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Italian Pages 258 Year 2022
Fondamenti, pratiche e questioni aperte
Identità relazionale e formazione
Addentrarsi ad esplorare oggi il tema della vocazione alla propria identità è più che mai appassionante e delicato. Si tratta infatti di attraversare un territorio in cui si incrociano in modo misterioso, e ogni volta unico, natura e cultura, autotrascendenza e condizionamenti, biologia e simboliche, relazioni e solitudini esistenziali, molteplicità e unità. Con questo volume il gruppo di Ricerche di Ontologia Relazionale (ROR) ha voluto aprire uno spazio affinché speculativi ed educatori, insieme a terapeuti e sociologi, potessero condividere l’indagine di questo territorio mettendo in comune le mappe delle proprie esplorazioni, tracciate con molto lavoro e in tanti anni nell’ambito delle rispettive aree di competenza. Come sappiamo una mappa non può rappresentare esaustivamente la realtà che rappresenta, ma permette di orientarsi nel pensiero, senza il cui apporto riflessivo non è possibile trarre dalla vita una esperienza e tanto meno trasformare il vissuto in cultura. Abbiamo perciò titolato il volume Identità relazionale e formazione perché crediamo che il farsi delle identità – siano esse professionali, sociali o spirituali – non sia osservabile senza una stabile attenzione al farsi e al moltiplicarsi delle relazioni.
I. Vigorelli (a cura di)
La crisi dell’epoca contemporanea è segnata dall’incapacità delle diverse discipline di dialogare tra di loro, incapacità che le rende non significative per la vita concreta dell’uomo di oggi. Il ROR nasce dalla convinzione dei suoi membri che il superamento di questa crisi non possa consistere in un ritorno ad uno stato premoderno, ma richieda un lavoro ontologico per ampliare la metafisica alla dimensione relazionale dell’esistente. A ciò si può arrivare da fronti diversi: attraverso l’analisi del pensiero patristico fino all’antropologia; dalla presa di coscienza del ruolo fondamentale dell’ermeneutica, al rapporto con le scienze sociali e, in particolare, con il prezioso stimolo offerto dalla sociologia relazionale di Pierpaolo Donati. Ciò vale in special modo per quanto riguarda lo sviluppo di un’epistemologia relazionale, cioè di un’epistemologia in grado di trattare come oggetti propri le relazioni, che nella prospettiva aristotelica, come pure in quella cartesiana, rimanevano in ombra.
Studies Series
I. Vigorelli (a cura di)
Identità relazionale e formazione Fondamenti, pratiche e questioni aperte
Commentando l’affermazione di Paolo VI, che il mondo soffre per mancanza di pensiero, Benedetto XVI scrive: «serve un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un “approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione”» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 53). Dalla Populorum Progressio fino a Papa Francesco, passando attraverso le parole della Caritas in Veritate, si può evidenziare nel Magistero un filo conduttore, che stimola gli uomini di scienza e di cultura ad entrare in relazione tra loro per pensare insieme la dimensione sociale dell’essere umano e della sua perfezione, e quindi del suo cammino verso la felicità. dal Discorso per l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2016-2017 di Mons. Javier Echevarría, Gran Cancelliere della Pontificia Università della Santa Croce.
Comitato scientifico della Collana Piero Coda Gianfranco Dalmasso Pierpaolo Donati Fabrice Hadjadj Antonio López John Milbank Pierangelo Sequeri
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Si ringrazia
5 © foto Elio Ciol, Il grido di Pasqua
EDUSC
Identità relazionale e formazione Fondamenti, pratiche e questioni aperte Ilaria Vigorelli (a cura di)
Studies Series
EDUSC
Ricerche di ontologia relazionale
Quinto volume
Prima edizione 2022 Copertina di Sonia Vazzano
© 2022 – Edizioni Santa Croce s.r.l. Via Sabotino, 2/A – 00195 Roma Tel. (39) 06 45493637 [email protected] www.edizionisantacroce.it
ISBN 979-12-5482-033-9
Indice
Introduzione
7 PRIMA PARTE FONDAMENTI
La costituzione relazionale dell’identità in prospettiva sociologica Pierpaolo Donati
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Formazione all’identità in relazione: prospettiva antropologica Antonio Malo
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Formazione dell’identità e relazione interiorizzata: prospettiva teologica Giulio Maspero
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SECONDA PARTE PRATICHE L’identità nell’approccio costruttivista: coerenza, coesione e continuità nell’evoluzione della persona Davide Armanino
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Educare l’identità relazionale Nicolò Terminio
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Indice
Lavorare con adolescenti su emozioni e identità nella società digitale attraverso lo strumento del gioco di ruolo Marco Scicchitano
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TERZA PARTE QUESTIONI APERTE Identità e intimità: educazione in famiglia Mariolina Ceriotti Migliarese
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La cura delle identità, il rispetto della relazione: come riformulare gli approcci educativi, l’annuncio del Vangelo, la predicazione Giuseppe Brighina
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L’identità nello sguardo del padre Pierluigi Imperatore
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Identità relazionale e Vocazione Ilaria Vigorelli
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Indice dei nomi
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Introduzione
Addentrarsi ad esplorare oggi il tema della vocazione alla propria identità è più che mai appassionante e delicato. Si tratta infatti di attraversare un territorio in cui si incrociano in modo misterioso, e ogni volta unico, natura e cultura, auto-trascendenza e condizionamenti, biologia e simboliche, relazioni e solitudini esistenziali, molteplicità e unità. A chi scrive appare chiaro che nessuno possa dire “io” se non incontrando il “tu” e nessuno può essere un “tu” in ascolto, per educare o per curare, se non attraversa di continuo il territorio misterioso e dinamico del proprio “io”. Con questo volume il gruppo di Ricerche di Ontologia Relazionale (ROR) ha voluto aprire uno spazio affinché speculativi ed educatori, insieme a terapeuti e sociologi, potessero condividere l’indagine di questo territorio mettendo in comune le mappe delle proprie esplorazioni, tracciate con molto lavoro e in tanti anni nell’ambito delle rispettive aree di competenza. Come sappiamo una mappa non può rappresentare esaustivamente la realtà che rappresenta, ma permette di orientarsi nel pensiero, senza il cui apporto riflessivo non è possibile trarre dalla vita una esperienza e tanto meno trasformare il vissuto in cultura. Abbiamo perciò titolato il volume Identità relazionale e formazione perché crediamo che il farsi delle identità – siano esse professionali, sociali o spirituali – non sia osservabile senza una stabile attenzione al farsi e al moltiplicarsi delle relazioni. L’alternativa alla differenza, intesa come differimento da ciò che è 7
Introduzione
proprio, non è infatti l’uguaglianza come ripetizione dell’identico, ma l’identità, in quanto portatrice unica di relazioni e di tempo. Identità relazionale è dunque tema per la proposta di una grammatica capace di tenere in coerenza le evoluzioni date nel tempo, dagli eventi mondiali e dalle evoluzioni tecnologiche, con le relazioni, i traumi e le frustrazioni che costellano, accanto ai buoni esiti, l’essere e il fare comune e in comunione nella quotidianità. Il volume risulta composto come un trittico di fondamenti, di pratiche e di riflessioni su alcune questioni aperte. Una prima parte che, per semplicità chiamiamo teorica perché scruta dall’alto, esprime in termini antropologici, teologici, storico culturali e sociali ciò che pertiene al nascosto e che nelle indagini pratiche si vede in azione. Si tratta di una parte che non chiude il quadro descrittivo su sé stesso, ma propone una regola del significato, una legge di prossimità e di rapporto, e permette di includere le altre discipline in un confronto costruttivo nonché problematizzante. Pierpaolo Donati offre la prospettiva sociologica dell’identità relazionale, secondo un percorso euristico; da sociologo alla ricerca di una epistemologia per lo studio del “fatto” sociale, il maestro di Bologna si interroga sulla connessione tra identità e relazione e crea un linguaggio che verrà condiviso dagli autori successivi. L’identità relazionale mostra così il suo carattere “emergente” ovvero immanente e al contempo trascendente le relazioni che la costituiscono. Tale immanenza e trascendenza è ciò che rende così difficili da pensare e da prevedere le dinamiche relazionali. Si mette in evidenza così che il tema delle identità è intrinsecamente unito ad un problema politico per quanto riguarda la distinzione dell’ordine del privato da quello del pubblico, giacché i beni relazionali, necessari alla promozione, alla crescita e allo sviluppo delle identità relazionali, sono beni comuni quali la fiducia, la pace, l’ambiente, ecc.
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Introduzione
Antonio Malo espone la prospettiva antropologica, analizzando d’entrata gli elementi che la cultura postmoderna offre per una revisione dell’idea di “identità statica” ideologica e moderna, ma indica pure gli elementi di criticità offerti dall’idea di “identità liquida” che scioglie il soggetto nella puntualità senza durata del suo arbitrio e nella depressione post-consumistica della società della prestazione. L’intento inaugurato dal lavoro di Malo è di volgere lo sguardo speculativo verso ciò che vorremmo chiamare la sorgente dell’identità, attraversando le diverse concezioni del corpo e della coscienza per integrarne il valore nella dimensione relazionale, la quale si esprime come dipendenza, auto-possesso e donazione; queste, fenomenologicamente rilevate, sono le tre direttrici sulle quali l’identità relazionale sempre evolve e si struttura, trovando, acquisendo e producendo beni e mali relazionali, fino alla possibilità di discernere il proprio essere e il proprio divenire in rapporto alla relazione originante che ne è appunto sorgente. Il rapporto con la sorgente relazionale delle identità è approfondito dal contributo teologico di Giulio Maspero che mette mano alla aporia antica del pensiero dell’uno e dei molti e la ricolloca nell’ambito del pensiero trinitario della rivelazione cristiana. Nel suo impianto argomentativo, l’identità relazionale è la progressiva apprensione dell’essere immagine di Dio, dove Dio è relazione immanente di mutuo ed eterno dono della propria vita all’altro, per cui la vita umana si dispiega come scoperta di una relazione immanente che anzitutto vuole ogni essere umano come è, e poi lo attrae oltre i limiti del finito contingente verso un più di vita che al contempo è pre-gustabile e mai sazia. La seconda parte, dedicata alle pratiche formative dell’identità relazionale, si apre con la formulazione di un caso clinico, ad opera di Davide Armanino, mediante il quale si vede all’opera l’io nascosto di un’adolescente e i rischi nei quali può cadere inconsapevolmente un tu adulto che rimane cieco ai segnali attivi sul presente lasciati dalla storia della giovane, con la quale 9
Introduzione
si immagina lo sviluppo di un rapporto educativo. L’approccio costruttivista con cui si accede alla storia della protagonista permette di vedere la continuità nell’evoluzione della persona. D’altro canto, l’analisi delle condizioni di ruolo degli educatori mette l’accento, per sottrazione, su quel movimento di avvicinamento e allontanamento che è necessario alla promozione nella giovane della sua identità, intesa qui come “permanenza del sentire e riconoscimento dell’unicità”. All’identità relazionale come vocazione è dedicato il capitolo di Nicolò Terminio, narratore di una trama educativa che trae forza e cogenza dal metodo della psicanalisi lacaniana. L’orizzonte del capitolo è l’umana capacità di amare, nel suo risvolto non tanto antropologico, ma evolutivo, non come condizione di partenza nella storia del soggetto, ma come esito di un percorso educativo che sappia trasmettere la “generatività del desiderio”. A questo si accosta il laboratorio educativo ideato e promosso da Marco Scicchitano, nella cui narrazione si affiancano e si intrecciano considerazioni teoriche e pratiche nella ricca presentazione del progetto psicoeducativo “Le Nere Lame”, lungo il quale emozioni e gioco curano e promuovono identità relazionali nell’ambito protetto di un laboratorio esperienziale attento alle dinamiche di immedesimazione attraverso simulazione. Completano il trittico alcune considerazioni di sintesi, in cui l’esperienza educativa e terapeutica fanno il paio con i vissuti e le questioni aperte legate principalmente al rapporto tra la consapevolezza della propria identità e le immagini di Dio. Mariolina Migliaresi sviluppa il tema dell’intimità, origine di quella continuità del sentire e fonte della creatività dell’io quando prende contatto profondo con il proprio Sé. Apre così una finestra sulla ampiezza dei disagi psicologici delle cosiddette “identità di superficie”, inquiete, smarrite, prive della percezione di poter contare su un proprio baricentro interiore e induce a domandarsi e ad approfondire che cosa faciliti o al contrario ostacoli nell’età evolutiva la possibilità di incontrare se stessi, di scoprire la dimensione della propria intimità, di apprezzarla, di 10
Introduzione
alimentarla. Agli educatori vengono offerti diversi spunti operativi per lavorare sul proprio compito e divenire reali facilitatori del processo che porta il bambino prima, e l’adolescente poi, ad una soddisfacente scoperta della propria intimità, con il conseguente benessere psicologico. Giuseppe Brighina considera la cura delle identità e il rispetto delle relazioni nell’ambito della pastorale e dell’evangelizzazione dei giovani nel periodo della preadolescenza e dell’adolescenza, mettendo in rilievo la condizione culturale di partenza dei “nativi nichilisti” e prendendo in esame i contenuti simbolici delle narrazioni di cui si nutrono fino ad esplorare il compito educativo che conduce a poter fare esperienza della “natura abissale” della propria libertà e a qualcosa che sia degno di questa abissalità. In tal modo l’ontologia relazionale viene vista non soltanto come un approccio teorico-euristico dell’esperienza umana, ma come una via da imboccare per guidare l’azione educativa più impegnativa nella storia di ogni soggetto. Pierluigi Imperatore riprende il tema identitario che si sviluppa dallo sguardo del Padre rivelato da Gesù di Nazareth e pone l’attenzione sulla posizione relazionale che deve assumere l’accompagnatore per poter donare un percorso di accompagnamento spirituale orientato all’incontro con il Padre. Infine, io stessa propongo una riflessione aperta sulle questioni sollevate dal rapporto identità-vocazione nell’ambito liquido delle morfogenesi dei gruppi e delle situazioni esistenziali che le generano. Ci auguriamo che queste letture possano sostenere il prezioso lavoro riflessivo ed esplorativo che il cambiamento di un’epoca richiede. Per concludere, vorrei ringraziare Luca Fantini e Beatrice Saltarelli per la cura e la competenza con cui mi hanno aiutato a portare a termine questo lavoro. Ilaria Vigorelli
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prima parte fondamenti
La costituzione relazionale dell’identità in prospettiva sociologica Pierpaolo Donati
1. Il tema Il tema della costituzione relazionale dell’identità riguarda ogni ente esistente, ma in questo contributo mi concentro sulla persona umana e sulle sue formazioni sociali, dal punto di vista del realismo relazionale critico. Pensiero critico è quello che ci fornisce gli strumenti per pensare il mondo così com’è e come potrebbe essere, anzi la tensione fra questi due modi di essere. Relazione e identità sono due concetti distinti, ma la loro distinzione non significa separazione, perché essi sono ontologicamente e fenomenologicamente connessi. Il problema teorico e pratico è quello di comprendere come si articola la loro connessione, dal momento che l’identità della persona non può essere definita solo in sé stessa, ma richiede un relazionamento all’Altro, e, viceversa, la relazione non può prescindere dalla identità dei termini che la costituiscono. Le due prospettive non sono scindibili. La persona, come essere “in-Sé”, non trova la propria identità rimanendo in sé stessa, ma la può trovare solo relazionandosi ad Altro-da-Sé. Detto in sintesi, l’identità si forma nella relazione fra il Sé e l’Altro-da-Sé, senza che la relazione assorba interamente la natura propria (sub-stantia) del Sé e/o dell’Altro. La comprensione di questa realtà è possibile se si riesce a vedere l’enigma della relazione,1 che consiste nel fatto che la re Cfr. P. Donati, L’enigma della relazione, Mimesis, Milano-Udine 2015.
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La costituzione relazionale dell’identità in prospettiva sociologica
lazione unisce i termini che collega (crea condivisione) mentre al tempo stesso rispetta e promuove la loro specifica differenza/ distanza. La relazione non dice “Io sono Te” o “Io sono come l’Altro”, se non per sottolineare ciò che accomuna l’Io e l’Altro, la qual cosa solleva immediatamente il problema della loro differenza. Solo così si può comprendere, ad esempio, come l’identità della famiglia (come di altre soggettività sociali) sia quella di un Noi (We-relation) in cui ciascun membro può e deve trovare la propria identità senza annullare o mortificare la propria personalità. Come persone umane siamo portati a chiederci quale sia la nostra identità più significativa, quella che sostanzia le ragioni della nostra vita, al di là delle identità contingenti che assumiamo nel corso della nostra esistenza (l’identità che abbiamo nella famiglia di origine, nella scuola, nel lavoro, nella vita civile, politica e religiosa). La risposta a questo interrogativo (“Chi sono io e perché vivo?”) non può essere data dalla persona riferendosi solo a sé stessa, ma deve essere trovata nel relazionarsi a qualcosa o a qualcuno che possa conferirle una identità (sub-stanziale) in cui trovare il senso ultimo e più appagante della propria esistenza. Ovviamente la persona può darsi tante risposte diverse, ma di fatto, generalmente, vive in tensione con una appartenenza primaria, cioè la sua esistenza è segnata da una relazione con una realtà simbolica che ne assorbe le energie più profonde. Lo vediamo nelle persone che concentrano tutta la loro identità nel perseguire un interesse materiale o ideale (nel lavoro, nella politica, nello sport, ecc.) che assorbe ogni altra premura e ogni altra appartenenza, e così definisce tutta la loro vita in funzione di una appartenenza incapace di coniugarsi con altre appartenenze. In linea generale, comunque, tutte le persone nel corso della loro vita, momento per momento, situazione per situazione, hanno una pluralità di identità (sono lavoratori, genitori, cittadini, consumatori, membri di qualche associazione, ecc. ecc.). Alcune sono più importanti e altre meno. Se il soggetto cerca di chiarire la loro importanza relativa, di solito ne esce sconfitto. Tra queste identità c’è 16
Pierpaolo Donati
una certa confusione. Quando il soggetto si trova a dover rispondere alla domanda sulla sua identità (“Chi sono io?”), attiva necessariamente la sua riflessività interiore e relazionale. La riflessività gioca qui un ruolo fondamentale, che può essere di genere molto diverso. Il più delle volte è una riflessività bloccata o fratturata che non fornisce alcuna risposta chiara, lasciando il soggetto privo di una identità che non sia la banale constatazione di uno fra i vari ruoli sociali. Riprenderò più oltre questo tema, ma intanto vorrei sottolineare la difficoltà di arrivare ad una identità “profonda”, se non addirittura “ultima”, nel senso di una identità che risponde al senso del proprio fondamento esistenziale. Per raggiungere questa identità, occorre mettere da parte tutte le identità storiche contingenti mediante una operazione riflessiva (detta operazione di re-entry)2 che reintroduce continuamente la domanda “chi sono io?”, una volta scartata la risposta insoddisfacente, in ciò che è appena stato distinto. Molte persone trovano questa identità “profonda” nella relazione con Dio (il totalmente Altro), comunque inteso, o un suo sostituto funzionale. Questa considerazione, che è una constatazione di fatto avvalorata dalla ricerca empirica, dice quanto sia essenziale comprendere l’identità come relazione. Per il cristiano in particolare, la sua identità più profonda e ultima è data dalla relazione di filiazione divina, dal sentirsi ed essere figlio di Dio. Il che rimanda alla importanza della fede coniugata con la ragione in sede antropologica. La “formazione” (il prendere forma) dell’identità, sia personale sia sociale, avviene con il costituirsi del senso dell’appartenenza (non dell’appartenenza come tale), che è una relazione emergente da un processo in cui il soggetto è insieme generato e generatore. È generatore con l’intenzionalità, la scelta, la riflessività, ma è anche generato perché l’appartenenza dipende da una realtà esterna di cui il soggetto ha bisogno per ricevere riconoscimento e consenso della sua identità. L’operazione della re-entry (che significa rientrare la stessa distinzione in ciò che è stato appena distinto) è stata formulata da George Spencer-Brown e ripresa da Niklas Luhmann. 2
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La costituzione relazionale dell’identità in prospettiva sociologica
Così, Ugo Borghello3 sostiene che l’identità personale si costituisce sulla relazione che egli chiama di appartenenza primaria. Ma che legame c’è fra identità e appartenenza? Viene “prima” l’identità oppure la relazione di appartenenza (distinguendo il “prima” in senso ontologico e in senso temporale)? Se l’identità è ascritta, certo viene ontologicamente prima l’identità, e in tal caso l’appartenenza è una conseguenza: per esempio, se Mario si riconosce di sesso maschile (considerando il sesso una caratteristica ascritta), ne consegue l’appartenenza alla categoria sociale dei maschi. Ma se l’identità è acquisita o da acquisire, come vanno le cose? In certi casi l’appartenenza viene ontologicamente e temporalmente prima dell’identità, ma in generale quando l’identità è da acquisire si instaura un certo processo di reciproca interazione fra l’appartenenza ad un gruppo sociale e la definizione dell’identità: pensiamo ad esempio alla formazione dell’identità di genere (gender) nell’adolescenza; qui molto si gioca nelle appartenenze a certi gruppi socio-culturali che influenzano potentemente il senso della propria identità – come orientamento – sessuale. Cfr. U. Borghello, L’appartenenza primaria. Una teoria generale, Cantagalli, Siena 2017. Si veda anche la recensione di Antonio Malo in cui egli osserva che in questo volume «la questione della distinzione fra un’appartenenza primaria positiva o negativa, cioè l’aspetto etico della struttura relazionale dell’appartenenza, è solo accennato […]. Mi sembra che manchi ancora l’evidenza del criterio secondo il quale tale appartenenza possa divenire luogo di giudizio, o luogo giudicato, rispetto a ciò che sarebbe veramente umano» (A. Malo, L’appartenenza primaria, «Acta Philosophica» 28 (2019) 171-173, citazione p. 171). Dal mio punto di vista il problema è capire come si costituisce l’appartenenza primaria (a cui è annessa l’identità primaria) nei termini di una teoria relazionale del processo che porta a “costituire” l’identità primaria di un soggetto (uso il termine “costituzione” nel senso di L. Rudder Baker, Why Constitution is Not Identity, «The Journal of Philosophy», 94 (1997) 599621). Una siffatta teoria è necessaria per rispondere alla domanda: di identità primaria ce n’è una sola? O ce ne sono varie e diverse fra loro (per esempio: una candela accesa per Dio e una per il Diavolo)? Dal punto di vista fenomenologico, il fatto che una identità sia “primaria” dipende molto spesso sia dalla situazione (contesto socioculturale) sia dal momento temporale, ed è proprio per questo che si richiede un’analisi relazionale. 3
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Pierpaolo Donati
La formazione dell’identità attraverso l’appartenenza è un processo che congiunge e divide nello stesso tempo. Il problema è comprendere e spiegare il processo di formazione dell’identità (“prendere forma”, “in-formazione” come in-mettere una forma dentro l’identità). Il migliore approccio per comprendere tale processo, a mio avviso, è quello relazionale, che parte dal problema di quale sia il ruolo delle relazioni sociali nel costituire o causare il senso di appartenenza. Per poi, se possibile, incidere su questo processo costitutivo, e a volte causale, dell’identità anche sul piano pratico con interventi relazionali (sistemi di osservazione-diagnosi-guida relazionale). Vorrei ora chiarire i termini dell’approccio relazionale. Che cosa intendiamo per relazione e per identità? Suggerisco una sintetica definizione di questi concetti, per poi analizzare le loro inter-dipendenze e inter-penetrazioni. 2. Il concetto di relazione Il concetto di relazione è quanto mai complesso e polivalente, essendo utilizzato in tutte le discipline (teologia, filosofia, scienze naturali e umane, scienze sociali, e così via). La letteratura al riguardo è immensa. In questa sede, mi concentro solo su alcuni dei suoi aspetti. Aristotele intende la relazione come un concetto “primo”, una categoria logica, il cui significato è quello di indicare una prossimità spaziale. Essere in relazione (pros ti) significa “essere prossimi” fra entità sostanziali. È un accidente, dotato di realtà (ha un “essere”) ma privo di una propria consistenza, perché deve inerire ad altro da sé. Nel corso della storia, le varie culture hanno semantizzato il concetto di relazione in vari modi. Nella semantica latina, la relazione (relatio) significa riferire qualcosa a qualcos’altro (o a qualcuno). Di qui il significato di “relazione” come un riportare notizie o svolgere una narrazione. Questa accezione ha prevalso grossomodo fino all’inizio dell’epoca moderna, quando le scienze sociali a base empirica hanno iniziato a intendere la relazione come legame (religo, bond), ovvero come 19
La costituzione relazionale dell’identità in prospettiva sociologica
struttura della vita sociale e dell’organizzazione della società. Le due accezioni di relazione come “riferimento intenzionale-simbolico” (refero) e come “struttura-che-connette” (religo) sono poi state combinate e poste in interazione fra loro, dando vita ad una terza semantica, quella generativa, che concepisce la relazione come un effetto emergente dalle azioni reciproche fra i suoi termini dotato di una propria realtà.4 Questa realtà è l’essere della relazione, l’essere che è nella relazione come tale (being in relation), come sua energia dinamica (la energeia di cui parla Aristotele). Per fare un esempio, pensiamo al matrimonio. Certamente il matrimonio definisce una relazione di prossimità fra gli sposi. Ma con ciò non entriamo nella sua realtà propria e più profonda. Di fatto, il matrimonio è un riferimento intenzionale-simbolico degli sposi (l’amore reciproco) e una struttura che li connette (il patto o contratto), ma ciò non è ancora sufficiente a comprenderlo fino in fondo. Per comprendere la sua natura (attivata dagli sposi, ma avente una propria consistente realtà), dobbiamo vederlo come un effetto emergente in sé, che sorge dall’agire reciproco degli sposi, ma va oltre le loro individualità, è (ed evolve nel corso della vita come) una realtà da cui dipende l’identità degli sposi. In tal senso diciamo che il matrimonio, quando è veramente tale, è un esempio di “bene relazionale”,5 cioè una relazione che ha virtù proprie, qualità e proprietà causali proprie, in quanto da esso derivano i vari beni della coppia, fra cui i figli (che sono la concretizzazione più significativa di ciò che intendiamo per “bene relazionale” della coppia). Si deve alla teologia trinitaria cristiana, a partire dai padri della Chiesa (in particolare Gregorio di Nissa e sant’Agostino), l’avere prodotto la discontinuità più forte con la concezione della relazione propria del mondo antico precristiano.6 Certamente P. Donati, Sociologia della relazione, il Mulino, Bologna 2013, 87-92. P. Donati, Teoria relazionale della società, Franco Angeli, Milano 1991, 150-171. 6 G. Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma 2013. 4 5
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Pierpaolo Donati
Tommaso d’Aquino rielabora le novità portate dal pensiero cristiano circa l’importanza del concetto di relazione a partire dalla definizione delle tre Persone divine come relazioni ipostatiche. Tuttavia, la teologia medioevale rimane centrata sulla relazionalità della sostanza divina, e non viene ancora applicata alla creazione, al mondo, a realtà come la famiglia e il lavoro, se non in modo generico. Invero, la visione della Trinità come pura relazionalità, comportava di per sé la conseguenza, anche se non immediata, di leggere tutta la creazione come realtà intrinsecamente relazionale. Ma quest’ultima elaborazione verrà solo dopo vari secoli, e con svolgimenti sovente distorti e passibili di fallacie di ogni sorta, quali si riveleranno soprattutto nella cultura cosiddetta postmoderna dell’identità basata sulla differenza (mi riferisco ad autori come Martin Heidegger e Gilles Deleuze) anziché sulla relazione. Fino alla modernità, il concetto teologico di relazione rimane sostanzialmente separato dalla realtà secolare. Certo, Dio è relazione e l’uomo è naturaliter relazionale in quanto animale politico, ovvero animale sociale.7 Ma le connessioni fra questi due ordini di realtà, umana e divina, non vengono a loro volta esplorate “relazionalmente”. Questa svolta viene iniziata dall’idealismo e trova la sua massima espressione in Hegel, il quale introduce la relazionalità divina nel mondo storico permeandolo in toto. Il concetto di relazione viene interpretato in modo sempre più pervasivo e dinamico, arrivando ad essere un eschaton, cioè una realtà ultima in sé. Con la postmodernità, la relazione viene ridotta a pura processualità, ossia a incessante interazione ricorsiva, priva di struttura e di realtà propria, secondo una visione relazionista, anziché propriamente relazionale. Il relazionismo può essere esemplificato con la frase di Richard Rorty:8 «tutto ciò che può servire da termine di una relazione può essere dissolto in un altro insieme di relazioni, e così via all’infinito». M. Sodi, L. Clavell (a cura di), “Relazione”? Una categoria che interpella, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012. 8 R. Rorty, Philosophy and Social Hope, Penguin Books, London 1999, 54. 7
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La costituzione relazionale dell’identità in prospettiva sociologica
Il relazionismo emerge spinto in avanti dalla realtà virtuale, dalla nuova matrice digitale e da quella che viene chiamata infosfera. Floridi, per esempio, sostiene che il nuovo modello umano (forse oltre-umano) fa delle relazioni il suo nuovo centro, un “antropo-eccentrismo” in cui ci mettiamo fuori dalla centralità, in quanto individui, per lasciare al centro qualcos’altro: la relazione.9 Nella prospettiva di Floridi, se due partner non si considerano più il centro di una realtà, che cosa resta? Floridi dice l’amore. Se due amici rinunciano a considerarsi ‘centrali’ per la loro stessa esistenza, che cosa resta? L’amicizia. Secondo Floridi, in questo processo possiamo quindi percepirci non come esseri evoluti e perfetti ma piuttosto come una realtà non essenziale, ossia come “una eccezione non prescritta” della natura. La nostra identità dunque sarebbe, per questa visione, pura identità di relazione, di connessione, senza una realtà sostanziale. Più in generale, nel campo delle scienze umane e sociali, le varie forme di costruttivismo prassistico e relazionalistico dissolvono oggi tutta la realtà nelle pure relazioni. Come possiamo rispondere? Occorre adottare una prospettiva di realismo critico, analitico e relazionale.10 Sul piano teologico e filosofico i maggiori chiarimenti si trovano nel pensiero di Joseph Ratzinger (come dirò più oltre), e trovano nuove applicazioni nel pensiero di Papa Francesco. 3. Il concetto di identità Il concetto di identità è anch’esso polivalente, e pone una serie di problemi. Nel campo della filosofia, la questione dell’identità prende una forma problematica perché disponiamo di due modelli di identità: identità idem (il medesimo) e identità ipse (il sé stes L. Floridi, The Logic of Information. A Theory of Philosophy as Conceptual Design, Oxford University Press, Oxford 2019. 10 P. Donati, An original relational sociology grounded in critical realism, in F. Dépelteau (ed.), Palgrave Handbook of Relational Sociology, Palgrave Macmillan, New York 2018, 431-456. 9
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so).11 Ne propongo una lettura relazionale. L’idem è l’identità di qualcosa che permane nel tempo mentre le apparenze o, come si dice, gli “accidenti”, cambiano. Il suo modello filosofico è stato, fin dall’antichità, la sostanza. La sostanza è il substrato, il suppositum, il supporto, che è identico nel senso che è costante, e nella sua medesimezza non cambia, è sottratto al tempo anche se passa attraverso le vicissitudini del tempo e può apprendere. L’ipse, invece, consiste nell’identità di un Sé che ritrova Sé stesso (si re-identifica riflessivamente) di fronte alla constatazione dei propri cambiamenti, dovuti alla variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri, delle posizioni assunte nel divenire delle situazioni e circostanze storiche. Ricoeur fa l’esempio dell’identità ipse dell’individuo che mantiene una promessa. Ego mantiene la sua promessa nonostante i suoi cambiamenti di stato interiore, per esempio di umore. Io sono lo stesso, e mi conservo come la stessa persona, nonostante sia cambiato nel tempo per certi aspetti, interiori ed esteriori. A 70 anni sono ancora Io, lo stesso di quando avevo 10 anni (è l’identità ‘idem’), e tuttavia devo ridefinire la mia identità come un me stesso (ipse) che ritrova sé stesso dopo essere passato attraverso innumerevoli esperienze di vita che lo hanno sfidato e modificato in tanti momenti. Pensando all’esempio della famiglia, è possibile attribuirle l’identità di idem in quanto rimane identica nella sua costituzione di famiglia (nel suo “genoma sociale”), e l’identità di ipse nel senso che si rielabora riflessivamente come relazione-del-Noi (We-relation), che è la sua interna promessa, attraversando i cambiamenti nel tempo. Qui abbiamo l’identità della famiglia che deve essere continuamente recuperata quando deve superare le sue fasi di transizione. La famiglia ha dunque due relazioni Mi avvalgo del pensiero di Paul Ricoeur (Parcours de la reconnaisance, Éditions Stock, Paris 2004), ma mi discosto da lui per alcuni aspetti connessi al fatto che questo autore parla dell’identità dell’individuo senza una vera e propria visione relazionale, come ho cercato di mostrare in Donati, L’enigma della relazione, 24-26. 11
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identitarie con il tempo: una è in qualche modo di immutabilità (nel senso che ha, di fatto, sempre la sua propria costituzione di famiglia), l’altra è quella di una identità che cambia nel tempo e deve ri-trovarsi, ridefinirsi narrativamente (la “identità narrativa” di cui parla Margaret Somers)12 e riflessivamente13 attraverso le vicende della vita, perché l’età, la malattie, la morte, e tante vicissitudini modificano gli individui, le loro relazioni, e quindi i sentimenti e le percezioni del Noi, di ciò che essi sono (la famiglia “originaria”) nonostante tutto (si pensi alla famiglia descritta da Terrence Malick nel film L’albero della vita). Nel campo delle scienze psicologiche e sociali, il problema dell’identità della persona umana si pone in relazione a tre tipi di domande diverse. (i) Quando la domanda è: “Chi sono Io per me stesso? Chi voglio essere per me stesso?”, la risposta è frutto della conversazione interiore, ossia dell’individuo che riflette dentro di Sé su che cosa e come vuole essere (un certo tipo di professionista, o di genitore, ecc.). Parliamo di identità individuale. Nasce come risposta all’esercizio regolare dell’abilità mentale, condivisa da tutte le persone (normali), di considerare sé stesse in relazione al contesto (sociale), e viceversa. A questo livello, la relazione sociale non è ancora costitutiva della definizione del Sé, ma rimane un suo sottoinsieme come attributo riferito ai ruoli sociali ricoperti in maniera contingente (in famiglia, nel lavoro, nelle associazioni, ecc.). L’identità è individuale perché è riferita alle premure ultime (ultimate concerns) della persona, le quali sono selezionate, deliberate e perseguite nell’intimo dell’auto-coscienza individuale. (ii) Quando la domanda è: “Chi sono Io per gli altri? Che cosa voglio essere per essi?” la risposta è quella dell’identità sociale. Gli altri possono essere familiari, parenti, amici stretti, colleghi di lavoro, oppure un’associazione o comunità, e così via. Se l’identità attribuita ad Ego dagli altri viene elaborata da Ego nella M.R. Somers, The narrative constitution of identity: A relational and network approach, «Theory and Society» 23 (1994) 605-649. 13 P. Donati, Sociologia della riflessività, il Mulino, Bologna 2011. 12
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sua mente, l’identità che ne risulta è ancora di tipo individuale. Diventa sociale se l’identità in cui Ego si identifica si apre alla riflessività relazionale,14 cioè diventa il frutto di un esercizio di riflessività compiuta sulla relazione con gli altri per identificarsi con il bene della relazione. Non basta l’uscita dall’attaccamento all’Io (alla propria identità) per attingere l’intersoggettività, seppure questo sia un passaggio importante ed essenziale per istituire la relazionalità.15 Un esempio può essere l’identità che un genitore deve elaborare non in quanto individuo che ha i propri pensieri e sentimenti, ma in quanto è genitore in una relazione di coppia, pensando al fatto che tale relazione ha conseguenze sui figli a prescindere dai propri pensieri, desideri, premure. Deve ridefinire la propria identità in funzione di quale relazione vuole avere con l’altro genitore e il figlio. Contrariamente a quanto sostiene Margaret Archer, l’identità basata sulla riflessività relazionale ha una natura diversa da quella che la persona elabora in sé stessa e per sé stessa16, perché l’identità relazionale risponde all’etica della seconda persona e non della prima persona. Nell’etica della seconda persona il soggetto definisce la propria identità riflessivamente a partire dalla domanda “Come mi consideri Tu? Come Tu mi Ibidem, 295-306. La “psicoanalisi relazionale” presenta un certo interesse dal punto di vista del paradigma relazionale, ma rimane ancora piuttosto legata alla soggettività individuale, anche quando mette l’accento sulla importanza della intersoggettività con l’Altro. Il fatto è che la “svolta relazionale” negli sviluppi più recenti della psicoanalisi (S. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività. Raffaello Cortina, Milano 2002; S. Seligman, Lo sviluppo delle relazioni. Infanzia, intersoggettività, attaccamento, Raffaello Cortina, Milano 2018) sottolineano la fondamentale “relazionalità” della mente umana, ma non vedono il carattere emergente delle relazioni sociali al di là della intersoggettività. 16 Secondo Archer, la riflessività interiore è della stessa natura di quella relazionale perché ella utilizza in modo esclusivo la prospettiva della prima persona, rifiuta la prospettiva della terza persona, e non conosce la prospettiva della seconda persona (cf. M.S. Archer, Varieties of Relational Social Theory, in P. Donati, A. Malo, G. Maspero (eds.), Life as Relation. A Dialogue between Theology, Philosophy, and Social Science, Routledge, London 2019). 14 15
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vuoi? Come devo essere io per Te?”, laddove il Tu non è l’Io che interroga sé stesso, ma è un’altra persona che desidera una certa relazione con Ego. Accettando la relazione con l’Altro come significativa per Sé, Ego è chiamato ad accettare il Tu e a riconoscere il Sé come un Altro, il che comporta una nuova identità,17 ossia è una re-identificazione che spiega i cambiamenti della persona (le persone cambiano perché si re-identificano con altri referenti).18 Senza riflessività relazionale non c’è dialogo, non c’è un vero “incontro” con l’Altro, perché con la sola riflessività individuale l’identità rimane auto-centrata. Non c’è neppure conoscenza del mondo, perché la conoscenza è relazionale.19 E non c’è socializzazione, perché la socializzazione è frutto di processi relazionali in cui il riferimento all’Altro è fondamentale per stabilire un’identità condivisa.20 (iii) Quando la domanda è: “In che cosa mi identifico? Dove colloco l’immagine di me stesso?” la risposta è quella dell’identità culturale. È l’identità come appartenenza ad una cultura, ad un gruppo etnico, ad uno stile collettivo di vita. L’identità culturale risponde alla domanda a quale mondo simbolico (di valori) l’Io sente di appartenere o si riferisce in termini di uno stile di vita che lo accomuna ad altri ed è generativo di senso. Include le aspettative culturali – cioè regole di inquadramento (framing rules) e regole di sentimento (feeling rules) – in base alle quali gli individui verificano il proprio agire morale e i propri sentimenti, e nel contempo sono valutati dagli altri.21 P. Ricoeur, Sympathie et Respect: Phénoménologie et Éthique de la seconde personne, «Revue de Métaphysique et de Morale» 59 (1954) 380-397. 18 A. Pizzorno, Spiegazione come reidentificazione, «Rassegna Italiana di Sociologia» 30 (1989) 161-184. 19 A.P. Fiske, N. Haslam, Social Cognition is Thinking About Relationships, «Current Directions in Psychological Science» 5 (1996) 143-148. 20 G. Van de Walle, “Becoming familiar with a world”: a relational view of socialization, «International Review of Sociology» 21 (2011) 315-333. 21 J.E. Stets, M.J. Carter, A Theory of the Self for the Sociology of Morality, «American Sociological Review» 77 (2012) 120-140. 17
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In tutti e tre questi ordini di realtà (individuale, sociale e culturale), l’identità diventa problematica quando le risposte alle domande di cui sopra sono molteplici (il Sé si percepisce come multiple self), cioè nelle situazioni in cui l’Io si identifica o deve relazionarsi a diverse identità, e deve cercare di tenerle assieme mentre fa le sue scelte, pena la frammentazione, l’alienazione e altre patologie.22 Ovviamente, l’identità può essere riferita ad un soggetto personale o collettivo: può essere una persona, un gruppo sociale (più piccolo come una famiglia o più ampio come una comunità locale), una nazione, e così via. 4. Qual è la connessione fra identità e relazione? La connessione fra l’identità e la relazione è una inter-dipendenza e una inter-penetrazione fra di esse. L’una dipende dall’altra, in modo tale che qualcosa dell’identità entra nella relazione e la relazione va a costituire una parte dell’identità23. L’identità si costituisce con/attraverso/per la relazione mediante un processo di familiarizzazione, cioè rendendo familiari le persone e le cose con cui interagiamo “familiarmente”. Questo processo riguarda sia l’identità individuale, sia quella sociale, sia quella culturale. In tutti questi casi, la formazione dell’identità ha bisogno di un sistema simbolico di riferimento entro cui effettuare l’operazione di refero-religo-emergenza dell’identità, che potrà essere più o meno relazionale nel senso di ricondurre l’identità alle esigenze della relazione desiderata come tale. È in questo modo che le virtù individuali (frutto di riflessività/ identità individuale) generano virtù sociali, cioè l’identificazione con relazioni virtuose (pensiamo all’identità degli sposi nella re G. Gambino, Patologie dell’identità e ipotesi di terapia filosofica, Edizioni Jus Quia Justum, Roma 2017. 23 Ho cercato di indagare questo processo mostrando che le identità si ibridano attraverso la dinamica frattale della relazione: cf. P. Donati, Lo sguardo relazionale. Saggio sul punto cieco delle scienze sociali, Meltemi, Milano 2021, pp.149-165. 22
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lazione matrimoniale). Dire che l’identità di Ego implica sempre un Alter significa constatare che esiste una relazione fra Ego e Alter a cui essi danno un loro apporto personale, ma che assume una sua autonomia, imprevedibilità, spontaneità, al punto da diventare una sfida per Ego e Alter che pure l’hanno voluta e generata. Per esempio, dire che Ego è un uomo sposato significa indicare una relazione (con una sposa) da cui deriva quella identità, laddove tale relazione ha una sua dinamica. Una questione talora sollevata riguarda la domanda se, dal punto di vista ontologico ed epistemologico, “venga prima” l’identità oppure la relazione. L’affermazione di Martin Buber24 secondo cui «in principio è la relazione» ha una valenza teologica e metafisica che dà un primato assoluto alla relazione. Sul piano delle scienze umane e sociali, invece, l’affermazione per cui «all’inizio c’è la relazione»25 va intesa nel senso che l’agire individuale è già sempre inserito in un contesto sociale di relazioni pre-esistenti e deve essere analizzato e compreso (in quanto agire relazionale) in quel contesto, ma senza risolvere l’identità nella relazione o viceversa, perché sostanza e relazione sono co-principi della realtà. L’identità non è data interamente dalla relazione, né la relazione deriva immediatamente dall’identità: se si accetta la prima posizione si incorre nel relazionismo (relativismo), che dissolve l’identità in un indefinito rimando a relazioni di relazioni; se si assume la seconda posizione si incorre in qualche sorta di fondamentalismo, perché l’identità viene in qualche modo “reificata” e usata come “arma” per negare altre identità. In breve. La persona è costituita dalla relazione, ma non è identica alla relazione. La costituzione della persona non è esaurita dalla sua identità relazionale.26 Dunque, l’identità della persona non A. Metcalfe, A. Game, “In the Beginning is Relation”: Martin Buber’s Alternative to Binary Oppositions, «SOPHIA» 51 (2012) 351-363. Insisto nel distinguere fra Buber e la mia sociologia relazionale. In Buber, la dizione «in principio è la relazione» fa riferimento alla Bibbia (Genesi), mentre il mio «all’inizio c’è la relazione» ha un carattere fenomenologico e di ontologia sociale. 25 Donati, Teoria relazionale, 25. 26 Rudder Baker, Why Constitution is Not Identity. 24
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può fare a meno della relazione, ma non si esaurisce nella relazione. Bisogna distinguere fra il “costituire” e il “causare” l’identità: per esempio, la statua della pietà di Michelangelo è costituita del marmo di Carrara, ma non è stata causata dal marmo, bensì da Michelangelo, il quale ha dato una identità alla statua operando con/su/ attraverso le sue relazioni con il materiale marmoreo. 5. Dal pensiero irrelato e pensiero relazionale: tre semantiche della relazione-identità Il “pensiero irrelato” si riferisce a quei modi di pensare l’identità che attribuiscono le qualità agli enti esclusivamente sulla base della loro natura sostanziale senza fare riferimento al contesto relazionale (situazione, circostanze, ambiente) in cui si situano. Questo modo di pensare, che attraversa la storia della cultura occidentale, considera le relazioni sociali come “accidenti” che, per quanto reali, non modificano l’identità di un ente. All’opposto il “pensiero relazionale” è quel modo di pensare che organizza le proprie mappe cognitive e simboliche attribuendo le qualità e proprietà causali degli enti basandosi non già su una loro presupposta (o asserita a priori) identità, ma piuttosto definendo tale identità come realtà relazionale di un ente-in-un-contesto.27 Per comprendere il passaggio da un modo di pensare all’altro, è utile distinguere fra tre tipi di semantiche: monistica, dualistica, relazionale (Figura 1). Nella concezione monistica, tipica del pensiero classico antico, l’identità è intesa come sostanza, come qualcosa che non ha bisogno di mettersi in relazione con altro da sé. L’identità è fondata sul principio di autoreferenza [A = A], per cui l’identità di A è immediata, esiste senza mediazioni. Dal punto di vista storico sociale, l’identità dell’individuo coincide con quella del gruppo sociale di appartenenza (tribù, strato sociale, cultura locale) e viene vissuta in modo quasi automatico attraverso l’interiorizzazione di un habitus. Lo spazio della riflessività personale è molto ridotto e la riflessività relazionale è praticamente inesistente. Sul Donati, Teoria relazionale, 14.
