inverso posto che «non ogni acquisto derivativo importa una successione, giacché non in ogni acquisto derivativo si ha subingresso nella posizione giuridica del predecessore, che è la caratteristica della successione». Il criterio di distinzione di eredità e legato è criterio di qualità, né potrebbe essere diversamente considerato che, per solo criterio di qualità, il succedere si distingue dal non succedere. Per ciò stesso, le fortune del legato risiedono nell’attitudine a produrre effetti che non sarebbe possibile conseguire con la successione: il legato modifica le regole dell’ordo successorius ed è, in questo snodo, che cadono le differenze col testamento. Tema antico, ‘aristocratico’, il raccordo testamento-legato, e se ne è rimarcato il nesso asserendo che la varietà dei generi di legato corrispondeva all’esigenza di una propria libertà di movimento del testatore». Profondendo cure analitiche la giurisprudenza avvertiva il significato, e l’opportunità, della sistemazione in genera dei legati, ma ne percepiva la concreta utilità che eccedeva i motivi della mera predilezione per la materia. Se ne è inteso l’intimus sensus: era l’importanza pratica dell’istituto e non la mera predilezione verso di esso, a comportarne una trattazione più diffusa. Legati a effetti reali tali da comportare l’acquisto di un diritto assoluto sulla res legata da parte del legatario erano il legatum per vindicationem (2.193 ss.) e il legatum per praeceptionem (2.216 ss.); a effetti obbligatori diretti a costituire un diritto di credito del legatario verso l’erede erano il legatum per damnationem (2.201 ss.) e il legatum sinendi modo (2.209 ss.). In questi termini espone Gaio i genera legatorum ed è inquadramento che costituisce pars di un più ampio perfectum attinente alla storia dei genera testamentorum (2.101 ss.), dei limiti e riduzioni nei legati (2.224-227), dell’eredità fedecommissaria (2.252-259), del fedecommesso (2.286-289), della successione intestata (3.1 ss.). Affinché un legato possa produrre pienamente effetti giuridici è necessario che che non sia inficiato da nullità sussistendo requisiti di forma da preservare, sebbene attenuati in prosieguo di tempo, e attenevano alla validità del testamento ospitante il legato, alla collocazione nel testamento previamente iscritta l’istituzione di erede, ai termini di redazione del legato. L’acquisto del legatum conseguiva all’acquisizione successoria dell’heres institutus e nel caso venisse istituito un heres voluntarius l’acquisto del legato andava rinviato al momento dell’accettazione ereditaria. Ritenuto a seguito di elaborazione della giurisprudenza preclassica che sin dal momento dell’apertura della successione il legato sottendesse un’aspettativa di diritto per il beneficiario, si intese che il ‘dies cedens’, giorno della riserva del diritto, corrispondesse al momento da cui il legato era riservato al legatario, comunque, coincidendo con la morte del testatore: regola generale applicata ai legati puri ed estesa ai legati sottoposti a termine iniziale certus quando; di-

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versamente, per i legati sottoposti a dies incertus quando o a condicio, il dies cedens coincideva col verificarsi della circostanza terminale o condizionale. In definitiva, se non intervenisse l’aditio, o non fosse maturato il dies certus, il legato non era ritenuto esigibile e occorreva che sopravvenisse il ‘dies veniens’, giorno della esigibilità del diritto, affinché il legatario potesse esercitare, a propria tutela, l’actio in rem o l’actio ex testamento. Molteplici erano le cause impeditive dell’acquisto del legato: a) la mancata acquisizione successoria da parte dell’heres institutus; b) la invalidità iniziale del testamentum; c) la invalidità della singola disposizione di legatum; d) la invalidità sopravvenuta alla confezione del testamentum ma precedente al dies cedens (si pensi alla circostanza della premorienza del legatarius rispetto alla morte del testator o alla perdita della res legata per vindicationem da parte del testator); e) la ademptio legati, revoca del legatum da parte del testator richiamata in un successivo testamentum o nei codicilli testamento confirmati (nella forma «heres meus ne dato»), se pure non manchino casi di revoca tacita del legato per alienazione della res legata per damnationem; f) la translatio legati, traslazione, trasferimento del legatum ad altro onorato con un successivo testamentum o in codicilli testamento confirmati. Le cause di nullità del legato andavano dedotte, in ordine ai singoli tipi, da quanto argomentato circa i requisiti di validità richiesti per ciascuno. Senz’altro nullo si riteneva il legato disposto a favore di persona sfornita di testamenti factio, o anche, il legato di cosa in proprietà del legatario: a seguito dell’emanazione della ‘regula Catoniana’, antica massima riferita a Catone il vecchio, si valutò, ove ricorressero cause di invalidità iniziale, che il legato non potesse comunque convalidarsi anche se rimosse, tali cause, prima della morte del testator. I giuristi classici inclineranno per una interpretatio accentuatamente restrittiva tanto che la regula Catoniana, da originario principio inerente alla sola materia mortis causa, costituirà principio generale applicabile anche inter vivos. Dei «quatuor genera legatorum» gaiani occorrerà illustrare più da presso i contorni: Si è richiamato prima che sono legati a effetti reali: a) il «legatum per vindicationem» = l.p.v. (nella forma: «Titio hominem Stchum do lego»), ‘legato per rivendicazione’. Vi ricorreva il testatore quando si proponesse di trasferire la proprietà di un bene al legatario o di concedere sul bene un diritto reale, ius in re aliena. Species di legato che mutua il nomen dall’azione reale – rei vindicatio – accordata al legatario nella ipotesi di

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mancato conseguimento del bene legato, actio in rem, promossa contro i soggetti (l’erede o altri) che ne trattengano il possesso; b) il «legatum per praeceptionem» = l.p.p. (nella forma: «Titius heres meus hominem Stichum praecipito»), ‘legato per prelievo’ o ‘prelegato’ o ‘legato uni ex heredibus’. Comportava il diritto, a favore di uno dei coeredi, di impossessarsi della res legata prima (‘praecapere’) della divisione ereditaria sottraendola all’hereditas. Il legare per praeceptionem presenta una più antica e una più recente storia: ascende alla praeceptio decemvirale per evolvere in l.p.p. quando il praecipere si consolida in assetto istituzionale definito. Si deve partire dall’antica praeceptio – risalente, accertata, era l’esigenza di assicurare tranquillità economica a taluni successibili legati al de cuius: la uxor a cui andava restituita la dote, il filius a cui occorreva garantire il peculio – per intendere l’accezione più alta del legare nella forma per praeceptionem e Gaio riferirà che l’oggetto del l.p.p. dovesse circoscriversi alle cose corporali attualmente del testatore (Gai Inst. 2.220). Il prelievo operato dal coerede favorito con la praeceptio a carico dell’altro coerede, comunque a carico della massa ereditaria, comportava imputazione della res alla quota, né i coeredi sfavoriti avrebbero potuto arginare gli effetti prodotti dalla scelta del de cuius, di talché, la praeceptio funzionava da ‘anteparte’ nei limiti della quota e l’impossessamento autoritativo del coerede risultava effettuato secondo le indicazioni impartite dal disponente. In questo stadio più risalente mancava il legato: la prassi del praecipere, antecedente alla praeceptio propria del testamento mancipatorio, attendibilmente è da ricondursi all’hunus decemvirale comune all’uti legassit (Tab. 5.3) rispondente all’impulso di iniziativa e di gestione del proprio. Solo poi, la praeceptio si convertirà in l.p.p. e le modalità del praecipere si tradurranno in un assetto giuridico stabile e definito così, una volta incardinato il praecipere nel legare sarà possibile quanto prima era negato, ossia, il superamento del rigido schema dell’assegnazione dei beni destinati all’erede favorito in partem hereditatis – l’imputazione alla quota ereditaria – e la possibilità di attribuire extra partem hereditatis. Sono legati a effetti obbligatori: a) il «legatum per damnationem» = l.p.d. (nella forma: «heres meus hominem Stichum Titio damnus esto dare»), ‘legato per imposizione di obbligo’. Species di legato che comportava la costituzione di un debito per la res legata a carico dell’erede e a beneficio del legatario. Si applicano al lpd. i principi generali delle obbligazioni: se ricorra congiunzione ‘re et verbis’tra i legatari l’obbligazione andrà divisa in tante parti quanti sono i chiamati e la deficienza di taluno comporterà un vantaggio all’erede; se ricorra ipotesi di congiunzione ‘re tantum’ ne conseguiranno tante obbligazioni distinte con oggetto eguale e l’erede sarà tenuto a consegnare la res, o il valore corrispondente,

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tante volte quanti siano i legatari-creditori. Nel caso di res o di opera indivisibile, oggetto del lpd., chiunque tra i coniuncti re et verbis potrà assumere l’iniziativa di un’azione in solidum contro l’erede consumando anche il diritto dei collegatari. Preciserà Gaio che per damnationem potevano legarsi, oltre alle cose dell’erede, anche alienae res incombendo, ora, sull’erede l’onere di procurarsi le cose stesse o di renderne il controvalore e, persino, sarebbe stato possibile legare una res «quae in rerum natura non est» come i «fructus … qui in illo fundo nati erunt …» purché le stesse res «dari possint» (Tit. Ulp. 24.9). Nella eventualità di inadempimento dell’erede il legatario avrà modo di agire nei confronti del primo promuovendo un’actio in personam, actio ex testamento. In età giustinianea ogni ambivalenza, ogni aporia, sarà superata in via definitiva applicandosi, a ogni lascito, il regime dei legati per vindicationem comunque appurata la voluntas del testatore; b) il «legatum sinendi modo» = l.s.m. (nella forma: «heres meus damnas esto sinere Titium hominem Stichum sumere sibique habere»), ‘legato per prescrizione di permettere’. Si trattava di sottospecie del legatum per damnationem e comportava, in capo all’erede, il costituirsi di un obbligo negativo di consentire (‘sinere’) al legatario di impossessarsi pacificamente di una res, adempiere un debito, o altro. Fare testamento, di talché, entrava nelle abitudini ed era tra le massime soddisfazioni dei cives in età repubblicana e a diffondere l’uso dei testamenti contribuì l’inclinazione a mostrare che si possedevano molti amici disponendo legati a una quantità di persone: espressione di elevato status sociale a cui non si intendeva rinunciare, portato di esigenza emozionale, solatium mortis. Pure, ogni eccesso di cui una società si macchia è destinato a rovesciarsi nel suo opposto e l’indiscriminata libertà di legare avrebbe presto prodotto diffusa patologia sociale: sarebbe accaduto anche a Roma e intervenire, disciplinare, comportato secondare il varo di misure legislative dirette a comprimere prassi smodate in materia di manomissioni testamentarie e legati. Appena successiva alla seconda guerra punica è la lex Furia testamentaria – datata intorno al 170 a.C. – primo provvedimento volto di ridimensionare l’entità delle disposizioni mortis causa a titolo particolare oneranti il patrimonio ereditario che vietò «plus mille assibus legatorum nomine mortisve causa capere» ad eccezione delle persone dei coniugi, fidanzati, cognati entro il sesto grado e del sobrino natus entro il settimo grado (Gai Inst. 2.225). Ma nonostante che il plebiscito Furio prevedesse la manus iniectio a danno del legatario a cui si vietava di capere il legato, oltre la misura legale di mille assi, introducendo la pena al quadruplo del valore del legato a danno del trasgressore, la disposizione nasceva debole, lex minus quam perfecta, priva di reale deterrenza non obbligando, anzi, paradossalmente favorendo le trasgressioni.

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E analoghi caratteri caratterizzeranno la lex Voconia de mulierum hereditatibus (169 a.C.) (cfr. Gai Inst. 2.226) che vietava, al secondo caput, di ricevere per legato più di quanto avesse l’heres ma si presentava ancora inconsistente e inappropriata la risposta normativa ove ricorressero situazioni di devianza in tal caso prevedendosi il solo versamento dell’eccedenza all’erario. Gaio illustrerà le cause dell’insuccesso della disposizione voconia insistendo sul difetto di coordinazione tra gli obiettivi da perseguire e gli strumenti operativi adottati, con l’effetto di risultare vanificato lo sforzo legislativo di sostanziare condizioni di equità per l’erede coerentemente all’esigenza dell’abbattimento della entità dei lasciti. Oltre un secolo dovrà trascorrere per pervenire all’emanazione della disposizione legislativa adatta, nei profili tecnici, a conseguire gli effetti virtuosi auspicati così da garantire la libertà di disporre per testamento e assicurare la tutela delle ragioni dell’erede: il tempo che intercorre tra la lex Voconia e la lex Falcidia de legatis (40 a.C.) (cfr. Gai Inst. 2.227; 254). Il plebiscito falcidio, suddiviso in capita, esaudirà l’esigenza di conseguire reddito dall’imposta di guerra disposta sulle successioni testamentarie: al primo caput liberava i cives dalle limitazioni imposte con le leggi Furia e Voconia; al secondo caput stabiliva che l’erede testamentario fruisse almeno di un quarto («quarta Falcidia») dell’eredità («ne minus quam quartam partem hereditatis eo testamento heredes capiant») con la conseguenza che i legati eccedenti il dodrante venissero proporzionalmente ridotti. Si comprendeva, corretta la linea di intervento normativo, che sarebbe occorso intervenire direttamente sul potere di disporre del testatore piuttosto che vietare al legatario di «capere plus quam heredes ceperent»: questo il percorso giusto e tale disposizione verrà opportunamente estesa ai fedecommessi dal Sc. Pegasianum dell’età di Vespasiano (intorno al 75 d.C.). Con altro senatoconsulto – il Sc. Neronianum de legatis del I sec. d.C. le cui tracce andarono affievolendosi, sino a scomparire, nella compilazione giustinianea – si intese accostare i quattuor genera legatorum prevedendo che un legatum per vindicationem difettoso, che non valesse come tale (si pensi alla circostanza che il testatore legasse una cosa d’altri), potesse legittimamente convertirsi in legatum per damnationem (l’erede era tenuto a procurarsi la res garantendone l’acquisto della proprietà al legatario). L’assetto descrittivo-sistematico dei quattuor genera legatorum delineato da Q. Mucio alla fine della repubblica nei diciotto libri iuris civilis, richiamato da Gaio nelle Institutiones, riprodotto nell’Epitome Ulpiani, riesposto nell’Epitome Gai pur con evidenti sconnessioni rispetto all’esposizione delle istituzioni gaiane, ribadito nella lunga descrizione del sesto titolo del terzo libro delle Pauli Sententiae dedicato ai legati, confluirà nel progetto di ri-

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forma del diritto ereditario voluto da Giustiniano a epilogo della vicenda storica dei modi legandi. La fusione dei genera legatorum risulta da una celebre costituzione richiamata nel Codice giustinianeo – C. 6.43.1 pr.-1 (529 d.C.): su questa ci si intratterrà in seguito

10.1. I fedecommessi ‘Fideicommissum’ era la disposizione di ultima volontà, a titolo particolare o universale, in forma di preghiera – «ab aliquo petere», «aliquem rogare», «fidei alicuius committere» – rivolta a taluno degli eredi, o dei legatari, affinché raccogliesse i beni ereditari, ovvero, la disposizione di ultima volontà, in forma di preghiera, contenuta in un atto, appendice del testamento o autonomo dal testamento, ai cui si attribuì il nome di ‘codicilli’. Il regime del fedecommesso universale a immediata restituzione, sullo stampo del legatum partitionis – legato di una quota dell’eredità che l’erede era tenuto ad assegnare al legatario (nella forma «heres meus cum Titio hereditatem meam partitor» o «dividitor») –, prevedeva che il fedecommissarioonorato fosse acquirente dell’eredità, o della quota ereditaria, e che l’eredefiduciario fosse tenuto a trasmettere le cose corporali secondo modalità tecniche idonee a rendere dominus il fedecommissario. Si provvide differentemente per la trasmissione dei crediti e dei debiti ricorrendo a reciproche stipulazioni, di talché, l’erede si impegnava a trasferire al fedecommissario quanto avrebbe conseguito dai debitori consentendo al fedecommissario di esercitare, in qualità di procuratore, le azioni avverso gli inadempienti; di contro, il fedecommissario si obbligava a indennizzare l’erede del quantum dovuto ai creditori ereditari e di assisterlo in giudizio. Nel 56 d.C. il Sc. Trebellianam dispose, in caso di trasmissione della proprietà su cose corporali, la concessione di actiones utiles a favore e contro il fedecommissario: queste, azioni ordinariamente spettanti all’erede o contro l’erede. E il Sc. Pegasianum, dell’età di Vespasiano (69-79 d.C.) prescrisse, nel caso l’erede non accettasse l’eredità per qualche ragione non interessato, di ritenere la quarta, ovvero, la quarta che la lex Falcidia identicamente gli garantiva nei confronti dei legatari, attribuendo al fedecommissario la facoltà di adire il pretore al fine di costringere l’erede all’adizione, piegarne la resistenza, sottrargli la quarta. A istituti del tipo del fideicommissum si connette, nel corso del I secolo d.C., parte notevole, di certo significante, del processo di trasformazione che avrebbe interessato il diritto successorio e insistendo specificamente sul fideicommissum si intese indugiare su un istituto duttile, adatto a superare talune rigidità civilistiche, affidandone la tutela alla cognitio extra ordinem.

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Viene tramandato che i primi fedecommessi, ordinati in codicilli, vennero escogitati da tale L. Lentulo e da questi posti a carico di Augusto. E il principe seguendo il consiglio dell’autorevole giurista C. Trebazio Testa, e di altri eminenti giureconsulti del suo consilium, avrebbe ritenuto validi i fedecommessi disposti con «codicilli confirmati in praeteritum vel in futurum» accordando la relativa tutela giurisdizionale. Se l’onerato mancasse alla fides, tradendo la fiducia del disponente, il fedecommissario avrebbe potuto accedere al giudizio extra ordinem per ottenerne l’esecuzione. Libero da condizionamenti di forma e scaturente dalla sola voluntas del disponente comunque manifestata, privo di contenuti tipici e autonomo rispetto agli istituti civilistici prossimi – heredis institutio, legatum, manumissio directa –, il fideicommissum condizionerà gli istituti del ius civile rimanendone condizionato, comunque, rivendicando autonomia e duttilità rispetto allo strictum ius degli istituti civilistici – ne sia prova la persistente differenza tra fideicommisssum di res singulae e legatum per damnationem –: si innervava alla fides denunciando una predisposizione a scivolare sul terreno dei rapporti inter vivos di buona fede. Con valide ragioni si intese che il fedecommesso attingesse alla volontà del disponente ma che il mancato utilizzo della forma prescritta, rapportando al tipo di legato, non ne procurasse per ciò stesso l’invalidità, di talché, piuttosto che restare ingessato per torsione funzionale il legato sarebbe valso come fedecommesso. D’altronde, all’indomani della emanazione del Sc. Neronianum alcuna disposizione testamentaria, in linea di tendenza, sarebbe stata ritenuta nulla per vizio di forma e un legato disposto con forma inadeguata, comunque, ritenuto efficace e commisurato a quanto realmente valesse; al più, andava appurato se la disposizione ricadesse sotto il regime del legato o del fedecommesso. E in età postclassica si perverrà al definitivo distacco dalle forme rituali postulandosi la stabile presenza nel testamento della clausola codicillare, con il che, il testamento invalido per ragioni formali avrebbe recuperato validità se convertito in codicillo: palese ricaduta del principio di conservazione degli atti giuridici – «utile per inutile non vitiatur» – elaborato dalla iurisprudentia, ovvero, dell’assioma per cui quanto vi fosse di utilizzabile non devesse risultare inquinato da quanto non fosse utilizzabile. Rendono conto di tale progressione dell’istituto le costituzioni C. 6.23.15 pr.-1 e C. 6.37.21 restituendone stadi e fasi coerentemente al percorso di renovatio del diritto ereditario. Su tali provvedimenti imperiali in stretta connessione sinergica – presentano identica inscriptio e corrispondenza di subscriptiones sebbene permanga dubbia l’attribuzione a Costantino o a Costanzo II – cadrà l’onere di sollevare, definitivamente, il diritto ereditario dagli oneri di forma: si ascrive, alla prima costituzione, l’abolizione della mancipatio familiae e delle forme solenni predi-

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sposte per assicurare fattezze legittime alla heredis institutio e sono requisiti civilistici rigorosamente previsti per il testamento; con la seconda costituzione viene prescritta l’abolizione della forma solenne per i tipi di legato inducendo a una scelta tra i verba praecativa richiesti per i fedecommessi. Le costituzioni, entrambe dell’a. 339 d.C., fungono da spartiacque tra un risalente e un attuale modo di configurare il rapporto tra legati e fedecommessi, in realtà, di intendere il diritto ereditario superata l’impostazione messa a punto nel primo principato. Ora, la differenza tra legato e fedecommesso poggia su fondamenti di sostanza pervenuta la scientia iuris alla consapevolezza che istituzione di erede, legati, fedecommessi costituissero «negozi testamentari con i quali propriamente si realizza la disposizione, post mortem, delle proprie facultates» inerenti al de cuius, diversamente dagli altri «importanti negozi testamentari a forma rigorosamente imposta – manumissio testamento e tutoris datio – [che] o non possono considerarsi affatto atti di disposizione sulle proprie facultates (la tutoris datio), o hanno un contenuto che trascende largamente la mera disposizione patrimoniale (la manumissio testamento, che attribuisce ad un oggetto la condizione di soggetto)» (B. Albanese, L’abolizione postclassica delle forme solenni nei negozi testamentari, in Sodalitas. Scritti A. Guarino, 2, Napoli, 1984, ora in Scritti giuridici, a cura di M. Marrone, II, Palermo, 1991, p. 1652). Il velo della forma verrà definitivamente lacerato, nel quinto secolo, da una costituzione di Teodosio II e Valentiniano III che ‘codificheranno’ l’utilizzo della lingua greca nella prassi giuridica sebbene si constati che il ricorso a una lingua che non sia il latino, per fedecommessi e codicilli, risalga al secondo secolo tenacemente resistendo il latino per la sola redazione del testamento. Una prassi, quella dell’ibridismo linguistico, per Gaio assolutamente da evitare posta all’indice per i legati se pure ammessa per i fedecommessi (Gai Inst. 2.281): vero è, che l’autore delle Institutiones avvertiva lo spirito dei tempi, respirava aria di renovatio, era perfettamente a conto dei nuovi registri giuridici che si introducevano e deve supporsi che il senso del nuovo inerisse anche al testamento, istituto di alta antichità e alla radice romano, improntato a suggelli civilistici, immune per lungo tempo da volgarizzazioni linguistiche e azzardi formali ma, esattamente come altri, immerso nei processi di revisione, anche linguistica, che di lì a poco avranno forte pregnanza con la costituzione Antoniniana del 212 d.C. Da Caracalla a Costantino (o a Costanzo II) il processo orientato a sottrarre il testamento da vincoli di forma corrisponderà alla «sollemnium sermonum necessitas» e si legge in C. 6.23.15.2, e in apposito luogo del Codice di Giustiniano – il ventitreesimo titolo del sesto libro dedicato al riordino dei modi del testamento – che il principio verrà infine stabilizzato. La visione antica, ispirata al ritualismo dei verba, viene ora surrogata da

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una visione che valorizza, piuttosto, la sostanza del fenomeno giuridico e si afferma il principio per cui la volontà testamentaria debba liberamente manifestarsi, «quibuscumque verbis», sempre che i verba utilizzati risultino idonei a esprimerla. Uno scenario profondamente mutato.

11. LA RIFORMA ‘PROGRAMMATICA’ DI GIUSTINIANO Non resta che fermarsi sul grande progetto di riforma del diritto ereditario varato da Giustiniano. La fusione dei «genera legatorum» risulta – si diceva – dalla celebre costituzione del 529 d.C. – C. 6.43.1 pr. – e la norma imperiale traccia un bilancio dell’antico regime di regole che si intendeva superare, e al § 1 enuncia le nuove regole, nell’auspicio degli estensori del disegno di riforma adatte a evitare la subtilitas, le inestricabili tortuosità che avevano finito col deteriorare l’impianto del diritto ereditario. Patologie congenite che inducono i commissari ad abbandonare ogni cautela e procedere a profonda renovatio. Vari aspetti emergono analizzando la parte iniziale della costituzione. L’equiparazione dei legati per damnationem e dei fedecommessi tutelati dall’azione personale, già diffusamente utilizzata a preferenza dell’azione reale; la contrapposizione ai legati per damnationem, e ai fedecommessi, dei legati per vindicationem, sinendi modo, e degli altri tipi di legato non identificati nominatim: modi di legare tutti rivelatisi difettosi, per varie e valide ragioni, inadatti a conservare una propria specificità, e autonomia, come era stato per lungo tempo. Infine, la menzione della missio in rem, di cui si evidenziano le ambiguità, resta separata rispetto al nucleo centrale della parte iniziale della costituzione che si svolge intorno alla descrizione del vecchio e del nuovo regime dei legati: chiude la prima parte e apre il § 1 ove si enuncia l’abolizione della missio in rem nei fedecommessi. Il persistente parallelismo tra legati e fedecommessi, delineato nel principio, ritorna, e si pone un’ulteriore equazione: allo stesso modo dei legati che, in conseguenza dell’unificazione dei tipi, reale e obbligatorio, sfociavano nelle due azioni, i fedecommessi sarebbero legittimamente sfociati nelle due azioni maturata la fusione tra fedecommessi che portavano alla missio in rem e fedecommessi a effetto obbligatorio. Quanto agli effetti giuridici, la missio in rem sarebbe stata ora avvicinata al legatum per vindicationem così da contrastare gli effetti obbligatori dei fedecommessi; esattamente come il legatum per vindicationem contrastava il legatum per damnationem. L’intensità e la forza del progetto, il carico di nuovo, risultano dal § 1. I commissari delineano un regime giuridico che si incentra nell’«una na-

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tura» di legati e fedecommessi e nella possibilità di accordare l’azione personale a ogni legato, e a ogni fedecommesso, come accadeva prima dell’introduzione della costituzione; altresì, nella possibilità di accordare l’azione reale di rivendica ove sussistano i presupposti dell’efficacia reale in funzione della disponibilità del diritto reale in capo al testatore al momento della morte; nel concedere l’azione ipotecaria sulle res pervenute dal testatore all’erede o al soggetto gravato di fedecommesso. Nelle vedute dei commissari giustinianei era il disegno di un «unitario competere delle varie azioni (sulla base di presupposti sostanziali) che veniva ad essere la risultante dell’equiparazione, cioè della identificazione della natura del legato (oramai, colla scomparsa del formalismo e coll’una natura, fuso in un unico tipo) e del fedecommesso» (G. Grosso, Legati², cit., p. 131): tutto conseguiva all’exaequatio dei fideicommissa ai legata operata sul piano dell’efficacia come ancora verrà chiarito in I. 2.20.3. I commissari di Giustiniano si muovono secondo una logica lineare riduttiva delle complessità. Con altra celebre costituzione, sempre del 531 d.C., si intese delineare con ulteriore apporto analitico le linee della riforma intervenendo sul regime classico. Richiamato, a esordio, il principio delle libertà di forma, l’abolizione dei verba solemnia in materia di legati, nei paragrafi successivi si insisterà sulla commistione del regime dei legati e dei fedecommessi provvedendo a delineare i criteri che avrebbero informato il processo di fusione degli istituti. Al § 2 si detta un orientamento di massima elevando il principio di valore a criterio sostanziale e stabilito che legati e fedecommessi debbano essere sottoposti a un unico regime, sotto ogni aspetto, si dettano i criteri idonei a operare l’unificazione: la regola propria dei legati, nel caso manchi ai fedecommessi, si intende estesa a questi, e viceversa, valendo per gli uni, e per gli altri, indistintamente; ma anche si prescrive che l’interazione degli assetti avrebbe funzionato, rispetto agli ambiti che comportavano regole contrarie, a condizione che il regime del fedecommesso prevalesse su quello del legato in quanto più humanior. Il rilievo della voluntas testantis si rinviene nell’ultimo tratto della costituzione, al § 3, ove si insiste nell’affermare che le disposizioni ereditarie debbano valere a prescindere dai verba usati dal testator. Si risistemano i tasselli del diritto ereditario operata una effettiva renovatio. L’imposizione dell’una natura a legati e fedecommessi, richiamata nel Codice (C. 6.43.1.1), misura lo sforzo analitico prodotto, e nelle Istituzioni (I. 2.20.2) le due prospettive – l’una natura di legati e fedecommessi e la fusione dei tipi di legato – coesistono restituendo organico assetto alla costruzione; e nel Digesto, al trentesimo libro «De legatis et fideicommissis» gli assunti ritornano con altra solennità: «Per omnia exaequata sunt legata fideicommissis» (D. 30.1, Ulpianus 67 ad ed.).

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La visione generale che avrebbe ispirato i commissari appare in tutta la sua ampiezza a lavoro compiuto e la mole di analisi denota un lavoro di gran pregio scientifico. Emerge una certa disomogeneità dei metodi utilizzati dovuta a differenza di approcci alla materia – prevalentemente tecnico e dogmatico il taglio impresso dalla commissione del Codice, sensibile al motivo della progressione storica dalla commissione delle istituzioni – e ve ne è testimonianza ponendo cura alla lettura del titolo 6.43 del Codex repetitae praelectionis donde si evince come l’impostazione tecnico-dogmatica appaia fondata su due sequenze certe che rimandano, l’una, alla costituzione del 529 d.C. che restituiva il programma generale di riorganizzazione per legati e fedecommessi; l’altra, alla costituzione del 531 d.C. che poneva attuazione all’unificazione del regime dei legati e dei fedecommessi verificando l’enunciato programmatico del provvedimento del 529. I compilatori del secondo Codice avrebbero potuto impostare il lavoro in quanto l’altra commissione aveva utilmente tradotto il senso della riforma sul primo e immediato terreno della progressione storica: sarebbe occorso prima ricercare per tracciare poi nuovi confini logici e risistemare.

12. DONAZIONI Si è asserito fondatamente che Donatio non designa, presso i romani, un negozio giuridico che abbia proprie forme e propri effetti, ma è il richiamo a un fine pratico, al quale possono servire negozi svariati. Di talché, si ha modo di donare utilizzando varie modalità: trasferendo ad altri soggetti, a cui non si è legati da vincoli personali, la proprietà di una cosa e sovviene, in tal caso, la in iure cessio, la mancipatio, la traditio; promettendo il trasferimento della proprietà della cosa accentuata l’accezione di donazione e occorrerà, allora, ricorrere alla stipulatio, di tal guisa, l’atto traslativo di proprietà ineriva all’atto di adempiere all’obbligazione; rimettendo un debito con forme solenni (acceptilatio) o non solenni (pactum de non petendo). In concreto, il regime della donazione prevedeva che il soggetto (donante), indotto da ragioni di liberalità, si impoverisse di parte del patrimonio a beneficio di altro soggetto (donatario) che se ne arricchisse, per ciò stesso, elementi essenziali e indefettibili per una valida donazione furono: l’impoverimento del donante e l’arricchimento del donatario; l’intento di liberalità sotteso (‘animus donandi’); eventualmente, l’accettazione del donatario se non si trattasse di liberalità accedenti ad atti unilaterali – il pagamento del debito altrui, l’estinzione volontaria di una servitù per non uso – non richiedendosi, in tali casi, il concorso della volontà del donatario. Occorre puntualizzare quanto alla fissa-

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zione dei presupposti: non ricorreva aumento o diminuzione del patrimonio del soggetto che intendesse donare se si fosse trattato di aumento o diminuzione eventuale; né quando aumento o diminuzione attenessero a un diritto non integrato al patrimonio (il caso ricorrente è la rinuncia a un’eredità per beneficare il coerede, il sostituto, l’erede ab intestato); né se rilevasse la circostanza che la diminuzione del patrimonio a beneficio di altri conseguisse a un obbligo giuridico. Oltre al carattere di ‘spontaneità’ non si richiedeva altro requisito soggettivo, sino a tutta l’età classica, né si ritenne decisivo che ne ricevesse un vantaggio il donatario ma in età postclassica il regime della donazione sarà inverato dall’animus donandi: «il dogma della volontà trova luogo anche in questo campo, e requisito fondamentale della donazione diviene l’animus donandi, intenzione precisa di spogliarsi di una propria attività patrimoniale a vantaggio d’altri». Infine, è a dirsi che la donazione non richiedeva l’utilizzo di uno schematipo, il ricorso a una fisionomia-standard ma rilevava l’animus donandi e modalità giuridiche appropriate. Poteva effettuarsi la donazione – si diceva – ricorrendo ai modi di traslazione della proprietà, di costituzione o estinzione di una servitù, di cessione del credito, di assunzione o estinzione di un’obbligazione – ottemperate le modalità del dare, obligare, liberare – e, quanto alla forma – esclusa l’assunzione dell’obbligazione che in diritto giustinianeo si denoterà quale patto legittimo –, sarebbe stato invalso utilizzare le medesime forme dei relativi atti a titolo oneroso. Distinzione fondamentale che ricorre in materia è tra donazione tra vivi (inter vivos) o a causa di morte (mortis causa) secondo che sussistesse, o meno, sopravvivenza del donatario al donante.

13. DONAZIONI TRA VIVI Il regime della donazione tra vivi risente della riluttanza avvertita, generalmente, per gli atti giuridici, privi di carattere commutativo, diretti alla determinazione di un lucro a vantaggio di un soggetto e a detrimento di altro soggetto. Una impostazione restrittiva rispetto a vari parametri: a) all’importo calmierato della donazione astretta a un quantum onde evitare eccessi; b) ai soggetti coinvolti comminando divieti di donare in capo a talune persone; c) all’efficacia dell’atto prevedendosi cause speciali di revoca. Quanto alla prima questione si intervenne, in età repubblicana, escogitando due modi di garanzia: la lex Cincia de donis et muneribus (204 a.C.) e l’insinuazione. La lex Cincia de donis et muneribus:

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a) comminò divieto agli advocati di ricevere dona a titolo di remunerazione quale corrispettivo per le mansioni professionali prestate alla parte rappresentata in giudizio (‘ad causam orandam’). Disposizione decaduta in età imperiale quando i patrocinanti avranno diritto a reclamare gli onorari extra ordinem entro una data misura al tempo di Claudio fissata in 10.000 sesterzi; b) con la legge Cincia si introdusse il divieto di donazioni tra coniugi in conseguenza di avvertite ragioni sociali ed etiche. A che ricorresse il divieto occorreva sussistente un matrimonio iustum ac legitimum, mentre era escluso il concubinato, il fidanzamento, ed era escluso, altresì, che la donazione producesse effetti per il tempo successivo alla fine del matrimonio. E va richiamato il particolare caso del coniuge che perseverasse nel convalidare la liberalità vietata legando all’altro coniuge sebbene un Senatoconsulto del 206 d.C., su proposta di Antonino Caracalla (‘oratio Antonini’), accogliendo una posizione morbida, riterrà valide le donazioni tra coniugi (‘convalescentia’) se il coniuge-donante morisse in costanza di matrimonio senza aver prima modificato la propria volontà: diversamente, la donazione sarebbe stata ritenuta nulla nel caso di premorienza del donatario, di mutamento di volontà del donante, di divorzio. In concreto, la legge Cincia vietava di effettuare donazioni o di ricevere donazioni – ‘donare’, ‘capere’ – eccedenti una data misura (‘ultra modum’) richiedendosi la forma della mancipatio per le donazioni di res mancipi: vietata era la donazione ultra modum ma, se effettuata, per ciò stesso, non era colpita da pena con ciò denotandosi il carattere di lex imperfecta della legge Cincia non corredata da sanzione diretta. Con ogni probabilità, si ascrive alla legge la più alta risalenza della disciplina delle donazioni tra coniugi (‘dona’) configurati due assetti a seconda che si eccedesse, o meno, la soglia economica fissata (modum) e sebbene la soglia né fosse sicura, né certa – ventimila sesterzi è detto in talune fonti, ovvero mille assi, ovvero un tetto di valore molto basso –, come, del resto, era incerto se si trattasse di limite fisso o di quota correlata all’entità del patrimonio. Quanto ai soggetti coinvolti la legge distingueva: a) le persone immediatamente destinatarie della disposizione (‘personae non exceptae’); b) le persone che per motivata ragione ne erano escluse come i parenti e gli affini (‘personae exceptae’). Di talché, il divieto ex lege Cincia atteneva alla donazione ultra modum effettuata da personae non exceptae. Il dato tecnicamente problematico ineriva all’efficacia della norma in quanto – si diceva – lex imperfecta mancante di sanzione, priva di deterrenza, e si intese ovviare a tale strutturale debolezza dapprima consentendo l’intervento discrezionale del iudex; in seguito, aprendo alla discrezionalità del donante, che avesse effettuato una donazione ultra modum, di esperire l’azione di ripetizione (condictio) improntata al motivo dell’arricchimento ingiusto del beneficiario. Nella procedura formulare il

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pretore concesse altresì al donante, stanti tali circostanze, una exceptio ex lege Cincia di modo che, sino a quando conservasse un rapporto con l’oggetto della donazione non compiutamente effettuata (‘perfecta’), questi poteva rifiutarsi di procedere ulteriormente e compiere l’atto donativo vietato respingendo il donatario che intentasse l’azione per l’esecuzione o che invocasse l’eccezione: ulteriormente, nel caso competesse al donante un’azione volta a recuperare la cosa già consegnata, e il donatario eccepisse invocando l’avvenuta donazione, si concedeva al primo una replicatio legis Cinciae. Principio saldo era che l’eccezione ex lege Cincia non potesse invocarsi, dagli eredi, dopo la morte del donante (‘morte Cincia removetur’) ma poteva opporsi, sino a questo momento, dal donante al donatario e ai terzi interessati come i fideiussori e, attendibilmente, ai terzi acquirenti (‘exceptio quasi popularis’): il principio ‘morte Cincia removetur’ verrà confermato da un rescritto di Caracalla. Le strette connessioni con l’istituto della dote, la cura prestata alla dote in diritto giustinianeo, inciderà sicuramente sul regime dei rapporti patrimoniali tra i coniugi: prima di Giustiniano, quando risultasse la donazione del marito, o di altri per conto di lui, alla moglie si parlava di donatio ante nuptias; con Giustiniano di donatio propter nuptias. Orbene, la dote destinata ad onera matrimonii ferenda usualmente si versava al momento del matrimonio e la donazione nuziale sottendeva lo scopo di garantire un sereno futuro alla donna: questo è un meccanismo, il versamento di una somma contestuale all’evento matrimoniale, che equivaleva alla prassi di contrarre, il marito, un debito a beneficio della moglie da soddisfare alla data dello scioglimento del matrimonio. Lo stesso, quando si corrispondesse una somma in caso di morte del marito alla stregua di un patto successorio, ovvero, in caso di divorzio prefissata una penalità in capo al marito che avesse ripudiato. Solo poi si ammetterà, in caso di seconde nozze e in seguito in via generale, che alla morte del marito la donna acquistasse la donazione nuziale se non fossero nati figli o se dovesse conservarsi la donazione ai figli. Di tal guisa, dote e donazione, lungo percorsi sinergici, avrebbero contribuito alla prosperità familiare e in diritto giustinianeo potrà stabilirsi l’equivalenza di donatio propter nuptias e dote definitivamente conseguita la parità dei coniugi quanto agli onera matrimonii. Insinuazione era l’atto di trascrizione della donazione nei pubblici registri, a fini di garanzia giuridico-formale e di pubblicità, a beneficio dei terzi, richiesto per le donazioni di notevole entità. Al tempo di Costanzo Cloro e Costantino vigeva un novero di formalità – la redazione di una circostanziata scrittura tecnica, la traditio della cosa donata alla presenza di testes scelti tra i vicini (‘traditio advocata vicinitate’) – decadute in età giustinianea salvo quelle occorrenti per le donazioni superiori alla somma di 500 soldi d’oro, oblia-

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te le prescrizioni della lex Cincia, disposta la nullità della donazione per la sola parte eccedente la misura legale. Quanto agli effetti giuridici la donazione di persona capace – si trattasse di atto di trasferimento della proprietà o altro diritto, di atto costitutivo di un diritto di credito o estintivo di un diritto reale o personale – produceva la stessa efficacia dell’atto compiuto a titolo oneroso. Se la donazione comportasse l’assunzione di un’obbligazione il donante, convenuto dal donatario per l’adempimento, conservava il beneficio di competenza potendo adempiere nei limiti delle sue forze: beneficio che gli consentiva di pagare la somma promessa entro l’attivo ritenendo il donante quanto necessario per il proprio sostentamento (cfr. D. 42.1. 19.1 [Paulus 6 ad Plaut.]). In corso di tempo si introdurranno cause di revoca per le donazioni, non per gli atti compiuti a titolo oneroso, perfezionato un sistema di revoche in deroga al generale principio di irrevocabilità. La revoca ‘legale’ era approntata dall’ordinamento, la revoca ‘convenzionale’ predisposta dai soggetti privati, e comunque, le donazioni potevano revocarsi per mancata esecuzione degli oneri imposti al donatario. Sarebbe stato legittimo prevedere un onere in capo al donatario – ‘donatio sub modo’ – ammettendosi, oltre alla possibilità di concedere al terzo azione per l’esecuzione del modus, che il donante, come ogni alienante a titolo oneroso, se il modus non venisse eseguito, potesse fruire del diritto di reclamare l’esecuzione esperendo l’actio praescriptis verbis o esercitando il ius poenitendi di ripetere la cosa donata ricorrendo alla condictio causa data, causa non secuta (CI. 4.6. 3; 8) a cui si aggiungerà un’azione reale utile per l’ipotesi di donazione con onere di alimenti (CI. 8.54 (55).1). Revocabili, in diritto classico, sicuramente si riterranno le donazioni effettuate dal patrono al liberto, per volontà del donante-patrono, se ricorresse ingratitudine del donatario-liberto (F. V. 272 = CI. 8.55(56).1): sgradevole congiuntura, giustificativa della decisione del patronus di revocare la donazione, che, traslata in età postclassica, coglierà l’interesse di Costantino (F.V. 248) e dei discendenti Costanzo e Costante (CTh. 8.13.1; 2; CTh. 8.13.4; CI. 8.55[56].7), ancora, di Teodosio II e Valentiniano III (CTh. 8.13.6 = CI. 8.55(56).7). Il venir meno delle ragioni etiche, ricorrendo la donazione tra patrono e liberto, si presentava disdicevole per chi se ne macchiasse, sgradevole per chi altruisticamente ne fosse promotore, e in età giustinianea, si intese allargarne l’ambito includendo la condotta snaturata del figlio-donatario, e degli altri discendenti, immeritevoli di beneficiare della donazione (CI. 8.55[56]). Infine, presupposto ineludibile per legittimamente esercitare la facoltà di revoca era la gravitas inficiante la condotta del beneficiario – aggressione e/o attentato alla vita del donante, ingiurie rivolte al donante, inadempimento di oneri assunti volontariamente, commissione di danni gravi

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intenzionalmente arrecati al patrimonio del donante – da provare in sede giudiziale alla presenza del donante e dello stesso donatario: l’azione personale esperibile dal donante orientata alla revoca della donazione – annoverabile tra le azioni c.d. vindictam spirantes – esclusivamente era rivolta nei confronti del donatario autore della condotta riprovevole.

14. DONAZIONI A CAUSA DI MORTE La donazione a causa di morte – ‘donationes mortis causa’ – consegue alla convergenza della causa donationis e della causa mortis realizzandosi l’effetto dell’immediato arricchimento del donatario nel timore della sopravvenienza di un imminente pericolo di vita per il donante (‘cogitatio mortalitatis’) e della eventuale premorienza al donatario. Cedendo tali circostanze spettava al donante il diritto al ri-trasferimento del dominium delle res donate. Le origini dell’istituto si intersecano con quelle del testamento sebbene la donatio m.c. se ne distanzierà a cagione della incompatibilità con l’heredis institutio e perché disposta ricorrendo, ordinariamente, a forme utilizzate per gli atti inter vivos. E comunque, si ricorse in via liminare alla donatio m.c. potendo fruire, per gli stessi fini, degli istituti del legato e del fedecommesso. Quanto alle modalità applicative la trasmissione fiduciaria della res alla persona che si intendeva beneficare (‘fiducia cum amico’) comportava l’acquisto della proprietà della cosa immediatamente dal donatario prevedendone il ritorno al trasmittente nella ipotesi che questi si affrancasse in via definitiva dal pericolo che lo aveva indotto a donare: convenzione garantita, in caso di inadempimento dell’accipiente, dall’actio fiduciae. Ma si volle congegnare una più ferma tutela ammettendosi che in ogni donatio m.c. non corredata da mancipatio né da verborum obligatio, si avesse un datum ob causam dandosi luogo a condictio venuta meno la causa. In altre circostanze ancora, l’esigenza di tenere vincolata la res mancipi al patrimonio del donante si conseguì trasmettendo la cosa mediante traditio, anziché mancipatio o in iure cessio, di talché, il donante restava proprietario e libero di rivendicare una volta vanificatosi il pericolo, mentre il donatario aveva modo di difendersi con un’exceptio contro l’erede che rivendicasse la cosa dopo la morte del disponente. E poteva altresì effettuarsi una donatio m.c. ricorrendo a una stipulazione sottoposta al termine ‘cum morieris’. Orbene, il dato che accomuna le varie ipotesi attiene al vincolo che si instaura, e stringe, donante e donatario e ciò antiteticamente al regime di regole che governava la successione testamentaria: e difatti, mentre la donazione effettuata in vista di un pericolo imminente cedeva se il donante scampasse al pericolo, e identico esito sov-

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veniva se il donatario premorisse, sarebbe stata esclusa la normale revocabilità propria dei testamenti. Quanto all’efficacia giuridica sussisteva palese dissonanza tra le donazioni mortis causa e le donazioni inter vivos non prevedendosi, per le prime, l’assoggettabilità alle regole limitative che governavano le seconde – circa la misura delle donazioni, le persone coinvolte – risultando legittime le donazioni m.c. tra i coniugi sottratte alla disciplina della legge Cincia. Si perverrà, in progressione di tempo, a un avvicinamento del regime delle donazioni mortis al regime dei legati estendendosi alle prime le regole dei secondi e applicandosi alle donationes m.c. sia le restrizioni introdotte dalle leggi Furia, Voconia e Falcidia, che le leggi caducarie in ordine alla capacità di ricevere. Il processo di assimilazione delle donationes m.c. ai legati perverrà a uno stadio esaustivo, in diritto giustinianeo, giungendosi ora a dispensare le donazioni mortis causa dall’insinuazione, se di entità superiore a 500 soldi d’oro, richiedendosi la presenza di cinque testes come accadeva per la confezione dei codicilli. Il superamento delle residue discrasie evince dalle fonti giustinianee: si tramanda nel Codice che il processo di assimilazione era compiuto; nelle Istituzioni che il processo di exaequatio di donationes m.c. e legata aveva avuto luogo del tutto («ut per omnia fere legatis connumeretur …»). In realtà, a una completa assimilazione dei regimi, delle discipline, non sarebbe stato possibile pervenire sussistendo registri tecnici ancora in parte dissimili: le donazioni mortis causa non dipendevano dall’esistenza di un erede come accadeva ai legati; le donazioni mortis causa fruivano di regole proprie circa i modi di costituzione e le cause di caducità. Con l’espressione ‘mortis causa capiones’ si intendeva ogni acquisito mortis causa – guadagno a causa di morte – che non avvenisse a titolo di successio, né presentasse caratteri di donatio m.c.: la morte del soggetto costituiva la circostanza che mancava per la validità. Ipotesi ricorrente era l’acquisto di una somma di danaro da parte di chi fosse stato istituito erede da un terzo, sotto condizione di beneficare preventivamente il capiens, e si determinasse a compiere tale elargizione. Diversamente dalle donationes m.c. che avrebbero fruito in età postclassica, quanto a regime e trattamento giuridico, dell’assimilazione ai legata, divenendo causa di successio m.c. in singulas res, tale accostamento sarebbe stato precluso alle mortis causa capiones.  

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CAPITOLO QUINTO

LA DISCIPLINA DEGLI ATTI NEGOZIALI NEL IUS PRIVATUM Francesco Fasolino SOMMARIO: 1. Il negozio giuridico: una categoria concettuale non romana. – 2. Tra invalidità ed inefficacia del negozio: l’inutilità. – 2.1. Cause di inutilità del negozio. – 3. La forma: dall’oralità alla ‘scriptura’. – 3.1. La classificazione dei negozi in base alla forma. – 4. La causa negoziale. – 4.1. L’illiceità della causa. – 4.2. I ‘negotia turpia’. – 4.3. Causa e motivi. – 5. La volontà negoziale. – 5.1. Volontà e manifestazione. – 5.2. Vizi della volontà dipendenti dalla persona del soggetto agente e ‘vis absoluta’. – 5.3. L’errore-vizio. – 5.4. Il dolo. – 5.5. La violenza morale. – 6. Gli elementi accidentali del negozio. – 6.1. Gli elementi accidentali del negozio e gli ‘actus legitimi’. – 6.2. La condizione. – 6.2.1. Condizioni positive e negative. – 6.2.2. Condizioni sospensive e risolutive. – 6.2.3. Condizioni casuali, potestative e miste. – 6.2.4. Condizioni proprie ed improprie. Le ‘condiciones iuris’. – 6.2.5. Condizioni possibili e impossibili, lecite ed illecite. – 6.2.6. Inquadramento giuridico del negozio ‘pendente condicione’. – 6.3. Il termine. – 6.4. Il ‘modus’.

1. IL NEGOZIO GIURIDICO: UNA CATEGORIA CONCETTUALE NON ROMANA Nell’ambito degli studi giuridici degli ultimi due secoli, l’analisi degli strumenti attraverso i quali si esprime, nel mondo del diritto, l’agire individuale è tradizionalmente imperniata sulla la figura del negozio giuridico, inteso come la manifestazione di volontà mediante la quale un soggetto di diritto provvede a regolamentare gli interessi di cui è portatore nei rapporti con i terzi. Per i caratteri che gli sono propri, il negozio giuridico è sussumibile nella categoria degli atti giuridici, ossia di quei fatti, rilevanti per il diritto, che sono il prodotto dell’azione volontaria dell’uomo, per il cui perfezionamento è necessaria tanto la capacità giuridica quanto quella di agire. Qualora venga realizzato in conformità a quanto richiesto dall’ordinamento, esso produce effetti ordinativi, diretti cioè alla costituzione, modifi-

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cazione o estinzione di rapporti giuridici. Le concrete conseguenze sulla realtà giuridica che il negozio produce non sono stabilite da norme ma vengono rimesse, nei limiti della liceità e della meritevolezza degli interessi perseguiti, alla volontà delle parti. La teorizzazione del negozio giuridico fu del tutto sconosciuta all’ordinamento giuridico ed alla giurisprudenza romana, costituendo il frutto dell’elaborazione concettuale della Pandettistica, una Scuola sviluppatasi in Germania tra il XVIII e il XIX secolo allo scopo di innovare la scienza del diritto attraverso l’edificazione di un sistema giuridico che potesse aspirare ad un alto grado di coerenza interna. Nel perseguire questo obiettivo, la scuola tedesca, specie a partire dagli studi di Georg Friederich Puchta, ha ritenuto che dovessero essere ridimensionati gli sforzi diretti alla ricostruzione dei contenuti del diritto romano classico, preferendo appuntare l’attenzione sull’approfondimento di singoli concetti ed enunciati giuridici effettuata attraverso gli strumenti propri dell’analisi logico-deduttiva, onde valutarne la loro possibilità di applicazione in epoca moderna. Proprio a Puchta si deve l’idea che il diritto costituisca un organismo vivo, all’interno del quale possono isolarsi diverse partizioni che si integrano e completano a vicenda. I concetti giuridici si presterebbero quindi ad essere organizzati secondo uno schema piramidale, in cui possono essere composti in un insieme logico, gerarchicamente ordinato e intimamente coerente. In questa prospettiva, il Corpus Iuris Civilis, in ragione dei copiosi materiali normativi ivi contenuti, è stato valorizzato dai Pandettisti alla stregua di una riserva di concetti giuridici a cui attingere per la creazione di ordinamenti astratti, tendenzialmente perfetti nella loro architettura d’insieme. L’approccio della Pandettistica, tuttavia, si è rivelato scarsamente rispettoso del rigore storico e filologico richiesto quando ci si relazioni con testimonianze provenienti dall’antichità. Nel portare ad effetto le proprie ricostruzioni essa, invero, si è trovata a presupporre che la giurisprudenza romana fosse già consapevole del problema del negozio giuridico, pur esimendosi dal discuterne in modo aperto e compiuto. In più di un caso, poi, i Pandettisti si sono approcciati alle fonti molto spesso senza un preventivo esame critico, falsando o sovrapponendo i piani temporali di riferimento, con il risultato di trattare prodotti del pensiero giuridico romano venuti ad esistenza in epoche diverse come se fossero tutti coevi tra loro. Studiare il diritto romano secondo una prospettiva storicistica, in linea con gli scopi che si propone la dottrina contemporanea, significa dunque superare i limiti palesati dall’approccio pandettistico e prendere atto che la figura del negozio giuridico, nell’esperienza giuridica di Roma antica, non trovò né un’elaborazione teorica consapevole ed esaustiva né, tantomeno, una regolamentazione diretta e specifica.

La disciplina degli atti negoziali nel ius privatum

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Ad essere presi in considerazione, dalla giurisprudenza e dalla legislazione, furono piuttosto singoli atti di autonomia privata nella loro configurazione tipica, restando per lo più sporadici i tentativi di valutare e disciplinare in modo unitario quelle figure che palesassero, almeno in astratto, analogie strutturali o funzionali. Sulla scorta di tali premesse, l’utilizzo della nozione di ‘negozio giuridico’ con riferimento al ius Romanorum può ritenersi accettabile, dunque, esclusivamente sul piano didattico, solo cioè quale espediente espositivo, al limitato scopo di inquadrare e descrivere meglio il diritto privato dei romani attraverso l’utilizzo di categorie concettuali oggi profondamente radicate ed ampiamente utilizzate nella scienza giuridica. Tale è l’approccio che si andrà a valorizzare nelle pagine che seguono, in cui si provvederà ad isolare una serie di spunti, talvolta parziali e non sempre tra loro perfettamente armonizzabili, che l’esperienza giuridica romana sviluppò nella medesima direzione in cui si sarebbero successivamente mossi i contenuti della categoria negoziale moderna. In questa prospettiva, i profili considerati saranno, in particolare, quelli della validità ed efficacia del negozio, della forma, della causa e della volontà.