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piano pratico, questa semantica non nega ovviamente l’esistenza e l’importanza delle relazioni nel definire le identità sociali, ma le considera come qualcosa di naturale e dato per scontato (per esempio le identità che provengono dalle relazioni familiari). Dal punto di vista politico, tutti i soggetti sociali (e la stessa società civile) tendono a essere identificati con l’attribuzione data loro dalla comunità o, se già formato, dallo stato. Questo modo di pensare e di vivere l’identità è tipico delle società a differenziazione segmentaria (tribù) e di quelle a differenziazione verticale, stratificata per ceti (come quella medioevale). Semantica Monistica
Semantica Dualistica
Semantica Relazionale
A=A
A = non (non-A)
A = Relazione (A, non-A)
L’identità di A è data L’identità di A è data L’identità di A è data da una semplice da una relazione di da una relazione relazione negazione di ciò che (azione reciproca) con di uguaglianza con non è A l’Altro (il non-A) che sé stesso (secondo un (è una doppia negazio- genera l’identità di A codice identitario) ne, secondo un codice come effetto emergenbinario) te (secondo un codice generativo) Identità come IDEM (Io sono Io, cioè me stesso “a prescindere” da tutti i cambiamenti e da tutti i confronti con altri)
Identità come ALTRO dal resto del mondo (Io sono “altro” – sono “differenza” – rispetto a tutto e a tutti)
Identità come IPSE (Io ritrovo me stesso dopo aver cambiato in certi aspetti contingenti o dopo un confronto con altri)28
Figura 1: Tre semantiche della costituzione relazionale dell’identità
Detto in altro modo, è l’identità del Sé che si auto-comprende quando è posto in relazione ad “altri Sé” e si confronta con essi, ovvero quando il soggetto opera la re-entry della propria identità all’interno delle reti sociali con28
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La concezione dualistica di identità, invece, è tipicamente moderna e si basa sul principio della differenza, per cui [A = non (non-A)]: ossia l’identità di A è data dalla negazione di tutto ciò che non è A. L’identità è basata sulla differenza intesa e gestita in modo dialettico o comunque con un codice binario (0/1). Per esempio, la società civile è ciò che non si identifica con lo stato, e dunque la sua identità è negazione della società politica. In questo caso, le relazioni diventano certamente più importanti e soprattutto mobili (in potenziale continuo cambiamento) rispetto a quanto avviene nel paradigma monistico. Ma l’identità di A non ha nulla da spartire con il resto del mondo, dunque la sua identità è non-relazionale come nel caso della concezione monistica. La concezione relazionale di identità si fonda invece sul principio per cui [A = R (A, non-A)], ossia l’identità di A è data da una relazione (R) fra A e non-A, laddove la relazione non è né immediata né binaria. In questo caso, l’identità è definita non per negazione dialettica, bensì per relazionamento a un’alterità. L’identità di A è la relazione che intercorre fra A e ciò che A non è. In breve, Ego ha una identità diversa da Alter, ma essi condividono una relazione che li unisce mentre rispetta e promuove le loro legittime differenze (ciò in cui consiste l’enigma della relazione). L’identità della società civile, per esempio, si definisce in relazione all’alterità dello stato e sulla base di tale relazione, la quale comporta una distanza ma non comporta per questo una negazione di tipo dialettico. La concezione relazionale include quella dualistica come caso limite particolare, nel senso che quest’ultima riguarda le identità che si costituiscono in modo conflittuale e dialettico, attraverso il rifiuto dell’Altro, mentre in una concezione relazionale l’identità si definisce attraverso il relazionamento a un’alterità. L’identità relazionale implica che Ego si definisca attraverso una distanza con sé stesso (spazio e presenza dell’altro), il che crete di cui è parte. Questa prospettiva relazionale deve essere considerata diversa dalla versione relazionista per la quale l’identità del Sé è determinata dalla rete di relazioni con altri. 31
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significa che esiste contingenza nell’unità stessa dell’identità personale, la quale viene pertanto a essere costruita in modo complesso, attraverso la sua propria complessità interna sollecitata e favorita da ciò che è altro da sé. La società dopo-moderna deve prendere atto della necessità di ridefinire l’identità tenendo conto del bisogno di relazionarsi agli altri in maniera non più funzionalistica, ma sovra-funzionale. L’Io si forma per relazione con l’Altro e attraverso l’Altro da sé (incluso il Sé soggettivato dell’Io). L’Io e l’Altro non debbono più specializzarsi funzionalmente (e quindi distinguersi per separazione dei compiti e delle identità), ma, viceversa trovano la propria identità in un certo modo di stare in relazione con l’Altro, condividendo qualcosa e distinguendosi per qualcos’altro. Nella semantica dualistica (ovvero dialettica) la distinzione è una divisione – uno slash, per cui si sta da una parte o dall’altra –; nella semantica relazionale la distinzione è una relazione che unisce mentre differenzia i termini. Sia l’identità personale, sia l’identità sociale, vuoi di una persona (soggetto agente) vuoi di una famiglia, sono relazionali. Scrive Heidegger:29 «In Sein und Zeit è con intenzione e per prudenza che si dice: il y a l’être: “si dà” l’essere. L’espressione il y a non traduce esattamente il “si dà” (es gibt) perché “ciò” (es) che qui “si dà” (gibt) è l’essere stesso. Il “si dà” (gibt) indica l’essenza dell’essere che dà, concedendola, la sua verità. Il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso, è l’essere stesso». A mio avviso, forzando un po’ la metafisica heideggeriana, è possibile dare un’interpretazione relazionale di questo pensiero e insieme vederne possibili sviluppi. Infatti, dire che «l’essere si dà», significa affermare che l’essere è di per sé “donativo”, che ha le qualità e proprietà della donalità, e in tal senso l’essere non solo è aperto alla relazione, ma è intrinsecamente relazionale. Se l’essere, come dice Heidegger, è «il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso», non si parla forse, in questa definizione, dell’essere come relazionalità? Ma qui Heidegger si M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, 287.
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ferma. L’essere è per lui ciò che semplicemente «è», come se l’essere (la sua verità) non potesse diventare «altro da ciò che è dato». Invece, se l’essere è atto (atto di essere, con l’energeia di cui parla Aristotele), e questo atto è relazione, proprio in forza di questa sua intrinseca relazionalità, l’essere non è statico (non è morfostatico), ma è dinamico e morfogenetico, ossia si sviluppa (pro-gredisce) nel tempo. Dunque, l’essere ammette la propria trasformazione, alla sola condizione di rispettare la propria intrinseca relazionalità. È alla luce di questa considerazione che, a mio avviso, possiamo interpretare la prospettiva di Heidegger in Identità e differenza secondo cui l’identità non è uguaglianza. Per la differenza sono necessari due termini, per l’uguaglianza ne basta uno soltanto, «giacché mentre nell’uguale (idem) la diversità svanisce, nello stesso (ipse) la diversità appare».30 Possiamo allora dire, che, mentre nell’idem la diversità svanisce, nell’ipse la diversità si manifesta. Il rapporto dell’umano con l’essere e la relazione dell’ente all’essere sono caratterizzati da identità e non da uguaglianza. Essi si co-appartengono perché rimangono diversi pur essendo l’identico, la cui identità consiste proprio in tale co-appartenersi. Senza l’uno quindi non si dà l’altro, anche se l’uno non è l’altro se non nella relazione stessa che li fonda. La semantica relazionale diventa particolarmente importante nell’era delle ICT, perché l’uso delle nuove tecnologie crea un inestricabile intreccio tra online e offline (onlife experience), in cui il Sé si configura come un sistema complesso informazionale che mostra le sue molteplici facce in contesti sociali multipli attraverso un loop ricorsivo. Di qui la necessità di aumentare le capacità riflessive del soggetto relazionale che deve trovare la sua permanenza (l’ubi consistam dell’identità idem) rielaborando continuamente il sé stesso (l’identità ipse) nel mare delle contingenze.
M. Heidegger, Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009, 58.
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6. La costituzione relazionale della persona umana e della famiglia nel pensiero cristiano Sulla base di quanto detto, si può comprendere in che senso e in che modo si deve parlare della costituzione relazionale della persona umana e della famiglia come “soggetti relazionali”.31 Un soggetto è relazionale se vive nelle relazioni ed è costituito dalle relazioni di cui si prende cura. La frase «noi siamo ciò che amiamo», che Margaret Archer ha ripreso da Harry Frankfurt32 ponendola alla base della identità soggettiva delle persone, deve essere ben intesa, cioè intesa sul piano fenomenologico e non ontologico: infatti, a mio parere, non significa che la nostra natura umana coincide con ciò che amiamo, ma solamente che la nostra natura umana diventa ciò che amiamo, fenomenologicamente nel tempo. La persona ha un Self relazionale, un Sé dialogico, una identità che ammette narrazione, ma non può essere ridotta a pura narrazione o ad un mero prodotto di una rete di relazioni. La famiglia è un soggetto relazionale in quanto costituita dalla relazione-del-Noi che ha una sua storia. Negli ultimi decenni, il pensiero cristiano ha esplorato queste realtà con grande profondità. Per Karol Wojtyla33 la società è la relazione che un soggetto, personale o sociale, instaura con un altro soggetto in forza di un’auto-teleologia degli stessi soggetti, quando essi assumono l’ethos della reciprocità, e non già perché siano vincolati a qualche forza esterna cogente. La società è originaria perché nasce come relazione intersoggettiva. Non è un’entità che esista al di sopra e indipendentemente dai soggetti umani, come ritengono tutte le definizioni positivistiche di società. Nella enciclica Centesimus Annus, Giovanni Paolo II arriva a definire la società umana come il tessuto delle relazioni sociali, Donati, L’enigma della relazione, 241-244. H.G. Frankfurt, The Importance of What We Care About, Cambridge University Press, Cambridge 1988, 91. 33 K. Wojtyla, Perché l’uomo. Scritti inediti di antropologia e filosofia, Mondadori, Milano 1995. 31 32
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più o meno formalizzate, che si regolano secondo il combinato disposto della sussidiarietà e della solidarietà nei rapporti sociali concepiti e praticati come realizzazione dei diritti umani nel rispetto della unicità di ciascun soggetto e della pluralità sociale che ne deriva. Joseph Ratzinger,34 commentando Gen 3,1-13, 17-19, 2324, scrive: Dobbiamo di nuovo renderci conto che nessun uomo è chiuso in sé stesso, che nessuno può vivere solo di sé e per sé. Riceviamo la nostra vita dall’esterno, dall’altro, da chi non è noi stessi eppure ci appartiene, e la riceviamo non solo al momento della nascita, ma ogni giorno. L’uomo ha il proprio sé non solo in sé stesso, bensì anche al di fuori di sé; vive in coloro che ama, in coloro di cui vive e per cui esiste. L’uomo è relazione e ha la propria vita e sé stesso solo nel modo della relazione. Da solo io non sono affatto me stesso, ma lo sono soltanto nel tu e mediante il tu. Essere veramente uomo significa stare nella relazione dell’amore, del da e del per. Invece il peccato significa turbare o distruggere la relazione. Il peccato è negazione della relazione, perché vuole fare dell’uomo Dio. Il peccato è perdita della relazione, turbamento della relazione e per questo non è a sua volta unicamente rinchiuso nel singolo io. Se turbo la relazione, questo evento – il peccato – inficia il tutto. Per questo il peccato significa sempre peccaminosità che colpisce anche l’altro, trasforma e turba il mondo. […] Data questa situazione, possiamo dire: se la struttura relazionale dell’umanità è turbata fin dall’inizio, ogni uomo entra da allora in poi in un mondo caratterizzato dal turbamento delle relazioni. [...] Ognuno di noi finisce in un intreccio in cui le relazioni sono falsate. Ognuno è perciò turbato fin dall’inizio nelle proprie relazioni, non le riceve così come esse dovrebbero essere. Il peccato si estende fino a lui ed egli ne diviene compartecipe. Questo ci dice anche che l’uomo non può redimersi da solo. Ciò che vi è di errato nella sua esistenza consiste appunto nel fatto che egli vuole soltanto sé stesso. Possiamo essere redenti, divenire cioè liberi e veri, solo se smettiamo di voler essere Dio, solo se rinunciamo all’illusione dell’autonomia e dell’autarchia. Possiamo essere redenti, cioè diveniamo noi stessi solo se accogliamo e accettiamo le giuste relazioni.
J. Ratzinger, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006, 98-100.
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Nella Caritas in Veritate35 leggiamo: La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza sé stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone (n. 53) [...]. Il tema dello sviluppo coincide con quello dell’inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell’unica comunità della famiglia umana (n. 54) [...]. La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale (n. 55).
In breve, il pensiero cristiano si caratterizza rispetto ad ogni altro pensiero, anche quello delle altre religioni, perché adotta una matrice teologica relazionale36 che le permette di coniugare identità e relazione senza separarli né confonderli. Questa matrice simbolica non ha sostituti o equivalenti funzionali. Proprio questo suo carattere le permette di rinnovare la prospettiva umanistica che, chiamata anche “umanesimo integrale”, possiamo meglio intendere come “umanesimo relazionale”. Nella lettera Humana Communitas rivolta alla Pontificia accademia per la vita il giorno 1 gennaio 2019, Papa Francesco ha ricordato, ancora una volta, dopo averne già spesso trattato nelle diverse encicliche ed esortazioni apostoliche, il ruolo centrale che la relazione ha nella comprensione della vita umana. La vita umana è forgiata e trova senso nella trama delle relazioni più significative che ciascun essere umano sperimenta nel corso della sua esistenza. Questa verità si constata a partire dai legami famigliari che sono decisivi per costruire le comunità più ampie, fino all’intera umanità, a condizione che queste relazioni abbiano certe qualità e proprietà, che sono appunto quelle dell’ethos famigliare, fatto di dono, reciprocità, generatività, fratellanza tra Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009. 36 P. Donati, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. 35
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discendenti dei progenitori. In mancanza di tali requisiti, vengono generati dei mali, anziché dei beni relazionali, che andranno a formare identità malate, fratturate, o addirittura impedite, anziché sane e meta-riflessive. 7. Il riconoscimento dell’identità è una relazione Come avviene il riconoscimento dell’identità? Avviene per relationem. Paul Ricoeur37 ha indagato l’azione di riconoscimento e ha concluso che essa consiste in tre momenti: (a) l’attribuzione cognitiva di una specificità (per esempio: questa persona parla l’inglese), (b) la validazione dell’attribuzione (è veramente un inglese e non un olandese che parla inglese), (c) la gratitudine (riconoscimento come riconoscenza, cioè sono grato a lei per esserci). Andando oltre Ricoeur, la prospettiva relazionale rivendica il carattere relazionale di queste operazioni, e afferma che tutto questo è possibile, e di fatto avviene, in un circuito di relazioni sociali che presuppongo una circolazione di doni reciproci, non ristretti solo a chi fa il riconoscimento ed a chi è riconosciuto. Un esempio pratico può chiarire questa prospettiva. La signora Lucia è una volontaria che opera in un CAV (centro di accoglienza alla vita) nell’ospedale di una grande città che è specializzato nel campo dei problemi femminili e di maternità, con un forte impegno a favore degli aborti volontari. Lucia offre alle donne in gravidanza che vorrebbero abortire la possibilità di far nascere il bambino prendendo una decisione libera e consapevole. Nell’accogliere le donne che chiedono l’aborto volontario, Lucia osserva che esse non hanno una relazione (significativa) né con sé stesse, né con il bambino che si sta sviluppando nel loro seno. Che cosa fa Lucia per aiutare la persona? Fa parlare la donna incinta, le fa raccontare tutto quello che può, in una conversazione che mira essenzialmente a creare una relazione significativa con lei. In questo dialogo, le emozioni della donna incinta diventano le emozioni di Lucia, e nello scambio dei sen Ricoeur, Parcours de la reconnaissance.
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timenti cresce l’empatia reciproca. A quel punto la loro relazione diventa il soggetto dell’aiuto. Lucia lascia agire la relazione. Lucia dice che è la relazione il soggetto della cura intesa come care, cioè come presa in carico delle sofferenze della donna incinta. Vivendo in questa relazione, la ragazza incinta che non vuole il bambino scopre la propria identità, anzi, come dice Lucia, rinasce, o addirittura “nasce”, perché non era mai nata come persona, la sua individualità non aveva relazioni significative, costitutive della sua identità. Attraverso la costruzione di nuove relazioni significative, la ragazza diventa consapevole della sua decisione, che in molti casi – quando veramente la ragazza si è costituita come soggetto autonomo – è quella di accettare il bambino come un dono. Qui si vede il potere causale della relazione nel generare l’identità della persona umana, perché la scoperta di sé stessi, di ciò che siamo e ciò che vogliamo, la chiarezza di ciò che più ci preme (ultimate concerns) viene dall’esperienza di un incontro con un Altro il quale fa scoprire te (“chi sei” come you, ossia come attore in ruolo sociale) a “te stesso” (come self, ossia come coscienza del subjectum). La relazione sociale interumana non è solo un elemento della persona o una sua manifestazione o proiezione, come dicono alcuni. La relazione con l’Altro, quando l’Altro è impegnato a creare una relazione-del-Noi (We relation) alla quale affidare la soggettività dell’incontro, illumina la totalità della singola persona umana e dà “forma” alla sua identità perché è capace di penetrare nel suo essere più profondo. In breve: la maturazione dell’identità è frutto della riflessività relazionale della persona, che non è però la riflessività individuale (la conversazione interiore di cui parla Margaret Archer), ma è la riflessività sulla relazione, con la relazione, attraverso la relazione all’Altro. La riflessività relazionale è quella del “soggetto relazionale”, che occorre comprendere in modo adeguato, se si vuole capire la connessione fra identità personale e sociale nella reciproca relazione di appartenenza. 38
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Nella vita quotidiana, tutti noi, come individui, parliamo spesso al plurale riferendoci ad un “Noi”. Diciamo, per esempio: abbiamo cenato insieme, abbiamo fatto le vacanze insieme, io e lei abbiamo scritto un libro assieme, abbiamo votato per la stessa persona, e così via. Che cos’è questo “Noi” a cui facciamo riferimento? Dicendo “Noi”, usiamo un termine che ci evita di specificare le singole identità di chi sta in quel “Noi”. In un certo senso, diamo per scontate quelle identità. Se qualcuno ci chiede a chi ci stiamo riferendo, potremo dare una lista di nomi o un numero indicativo di un gruppo, inclusi noi stessi. In tal modo, nel linguaggio ordinario, l’uso del “Noi” sta per un riferimento ad un aggregato di persone, che apparentemente desiderano, fanno o pensano la stessa cosa. Tuttavia, in modo latente (inespresso), chi parla sottintende qualcosa di più di un aggregato di persone: sottintende delle relazioni fra coloro che fanno parte del Noi. Quando i membri di una famiglia dicono di aver fatto le vacanze insieme in un certo posto, si riferiscono al fatto di avere condiviso una relazione in un contesto spazio-temporale. Non stanno dicendo che, per caso, si sono trovati individualmente lì assieme. Lo stesso vale per chi dice di aver cenato insieme, scritto un libro insieme, votato per uno stesso candidato, e così via. Dietro queste affermazioni ciò che è comune non è l’aver fatto o pensato la stessa cosa, ma avere condiviso una relazione, che è una relazione di reciproca appartenenza. Ciascuno è parte di un intero, non perché l’intero lo risolva, ma solo in quanto sta in una certa relazione con le altre parti che costituiscono l’intero (il Noi). Molti studiosi, filosofi, psicologi e scienziati sociali, ammettono che il “Noi” (We) non può essere un semplice aggregato di individui che si suppone condividano un’idea, un’azione o uno scopo. Tuttavia, quando essi cercano di dare una spiegazione di ciò che c’è dietro il “Noi”, danno risposte assai diverse, che in genere sono lontane dal concepire il Noi come una relazione. Per esempio, i filosofi analitici come John Searle, Margaret 39
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Gilbert e Raimo Tuomela hanno speso anni e anni di lavoro per cercare di rivendicare un concetto del Noi capace di generare l’azione collettiva, la cooperazione, l’impegno comune di un insieme di persone, e tale da creare dei diritti deontici, obblighi, permessi, doveri, e così via. Essi hanno lavorato in parallelo su diverse versioni di un concetto del Noi inteso come intenzionalità condivisa (shared intentionality), che è ben illustrato dal concetto di Searle del we-thinking (secondo cui il Noi si riferisce agli stessi pensieri che sono dentro due o più teste diverse). Ma questa spiegazione del Noi non è per me convincente perché il Noi – secondo questi autori – non è una relazione, ma solo la presenza degli stessi pensieri nelle menti di un gruppo di persone, cosa assai improbabile perché ciascuno interpreta le idee con una mente diversa. Anche la mia sociologia relazionale cerca di spiegare questo “Noi”, come fanno questi autori, in termini di impegno, cooperazione e azione collettiva, ma sposta l’attenzione dalla mente degli individui alle loro relazioni. Io sostengo che l’“essere-un-Noi” (We-ness) consiste nel generare e vivere in una certa relazione sociale che è ontologicamente reale ed ha proprietà e poteri emergenti propri: proprietà come la fiducia, la premura, la reciprocità fra le persone; poteri propri come quelli di generare beni e mali relazionali.38 L’essere-un-Noi (We-ness) deriva dagli orientamenti riflessivi dei soggetti verso questi beni e mali relazionali emergenti, che i soggetti stessi generano. La riflessività da essi esercitata non è solo quella interiore (la conversazione interiore di ciascun soggetto), ma è anche – ed essenzialmente – la riflessività da essi esercitata sulle loro relazioni esterne, sulle quali intervengono esercitando dei feedback relazionali. Il loro oggetto è lo stesso, ma i pensieri che i soggetti hanno su di esso possono essere abbastanza diversi P. Donati, Scoprire i beni relazionali. Per generare una nuova socialità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019: Idem, Discovering the Relational Goods: Their Nature, Genesis and Effects, «International Review of Sociology» 29 (2019) 238-259. 38
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nel modo di osservarli e interpretarli. Ciò accade in una coppia, in un gruppo di lavoro, in una squadra sportiva, in un’orchestra, in un’associazione volontaria o in un movimento sociale. In tutte queste situazioni, il Noi è l’orientamento reciproco che si istituisce fra soggetti i quali guidano le loro azioni in modo tale da produrre un bene relazionale. Il bene relazionale necessita di riflessività relazionale da parte degli attori/agenti, in quanto essi debbono tenere conto riflessivamente degli effetti della loro relazionalità. Questo “Noi relazionale” (We-relation) si allarga dalla coppia a gruppi più ampi, sia informali sia organizzati, e la sua espansione è la fonte delle organizzazioni di volontariato, della società civile e, in definitiva, del bene comune (diverso dal “bene totale”, come aggregato di interessi individuali), che sono tutti fenomeni emergenti. 8. Prospettive: l’umanesimo o è relazionale o non è La società cosiddetta postmoderna sta rapidamente trasformando sé stessa verso mete che essa stessa ignora. L’identità – qualunque identità – è messa in causa, al punto che si propone di fare a meno dello stesso concetto di identità per risolverlo nel puro dinamismo delle relazioni,39 come se le relazioni non avessero una loro struttura, con proprietà specifiche e un loro dinamismo causale. Questa tendenza pervasiva è iniziata con le cosiddette “politiche dell’identità”, secondo le quali saremmo “tutti differenti, tutti uguali” (è lo slogan della ideologia politica del multiculturalismo), che ha alimentato il relativismo culturale ed etico, ha frammentato la società, e creato più conflittualità che solidarietà. Nella loro formulazione più generale, le teorie del multiculturalismo ideologico rifiutano le distinzioni perché le concepiscono come discriminazioni, e pertanto promuovono un indifferentismo culturale che costituisce il terreno fertile su cui cresce Cfr. R. Brubaker, F. Cooper, Beyond “Identity”, «Theory and Society» 29 (2000) 1-47. 39
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il post/trans-umano. Infatti, se la persona umana non ha una identità sostanziale, ma è risolvibile senza residui nelle relazioni, allora cambiando le relazioni con la diffusione delle nuove tecnologie (ICT, intelligenza artificiale, robots, ecc.), è possibile creare un altro mondo, quello degli androidi, degli umanoidi, delle “persone elettroniche”, pensate come sostituti delle persone umane, così da raggiungere un nuovo stadio dell’evoluzione (teoria della singolarità), oltre l’identità umana. Un esempio di queste tendenze è dato da quelle “teorie del gender” che sostengono la possibilità di una definizione volubile e a piacimento, contingente, della propria identità sessuale. Che ciò sia possibile sul piano dei fatti è indubbio, dato il libero arbitrio. Ma le conseguenze sono del tutto problematiche quando il soggetto deve poi relazionarsi a sé stesso, al mondo, al contesto socio-culturale in cui vive. Più in generale nella cultura occidentale odierna si osserva una tendenza pervasiva a intendere il nuovo umanesimo come un modo di incorporare il non-umano (animali non umani, piante, tecnologie, cose materiali) nell’umano. Il neo-umanesimo consisterebbe nel valorizzare, ovvero nel “salvare”, l’umano come un “bell’errore della natura”40 che deve ibridarsi con l’ambiente per evolvere in modo sostenibile. Un altro esempio di questo modo di pensare è dato dall’actor network theory (ANT) di Bruno Latour e seguaci, in cui si fondono materialismo e pragmatismo. Ma pervade anche il pensiero di radice ebraica e poi cristiana. In un articolo su L’uomo e l’eterna sfida del rapporto con l’altro,41 Moni Ovadia inizia affermando: «Il mancato riconoscimento dell’alterità nel suo valore fondativo della relazione umana è la madre delle questioni che si frappongono all’edificazione di una società di giustizia». Su que L’espressione “nature’s beautiful glitch” è di Luciano Floridi: «We are special because we are Nature’s beautiful glitch» (L. Floridi, The Logic of Information, 98). 41 M. Ovadia, L’uomo e l’eterna sfida del rapporto con l’altro, «Avvenire», 15 settembre 2019 25. 40
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sto punto la sociologia relazionale è senz’altro d’accordo, perché osserva che i mali sociali, così come quelli personali, derivano da un mancato riconoscimento di giuste relazioni fra gli esseri umani. Tuttavia, Moni Ovadia prosegue analizzando il rapporto fra il senso dell’alterità e il senso della responsabilità, alla luce di quanto sostenuto da Emmauel Lévinas, secondo il quale «l’altro è il senso primo della relazione». Qui inizio ad avere dei dubbi. Vedo il seguente problema. Mentre l’alterità è inizialmente intesa come l’Altro umano, in seguito, per Ovadia, l’Altro diventa qualunque cosa, e il riconoscimento diventa amore per qualunque cosa. Dice il Nostro: L’amore è un sentimento / comportamento impegnativo che chiede all’ego di farsi indietro per fare spazio al tu e il tu è il simile, l’animale, la pianta, la zolla, l’acqua, l’aria, la terra, il sottosuolo e persino le viscere della terra. […] Bisogna assumere la piena responsabilità del volto altrui, bisogna farsi stranieri a sé stessi, bisogna considerare anche il più piccolo dei privilegi illegittimo.
In breve, l’Altro (umano e non-umano) viene ontologicamente assunto da Ovadia come un te stesso. Il Tu viene ad essere costituito da un Altro che può essere un qualunque oggetto dell’ambiente. Sulla base dell’equazione per cui la mia identità è quella dell’altro, io dovrei avere l’identità degli animali e piante che amo. Mi chiedo allora se e come si possa considerare come un “tu” (un soggetto come me) qualsiasi oggetto o “cosa”, e come si possa amare un oggetto fisico – animale, vegetale o minerale – così come si ama una persona umana. In realtà, l’amore, in quanto relazione, richiede l’azione reciproca fra termini capaci di agency, il che non avviene se – come fa Ovadia – la parola relazione è intesa come “rapporto” materiale e quantitativo fra due grandezze (Verhältnis). Il fatto è che il concetto di relazione come Verhältnis viene equiparato a quello di relazione come Beziehung, che invece rimanda al significato di azione reciproca (Wechselwirkung), essendo le due nozioni sostanzialmente di43
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verse. E dunque, personalmente ritengo che Ovadia, così come Lévinas, non abbia per nulla compreso la natura della relazione sociale e quindi ci porti fuori strada nell’indicarci il percorso della nostra identità. Il riconoscimento reciproco fra le persone è essenziale per generare beni relazionali (come la pace sociale, la solidarietà, la coesione sociale), e certamente sperimentare queste relazioni significa sperimentare la dignità umana. Ma le relazioni non “determinano” di per sé la dignità umana dell’Altro, come qualcuno sostiene,42 perché la dignità di ogni essere dipende anche dalla sua natura ontologica.43 In breve, bisogna ribadire che identità e relazione debbono essere coniugate assieme, ma l’una non può assorbire (fondersi con) l’altra. Alle tendenze che operano per il passaggio al post/trans-umano, si può e si deve obiettare che l’essenza dell’umano si trova nella relazione, perché dal punto di vista antropologico l’umano si origina nella relazione ed è nella relazione che la persona deve apprendere come accettare i propri limiti e nello stesso tempo desiderare di superare la propria finitezza per rispondere al bisogno di trascendenza che la caratterizza nella sua identità più profonda. Ma la relazione deve essere qualificata in tal senso. In conclusione, possiamo dire che l’identità – personale e sociale – è relazionale non solo in quanto è un riferimento simbolico (refero) e una struttura posizionale che lega soggetti (religo), ma in quanto è la realtà che emerge dalle azioni riflessive reciproche dei soggetti e dà loro una forma. Cfr. F. Scamardella – La dimensione relazionale come fondamento della dignità umana, «Rivista di filosofia del diritto» 2 (2013) 305-320 – la quale vede l’emergere dell’identità dalle interazioni e relazioni di un contesto, che lei definisce “flussi comunicativi esterni”, e afferma che «la partecipazione a questi flussi comunicativi esterni determina l’identità individuale» (ibidem 311). A me sembra che la semplice partecipazione non sia sufficiente a generare una identità, la quale richiede l’esercizio della riflessività da parte del soggetto in tale flusso. 43 A. Collier, Being and Worth, Routledge, London 1999. 42
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La relazione così intesa genera l’identità ed è rigenerata dall’identità. L’identità e la relazione si generano e rigenerano a vicenda. Solo un’analisi circostanziata del contesto e delle sue dinamiche può chiarire le fasi del processo, che in ogni caso non è puramente ricorsivo, ma invece è morfogenetico. Possiamo dire che l’identità è ciò che genera la relazione e al tempo stesso ne è generata, così come viceversa. Le persone attivano le relazioni sulla base della propria identità, ma nel tempo le relazioni cambiano e rigenerano l’identità. È possibile cambiare la relazione, e con ciò cambiare l’identità. Così come possiamo cambiare l’identità e di conseguenza cambiare le nostre relazioni. Ma occorre vedere a quali condizioni ciò sia possibile e con quali conseguenze, in termini di beni o mali relazionali che vengono prodotti. Per non cadere in tautologie o circoli viziosi, dobbiamo vedere l’identità come una “soggettività relazionale”, quella di una sostanza o natura costituita relazionalmente che opera relazionalmente. Il neo-umanesimo non può essere altro che un umanesimo relazionale. Esso ha il compito di comprendere l’identità umana passando dal pensiero irrelato, che reifica o soggettivizza l’identità, al pensiero relazionale, per il quale l’essenza dell’identità umana giace nella relazione. È la relazione all’Altro che mi dice chi io sono in actu. L’umanesimo o è relazionale, o non è. L’umano si nutre di una razionalità relazionale, altrimenti non eccede sé stesso, ma regredisce e degrada nel non-umano. Bibliografia Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009. U. Borghello, L’appartenenza primaria. Una teoria generale, Cantagalli, Siena 2017. R. Brubaker, F. Cooper, Beyond “Identity”, «Theory and Society» 29 (2000) 1-47. A. Collier, Being and Worth, Routledge, London 1999. P. Donati, Teoria relazionale della società, Franco Angeli, Milano 1991.
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Idem, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. Idem, Sociologia della riflessività, il Mulino, Bologna 2011. Idem, Sociologia della relazione, il Mulino, Bologna 2013. Idem, L’enigma della relazione, Mimesis, Milano-Udine 2015. Idem, An original relational sociology grounded in critical realism, in F. Dépelteau (ed.), Palgrave Handbook of Relational Sociology, Palgrave Macmillan, New York 2018, 431-456. Idem, Scoprire i beni relazionali. Per generare una nuova socialità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019 Idem, Discovering the Relational Goods: Their Nature, Genesis and Effects, «International Review of Sociology» 29 (2019) 238-259. A.P. Fiske, N. Haslam, Social Cognition is Thinking About Relationships, «Current Directions in Psychological Science» 5 (1996) 143148. L. Floridi, The Logic of Information. A Theory of Philosophy as Conceptual Design, Oxford University Press, Oxford 2019. H.G. Frankfurt, The Importance of What We Care About, Cambridge University Press, Cambridge 1988. G. Gambino, Patologie dell’identità e ipotesi di terapia filosofica, Edizioni Jus Quia Justum, Roma 2017. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995. Idem, Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009. A. Malo, L’appartenenza primaria, «Acta Philosophica» 28 (2019) 171173. G. Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma 2013. A. Metcalfe, A. Game, “In the Beginning is Relation”: Martin Buber’s Alternative to Binary Oppositions, «SOPHIA» 51 (2012) 351-363. S. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività, Raffaello Cortina, Milano 2002. M. Ovadia, L’uomo e l’eterna sfida del rapporto con l’altro, «Avvenire», 15 settembre 2019. A. Pizzorno, Spiegazione come reidentificazione, «Rassegna Italiana di Sociologia» 30 (1989) 161-184. J. Ratzinger, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006.
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Anche se il termine postmodernità può avere diversi significati, come mostrano i diversi saggi sul tema, penso di poter affermare che la postmodernità in un modo o nell’altro – come tentativo di negazione, superamento o decostruzione – sia sempre in rapporto inscindibile con la modernità.1 Ne deriva che per trattare l’argomento dell’identità nelle nostre società occidentali si debba necessariamente fare riferimento all’identità moderna. Sommariamente, si può affermare che – secondo la postmodernità – il concetto d’identità moderno corrisponde alla coscienza, o ancora meglio all’autocoscienza. E, siccome la coscienza riduce tutto il resto a oggetto, l’autocoscienza o coscienza di sé cancellerebbe qualsiasi differenza nella sua ricerca incessante Sebbene nasca nell’ambito dell’architettura e dell’arte come reazione al modernismo imperante d’inizio del XX secolo, il termine postmoderno si diffonde subito ad altri campi della cultura e del sapere, come la letteratura e la filosofia. La pubblicazione nel 1979 del saggio di Lyotard La condizione postmoderna può considerarsi l’introduzione della categoria socio-storica di postmodernità nel dibatito culturale (cfr. J.-F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Minuit, Paris 1979). Anche se ci sono diversi tipi di lettura dell’epoca attuale, come quello della dopomodernità di Donati (P. Donati, Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno, il Mulino, Bologna 2011), in questo saggio ci occupiamo soprattutto di ciò che è stato denominato postmodernità come decadenza, cioè del decostruttivismo, ideologia di genere, transumanesimo, ecc. Per la distinzione fra i due tipi di postmodernità: come decadenza e come resistenza, si veda J. Ballesteros, Postmodernidad: decadencia o resistencia, Tecnos S.A., Madrid 1989. 1
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Formazione all’identità in relazione: prospettiva antropologica
di una coscienza assoluta, trascendentale o come dir si voglia. Il risultato finale è la distruzione di tutto quanto distingue le persone e le culture, come appare con evidenza nei processi di globalizzazione in corso. Le differenze sono così assorbite e trasformate in uniformità: un unico credo religioso, politico ed economico. Ecco, dunque, che – sempre secondo la postmodernità – l’identità moderna implica necessariamente violenza, sopruso e, addirittura, quel totalitarismo che ha seminato e continua a seminare di cadaveri il mondo. Ne deriva che per molti nostri contemporanei si sia stabilita, in modo più o meno conscio, un’equazione fra identità e totalitarismo, per cui combattere il totalitarismo equivale a combattere l’identità e viceversa. 1. Difficoltà nel capire l’identità nella postmodernità La postmodernità, o almeno quella parte rappresentata dal post-strutturalismo, il post-umanesimo e le teorie di genere, si propone di decostruire l’identità moderna per portare alla luce le differenze, in essa nascoste, le quali a loro volta sono maschere del desiderio umano, un desiderio polimorfo su cui si baserebbe la società e la cultura.2 Di qui il tentativo di mostrare come i diversi tipi d’identità (uomo-donna, famiglia, umano-animale, naturale-artificiale) sono in realtà una pura costruzione sociale e, perciò, possono essere sostituiti da nuove categorie in grado di mescolarli o ibridarli. Certamente, attraverso tale decostruzione, si arriva alla negazione anche dello stesso concetto di categoria, come fa Judith Butler con quella del genere,3 poiché ogni categoria rappresenta in ultima istanza un’identità per quanto generica e raccogliticcia essa sia. Nel fare del desiderio il principio cardine, la postmodernità trasforma le vere differenze fra le persone, le culture e i popoli, in diversità radicali, incapaci di vere e proprie relazioni, come si osserva nel fallimentare progetto multiculturalista delle società M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, 367-368. J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New-York 1990, 7. 2 3
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occidentali, che è stato una delle principali cause della mancanza d’integrazione di generazioni di immigranti appartenenti ad altre culture e religioni. Ciò ha portato alla loro emarginazione, al loro risentimento e, infine, alla loro violenza. Il risultato finale di questo processo conduce a una società frantumata, divisa fra integralisti e cittadini fluidi, con un’identità liquida, secondo l’espressione coniata da Baumann.4 All’integralismo si oppone una tolleranza che rifiuta le identità forti (almeno dal punto di vista della ragione pratica), promuovendo al loro posto il diverso, cioè qualsiasi tipo di gruppo umano ai margini delle norme finora vigenti, sempre che esso non infranga la libertà degli altri. Così, fuggendo dal totalitarismo dell’identità moderna, si cade nella dittatura della tolleranza, il cui unico divieto è quello di vietare alcunché, simile al “proibito proibire” del maggio ’68. In tal modo, però, non solo si rifiuta l’esistenza di norme necessarie a una buona convivenza sociale, ma utili soprattutto a proteggere l’umano dalle nuove invasioni barbariche che minacciano la dignità della persona dalla nascita sino alla fine. E poiché, come spiega bene Byung-Chul Han, questi divieti sono necessari, in quanto non tutto ciò che si può fare si deve fare, quando essi non vengono accettati portano a ciò che egli ha chiamato la società della stanchezza, in cui quelli che non riescono a poter fare tutto ciò che vorrebbero sono i nuovi perdenti, gli emarginati della società dei consumi; e anche se non vengono più puniti con misure repressive esterne, sono essi stessi a punirsi per la loro debolezza con una serie di patologie psichiche: stress, stanchezza cronica, depressione e, nei casi più estremi, suicidio. L’individuo liquido della società consumistica diventa così allo stesso tempo padrone-servo, carnefice-vittima di se stesso.5 Cfr. Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006. «Così inteso, il rapporto tra Prometeo e l’aquila è una relazione con il sé, un rapporto di auto-sfruttamento. Il dolore al fegato, di suo incapace di dolore, è la stanchezza. Prometeo viene colto così, come soggetto di auto-sfruttamento, da una stanchezza senza fine. Egli è l’archetipo della società della stanchezza» (B.-C. Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Roma 2015, 5). 4 5
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Formazione all’identità in relazione: prospettiva antropologica
Di fronte a questa tensione fra identità e diversità, fra integralismo e individuo liquido, che cosa si deve fare? Aggrapparci a un’identità rigida, inamovibile, che è alla base dei nuovi nazionalismi, integralismi religiosi, sociali e politici, o annegare nel pantano delle diversità fluide, che minaccia di distruggere la libertà delle persone? Penso che una terza via sia possibile: capire l’identità in senso relazionale, ossia come la relazionalità del sé fatta di relazioni e che, proprio perciò, cresce e si sviluppa con le buone relazioni, o beni relazionali. Per giungere a quest’identità, non è necessario distruggere le differenze trasformandole in diversità, bensì riscoprirle come un dono da integrare relazionalmente. Infatti, come vedremo, solo le differenze possono dar luogo a buone relazioni e unicamente queste – ad incominciare dalla differenza uomo-donna – sono generative. 2. Elementi strutturali dell’identità umana: corpo, coscienza e alterità Prima, quindi, di esaminare in che cosa consista l’identità umana in senso relazionale, è necessario analizzare gli elementi strutturali che la costituiscono. Si tratta di una serie di elementi che, in un modo o in un altro, sono stati individuati lungo la Storia. Anzi, la scoperta di ognuno di essi ha segnato una tappa della filosofia occidentale: il corpo, quella classica; la coscienza, quella moderna; e l’alterità, quella postmoderna. Infatti, a grandi linee, l’identità umana appare inizialmente legata al corpo, per cui l’essere umano è un essere puramente naturale (sofisti), oppure ha una corporità in cui si manifesta la trascendenza di un principio non naturale, l’anima immortale (Socrate, Platone). Più tardi, con Aristotele, la tensione propria del dualismo platonico, si risolve con l’affermazione che l’uomo è un animale razionale. Certamente, di questa definizione può essere data un’interpretazione naturalistica e logica: il corpo umano, che appartiene al genere, è allora qualcosa di puramente naturale, mentre la ragione, o differenza specifica, è l’unica ad 52
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essere trascendente. Così solo la ragione distinguerebbe l’animale uomo da tutti gli altri animali; l’uomo però continuerebbe ad essere pur sempre un animale. Ma è possibile anche un’interpretazione metafisica: in quanto differenza specifica dell’uomo, la ragione determina radicalmente il genere, ossia l’animalità dell’uomo, per cui il suo corpo diventa intrinsecamente razionale. Qualcosa di simile sembra affermare Aristotele quando, nel parlare della definizione di uomo da parte da Anassagora («l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani»),6 aggiunge che «è ragionevole dire che ha le mani perché è il più sapiente. Le mani, in effetti, sono uno strumento e la natura, come un uomo sapiente, dà ogni cosa a chi può usarla».7 San Tommaso riprende questa interpretazione metafisica della definizione aristotelica. Ciò nonostante, il principio d’individuazione della persona sembra essere solo il corpo, in particolare la materia quantitate segnata. Si potrebbe certamente pensare che, poiché la quantità è il primo accidente che proviene alla materia direttamente dalla forma, in quel principio d’individuazione si trova già l’anima razionale o, meglio ancora, l’essere spirituale dell’anima razionale. E, di conseguenza, il principio ultimo sarebbe l’essere spirituale della persona. Tuttavia, questa interpretazione si oppone alla tesi tomistica, ereditata da Aristotele, dell’animazione ritardata.8 H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, DublinZürich16 1972, unveränderte Nachdruck der 6. Auflage, A 102. 7 Aristotele, Sulle parti degli animali, 687a, 7. 8 «Negli animali perfetti, che sono generati dal rapporto sessuale, la virtù attiva, stando a quanto insegna il Filosofo [De gen. animal. 2, cc. 3, 4], risiede nel seme del maschio, mentre dalla femmina è somministrata la materia del feto. Ora, in tale materia vi è subito, fin da principio, l’anima vegetativa, non in atto secondo, ma in atto primo, come l’anima sensitiva in chi dorme. Quando invece essa inizia ad attrarre l’alimento, allora agisce già attualmente. Tale materia dunque subisce una trasmutazione grazie alla virtù racchiusa nel seme del maschio, fino a che non raggiunge l’atto dell’anima sensitiva: non però nel senso che la virtù presente nel seme passi a diventare l’anima sensitiva, poiché in tal caso il generante e il generato verrebbero a essere la stessa cosa, e il processo avrebbe più carattere di nutrizione e di crescita che 6
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Del resto, il corpo non sembra sufficiente a costituire l’identità umana. Malgrado oggi sappiamo che con il corpo viene tramandato il codice genetico e con esso una serie di proprietà e predisposizioni, l’identità umana non dipende solo da ciò che si è ricevuto, ma anche dalle esperienze avute, azioni e, soprattutto, relazioni. Come vedremo in seguito, il corpo è indubbiamente sempre presente in tutto ciò che sperimentiamo o facciamo, almeno come l’ancoraggio a un mondo che condividiamo con altri. Per questo la modernità, da parte sua, ha cercato un’altra sorgente dell’identità umana: la coscienza. La storia evolutiva e anche personale del corpo è infatti insufficiente per spiegare l’identità umana, si deve tener conto della coscienza personale, che permette l’esperienza del mondo, di se stessi e degli altri. Il problema è come concepire la coscienza, specialmente quella di se stessi o autocoscienza. Se la coscienza non ha niente a che vedere con il corpo, anzi lo degrada a cosa od oggetto, allora diventa disincarnata e singolare, fuori dallo spazio e dal tempo, simile a un puro spirito. Ed è, secondo Cartesio, questa stessa purezza a rendere possibile la perfetta riflessione del cogito e, quindi, a fondare ed eseguire il primo principio della filosofia moderna: cogito ergo sum (penso, dunque esisto), che è anche un principio identitario.9 non di generazione, come osserva il Filosofo [De gen. et corr. 1, 5]. Quando però, in virtù del principio attivo del seme, si è prodotta nel generato l’anima sensitiva quanto a una sua parte principale, allora l’anima sensitiva della prole comincia ad agire in ordine al compimento del proprio corpo, mediante gli atti della nutrizione e dello sviluppo. La virtù attiva del seme poi cessa di esistere una volta che si sia dissolto il seme e sia svanito lo spirito in esso racchiuso. E in questo fatto non vi è nulla di anormale, poiché tale virtù non è un agente principale, ma strumentale, e d’altra parte la mozione dello strumento cessa quando l’effetto è già stato prodotto nell’essere» (S.Th., I, q. 118, a. 1). 9 «Mi accorsi però subito dopo che, mentre in tal modo volevo pensare che tutto fosse falso, occorreva necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualche cosa» [R. Descartes, Discours, AT VI, 32 in G. Belgioioso (a cura di), Opere 1637-1649, Bompiani, Milano 2009, 61]. I. Kant, che ammette che il je pense sia percepito come un io empirico nello spazio e nel tempo, sostiene che 54
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D’altro canto, se – come in Locke – la coscienza non può separarsi dal tempo e, quindi, dal cambiamento, la perfetta riflessività non si dà se non come memoria: la coscienza ricorda la mia identità passata fino a questo momento e perciò posso essere sicuro di essere sempre me stesso; in altre parole, sono lo stesso quando ricordo di essere lo stesso.10 Anche se Locke aggiunge la temporalità, lascia fuori la corporeità e, quindi, la spazialità. La temporalità dell’Io è concepita come una successione di istanti singoli. Perciò, Locke distingue fra man (corpo vivente che non è singolare, ma duraturo) e person (coscienza di sé nel tempo), che è singolare anche se si dà nel tempo.11 Ci possono essere, quindi, molte persone entro lo stesso corpo, perché si tratta di una coscienza disincarnata, la cui unità viene data dall’identificazione del proprio Io con se stesso. Se non c’è quest’identificazione, ci troviamo – secondo Locke – in presenza di un’altra persona. La soluzione lockiana porta con sé una circolarità: si presuppone l’identità della coscienza e, perciò, la si cerca mediante la memoria e la si trova in essa. La circolarità lockiana dipende, in ultima istanza, dal fatto che ricordare non è tanto una prova dell’identità, quanto l’azione di un’identità che si cerca. In definitiva, come vedremo, nel ricordare, il sé entra in relazione con se stesso per mezzo di un atto di memoria. Ciò significa che l’identità umana è implicitamente relazionale. E proprio perché è relazionale, l’identità può essere intesa in modo dialettico, cioè come relazione fra oggetto e soggetto, fra tale io sia puramente fenomenico e non debba, in nessun caso, essere confuso con una «cosa in sé», perché si commetterebbe un paralogismo. Secondo Troisfontanes, ciò che divide Cartesio da Kant è il concetto stesso di tempo: per Kant, l’unica temporalità che esiste è empirica, mentre per Cartesio esiste una temporalità del pensiero. [Cfr. C. Troisfontanes, La temporalité de la pensée chez Descartes, «Revue philosophique de Louvain» 87 (1989) 18]. 10 «And thus, by this consciousness, he finds himself to be the same self which did such or such an Action some Years since, by which he comes to be happy or miserable now» (J. Locke, An essay concerning human understanding, Oxford University Press, Oxford 2008, 25). 11 Ibidem, 20. 55
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essere-in-sé ed essere-per-sé. Hegel si propone di pensare dialetticamente la relazione, per giungere alla perfetta uguaglianza fra il soggetto o Spirito assoluto, inizialmente vuoto, e la Storia totale delle sue diverse oggettivazioni. Nonostante la potenza speculativa del filosofo tedesco, il suo tentativo finisce con un colossale insuccesso non solo teoretico (sé e altro anche se pensati non diventano mai oggetti), ma anche pratico, come mostrano le diverse rivoluzioni, le due guerre mondiali, l’Olocausto e la stanchezza come patologia della nostra società. Infatti, l’autocoscienza come coincidenza perfetta di soggetto e oggetto è impossibile, perché per poter giungere all’identità intesa come un in-sé che diventa per-se, si dovrebbe macinare tutto ciò che la coscienza non è in-sé, per cui alla fine del processo dialettico del se stesso e dell’altro non rimarrebbe che un po’ di crusca. Quindi, neppure la sola coscienza può spiegare l’identità umana. Oltre al corpo e alla coscienza, c’è bisogno di rispettare l’alterità non oggettiva del sé e dell’altro, cioè il loro carattere relazionale. E, come abbiamo visto, questo è stato inizialmente il tentativo della postmodernità. Ne deriva l’odio postmoderno nei confronti del soggetto hegeliano e, in genere, di qualsiasi tipo d’identità. La postmodernità non vorrebbe commettere lo stesso errore della modernità: prendere l’autocoscienza cristallina come unica realtà, perché ciò che apparentemente è perfetta chiarezza, nasconde un abisso di tenebre e sofferenze: i totalitarismi, i campi di concentramento e di sterminio.12 L’identità viene così sostituita dall’alterità: il rispetto dell’altro, accettando la sua diversità, ossia evitando qualsiasi giudizio che lo categorizzi e riduca a oggetto di coscienza. Da questo punto di vista si capisce bene perché la postmodernità conceda molta importanza ai A tal proposito è condivisibile la critica di Lyotard all’hegelianismo quando parla del carattere totalitario della ragione nell’idealismo tedesco (si veda Lyotard, La condition postmoderne, 156). Certamente, come sostiene Koslowski, nel muovere questa critica, Lyotard non tiene conto delle opere ultime di Hegel, come le Lezioni di Filosofia della Religione [cfr. P. Koslowski, Die Baustellen der Postmoderne - Wider den Vollendungszwang der Moderne, in P. Koslowski (a cura di), Moderne oder Postmoderne?, VCH, Weinheim 1986, 6]. 12
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sentimenti e ai desideri, in quanto in essi, più che nella ragione oggettivante, nella volontà di potenza, nelle azioni e nelle relazioni, si manifesterebbero le nostre autentiche differenze. Ecco, quindi, il rifiuto della coscienza razionale che consentirebbe d’identificare e riconoscere l’altro come se stessi: un altro sesso, un’altra razza, un’altra classe sociale, un’altra cultura. Perché, come sostiene Derrida, si tratta di categorie, cioè di istituzioni basate su segni arbitrari e convenzionali, che manifestano una dialettica del potere.13 Certamente, in questo tentativo c’è un paradosso: la diversità per essere accettata non deve apparire come diversità, bensì come uguaglianza; l’uguaglianza, però, esige la comparazione e questa, a sua volta, l’identità: senz’identità non c’è uguaglianza. Tuttavia, questo paradosso è richiesto socialmente e politicamente: infatti, se si parla di diverso come diverso, si finisce per segregarlo ed emarginarlo. Quando il diverso viene invece socialmente considerato uguale, con gli stessi diritti degli altri, si diventa tolleranti. Solo questo può spiegare, ad esempio, i tentativi dei collettivi LGBTQI di cancellare qualsiasi diverso trattamento per quanto riguarda istituzioni sociali come il matrimonio, la famiglia, l’adozione dei bambini, ecc. Questi collettivi sanno bene che finché non si arriverà alla totale uguaglianza di diritti, la loro diversità sarà sempre considerata diversa non uguale e, quindi, sarà causa di nuove discriminazioni. Ma, come abbiamo visto, se l’alterità finisce per essere semplice uguaglianza, scompare come tale e, di conseguenza, scompare anche la stessa possibilità di avere vere relazioni. Perché, «Se “scrittura” significa iscrizione ed innanzitutto istituzione durevole di un segno, la scrittura in generale ricopre tutto il campo dei segni linguistici. […] L’idea stessa di istituzione – e quindi di arbitrarietà del segno – è impensabile prima della possibilità della scrittura e al di fuori del suo orizzonte. Cioè molto semplicemente fuori dall’orizzonte stesso, fuori dal mondo come spazio di iscrizione, apertura all’emissione e alla distribuzione spaziale dei segni, al gioco regolato delle loro differenze, sia pure “foniche”» (J. Derrida, De la grammatologie, trad. it. G. Dalmasso, S. Facioni (a cura di), Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1967, 50). 13
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come sostiene Girard, quest’uguaglianza nei diritti tradisce la verità, in quanto si arriva al punto di rendere equivalente ogni tipo di comportamento sessuale, tranne forse quello della pedofilia. E, così facendo, si «abbandona, in fondo, l’idea stessa di verità, poiché in essa si vede solo una fonte dei conflitti. Ma se noi mettiamo la “verità dei persecutori” e la “verità della vittima” allo stesso livello, presto non ci saranno più né verità né differenze per nessuno».14 Ciò si osserva, ad esempio, nel fatto che il collettivo LGBTQI è passato dall’essere vittima della società in ragione delle sue diversità, ad essere il carnefice di istituzioni sociali, quali il matrimonio e la famiglia, che tenta d’imitare, svuotandole di contenuto. 3. Il sé come identità relazionale Il corpo, la coscienza e l’alterità (un mondo reale, condiviso da altri) costituiscono, dunque, i principali elementi dell’identità umana. Certamente, per affermare ciò, bisogna, da una parte, capire queste tre elementi in modo sistemico e, dall’altra, concepire l’identità relazionalmente.15 Infatti, come accade in tutto ciò che è vivo, gli elementi dell’identità non sono parti di una realtà concepita come un tutto, bensì di una realtà che è presente in essi in modo differente e che, perciò, consente loro di relazionarsi. Ad esempio, nell’animale, l’organismo fisico, la coscienza sensibile e l’ambiente sono relazionati internamente, i primi due perché hanno uno stesso principio o anima che li fa essere, il terzo o ambiente perché è proprio questo stesso principio a rendere possibile l’inserimento dell’animale. Tuttavia, anche se i cambiamenti di uno di questi elementi modificano gli altri, la realtà che permette questi elementi di essere e relazionarsi non cambia. Detto con parole più tecniche: l’essere dell’animale si esaurisce nelle relazioni fra gli elementi, senza poter, a sua volta, giungere R. Girard, La route antique des hommes pervers, trad. it. C. Giardino (a cura di), L’antica via degli empi, Adelphi, Milano 1994, 136. 15 Ho tentato di usare questo doppio approccio nel saggio Essere persona. Un’antropologia dell’identità, Armando, Roma 2013. 14
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alla relazione con se stesso, se non in modo puramente sensibile, come accade quando sente piacere o dolore. Perciò, non si può parlare strettamente d’identità dell’animale, perché il suo essere si esaurisce nelle sue relazioni a livello della sua natura specifica; ne deriva che, nell’animale, i cambiamenti si danno solo a livello specifico, che perciò è sempre riproducibile, ma non a livello del singolo che in quanto tale non è riproducibile, ossia non è ripetibile. Infatti, un animale cambia i suoi accidenti spazio-temporali senza perciò appartenere in senso forte a un luogo o un altro o a un’epoca o un’altra, né condividere un mondo, né avere una biografia. Nel caso della persona umana, la relazione degli elementi è dovuta alla presenza in essi di una realtà molto particolare: la stessa persona è in questi elementi in modo differente e, perciò, è capace di entrare sia in relazione con loro, sia soprattutto in relazione con se stessa o, ancor meglio, è capace di relazionarsi con se stessa relazionandosi con questi elementi e, nel relazionarsi con se stessa, può cambiare il proprio sé, il che è necessario per diventare se stessa. Perciò, le differenze della persona nei confronti dell’animale vanno al di là di quelle indicate dalla filosofia classica (intelletto e volontà) e anche di quelle indicate dalla fenomenologia (libertà, mondo e Storia), giacché sono di natura sistemica e identitaria, ossia sono relazionali in senso stretto. Infatti, ogni elemento della struttura dell’umano (corpo, coscienza e alterità) si relaziona in modo differente da quello dell’animale, perché il sé personale relazionandosi con questi elementi, è in grado di relazionarsi con se stesso. Ecco perché, ciò che negli animali sono semplicemente accidenti spazio-temporali, costituiscono nelle persone aspetti essenziali della propria identità, come l’essere figlio, appartenere a una comunità, patire e agire intrecciando relazioni con il mondo e con gli altri. Proprio per questo essi fanno parte di ogni racconto biografico. Nella biografia e anche nell’autobiografia manca però molto spesso la narrazione di questa autorelazione implicita, che come ogni altra relazio59
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ne umana è sempre trascendente, perché in essa è presente il terzo. Ma nella relazione di sé con se stesso il terzo non solo è esterno, un altro, ma anche interno, l’Altro, che è il fondamento stesso di questa relazione. Non è questa la sede per esaminare da vicino la metafisica soggiacente a questa visione relazionale dell’identità umana. Per il momento basta indicare che autori di epoche e di tradizioni filosofiche differenti si sono riferite ad essa quando hanno proposto una costituzione metafisica particolare per la persona umana. Così, san Tommaso parla della persona umana come orizzonte e confine fra le creature spirituali e corporali, perché dotata di un’anima spirituale; infatti, anche se come le altre anime o principi vitali è forma del corpo, l’anima umana possiede per sé un essere spirituale che comunica al corpo, per cui può realizzare operazioni che trascendono la materia ed è capace di sopravvivere alla morte del corpo.16 Anche Kierkegaard parla della specificità della persona umana, in quanto essere spirituale. Ma per lui la spiritualità non ha a che vedere con l’anima o principio vitale, bensì con la riflessività dell’Io.17 In quanto spirito, l’Io si relaziona con se stesso mettendosi in relazione con l’alterità; tuttavia, l’Io non è relazione, ma piuttosto è lo stesso relazionarsi. Un tale rapporto che si rapporta a se stesso, un io, o deve essere posto da sé o deve essere stato posto da un altro. Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto «Perciò si riscontra che il supremo nel genere dei corpi, ossia il corpo umano dalla complessione equilibrata, viene a toccare l’infimo nel genere delle sostanze intellettive, cioè l’anima umana, come si può scoprire dal modo di conoscere intellettualmente. Ecco perché si dice che l’anima intellettiva è come “orizzonte” e “confine” tra gli esseri corporei e incorporei, in quanto è una sostanza incorporea, che però è forma del corpo» (T. D’Aquino, Summa Contra Gentiles., III, c. 112). 17 Anche se in san Tommaso appare la riflessività completa come manifestazione dello spirito, non considera che essa costituisca la sua essenza. Secondo lui, lo spirito in tutte le sue forme è costituito da intelligenza e volontà. Forse l’origine della concezione riflessiva dello spirito si trova nella filosofia moderna, in particolare in Cartesio e Hegel. 16
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Antonio Malo è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero.18
Infine, Leonardo Polo, un autore spagnolo scomparso qualche anno fa, in una sintesi personale di filosofia classica e moderna, propone di applicare alla persona la distinzione tomista atto di essere-essenza, in modo da poter distinguere l’essere personale, che sarebbe trascendentale, dall’essere dell’Universo, che sarebbe immanente.19 Infatti, mentre nell’Universo esisterebbe solo la natura e non ci sarebbe alcuna novità (tutto può essere ricondotto alle quattro cause aristoteliche), nella persona ci sarebbe, oltre alla natura, l’essenza, la determinazione che l’uomo fa della natura mediante l’agire e gli abiti. Perciò, mentre l’universo sarebbe votato necessariamente ad un unico fine, ogni persona avrebbe la possibilità di destinarsi al proprio fine, mediante il dono di sé.20 Penso che in tutti questi autori ci siano idee che ci permettono di capire alcuni aspetti dell’identità umana come l’anima spirituale, la riflessività del sé o il disporre della propria natura mediante gli abiti. Manca però una comprensione dell’identità umana in termini di relazione con se stessi mediante le relazioni con il proprio corpo, la propria psiche e l’alterità. Come vedremo, S. Kierkegaard, Begrebet Angest. En simpel psychologisk-paapegende Overveielse i Retning af det dogmatiske Problem om Arvesynden, trad. it C. Fabro (a cura di), Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1970, 215-216. 19 L. Polo, Antropología trascendental I: la persona humana, Eunsa, Pamplona 1999, 121. 20 Così, mentre il donare corrisponderebbe all’essere personale, il dono farebbe parte dell’essenza personale. La distinzione fra essere ed essenza non è, però, rigida e, perciò, è possibile integrare il dono nel donare trascendentale. «In Dio la struttura donale [dare, accettare, donare] è personale. Nell’uomo i suoi primi due membri sono personali: dare e accettare. D’altra parte, l’amore umano [il dono] non è personale ma essenziale. Ripeto questa osservazione perché aiuta a capire la vera distinzione nell’antropologia, che non è rigida, perché in tal caso l’amore non sarebbe integrato nella struttura donale» (ibidem, II, nt. 150, 173). 18
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la comprensione dell’identità umana in senso relazionale è fondamentale da tre punti di vista: 1) dal dinamismo dell’identità, poiché l’identità si modifica nella relazione con questi elementi, identificandosi e differenziandosi; 2) dalla relazione intrinseca fra la propria identità e l’identità degli altri; 3) dall’integrazione dell’identità, ossia dalla relazione del sé con se stesso. Anche se nella realtà è impossibile separare il dinamismo dell’identità dalla sua relazionalità in atto e dalla sua integrazione o disintegrazione, per motivi di studio analizzerò questi tre aspetti separatamente. Poiché essi servono per distinguere due tipi di identità o sé: uno germinale, costituito dal dinamismo che porta a una relazione spontanea del sé con se stesso, e un altro integrato o disintegrato, a seconda della buona o cattiva relazione con gli altri e, attraverso di loro, con se stesso. Questa distinzione potrebbe sembrare uguale a quella che Ricoeur stabilisce fra idem (il medesimo), ossia la sostanza che non cambia, e ipse (il se stesso), ossia il sé che si mantiene nel cambiamento.21 Ricoeur adotta i due termini idem e ipse per riferirsi a due concetti d’identità. «Che cosa intendo con identità “idem”? È l’identità di qualcosa che resta mentre le apparenze o, come si dice, gli “accidenti”, cambiano. Il suo modello filosofico è stato, fin dall’antichità, la sostanza. La sostanza è il substrato, il suppositum, il supporto, identico nel senso che è immutabile, che non cambia, che è sottratto al tempo. Questa identità sostanziale può essere anche realizzata sotto forma di un’identità strutturale. Per esempio il nostro codice genetico resta lo stesso, dalla nascita alla morte, come una specie di firma biologica. Abbiamo qui un esempio di “identità idem”: identità di struttura, di funzione, di risultato. L’identità “ipse” invece non implica l’immutabilità e anzi, al contrario, si pone nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri, ecc. Faccio subito l’esempio più notevole dell’identità “ipse”; l’identità di me stesso quando mantengo una promessa. La promessa è sotto questo riguardo l’esempio più notevole, perché non abbiamo a che fare, nel caso del soggetto che promette, con una identità sostanziale; al contrario, mantengo la mia promessa nonostante i miei cambiamenti di umore. Questa è un’identità che potremmo chiamare di mantenimento, più che di sussistenza. Io sono e mi conservo lo stesso, nonostante non sia più identico, nonostante sia cambiato nel tempo» (P. Ricoeur, Descrivere, raccontare, prescrivere, Parigi, 20 dicembre 1991, http://www.emsf.rai.it/ interviste/interviste.asp?d=308 (Data della consultazione: 14 dicembre 2015). 21
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In realtà non è così, poiché il sé di cui parlo, anche quando non è attualizzato dalle relazioni (idem), possiede sempre un dinamismo relazionale, in virtù del quale relazionandosi con l’altro si relaziona sempre con se stesso; quindi, anche se il sé non è relazione, ha sempre internamente una disposizione alla relazione con l’alterità e, attraverso di essa, con se stesso. Prima, a livello solo di dinamismo spontaneo (idem), più tardi a livello anche riflessivo (ipse). Non è, dunque, possibile distinguere nell’identità umana un idem, che sarebbe immutabile, da un ipse che si modificherebbe attraverso le esperienze storiche e biografiche, poiché il sé spontaneo ha un dinamismo che lo porta alle relazioni in atto con l’alterità e con se stesso, e in questo modo si modifica l’origine stessa di questo dinamismo. Perciò, penso che nella distinzione fatta da Ricoeur fra idem e ipse ci sia ancora un forte debito nei confronti di Kant, che distingue un Io empirico, mutevole, da un Io trascendentale, immutabile, anche se nell’idem del filosofo francese c’è un cambio delle categorie: l’immutabilità dell’idem è necessaria non perché è trascendentale, bensì perché dipende da ciò che si è ricevuto con la nascita. Insomma, la necessità dell’idem di Ricoeur è un fatto: ciò che si è ricevuto non si può non aver ricevuto. Cerchiamo di vedere adesso come si passa da questo dinamismo relazionale del sé alla sua attualizzazione. 4. Il dinamismo relazionale: il sé in relazione con il corpo, la coscienza e l’alterità Il sé tende sempre alla relazione con se stesso, ma ciò solo è possibile relazionandosi con ciò che lo costituisce: corpo, coscienza, alterità. a) Il sé in relazione al corpo La prima relazione del sé è con il proprio corpo, che porta sempre la traccia incancellabile dell’alterità. Perciò, nel corpo umano si dà un paradosso, giacché esso è mio perché è sempre di un altro. Che cosa significa tutto ciò? Il mio corpo è di un altro 63
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riguardo al corpo dei mei genitori, giacché, a differenza degli animali, che hanno sempre il corpo di un individuo della specie, il mio corpo, benché appartenga alla specie homo sapiens, è personale, cioè è mio. Perciò posso affermare che, proprio perché è di un altro, il corpo è mio. Questo paradosso spiega anche che il corpo abbia riguardo al sé una serie di rapporti molto complessi. Non solo il sé nella sua relazione con il proprio corpo sperimenta di essere corpo, di averlo, in quanto ne dispone come dispone delle sue facoltà, (la memoria, l’immaginazione, il pensiero, la volizione) o anche degli strumenti, ma addirittura di stare nel corpo, in quanto il corpo esprime il sé simbolicamente, facendo riferimento a un oltre, a una trascendenza, come si osserva nei sentimenti, nel pianto, nel riso, nell’unione coniugale e anche nella morte. Insomma, il sé è corpo, ha corpo e sta nel corpo. D’altro canto, nel parlare dell’esperienza del sé scopriamo che questa triplice relazione è mediata dalla coscienza. Infatti, il corpo fa riferimento al sé sia direttamente in quanto vivo, sia indirettamente, attraverso la coscienza, in quanto senziente e spiritualizzato. Ciò permette che il corpo sia vissuto, mosso volontariamente, capito, immaginato (non sempre in modo adeguato, come quando immaginiamo di essere più grossi o magri del reale), simbolizzato e adoperato nell’agire. Ma la relazione del sé con il corpo è anche mediata dall’alterità, in quanto attraverso di essa il corpo di un altro è generato, curato, vestito, nutrito, interpretato nei suoi bisogni ed emozioni, accudito e, soprattutto, amato. b) Il sé in relazione alla coscienza Il sé ha anche con la coscienza una relazione spontanea, in quanto sperimenta l’esistenza della coscienza, ossia è conscio, e sperimenta anche la sua esistenza, poiché, da una parte, si conosce come soggetto attivo o passivo mediante la coscienza (è conscio di sé) e, dall’altra, si riflette in essa, in quanto conosce di conoscersi. Tutto ciò può portare a pensare non solo di avere co64
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scienza o di rispecchiarsi e riflettersi nella coscienza, ma anche di essere coscienza, cioè d’identificarsi con essa completamente, come se il sé fosse pura coscienza. Così, come abbiamo visto, si può arrivare a pensare che il sé non è altro che coscienza o, ancora meglio, il sé è pura coscienza di sé. Forse ciò è dovuto al fatto che il sé tende sempre alla relazione con se stesso ed è proprio nella coscienza dove questa caratteristica del sé si manifesta più chiaramente. Da questo punto di vista, è nella relazione del sé con la coscienza, ancora di più che con il corpo, dove si scopre il dinamismo originale del sé alla relazione con se stesso. Così, la riflessività originaria, propria dell’affettività appare in questo modo non solo come un tipo di coscienza, ma come la presenza immediata di sé dal punto di vista della coscienza;22 ad esempio, la paura, ossia il sentir-si in una situazione pericolosa implica la presenza di sé a se stesso, sebbene essa sia normalmente mediata da un oggetto. D’altro canto, il sé si relaziona con la coscienza mediante gli altri e le loro coscienze in una pluralità di modi: identificazione e differenziazione, re-identificazione, riconoscimento, appropriazione, pentimento, perdono, promessa. Questi modi sono sempre coscienza di sé a partire dal corpo e da un mondo condiviso da altri. Insomma, quando parliamo della relazione del sé con la coscienza, si deve tener conto della relazione del sé con l’alterità (il mondo e gli altri), che è sempre presente in ciò che si sente, si desidera, si pensa, si ama. c) Il sé in relazione all’altro Dall’altro lato, la riflessività del sé è legata all’alterità sia attraverso il corpo (altri corpi, specialmente quelli personali) sia attraverso la coscienza (il mondo e le altre coscienze). Infatti, il sé entra in rapporto con se stesso relazionandosi con gli altri e con il mondo condiviso. Anche qui – come si vedrà – si dà un pa A quanto mi è dato di sapere, il filosofo spagnolo Millán-Puelles è stato il primo a coniare e teorizzare il concetto di coscienza originaria riflessa (A. Millán Puelles, La estructura de la subjetividad, Rialp, Madrid 1967, 272). 22
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radosso, perché l’attualizzazione della relazione con sé è possibile solo attraverso l’altro. Detto altrimenti, il sé per diventare se stesso ha bisogno della relazione con altri sé. Tutto ciò ci fa capire che l’identità, oltre a dipendere in primo luogo dal dinamismo che porta alle relazioni, dipende soprattutto dalla relazione con gli altri e con le loro differenze. L’identità del sé non è, quindi, quella di essere lo stesso, rimanendo sempre uguale senza alcun tipo di cambiamento. Questa è una falsa visione dell’identità, che neppure può essere applicata agli altri essere viventi, se non quando li si pensa in modo astratto (neppure la specie ha tale identità, come mostra l’evoluzione). Si tratta, piuttosto, di un’identità in cambiamento e, nel caso della persona, di un sé che si modifica mediante le sue relazioni, specialmente con se stesso, perché dotato di essere spirituale. Quindi, la relazione con il corpo, la coscienza, e l’alterità – con i loro cambiamenti –, lungi dall’essere un ostacolo all’identità umana, costituisce la sua stessa condizione di possibilità. Senza cambiamento (corporeo, psichico e spirituale) non ci sarebbe relazionalità con il sé e senza questa relazionalità non ci sarebbe se stesso. Così, il tempo, che ci cambia fisicamente, psichicamente e relazionalmente, permette al sé di autorelazionarsi, e di diventare se stesso. Il sé non è, quindi, la sostanza classica astratta dai suoi accidenti, in particolare dalla relazione, né il soggetto moderno o sostanzializzazione della coscienza, ma è lo spirito che, nel relazionarsi al corpo, alla psiche e all’alterità, si relaziona con se stesso, esprimendosi e comunicandosi nella maniera di relazionarsi con loro. Tuttavia, il cambiamento può trasformarsi in un ostacolo all’identità, quando è vissuto dal sé in modo da impedire la relazione con se stessi e con gli altri (come accade con i cambiamenti che sono solo subiti dal sé, ma non vissuti personalmente, accettati, rifiutati, elaborati, ecc.) o quando la relazione con se stessi è inappropriata, tale cioè da non permettere di diventare se stessi, come nell’ipocrisia, nell’inautenticità, nella disintegrazione del sé e, soprattutto, nella disperazione.