2. TRA INVALIDITÀ ED INEFFICACIA DEL NEGOZIO: L’INUTILITÀ La mancata elaborazione della figura del negozio giuridico da parte della giurisprudenza romana comportò, quale naturale conseguenza, che il ius privatum non pervenne mai ad inquadrare in astratto ed in modo preciso le figure dell’invalidità e dell’inefficacia. A tale riguardo occorre, quindi, considerare le posizioni espresse dai giuristi con riferimento tanto al ius civile che al ius honorarium, tenuto conto che questi due sistemi subirono reciproche interferenze e che occorre, in ogni caso, rifuggire da forzature dirette ad inquadrare i materiali disponibili in rigidi schemi precostituiti. Nell’ottica della moderna teoria generale del diritto, invalidità ed inefficacia negoziale presentano piani di rilevanza diversi. L’invalidità riguarda quelle manifestazioni di autonomia privata che travalicano i limiti e violano le regole che l’ordinamento fissa per la loro esplicazione. La loro patologia può dipendere dal fatto che siano carenti di uno o più presupposti dettati dalla legge, oltrepassino i confini della libertà negoziale riconosciuta ai privati o costituiscano il prodotto di un processo di formazione della volontà individuale affetto da vizi: a seconda del grado di contrasto con l’ordinamento, si è soliti oggi distinguere tra nullità ed annullabilità del negozio.

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L’inefficacia ricorre, invece, quando il negozio non produce effetti, vale a dire modificazioni della realtà giuridica. I profili dell’invalidità e dell’inefficacia si relazionano tra loro nel senso che la nullità, quale forma più grave di invalidità, comporta la radicale inefficacia del negozio. L’annullabilità, segnalando un contrasto meno forte con l’ordinamento, consente al negozio di produrre effetti, ma questi possono essere posti nel nulla dai soggetti che la legge individua come legittimati a far valere i c.d. vizi di cui il negozio è affetto. Inefficace, tuttavia, può essere anche un negozio valido, quando ad esempio le parti abbiano esse stesse stabilito che produca effetti soltanto a partire da una certa data o al verificarsi di un determinato evento. I romani non solo utilizzarono una terminologia fortemente variegata in punto di patologia negoziale, ma la loro preoccupazione fu essenzialmente quella di stabilire se l’attività giuridica potesse risultare utilizzabile per il perseguimento degli scopi per i quali era stata compiuta, se cioè fosse idonea a produrre effetti giuridici. Di conseguenza, la distinzione principale che essi elaborarono era tra negozio ‘utile’, quindi efficace, e negozio ‘inutile’, ossia inefficace. Nell’ottica dei romani, l’esistenza stessa del negozio costituiva indice della sua attitudine a produrre effetti giuridici. Questi ultimi potevano trovarsi impediti, nella loro concreta esplicazione, da divieti posti dal ius civile o dal diritto onorario; l’azione di tali prescrizioni, tuttavia, si svolgeva sul piano dell’efficacia e ciò spiega perché il piano delle modificazioni della realtà giuridica fu quello ritenuto maggiormente degno di attenzione dai giureconsulti. L’inutilità del negozio poteva sussistere fin dal momento in cui questo veniva realizzato o risultare sopravvenuta; poteva avere carattere temporaneo o permanente; poteva riguardare il regolamento negoziale in parte o nella sua interezza.

2.1. Cause di inutilità del negozio Causa di inutilità del negozio fu, innanzitutto, la contrarietà ai divieti del fas e del ius. Fas è attributo di tutto ciò che è lecito al cospetto di un potere soprannaturale e si collega agli stretti rapporti, talora di vera e propria sovrapposizione, che i sistemi del diritto e della religione ebbero nel corso della storia di Roma antica, specie nelle epoche più risalenti. La centralità assunta nella mentalità antica dai concetti di ius e fas appare tanto più marcata, infatti, quanto più si procede a ritroso nel tempo. In argomento, Rudolph von Jhering ebbe a ritenere che l’antitesi tra le due figure avesse presso i romani carattere originario, testimoniando la naturale voca-

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zione di quella comunità per il fenomeno giuridico. Sulla stessa linea di pensiero, Fritz Schulz stimò che la maggiore gloria della giurisprudenza romana fosse consistita nella capacità di distinguere il diritto dal non diritto, contribuendo a rendere l’ordinamento giuridico un sistema autonomo all’esito di un processo giunto a maturazione già nella prima età repubblicana. Essenziale, per la comprensione del profilo in oggetto è il ruolo rivestito, nel vissuto quotidiano, dalla pax deorum, quello stato dei rapporti tra comunità e divinità improntato ad amicizia e benevolenza, capace di produrre effetti favorevoli sulla vita degli individui, nel contesto di una religione come quella romana in cui lo spazio riservato alla partecipazione emotiva era di impatto minimo rispetto al vincolo relativo all’assolvimento dei riti. La comunità romana, nella sfera privata come in quella pubblica, risultava, invero, animata essenzialmente dalla preoccupazione di operare in accordo con quelle che percepiva come forze soprannaturali ed entità divine, allo scopo di far in modo che queste gli fossero propizie e di aiuto e per nulla ostili. Dal rispetto della pax deorum era fatto dipendere il benessere dell’individuo, della famiglia, della comunità; ciò, rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della natura i segni della volontà divina. Il negozio contrario al fas, detto quindi nefas, era radicalmente inutilizzabile. Conseguenze non dissimili si avevano quando l’espressione di autonomia negoziale si fosse trovato in conflitto con il ius civile vetus, in cui confluivano i precetti derivanti dalle consuetudini degli antenati (i c.d. mores maiorum) e dalle leggi più antiche, risalenti all’epoca regia. Diversamente, qualora la violazione avesse riguardato lo ius novum, alimentato dalle leges publicae, quelle cioè deliberate dalle assemblee cittadine, dai senatusconsulta normativi e dalle constitutiones principum: in tale ipotesi, almeno per tutta l’età classica, l’inutilizzabilità dell’atto sarebbe conseguita soltanto se il provvedimento violato l’avesse sancita espressamente. Solo nell’età del dominato la regola subì un’inversione, per cui gli effetti del negozio concluso in violazione delle prescrizioni normative non si sarebbero prodotti, salvo che ciò non fosse chiaramente consentito dalla previsione violata. Un negozio utile poteva anche essere reso inutilizzabile in un momento successivo per effetto di un provvedimento giurisdizionale. I rimedi attraverso i quali si poteva pervenire a tale risultato furono, nella cognitio ordinaria devoluta al pretore, quelli della denegatio actionis, dell’exceptio e della restitutio in integrum. Nella cognitio extra ordinem alle parti furono invece messi a disposizione provvedimenti restitutori o di vero e proprio annullamento dell’atto. Sempre nel contesto della cognitio extra ordinem divenne possibile solleci-

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tare al giudice l’accertamento della mancanza dei presupposti minimi affinché l’atto potesse considerarsi utilizzabile. Al tema dell’inutilizzabilità si dedicò con particolare dedizione la giurisprudenza attraverso i suoi pareri (responsa). Proprio dall’esame delle posizioni espresse dai giureconsulti romani nell’analisi di casi concreti, sembra possibile isolare un diffuso atteggiamento di favore verso l’utilizzabilità degli atti di autonomia privata e, per converso, scarsa propensione a decretarne la caducazione. Così, per accordare efficacia a negozi che altrimenti si sarebbero dovuti reputare inutilizzabili, il diritto romano preclassico e classico ricorse allo strumento della riduzione in tutti i casi in cui una parte dell’atto negoziale fosse inutile ma lo scopo perseguito dal medesimo potesse essere conseguito anche solo attraverso la parte restante, senza che dovesse mutarsi la natura dell’atto posto in essere. Il principio, comunemente espresso con il brocardo “utile per inutile non vitiatur”, comportava, sul piano pratico, che si ritenesse come non esistente la sola parte viziata, con salvezza di quella sana. Quando invece fosse disponibile un mezzo per rendere inutilizzabile un negozio giuridico ma ad esso non si faceva ricorso nel termine previsto o il soggetto legittimato vi rinunciava, si aveva la convalidazione, con la conseguenza che gli effetti del negozio si sarebbero potuti comunque produrre in modo stabile ed irrevocabile per il futuro. Allo stesso risultato si perveniva quando le parti provvedessero a confermare, ratificare o reintegrare l’atto nella totalità dei suoi requisiti o fosse la legge a disporre la sanatoria dei vizi. Alla conversione si faceva invece ricorso quando il regolamento negoziale inutilis presentava patologie tali da non potesse essere utilizzato per le finalità collegate al tipo negoziale che le parti si erano prefigurate. In tal caso, in assenza di volontà contraria, gli elementi che lo componevano potevano essere ricombinati ed inseriti in un uno schema negoziale diverso, che fosse comunque idoneo a perseguire l’intento originario dei contraenti.

3. LA FORMA: DALL’ORALITÀ ALLA ‘SCRIPTURA’ Parlare di forma dei negozi giuridici significa fare riferimento alle modalità con cui viene manifestata la volontà negoziale. Di regola, le intenzioni delle parti possono trovarsi esplicitate attraverso il linguaggio, sia orale sia scritto, o per mezzo di comportamenti materiali, purché da questi ultimi sia possibile ricavare in modo univoco i propositi della persona (c.d. ‘comportamenti concludenti’). Perfino il silenzio, per espressa previsione legale o convenzionale, può assumere una specifica valenza giuridica.

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L’ordinamento giuridico italiano, in base ad una consolidata opzione di politica legislativa, risulta ispirato alla regola della libertà delle forme, alla cui stregua un atto, se la legge non impone esplicitamente il rispetto di una determinata forma, può essere realizzato con qualunque modalità idonea a rendere percepibile la volontà del soggetto agente. Prescrizioni di tipo formale trovano applicazione, di norma, quando sia necessario corredare di particolare certezza l’espressione della volontà negoziale o per sollecitare le parti a valutare con particolare attenzione l’atto che pongono in essere, per l’importanza degli interessi che vi sono sottesi. Quanto al diritto romano, al contrario, per l’età arcaica è generalmente accolta l’idea di uno stringente formalismo negoziale, nel senso che le principali attività dispositive, per produrre effetto, dovevano rispondere a specifiche e rigorose prescrizioni. La costituzione, modificazione ed estinzione di rapporti giuridici veniva fatta dipendere dal modo in cui gli atti venivano ad atteggiarsi sotto il profilo della loro esteriorizzazione, mentre un rilievo scarso se non addirittura nullo, ricevevano la volontà e la causa negoziale. Ciascuna attività giuridica andava compiuta nel rispetto di un rigido paradigma, i cui contenuti erano dettati dalla giurisprudenza pontificale, che li traeva dai mores maiorum. Tra i compiti dei prudentes, in epoca più risalente, vi era infatti anche l’esercizio della funzione di cavere, ossia di indicare alle parti gli schemi negoziali utili al perseguimento degli scopi a cui erano interessate. Le prescrizioni pontificali si risolvevano nell’indicazione di formule da pronunciare e gesti da compiere il cui carattere vincolante era assoluto, nel senso che l’atto non poteva avere le conseguenze sperate qualora la sua manifestazione esteriore non fosse conforme in tutto al modello. Essenzialmente, i pontefici si occupavano di stilizzare in schemi simbolici, idonei ad essere ripetuti all’occorrenza, una serie di comportamenti invalsi nella pratica quotidiana. Tra i principali possono menzionarsi il legatum, costituito dall’affermazione pubblica e solenne di voler assegnare mortis causa un determinato bene giuridico ad un soggetto e la vindicatio, costituita dalla pubblica e solenne affermazione della titolarità di un diritto su un bene giuridico. Quest’ultima ricorreva in sede processuale, quando si volesse affermare la titolarità di un bene contro le pretese di un potenziale usurpatore, ma era alla base anche del trasferimento del mancipium sulle res da un alienante ad un acquirente nel contesto di quell’atto, conosciuto come mancipatio, che gli interessati svolgevano alla presenta di cinque testimoni, cittadini romani puberi, e di un portatore di bilancia, detto libripens, incaricato di pesare il bronzo che avrebbe figurato quale corrispettivo dell’alienazione. Per l’epoca in esame, le modalità di esercizio dell’autonomia privata, facendo perno in modo pressoché totale sull’oralità, rispondono ad una socie-

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tà in cui la padronanza della scrittura è percepita quale fenomeno eccezionale e risulta patrimonio di pochi. Alla parola, del resto, era riservato il perfezionamento di numerose altre attività centrali per la vita giuridica, quali la promulgazione di atti normativi (leges) o il processo. Se il ricorso a forme verbali e gestualità può ricondursi ad un livello di sviluppo elementare del fenomeno giuridico e al ridotto grado di alfabetizzazione della popolazione, è indispensabile comunque considerare che ai certa et solemnia verba i romani facevano ricorso in ossequio ad una tradizione percepita come severa ed inderogabile perché frutto di pratiche altamente risalenti. È stato anche ipotizzato che la scelta di precise parole ed atteggiamenti potesse sottintendere una valenza performativa, ossia la convinzione che essi fossero capaci di produrre modificazioni sulla realtà fenomenica, in modo assai simile a quanto si ritiene avvenga in ambito magico. Non è un caso, infatti, che la forza innovativa non venisse accordata a tutte le parole ma solo ad una ristretta cerchia di termini ed espressioni, da pronunciare, peraltro, secondo una precisa alternanza e successione. È verso la metà del V secolo a.C., con le XII Tavole, che l’agire privato sembrò emanciparsi dagli schemi eminentemente formali di cui si è detto. L’antica mancipatio conobbe un fenomeno di adattamento funzionale propedeutico a favorirne l’impiego per finalità diverse da quelle originariamente sue proprie. Contemporaneamente, si diffuse la pratica di esplicitare gli effetti che si desiderava perseguire per il suo tramite con apposite dichiarazioni, dette nuncupationes. Un esempio della loro applicazione può rinvenirsi, in materia successoria, nella mancipatio familiae, che non poteva ritenersi un vero e proprio testamento ma cercava di riprodurne il risultato pratico. Si trattava di una forma di mancipatio per mezzo della quale si perveniva al trasferimento inter vivos del patrimonio del mancipio dans ad un terzo di sua fiducia che, alla sua morte, avrebbe fatto da esecutore delle volontà che lo stesso aveva solennemente pronunciato, rimettendo i beni ai soggetti indicati quali successori. Solo con l’intervento della giurisprudenza preclassica, la libertà di forme iniziò a conoscere, nel diritto privato romano, i primi spazi di rilevanza fino a diventare regola consolidata in età classica e postclassica. Tuttavia, proprio nell’ultima fase della storia giuridica di Roma, la cancelleria imperiale, all’evidente scopo di garantire la sicurezza dei traffici e recependo una prassi diffusa nelle provincie orientali dell’impero, introdusse un nuovo requisito di espressione della volontà negoziale, rappresentato dalla scriptura. L’atto doveva quindi essere confezionato per iscritto, talora ad probationem, quindi al fine di dare tramite essa la dimostrazione della volon-

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tà delle parti nel caso nascesse una controversia, talaltra addirittura ad substantiam, ossia con valenza costitutiva. Nel primo caso, la dimostrazione che il negozio fosse stato concluso non poteva darsi altrimenti che esibendo il documento che lo conteneva; nel secondo la mancanza di forma scritta invalidava il rapporto negoziale. La prima delle due funzioni svolta dalla forma, quella cioè ad probationem, appare senz’altro quella più risalente. È presumibile che a Roma già nel II secolo a.C. le transazioni di maggiore importanza fossero documentate per iscritto in virtù della tendenza dei contraenti a dare forza agli impegni assunti imprimendoli su di un supporto scrittorio durevole. Il documento probatorio romano per eccellenza è costituito dalla testatio. Questa consiste in una sorta di processo verbale dell’attività compiuta dalle parti, in cui è fatto riferimento anche ai gesti che queste hanno compiuto e alle parole che hanno pronunciato. La sua forza dimostrativa è legata alla circostanza che i fatti oggetto di documentazione avvengono alla presenza di testimoni, almeno cinque, i quali garantiscono l’autenticità del documento e la veridicità di ciò che in esso viene riportato nel momento in cui lo sigillano. Il materiale scrittorio tipico su cui la testatio è redatta è costituito da tavolette cerate, con una doppia scrittura: l’una rivolta verso l’esterno (scriptura exterior), utile a renderne consultabile il contenuto ogni volta che sia necessario; l’altra (scriptura interior), chiusa e munita dei sigilli dei testimoni, da aprire soltanto in caso di contestazioni. I contatti con il mondo ellenistico comportarono che già nel I secolo a.C., nei traffici quotidiani, a Roma facesse la comparsa un’altra tipologia di documento, il chirographum (dal greco: “scritto di proprio pugno”). Chi lo redigeva si preoccupava di riportare, in prima persona, il contenuto di un negozio, avendo cura di sottoscrivere la propria dichiarazione in modo da conferirle rilievo probatorio.

3.1. La classificazione dei negozi in base alla forma I negozi formali conosciuti dal ius privatum di epoca classica e postclassica sono tradizionalmente distinti, in base alla forma, in: librali, verbali, documentali e a forma complessa. I negozi librali, così definiti in quanto “gesta per aes et libram”, prevedevano, appunto, il ricorso, divenuto ormai simbolico, alla pesatura del bronzo sulla bilancia. Avevano stretta attinenza con la circolazione dei diritti assoluti e, nello specifico, venivano impiegati per consentire al pater di acquistare diritti erga omnes sui sottoposti liberi, sulle res mancipi, sul patrimonium o su di un altro soggetto di diritto che avesse prestato il proprio assenso.

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Paradigmatica, a riguardo, era la mancipatio, per mezzo della quale si otteneva la circolazione del dominium ex iure Quiritium. Come già accennato, l’atto doveva svolgersi alla presenza di cinque cittadini romani in età pubere, che avrebbero assunto il ruolo di testimoni, e con l’ausilio di un ulteriore soggetto, detto libripens, incaricato di tenere in mano una bilancia (libra) per la pesatura del bronzo non coniato (aes rude). Anche il bene da trasferire veniva portato al cospetto dell’alienante (mancipio dans) e dell’acquirente (mancipio accipiens). Quest’ultimo, tenendo in mano un pezzo di rame (raudusculum) faceva solenne affermazione della proprietà dell’oggetto, aggiungendo che la sua professione di dominium si giustificava appunto sulla base dell’alienazione. Quindi, l’alienante o il libripens invitava l’acquirente a toccare la bilancia con il pezzo di bronzo, gesto a cui seguiva la consegna del metallo all’alienante, a simboleggiare il prezzo di trasferimento. Se l’oggetto della mancipatio non fosse stato trasportabile (si pensi ad un immobile), questo poteva essere sostituito da una parte dello stesso, che lo rappresentasse simbolicamente (ad es.: una tegola per una abitazione, una zolla di terreno per un campo). La realizzazione dei negozi di tipo librale era, come è evidente, molto complessa e si conciliava con un sistema in cui gli scambi non erano molto frequenti: ciò ne comportò il progressivo abbandono da parte dei Romani, con un processo venuto a compimento già in età classica. I negozi verbali avevano quale elemento costitutivo la pronuncia di parole predefinite e inderogabili. Il loro impiego fu particolarmente esteso nell’ambito della creazione, modificazione ed estinzione di obligationes. Delle figure riconducibili alla categoria, la più significativa, per il larghissimo impiego che conobbe nella prassi, è la stipulatio. Questa rappresenta l’evoluzione di una più antica modalità di assunzione di obbligazioni denominata sponsio. La sponsio è l’atto produttivo di obligatio più antico tra quelli conosciuti dal diritto romano ed era riservata ai soli cives. Strutturalmente si risolveva nello scambio di una interrogazione e di una risposta nel senso che il futuro creditore domandava al futuro debitore se intendesse promettere di eseguire una determinata prestazione e l’altro rispondeva di volerlo fare, entrambi facendo rigorosamente ricorso al verbo spondere. L’etimologia della voce verbale – che ricondurrebbe all’atto di “fare libagioni” – e la rigidità del formulario, hanno indotto a rintracciare le radici della sponsio in ambito magico-sacrale. La stipulatio, a sua volta, riprendeva lo schema dello scambio tra interrogazione e risposta che connotava la sponsio ma si differenziava da questa per alcuni aspetti non secondari: 1) si atteggiava come prodotto di un diritto ormai laicizzato, in cui l’ascendenza religiosa di alcune norme e pratiche non assume più rilevanza decisiva ai fini della loro rilevanza; 2) quale atto iuris

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gentium era aperto all’utilizzazione anche da parte dei non cittadini; 3) mancava del rigido formalismo proprio dello schema negoziale più antico, non essendo più necessario che l’obbligo venisse assunto facendo ricorso ad una determinata voce verbale, essendo sufficiente la pronuncia di parole aventi carattere impegnativo. I negozi documentali hanno quale elemento caratteristico la previsione della forma scritta vincolata. A tale genus fanno capo, ad esempio, le registrazioni nei libri contabili appartenenti ad un soggetto giuridico. Si trattava, in particolare, di appostazioni a credito e debito, a cui si collegava la nascita e la cessazione di una obligatio nei rapporti con un terzo identificato nelle scritture come debitore. Alla categoria appartengono inoltre una serie di documenti detti syngrapha e chirographa, diffusi in età classica e postclassica, che costituivano riconoscimento di un determinato rapporto giuridico. Vi erano poi una serie di instrumenta con cui, in età postclassica, venivano confezionati, alla presenza di testimoni che li sottoscrivevano e sugellavano, atti inter vivos o mortis causa per adeguarsi a disposizioni che ne imponevano la realizzazione in forma scritta ad probationem o ad substantiam. Quanto ai negozi a forma complessa, questi deviavano dagli schemi negoziali finora esaminati in quanto la loro realizzazione comportava il ricorso a formalità eterogenee. Si consideri, ad esempio, in età postclassica, i casi in cui, specie in materia di trasferimenti immobiliari, la formazione di un documento negoziale in forma scritta, detto instrumentum, non bastasse a farlo ritenere perfezionato ma fosse necessario anche il suo inserimento nei pubblici registri, al fine di renderlo conoscibile ed evitare inganni derivanti dall’altrui malafede. Vi erano poi atti il cui compimento prevedeva la partecipazione di soggetti o enti di natura pubblicistica. Si consideri, a riguardo, la in iure cessio, per mezzo della quale un soggetto otteneva in suo favore il trasferimento di diritti erga omnes su un bene attraverso la pronuncia di una formula di vindicatio, durante un processo simulato, svolto al cospetto di un magistrato, alla quale l’alienante non opponeva resistenza. Uno svolgimento assai simile connotava la manumissio vindicta, attraverso la quale si procurava la liberazione di un servus.

4. LA CAUSA NEGOZIALE La causa negoziale, nel linguaggio giuridico odierno, sta tradizionalmente ad indicare la funzione economico-sociale perseguita dal negozio ed in ragione della quale lo stesso è ritenuto meritevole di tutela dall’ordina-

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mento giuridico. Si tratta, tuttavia, di un concetto di incerto statuto scientifico che ha subìto un lungo processo evolutivo che non può ritenersi ancora concluso. Nel lessico dei giureconsulti romani, tuttavia, il lemma ‘causa’ si caratterizza per un polisemia difficilmente riconducibile ad unità e solo raramente assume un’accezione analoga a quella impostasi nell’uso moderno: nei suoi usi più frequenti, infatti, può indicare il motivo per il quale un negozio è stato concluso, la fonte di un rapporto giuridico o una situazione giuridicamente rilevante, considerata nel suo complesso, od anche l’interesse sotteso al negozio o la forma della sua tutela. Ne discende l’impossibilita di inquadrare sistematicamente il concetto di causa presso i romani che, non a caso, se ne occuparono assai poco. Peraltro, il fenomeno della negozialità a Roma si connota per il sedimentarsi di una tipicità delle forme che è performante rispetto ai singoli contractus. La più risalente riflessione giurisprudenziale sulla causa è in buona sostanza una mera tipizzazione degli interessi concretamente perseguiti e dichiarati dai contraenti, attraverso la nuncupativo, nell’ambito di strutture contrattuali astratte quali la mancipatio, la stipulatio, la traditio, la in iure cessio. Il concetto di causa comincia ad emergere soltanto allorquando trova accoglimento il principio del consensualismo, riconoscendosi valore obbligante alla nuda pactio: nella prospettiva processualistica dei giuristi romani essa viene dunque a configurarsi come vaglio di meritevolezza finalizzato alla concessione della tutela giurisdizionale e che in ogni caso è volto a commisurare l’interesse perseguito a parametri esterni di liceità intesa in senso lato. È nell’assetto del ius privatum del periodo classico e postclassico che la causa trovò più ampia considerazione e ad essa si fece riferimento quale elemento di qualificazione del negozio, al fine di sussumere l’atto concretamente realizzato dalle parti in un tipo negoziale e farne derivare il regolamento applicabile. In questo contesto, deve segnalarsi come strutture negoziali modellate per rispondere a determinati scopi subirono talvolta un fenomeno di “adattamento funzionale”, in ragione del quale, a seguito di una revisione più o meno intensa dei loro elementi costitutivi, si trovarono asservite ad una causa diversa da quella originaria. In questa prospettiva, la riflessione giurisprudenziale si distacca dai singoli interessi concreti dei contraenti per acquisire una rilevanza più astratta e generale, di cui è espressione la nota definizione di causa cui approda Ulpiano in D. 2.14.7 (Ulpianus 4 ad ed.), che la individua nella esecuzione di una prestazione da parte di uno dei contraenti orientata ad ottenere una controprestazione. La nozione più matura di causa per i Romani viene dunque ancorata alla considerazione dell’equilibrio complessivo nel quale trovano composizione gli interessi di tutte le parti contraenti.

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4.1. L’illiceità della causa L’illiceità della causa poteva aversi anzitutto quando la funzione del negozio si trovasse in conflitto con i principi del ius privatum espressi dai mores, preservati ed elaborati dai prudentes che ne fecero oggetto di interpretatio, e dalle leges più antiche, per lo più ascritte al periodo monarchico: in questi casi, l’atto era considerato del tutto inutilizzabile. Se, invece, la contrarietà avesse riguardato le leges publicae, quelle cioè deliberate dall’assemblea cittadina, risalenti per lo più all’età repubblicana ed al primo principato, gli esiti sarebbero variati in ragione del tipo di provvedimento considerato. Infatti, il negozio sarebbe stato inutilizzabile unicamente se la fonte del divieto violato fosse consistita in una lex perfecta, ossia in una previsione normativa che, oltre a stabilire degli obblighi di comportamento, sanzionasse espressamente la loro contravvenzione con l’invalidità degli atti compiuti. Il negozio non avrebbe subito conseguenze in punto di utilizzabilità, invece, se la funzione obiettiva che lo stesso perseguiva si fosse trovata in contrasto con una lex minus quam perfecta o di una lex imperfecta. Nel primo caso, alla violazione di un divieto, la norma associava soltanto l’applicazione di una sanzione pecuniaria; nel secondo la fonte descriveva solo il comportamento da tenere, restando imprecisato il profilo sanzionatorio. In tali ultime ipotesi era comunque fatta salva la possibilità che il pretore, in sede giurisdizionale, ritenendo comunque di dover contrastare gli effetti di una negoziazione illecita, potesse concedere rimedi, quali ad esempio una exceptio, alla parte contro la quale venisse azionata. Una forma indiretta di illiceità della causa si aveva nell’ipotesi di “fraus legi facta”, la quale ricorreva ogni qualvolta un negozio apparentemente lecito venisse realizzato per aggirare un divieto previsto dalla legge. Si trattava, in sostanza, di quei casi in cui si realizzava un atto che la legge non proibiva espressamente ma che non poteva ritenersi comunque conforme alla volontà del legislatore. Si consideri, ad esempio, l’espediente di effettuare vendite a prezzo simbolico o vile per aggirare il divieto di donazioni tra coniugi previsto dal diritto romano.

4.2. I ‘negotia turpia’ Alla legislazione e giurisprudenza sviluppatasi a partire dal principato si deve poi l’emersione della categoria dei negotia turpia, ritenuti inutilizzabili perché obiettivamente orientati verso scopi contrari ai boni mores. Erano intesi come tali non soltanto gli atti negoziali che si sostanziassero in atteggiamenti in contrasto con i costumi sessuali, ma anche quelli che ave-

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vano la conseguenza di sminuire il contegno della persona, la violazione di giuramenti, l’elusione della buona fede in senso oggettivo, la realizzazione di attività delittuose, perfino la messa a repentaglio della religione di stato. La nozione di turpitudo si poneva come limite all’autonomia privata per rispondere all’esigenza di evitare che trovassero riconoscimento e tutela da parte dell’ordinamento situazioni connotate da disvalore. La risposta del ius, sotto il profilo quantitativo, poteva trovare espressione nella limitazione del numero e dell’intensità delle facoltà negoziali accordate al soggetto. Quanto alla dimensione qualitativa dell’autonormazione, relativa cioè al suo modo di essere e di atteggiarsi, una visione di insieme pare indicare che, fino al principato, i giuristi e i magistrati giusdicenti si relazionassero con la forza creatrice dell’autonomia dei privati alla stregua di un dato di fatto preesistente al loro intervento: si occupavano quindi di controllare, ab extrinseco ed ex post, che i negotia realizzati fossero coerenti con il sistema di valori socialmente rilevante. In epoca giustinianea, si sarebbe invece registrato un ribaltamento di prospettiva, agevolato dalle mutate strutture costituzionali e dai nuovi meccanismi di produzione normativa: gli interventi imperiali non avrebbero risposto più alla necessità di arginare in via postuma gli eccessi dell’autoregolazione ma si sarebbero proposti essi stessi di modellare ex ante i confini dell’agire autonomo. Dai materiali raccolti nel Corpus Iuris Civilis è possibile desumere che la neutralizzazione degli effetti delle disposizioni negoziali inficiate da turpitudine riposasse sull’azione congiunta di ius honorarium e ius civile. Ed invero, a fattispecie nelle quali era indispensabile l’intervento del pretore affinché non trovasse attuazione un assetto di interessi contrario ai boni mores si affiancavano casi in cui l’affermazione dell’impossibilità per la pattuizione di produrre effetti prescindeva da interventi correttivi, trovandosi iscritta nello statuto giuridico del rapporto considerato. Gli strumenti messi a disposizione del pretore per paralizzare o rimuovere gli effetti prodotti da negozi turpi furono principalmente la remissio e la condictio ob turpem causam. La prima trovava applicazione specialmente in materia testamentaria e riguardava i casi in cui ad un soggetto fosse imposto di realizzare prestazioni connotate da disvalore sociale e morale per accedere ai benefici della successione. In tali ipotesi, il contenuto della clausola condizionale era neutralizzato dal magistrato e diveniva tamquam non esset, evitando che il destinatario fosse posto dinanzi alla scelta tra la perdita dell’attribuzione successoria e la rinuncia al suo buon nome. La seconda aveva lo scopo di eliminare gli effetti di spostamenti patrimo-

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niali sorretti da moventi immorali. Il funzionamento dello strumento processuale era subordinato ad una valutazione e comparazione della condotta tenuta dalle parti del negozio: la ripetibilità della prestazione era ammessa ogni qualvolta chi ne facesse richiesta non fosse partecipe della turpitudine; diversamente, la situazione di fatto determinatasi con l’esecuzione del negozio si cristallizzava e l’autore della dazione perdeva il conferimento, restando privo di mezzi processuali per ottenerlo indietro.

4.3. Causa e motivi Dalla causa negoziale vanno distinti i motivi, vale a dire le aspettative in ragione delle quali un soggetto è indotto a concludere un negozio. Essi costituiscono un prodotto della sfera soggettiva del soggetto agente e, perciò, restano estranei alla ragione giustificativa del negozio, obiettivamente considerata. Nel ius privatum, in virtù della regola di rilevanza della causa ed irrilevanza dei motivi, riecheggiata da molti sistemi giuridici contemporanei, anche se i propositi degli autori fossero stati leciti, l’illiceità della causa avrebbe impedito al negozio di produrre effetto. Per converso, se la causa fosse stata iusta, in quanto in linea con i precetti dell’ordinamento, ogni indagine sui motivi che avevano condotto l’autore a realizzarlo sarebbe stata preclusa, specie se questi fossero rimasti inespressi in sede negoziale.

5. LA VOLONTÀ NEGOZIALE Quanto alla volontà negoziale, il severo e rigido formalismo che connotò per lunghi secoli l’esercizio dell’autonomia privata presso i romani comportò che la stessa emergesse quale oggetto di autonoma attenzione soltanto in epoca successiva, a partire dal principato; prima di allora, essa invero non riuscì ad ottenere considerazione separatamente dalle sue modalità di manifestazione. Del resto, la volontà è un atteggiamento mentale, un prodotto dell’attività psichica della persona, ragion per cui non può assumere rilevanza giuridica se i suoi contenuti restano nel foro interno, senza cioè che siano palesati nell’ambito di una relazione intersoggettiva. In ogni caso, le problematiche relative al procedimento di formazione della volontà ed alla corrispondenza tra questa e la sua manifestazione non furono oggetto di elaborazioni teoriche da parte della giurisprudenza romana ma vennero affrontate e risolte in relazione a singole fattispecie concrete. Almeno fino all’età classica, i giuristi romani si mostrarono orientati a ritenere che un soggetto, per il solo fatto di aver reso una dichiarazione nego-

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ziale, fosse comunque responsabile del suo contenuto nei rapporti con i terzi, quale che fosse il grado di corrispondenza di tale dichiarazione con le sue intenzioni effettive. Solo in età postclassica sembrò ridimensionarsi l’interesse a tutelare senza eccezioni l’affidamento che altri facesse rispetto alla manifestazione di volontà dell’agente, finendosi per distinguere il piano della formazione della volontà da quello della sua manifestazione. Tale distinzione rafforzò l’idea per cui una volontà negoziale, per quanto seria e conforme al ius, non potesse ricevere rilevanza giuridica se non fosse stata accompagnata da segni esteriori che ne attestassero l’esistenza ed il contenuto. La giusprivatistica contemporanea conosce la differenza tra negozi dichiarativi e non dichiarativi. I primi si imperniano su di una dichiarazione espressa, nel senso che l’assetto di interessi desiderato dalle parti è reso palese dall’impiego di una struttura di discorso, orale o scritta. Nei secondi, l’adesione al contenuto precettivo del negozio avviene in modo tacito, ricavandosi da un comportamento della parte che ne segnali in modo inequivoco l’intenzione. I romani mostrarono di dare rilievo ad entrambe le tipologie negoziali considerate, salvo pretendere che il carattere conclusivo ed inequivoco delle espressioni tacite di adesione al negozio venisse accertato di volta in volta, in base alle caratteristiche proprie del caso e sulla scorta delle regole di comune esperienza. Solo in età giustinianea, il profilo venne presidiato da specifiche previsioni normative, che introdussero presunzioni relative e si occuparono di ripartire l’onere della prova qualora la venuta ad esistenza dell’incontro di volontà fosse in contestazione. Dalle ipotesi fin qui considerate deve distinguersi il caso del silenzio o, comunque, della mancata espressione di volontà, che si verificava quando il titolare avesse del tutto omesso di esternarla, anche solo mediante gesti o comportamenti. Una simile ricorrenza era per i romani del tutto priva di rilevanza sul piano del diritto ed inidonea a far ritenere concluso un negozio giuridico. Esclusa sarebbe stata parimenti la possibilità di prospettare l’esistenza di negozi taciti, ossia di negozi la cui esistenza si sarebbe dovuta presumere dal fatto che un soggetto, il quale aveva interesse a porli in essere, non aveva manifestato alcuna intenzione di rinunziare a farlo.

5.1. Volontà e manifestazione L’invalidità del negozio, ai sensi del ius civile o del diritto pretorio, può discendere anche da patologie che riguardano il rapporto tra volontà e manifestazione. Perché l’atto espressione di autonomia privata possa dirsi validamente

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compiuto, è indispensabile infatti che la volizione individuale si trovi espressa in modo genuino e corretto. La divergenza tra volontà e manifestazione può avvenire in modo inconsapevole o consapevole. Nel primo caso si parla di errore ostativo, che ricorre quando il dichiarante desidera produrre all’esterno una determinata manifestazione di pensiero ma questa finisce per essere formulata in modo erroneo oppure perviene in modo inesatto al destinatario attraverso la persona o il mezzo che si è scelto di impiegare per trasmetterla. A tale riguardo la regola si trova chiaramente formulata in D. 44.7.57 (Pomponius 36 ad Q. Mucium.): se nelle trattative per la conclusione di un negozio, ricorrendo o meno la buona fede, interviene un errore per effetto del quale il dichiarate intende una cosa e la controparte invece un’altra, ciò che si è fatto non ha valore. Tuttavia, quando i vizi relativi alla manifestazione della volontà non fossero prima facie riconoscibili, la regola era quella di dare prevalenza al negozio apparente. A partire dall’età classica, con valutazioni da effettuare caso per caso, anche forme meno appariscenti di divergenza tra volontà e manifestazione furono ritenute idonee a rendere inutilizzabile il negozio purché si potesse provare la ragione della discordanza, la condotta della vittima della discordanza fosse scusabile e non fossero lesi gli interessi di terzi estranei al negozio. Un’ipotesi di divergenza consapevole tra volontà e manifestazione si ha, invece, con la c.d. riserva mentale, riferita ai casi in cui un soggetto emette una dichiarazione di volontà senza che essa sia realmente esistente e, però, senza palesare in alcun modo, all’esterno, i segni della sua contrarietà: ad esempio, Tizio dona un bene a Caio, gravemente ammalato ed in fin di vita, ma senza volerlo veramente in quanto lo fa solo per esaudire un ultimo desiderio espresso da Caio. Ovviamente a tale fenomeno non era data alcuna rilevanza giuridica, così del resto come accade anche oggi, non avendo alcun valore la volontà non esteriorizzata. Un rilievo peculiare assume poi la figura della simulazione, che ricorre quando le parti di un negozio si accordano affinché questo non produca effetti o perché, in realtà, non è loro intenzione concludere alcun negozio (simulazione assoluta), o perché vogliono concluderne uno diverso da quello apparentemente concluso (simulazione relativa). Nel caso della simulazione assoluta, l’intento perseguito è quello di creare, di fronte ai terzi, l’apparenza che un diritto sia stato trasferito da un soggetto ad un altro o che sia sorta un’obbligazione. All’espediente si ricorre spesso, nella prassi, per occultare beni ai creditori o al fisco, fingendone l’acquisto da parte di altri, o per eludere divieti di legge (ad esempio, si simula che una determinata azienda sia stata data in fitto mentre in realtà resta nella

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disponibilità del proprietario, che continua a garantirne il funzionamento). Quanto invece alla simulazione relativa, essa comporta la compresenza di due negozi, uno simulato, destinato ad apparire all’esterno, e un altro, dissimulato, che è quello che le parti realmente desiderano veramente realizzare. La divergenza tra il primo ed il secondo negozio può riguardare: il tipo negoziale (nel senso, ad esempio, che si simula una vendita volendosi invece concludere una donazione; il contenuto (si pensi all’ammontare del prezzo, dichiarato in misura diversa da quella reale); l’identità di una delle parti (allorquando si ricorre all’interposizione fittizia di persona). Fino a tutto il III secolo d.C., la tendenza espressa dal diritto romano fu quella di ritenere privi di valore giuridico, perché sostanzialmente non venuti ad esistenza, quei negozi rispetto ai quali fosse evidente ed inequivocabile la divergenza tra la volontà dei soggetti e la sua manifestazione all’esterno, e ciò tanto nel caso di simulazione assoluta che relativa. Come conseguenza dell’invalidità dell’atto simulato venivano meno anche gli effetti dei negozi da esso dipendenti: ad esempio, in caso di simulazione di un divorzio, veniva meno pure la validità delle donazioni eventualmente fatte, successivamente al finto scioglimento del matrimonio, tra i due pretesi ex coniugi in quanto, per l’appunto, effettuate per eludere le norme che vietavano atti di liberalità tra marito e moglie. Con specifico riferimento ai contratti, tale regola è affermata dal giurista Modestino, operante nei primi decenni del III secolo d.C., in D. 44.7.54 (Modestinus 5 reg.), secondo cui «i contratti immaginari non producono un vincolo giuridico valido in quanto la fattispecie è simulata e non corrispondente alla verità». Mentre per i giuristi del III secolo, anche in caso di simulazione relativa la soluzione era quella di ritenere invalidi tanto il negozio simulato che quello dissimulato, una disposizione dell’imperatore Diocleziano (284-305), contenuta in C. 4.38.9, con riferimento ad una simulata compravendita che in realtà dissimulava una donazione, per la prima volta ammise la validità dell’atto dissimulato, a condizione che la cosa fosse stata consegnata ed il (simulato) venditore avesse rinunciato al relativo prezzo. Il principio della prevalenza del negozio effettivamente voluto su quello simulato, fu ribadito più volte dalla cancelleria imperiale, particolarmente impegnata a contrastare tale fenomeno che era assai diffuso nelle provincie orientali dell’impero, dove risultava favorito dal frequente ricorso nella pratica negoziale ai documenti scritti ai quali veniva, per lo più, riconosciuta non solamente una efficacia probatoria ma addirittura costitutiva del negozio concluso: la stessa rubrica del titolo 4.22 del Codice giustinianeo, infatti, sancisce che vale maggiormente ciò che viene posto in essere in concreto rispetto a quello che si pone per iscritto simulatamente. In caso di simulazione assoluta, invece, restò fermo il principio, sancito sempre in epoca dioclezianea dal-

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la cancelleria imperiale, e contenuto in C.2.4.21, secondo il quale gli atti simulati sono considerati come mai compiuti. Dall’ipotesi della simulazione vanno tenute ben distinte le manifestazioni del fenomeno di adattamento funzionale di alcuni negozi perché, stante l’esiguità degli schemi negoziali disponibili, potessero essere impiegati per raggiungere finalità diverse da quelle originarie. La differenza tra le ipotesi in esame e la simulazione relativa può ravvisarsi nell’impossibilità di distinguere tra negozio simulato e negozio dissimulato, mentre, in caso di adattamento funzionale, una forma configurata per perseguire un determinato effetto giuridico viene adibita in modo palese al perseguimento di uno scopo diverso.

5.2. Vizi della volontà dipendenti dalla persona del soggetto agente e ‘vis absoluta’ Ad incidere sulla validità del negozio, escludendola, erano pure i vizi che afferivano non già alla manifestazione della volontà negoziale ma alla sua stessa formazione, per cui l’apporto volitivo non poteva considerarsi una libera e consapevole manifestazione del soggetto agente. Venivano in rilievo, innanzitutto, i casi in cui l’integrità psicofisica e le condizioni personali della parte negoziale fossero tali da far ritenere che la volontà espressa non potesse essere stata elaborata in modo consapevole. Si trattava di ipotesi equiparabili, in senso lato, all’odierna assenza di capacità di agire. Per il ius civile era invero causa di inutilità del negozio la partecipazione di soggetti la cui capacità di autodeterminarsi doveva reputarsi assente o minorata, come gli impuberi: erano definiti tali i soggetti che non avessero raggiunto la maturità psico-fisica propria della pubertà, connessa alla capacità di procreare. Tale caratteristica, secondo i giuristi appartenenti alla Scuola Sabiniana, si sarebbe dovuta accertare caso per caso; i Proculiani, invece, adottando una posizione poi destinata a divenire prevalente, preferirono collegarne l’acquisizione, in generale, al raggiungimento di un’età specifica, fissata in 12 anni per le donne e 14 per gli uomini. Le donne erano ritenute portatrici di una condizione di minorità dovuta al sesso. I furiosi ed i prodigi non erano reputati in grado di realizzare attività negoziali perché interessati da infermità di ordine psichico. Nel caso di soggetti puberi ritenuti comunque particolarmente sprovveduti in ragione dell’età, i c.d. minores XXV annis, i negozi da essi conclusi erano validi per il ius civile ma il pretore, su richiesta dell’interessato, poteva paralizzarne l’efficacia, concedendo una restituito in integrum quando le prestazioni convenute fossero state eseguite, o una specifica eccezione prevista da una Lex Letoria (exceptio legis Laetoriae) per paralizzare le richieste di adempimento rivolte al minore.

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Alle ipotesi sopra ricordate può associarsi, in punto di conseguenze, quella della violenza fisica (vis absoluta). Mentre le minorazioni psichiche dell’individuo da cui proviene la dichiarazione di volontà impediscono di ritenere che la volizione sia frutto di una sua libera elaborazione del pensiero, nel caso della violenza fisica il dichiarante non ha alcuna intenzione di esprimere una volontà e l’atto con cui ciò avviene non gli appartiene ma è il frutto di un comportamento materiale di un terzo. Si pensi, a riguardo, all’ipotesi in cui una persona, tenendo con la forza la mano di un’altra, la costringa a sottoscrivere una dichiarazione contraria ai suoi interessi.

5.3. L’errore-vizio Vi sono poi casi in cui la formazione di una volontà viziata non dipende da qualità intrinseche della persona ma è il risultato dell’ignoranza totale o parziale di una circostanza da cui deriva la decisione del soggetto di concludere o meno il negozio. Si discorre a riguardo di errore-vizio o errore-motivo, il quale si risolve in una falsa rappresentazione della realtà che influenza il processo di determinazione causale. Un caso emblematico è quello del soggetto che ha intenzione di acquistare l’unica botte che un altro ha nella sua cantina con la convinzione che contenga vino, mentre invece ospita dell’aceto. Tra i due l’accordo sull’oggetto del trasferimento – la botte – può reputarsi senz’altro perfezionato ma è viziato dall’errore del compratore Tizio rispetto alla sostanza conservata nel contenitore. L’errore potenzialmente rilevante doveva quindi investire la situazione di fatto (error facti) e possedere almeno due requisiti: doveva essere “essenziale”, ossia tale da far escludere, in relazione alle circostanze concrete, che senza di esso il negozio sarebbe stato ugualmente concluso; inoltre doveva essere “scusabile”, ossia tollerabile in una persona dotata di normale intelligenza e diligenza. Costantemente irrilevante fu invece ritenuto l’errore di diritto (error iuris), determinato dall’ignoranza totale o parziale di una norma giuridica. alcune eccezioni però furono previste dal diritto pretorio a vantaggio di determinate categorie di soggetti ritenuti maggiormente vulnerabili e dunque meritevoli di protezione da parte dell’ordinamento, come i minori di 25 anni, le donne, i militari e le persone crassamente ignoranti (rustici). In seno all’esperienza romana, l’errore-vizio non era preso in considerazione sul piano del diritto civile allorquando intervenisse in occasione della conclusione di un negozio formale ed astratto. In tal caso, la pronuncia esatta dei verba prescritti comportava che gli effetti negoziali si producessero comunque, senza che fosse ritenuta possibile un’ulteriore indagine circa la

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reale percezione che le parti avessero dell’assetto di interessi sottostante. L’errore poteva rilevare però sul piano del diritto onorario, dove poteva essere evocato per sottrarsi all’adempimento chiesto dalla controparte attraverso il ricorso ad una exceptio. Quanto ai negozi a forma libera, la figura vide le sue prime applicazioni a partire dal II secolo d.C. La casistica evincibile dall’analisi giurisprudenziale prese in considerazione specialmente l’error in substantia nella compravendita, cioè l’errore sulle qualità essenziali della cosa venduta, come nell’esempio sopra riportato dell’aceto scambiato per vino. Parimenti rilevante era l’error in materia, relativo al materiale di cui era fatta la cosa oggetto del negozio (tipico esempio quello dell’acquisto di un anello di ottone scambiato erroneamente per oro). Irrilevante era invece l’error in causa (falsa causa) concernente una qualità non essenziale. Irrilevante era altresì l’error in causa relativo ai motivi o alle circostanze alla base di un determinato atto negoziale (ad esempio Tizio acquista un oggetto nell’erronea convinzione che gli necessiti per lo svolgimento del suo lavoro). Non mancarono poi di essere presi in considerazione dalla giurisprudenza l’error in corpore, ossia all’errore sull’oggetto giuridico del negozio; l’error in persona, cioè l’errore sull’identità di una delle parti, che diveniva rilevante specialmente quando il negozio fosse stato concluso intuitu personae, ossia in ragione di specifiche qualità dell’altro contraente; l’error in negotio, inteso come errore sul tipo di negozio che si andava a concludere, purché riguardasse la sostanza delle pattuizioni e non la sua denominazione formale; all’error in demonstratione, ricadente sulla descrizione di soggetti od oggetti, nella misura in cui rendesse equivoca la loro identificazione; l’error in quantitate, riferibile alle dimensioni quantitative dell’oggetto stesso, nella misura in cui queste erano suscettibili di incidere sul suo valore: in tale ultimo caso, tuttavia, il negozio restava valido per la quantità minore: ciò in aderenza ad un favor per la conservazione del negozio nei limiti del possibile. In tema di negozi mortis causa, la solennità propria delle formule con cui si provvedeva all’istituzione di eredi e legati comportò che la validità di una disposizione testamentaria non venisse mai messa in discussione dal ius civile, salvo che il vizio riguardasse una clausola condizionale. Il tribunale del pretore si preoccupò di assicurare una exceptio a chi avesse interesse a contrastare l’esecuzione della disposizione testamentaria inficiata da errorevizio, sul presupposto che andasse contro la volontà del defunto la clausola che non corrispondeva alle sue effettive intenzioni.

5.4. Il dolo Non diversamente dal diritto privato odierno, il diritto romano si mostrò

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particolarmente attento a regolamentare anche i casi in cui la volontà negoziale si fosse formata in modo viziato per effetto dell’azione di un terzo. Già in età repubblicana, il tribunale del pretore si fece carico di intervenire per evitare che fossero portati ad effetto negozi affetti da dolus malus (ossia dolo malvagio, così definito per distinguerlo dal c.d. dolus bonus, considerato invece irrilevante, e consistente nella mera esaltazione delle qualità di un oggetto al fine di invogliare la controparte alla conclusione del negozio), attraverso la concessione di rimedi quali exceptiones e restitutio in integrum. Il dolus malus in conficiendo negotio era integrato dal comportamento malizioso con cui una parte, detta deceptor, in modo preordinato e malizioso, attraverso artifici e raggiri, traeva in inganno l’altra (detta deceptus) con cui fosse in trattative o intrattenesse rapporti giuridici, inducendola a compiere un atto non voluto. La definizione del dolo, ancor oggi largamente utilizzata, riportata da Ulpiano in D. 4.3.1.2 (Ulpianus 11 ad ed.), si deve al giurista vissuto in età augustea, Labeone, il quale lo descrive come «qualunque furbizia, inganno o macchinazione finalizzata a circumvenire, ingannare o indurre in errore altri». Perché il dolo negoziale potesse invalidare il negozio era però indispensabile che le manovre poste in essere dal deceptus superassero i limiti della fisiologica capacità di curare i propri interessi, arrivando a costruire per il deceptus una rappresentazione della realtà falsa od alterata o una situazione psicologica tale da portarlo ad assumere decisioni obiettivamente contrarie alla propria convenienza. L’ipotesi di dolus malus presa in considerazione dai giuristi romani è rappresentata senz’altro dal dolus causam dans, ossia il dolo che abbia indotto la vittima a concludere un negozio che, altrimenti, non avrebbe mai concluso; fu invece un elaborazione dei Glossatori medievali, recepita poi anche nei codici moderni, l’ipotesi del c.d. dolus incidens, che si ha quando la macchinazione posta in essere non influisce sulla volontà del deceptus di compiere l’atto che sarebbe stato comunque realizzato ma a condizioni diverse: in tal caso non si ha invalidità dell’atto ma si genera solo un obbligo di risarcimento dei danni. Come si è detto, nell’epoca più antica, in ragione della solennità degli atti giuridici, al dolo non era riconosciuta alcuna rilevanza: l’osservanza delle formalità prescritte faceva sì infatti che gli effetti del negozio si producessero comunque. Fu il pretore peregrino, in particolare, a dare per primo rilevanza alle ipotesi di dolo nell’ambito dei giudizi di buona fede (bonae fidei iudicia), introdotti a tutela di alcuni nuovi contratti (c.d. nova negotia), affermatisi nella pratica commerciale del III sec. a.C., quali la compravendita (emptio venditio), la locazione (locatio conductio), la società (societas) ed il mandato (mandatum), nei quali, nei rapporti tra le parti contrattuali, era prioritaria la salvaguardia della fides, intesa quale lealtà e correttezza, di per sé evidente-

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mente incompatibile con il dolo. In sede processuale, dunque, con riferimento a questi contratti, il vaglio del magistrato si estendeva al comportamento delle parti di talché il la pretesa dell’attore trovava accoglimento solo laddove non fosse accertato un suo comportamento doloso. Successivamente, e precisamente nel 66 a.C., come ricordato da Cicerone, il pretore Aquilio Gallo estese la tutela contro il dolo a tutti gli atti e rapporti contrattuali, ivi compresi quelli di stretto diritto (stricti iuris), trasformandola in tal modo un rimedio di applicazione generale. I mezzi giudiziari elaborati dal diritto onorario per contrastare il dolo furono dunque tre: l’exceptio doli, la in integrum restitutio ob dolum e l’actio de dolo. L’exceptio doli era concessa dal magistrato nelle ipotesi in cui il deceptor proponesse contro il deceptus un’azione per chiedere l’esecuzione di un negozio concluso per effetto di dolo (dolus praeteritus) o, più in generale, per approfittare maliziosamente di un diritto a lui spettante (dolus prasens). Mediante l’exceptio si impediva che la domanda fosse accolta qualora venisse accertato che l’adesione del convenuto deceptus all’accordo dedotto in giudizio non fosse stata libera ma fosse dipesa da artifizi effettuati in suo danno. Il rimedio, come si è detto, non trovava applicazione nei iudicia bonae fidei, dove la condotta tenuta dalle parti costituiva già di per sé parte integrante dell’accertamento processuale. La in integrum restitutio ob dolum presupponeva, invece, che il negozio viziato da dolo fosse stato eseguito dalle parti ed era diretta a consentire al deceptus di rimuoverne gli effetti, riportando la situazione allo status quo ante, cioè nello stato in cui si trovava prima dell’adempimento; per la sua concessione era ovviamente indispensabile che il ripristino fosse concretamente possibile. L’actio doli (o de dolo) era un’actio poenalis in simplum per il cui tramite il deceptus poteva chiedere la condanna del deceptor a corrispondergli il valore del pregiudizio subito per effetto del dolo. Si trattava di un’azione che in caso di condanna comportava l’infamia, con le relative conseguenze. La formula dell’azione conteneva una clausola arbitraria la quale consentiva all’autore del raggiro (deceptor) di sottrarsi alla condanna ripristinando spontaneamente lo status quo ante. L’azione poteva essere esercitata anche contro gli eredi del deceptor, come ricorda il giurista Ulpiano in D. 4.3.13 (Ulpianus 11 ad ed.). Se l’azione fosse stata però esercitata oltre il termine di un anno, la condanna non avrebbe potuto eccedere l’id quod ad eum pervenit, ossia quanto era pervenuto nel patrimonio del deceptor o dei suoi successori per effetto della dolosa macchinazione. L’imperatore Costantino provvide ad estendere tale termine a due anni. L’azione aveva carattere sussidiario, potendo trovare applicazione solo se

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al deceptus non fossero disponibili altri mezzi processuali ex delicto ovvero se egli non potesse comunque essere reintegrato in altro modo.