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Si può, quindi, affermare che il se stesso dipende dalle relazioni che il sé ha con il corpo, la coscienza e l’alterità. E ciò equivale a sostenere che l’identità umana è in fieri in queste relazioni: non solo perché ci sono cambiamenti fisici, psichici e sociali che devono essere integrati dal sé e nel sé, ma anche perché l’identità dipende dalle relazioni che il sé e l’altro costruiscono facendo uso delle loro rispettive libertà. Tutte queste relazioni sono necessarie perché il sé si autorelazioni attualmente, diventando se stesso. Quindi, l’identità umana è un sé che è in relazione con se stesso come se fosse un altro. Certamente, a differenza del soi-même comme un autre di Ricoeur, quest’altro di cui parlo non è una parte del sé, ma è lo stesso sé che diviene.23 Come è possibile affermare ciò senza cadere in contraddizione? Come si vedrà, pensando il se stesso non come un’identità già raggiunta, ma come identità da raggiungere. 5. Sé come altro e altro come sé: beni e mali relazionali Abbiamo già visto che l’alterità non è solo strutturale (mondo e altri) né solo costitutiva della relazionalità del sé (se stesso come altro), ma soprattutto della stessa relazionalità delle sue relazioni. Perciò, bisogna adesso esaminare la relazione con l’alterità più affine al sé, che nel contempo è più altra, la relazione cioè con l’altro sé. Come accade nella relazione del sé con il corpo e con la coscienza, nella relazione con l’altro il sé si relaziona anche con se stesso. Tuttavia, come si vedrà, la relazione con l’altro ha un ruolo ancora più importante nel sé, poiché da essa dipendono i beni e i mali relazionali. E ciò è dovuto, soprattutto, al fatto che proprio nella relazione con l’altro il sé ha la sua origine e il suo destino. Allo scopo di individuare questi beni e mali relazionali, bisogna esaminare i tipi di relazione che intercorrono fra il sé e l’altro. Il punto di partenza di ogni relazione è quello che in un’altra Cfr. P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Editions du Seuil, Paris 1990.
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sede ho chiamato asimmetria originaria,24 in virtù di cui l’altro rispetta, riconosce e si dona al sé prima che questi lo possa riconoscere. Questa prima relazione fa nascere anche l’obbligo che il sé ha nei confronti dell’altro, poiché l’altro è sempre un sé che per essere se stesso ha bisogno di riconoscimento e, perciò, è chiamato anche a riconoscere, a riconoscersi riconoscendo. Qui scopriamo un aspetto del sé che fino ad ora era stato solo accennato: la sua riflessività, che è già implicita nella relazionalità del sé. In virtù di questa riflessività relazionale, il sé si appropria del rispetto, del riconoscimento e della stima dell’altro e, nel farli propri – ossia nel rispettarsi, riconoscersi e stimarsi –, li fa diventare anche elementi centrali della sua relazione con gli altri sé. Così, quando il sé si riconosce sta riconoscendo anche il sé degli altri. In un certo senso, si può affermare che in ognuna di queste relazioni il sé s’identifica con l’altro, e identificandosi con l’altro si identifica con se stesso. Su questa relazione originaria asimmetrica si dovrebbero costruire tutte le altre relazioni fra il sé e l’altro. Ed ecco perché, ognuna di queste relazioni dovrebbe dare luogo ai beni relazionali: fiducia, compassione, servizio, amicizia. Ciò nonostante, non sempre accade così. Anzi, spesso, invece di beni scaturiscono dei mali. Per quale motivo succede questo? Perché le relazioni perdono l’asimmetria originaria. Vediamolo in dettaglio. Dal punto di vista della relazione con l’altro, i principali beni relazionali sono, oltre al rispetto e la cura dell’altro e di sé, i tre seguenti: l’identificazione (e differenziazione), il riconoscimento e l’appropriazione. Qui, identificazione ha un significato diverso a quello finora adoperato, poiché non si tratta del fatto che il sé si relazioni con se stesso mediante la relazione con il corpo e la coscienza, bensì che il sé diventi se stesso o meno mediante la relazione con un altro. Senza dubbio, questo è, come sostiene Donati, un enigma, l’enigma appunto della relazione.25 Infatti, A. Malo, Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, Edusc, Roma 2016, 130-134. A proposito della relazionalità della coscienza, Donati spiega: «come ogni realtà anche la coscienza ha una sostanza relazionale. È una realtà in-relazio24
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identificarsi con l’altro significa che nella misura in cui il sé diviene un altro, il sé diventa se stesso secundum quid, a seconda cioè dell’altro che diviene (eroe o villano). Ma come si può diventare un altro senza smettere di essere se stessi? Ciò è possibile mediante l’imitazione di ciò che possiamo imitare dell’altro, ossia del suo desiderio. Ed è proprio in questo punto – l’imitazione del desiderio – che i beni relazionali possono trasformarsi in mali. Infatti, secondo Girard, l’imitazione del desiderio di un altro è uno degli elementi costitutivi della coscienza umana, la quale tende sempre alla compiutezza del sé come se stesso che (si) riconosce e ama in quanto amato e riconosciuto, ossia tende alla felicità. Perciò, di fronte alla coscienza animale che media tra i suoi istinti e l’ambiente, quella umana è mediatrice non solo fra le tendenze e il mondo, ma anche fra le persone: tra sé e l’altro. La persona, quindi, che, oltre ai bisogni da soddisfare, ha desiderio di pienezza, crede di scoprire nell’altro la perfezione che le manca. Ma siccome, a differenza dei bisogni, il desiderio non ha inizialmente oggetti, il sé che desidera tende non verso un determinato oggetto, bensì verso il desiderio di un altro che così si trasforma in modello. Ciò appare chiaramente nella pubblicità: il prodotto non è desiderato per le sue caratteristiche oggettive, comuni o similari a tutti gli altri prodotti, ma per le sue caratteristiche aggiunte, come la perfezione sportiva, estetica, culturale o sociale dei modelli che lo usano. Acquisire quel prodotto ci rende in qualche modo partecipi dell’identità del modello: della sua forza, bellezza, conoscenza, classe, e, soprattutto, del suo essere compiuto, ossia della sua apparente felicità. Il desiderio del desiderio dell’altro può dare, però, luogo all’invidia, cioè alla simmetria; ciò accade soprattutto quando il modello o mediatore
ne. Ma ciò non significa che la relazione “crei” la coscienza, ma solo che le dà una forma storica, la configura in rapporto al contesto culturale e lungo il suo corso di vita» (P. Donati, L’Enigma della relazione, Mimesis, Milano 2015, 39). 69
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è prossimo al sé (Girard parla allora di mediazione interna)26 e tutti e due vorrebbero avere per sé l’oggetto desiderato. E dall’invidia si può passare all’ira e alla violenza, che non conosce pacificazione, poiché il modello dà luogo a un contraddittorio doppio legame con il sé: lo incita a desiderare l’oggetto e, nello stesso tempo, glielo impedisce, poiché lo vuole solo per sé. L’imitazione potrebbe, così, spiegare alcune mode culturali e sociali attuali, come la teoria di genere, il transumanesimo o la realtà virtuale. Infatti, il desiderio di superare la natura umana, la sessualità o la realtà come la conosciamo oggi, nascerebbe da questo desiderio infinito, che perciò considera infinito il modello o mediatore (i modelli di realtà, di umano, di genere che si presenta) o, almeno, mai finito o compiuto. La ripetizione dello stesso desiderio con piccole varianti o la ricerca di un oltre sempre irraggiungibile sarebbero il motore di queste trasformazioni. Ma, poiché si tratta sempre di qualcosa d’incompiuto, alla fine rimane solo la delusione e la nostalgia dell’Infinito. Tuttavia, l’identificazione, oltre a questi sentimenti ambivalenti di amore/odio fra imitatore e modello, può produrre dei beni relazionali, come accade spesso con l’imitazione delle figure parentali, amicali, pedagogiche, religiose, ecc. Il sé, infatti, che si trova sempre in un contesto relazionale – famiglia, gruppo di amici, comunità civile e religiosa –, imita i diversi modelli dei gruppi cui appartiene, identificandosi con loro. Quando in questa imitazione si mantiene l’asimmetria originaria, il sé non si trasforma in un rivale del padre/madre, amico/amica, docente/ discepolo, governante/suddito, perché mantiene la sua differenza e, in questo modo, può diventare se stesso: figlio/figlia, marito/ moglie, padre/madre, docente/discepolo, governante/suddito.27 R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 2002, 49. Quando si perde l’asimmetria si produce l’indifferenziazione che conduce alla violenza mimetica, come accade nell’Edipo Re di Sofocle. L’indifferenziazione precede il parricidio e l’incesto, in quanto essi sono solo la conseguenza del rifiuto di Edipo come figlio. Edipo è la vittima di una relazione familiare malata, in cui il figlio, lungi dall’essere apprezzato come dono, è considerato un pericolo per la relazione di coppia. 26
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L’identificazione del sé con l’altro produce allora dei beni relazionali, come l’appartenenza e la riflessività relazionale che, a loro volta, danno luogo ad altri beni. L’appartenenza, infatti, è origine di una serie di beni relazionali, come il rispetto, la cura e la dedizione. E attraverso di essi si sviluppa l’identità. Infatti, poiché la relazione fra sé e l’altro appare dotata di valore per il sé, il sé si responsabilizza di queste relazioni (filiale, paterna/materna, sponsale, amicale), che diventano così oggetto delle sue premure. Queste relazioni influiscono profondamente sul sé, non solo perché sono oggetto delle sue premure e della sua riflessività relazionale, ma soprattutto perché attraverso di esse il sé diventa più importante ai propri occhi.28 Quindi, il bene relazionale – a differenza dell’atto buono – non dipende mai solo dal sé o dall’altro, ma dalla relazione di asimmetria reciproca riguardo all’altro. Tutto ciò è particolarmente evidente nell’identità sessuata o – come l’ho chiamata in un’altra sede – condizione sessuata.29 Infatti, l’identità del sé come uomo o donna corrisponde al suo modo di esistere nel mondo, ossia alla sua appartenenza all’umano. Essa, però, non è solo data con la generazione ma richiede anche l’appropriazione, cosa che è possibile mediante l’imitazione di modelli adeguati incominciando da quello materno e paterno, da quello di figlio e figlia, di marito e moglie. L’identificazione adeguata porta con sé sia la relazione asimmetrica con il modello sia la differenziazione dall’altra con Come Grøn spiega molto bene, «la mia identità è importante per me. Ma la mia identità è di per sé una questione di preoccupazione nel senso che dipende da ciò che è prezioso per me o di ciò di cui sono preoccupato. Decidiamo ciò che conta per noi, ma siamo anche influenzati, o anche definiti, da ciò che conta per noi. Quindi, c’è una differenza fondamentale tra affermare che la nostra identità è ciò che conta per noi e dire che la nostra identità dipende da ciò che conta per noi. In quest’ultimo caso, l’identità è di per sé una questione di ciò che conta per noi» (A. Grøn, Self and identity, in D. Zahavi, T. Grünbaum, J. Parnas (eds.), The Structure and Development of Self-Consciousness. Interdisciplinary perspectives, John Benjamins Publishing Company, Amsterdam/Philadelphia 2004, 146). 29 Cfr. A. Malo, Uomo o donna. Una differenza che conta, Vita & Pensiero, Milano 2017. 28
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dizione, sia i beni relazionali, come il matrimonio e la famiglia, sia infine la riflessività relazionale, che porta il sé a far diventare queste relazioni oggetto delle sue premure e, così facendo, la sua stessa condizione sessuata diventa importante. Filiazione, paternità/maternità, fraternità, amicizia, cameratismo, cittadinanza, ecc. sono, dunque, relazioni importanti per l’identità del sé, poiché consentono di relazionarsi con se stessi come figlio, padre/madre, fratello/sorella, amico/amica, collega, cittadino e, così facendo, di diventare tali. Certo, non tutte queste relazioni si trovano allo stesso livello: alcune di loro, come la filiazione costituiscono l’origine dell’identità personale; altre, come la paternità/maternità, sono basilari per lo sviluppo e la maturità psichica e spirituale del sé; altre, infine, come la cittadinanza o il cameratismo, sono decisive per i processi di socializzazione, e altre ancora, come l’amicizia, per la personalizzazione. Ciò che importa, però, non è solo la relazione, ma soprattutto la sua qualità, perché da essa deriva l’influsso positivo o negativo per diventare se stesso. La qualità della relazione dipende anche dalla sua stessa struttura antropologica, costituita da dipendenza-autopossesso-donazione. Anche se alcune delle relazioni precedenti sottolineano più o meno uno di questi elementi (almeno in determinati periodi): ad esempio, la filiazione del bambino sottolinea la dipendenza; la paternità/maternità, invece, l’autopossesso e la donazione. Per giungere a relazioni mature, capaci di produrre beni relazionali, c’è bisogno dell’equilibrio fra questi tre aspetti: ad esempio, una buona paternità/maternità consente al figlio di essere in grado di autopossedersi e donarsi agli altri, incominciando con i propri genitori. Perciò, quando la relazione fa del sé un soggetto solo dipendente, solo indipendente o solo donante, la relazionalità non è matura e sarà causa, perciò, di mali relazionali. D’altro canto, poiché corrisponde all’identità relazionale del sé, questa struttura può riguardare sia le relazioni del sé con il corpo, la coscienza e alterità, sia la relazione di sé con gli altri. Per quanto riguarda le relazioni del sé con il corpo, il sé dipende 72
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dal corpo, ossia è corpo, è indipendente, ovvero lo possiede, e può donarsi attraverso il corpo. Per quanto riguarda la coscienza, il sé dipende dalla sua coscienza per l’identificazione e il riconoscimento, possiede la coscienza in quanto la usa per relazionarsi con essa e con se stesso, e si dona in quanto si appropria di sé relazionandosi con se stesso con sincerità. Per quanto riguarda la relazione con gli altri sé, la dipendenza da altri è al servizio del proprio autopossesso e questo, a sua volta, al servizio della donazione e questa, infine, al servizio della dipendenza dagli altri, cioè di coloro che, poiché sono dipendenti, hanno bisogno del sé. Nonostante si possa applicare la struttura relazionale alle relazioni strutturali del sé con il corpo e la coscienza o a quelle fra sé e altro, c’è una differenza fondamentale, in quanto l’altro – come il sé – non può essere usato né posseduto a differenza del corpo; inoltre, l’altro, a differenza anche del sé, può essere fine della propria donazione, giacché nessuno può dare se stesso a se stesso, neppure quando cerca di farlo, come nei matrimoni fasulli di uno/una con se stesso. Insomma, l’identità personale non deriva solo dalla crescita fisica, dalla formazione intellettuale, dalla cultura o dalle esperienze avute, ma soprattutto dalle buone relazioni, perché l’identità del sé – come abbiamo visto – equivale sempre a identificarsi con un altro; perciò, l’innamorato, ad esempio, s’identifica con l’amata, come amato da essa; e, attraverso l’amore dell’amata, impara ad amarsi bene amandola. In altre parole, impariamo dagli altri identificandoci con loro, i quali a loro volta s’identificano con noi. Inoltre, nell’identificazione del sé con l’altro, che è anche in relazione con se stesso, c’è uno scambio di identificazione, riconoscimento e appropriazione. Perciò, gli atteggiamenti che abbiamo nei confronti di noi stessi sono riflessi sugli altri e quelli degli altri si riflettono su noi stessi. Ciò spiega il fenomeno dell’autostima come riflesso della stima che gli altri hanno di noi e viceversa: la stima che noi abbiamo degli altri come riflesso della propria stima. Quindi, l’identificazione non porta necessariamente alla mimesi violenta di cui parla Girard, ma soprattutto 73
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a poter imparare dagli altri, dal loro rispetto, riconoscimento e amore. In breve, l’identità dell’altro, come anche quella del proprio sé, non è questione solo di conoscenza, bensì di riconoscimento, cioè di identificare l’altro come sé identificandoci con lui, permettendogli così d’identificarsi con noi, come un altro.30 Quindi, non solo la nostra corporeità dipende dalle relazioni con l’altro ma anche la coscienza del proprio sé. Ne deriva, che l’altro è sia immanente sia trascendente al sé. L’altro si trova al di là del proprio corpo e della propria coscienza relazionandosi però con essi e per mezzo di loro con il sé come un altro. 6. L’integrazione o disintegrazione del sé nelle relazioni Arriviamo così al nucleo dell’identità umana: un sé che può e, perciò, deve essere se stesso. C’è, quindi, un aspetto normativo nell’identità umana: si tratta del dovere di essere se stessi. Questo dovere presenta due facce che si completano a vicenda: da una parte, obbliga il sé a identificarsi, riconoscersi e appropriarsi per diventare se stesso; dall’altra, lo lascia libero di farlo o meno. Detto in altre parole, il se stesso è solo una possibilità, anche se necessaria perché il sé si perfezioni, poiché il sé deve relazionarsi con se stesso, ossia sentirsi responsabile, prendersi cura di se stesso. Ecco, dunque, che l’identificazione e il riconoscimento del sé non consiste nel ri-conoscersi o ri-oggettivarsi (il se stesso non è lo specchio dove si riflette il sé), bensì nel sentirsi coinvolto in tutte le sue relazioni, soprattutto in quelle con gli altri che più influiscono sulla propria identità.31 Tuttavia, anche se il sé può «L’identità dell’altro è una questione non solo di cognizione, ma di riconoscimento, il che significa non solo di ri-identificare l’altro come lo stesso (autoidentico), ma di riconoscere l’altro come un altro se stesso (autoidentico significherebbe qui che l’altro si identifica in relazione agli altri, incluso me stesso)» (Grøn, Self and identity, 139). 31 «Ma se uno deve diventare se stesso, allora il diventare se stessi implica il fatto di relazionarsi a ciò che si è già, nel modo di riconoscere: prendere in considerazione, assumersi la responsabilità, essere responsabili. E questo presuppone che si abbia già se stessi come un problema. Nel relazionarsi con 30
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identificarsi e riconoscersi in modo coinvolgente e responsabile, ciò non significa ancora appropriarsi del proprio sé. Infatti, il sé non è solo ciò che si è e viene riconosciuto in quanto tale, ma richiede anche un processo di appropriazione. In questo senso, le teorie di genere, anche le più estreme, come quella queer, anche se non sono poi coerenti con la loro scoperta, mettono in rilievo un aspetto importante dell’identità umana: il sé non è pura identificazione e riconoscimento di ciò che si è, ma anche appropriazione progressiva di sé. Quando non si dà quest’appropriazione, allora ci può essere un dominio tirannico di sé su se stesso, che porta ad autocontrollarsi, autonegarsi, autoschiavizzarsi, autodistruggersi.32 Infatti, diversamente dagli animali, l’uomo e la donna per diventare se stessi devono riconoscere, identificarsi e appropriarsi della propria condizione sessuata. Ciò non significa, però, che l’identificazione, riconoscimento e appropriazione siano arbitrarie, una pura costruzione sociale o la performazione di determinate azioni e pratiche con cui si elabora volta per volta la propria sessualità. Poiché l’identità, anche quando riguarda il corpo e la coscienza, è costituita dall’autorelazione, l’appropriazione di sé implica un doppio movimento: verso il passato, riconoscendo, accettando o rifiutando le differenti identificazioni, e verso il futuro, scoprendo possibilità e forgiando progetti. L’appropriazione di sé spiega perché si può parlare sia di possibilità sia di dovere; concretamente, del dovere di prendersi cura di sé come realtà che ci interessa, impegna e, a volte, preoccupa, perché se stessi, si è già in relazione con se stessi. Questo è sé come auto-relazione» (ibidem, 132). 32 «Che ci rapportiamo a noi stessi come le stesse persone, non è qualcosa che ci capita di essere. Nella situazione in cui ci chiediamo sulla nostra identità è presupposto che siamo le stesse persone. Noi siamo già dei sé quando troviamo che noi stessi siamo le stesse persone. Se, al contrario, il sé è trasformato in un oggetto di percezione, può essere anche oggetto di autocontrollo e di auto-rifacimento. In questo, ancora una volta, si presuppone un sé previo: un sé che prende sé come oggetto di percezione, controllo e rielaborazione» (ibidem, 137). 75
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ne siamo responsabili.33 Quando non si distingue fra possibilità e dovere si cade in uno di questi paradossi: le possibilità sono concepite in opposizione al dovere e, quindi, sono neutralizzate antropologicamente ed eticamente nella loro stessa radice, come nelle teorie di gender (ogni gender è ugualmente appropriato perché sarebbe una possibilità del sé), oppure vengono considerate come l’unico dovere esistente, come nel transumanesimo, in cui ciò che si può fare si deve fare per evitare un regresso all’infinito; infatti, poiché ogni possibilità ci schiude l’infinita trasformazione dell’umano e del mondo, non realizzarla equivarrebbe a regredire infinitamente. D’altra parte, questo dovere e queste possibilità non dipendono solo dalla relazione originaria del sé con se stesso, ma soprattutto da quella che proviene dalle sue relazioni con il corpo, la coscienza e l’alterità. E, viceversa, il se stesso non è relazione vuota, ma esiste nelle relazioni con cui si relaziona. La relazione del sé con il proprio corpo, la coscienza e l’alterità è, perciò, nel contempo necessaria e libera. Da una parte, la corporeità è in qualche misura a disposizione del sé (il sé ha corpo); dall’altra, la corporeità è la condizione di possibilità del sé, della stessa relazione cioè del sé con se stesso. Questa relazionalità spiega che nello stesso tempo in cui il sé manifesta e attualizza il suo potere sul corpo, dipenda dalla sua corporeità e, di conseguenza, dalla sua coscienza e dall’alterità per poter farlo. Infatti, anche se è vero che la corporeità umana richiede sempre l’uso della libertà, inizialmente non è quella del sé, ma quella dell’altro: genitori, parenti, educatori, ecc. D’altra parte, i cambiamenti nel corpo, nella coscienza, nell’alterità e nelle relazioni del sé, implicano che l’identità personale oltre ad essere dinamica, esiga l’accettazione da parte del Perciò l’identità non può ridursi a un solo aspetto: corpo, coscienza, relazione con l’altro. L’identità è previa a tutti questi aspetti e anche alle relazioni e alla stessa questione sull’identità, perché è qualcosa di previo, che si trova alla radice dello stesso relazionarsi. In parole di Grøn: «ciò che complica l’approccio è il fatto che il problema dell’identità è già parte dell’essere una persona o un sé. È un problema per uno stesso, è un problema tra noi stessi, ed è un problema su noi stessi. L’identità di un sé è autoidentità» (ibidem, 146). 33
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sé di questi cambiamenti, ossia richieda la relazione del sé con se stesso. Perciò i cambiamenti propri del corpo umano, oltre ad essere naturali, sono culturali, come mostrano a volte in modo degenere il transumanesimo o il transessualismo. Ciò, però, di cui questi movimenti culturali non tengono conto è il fatto che tanto il cambiamento naturale come quello culturale non dipendono solo dall’evoluzione dell’umano, ma soprattutto dal carattere relazionale dell’identità umana. La considerazione del proprio corpo come qualcosa di imperfetto o non voluto, che può e deve essere cambiato o migliorato dipende, in ultima analisi, dalla relazione del sé con se stesso. Quindi tra corpo e sé non esiste opposizione, neppure quando si tenta di trascenderlo mediante l’ibridazione con le macchine e gli animali o lo si cambia imitando il corpo dell’altro sesso. E poiché il corpo è sempre di qualcuno (in relazione originaria con un sé, che si relaziona con se stesso), non potrà mai perdere la sua relazionalità. Qualcosa di simile può affermarsi dell’appropriazione della coscienza: la presenza relazionale del sé in ogni fenomeno di coscienza permette di accettare la coscienza come coscienza di sé. Certamente, è possibile rifiutare l’identificazione e l’appropriazione di quella coscienza come mia; ciò però porta con sé una serie di patologie psichiche, come la schizofrenia o la psicosi. Insomma, parlare di dovere implica parlare non solo di necessità, ma anche di possibilità e, poiché le possibilità riguardano la relazione del sé con se stesso, significa anche parlare di possibilità positive o negative che dipendono dal dovere di essere se stessi. Se le possibilità positive sono l’autenticità, il pentimento, il perdono, la fiducia e la promessa, le possibilità negative sono l’ipocrisia, la cristallizzazione della relazione nel male (impenitenza e vendetta), il tradimento e la disperazione. In linee generali si può affermare che la disintegrazione del sé dipende dalla mancanza di appropriazione delle azioni che vogliamo realizzare o che abbiamo già realizzato o, ancor meglio, dal rifiuto più o meno conscio di essere noi stessi il soggetto di quegli atti e relazioni, ma anche dal 77
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non mantenere la fiducia in noi stessi e negli altri arrivando a rifiutare la stessa possibilità di essere se stessi. La dimensione normativa dell’identità si riferisce, quindi, non solo al sé che deve essere e ancora non è, ma anche al sé che non dovrebbe esserci e forse c’è. Se il sé è un dover essere, cioè se fra il sé attuale e quello che si deve essere c’è un divario, allora non solo la possibilità è necessaria, ma anche lo stesso cambiamento. Non si tratta, però, di un cambiamento qualsiasi, bensì di uno che è intimamente in relazione con la nostra identità: quel se stesso che si deve essere. Perciò, la differenza fondamentale fra i cambiamenti non dipende tanto dal tipo di cambiamento, quanto dal modo in cui in essi il sé si relaziona con se stesso tramite loro; in altre parole, ciò che conta per la propria identità è la relazione fra il cambiamento e il sé che cambia. Qui si scoprono, a mio parere, i due errori più comuni nell’affrontare la questione dell’identità: la concezione dell’identità integralista, come cioè qualcosa d’immutabile, e quella costruttivista, poiché ognuna è la negazione dialettica dell’altra. Come stiamo vedendo, l’identità umana non è immutabile né un puro costrutto sociale, culturale o affettivo, ma un’identità che è capace di cambiare mantenendosi la stessa, perché nel cambiamento il sé può relazionarsi con se stesso. Bisogna, però, sottolineare l’aggettivo capace, per capire come il successo o l’insuccesso di arrivare ad essere se stessi non dipenda dal cambiamento né sia mai dato una volta per tutte. È possibile, perciò, che nonostante i cambiamenti il sé non diventi se stesso: non sia in grado di identificarsi, riconoscersi e appropriarsi e, quindi, si allontani da se stesso. Ci sono, quindi, modi di gestire i cambiamenti che ci fanno crescere come sé e altri che ci portano alla perdita del sé, fino ad arrivare a ciò che Kierkegaard chiama disperazione.34 Comunque, «Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita: l’assenza di ogni speranza significa qui che non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte. Quando il maggior 34
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nei differenti modi di gestire i cambiamenti si manifesta sempre la riflessività del sé. Per quanto riguarda il tipo di cambiamento, anche se è possibile distinguere quelli fisici, come la crescita, psichici, come l’identificazione e differenziazione dai modelli, e quelli più propriamente relazionali, come la produzione di beni o mali relazionali, in realtà, poiché tutti quanti si riferiscono a un sé che si relaziona con se stesso mediante il cambiamento, fanno riferimento a qualcosa di comune: il limite del sé e, in ultima istanza, la sua finitudine. La crisi ha perciò un ruolo di primo ordine nel diventare se stessi, perché implica la possibilità di oltrepassare i relativi limiti in una crescita del sé senza fine. Da questo punto di vista, le crisi sono una manifestazione spiccata del limite e del modo di affrontarlo. Certamente esse sono diverse a seconda dei limiti del sé che sono coinvolti. In quelle legate alla crescita o invecchiamento fisico, basta l’accettazione di quello che sta accadendo in quanto si tratta di processi necessari, che hanno limiti fissi. Qualcosa di diverso succede con i cambiamenti psichici, a volte legati anche a cambiamenti fisici, ambientali ed esistenziali, in essi c’è la possibilità sia di progresso sia di regressione e, quindi, i limiti sono più flessibili. Ma soprattutto le differenze più grandi si trovano nei cambiamenti più propriamente relazionali, come il pentimento, il perdono, la fiducia e la promessa, in cui la trascendenza del limite è completa. La crisi sembra così avere un significato importante per la relazione del sé con se stesso attraverso il limite. pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire. In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, sperimentare il morire; e sperimentare questo tormento per un solo momento vuol dire sperimentarlo in eterno» (S. Kierkegaard, La malattia mortale, 222). 79
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Bisogna, però, chiedersi quale tipo di significato ultimo ha la crisi dal punto di vista dell’identità. Ci sono due possibili risposte. Quella che la vede come il riequilibrio costante e necessario dell’identità. In questo senso, non ci sarebbe una crescita del sé verso se stesso, ma una continua ristrutturazione del sé senza scopo e senza termine. Penso che questo sia il modello della postmodernità, secondo ciò che Baumann denomina un’identità liquida. Oppure il significato della crisi è quello di permettere che ci sia una nuova tappa nello sviluppo del sé, ossia una maggiore integrazione riguardo alla tappa precedente. A differenza della crescita fisica e dei processi psichici che possono darsi senza la relazione del sé con se stesso, l’integrazione richiede sempre questa relazione: il suo identificarsi, riconoscersi, appropriarsi e donarsi. D’altro canto, nell’identificazione del sé, che comporta sia il riconoscimento sia l’appropriazione, può darsi una doppia riflessione, da una parte, sulla propria responsabilità nei confronti di sé, dall’altra, sull’immagine che il sé ha di se stesso. Infatti, anche se da una parte l’identificazione conduce all’appropriazione delle azioni realizzate, senza le quali il sé non potrebbe essere se stesso, poiché fuggirebbe da sé separandosi da quelle azioni come se esse non esistessero o fossero di un altro; dall’altra, conduce il sé a giudicarsi solo come il loro agente. Ma, nel far ciò, c’è il rischio di incasellare il proprio sé in modo negativo (bugiardo, ladro, ecc.) o positivo (virtuoso, generoso), impedendogli così di diventare se stesso o producendo in sé l’illusione di esserlo già diventato. E, poiché il sé è sempre in relazione con l’altro, il giudizio di condanna di se stessi – non delle azioni cattive – implica anche quello degli altri. Ciò appare con molta chiarezza, come ho spiegato in un’altra sede, nel fenomeno della colpa, e ancora di più in quello della disperazione, in cui il colpevole cristallizza l’immagine di sé, in modo tale che non si concepisce se non come colpevole e non vede l’altro se non come vittima incapace di perdonare. Ecco perché, il perdono di sé, che dipende sempre da un terzo, è così 80
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importante per vincere la tendenza al giudizio definitivo e alla disperazione.35 Qualcosa di simile accade con la promessa. Anche qui c’è identificazione di sé con se stesso lungo il tempo, riconoscimento di sé come soggetto della promessa e appropriazione di sé come promettente o responsabile della promessa. D’altro canto, il soggetto della promessa è qualcuno che ancora non esiste pienamente, poiché solo attraverso la realizzazione di quanto si è promesso può diventare reale. Di qui il rischio di ogni promessa: il se stesso che è dovuto al sé e agli altri poiché, ancora non c’è, può non darsi mai. Mantenere la promessa è, quindi, rimanere lo stesso non come idem (un sé che non cambia), ma come ipse (un sé che si modifica mediante la sua relazione con quanto si è promesso, servendosi di questa relazione per autorelazionarsi veramente, diventando se stesso). Insomma, l’integrazione richiede oltre ad un’adeguata identificazione, riconoscimento e appropriazione del sé, mettere in pratica l’atteggiamento fondamentale della relazione sia con se stesso sia con gli altri: quello della fiducia, perché il sé e l’altro sono sempre dotati di assoluta dignità. 7. Conclusione Penso che ogni periodo della Storia della Filosofia abbia messo in luce un aspetto importante dell’identità umana: corpo, coscienza e alterità. Tuttavia, l’identità umana non va cercata né solo nel corpo, nella coscienza o nell’alterità come neppure nella somma di questi elementi, bensì nella relazione fra queste tre dimensioni che permettono la autorelazione del sé. Così, il proprio corpo fa riferimento alla coscienza e all’alterità personali: sia perché il proprio corpo è sempre di un altro e perciò non può essere posseduto come un oggetto, né come un diritto da parte da un altro (non può essere spiegato come corpo dei genitori, anche se geneticamente dipende da loro) bensì conosciuto e rispettato Su questo punto mi permetto di rimandare il lettore al mio saggio Antropologia del perdono, Edusc, Roma 2018, 213-219. 35
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Formazione all’identità in relazione: prospettiva antropologica
come dono, sia perché fa riferimento ad un’altra persona che lo accetta, rispetta e ama, specialmente ad una di un’altra condizione sessuata (il corpo è per la persona e la persona per il dono di sé mediante il corpo). La coscienza, dal canto suo, fa riferimento sia al corpo sia alle alterità personali; infatti, poiché – grazie al corpo – ha un’origine, una storia e un futuro ed è in un mondo condiviso, il sé può arrivare all’autocoscienza, alla conoscenza e all’amore di sé e dell’altro. Perciò, il sé ha una struttura antropologica essenziale: dipendenza, autopossesso e donazione, che si riferisce sia alla sua relazione con il corpo, con la coscienza e, soprattutto, con sé e l’altro. Nella relazione con il corpo si manifesta la dipendenza e finitezza del sé (è corpo ed è nel corpo), ma anche il suo autopossesso (ha corpo) e la sua possibilità di donazione (ci diamo agli altri attraverso il corpo, specialmente ad un’altra persona di un’altra condizione sessuata). Nella relazione con la coscienza il sé, a sua volta, si mostra dipendente da altre coscienze che lo accettano, lo rispettano e lo amano, permettendogli così di accettarsi, rispettarsi e amarsi. Infine, nelle relazioni con gli altri, si mostra come la dipendenza del sé è al servizio dell’autopossesso e questo, a sua volta, al servizio del dono di sé agli altri, specialmente di quelli che sono più bisognosi. Insomma, l’identità umana non è qualcosa di dato, né di costruito, né di realizzato una volta per tutte, ma un divenire se stessi, che conosce momenti di crisi, di crescita e anche di decrescita. Tutto ciò spiega che l’identità umana è personale, ossia relazionale. La relazionalità del sé, oltre a consentirci di comprendere la sua struttura complessa, rivela la sua trascendenza riguardo al tempo: il sé non diventa mai se stesso perché sempre può essere più di quanto già è. Perciò, il divenire del sé non è un processo in senso dialettico, bensì una crescita vitale senza fine, in quanto il fine, nonostante riguardi il sé come un se stesso, oltrepassa il suo divenire. Ne deriva la necessità di distinguere nel sé il suo essere dal suo divenire. In altre parole, il sé è sempre più di quello che è nelle sue relazioni con il corpo, la coscienza 82
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e l’alterità, ma anche con se stesso, perché tutte queste relazioni dipendono dalla sua relazionalità essenziale, la quale è fondata da un Sé, che lo destina a Sé. Bibliografia Aristotele, Sulle parti degli animali, 687a, 7. J. Ballesteros, Postmodernidad: decadencia o resistencia, Tecnos S.A., Madrid 1989. Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006. J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New-York 1990. T. D’Aquino, Summa Contra Gentiles, III, c. 112. R. Descartes, Discours, in G. Belgioioso (a cura di), Opere 1637-1649, Bompiani, Milano 2009. H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Dublin-Zürich16 1972. P. Donati, Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno, il Mulino, Bologna 2011. Idem, L’Enigma della relazione, Mimesis, Milano 2015. J. Derrida, De la grammatologie, trad. it. G. Dalmasso, S. Facioni (a cura di), Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1967. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967. R. Girard, La route antique des hommes pervers, trad. it. C. Giardino (a cura di), L’antica via degli empi, Adelphi, Milano 1994. Idem, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 2002, 49. A. Grøn, Self and identity, in D. Zahavi, T. Grünbaum, J. Parnas (eds.), The Structure and Development of Self-Consciousness. Interdisciplinary perspectives, John Benjamins Publishing Company, Amsterdam/Philadelphia 2004, 123-156. B.-C. Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Roma 2015. S. Kierkegaard, Begrebet Angest. En simpel psychologisk-paapegende Overveielse i Retning af det dogmatiske Problem om Arvesynden, trad. it C. Fabro (a cura di), Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1970. P. Koslowski, Die Baustellen der Postmoderne - Wider den Vollendungszwang der Moderne, in P. Koslowski (a cura di), Moderne oder Postmoderne?, VCH, Weinheim 1986. 83
Formazione all’identità in relazione: prospettiva antropologica
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«Ma il valore del dono dipende da colui al quale viene offerto»1. (A. de Saint-Exupéry)
1. Introduzione La frase in esergo al presente testo è tratta da Cittadella, testo di Antoine de Saint-Exupéry meno noto rispetto a Il Piccolo Principe o a Volo di Notte, ma in un certo senso più fondamentale per l’autore, il quale non arrivò mai a pubblicarlo perché portava sempre il manoscritto con sé continuando a lavorarlo lungo tutta la sua vita. Contiene una sorta di libro della sapienza berbero, saggezza ruvida del deserto, profondamente spirituale e, in un certo senso, metafisica. La frase citata lo rivela: il dono non si esaurisce in sé, ma il suo essere è nella relazione. Qual è l’identità di un dono allora? Esso è un oggetto, una cosa, oppure rinvia oltre la sostanza donata al soggetto donante e al soggetto che riceve il dono stesso? Secondo l’autore una sostanza può cambiare radicalmente venendo donata a una persona piuttosto che ad un’altra, cioè essa dipende ontologicamente dalla relazione che la costituisce come dono. Oltre alla cosa bisogna, dunque, considerare proprio tale relazione. A. de Saint-Exupéry, Cittadella, Borla, Roma 2013, 46.
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Questa prospettiva può risultare utile nel rivolgere l’attenzione all’identità e alla formazione all’identità stessa dalla prospettiva relazionale. L’approccio teologico necessariamente deve muoversi su un piano metafisico e non meramente di linguaggio. Il punto è cosa è l’uomo e cosa è Dio e, ancor più, cosa è la relazione tra di loro. La domanda è la stessa della metafisica. Ma la rivelazione cristiana ha portato alla scoperta che le relazioni stesse hanno una densità ontologica, per cui l’identità non può più esaurirsi a livello sostanziale, ma richiede la considerazione delle relazioni che stanno tra le e nelle sostanze. E questa rivelazione consiste proprio in un dono assoluto, inimmaginabile. La proposta sarà, così, articolata in tre passi: dalla posizione del problema a partire dall’etimologia del termine identità e dalla sua connessione metafisica con la sostanza (i), si passerà a mostrare come la Bibbia obblighi il lettore a cambiare prospettiva, suscitando un pensiero per il quale la relazione abita l’immanenza di quell’unica sostanza che è la Trinità, come si vedrà attraverso l’esempio del pensiero di Gregorio di Nissa, con le conseguenze che questo ha per l’identità dell’uomo in quanto immagine di Dio, come si mostrerà attraverso il riferimento ad Agostino (ii), per concludere con delle considerazioni pastorali sulla formazione in generale e la direzione spirituale a livello ecclesiale in particolare, ambito radicalmente costituito e definito da quel dono ontologico che è la grazia (iii). 2. Problematica etimologico-filosofica Il termine italiano identità deriva dal latino idem, calco del greco ταὐτότης, con l’ambiguità intrinseca legata all’essere lo stesso rispetto a sé o rispetto ad un altro. Quindi già a livello etimologico si presenta implicitamente la domanda sulla possibilità che l’identità si fondi sull’unità o sulla molteplicità. Di per sé il tema è al cuore della metafisica stessa, in quanto la domanda fondamentale che le ha dato origine è la ricerca di che cosa fonda ciò che vediamo, quello che esiste. Il pun86
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to di partenza di tale viaggio, che è una vera e propria “navigazione”, fu la natura, con l’individuazione della causa prima del reale in un elemento cosmico come l’acqua o il fuoco,2 ma la ricerca successiva riconobbe la necessità di andare oltre τὰ φυσικά per rinvenire il primo principio al livello delle realtà intellegibili, quindi nell’essere stesso. La questione fondamentale discussa da Platone ed Aristotele è, così, ancora legata alla diatriba tra Parmenide ed Eraclito: l’essere è uno o molteplice? Il primo aveva risposto identificando la molteplicità con il non essere, mentre il secondo parla dell’essere come continuo divenire. Appare evidente come tali questioni possano venire tradotte in termini di identità: cosa è un ente, infatti, rinvia al suo fondamento, che ne costituisce l’identità stessa. Se ha ragione Parmenide, l’identità consiste nella staticità di un essere che non può conoscere mutamento e quindi permane nella propria unicità, mentre, se ha ragione Eraclito, l’identità è nella legge del mutamento, cioè nel logos al di sotto dell’apparenza, quindi di fatti nella molteplicità. L’ambiguità di ταὐτότης può essere, così, riconosciuta al cuore della domanda metafisica. Platone, infatti, entrerà in questa discussione evidenziando come Parmenide riduca il molteplice a puro non essere, cioè a ciò che è contrario all’essere stesso, mentre si dà anche il non essere inteso come molteplice.3 Non essere l’Essere con la maiuscola non significa non essere, perché ciò che è molteplice per la partecipazione all’Essere, pur non identificandosi per la sua unicità, è qualcosa: è essere senza essere l’Essere stesso. Tale è il messaggio del Sofista, dialogo che evidenzia immediatamente il valore della questione non solo perché discute l’identità della figura che dà ad esso titolo, ma anche per la connessione del Si pensi al famoso testo di Platone dove descrive il proprio pensiero come seconda navigazione dopo il primo tentativo dei filosofi naturalisti: Platone, Fedone, 85.cd. Pare estremamente rilevante come in questo stesso passo la ricerca sia aperta alla possibilità che una rivelazione divina (ἐπὶ λόγου θείου τινός) possa guidare il cammino in modo più sicuro. 3 Cfr. J.A. Palmer, Plato’s Recepion of Parmenides, Clarendon, Oxford 1999. 2
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contenuto con l’educazione e, quindi, con la formazione, perché lo scopo dell’autore è far emergere la differenza tra il sofista e il filosofo. Nel dialogo lo straniero di Elea compirà una specie di parricidio nei confronti di Parmenide perché, con la sua arte sofistica, mostrerà come essente ciò che non è, mentre il maestro di Elea affermava che il non essere non si può né dire né pensare.4 In termini contemporanei diremmo che il sofista dà esistenza a quello che non ha essenza. Platone, così, mostrerà che l’essere non può venir trattato in senso univoco, secondo la prospettiva parmenidea, ma che ogni ente è sé stesso in quanto non è un altro. Non essere ed essere altro sono così distinti nell’approccio platonico, che fonda lo stesso metodo dialettico. L’identità è definita, dunque, da Platone in senso negativo, a partire dalla molteplicità dell’essere che rimanda alla molteplicità delle idee, in ultima analisi ricondotta alla coppia Uno-Diade, se si accetta l’interpretazione secondo le dottrine nascoste. Conclusione è che l’essere è molteplicità, quindi che l’identità è necessariamente connessa all’alterità.5 Cruciale, nel procedimento, è l’identificazione di ciò che è con l’essere intellegibile, cioè con la dimensione eidetica in Platone. Aristotele criticherà il maestro, rimanendo però sostanzialmente nella stessa identificazione, dove all’idea viene sostituita la forma intellegibile. Egli ricondurrà la questione dell’essere a quella di cosa è la sostanza attraverso l’analisi delle categorie, che separa gli accidenti dalla sostanza stessa, fondamento di tutta la costruzione. Questa può essere intesa come sostanza prima o seconda, cioè come individui o come generi e specie, cui gli individui stessi appartengono. Quindi, un uomo concreto è una sostanza prima, cioè sostanza nel senso più pieno, mentre la nozione di uomo che a lui deve essere attribuita è sostanza seconda.6 Così nella Metafisica egli definisce l’identità in senso proprio, e non meramente accidentale, in modo parallelo alla definizione di unità: Cfr. Platone, Sofista 241d. Cfr. ibidem, 256e e 258e-259b. 6 Cfr. Aristotele, Categorie 2ab. 4 5
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Giulio Maspero Due realtà sono dette essere la stessa se la loro materia è unica in specie o in numero o se unica è la sostanza, in modo tale che l’identità è una certa unità di essere o di una pluralità di enti o di un ente ma trattato come molteplice, come quando si dice che una cosa è identica a sé stessa.7
Come si vede, al centro del suo concetto di identità si rinviene la sostanza, che però continua a rinviare alla molteplicità come già in Platone. Metafisicamente il punto è che alla coppia Uno-Diade è stata sostituita quella tra l’atto e la potenza, in quanto l’identificazione è ricondotta al sostrato materiale puramente potenziale che viene attualizzato dalla forma intellegibile costituendo la sostanza prima. La tensione tra uno e molteplice permane, così come il riferimento all’ambiguità presente nell’etimologia di identità. La tensione è evidente a livello antropologico nell’Etica a Nicomaco, dove l’identità stessa viene applicata alle relazioni famigliari, spiegando come l’unità dei fratelli è una forma di identità che dipende dall’identità tra fratelli stessi e i genitori, che per loro sono i medesimi.8 Può essere interessante notare che la trattazione dello Stagirita unisce lo stato, l’amicizia e la famiglia, nel tentativo di offrire una soluzione intellettuale a quelle tensioni che la grande tragedia greca aveva magistralmente fatto emergere. La riflessione metafisica ha purificato l’eredità mitica, ma non riesce a sfuggire all’enigma di cui essa è latrice, come Edipo di fronte all’oracolo di Delfi. Nel ciclo che a lui si riconduce, il contrasto tra il genos e la polis nell’Antigone può essere citato come fulgido e lacerante esempio di quanto qui si cerca di mostrare. Nel testo le relazioni fondamentali dell’uomo, come la filiazione, la fraternità e la sponsalità, collidono, producendo il disfacimento ontologico della realtà sociale.
Idem, Metaphisica, V,9 1018a.5-9. In 1021a.11 l’identità metafisica di due enti è ricondotta all’identità di sostanza. 8 Cfr. Idem, Ethica ad Nichomacum, VIII,14, 1161b.29-33. 7
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Quindi, anche se per lo Stagirita l’identità è metafisicamente fondata nell’unità che si dà in grado massimo nella sostanza, nel confronto con le relazioni umane e con la famiglia o lo stato sorge una tensione legata al fatto che gli esseri umani che le compongono non formano una sostanza sola, ma ciascuno è necessariamente distinto dagli altri. Detto in termini metafisici, il superamento di Parmenide attraverso il passaggio ad una concezione di essere non univoca, ma partecipativa e, quindi, intrinsecamente fondata nella molteplicità, si scontra con il polemos, cioè con la tensione del molteplice stesso, che nell’approccio platonico-aristotelico viene gestita attraverso l’identificazione dell’essere con l’intellegibile. La dialettica viene elevata a livello del pensiero. Ma essa è presente anche nel reale, dove non può venir risolta in termine di identità ed opposizione senza conseguenze per le sostanze prime concrete, cioè per gli esistenti. Il punto è che nella trattazione aristotelica le relazioni sono considerate accidenti, proprio perché non possono essere in se ma solo in alio, eppure l’essere non può venire risolto né nella purezza univoca di Parmenide, né nella molteplicità eraclitea. Si ha una tensione ontologica che rimane aporetica.9 Quale differenza c’è tra l’unità accidentale di Socrate e del suo essere filosofo o ateniese rispetto a quello di un fidanzato e di una fidanzata? La difficoltà emerge chiaramente quando si analizza la trattazione aristotelica dell’amicizia e ci si lascia provocare dalla delusione che essa suscita nel lettore contemporaneo, perché la ragione dell’unità è posta nella virtù e non nell’unicità, nell’identità, diremmo ora, dell’altro.10 Vale la pena, per questo, di fare un passo indietro e tornare all’enigma proposto dalla tragedia greca, che attraverso l’arte poetica purifica e quasi cristallizza la questione. Si rilegga il Cfr. F. Croci, Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità in Platone e Aristotele, «Il Pensare» 3 (2014) 46-53. 10 Cfr. G. Maspero, Dell’amicizia con Dio nel pensiero greco: paradosso e paradigma dell’amore tra filosofia e teologia, in M. D’Avenia, A. Acerbi, Philia. Riflessioni sull’amicizia, Edusc, Roma 2007, 271-294.
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dialogo tra Creonte, tiranno di Tebe che ha condannato a morte Antigone per aver seppellito entrambi i suoi fratelli, sia quello che difendeva la città sia quello che l’attaccava, e il figlio Emone, che di Antigone è il fidanzato. Domanda il padre: O figlio, forse, ti avvicini pieno d’ira a tuo padre perché hai udito il verdetto inappellabile che ha condannato la tua fidanzata? Oppure conservo il tuo affetto, qualunque cosa io faccia?11
La pretesa del genitore è che l’affetto del figlio sia indefettibile. E questi effettivamente afferma la superiorità della relazione con il padre rispetto a quella con la fidanzata: Ti appartengo, e tu coi tuoi avveduti consigli mi indichi la retta via: sempre li seguirò. Nessun matrimonio sarà mai per me più prezioso della tua guida sicura.12
A questo punto la reazione di Creonte si fa solenne, perché parla del principio inviolabile dell’obbedienza al padre e al sovrano, spiegandone la ragione a partire dalla sopravvivenza della polis: Proprio questo, figlio, è il principio: che devi tener saldo dentro di te: assecondare in tutto la volontà paterna. [...] Si appelli pure a Zeus protettore dei consanguinei; ma se lascerò crescere l’insubordinazione nel seno stesso della mia famiglia, cosa dovrò tollerare dagli estranei? Chi è saggio verso i propri familiari si mostrerà giusto anche verso i cittadini; ma chi trasgredisce e viola le leggi, o presume di dare ordini ai capi, non avrà mai il mio consenso. No a chiunque la città abbia affidato il potere, a costui si deve obbedienza nelle cose piccole e grandi, giuste o non giuste. E sono convinto che un uomo disciplinato saprà ben comandare, come ha saputo ben obbedire, e nel turbine della battaglia resisterà al posto assegnatogli da vero, intrepido compagno. Non c’è male più grave dell’anarchia, che rovina le città; turba le famiglie, spezza i ranghi e provoca la fuga nel corso della battaglia. Fra i vincitori, invece, è proprio la disciplina a salvare il maggior numero di vite umane. Perciò bisogna sostenere le disposizioni dell’autorità, e a nessun costo lasciarsi vincere da una donna.13 Sofocle, Antigone, 632-634 (tr. it. F. Ferrari, Bur Rizzoli, Milano 1982). Ibidem, 635-637. 13 Ibidem, 639-640 e 658-671. 11 12
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L’identità del figlio sta, dunque, nell’appartenere al padre, nell’essere definito da lui. Qui il nodo tragico del pensiero greco è espresso con compiutezza. La grandezza dell’umanesimo ellenico è stata proprio quella di dichiarare i propri limiti onorando le vittime dello scontro tra legge universale e concretezza individuale, quindi tra unità e molteplicità, mediante l’arte poetica più elevata o il dialogo filosofico più profondo. Infatti, come Antigone, anche Socrate cade vittima dell’impossibilità di raccordare il bene della polis, cioè della società più elevata del tempo, e la relazione con il vero del singolo.14 Creonte ha le sue ragioni. Se Emone non obbedisce, come potranno i soldati seguire il sovrano in battaglia? Come si sosterrà la città senza cadere nell’anarchia? Ma Emone stesso richiama il valore della ragione15 e dice al padre di non arroccarsi in una posizione per la quale solo quello che lui dice e null’altro sia vero.16 L’uomo saggio, infatti, continua ad imparare. Il pensiero greco è, dunque, aperto, rinvia all’oltre, ma non riesce a sfuggire allo scontro tra le leggi. Quella più universale deve necessariamente prevalere, ma anche le leggi del sangue e quelle del pensiero devono essere tenute presenti. È qui importante non fraintendere anacronisticamente tale conflitto, come se riguardasse la tensione tra universale e personale. Nel mondo greco la questione in gioco è lo scontro tra leggi necessarie che appaiono incompatibili, pur essendo valide. Creonte, Socrate ed Antigone ipostatizzano delle idee. La tragedia nasce dalla loro tensione. Noi sappiamo che in ultima analisi questo dipende dal rapporto tra essenza ed esistenza, ma allora il conflitto si manifestava come irriconciliabilità di una legge più generale rispetto ad una più vicina alla dimensione esistenziale, ma comunque legge generale. Cfr. V. Solov’ev, Il dramma della vita di Platone, in Idem, Opere I: Il Significato dell’amore ed altri scritti, La casa di Matriona, Milano 1988, 195. 15 Cfr. Sofocle, Antigone, 683-684. 16 Cfr. ibidem, 705-706. 14
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La soluzione aristotelica è collegare l’identità con l’unità attraverso la sostanza per riportare tutto al livello di pensiero. L’essere coincide con l’intellegibile in modo tale che la forma intellegibile, in quanto universale, è la dimensione ontologicamente più vera, mentre l’individuazione materiale è sempre concepita come riduzione della densità metafisica attraverso un principio potenziale. Così l’identità perfetta è quella del puro atto del primo motore che è pensiero di pensiero, in quanto sostanza in massimo grado. Ogni motore mosso è distinto dal primo per un grado di potenzialità, che ne riduce la semplicità e la perfezione. Ogni motore mosso può essere analogamente accostato ad Emone che deve sottostare a Creonte come se questi fosse il primo motore. Ma egli non è il primo principio, come non è un’idea platonica, che comunque potrebbe entrare in contrasto con altre idee. Anche a livello antropologico si vede come la perfezione umana è intesa come autarchia del sapiente che contempla da solo, ancora una volta in parallelo con il primo motore, perché la molteplicità comunque introduce un elemento potenziale.17 L’identità greca si trova, così, in tensione rispetto alla molteplicità, cioè rispetto proprio a quella dimensione insita nelle relazioni umane di paternità, filiazione, amicizia ed amore. In ultima analisi, la tensione tra le due accezioni di ταὐτότης permane, ponendo il fondamento metafisico nell’identità solitaria del primo principio che si raccorda con il molteplice, quindi con il secondo significato di identità, solo a prezzo di una riduzione intellettualista che lascia scoperti i conflitti reali che sorgono nella molteplicità degli individui concreti. Per cogliere la profondità della questione basterebbe accostare il Fr. n. 3 di Parmenide, riportato da Plotino in Enneadi V,1,8, «lo stesso è il pensare e l’essere» (τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι)18 e l’affermazione aristotelica che «il pensiero non Cfr. Aristotele, Etica a Nicomaco, 1176b-1177b. Nella Politica, lo Stagirita dice anche che l’uomo perfetto non avrebbe bisogno della città (cfr. Politica, 1253a.28). Si veda anche Etica a Nicomaco, 1133a.27. 18 Cfr. Parmenide, Fragmenta 3,7. 17
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è relativo a ciò di cui è pensiero» (οὐκ ἔστι δ΄ ἡ διάνοια πρὸς τοῦτο οὗ ἐστὶ διάνοια).19 Da ciò discende immediatamente che il primo principio, cioè l’Essere che è puro atto e pensiero di pensiero, non può essere relazionale, lasciando le tensioni presenti a livello antropologico in balia del non essere. L’aporia consiste, dunque, nella pretesa di includere in un unico ordine ontologico il primo principio e il mondo senza riuscire, però, a declinarne il rapporto di unità e molteplicità. Si vede, così, come il percorso metafisico riguardo l’identità tocchi le questioni metafisiche più profonde e indichi un punto di crisi ontologica che rimane in attesa di una redenzione, di un logos divino capace di sciogliere il nodo tragico rivelando che l’enigma è in verità Mistero. 3. Prospettiva teologica Dal punto di vista teologico tutto il pensiero muove dalla dottrina della creazione, che a poco a poco il popolo di Israele è andato sviluppando. La stessa identità di quest’ultimo è fondata proprio sull’incontro con Uno che afferma di essere il Creatore e, quindi, pretende di essere l’unico Dio poiché le altre divinità sono solo ipostatizzazioni di forze cosmiche e, quindi, mere creature. A partire da tale evento, un clan di tribù nomadi, senza una terra propria, inizia a pensarsi a partire dalla relazione con un’entità parlante che non ha altro nome che quello di Dio dei padri, Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. L’identità del Dio degli ebrei è, così, relazionale fin dal primo momento. Di più, è tanto relazionale da generare relazioni e fondare l’identità del popolo chiamato ad allearsi con Lui. Questo Dio è riconosciuto come superiore agli altri dèi a partire dal suo essere Creatore, in quanto tutto ciò che esiste è stato tratto dal nulla: l’acqua, il mare, il cielo, il sole e le stelle ed ogni realtà che l’uomo stesso di volta in volta aveva chiamato dio. Quindi, nella rivelazione biblica, il punto fondamentale è una differenza: Dio non è come le realtà naturali, ma è radicalmente diverso. Lo stesso atto creativo è espresso attraverso il Cfr. Aristotele, Metafisica 1021a.31-32.
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verbo barà, che ammette come soggetto solo Dio stesso e che significa tagliare. Si potrebbe dire che, proprio perché Dio è radicalmente trascendente, cioè distinto rispetto al mondo, il suo agire può creare distinzioni. Ma ciò implica che Dio e il mondo costituiscono due ordini ontologici diversi e distinti. Nella Genesi, dunque, l’identità delle diverse creature è fondata in una doppia relazionalità: quella verticale con il Creatore e quella orizzontale con le altre realtà del mondo. Il mare è definito rispetto all’asciutto e viceversa, le acque di sotto rispetto a quelle di sopra, e così via, tanto che il diluvio sarà presentato come chiudersi di queste distinzioni, cioè disfacimento delle relazioni fondanti, che sono lo spazio che permette la vita dell’uomo. Nella creazione di quest’ultimo si osserva uno scarto teologico, perché Dio non si limita a dire sia, come nei giorni precedenti, ma passa alla prima persona plurale, rivelando che l’identità dell’uomo con la sua relazionalità è in qualche forma legata all’identità di Dio stesso e alla sua relazionalità, pur nella differenza assoluta tra creatura e Creatore. La storia dei Patriarchi e dei Profeti fino alla venuta di Cristo può essere letta proprio come fedeltà di Dio a queste relazioni da Lui poste, nonostante il continuo venir meno dell’uomo. Attraverso un percorso realmente pedagogico il Creatore conduce il suo popolo ad una comprensione sempre più profonda della propria identità e di quella dell’uomo, che ha una valenza profondamente metafisica. Si pensi all’incontro narrato in Es 3,14, dove Dio rivela di avere un nome e che questo nome è Io sono, cioè un Essere assoluto non limitato dal tempo e dallo spazio, in quanto sorgente di ogni essere. Mosè si deve porre la domanda su cosa è quello che si trova di fronte nel roveto ardente, scoprendo che è un Io che è senza limiti, fino al punto da poter esserci anche nel deserto, anche quando il popolo viene meno. Così la domanda sul cosa è diventa teologica, come colsero i traduttori della Bibbia ebraica in greco ad Alessandria tra il III e il II secolo a.C. quando resero il nome di Dio proprio con la formula usata da Platone per indicare l’Essere. E la questione metafisica 95
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si presenta, così, come inseparabile rispetto a quella teologica, perfino a livello letterale, perché il popolo di fronte alla manna si domanda man hu (Es 16,15), che cosa è, ripercorrendo in modo inconsapevole il cammino dei grandi autori greci. Da tale storia discende un allargamento della questione metafisica alla vita concreta dell’uomo, di ogni uomo, perché l’Essere stesso è entrato in relazione con lui, gli ha dato del tu. Come Dio dice a Mosé di togliersi i sandali perché la terra su cui sta è terra sacra, così alla luce del rapporto con il suo Creatore, l’esistenza concreta dell’uomo, la sua pelle, la sua carne, le sue speranze e le sue paure, perfino la sua fame e i suoi desideri più elementari, assumono una rilevanza metafisica. Il deserto, infatti, regione della solitudine perché meno adatta alla vita, diventa il luogo dell’incontro con l’Essere stesso, con la Vita senza limiti. Qui l’Essere si coniuga a partire da un Io che in quanto tale rinvia a un tu. L’ontologia della relazione si intravede, così, già in questa fase. E con il Nuovo Testamento la dimensione metafisica dell’annuncio cristiano si presenta con ancora più forza, perché la questione non è solo comprendere cosa è Dio e cosa è l’uomo sua creatura, ma un uomo stesso dice e dimostra di essere Dio violando in apparenza quella radicale differenza che il popolo ebraico aveva dovuto apprendere a fatica lungo i secoli. La questione dell’identità di Gesù assurge in tal modo a questione metafisica fondamentale, come dimostra la croce stessa, che può venire letta come un grande giudizio ontologico. Lo scandalo di un falegname che nasce, ha fame, piange e muore, dicendo di essere il Creatore, trova il suo compimento in quel patibolo che negando la relazione con Lui finisce paradossalmente per scoprire cosa e chi Lui davvero sia. Questo redoublement della domanda, che si articola in cosa e chi, inaugura la questione trinitaria, perché il cosa è Gesù dipende radicalmente da chi Lui è. Ancora più radicalmente, il suo essere la stessa cosa del Padre è fondato nel suo essere un chi distinto.