5.5. La violenza morale Quando l’attività giuridica fosse realizzata da un soggetto (il coactus) sotto l’ingiusta minaccia di un’altra persona (il coactor), ricorreva l’ipotesi della violenza morale, o metus, detta anche vis compulsiva per distinguerla dalla violenza fisica (vis absoluta). Affinché l’azione intimidatrice potesse rendere inutilizzabile il negozio, doveva risolversi nella minaccia di un male notevole alla persona del coactus o dei suoi congiunti o dei suoi beni tale da indurlo a compiere un atto non altrimenti voluto. Non era sufficiente a tal fine la minaccia inidonea ad influire su una persona normale, così come restava tendenzialmente esclusa la possibilità di rendere inutilizzabili quei negozi che fossero stati perfezionati sotto l’azione di un timore reverenziale, ossia di quel sentimento di intenso rispetto che ordinariamente si nutre nei confronti di persone dotate di particolare autorevolezza: tale sentimento, per quanto possa risultare determinante nella conclusione del negozio, resta privo di rilievo giuridico anche negli ordinamenti contemporanei in quanto non deriva da alcuna azione intimidatrice ma resta interno al processo psicologico mediante il quale l’individuo perviene alle sue determinazioni. Come per il dolo, anche per la violenza morale nell’ordinamento antico non erano previsti specifici rimedi: il rifiuto della tutela processuale era giustificato dal fatto che, come ci dice il giurista Paolo in D. 4.2.21.5 (Paulus 11 ad ed.), si riteneva che l’atto negoziale fosse stato comunque voluto dal suo autore benché costretto (tamen coactus volui). Analogamente alla vittima di dolo negoziale, anche quella di violenza si vide riconoscere tutela solo dal pretore, dapprima nell’ambito dei iudicia relativi ai contratti di buona fede e, in seguito, a partire dal I sec. a.C., mediante un apposito editto applicabile anche ai contratti di stretto diritto, con il quale il pretore espressamente sancì che non avrebbe ritenuto in nessun caso validi gli atti posti in essere nel timore di una violenza (metus causa). A tal fine si introdussero tre rimedi: in primo luogo, l’exceptio metus, finalizzata a paralizzare la richiesta giudiziale di adempimento del negozio concluso per timore, la quale poteva essere opposta non soltanto contro l’autore della violenza ma avverso chiunque ne volesse trarre vantaggio: per questo Ulpiano a tale specifico proposito, in D. 44.4.4.33 (Ulpianus 76 ad ed.), parla di exceptio in rem scripta, volendo in tal modo sottolinearne la generale utilizzabilità. Venne inoltre prevista la in integrum restitutio ob metum, utilizzabile al-

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lorquando il coactus avesse necessità di far ripristinare la situazione anteriore all’esecuzione del negozio viziato e ciò fosse concretamente possibile. In alternativa, egli poteva ricorrere all’actio quod metus causa, che come quella de dolo era un’actio poenalis ma, a differenza di quella, non sussidiaria e in quadruplum, nel senso che poteva condurre alla condanna del coactor a pagare il quadruplo del pregiudizio subito dal cactus; se però era esercitata oltre l’anno diveniva anch’essa in simplum. Per l’ipotesi in cui la violenza fosse stata esercitata da un soggetto diverso da colui che intendeva avvalersi del negozio, Giustiniano dispose che l’actio metus potesse essere rivolta contro chi avesse tratto profitto (in simplum) e contro l’autore della minaccia (in triplum). Essa poteva esser rivolta anche contro gli eredi di chi si fosse approfittato dell’atto compiuto metus causa, ma nei limiti però del loro arricchimento.

6. GLI ELEMENTI ACCIDENTALI DEL NEGOZIO 6.1. Gli elementi accidentali del negozio e gli ‘actus legitimi ’ Alcuni contenuti negoziali sono generalmente qualificati come ‘accidentali’ in quanto la loro mancata previsione non inficia l’esistenza o la validità dell’atto. A tale novero possono anzitutto ricondursi quelle clausole, come la condizione ed il termine, destinate ad influire sull’efficacia del negozio. Il loro uso nella pratica negoziale romana conosce cospicue attestazioni. Ne furono esenti, però, sotto pena di radicale invalidità, i c.d. actus legitimi, caratterizzati dal fatto di non tollerare autolimitazioni:si trattava, in particolare, della mancipatio e degli altri negozi per aës et libram; della in iure cessio, della expensilatio, della acceptilatio, della aditio hereditatis, della datio tutoris. L’istituzione di erede poteva essere sottoposta a condizione; se invece fosse stata sottoposta a termine, quest’ultimo si aveva per non apposto.

6.2. La condizione La condizione (o clausola condizionale) si rivelò uno degli strumenti più indicati per adattare alle esigenze del caso concreto le conseguenze derivanti dall’assetto di interessi che le parti avevano stabilito. Un simile risultato veniva perseguito riconnettendo l’efficacia parziale o totale dell’accordo all’avverarsi di una circostanza futura ed incerta, detta condicio. In questo modo, eventi esterni alla cornice negoziale venivano ad assumere rilievo nel regolamento di un rapporto giuridico.

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Il mutevole contenuto delle clausole condizionali modellate dal dispiegarsi dell’autonomia privata ha comportato che queste ultime, nel tempo, costituissero oggetto di numerose classificazioni, sulla scorta della casistica sviluppatasi in seno al ius privatum. 6.2.1. Condizioni positive e negative Appuntando l’attenzione sul contenuto delle condiciones, si discorre di condizioni positive o negative a seconda che l’evento condizionante fosse integrato dal verificarsi («si navis ex Asia venerit …», «se la nave sarà arrivata dall’Asia …») o dal non verificarsi («si navis ex Asia non venerit …», «se la nave non sarà arrivata dall’Asia …») di un fatto. 6.2.2. Condizioni sospensive e risolutive Particolare rilievo sul piano pratico ricoprì poi la differenza tra condizioni sospensive e risolutive. Nel primo caso, al verificarsi dell’avvenimento condizionante, il negozio iniziava a produrre effetti; nel secondo, diveniva inefficace. Il ricorso allo strumento della condizione sospensiva da parte dei romani non è stato mai revocato in dubbio, potendosene rinvenire attestazioni già in epoca arcaica. Così, nelle XII Tavole, risalenti alla metà del V secolo a.C., ci si occupa di disciplinare un particolare aspetto della statulibertas, corrispondente alla situazione in cui veniva a trovarsi, in pendenza dell’evento condizionante, lo schiavo manomesso per via testamentaria sotto condizione sospensiva (Tab. 7.12). Maggiormente controverso appare l’utilizzo della condizione risolutiva anche in ragione del fatto che questa, di norma, trovò collocazione in un patto aggiunto o, addirittura, in un negozio autonomo rispetto a quello da condizionare. La riluttanza che la giurisprudenza dell’età del principato manifestò verso tale elemento accidentale sembra potersi spiegare con la tendenza a ritenere che, di regola, i rapporti giuridici si costituissero in perpetuo, quindi senza una durata predeterminata, a meno che non intervenisse successivamente la volontà di procurarne la cessazione o si verificassero eventi incompatibili con la loro persistenza. Coerentemente a ciò, l’apposizione di condizioni risolutive sarebbe stata praticata in relazione a rapporti di durata destinati fisiologicamente ad avere natura temporanea: si pensi all’usufrutto, il quale costituì non di rado oggetto di legato in favore della vedova fino a quando non fosse eventualmente passata a nuove nozze, quindi sotto condizione risolutiva che la mulier non

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contraesse un nuovo matrimonio, da intendersi quale avvenimento futuro ed incerto che condizionava l’attribuzione mortis causa. Una maggiore apertura verso l’ammissibilità della condizione risolutiva nella pratica negoziale si sarebbe registrata solo in epoca postclassica, quando la concezione della perpetuità dei rapporti giuridici venne a mitigarsi al pari del canone della tipicità negoziale, creandosi i presupposti per un più ampio ricorso agli elementi accidentali del negozio. 6.2.3. Condizioni casuali, potestative e miste Si è soliti distinguere, poi, tra condizioni casuali, potestative e miste. Le prime sono quelle il cui avveramento dipende unicamente dal caso; nelle seconde rileva la volontà di uno dei contraenti il negozio; in quelle del terzo tipo entrambi i fattori di cui sopra. All’interno delle condizioni potestative sono incluse quelle meramente potestative, il cui tratto distintivo risiede nel fatto che l’evento dedotto come condizione deve il suo verificarsi alla volizione totalmente discrezionale di uno dei contraenti. La conseguenza della loro apposizione era, secondo la scienza giuridica romana, quella di invalidare integralmente l’atto. 6.2.4. Condizioni proprie ed improprie. Le ‘condiciones iuris ’ Un’ulteriore contrapposizione risulta essere quella tra condizioni proprie e condizioni improprie, fondata sulla natura oggettiva o meno dell’incertezza relativa all’evento condizionante. Nella condizione in senso improprio, infatti, l’avvenimento a cui è collegata, positivamente o negativamente, l’efficacia del negozio potrebbe essersi già verificato o essere in corso di svolgimento ma i contraenti lo ignorano. Pur mancando un’incertezza oggettiva in ordine al fatto, i romani non negarono rilevanza a simili clausole condizionali, quando entrassero a fare parte dell’assetto di interessi predisposto dalle parti. Parimenti definite come ‘improprie’, ma per ragioni del tutto diverse da quelle illustrate, furono le condiciones iuris, cioè quei requisiti di efficacia dei negozi già previsti dall’ordinamento ed inutilmente riproposti dalle parti nei contenuti dell’accordo, i quali finirono per essere considerati come non apposti. 6.2.5. Condizioni possibili e impossibili, lecite ed illecite Con la validità del negozio interferiva la distinzione tra condizioni possibili ed impossibili, lecite ed illecite.

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Diversamente dalle condizioni possibili, le condiciones impossibiles si caratterizzavano per la certezza, sin da quando fossero state concordate, che la circostanza condizionante non potesse realizzarsi, per ragioni naturali (in quanto l’evento era contrario alle leggi della natura) o giuridiche (per l’esistenza di una preclusione nascente dall’ordinamento). Era illecita, invece, la condizione che non poteva essere apposta per volere del ius, come ad esempio quella da cui potessero discendere premi o svantaggi per l’individuo tali da incidere sulla sua libertà matrimoniale. La circostanza che l’apposizione di condizioni sospensive impedisse all’atto di produrre i suoi effetti fino al verificarsi dell’evento condizionante indusse i Romani ad interrogarsi sulla sorte degli accordi negoziali quando ad essi fosse associata una condicio impossibile o illecita. Nel primo caso la giurisprudenza concluse che il negozio dovesse ritenersi invalido in quanto l’impossibilità che l’evento si verificasse lo avrebbe posto in uno stato di indefinita pendenza. La conseguenza invalidante si sarebbe mantenuta anche se l’originaria impossibilità dell’evento dedotto in condizione fosse venuta meno successivamente, evenienza possibile specialmente nei casi in cui l’impedimento provenisse dalla legge. Su proposta della scuola sabiniana, in materia testamentaria la condizione sospensiva impossibile apposta ad istituzioni di erede, legati, fedecommessi e manomissioni si considerò tamquam non esset, in palese applicazione del favor testamenti, giustificato dal fatto che, morto l’autore, il negozio non sarebbe stato rinnovabile. Quanto alla condizione sospensiva illecita, si ritenne che questa producesse l’invalidità dei negozi la cui tutela fosse apprezzata attraverso iudicia bonae fidei. Per i negozi astratti, il problema si pose unicamente rispetto alla stipulatio, dal momento che mancipatio ed in iure cessio erano annoverati tra gli actus legitimi. La tendenza in argomento fu quella di non ritenere che la condizione illecita invalidasse la stipulazione sul piano del ius civile, potendo rilevare solo sul piano del ius honorarium. Negli atti mortis causa le condizioni illecite che fossero tali perché contra legem si avevano per non apposte. A quelle contra bonos mores era solito porre rimedio il pretore sul piano del diritto onorario, attraverso la remissione, un rimedio in forza del quale la clausola condizionale era resa inoperante, restando pienamente in vigore il rimanente contenuto dell’atto. In tutti i casi, lo scopo perseguito era quello di impedire che il soggetto agente si trovasse a dover decidere tra il rispetto dei mores e l’acquisizione del vantaggio che l’adempimento della condizione gli avrebbe procurato.

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6.2.6. Inquadramento giuridico del negozio ‘pendente condicione ’ L’esistenza del negozio condizionato può dirsi articolata in due fasi: pendenza e avveramento. La prima si estende dalla conclusione dell’atto al completamento della fattispecie giuridica; la seconda prende avvio con l’avverarsi dell’evento dedotto in condizione. Durante il tempo di pendenza della circostanza, se la condizione avesse avuto carattere sospensivo, il negozio sarebbe stato provvisoriamente improduttivo di effetti; se risolutivo, invece, sarebbe stato provvisoriamente efficace. Verificatosi l’evento dedotto in condizione, il negozio sospensivamente condizionato acquistava definitivamente efficacia, quello risolutamente condizionato la perdeva definitivamente. Per tutta l’età classica, l’inutilità del negozio sottoposto a condizione sospensiva, durante il tempo che precedeva l’avveramento, venne ritenuta a tal punto significativa da farne equiparare il trattamento al negozio invalido. Tale impostazione venne abbandonata solo nel corso del dominato, allorquando, essendo maturata una maggiore sensibilità circa la differenza tra validità e efficacia, si accettò che l’atto potesse ritenersi valido anche durante lo stato di pendenza. Quando la condizione si fosse verificata, i suoi effetti retroagivano al momento della creazione del negozio. Un caso singolare di pendenza della condizione, per gli effetti aberranti che vi si ricollegavano, era quello della condizione sospensiva potestativa negativa senza limiti di tempo: ad esempio, «dò in legato cento a Tizio se non prenderà moglie». In un caso simile, gli effetti del negozio non si sarebbero potuti produrre prima della morte del legatario, perché solo in quel momento si sarebbe potuti essere sicuri che questo avesse omesso di realizzare l’avvenimento condizionante. Si deve a Quinto Mucio Scevola la soluzione per cui, onde garantire efficacia alle disposizioni mortis causa, si dovesse riconoscere immediatamente ai beneficiati quanto riservato loro dal de cuius purché promettessero, tramite stipulatio, di operarne la restituzione qualora in futuro avessero tenuto il comportamento dedotto negativamente in condizione (c.d. cautio Muciana). Laddove, invece, pendente condicione, la realizzazione dell’evento divenisse impossibile, si postulò l’invalidità del negozio sospensivamente condizionato e la definitiva validità di quello risolutivamente condizionato. In ogni caso, per ragioni di equità, già in epoca classica si stabilì il principio per cui la condizione divenuta impossibile si dovessero ritenere fittiziamente avverata se: 1) la sua verificazione fosse stata dolosamente impedita da chi avesse

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interesse ad evitarla; 2) si trattasse di condizione potestativa o mista alla cui realizzazione si fosse contrapposto un evento casuale, malgrado il contraente avesse fatto tutto il possibile per farla verificare.

6.3. Il termine Al termine (o clausola terminale) le parti di un negozio potevano fare ricorso per ottenere che tutti i suoi effetti, o una parte di essi, dipendessero da una circostanza futura di cui era però certo il verificarsi, detta dies. Il dies, dunque, per definizione, è sempre certus an, potendo eventualmente restare incerto soltanto il quando. Nessun problema di disciplina pongono i casi di dies certus an et quando, ossia di termine di efficacia di cui è certa sia la verificazione, sia l’epoca (“le calende di gennaio”). Il dies certus an, incertus quando, per il quale la data di realizzazione dell’evento non è preventivamente conoscibile, venne trattato alla stregua di una condizione quando accompagnasse l’attribuzione di un legato e corrispondesse con la morte dell’erede. Si ritenne, invece, che fosse necessario interpretare la volontà delle parti nel caso limite costituito dall’apposizione di un termine incertus an, certus quando (“il giorno del mio cinquantesimo compleanno”), posto che i contraenti, con la sua pattuizione, avrebbero potuto intendere una data esatta (quella, appunto, del genetliaco), ricorrendo ad una clausola terminale il cui contenuto fosse determinato per relationem, o riferirsi piuttosto alla sopravvivenza del soggetto a tale data, integrando una vera e propria condizione. Dal momento che l’avvenimento da cui era fatta dipendere la produzione degli effetti si sarebbe certamente realizzato, la giurisprudenza romana non pose mai in discussione la validità dell’atto negoziale corredato da clausola terminale, avendo ben chiaro che l’elemento accidentale influisse solo sull’efficacia del negozio.

6.4. Il ‘modus’ Clausole accidentali erano ritenute anche quelle che collegavano al negozio, in via accessoria, effetti giuridici ulteriori rispetto a quelli tipici, come il modus. A differenza delle altre, esse conobbero un’applicazione settoriale, che risultò circoscritta agli atti a titolo gratuito, specie quelli mortis causa. Per mezzo della clausola modale, gli effetti di una disposizione erano collegati, sul piano sociale, ad un comportamento che il beneficiato avrebbe dovuto tenere; la tenuità dell’obbligo imposto era tale, comunque, che l’atto di

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gratificazione restasse tale e non si potesse scorgere alcuna corrispettività tra le prestazioni. Il modus non poteva equipararsi ad una condizione sospensiva, dal momento che le espressioni di regola utilizzate per formularlo non prevedevano la subordinazione degli effetti del lascito alla tenuta del comportamento richiesto; in ogni caso, la clausola modale imposta all’erede non poteva essere equiparata ad un legato perché la sua formulazione mancava di carattere imperativo. Nell’ipotesi in cui l’onerato non avesse adempiuto l’obbligazione che lo riguardava a titolo modale, il negozio sarebbe stato ugualmente efficace. Per fare in modo che la volontà dell’autore della disposizione a titolo gratuito fosse comunque rispettata, nell’ambito dell’autonomia privata si fece ricorso a diversi espedienti, quali, ad esempio, l’introduzione di multe o di una stipulatio poenae per l’ipotesi di inadempimento da parte del beneficiario; la prassi giurisdizionale, a sua volta, apprestò altri rimedi quali il rifiuto di tutela da parte del magistrato (denegato actionis) nei confronti del legatario che chiedesse in giudizio la consegna dell’oggetto del legato all’erede senza aver adempiuto il modus; l’imposizione dal magistrato al beneficiato di una promissio cautelativa per l’adempimento, nelle forme di una stipulato praetoria.

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CAPITOLO SESTO

OBBLIGAZIONI Riccardo Cardilli SOMMARIO: 1. Obligatio e obbligazione: nozione. – 2. Obligatio e obbligazione: storia. – 3. Obbligazioni civili, onorarie e naturali. – 4. Obbligazioni e buona fede. – 5. La prestazione. – 6. Tipi di obbligazione in base alla prestazione: obbligazioni alternative, obbligazioni generiche, obbligazioni indivisibili. – 7. Obbligazioni solidali. – 8. Fonti o cause delle obbligazioni. – 9. Obbligazioni contratte con la consegna di una cosa (c.d. contratti reali). – 10. Obbligazioni contratte con la pronuncia solenne di parole (contratti verbali). – 11. Obbligazioni contratte con la scrittura (contratti letterali). – 12. Obbligazioni contratte col semplice consenso (contratti consensuali). – 13. Autonomia pattizia e resistenza del tipo. – 14. Contractus e contratto: nozione e storia. – 15. Le obbligazioni quasi da contratto. – 16. Estinzione delle obbligazioni.

1. OBLIGATIO E OBBLIGAZIONE: NOZIONE Un’eredità fondamentale del diritto romano è l’obbligazione. Tutti i codici civili del mondo hanno una parte dedicata alle obbligazioni o riconoscono l’obbligazione come categoria giuridica importantissima del diritto privato. Il termine italiano proviene dal latino obligatio (il calco dal latino è presente in molte lingue moderne). Con tale schema giuridico, come evoca la stessa immagine del ‘legame’ (ligatio), si è all’interno dei ‘rapporti giuridici’ che i Romani concepivano elettivamente tra esseri umani (personae). È estranea alla nozione di obbligazione la coazione in forma specifica del comportamento dovuto, incardinandosi nell’idea romana del ‘dovere’ la libertà di non adempiere, fatte salve le conseguenze previste in chiave di responsabilità che ricadranno sull’inadempiente. Di qui la qualifica di debitore di colui che è obbligato. La più importante definizione di obligatio è tramandata dalle Istituzioni dell’Imperatore Giustiniano:

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I.3.13 pr. L’obbligazione è un vincolo giuridico, col quale siamo astretti dalla necessità al pagamento di qualche cosa secondo i diritti della nostra città. [obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei, secundum nostrae civitatis iura]. I codificatori giustinianei utilizzano qui una definizione data da un giurista romano dell’età classica, come dimostra sia il richiamo plurale agli iura civitatis, immagine che riflette la complessità classica dell’interazione tra ius civile, ius gentium, ius praetorium, ius naturale e che si declina in materia nelle obbligazioni civili (di ius civile e ius gentium), obbligazioni pretorie o onorarie, obbligazioni naturali. Il genere al quale è attratta la categoria definita di obbligazione è quella del ‘vincolo’ e non quella del ‘potere’ (come appunto accade tra personae e res), vincolo che è specificato come vincolo ‘di diritto’ e non materiale coazione a fare. Anche nell’immagine forte dell’essere i ‘debitori’ «stretti dalla necessità al pagamento di qualche cosa», la necessità non significa coazione specifica al pagamento, ma doverosità dello stesso. In caso di mancato pagamento, infatti, il debitore sarà soggetto ad una azione dichiarativa (actio in personam) nella quale l’attore dichiarava che il debitore «doveva dare a lui qualcosa» (dare sibi oportere) per accertare il mancato pagamento e quindi essere condannato in giudizio. Solo una volta condannato in giudizio si aprirà per il debitore una soggezione alla esecuzione (coazione non resistibile) che comunque resta, per tutta l’età classica, una forma di responsabilità personale (come manus iniectio nell’antico processo) o una forma di responsabilità patrimoniale (come nella bonorum venditio introdotta dal pretore) non proporzionata al valore di quanto dovuto, né esecuzione in forma specifica della prestazione stessa. L’idea secondo la quale l’obbligazione assicurerebbe al ‘creditore’ un ‘potere’ sulla prestazione del debitore è una lettura moderna, sviluppatasi soprattutto nella dottrina del giurista tedesco Savigny (1779-1861). In una testimonianza del giurista Paolo possediamo un’altra definizione dell’obbligazione. D. 44, 7, 3 pr. Paulus libro secundo institutionum La caratterizzazione sostanziale delle obbligazioni non consiste nel risultato di fare nostra una qualche cosa corporale oppure nostra una servitù , ma quella di costringere un’altra persona a darci qualcosa o a fare o a garantire. [Obligationum substantiam non in eo consistit ut aliquod corpus nostrum aut servitutem nostram faciat sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum].

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Anche Paolo si concentra, sebbene dalla prospettiva del creditore, su quanto deve fare il debitore, questa volta con una forma espressiva ampia delle sue prestazioni (dare, fare, garantire). Come la definizione delle Institutiones Iustiniani esprime una chiara incidenza sulla persona del debitore costretto al comportamento nella sua interezza (necessitate adstringimur alicuius solvendae rei), così anche in Paolo (ut alium nobis obstringat), è la persona del debitore, nella sua ontologica e monolitica unitarietà, che è costretta ad una prestazione. Non vi è separazione della prestazione dalla persona del debitore come oggetto del dovere, come in Savigny. La prospettiva romana conserva tale monolitico coinvolgimento della persona del debitore nel rapporto che intercorre col creditore anche in età nelle quali l’obiettivo di tale rapporto ha affinato una serie tipica di prestazioni patrimonialmente valorizzate, dimostrando la resistenza nel tempo di un’idea antica che impediva di ‘materializzare’ e ‘scomporre’ in chiave quantitativa l’impegno di un paterfamilias rispetto ad un altro paterfamilias. Si possono quindi dedurre i seguenti elementi di struttura della categoria dell’obbligazione in diritto romano: l’obbligazione è una forma di dovere particolarmente intenso (non quindi generico e nemmeno un semplice onere) ad una prestazione che un essere umano (qualificato appunto debitore) ha nei confronti di un altro essere umano. L’unica realtà giuridica è quella ex latere debitoris del dovere. L’idea di contrappunto, quella espressa nel diritto moderno come potere del creditore o diritto di credito è una proiezione che tende a cancellare la naturale distinzione, concretamente espressa nel diritto romano, tra le forme di appartenenza delle cose all’essere umano (nelle quali lo schema principale quello del ‘potere’) e le forme relazionali, tra le quali si colloca, senza esaurirle, con particolare intensità della doverosità proprio l’obbligazione. Libertà del debitore e posizione di eguaglianza delle parti coinvolte nel rapporto devono essere salvaguardate perché possa quindi parlarsi in senso proprio di obligatio-obbligazione, come anche di sua profonda personalità, nel significato di rapporto non separabile dalle persone in carne ed ossa che lo hanno contratto. I profili di circolazione delle obbligazioni da contratto implicano, invece, una loro percezione non più come vincolo personale, ma come valore patrimoniale. La responsabilità (momento della coazione) collegata all’obbligazione, non ne è un elemento di struttura separato, in quanto esso vi è, invece, quiescente, attivandosi soltanto a fronte del mancato rispetto dell’impegno assunto, in termini di sua azionabilità ai fini dell’accertamento e della condanna. D’altronde, ciò è evidente secondo quanto il creditore afferma nell’azione in personam, in quanto egli non dice di avere un ‘potere’ sulla (o un ‘diritto’ alla) prestazione del debitore, ma afferma che è il debitore che deve a lui la

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prestazione. La distinzione moderna tra debito (Schuld) e responsabilità (Haftung) non deve essere intesa come una separazione dei due elementi, in quanto se si vuole con essi continuare a descrivere la categoria, si deve evidenziare la loro necessaria stretta compenetrazione nell’obbligazione, come flettente e corda nell’arco, i quali soltanto se agganciati insieme possono lanciare a molta distanza la freccia. Se separati, l’arco non esiste.

2. OBLIGATIO E OBBLIGAZIONE: STORIA La narrazione storica su come lo schema giuridico dell’obligatio abbia preso forma nel diritto romano è a sua volta una storia nella storia. Ad una prima ricostruzione della dottrina moderna in chiave lineare ed evoluzionistica, secondo la quale si sarebbe passati da forme di vincoli materiali a forme di vincoli ideali, si contrappone ora una ricostruzione, sicuramente da preferire, secondo cui fin ab origine con la fondazione del Comune nel 753 a.C. sarebbero confluiti in Roma diversi schemi dei costumi precivici delle comunità che vi si insediano. Schemi giuridici che esprimono una struttura relazionale in chiave di doverosità e schemi giuridici che esprimono invece un’idea di soggezione. Per quanto riguarda le conseguenze di atti volontari considerati come contrari alla convivenza pacifica nella comunità cittadina prevalgono schemi giuridici in chiave di soggezione. Vendetta fisica, soggezione al legittimo uso della forza, soggezione al potere (manus iniectio) della vittima o dei suoi famigliari. Non si ha in questo ambito nessuna rilevanza di conseguenze dell’illecito in chiave di condotte dovute dell’autore del delitto a favore della vittima o della sua famiglia. L’attrazione delle conseguenze dei delitti nella obbligazione sarà quindi conquista molto più tarda, operata dalla giurisprudenza tardo-repubblicana. È invece negli atti volontari leciti che l’idea della doverosità ad un comportamento muove i suoi primi passi. Due di questi sono molto significativi. Da un lato, la promessa solenne (sponsio) con cui un pater familias si impegnava nei confronti di un altro pater familias a dare una somma di denaro o dei beni fungibili. In questo caso, il ‘legame’ che si instaurava tra i due patres trovava espressione in termini di oportere, verbo arcaico che letteralmente evocava l’idea di opportunità, ma che proprio in contesti giuridico-sacrali finirà ben presto con lo slittare verso un significato di opportunità necessitata, ed infine ‘doverosità’. La sua espansione nella qualifica di tutti i rapporti nati da contratti già nei secoli III-II a.C., ne farà modello giuridico di riferimento per l’enucleazione, da parte del giurista Quinto Mucio Scevola (II-I sec. a.C.), dell’uso del termine obligatio quale unificazione di tutti questi usi.

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Il colpo d’ali è netto. Con la comparsa di una categoria terminologica che era in grado di abbracciare in chiave unitaria tutte le diverse forme relazionali nelle quali si instaurava un rapporto di oportere, la scienza giuridica potrà anche vedere in modo nuovo aspetti trasversali di comunanza di esse, così da coglierne in una prospettiva diversa la disciplina, come si vedrà ad esempio in tema di fonti o cause delle obbligazioni (vd. prossimo § 8), o da permetterne espansioni concettuali a rapporti non qualificabili in termine di oportere. È proprio l’oportere ex sponsione, quindi, che può considerarsi il modello archetipico della obligatio-obbligazione, mentre l’altro schema giuridico di solito richiamato in materia, il nexum, resta uno atto solenne con bilancia, gesti e parole (c.d. gestum per aes et libram) attraverso il quale un pater familias, davanti a un pesatore e ad almeno 5 cittadini romani che abbiano superato la pubertà, avendo consegnato una somma di denaro (in origine del bronzo grezzo pesato sulla bilancia) ad un altro pater familias, lo dichiarava solennemente a sé ‘nesso’ (nexus mihi esto). Ciò significava per quest’ultimo essere ‘annesso’ alla sfera di ‘controllo’ del primo (ma non alla sua potestas, quindi non diventando una persona in causa mancipii). Tale condizione di ‘nesso’ era redimibile, con un atto eguale e contrario (solutio per aes et libram), davanti al pesatore e a 5 cittadini romani puberi, col quale il nexus dichiarava al pater familias erogante di aver restituito quanto ricevuto e quindi di essersi sciolto e liberato (solvo liberoque), atto solenne che è qualificato nelle fonti anche – ed in modo altamente significativo – ‘liberazione’ (nexi liberatio). I due schemi arcaici sopra richiamati (dell’oportere ex sponsione e del nexum) non si pongono, quindi, l’uno all’altro in chiave storica di evoluzione, come volevano le ipotesi più vecchie sull’origine dell’obbligazione. Essi, invece, si affiancano storicamente, ognuno espressione di una cultura diversa delle ‘relazioni’ umane extrafamigliari, nel primo dei quali quella si sente la aristocratica concezione egalitaria dei rapporti tra pari e dell’impegnatività della parola data, nel secondo, invece, echeggia una relazione strutturata in chiave di diseguaglianza. Fortunatamente, per il genere umano, il primo schema (quello espresso dall’oportere ex sponsione) sarà quello che troverà ampia espansione nel diritto romano grazie all’opera insostituibile dei giuristi romani dal III sec. a.C. in poi, mentre il secondo (il nexum), dopo secoli di lotta plebea e dopo diversi tentativi legislativi per rendere meno gravose le sue dure conseguenze sulla persona del nexus, cadrà in desuetudine dopo la legge Petelia Papiria del 326 a.C. che ne aveva eliminato il duro regime arcaico.

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3. OBBLIGAZIONI CIVILI, ONORARIE E NATURALI Le obbligazioni civili sono, in origine, quelle che trovano espressione nel ius civile arcaico in termini di oportere. Nel più antico processo romano, quello riservato ai soli cittadini, sono obbligazioni civili quelle derivanti da promessa solenne e mutuo informale. A queste, nel corso del III e del II secolo a.C., si aggiungono quelle espresse in chiave di oportere ex fide bona, archetipo delle obbligazioni di buona fede, nell’àmbito del diritto aperto a tutti gli esseri umani (ius gentium) e degli accordi deformalizzati. Le obbligazioni pretorie e più ampiamente onorarie sono quelle che riflettono un’idea di doverosità collegata alla soggezione ad una azione dichiarativa proposta dal pretore e non precedentemente tutelata né nel ius civile in chiave di oportere, né nel ius gentium in chiave di oportere ex fide bona. Le obbligazioni pretorie, quale costruzione qualificativa dei giuristi romani che rileggono l’editto del pretore dopo la sua codificazione da parte di Giuliano sotto l’imperatore Adriano, esprimono l’idea di un ‘dovere’ giuridico indotto dalla soggezione alle azioni pretorie in personam (actione teneri), confermando come l’enucleazione del termine obligatio/obbligazione quale categoria ordinante da parte dei giuristi romani avesse permesso un ampiamento inclusivo di nuovi schemi, impossibile qualora si fosse rimasti ancorati al modello archetipico dell’oportere. Le obbligazioni naturali sono comportamenti dovuti per il diritto naturale, ma non sanzionati né dal ius civile, né dal ius honorarium. In questo caso la libertà di non adempiere, insita in ogni obbligazione, troverebbe ulteriore espansione nel fatto che non vi sarebbe collegata alcuna reazione, nemmeno la soggezione ad un’azione dichiarativa in personam per far accertare l’inadempimento e condannare il debitore. Nell’obbligazione naturale, l’assenza di una responsabilità in caso di mancato adempimento non signifca però assenza di rilevanza giuridica, in quanto, se il debitore dell’obbligazione naturale spontaneamente decida di adempiere, quanto dato non potrà più essere richiesto indietro, avendo chi l’ha ricevuto facoltà di trattenerlo (c.d. soluti retentio).

4. OBBLIGAZIONI E BUONA FEDE La buona fede nel diritto odierno è qualificata a volte come concetto (giuridico, etico-giuridico, morale), a volte come regola di condotta (vuoi nel senso che la condotta ad essa ispirata deve escludere ogni malafede, vuoi in un senso più ampio come condotta ispirata ad un modello oggettivo di lealtà), infine come principio giuridico che informa di sé l’agire umano, ed in particolare il diritto dei contratti.

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La buona fede, inclusa in alcuni Codici civili del XIX e XX secolo con la tecnica legislativa della clausola generale e che oggi fatica ad acquisire uno statuto dogmatico omogeneo, recupera attraverso il diritto romano la sua chiara dimensione di principio giuridico che integra il contenuto delle obbligazioni. L’angolatura storico-dogmatica riesce, infatti, a superare le oscillazioni riscontrate nella dottrina contemporanea, tra posizioni giuspositivistiche, tese a riconoscere la vigenza della buona fede soltanto se il principio sia espressamente contenuto nel diritto scritto, per lo più codificato, di un certo ordinamento giuridico, oppure posizioni che accentuano la vigenza del principio a prescindere dal suo esplicito ricorrere nei codici o nelle costituzioni nazionali, richiamandosi al sistema romano a cui tali ordinamenti afferiscono e valutandone la concreta applicazione nelle sentenze dei tribunali. Per comprendere il principio di buona fede nel sistema romano è importante conoscere le dottrine di Quinto Mucio Scevola (giurista dell’età tardorepubblicana, pontefice massimo e console nel 95 a.C.), Marco Antistio Labeone (giurista dell’età augustea) e Salvo Giuliano (console nel 148 d.C.). Per Quinto Mucio Scevola (secondo quanto ricorda Cicerone nella sua opera sui doveri 3.17.70) la buona fede tutelerebbe una ampia serie di rapporti propri della comunione di vita tra gli esseri umani. La parola latina vis, usata dal giurista romano per esprimere la natura della buona fede, significa «forza» che genera significati, che modella condotte, che attua l’indeterminatezza del valore insito nel concetto assunto nella formula dell’azione. Il giurista avverte, poi, che non è di per sé la sola ricorrenza delle parole «ex fide bona» nella formula interessata a indicare la ricorrenza del principio, ma la considerazione del rapporto tutelato come innervato nel nomen bonae fidei. La chiave ordinatrice del «nome di buona fede», che qui va intesa come superamento della ricorrenza formale delle parole per verificare la presenza di un concetto di lealtà e correttezza, è fortemente suggestiva e dimostra ulteriormente, se ce ne fosse bisogno, le capacità di lettura sostanziale e di organizzazione del sapere giuridico che Pomponio, rispetto, però, ai 18 libri di diritto civile di Quinto Mucio Scevola Pontefice, aveva qualificate in termini di originarietà (per primo costituì per generi il ‘ius civile’… ius civile primus constituit generatim … D. 1.2.2.41). Il principio della buona fede, a differenza della effettiva ricorrenza della clausola ex fide bona, verrebbe a sostenere un’ampia serie di rapporti nei quali si estrinseca la ‘comunione di vita’ tra gli esseri umani (societas vitae), in un tendenziale – secondo Q. Mucio – processo di estensione, di virtuale propensione a pervaderne i rapporti. In essi sarebbe, infatti, del ‘grande giudice’ (magnus iudex) statuire quanto ciascuna delle parti del rapporto deve all’altra, soprattutto perché la maggior parte di queste azioni dove ricorreva la buona fede tutelavano rapporti oggettivamente bilaterali.

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Il punto centrale è il momento della statuizione del giudice della controversia, come momento ineliminabile per tradurre in concrete valutazioni della condotta delle parti la indeterminatezza di concetti carichi di valore eticogiuridico. La prospettiva della integrazione del vincolo giuridico tra le parti è determinante, in quanto si evidenzia che il contenuto dell’obbligazione non è delimitato dal solo voluto, ma da tutto ciò che in base alla buona fede si può ritenere che una parte debba all’altra, tenendo conto delle circostanze concrete nelle quali il rapporto trova esplicazione. Come si comportano gli «uomini probi e corretti», cosa sia «agire correttamente», quale sia la prestazione dovuta all’altra parte in base alla «buona fede», deve essere sancito nella concretizzazione giudiziale dal giudice. In sostanza, Quinto Mucio Scevola ritiene che qualsiasi tentativo di razionalizzare a monte la buona fede vanificherebbe l’essenza della stessa. È solo attraverso la statuizione del giudice che essa può trovare concretezza. È una linea interpretativa che sarà ereditata dalla migliore giurisprudenza classica, secondo la quale nei giudizi di buona fede, l’ufficio del giudice ha la stessa forza di dimensionare il contenuto delle obbligazioni della volontà espressa dalle parti nei rapporti tutelati con giudizi di stretto diritto. Ritengo si debbano accentuare due ordini di considerazioni: da un lato il significato ed il ruolo della buona fede come concetto (fidei bonae nomen); d’altro lato l’importanza della buona fede stessa come principio di integrazione del contenuto dell’obbligazione, attraverso il momento giudiziale, e al suo legame con i giuristi. Può sorprendere, rispetto a questa seconda considerazione, che in relazione ad una classe giudicante non istituzionalmente formata giuridicamente, come quella del processo civile romano di tipo formulare, Quinto Mucio riconosca una grande importanza al ruolo del giudice, quasi non veda i pericoli insiti nell’operazione delicata di integrazione del contenuto contrattuale. Si è detto che il modello di giudice al quale il giurista pensa è un modello ‘ideale’ (magnus). Un caso realmente accaduto illumina l’affermazione muciana. Catone padre di Catone l’Uticense, amico di Cicerone, era stato, infatti, investito come giudice scelto dalle parti in una controversia relativa alla vendita di un immobile situato sul Celio, uno dei colli di Roma, immobile che era stato colpito da un ordine di demolizione dei piani alti perché impedivano l’esercizio delle auspicazioni da parte degli auguri dal Campidoglio. Il venditore, taciuto al compratore di aver già ricevuto l’ordine di demolizione, vende l’immobile. In questo caso, la reticenza del venditore è considerata come contraria alla buona fede e produttrice, dopo la demolizione degli auguri, di una responsabilità del venditore per il danno della diminuzione di valore dell’immobile. Catone padre dell’Uticense perviene a questa decisione attraverso la contrarietà della condotta del venditore alla buona fede.

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Si tocca con mano un esempio del significato che Quinto Mucio dava al ruolo della statuizione giudiziale nella concretizzazione del principio di buona fede. Cicerone, d’altronde, ne è pienamente consapevole, dato che rilegge la sentenza di Catone padre dell’Uticense, come espressione diretta di una statuizione giudiziale che crea attraverso il principio un nuovo dovere di informazione, che se inadempiuto sarà fonte di responsabilità contrattuale. In un parere del giurista romano Marco Antistio Labeone, ora in D. 19.1.50, si percepisce la forza del principio e la sua inderogabilità anche rispetto a un beneficio introdotto con legge dall’Imperatore. Rispetto ad una compravendita di un fondo da parte di un veterano di guerra, il sopravvenuto beneficio di legge che dispone a favore del veterano l’estinzione della sua obbligazione di pagare il prezzo pattuito, si scontra per il giurista inesorabilmente contro il principio di buona fede, non potendo così riconoscere al diritto introdotto dalla legge capacità di alterare la reciprocità voluta dalle parti in termini di fondo venduto ad un prezzo determinato. Labeone considera la buona fede un principio inderogabile, quale criterio di tollerabilità rispetto agli accadimenti sopravvenuti che incidano sull’equilibrio raggiunto con l’accordo sul sinallagma. La buona fede è, quindi, in Labeone principio che fonda e alimenta insieme il contratto consensuale, gestendone le eventuali storture che possano assumere rilevanza nella fase dinamica del rapporto tra le parti. Quello della estinzione sopravvenuta dell’obbligazione di pagare il prezzo, seppur introdotto con legge, va oltre il limite di sopportabilità del sistema giuridico, qualcosa che altererebbe irrimediabilmente la reciproca dipendenza delle prestazioni volute dalle parti, impedendo così una sua considerazione in termini di irrilevanza per la controprestazione. Si ha al contrario un effetto di rimbalzo, che determinerà la impossibilità di pretendere dal venditore l’adempimento della sua obbligazione di consegnare il bene. Il collegamento inderogabile tra buona fede ed equilibrio contrattuale è espresso dalla idea del sinallagma ed è fissato come regola nelle opere di Gaio e nelle Istituzioni imperiali. In esse, la buona fede è principio giuridico che permette di integrare il contenuto contrattuale nella sua dinamica, secondo un criterio di giustizia, al fine di riequilibrare le posizioni dei contraenti eventualmente squilibratesi e di impedire lucri ingiustificati. Dal punto di vista delle conseguenze, si verte su un modello elastico che si adegua al tipo di contratto concluso ed all’accadimento modificativo, adeguamento che, nel sistema romano, assume una forma dialettica tra potere di statuizione del giudice e concretizzazione della sinallagmaticità guidata dai giuristi, ponendo la buona fede come principio di tolleranza della alterazione. Di qui la possibilità vuoi del riadeguamento, quando si tratti di uno squi-

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librio che non incida definitivamente o completamente sull’appagamento degli interessi delle parti secondo lo strumento contrattuale prescelto; vuoi dello scioglimento del vincolo. L’integrazione del contenuto dell’obbligazione di cui la buona fede si fa veicolo, arricchisce e alimenta la costruzione delle prestazioni delle parti, divenendo uno strumento dinamico nella storia del tipo contrattuale, che in tal modo include a mano a mano nell’obbligazione comportamenti che si considerano dovuti, sebben non voluti, perché coerenti all’idea di giustizia di cui la lealtà e correttezza sono espressione. Un esempio che mi sembra significativo è la garanzia per evizione, che – come vedremo in materia di compravendita – passa da «onere» del compratore di concludere col venditore una promessa solenne di garanzia, indipendente atto che deve aggiungersi all’accordo di compravendita, a prestazione di garanzia del venditore diretta a tenere indenne il compratore dei pregiudizi patiti per non essere stata prestata la promessa solenne di garanzia, nuova prestazione di garanzia del venditore azionabile dal compratore, perché considerata coerente e all’interno dell’obbligazione di buona fede del primo nei confronti del secondo. Al riguardo, un parere del giurista Salvio Giuliano ricordato da Ulpiano (Ulpiano nel libro trentaduesimo di commento all’editto, ora in D. 19.1.11.18) riconosce la contrarietà alla buona fede di una clausola di esclusione parziale e anche totale di detta garanzia per evizione, pattuita dalle parti. Per il giurista romano, anche contro la diversa volontà delle parti, va tutelata l’«oggettiva struttura della fattispecie», struttura che esprime il nesso sinallagmatico tra consegna della cosa venduta e pagamento del prezzo come elemento inderogabile, quanto meno nei limiti della restituzione comunque dovuta del prezzo pagato dal compratore in caso di evizione della cosa. Credo che il dato non vada ridimensionato e, soprattutto, se posto in relazione al parere di Labeone sopra visto, evidenzia una simmetria di ragionamento nella diversità della situazione esaminata. Nel caso di Labeone, la regola fondata sulla buona fede scioglie il rapporto tra rispetto della struttura sinallagmatica della compravendita e beneficio di legge che ne avesse di fatto compromesso la realizzazione, in favore della struttura sinallagmatica, fondandola proprio sulla buona fede. Nel caso di Giuliano, la soluzione del giurista scioglie il rapporto tra rispetto della struttura sinallagmatica della compravendita e limiti di derogabilità pattizia per le parti di detta struttura, di nuovo a favore della struttura sinallagmatica, fondandola sulla natura di buona fede del contratto. In questo secondo caso, più del primo, il valore – veicolato dalla stessa buona fede – del «rispetto della parola data», viene ridimensionato dal principio di sinallagmaticità espresso nella struttura del contratto di compravendita.

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La verifica, seppur sommaria, del ruolo della buona fede nel diritto romano indica l’esistenza nel momento fondante del sistema giuridico da esso promanato di una ampia penetrazione di un principio di lealtà e correttezza. Si pone entro il modello ‘principiale’ della buona fede la questione dell’adeguatezza degli strumenti che possano tradurre nel diritto applicato un criterio che, per definizione e salvo non svuotarne la vera essenza, non può trovare a priori una sua determinazione. Il diritto romano indica la via della statuizione giudiziale, come fattore necessario della traduzione del concetto-valore nel diritto applicato. La delicatezza dell’operazione comporta però un attento controllo da parte dei giuristi, che saranno i veri custodi del significato dell’adeguamento e della vitalità del principio nel sistema.

5. LA PRESTAZIONE I comportamenti umani possono essere della più varia natura. Se li si guarda nelle loro minuziose particolarità, ancora evidenti nei linguaggi delle culture agricole, si potrà ad esempio distinguere tra tagliare, potare, estirpare etc. Ogni condotta in astratto può essere oggetto di un dovere giuridico. Il diritto romano, attraverso il sapere dei giuristi romani, ha seguito una strada diversa da quella della puntuale descrizione differenziata delle condotte incluse come dovute in termini di obbligazione. Storicamente è, infatti, possibile cogliere un lavorio di ampia semplificazione che determinerà quella che con terminologia moderna potremmo chiamare della sintesi nel ‘fare’ di ogni comportamento umano che non sia qualificabile come ‘dare’. Il comportamento dovuto dal debitore, nel ius civile arcaico, sembra, infatti, circoscritto al solo pagamento di qualche cosa, tecnicamente un dare una somma certa di denaro o di altri bene fungibili (grano, frumento) (dare), e ciò in ragione della straordinarietà dei rapporti extrafamiliari dei patres familias, data l’ampia ricorrenza all’autarchia familiare per tutte le attività lavorative e le prestazioni di fare. Si ricorreva cioè eccezionalmente al credito nella forma dell’obbligazione tra patres patrizi impegnandosi alla restituzione con la promessa solenne della sponsio avente ad oggetto denaro o derrate alimentari. Di tale fase, sono un riflesso le antiche forme di azioni personali (actiones in personam) nel processo esclusivo tra cittadini romani (legis actiones), nelle quali, pur nelle forme storicamente susseguitesi (l.a. sacramento in personam, l.a. per iudicis postulationem, l.a. per condictionem), la prestazione dovuta è sempre un ‘dare’. Con l’espansione, nel corso del III secolo a.C., del modello della doverosità (espressa dall’oportere) anche ad altre forme di obbligazioni contratte, si

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giunse a considerare possibile impegnarsi a compiere qualsiasi tipo di attività ed anche a forme oggettive di assunzione di garanzia. Nel primo caso, la infinita e multiforme realtà delle condotte umane possibili (restituire, costruire, trasportare, navigare, lavorare, cucire, insegnare, tagliare, rompere, travasare etc.) venne sottoposto dal sapere dei giuristi romani del III e II secolo a.C. ad un poderoso movimento di semplificazione, fino a trovare un precipitato terminologico di sintesi nel verbo ‘fare’ (facere), nel quale si includevano anche comportamenti omissivi (il ‘non fare’). Nel secondo caso, si fece ricorso al verbo praestare, verbo composto che esprimeva uno stare praes, cioè uno star ‘garante’ e quindi ‘garantire e rispondere’ per un fatto oggettivo, come ad esempio garantire la condizione del bene venduto o una qualità dello stesso, oppure rispondere del proprio dolo o della propria colpa. La standardizzazione giurisprudenziale delle prestazioni nel trinomio dare facere praestare riflette, quindi, nella sua storia concreta, una conquista interpretativa, nella quale la stessa attrazione di ogni possibile comportamento umano nella forma unitaria del ‘fare’ (facere) permette di organizzare in chiave altamente semplificata nel processo qualsiasi pretesa relativa ad una obbligazione. L’aggiunta del facere al dare è di poco precedente o comunque contemporanea alla nascita del nuovo processo civile romano detto processo formulare (III-II sec. a.C.), così chiamato perché in esso l’azione veniva plasmata in formule scritte (per formulas), quale nuova forma di processo civile romano. Con questo processo si ha l’apertura universale a tutti gli esseri umani, a prescindere dalla cittadinanza, del processo civile romano, nel quale si realizza la standardizzazione del binomio dare facere in tutte le formule d’azione in personam. Un altro indizio della maturazione del binomio dare facere nell’àmbito delle forme delle azioni personali del processo formulare è dato dal fatto che la sua considerazione in chiave patrimoniale nasconde l’incidenza sulla ponderazione delle condotte dovute in chiave esclusivamente monetaria della necessaria quantificazione pecuniaria della condanna, che è caratteristica propria del processo formulare. Il praestare, infine, verbo così significativo per la storia terminologica successiva della ‘prestazione’ divenendone il paradigma linguistico, non è verbo della formula d’azione, ma del lessico proprio dell’interpretazione dei giuristi fin dal II secolo a.C., attraendo in esso, come già detto, sia aspetti propri di assunzione di garanzie nell’obbligazione contratta, sia aspetti che noi moderni spostiamo dal piano dell’obbligazione a quello della responsabilità del debitore in caso di inadempimento, ma che i giuristi romani inglobano nel contenuto dell’obbligazione nata dal contratto.

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6. TIPI DI OBBLIGAZIONE IN BASE ALLA PRESTAZIONE: OBBLIGAZIONI ALTERNATIVE, OBBLIGAZIONI GENERICHE, OBBLIGAZIONI INDIVISIBILI Si parla di obbligazioni alternative per indicare in realtà una obbligazione nella quale si prevede l’alternatività di due o più prestazioni. Adempiendo ad una delle prestazioni alternativamente previste, il debitore estingue l’obbligazione. Lo straordinario effetto estintivo è la coerente conseguenza dell’unicità dell’obbligazione, pur a fronte di più prestazioni previste in via alternativa. Questo genere di obbligazione è espressione di un regime creato dall’autonomia privata all’interno dei contratti verbali caratterizzati dalla forma (stipulatio) e dai contratti consensuali (soprattutto la compravendita). Le obbligazioni generiche sono obbligazioni nella quali la prestazione che il debitore deve compiere non è individua nella specie, ma è caratterizzata in una cosa di genere: ad es. l’obbligazione di trasferire dieci chili di castagne, o dieci litri di vino, o diecimila sesterzi. Le obbligazioni indivisibili sono quelle nelle quali la prestazione per sua natura non è suscettibile di essere adempiuta solo in parte. Di regola, indivisibili sono le prestazioni di fare (e non fare), mentre divisibili sono quelle di dare una quantità di cose fungibili. Lo slittamento di queste qualificazioni dalla prestazione all’obbligazione è dovuto alla moderna scienza del diritto privato. Nel diritto romano si dovrebbe, quindi, parlare di prestazioni alternative, generiche e indivisibili, a fronte della unicità dell’obbligazione, e ciò in ragione dell’unicità del contratto che l’ha prodotta nel quale la volontà delle parti ha previsto la particolare declinazione del comportamento dovuto in termini di alternatività, o a scelto una prestazione di genere oppure una indivisibile.

7. OBBLIGAZIONI SOLIDALI Il fenomeno delle obbligazioni solidali (teneri in solidum) è l’unico nel quale possa parlarsi correttamente di un tipo di obbligazioni non caratterizzato dal tipo di prestazione. Si tratta di un’altra delle grandi eredità di regime che arriva al diritto moderno dal diritto romano. La terminologia dei giuristi romani nel descrivere il fenomeno passa da una prospettiva del sapere sacerdotale arcaico che accentua la pluralità soggettiva delle parti dell’obbligazione nata da promessa solenne (due promittenti e quindi co-debitori o due stipulanti e quindi due co-creditori: duo rei promittendi o stipulandi), ad una rilettura del fenomeno nella giurisprudenza tardorepubblicana in chiave di struttura solidale dell’obbligazione, indirettamente indotta dalla solidale soggezione all’azione personale (in solidum teneri).