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Come il Dio incontrato da Mosé era il Dio dei padri, così ora Gesù rivela di essere Dio chiamando Dio suo Padre mediante quel termine abbà, che aveva imparato da Maria a rivolgere a Giuseppe. La differenza tra padre e abbà è radicale e comune a tutte le lingue indoeuropee: il primo indica origine in generale e si può predicare degli dèi, degli antenati, dei capi politici e così via, mentre il secondo implica la connaturalità che unisce il papà a suo figlio.20 Cristo rivela, dunque, la sua identità attraverso una relazione umana che Lui applica a Dio, al Creatore. E la cosa più sconvolgente è che dimostra la verità della sua pretesa risorgendo. Da qui il pensiero cristiano, e umano più in generale, ha imparato a distinguere la domanda sul chi dalla domanda sul cosa. Il Padre e il Figlio sono un’unica sostanza eterna che è l’Essere stesso, quindi che è la Bellezza, la Verità, la Bontà e così via. Ma il Padre e il Figlio sono Persone diverse, la cui identità coincide con la loro relazione. Qui il confronto con la tensione metafisica abbozzata nella prima parte diventa cruciale, nel senso anche etimologico del termine. Infatti, l’insolubile aporeticità dell’identità rispetto all’uno e al molteplice, evidenziata nel percorso da Parmenide ad Aristotele, viene qui illuminata da una nuova ontologia, la quale rivela l’incompletezza del pensiero greco che, però, con grande pietà e rettitudine, era rimasto in attesa. In un certo senso, il confronto di Platone con i sofisti può essere riletto da qui come impegno per non nascondere la piaga, per tener aperta la ferita. Nel Cristo, infatti, la relazione è rivelata come immanente all’Essere stesso, mostrando sulla croce e nella risurrezione che proprio l’intrinseco e mutuo rinvio di un padre al proprio figlio costituisce, per le Persone della Trinità, i due differenti chi come la stessa cosa. Il Padre, infatti, è sé stesso non nel dare qualcosa al Figlio, cioè nel comunicargli qualcosa di sé, ma nel donargli tutto sé stesso, cioè l’infinita, assoluta ed eterna Vita che è Dio. Cfr. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, I, Munit, Paris 1969, 210-211. 20
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E il Figlio è tale, cioè Immagine del Padre, proprio nel ricevere questa Vita e nel ridonarla alla prima Persona. Così Egli è sé stesso nel ridonare sé stesso al Padre. E tale dono è così perfetto e assoluto da essere un terzo chi, in quanto la Vita donata e ridonata è Dono infinito, assoluto ed eterno, quindi la stessa cosa delle prime due Persone. Qui l’ambiguità del ταὐτότης greco è risolta, perché l’identità dell’unicità e quella della molteplicità sono ontologicamente raccordate. Si noti che il riferimento al dono è qui necessario, come accennato nell’introduzione, per evidenziare come il fondo dell’essere non può essere identificato con l’intelligibilità secondo l’approccio metafisico greco. Dono indica, infatti, libertà, gratuità, quindi una dimensione distinta da quella della necessità cosmica. L’essere e l’intellegibile si distinguono, in quanto non solo l’essere creaturale stesso è un dono tratto dal nulla, come nell’Antico Testamento, ma ancor più radicalmente il Primo Principio ha un di dentro, un’immanenza, costituito da tale eterno e perfetto Dono reciproco che è l’Essere stesso. L’eccedenza di Dio rispetto al pensiero dell’uomo si gioca, dunque, non solo sull’asse verticale tra il Creatore e la creatura, ma anche su quello orizzontale nell’immanenza trinitaria stessa, dove le tre Persone sono sé stesse nella relazione reciproca che le unisce e distingue nello stesso tempo. Ciò non implica divaricazione alcuna tra Dio e la conoscenza, in quanto la seconda Persona divina è il Logos, cioè il Pensiero, la Conoscenza e la Parola del Padre. Ma tale Logos è Dio stesso, cioè appartiene ad una dimensione attingibile solo nella relazione. Gregorio di Nissa lo esprime con grande forza: Questo Logos è distinto da Colui del quale è Logos: in certo modo anch’esso appartiene all’ambito della relazione (τῶν πρός τι λεγομένων), poiché è assolutamente necessario intendere con il Logos anche il Padre del Logos: non sarebbe infatti Logos, se non fosse Logos di qualcuno.21
La terminologia è tecnica e fa riferimento proprio alla categorizzazione aristotelica. Il Pensiero, che per Aristotele non Gregorio di Nissa, Oratio Cathechetica Magna, 1, 73-77: Srawley, 11, 8-12.
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poteva essere relativo a ciò di cui era pensiero, nell’eternità divina è invece proprio relazione pura, eterna ed immanente. Così anche il Padre è ricompreso in termini relazionali, in quanto, secondo Gv 14,10, il Figlio è in Lui, ma anche Lui è nel Figlio. Il punto è sorprendente se letto sullo sfondo dell’ontologia greca, perché l’essere in veniva considerato caratteristico degli accidenti, che hanno bisogno di inerire ad una sostanza per essere in pienezza. Gregorio ricorre proprio al testo giovanneo per dimostrare che non solo il Figlio è relativo al Padre, ma che anche la prima persona è relativa alla seconda, segnando una vera e propria rivoluzione ontologica.22 Il punto è fondamentale nel contesto della polemica teologica nella quale il vescovo di Nissa è immerso, perché il suo avversario richiama metafisicamente la relazionalità come prova della differenza sostanziale tra il Padre e il Figlio: se la loro identità è relazionale, allora devono essere sostanze diverse, tanto che ci deve essere stato un tempo nel quale Dio non era Padre, cioè era libero dalla relazione con la seconda Persona divina che, in quanto creatura, non sarebbe esistita da sempre. Di fatti, si è ancora di fronte alla tensione metafisica tracciata nella prima parte: se l’Essere è tale, la sua identità deve essere solitudine, unicità che nulla ha a che spartire con la molteplicità. Dio sarebbe onnipotente proprio perché solo. Qui, invece, la visione è mutata in profondità, perché l’essere non è più identificato con l’intellegibile, ma è presentato nella sua eccedenza radicale che solo la relazione può attingere. Così Gregorio introduce la relazione nella stessa immanenza divina, trasformando la relazione proprio nel fondamento del fatto che Gesù e il Padre sono una cosa sola. E ciò ora si dà non nonostante siano due differenti chi, ma proprio perché lo sono.23 Da qui, posto che la prima Persona divina genera la seconda ed è origine anche della terza, Gregorio fa un ulteriore passaggio essenziale per la declinazione di quanto visto a livello dell’onto Cfr. Idem, Contra Eunomium, III, 7,53,1-54,1: GNO II, 233,25-234,6. Cfr. Idem, Contra Eunomium, I, 412, 1-11: GNO I, 146,23-147,3.
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logia divina rispetto alla creatura. Infatti se il Padre è la stessa cosa del Figlio e dello Spirito, ma un chi diverso relazionalmente identificato nella sua caratteristica personale rispetto agli altri due, allora il suo essere loro causa si dovrà giocare ad un livello puramente relazionale, perché non si ha differenza di sostanza come normalmente avviene tra la causa e l’effetto.24 Si tratta di uno sviluppo assoluto rispetto alla metafisica classica dove la causalità implicava sempre degenerazione ontologica e differenza sostanziale, come nella catena dei motori che secondo Aristotele connetteva il Motore immobile al mondo. Ma se in Dio la relazione è causa, allora quanto è causato da Dio al di fuori di sé porterà l’impronta di tale dimensione relazionale, in modo tale che le relazioni stesse potranno essere riconosciute a livello creaturale non come elemento degenerante, ma come traccia della perfezione. Ilaria Vigorelli ha studiato con grande profondità le conseguenze di ciò a livello antropologico ed epistemologico.25 Rinviando al suo lavoro per un’analisi più dettagliata, qui sarà sufficiente mostrare come la novità ontologica introdotta da Gregorio di Nissa a livello di relazione permetta di individuare un’analoga immanenza umana, abitata anche qui da relazioni fondanti, che ne costituiscono l’identità. In primo luogo, ciò si esplica nel rapporto costitutivo rivelato dal desiderio di infinito che alberga nel cuore dell’uomo finito. Si tratta di un vero e proprio paradosso ontologico che il riferimento alla misura del mondo greco non è riuscito a temperare. Oggi, nella postmodernità consumistica, tale tensione diventa sempre più acuta fino a portare alla rottura o scomposizione della psiche e dell’esistenza dell’uomo. Dice Gregorio dell’anima: conformata alle proprietà della natura divina, imita la vita superiore (τὴν ὑπερέχουσαν ζωὴν), in modo tale che non le rimane null’altro che la disposizione d’amore (τῆς ἀγαπητικῆς διαθέσεως), che tende naturalmente al Bene. Infatti l’amore è questo: la relazione interiore (ἐνδιάθετος σχέσις) a ciò che si desidera nel cuore (τὸ καταθύμιον).26 Cfr. Idem, Ad Ablabium, GNO III/1, 56, 13-57,2. Cfr. I. Vigorelli, La relazione, Dio e l’uomo, Città Nuova, Roma 2021. 26 Gregorio di Nissa, Dialogus de anima et resurrectione, PG 46, 93BC. 24 25
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Si tratta di un passo dalla grande forza che riconosce il senso del desiderio senza limiti dell’uomo nell’immagine ontologica in lui impressa dall’atto creativo ad immagine e somiglianza di Dio, che fa dell’amore, e quindi del dono, una legge intrinseca e non estrinseca del suo essere. Come Dio è relazione immanente di eterno mutuo dono che ha origine dal Padre e si compie grazie al Figlio per riposare nella perfezione dell’atto di dono che è lo Spirito, così l’uomo porta in sé una relazione immanente che lo spinge sempre oltre il finito. Si tratta di un punto strutturale nell’antropolgoia nissena, che recupera anche la dimensione del piacere e della passione: L’amore (φίλτρον) è la relazione interiore (ἡ ἐνδιάθετος σχέσις) a colui che è desiderato nel cuore causata dal piacere o dalla passione.27
In tal modo la dimensione emotiva e passionale viene ancorata a quella relazionale per dimostrare che, nonostante il peccato che distoglie dalla sorgente per far abbeverare alle pozze degli idoli, i quali creano dipendenza nel cuore dell’uomo, questi tende in modo ineludibile verso l’oltre che è l’immanenza del suo Creatore. E tale relazionalità diventa principio di conoscenza, anzi il vero fondamento delle possibilità conoscitive dell’uomo, in un creato il cui essere non è più automaticamente intellegibile come l’intellettualismo greco voleva. Infatti, per la sposa del Cantico, che sempre di nuovo inizia nella ricerca del suo Amato, l’intima relazione (ἐνδιάθετον σχέσιν) con Lui, cioè la propria passione, è l’unico nome che lei può riconoscere come appropriato a Lui.28 Se Dio è separato da un infinito iato ontologico rispetto al creato, diventa impossibile la conoscenza intellettuale che risale di causa in causa seguendo i nessi necessari che nella lettura metafisica greca connettevano in un unico ordine ontologico il primo principio e il mondo. Ma ciò non implica un esisto relativista, perché la conoscenza può e deve seguire i nessi della causalità Idem, In Ecclesiasten, GNO V, 417, 13-14. Idem, In Canticum canticorum, GNO VI, 61, 1-17.
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relazionale che, in quanto immanenti, saranno attingibili solo nella libertà e nel dono. In occidente sarà Agostino a sviluppare la dimensione antropologica di tale nuova ontologia relazionale.29 Basta gettare un semplice sguardo alle sue Confessioni per cogliere la radicale novità che la luce trinitaria permette al vescovo di Ippona di scorgere nell’uomo. Un sommario confronto con opere letterarie coeve mette immediatamente in evidenza come l’immanenza dell’uomo passi ora in primo piano, come non era mai avvenuto.30 Ma è il De Trinitate il testo dove Agostino elabora il fondamento della sua rilettura antropologica. Qui egli non cerca di dimostrare la Trinità, ma solo di rappresentare la Vita divina con la vita umana a partire dalla dottrina biblica della creazione ad immagine e somiglianza, per mostrare come non sia assurdo affermare nello stesso tempo l’unità e la trinità di Dio. In un certo senso si tratta ancora di rispondere alla tensione metafisica classica, che non riusciva a conciliare ontologicamente unità e molteplicità, per evidenziare, però, anche come il riduzionismo antropologico dei greci dovesse essere superato. Questi rinvenivano una tensione insuperabile nella relazionalità umana che non poteva conformarsi all’ideale autarchico e solitario del primo motore. In tal modo, pur preservando il vero attraverso il pio omaggio dell’arte, finivano per negare filosoficamente alcune dimensioni dell’uomo, in particolare la tensione inesauribile del suo desiderio e la valenza conoscitiva delle sue passioni. Il vescovo di Ippona, invece, rilegge l’uomo alla luce della relazionalità di Dio, riconoscendo il valore non solo dell’intelletto, ma anche della volontà. Egli, infatti, sviluppa una lettura antropologica alla luce della nuova ontologia trinitaria, nota come analogia psicologica. Spesso si dimentica che essa si articola su tre diversi livelli dell’essere: Sulle differenze tra i due autori per quanto riguarda l’ontologia relazionale, si veda G. Maspero, Relazione e ontologia in Gregorio di Nissa e Agostino, «Scripta Theologica» 47 (2015) 607-641. 30 Si veda l’acutissima analisi di come la Scrittura introduce una novità radicale nella narrativa umana, dando rilievo alla vita quotidiana: E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956. 29
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1. dal più fenomenologico livello sensibile, studiato anche dalla psicologia empirica, costituito dalla triade memoriaintelligentia-voluntas,31 2. egli risale attraverso la causalità relazionale alla triade propriamente spirituale mens-notitia-amor,32 3. per giungere a riconoscere la radice ontologica delle precedenti triadi sensibili e spirituali nello stesso rapporto con Dio come memoria Dei-intelligentia Dei-amor in Deum.33 L’ultima dimensione riguarda propriamente l’ambito della contemplazione e la relazione con la sorgente divina, della cui immanenza lo spirito dell’uomo è immagine. Alla luce della causalità relazionale introdotta da Gregorio di Nissa tale articolazione può essere riconosciuta come lettura doppiamente relazionale. Infatti, l’attenzione alla corrispondenza di unità e trinità di ciascun livello è resa possibile dalla concezione relazionale del rapporto tra i diversi livelli. In altri termini, è come se dall’immanenza divina della Trinità la dinamicità relazionale si comunicasse allo spirito dell’uomo e da qui alla sua psiche. Tale rilettura relazionale della res congitans umana si può accostare a quella della res extensa da parte di Gregorio di Nissa. Questi, definendo l’uomo “immagine dell’Immagine”,34 cioè figlio nel Figlio, mostra come anche la sua materialità e corporeità è configurata dalla relazionalità del Logos divino. Infatti, come già visto in un volume precedente di questa collana,35 la posizione eretta, espressione della sua identità in quanto immagine del Creatore, ha permesso, nella rilettura nissena, che gli arti anteriori, i quali negli animali Agostino, De Trinitate, X, 11, 18. Ibidem, IX, 3, 3; 4, 4 e 5, 8. 33 Ibidem, XIV, 12, 15. 34 Cfr. Gregorio di Nissa, De Perfectione Christiana, GNO VIII/1, 196,12. 35 Cfr. G. Maspero, Non c’è due senza tre: relazione e differenza tra uomo e donna alla luce del Mistero di Dio uno e trino, in P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (a cura di), Ecologia integrale della relazione uomo-donna. Una prospettiva relazionale, ROR Studies Series 4, Edusc, Roma 2018, 167-203. 31 32
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sono zampe, rimanessero liberi per realizzare quei compiti svolti in questi ultimi dalle fauci della bocca. Ciò avrebbe liberato gli organi fonatori per lo sviluppo della capacità di parola.36 La relazionalità del Logos divino si esprime, così, sorprendentemente rispetto all’eredità greca, proprio nella relazionalità corporale che rende possibile il logos umano. Il contributo di questi due Padri della Chiesa permette di tracciare alcuni tratti di un’antropologia trinitaria, cioè di una rilettura dell’umano nelle sue diverse dimensioni alla luce della relazionalità che l’ontologia trinitaria ha permesso di rivenire. Da qui sorge in modo naturale la domanda su come questo si raccordi con l’esperienza e la pratica a livello pastorale, che necessariamente e sempre più richiede il confronto con la psicoterapia. 4. Rilettura pastorale Uno dei consigli più preziosi che ricevetti appena ordinato sacerdote fu quello di leggere un trattato di psicopatologia. Ebbi la fortuna di poter parlare con don Giambattista Torrellò, psichiatra e sacerdote, il quale immediatamente mi evidenziò la differenza tra l’identità del sacerdote e quella dello psicoterapeuta. Da brianzolo la questione era per me già abbastanza chiara, perché il sottoscritto non riceve compenso pecuniario alcuno per il suo ascolto. Ma l’approfondimento della prospettiva patologica mi aiutò grandemente anche sul fronte teologico. Infatti, la combinazione tra la ricerca universitaria, l’attività pastorale e le letture che mi erano state consigliate mi portò a notare come la mente umana diventa prevedibile solo quando si ammala. Mi sembra che ogni persona umana debba sviluppare delle difese, per la semplice ragione che è un essere vivente e la sua identità è definita da una distinzione tra un dentro e un fuori. Ciò vale in primo luogo a livello fisiologico, ma si ripercuote evidentemente anche nella dimensione psichica, come la scoperta dell’inconscio dimostra, ed è fondato nell’ambito spirituale, se è vero quanto visto nelle sezioni precedenti. Cfr. Gregorio di Nissa, De hominis opificio, 8, PG 44, 144AB.
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Infatti, in quanto immagine del Dio uno e trino, l’uomo è dotato di un’immanenza spirituale dalla quale sgorga la sua libertà e, quindi, la capacità di desiderare l’infinito, stabilire relazioni e donarsi. La domanda su cosa è l’uomo dipende, così, radicalmente da quella su chi è l’uomo, proprio perché questi è caratterizzato da una immanenza, analoga a quella divina, che è esattamente l’ambito del chi. Tale immanenza, cioè tale fondamento dell’identità, richiede di essere preservata. Ma nello sviluppo della persona, particolarmente nelle prime fasi o nei momenti di maggior fragilità, sorgono dei meccanismi difensivi che nel corso della vita possono giungere a imprigionare la persona stessa. Se per un bimbo trascurato dai genitori la tendenza depressiva può essere un fattore difensivo, perché è meglio pensare di non valere nulla e, quindi, che i genitori abbiano ragione, piuttosto che essere in balia di un’assenza, con il passare degli anni tale “armatura” può arrivare a soffocare, perfino letteralmente come avviene nei casi di suicidio. Così la sindrome di Stoccolma presenta un processo analogo in una condizione di estrema vulnerabilità, dove la psiche sviluppa la teoria dell’amore del rapitore, che si prenderebbe cura della persona rapita, per superare la radicale incertezza della situazione vissuta. Da tale prospettiva, l’esperienza pastorale mi ha portato a verificare come la salute fosse legata ad una elasticità e adattabilità delle difese, mentre la patologia rinviasse ad una rigidezza che diventava carcere. Alla luce dell’antropologia trinitaria proposta, l’esperienza poteva essere letta come irrigidimento della dimensione relazionale dell’immanenza personale. In un certo senso ciò potrebbe essere tradotto come ritorno ad una metafisica greca, dove il mondo è retto da leggi necessarie deterministiche, senza spazio per la libertà dell’immanenza umana. Non è un caso se gli esiti sono in alcuni casi tragici. Tale analogia sarebbe rafforzata anche dalla priorità della lettura mentale sulla relazione con il reale. In un certo senso la patologia rende intellettualisti e razionalisti.
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A volte ho dovuto dire a qualche ragazza anoressica o dappica, secondo la terminologia di Vittorio Guidano,37 che pensava in modo “nazista”, perché realmente non ammetteva altra lettura di sé o del mondo che non corrispondesse alla teoria che aveva innalzato a propria difesa. Ma ciò implica un ulteriore passaggio, perché quanto detto evidenzia anche che la lettura del reale è sempre mediata dalle nostre relazioni interiorizzate. Ne ho avuto esperienza nel primo caso di persona abusata che ho avuto modo di seguire a livello spirituale. Questa persona leggeva continuamente le azioni di cura messe in atto dalle persone che la circondavano come attacchi. Io avevo la possibilità di verificare il contesto relazionale in cui si muoveva, per cui notavo una evidente discrasia. Le sue narrazioni non coincidevano con le narrazioni degli altri, ma soprattutto contenevano dei salti, delle incongruenze. Alla fine ebbi l’intuizione del trauma che poteva causare (relazionalmente) tutto ciò rendendomi conto che il movimento di un ceffone e quello di una carezza sono esattamente gli stessi, mentre cambia la velocità di esecuzione. Evidentemente, una persona abituata a ricevere sberle legge anche le carezze come tali e mette in atto le difese senza verificare la differenza, perché è troppo rischioso farlo. Come ha scritto Pierpaolo Donati, noi conosciamo attraverso relazioni, in modo tale che la matrice relazionale in cui siamo immersi e i beni/mali relazionali ai quali siamo esposti configurano il nostro rapporto con il mondo.38 Per questo è estremamente interessante rileggere la definizione di psicoterapia formulata da Giovanni Liotti come offerta di una nuova relazione da interiorizzare che possa aiutare a riformulare i propri schemi interpretativi della realtà, in particolare nella sua dimensione re Sul cognitivismo post-razionalista, cfr. V. Guidano, La Complessità del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1988 e Il Sé nel suo Divenire, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 38 Cfr. in proposito, P. Donati, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010 e Scoprire i beni relazionali. Per generare una nuova socialità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019. 37
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lazionale.39 Si tratterebbe, dunque, di una relazione che cura o corregge le ferite relazionali che hanno configurato la lettura dei rapporti della persona con il reale. Nella prospettiva di Liotti tale concezione della psicoterapia è fondata sul suo lavoro per mostrare la dimensione interpersonale della coscienza,40 la quale si costituirebbe attraverso la capacità di identificazione affettiva con l’altro permessa dalla metacognizione. Questa consiste nella possibilità di pensare sé stessi e le altre persone come soggetti conoscenti in modo intenzionale. In particolare, essa si svilupperebbe verso i nove mesi. Infatti, prima di tale età un bambino, vedendo un filmato nel quale due altri bimbi sono di fronte a due scatole e uno dei due nasconde una mela in una delle sua scatole, alla quale però cambia di posto mentre l’altro bimbo esce un attimo dalla stanza, se viene interrogato su dove il bimbo che era uscito cercherà la mela, risponde dicendo che si dirigerà verso la scatola dove la mela è, perché non riesce a mettersi nella relazione con il bimbo che era uscito, leggendo quello che questi sa o non sa.41 Nella linea interpretativa proposta, ciò può essere descritto come insufficiente sviluppo di quell’immanenza psichica che permette di riconoscere la relazione. Il bimbo prima dei nove mesi vede solo la sostanza, la mela appunto, ma non percepisce la relazione fondamentale per mettersi nei panni altrui e coglierne l’intenzione. Lo stesso si può dire della strange situation, in quanto l’osservazione delle reazioni di un bimbo lasciato da una figura di attaccamento da solo con un estraneo e di quanto accade nel successivo ricongiungimento può essere considerata, dalla prospettiva illustrata, come analisi della resistenza e resilienza delle sue relazioni, in altri termini della loro consistenza e della loro Cfr. G. Liotti, La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci, Roma 2007, 269-274. 40 Cfr. ibidem, 22-25. 41 Cfr. A. Semerari, Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2000, 164. 39
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elasticità, quindi esplorazione dell’immanenza psichica e delle difese poste ai suoi confini. L’antropologia relazionale permette di riconoscere il valore ontologico di tali indagini fenomenologiche. Qui il termine ontologico non è inteso in senso meramente ermeneutico o costruttivista, perché alla relazione è riconosciuta un’autentica densità metafisica. Infatti, essa è un co-principio dell’essere insieme alla sostanza, ma non è traducibile in termini concettuali come quest’ultima. Eppure, la relazione stessa è reale e conoscibile attraverso altre relazioni, come avviene nella psicoterapia appunto, ma anche più in generale in ogni forma di cura della persona, dall’accudimento fino alla formazione. È chiaro che tale approccio esula dall’ambito di un’epistemologia di taglio cartesiano, fondata sulla separazione tra res cogitans e res extensa. La psicopatologia, infatti, mostra con estrema evidenza l’insufficienza di tale approccio, in quanto si tratta di una sofferenza che si estende al corpo, la cui causa, però, non si trova al livello di res extensa, ma di res cogitans. Dalla prospettiva teologica, invece, non si ha problema epistemologico, perché si dispone della causalità relazionale. Questa può essere utilizzata proprio per spiegare il ruolo della metacognizione che si estende dalla formazione del linguaggio fino alla costituzione delle convinzioni morali. Michael Tomasello ha mostrato, infatti, come proprio lo sviluppo di tale capacità sarebbe il guadagno che avrebbe rappresentato un punto di non ritorno nell’evoluzione umana.42 Quando un bimbo inizia ad indicare al padre una realtà terza rispetto ai due, sta utilizzando proprio la metacognizione, operazione impossibile ai primati. Da qui si svilupperebbe l’apprendimento del linguaggio, in quanto i nomi convenzionali utilizzati dalla comunità umana vengono a poco a poco condivisi in questo spazio relazionale. Cfr. M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, Il Mulino, Bologna 2005, 113-117. 42
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Tale condivisione dell’attenzione può essere letta da una prospettiva trinitaria in chiave ontologica, perché di fatti il triangolo tra il padre, il figlio e la realtà indicata costituisce uno spazio di comunione tra l’immanenza personale dei due, che, pur giocandosi a livello cognitivo, può essere interpretata come manifestazione della dimensione spirituale, secondo l’approccio agostiniano. È importante qui notare che tale processo è alla base anche della costituzione dei primi giudizi morali, poiché i bambini più che dalle leggi imperative degli adulti, sono mossi dalla capacità di identificazione relazionale con i propri coetanei, dei quali colgono il dolore, possibile effetto di un comportamento cattivo.43 E anche nel caso di comandi espliciti da parte di un adulto, l’eziologia relazionale indica la ragione dell’adeguamento all’indicazione più nell’autorevolezza affettiva della figura di attaccamento che nella forza del comando stesso. In termini più semplici, quando io da piccolo cercavo di mettere le dita nella presa, forse mostrando le prime inclinazioni alla ricerca come fisico che poi ho intrapreso per un periodo della mia vita, mia madre mi diceva che non andava fatto perché era cacca. Lei non mi spiegava la differenza di tensione o il ruolo degli elettroni, ma io comprendevo in quel triangolo relazionale che la mia esplorazione toccava un limite pericoloso perché mia madre era attendibile, in quanto mi dava la pappa. Io producevo la cacca che non mi piaceva, lei produceva la pappa che mi piaceva. Per le mie capacità cognitive di quel momento questo era convincente. Evidentemente qui era essenziale il tipo di relazione, cioè di attaccamento, che io avevo nei confronti di mia madre. Essendo questo di tipo sicuro, l’indicazione non era da me recepita come costrizione. Infatti, la struttura e, quindi, la grammatica relazionale si sviluppa sostanzialmente nei primi due anni di vita, producendo dei modelli operativi interni che Cfr. ibidem, 215-216.
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sono vere e proprie matrici relazionali, dalle quali dipende il rapporto con la realtà e, quindi, anche l’insorgere di patologie psichiche quando le difese sviluppate in tale rapporto prendono il sopravvento.44 Qui può risultare illuminante la prospettiva teologica con la connessione tra il rapporto uno-molteplice, vera crux dell’identità, con il fondamento ontologico. L’antropologia relazionale, conseguenza dell’ontologia trinitaria e della scoperta della causalità relazionale, legano l’identità stessa al Padre che eternamente e perfettamente genera il Figlio nel loro Amore. L’aporia metafisica, che è tutto tranne che astratta, come si può osservare nelle numerose tragedie che caratterizzano la nostra patoplastica contemporaneità, viene infatti ricomposta dalla rivelazione di un Padre infinito ed eterno che è sorgente. Creonte è un padre finito che rinchiude in una categoria, ma a sua volta è stato figlio di suo padre, come Emone lo è di lui. Questi giustamente rinvia il genitore all’eccedenza del reale rispetto alla teoria a lui imposta in nome della polis, quindi rispetto a modelli operativi interni di tipo riduzionista ed intellettualista. Creonte cerca il bene e non trova altra strada che quella percorsa, così Emone, pur richiamando l’insufficienza e l’ingiustizia della scelta, non ha altra possibilità che adeguarsi al fato, come ogni greco pio. Ma la ferita è esposta, il limite è dichiarato ed affidato alla potenza eternizzante dell’arte. E qui si presenta la questione cruciale anche dalla prospettiva pastorale: ogni uomo, proprio perché creato ad immagine e somiglianza di Dio, ha un desiderio infinito, pur essendo finito. Dal punto di vista antropologico questo è un paradosso che solo il ricorso al mistero trinitario riesce ad illuminare. Infatti, non solo chi ha subito un abuso o un trauma da bambino si porta dentro una ferita relazionale, ma ogni essere umano è segnato da una radicale sproporzione che rende insufficiente ogni amore dato e ricevuto. Generare, educare, curare, sono azioni che pon In generale, su questo cfr. V. Guidano, G. Liotti, Cognitive Processes and Emotional Disorders, Guilford, New York 1983. 44
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gono il soggetto in una posizione di inevitabile inadempienza e inadeguatezza. In un certo senso, ogni padre ed ogni amante è chiamato a chiedere perdono per il suo agire. Ma non c’è altra via per essere sé stessi, come Gesù con forza ha indicato. Siamo chiamati ad amare il nemico non perché si tratti di un caso particolare di amore, che in alcuni casi estremi si può dare, ma siamo chiamati ad amare il nemico perché ogni persona amata diventa necessariamente nemico per la sproporzione tra limite creaturale e desiderio personale, espressione della relazionalità all’oltre trinitario. Così ogni formatore, ogni genitore, ogni care-giver realizza sé stesso rinviando oltre sé stesso alla sorgente relazionale che è l’unico Padre che non è figlio. Per questo l’atto d’amore del generare un’identità può essere compreso solo come rinvio relazionale alla sorgente dell’identità stessa. In un certo senso, secondo quanto magistralmente mostrato da René Girad, ogni padre è destinato ad essere capro espiatorio, come Edipo, in quanto ipostatizzazione simbolica dell’insufficienza del limitato rispetto al desiderio del figlio. Il vantaggio è che la reazione dialettica che caratterizza, ad esempio, l’adolescenza, momento per eccellenza centrato sulla costituzione dell’identità propria del soggetto, è destinata al fallimento, in quanto, in modo simmetrico rispetto all’imposizione di Creonte, si gioca sul piano meramente ideale. Se è vero quanto visto a livello di ontologia e di antropologia trinitaria, il passaggio all’eccedenza del reale sarà richiesto da tutto l’essere della persona. L’iniziazione, oggi praticamente scomparsa dell’orizzonte culturale, aveva proprio la funzione di segnare il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, trasformando i figli in soci dei padri. Attraverso di essa, il limite veniva spostato dalla dimensione ideale a quella reale, permettendo di riconoscere il padre stesso come colui che mostra la possibilità di trarre profitto non solo nonostante il limite, ma proprio dentro di esso. In tal modo formazione e paternità si presentano come relazioni che generano relazioni, perché supportano la relazione del soggetto con il reale. In altri termini, paternità e formazione 111
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non si giocano solo a livello sostanziale, ma anche nella dimensione relazionale. In base all’esperienza, mi pare essenziale sottolineare che non si tratta di un aut-aut, ma di un et-et, perché l’uomo è sia sostanza sia relazioni. Il pericolo che vedo oggi molto diffuso, in quanto è principio fondamentale di una postmodernità che reagisce al razionalismo moderno, è quello di negare la dimensione concettuale, in una dialettica che sposta l’identità in una deriva relazionalista e non relazionale. Non basta uccidere Creonte per salvare Antigone, come il parricidio di Parmenide non ha liberato il sofista dall’aporia metafisica. La dimensione sostanziale è essenziale nell’uomo e questa esige una traduzione concettuale. Nello stesso tempo questo passaggio non è automatico, ma si gioca attraverso le relazioni. È fondamentale non assolutizzare in modo idolatrico le rappresentazioni per mantenerle sempre aperte all’incontro con il reale. Un esempio può aiutare: ogni esploratore ha bisogno di carte nautiche per partire, come il genovese Cristoforo Colombo, non importa se esse sono imperfette o addirittura in parte erronee, come nel suo caso, quello che importa è che rendano possibile il viaggio e, quindi, la relazione con il reale. Sulla via del ritorno le mappe saranno ridisegnate, corrette e completate. Il buon padre, allora, dà le mappe senza assolutizzarle, trasformandole così in un dono che permette la relazione. Il formatore è sempre socio delle persone che gli sono affidate, come ogni genitore lo è di coloro che ha generato. Quando questo non avviene, lo spazio interiore dove abitano le relazioni rimane chiuso e sottosviluppato, arroccato nel confronto con un’identità estrinseca. La dimensione cognitiva ne risulterà ferita. Ad esempio, una volta mi sono trovato in un dialogo di direzione spirituale con una ragazza che si rivolgeva regolarmente a me. Le chiesi come stava e mi rispose bene. Allora le domandai se c’era qualche novità nella sua vita e mi raccontò una serie di eventi dolorosi, tipo la bocciatura ad un esame, un incidente automobilistico e la rottura con il fidanzato. Non potei fare a meno di dirle che, io al suo posto, mi sarei senti112
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to addolorato e triste, quindi allora, e solo allora, lei mi disse che effettivamente, ora che io glielo facevo pensare, si rendeva conto di non stare bene. Era come se da sola non potesse accedere alle proprie emozioni e ai propri sentimenti, in particolare a quelli negativi, ma avesse bisogno della relazione con un adulto che le facesse da ponte. Una metafora che può descrivere questa situazione è quella del camaleonte, che si difende assumendo il colore dello sfondo, ma solo quando serve. Invece, se una persona non potesse fare a meno di nascondersi nello sfondo, rimarrebbe intrappolata senza poter più accedere al proprio colore, alla propria identità e, quindi, al proprio desiderio, come una ragazza che in gelateria non riesce a scegliere i gusti che preferisce, ma introietta le scelte degli altri. La situazione mi pare seria, perché la cultura in cui siamo immersi, con il consumismo emotivista che la caratterizza, provoca tale degenerazione cognitiva. René Girard stesso, nel suo libro sull’anoressia, ha citato l’esempio di una regione delle isole Fiji, dove prima che arrivasse la televisione via cavo, l’essere in carne era ritenuto segno di bellezza e salute, mentre era insorta l’anoressia dopo l’esposizione ai nuovi modelli mediatici.45 Oggi veniamo bombardati da stimoli emotivi che continuamente cercano di “programmare” il nostro desiderio. La persona non impara poesie a memoria, non si trova mai a dover riassumere, cioè disegnare mappe, non ha uno spazio interiore dove conservare le memorie emotive per poterle richiamare nella sua relazione con il reale. In un certo senso siamo spinti a funzionare come mera risposta compulsiva a stimoli emotivi che si trovano nel cloud mediatico. Ciò innalza sia il livello di autismo, sia il panico causato dalla mancanza di mappe. Oggi il Super-Io non è assente, ma invisibilmente attivo. Non c’è neppure la possibilità di prendersela con lui, come fa Emone. In un certo senso si potrebbe dire che siamo di fronte ad un meta-Super-Io, cioè il Super-Io di un Super-Io, molto più infido, perché esclude anche la possibilità della reazione dialettica, come nell’attaccamento Cfr. R. Girard, Anoressia e desiderio mimetico, Lindau, Torino 2009.
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inverso tra genitori e figli. Ne è dimostrazione il prolungamento indefinito dell’adolescenza, dalla quale non si riesce ad uscire, coerentemente con l’assenza di iniziazione, cui si è accennato. L’antropologia trinitaria permette di leggere, qui, il valore funzionale ed ontologico della corrispondenza tra emozioni, sentimenti e relazioni. Le prime si giocano sul confine tra soma e psiche, come dimostrano le farfalle nello stomaco e analoghe reazioni fisiche, ma la loro radice è nei sentimenti, i quali, invece, si situano sul confine tra psiche e spirito. Essi, infatti, possono rivelare disposizioni spirituali profonde come l’amore e la compassione. Infine, le relazioni sono la causa ultima di tale sequenza, costituita proprio dalla causalità relazionale. Si noti, infatti, come quanto detto sia sintonico rispetto alla lettura del rapporto tra corpo e logos di Gregorio di Nissa e all’analogia psicologica di Agostino. Tutto ciò va tenuto ben presente nell’educazione e nella formazione spirituale, dove la trasmissione di una mappa è essenziale per la costituzione dell’identità. I cristiani, infatti, hanno ricevuto tale nome per la prima volta ad Antiochia, nel momento in cui hanno iniziato a convertirsi dei pagani.46 Prima un discepolo di Gesù era semplicemente un ebreo che aveva riconosciuto in Lui il Messia, come nel caso di Saulo-Paolo. Ma quando il primo non ebreo ha seguito Cristo, si è posto seriamente il problema della sua identità e, quindi, del nome. La risposta è stata relazionale: il cristiano è definito da un nome che dice relazione con Cristo, perché la sua identità è proprio tale relazione e non meramente una dottrina, una morale, una tradizione. Ancor di più, l’identità del cristiano è la relazione a Cristo che a sua volta è relazione al Padre, cioè relazione di relazione. Così, se ogni atto formativo esige la compresenza di mappe e relazioni, quindi di identità e molteplicità, nel caso del cristianesimo tale compresenza è essenziale e dipende radicalmente dal fondamento trinitario della fede. Quindi, a rigor di logica, non si può formare l’identità cristiana perché essa consiste nella relazio Cfr. At 11,26.