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L’obbligazione solidale indica un regime giuridico nel quale a fronte di più creditori, l’unico debitore, adempiendo a favore di uno solo di loro, estingue l’obbligazione per tutti (c.d. solidarietà attiva) oppure, vice versa, a fronte di più debitori, l’adempimento di uno solo di loro all’unico creditore estingue per tutti i debitori l’obbligazione (c.d. solidarietà passiva). La caratteristica fondamentale del regime della solidarietà è quello della straordinaria efficacia estintiva dell’adempimento ad uno dei creditori o di uno dei debitori, per tutti. Essa discende, nel diritto romano, dalla funzionale elaborazione di parole nella promessa solenne, nella quale, in caso di pluralità di creditori, tutti chiedevano (centum dari spondes) all’unico debitore di promettere a loro la prestazione nella forma unitaria spondeo, mentre nel caso di pluralità di debitori, l’unico creditore chiedeva di promettere al primo debitore in forma normale, e poi ai successivi con la formulazione idem dari spondes? (prometti la stessa prestazione?). Ciò facendo, veniva a determinarsi una concentrazione della doverosità di ciascuna sulla medesima prestazione, determinandosi conseguentemente con l’adempimento di uno dei promittenti-debitori lo straordinario effetto di estinguere per tutti, immediatamente, l’obbligazione. Con l’espansione dei traffici e la penetrazione dello schema dell’obbligazione nei contratti di ius gentium nella sua veste di obbligazione di buona fede (oportere ex fide bona), i giuristi tardorepubblicani e d’inizio principato (I sec. a.C.-I sec. d.C.) ritennero che proprio il riconoscimento della struttura giuridica della solidarietà passiva poteva essere altamente funzionale a garantire l’affidamento che veniva a crearsi da parte del creditore, soprattutto all’interno di attività di natura imprenditoriale e all’interno di rapporti sovranazionali. In questa direzione troviamo le prime interpretazioni che riconoscono un’obbligazione solidale tra parti che non l’avevano prevista negozialmente al momento dell’assunzione dell’obbligazione da contratto. Tali interpretazioni risultano già consolidate in diritto consuetudinario nella Retorica ad Erennio del I secolo a.C. Così, ad esempio, rispetto ad un credito verso un banchiere (argentarius) presso il quale si sia depositato del denaro, si riconosce la facoltà di agire contro i soci del banchiere (che svolgeva la sua attività con una societas argentarii), creando quindi un vincolo qualificabile come in solidum teneri, cioè essere tenuti solidalmente. Sarà, altresì, consueto riconoscere, nell’àmbito delle obbligazioni pretorie, l’estensione dell’azionabilità in via adiettizia nei confronti di altri soggetti rispetto a quelli che avevano assunto l’obbligazione, in base alla verifica dello specifico rapporto tra loro. L’obbligazione solidale diventa, così, uno schema giuridico che può ri-

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spondere sia alla volontà delle parti nell’assunzione dell’obbligazione, sia, però, ad esigenze di rafforzamento dell’affidamento nella comunità che alcuni rapporti, pur nati come obbligazioni non solidali, possono meritare di avere, e ciò facendo lasciando in eredità del diritto odierno uno schema giuridico di altissima importanza. Il fondamento romano è quello in base al quale il riconoscimento di una obbligazione solidale a carico di un soggetto diverso da quello che aveva assunto l’obbligazione deve essere fondata su ragioni di giustizia, per favorire la parte più debole del rapporto, mentre nei diritti odierni lo schema, con una logica contraria, è spesso strumentalmente utilizzato come strumento di espansione delle garanzie a favore dei creditori istituzionali, quali le banche e gli istituti finanziari, nei confronti dei consumatori.

8. FONTI O CAUSE DELLE OBBLIGAZIONI L’enucleazione nel II-I sec. a.C. della obligatio-obbligazione come categoria terminologica ordinante di tutti gli schemi tutelabili con azioni personali determinò non soltanto, come si è già visto rispetto all’enucleazione delle categorie delle obbligazioni pretorie o onorarie e delle obbligazioni naturali, l’inclusione nello schema di nuovi rapporti non qualificabili come oportere (come quelli dell’actione teneri, relativi ad una ‘doverosità’ indirettamente indotta dal riconoscimento preventivo da parte del pretore di una azione a loro tutela), ma anche la possibilità di allargare lo sguardo sulla ricorrenza del fenomeno delle obbligazioni e su una loro possibile organizzazione in un sistema. Il risultato di questa nuova chiave interpretativa sistematica si concentrerà sul momento genetico, di come cioè un’obbligazione viene in essere per il diritto. Altre prospettive erano possibili, ad esempio quella della distinzione tra obbligazioni di stretto diritto e di buona fede, oppure tra obbligazioni civili e pretorie (come poi avverrà in una seconda fase della riflessione giurisprudenziale), ma, in realtà, le fonti attestano come la più antica forma di sistemazione delle obbligazioni contratte si fosse appunto orientata a concentrarsi sulla fase costitutiva. Nasce così il tema classico delle fonti o delle cause delle obbligazioni. L’immagine è quella della nascita da… (l’«obbligazione nasce da …»; obligatio ex … nascitur), nella quale la derivazione dell’obbligazione dalla specifica causa è colta in chiave naturale di nascita, permettendo alla giurisprudenza di attrarre a mano a mano una serie di fatti e di atti (leciti ed illeciti) che vengono ordinati tutti sotto una prospettiva omogenea, quella appunto della loro idoneità a creare un’obbligazione.

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Nelle Istituzioni del giurista romano Gaio del II secolo d.C. (Gai 3.88) si afferma che ogni obbligazione nasce da contratto o da delitto. Le obbligazioni da contratto si dividono a loro volta in quattro categorie: obbligazioni contratte ‘con la consegna della cosa’ (re), obbligazioni contratte ‘con parole solenni’ (verbis), obbligazioni contratte ‘con la scrittura’ (litteris) e obbligazione contratte ‘col solo consenso’ (consensu). Mentre le obbligazioni contratte si quadripartiscono secondo i modelli evidenziati, le obbligazioni da delitto sono considerate come espressive di un solo genere di obbligazione, sebbene esse nascano da quattro diversi tipi di delitto: il furto, la rapina, l’atto ingiusto contro la persona e il danno ingiusto contro il patrimonio. L’obbligazione da delitto è probabilmente l’esito storico di una conquista di civiltà giuridica, quella che nella tutela dei delitti esprime il superamento del modello afflittivo (caesio, talio) e della coazione immediata in chiave di soggezione del reo al potere della vittima come diretta conseguenza dell’illecito commesso (manus iniectio), attraendo anche i delitti c.d. privati nell’alveo dell’obbligazione a pagare una pena pecuniaria. Sempre nel giurista Gaio (D. 44.7.1 pr.), ma in un’opera successiva, chiamata delle ‘cose quotidiane’ (res cottidianae), si trova una diversa classificazione delle fonti delle obbligazioni. Il giurista parla in questo caso di obbligazioni nate dal contratto, dal delitto (chiamato in quest’opera maleficium e non delictum) e da varie figure di cause (ex variis causarum figuris). La terza categorie è funzionale per inserirvi una serie di fatti o atti che non perfezionavano né un contratto, né potevano essere considerati delitti veri e propri, ma dai quali nasceva una obbligazione. Tra questi ricordo la gestione di affari altrui, il rapporto di tutela, il legato obbligatorio, il pagamento dell’indebito, l’abuso di potere del giudice, la caduta di oggetti dai balconi. Tutte queste figure hanno il proprio comune denominatore nell’essere cause dell’obbligazione che non possono ascriversi né alle obbligazioni da contratto, né a quelle da delitto. Infine, nelle Istituzioni dell’imperatore Giustiniano (533 d.C.), si distinguono in base alle fonti, quattro categorie di obbligazioni: le obbligazioni da contratto, da delitto (anche in questo caso prevale la terminologia maleficium), quasi da contratto (quasi ex contractu) e quasi da delitto (quasi ex maleficio). Questa nuova immagine terminologica condizionerà le moderne categorie dei c.d. quasicontratti e dei quasidelitti, ancora presenti nel codice civile italiano del 1865, che tendono ad ipostatizzare in categorie generali autonome quanto nella concreta terminologia romana rifletteva, invece, la reale portata dell’operazione interpretativo-sistematica realizzata con la quadripartizione. Non si trattava, infatti, soltanto di meglio sistemare le cause delle obbligazioni. Con la qualifica di obbligazioni quasi da contratto si voleva, infatti, far

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seguire alle obbligazioni nate dalla gestione d’affari altri, dalla tutela, dal pagamento dell’indebito, dal legato mortis causa ad effetti obbligatori, il regime giuridico delle obbligazioni da contratto, pur non essendo appunto nate da contratto. Esse dovevano, quindi, seguire di regola la successione mortis causa del debitore (e non estinguersi alla sua morte) (c.d. trasmissibilità delle obbligazioni contrattuali). Con la qualifica di obbligazioni quasi da delitto si voleva, invece, far seguire alle obbligazioni nate dall’abuso di potere del giudice, dalla caduta degli oggetti dai balconi o dalla loro pericolosa esposizione e dal fatto dei sottoposti, il regime giuridico delle obbligazioni da delitto, pur non essendo appunto nate da delitto. Esse erano quindi attratte nel regime della intrasmissibilità mortis causa, della loro cumulatività (potendosi cumulare più obbligazioni da delitto, da uno stesso fatto delittuoso), della c.d. nossalità (lasciando al responsabile del fatto delittuoso di un suo animale o di un suo sottoposto, la facoltà di pagare la pena prevista oppure consegnare l’animale o la persona umana alla persona lesa). Inizieremo ora la trattazione dalle obbligazioni da contratto, secondo l’ordine che emerge nei manuali istituzionali di Gaio e Giustiniano, conservando per ora la struttura di forte tipicità del sistema romano dei contratti, e rimandando dopo aver trattato i tipi contrattuali più importanti, la trattazione della nozione romana di contratto, al fine di indurre nello studente, senza doverlo spiegare, la forza del movimento costruttivo che impegna i giuristi romani dall’epoca di Augusto sull’idea generale di contratto.

9. OBBLIGAZIONI

CONTRATTE CON LA CONSEGNA DI UNA COSA CONTRATTI REALI)

(C.D.

A. L’eredità romana dei contratti reali Nei Codici civili di tutto il mondo è stata accolta la categoria dei contratti reali. Con questa qualifica si intendono i contratti nei quali il semplice accordo tra le parti non è idoneo a far nascere le obbligazioni, ma all’accordo delle stesse deve seguire la consegna della cosa (di qui la realità menzionata nella qualificazione di questi contratti, da non confondere con l’efficacia reale del contratto del diritto moderno, che esprime l’idoneità del contratto di per sé a trasferire la proprietà sulla cosa). La enucleazione della categoria generale dei contratti reali, nella forma delle obbligazioni contratte con la consegna della cosa (obligationes re contractae), è un fondamento romano dei diritti odierni. La categoria esprime un principio di giustizia, quello secondo il quale, rispetto ad alcune funzioni socio-economiche tipiche del ius gentium, è necessario che al semplice ac-

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cordo si aggiunga un comportamento concludente che vesta di concreta serietà la volontà di dar seguito all’assetto di interessi condiviso dalle parti. Tale ulteriore manifestazione della serietà di intenti di una delle parti è colta nella effettiva consegna della cosa (da qui come detto la realità del contratto), perché il tipo di assetti di interessi perseguito tende a dare utilità soltanto ad una delle parti, quella che riceverà la cosa, o quella che la dà, rappresentando per l’altra un atto gratuito fatto per solidarietà familiare o amicale. I contratti reali, cioè, nascono come espressione di una società nella quale prevale il senso comunitario e non mercantilistico, dove tutto, invece, si fa per finalità di profitto. Il mutuo gratuito di denaro, il prestito d’uso gratuito di una cosa (il comodato), il deposito di una cosa presso un’altra persona perché sia custodita gratuitamente fino al nostro ritorno, e la stessa consegna di una cosa a garanzia, esprimono cioè una funzione solidale, più vicina al favore che non alla reciprocità. B. Mutuo La funzione economico-sociale del contratto di mutuo è quella del prestito gratuito di denaro. Secondo una pseudo-etimologia ricordata dai giuristi romani la parola indicherebbe il passaggio ‘dal mio al tuo’, al fine di giustificare il suo effetto caratteristico di rendere con la consegna del denaro (o comunque di beni fungibili e consumabili) le cose fungibili in piena proprietà del mutuatario (cioè di colui che le riceve). Nell’età più antica, l’esigenza di disporre di una somma di denaro (o di altre cose fungibili, come una certa quantità di semi di frumento ad esempio), all’interno di una economia caratterizzata dalla sostanziale autosufficienza delle famiglie nella produzione del sostentamento alimentare, si pone in termini di sicura eccezione alla regola nei rapporti interfamiliari. Nell’economia mercantile del Mediterraneo, invece, i prestiti feneratizi (cioè nei quali si stabilivano interessi pecuniari sulla somma prestata) erano consueti. Il mutuo è nell’interesse di chi riceve la somma e si perfeziona con la dazione di una somma di denaro e, quindi, con la contestuale nascita della obbligazione alla sua restituzione. Le parti si chiamano mutuante (colui che presta) e mutuatario (colui che riceve). Il contratto è a titolo gratuito, ma non a fondo perduto. Ciò significa che il mutuatario, con la consegna della somma di denaro, è obbligato a restituire eguale quantità di denaro nei termini previsti dal contratto. Nel diritto privato borghese dell’Ottocento, al mutuo civile, come contratto reale gratuito, si è mano a mano sostituito il mutuo bancario, che invece per sua natura prevede la decorrenza di una somma aggiuntiva a titolo di

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interessi alla restituzione della somma prestata, qualificata la prima anche quale ‘frutto civile’ della seconda. La metamorfosi è stata particolarmente funzionale allo sviluppo del capitale finanziario nell’economia degli ultimi secoli. Al contrario, in diritto romano, la somma a titolo di interessi non è mai connaturata nella somma prestata, negandosi alla prima la stessa natura di ‘frutto’: così una nota regola di Quinto Mucio Scevola in D. 50.17.121: ‘l’usura del denaro non rientra nel frutto’; usura pecuniae in fructu non est. Il fenomeno dell’usura, d’altronde, nella sua ampia ricorrenza anche nell’economia antica del Mediterraneo, è stato fortemente combattuto dal diritto romano, che impose limiti legali agli interessi pecuniari, dapprima nell’àmbito dei rapporti tra i cittadini romani, e poi anche nell’àmbito del diritto con tutti gli uomini (ius gentium). Prima delle XII Tavole, nei rapporti di ius civile, somme aggiuntive rispetto a quelle prestate si potevano prevedere con dichiarazioni formali fatte nell’atto solenne, chiamato nexum, compiuto col bronzo e la bilancia davanti ad almeno cinque cittadini romani puberi. Le XII Tavole imposero un limite inderogabile a tali somme aggiuntive, quello dell’oncia aggiuntiva di bronzo (fenus unicarium: l’oncia equivaleva come unità di misura di peso a 1/12 di una libra. La libra equivaleva circa ad 1/3 di chilogrammo), quindi equivalente probabilmente all’8,34% su base annua. L’atto giuridico utilizzato realizzava però non soltanto la funzione del prestito feberatizio, ma anche l’assoggettamento di colui che riceveva il prestito ad una condizione gravosa, quella appunto di essere ‘annesso’ alla famiglia del prestatore, sebbene non rientrasse sotto la sua potestà. La lotta all’usura e la soluzione al problema dell’indebitamento della plebe realizzato con il nexum portò a dimezzare il limite dell’oncia in semioncia (semiuncia), fino ad un tentativo plebeo (con il plebiscito Genucio, che non ottenne però dal Senato patrizio nessuna conferma) di abolizione totale. Nel mutuo informale, invece, non era possibile prevedere somme aggiuntive nella restituzione a titolo di interessi (usurae). L’unica possibilità per il mutuante di prevederle era di concludere un altro e diverso contratto, quello verbale e solenne della promessa stipulatoria (stipulatio), nella quale si poteva prevedere l’impegno a pagare interessi (usurae), sempre però nei limiti legali, con ciò confermando la consapevolezza dell’innaturalità del rapporto tra interessi pecuniari e somma prestata, innaturalità che impone un modello convenzionale ed artificiale di previsione degli stessi interessi nei limiti legali e divieto assoluto di capitalizzazione degli stessi (c.d. anatocismo, con parola greca). D’altronde, basti qui ricordare quanto Catone il Censore nel II secolo a.C. era solito affermare, cioè che l’usuraio era peggior cittadino del ladro.

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Il mutuo informale nel ius civile ha origine nei rapporti interfamiliari (tra fratelli, cugini, etc.) e si colloca in un ambiente di affidabilità rafforzata (fides). Mentre, infatti, se un pater familias avesse accolto la richiesta di un estraneo a prestargli una somma di denaro, avrebbe preteso di concludere una promessa solenne di restituzione della somma prestata (sponsio) oppure avrebbe imposto la dichiarazione solenne con il nexum, nel caso in cui, invece, che il prestito fosse richiesto da un familiare o da un amico, egli addiveniva al prestito senza formalismi, né solenni atti di impegno alla restituzione. Il prestito di denaro gratuito non aveva in questo àmbito di rapporti bisogno, cioè, di atti che formalizzassero l’affidamento (fides), che si ingenerava tra le parti con la semplice consegna in rapporto alla futura restituzione delle somme prestate. Era lo stesso contesto familiare e sociale nel quale il prestito si realizzava ad essere caratterizzato da un profondo affidamento tra le parti, tanto che il prestito stesso veniva realizzato senza alcun formalismo, né promesse solenni, ma soltanto con la definitiva consegna della somma attraverso la datio. Come dirà il grande giurista Celso, che visse sotto l’imperatore Adriano, in una famosa definizione del verbo latino ‘credere’ (affidare una propria cosa ad altri, fidandoci che la restituiranno; Ulpiano in D. 12.1.1.1), la consegna di una cosa nostra ad un altro è la conseguenza immediata del fatto che così seguiamo l’affidamento (fides) che riponiamo in lui, che poi la restituirà (cuicumque rei adsentiamur alienam fidem secuti mox recepturi quid, ex hoc contractu credere dicimur). Il mutuatario, ricevente la somma di denaro, è l’unico ad essere obbligato, mentre non esiste nessuna obbligazione del mutuante a consegnare la somma al mutuatario, potendo egli fino all’ultimo secondo precedente alla consegna, decidere di non prestare più la somma di denaro richiesta. La prestazione oggetto dell’obbligazione è quella di restituire una somma della stessa identica quantità di denaro (certam pecuniam dare oportere). La consegna (datio), quindi, non è soltanto il momento costitutivo della nascita dell’obbligazione unilaterale del mutuatario verso il mutuante, ma è altresì l’atto con cui si delimita con esattezza la quantità di denaro oggetto della prestazione di restituzione. Data la natura gratuita del contratto di mutuo informale, come abbiamo già detto, non si possono convenire informalmente con pattuizioni aggiuntive al contratto somme in più da restituire, mentre data la sua natura giuridica di atto di solidarietà, nella conclusione del contratto si può prevedere che il mutuatario restituisca di meno. La prestazione del mutuatario di restituire la somma ricevuta è qualificata come ‘dare’ (dare) e non restituire (reddere), come invece accade in tutti gli altri contratti reali, perché con la consegna del denaro il mutuatario ne diventa il proprietario, e quindi ne ha la piena e totale disponibilità (ma anche di conseguenza accollandosene tutto il rischio nell’uso che ne fa) quale debi-

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tore di una somma di denaro eguale nella quantità, ma non nella identità materiale delle monete. Ciò che i Romani chiamano il tantùndem. La conseguenza di ciò dal punto di vista del regime giuridico del contratto di mutuo è altamente significativa, perché implica che (a differenza di quanto accade negli altri contratti reali) i destini del denaro prestato (o delle cose fungibili e consumabili prestate), essendo nella piena disponibilità del mutuatario in qualità di proprietario delle stesse, sono totalmente indipendenti dalla persistenza dell’obbligazione alla sua restituzione, ciò che le fonti esprimono con l’attribuzione del pericolo del perimento del denaro prestato al mutuatario. L’azione a tutela fin dal processo civile arcaico è un’azione in personam, forse già nella veste dell’azione di legge per sacramento (in personam). Con sicurezza, in ogni caso, con la legge Silia e la legge Calpurnia (successive alle XII Tavole) si introduce una forma tipica di tutela nella veste di una intimazione formale di rispettare l’obbligazione al pagamento di quanto ricevuto in prestito (condictio). Si tratta di un’azione che, data la sua astrattezza, ha funzioni anche di ripetizione dell’arricchimento ingiustificato. Il modello di azione si eredita anche nel processo civile formulare, quello aperto a tutti gli uomini, proprio della c.d. condictio formulare. C. Comodato La funzione del contratto di comodato è il prestito d’uso gratuito di una cosa. Esso è compiuto nell’interesse primario di colui che riceve la cosa e risponde ad esigenze di solidarietà. Ha ancora oggi un’amplissima ricorrenza (si pensi a scuola al prestito di penne, matite, gomme, libri, ecc.). Il contratto di comodato si perfeziona con la consegna della cosa, da cui nasce l’obbligazione alla sua restituzione. Le parti si chiamano comodante (colui che presta la cosa) e comodatario (colui che la riceve). Il contratto è a titolo gratuito, ma a tempo determinato. Ciò significa che il comodatario, con la consegna della cosa, è obbligato a restituirla nella sua identità ed integrità al comodante nei termini previsti dal contratto. Lo stesso uso difforme dall’uso pattuito non è dai Romani considerato un semplice inadempimento del contratto, ma addirittura un illecito extracontrattuale, il c.d. furto nell’uso della cosa (furtum usus). Il tipo contrattuale si è fin dalla sua origine caratterizzato come contratto che si perfeziona con la consegna della cosa, e ciò proprio in quanto la sua stessa funzione, tutta a favore del comodatario che ottiene gratuitamente l’uso della cosa altrui, non è acconcia ad una impegnatività del semplice consenso espresso dal comodante al comodatario, ma appunto si richiede che tale volontà si concretizzi nella effettiva consegna della cosa in prestito.

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Il comodato è contratto a vocazione universale, cioè aperto a tutti gli esseri umani e matura autonomamente rispetto alla fiducia, di cui, quindi, non è una evoluzione storica. La fiducia detta con l’amico (fiducia cum amico) era un gesto con il bronzo e la bilancia diretto a trasferire la proprietà della cosa fiduciariamente consegnata all’amico perché ne facesse uso. La soluzione è rigida. La rigidità è evidente nella enorme sproporzione che in essa veniva a determinarsi tra funzione economico-sociale perseguita (prestito d’uso gratuito) e forma giuridica di sua realizzazione (atto di trasferimento di proprietà sulla cosa data in uso, con una pattuizione al ritrasferimento della proprietà stesso al mancipio dans alla fine dell’uso previsto). Per conservarne la finalità gratuita, il corrispettivo formale previsto nel gesto col bronzo e la bilancia era la somma simbolica dell’unica moneta. Per capire la rigida soluzione propria del ius civile in materia, si immagini la possibilità di farsi prestare oggi l’auto da un amico soltanto facendo un passaggio di proprietà dell’auto stessa, con impegno a ritrasferirne la proprietà al termine dell’uso previsto. Il contratto di comodato è, quindi, una soluzione di straordinaria adeguatezza a rispondere alla funzione socio-economica del a prestito d’uso gratuito, attraverso la costruzione di un tipo contrattuale deformalizzato (coerentemente al contesto di ius gentium nel quale matura) nel quale con la consegna non si trasferisce la proprietà della cosa, ma semplicemente l’uso della stessa con la contestuale nascita per il comodatario dell’obbligazione di restituirla al termine dell’uso pattuito. Di qui anche la conformazione di ‘lateralità’ che il contratto assume nelle prime forme di tutela da parte del pretore, quale azione personale che il comodante può esercitare contro il comodatario che non abbia restituito la cosa, con una formula costruita sul fatto (cioè sull’avvenuta consegna della cosa per soddisfare un prestito d’uso gratuito). L’unica obbligazione riconosciuta all’inizio, quindi, è unilaterale e pretoria, nel senso che il comodatario si trova soggetto all’azione in personam del comodante se non restituisce (actione teneri). La costruzione del contenuto tipico del contratto, però, grazie all’operato dei giuristi romani, rispetto a questo modello iniziale, viene ad arricchirsi, soprattutto rispetto ad eventuali possibili prestazioni del comodante nei confronti del comodatario. Il riconoscimento di una possibile rilevanza bilaterale del rapporto ingenerato dalla consegna della cosa nel comodato passa attraverso la valorizzazione del principio di buona fede, il quale alimenta tutti i rapporti di ius gentium. In conseguenza di ciò i giuristi romani guidano il pretore nell’introduzione di un’azione di comodato con formula fondata direttamente sul diritto delle genti e non più sulla descrizione del fatto fondante della consegna. Il comodante, così, risulta obbligato ad indennizzare il comodatario per gli

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eventuali danni che l’uso della cosa prestata può avergli cagionato (ad esempio la morte dello schiavo per la furia del cavallo indomito, prestato come domato) oppure per condotte del comodante contrarie alla buona fede (come ad esempio la richiesta inopportuna della restituzione della cosa comodata nel momento in cui il comodante sapeva che al comodatario serviva la cosa per l’uso accordato). Data l’utilità esclusiva del comodatario, in caso di mancata restituzione della cosa comodata egli risponderà per inadempimento in caso di dolo, di colpa, di negligenza e di custodia. Egli non risponde, invece, se la cosa sia perita per caso fortuito e forza maggiore. D. Deposito La funzione del contratto gratuito di deposito è quella della custodia di una cosa altrui senza corrispettivo. Anche in questo caso il contesto è collegato a rapporti di solidarietà comunitaria. Qualora fosse previsto un corrispettivo, cosa non vietata, il contratto avrebbe però cambiato nome e sarebbe diventato un contratto di locazione conduzione, e quindi avrebbe determinato un grande salto di regime, diventando un contratto consensuale. L’utilità nel deposito è del deponente. Da ciò conseguono una serie di contenuti giuridici del regime tipico del contratto. Il contratto di deposito si perfeziona con la consegna della cosa da depositare, da cui nasce l’obbligazione del depositario alla sua restituzione. Le parti si chiamano deponente (colui che deposita la cosa) e depositario (colui che la riceve). Il contratto è, come detto, a titolo gratuito, ma a tempo determinato. Ciò significa che il depositario, con la consegna della cosa, è obbligato a restituirla nella sua identità ed integrità al comodante nei termini previsti dal contratto o, se un termine non è stato fissato di comune accordo al momento della consegna, in qualsiasi momento il deponente la richieda indietro. L’uso della cosa depositata è vietato al depositario, salvo la gestione della stessa per la sua custodia. L’uso in quanto tale (e non quindi come per il comodato, l’uso difforme) è considerato un illecito extracontrattuale, il c.d. furto nell’uso della cosa (furtum usus). Anche il deposito nasce come contratto unilaterale, nel senso che il pretore riconosce soltanto a capo del depositario la soggezione ad un’azione con formula in fatto esercitata dal deponente, producendosi così in origine soltanto l’obbligazione pretoria (c.d. actione teneri) del depositario alla restituzione (reddere). La prima forma di azione a tutela è quindi un’azione personale con formula fondata sulla descrizione del fatto della consegna della cosa per la sua custodia. Come si era visto anche per il comodato, anche per il deposito, la costru-

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zione del contenuto tipico del contratto, grazie all’operato dei giuristi romani, rispetto a questo modello iniziale viene ad arricchirsi, soprattutto rispetto ad eventuali possibili prestazioni del deponente nei confronti del depositario. Il riconoscimento di una possibile rilevanza bilaterale del rapporto ingenerato dalla consegna della cosa per la sua custodia passa attraverso la valorizzazione del principio di buona fede, il quale alimenta tutti i rapporti di ius gentium. In conseguenza di ciò i giuristi romani guidano il pretore nell’introduzione di un’azione di deposito con formula fondata direttamente sul diritto delle genti e non più sulla descrizione del fatto fondante della consegna, azione che avrà una sua direzione normale (del deponente contro il depositario per la restituzione della cosa depositata) e contraria (del depositario contro il deponente per il rimborso delle spese sostenute e per vedersi indennizzare dei danni subiti dalla cosa depositata). In base all’utilità del contratto, tutte del deponente, il depositario risponderà soltanto per la mancata restituzione dovuta al suo dolo, al quale, proprio nella ponderazione delle condotte del depositario nei confronti della cosa depositata, i giuristi romani elaborarono la colpa in concreto, cioè la c.d. diligenza nelle proprie cose (diligentia quam in suis), che pur non perfezionando una condotta dolosa a quella veniva equiparata rispetto alla responsabilità contrattuale, in quanto il depositario aveva usato una cura nella custodia della cosa altrui diversa e peggiore rispetto a quella adibita alla custodia delle proprie cose (ad esempio lasciare il cavallo altrui in nostra custodia all’aperto, mentre il cavallo di nostra proprietà viene accudito nella stalla). Particolari forme tipiche di deposito sono il deposito necessario e il sequestro. E. Pegno La funzione del contratto di pegno è quella di consegnare una cosa al proprio creditore (cioè a dire di un debito preesistente) non col fine di adempiere, ma al fine di garantirgli in tal modo il futuro adempimento. L’utilità è in questo caso di entrambe le parti. Le parti sono il debitore pignoratizio (creditore della restituzione della cosa data da lui a garanzia) ed il creditore pignoratizio (debitore della restituzione della cosa data a pegno). La sua configurazione come contratto reale, nel quale il contratto di pegno si perfeziona con la consegna della cosa in garanzia e da cui nasce l’obbligazione di restituzione del creditore pignoratizio, è collegata sia alla gratuità della dazione di pegno (mentre entrambe le parti hanno appunto interesse alla sua conclusione), sia alla sua importanza per il debitore pignoratizio, che potrebbe così ripensarci fino all’ultimo secondo prima della consegna. Il contratto di pegno non è da confondere col diritto reale di garanzia di

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pegno, che si costituisce anche con semplice accordo ipotecario (la conventio hypotecaria) e che tutela il diritto reale di pegno erga omnes (con un’azione reale costruita con formula che descrive i presupposti di fatto della sua tutela; c.d. actio Serviana) e che è funzionalmente e giuridicamente indipendente dalla scelta fatta tra creditore e debitore di addivenire anche alla consegna della cosa a titolo di pegno, come appunto contratto reale, con la nascita dell’obbligazione alla restituzione della cosa, quando il debito garantito dal pegno sia onorato dal debitore pignoratizio. L’uso della cosa pignorata è vietato al creditore pignoratizio, salvo la gestione della stessa per la sua custodia. L’uso in quanto tale (e non quindi come per il comodato, l’uso difforme) è considerato un illecito extracontrattuale, il c.d. furto nell’uso della cosa (furtum usus). L’azione a tutela è un’azione personale pretoria con formula, quindi, fondata sul fatto (in factum) che il debitore pignoratizio esercita per la restituzione della cosa data a pegno. Quella che il creditore pignoratizio esercita verso il debitore per eventuali danni subiti dalla cosa data a pegno è una azione contraria. Si discute se vi siano state azioni con formula in ius di buona fede, come affermato dalle Istituzioni imperiali.

10. OBBLIGAZIONI CONTRATTE CON LA PRONUNCIA SOLENNE DI PAROLE (CONTRATTI VERBALI) Nella società romana arcaica, pur essendo conosciuta la scrittura, nelle comunità che fondano la città di Roma è fondamentale l’uso solenne di parole e gesti. Di qui, la caratterizzazione in chiave formale e solenne dei primi atti giuridici dell’arcaico diritto romano: i gesti col bronzo e la bilancia da un lato (come mancipatio, nexum, solutio per aes et libram, testamentum per aes et libram, fiducia) e le promesse solenni dall’altro. La più antica promessa solenne si chiama sponsio, dal verbo latino arcaico spondere che valeva promettere solennemente e che era necessario pronunciare al momento dell’assunzione dell’impegno alla prestazione. L’accordo delle parti prendeva necessariamente ed inderogabilmente la forma verbale di domanda e risposta, nella quale il futuro creditore chiedeva al futuro debitore: «prometti solennemente di darmi cento assi?» (centum assium dari spondes?). Alla domanda bisognava rispondere immediatamente, affermando allora il futuro debitore «prometto solennemente» (spondeo). Le formalità dell’atto non richiedevano né la presenza dei testimoni, né la scritturazione dell’atto compiuto. La forza dell’atto, caratterizzata dal principio di affidamento (fides) del rispetto della promessa fatta, si concentra nell’uso del ver-

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bo giuridico sacrale di spondere, inderogabile per entrambe le parti e perfezionante una congruità che poi, anche caduto l’uso del verbo spondere ed aprendosi l’atto nel ius gentium all’uso di verbi diversi (promitto, do, iubeo etc.) ed anche a verbi di stesso significato da lingue diverse dal latino, si conservò, con la necessaria congruità del verbo usato nella domanda e nella risposta. La struttura formale di natura verbale dell’atto ne determina anche il regime giuridico: forma verbale, presenza delle parti, natura subitanea dell’atto, unilaterale nascita dell’obbligazione. Qualora la promessa avesse per oggetto una somma di denaro o cose fungibili oppure una cosa certa di specie si esercitava l’azione di intimazione al pagamento, nelle due forme di somma certa di denaro o di cosa certa. La sua più importante manifestazione tipica sarà la stipulazione (stipulatio), cioè una promessa stipulatoria come atto aperto a tutti gli esseri umani (quindi di ius gentium). Il contratto di stipulazione deve il suo nome probabilmente alla prassi italica di rompere a metà una stipola (gambo di frumento), conservando ciascuna parte la metà. Le parti potevano calare nella promessa verbale qualsiasi tipo di prestazione, e la struttura di obbligazione unilaterale creatasi tra promittente e promissario inserirsi anche in assetti di interessi molto complessi (si pensi alla prassi ricordata da Catone il Censore di formalizzare alcune prestazioni previste nel contratto di compravendita o di locazione con una stipulazione, in particolare quelle di pagamento del presso pattuito e di garanzia della cosa venduta o locata). Questa grande duttilità della stipulazione ne fa un contratto tipico, la cui causa è però caratterizzata non da una funzione economico-sociale specifica, ma dalla sola forma. L’autonomia dei privati trovava attraverso tale contratto ampio sfogo, venendosi così a creare il problema di vagliare questo ampio contenuto giuridico, per fissarne alcune delimitazioni ed evitare che divenisse una forma contrattuale idonea a perseguire intenti illeciti o comunque abusivi. Proprio nell’interpretazione dei giuristi di questo enorme materiale che veniva dalla prassi delle stipulazioni, sono state elaborate tra le altre una serie di regole che vennero mano a mano estese anche agli altri contratti causali e poi nei moderni codici civili hanno finito per far parte del regime giuridico di tutte le obbligazioni. Ne ricordo alcune. Impossibilium nulla obligatio est (letteralmente «dell’impossibile non esiste obbligazione») del giurista Giuvenzio Celso (II sec. d.C.) con la quale si sancisce la regola che rispetto ad una prestazione impossibile al momento di perfezionamento del contratto la stessa obbligazione non nasce.

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Alteri stipulari nemo potest («nessuno può ricevere una stipulazione a favore di un altro), del giurista Quinto Mucio Scevola (II-I sec. a.C.), con la quale si sancisce la regola della natura personale del rapporto di obbligazione, ben lontano dalla cartolarizzazione del debito proprio di fenomeni finanziari cotemporanei. Obligatio ab heredis persona incipere non potest («l’obbligazione non può iniziare dalla persona dell’erede»), regola che attinge al sapere pontificale arcaico e che esprime la natura personale delle parti coinvolte nell’obbligazione. Tale regola non va confusa con la piena successibilità delle obbligazioni già nate da contratto concluso dal de cuius, che per successione ricadono poi sul suo erede. Un altro importante contratto verbale, anche per la sua resistenza poi nella storia fino ai moderni codici civili, è la fideiussione (fideiussio). Con tale contratto verbale, di emersione abbastanza recente (I secolo a.C.), si soddisfaceva una funzione tipica di garanzia personale di un debito di un’altra persona. Il fideiussore prometteva di affidarsi al creditore di un altro, al fine di garantire l’adempimento dell’obbligazione di quest’ultimo (l’obbligazione principale) impegnandosi a pagare in caso di mancato adempimento. L’obbligazione del fideiussore ha natura accessoria al debito principale. Quindi, l’obbligazione principale ne è la stessa causa di esistenza e di persistenza nel tempo. Qualora si estingua il debito principale per un fatto non imputabile né al debitore principale, né al fideiussore, anche l’obbligazione fideiussoria si estinguerà. L’accessorietà è riflessa anche nella regola secondo la quale il fideiussore si obbliga in una causa eguale o più lieve del debitore principale, ma non per una causa più dura (come ad esempio una somma maggiore). Con una Novella del 535 d.C., l’imperatore Giustiniano introdusse il beneficio d’escussione, in base al quale il fideiussore, quale garante e non debitore, ha diritto di chiedere al creditore di escutere il debitore principale prima di procedere contro di lui.

11. OBBLIGAZIONI RALI)

CONTRATTE CON LA SCRITTURA (CONTRATTI LETTE-

Come già detto, la cultura romana riflette più una società dove prevale l’importanza e la dignità del rispetto della parola data e della solennità dei gesti. Ciò però non significa che la scrittura non potesse assumere un ruolo significativo. Un esempio dal quale la regola, comunque, esce rafforzata è il ‘codice del

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ricevuto e del dato’ (codex accepti et expensi) che ogni pater familias teneva per registrare i movimenti di entrata ed uscita dal patrimonio familiare. Qualora un pater familias avesse registrato in uscita la dazione di una somma di denaro o di cose fungibili e consumabili ad un altro pater familias, tale registrazione scritta fondava la possibilità per lui di esercitare l’azione di restituzione del dato (condictio) contro chi avesse ricevuto le somme o le cose fungibili. Il momento della scritturazione nel Codex accepti et expensi viene a fondare la nascita di una obbligazione alla restituzione del ricevuto egualmente a quanto accade nel mutuo informale attraverso la datio. La sua stretta colleganza con la comunità propria dei cittadini romani, ne fa contratto rilevante esclusivamente nel ius civile, con una sua caduta in desuetudine durante la grande espansione di Roma nel Mediterraneo nel III-II sec. a.C. Il giurista Gaio ricorda come contratti letterali non appartenenti né al ius civile, né al diritto comune a tutti gli uomini (ius gentium), e propri invece dei diritti stranieri, potessero considerarsi, con le categorie giuridiche romane, obbligazioni contratte con la scrittura. Si tratta degli atti scritti a mano dal debitore (chirografi) o redatti in forma oggettiva (singrafe), nei quali il primo riconosceva il debito di una somma di denaro oppure si affermava che il secondo aveva prestato al primo una certa soma di denaro e il debitore sottoscriveva a sua volta la dichiarazione. Questi contratti nascondevano spesso nella dichiarazione scritta la vera natura dell’operazione finanziaria, che era quella del prestito feneratizio a tassi esorbitanti. Le somme aggiuntive imposte al debitore nella restituzione erano come tali incluse direttamente nelle somme che si dichiaravano prestate, scrivendosi di aver prestato 100, quando magari si era prestato solo 50. Una legge Gabinia del 67 a.C., vietò ai pretori a Roma di dare tutela a questi atti. La ragione giuridica è spiegata in quanto le singrafe sarebbero «pattuizioni contro l’affidamento della verità» (Ps. Asc. in Verr. 2.1.35. p. 91: pactio contra fidem veritatis). In età giustinianea una residuale rilevanza della scritturazione quale momento costitutivo della nascita di una obbligazione contrattuale è vista nella prassi orientale di versare per iscritto la stipulazione.

12. OBBLIGAZIONI CONSENSUALI)

CONTRATTE COL SEMPLICE CONSENSO (CONTRATTI

A. Storia Un’eredità significativa della Scuola Pandettistica del 1800 in Germania è quella del negozio giuridico, nella quale il contratto è riletto attraverso il ruo-

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lo centripeto del potere della volontà. Tale risultato è conseguenza del particolare occhiale dell’interprete orientato ideologicamente a valorizzare il momento della volontà rispetto a quello della struttura finalizzata allo scambio che si realizza. In sostanza, tale interpretazione della realtà dei contratti con la prospettiva esclusiva del negozio giuridico evidenzia un processo di selezione nel quale è insita una scelta di valore a favore della volontà individuale. A Roma, nel III-II sec. a.C., nell’àmbito della iurisdictio peregrina, cioè la giurisdizione a vocazione universale che i pretori romani possono esercitare nei confronti di chiunque glielo chieda a prescindere dalla cittadinanza, la enucleazione di nuovi tipi di contratti ruoterà intorno al consensus come nuovo principio ordinatore del diritto contrattuale. Gli esiti della costruzione romana sono di assoluta originalità nella storia dell’antichità e condizioneranno per sempre il pensiero giuridico successivo, in quanto porteranno alla valorizzazione di un principio consensualistico sconosciuto nel panorama del commercio del Mediterraneo, selezionando nelle ‘forme’ di contrattazione commerciale il momento dell’accordo (conventio) che non resta su un piano di astrazione, ma è imbrigliato nel principio di tipicità. Quindi, non qualsiasi accordo vale contratto, ma soltanto quello che realizza una compravendita (emptio venditio), una locazione conduzione (locatio conductio), una società (societas) e un mandato (mandatum), quindi tutti contratti tipici caratterizzati sia da una struttura di oggettiva reciprocità dei sacrifici (c.d. sinallagma), sia dall’essere fondati sul principio di buona fede (l’obbligazione è qualificata nella formula delle azioni personali a tutela come oportere ex fide bona). Una conferma di ciò si ha proprio nella prassi commerciale antica nell’area del Mediterraneo e nella sua rilevanza quale ius gentium, quindi quale diritto comune a tutti gli esseri umani, nell’àmbito della iurisdictio peregrina dei pretori romani. Nel III secolo a.C. Roma diviene, infatti, centro dei traffici mercantili di prima grandezza, ponendosi con sempre maggiore frequenza la richiesta di iurisdictio ai pretori a Roma in affari tra romani e stranieri e tra stranieri tra loro. Ne è prova la creazione nel 242 a.C. di un secondo pretore (chiamato peregrino, in quanto dedicato ai rapporti con gli stranieri) che presuppone un avvenuto intensificarsi di questo tipo di controversie nei decenni precedenti, tanto da rendere necessaria la specializzazione della iurisdictio peregrina esercitata prima del 242 a.C. dall’unico pretore. I documenti della prassi di questo periodo evidenziano una certa comunanza di usi commerciali, incentrata per lo più sul valore essenziale del documento scritto delle culture ellenistiche nelle sue diverse forme. La cosa si riscontra con una certa resistenza nel Mediterraneo orientale e nell’Egitto tolemaico, anche nei secoli successivi, quando l’imperium di Roma ha incluso anche tali ampie aeree geografiche.

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Si tratta per lo più di singrafe e chirografi i quali, come abbiamo visto, sono sentiti ancora da Gaio quali contratti proprî degli stranieri. D’altronde, anche se si guarda alla realtà delle forme negoziali del ius civile alle quali l’esperienza romana poteva attingere agli inizi del III secolo a C., non si avrebbe difficoltà a scorgere la centralità della forma verbale della stipulazione. Le fonti in nostro possesso sono, però, tutte coerenti nell’escludere la tipizzazione di questi traffici commerciali sia in termini di contratti letterali sia quali contratti verbali, ma al contrario indicando la loro caratterizzazione in termini di obbligazioni contratte col semplice consenso (obligationes consensu contractae; Gai III, 135 ss.). Il dato più significativo è la individuazione di un elemento comune, il minimo comune giuridico, nel nudo e semplice consenso, a differenza delle obligationes verbis, re e litteris contractae. È momento di grande significato per la storia dei contratti, e permette di cogliere appieno la portata della scelta di politica del diritto che i giuristi romani fanno di dare forma giuridica a tali nuove contrattazioni tra romani e stranieri nella iurisdictio peregrina ritenendo sufficiente per la loro tutela in tale àmbito il nudo consenso diretto a comprare o a vendere o a locare o a condurre o ad associarsi o a conferire mandato. Ciò non significa che concretamente le contrattazioni assumessero tale veste, ed anzi è dato presumere che tali cause negoziali venissero calate nelle forme d’uso dei commercianti stranieri (il documento) o di quelle dei romani (la stipulatio). Per una attestazione in tale senso, sono fondamentali i documenti della prassi ellenistica di questo periodo e i formulari di vendita e locazione del de agri cultura di Catone il censore. Il principio del consensualismo è quello, però, che meglio risponde alle esigenze economico-sociali che tali contrattazioni servivano a soddisfare, tra persone di diversa etnia, di diversa cittadinanza, di diverse lingua e cultura. Ci si orienta a distillare il nudo consenso quale momento pienamente idoneo a produrre un’obbligazione che si considera fondata sulla buona fede. La selezione valorizza l’accordo diretto a costruire una struttura corrispettiva omologa (due obbligazioni di buona fede qualificate nelle formule delle azioni personali nate dal contratto concluso in termini di oportere ex fide bona contrapposti), struttura che Labeone (giurista di età augustea) qualificherà come unità in termini di obbligazione bilaterale (ultro citroque obligatio, id est quod Graeci ‘synallagma’ vocant; D. 50.16.19). Una volta che le parti abbiano raggiunto il punto di equilibrio di tale struttura complessa sugli elementi essenziali, ed al di là della forma dell’ accordo in base ai diversi usi commerciali, la tutela nella giurisdizione romana universale (la iurisdictio peregrina appunto), è accordata in base al minimo

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comune giuridico del consenso deformalizzato ed il contenuto della obbligazione reciproca voluta dalle stesse resta aperto in chiave di prestazioni (quidquid dare facere), al di là di quanto le parti abbiano fissato espressamente nell’accordo, fondando l’obbligazione su di un principio di lealtà e correttezza, la fides bona. È altamente significativo che la selezione operata dai giuristi romani sia elemento di guida delle scelte del pretore, che includerà nel suo editto azioni tipiche a tutela di tali nova negotia, sentendo questi schemi giuridici come ius già esistente e quindi proponendo azioni personali con formule fondate sul diritto (formulae in ius conceptae). Altro elemento significativo è l’enucleazione della obbligazione di buona fede come effetto di tali contratti consensuali. L’actio ex vendito, l’actio ex empto, l’actio locati, l’actio conducti, l’actio pro socio e l’actio mandati hanno tutti una pretesa identica («tutto ciò che la controparte è obbligata a dare e a fare in base alla buona fede»; quidquid dare facere oportet ex fide bona) a fronte della ragione della pretesa, costruita invece sulla tipicità causale. La struttura della formula delle azioni personali nate dai quattro contratti consensuali testimonia una valorizzazione tipizzante delle cause che è stata, però, considerata idonea ad agganciarsi ad un’unitaria obbligazione di buona fede. Dietro questa costruzione poderosa, c’è una riflessione tecnica molto elevata. L’unificazione dell’obbligazione di buona fede come conseguenza di questi accordi tipici non è stata frutto dell’attività del pretore – che come non poteva rendere erede, ma soltanto possessore dei bene ereditari, così non poteva creare un’obbligazione civile all’oportere, ma soltanto accordare un’azione pretoria inducendo la nascita di un’obbligazione pretoria. Si deve quindi concludere che il collegamento tra struttura dell’obbligazione civilistica e principio di buona fede sia necessariamente la conseguenza del sapere dei giuristi romani. In questo modo, non si crea un nuovo tipo di obbligazione, né si determina una nozione di buona fede sganciata dai valori romani, ma si costruisce un concetto giuridico nuovo con materiale già esistente. La novità è data dalla necessità di esplicitare qualcosa che nelle antiche obbligazioni civili (nell’oportere nato dall’antica sponsio o dal mutuo informale) era di per sé incluso. Gli accordi tra uomini di religioni, città, culture, lingue diverse viene così fondato sul principio di lealtà e correttezza. La giurisprudenza esplicita questa scelta di valore col sintagma oportere ex fide bona, proprio perché le parti del contratto non provengono dalle stesse culture e quindi non necessariamente condividono gli stessi valori. In più, la scelta di considerare i rapporti così nati tra loro in termini di obbligazione, poi, espande ai negotia con gli stranieri la struttura di eguaglianza di posizione che il concetto veicolava rispetto ai rapporti dei patres familias nel ius civile.

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Il punto va, quindi, fortemente valorizzato. Il diritto romano, tra le tante possibili, sceglie di tipizzare questa realtà complessa e varia dei traffici commerciali, non assecondando né la koiné ellenistica in materia, dove risaltava il ruolo del documento scritto, né espandendo il modello romano dell’impegno verbale solenne, nel quale sarebbe stato possibile includere qualsiasi assetto di interessi perseguito. Al contrario, si enucleano tipi contrattuali caratterizzati da una forte fisionomia causale, facendo nascere dal semplice accordo deformalizzato le obbligazioni di buona fede innervate in una struttura di reciprocità. Detto in altri termini una struttura giuridica dotata di profonda giustizia. Il fondamento romano del contratto consensuale ha, così, consegnato alla storia un distillato di enorme significato politico, economico, sociale e dogmatico, segnando per sempre la futura storia dei contratti, nella quale il germe del consensualismo espanderà sempre di più la sua influenza. B. Il contratto consensuale di compravendita (emptio venditio) Il più importante contratto consensuale che il diritto romano consegna alla storia è la compravendita (emptio venditio). Non bisogna confondere la funzione di scambio di cose, da sempre esistito da quando c’è l’essere umano, realizzata nelle forme più diverse ed anche in base alle diverse culture del mondo (baratto, permuta, vendita a contanti, come la mancipatio di ius civile, scambio indiretto a distanza etc.), con lo schema romano, raffinatissimo, del contratto consensuale di compravendita, nato nei rapporti tra romani e stranieri nel III-II sec. a.C. Mentre lo scambio contestuale ed in presenza non richiede la previsione di un impegno per il futuro delle parti, ma impone l’assunzione di molti rischi per il venditore, quello del trasporto fino al luogo di vendita della merce, quello del deterioramento della stessa, o quello del danneggiamento o diminuzione o addirittura distruzione, ed anche quello dell’invenduto, il contratto consensuale di compravendita elaborato dai romani nell’àmbito del diritto comune a tutti gli esser umani (emptio venditio come obligatio consensu contracta del ius gentium) ha dimostrato una straordinaria forza espansiva, divenendo oggi, a distanza di circa 2200 anni dalla sua costruzione, il contratto più usato in tutta la terra ancora oggi. La particolare caratteristica della compravendita quale contratto consensuale è data dalla proiezione nel futuro degli impegni delle parti. L’invenzione è cioè quella di proiettare lo scambio nel futuro attraverso la doverosità evocata dalle obbligazioni, dando seria tutela all’accordo sullo stesso. Qualora venditore e compratore si trovino d’accordo l’uno nel vendere una sua cosa e l’altro a comprarla ad un certo prezzo, per entrambi e di regola contestualmente nasce un’obbligazione bilateralmente oggettiva, nella quale

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la reciprocità è data dalle prestazioni corrispettive di consegnare la cosa e pagare il prezzo, contenute nelle obbligazioni delle parti. Dal fatto che tale struttura sia stata enucleata per i rapporti tra romani e stranieri, nell’àmbito quindi di quel diritto a vocazione universale che è considerato dai romani comune a tutti gli esseri umani, la compravendita assunse fin dall’inizio una certa fisionomia tipica. Le obbligazioni nascono dal semplice consenso e non abbisognano di altri formalismi, come, invece, nei contratti reali, verbali e letterali. Ciò è di enorme stimolo nei rapporti tra culture, lingue e religioni diverse, così da fondare una comunione di vita degli uomini su un principio di leale rispetto degli accordi presi. Da qui discende, anche, che le obbligazioni nate sono fondate non soltanto sull’accordo consensuale, ma si innervano anche nel principio di buona fede, che dà alimento nel tempo all’impegno delle parti. Ciò, come vedremo a breve, ha conseguenze importanti sulla costruzione della fisionomia tipica del contratto che a mano a mano i giuristi romani realizzano, proiettandolo verso una struttura di giustizia. Dal contesto sovranazionale discende anche la tipizzazione delle prestazioni delle parti: il venditore si obbliga infatti non soltanto a consegnare la cosa venduta al compratore, quale prestazione subitanea e non calata in una dimensione temporale più ampia. Il venditore è considerato adempiere alla sua obbligazione di consegnare la cosa venduta qualora la cosa consegnata resti nel pieno e pacifico godimento del compratore. Il venditore non è, invece, obbligato a trasferire la proprietà civile (dominium di ius civile) in ragione della semplice constatazione che allo straniero che acquista una cosa da un romano, e ad un romano che acquista una cosa da uno straniero non interessano profili dell’appartenenza in chiave di tutela formale, ma interessa al contrario la sostanza della pacifica acquisizione del possesso della cosa venduta, possesso tutelabile nei confronti di chiunque (cittadino romano o no), cioè erga omnes. Il titolo formale sulla cosa in questi contesti è totalmente irrilevante per i non cittadini. Ne discende anche che, secondo buona fede, non si considera consegnata la cosa e quindi non adempiuta l’obbligazione del venditore, qualora il compratore perda il possesso della cosa per un’azione esercitata da terzi. Nasce così la tipizzazione della prestazione di garanzia per evizione per il venditore, come elemento tipico del contratto di compravendita. Egualmente, non sarà consegnata secondo buona fede una cosa qualora sia viziata, sia che il venditore lo sappia quando la consegna e non lo dice al compratore, sia quando la cosa non sia oggettivamente idonea all’uso per il quale viene comprata, includendosi così nel contenuto tipico della compravendita a carico del venditore anche la garanzia per i vizi della cosa venduta. Tali profili di rilevanza dei vizi della cosa venduta producevano conse-

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guenze di natura patrimoniale, in chiave di somme di denaro che, nell’ambito dell’azione da compera che il compratore esercitava contro il venditore, il venditore doveva versare per indennizzarlo del minor valore della cosa viziata, mentre non producevano nessuna conseguenza in chiave di invalidità o risoluzione sul contratto concluso. A tale regime, si aggiunse per le vendite fatte nei mercati cittadini, attraverso il diritto creato con l’editto dagli Edili Curuli (magistrati preposti al controllo dei mercati, appunto), un’azione di restituzione, l’azione redibitoria (actio redhibitoria), con la quale il compratore, riconsegnando al venditore la cosa, aveva diritto a riottenere il prezzo pagato. I giuristi della prima età imperiale inclusero il regime della redibitoria anche nel regime dell’azione contrattuale da compera («anche la redibizione [cioè la restituzione] è contenuta nel giudizio nato dalla compravendita, così reputano Labeone e Sabino»; così in un frammento tratto da Ulpiano nel libro trentaduesimo di commento all’editto, che i giustinianei inseriscono nel D. 19.1.11.3) Oggetto della compravendita è di regola una cosa corporale (il nome tecnico è merx; così il giurista Paolo nel libro trentatreesimo del commentario all’editto, che i giustinianei collocano nel D. 18.1.1 pr.-1). Possono essere considerati oggetti di una compravendita anche l’insieme di cose, come il gregge o l’eredità. Il giurista Paolo sintetizzerà questo complesso contenuto dell’obbligazione del venditore affermando che chi vende «si obbliga per l’evizione della cosa venduta, per la consegna della cosa, per astenersi dal dolo» (ob evictionem se obligare, possessionem tradere, purgari dolo in D. 19.4.1 pr.). L’obbligazione del compratore è quella di pagare il prezzo pattuito. Il prezzo è una somma di denaro determinata o determinabile in modo oggettivo da un terzo designato dalle parti. Proprio l’orientamento della funzione di scambio nella compravendita consensuale verso la realizzazione di relazioni tra romani e stranieri, impone di concretizzare in denaro la controprestazione del compratore, al fine di una traduzione valoriale di natura patrimoniale adatta ad una forte circolazione dei valori delle cose in una società multietnica. La permuta, cioè l’accordo per uno scambio futuro di due cose, l’una con l’altra (da tenere distinta dal baratto, nel quale, invece, lo scambio delle due cose è immanente e subitaneo e non determina impegnatività delle parti per il futuro), verrebbe ad alterare questa bilateralità oggettiva differenziata della compravendita consensuale, dove è importante sapere chi sia il venditore e chi il compratore, chi sia obbligato a garantire l’evizione della cosa, e chi invece a sopportare il pericolo del perimento della cosa venduta. Nel dibattito tra scuola proculiana e sabiniana sul punto nei primi secoli dell’impero, prevarrà la linea proculiana, proprio in base alla necessità di tenere distinti i ruoli delle parti.

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La proiezione nel futuro dell’impegnatività allo scambio, implica altresì la maturazione di una regola, in diritto romano pienamente indipendente dalla proprietà, secondo la quale al compratore spettano dal momento del perfezionamento dell’accordo i rischi e pericoli che possono fortuitamente ricadere sulla cosa venduta (quanto le fonti dicono periculum est emptoris). Il venditore risponde in caso di inadempimento della sua obbligazione per dolo, colpa e custodia (quest’ultima quale responsabilità oggettiva per il furto o il danneggiamento fatto da terzi della cosa), salvo la forza maggiore ed il caso fortuito. Mentre il diritto moderno tende a proiettare i profili di riconoscimento della responsabilità per inadempimento (i c.d. criteri di responsabilità quali il dolo e la colpa) come esterni all’obbligazione e successivi all’inadempimento della stessa. Le azioni sono tipiche dalla vendita (actio ex vendito) o dalla compera (actio ex empto). Si tratta di azioni personali di buona fede con una formula fondata sul diritto (actio in personam con formula in ius concepta all’oportere ex fide bona). C. Contratto consensuale di locazione conduzione (locatio conductio) Di amplissima utilizzazione è anche il secondo contratto consensuale, la locazione conduzione (locatio conductio). La funzione del contratto di locazione è quella di determinare una reciprocità tra concessioni d’uso temporaneo di cose oppure di attività e servizi a fronte di un corrispettivo in denaro. Tali tipi di accordo sono produttivi, come nella compravendita, direttamente di un’obbligazione di buona fede per le parti. Con questo tipo di contratto si dà forma a tutta una serie di funzioni economico-sociali che nella storia successiva del diritto privato verranno a tipizzarsi in modo autonomo, come ad esempio il contratto oneroso di trasporto o il contratto d’appalto o il contratto di lavoro o il contratto d’opera. La distinzione non romana, utile a cogliere l’ampia gamma di ipotesi di locazioni conduzioni presenti nel diritto romano, è quella fatta dagli interpreti tra locazione di cose (locatio rei), locazione d’opera o servizio (locatio operis) e locazione di giornate lavorative (locatio operarum), e ciò al fine di coglierne con più precisione i diversi regimi giuridici. Nella locazione di cose, il locatore è colui che concede in uso la propria cosa per un tempo definito a fronte di un corrispettivo in denaro (mercede, canone, nolo) pagato dal conduttore. La struttura di reciprocità è collegata alla garanzia del godimento nel tempo della cosa e al pagamento periodico della controprestazione. La natura della cosa impone di valutare il tipo di godimento come coerente sia all’accordo delle parti, che all’interesse del locatore a riavere la cosa nelle stesse condizioni (salvo la naturale usura) di godimento alle quali l’aveva consegnata.

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Nella locazione immobiliare va distinta quella dei fondi agricoli (oggi tipico contratto di affitto) da quella degli immobili urbani. La prima ha finalità produttive agricole, la seconda ha una funzione abitativa o di deposito di merci come nella locazione dei magazzini. La locazione di cose mobili ha un’amplissima utilizzazione e può piegarsi ai più svariati scopi economico-sociali. Nella locazione d’opera o servizio (locatio operis), il locatore ha interesse a vedersi realizzare un’opera od un servizio, a fronte di un corrispettivo da pagare. In questo caso è il locatore a pagare il corrispettivo in denaro e il conduttore invece a realizzare l’opera o a compiere il servizio richiesto. All’interno di questo tipo di locazione si realizzano ad esempio le funzioni dell’appalto, del trasporto (per mare e per terra), della estrazione di materiali, delle attività artigianali (quali realizzazione di opere di oreficeria, di falegnameria, di lavorazioni di metalli pesanti, di ceramica etc.). Nella locazione delle proprie giornate lavorative (locatio operarum) è il ricevente il lavoro altrui a dover pagare il corrispettivo in denaro. Trattandosi di contratti nei quali l’interesse è sempre di entrambe le parti in caso di inadempimento delle proprie obbligazioni, le parti rispondo di dolo e di colpa, non invece di caso fortuito e forza maggiore. Le azioni sono tipiche dalla locazione (actio ex locato) o dalla conduzione (actio ex conducto). Si tratta di azioni personali di buona fede con una formula fondata sul diritto (actio in personam con formula in ius concepta all’oportere ex fide bona). D. Il contratto consensuale di società (societas) Il contratto consensuale di società (societas) è la rappresentazione giuridica dell’idea dell’unione fa la forza. Anche il contratto di società (come abbiamo visto per la locazione conduzione), nel diritto romano, ha una fisionomia tipica che dimostra una capacità di adattamento molto grande. Le due funzioni economico-sociali più importanti realizzate dalla società romana sono quella di mettere a disposizione i propri patrimoni per durare nel tempo (societas omnium bonorum) oppure quella di mettere a disposizione proprie cose o proprie attività per lo svolgimento di un singolo affare (societas unius negotiationis). Esso ha quindi finalità economiche di vantaggio perseguite dai soci, con il sacrificio di proprie cose o di opere da mettere a disposizione della finalità comune (e quindi da questo punto di vista contratto a titolo oneroso), ma non è contratto dotato di corrispettività delle prestazioni, in quanto semmai le prestazioni a cui i soci si obbligano con l’accordo sono unidirezionalmente orientate verso lo scopo comune che i soci perseguono.

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Con l’accordo di società le parti assumono ciascuno l’obbligazione della messa a disposizione delle proprie cose o della propria opera per il perseguimento dello scopo comune, mentre, salvo specifiche esigenze, l’accordo non produce nessun effetto reale. Ad esempio se la società è per svolgere una attività di trasporto di persone per terra, la parte che si impegna a mettere a disposizione nella società il proprio cavallo non è obbligato a trasferirne la proprietà. Ciò è una conseguenza diretta del fatto che, a differenza del diritto moderno, il contratto di società a Roma antica non si entifica in una realtà diversa dei soci, restando quindi un contratto che produce obbligazioni di buona fede tra gli stessi, ma non assume di regola rilevanza esterna negli affari che ogni socio conclude con i terzi. Da questo punto di vista, ciò non impedisce al contratto di società di dimostrarsi, nell’àmbito delle iniziative imprenditoriali, uno strumento di eccezionale sviluppo economico, tanto da crearsi delle società nelle quali gli affari in comune si specializzano (società di riscossione dei tributi, società di banchieri, società di venditori di schiavi etc.). Proprio nell’àmbito di questo tipo di società, la rilevanza esterna delle stesse per la contrattazione con i terzi sarà sempre più marcata, ingenerando nella comunità nella quale la società operava un ampio affidamento, tale da determinare (come si è visto supra in materia di obbligazioni solidali) il diritto del privato che abbia contratto con il socio, di chiamare in causa un altro dei suoi soci. Sul diverso profilo della mancata maturazione nel diritto romano di un marcato processo di entificazione del contratto di società di persone, pur essendo società non soltanto di gestione, ma anche a volte di ingenti capitali, la dottrina romanistica moderna ha molto discusso. La soluzione più convincente è data dal protagonismo della struttura giuridica della famiglia e del potere del capo famiglia su tutte le persone nella famiglia (potestas), che realizzava una efficacissima struttura unitaria dal punto di vista patrimoniale e che permetteva, in sostanza, di creare patrimoni di rischio attraverso l’utilizzazione del peculio (piccolo patrimonio affidato alla gestione di un figlio o di uno schiavo). Tale contesto giuridico rese sostanzialmente inutile seguire strade diverse per creare giuridicamente patrimoni di rischio separati dai patrimoni personali. Sarà proprio la necessità inversa di risolvere questo tipo di problema al di fuori delle strutture famigliari che, invece, hanno spinto il diritto liberale dell’Ottocento in Europa ad entificare il contratto di società nella forma della «persona giuridica», con patrimoni (di rischio) separati dalle persone fisiche (e quindi dai loro patrimoni personali) dei soci stessi. Soltanto nella società di tutti i beni per il futuro (societas omnium bonorum), la messa a disposizione delle proprie cose nella società produce l’immediato effetto traslativo (c.d. transito legale – transitus legalis) per le cose

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non vincolate all’atto mancipatorio per realizzare il trasferimento di proprietà (res nec mancipi), mentre per quelle che lo necessitavano (res mancipi) la dazione nella società ne trasferisce il possesso in comune tra i soci. Oltre la società di tutti i beni per il futuro, si ricorda anche un’altra società generale, quella relativa a tutti i futuri guadagni (societas omnium quae ex quaestu veniunt). Il contratto consensuale di società in diritto romano realizza un regime giuridico che persegue l’eguaglianza di posizioni dei soci nella società. La prospettiva moderna è, invece, fortemente orientata da una idea di corrispondenza materialistica tra ricchezza conferita nella società e spettanza di quote di utilità dei soci. La concezione romana, nella sua prima rappresentazione nelle fonti, è orientata ad una eguaglianza delle persone nella società e non dei capitali conferiti. Tale regime resta quello tipico se le parti nulla dichiarino in sede di conclusione dell’accordo. Qui si sente l’influenza del modello consortile dell’antico consorzio fra fratelli di conservazione dell’unità della famiglia alla morte del padre (consortium ercto non cito). Il socio che conferisca più cose nella società può però proporre agli altri soci la conclusione di un patto aggiuntivo col quale prevedere una individuazione di quote di vantaggio più grandi. L’ammissibilità di tali patti di individuazione diseguale di ripartizione delle quote di lucro e di danno dei soci, sempre in coerente proporzione con le diverse quote di assegnazione di cose nella società, resta comunque ancorata ad un principio di eguaglianza della percentuale di quota sia nei lucri che nei danni. Soltanto nella società mista di cose ed opere si iniziò ad ammettere che il patto di quota sociale potesse differenziarsi nei lucri e nei danni, attraverso la tesi del giurista tardo-repubblicano Servio Sulpicio Rufo (contro la diversa posizione espressa da Quinto Mucio Scevola). Ciò serviva a favorire la conclusione di società miste di capitali e opere, aprendo il contratto di società anche a persone che non avessero che il proprio lavoro da conferire nella società. Proprio per evitare che il socio d’opera dovesse rispondere delle passività della società (non avendo un patrimonio proprio, ma solo il proprio lavoro), si ammise che si potesse concludere una società nella quale il socio d’opera partecipasse degli utili, ma non delle passività. Limite inderogabile resta, in ogni caso, il c.d. patto di società leonina, nella quale un socio fa appunto la parte del leone (partecipa alle utilità), mentre l’altro partecipa soltanto delle passività sociali. Proprio la natura personale ed il grande affidamento che il contratto di società realizza, pur nella spinta di sua utilizzazione nella realtà mercantile, condizionano il regime della responsabilità per inadempimento del socio, la quale è valutata di regola in chiave di dolo (nella prospettiva romana, il dolum praestare), determinandosi così, in caso di condanna, anche la sua infa-

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mia nella comunità, con una serie di divieti e di impedimenti connessi all’infamità subita. Con l’espansione del contratto alle società miste di cose e di opere, i giuristi romani ritennero che il socio d’opera dovesse garantire la diligenza e la perizia nell’adempimento della propria opera, rispondendo altrimenti per colpa (culpam praestare). Più precisamente, il socio d’opera che non avesse prestato la propria opera nella società con diligenza e perizia fu considerato come inadempiente nel giusto valore del conferimento dell’opera promessa con la conclusione del contratto. In questo caso, la condanna del socio non avrebbe però condotto alla sua infamia. Il caso fortuito e la forza maggiore che producano danni al patrimonio della società o alle attività che si svolgono nella società sono sopportati in comune dai soci. Le azioni sono tipiche per la società con un unico nome, l’azione in favore del socio (actio pro socio). Si tratta di azioni personali di buona fede con una formula fondata sul diritto (actio in personam con formula in ius concepta all’oportere ex fide bona). E. Il contratto consensuale di mandato (mandatum) Altro grande pilastro, insieme ai contratti di compravendita, di locazione e di società, dell’eredità romana in materia contrattuale è il tipo di contratto del mandato (mandatum). Anche in questo caso, come è stato evidente per il contratto di società, è possibile cogliere una prospettiva romana del contratto che si intreccia con la sua conformazione, a mano a mano, sempre più adeguata ad un diritto di tutti gli esseri umani, appunto il mandato di ius gentium. Il mandato è, infatti, un contratto consensuale attraverso il quale il mandante conferisce al mandatario un compito specifico senza prevedere alcun corrispettivo. Il mandato è, infatti, un contratto gratuito, in cui la eventuale previsione di un corrispettivo all’attività richiesta al mandatario dal mandante determinerebbe la fuoriuscita dell’accordo dal tipo di contratto del mandato, per ricadere in quello della locazione conduzione. D’altronde, il nome stesso del contratto evoca un rapporto di affidamento (dare una mano; manum dare) che emerge in rapporti familiari ed amicali. È un favore che si chiede ad un amico di fare qualcosa per nostro conto, gratuitamente. Da ciò discende anche la fisionomia tipica del contratto di mandato in diritto romano. Innanzitutto il contesto di origine spiega la natura consensuale del contratto. È sufficiente l’accordo tra mandante e mandatario per far nascere le obbligazioni di buona fede per le parti. Accettato il mandato, nasce per il mandatario l’obbligazione di buona fede di adempiere al compito indicato dal mandante, a cui si collega strettamente la prestazione di compiere gli atti necessari per riversare gli effetti del-

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l’attività compiuta nel patrimonio del mandante, non essendoci una rilevanza diretta del mandato nei rapporti con i terzi. Il mandatario è obbligato ad attenersi ai c.d. confini del mandato (i fines mandati), adempiendo con particolare diligenza, in quanto deve salvaguardare l’interesse del mandante in base al mandato ricevuto, senza peggiorare le condizioni in quello previste. Se ad esempio il mandatario abbia ricevuto il mandato di acquistare una specifica casa per cento, può comprarla anche a meno, ma non a più. L’obbligazione del mandante è quella di indennizzare il mandatario per eventuali danni subiti e spese sostenute nell’adempimento del mandato ricevuto. La proiezione del mandato nei rapporti tra romani e stranieri, più dinamici dal punto di vista economico, hanno determinato una sua ampia utilizzazione come contratto col quale si dava mandato di concludere affari finanziari o immobiliari, anche di notevole importanza. I giuristi romani hanno sottoposto l’ampia ricorrenza di accordi di mandato ad una verifica di conformità con la funzione economico-sociale propria del contratto. Si è così elaborata la categorizzazione del contratto di mandato in diversi sottotipi a seconda dell’interesse perseguito: mandato nell’interesse del mandante (mea gratia) (ad esempio dare mandato di acquistare per mio conto una casa ad un certo prezzo); mandato nell’interesse del terzo (aliena gratia) (mandato di acquistare per conto di Tizio una casa ad un certo prezzo); mandato nell’interesse del mandante e del terzo (mea et aliena gratia) (mandato di acquistare per nostro conto una casa ad un certo prezzo); mandato nell’interesse del mandante e del mandatario (mea et tua gratia) (mandato di dare a credito ad interesse al mio debitore); mandato nell’interesse del mandatario e del terzo (tua et aliena gratia) (mandato di dare a credito ad interessi ad un terzo). È fuori dai confini tipici del mandato, invece, l’affidamento di una attività nell’interesse del solo ‘mandatario’. In questo caso si tratta semplicemente di consigli, ma non di accordi che meritano l’azionabilità in giudizio (ad esempio se di dica di investire i tuoi soldi più in immobili che nei prestiti). Proprio il contesto di emersione del contratto di mandato spiega il regime della responsabilità per dolo (ed in questo caso con conseguente infamia come per il contratto di società) e per colpa. Il caso fortuito e la forza maggiore sono invece un pericolo del mandante. Le azioni sono tipiche per il mandato con un unico nome, l’azione di mandato (actio mandati), una quella esercitata dal mandante verso il mandatario è quella diretta, mentre quella esercitata dal mandatario verso il mandante è quella contraria. Si tratta di azioni personali di buona fede con una formula fondata sul diritto (actio in personam con formula in ius concepta all’oportere ex fide bona).

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13. AUTONOMIA PATTIZIA E RESISTENZA DEL TIPO Come visto il diritto romano dei contratti è caratterizzato da un forte sistema tipico. Il problema della modificabilità del tipo contrattuale alle istanze delle parti ha assunto nella storia del diritto soluzioni diverse. Una soluzione al problema che possiamo considerare un importante discrimine storico è quella maturata con i Glossatori (scuola giuridica del secolo XII-XII, nata a Bologna con la fondazione della prima Università del mondo), tesa a pesare in modo differenziato la resistenza della struttura tipica del contratto alle istanze di modifica indotte dalle parti contraenti. Con essa si acquisisce una chiave di lettura del problema diretta a distinguere nel contenuto del contratto gli elementi naturali (naturalia), quale àmbito di contenuto ‘naturalmente’ incluso nel contratto e suscettibile di essere modificato da una contraria volontà delle parti, dagli elementi essenziali (essentialia), àmbito di contenuto contrattuale inderogabile e immodificabile dalle parti. La critica più incisiva a detta dottrina è stata espressa dalla Pandettistica nel XIX sec., la quale ha considerato gli elementi naturali del contratto (i c.d. naturalia negotii) come una costruzione estranea al sistema di diritto privato. Essi, infatti, contaminerebbero — nella prospettiva volontaristica del sistema pandettistico — una dicotomia tra determinazioni essenziali e non essenziali del contenuto del negozio giuridico, che invece presupporrebbe in ogni caso la copertura della volontà. La «confusione» tra voluto e non voluto (così Bernard Windscheid [1817-1892]) che la distinzione ereditata dalla tradizione medievale tra elementi essenziali, naturali e accidentali (essentialia, naturalia e accidentalia negotii) realizzerebbe, assume per noi oggi con più nitidezza i contorni di una lettura unilaterale del fenomeno, condizionata dall’occhiale volontaristico e dall’inquadramento forzato della tripartizione nel sistema pandettistico. D’altronde, lo stesso Rudolf von Jhering aveva fatto notare, nella costruzione del Windscheid, lo sforzo di ricondurre il diritto dispositivo alla volontà delle parti, quando tale diritto sarebbe, invece, caratterizzato dalla particolarità di poter essere sempre escluso dalla contraria volontà delle stesse. La critica di Windscheid è il tentativo più energico di liquidare il concetto che nel sistema romano ha colto in chiave di mediazione il rapporto tra tipo contrattuale (e più in generale negoziale) e volontà delle parti, individuando una zona intermedia nel contenuto del contratto di regole normali maturate nella prassi di quel tipo. Con gli elementi naturali del contratto, infatti, è possibile pesare la tipizzabilità di queste esigenze delle parti, rendendole naturalmente effetti del contratto, salvo contraria pattuizione. Nel diritto romano, un forte impulso alla autonomia pattizia delle parti di

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arricchire e modificare i tipi contrattuali esistenti si deve al pretore (magistrato eletto dal popolo romano per esercitare annualmente la giurisdizione), che introdusse nel suo editto una tutela ai patti (editto de pactis). Con esso, però, non deve pensarsi che i romani introdussero il principio generale del consensualismo, come invece nel diritto moderno i codici civili esistenti, ma una indicazione orientata a dare rilevanza alle libere pattuizioni, sempre però da ricondurre al principio di causalità proprio del sistema dei contratti tipici esistenti. La conseguenza, di non poca importanza, fu che le pattuizioni che arricchivano e modificavano contratti tutelati con azioni di buona fede (tutti i contratti consensuali e da una certa epoca in poi, anche il deposito, il comodato e forse il pegno) erano di per sé azionabili nei giudizi relativi. Mentre nei contratti tutelati con azioni di stretto diritto (come il mutuo, i contratti verbali e quelli letterali), essi non erano mai azionabili, ma potevano farsi valere in via di eccezione dal convenuto nel processo (exceptio pacti). Nel sapere dei giuristi romani dell’età preclassica e classica tutto questo fiume di autonomia pattizia che inonda la realtà tipica dei contratti è sempre vagliato con attenzione. Vi è un protagonista sempre presente nel loro modo di valutare la validità dei patti aggiunti al contratto: il protagonista è la struttura tipica del contratto, così come fissatasi nell’esperienza giuridica in un certo momento storico, che si presta, però, a reagire con una certa plasticità alla volontà delle parti. Lo sforzo concettuale di gestione di tale autonomia pattizia non matura costruzioni monistiche, come poi accadrà nella tradizione successiva alla codificazione giustinianea, culminando nella tripartizione dei substantialia, naturalia, accidentalia negotii. Il tipo contrattuale è qualificato come ius, come forma, come natura, senza esprimere una idea di struttura imperitura e immodificabile del contratto, ma al contrario quali termini che esprimono un terreno i cui confini devono essere vagliati e riconsiderati nel tempo. Il dibattito tra i giuristi romani dimostra che essi erano consapevoli del ruolo di mediazione da loro svolto nel tradurre nella trama delle strutture giuridiche le esigenze sociali, negando rilevanza all’occasionale e semplice reiterazione nella prassi di clausole pattizie, ma cimentandosi in una opera di filtro e pulizia concettuale delle regole che vengono incluse nel tipo e poi veicolate dallo stesso. L’opera di affinamento e di adeguamento che con fatica qua e là riemerge dalle fonti fa vedere con sempre maggiore nitidezza lo strato più profondo della struttura del contratto tipico, quello che ne caratterizza la riconoscibilità e la resistenza nel tempo. Si tratta di un complesso meccanismo di sedimentazione dei contenuti tipici del contratto, un instancabile lavorio che ha disegnato il tipo fino a renderlo di per sé un valore di giustizia. Ecco perché è importantissima l’eredità, ancora visibile in tutti i

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codici civili del mondo della trama dei contratti tipici, con il loro regime inderogabile e quello invece disponibile. Esemplare al riguardo quanto il giurista Ulpiano, commentando l’azione da compera (actio ex empto), descrive in chiave di raffigurazione tipica del contratto di compravendita quale contenuto naturalmente insito nella potestà di questo giudizio (D. 19.1.11.1). Il modello di valori che la nostra tradizione civilistica fondata sul diritto romano incontra nei tipi contrattuali, con le loro sfere di contenuto inderogabile e di contenuto naturale, ora per lo più cristallizzati nelle codificazioni nazionali, ma, forse cosa ancora più interessante, la consapevolezza del ruolo e dell’importanza dei giuristi nel processo di tipizzazione per costruire il vero valore del contratto, mi sembra siano da segnalare in un momento storico nel quale il contratto sembra assurgere sempre di più, nei rapporti sovrannazionali di diritto privato, al rango di autonoma fonte di produzione del diritto.

14. CONTRACTUS E CONTRATTO: NOZIONE E STORIA Nei diritti odierni del contratto si accentua la natura di accordo tra due o più persone attraverso il quale nasce, si modifica o si estingue tra loro un rapporto giuridico di natura patrimoniale. Valga al riguardo la definizione ora presente nell’art. 1321 del Codice civile italiano del 1942. Il significato molto ampio di contratto che oggi è prevalente è il risultato di una lunga storia, la quale ha il suo inizio in un dibattito tra i giuristi romani in materia che, anche da prospettive molto diverse dalle nostre, ne ha segnato le direttive principali. Sebbene, infatti, come si è visto nei paragrafi precedenti, il sistema romano dei contratti è fondato su un forte principio di tipicità. Non tanto, quindi, una idea generale di contratto, quanto regimi giuridici caratterizzati dai diversi tipi di contratto costruiti dai giuristi come vestiti sartoriali intorno alle concrete funzioni economico-sociali che essi perseguivano nel commercio. Sempre i giuristi romani, guardando a questa ampia griglia di contratti tipici, hanno cercato di enucleare una nozione più generale del contratto, non soltanto per cogliere più nel profondo la realtà contrattuale, ma anche, come era per loro consueto, al fine di gestire un problema concreto che emergeva nella prassi del commercio dell’impero, quello della varietà degli accordi e della loro sempre maggiore complessità, dato lo svilupparsi nell’area del Mediterraneo, di una vera e propria economia sovranazionale e dinamica. A fronte di accordi non rientranti nei contratti tipici esistenti o di non facile attrazione in essi, emergeva quello che con terminologia moderna qualificheremmo il problema dei contratti c.d. atipici, e che i giuristi preposti alla co-

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dificazione del diritto romano, in età giustinianea, chiameranno i contratti senza nome, anonimi, c.d. innominati (anonymata synallagmata). Per sciogliere questi dubbi e risolvere questo tipo di problemi, l’individuazione di una categoria di contratto enucleata dalla realtà dei contratti tipici era funzionale proprio a permettere una tutela contrattuale, cioè attraverso il riconoscimento da tali accordi della nascita di una o più obbligazioni, tutelabili con azione in personam, cioè diretta nei confronti della controparte per chiedere l’adempimento dell’obbligazione nata dall’accordo atipico. In sostanza un efficacissimo strumento di gestione della prassi del commercio di cose e servizi, valorizzando l’esperienza secolare dei contratti tipici esistenti e i suoi principi di giustizia. La parola contratto è un calco dal latino contractus, dal verbo contrahere (da cum trahere e non contra agere), ed esprime l’idea di una cultura nella quale ‘contrarre’ nel significato di ‘portare/trarre insieme’ non significa soltanto riduzione di posizione separate e diverse in unità, ma anche creazione di una nuova realtà. Gli esempi nel mondo agricolo, a cui la cultura romana fa spesso riferimento nella creazione della terminologia giuridica, sono tanti: contrarre gli acini dell’uva per produrre vino; impastare farina ed acqua per la focaccia. Nel diritto questa idea è chiaramente espressa nell’operare del giurista tardo-repubblicano Quinto Mucio Scevola (II-I sec. a.C.): «Come ogni cosa è stata contratta (quidque contractum est), così deve anche essere sciolta. Di conseguenza quando avremo contratto con la consegna, deve sciogliersi con la consegna come ad esempio quando abbiamo dato a mutuo, di conseguenza deve restituirsi la stessa quantità di denaro. E quando abbiamo contratto qualcosa con le parole solenni, l’obbligazione deve sciogliersi sia con la consegna che con le parole solenni; con le parole ad esempio quando si dichiari di aver ricevuto dal promittente, con la consegna, ad esempio, quando si pagò quanto promesso. Egualmente, quando è stato contratta una compera o una vendita o una locazione, poiché può contrarsi col consenso nudo, anche per contrario dissenso può sciogliersi.» [frammento tratto da Pomponio nel libro quarto di commento a Quinto Mucio e inserito dai codificatori giustinianei in D. 46.3.80]. Reputo che la prospettiva che il giurista repubblicano pone alla base del suo parere, quella del prout quidque contractum est, ita et solvi debet, centrata quindi sull’idea che si scioglie come si contrae, è propria di una regola di simmetria che ha qui la particolare funzione di realizzare una giustificazione di sistema riguardo ad atti estintivi delle obbligazioni.

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Quinto Mucio Scevola ricorda due delle quattro categorie delle obbligazioni contratte ricordate poi da Gaio nelle sue Istituzioni, quelle delle obbligazioni contratte con la consegna (re contrahere) e quelle delle obbligazioni contratte con parole solenni (verbis contrahere), alle quali può aggiungersi un probabile richiamo anche a quelle contratte con la scrittura (litteris), caduto nell’inclusione del testo nel Digesto dell’Imperatore Giustiniano. Manca, invece, una costruzione generale (simile a quella che Gaio ricorda) delle obbligazioni nate da contratto, prevalendo una prospettiva nella quale l’organizzazione è intorno ad ipotesi tipiche di ‘obbligazioni contratte’ in base al profilo genetico. La prospettiva della simmetria tra forme dello ‘sciogliere’ e forme del ‘contrarre’ è indicativa di un modo di ragionare che organizza in base al momento genetico alcune figure tipiche di contratti dell’esperienza e della tradizione più antica. Ciò significa, in sostanza, che in Quinto Mucio una tale trama concettuale, sebbene non assuma un valore sistematico esaustivo, non esaurendo al suo interno tutte le forma di obbligazioni contratte, è ben chiara e radicata, tanto da essere perfettamente funzionale, sul piano dell’empiria del responso, al problema che intendeva risolvere. La riflessione dimostra comunque una forte capacità di penetrazione della realtà dei tipi contrattuali, come si vede bene nella parte finale della testimonianza sulla compravendita e sulla locazione. In essa il giurista tardorepubblicano esprime una lettura profonda della realtà delle compravendite e delle locazioni-conduzioni, sebbene non abbia ancora maturato il genere delle obbligazioni contratte col semplice consenso (c.d. contratti consensuali). Quanto è sotteso alla operazione interpretativa del giurista repubblicano è, quindi, la prima categorizzazione delle compravendite e delle locazioni conduzioni secondo un principio, quello consensualistico, che viene ritenuto dalla giurisprudenza romana del II sec. a.C. il principio che meglio risponde alle esigenze economico-sociali che tali contratti servivano a soddisfare, tra persone di etnia, cittadinanza, religione, lingua e cultura diverse. Rispetto agli affari che nel corso del III-II sec. a.C. vengono conclusi nella prassi commerciale nel Mediterraneo, i Romani, per la prima volta nella storia giuridica, si orientano a darne rilevanza quali ‘accordi’ frutto del nudo consenso e produttivi di obbligazioni da considerare sempre come innervate nel principio di buona fede (ex fide bona), quindi un principio di lealtà e correttezza diretto a guidare i comportamenti delle parti contraenti e a potenziare i contenuti delle obbligazioni nate dal contratto in chiave di giustizia, come si è visto ad esempio rispetto all’arricchimento del contenuto della compravendita con il riconoscimento attraverso il principio di buona fede delle garanzie per i vizi della cosa venduta o per l’eventuale evizione della stessa quali prestazioni naturalmente incluse nell’obbligazioni del venditore.

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Tale selezione è realizzata valorizzando l’accordo idoneo a costruire una struttura corrispettiva omologa (due obbligazioni di buona fede contrapposte, espresse in termini di oportere ex fide bona nelle formule delle azioni contrattuali), struttura che Labeone, con una straordinaria lettura innovativa, qualificherà in età augustea in modo unitario, quale singola obbligazione dotata di una struttura di reciprocità. È Ulpiano (giurista dell’età dei Severi fine II e inizio III secolo d.C.) che ce lo ricorda: «Labeone nel primo libro della sua opera del pretore urbano delimita cosa sia ‘agire’, cosa sia ‘gerire’ e cosa sia ‘contrarre’. Ed ‘atto’ sarebbe un termine generale, indicante quanto di compie con le parole e con i comportamenti concludenti, come nella stipulazione solenne o nel prestito di denaro. ‘Contratto’, invece, è obbligazione per l’una e l’altra parte, quanto i greci chiamano ‘sinallagma’, quale la compravendita, la locazione conduzione, la società. ‘Gesto’ significherebbe la cosa compiuta senza pronuncia di parole.» [frammento tratto da Ulpiano nel libro undicesimo di commento all’editto, ed inserito dai codificatori giustinianei in D. 50.16.19]. La costruzione del giurista Labeone del contratto è dotata di grande raffinatezza concettuale. Essa è molto più circoscritta del modello contemporaneo, dove il contratto – come visto – è prioritariamente l’accordo (si vd. art. 1321 del cod. civ. it.), e collega al fondamento consensuale di questi contratti una struttura giuridica di giustizia, cioè la reciprocità dell’impegno assunto volontariamente dalle parti contraenti e relativo ad un sacrificio patrimoniale. Gli esempi della compravendita, della locazione-conduzione e della società non esauriscono il quadro, ma ne sono gli esempi migliori. La costruzione labeoniana di contratto come sinnallagma potrebbe aver avuto anche una funzione di gestione dell’atipicità, imponendosi, invece, agli ‘atti’ produttivi di una sola obbligazione, l’unica strada della loro necessaria attrazione in una delle figure tipiche esistenti. Va sottolineato che la costruzione labeoniana è caratterizzata da una prospettiva monistica dell’obbligazione (si veda la costruzione in accusativo singolare «obligationem»), per esprimere un rapporto complesso che sul piano delle formule di azioni concesse alle parti esprimeva la doverosità in chiave di oportere ex fide bona contrapposti. Reciprocità ed eguaglianza dei sacrifici sul piano dell’accordo assunto dalle parti rendono il contratto il punto di equilibrio voluto dai contraenti, nel quale al consenso deformalizzato si aggancia una obbligazione caratterizzata da una struttura bilaterale oggettiva di reciprocità (e non di unilaterali-

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tà) quale costruita e voluta dalle stesse, aperta in chiave di ampia prestazione del debitore (quidquid dare facere) e fondata su di un principio di lealtà e correttezza, quale quello della buona fede. La costruzione di Labeone ingloba nella struttura giuridica di reciprocità (ultro citroque obligationem, quam Graeci ‘synàllagma’ vocant), quale schema di eguaglianza e giustizia, il principio di lealtà e correttezza espresso dalla buona fede, quasi che esso sia implicito nella struttura bilateralmente oggettiva così realizzata in termini di obbligazione. Ciò forse illumina anche l’apertura parziale verso la gestione della atipicità contrattuale in termini di individuazione di accordi che producessero una tale struttura di giustizia e quindi, ex se, di meritevolezza di tutela. Sempre Ulpiano ricorda una diversa costruzione di contratto, rispetto a quella elaborata da Labeone, nel famoso dibattito tra Aristone e Mauriciano da un lato e Giuliano dall’altro, in materia di c.d. contratti innominati. «Ma se l’assetto d’interessi non si trasformi in un contratto tipico e vi sottenda una causa, elegantemente Aristone rispose a Celso esservi un’obbligazione: come ad esempio se ti diedi una cosa perché tu me ne dessi un’altra, o ti diedi una cosa perché tu facessi qualcosa, ciò sarebbe un ‘sinallagma’ e per questo nascerebbe l’obbligazione civile. Perciò reputo che correttamente Giuliano sia stato criticato da Mauriciano su questo: se io ti diedi Stico perché tu liberassi Panfilo e tu lo hai liberato e di Stico tu subisca l’evizione, Giuliano scrive che dal pretore deve essere data a tuo favore un’azione modellata sul fatto, mentre quello (cioè Mauriciano) afferma essere sufficiente un’azione civile di prestazione ampia, cioè con parole prescritte alla formula: infatti, vi sarebbe un contratto, ciò che Aristone chiama sinallagma, dal quale nasce questo tipo di azione.» [frammento tratto da Ulpiano nel libro quarto di commento all’editto, ed inserito dai codificatori giustinianei in D. 2.14.7.2]. Ulpiano nell’introdurre il responso che Aristone dà a Celso parla soltanto di obbligazione, mentre Aristone parla specificatamente di obbligazione civile e quindi tecnicamente, come abbiamo già visto, di una formula di azione nella quale l’obbligazione del debitore si qualificasse in termini di oportere. Aristone collegava, quindi, alla dazione effettuata da una parte in conseguenza di un accordo di scambio di prestazioni di dare o di un dato per un futuro fare, non rientrante nei tipi esistenti (dedi tibi rem ut aliam dares oppure dedi ut aliquid facias), una vera obbligazione civile. Si deve al riguardo ritenere che la traduzione formulare della costruzione doveva prevedere la sicura presenza dell’oportere (meno sicura, invece, data la unilateralità dell’obbligazione ex latere accipientis la ricorrenza della buona fede). Ciò è con-

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fermato dalla critica di Mauriciano a Giuliano, che sul piano processuale traduce tale riconoscimento in termini di azione civile di incerta prestazione (actio civilis incerti). La formulazione sta ad indicare tecnicamente – e con una proprietà terminologica sbalorditiva, in base a quanto sappiamo del processo formulare – una formula in ius concepta la cui intentio iuris civilis (Gai Inst. 4.45) avente ad oggetto un incertum, cioè prestazioni di dare e fare insieme. È ipotizzabile una pretesa formulare dal seguente tenore: quidquid dare facere oportet. La qualifica civile dell’obbligazione da parte di Aristone è altamente significativa ed espressiva in chiave di obbligazione alla sua corrispondenza col mezzo processuale di un’azione civile in Mauriciano. Tale coerenza, se letta in rapporto alla contrapposta posizione di Giuliano (criticata da Mauriciano), che invece riteneva in questa fattispecie necessaria la dazione da parte del pretore di un’azione fondata sul fatto e non sul diritto (actio in factum), assume un suo preciso significato. L’azione è qui da intendersi, nel contesto storico di Giuliano, come azione non compresa nell’elenco delle azioni da lui codificato (su ordine dell’imperatore Adriano) nell’editto del pretore. L’enfasi data da Aristone alla nascita non semplicemente di un’obbligazione, ma proprio di un’obbligazione civile (hinc nasci civilem obligationem), segna il colpo d’ali che la costruzione aristoniana rappresenta sul piano delle situazioni negoziali e contrattuali tutelate, superando il rigido meccanismo della sola azione di ripetizione (condictio) del dato qualora la controparte non rispetti la parola data nell’accordo e non adempia alla sua controprestazione. La tutela cioè non è più soltanto una tutela dell’ingiusto arricchimento di chi non rispetti l’accordo sullo scambio di prestazioni, ma tutela in chiave azione per l’adempimento dell’obbligazione alla prestazione della parte che aveva già ricevuto la controprestazione. Sul piano dell’idea del ‘contratto’, la struttura di giustizia evocata dalla ‘reciprocità’ (anche qui espressa con la parola greca synallagma, da cui il calco italiano sinallagma) non è eguale a quella sopra vista di Labeone. In Aristone il sinallagma non è qualificato contratto, ma è struttura autonoma, che se voluta dalle parti, avrebbe l’eccezionale capacità di permettere la tutela in via di azione per l’adempimento, anche al di fuori dei contratti tipici esistenti, quale convenzione sinallagmatica atipica. Si deve, invece, a Mauriciano la conclusione che anch’essa sarebbe identificativa dell’idea stessa di contratto. I giuristi romani, che pur hanno elaborato in chiave profonda la realtà contrattuale, non hanno mai disconosciuto l’elemento convenzionale come presupposto di tale realtà, sebbene poi esso non caratterizzasse di per sé solo la categoria del contratto. Ciò è evidente sia nella nozione di consenso in Quinto Mucio Scevola, sia nei tipi attratti nel contratto in Labeone (compra-

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vendita, locazione conduzione e società) tutti contratti consensuali, sia, infine, nella dottrina del sinallagma in Aristone, la quale, pur non attratta nel contratto (lo farà come detto Mauriciano), matura nell’àmbito delle convenzioni di ius gentium che non dànno vita ad uno dei contratti consensuali tipici. L’idea consensualistica implicita nella lettura delle fonti richiamate trova una sua esplicita corrispondenza nel pensiero di Sesto Pedio, secondo quanto ricorda Ulpiano nel suo commentario all’editto sui patti. «‘Convenzione’ è parola con valore generale, essendo pertinente a tutte le cose sulle quali esprimono il consenso coloro che tra loro compiono atti per contrarre o transigere un affare. Infatti, come sono detti convenire coloro che da diversi luoghi vengono e s’incontrano in un sol luogo, così allo stesso modo coloro che mossi da intenti diversi consentano su una stessa cosa, cioè giungano ad una sola decisione. A tal punto, d’altronde, la parola ‘convenzione’ ha portata generale, che come dice Pedio con elegante proprietà di linguaggio, non esiste contratto, né obbligazione contrattuale, che non contenga in sé una convenzione, sia pur perfezionato con la consegna della cosa, sia con la pronuncia di parole solenni. Infatti, anche la stipulazione, la quale promessa è compiuta con la pronuncia di parole solenni, se non ha il consenso, è nulla.» [frammento tratto da Ulpiano nel libro quarto di commento all’editto, ed inserito dai codificatori giustinianei in D. 2.14.1.3]. Sesto Pedio enfatizza l’accordo come elemento indefettibile ed inderogabile di ogni contratto, pur se non esclusivo, potendosi così accompagnare ad altri elementi tesi a caratterizzare la categoria contrattuale. Il giurista è in linea più con una prospettiva che parta dalla griglia concettuale del sistema dei tipi contrattuali, alla quale dona però una raffinata chiave unificante di lettura, quella proprio del consensualismo come caratteristica fondante di tutti i contratti, quali forme espressive di libertà umana. L’interpretazione di Ulpiano, che inanella in un continuo Pedio, Aristone, Celso, Giuliano, Mauriciano e Papiniano, all’interno del commento all’editto, rappresenta un modello di espansione del valore del consensualismo, all’interno, però, di un limite che egli stesso considera inderogabile e che è metro di verifica di tutte le dottrine richiamate, quello secondo cui la nuda convenzione non genera azione (ex nudo pacto actio non oritur), segnando così la netta distanza con l’ultima apertura che al contrario nel giusnaturalismo dei secoli XVII e XVIII verrà realizzata, attraendo definitivamente il paradigma del contratto nell’accordo e segnando il nostro modo attuale di vedere le cose. La codificazione giustinianea è pienamente rappresentativa della ricchez-

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za e complessità delle dottrine romane sul punto, ricchezza di posizioni dogmatiche differenziate sconosciuta ai codici civili moderni, non sacrificando sul piano della unicità della disciplina giuridica una trama caratterizzata dalla non unicità dei diversi modelli sopra visti. Da un lato cioè si conserva il sistema della tipicità contrattuale, eredità essenziale del sistema romano, dall’altro lato, attraverso il lungo stralcio dell’opera ulpianea di commento all’editto, si valorizza il filone consensualistico, infine, si affiancano i modelli contrattuali di giustizia, rappresentati dalla reciprocità, nelle due diverse letture di Aristone e Labeone. Proprio la scelta di inserire nel titolo del Digesto di Giustiniano (D. 50.16) «sul significato delle parole» la definizione labeoniana di contratto quale obbligazione reciproca, segna la storia di un dibattito che assumerà fino all’umanesimo (XVI sec.) i toni di una consapevole contrapposizione concettuale, quella tra accordo e sinallagma, tra libertà e giustizia, incidente sulla stessa percezione profonda del contratto, dibattito nel quale poi prevarrà, nei modelli di codice civile, quello consensualistico dell’accordo a scapito di quello della reciprocità evocato dalla struttura sinallagmatica.

15. LE OBBLIGAZIONI QUASI DA CONTRATTO A. Gestione di affari altrui (negotiorum gestio) La gestione di affari altrui non è un contratto in quanto le parti non si sono accordate perché uno gestisca gli affari dell’altro. Di solito, l’interessato è assente quando inizia la gestione. Non è nemmeno un delitto, in quanto è un atto di solidarietà quella di iniziare a gestire gli affari dell’assente per salvaguardare i suoi interessi. L’esempio classico è quello di chi, vedendo acqua uscire dall’appartamento del vicino e sapendo che quest’ultimo è in vacanza, decide di chiamare l’idraulico e far riparare la perdita. Da tale gestione nasce un’obbligazione dell’assente a rifondere al gestore tutte le spese e i danni subiti per aver assunto la gestione dei suoi affari. Nelle Istituzioni imperiali, come abbiamo visto nel paragrafo sulle fonti delle obbligazioni, si tratta di una obbligazione che nasce quasi da contratto, nel senso che pur non essendovi alcun accordo delle parti al riguardo, il tipo di regime nel quale l’obbligazione nata ricade è quello delle obbligazioni contrattuali e non delittuali. La condotta autonoma del gestore, spontaneamente assunta, deve esserlo guardando all’interesse del gerito, cosa che è verificata ex post in termini di sua utilità iniziale per il gerito (c.d. utiliter coeptum). Il gestore, prima di decidersi di intervenire a favore del gerito assente, non è obbligato minimamente a farlo. Una volta, però, che abbia deciso di intervenire (ad esempio

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entrare nella casa del vicino, accorgendosi che la perdita d’acqua è dovuta ad un problema è ben più grande di quel che pensava) è obbligato a continuare la gestione nell’interesse dell’assente. Di qui importante il momento di individuazione dell’inizio della gestione utile, perché è da questo momento che nasce per il gerito la sua obbligazione a rifondere le spese ed indennizzare i danni al gestore e nasce per il gestore stesso l’obbligazione di adempiere alla gestione secondo diligenza e correttezza. Il gestore deve attenersi alla diligenza nella gestione degli affari altrui. Non risponde, al di fuori della negligenza, né del risultato positivo della gestione (mentre ne è valutata – come detto – l’utilità iniziale), né dei casi fortuiti sopravvenuti. L’azione a tutela è in origine un’azione personale pretoria con formula fondata sul fatto che l’attore abbia gerito gli affari altrui (actio negotiorum gestorum, quale actio in personam, con formula in factum concepta). Quella che il gerito può esercitare contro il gestore è eguale, ma contraria. In un secondo momento verranno introdotte anche azioni personali con formula fondata sul diritto e di buona fede. B. Tutela Tra tutore e pupillo nascono obbligazioni di buona fede, sia per la corretta gestione del patrimonio del secondo da parte del primo, sia per il rimborso delle spese e dei danni subiti dal tutore nella gestione. Anche in questo caso, le obbligazioni non nascono da contratto, in quanto non intercorre nessun accordo tra tutore e pupillo, né tantomeno un delitto, in quanto la tutela è anzi un dovere particolarmente oneroso per il tutore nominato. Nelle istituzioni imperiali si qualificano quasi da contratto. Le azioni a tutela sono azioni personali con formula fondata sul diritto e di buona fede. Si rinvia per il regime dell’istituto alla parte sulle persone. C. Legati ad effetti obbligatori Tra erede e legatario non intercorre alcun accordo e quindi le obbligazioni nate dal legato ad effetti obbligatori (legatum per damnationem e sinendi modo) lasciato nel testamento non sono da contratto, né tanto meno da delitto. Nelle istituzioni imperiali si qualificano quasi da contratto. Si rinvia per il regime dell’istituto alla parte sulle successioni. D. Pagamento dell’indebito Qualora una persona convinta di avere un debito che in realtà non aveva (c.d. indebito oggettivo), lo paghi, oppure lo aveva ma non con la persona a cui paga (c.d. indebito soggettivo). In questo caso, non vi è alcun contratto

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tra le parti, né il dante causa commette alcun delitto. Le Istituzioni imperiali includono questo caso nelle obbligazioni quasi da contratto. L’obbligazione nasce dalla datio della somma indebita, attraendosi così nelle obbligazioni nate dalla consegna della cosa, sebbene appunto in assenza di un contratto. L’azione a tutela è l’azione di ripetizione di stretto diritto per la restituzione della somma indebitamente pagata (condictio).

16. ESTINZIONE DELLE OBBLIGAZIONI La funzione naturale dell’obbligazione è quella di essere adempiuta dal debitore. Con l’adempimento conforme all’obbligazione assunta, l’interesse del creditore è soddisfatto e il debitore si scioglie dal vincolo assunto. L’adempimento è, cioè, la via maestra per l’estinzione delle obbligazioni. Alla necessità di accompagnare di forme coerenti all’assunzione del vincolo era orientato il diritto romano più antico, che richiedeva per le obbligazioni date con la pronuncia di parole solenni, la necessità di accompagnare al pagamento della somma dovuta una dichiarazione solenne del creditore che affermava di aver ricevuto la stessa. D’altronde, ciò era coerente alle solennità anche che accompagnavano lo scioglimento della posizione assunta col nexum in termini di liberazione col gesto del bronzo e della bilancia (nexi liberatio quale solutio per aes et libram). Ben presto, però, dal III-II secolo a.C. l’estinzione per adempimento viene sempre più costruita sull’adempimento sostanziale della obbligazione, determinando per gli atti formali di estinzione un uso in funzione di remissione del debito camuffata nella dichiarazione solenne di ricevimento della somma dovuta. Il termine latino di riferimento restò comunque quello di pagamento (solutio), sebbene oramai si caricava di un significato più ampio, quello appunto di adempimento. In caso di inadempimento, l’obbligazione non si estingue, ma si apre una nuova vita per essa in chiave di c.d. responsabilità del debitore. Il diritto moderno tende, invece, a considerare estinta l’obbligazione e nata la responsabilità del debitore. In sostanza, il diritto attuale tende a proiettare i profili di riconoscimento della responsabilità contrattuale (più correttamente responsabilità per inadempimento delle obbligazioni), i c.d. criteri di responsabilità, quali il dolo e la colpa, come esterni all’obbligazione e successivi all’inadempimento della stessa. Al contrario, nel diritto romano, i giuristi enucleano una prestazione di garanzia in termini di praestare contenuta nell’obbligazione nata dal contratto, parlandosi al riguardo di dolum, culpam, diligentiam praestare, e fissando-

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si, dalla giurisprudenza imperiale dal I sec. d.C. il limite inderogabile di giustizia dell’evento causato da forza maggiore e caso fortuito, di cui il contraente non deve mai rispondere [«dei casi non risponde nessuno»; casus a nullo praestantur dice Ulpiano nel libro ventinovesimo di commento a Masurio Sabino inserito dai giustinianei nel libro sulle diverse regole giuridiche dei Digesti 50.17.23]. L’immagine è diversa: mentre per i diritti odierni le conseguenze del fatto oggettivo dell’inadempimento non sono proiettate più sull’obbligazione, ma aprono alla responsabilità del contraente per inadempimento della obbligazione, il diritto romano attrae nel contenuto dell’obbligazione, quale prestazione oggettiva di garanzia e responsabilità, i comportamenti dei contraenti ai quali si può ricondurre il mancato adempimento. L’immagine romana, se la si guarda dal punto di vista della estinzione dell’obbligazione, è molto più concreta e realistica. Altri modi di estinzione dell’obbligazione sono la dazione di cosa diversa da quella dovuta, qualora il creditore sia d’accordo (c.d. aliud pro alio). Diversa ipotesi, ma con una idea comune di fondo, è l’estinzione dell’obbligazione nel caso in cui il creditore, per il concorso di una causa diversa, acquista la cosa di specie dovuta (c.d. concursus causarum). La remissione del debito, per volontà del creditore, ha fini di solidarietà. A tale scopo potevano essere utili la solutio per aes et libram come immaginario pagamento, la acceptilatio, quale dichiarazione solenne non vera di aver ricevuto la somma dovuta, la pattuizione in cui il creditore rinunciava ad agire contro il debitore per il debito (pactum de non petendo). La transazione era invece la ragione, per estinguere una lite in corso, che muoveva le parti a pattuire attribuzioni e rinunce e tra queste anche a non pretendere debiti esistenti tra loro. Col mutuo dissenso (contrarius consensus) le parti estinguevano le obbligazioni nate dai contratti consensuali fino a che una delle prestazioni non fosse stata eseguita (re adhuc integra). La morte non comporta di regola l’estinzione delle obbligazioni da contratto (e da quasi contratto), mentre estingue quelle da delitto (e da quasi delitto). La novazione è in realtà il rinnovamento dell’obbligazione esistente, con una soluzione di continuità tra le due obbligazioni, così la prima si estingue e nasce la seconda. Il contratto per realizzare questo scopo era di solito il contratto verbale di stipulazione ed era necessario che essa avesse qualche elemento di novità rispetto all’obbligazione estinta. Ad esempio se l’obbligazione era sorta da compravendita e si nova in obbligazione contratta con parole solenni (novazione oggettiva), oppure se era tra Tizio e Caio e si rinnova tra Sempronio e Caio (novazione soggettiva).