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ne con il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo. L’identità cristiana è, infatti, sempre opus Dei, opus Trinitatis. La tradizione, il dogma, la morale e così via, non ne sono il contenuto, ma la forma, la mappa. Con un’immagine si potrebbe dire che formare l’identità cristiana è come insegnare una lingua: la validità del processo dipenderà dalla capacità di relazione con la corrispondente comunità linguistica, relazione grazie alla quale crescerà la capacità stessa di esprimere sé stessi, perché nessuno può avere la pretesa di possedere e comunicare tutta una lingua, realtà relazionale e sociale per eccellenza. E ciò non significa che non bisogna imparare termini a memoria o studiare la grammatica, solo che tali passi sono funzionali allo sviluppo della relazione. Ciò vale a maggior ragione ed eminentemente per l’identità cristiana, in quanto Dio è Mistero infinito e l’unica lingua che permette di conoscerlo è il Logos stesso, cioè l’Unigenito che è nel seno del Padre.47 Se sempre la formazione deve mirare ad educare esploratori, questo è essenziale nell’ambito spirituale. Un errore tipico sarebbe quello di sacralizzare non la relazione ma la mappa, cercando di riprodurre un’identità estrinseca e formale, magari copia dell’immagine di un santo o di un fondatore. Ciò equivarrebbe, infatti, a idolatrare la propria origine, tradendola perché non se ne riconosce la dimensione generativa e, quindi, relazionale. Non si tratta, invece, di ripetere quello che chi ci ha generato ha detto o fatto, ma di continuare a stare nella relazione con Cristo nella quale Egli ci ha introdotto. E questa è la volontà di Gesù stesso, il quale ha detto: «In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre».48 Il testo è estremamente significativo, perché il discepolo farà cose più grandi di Cristo, proprio per Cristo, cioè nella Sua relazione al Padre. Nessun libro conterrà mai la relazione, perché «il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere».49 Cfr. Gv 1,18. Gv 14,12. 49 Gv 21,25. 47 48
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Quindi la formazione all’identità cristiana non può assolutamente essere la trasmissione di una forma, perché significa introdurre ad una relazione eccedente rispetto alla realtà del formatore stesso, in quanto relazione con il Padre infinito, il Padre dei padri, il Padre di tutti i padri che sono anche figli. La formazione spirituale avrà, dunque, in primo luogo una funzione diairetica, perché dovrà distinguere delitto, peccato e malattia. Il primo obbedisce alla legge di necessità estrinseca, che non si può violare senza incorrere in una sanzione, ed è l’ambito del diritto. Il peccato, invece, riguarda l’ambito della libertà, dove il riferimento è alla giustizia. Se la differenza tra i due scompare, si è in un regime totalitario, dove non si ha più spazio per l’interiorità dell’uomo e la sua libertà. Infine, si ha l’ambito della malattia, dove nuovamente il riferimento è alla legge di necessità, questa volta intrinseca al soggetto. Ad esempio, un ossessivo può percepire come peccato e come delitto un comportamento che tale non è. Così Edipo non doveva confessarsi per quello che aveva compiuto. Il primo atto di cura della formazione spirituale sarà, dunque, la protezione dell’immanenza relazionale della persona, fondamento della libertà. E questo è oggi quanto mai urgente, perché il sistema mediatico punta a invadere in modo manipolativo ogni spazio interiore delle persone, creando dipendenza, cioè patologia. Ma un ragazzo una volta mi ha detto di sentirsi più confuso di un camaleonte sulle M&M’s. Se il fondo è assolutamente polimorfo e multicolore, il meccanismo difensivo va in crisi. Mi sembra una magnifica metafora della postmodernità e dell’opportunità che essa offre. Le crisi di panico derivano anche da qui. Ma il sintomo è l’unica via di salvezza e nella formazione cristiana, come nella psicoterapia, risulta essenziale percorrere la via del sintomo. La malattia, infatti, ha anche una funzione evolutiva. Anche i greci lo avevano intuito come dimostra l’endiadi sofferenze-insegnamenti (παθήματα-μαθήματα) che risale ad Esopo.50 Anche Eschilo, Si tratta dell’epitimio della favola Il cane e il cuoco, in cui un cane domestico invita un cane randagio nella cucina di casa, ma il cuoco, pensando voglia rubare, lo bastona. 50
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nell’Agamennone, ha scritto: «Zeus, che conduce i mortali sulla via della conoscenza, Zeus il quale ha stabilito che la saggezza si conquista attraverso la sofferenza».51 In questa tragedia di Eschilo il ritorno del re dopo la vittoria a Troia è annunciato alla sua sposa Clitennestra dalla vedetta sul tetto della casa, a lei che attende il ritorno del marito per vendicarsi di aver sacrificato agli dèi la bellissima figlia Ifigenia per ottenere venti favorevoli e con essi la partenza per l’impresa bellica. Radicalmente simmetrico rispetto a questa immagine tragica, che produce morte, è quella del padre del figlio prodigo, il quale scruta l’orizzonte per scorgere il figlio che torna e correre a perdonarlo.52 Tale narrazione può essere considerata il paradigma della formazione dell’identità cristiana, perché il padre non vuole evitare che il figlio minore sbagli, né vuole preservare le sostanze. Nemmeno si sente responsabile come Creonte. Ma il suo atteggiamento è una disposizione indefettibile di conferma al figlio che rivela la forza superiore alla morte della loro relazione reciproca. In questo modo il figlio può tornare perché conserva la relazione interiorizzata con il padre anche nell’esperienza del limite e della miseria e, tornando, scopre che il suo vero patrimonio è proprio quella relazione che fonda la sua identità di figlio. Così la dimensione esodica, essenziale per l’identità cristiana, come per quella ebraica,53 è via di accesso alla realtà più profonda che non è concettuale, ma relazionale. Per questo Cristo stesso «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (καίπερ ὢν υἱός, ἔμαθεν ἀφ’ ὧν ἔπαθεν τὴν ὑπακοήν).54 Torna qui l’endiadi citata con ἔμαθεν-ἔπαθεν. Il Logos è, infatti, Eschilo, Agamennone, 177. Anche Erodoto dice di Credo di Lidia «Il disastro è stato il mio maestro» (Erodoto, Le storie, 1,207). 52 Cfr. Lc 15,11-32. 53 In ebraico, ebreo si dice ivrit, che significa “colui che attraversa”, in modo tale che l’ebreo errante è, di fatti, portatore e custode dell’identità ebraica stessa. 54 Eb 5,8. 51
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entrato nei delitti (si pensi alla sua condanna e al buon ladrone), nei peccati (l’adultera, il pubblicano) e nelle malattie (ciechi, lebbrosi, storpi) degli uomini. Nel deserto delle nostre miserie, Egli è Sé stesso, cioè Figlio del Padre che è sorgente, perché porta nel limite la relazione con l’infinito e la sua presenza. Il Vangelo, la Buon Novella, è che le difese concettuali, le rigidità che proteggono l’immanenza, non sono l’ultima parola, perché l’identità è più forte, tanto da creare crepe e fessure nei nostri muri attraverso le quali l’eccedenza del reale può farsi presente. Imparare dall’obbedienza alla sofferenza è il cammino non solo del criminale, del peccatore o del malato, ma di ogni figlio di uomo che non può sfuggire alla tensione tra il proprio limite creaturale e il proprio desiderio di infinito. Così il sintomo è via alla libertà. Ogni criminale, ogni peccatore, ogni malato, e radicalmente ogni uomo, è un figlio, destinato alla libertà e dotato di eredità come il figliol prodigo, che deve attraversare il deserto per essere sé stesso. Obbedienza, infatti, deriva da ob-audire, dal verbo che indica l’ascolto profondo del reale e quindi anche della tensione che costituisce la propria identità. Ogni formatore e ogni terapeuta svolge, dunque, un ruolo analogo a quello sacerdotale, perché come Mosè accompagna il popolo sulla via difficile, aiutando a superare la tentazione idolatrica, dal ricordo della carne e dei cocomeri dell’Egitto fino al vitello d’oro, per portare sulla soglia della terra promessa, dove però il discente deve entrare da solo, perché solo giocando la propria libertà può davvero entrare in relazione, sfuggendo la prigione delle proprie rappresentazioni mentali. Allora, il padre, il formatore, lo psicoterapeuta mostrano nella loro vita, nello stare in relazione con chi è stato loro affidato, che la penombra non si spiega a partire dall’ombra, ma dalla luce, perché la penombra stessa è relazione reale alla luce. Solo così può non essere condanna quella tensione tra finito ed infinito, che dalla prospettiva antropologico-trinitaria costituisce l’identità più profonda e ineludibile di ogni uomo. Infatti, come spiega Pierpaolo Donati, la relazione è un effetto 118
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emergente, cioè, in termini ontologico-trinitari, è un surplus di essere che costituisce la relazione stessa e tiene anche laddove le costruzioni concettuali e le difese di coloro che sono in relazione giungono al limite. La critica biblica all’idolatria è qui fonte essenziale. Creonte stesso si pone di fronte ad Emone come un idolo e il figlio manifesta la grandezza dello spirito greco tentando di purificare tale atteggiamento attraverso il richiamo alla ragione e al rapporto con il reale. In ciò il percorso della tragedia è parallelo a quello della metafisica, come la morte di Socrate dimostra. Il sintomo, la sofferenza, la delusione dell’esistenza concreta, tutto questo entra in tale processo, perché ogni uomo tende a sostituire il soggetto esistente concreto con un oggetto mentale rivestito di un valore ideale infinito. Ma tale difesa sempre fallisce per la finitezza del soggetto che inevitabilmente delude, provocando sofferenza. Eppure, l’unica via è proprio stare nel finito grazie alla relazione che è nuovo essere che sorge dentro il limite. Tra l’idolo e la relazione non c’è altra scelta, in modo tale che psicoterapia e formazione spirituale, pur nella loro differenza, possono essere considerate alleate. Si noti che l’approccio proposto è formulato in termini laicali attraverso il ricorso alla relazione. Da una prospettiva di fede l’effetto emergente si chiama grazia in quanto, come dice Gesù, il Regno di Dio è in mezzo, tra, di noi,55 mentre più in generale si può chiamare comunità, comunione, relazione, e ogni realtà più grande della propria. Tutto ciò è fondamentale per la formazione all’identità, perché senza relazionalità l’identità è percepita come determinazione, e quindi limite che condanna. Se l’unica possibilità è quella imposta da Creonte, o la simmetrica reazione dialettica a questa, non si esce dalla dimensione intellettuale e non si accede a quella sorgente di essere che l’effetto emergente della relazione porta dentro il limite. Si noti, infatti, che, se i beni relazionali sono veri beni, genereranno altri beni relazionali, perché bonum diffusivum sui. Quindi una vera relazione diventa sempre rela Cfr. Lc 17,21.
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zione di relazioni, aprendo al reale. Obbedire ad esso non è, così, più condanna ad una legge estrinseca, ma sviluppo di una legge intrinseca. L’identità non è più statica, de-terminata da concetti, ma, a partire da una rappresentazione concettuale, che svolge la funzione di una mappa, essa si configura come viaggio, nel reale e in Dio. Infatti, se l’identità è relazione di relazioni, allora essa è sempre già e non ancora. Come per il seme, una dimensione essenziale è data, ma in verità essa è donata, cioè è relazione libera al donante che, nel momento in cui è accolta, si fa dono ridonato, generando relazione. Questa, quindi, è e non è insieme, senza violazione alcuna del principio di non contraddizione, ma esattamente come il seme non è l’albero ma lo è già e l’albero non è il seme ma è ancora il seme stesso. Si vede qui il superamento dell’aporia metafisica e la forza dell’ontologia relazionale e di un’antropologia che si richiami ad essa, per mostrare che tale essere e non essere non è contraddittorio in quanto rinvia alla vita, all’essere insieme, ad un’identità relazionale, appunto. Questa è nello stesso tempo come una freccia e come una traccia, non come un concetto statico. Ciò si rivela proprio in dimensioni eminentemente relazionali oggi segnalate dalle patologie, quali il corpo o la narrazione del sé, che teologicamente richiamano il legame tra l’ontologia trinitaria e la teologia del corpo e della storia. La formazione non deve, dunque, essere razionalista, ma relazionale. E il padre, il formatore o il terapeuta non può fare di sé stesso un idolo, ma deve rinviare al Padre (o laicamente al reale) che è sorgente, di ogni bene e di ogni relazione, perché solo questa riesce a tenere conto del fatto che l’identità c’è già, ma deve ancora essere sviluppata. Non è tutto determinato dall’inizio, ma è dato tutto all’inizio, così come non tutto è determinato dal soggetto, quasi potesse essere indipendente dai rapporti con gli altri. Una categoria – teologica nella sua origine – che può aiutare è proprio quella di dono, richiamata dalle parole di Antoine de 120
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Saint-Exupéry poste in esergo, poiché essa è intrinsecamente relazionale. L’identità è dono e in quanto tale non dipende solo dal donante, né solo dal ricevente. Da questa prospettiva, formare all’identità significa, dunque, aiutare a stare tra la determinazione dell’impegno e l’eccedenza della missione attraverso la cura dell’apertura relazionale. Questa, nell’educazione, è rinvio al reale come fondamento di quanto si insegna, mentre nella formazione spirituale è più radicalmente rinvio al Mistero del Dio uno e trino cui si ha accesso nella relazione con lo Spirito Santo, il Quale permette di riconoscere la presenza del Risorto, via di accesso al Padre, che, come sorgente, riversa vita in ogni limite, in ogni situazione, per quanto dura sia, delitto, peccato o malattia. Così, a livello estremamente pratico, mi sembra che i formatori dell’identità cristiana debbano ispirarsi al rapporto tra la Scrittura e i Padri della chiesa, perché, come ha detto Joseph Ratzinger, il senso della Parola si può cogliere solo nella relazione tra chi ha parlato e chi ha ricevuto e pensato per primo quella Parola.56 Per questo non basta la Scrittura da sola, che rischia sempre di essere ridotta in termini concettuali, ma bisogna stare nella storia della relazione. Ciò significa imparare a lavorare su quella relazionalità che fonda l’identità cristiana ed ecclesiale. Più in generale il rapporto formativo può essere inteso come aiuto a percepire e curare la relazione in tutte le sue forme. Storie, teatro, letture, dialogo e domande sono elementi fondamentali di tali processi. Ad esempio, oggi non si pratica più a livello scolastico il riassunto, mentre esso può rivelarsi estremamente importante per formare uno sguardo capace di riconoscere le relazioni narrative. Allo stesso modo, nella direzione spirituale, la domanda aperta è uno strumento potente, perché rinvia all’oltre del reale e non rinchiude in una teoria già precostituita. Più in generale, un’indicazione pratica offerta dall’antropologia Egli mette in evidenza il gioco di parole in tedesco tra Wort (Parola) e Antwort (risposta), presentando i Padri come quella risposta che è essenziale per la comprensione della domanda posta dalla rivelazione della Parola. Si veda, J. Ratzinger, Natura e compito della teologia, Jaca Book, Milano 1993, 157. 56
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trinitaria è quella di far emergere la dimensione performativa e narrativa delle mappe, mettendo la persona in grado di non trasformarle in un idolo o in una difesa che blocca l’esplorazione, ma in punti di partenza del viaggio dell’identità. Nella presente rilettura pastorale ho fatto riferimento principalmente all’approccio cognitivo-comportamentale, perché più spesso, in questi anni, ho avuto modo di interagire con terapeuti di tale orientamento. Però quanto detto può essere riletto anche dalla prospettiva psicoanalitica, in particolare se si considera l’inconscio come dimensione relazionale dell’uomo, che Freud interpreta in modo più pulsivo, Jung da una prospettiva più simbolica e Lacan in chiave linguistica.57 Il cammino proposto permette di rileggere tale percorso, spesso percepito come alieno alla metafisica e, per certi versi, anche alla religione, proprio come approfondimento di una dimensione autenticamente ontologica che la relazione ricompresa alla luce del pensiero trinitario permette di percepire. Non è casuale che proprio il lavoro per riconoscere la teologia come episteme sviluppato dai Padri Cappadoci, tra i quali Gregorio di Nissa stesso, si sia rivelato utile per confermare lo statuto epistemologico della psicanalisi stessa, che, per quanto detto, non ha spazio in un approccio cartesiano.58
Il passaggio dalla Wille zur Lust di Frued, alla Wille sur Macht di Adler e, quindi, alla Wille zum Sinn di Frankl può essere letto in chiave relazionale come un’estensione progressiva dell’analisi psicoanalitica ad un dominio più generale, non limitato alla patologia, dove, come detto, il pensiero è retto dal determinismo della difesa sclerotizzata. In particolare, l’approccio logoterapico presenta una naturale prossimità all’ambito teologico per la valenza della categoria di logos, che l’ontologia trinitaria permette di rileggere in chiave relazionale. Lo stesso si può dire di Jung e Lacan, le cui prospettive sull’inconscio ricorrono a categorie, quali il simbolo e la parola, fondamentali nello sviluppo del pensiero teologico. 58 Cfr. G. Maspero, Remarks on the Relevance of Gregory of Nyssa’s Trinitarian Doctrine for the Epistemological Perspective of 20th Century Psychoanalysis, «European Journal of Science and Theology» 6 (2010) 17-31. 57
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5. Conclusioni Il percorso proposto ha preso le mosse dalla metafisica greca, mostrando come essa fosse gravida di un’insolubile ed enigmatica aporia, quella del rapporto con il fondamento dell’essere dell’uno e del molteplice. Tale aporia è implicita nella definizione stessa di identità, in quanto questa è sospesa tra l’idem e l’ipse, cioè tra l’essere sé stessi in riferimento ad un altro, come nell’identità categoriale, o nell’essere sé stessi da sé, in una solitudine metafisica che non ammette relazioni, come nel caso del motore immobile aristotelico, l’ipsum esse subsistens. Nei termini dell’Antigone, la tensione irresolubile è tra Emone e Creonte: per il primo l’identità dipenderebbe totalmente dal padre, di cui egli dovrebbe essere replica depotenziata, mentre il secondo si pone come fondamento di sé stesso, senza riferimento ad un reale più grande. Nel mondo greco questo era possibile e logico, perché le coordinate ontologiche, sia di Dio sia del mondo, erano l’eternità e la finitezza. Il primo principio è finito ed eterno, come il mondo, cui è legato attraverso una catena di cause necessarie, attraverso l’identificazione dell’essere con l’intellegibile. La rivelazione cristiana portò ad un ripensamento della metafisica alla luce della Trinità, in base al quale Dio ha un di dentro dove si situano le tre Persone divine, conoscibile solo attraverso la relazione perché la relazione stessa le costituisce. Questa, che per Aristotele era un accidente, anzi, il meno denso ontologicamente degli accidenti, in quanto nel suo caso non basta una sola sostanza perché possa sussistere ma ne servono due, viene ora riconosciuta nell’immanenza divina, cioè nel puro atto eterno e, adesso, infinito. Il dare origine alle altre due Persone divine da parte della prima viene, così, riletto in termini di causalità relazionale, in quanto il Padre, il Figlio e lo Spirito sono la stessa sostanza, non nel senso di idem, ma in quello di ipse. I tre sono l’ipsum esse subsistens, ma ciascuna è idem rispetto all’altra, in quanto ciascuna è Persona relazionalmente identificata dal rapporto con le altre due. In tal modo l’aporia della metafisica greca viene risolta, attraverso lo sviluppo di una nuova ontologia, pro123
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lungamento di quella precedente. Ora l’essere non si identifica più con l’intellegibile, poiché solo il Logos, quindi la seconda Persona divina, è la conoscenza di ogni cosa, nel suo rapporto inseparabile rispetto alla terza Persona, che è l’Amore. La causalità non può più essere ridotta al rapporto necessario tra causa ed effetto, in quanto l’origine di ogni cosa è personale e ha la sua origine ultima nell’immanenza della sostanza divina, terra inconoscibile dalla ragione dell’uomo, se non attraverso l’incontro con il suo Dio. Nella nuova ontologia trinitaria sviluppata dai Padri della Chiesa, come Gregorio di Nissa e Agostino, l’identità non è più legata al rapporto tra forma e materia o tra atto e potenza che aristotelicamente costituisce ogni sostanza, tranne il motore immobile nella sua ipseità. Ma Dio stesso, in quanto Trinità, è l’identità relazionale del Padre e del Figlio e dello Spirito, secondo la quale ciascuna Persona è sé stessa nel rapporto con le altre due. Tale nuova concezione dell’identità, attraverso la causalità relazionale, passa all’uomo, creato ad immagine e somiglianza del suo Dio unitrino. Così sia il corpo, sia la psiche, sia lo spirito della creatura razionale sono segnate dalla relazionalità e, dunque, da un’identità che non può essere ridotta all’appartenenza ad una categoria concettuale, né alla negazione dialettica di tale appartenenza, ma che nello stesso tempo e per la stessa ragione, cioè per la relazione, rinvia a sé e agli altri, ad ipse e ad idem. L’uomo è, infatti, dotato di un’analoga immanenza rispetto a quella divina, immanenza che ancora è la dimensione dove le relazioni abitano. Solo che per la creatura tali relazioni non si identificano con una persona (secondo l’idem) e con una sostanza (secondo l’ipse). Eppure, ciascuna di esse rinvia a persone reali, che in questo caso sono anche sostanze diverse, attraverso l’interiorizzazione delle relazioni con loro. L’essere umano è, così, dotato di un di dentro, di una dimensione da proteggere, che è quella dove nascono la libertà e il dono. L’esperienza pastorale o formativa in generale, che solo è chiamata a riconoscere, ma non a curare le patologie, suggerisce che queste possano essere considerate difese sclerotizzate. La teologia, 124
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in particolare la sua dimensione antropologico-trinitaria, dovrebbe aiutare a sviluppare la dimensione di dono, quindi a proteggere in modo relazionale, e non razionalistico-concettuale, l’immanenza personale. Ciò significa proprio prendersi cura dell’identità intesa come relazione. Ma questo implica che l’identità stessa sia fondata nello stesso tempo nell’uno e nel molteplice. Questo è il punto per il quale il superamento teologico dell’aporia metafisica greca risulta fondamentale. Infatti, l’eccedenza del reale rispetto al pensiero dell’uomo dipende dalla relazione fondante dell’essere creato rispetto all’unitrinità del suo Creatore. L’uno e il molteplice dell’identità umana possono non collidere nell’ambito extra-mentale perché sono in relazione ontologica con il fondamento stesso, che trinitariamente è uno e molteplice. Ciò significa che la relazione fa passare essere e vita, è canale di un dono reale, che permette di riconoscere il limite come luogo di incontro con l’oltre di Dio e dell’altro. Formare all’identità relazionale vuol dire allora esercitare la paternità educativa, spirituale, terapeutica, o di ogni tipo, come figli nel Figlio, cioè sottraendosi ad ogni riduzionismo idealizzante che riporterebbe alla rigidezza intellettualista del mondo greco, per rinviare relazionalmente all’unico Padre che non è figlio, perché è la sorgente di ogni paternità in cielo e in terra.59 Tale compito si esplicherebbe nel fornire nello stesso tempo mappe e relazioni, mappe che possano essere riconosciute come doni proprio attraverso la capacità relazionale che permette di riformulare continuamente e originalmente quanto si è ricevuto. L’identità relazionale così promossa permette di essere sé stessi non nonostante il limite, ma attraverso di esso, perché il dono del padre, di ogni padre, è la scoperta che il limite può essere luogo del profitto. La tensione ineludibile tra la finitudine creaturale e l’infinitezza del proprio desiderio può, così, rivelarsi terra promessa e luogo di sviluppo dell’identità. L’ontologia e l’antropologia relazionali possono, allora, contribuire alla scoperta che «l’uomo è ricco anche delle proprie miserie».60 Cfr. Ef 3,14-21. A. de Saint-Exupéry, Volo di notte, Mondadori, Milano 2005, 6.
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Formazione dell’identità e relazione interiorizzata: prospettiva teologica
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Giulio Maspero
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seconda parte pratiche
l’identità nell’approccio costruttivista: coerenza, coesione e continuità nell’evoluzione della persona Davide Armanino
Negli ultimi decenni il tema dell’identità è diventato sempre più centrale nello studio della psicopatologia e della strutturazione della personalità, sia sul versante del benessere e del buon funzionamento sia sul versante patologico. A seguito di un dibattito internazionale che ha coinvolto i più autorevoli clinici dei principali approcci terapeutici i sistemi diagnostici maggiormente riconosciuti, quali il DSM dell’American Psychiatric Association e l’ICD della World Health Organization, stanno virando con decisione verso una concezione dimensionale della diagnosi. Tale concezione, sostenuta da una considerevole mole di studi empirici, vede nei processi di costruzione, sviluppo e mantenimento del Sé e della Relazione interpersonale i due assi portanti della personalità e del suo buon funzionamento. La patologia si configura così come una compromissione o potremmo dire un irrigidimento, una restrizione o un impoverimento dei normali meccanismi di funzionamento, collocandosi a diversi livelli lungo un continuum dimensionale, un gradiente di una scala che procede idealmente da un funzionamento ottimale con le sue caratteristiche di ricchezza, flessibilità, capacità di integrazione e di sintesi unitaria e, all’altro polo, una compromissione estrema del Sé e delle Relazioni con perdita dei confini, confusione, incapacità di stabilire e perseguire obiettivi personali e di entrare in relazione con l’altro. 131
L’identità nell’approccio costruttivista
Nel DSM in particolare viene delineata una griglia di funzionamento composta dal Sé nelle sue dimensioni di Identità e Autodirezionalità e dalle Relazioni Interpersonali nelle sue dimensioni di Intimità ed Empatia. Non è questa la sede per esplorare in modo approfondito questo sistema che in realtà presenta notevoli spunti e indicazioni di osservazione e cura della persona. Piuttosto sembra qui rilevante notare come il concetto di identità costituisca l’asse portante di un intero sistema diagnostico, ossia una modalità di concettualizzare la persona nelle sue dimensioni di benessere e malessere. Di più, con questo sistema diagnostico si esce da una concezione della patologia come qualcosa di intrinsecamente altro dalla salute, come agente patogeno estraneo ed esterno, la cui natura ed essenza risultino in qualche modo aliene rispetto alla persona. Di conseguenza si concettualizza la cura come un tentativo di ristabilire le proprietà intrinseche di ricchezza e flessibilità di funzionamento interno, piuttosto che come azione di contrapposizione al malessere. In estrema sintesi a scopo di chiarezza il male viene qui concepito come una assenza di bene, reindirizzando potenzialmente sia la concezione della persona sofferente sia la direzione del trattamento. Questo orientamento risponde in realtà anche ad una crescente consapevolezza ed esperienza clinica. È sempre più evidente in fatti che per occuparsi delle sindromi e dei sintomi che si presentano all’osservazione clinica è prima necessario un percorso di consolidamento della conoscenza e della padronanza di sé nel paziente. Diversamente si rischia di costruire su un terreno franoso. Giungono in misura crescente alla consultazione psicoterapeutica persone che hanno un incompiuto senso di identità personale ed insufficiente conoscenza e padronanza di sé. Per estensione, pur con le dovute cautele e le debite differenziazioni, viene da chiedersi se questo problema possa riguardare in qualche misura anche le realtà educative e formative. Qual è la qualità e la natura della relazione ove questa sia vissuta da una persona che non presenti un senso di sé stabile e coeso? Come 132
Davide Armanino
si differenzia una proposta formativa forte dall’intrusione nel senso di sé e dalla violazione dei confini personali in alcuni casi già labili o assenti? A che livello di consapevolezza e profondità si lavora nel formare ossia dare una forma ad una persona che si presenta a monte come indeterminata, intermittente o con un’identità ed un senso di sé per così dire liquido o informe? E quale può essere in questo caso l’affidabilità e la durata degli esiti formativi? Alcune riflessioni sembrano accomunare l’ambito clinico a quelli educativo e formativo. Se la diagnosi come discernimento chiama ad una competenza tecnica e scientifica sulla natura ed i meccanismi della patologia essa deve non di meno essere utile indicazione per il processo terapeutico ossia anzitutto e soprattutto indicare quali sono le risorse disponibili su cui fare leva per un processo di cambiamento e cura. Immediatamente successiva alla comprensione del problema si presenta la responsabilità della scelta della modalità e della direzione dell’intervento. L’approccio alla persona deve essere processuale, prospettico, evolutivo, superando un atteggiamento più tradizionalmente medico di tipo nosografico, tassonomico e classificatorio. Approccio questo più tradizionalmente attento all’individuazione del malfunzionamento ed alla messa in atto di una terapia come forma di contrasto al principio patogeno, all’origine eziopatogenetica. In modo simile alcuni approcci educativi e formativi rischiano di essere prematuramente correttivi, potremmo dire quasi ansiosamente vincolanti ed anticipatori degli esiti e delle direzioni di crescita auspicate. Anche in ambito educativo e relazionale in senso lato l’unica possibilità concreta di raggiungere la persona e promuoverne la crescita sembra quella di avvicinarsi il più possibile alla persona per come è, valorizzandone realmente e consolidandone le caratteristiche e le peculiarità. Si parte dunque dall’identità personale e non dalla validità della proposta formativa. Più che al termine formazione sembra opportuno in questo senso fare riferimento al concetto più alto di educazione, intesa come e-ducere, con133
L’identità nell’approccio costruttivista
durre fuori, promuovere l’identificazione e lo sviluppo delle caratteristiche personali ed identitarie della persona. Questo non significa affatto rinunciare alla proposta di un modello che si ritenga valido, anzi potremmo dire che nessuna forma educativa può considerarsi neutra. Al contrario il meccanismo di imitazione ed identificazione con un modello è la forma più potente ed efficace di apprendimento, vero e proprio motore di sviluppo e crescita. Tale efficacia è comprovata da secoli di educazione alla virtù alla base dello sviluppo delle società occidentali, è stata confermata dagli studi di psicologia dell’età evolutiva e trova oggi ulteriore conferma nella scoperta dei neuroni specchio in ambito neuropsicologico. Ma proprio la consapevolezza di questa forza deve indurre ad un senso di responsabilità grave nella proposta di un modello educativo. Spetta a chi si propone come modello la consapevolezza dell’efficacia e della forza trasformativa dell’azione educativa. Per questo è ancora più necessario partire dalla e tenere conto della identità della persona formata. Allo stesso tempo, non essendovi la possibilità di un’educazione neutra non risulta plausibile ipotizzare un’educazione che non influenzi. Simulare una neutralità impossibile può avere esiti confusivi e manipolatori che di fatto portano a risultati esattamente contrari a quelli auspicati da una educazione efficace, quali la non consapevolezza e la non piena padronanza di sé, in ultimo una mancanza di fiducia e libertà. Chi entra in una relazione educativa dovrebbe piuttosto essere consapevole di questa non neutralità e mantenere elevate quote di autenticità e messa in gioco di sé quali antidoti e contrappesi al potere esercitato. Anzi potremmo dire che una relazione autentica espone necessariamente al rischio del dolore, della delusione e di una trasformazione di sé. La relazione avviene fra due termini. Se la relazione è vera entrambi sono esposti al cambiamento. Come in chimica l’unione di due elementi produce una natura terza che è altro da entrambi.