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Una particolare applicazione, con ampio ricorso nella pratica, venne proposta dal giurista Aquilio Gallo, che utilizzando la promessa solenne di stipulazione (c.d. stipulatio Aquiliana), ne fece uno strumento poderoso di razionalizzazione unitaria dei debiti di una persona nei confronti di un’altra, novando tutti i precedenti rapporti in una sola obbligazione nata dalla promessa onnicomprensiva. Nella delegazione soggettiva lo strumento principale è la delegazione che il creditore fa al debitore di riassumere l’obbligazione a favore di una altra persona (delegazione attiva a promettere), oppure che il debitore fa ad un terzo di riassumere la sua stessa obbligazione a favore del creditore (delegazione passiva a promettere o espromissione). Anche la litis contestatio (vd. al riguardo il capitolo sul processo civile) estingue l’obbligazione, facendo nascere la soggezione del convenuto debitore alla futura sentenza del giudice (sia questa di assoluzione o di condanna). Dopo la condanna nasce, infine, l’obbligazione di rispettare il giudicato. La compensazione estingue l’entità delle prestazioni pecuniarie che reciprocamente due persone hanno uno nei confronti dell’altra, quali debitori e creditori contemporaneamente. Se ad esempio Caio abbia un debito di cento nei confronti di Tizio, e Tizio contemporaneamente un debito di cinquanta nei confronti di Caio, quest’ultimo debito si estingue totalmente ed il primo si estingue della metà. Il diritto romano conosce la compensazione giudiziale (cioè rilevata dal giudice ed attuata con la sentenza), soprattutto nell’ambito delle azioni di buona fede e nei debiti contratti con i banchieri (argentarii). Nella codificazione dell’imperatore Giustiniano, la compensazione si generalizza, a fronte della verifica della natura di esatta determinazione o accertabilità dei debiti compensati, con effetto immediato (ipso iure) (C.I. 4.31.14 dell’anno 531 d.C.). Per confusione si estingue l’obbligazione quando la persona del creditore e del debitore, per un fatto sopravvenuto, vengono a coincidere, si confondono appunto. Ad esempio se il debitore alla morte del creditore diviene suo erede.

CAPITOLO SETTIMO

I MUTEVOLI E TALORA INCERTI CONFINI DEL DIVIETO Illeciti pubblici (crimina) e illeciti privati (delicta) ** Massimo Miglietta «Avendo “Servio Tullio” separato le cause pubbliche da quelle private, emanava personalmente sentenze per gli illeciti attinenti all’interesse pubblico, mentre per gli altri illeciti […] dispose che vi fossero giudici privati, stabilendo per costoro come limiti e norme le leggi che egli stesso aveva redatto» (Dion., Ant. rom. 4.25.2)

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Le norme del diritto criminale nella Legge delle XII Tavole. – 3. Cenni intorno ai crimini nel prosieguo della storia giuridica di Roma antica. La previsione di illeciti legata ad esigenze per lo più ‘politiche’. – 4.1. I ‘delitti’, nella variazione tra illecito privato e illecito pubblico. Il danno ingiusto. – 4.2. I capi quarto e quinto della legge Aquilia e i cosiddetti requisiti delle azioni penali. – 4.3. La corruzione ‘morale’ dello schiavo altrui. – 5. Il furto. – 6. Le lesioni fisiche e morali. – 7. Conclusioni. *

Una immediata precisazione è senz’altro opportuna. In questo (peraltro breve) capitolo non s’intende illustrare dettagliatamente e compiutamente l’intera panoramica degli istituti di diritto penale e di diritto criminale (sostanziale e processuale) all’interno dell’ordinamento giuridico romano – soprattutto considerando l’amplissimo arco temporale nel quale quest’ultimo si è dispiegato. Esso si è esteso, infatti, dalle origini (VIII sec. a.C.) o, quantomeno, dall’epoca della emanazione della Legge delle XII Tavole (convenzionalmente fissata alla metà del V secolo a.C.) all’anno della morte di Giustiniano (565 d.C.). Senza considerare che, in realtà, l’impero bizantino – con il suo specifico diritto – è proseguito ben oltre, e fino al 1453 d.C. (in realtà fino alle soglie del XX secolo, in Grecia), anno che segna la caduta della ‘seconda Roma’, ossia Costantinopoli, ad opera del sultano Maometto II. Intenzione è, per contro, quella di fornire informazioni tali da rendere consapevoli della mutevolezza (e non sempre ‘certezza’) di un sistema penale, a qualsiasi epoca esso possa appartenere. E alcune ripetizioni di concetti fondamentali si iscrivono precisamente in quest’ottica informativa. Ma si rimanda, per ulteriori specificazioni, al § conclusivo. Da ultimo, si precisa che per la traduzione dei testi latini e greci ci si è serviti (in genere e salvo quando si è preferito offrirne direttamente una originale), di versioni accreditate: in questo caso è stato indicato il nome del traduttore.

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1. INTRODUZIONE Lo studente in Giurisprudenza, ancora prima dell’inizio della carriera universitaria, ha conoscenza intuitiva del concetto di ‘diritto penale’, vuoi per qualche nozione diretta della materia (acquisita, per esempio, nel corso degli studi presso le scuole secondarie), vuoi invece più abitualmente per le informazioni – spesso distorte – che giungono dai media e dalla cosiddetta ‘cronaca nera’. Del resto anche il comune cittadino (il cosiddetto – chissà poi perché? – ‘uomo della strada’) avverte la presenza dell’ordinamento giuridico soprattutto per l’incombere del ‘diritto penale’. Più raramente per quello del ‘diritto civile’ o del ‘diritto amministrativo’ o di altre branche del diritto, a cui pure è quotidianamente soggetto (e, sperabilmente, con assai maggiore frequenza rispetto alle norme incriminatrici). Se, infatti, egli non è immediatamente consapevole che, ad esempio, acquistare una rivista illustrata, o consumare la colazione ad un punto di ristoro, ponga in essere un ‘contratto’ (ex artt. 1321 e ss. cod. civ.), certamente ha coscienza (‘sa’) che uccidere un essere umano (così come rubare – sebbene oggigiorno la disonestà sia mediamente avvertita in maniera meno grave rispetto all’omicidio) è atto in sé malvagio, e che non passerà probabilmente indenne dalla reazione dello Stato. Non fosse altro che per (vago) ricordo del Decalogo studiato agli incontri di catechismo, o di formazione di altre religioni, e che comunque gli sono serviti per trasmettergli i concetti di ‘ingiustizia’ morale (e, quindi, talora anche giuridica), di ‘divieto’ e di ‘pena’ (sanzione). Del resto la sottrazione della vita altrui, o di cose appartenenti al suo patrimonio, coinvolge la sfera ancestrale della nostra percezione immediata di sicurezza personale. Si tratta, prima di ogni altra considerazione, di questioni legate all’antropologia (e a quella giuridica, in specie), che superano, in parte, i confini di questa esposizione. Approssimativamente, il comune cittadino è conscio del fatto che, con l’espressione ‘diritto penale’, si fa riferimento – in primo luogo – alla reazione che lo Stato esprime di fronte al compimento di comportamenti proibiti per ragioni giuridiche, etiche ma anche di altra natura. Già la teologia medievale, di cui si faceva interprete il diritto canonico, distingueva – quasi in un gioco di parole a chiasmo – tra ‘prohibita quia mala’ e ‘mala quia prohibita’, ossia tra quei fatti che sono vietati in quanto ritenuti intrinsecamente ‘disonesti’ o malvagi (ad esempio, la violenza inflitta ad un innocente), e ciò che, invece, è previsto e punito esclusivamente per scelta politica e discrezionale del Legislatore (si pensi, ad esempio, ad alcune norme sanzionatorie in materia edilizia, quali, ad esempio, quelle che colpiscono l’omissione dell’esposizione di specifici cartelli informativi).

I mutevoli e talora incerti confini del divieto

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I più avvertiti tra i cittadini sono, invece, a conoscenza del fatto che questo settore dell’ordinamento giuridico è regolato dal Codice penale – in Italia, il celeberrimo e, anche un poco a torto, vituperato ‘Codice Rocco (1930)’ (spesso stigmatizzato, con una qual certa approssimazione, quale codice ‘fascista’). In una parola, la sostanza del diritto penale consisterebbe nel subire, appunto, una ‘pena’ (nomina sunt consequentia rerum – i nomi sono conseguenti alla realtà delle cose) laddove sia stato commesso un atto che l’ordinamento giuridico non può consentire che sia reiterato – a costo della sua stessa sicurezza e, al limite, sopravvivenza. Se, infatti e ad esempio, fosse lecito uccidere impunemente gli altri, nello spazio temporale di pochi anni la società sarebbe fortemente decimata o, addirittura, cancellata. Se, ancora, fosse consentito perpetrare truffe ai danni degli altri la società civile (ma si potrebbe ancora definire tale?) sarebbe percorsa da un senso di insicurezza assoluta dei rapporti, con ricaduta drammatica sull’economia, poiché nessun consociato riporrebbe più fiducia nella controparte al momento della conclusione di un contratto o della redazione di qualsiasi negozio giuridico. Meno intuitiva è, per contro, la conoscenza del fatto che all’interno della categoria generale del ‘diritto penale’ sia possibile distinguere tra ‘diritto penale pubblico’ (il diritto ‘criminale’ dei Romani e della dottrina intermedia fino almeno al XIX secolo) e ‘diritto penale privato’. Già i Romani, infatti, distinguevano gli atti illeciti tra crimina e delicta. La distinzione si giustifica, peraltro, secondo questo principio discretivo normalmente condiviso, sebbene convenzionale: i ‘crimini’ sarebbero costituiti da quegli illeciti considerati dalla comunità politica di interesse diffuso, poiché in grado di attentare ad interessi ritenuti fondamentali dalla comunità politica (civitas) o di ampia parte della stessa. Per questa ragione essi risultano perseguibili, in genere, su denuncia di un qualsiasi cittadino e giudicati e, se del caso, puniti direttamente da organi dello Stato (il re, con i suoi ausiliari; i magistrati dotati di pieno potere, o imperium, nel corso della Repubblica; appositi collegi giudicanti – come le cosiddette quaestiones perpetuae, ossia giurie inquirenti di origine senatoria, divenute permanenti ed istituite, ciascuna, per decidere di singoli crimini; i funzionari imperiali e i governatori provinciali, durante il Principato e il Dominato). I ‘delitti’, per contro, pur concretizzandosi in comportamenti ugualmente censurati dall’ordinamento giuridico, sarebbero quelli ritenuti in grado di ledere interessi per lo più legati alla persona della vittima: le fonti giuridiche romane si esprimono, a questo proposito, con espressioni quali ‘de re familiari agitur’, ossia che, in queste ipotesi, è in gioco un interesse di tipo economico, e, quindi, privato. La loro persecuzione, pertanto, era rilasciata alla reazione dell’offeso, il quale, tuttavia, avrebbe dovuto rivolgersi non già alla pubblica autorità, bensì, provocandoli, agli organi della giustizia civile. Si sa-

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rebbe instaurato, pertanto, un processo civile a séguito dell’esperimento di una azione cosiddetta ‘penale’ (cioè di natura afflittiva, come nel caso dell’azione di furto) oppure ‘mista’ (ossia ancora afflittiva ma, nello stesso tempo, anche risarcitoria, qual era, ad esempio, quella nascente dalla legge Aquilia). Ricordiamo pur sempre che in Roma il diritto cosiddetto ‘sostanziale’ esisteva (‘viveva’ in concreto) principalmente in quanto considerato e osservato dal suo profilo ‘processuale’. Stando alle fonti in nostro possesso, la distinzione tra crimina e delicta – ossia tra illeciti pubblici e illeciti privati – risalirebbe addirittura ad una disposizione dell’epoca monarchica (VI sec. a.C.) e, specificatamente, al rex etrusco Servio Tullio. Come riportato più sopra, in epigrafe, nel passo di Dionigi di Alicarnasso, il sovrano avrebbe separato le cause pubbliche da quelle private, sentenziando personalmente con riferimento agli illeciti riguardanti, appunto, un ‘interesse diffuso’, mentre per gli illeciti che colpivano per lo più l’interesse dei singoli avrebbe istituito giudici privati, fissando, inoltre, nei suoi provvedimenti (le cosiddette leges regiae) le norme che ne regolavano l’attività. Si tratta, come è anche facile intuire, di una fonte e di una notizia assai discusse in dottrina. E se è stato suggerito che, al di là della corrispondenza alla realtà storica del fatto narrato, Dionigi dimostrasse come la distinzione tra crimina e delicta fosse in ogni caso assai risalente nel tempo, assai più plausibile sarebbe affermare, invece, che l’Autore antico abbia inteso far rimontare la distinzione più indietro possibile nel tempo, fino ad accreditarla all’età règia. Del resto, lo stesso Dionigi, poco dopo nella stessa opera, in un discorso diretto attribuito nuovamente a Servio Tullio, e rivolto proprio a questi giudici privati, dichiara: Dion., Ant. rom. 4.36.2: «Non sono stato giudice di ogni delitto, ma ho affidato al vostro giudizio le cause private, cosa che nessun re precedente aveva fatto». Così configurata, la Tradizione sembra alludere alla creazione di un sistema già relativamente compiuto e complesso di divieti e di sanzioni addirittura formalizzato sotto i precedenti monarchi, nonché all’esistenza di un’architettura processuale abbastanza evoluta e persino funzionale. In realtà – pur volendo dare credito alle notizie che Dionigi ci ha trasmesso – l’analisi delle figure di illecito all’epoca della monarchia romana disegna un modello che potremmo definire ‘minimalista’. Da un lato, infatti, per quanto riguarda le ‘cause pubbliche’ le nostre informazioni non si spingono molto oltre le figure del parricidio (par(r)icidium) e dell’alto tradimento (perduellio), che venivano perseguite direttamente dal

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re per mezzo dei suoi ausiliari, rispettivamente i questori del parricidio e i duoviri (o duumviri) della perduellione. Si trattava, come è agevole dedurre, di ipotesi di crimini che ponevano in serio pericolo l’esistenza stessa della comunità cittadina, poiché corrispondevano, in primo luogo, all’uccisione di un paterfamilias (e, quindi, di un membro della élite politica cittadina, nonché dell’originario Senato – il consiglio del re), da parte di uno stesso componente della sua stirpe, per venire poi probabilmente estesa alla figura dell’omicidio di un uomo libero. Nel secondo caso, per la perduellio, si alludeva all’alto tradimento. Così, se per quest’ultima fattispecie gli ausiliari del re intervenivano direttamente, procedendo alla soppressione del colpevole, per la prima (ossia per il parricidio) si eseguiva ed inscenava una terribile, sinistra e quanto mai simbolica pena: la cosiddetta pena del sacco (poena cullei), di cui ancora Giustiniano, nel VI secolo d.C., fa memoria recuperandola dal diritto positivo dei secoli precedenti: Iust. Inst. 4.18.6: «Un’altra legge, quindi, detta Pompea sui parricidi, reprime un crimine particolarmente grave, e dispone che, se qualcuno abbia accelerato la morte di un ascendente o di un figlio o, in genere, di chi abbia con lui un rapporto tale da rientrare nell’àmbito del parricidio, sia che abbia osato “fare” ciò in modo occulto oppure manifestamente, e anche colui per dolo del quale ciò sia accaduto, o che sia complice nel “lo stesso” crimine, anche se si tratti di un estraneo “a quei vincoli familiari”, sarà punito con la pena del parricidio. Non sarà sottoposto, tuttavia, né alla decapitazione, né alla vivicombustione, né ad alcuna altra pena ordinaria, bensì cucito dentro ad un sacco di cuoio, insieme ad un cane, un gallo, una vipera ed una scimmia, e così racchiuso nelle sue ristrettezze mortali, lo si getti “abbandoni” nel mare vicino o in un fiume, a seconda di cosa offra il territorio, in modo che cominci ad essere privato di ogni uso degli elementi, e gli si tolga il cielo, da vivo, e la terra, da morto». Il testo istituzionale riprende, del resto, alla lettera una costituzione dell’imperatore Costantino salvata nel Codice di Giustiniano (CI. 9.17.1 – a. 318 o 319 d.C.). La riviviscenza di una sanzione così terribile ed orribile – che affonda le proprie radici in epoca arcaica, in cui era connotata da ulteriori elementi rituali particolarmente lugubri (tra cui la copertura del capo del parricida con una pelle di lupo o il suo trasporto al luogo dell’esecuzione su un carro trainato da buoi neri) – dimostra il fenomeno di ‘corsi e ricorsi’ storici anche nell’àmbito del diritto penale. La poena cullei sarà recuperata, infatti, pure nella legislazione romano-barbarica (come provato dalla cosiddetta ‘interpretazione visigotica’ ad una statuizione di Costantino contenuta nel libro IX, tito-

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lo V, costituzione I del Codice Teodosiano) e in epoche successive, ed ancora addirittura nel XVIII secolo in alcuni Stati tedeschi come la Sassonia. L’‘ordinaria’ ferocia delle sanzioni criminali (associate all’uso frequente della tortura come mezzo di accertamento della verità) non si attenuerà neppure in epoca di diritto romano cristiano. Per limitarci ad un caso, si assisterà all’abolizione della crocifissione – per evidenti ragioni legate alla venerazione per il simbolo della religione ufficiale dell’Impero (C.I. 1.1.1 – a. 380 d.C.) – che sarà sostituita dalla plumbatio, ossia dall’ingestione di piombo fuso già inflitta al condannato per il crimine di rapimento di una vergine, in particolare alla bàlia che avesse favorito l’azione illegale dell’amante, quale contrappasso alle fantasie amorose con le quali essa aveva suggestionato la ragazza affidata alle sue cure (CTh. 9.24.1.1 – a. 320 d.C.). Già queste osservazioni consentono di giungere ad una prima, ma non meno importante, conclusione. Il diritto criminale in Roma antica non risponde ad esigenze sistematiche (ossia alla costruzione di un sistema ordinato di regole incriminatrici e di relative sanzioni, come avviene – o dovrebbe avvenire – di regola nei moderni sistemi elaborati dai ‘codici penali’), ma dimostra la sua natura ‘occasionale’ e, per questa ragione, estremamente ‘mutevole’. Con questo s’intende sottolineare che i singoli crimini sono tali nel momento e per la ragione per i quali il Legislatore, in un dato momento storico, e cercando di interpretare il sentimento comune, ritenga di dover vietare certi comportamenti, e colpire con pene – anche particolarmente atroci (soprattutto in funzione general-preventiva) – chi si renda responsabile di violare tali norme. Tra gli studiosi, infatti, è stata elaborata una definizione di ‘codice penale’ (che può essere dilatata al diritto penale nel suo complesso), assai interessante ai nostri fini, secondo cui si tratta del luogo maggiormente percettibile di interazione tra sistema politico, sistema legale e mentalità di una data società.

2. LE NORME DEL DIRITTO CRIMINALE NELLA LEGGE DELLE XII TAVOLE La dimostrazione della emersione episodica (cioè a seconda delle esigenze concrete del momento e della sensibilità del Legislatore storico) delle figure di crimini, ma anche – in parte – di quelle riguardanti i delitti privati, è testimoniata con particolare evidenza all’interno della famosa Legge delle XII Tavole (lex duodecim Tabularum), che la Tradizione vuole sia stata emanata tra il 451 e il 450 a.C. Basti considerare come all’interno di questo testo normativo, sorprendentemente, non sia contemplato l’omicidio. Questo non significa, ovviamente, che causare la morte di un uomo, soprattutto se libero, non comportasse una

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reazione diretta (ossia di carattere pubblicistico) da parte dell’ordinamento giuridico. Già al tempo della monarchia – se, ancora una volta, le fonti rispecchiano la realtà dei fatti – si sarebbe proceduto a distinguere tra omicidio volontario e omicidio involontario (la cui distinzione, tuttavia, potrebbe essere stata meno netta di quanto si sia reputato tra gli studiosi moderni; questo almeno stando alle conclusioni cui perviene un recente ed accattivante lavoro dedicato a ‘l’omicidio nelle leggi di Numa’): Serv., In Verg. Buc. 4.43: «In modo ragionevole, nelle leggi di Numa si stabilì che se taluno, per colpa (inprudens) avesse causato la morte di un uomo, offrisse ai suoi agnati un ariete a titolo di espiazione [poiché l’ariete] sacrificato può liberare il colpevole dall’imputazione di omicidio». Tuttavia, la Legge delle XII Tavole non ha ritenuto di assorbire tali norme o di reiterarle, senza che ciò significasse, in ogni caso, la loro implicita abrogazione. Sono, invece, riportate sanzioni relative a forme di magia ritenuta nefasta (come pronunciare sortilegi oppure recitare cantilene ritenute oscuramente prodigiose: incantatio e occentilatio), lanciare la maledizione sulle messi altrui, o il tentativo di attrarre queste verso il proprio fondo (fruges excantare e alienam segetem pellicere). Anche il pascolo abusivo notturno su fondi coltivati altrui (se attuato da persone puberi) o, ancora, la raccolta non autorizzata dei frutti naturali erano puniti addirittura con la messa a morte del responsabile, per mezzo del suo annegamento o di impiccagione. Non meno gravemente – e sorta di ‘legge del taglione’ – era colpito con la pena del rogo chi avesse provocato dolosamente un incendio agli edifici di altro proprietario o avesse dato fuoco a covoni posti nelle loro vicinanze. Ancora la stessa Legge prevedeva come crimen il comportamento del giudice che si fosse fatto corrompere; quello del tutore che non avesse adempiuto coscienziosamente ai doveri connessi all’amministrazione del patrimonio del pupillo, commettendo frodi (fraus) a suo danno; la falsa testimonianza. Non mancavano, infine, norme sull’alto tradimento, nonché una disciplina relativa alle competenze criminali delle assemblee popolari (in cui addirittura si affaccia la più antica espressione del habeas corpus tanto autocelebrato dalla dottrina anglosassone) e dei magistrati. Anche la condotta infedele del patrono ai danni del liberto era punita: curiosamente non era prevista l’ipotesi inversa, e, nonostante i tentativi di giustificare tale omissione, essa risulta in ogni caso sintomatica dell’agire asistematico del Legislatore antico. Come è agevole notare, dunque, questa è la prova del giudizio già anticipato, ossia che non si versa in presenza di un disegno legislativo compiuto, ma della raccolta di alcune figure di illecito ritenute particolarmente gravi, non necessariamente omogenee tra loro, legate alla sensibilità dell’epoca e

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dei tempi anteriori all’emanazione della stessa Legge delle XII Tavole (poiché questa conteneva, come si ritiene, in primo luogo più antiche consuetudini). È difficile pensare, ad esempio, che negli anni in cui visse Cicerone (il quale ricorda peraltro di aver studiato a memoria i versetti delle XII Tavole nell’adolescenza, durante la formazione scolastica) si potesse continuare a credere che qualcuno, attraverso la pronuncia di formule magiche, potesse far cambiare di luogo un intero raccolto. E questo nonostante Plinio il Vecchio, in una brillante pagina delle sue Storie naturali, ricordi un’accusa di tale natura mossa per mera invidia, ancora nel II secolo a.C., contro un liberto (peraltro assolto – e noi diremmo a buona ragione – nel relativo processo, con ‘formula piena’): Plin., St. nat. 18.8.41-43: «Gaio Furio Cresimo, uno schiavo liberato, poiché da un campo piccolissimo otteneva frutti molto più abbondanti che i suoi vicini da appezzamenti vastissimi, era guardato con grande sospetto, come se attirasse nel proprio campo con incantesimi gli altrui raccolti. Citato in giudizio per questa ragione da Spurio Albino, edile curule, e temendo la condanna perché c’era da sottoporsi al voto della tribù, portò nel foro tutta la sua attrezzatura agricola, e condusse la servitù, robusta e, come narra Pisone, ben tenuta e ben vestita, strumenti di ferro di buona fattura, pesanti zappe, vomeri ponderosi, buoi ben nutriti. Poi disse: ‘I miei malefici, o Quiriti, sono questi, e non posso mostrarvi o portare nel foro le mie notti di lavoro, le veglie ed i sudori’. Egli fu assolto all’unanimità». Non meno ‘rapsodiche’, per così esprimersi, sono le norme dell’epoca decemvirale a proposito degli illeciti privati, sebbene in questo campo si assista, forse, alla presenza di una articolazione della materia maggiormente percepibile. Vengono in considerazione, pertanto, tra le più rilevanti, il danneggiamento (damnum), il furto (furtum), la lesione fisica o morale alla persona altrui (iniuria). Ma intorno a questi delitti (delicta), in particolare, torneremo nella seconda parte di questo capitolo.

3. CENNI INTORNO AI CRIMINI NEL PROSIEGUO DELLA STORIA GIURIDICA DI ROMA ANTICA. LA PREVISIONE DI ILLECITI LEGATA AD ESIGENZE PER LO PIÙ ‘POLITICHE’ Anche nella prosecuzione della storia giuridica dell’Urbe, l’emersione di nuove figure di illecito, o lo sviluppo e la trasformazione di quelle già esistenti, sono spesso legati alla contingenza del momento, alle esigenze della classe dominante, e persino alle lotte interne tra fazioni politiche.

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A questo proposito, ad esempio, si assiste ad un difficile inquadramento dogmatico della fattispecie della maiestas (o meglio della lesa maestà – laesa maiestas). Si tratta, infatti, di un crimine dai contorni quanto mai mutevoli e, talora, evanescenti, essendo legata, in particolare, agli equilibri di potere. Il concetto stesso di maiestas, dunque, si prestava ad un’opera di dilatazione interpretativa senza precedenti, nonché ad un’attività di adeguamento e modellazione rispetto alla forma di governo presente in Roma. Se durante la Repubblica era da considerarsi tale l’attentato alla sicurezza della civitas, con l’avvento del Principato e poi del Dominato va da sé che il focus si sia concentrato soprattutto sulla persona dell’imperatore e sulla sua tutela nonché sulla persecuzione di ogni atto, tentato o compiuto, finalizzato a contrarne le prerogative. Nello stesso tempo, era tale da venire a ricomprendere anche una serie di illeciti più o meno riconducibili a quello principale, giungendo a riassumere in sé ogni forma di attentato al potere costituito. Se volessimo procedere attraverso una lettura con le lenti della modernità, dovremmo concludere che la lesa maestà rappresentava la forma più lontana dai princìpi di certezza del diritto e di determinatezza della fattispecie incriminatrice che, oggi, ispirano le legislazioni penali – almeno quelle di stampo democratico occidentale. Non è difficile giudicare frutto di mera arbitrarietà, e di bieco autoritarismo, legislazioni penali come quella, ad esempio, della Federazione Russa o della Turchia, della Repubblica Popolare Cinese così come quella del Myanmar o dell’Iran (e numerose altre), che fùlminano ogni forma di dissenso politico con sanzioni severissime, ampliando addirittura il concetto di ‘terrorismo’, o di più o meno vago ‘attentato contro la sicurezza dello Stato’ (et similia), oltre ogni ragionevole criterio di determinatezza della fattispecie penale, criterio che è fondante per il moderno concetto di regime democratico. Per altro verso, anche per quanto riguarda la cosiddetta ‘lotta patrizioplebea’ (V-III sec. a.C.), il riconoscimento ai Tribuni della plebe della summa coërcendi potestas (ossia del sommo potere di persecuzione criminale, che si spingeva fino alla possibilità di sottoporre a gravi sanzioni – esclusa forse soltanto la pena di morte – coloro che, essendo stati magistrati patrizi, avessero agito, sempre a giudizio dei Tribuni, a grave danno dei plebei, intesi sia come singoli sia come ceto) porterà ad affermare che potesse essere considerato crimine ciò che i Tribuni stessi ritenevano che fosse tale. Allo stesso modo, nel corso della storia emergeranno figure di reato, ed altre diverranno meno rilevanti, con un sistema caratterizzato da particolare mutevolezza. Ora sarà considerato grave l’ambitus (ossia la corruzione elettorale), che, di sicuro rilievo in epoca repubblicana con il sistema della elezione dei magistrati da parte delle assemblee popolari (comitia), vedrà diminuire considerevolmente il proprio peso durante l’impero, dal momento che i funzionari saranno progressivamente, nella quasi totalità, designati dall’im-

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peratore. In epoca di crisi della Repubblica – e soprattutto con l’emanazione di una fitta serie di leggi ad opera del dittatore Lucio Cornelio Silla – assumeranno peso l’omicidio cruento e subdolo (ossia attuato con armi o con veleni: lex Cornelia de sicariis et veneficis) nonché forme qualificate di iniuria – come l’introdursi abusivamente in casa altrui o gli atti del pulsare e del verberare (ossia dell’aggressione fisica a mani nude o con oggetti contundenti), tutte ipotesi sanzionate poiché collegate chiaramente dalla finalità politica di arginare i gravi disordini causati della guerra civile che aveva afflitto Roma in quella fase storica – previste da una lex Cornelia iniuriarum (sebbene di questa si dubiti della sua compiuta natura criminale). Del resto, a differenza del diritto privato, ove il fenomeno risulta essere meno appariscente, quello penale (criminale) costituisce spesso la lente di ingrandimento attraverso cui scorgere gli ‘interessi reali’, concreti, perseguiti da una comunità politica in un dato momento storico. Infatti, se il reato legato alla cosiddetta annona – ossia avente ad oggetto gli atti tesi a limitare, impedire, corrompere le attività di fornitura delle derrate alimentari (e dei cereali, come il grano, in particolare) – può risultare in apparenza di scarso interesse per lo studio teorico del diritto, laddove si consideri che questi atti possano mettere in serio pericolo l’approvvigionamento all’esercito, allora si comprendono appieno le preoccupazioni della classe politica romana (che doveva affrontare quasi quotidianamente fenomeni bellici) finalizzate in primo luogo a prevenire tali illeciti, o, in ogni caso, a punire severamente chi si fosse reso autore degli stessi. Non meno rilevante, infine, sarà l’amministrazione del diritto criminale all’epoca del cosiddetto diritto romano cristiano. In particolare, alla luce del XVI libro del Codice Teodosiano, e, quindi, del libro di apertura del Codice di Giustiniano (che inaugurano la branca del ‘diritto ecclesiastico’), verranno in considerazione – in modo speciale – quei delitti contro l’ortodossia cristiano-cattolica (quali ad esempio l’eresia, l’apostasia, lo scisma, i culti pagani e così via, insieme alla regolamentazione, anche sotto il profilo sanzionatorio, dell’appartenenza alla religione ebraica).

4.1. I ‘delitti’, nella variazione tra illecito privato e illecito pubblico. Il danno ingiusto Veniamo, ora, alla seconda parte ideale della nostra esposizione. Si tratta di illustrare, seppure sinteticamente, le vicende legate ai cosiddetti illeciti ‘privati’, detti altrimenti delicta. Premessa e nozione fondamentale, a questo riguardo, è la seguente: i delitti privati, nell’ordinamento romano, sono classificati quali ‘fonti delle obbligazioni’ (ecco la ragione per cui, come si diceva più sopra, vengono perse-

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guiti all’interno di un processo civile). Del resto, ancora il nostro ordinamento così stabilisce: Art. 1173 cod. civ.: «Fonti delle obbligazioni. Le obbligazioni derivano da contratto, da delitto o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico». Quanto è possibile osservare, poi, in via generale per il diritto romano, è l’irresistibile forza di attrazione esercitata dal ‘pubblico’ sul privato, anche in tema di illeciti. Sebbene il fenomeno tenda ad essere appariscente soltanto nel periodo tardoclassico, e in particolare per mezzo della legislazione imperiale, si assiste in genere alla trasformazione (parziale o totale) delle figure di ‘delitto’ in veri e propri crimini. Questo può concorrere a spiegare la ragione per la quale – ad eccezione soltanto del danneggiamento per colpa – il nostro ordinamento penale moderno presenti al suo interno sia le ipotesi classiche di furto e rapina, sia quelle di lesione fisica o morale alla persona altrui, sia il danneggiamento causato volontariamente. Al di là, dunque, dell’applicazione dell’art. 2059 del codice civile, per il risarcimento del cosiddetto ‘danno morale’ (ossia danno conseguente alla commissione di un reato), tali ipotesi di illecito – che, come è opportuno ribadire, in origine per i Romani appartenevano all’àmbito del diritto privato – sfuggono a questo settore per entrare, a pieno titolo, in quello pubblicistico. Da notare che in tempi recenti si è assistito nel nostro ordinamento italiano ad un fenomeno altrettanto significativo di erosione del principio, con movimento contrario, attraverso la cosiddetta attività di ‘depenalizzazione’, di cui le più consistenti manifestazioni si sono avute con la legge 689/1981 e, più di recente, con i decreti legislativi 7/2016 e 8/2016. In quest’ultimo caso sono stati depenalizzati ben quarantacinque reati ritenuti ‘bagatellari’ (ossia di lieve allarme sociale), tra cui, ad esempio, l’ingiuria (ovvero l’antica iniuria morale; art. 594 cod. pen.), il falso in scrittura privata (art. 485 cod. pen.) oppure la falsità in foglio firmato in bianco (art. 486 cod. pen.); ancora gli atti osceni, si potrebbe dire ormai all’ordine del giorno (art. 527, 1° co., cod. pen.), la sottrazione di cose comuni (art. 627 cod. pen.), soltanto per citarne alcuni. Non è inutile osservare che la considerazione di tali illeciti quali reati ‘bagatellari’ (ed il loro conseguente declassamento ad illeciti privati) cerca di celare, in realtà, l’inadeguatezza del Legislatore (e degli organi a ciò preposti) a perseguire adeguatamente e secondo il principio costituzionale della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, tali figure di reato, abbandonandole, pertanto, alla giurisdizione civile peraltro già notoriamente congestionata dal carico pendente. Sebbene, talora, non si tratta affatto di illeciti di tenue pericolo.

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Si pensi, a titolo d’esempio, alla falsificazione di una ricognizione di debito (art. 1988 cod. civ.), che potrebbe anche coinvolgere una somma rilevante di denaro: l’inversione dell’onere della prova, prevista per questo istituto giuridico, fa sì che il (presunto) debitore debba dimostrare l’assenza del fondamento del debito (la cosiddetta causa debendi – dimostrazione ancora più difficile da raggiungere per i suoi eventuali eredi), mentre l’asserito creditore non è tenuto a provare nulla. Considerata la non scientificità delle perizie grafologiche, si potrebbe giungere a ritenere per autentica la sottoscrizione – in realtà falsa – da parte del (presunto) debitore, con condanna dello stesso a vantaggio del millantato pretendente. Peggio ancora nel caso di riempimento di foglio firmato in bianco, in cui la sottoscrizione è certamente autografa. L’effetto – evidentemente non considerato dal nostro (spesso insipiente) Legislatore – potrebbe essere quello di mandare letteralmente in rovina un privato o un imprenditore, con tutte le conseguenze del caso. Tornando al mondo romano, e come anticipato, già la Legge delle XII Tavole presentava un’articolazione maggiormente precisa dei delitti rispetto ai crimina, seppure ancora priva di una sistematica completa, prevedendo gli illeciti del damnum, anche causato da animali (pauperies), del furtum e della iniuria, nonché una serie di figure quali il taglio abusivo di alberi o l’abusivo pascolo del bestiame su fondo altrui. Qui ci limiteremo ad analizzare le ipotesi più rilevanti. In materia di danneggiamento (damnum) era, forse, già anticamente prevista una specifica ipotesi, che aveva il seguente tenore (almeno per la parte residua, e quanto mai mutila, che le fonti attestano): Tab. 8.5: … rupit[ias] … sarcito La norma decemvirale avrebbe, pertanto, previsto l’obbligo di ‘risarcire il danno’, non meglio qualificato. In ogni caso, e al di là di ogni legittima discussione e legittimo dubbio in materia, il vero testo di riferimento è quello dovuto alla legge Aquilia (lex Aquilia de damno iniuria dato), un plebiscito forse emanato nella seconda metà del III sec. a.C. e che rappresenta – come è stato opportunamente scritto – il ‘termine di riferimento’ e ‘la norma cardine’, che avrebbe fatto cadere in desuetudine le precedenti disposizioni in materia. Intanto la legge Aquilia perseguiva non qualsiasi danno causato ad altri, ma soltanto il danno ‘iniuria’, ossia ‘ingiusto’ (contra ius), e ciò significa che il responsabile poteva essere condannato esclusivamente alla condizione positiva di aver agito per dolo o per colpa (ossia, rispettivamente, con coscienza e volontà dell’evento, ovvero per imprudenza, imperizia o negligenza) e a quella negativa di non versare in presenza di cause di giustificazione (quali la legittima difesa, lo stato di necessità, l’adempimento di un dovere o l’eser-

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cizio di un diritto). Inoltre il danno doveva essere materiale (corpore corpori datum), ossia prodotto direttamente al corpo della vittima attraverso l’esplicazione di una forza fisica da parte dell’agente. Peraltro le norme originarie non avevano carattere generale ed astratto – come ha oggi, in materia, il nostro art. 2043 cod. civ. – ma prevedevano ipotesi tipiche, ossia: 1. uccisione di schiavi o animali da soma di proprietà altrui (primo capo); 2. ferimento di tali res e uccisione o ferimento di ogni altro tipo di animale (terzo capo); 3. una forma particolare di lesione (frode) al diritto di credito altrui (secondo capo). Si afferma, infatti e tradizionalmente, che la legge Aquilia sia a fondamento della moderna ‘responsabilità extracontrattuale’ (o, appunto, ‘aquiliana’). In realtà è necessario osservare che ciò è dovuto si deve alla formidabile attività interpretativa dei giuristi romani l’estensione della portata del plebiscito aquiliano (e del suo terzo capo, in particolare) ad ogni tipo di danneggiamento ingiusto, al punto che si è affermato che dovesse essere ricompresa nel concetto di danno ingiusto ogni forma di ‘corruzione’ (ruptio-corruptio), vuoi anche arrecata con il fuoco, o frantumando, oppure diminuendo le qualità intrinseche di un bene, così come ogni azione che lo avesse comunque deteriorato. È interessante notare, inoltre, che, grazie alla riflessione in materia di damnum iniuria datum, i giuristi romani sono giunti anche ad elaborare un principio fondamentale in materia (così come, in generale, di quella penale), ossia il principio del ‘nesso di causalità’ che deve essere rinvenuto, tra il comportamento e l’evento, al fine di attribuire la responsabilità all’agente. Ciò si deve, in particolare, ai giuristi appartenenti alla ‘scuola serviana’ operante tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. – sebbene, poi, tale profilo paia essere stato messo in ombra nel periodo successivo, poiché deve essere stato ritenuto sufficiente riferirsi al danno causato ‘al corpo e con il corpo’ (corpori-corpore). Laddove, poi, il danno ingiusto fosse stato arrecato in modo indiretto (le fonti alludono, ad esempio, all’aver rinchiuso lo schiavo altrui ed averlo fatto morire di inedia, o averlo convinto a salire su un albero o scendere in un pozzo, laddove la salita o la discesa fossero chiaramente pericolose, e lo schiavo si fosse ferito o fosse morto compiendo quella azione a cui era stato istigato) sarebbe intervenuta l’equità del pretore, attraverso la concessione al proprietario di azioni utili (ossia modellate per analogia su quelle della legge Aquilia) o in factum (ossia, per così dire, ‘disegnate’ sulla specifica fattispecie ritenuta meritevole di tutela, come nel caso di smarrimento, senza distruzione, di un bene altrui: ad esempio nell’aver fatto cadere nel fiume – e, quindi, reso praticamente irrecuperabile, sebbene ancora integro – un anello del proprio compagno, nel corso di una amena passeggiata).

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Presenta nuovamente un vivido spaccato di vita romana un passo contenuto in Dig. 19.5.23 (Alfeno, nel lib. 3 dei digesti epitomati da Paolo): «Duo secundum Tiberim cum ambularent, alter eorum ei, qui secum ambulabat, rogatus anulum ostendit, ut respiceret: illi excidit anulus et in Tiberim devolutus est. Respondit posse agi cum eo in factum actione – Mentre due “conoscenti” camminavano lungo le rive del Tevere, uno di loro, essendo(gli) stato richiesto, offrì l’anello al suo compagno “a quello che camminava con lui”, affinché lo rimirasse: a questi l’anello cadde “di mano” e rotolò nel Tevere. Il giurista ha risposto che può agire contro di lui con una azione “la cui pretesa sia” modellata sul fatto (in factum concepta)». In questo caso, che potrebbe essere definito ‘dei due compari stolidi’, sembrano mancare, o essere incerti, i requisiti richiesti dalla Legge Aquilia per la concessione della relativa azione (derivante dal terzo capo). Incerto è il danno: l’anello non è distrutto, ma soltanto smarrito nei gorghi del fiume. Potrebbe essere recuperato, ma il diritto non può pretendere che l’uno o l’altro dei soggetti coinvolti rischi la vita immergendosi nel Tevere, corso d’acqua pericoloso ed insalubre (ieri come oggi). Incerta è la colpa, e il suo grado. Assente il dolo (chi ha ricevuto il monile non lo ha lanciato nel fiume per invidia!) e, di conseguenza, anche il danno corpore-corpori datum. Tuttavia una diminuzione patrimoniale si è obiettivamente verificata in capo al proprietario dell’anello: ragioni di giustizia sostanziale (aequitas) impongono la concessione, almeno, di un’azione in factum per il ristoro economico, azione che potrà essere concessa in tutte le ipotesi in cui ricorrano le stesse condizioni di danno.

4.2. I capi quarto e quinto della legge Aquilia e i cosiddetti requisiti delle azioni penali Un’ultima osservazione in materia di legge Aquilia è opportuna. Nelle fonti si allude alla presenza di ulteriori due ‘capi’ (capita) che ne componevano il testo, di natura squisitamente processuale. Un altro capo, infatti, prevedeva la cosiddetta infitiatio nei confronti dell’autore del danno, il quale avesse negato la propria responsabilità, e fosse risultato ugualmente colpevole in sede di giudizio. In questo caso, la sanzione originariamente prevista (ossia il maggior valore che la cosa danneggiata aveva rivestito nell’anno precedente il fatto lesivo o nei trenta giorni precedenti, rispettivamente per il primo e per il terzo capo, o il valore del credito, per il secondo) sarebbe stata raddoppiata (infitiando lis crescit in duplum). Si

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poneva in essere, in questo modo, una sorta di ‘sanzione’ per il dispendio di energie processuali che la negazione aveva fatto sopportare a controparte, al magistrato e al giudice. Un ultimo caput prevedeva, invece, che, laddove l’illecito fosse stato commesso da un figlio (filiusfamilias) o da uno schiavo, l’azione sarebbe stata esercitata contro il pater o il dominus – quale sorta di responsabilità oggettiva. In questo caso, tuttavia, il convenuto si sarebbe potuto liberare da responsabilità, e dal rischio di essere condannato nel giudizio instaurato sulla base dell’actio legis Aquiliae, con la ‘dazione a nossa’ (noxae deditio) dell’autore materiale del comportamento, ossia consegnando il figlio o lo schiavo alla vittima. Quest’ultima facoltà concessa al pater o al dominus era considerata il primo ‘requisito’ comune alle azioni penali. Il secondo requisito era dato dalla ‘cumulatività’: se da uno stesso fatto fossero discese più figure di illecito (ad esempio nel caso dell’uccisione o del ferimento di uno schiavo altrui, ma allo scopo di offendere il suo padrone – fatto che avrebbe dato vita sia all’azione nascente dal primo o dal terzo capo della legge Aquilia sia all’azione di iniuria), il danneggiato avrebbe potuto esperirle entrambe – almeno teoricamente (poiché i giuristi romani provvidero, in alcuni casi, a limitare la condanna del reo, ritenuta evidentemente eccessiva e, pertanto, contraria ad equità). In terzo luogo vi era la ‘solidarietà’ passiva: in presenza di più autori del fatto illecito, tutti avrebbero risposto per l’intero. Le azioni penali erano, ancora, ‘intrasmissibili passivamente’: non si poteva agire nei confronti degli eredi dell’autore dell’illecito, se non soltanto nei limiti del loro ingiusto arricchimento (laddove, ad esempio, il denaro rubato fosse stato incamerato nel patrimonio del ladro, patrimonio ereditato dai figli). Ed erano anche ‘attivamente intrasmissibili’, ma soltanto per quelle che nel Medioevo verranno dette vindictam spirantes, ossia che richiedessero una immediata reazione, come nel caso dell’offesa fisica o morale (iniuria): se l’azione relativa non fosse stata esercitata dalla vittima dell’atto lesivo i suoi eredi non avrebbero potuto sostituirsi al loro dante causa, poiché si riteneva che l’offesa di questo genere fosse ‘personalissima’. Se, infine, l’azione penale non avesse trovato la propria origine e il proprio fondamento nel diritto civile (ius civile) bensì nel diritto onorario del magistrato (ius honorarium del praetor), allora non sarebbe stata perpetua (come lo erano quelle civili), bensì soggetta a prescrizione annuale, con la conseguenza che – se esperita dopo la scadenza dell’anno dal momento in cui si sarebbe potuto agire – il responsabile sarebbe stato condannato al simplum e non più al multiplo previsto dalla formula: ad esempio nell’azione di rapina (actio vi bonorum raptorum), che comportava la condanna nel quadruplo al

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pari del furto manifesto – poiché la rapina è, intuitivamente, sempre manifesta – dopo l’anno la pena si sarebbe ridotta al semplice valore della cosa sottratta con violenza. Pertanto, riassumendo, le azioni penali erano sempre intrasmissibili passivamente e, talora, anche attivamente, nossali, cumulabili, solidali, e – se onorarie – soggette a prescrizione annua nei termini che sono stati descritti.

4.3. La corruzione ‘morale’ dello schiavo altrui Per tornare ancora un momento al tema del danneggiamento provocato al proprietario degli schiavi altrui, come si sarà probabilmente intuito, la legge Aquilia considerava l’uccisione o il ferimento, ma non contemplava invece il deterioramento delle qualità morali dei servi. Detto in altri termini, cosa sarebbe accaduto se un terzo avesse effettuato un’opera di perfida (ossia dolosa) persuasione verso lo schiavo di proprietà del suo vicino, convincendolo, ad esempio, a diventare disobbediente, ladro, dedito al vino, oppure istigandolo alla fuga o a svelare segreti personali o contabili del suo dominus? Di per sé il diritto civile non avrebbe previsto alcuna tutela a favore di quest’ultimo, sebbene il valore (inteso in senso commerciale) dello schiavo fosse da considerarsi, a tutti gli effetti, sensibilmente diminuito. Per chiarire meglio questo profilo: se Tizio avesse venduto il proprio schiavo integerrimo, lo avrebbe potuto cedere al prezzo – ad esempio – di mille sesterzi. Reso moralmente deteriore da altri, lo si sarebbe dovuto vendere ad un prezzo inferiore, poiché tacere il vizio avrebbe comportato l’eventuale chiamata in giudizio del dominus-venditore con le azioni a tutela dell’acquirente. A questo proposito – sempre guidato dal principio dell’aequitas, ossia della giustizia sostanziale nel caso concreto – il pretore introdusse nel proprio editto la cosiddetta actio servi corrupti (azione per lo schiavo corrotto “da terzi”), da esperirsi contro l’istigatore-seduttore. Si trattava, evidentemente, di un’azione ‘penale’ pretoria, la cui ‘invenzione’ rispondeva alla regola secondo la quale il magistrato giusdicente operava allo scopo di corrigere, supplere, adiuvare il diritto civile – in questo caso, colmando una lacuna del sistema di tutela processuale di quello stesso ius.

5. IL FURTO Come si diceva in precedenza, l’omicidio e il furto rappresentano probabilmente le figure di illecito che immediatamente si fanno presenti alla coscienza di un comune cittadino secondo un giudizio di valore negativo. Se si

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domandasse a chiunque di indicare alcuni atti ritenuti particolarmente riprovevoli è assai probabile che la risposta coinvolgerebbe (anche, e forse in prima battuta proprio) omicidio e furto – unitamente ad altre figure di reato legate alla sensibilità del momento (come il cosiddetto femminicidio o la violenza sessuale). Neppure tutti indicherebbero immediatamente i reati ascrivibili alle associazioni di stampo mafioso. Quasi certamente nessuno farebbe riferimento, ad esempio, alla falsità in atti pubblici (artt. 476 ss. cod. pen.) oppure ad ‘atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra’ (art. 244 cod. pen.) o, ancora, a turbative della libertà dell’industria e del commercio (art. 513 cod. pen.) e così via. Quanto al furto in epoca classica, questo viene definito dal giurista Paolo (operante nel III secolo d.C.) come la dolosa sottrazione di una cosa, in genere altrui, allo scopo di trarne profitto o per ottenerne l’uso o il possesso. E, alla luce di quanto si diceva appena prima, il giurista (o Giustiniano, ove si tratti di una interpolazione) conclude con l’espressione: quod lege naturali prohibitum est admittere, ossia che la stessa ‘legge naturale’ proibisce di commettere tale atto – a riprova che la perdita ingiustificata, per causa altrui, di un bene che ritengo legittimamente mio si scontra con sentimenti di ‘appartenenza nativa’ alla mia persona. Per questo, in altra sede del Digesto di Giustiniano, il furto viene addirittura qualificato come ‘turpe’ – sebbene, poi, come è anche noto, allora come oggi, tale illecito non sia fatto così inconsueto come certe dichiarazioni di principio potrebbero lasciar intendere. Del resto anche l’omicidio non è, purtroppo, infrequente come sarebbe, al contrario, opportuno e desiderabile, giuridicamente e moralmente. Comunque sia, per le ragioni esposte, il furtum era già contemplato nella legislazione decemvirale (ossia nella Legge delle XII Tavole), sebbene poco chiari siano i precisi confini della fattispecie per quell’epoca e per quella anteriore (e se contemplasse anche ipotesi di danneggiamento o di altri illeciti, quasi come si trattasse di una sorta di contenitore piuttosto ampio e pluricomprensivo, quasi a coincidere con la nozione stessa di ‘atto illecito’), e veniva punito in maniera piuttosto severa, tanto da avvicinare questo delictum alla categoria dei crimina. Il ladro (fur), infatti, se colto di notte, poteva essere ucciso impunemente dal derubato (Tab. 8.2), e così pure di giorno, laddove si fosse difeso con armi per sfuggire alla cattura (sebbene in questo caso la sua soppressione dovesse essere preceduta dalla chiamata dei vicini a testimonianza del fatto: la cosiddetta endoploratio (invocazione: Tab. 8.13) – per la intuitiva ragione di evitare che, con il pretesto di aver subito un furto, si tentasse di sopprimere un avversario in realtà innocente). E non meno drammatico risultava essere il destino del ladro, per così dire, ‘comune’. Ancora, secondo la testimonianza di Aulo Gellio, i ladri colti in flagrante, se liberi, dovevano essere ‘ver-

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berati’ – ossia fustigati con sferze – e dati in schiavitù al derubato, mentre, se fossero stati servi, ugualmente fustigati venivano, quindi, gettati dalla Rupe Tarpea. I minori (impuberes), invece, subita eventualmente la verberatio, avrebbero dovuto più lievemente risarcire il danno in misura adeguata (Aul. Gell., Notti attiche 11.18.7-8). Ancora in epoca classica il furto veniva contraddistinto in quattro specie: manifesto (furtum manifestum), quando il ladro fosse stato còlto in flagranza o appena successivamente; non manifesto (nec manifestum), se, per contro, il responsabile fosse stato individuato soltanto in un secondo momento cronologicamente o fisicamente distante dal compimento dell’atto illecito; oblatum e conceptum, ossia rispettivamente di colui che avesse collocato la refurtiva (etimol.: res-furtiva) presso terzi o di chi fosse stato trovato, dopo perquisizione con testimoni, in possesso della cosa stessa. In queste ipotesi, l’azione di furto (actio furti) si esperiva per ottenere la eventuale condanna del convenuto (e presunto ladro), rispettivamente, al quadruplo, al doppio o al triplo del valore della cosa sottratta. Ma, assai singolarmente per il nostro sentire, l’azione – che, ricordiamo, aveva natura penale e non reipersecutoria – non era vòlta ad ottenere la restituzione della refurtiva (che si poteva raggiungere, invece, per altre vie: ad esempio tramite la rivendica (reivindicatio) o, più agevolmente, per mezzo della condictio ex causa furtiva che consentiva al dominus di agire contro il ladro anche se non più in possesso della cosa, persino se andata a perimento). Intanto la presenza del ‘multiplo’ già è indice della natura perfettamente ‘penale’ dell’azione (il simplum corrisponde al ristoro economico correlato alla perdita del bene, mentre il multiplo costituisce, appunto, l’elemento afflittivo). Quanto alla diversità tra il quadruplo per il furto manifesto e il (solo) doppio per quello non manifesto, si è cercato di giustificare tale disparità considerando che l’ordinamento giuridico romano tendeva a tutela maggiormente chi fosse per sua natura vigile a attento (sorprendendo, in questo caso, quasi immediatamente il ladro), mentre, pur ritenendo necessario punire il fatto, più contenuto sarebbe stato il soddisfacimento per il proprietario laddove questi avesse manifestato un’attenzione di minore intensità nel proteggere i propri beni, ricevendo dal ladro, se condannato, soltanto il doppio del valore della cosa. Quanto alle fattispecie del furtum oblatum et conceptum, considerando l’antichità delle norme, e anche certe usanze per noi ormai del tutto inusuali, annotiamo che il derubato che intendesse ispezionare l’abitazione altrui – quindi nel furtum conceptum – lo avrebbe dovuto fare secondo il rituale cosiddetto lance licioque, ossia con un piatto in mano e coperto da un semplice indumento tale da celare le parti intime (segni, evidenti, della richiesta e della dimostrazione di non portare su di sé, con lo scopo di celarla in casa del

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perquisito, la refurtiva: a queste condizioni, è presumibile che noi moderni rinunceremmo, forse più per vergogna che per autentico senso del pudore, a cercare i beni sottrattici. In ogni caso, uno studioso del diritto romano, che si era dilettato nello scrivere argute e gustose ‘poesie romanistiche’, ne dedicò una a questo singolare istituto: «Lance licioque. L’empio giurista o il magistrato pèra | che del furtum conceptum la nozione | in modo astratto elaborò primiera, | senza conto tener della stagione! | Veniva giù la neve, piano piano: | io uscii nell’aria fredda del mattino. | Ero in camicia e con un piatto in mano | quando battei all’uscio del vicino. | Perquisii la sua casa, lentamente; | frugai con le mie mani intirizzite | per ogni dove, minuziosamente. | Era il tramonto, e alle dimore avite | ritornai senza aver trovato niente. | In compenso morii di polmonite» P.P. Zamorani).

6. LE LESIONI FISICHE E MORALI Assai interessante risulta, infine, il tema della iniuria, che, come il furto, affonda le proprie radici nel diritto arcaico. Una visione complessiva della fattispecie porta a considerare che, sotto il concetto unitario di iniuria, venivano declinate molte figure di illecito che, oggi, rientrano nella tutela approntata dal Codice penale (artt. 582 e ss., 594 [abrogato] e ss. c.p.). Come detto nel titolo del paragrafo, con quella espressione si allude tanto alle lesioni fisiche (iniuria, os fractum, membrum ruptum ossia lesioni semplici, lesioni gravi e lesioni gravissime – secondo il linguaggio giuridico moderno), quanto a quelle morali (quali ingiuria, diffamazione, pubblicazione o recita di scritti lesivi dell’onorabilità altrui et similia). Circa la reazione dell’ordinamento giuridico romano, non sappiamo se l’aneddoto narrato da Aulo Gellio corrisponda a realtà – sebbene si possa ipotizzare che sia così, stante l’originalità del comportamento degli antichi (così come dell’uomo moderno). Secondo questa narrazione veniamo a conoscenza del fatto che già la Legge delle XII Tavole prevedeva una pena fissa per le iniuriae, e precisamente l’obbligo a carico dell’offensore di pagare alla vittima, al padre o al proprietario (a seconda che la lesione fosse stata provocata direttamente al cittadino romano, ad un suo famigliare o ad uno schiavo di sua proprietà) una somma determinata. Ebbene, stando alla letteratura latina, un certo cittadino romano si sarebbe divertito nel passeggiare per Roma schiaffeggiando, di quando in quando, i passanti, mentre uno schiavo dell’aggressore avrebbe immediatamente provveduto a pagare al malcapitato la somma stabilita dalla normativa decemvirale. Al fine di evitare che un simile comportamento potesse assumere i contorni di una sorta di ‘sport nazionale’ (e che molti si divertissero a colpire i

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passanti risolvendo la propria responsabilità con l’immediata corresponsione della somma fissata dal diritto), si optò per la creazione di una azione estimatoria (actio aestimatoria), attribuendo ad un collegio giudicante la precisa determinazione della quantità di denaro a cui condannare l’offensore ritenuta congrua rispetto alla gravità del torto stesso. Per quanto riguarda l’aggressione all’onore altrui, nell’editto del pretore fu introdotto il cosiddetto ‘editto generale sulle ingiurie (edictum generale de iniuriis)’, seguito da una serie di editti particolari, che contemplavano specifiche figure di lesioni morali, quali insulti coordinati (editto de convicio), attentati al pudore delle donne e simili (editto de adetmptata pudicitia), altre ipotesi di offesa qualificata dal comportamento non equivoco (editto ne quis infamandi causa fiat, sebbene giudicato dagli stessi giuristi romani ‘supervacuum’ ossia particolarmente indeterminato), e sulle offese arrecate al padrone attraverso la battitura o le sevizie inflitte ad uno dei suoi schiavi (editto de iniuriis quae servis fiunt). L’‘editto generale sulle iniuriae’ affermava che chiunque avesse inteso agire per un’offesa morale avrebbe dovuto indicare con assoluta precisione la natura dell’atto lesivo subito e indicare l’editto particolare a cui intendeva fare riferimento. A questa imposizione di natura procedimentale il pretore aggiungeva una ratio (che si suole definire laudatio edicti) senz’altro condivisibile: chi agisce per tutelare la propria onorabilità – con un’azione che comporta il severo marchio morale e giuridico di infamia per il condannato – non deve, a sua volta, mettere in pericolo la reputazione altrui (ossia quello del convenuto), muovendo contro di lui in maniera generica.

7. CONCLUSIONI Come è sperabile sia emerso, e già in parte anticipato, l’intenzione perseguita in queste pagine è stata quella di cercare di rendere consapevoli del fatto che le norme del diritto penale-criminale non rappresentano un ‘sistema perfetto’, quasi leibniziano, matematico, preciso, indefettibile. Infatti, al di là del dogma della ‘certezza’ del sistema sanzionatorio (espresso dal brocardo – cioè dal ‘proverbio’ giuridico – nullum crimen, nulla poena sine lege, ossia che nessuno può essere incriminato, né sanzionato senza una legge precedentemente emanata secondo le regole costituzionali, e secondo una fattispecie tassativa – dovendo ricorrere nel fatto incriminato tutti gli elementi previsti dalla norma stessa), in realtà noteremo che il sistema penale, tanto antico quanto, talora, moderno, risponde spesso a contingenze politiche e a spinte sociali, culturali, economiche, spesso ideologiche, religiose e così via.

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Un caso particolarmente emblematico è stato, per il mondo antico, senz’altro quello relativo al ‘processo a Gesù’ (sebbene si debba ritenere che si sia trattato di un procedimento criminale sostanzialmente corretto e persino, a tratti, ‘garantista’ – ma non certo alieno da influenze politiche), o, più di recente, quello del problema relativo alla imputabilità dei soggetti passivi coinvolti nel cosiddetto ‘processo di Norimberga’, essendo costoro giudicati sulla base di norme incriminatrici successive al compimento dei fatti. È evidente che la (più che legittima) ‘sete’ di giustizia delle vittime degli orrori del Terzo Reich – in cui vennero compiuti atti di ferocia fino ad allora inaudita – si è incontrata, per così dire, con esigenze di natura ‘politica’, mentre si è (implicitamente e almeno in parte) scontrata con quelle della giustizia formale. La Corte giudicante era composta esclusivamente da giudici rappresentanti delle potenze vincitrici la Seconda guerra mondiale. La stessa città tedesca scelta per celebrare il processo lo fu poiché era stata, durante gli anni del potere hitleriano, la sede delle oceaniche, oniriche, tragicamente mistiche adunanze naziste, organizzate (in questo senso ‘magistralmente’) sotto la regia dell’architetto di regime Albert Speer.  

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CAPITOLO OTTAVO

LA PERSISTENZA DEL DIRITTO ROMANO DOPO LA SUA VIGENZA STORICA Federico Fernández de Buján SEZIONE I

IL DIRITTO ROMANO DOPO IL DIRITTO ROMANO: ESISTENZA E PERSISTENZA SOMMARIO: 1. I tre pilastri della civiltà. – 2. In principio era la Grecia. Conoscenza filosofica. – 3. Il pensiero giudaico-cristiano. La sua influenza sull’etica e sulla cultura occidentale. – 4. L’eloquente eco della grandezza di Roma. – 5. Il diritto, creazione di Roma. – 6. Dal diritto romano scaturì l’Università. – 7. La Scuola dei Glossatori. – 8. La persistenza del diritto romano. La sua recezione e la sua validità. – 9. Postglossatori o Commentatori. – 10. Lo ius commune come diritto vigente. – 11. Umanesimo giuridico. – 12. La Scuola del diritto naturale. – 13. L’usus modernus Pandectarum. – 14. La Scuola storica del diritto. – 15. Sistemi aperti e sistemi chiusi. – 15.1. La dicotomia common law e civil law. – 15.2. I tratti caratteristici. – 15.3. Influenza e presenza del diritto romano, per “azione” e come “precipitato” in entrambi gli ordinamenti.

1. I TRE PILASTRI DELLA CIVILTÀ È luogo comune dire che i tre grandi pilastri che sostengono la civiltà occidentale sono la filosofia greca, la religione giudaico-cristiana e il diritto romano. Il primo autore di questa trilogia è l’intellettuale e poeta francese Paul Valery. Si afferma spesso, molto spesso, che alla domanda «cos’è l’Europa?» risponda con risolutezza: «Atene, Gerusalemme e Roma». La trilogia è condivisa da pensatori di bagagli intellettuali e ideologici molto diversi. Benedetto XVI, Ratzinger, nel suo Discorso al Parlamento tedesco affer-

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ma: «Nella prima metà del II secolo precristiano vi fu un incontro tra il diritto naturale sociale, sviluppato dai filosofi stoici, e gli insigni giuristi del diritto romano. Da questo contatto nacque la cultura occidentale … di importanza decisiva per la cultura giuridica dell’umanità. Partendo da questo legame tra diritto e filosofia, il cammino che conduce, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo … inviolabili e inalienabili … fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo …». L’Europa, sottolinea Brague – filosofo francese esperto del Medioevo –, «è essenzialmente romana», essendo la sintesi di sé stessa con Atene e Gerusalemme. E prosegue dicendo che l’Europa è soprattutto “Roma”, non solo per le sue stesse creazioni, nemmeno per il suo Diritto, che è una sua straordinaria creazione, ma soprattutto per la sua “attitudine” ad assumere come propri contenuti altrui e tramandarli ai posteri. W. von Humboldt non esita a paragonare Roma con il corpo a cui la Grecia avrebbe infuso l’anima. La filosofia greca scopre l’uomo della ragione. Il diritto romano lo contempla dalla sua condizione di essere sociale e offre soluzioni alle controversie provocate dalla convivenza. E il Cristianesimo – religione per i credenti e filosofia per i non credenti – dà al mondo un codice morale personale e regole etiche di convivenza sociale che influenzano, in larga misura, la valutazione di ciò che è buono, onesto e retto.

2. IN PRINCIPIO ERA LA GRECIA. CONOSCENZA FILOSOFICA È la culla della nostra civiltà. Tre secoli di Atene classica rivoluzionano il mondo allora conosciuto e condizionano la storia dell’Umanità. Del suo impeto creativo siamo debitori. Il nostro pensiero e ragionamento è in gran parte dovuto ai filosofi greci. Quasi tutte le nostre categorie intellettuali, schemi razionali e modelli di argomentazione, rispetto della libertà, valore della democrazia e cura dell’educazione provengono dalla cultura ellenica. Leggendo Platone, abbiamo conosciuto il suo maestro Socrate e il suo insegnamento ci ha lasciato in eredità il suo discepolo Aristotele. Con loro si parte dalla curiosità come premessa della conoscenza, interrogandosi sulle principali questioni relative all’essere umano e al mondo, nelle sue cause ultime. Roma, dunque, conquista la Grecia e si fa conquistare da essa per irradiarne la cultura nel mondo e proiettarla ai posteri. Orazio sottolinea: «La Grecia prigioniera catturò il suo fiero conquistatore e portò le arti nel selvaggio Lazio». E Allan Poe aggiunge: «La gloria, quella era la Grecia ... la grandezza, Roma».

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3. IL

PENSIERO GIUDAICO-CRISTIANO. SULLA CULTURA OCCIDENTALE

LA

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SUA INFLUENZA SULL’ETICA E

Brague evidenzia come la «romanità cattolica» sia formata dall’assimilazione del messaggio cristiano, definendo l’identità europea: «Il cristianesimo rappresenta la forma stessa del rapporto europeo con l’eredità culturale». Dipinge una parte sostanziale della tela che rappresenta l’anima dell’Europa. Hegel sottolinea come la religione cristiana sia fondamentale per il superamento dell’antichità greco-latina in termini di concezione e formulazione del «diritto alla libertà soggettiva». E osserva che solo a partire dalla dottrina cristiana questo diritto diventa il principio di una «nuova forma del mondo». Nonostante il suo sentimento anticristiano, Steiner riconosce che: «... la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, la letteratura e il pensiero filosofico sono saturi di valori e riferimenti cristiani».

4. L’ELOQUENTE ECO DELLA GRANDEZZA DI ROMA Di solito si parla di circa cinquemila anni di storia: tremila prima di Cristo – dalla comparsa della scrittura – e duemila dell’era cristiana. Ciò che precede la scrittura si chiama “preistoria” non avendo a disposizione dati attendibili per riportare gli eventi accaduti. Dei cinque millenni di storia, Roma come realtà politica occupa quasi la metà. Datata la sua fondazione nell’VIII secolo a.C., Roma come capitale dell’Impero d’Occidente cade nell’anno 476 d.C., a seguito della conquista e dell’invasione dei popoli barbari. Complessivamente milletrecento anni in cui la storia di Roma, specie negli ultimi otto secoli, si confonde con la storia del mondo conosciuto. Virgilio già rimarcava ai suoi contemporanei: «Tu regere imperio populos, Romane, memento». Il filosofo spagnolo Ortega afferma: «Il popolo romano ... è l’unico che sviluppa l’intero ciclo della sua vita davanti alla nostra contemplazione. Degli altri, lo spettacolo è frammentario ... Il nostro sguardo può accompagnare la rude Roma quadrata nella sua gloriosa espansione ... Finora è stato solo possibile costruire una storia – nel rigore scientifico della parola – quella di Roma, così come la sua crescita … dal villaggio più rude che fu il Septimontium alla città imperiale e marmorea costruita dai Cesari, ha un ritmo ascendente, così vicino alla perfezione, che non sai se stai ascoltando una cronaca o una sinfonia. Per questo ha un valore paradigmatico e assume il pieno significato di classica». All’espansione di Roma si aggiunge la “romanizzazione”, che è la sua vera grandezza. La sua prodigiosa capacità di incorporare gli abitanti dei territori conquistati nel modo di essere e di sentire romano.

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Una volta caduto l’Impero d’Occidente l’eco eloquente è in grado di risuonare dalle sue rovine. Nell’Europa occidentale la maggior parte dei nuovi regni sono continuatori della realtà romana. Inoltre, con l’Impero d’Oriente, capitale Costantinopoli, Roma mantiene la sua presenza storica. Questo Impero d’Oriente considera sé stesso “la medesima Roma” fino alla caduta nelle mani dell’Impero Ottomano nel 1453. Pertanto, per più di duemilatrecento anni la storia dell’uomo sulla terra si fonde con la “Romanità”.

5. IL DIRITTO, CREAZIONE DI ROMA Roma trasmette al mondo il latino, origine delle nostre lingue romanze; eccezionali progressi nell’agricoltura, nell’ingegneria civile e militare, nell’architettura, nel calendario, nel sistema numerico, nelle vie di comunicazione, nell’approvvigionamento idrico, nell’arte della guerra, nell’organizzazione del territorio. Ma, soprattutto, il Diritto è la sua grande eredità. Il paragone fatto dall’intellettuale tedesco Leibniz è sorprendente quando afferma: «Dopo gli scritti dei geometri, nulla può essere paragonato agli scritti dei giureconsulti romani”. I suoi modelli di organizzazione giuridica e politica dell’individuo e della società sono imperituri. Roma chiama il suo diritto ius civile, il quale comprende tutto il suo ordinamento pubblico e privato. «Il Diritto, creazione di Roma», si potrebbe quindi identificare meglio con la rubrica: «Il Diritto, creazione dello ius civile». Lo scrittore inglese Shelley nota: «La vera poesia di Roma fu nelle sue leggi: poiché quanto di bello, di vero, di maestoso esse contenevano poteva sorgere solo da quella facoltà, la quale creò l’ordine in cui esse sussistono». E il magistrato spagnolo Ruiz-Jarabo lo esprime con fermezza: «Roma, il popolo venuto al mondo con la missione quasi divina di creare il diritto». Prima di Roma l’unica cosa che esisteva era la “preistoria del diritto”. L’insieme delle disposizioni normative di popoli come il Sumero, il Babilonese, l’Egizio, il Fenicio, l’Ebraico o l’Attico è “preistoria”, perché anche nei loro due monumenti legislativi più rilevanti – il Codice di Hammurabi e le Leggi di Solone –, sono solo rudimenti di una cultura giuridica la cui proiezione nel processo evolutivo della storia del diritto è molto scarsa.

6. DAL DIRITTO ROMANO SCATURÌ L’UNIVERSITÀ L’Università fu creata per lo studio del diritto romano. Nel 1088, nella Bologna medievale, alcuni maestri di logica, grammatica e retorica iniziarono

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a studiare i testi contenuti nel Digesto di Giustiniano e ne iniziarono la diffusione, attraverso manoscritti che chiamiamo “Vulgata”. Quei Maestri e gli studenti che li assunsero fondarono l’Università come la conosciamo. E l’unico oggetto di studio e di insegnamento era il Digesto, il più grande Thesaurus giuridico della Storia. Pertanto, si può affermare inequivocabilmente che l’Università fu creata esclusivamente per lo studio del diritto romano. Inoltre, per ben due secoli fu l’unica materia che veniva studiata e insegnata. Si dovette attendere il XIV secolo perché gli “artisti”, cioè le arti liberali, venissero inglobati nello studio giuridico dei testi romani. Così, gli studi di medicina, filosofia, aritmetica, astronomia, logica, retorica, grammatica e, infine, teologia, che fu studiata per la prima volta, in ambito universitario, nei chiostri di Notre Dame a Parigi, dove sorse l’Università della Sorbona. Il diritto romano avvia gli studi universitari anche in altre città. Così a Padova, il cui motto è: Universa universis patavina libertas. In seguito a divergenze con la facoltà di Bologna, un gruppo di studenti e docenti vi si trasferì e ottenne del sostegno economico dal Comune. I suoi primi Statuti risalgono al 1222. Il diritto romano è anche una delle cause principali della creazione dell’Università di Montpelier. Placentino porta il suo studio in Francia intorno alla metà del XII secolo. In Inghilterra, nella metà del XII secolo, un allievo dei maestri glossatori, Vacario, arriva portando a Oxford il diritto romano. Con lo scopo del suo insegnamento fonda in questa città una Scuola di diritto. Quasi dal primo momento è frequentata per numerosi studenti che si interessano per i testi del Digesto e la sua spiegazione tramite il metodo delle glosse. Per questo le autorità nell’ambito giuridico inglese temendo che la diffusione del diritto romano metta in rischio le tradizioni giuridiche proprie e per questo ordinano chiudere la Scuola di Vacario. Ma le sue tracce si mantengono vive e il suo magistero permanere.

7. LA SCUOLA DEI GLOSSATORI Da questi studi, che a poco a poco si diffondono in tutto il continente, inizia la persistenza del diritto romano, la sua “seconda vita”, la recezione del diritto romano in Occidente. E sorge la “tradizione romanista”, insieme di nozioni e categorie che arrivano quasi indenni ai nostri giorni e hanno condizionato il modo di ragionare giuridico attraverso il tempo. Inoltre, la sopravvivenza del diritto romano, come diritto attuale, copre il tempo compreso tra la comparsa della Scuola dei glossatori e la conclusione dei processi di codificazione. Parimenti, il diritto romano contribuì, in modo

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determinante, all’elaborazione della legislazione canonica, arrivando la sua influenza fino all’attuale codificazione. Si possono citare, ad exemplum, come categorie giuridiche romane, attualmente vigenti: diritti reali e personali; obbligazione e contratto; dolo e colpa, mora, caso fortuito, casus, forza maggiore, vis maior; responsabilità contrattuale ed aquiliana; pegno, ipoteca e cauzione; possesso, proprietà, usufrutto, servitù, enfiteusi e superficie; compravendita, periculum, vizi occulti, mandato, società, locazione; matrimonio, filiazione, patria potestà, adozione e tutela; successione intestata e successione testamentaria, testamento e codicillo; legittima, erede, legatario, sostituito, fiduciario e donazione “sono come sono”, perché così le configurarono i giurisprudenti romani. Anche in ambiti del diritto che sembrano recenti si può riconoscere il diritto romano. Così, ad exemplum, nel Diritto commerciale. In questo senso afferma García Garrido: «È legittimo sostenere l’esistenza di precedenti romani negli attuali sistemi e operazioni del mondo delle finanze, purché se ne evidenzino le differenze... analizziamo regole, principi e istituti giuridici applicabili agli affari bancari e al commercio che giustificano che si possa parlare di un diritto commerciale romano». Tale influenza può essere attribuita, con un influsso diverso, anche nell’ambito del diritto pubblico. Così come, nel contenuto delle Costituzioni imperiali emanate dal consilium principis – in cui collaborano eminenti giuristi di ogni epoca –, si attua un’organizzazione esemplare, fondata sul territorio, sulle strutture di governo, tanto dell’organizzazione della Urbs quanto della presenza della Metropoli nei popoli inglobati nella sua civiltà attraverso le province, le colonie e i municipi. Inoltre, in queste Costituzioni si configura il nucleo fondamentale di innumerevoli categorie di diritto pubblico. Antonio Fernández de Buján difende, con solido fondamento, che il rilevante insieme di categorie e istituzioni amministrative e fiscale nella esperienza romana – sebbene non c’è una teoria generale– permette parlare di “Diritto amministrativo e fiscale romano”. In questo senso, tra altri concetti e categorie, possiamo referire: pubblico dominio, lavori pubblici, concessioni, servizio pubblico, contratti amministrativi, ordine e traffico pubblico, polizia edilizia, giustizia penale e giurisdizione amministrativa, diritto urbanistico, sanità e assistenza sociale, istruzione e beneficenza pubblica, strade, acque e miniere, esazione, principi e gestione tributaria, illeciti fiscali e un lungo eccetera. Hegel, che non nasconde mai la sua predilezione per la Grecia, afferma: «Che la giurisprudenza abbia il suo latino e la sua romanità». E Kant rileva: «Il Corpus Iuris civilis è la più grande prova della profondità umana. La scoperta delle Pandette nell’XI secolo è la migliore scoperta che gli esseri umani

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avrebbero mai potuto fare tra i libri. Goethe, lo scrittore che incarna l’essenza della letteratura tedesca, esprime questo trascorrere, nascondersi e comparire, dicendo: «Il diritto romano non presenta un declino definitivo in quanto assomiglia a un’anatra che si tuffa nell’acqua e scompare, ma non si perde mai, perché riaffiora sempre manifestando la sua perenne vitalità». Nell’attualità – intesa come tale dal processo di codificazione ai giorni nostri –, esistono tre Diritti romani: uno storico, che era e non è più; un altro che è precedente; e un terzo che è diritto vigente. In primo luogo, si presenta come diritto storico, che in un altro tempo era in vigore ma di cui non ce n’è più traccia nel diritto vigente. E aggiungo “per fortuna”. Le circostanze sociali regolate dall’ordinamento giuridico sono mutate in meglio e quelle istituzioni sono felicemente scomparse; così, istituzioni come nexum, usurpatio trinotii, manus maritalis o manumissio, tra le altre. In secondo luogo, il diritto romano è il più importante precedente storico di molte istituzioni del diritto attuale. Sconfinano gli esempi in questa categoria. La sua mera enunciazione è impossibile. In essi il diritto romano si configura come straordinario elemento interpretativo del diritto positivo. Ma, in terzo luogo, negli altri casi, il diritto romano è più precedente, in quanto può essere riconosciuto come diritto attuale. Questa terza manifestazione si precisa nelle grandi categorie che, trasmesse nel corso del tempo, sono diventate il precipitato raccolto nel tenore letterale dei codici e delle leggi che compongono il diritto positivo. Poiché la sua essenza non è cambiata, è una legge attuale senza tempo ed età. È la struttura concettuale e l’alfabeto giuridico permanente. Salvatore Riccobono dichiara «l’eterna validità concettuale del diritto romano». Un vero Thesaurus legale universale capace di farsi assorbire in spazi – ad esempio, il Giappone “di ieri” e oggi la Cina – in cui la distanza fisica dall’Occidente si coniuga con la lontananza culturale. E consapevole del suo ineludibile valore formativo, Brogginni afferma: «Abbandonare il diritto romano nella formazione del giurista d’oggi, significherebbe … spegnere una luce … La vita significa essere per strada. Guai a colui che cammina senza a sapere da dove viene».

8. LA PERSISTENZA DEL DIRITTO ROMANO. LA SUA RECEZIONE E LA SUA VALIDITÀ

L’Alma mater studiorum di Bologna era organizzata come un gruppo di studenti, appartenenti a diverse nationes, riuniti in un’unica forma associativa; uniti da un giuramento di appartenenza; e che si raccoglievano intorno

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ad alcuni noti maestri della città, che venivano impiegati per spiegare i testi del Digesto. Per preparare le lezioni, i docenti formulavano delle “glosse”, che erano commenti chiarificatori che venivano inseriti nei Codici, con uno scopo “esplicativo”, non interpretativo. Avevano un notevole interesse pratico, poiché i frammenti venivano invocati, come diritto suppletivo, dinanzi ai Tribunali e questi risolvevano le controversie sottoposte alla loro giurisdizione con l’applicazione diretta dei frammenti romani completati con le glosse. Dovuto a queste, la Scuola è conosciuta come i “Glossatori”. Irnerio fu il primo a leggere in pubblico e procedere a spiegare i testi del Digesto di Giustiniano. Il suo lavoro presto si proietta nel mondo. Odofredo la descrive come «lucerna iuris qui coepit per se studere … et studendo coepit docere in legibus». Abbiamo pochi dati certi della sua vita. Nato a Bologna, si ritiene che andasse a studiare legge a Roma. Ritornato a Bologna e inquadrato nel Trivio – in relazione alla retorica e alla dialettica –, iniziò a spiegare nozioni giuridiche provenienti dalle Istituzioni di Giustiniano. Svolse funzioni consultive in un Tribunale di Giustizia, venendo poi nominato Giudice. Successivamente, il diritto contenuto nel Digesto diventerà l’oggetto del suo impegno esclusivo. Quando le glosse erano brevi, venivano scritte, in modo interlineare, tra il testo. Le più estese venivano inserite ai margini. Un insieme di glosse che si riferivano a un certo argomento costituiva un’opera a sé stante chiamata apparatus. Inoltre, i glossatori furono in grado, attraverso la loro esauriente conoscenza dei testi casistici, di formulare regole generali dette “brochards”. Le distinctiones, dal canto loro, erano esposizioni che riguardavano un concetto giuridico generale che i maestri espongono sulla base dei frammenti romani. Infine, si chiamano Summae le opere che formano un’ampia serie di glosse sull’intero Digesto. La più antica conservata è la Summae Trecensis la cui paternità è discussa, anche se per lo più la dottrina propende per Irnerio. In ogni caso, il più famoso ed esaustivo è il Summae Codicis di Azzone che è, senza dubbio, uno dei manuali di diritto più diffuso nel Medioevo. Da parte sua Acursio, reputato il più insigne glossatore, scrisse quella che si chiama Magna Glossa, la quale raccoglie quasi centomila commenti ai testi del Digesto. È considerata un testo ineludibile di conoscenza nella storia della scienza giuridica medievale. In sintesi, si può dire che nella Bologna del XII e XIII secolo ad opera dei glossatori inizia propriamente la “scienza” del Diritto, come area di conoscenza e comprensione. Questa Bologna medievale, con il suo conglomerato di studenti provenienti da ogni angolo del continente e dalle isole britanniche, fu il punto di partenza di un diritto europeo che sarà, e lo è tuttora, luminare giuridico universale.

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9. POSTGLOSSATORI O COMMENTATORI Alla fine del XIII secolo, il lavoro dei glossatori fu sostituito da quello dei cosiddetti postglossatori o più propriamente “Commentatori”, al fine di dotarli di un significato proprio e non solo di continuità rispetto ai loro predecessori. I principali rappresentanti di questo nuovo orientamento degli studi di diritto non si concentrarono a Bologna, a differenza dei glossatori. Sono altri centri universitari, allora fiorenti, come Padova, Perugia e Pavia dove sviluppano il loro studio e insegnamento. Nelle loro ampie opere, a differenza dei glossatori, formulano concetti generali e non si limitano a comprendere i frammenti casistici del Digesto. I commentatori aprono allo stesso modo il loro campo di attenzione al di là del Digesto, analizzando tutto il Corpus iuris civilis (comprensivo delle Istituzioni, del Codice, del Digesto e delle Novelle), e anche il diritto canonico. Riescono così a configurare un autentico diritto privato comune, con l’armonica congiunzione del diritto giustinianeo come diritto di “ordine naturale”, e il diritto canonico che, essendo la sua fonte di produzione la Chiesa di Roma, viene promulgato fin dal suo inizio con presunzione di universalità o “cattolicità”, a causa della auctoritas, “autorità morale”, di chi lo dettava. L’unione intrecciata dei due diritti è chiamata utrumque ius. Questa espressione simboleggia la conciliazione del diritto emanato secoli fa dall’Imperatore e il diritto promulgato dal Papa. I principali studiosi di questa Scuola furono Cino da Pistoia, la cui vita si svolge tra l’ultimo terzo del XIII e il primo del XIV secolo; suo discepolo Baldo degli Ubaldi; e, soprattutto, Bartolo da Sasoferrato, discepolo a sua volta di Baldo. È curioso constatare come questa triade di giuristi, intrecciati da insegnamento e discepolato successivi, sia perfettamente equiparabile a quella che si dette tra i tre filosofi forse più sublimi della storia: Socrate, Platone e Aristotele, come abbiamo già visto. Per gran parte della dottrina, Bartolo è il più eminente e geniale giurista del Medioevo. Insegnò a Pisa e poi a Perugia. Il suo prestigio fu straordinario tra gli studiosi e la sua estesa “Opera di commento al Corpus” fu considerata diritto applicabile nei tribunali di tutta Europa. Nessuno poteva pretendere di studiare legge senza addentrarsi nell’opera di Bartolo. Alla sua morte furono istituite Cattedre nelle Università, con l’unico scopo di studiare la sua produzione, essendo questa ritenuta raccolta di tutto il diritto. Così si consacrò l’aforisma: “nemo bonus iurista (sit) Bartolista,” cioè in libera traduzione: «per essere un buon giurista bisogna conoscere a fondo la dottrina contenuta nei testi di Bartolo». Già nella sua breve vita, ma molto di più dopo la sua morte, i laureati portavano con sé nei propri luoghi di origine, quale prezioso tesoro, i libri

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contenenti parti della sua colossale opera. I suoi commenti e le sue riflessioni sui testi giustinianei sempre mirarono a trovare la ratio legis, la ragione che illumina la legge. In sintesi, glossatori e commentatori utilizzarono metodi scolastici simili con particolarità proprie. Questo modello di studio dei testi giustinianei è noto con il nome di mos italicus, in quanto modalità sviluppata nelle università italiane.

10. LO IUS COMMUNE COME DIRITTO VIGENTE Il Medioevo contribuì in modo decisivo alla storia della scienza del diritto con la comparsa di uno ius commune. Questa espressione era già usata dai giuristi romani, ma in un senso molto diverso. Ora viene intesa come una realtà giuridica unificata di applicazione, per secoli, come diritto vigente in Europa. Si applicherà come diritto suppletivo rispetto ai diritti locali, conosciuti come iura propria. Questi erano di contenuto consuetudinario o statutario, cioè dei vari Statuti cittadini. In entrambi i casi, la sua regolamentazione era troppo scarsa per risolvere tutte le situazioni conflittuali che potevano sorgere, per cui lo ius commune, nonostante il suo carattere di diritto suppletivo, fu di generale applicazione nel colmare le immense lacune dei diritti locali. Anche in questi finisce per penetrare lo spirito dello ius commune nelle sue formulazioni particolari. Secoli dopo, quel “diritto comune” sarebbe diventato una delle colonne su cui si baserebbe il processo di codificazione. Il suo contenuto consiste essenzialmente nei commenti di glossatori e commentatori, che, in sintesi, sono l’espressione della loro interpretatio, sul diritto contenuto nella Compilazione. Tale lavoro interpretativo non solo svelava il senso dei frammenti studiati, ma a volte i commentatori adattavano il senso alle nuove circostanze socioeconomiche del loro tempo. In tal modo riuscirono a rendere le loro opere direttamente applicabili nei tribunali, ancor più degli stessi testi glossati. I precetti canonici e la dottrina che su di essi venne elaborata costituiscono anche questo diritto comune. La cosa più importante è l’armonica congiunzione dei diversi sistemi normativi che sono diritto vigente nel Medioevo. Di conseguenza, lo ius commune e ciascuno dei diritti propri formano in ogni territorio un’unità omogenea al l’interno della pluralità. Lo ius commune diventò il diritto suppletivo di tutti i territori del Sacro Romano Impero. Questo potere imperiale si riteneva erede di Roma e anche del suo diritto contenuto nel Corpus. Al tempo stesso assumeva i valori cri-

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stiani e faceva proprio il diritto della Chiesa. In questo modo si avverava la massima del Romano Impero d’Oriente: unum imperium, unum ius, «se uno è l’impero, uno deve essere il diritto».

11. UMANESIMO GIURIDICO Cominciamo con una descrizione giuridica storica degli inizi del XVI secolo. In questo secolo ebbe inizio la formazione delle nuove realtà politiche che finiranno per formare il ricco mosaico delle nazioni europee. Ne consegue l’emergere di “diritti nazionali” di portata territoriale di gran lunga superiore a quelli che costituivano i diritti locali. Questo diritto nazionale ha la sua fonte di produzione nei monarchi dei vari regni che, in diversa misura, a seconda dell’epoca storica, si trovano ancora “uniti” formalmente in un comune Impero. Tuttavia, ogni sovrano è imperator in regno suo, in libera traduzione, “governa e legifera nel proprio regno”. L’usanza assunse una forza particolare e il suo diritto consuetudinario diventò una fonte relativamente importante di conoscenza del diritto. Alla fine del XVI secolo venne realizzata in Francia una Raccolta delle coutumes in vigore. La loro validità giuridica secolare fa sì che eminenti giuristi francesi, esagerando, affermino che «i costumi francesi costituiscono il nucleo essenziale del loro diritto civile». Essi ritennero che il codice civile dovesse risultare dalla fusione tra diritto consuetudinario e diritto scritto. Concentrandoci ormai sull’Umanesimo, nei secoli XVI e XVII lo studio del diritto cambiò radicalmente rotta. I frammenti dei giureconsulti romani contenuti nel Digesto sono studiati nella loro individualità. Partendo dal testo giustinianeo, si tratta di interpretare il frammento compilato per inferire l’enunciazione originale del giurista romano classico. Inizia lo studio del diritto dal cosiddetto “metodo storico-critico”. L’Umanesimo si inserisce nel movimento rinascimentale che persegue un ritorno al mondo greco-latino. Il ritorno ai classici, la passione per conoscere la loro realtà, “incontaminata” dal Medioevo, porta in campo giuridico all’Umanesimo Giuridico che cerca di scoprire partendo dal Corpus, il diritto classico. Cicerone definisce la logica come l’arte di dissertare correttamente, ars bene disserendi, e la divide in topica e dialettica. Ci interessa la seconda in quanto analizza il valore degli argomenti. Questa concezione della dialettica è utilizzata dagli Umanisti e dall’Umanesimo giuridico. Con grandi conoscenze filologiche gli studiosi si ritengono in grado di (ri)scoprire l’enunciato genuino dei testi dei giuristi classici raccolti nel Corpus giustinianeo. In questo modo nacque il mos gallicus, chiamato così per essere la Francia il paese nel quale si sviluppò maggiormente questa corrente di studio, che si

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differenziava dal mos italicus sia per il metodo che per il fine perseguito; per quanto riguarda il metodo, perché glossatori e commentatori non si preoccupano delle alterazioni dei testi classici nei compiti di compilazione, e gli umanisti cercano di scoprirli; quanto alla fine, i primi pretendono che i loro commenti servano a far sì che il diritto del Corpus sia di applicazione nei Tribunali, mentre gli Umanisti pretendono accertare la logica del giurista e ricostruire attraverso, l’esegesi, il testo classico. In questo senso, il diritto romano ha valore in sé stesso, non ha bisogno di essere applicato per essere stimato. Deve essere preso in considerazione non ratione imperio, bensì imperio rationis; vale, cioè, per la forza della ragione che è intrinseca ad esso e non per la forza della sua vigenza. Tuttavia, ritengo che ius italicus e ius gallicus non debbano essere considerati come correnti essenzialmente contrapposte, ma piuttosto dovrebbero essere viste come complementari. L’una e l’altra hanno notevolmente arricchito la tradizione giuridica europea. Sono esponenti di spicco del mos gallicus, tra altri, Cujas, Doneau e Antonio Agustín. Cujas si caratterizza per avere un conoscere vastissimo e profondi delle fonti romani. Difende che il diritto contenuti in questi e superiore a qualcun altro nella storia giuridica. Sebbene il suo scopo è, d’accordo con l’umanesimo giuridico, scoprire il testo genuino del diritto romano classico non partecipa della radicalità di altri suoi contemporanei nel credere che gran parte del Digesto è stato alterato per i compilatori tramite l’interpolazioni. Oltre al diritto romano del Corpus è uno studioso che si dedica all’approfondimento del diritto bizantino, del diritto germanico e del diritto canonico. È autore di una immensa opera che sempre è stata oggetto di consulta. Donellus o Doneau, padroneggiava alla perfezione l’imponente opera di Bartolo da Sassoferrato e con i suoi studi cerca di conciliare il diritto scritto, ossia il diritto romano compilato, con il diritto consuetudinario, conosciuto in territorio transalpino con il nome di droit coutumier, composto da un insieme di usi e costumi il cui rispetto era considerato obbligatorio in determinati territori in cui si erano venuti a consolidare. Donellus raggiunge inoltre un ordinamento del diritto giustinianeo, riuscendo a differenziare tra il diritto sostantivo, che contempla i contenuti delle istituzioni, e il diritto aggettivo, ossia il diritto processuale in virtù del quale vengono stabilite le norme procedurali delle controversie. Lo spagnolo Antonio de Agustín nacque nel Regno d’Aragona. Primo studia Diritto nell’Università di Salamanca, che è la prima Università della Spagna, al cominciare con le “Scholas Salmanticae” fondati per Alfonso IX Re di Leone, all’inizio del XIII secolo. Dopo il suo passaggio a Salamanca, de Agustín si trasferisce in Italia con lo scopo di approfondire nello studio del

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Diritto. Così frequenta gli Atenei di Bologna e Padova. Raggiunge il titolo di Dottore in utrumque ius. Pubblica numerose opere di diritto romano e canonico. Anche è un esperto in Epigrafia e Numismatica, in quanto scienze ausiliari alla conoscenza del diritto romano classico. È la figura più rilevante dell’Umanesimo rinascimentale spagnolo.

12. LA SCUOLA DEL DIRITTO NATURALE In Olanda sorge un movimento conosciuto con il nome di “Giurisprudenza elegante” che si innesta in modo ampio nell’Umanesimo giuridico, anche se con tratti specifici. Ugo Grozio ne è il fondatore e rientra tra i precursori del nuovo diritto internazionale. All’interno di questa corrente nasce nel XVII secolo la “Scuola del diritto naturale” che rappresenta una particolare ramificazione della corrente dell’Umanesimo giuridico, in base alla quale il diritto costituisce un prodotto della ragione umana e pertanto è consustanziale a ogni essere umano. Esiste pertanto una sostanziale realtà giuridica che viene proiettata nel tempo, in modo indeterminato, e si irradia in tutto il globo senza limitazioni, acquisendo pertanto un carattere universale e atemporale. I suoi principi e postulati sono pertanto immutabili nel tempo e identici nelle diverse civiltà coeve. Si sostiene così il “razionalismo giuridico”, sulla base del ragionamento che qualsiasi diritto, indipendentemente da circostanze temporali e spaziali, abbia come causa ultima l’immutabile natura umana, da cui si possano razionalmente dedurre principi che consentano di regolare la convivenza sociale e risolvere i conflitti che questa presenta. Si ritiene che il diritto contenuto nel Corpus sia espressione paradigmatica di tale concezione razionale, ragion per cui viene considerato la ratio scripta giuridica. In questo senso, partendo dallo studio e dalla comprensione dei testi compilati, nonostante la loro natura fondamentalmente casistica, è possibile compiere un esercizio di elevazione e astrazione, nonché formulare regole e principi giuridici con valore atemporale. I loro studi tendono altresì a enunciare un sistema unitario che include i principi formulati e sistematizzarli al fine di delimitare diverse categorie, ciascuna di esse applicabili a una determinata materia o istituzione giuridica. Oltre a Grozio, giurista dei Paesi Bassi della prima metà del XVII secolo, tra gli insigni rappresentanti di questa Scuola si annoverano Samuel Pufendorf, giurista, economista e filosofo tedesco della seconda metà del XVII secolo, nonché i francesi Domat, figura chiave per quanto riguarda la sua dottrina sull’interpretazione delle leggi, e Pothier, ormai nel XVIII secolo, la cui opera

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esercita un influsso determinante sulla redazione del Codice di Napoleone. Da ultimo si deve rilevare come sia da considerarsi questa Scuola del diritto naturale la base su cui verranno costruiti i Codici civili, per cui l’intero processo di codificazione le è debitore.

13. L’USUS MODERNUS PANDECTARUM Mentre nell’ambito europeo continua a prevalere l’uso del diritto storicocritico, in Germania il diritto romano è considerato diritto in vigore nei secoli XVI e XVII. In una fase precedente all’elaborazione del BGB, emerse in Germania l’usus modernus pandectarum, che potrebbe essere tradotto come “pratica moderna delle Pandette” in riferimento al nome greco del Digesto. L’espressione fa fortuna e si crede sia contenuta in un’opera del Settecento. Questo movimento difende la validità del diritto romano nella pratica giudiziaria. La sua validità è rispettata nel Tribunale Camerale, che statuisce secondo il “diritto comune” del Reich, che è il diritto romano interpretato da Glossatori e Commentatori. Questa corrente sarà il fondamento dottrinale su cui si costruirà la Scuola Storica del Diritto.

14. LA SCUOLA STORICA DEL DIRITTO All’inizio del XIX secolo in Germania apparve una delle correnti più trascendentali del pensiero giuridico nella storia del diritto: la Scuola Storica del Diritto. Il suo fondatore e massimo esponente è Federico Carlos de Savigny, professore di diritto romano all’Università di Berlino. Studia, in modo approfondito, la storia del diritto romano e la storia di ciascuna delle sue istituzioni. Nella sua magna opera, “Sistema del diritto romano attuale”, espone il suo sistema pandettistico – di costante riferimento –, realizzando l’aggiornamento del diritto romano. Fu nominato ministro dell’Impero prussiano. La sua eccezionale personalità riesce a ritardare, di quasi un secolo, la tendenza codificatrice che si era diffusa in tutta Europa dopo la promulgazione del codice napoleonico. Le ragioni addotte erano che la Legge è espressione dei costumi e delle tradizioni di ogni popolo. Difende che la legge non è un prodotto della ragione che dà origine a norme astratte e intemporanee, ma piuttosto che è lo “spirito del popolo”, Volksgeist. Deve nascere dal “proprio essere”, dal “sentimento etico” o dalla “coscienza” di ogni popolo, per quello che è, per quello che la sua storia dice che sia. Ritiene che, nel suo tempo, la Germania debba adattare il diritto giusti-

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nianeo alle esigenze socioeconomiche. Un suo discepolo sottolinea l’importanza del diritto romano affermando, in sede giudiziaria, «qui habet regulam iuris communis pro se, habet intentem fundatam», che in traduzione libera equivale a dire: «solo la pretesa processuale che invoca il diritto romano – accennato come ius commune – è una pretesa fondata». Altri illustri rappresentanti della Scuola diedero importanti contributi, alcuni contraddittori tra di loro. Così Puchta che difende la “giurisprudenza dei concetti”, contro la quale reagisce von Ihering, romanista a Vienna, con la sua “giurisprudenza degli interessi”. Un altro illustre rappresentante è Windscheid, che può essere considerato il promotore del BGB. Come continuazione della Scuola Storica, nasce lo “Storicismo”, di cui il massimo rappresentante è Teodoro Mommsen, uno dei più importanti romanisti di tutti i tempi e anche storico, filologo, papirologo ed epigrafista. La sua opera colossale “Storia di Roma” – che riceve il Premio Nobel per la Letteratura – racconta l’epoca monarchica e, soprattutto, quella repubblicana; e l’altra sua storia dal titolo “Le province da Cesare a Diocleziano” sono un punto di riferimento per tutti gli studiosi.

15. SISTEMI APERTI E SISTEMI CHIUSI 15.1. La dicotomia common law e civil law La dottrina, durante un’analisi comparativa dei diversi ordinamenti giuridici, ha configurato una distinzione classica tra due grandi categorie, ciascuna di esse comprensiva di un insieme plurale che raggruppa ordinamenti normativi che presentano un sistema simile di fonti di produzione del diritto. In questo senso, la principale ripartizione dei sistemi giuridici distingue tra “sistemi aperti” vs. (versus di fronte a) “sistemi chiusi”. Il common law e il civil law rappresentano due meravigliose esperienze giuridiche nel corso della storia della scienza del Diritto. L’espressione common law, consolidata in tutto il mondo, non è passibile di una traduzione precisa, in quanto la trasposizione letterale “diritto comune” non ne renderebbe lo spirito. L’appellativo rimanda infatti alla sua origine, che risale alla conquista normanna della Britannia, avvenuta nell’XI secolo, quando, e in contrapposizione alla diversità giuridica esistente, dovuta a un insieme di varie consuetudini locali, si impone un ordine giuridico “comune”, o common in inglese, applicabile in tutti i Tribunali del nuovo regno. Questa giustificazione storica della sua terminologia non risponde alla realtà successiva in quanto attualmente rappresenta “un sistema aperto” che

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raggruppa un insieme di ordinamenti nei quali il diritto non è “racchiuso” nei codici, bensì costituisce un diritto giurisprudenziale, in costante trasformazione attraverso le pronunce, opinions, emanate da giudici e tribunali; sono di somma importanza i principi ispirati all’equità, equity. Come è noto, il “sistema aperto” per antonomasia, origine di tutti gli altri, è quello britannico, basato sul case law method e, per estensione e derivazione, da decenni anche il sistema giudiziario americano. Accanto alle due realtà menzionate, di fondamentale importanza in tutti gli ambiti giuridici, formano parte di questo sistema la maggior parte dei componenti di The Commonwealth of Nations, ossia Paesi storicamente legati al Regno Unito, tra cui Australia, Canada e India. In opposizione a questa categoria generica viene denominato civil law il sistema in cui si inquadrano gli ordinamenti giuridici dei Paesi, in generale, dell’Europa continentale, a cui si aggiungeranno, a partire dal momento della loro iniziale indipendenza, i nuovi Stati latinoamericani, a causa dell’influenza principalmente della Spagna ma anche del Portogallo. Costituiscono sistemi “chiusi” a causa del fatto che il loro Diritto vigente si riconosce fondamentalmente in alcuni testi legali scritti composti da un insieme di articoli che formano il diritto che il singolo può invocare al fine di basare le proprie pretese e difendere i propri diritti soggettivi dinanzi alle autorità giudiziarie. In questi sistemi acquista un’importanza decisiva il “principio di certezza giuridica”, basato sul principio di legalità, in quanto il tribunale giudicante è tenuto a risolvere le controversie che vengono sottoposte alla sua giurisdizione mediante l’applicazione del “diritto oggettivo” che può essere conosciuto dalle parti. I giudici pertanto devono sentenziare in conformità al diritto; non è infatti ammissibile una sentenza che non si basi sui pertinenti precetti legali.

15.2. I tratti caratteristici La differenziazione della menzionata dicotomia, pur essendo affrontata da studiosi di diverse discipline giuridiche, è materia oggetto del “Diritto comparato”. Partendo da una generalizzazione approssimativa, provvedo ad esporne alcuni tratti caratteristici. La scienza giuridica del common law ha sempre presentato uno spiccato profilo forense, mentre quella del civil law ha avuto, soprattutto in passato, un notevole aspetto accademico: per questo motivo, mentre nella prima il prototipo del giurista è il giudice, nella nostra realtà continentale è stato lo studioso, in veste di professore. Lo sviluppo del common law avviene in conseguenza dell’intervento decisorio del sistema giudiziario stesso, il quale, per mezzo della risoluzione con-

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tinuativa di controversie forensi, in alcuni casi si attiene ai precedenti mentre in altri provvede ad emanare nuove sentenze, a causa del fatto che il caso giudiziario in esame presenta aspetti nuovi, che non sono stati oggetto di sentenze precedenti, o perché i tribunali sfumano o addirittura modificano il ragionamento o la valutazione delle circostanze esposte rispetto alle decisioni precedenti. Si configura così una tradizione, judge-made law, caratterizzata in parte da continuità e in parte da progresso per via della costante riformulazione ed eventuale evoluzione. Certamente è fondamentale che l’avvocato conosca e persino padroneggi, nel modo più esaustivo possibile gli imponenti repertori conosciuti con il termine di law reports, trattandosi di un Diritto di creazione giudiziaria in cui la dottrina dello stare decisis viene invocata in nuovi procedimenti per basare le pretese delle parti. Questo metodo di insegnamento universitario del Diritto, partendo dal caso, segue la “maieutica socratica”. Viene infatti esaminato un compendio esaustivo di casi giudiziari sistematizzati per riuscire a dotare gli apprendisti giuristi di argomenti esposti con solida destrezza logica e ferma abilità argomentativa. In ogni caso Maitland, identificato come uno dei più rilevanti studiosi del common law, riconosce il valore inestimabile del diritto romano e dichiara: «L’Europa senza il Digesto non è l’Europa che conosciamo». Il common law possiede quindi una normatività non scritta e, di conseguenza, non promulgata, che viene completata invocando la dottrina scientifica degli studiosi del diritto e con il riconoscimento della custom, la consuetudine, che acquisisce un’importanza decisiva in determinati ambienti economici contemporanei come nella pratica commerciale, law merchant. Al contrario, nel sistema di civil law, dal recepimento del Diritto romano attraverso il Diritto contenuto nel Corpus, l’azione e l’arbitrio giudiziale che esercitano i Tribunali sono condizionati dalla norma vigente, racchiusa nei codici. Il discernimento del caso sottoposto alla loro giurisdizione viene così limitato, in primo luogo, alla determinazione della legge applicabile, ossia analizzando il caso fattuale problematico in conformità alle posizioni delle parti in causa, e in secondo luogo, nonché con maggiore importanza, all’interpretazione della normativa astratta per offrire, partendo da essa, una soluzione concreta che risponda allo spirito che permea la norma. Ciò ha l’effetto essenzialmente positivo di offrire un principio di “certezza giuridica” il quale si traduce nella desiderabile prevedibilità delle conseguenze giuridiche che derivano o possono derivare da una determinata condotta nell’ambito pubblico, come il Diritto penale, o privato, per quanto attiene ai rapporti patrimoniali tra individui.

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Ciò offre alle parti in conflitto, al momento di prendere la decisione se dare inizio o meno a una controversia giudiziaria e alla loro difesa una volta iniziata la procedura, un livello di “prevedibilità” circa le proprie pretese, in relazione alla possibile sentenza giudiziaria, alquanto superiore rispetto a quanto offerto dal common law. Partendo dal modo in cui si sviluppano entrambi i procedimenti, fino all’attesa ma sempre incerta decisione giudiziaria, è evidente come nel sistema di common law, sia nella presentazione dei fatti oggetto di controversia che nella richiesta di presentazione basata sui precedenti, gli avvocati mantengono un’incertezza molto più ampia rispetto a quella dei loro colleghi continentali. Pur essendo vero il carattere parzialmente “vincolante” del precedente, non è possibile sostenerlo in modo assoluto. L’indipendenza di criterio del giudice anglosassone, il suo margine di arbitrio, è infatti alquanto superiore rispetto a quello del suo omologo continentale, sempre sottoposto all’imperio della legge, per quanto essa ammetta diverse interpretazioni. Il sistema “casistico” progredisce “decisione dopo decisione” consentendo la flessibilizzazione del carattere “vincolante” del precedente invocato, in quanto ciò che nel Diritto inglese viene denominato overruling e distinguishing apre la possibilità per il giudice di cambiare criterio e pronunciare una sentenza non in linea con la precedente. Nel sistema continentale, invece, il progresso avviene più sulla base del cambiamento legislativo, normalmente promosso dal potere esecutivo, che per una realtà giurisprudenziale in evoluzione. Ciò significa che il centro di gravità del buon funzionamento del sistema si sposta dal potere giudiziario a quello legislativo. Nella formulazione ideale, il legislatore auspicato dalle correnti di codificazione dovrebbe possedere una capacità onnisciente in termini di individualizzazione degli eventuali conflitti o controversie che possano verificarsi nel libero gioco dei rapporti giuridici e, allo stesso tempo, sarebbe necessario che fosse in grado di rispondere a livello normativo alle cambianti necessità economico-sociali promulgando leggi, precise nella formulazione e adeguate nel contenuto, in modo da regolamentare l’intera realtà, partendo dalla finalità del bene comune e del rispetto dell’interesse generale. Con questo spirito quasi utopistico finalizzato al conseguimento di un ideale quasi irraggiungibile, il grande codificatore Portalis, nel suo “Discorso preliminare pronunciato in occasione della presentazione del progetto del Codice civile, della commissione del governo” afferma: «Le leggi non sono solamente atti di potestà; ma sono altresì atti di saviezza. di giustizia e di ragione. Il legislatore esercita non tanto un’autorità quanto un sacerdozio».

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15.3. Influenza e presenza del diritto romano, per “azione” e come “precipitato” in entrambi gli ordinamenti Per esprimere graficamente ciò che è diverso nell’una o nell’altra procedura, ho voglia di confrontarla con la nobile pratica della medicina. Così il medico esamina il paziente e lo interroga sui suoi sintomi; ordina l’esecuzione di tempestivi test diagnostici e, dal risultato di entrambe le azioni, determina la malattia o la malattia. Tutto ciò è riprodotto, in egual modo, dai giudici sia negli ordinamenti di common law che di civil law, riguardo a una fattispecie problematica che dà luogo al processo sottoposto alla loro giurisdizione. E poi dov’è la differenza? Bene, in quanto segue e questo è decisivo per la soluzione soddisfacente. Il clinico esperto, e quindi saggio, afferma: «non ci sono malattie, ma malati». Per questo, dopo l’accurata diagnosi, quando si tratta di stabilire e guidare la cura, non lo fa solo dalla sua scienza e dalla conoscenza astratta di una malattia, ma dalla realtà molto personale del paziente. Pertanto, il trattamento prescritto deve essere adeguato al paziente che, oltre al disturbo – che attualmente occupa e preoccupa –, ne ha altri che lo possono condizionare. Per questo la storia clinica è così importante, che fa del paziente un «paziente particolare e irripetibile». In termini analoghi, cercando di effettuare un’analisi comparativa, anche in giurisprudenza sono molto importanti le circostanze specifiche della fattispecie in esame. Parafrasando l’assioma medico: «Non c’è locazione o usufrutto, ma realtà concrete di queste istituzioni astratte». È dunque nel processo che risolve un caso problematico e non nella norma che lo regola, che la Legge è certamente presente e acquista la sua effettiva realtà, poiché fino ad allora il regime giuridico di ciascuno di questi istituti “aleggiava oltre” il rapporto giuridico, senza che le parti se ne accorgano. Nell’esercizio della sua professione, il medico che stabilisce una cura e imposta la farmacologia – in farmaci specifici e nelle loro dosi – se tiene conto della personalità psico-medica del paziente più delle conoscenze apprese “in modo astratto” in patologia somiglia di più al giudice anglosassone. Al contrario, il medico determina la sua azione sulla base di un protocollo prestabilito e astratto, che determina un trattamento standard, si identifica maggiormente con il giudice continentale. E qual è il “migliore” dei sistemi? Ritengo, ancora una volta, che non si possa rispondere ignorando le circostanze che si verificano in ciascun Paese, in un determinato momento storico. Il sistema di common law “esige” e sottolineo la “necessità” di un corpo di giudici, “indipendenti, incorruttibili, competenti e dediti” alla “sacra” funzione di giudicare. Solo così una società – e i suoi cittadini – può stare tran-

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quilla sapendo che questo arbitrato giudiziario molto ampio, che genera insicurezza circa la sentenza, sarà utilizzato correttamente, offrendo ad ogni caso giudiziario la sentenza più giusta. Quella serenità è la stessa che desidera l’imputato, quando è immerso in un procedimento giudiziario, all’interno dell’ordinamento civile. E lo consegue dal principio di uguaglianza “dentro” e “davanti” alla legge e dal principio di fiducia nella sua corretta applicazione, attraverso una ragionevole interpretazione del giudice. Ma l’uno e l’altro principio devono poggiare sull’esistenza di una legislazione precisa, senza contraddizioni e che persegua il bene comune e gli interessi generali. Sorprende, infine, che il sistema di common law, che riceve molto meno diritto romano nella sua storia, sia simile nella sua produzione di diritto – al punto da essere quasi confuso – con la posizione e l’atteggiamento di cui godono i giuristi romani nel loro lavoro creatore del diritto. Tuttavia, per circostanze storiche, il Diritto Romano ricevuto nel continente è finito “rinchiuso” nei Codici, e di conseguenza proprio dallo stesso Corpus Iuris giustiniano – cui ai giuristi era proibito anche solo commentarlo – fece scomparire quell’estremamente modo libero con cui agì il giureconsulto romano. In sommo, optiamo quindi per un sistema eclettico che tragga da ciascuno degli esposti il meglio delle loro ricche esperienze legali. Questa posizione di riavvicinamento tra i due – vedendosi non come rivali ma come complementari – è ciò che si sta producendo, fortunatamente, negli ultimi decenni, da quando il mondo. L’anglosassone non è più al di fuori del diritto scritto, ma il suo approccio ad esso sta accrescendo, attraverso il diritto statutario, il diritto contenuto nelle leggi o nei regolamenti. Inoltre, ad exemplum, soprattutto negli Stati Uniti, i Restatements hanno acquisito notevole forza normativa come sistema di regole commerciali coerenti, che hanno dato vita a una terminologia uniforme che riesce ad evitare molte delle contraddizioni che, fino a poco tempo fa, “tormentavano” a operatori legali. Da parte nostra, nel mondo del diritto civile continentale, non c’è dubbio come, in maniera ininterrotta e crescente, il prestigio e il valore della giurisprudenza – come dottrina che emana dalle decisioni giudiziarie – stia crescendo nella sua considerazione nel cast delle fonti di diritto. In ogni caso, sia per la “materialità” dei precetti codificati, sia per il “modo di produzione” del diritto, Roma è molto presente in entrambi gli ordinamenti.  

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SEZIONE II

L’INFLUSSO DEL DIRITTO ROMANO NEI CODICI CIVILI. IL DIRITTO NEL SECOLO XXI SOMMARIO: 1. La codificazione. – 1.1. Approccio ai loro significati. – 1.2. I suoi fondamenti e le sue premesse ideologiche. – 2. La struttura e l’impronta del diritto romana in tutti i codici civili. – 2.1. Il Codice napoleonico. – 2.2. Il BGB, codice civile tedesco. – 2.3. Il Codice civile italiano. – 2.4. Il Codice civile spagnolo. – 2.5. I principali Codici civili latinoamericani. – 2.6. Il Codice civile giapponese. – 3. Il progetto di Codice civile cinese. – 3.1. Il lungo cammino verso la codificazione. – 3.2. Il suo progetto di Codice civile, come “seconda ricezione del diritto romano”. – 4. Il diritto romano, come elemento essenziale nella formazione del diritto dell’Unione europea. – 5. Il diritto del XX secolo. Diritto romano e diritto globale.

1. LA CODIFICAZIONE 1.1. Approccio ai loro significati Il termine “codice” proviene dalla voce latina codex e il sostantivo “codificazione” implica «l’azione e l’effetto di codificare», nel senso di «elaborare o redigere un corpo legale sistematico». Il lemma “codice” è poi semanticamente ricco, in quanto nell’ambito del diritto presenta perlomeno due accezioni che è necessario conoscere: la prima è quella di «insieme sistematico di norme legali che regolano una specifica area del sapere giuridico» e la seconda «raccolta di diverse leggi su un’unica materia, in precedenza disperse». Di queste due accezioni simili, ai fini del nostro studio ci occuperemo della prima, in base alla quale il termine “codice civile” potrebbe essere definito come il testo legale che contempla il regime giuridico del diritto delle persone, delle cose e dei diritti su di esse, delle obbligazioni e dei contratti, dei rapporti giuridico-familiari e del diritto ereditario o di successione. Una volta determinato il suo significato linguistico, la prima questione da esaminare consiste in cosa debba intendersi per “codificazione” nel contesto storico del Diritto. Tale termine, che costituisce un “tecnicismo giuridico”, riveste a propria volta un doppio significato: se infatti in primo luogo viene utilizzato per fare riferimento al “movimento di codificazione” o alle “correnti di codificazione”, in secondo luogo denota anche il “fenomeno codificatore”. La codificazione civile ha avuto in tutti i Paesi a noi prossimi una forte in-

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fluenza sociale. È in tal senso che bisogna inquadrare l’opinione di alcuni studiosi che arrivano ad affermare che l’importanza di questo Codice per la “vita ordinaria del comune cittadino” avrebbe ripercussioni persino superiori rispetto alla Carta costituzionale. Tale affermazione si basa sulla convinzione che molti degli istituti da esso regolati sono quelle più prossimi alla persona e di suo interesse per la rilevanza da essi avuta negli atti e nei rapporti giuridici che, anche qualora l’interessato stesso non ne sia consapevole, ne circondano la vita quotidiana. Il primo significato del termine “codificazione”, come già indicato, fa riferimento a una “esperienza storica” che si sviluppa a partire dall’inizio del XIX in Francia e che, per via del suo influsso espansivo, raggiunge praticamente tutte le nazioni del continente europeo. A volte in un secondo momento, talvolta quasi simultaneamente, tale influsso viene “trasportato”, soprattutto attraverso la Spagna ma anche tramite Francia e Portogallo, e il seme codificatore, con i relativi impulso e fruizione, viene esportato nelle nascenti Repubbliche latinoamericane. Nonché, come esempio particolare, per via della sua nascita in un ambiente diverso, in quanto gli Stati Uniti si inquadrano nel common law, nello Stato della Louisiana, l’unico nel Nord America a possedere un Codice civile, di significativa influenza francese. È opportuno rilevare ognuna delle nazioni “contagiate” dal “virus della codificazione” presenti una realtà diversa sia in termini di penetrazione, sia per quanto riguarda il tempo di risposta al contagio, come nel caso di alcuni movimenti di resistenza, sia certamente in relazione al risultato plasmato nei diversi Codici promulgati. Da ultimo, ma non per minore importanza, si deve sottolineare il ruolo straordinario ricoperto nel periodo precedente alla codificazione dalla dottrina scientifica, rappresentata in Francia in modo particolare da Domat e Pothier e in Germania da Friedrich Karl von Savigny. Per quanto riguarda i primi, nel XVII secolo Domat, di cui abbiamo già proposto alcuni riferimenti, rappresenta un giurista fondamentale per quanto riguarda il futuro successo della tendenza di codificazione del Diritto francese. La sua massima opera, dal titolo “Le leggi civili disposte nel loro ordine naturale”, viene considerata una sorta di prefazione del Code, il codice napoleonico. In essa il prestigioso giureconsulto, intimo amico del filosofo francese Pascal, formula un sistema razionale in cui riunisce magistralmente la tradizione romanistica, spogliandola del suo carattere casistico e fondendola in un fitto elenco di principi ispiratori della maggior parte degli istituti codificati, con il copioso diritto consuetudinario francese. Pothier elabora invece il classico “Trattato delle obbligazioni”, in cui si

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riuniscono, anche in questo caso in modo generale, entrambi i diritti menzionati, facilitando altresì l’opera di codificazione con i suoi commenti ai testi della Compilazione giustinianea contenuti nella prodigiosa opera Pandectae justinianeae in novum ordinem digestae.

1.2. I suoi fondamenti e le sue premesse ideologiche Allo scopo di esporre integralmente il quadro in cui si inserisce la codificazione, è bene ricordare che non si tratta di un “evento” generatosi autonomamente nell’ambito del Diritto, bensì del frutto di cause metagiuridiche che penetrano nel mondo legale e concretizzatasi essenzialmente in una premessa filosofica integrata da un presupposto socioeconomico. La premessa filosofica trae la sua causa remota nell’Illuminismo moderato, spogliato dei postulati maggiormente radicali della Rivoluzione francese e come causa prossima ha il pensiero e la dottrina giusnaturalistica di taglio razionalistico. In base a tale concezione, l’uomo è un essere sociale che vive e si sviluppa tramite il suo rapporto con gli altri, per cui qualsiasi comunità necessita di norme che disciplinino i comportamenti sociali, le quali discendono, nella causa originaria, dalla stessa natura umana; di conseguenza non sarebbe concepibile un diritto che andasse contro la sua essenza. La caratteristica del giusnaturalismo di taglio razionalistico, rispetto al precedente giusnaturalismo teologico, è ciò che taglia il “cordone ombelicale” che univa e metteva in relazione questa natura umana con Dio, di cui l’uomo si considera una creatura. Per questo motivo, per il giusnaturalismo teologico, Dio che presenta la natura di “Sommo Artefice” è contemporaneamente, non esistendo il tempo, anch’esso una sua “creatura”, il “Sommo Legislatore” in quanto non solo crea bensì anche “dà ordine” al creato. In questo senso e secondo questa concezione la suprema legge su cui si basa la Creazione è la “Legge eterna”, contenente norme che regolano le circostanze fisiche, quale ad esempio la legge di gravità, ossia l’insieme dei “mandati generali” del Creatore su tutti gli esseri, animati e inanimati. La trasposizione di tale Legge eterna nell’essere umano è la “Legge naturale”, la quale si applica esclusivamente all’essere che, nella citata concezione giudeo-cristiana, è l’unico “creato a immagine e somiglianza di Dio”. Così, in questo giusnaturalismo di taglio teologico, tra i cui esponenti più rilevanti si annoverano i maestri della denominata “Scuola spagnola di Diritto naturale”, la piramide gerarchica che condiziona dal basso vero l’alto i diversi ordini normativi è la seguente: la legge positiva, dettata dall’uomo e che disciplina i rapporti umani, deve sottostare alla Legge naturale, nella stessa misura in cui quest’ultima discende dalla Legge eterna, alla quale deve attenersi.

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Il giusnaturalismo razionalista non nega assolutamente l’esistenza di Dio, bensì “non ne ha bisogno” o preferisce “non riferirvisi”, affermando che la provenienza ultima del diritto si basa nella stessa “natura umana” attraverso la ragione. L’altra premessa ideologica su cui si fonda il movimento di codificazione è il liberalismo politico ed economico. Il primo sottolinea la preminenza della tutela degli individui su quelli del corpo sociale e pertanto nei confronti della realtà statuale che, in virtù della sua forza normativa ed esecutiva, ha la possibilità di mettere a rischi le libertà e i diritti del singolo. Risulta pertanto un modello garantista, in cui la difesa dell’individuo costituisce l’asse della sistematizzazione del diritto e la sua guida filosofica. Si sostiene altresì la singolarità delle nazioni e delle loro strutture giuridiche attraverso ciascuno Stato rispetto a precedenti realtà politiche europee di carattere unificante. Il liberalismo economico salvaguarda invece le “necessità” del mercato e propugna l’assenza di intervento pubblico al suo interno, con la finalità di mettere in atto una trasformazione sociale. Sulla base di questi presupposti nascono, in parallelo, due realtà normative, da un lato quella causata dalla tendenza a promulgare in ogni Stato una Norma suprema o fondamentale, la Costituzione, e dall’altro la tendenza a codificare le parti o aree di maggiore rilevanza dell’ordinamento giuridico. Nascono così i codici civili, commerciali, penali e processuali. Questa realtà risponde al secondo significato del termine “codificazione”, di cui ho parlato in precedenza, con l’espressione “fenomeno codificatore” e allude al “metodo” che fa riferimento agli “interventi di compilazione” nonché alla “tecnica” e alla “forma” utilizzate per il conseguimento di una codificazione normativa adeguata ed efficace, essenzialmente coerente e sistematica. La codificazione mira a mettere fine, obiettivo che effettivamente consegue, al caos legislativo di un insieme di leggi e usi slegati tra sé, e talvolta contraddittori, che era fonte di forte confusione in termini di applicazione giudiziaria, e la cui validità a volte non era chiara e pacifica. Il fatto che giustifica la necessità di codificare il Diritto, o per dirlo con un’espressione figurata, “metterlo nero su bianco”, ossia racchiuderlo in un “testo rilegato”, è esattamente identico a quella avvertito in epoca giustinianea con le leges e gli iura, come insieme delle Costituzioni imperiali e dei frammenti giurisprudenziali dell’epoca classica romana. Il risultato del fenomeno codificatore con la promulgazione dei suoi corpi legali comporta la fine della validità delle fonti romane che, come diritto applicabile, formano parte dello ius comune, il quale pur avendo carattere suppletivo, come già indicato in precedenza, presentava un’efficacia generalizzata alla luce dell’evidente incompletezza del Diritto nazionale.

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2. LA STRUTTURA E L’IMPRONTA DEL DIRITTO ROMANA IN TUTTI I CODICI CIVILI

2.1. Il Codice napoleonico Alla fine del XVIII secolo esiste in Francia un gruppo di culti giuristi formatosi attraverso lo studio dei testi del Corpus giustinianeo. Il Codice napoleonico si ispira all’opera di insigni coltivatori del diritto romano e, pur prefiggendosi di rispondere alla realtà sociale del tempo, per riuscire a ottenere una permanenza mantiene come riferimento il diritto classico costituito dal diritto romano, su cui quindi si basa e ammettendo che in esso risiede la sua “causa”. Tale ferma convinzione è riconosciuta dalla lucida affermazione di Portalis, uno dei suoi autori principali, quando dichiara: «La storia è la fisica sperimentale della legislazione». Riteneva inoltre che non fosse possibile comprendere il significato profondo dei precetti del Codice senza avvalersi di altri studi, per cui dispose che le leggi romane venissero incluse nel piano di istruzione pubblica, in modo da formare parte della scienza legale da impartire in tutti i centri universitari di insegnamento del diritto. La denominazione ufficiale del Codice francese è «Code civil des Français» e lo si conosce anche come “Code”. A questo militare, politico e statista, che fu una delle figure di maggiore rilevanza della Storia di Francia, come modello di militare e prototipo di conquistatore, viene attribuita la seguente frase: «La mia vera gloria non è di aver vinto quaranta battaglie; Waterloo cancellerà il ricordo di tante vittorie ... quello che vivrà in eterno, è il mio Codice civile». Con lo stesso sentimento dichiara, in modo iperbolico: «Il solo mio Codice ha fatto più bene alla Francia di tutto l’ammasso di leggi precedenti». Per porre fine a un complesso intreccio giuridico e a una confusa situazione consuetudinaria, viene dichiarato principio programmatico della Costituzione francese del 1792. In Francia sono arrivate ad esistere quasi 15000 norme in vigore, alcune riunite in “raccolte legislative” di applicazione regionale, con una diversa gerarchia ma soprattutto con contenuti contraddittori. Così dichiara Napoleone: «Disponiamo di centinaia di Codici ma non ne abbiamo uno nazionale». Le attività di preparazione hanno inizio nel 1800, quando Napoleone come primo Console designa una commissione composta da quattro componenti selezionati tra l’avvocatura, la magistratura e gli alti dirigenti pubblici, tutti essi di grande prestigio per quanto riguarda l’uso del linguaggio, per la loro eleganza nell’oratoria o nella scrittura. In meno di un anno il progetto della commissione viene presentato al Consiglio di Stato, dopo essere stato oggetto di dibattito negli alti Tribunali di Giustizia.

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Napoleone è presente e presiede, intervenendo frequentemente nel corso delle sessioni in cui il suo contenuto è stato discusso nel seno del Consiglio. Era costante la sua preoccupazione per fare in modo che il linguaggio utilizzato fosse comprensibile per il cittadino medio, senza fare ricorso a oscuri tecnicismi legali. Frutto di una laboriosa e prolungata discussione, articolatasi in più di cento sessioni, sono le sue diverse rielaborazioni. Infine, al termine dell’opportuna trafila parlamentare, viene approvato e promulgato all’inizio del 1804. Il Codice, e da ciò deriva il suo primo nome ufficiale, mira ad essere un Diritto “per tutti”, punto di arrivo e traguardo di un tortuoso percorso verso l’uniformità giuridica. Nel 1807 viene denominato ufficialmente Code Napoléon e con la successiva restaurazione monarchica prende il nome di Code civil. Nonostante tale diversità terminologica, la denominazione più comune nella dottrina civilistica di tutti i Paesi è quella di “Codice napoleonico”. I suoi principi sostanziali di elaborazione sono in primo luogo, e con notevole differenza rispetto agli altri, il Diritto romano, seguito dalle consuetudini e, in modo residuo, da determinati istituti del diritto germanico in vigore in alcune regioni settentrionali della Francia. Le attività di codificazione sono state altresì sfruttate per svolgere un atteso aggiornamento del diritto applicabile: è stata infatti compiuta una depurazione delle norme ispirate all’Ancien régime, diventate la principale fonte ideologica di ispirazione della riforma dei principi, ormai più sensati e ponderati, della Rivoluzione francese. Il Codice francese risponde così al compromesso tra “tradizione e modernità”, tra l’assunzione di determinati principi rivoluzionari e l’ideale di ordine e pacificazione che ha evitato qualsiasi radicalismo. Ne consegue un corpo legale riformista, che ricorda nitidamente il suo glorioso passato romanistico e allo stesso tempo preserva i suoi proponimenti di trasformazione sociale. È doveroso sottolineare l’importanza della filosofia e della politologia francese nel processo di elaborazione del Codice. Si formulano principi generali che ne ispirano l’articolato, si offre un significato innovativo alla tradizione giuridica del Diritto Romano e si riformulano le consuetudini locali, integrandole nella nuova realtà legale di taglio razionalistico. Nella redazione del Code risulta altresì fondamentale l’opera degli illuministi, tra i quali spiccano Montesquieu, Rousseau, Locke e Voltaire. Sebbene sia evidente che il loro pensiero influisca soprattutto nell’ambito del Diritto costituzionale e delle categorie del Diritto pubblico, tale influenza deve essere riconosciuta anche come costitutiva di alcuni principi di Diritto privato. Nelle loro dottrine si dichiarano infatti sacre la libertà e l’uguaglianza, si considera la proprietà privata come un diritto naturale irrinunciabile, si pro-

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clama la libertà economica, si sostiene il ruolo di creatore del legislatore e il carattere generalista del Diritto e si rifiuta la capacità normativa della giurisprudenza, riducendo il giudice a una funzione di mera applicazione della legge.

2.2. Il BGB, Codice civile tedesco La figura centrale del processo di codificazione in Germania, sia in una fase iniziale per esprimere la propria opposizione radicale alla codificazione in quanto ritenuta precipitosa e in un secondo momento, per riconoscerne l’essenziale partecipazione, è Friedrich Karl von Savigny, senza dubbio uno dei giuristi più eccezionali della storia universale del diritto. La sua posizione dottrinale è lo “storicismo giuridico”, il quale si oppone alla corrente “giusfilosofica” che prevede un diritto naturale di carattere atemporale e “ageografico”. Savigny ripensa la “Scuola Storia del Diritto”, inizialmente fondata da Gustavo Hugo, che traspone al Diritto le proposizioni filosofiche di Kant, nega il diritto naturale, considerato generalista, astorico e astratto, e propugna una concezione rinnovata del diritto civile, essenzialmente mutevole e concretizzato in ciascuna fase storica, di cui gli storici devono conoscere in modo approfondito il processo evolutivo per comprendere il diritto vigente nel loro tempo. Savigny e i suoi discepoli passano dallo “storicismo come metodo” di Hugo allo “storicismo come dottrina”, posizionandosi così contro la posizione razionalista di taglio universale e contro il riduzionismo del diritto alla legge, come sostenevano coloro che in Francia avevano ispirato e redatto il suo Codice civile. La loro opposizione a un progetto equivalente in Germania si basa sull’affermazione che il diritto “è lo spirito del popolo” o Volkgeist, che diventa realtà nell’insieme degli usi giuridici che costituiscono una particolare “tradizione”, conseguenza della relativa “individualità nazionale”, diversa in ogni Paese, ragion per cui non può venire racchiuso in un codice in quanto evolve, in modo consuetudinario, accompagnando il popolo che serve. Per questo motivo non lesina lodi per l’attività di compilazione, non di codificazione. Questi testi germanici che avevano integrato e ordinato i diritti locali sono, ad esempio, il Codice prussiano della fine del XVIII secolo. Per la Scuola storica il diritto emana infatti dal popolo e non dal legislatore, in modo analogo a come la lingua si forma ed evolve negli usi del popolo che lo utilizza e non nello studio del filologo o linguista che lo studia o lo analizza. Orbene, sulla base della sua solida formazione romanistica Savigny am-

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mette che il diritto romano è fortemente radicato nel popolo tedesco, della cui essenza forma parte, e pertanto è da esso che può formarsi al meglio il diritto tedesco e non da una concezione razionalistica dell’ordine giuridico. Quando le influenze del Codice francese si fanno strada in ampi circoli giuridici tedeschi, come strumento importante per consolidare l’unificazione finalmente raggiunta, Savigny si oppone strenuamente all’avvio di un processo di codificazione sulla base “dell’idealismo tedesco” come filosofia e con la forte convinzione del fatto che sarebbe stato prematuro e avrebbe dato come risultato “indesiderabile” un testo legale che avrebbe “copiato” quello napoleonico, senza tenere conto della singolarità del proprio diritto. Alcuni studiosi del suo pensiero sostengono che la sua opposizione alla codificazione non sia stata congiunturale, bensì che l’abbia sempre intimamente rifiutata, mentre altri sostengono che, quando si oppone, lo fa dalle posizioni di Bacone, eccelso rappresentante dell’empirismo inglese, considerando che la Germania non si trovi in questo primo momento nelle condizioni di dare il via a una codificazione. Il suo ragionamento contrario si fonda così sulla necessità di fissare, in modo preliminare e determinato, il sistema di fonti in vigore, il quale non era sufficientemente chiarito. Il pensiero del grande Maestro tedesco non è chiuso, bensì evolve con la fecondità della sua opera. Ciò che sostiene sempre è una concezione storica del Diritto, contraria alla sua nozione come espressione di una “materialità logica”. Deciso sostenitore, fin dal primo momento, della codificazione tedesca e con una posizione dottrinalmente contraria a Savigny è Thibaut, il quale, con la sua difesa del diritto ideale e uniforme, diventa un rappresentante della corrente favorevole a una rapida unificazione del diritto privato tedesco, già presente nel pensiero di Leibniz. Un altro illustre giurista contemporaneo, dell’inizio del XIX secolo, che si oppone alle posizioni di codificazione anche se con presupposti metodologici diversi è Pfeiffer, il quale sostiene un Codice civile estraneo nell’articolato ai postulati “deduttivi” del razionalismo giuridico e ispirato a principi generali ottenuti “induttivamente” dalle fonti vigenti del Diritto. Neppure questa posizione soddisfa Savigny, il quale infine sostiene che solo il sapere della scienza giuridica, espressa nell’attività dottrinale, possa definire le condizioni storiche che rendono desiderabile la codificazione tedesca, tanto proposta e respinta nel corso del XIX secolo. È infine del parere che il diritto scientifico dei giuristi, basato sullo studio del diritto romano, il diritto consuetudinario, come espressione della coscienza popolare, e la legge, sempre che rappresenti lo spirito del popolo, siano le fonti in grado di ispirare ed esporre il contenuto normativo del Codice civile tedesco (BGB).

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La sua influenza, nella formazione della maggior parte dei Codici civili, è stata inferiore a quello di Napoleone per il solo motivo di essere stato promulgato un secolo dopo. Tra i Paesi di una certa importanza socioeconomica, solo il Codice giapponese prende particolarmente spunto da quello tedesco.

2.3. Il Codice civile italiano Il primo Codice civile del Regno d’Italia (così detto Codice Pisanelli) fu promulgato nel 1865 dal re Vittorio Emanuele II, ed entra in vigore il 1º gennaio di 1800. Si sentiva, come in altre paesi, la necessità di un corpo legale unico, per sostituire la pluralità di legislazioni civili, in Italia aggravata la situazione come conseguenza dell` esistenza di una la diversità di Stati indipendenti. Dal primo momento della codificazione il Codice è concepito como un testo base di carattere generale. Così, per il suo rilievo sociale e l’ampiezza del suo contenuto è, ben nota, la sua progettazione come «la costituzione dei rapporti tra privati». Questa concezione consente, e perfino contempla già fin dell’inizio, la possibilità di che quesiti di particolare singolarità e complessità siano disciplinati con leggi speciali. L’operazione di redazione del Codice non fu priva di difficoltà: il precedente progetto di codificazione non era stato realizzato perché troppo somigliante al Codice Albertino, mentre quello del ministro Miglietti, precisamente, perché troppo conforme al Codice Napoleone. Tali complicazioni si intendono solo tenendo a mente il particolare contesto storico dell’epoca. Carlo Alberto di Savoia era morto da esule in Portogallo dopo aver abdicato in favore del figlio, a seguito della disastrosa conclusione della I guerra d’Indipendenza, che vide la vittoria dell’Austria sul Regno di Sardegna. Quanto alla Francia, il Codice Napoleone era stato adottato ufficialmente durante l’occupazione francese e si avvertiva ora l’esigenza di prendere le distanze da esso; inoltre, era certo ancor fresca la memoria del ‘tradimento’ di Napoleone III, che, dopo aver firmato l’alleanza sardo-francese, con cui prometteva l’appoggio militare della Francia ove il Piemonte fosse stato attaccato dall’Austria, fece poi mancare tale appoggio e aderì all’armistizio di Villafranca nel 1859. Il Codice Pisanelli, invece, pur modellato sul Code Napoléon ne prendeva anche le debite distanze e in tal modo recepiva, codificandola – o, meglio, “ricodificandola” – la tradizione romanistica. Ciò è testimoniato sia dalle opere di commento al Codice civile che circolarono in epoca successiva, ove il “diritto civile patrio” era spesso messo a confronto col diritto romano. Co-

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sì lo studio de Galdi, titolato Codice civile del Regno d’Italia col confronto coi codici … e col diritto romano. Anche se fa lo stesso in alcuni manuali romanistici, che adottavano tale struttura affinché «i giovani non abbiano a dimenticare che essi debbono studiare il passato come guida del presente, e vegano dal confronto quanto ancora si tolga da quel tesoro di ragione riposto nel diritto di Roma». Così Serafini, Istituzioni di diritto romano comparato al diritto civile patrio. Vittorio Scialoja (1856-1933) è una figura emblematica della romanistica del periodo della codificazione e ha giocato un ruolo speciale nella elaborazione del primo Codice civile. Fu titolare a soli 23 anni della cattedra di “Diritto romano e Codice civile” a Camerino. Costui fonda a Roma l’Istituto di diritto romano, di cui fu Segretario perpetuo. Scialoja fu impegnato anche nella vita politica: fu Ministro di Grazia e Giustizia e Ministro degli Esteri, presidente del Consiglio Nazionale Forense. Ciò dimostra che ai cultori del diritto romano erano affidati incarichi governativi di alto livello, e che lo studio del diritto romano non era disgiunto dalla pratica della vita forense. Al poco tempo di accedere al potere Mussolini, si pensa nella riforma del Codice, in alcuni temi che pretendono accomodare il suo contenuto alla ideologia fascista. Non si fa questo per il procedimento ordinario della riforma approvata nel Parlamento, ma con una legge che, per delegazione, da potere all’esecutivo per far modifiche al Codice. Al contempo fu progettato ed elaborato un Codice italo-francese nella materia del diritto delle obbligazioni. Il Codice in vigore è datato 1942. Il suo contenuto comprende la materia privatista, compressa della civile e della commerciale, in un solo testo. È il primo Codice che ha deciso questa unificazione –fondendo il Codice civile con il Codice di commercio –, giacché i precedenti europei avevano optato per due Codici differenziati. Questo può spiegare, al meno in parte, la sua estensione, in numeri di precetti, fino a 2969, abbastanza superiore ai Codici europei, precedenti e successivi. La struttura del Codice si allontana del classico schema della tripartizione “gaiana”. Così è diviso in sei libri: Libro 1º “Delle persone e della famiglia”; 2º “Delle successioni”, 3º “Della proprietà”, 4º “Delle obbligazioni”; 5º “Del lavoro”; e 6º “Della tutela dei diritti”. Si afferma, con certezza, che la regolazione del Diritto dell` obbligazioni e di contrati prende il meglio del Code e il meglio del BGB. Oggi è, senza dubbio, il punto di riferimento più perfetto per abbordare un processo di unificazione del diritto privato nell’ambito dell’Unione europea. Così è stato, ad exemplum, ammesso per tutti i componenti dell’Accademia giusprivatista di Pavia, che erano di differenti paesi, con presenza anche di giuristi del common law. Giuseppe Gandolfi, nelle prime sedute propose che per incominciare i

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lavori di redazione il testo di partenza, e posteriore dibattito, fosse il Libro IV del Codice italiano. È così si è fatto nella redazione del pubblicato Progetto di Codice civile europeo, che non ha avuto successo quanto all’aspirazione di entrare in vigore. È significativo che i lavori preparatori del Codice del 1942 siano stati coordinati, di nuovo, da un romanista. In questo caso, Filippo Vassalli, che insegna diritto romano a Genova e, infine, a Roma. Difatti, sia la carriera accademica di Vassalli o il fatto che a un simile studioso sia stato affidato l’incarico di coordinare i lavori preparatori del Codice civile (per ben quindici anni, dal 1928 al 1942), mostra che l’indissolubile legame tra diritto romano e diritto civile italiano era ancora avvertito e ben presente ai giuristi dell’epoca. Questo Codice civile è stato modificato nel suo articolato parecchie volte, dal 1942 all’attualità. Inoltre, la materia civile è stata regolata da una grande varietà di leggi speciali che hanno avuto la finalità di regolare singoli ambiti del settore giusprivatistico.

2.4. Il Codice civile spagnolo Le “Partidas” – più compiutamente “Ley de las Siete Partidas” o “Ley de Partidas” (Legge delle sette parti) – è una legge del Re di Castiglia Alfonso X, del XIII secolo. Il suo scopo principale è eliminare la pluralità di leggi che erano in vigore e creavano confusione e dare vita ad un corpo di leggi unico. Questa Legge è la principale fonte di recezione del diritto romano in Spagna. Non si applicò come diritto vigente a causa dell’opposizione della nobiltà che riteneva che riducesse i propri privilegi aumentando i poteri regali e anche perché non rispettava abbastanza i costumi che conformavano il diritto consuetudinario. Lo “Ordenamiento de Alcalá”, promulgato da Re Alfonso XI del XIV secolo, le riconobbe come diritto suppletivo nella sua condizione di parte dello ius commune. L’ideale codificatore fece ingresso in Spagna tramite Carlo III, benché non ci sarà un Progetto di Codice fino a quello di “García Goyena” (metà del XIX secolo), che reca tale nome essendo stato redatto per intero da tale illustre giurista. Costui era dotato pure di una solida formazione romanista. Tale Progetto non ebbe fortuna a causa della forte opposizione dei foralistas, che difesero i privilegi legati al particolarismo dei loro territori. Il progetto di codificazione viene ripreso durante la reggenza di Maria Cristina e il nuovo Codice viene approvato nel 1889. Esso appartiene alla famiglia romano-francese, nel rispetto delle singolarità tradizionali del suo diritto storico. Storicamente, è il testo giuridico di maggiore vigenza in Spagna, con

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grande rilevanza dottrinale e giurisprudenziale. García de Enterría lo chiama “nostra vera Costituzione”, non in senso tecnico, ma per evidenziarne l’enorme portata sociale e la sua lunghissima vigenza. Il linguaggio si presenta elegante e preciso, gradevole al giurista colto ma al tempo stesso accessibile al profano. Le sue principali riforme sono state quella del 1974, che riconosce la piena capacità di agire delle donne, ed una più recente in tema di diritto di famiglia, adattato alle nuove realtà sociali.

2.5. I principali Codici civili latinoamericani Pochi anni dopo la scoperta delle “Indie occidentali” da parte di Colombo, la Corona di Castiglia inviò raccolte di libri e un gruppo di giuristi introdusse il diritto romano nel subcontinente americano. Per mezzo delle “Partidas”, il diritto romano è fonte del diritto. I giudici del Nuovo Mondo si sono formati quasi esclusivamente su di esso. La Corona spagnola, con uno sforzo ingente, raggiunge un notevole sviluppo nell’istruzione, nell’agricoltura e nel commercio. In due secoli, saranno oltre trenta le Università fondate dalla Spagna; ancora, si creano tipografie, si promuovono le biblioteche e nasce la stampa. Simón Bolívar, leader dell’indipendenza, aveva avuto come precettore Andrés Bello e, di conseguenza, era dotato di una buona formazione romanista. Egli considerava il diritto romano la base di ogni legislazione, ammirava la grandezza di Roma e il suo ordinamento amministrativo. All’inizio del processo indipendentista, propose di fondare una grande nazione su tutto il territorio sudamericano ad imitazione dell’Impero romano, ma la sua proposta non ebbe successo. Dopo la loro emancipazione dai Regni di Spagna e Portogallo, le nuove Repubbliche iniziano i loro processi costituenti prendendo a modello la Costituzione spagnola di Cadice del 1812. Iniziano anche i lavori di codificazione civile. Ci sono alcuni gruppi di estremisti che avversano tutto ciò che rappresenta la Spagna. Esempio ne fu la Bolivia, che, per cancellare ogni traccia spagnola, promulgò il proprio Codice civile limitandosi quasi esclusivamente a tradurre quello francese. Altre nazioni mantennero a lungo la legislazione spagnola e redassero i loro Codici partendo dalle fonti giuridiche castigliane. È stato notato che, così facendo, tali nazioni furono più fedeli al diritto castigliano che al Codice civile spagnolo. Tra i grandi codificatori vanno ricordate tre figure. Emerge anzitutto Andrés Bello, che redige il Codice civile del Cile, modello di tutti quelli successivi e letteralmente copiato dai primi codici della Colombia, del Venezuela, del Perù, dell’Ecuador, del Nicaragua, dell’Honduras e di Panama e influenzò

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quelli dell’Uruguay, dell’Argentina e del Brasile. Afferma Bello: «Sentendoci eredi della legislazione del popolo re ... la restituiamo alle istituzioni repubblicane. Lo studio del diritto romano è il miglior apprendimento della logica forense. È superiore a tutti». Teixeira de Freitas, brasiliano, fu autore di un progetto di Codice con cinquemila articoli, mai promulgato, ma che comunque influenzò decisivamente il Codice del secolo XX. Va menzionato, infine, l’argentino Dalmacio Vélez, redattore del primo Codice civile ed autore di un commento nel quale cita costantemente le “Partidas”. Il giurista italiano La Pira sottolinea che «Europa e America, sono in realtà una stessa unità, con una comune storia spirituale, culturale ... e giuridica per mezzo del diritto romano».

2.6. Il Codice civile giapponese Il Codice civile giapponese promulgato alla fine del XIX secolo coincide con un periodo di apertura sociale ed economica del Paese nipponico alla realtà occidentale. Esso fu elaborato sulla base dei codici civili europei, integrandosi nella tradizione romanistica. I suoi precedenti legislativi immediati costituivano una situazione di incertezza giuridica, sia per l’assenza di un adeguato insieme di regole per garantire la sicurezza del commercio internazionale, che stava cominciando a svilupparsi in Giappone, sia per la contraddizione tra di esse. In considerazione di questa urgente necessità di cambiamento, il compito di studiare il civil law e il common law plasmò nei loro ambienti accademici. Si trattava di ottenere un risultato armonioso che, inoltre, integrasse le caratteristiche della propria storia giuridica. Il punto di partenza è il mandato del Ministero della Giustizia di tradurre il Codice Napoleonico. Il lavoro non era facile perché molte espressioni galliche non trovavano un termine equivalente in lingua giapponese. A causa di questa difficoltà, la traduzione – commissionata a un prestigioso linguista, ma non giurista – si protrasse e non risultò soddisfacente. Si aprì una nuova via. Fu la penetrazione della cultura giuridica occidentale in campo politico e accademico. Insegnanti e giuristi europei furono assunti per assistere le autorità nell’organizzare il processo di codificazione, e per insegnare in una scuola di diritto. Negli ambienti universitari c’era una chiara influenza del common law. L’orientamento cambia con la nomina del prestigioso Accademico parigino Gustave Boissonade. In primo luogo, gli si affidò la stesura dei codici penale e procedurale e, successivamente, quella del Codice civile. Il progetto risentì, ovviamente, della forte influenza del codice napoleonico. Il suo intenso lavoro di dieci anni produsse un progetto qualitativamente molto degno. Ma la situa-

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zione politica, sia quella interna sia quella riguardante gli impegni internazionali, ne impedirono l’approdo in Parlamento. E la tendenza ad imitare l’Occidente cambiò rotta. Venne promulgata una nuova Costituzione di ispirazione prussiana e il governo assunse giuristi tedeschi per avviare il programma di codifica. Nella stesura del Codice civile vennero utilizzati tre decine di codici europei. Il più influente fu il BGB. Poi quello francese perché i commissari accolsero parzialmente il progetto di Boissonade. Il testo che influenzò maggiormente il diritto delle obbligazioni fu il codice svizzero. La parte che recepì la tradizione giapponese è quella riguardante la famiglia e l’eredità, perché la sua organizzazione e i suoi valori erano molto diversi da quelli occidentali. Alla fine della Seconda guerra mondiale, il Giappone fu occupato dalle truppe americane, sotto il comando del generale MacArthur, fino al 1951. Venne promulgata una nuova Costituzione che democratizzò il Paese. I principi costituzionali sull’uguaglianza e sulla dignità della persona incidono su molti precetti del diritto delle persone, della famiglia e delle successioni; la riforma del Codice del 1947, con la modifica di 100 articoli, ne fu la conseguenza. Il principio della buona fede fu incorporato nell’adempimento degli obblighi e l’abuso del diritto fu vietato. Il giurista spagnolo che ha mantenuto la presenza romanistica in Giappone e ch’è riuscito a far tradurre allo spagnolo e pubblicare – con uno studio preliminare – questo Codice è Rafael Domingo, discepolo di Alvaro d`Ors.

3. IL PROGETTO DI CODICE CIVILE CINESE 3.1. Il lungo cammino verso la codificazione Nel secolo scorso, gli studi legali in Cina conobbero tre fasi. In primo luogo, quella pre-comunista. In essa lo studio del diritto romano fu considerato il riferimento principale, attraverso i codici civili francese, tedesco e giapponese. Negli ultimi anni dell’impero cinese, fu concepito un progetto di Codice civile, ma non si concretizzò. La seconda fase inizia con la vittoria della Rivoluzione Comunista e la creazione della Repubblica popolare cinese nel 1949. La legislazione precedente fu abrogata. Dato che la sua economia era rimasta sotto il modello marxista, non si sentiva la necessità di un Codice civile. L’unica apertura esterna alle aree di diritto fu verso l’URSS, dove gli studenti frequentavano e si formavano nelle loro facoltà di diritto, dove lo studio del diritto romano non era stato abolito. Sembra una contraddizione, in quanto, in pratica, il suo sistema giuridico poggia su due istituti di ordine naturale, che il marxi-

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smo nega: la proprietà e la famiglia. Come se ne spiega la sussistenza nella quasi totalità dei Paesi sovietici? Il motivo è che i loro teorici ammisero che Roma rappresenta l’esperienza giuridica creativa più importante nella storia dell’umanità. È quindi la migliore scuola di “ragionamento giuridico”. Su quel pilastro i giuristi sovietici avrebbero ricevuto la loro prima formazione. Poi sarebbero istruiti nei principi rivoluzionari e nel contenuto ideologizzato del diritto. Quando le relazioni con Mosca si raffreddarono, i giuristi e i filosofi del diritto cinesi approdarono al “nichilismo giuridico”, in cui il diritto, come conoscenza scientifica, cessa di interessare. Il loro ordinamento è pressoché limitato alla sfera penale e ad un’infinità di regole amministrative, che negano i diritti dell’individuo di fronte a ciò che è considerato il “bene collettivo”. La terza fase inizia negli anni settanta, in cui i giovani dottori cinesi furono inviati a preparare le loro tesi di ricerca affiancati dai Maestri romanisti italiani. Alla fine del 1978, il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese decise di trasformare il suo diritto per renderlo compatibile con una “economia di mercato” e si prepara a recepire tutto ciò che il diritto romano poteva offrirgli. Viene creato l’“Osservatorio sulla codificazione e la formazione dei giuristi dal punto di vista del diritto romano”. L’Università di diritto di Pechino e l’Università di Roma Tor Vergata, sottoscrivono il loro primo accordo istituzionale. Due manuali romanistici, le Istituzioni di Bonfante e la Storia di Grosso, vengono tradotti in cinese. Le fonti giustinianee vengono tradotte direttamente dal latino al cinese. Inoltre, si manifesta un interesse per la cultura del mondo classico. Centinaia di dottorandi in diritto romano, dopo aver discusso la propria tesi in Italia, diventano professori nelle Università cinesi.

3.2. Il suo progetto di Codice civile, come “seconda ricezione del diritto romano” In Cina vi fu una “seconda recezione del diritto romano”, di eccezionali conseguenze socio-giuridiche. A poco a poco si sviluppa il desiderio di un Codice civile, che è ritenuto fondamentale per promuovere lo sviluppo economico-commerciale. Il suo compito di codificazione è “enorme” in quanto fa parte di una società “plurale e complessa” nella sua struttura; di un sistema comunista in cui tutta la terra appartiene allo stato; di un commercio che riconosce il “libero mercato” e la proprietà privata delle imprese; una società in piena crescita economica, con una significativa industria tecnologica, buone opportunità di investimento estero e un’espansione inarrestabile del suo mercato estero.

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A ciò si aggiunge una realtà “vergine” nel diritto da parte della società cinese. In questo senso, categorie giuridiche elementari, come usufrutto, ipoteca, locazione, compravendita, proprietà intellettuale, ecc., sono estranee alla coscienza popolare. Il progetto di modernizzazione del diritto civile fu avviato varando leggi speciali sulle assunzioni, il diritto al risarcimento dei danni e i diritti reali. Gli studiosi di diritto acquistano una straordinaria rilevanza politica. Nelle prime discussioni sul codice due sono state le posizioni concorrenti. La prima riteneva che il codice dovesse ridursi a esprimere i principî e gli istituti principali, lasciandone lo sviluppo alla legislazione speciale; l’altra difese un Codice civile di più ampio respiro, che racchiudesse anche il diritto commerciale. I lavori di codificazione mossero direttamente dal Corpus giustinianeo. Dieci anni fa, due prestigiosi esperti cinesi in diritto civile pubblicarono il libro “Verso un Codice civile”, che destò grande interesse in tutto il mondo, in attesa della sua conclusione finale. Dopo uno studio esaustivo del civil law, in particolare quello germanico, quanto del common law, il progetto di codice fu approvato nel 2020, quasi all’unanimità, dall’Assemblea Nazionale del Popolo, organo con pieni poteri legislativi. Manca poco perché i giuristi di tutto il mondo vengano a conoscenza del Codice civile definitivo, che, data la posizione commerciale della Cina, avrà un’influenza determinante sulle relazioni commerciali in tutto l’Orbe. Con la sua promulgazione, si dimostrerà ancor` una volta come il diritto romano trascenda sia il tempo sia la geografia.

4. IL

DIRITTO ROMANO, COME ELEMENTO ESSENZIALE NELLA FORMAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

L’Europa si trova davanti un bivio giuridico nel suo compito di costruire una realtà sovranazionale che unisca tutti i popoli del Vecchio Continente. Uno degli strumenti di unione tra i popoli è stato quello di condividere un ordine normativo comune. Il diritto è sempre stato un prodotto storico. L’Europa, che ha saputo dar vita a una splendida civiltà, sta adesso configurando la propria realtà giuridico-politica. Non è possibile costruire l’Europa dell’Unione, staccandola dal suo passato. Da qualche decennio assistiamo a un processo di unificazione politica che ha dato vita a una realtà sovrastatale – ancora incompiuta sia nella sua strutturazione che nella sua composizione –, che è l’Unione europea. I costruttori europei hanno voluto, fin dagli albori, formare un ordinamento normativo che si configurasse come la struttura giuridica di cui aveva bisogno il nuovo ente pubblico che stavano cercando di dare vita. Se la fase dell’unificazione

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politica è incompiuta, quella dell’unificazione giuridica è ancora in una fase ancora meno matura. È necessario che le esperienze storiche, politiche e giuridiche che l’Europa ha conosciuto siano valutate affinché il risultato dell’unificazione non sia un’entelechia artificiale ma un riflesso dell’evoluzione storica dei popoli, che aspirano a recuperare un’unione che una volta fu reale. Consapevole di tutto il passato storico comune, e del valore che deve continuare ad avere nella nuova costruzione europea, la Dichiarazione sull’identità europea del 1973 sottolineava sulla necessità di “riscoprire l’Europa” attraverso la sua identità culturale preterita. E in questo riferimento storico non c’è dubbio che Roma, come realtà politica, e il suo diritto come realtà giuridica, sono un “tesoro prezioso”. Se i antecedenti storici non devono mai essere trascurati nella compressione – e anche nella configurazione – di un istituto giuridico, poiché questi ne condizionano l’adeguata conformazione, in questo caso tale premessa diventa più impegnativa. In questo senso, Palma afferma: «… un nuovo modo di utilizzare il diritto romano come categoria concettuale all’interno di quella che oggi a noi scienziati sociali appare essere una rivoluzione geo-giuridico-politica che segna la risorgenza della concezione romana della universalità del diritto …». È stata una costante storica, la presenza rilevante del diritto romano nella evoluzione della scienza giuridica europea. È pacifico che uno dei “tratti” distintivi della cultura europea è il “modo di concepire il diritto”, e che questo su deve in gran parte all’elaborazione giurisprudenziale del diritto romano. Questo diritto – elaborato dai giureconsulti insieme alla pratica fattane dalla iurisdictio dei pretori –, dopo aver cessato la sua vigenza storica, fu studiato e trasmesso, attraverso l’insegnamento quale disciplina autonoma in tutti i centri di conoscenza europei, come abbiamo già visto, dai maestri glossatori bolognesi all’inizio del XII secolo. È dunque ovvia l’utilità del diritto romano nel processo di costruzione dell’attuale diritto europeo. Per questo è necessario che la scienza romanistica mantenga viva la fiaccola accesa da Koschaker, nella sua proposta di fare una realtà di uno ius gentium privatum europeum, vivificata da d’Ors, con la difesa della “Vocazione universale del diritto romano” e ricordata da Biscardi con il suo saggio su “Il diritto e la scienza del diritto alle soglie dell’anno 2000”. Nel momento presente il diritto privato europeo è in una fase primaria di configurazione. I tentativi di realizzarlo sono stati compiuti attraverso le norme contenute nei Trattati e nelle direttive e regolamenti. Bisogna anche mettere in risalto l’importante lavoro giurisprudenziale svolto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE). La Corte si avvale di un insieme di principi generali di diritto comuni agli Stati membri nella risoluzione in sede

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giudiziale di questioni controverse riferite sia alla sfera pubblica che a quella privata. Inizialmente, la causa è stata la natura incompleta dell’ordinamento comunitario, che ha fatto necessario fare appello ai principi per colmare le sue lacune. Con l’ampliazione dell’ordinamento giuridico dell’Unione, il ricorso che la Corte continua a fare ai principi non è diminuito, ma oggi è prassi consolidata che gli Avvocati generali li citino nelle loro argomentazioni per la loro imperitura validità. Reinoso osserva come ci siano molte risoluzioni in cui la CGUE, e altre istituzioni dell’Unione europea, invocano i principi del diritto romano o della tradizione romanistica come base delle loro risoluzioni. Quando la giurisprudenza parla di “Principi generali del diritto communi degli Stati membri” è evidente che si fa riferimento all’insieme delle PGD provenienti dalle diverse legislazioni nazionali, che hanno carattere interpretativo ed ispiratore del resto dell’ordinamento e che sono anche riconosciuti come fonti del diritto, non scritte. Nella maggior parte dei casi, queste PGD comuni sono presi del diritto romano o dello ius commune che la Corte utilizza, indipendentemente dalla loro origine, nella consapevolezza che si tratta di principi noti a tutti i giuristi colti, per la sua tradizione secolare nella Storia della scienza del diritto. Sono quindi diventati un patrimonio comune, non solo degli studiosi ma anche degli operatori del diritto, nella loro funzione di invocare e applicare il diritto. Così, le fonti primarie dirette del diritto dell’Unione si arricchiscono e si completano con i PGD comuni agli Stati membri che risultano originati dal diritto romano e tratti dalle diverse tradizioni giuridiche nazionali. Il loro utilizzo da parte della giurisprudenza contribuisce a formare un diritto unico europeo che possa essere percepito dai diversi paesi membri come “proprio e non imposto”. Il passato giuridico europeo ha saputo plasmare quella prodigiosa storia della scienza giuridica, che è da più di due millenni si è tessuta e distessuta sui telai d’Europa. Solo lungo queste tracce si può costruire un diritto preciso, solido e duraturo. Il resto sarebbe un rompicapo discordante e così fragile che dovrebbe essere costantemente rivisto.

5. IL DIRITTO DEL XXI SECOLO. DIRITTO ROMANO E DIRITTO GLOBALE Il processo di allargamento delle relazioni commerciali tra tutti i popoli; la creazione di aree di mercato comune, e la comparsa di realtà sovranazionali di integrazione degli Stati, richiedono la formazione di un nuovo diritto comune, oggi di carattere universale. Solo il diritto romano è un sistema giuridico la cui conoscenza può dirsi globalmente diffusa. Anche nelle regioni del pianeta più distanti dalla civiltà

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occidentale, il diritto romano gioca un ruolo importante nel processo di formazione della realtà giuridica. Lo abbiamo visto in Giappone e attualmente in Cina e lo stesso può riconoscersi rispetto ai paesi africani. Così Antonio Palma, con ferma convinzione, dichiara: «Il diritto romano … divenuto dopo la caduta dell’Impero Romano prodotto culturale che ha attraversato trasversalmente la civiltà occidentale fino a divenire elemento costitutivo della sua civilizzazione, trova oggi un naturale riferimento nel nuovo Occidente del mondo, la Cina, che si caratterizza precipuamente per la sua rinnovata capacità di essere, ad un tempo, antica, moderna e postmoderna … Il diritto romano si connota … come un potente strumento di globalizzazione … lo studio di questo Diritto è l’introduzione indispensabile della giurisprudenza ed è un’eccellente ginnastica intellettuale ...». Il diritto romano è anche il naturale e logico luogo di incontro tra i due grandi ordinamenti analizzati. Il civil law presente nel continente – e per la sua influenza nei paesi latinoamericani – attraverso il diritto romano cristallizzato nella letteralità dei codici civili; e il common law nell’area di influenza anglo-americana. Abbiamo evidenziato come anche in questo sistema è possibile riconoscere il diritto romano, sia nella forma di creazione giuridica, sia nell’ampio insieme di regole romane applicate dai tribunali inglesi. Affinché il diritto romano occupi il posto che gli compete nel processo di formazione del diritto globale, esso deve essere consapevole del momento trascendentale che sta attraversando questo processo di unificazione. Per questo la ricerca romanistica non può essere ridotta a una scienza intrecciata storicogiuridica e filologica, valida solo per gli iperspecialisti. Il diritto romano è una “prodigiosa esperienza giuridica” che ha dato origine a un “diritto classico” che, in larga misura, è ancora così attuale come quando è stato concepito. Sono pertanto due le linee di indagine “irrinunciabili”. La scienza romanistica deve avanzare come un’“imbarcazione”, in cui si “rema a babordo e a tribordo”. Ciascun studioso può sentirsi maggiormente spinto dalle proprie preferenze, capacità o persino vicissitudini “congiunturali” a progredire nello studio tendente a fare luce nel difficoltoso mondo delle fonti, ma può dedicarsi anche al compito di fungere da collegamento tra gli studi romanistici e le realtà positiva che possa contribuire a una migliore interpretazione e applicazione del Diritto vigente. Il Diritto romano deve essere coltivato da entrambi questi orientamenti, che non sono contraddittori bensì complementari. Pertanto, la scienza romanistica non deve trascurare il compito di collegare il diritto romano con la legislazione attuale per contribuire alla sua migliore comprensione, interpretazione e applicazione. Da quest’ultimo orientamento, sarà in grado di essere il faro, luminoso e ispiratore, del nuovo diritto globale dalle sue istituzioni e categorie imperiture.

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GLI AUTORI

RICCARDO CARDILLI, Professore Ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata MAURIZIO D’ORTA, Professore Ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità presso l’Università degli Studi di Salerno IOLE FARGNOLI, Professore Ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità presso l’Università degli Studi di Milano La Statale FRANCESCO FASOLINO, Professore Ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità presso l’Università degli Studi di Salerno FEDERICO FERNÁNDEZ DE BUJÁN, Catedrático de Derecho Romano de la UNED (Universidad Nacional de Educación a Distancia) – Madrid MASSIMO MIGLIETTA, Professore Ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità presso l’Università degli Studi di Trento ANTONIO PALMA, Professore Ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II UMBERTO VINCENTI, Professore Ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità presso l’Università degli Studi di Padova

 

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2022 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220

 

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