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La relazione autentica costituisce un delicato crinale che espone a due possibili scivolamenti, da un lato l’illusione di trasmettere informazione, formazione e modelli senza esporsi alla potenzialità del cambiamento, rimanendo come non contaminati e distaccati dal processo. Dall’altro quello di poter davvero trasmettere questi contenuti senza tenere conto e conoscere a fondo (o forse dovremmo dire amare?) l’altra persona, come se si potessero “applicare sopra” alla struttura di base della personalità, aggiungersi senza essere metabolizzati. In questo secondo caso si creano identificazioni adesive che sembrano svolgere il compito di vicariare momentaneamente un’identità incerta piuttosto che produrre un risultato trasformativo sorprendentemente unico, consapevole e duraturo nel tempo poiché interiorizzato. La concezione della personalità esposta all’inizio ci viene in aiuto nel comprendere le condizioni necessarie e fondamentali del processo di sviluppo della personalità. Da un lato identità e autodirezionalità. Una direzionalità autonoma e autodeterminata, non governabile e non prevedibile dall’esterno, basata sulle caratteristiche di differenziazione di sé in termini di identità personale unica e irripetibile. Dall’altro una relazione basata su intimità ed empatia, duratura e potenzialmente critica e trasformativa per entrambi i soggetti in gioco. 1. Contributo del Costruttivismo: un caso clinico Al fine di comprendere più approfonditamente le dimensioni sopra trattate procederemo con una esemplificazione clinica tratta dall’esperienza professionale. Il caso esposto è una ricostruzione di fantasia, ma inerente temi e vissuti ripetutamente riscontrati nella prassi clinica. L’inquadramento teorico clinico che useremo è di tipo cognitivo costruttivista. Maria è una ragazza di 22 anni. Studentessa universitaria fuori sede vive attualmente in un collegio universitario dove si è integrata bene, socializza con le compagne e partecipa attivamente alle attività di formazione proposte dal collegio. È carina di aspetto, ha movenze e modi femminili, sorride spesso, è educa135
L’identità nell’approccio costruttivista
ta e tendenzialmente gentile, appare moderatamente estroversa, ma brillante e sufficientemente assertiva. Si applica molto nello studio con ottimi risultati, è in corso e ha una media alta nelle votazioni degli esami. Recentemente, a seguito di una bocciatura ad un esame si è chiusa in sé stessa e ha smesso di mangiare, suscitando la preoccupazione di coloro che vivono con lei. Maria proviene da una famiglia composta da papà, mamma e un fratello minore di anni 16. Il padre è un professionista stimato e ben inserito nel tessuto lavorativo e sociale della sua città, ma il lavoro lo porta spesso ad essere assente da casa. Nel corso dello sviluppo fino all’adolescenza Maria ha stretto con il padre un rapporto che potremmo definire privilegiato: il padre è diventato per lei il modello di riferimento, specie per il prestigio professionale ed il conseguente riconoscimento sociale ottenuto. Con il progredire degli anni, tuttavia, il loro rapporto si è progressivamente raffreddato e distaccato. L’eccessiva e quasi esclusiva attenzione del padre verso i risultati scolastici e sportivi della figlia e i lunghi periodi trascorsi fuori di casa per lavoro hanno ristretto progressivamente i temi e i contenuti di dialogo e autentico confronto fra di loro. Maria sente forte l’aspettativa di papà, che le ha concesso di studiare fuori, e nutre grandi speranze sul suo percorso di studi, parlandone apertamente ad amici e colleghi in ogni occasione. La madre di Maria si occupa quasi a tempo pieno della famiglia. Dopo essersi diplomata e aver lavorato come impiegata per qualche anno, alla nascita del fratello minore la madre rinuncia al lavoro per occuparsi della famiglia e dei figli. Attenta, premurosa e sempre presente, a tratti un po’ intrusiva e controllante, la madre non è per Maria un modello con cui identificarsi. Maria è infatti desiderosa di dimostrare il suo valore nel percorso di studi e sogna un inserimento lavorativo pienamente soddisfacente ed una naturale emancipazione dalle relazioni e dall’ambiente familiare. Con il passare del tempo la madre rappresenta sempre meno la figura con cui potersi confrontare e confidare come invece è stata in passato. Il fratello minore, d’altro canto, è sempre 136
Davide Armanino
stato troppo distante e diverso per età ed interessi da Maria. Il loro legame è connotato da un sincero affetto, ma da una vicinanza relativa. In questo quadro, che potremmo definire comune e normale per percorso e caratteristiche, si inseriscono alcuni episodi che segnano lo sviluppo di Maria e che ci spingono a osservare meglio e più a fondo alcune delle sue caratteristiche di personalità. Il primo è un incidente sportivo avuto giocando a tennis a 15 anni, in cui riporta la rottura del polso proprio durante le gare finali di un importante torneo interscolastico. Durante queste gare il padre accompagna quasi sempre Maria ed è molto coinvolto emotivamente, elemento questo inconsueto e che contribuisce ad alzare la tensione nel vissuto della ragazza. L’incidente interrompe bruscamente questa sequenza di vissuti ed il padre fatica a celare la sua amarezza e delusione. A seguito di questo episodio Maria si chiude relazionalmente, appare spenta, distaccata e disinteressata a quelle che sono le normali attività ed interessi della sua età, suscitando la progressiva preoccupazione dei genitori. Questo lieve stato depressivo si risolve nel giro di qualche mese, ma Maria non giocherà mai più a tennis, rispondendo con rigidità e durezza al fallimento vissuto. A nulla valgono i tentativi da parte dei genitori e del maestro di tennis di sdrammatizzare l’episodio nello sforzo di integrarlo nel normale percorso esperienziale di un’attività sportiva svolta a livello agonistico. A 18 anni Maria viene corteggiata da Luca, un compagno di scuola di due anni più grande che da diverso tempo ha interesse nei suoi confronti. La relazione consiste in un lungo corteggiamento da parte di Luca in cui Maria, pur fantasticando con piacere ed eccitazione sulla possibilità di avere una relazione con lui, fatica a fidarsi e a manifestare apertamente il suo interesse nei suoi confronti. Le sue emozioni oscillano fra la fantasia di un amore perfetto e pienamente soddisfacente e una paura, quasi un rigetto, all’idea di avvicinarsi a lui, specie fisicamente. Non riesce a mettere a fuoco le sue emozioni in modo netto e distinto, 137
L’identità nell’approccio costruttivista
finendo col dipendere emotivamente dagli episodi, ora esaltanti ora deludenti, che via via si susseguono e facendosi costantemente influenzare dalle valutazioni delle amiche. Sembra più ansiosa di comprendere quanto le altre ragazze trovino attraente Luca piuttosto che cercare di sentire cosa lei stessa provi. Inebriata dal manifesto interesse di Luca prolunga la fase di corteggiamento, sentendosi al centro della scena e dell’attenzione nella compagnia che entrambi frequentano. Nel comprendere il valore di Sé dal suo essere desiderata cerca contemporaneamente di comprendere il valore di Luca dal suo essere “oggettivamente” desiderato dalle altre. In questo modo è come se cercasse di dare corpo e definizione ai suoi sentimenti dall’esterno, vivendo come nel riflesso dello sguardo altrui. Una continua ricerca di conferme esterne che finisce paradossalmente per aumentare la sensazione di indefinitezza e confusione interiore fino ad un possibile senso di vuoto. Questo episodio si prolunga finché “improvvisamente” Luca avvia una relazione con una amica di Maria appartenente alla stessa compagnia. La delusione è talmente forte che Maria si ritira dalla compagnia non volendo più incontrare nessuno, come se fosse stata “vista”, messa a nudo nella sua inadeguatezza. Se Maria avesse un funzionamento mentale ancora più rigido questa situazione potrebbe dare luogo ad un rimuginio in cui la ragazza immagina di essere derisa, presa in giro e disprezzata dalla compagnia. Elemento questo che non potrebbe essere disconfermato proprio in virtù del comportamento evitante di ritiro dalla compagnia da lei stessa agito. In generale la delusione provata è talmente forte da costituire una profonda disconferma della propria identità e parallelamente minare le relazioni interpersonali. Questo episodio modifica il senso di Sé in termini di autostima e amabilità personale e aggrava la sfiducia ed il timore che Maria già provava nel mettersi in relazione con l’altro. Tutto questo avviene in un’apparente inconsistenza dei fatti, dal momento che all’esterno non è successo nulla di rilevante. La storia affettiva con Luca non è neppure incominciata. Non sono i fatti esterni a contare quan138
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to l’interruzione del senso di continuità personale, il prendere forma interiormente di una sfiducia verso di Sé e verso gli altri, un senso di inadeguatezza personale che può assumere i toni dell’indegnità e la modalità del disprezzo. Invece di cogliere gli elementi che lei stessa ha messo in atto e che hanno portato a questa sofferenza o, in alternativa, verificare i sentimenti ed i pensieri altrui tornando in compagnia o parlando a Luca, Maria ripromette a se stessa che non presterà più attenzione ai suoi sentimenti, precludendosi la possibilità di crescere nella conoscenza di sé, di lasciarsi sbagliare, fidandosi di sé. Reagirà allo scacco subito in termini di amabilità personale con un sovrainvestimento sull’autostima, aumentando con la volontà, l’intelligenza e la determinazione la sua competenza e bravura. Da qui aumenterà il suo perfezionismo e la sua rigidità. Nello stesso tempo aumenterà il suo timore del giudizio altrui e la sua attenzione ad evitare possibili altre delusioni, evitando di mettersi in gioco e precludendosi così l’esplorazione progressiva di Sé e del mondo. Per la seconda volta, dopo l’incidente subito giocando a tennis, il sistema risponde con un restringimento ed un irrigidimento del suo funzionamento. Una perdita di ricchezza e flessibilità come precedentemente delineata. Ma mentre si può fare a meno di giocare a tennis nella vita, non si può fare a meno di fare i conti con i propri sentimenti e con l’amore, vissuto o negato che sia. Giunta all’età universitaria Maria, fedele al suo impegno con sé stessa, supera brillantemente le selezioni di ingresso all’università e al collegio universitario dove deve risiedere. È veloce, brillante, molto attenta a non mostrarsi e a non lasciar spazio a emozioni negative che possano essere colte dall’altro. Permane il suo bisogno di sentirsi giudicata positivamente dall’altro e adeguata, anzi adeguatissima al contesto. Socializza in modo superficiale e fugace con tutti, quanto basta per essere apprezzata. In realtà non ha relazione intime, durature e profonde, non è disposta a farsi mettere in crisi da un’amicizia profonda. Non sa realmente cosa prova, la sua identità è basata sul fare, sulla pre139
L’identità nell’approccio costruttivista
stazione, molto più affidabile, oggettiva e soprattutto molto più sotto il suo controllo e alla portata delle sue capacità previsionali. Tutto sembra procedere al meglio fino al primo fallimento universitario. Di nuovo all’esterno non succede nulla di rilevante, nulla che non faccia parte di un normale iter di studi. Al primo evento disconfermante tuttavia Maria reagisce come sempre chiudendosi e ritirandosi e questa volta con un comportamento di restrizione alimentare. Quello che si vede dall’esterno è di nuovo un elemento di apparente ed inspiegabile discontinuità nel comportamento e nel vissuto di una ragazza brillante, socievole e determinata. Le responsabili del suo collegio universitario tentano comprensibilmente di avvicinarsi a lei e di motivarla. Nello sdrammatizzare l’episodio, tuttavia, rischiano di farla sentire ancora più inadeguata. Reiterano la sensazione di essere vista e messa a nudo nella sua incapacità, resa ancora più evidente dall’inconsistenza dell’accaduto. Cercano di dare forma a questo malessere, ponendosi come modelli e cercando di trasmettere la loro esperienza. Nel farlo non possono sapere che il problema origina proprio dall’allocentrismo di Maria, dal suo derivare il suo sentire dall’esterno. Dal suo prendere provvisoriamente forma dal contesto per sentirsi momentaneamente adeguata, salvo perdere così l’opportunità di sentirsi veramente, mettendo timidamente a fuoco le prime indeterminate emozioni. Maria distoglie il suo sguardo da questa opportunità, non si conosce e non si sente e cerca di evitare l’inquietudine e lo smarrimento provocato dal suo mettere a fuoco le emozioni. Chiunque da fuori cerchi amorevolmente di “salvarla” dandole una forma, offrendole un modello, di fatto le preclude la possibilità di crescere. Le figure di riferimento rischiano di reiterare in qualche modo il comportamento che le amiche avevano avuto nell’episodio di Luca, aumentando inconsapevolmente il senso di inconsistenza e inadeguatezza di Maria e spingendola verso uno stato di confusione e disorientamento crescente.
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Se guardiamo invece da dentro il paradigmatico caso di Maria cogliamo il senso del suo vissuto, la coerenza con cui lei risponde agli eventi invalidanti, il suo strutturarsi in organizzazione di vita e del sentire, il suo sempre più disperato e arroccato tentativo di escludere le sue emozioni, di diventare perfetta eliminando ogni sbavatura e flessibilità nella risposta alle disconferme. Maria conosce un solo modello di risposta e continua a metterlo in atto in modo sempre più rigido e pervasivo. La scuola cognitivo costruttivista chiama queste organizzazioni di personalità “contestualizzate” o “psicosomatiche”. Tali organizzazioni sono connotate da un generale senso di inconsistenza di sé ed indefinitezza e faticano ad accedere alle proprie sensazioni ed emozioni. Ciò che si perde è l’immediatezza, la spontaneità e la vividezza del sentire, fino a configurare un basilare disturbo dell’autoconsapevolezza. Le sensazioni che provengono dal mondo interno della persona restano vaghe, incerte e confuse dando luogo ad una labilità emotiva, una continua oscillazione emotiva che si traduce in cicli di idealizzazione e delusione nei confronti di sé e del mondo. In questa sofferente incertezza la ricerca di una regolarità e prevedibilità si rivolge completamente al mondo esterno. Nel tentativo di ristabilire un senso di coesione, coerenza e continuità personale la persona rivolge la sua attenzione selettiva alla lettura del giudizio altrui, nell’aspettativa costante di critiche e incomprensioni e nel tentativo di evitarle adeguandosi adesivamente al contesto e ai desideri altrui. Il recupero di un senso di valore e amabilità personali viene così affidato all’approvazione altrui. Sentirsi ammirati e desiderabili da parte dell’altro diventa la bussola che orienta nella nebbia dell’indefinitezza interiore. Ne consegue che l’atteggiamento verso di sé dipende direttamente dalle conferme o disconferme esterne, oscillando fra il valore assoluto e la critica più spietata. La persona risulta ipersensibile ai momenti di approvazione ed eccessivamente vulnerabile alle disconferme. Il mondo diventa ambiguo, in quanto potenzialmente foriero di attesissime conferme e temutissime delusioni. La delusione in particola141
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re diventa l’emozione, cifra del sentire personale declinata nella doppia accezione del timore di deludere gli altri o essere delusi dagli altri. A queste vulnerabilità la persona con organizzazione contestualizzata risponde con la riduzione dell’esposizione di sé, cui consegue la perdita di quote crescenti di autenticità e spontaneità. Il recupero del controllo viene così affidato da un lato all’immagine fisica di sé e al controllo del proprio corpo nei suoi bisogni primari, a cominciare dal cibo e dalla magrezza e dall’altro lato ad un perfezionismo rigido ed una adeguatezza formale in termini di comportamento. Entrambe queste dimensioni risultano maggiormente controllabili e oggettivabili garantendo un momentaneo ed apparente recupero di stabilità in situazioni di potenziale scompenso del sistema. Ciò che sembra opportuno sottolineare è che il sistema si organizza da dentro e mantiene una coerenza ed un senso di continuità personale a dispetto delle apparenti discontinuità mostrate esternamente. L’organizzazione e la processualità di questo sistema hanno basi affettive ed emotive. Qualunque altra componente del sé e dell’esperienza vissuta passa in secondo piano. Quando il sistema non riesce ad integrare all’interno della sua coerenza le emozioni che prova o gli eventi a cui è esposto arriva a piegare il mondo esterno alle esigenze di quello interno. Dall’autoinganno fino al delirio abbiamo prove costanti di questo principio. In ordine al mantenimento dell’identità personale la persona può rinunciare alla sua stessa vita, confinando il principio di sopravvivenza dell’individuo o della specie al ruolo di driver secondari rispetto a quello del mantenimento della coesione e dell’identità personale. Il sacrificio di sé dei martiri cristiani, la scelta di una madre di dare alla luce un figlio sacrificando la propria vita personale, ma dando piena espressione alla propria identità di madre, il decidere da parte di un paziente di lasciarsi andare o non mangiare più per affermare la propria esistenza ed identità ne sono alcuni emblematici esempi. Qualunque intervento che dall’esterno tenti di imprimere una forma o di trasmettere informazioni ed esperienza resta nel 142
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migliore dei casi periferico, nel peggiore dei casi iatrogeno e lesivo. L’unica strada affidabile e percorribile è la conoscenza da dentro di come si costruisce ed evolve la coerenza interna basata sulle emozioni di stato ricorrenti. Ha poco senso tentare di sfondare a spallate una porta di cui si possono possedere le chiavi. Il costruttivismo insegna che la mente costruisce e ricostruisce continuamente qualunque stimolo interno ed esterno. Credere ingenuamente in una comunicazione che si trasmette in modo fedele e didascalico mantenendo lo stesso senso e contenuto nei due interlocutori coinvolti significa, in ultima istanza, non conoscere le modalità di funzionamento della mente. Solo a titolo di esempio se si considera che la stessa tridimensionalità della visione viene ricostruita dalla corteccia occipitale, in quanto l’occhio presenta in origine una visione bidimensionale, si ha un’idea del contributo attivo e ricostruttivo della mente già a livello percettivo e sensoriale. Risulta evidente, di conseguenza, quanto i vissuti ed i significati cambino completamente a seconda delle persone, acquisendo sensi e salienze profondamente differenti e non di rado antitetici. La conoscenza in termini di competenza psicologica sicuramente è un’ottima base di partenza per orientarsi. Se Maria si presentasse nel mio studio cercherei di destrutturare sistematicamente ogni pensiero precostituito, ogni forma, conformazione e ruolo da lei momentaneamente assunto. Con delicata fermezza la porterei a riappropiarsi lentamente delle sue sensazioni fisiche di base, a cominciare dal porle domande apparentemente semplici e banali sulla sua percezione di quanto caldo o freddo c’è in studio e come percepisce la sedia, morbida o rigida. Già le categorie di comoda o scomoda riferite alla sedia sarebbero rischiose, perché implicherebbero un suo potenziale giudizio sull’adeguatezza dello studio e potrebbe temere di deludermi essendo inappropriata. Un esempio questo semplice, ma che ci fa comprendere quanto si lavori a livello di basilare costruzione del vissuto ed appropriazione del proprio sentirsi. Maria probabilmente non sa se la sedia è comoda o scomoda, è abituata 143
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ad avere accesso alla sua esperienza passando dalla mente, in modo disincarnato e sempre riferito all’interlocutore. Il suo dato sensoriale non è rilevante e saliente nella costruzione della sua esperienza personale. Partendo da queste semplici basi cercherei di ricondurre Maria ad appropriarsi del proprio sentire, allargando la base della propriocezione e focalizzando la sua attenzione cosciente, ed in seguito la sua osservazione di sé nella vita quotidiana, sulla costruzione di un dizionario somatosensoriale ed emotivo sempre più ampio e differenziato. Maria ha bisogno di ricostruire un accesso diretto a sé, di poter ridere di pancia, dire delle sciocchezze senza giudicarsi, giocare, esplorare, sbagliare e crescere. In una parola essere libera di vivere a partire da come è e da quello che realmente sente, di cui non porta responsabilità. La responsabilità intesa come respons-abilità, ossia capacità di risposta, si declina solo in un secondo momento. Preso atto di ciò che provo sono poi libero di declinare le mie azioni in modi molto diversi. Mi dovrò in un secondo momento riappropriare di queste modalità di azione assumendomene progressivamente la responsabilità. Non si può controllare ciò di cui non si ha padronanza e non può esserci libertà e responsabilità nell’inconsapevolezza. Nell’accompagnare Maria in questo percorso la relazione con lei sarà un fattore determinante, illuminando almeno parzialmente lo snodo esistente fra identità personale e relazione interpersonale, al centro delle nostre riflessioni. La relazione con Maria dovrà contenere quote rilevanti di autenticità da parte mia. Abituata alla strumentalità della relazione e a mettere l’altro al centro del suo pensiero per mettersi lei al centro, ossia ad usare l’altro come specchio della sua adeguatezza, Maria dovrà fare esperienza di un altro significativo, allo stesso tempo, libero di essere sé stesso e liberante nei confronti dell’altro. Per sgomberare il campo dalla strumentalità e dal formalismo dell’adeguatezza dovrò trasmetterle il mio interesse per lei, per ciò che prova e per come si vive al di là e ben oltre l’adeguatezza del suo comportamento. Dovrò riuscire a trasmettere la continuità 144
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della sua identità per me al di là della discontinuità e mutevolezza del suo agire. L’identità della persona conosciuta affettivamente è qualcosa che va ben oltre il suo comportamento. Se una persona che conosco e amo fa una sciocchezza non assume automaticamente ai miei occhi l’identità di uno sciocco, bensì continua ad essere la persona che amo e conosco che ha fatto una sciocchezza. Questa permanenza, questa continuità e coerenza del sentire è la cifra ed il filo dell’identità personale e la relazione può esserne il tessuto di costruzione o la forbice che la taglia interrompendone la continuità. È così che l’identità nasce, nella relazione ed in una incessante oscillazione fra similarità e differenziazione, entrambe necessarie. Solo l’altro può donarmi la potenzialità di riconoscermi. Ma per farlo dovrà partire dalla conoscenza e dal rispetto del mio sentire, non sovrapponendo il suo sentire al mio, bensì rispecchiando ed amplificando il mio sentire in una relazione che molti studiosi attuali definiscono analogica, ossia un risuonare dell’altro in modo analogo al mio sentire. A ben guardare, la relazione costituisce lo stesso tessuto della coscienza e della coscienza di sé. A titolo esemplificativo chiunque venga posto in una condizione di isolamento e privazione sensoriale sviluppa dopo circa 72 ore sintomi dissociativi ossia perde le caratteristiche di sintesi ed unitarietà psicologiche. Il dissociare permetterà allo sventurato di entrare in relazione con parti di sé come se fossero altro da sé, vicariando la relazione interpersonale che è necessaria per il funzionamento del normale flusso di coscienza. Tornando alla relazione con Maria l’autenticità liberante sarà il requisito per lei di riconoscersi e incominciare a tratteggiare la sua identità di cui l’altro diventa momentaneamente garante e custode. Accanto a questo fondamentale ruolo l’altro dovrà, allo stesso tempo, stare attento a non invadere Maria con i propri contenuti emotivi. Maria è estremamente permeabile e condizionabile e i suoi confini del sé sono scarsamente delineati. Nei disturbi alimentari questo tema sovente si concretizza nel sintomo, dove 145
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il cibo come elemento esterno ed estraneo a sé invade intrusivamente la persona e deve essere espulso mediante il vomito o l’uso di lassativi. Maria si adegua immediatamente all’altro assumendone valori e perfino sembianze, ma questi contenuti, non metabolizzati e fatti realmente propri a causa di una mancanza di identità, diventano ben presto elementi estranei da rigettare una volta raggiunto il silenzio della sua solitudine. Come possiamo coniugare l’autenticità dell’essere se stessi con il non invadere l’altro con le nostre emozioni? Partendo dall’altro, dal suo sentire e dal significato che ha per lui e non dalla giustezza o dalla forza o dalla bontà delle nostre convinzioni. Esiste un modo di essere autentici e, allo stesso tempo, profondamente aperti all’altro, ma il punto di partenza deve essere la comprensione dell’altro. Si parte dal non pensare di sapere, in quella che alcuni hanno definito una dotta ignoranza. Una onestà emotiva, una sincerità emotiva non facile da tenere se si considera che il modello didattico ed educativo a cui implicitamente facciamo riferimento è basato sulle diadi maestro/allievo, esperto/inesperto, specialista/paziente, ecc. Se non si parte dall’identità non ci può essere una vera relazione e senza una vera relazione l’altro non può integrare nella sua identità ciò che ci sta a cuore trasmettergli. Prima di concludere è opportuno sottolineare che quello di Maria è solo un esempio di organizzazione di personalità. Certamente è un’organizzazione di personalità tipica e talmente frequente da portare alcuni clinici a considerare la sua diffusione una sorta di pandemia. Forse potremmo definirla una vera e propria conformazione dell’identità giovanile nella cultura attuale. Esistono tuttavia diverse altre organizzazioni oggi conosciute nel loro percorso di strutturazione e sviluppo. Ne conosciamo le emozioni prototipiche e la loro oscillazione ricorsiva, i temi di vita ed i significati con cui vengono elaborati, le configurazioni relazionali più frequenti e fortunatamente anche le porte di accesso, le “chiavi” che permettono da un lato di avvicinarsi e comprendere profondamente il loro sentire e la loro coerenza 146
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interna, dall’altro di essere consapevoli dei rischi e degli ostacoli che si dovranno superare all’interno della relazione e del loro percorso di individuazione personale. In ultimo per completezza riprendendo la griglia di lettura che si era proposta all’inizio possiamo guardare il caso di Maria attraverso le categorie della diagnosi di personalità alternativa del DSM-5. Si elenca di seguito, in sintesi, una valutazione del grado di compromissione presente in ciascuna delle quattro dimensioni della sua personalità: Dimensione del Sé Identità – disfunzione moderata. Dipende eccessivamente dagli altri per definirsi. Ha un’autostima vulnerabile, controllata da preoccupazioni esagerate di giudizi esterni, con desiderio di approvazione. Ha un senso di inadeguatezza con autovalutazioni compensatoriamente gonfiate o sgonfiate con senso di minaccia e presumibili emozioni di rabbia e vergogna. Autodirezionalità – disfunzione lieve. È eccessivamente orientata all’obiettivo ed in qualche misura inibita rispetto agli altri obiettivi con limitazione di alcuni aspetti di realizzazione personale. Sopravvaluta un singolo aspetto di autoconoscenza (intellettuale- cognitivo) a discapito di altri (emotivo). Dimensione Interpersonale Empatia – disfunzione minima/lieve. Risulta capace di comprendere le esperienze e le motivazioni degli altri, ma resiste a farlo. In talune situazioni tende a vedere gli altri come aventi irragionevoli aspettative o un desiderio di controllo su di lei. Nella relazione con Luca fatica a decentrarsi da sé e a comprendere il punto di vista dell’altro. Intimità – disfunzione grave. La capacità di creare legami positivi e duraturi appare compromessa. Le relazioni sono basate sulla convinzione di un forte bisogno di intimità dell’altro, ma, allo stesso tempo, su aspettative di abbandono che la portano ad oscillare fra sentimenti di coinvolgimento intimo e sentimenti di 147
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paura/rigetto. Le relazioni intime sono prevalentemente basate sul soddisfare bisogni auto-regolatori e di autostima. 2. Considerazioni conclusive Il tema della permanenza e della continuità del sentire personale in termini affettivi ed emotivi costituisce l’asse portante dell’identità. Solo la qualità e la natura di alcune relazioni permettono alla persona di sentirsi, conoscersi e riconoscersi, attraverso l’oscillazione ricorsiva che si crea nel continuo movimento di avvicinamento e allontanamento dall’altro, alternando vissuti di similarità e differenziazione. È così che viene a delinearsi la tessitura del Sé. Alcune relazioni, non solo quelle primarie con i genitori, sono in grado di raggiungere questo livello di profondità e di orientare ed influenzare profondamente la struttura e lo sviluppo dell’identità personale. Sebbene la psicologia clinica sia in grado oggi di comprendere i meccanismi di origine e sviluppo di tali processi, come si è cercato brevemente di mettere in luce, il tema di queste relazioni e dello sviluppo dell’identità investe ed è a pieno titolo inerente gli ambiti educativi e formativi. Si tratterà allora di acquisire piena consapevolezza del portato e della cruciale importanza di questi processi. Facendo brevemente riferimento a categorie fenomenologiche potremmo dire che le emozioni ed i valori sono la chiave per comprendere le azioni e le esperienze personali. Le emozioni strutturano l’autostima, l’amabilità personale, l’immagine di sé, il senso di continuità e l’identità nonché, a dispetto di quanto si riteneva non molto tempo fa, i processi di pensiero ed il funzionamento della memoria. Esse inoltre motivano e direzionano il comportamento e giocano un ruolo centrale nel situare la persona ed orientarne la ricettività. Questa funzione di orientamento nel mondo della vita è ciò che forse meglio coglie l’oggetto e la funzione dei processi educativi. Le emozioni stabiliscono la qualità e la natura dei significati che imprimono ordine all’esperienza, strutturandoli in valori 148
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personali, ossia ciò che veramente conta per la persona. Nell’esperienza soggettiva i valori possono essere letti come emozioni che si stabilizzano nel tempo, orientando nella persona la coscienza e la scelta del suo destino. Spesso gli aspetti etici e razionali sono posti in primo piano nell’azione educativa. Le emozioni, tuttavia, costituiscono la materia e la stessa possibilità di un’azione educativa, una sorta di a priori da cui non si può prescindere. Si tratta di piani diversi e non necessariamente conflittuali, ma con un preciso ordine di priorità oggi più che mai chiaro. Nei fatti questa priorità viene sovente messa in secondo piano. La speranza e la potenzialità di una azione educativa che raggiunga questi livelli di profondità e influenza porta alla responsabilità della conoscenza e della consapevolezza del loro funzionamento e conseguentemente alla responsabilità di proteggere e favorirne lo sviluppo. Non tutti i modi di definire l’identità e non tutte le forme di relazione posseggono in fatti queste caratteristiche. Quando si hanno idee e progetti educativi forti, ad esempio, il rischio è quello di cercare di imprimere questi contenuti ritenendoli validi e funzionanti a prescindere dal contesto, dalle situazioni e soprattutto dalle soggettività cui le si propone. Come si diceva all’inizio, l’illusione qui è quella di pensare di sovrapporre questi contenuti alla persona. A volte la convinzione è così forte da dare luogo ad apparenti successi, con fenomeni di adesione anche molto duraturi nel tempo. Le personalità che derivano la loro stabilità personale dall’esterno o dalla ricerca di criteri oggettivi assoluti, come nell’esempio del caso di Maria o in altre specifiche e diverse conformazioni, sono molto frequenti e diffuse. Purtroppo, non di rado il percorso di individuazione personale porta queste persone a prendere consapevolezza di sé molto tardi nel corso di vita, con esiti dolorosi che rendono difficile la ricomposizione di queste esperienze in una storia di vita unitaria e sufficientemente coesa e sensata.
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Un altro profilo di rischio riguarda lo stesso strutturarsi in organizzazione delle agenzie educative. È questo un tema che per vastità ed implicazioni meriterebbe un approfondimento a parte. Molto spesso le organizzazioni muovono da valori fondativi originari chiari e definiti. La vita e le modalità di azione delle prime persone coinvolte nella storia organizzativa crea una cultura condivisa cui i membri del gruppo aderiscono con entusiasmo e forte motivazione. Ovviamente questo porta a vantaggi e svantaggi. Procedendo esclusivamente dal punto di vista della nostra analisi inerente l’identità, il rischio qui è che i processi di imitazione ed identificazione con il messaggio e con le prime figure storiche siano talmente forti da non lasciare spazio alle declinazioni personali di tale messaggio, che sono inevitabilmente diverse e tante quante sono le persone che lo colgono. La ricchezza e la varietà di queste declinazioni possono essere lette come pericolosa distanza e deviazione dal tracciato originario. Proprio in questo senso viene facilmente a crearsi un clima di implicita verifica all’adesione e all’adeguatezza rispetto alla cultura organizzativa, con codici spesso impliciti e non esplicitati e che può consistere nell’induzione di un fare, ossia di una serie di comportamenti, oppure di un sentire, nel dover inibire alcune emozioni e manifestarne altre. A volte questo porta a curiosi fenomeni di gemellarità fra i membri del gruppo. È evidente quanto questo contrasti ed ostacoli lo sviluppo di quella autenticità ed unicità necessarie all’interiorizzazione personale e alla libera espressione che sono alla base della solidità e durevolezza della crescita individuale. Una riflessione analoga può essere fatta attorno al tema del ruolo. Per organizzare è necessario stabilire dei ruoli. Quando questi vengono violati lo stress e l’angoscia indotta è molto forte, poiché il ruolo è un’identità. Ma è un’identità nel senso dell’idem, una medesimezza, un essere sempre uguali. Potremmo dire che è una continuità definita da criteri esterni. Questa sorta di garanzia e difesa del proprio ruolo è un sigillo identitario rigido 150
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che tende a collocare sé stessi e gli altri in una posizione predefinita. Si creano così distanze codificate ed immodificabili, il contrario di quel movimento di avvicinamento-allontanamento necessari alla promozione dell’identità personale intesa come permanenza del sentire e riconoscimento dell’unicità. In generale, per concludere, qualunque “strumentalità” delle relazioni, un volere qualcosa, un voler produrre oppure ottenere un esito dall’altro costituisce una minaccia alla relazione di riconoscimento come qui intesa. Innumerevoli sono le declinazioni della strumentalità relazionale, anche in ambito affettivo. Il rischio qui è quello di fare scivolare l’altro dalla posizione di soggetto a quella di oggetto, seppur con le nostre migliori intenzioni, non rispettando quei meccanismi auto-generativi di libertà e indeterminatezza altrui che soli possono garantire il loro autentico bene. Le relazioni intime ed empatiche in cui sia possibile riconoscersi, esprimere e consolidare l’identità personale costituiscono la più importante fonte di felicità o di sofferenza nella vita di ciascuno di noi. Lungo questo crinale si gioca la possibilità di esperire indicibili sofferenze che a volte appaiono soverchianti, insensate ed interminabili o, al contrario, quote di gioia, pienezza e soddisfazione personale tali da arrivare ad evocare le categorie della meraviglia. Chi, come me, ha fatto esperienza di queste relazioni in ambito formativo ne conosce l’inestimabile valore e l’enorme influenza nel suo essere uomo in ambito personale, affettivo e professionale. Questo incommensurabile dono ricevuto si trasforma in una grave e positiva responsabilità. Vale la pena studiarlo. Vale la pena proteggerlo. Bibliografia American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 5th edition, American Psychiatric Publishing, Arlington VA, 2013.
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L’identità nell’approccio costruttivista
J. Balbi, Terapia cognitiva post-razionalista. Conversazioni con Vittorio Guidano, Alpes, Roma, 2014. B.G. Bara, Il terapeuta relazionale, Bollati Boringhieri, Torino, 2018. D.S. Bender, Level of personality functioning: an essential clinical consideration, Psychiatric News, American Psychiatric Association, 2018. V.F. Guidano, The Self in Process. Toward a Post-Rationalist Cognitive Therapy, The Guilford Press, New York,1991 (trad. it. Il Sé nel suo divenire, Bollati Boringhieri, Torino, 1992). M.A. Reda, Sistemi Cognitivi Complessi e Psicoterapia, Carocci, Roma, 1986. G. Stanghellini, Noi siamo un dialogo. Antropologia, Psicopatologia, Cura, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
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Educare l’identità relazionale Nicolò Terminio
1. Dalla clinica all’educazione Vorrei partire da tre punti. Il primo riguarda un episodio avvenuto durante una delle prime riunioni di un gruppo di ricerca sull’educazione affettiva e sessuale (un gruppo con cui ho collaborato per tre anni). In quell’occasione avevo sottolineato che il lavoro educativo sull’affettività è estremamente importante anche in funzione preventiva rispetto a tutte le forme di dipendenza patologica che possiamo osservare in ambito clinico. Rispetto a questa osservazione una docente mi chiese in che modo l’educazione affettiva fosse collegata con la tossicodipendenza o l’alcolismo. Le risposi che l’irresistibile compulsione verso le sostanze deriva da una disregolazione emotiva e affettiva che scaturisce dalle difficoltà relazionali incontrate dal soggetto durante la sua crescita. Il secondo punto riguarda una frase dello psicopatologo Gaetano Benedetti che sosteneva che la psicosi ci mostra ciò che ci rende umani proprio nel momento del suo dissolvimento.1 La psicosi è una delle forme psicopatologiche più gravi, ma anche tutti gli altri sintomi psicopatologici ci permettono di osservare in statu detrahendi quali sono gli elementi imprescindibili per l’umanizzazione della vita. Inoltre, possiamo aggiungere che nella prospettiva psicodinamica e fenomenologica i sintomi Cfr. G. Benedetti (1992), La psicoterapia come sfida esistenziale, ed. it. a cura di G.M. Ferlini, Cortina, Milano 1997. 1
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Educare l’identità relazionale
sono sempre il segnale di un problema che coinvolge il soggetto e l’Altro: non possiamo comprendere un sintomo se non lo colleghiamo al campo relazionale (e sociale) del soggetto. Nella descrizione di un caso clinico si deve sempre considerare il rapporto tra il soggetto e l’Altro e il modo in cui il soggetto ha l’occasione per vivere il proprio slancio desiderante. Con il concetto di desiderio inconscio in ambito psicoanalitico si indica l’esperienza della vocazione. Come la vocazione il desiderio è una chiamata, una chiamata di cui non siamo padroni e che rimane sempre come un mistero, un mistero che non può essere del tutto compreso e che piuttosto siamo chiamati a vivere. Il terzo punto ci permette di sintetizzare i primi due. Si tratta di una citazione che ho ritrovato in uno scritto di Jacques Lacan2 e poi anche in un libro del filosofo dell’educazione Duccio Demetrio.3 È una frase di François de La Rochefoucauld che dice: «vi sono taluni che non sarebbero mai stati innamorati, se non avessero mai sentito parlare dell’amore». Senza un incontro generativo – che può avvenire nella vita familiare, in altri percorsi educativi o in altre esperienze relazionali e sociali – è possibile che un essere umano non diventi mai un soggetto capace di vivere l’amore. Sebbene l’essere umano sia predisposto per amare, dobbiamo considerare questa possibilità non come una condizione di partenza, ma come l’esito di un percorso relazionale ed educativo. In breve, senza una relazione sufficientemente buona con l’Altro e senza un percorso educativo capace di trasmettere la “generatività del desiderio”4 è possibile che un soggetto rimanga impantanato in relazioni disfunzionali e in pratiche di godimento che anziché essere generative sono dissipative. È un Cfr. J. Lacan (1953), Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in G.B. Contri (a cura di), Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974, 257. 3 Cfr. D. Demetrio, Silenzi d’amore. Scrivere i sentimenti taciuti, Mimesis, Milano-Udine 2015, 7. 4 Cfr. N. Terminio, La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico, pref. di C. Pontalti, Franco Angeli, Milano 2011. 2
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insegnamento che traggo dalla mia esperienza clinica e soprattutto dal lavoro terapeutico con i giovani e le famiglie, un lavoro che mi ha portato a formulare alcuni punti essenziali per l’educazione di un’identità relazionale. 2. Il compito della famiglia Nel mio lavoro clinico osservo sempre più delle situazioni familiari caratterizzate da dinamiche relazionali confusive. In modo sempre più frequente mi ritrovo ad ascoltare storie familiari dove il primo tempo della cura consiste nel dare trama a ciò che non fa trama. Se prendiamo come riferimento la psicopatologia fenomenologico-dinamica, sappiamo che ciò che non fa trama è il trauma.5 Con il termine trauma non dobbiamo immaginare solo degli eventi gravi, ma tutti quegli eventi che nelle storie delle famiglie limitano la possibilità di costruire una trama. Possiamo dire che costruire una trama è un modo per connettere i traumi: essi sono tali perché interrompono la costituzione della trama. Più precisamente, nella pratica clinica vediamo che da un lato ci sono delle famiglie che non trasmettono una trama perché la loro storia è caratterizzata da micro-eventi che impediscono di dare una rappresentazione alla traumaticità della vita, mentre dall’altro lato osserviamo delle famiglie dove non viene introdotta quella mancanza necessaria perché possa sorgere la dimensione del desiderio. Per intendere l’esperienza del desiderio possiamo riprendere l’analogia con la vocazione perché il desiderio come la vocazione è qualcosa che ci chiama, noi ci sentiamo chiamati dal desiderio. Nella vita familiare e nella sfida educativa il compito di ogni genitore in fondo è quello di aiutare i figli a entrare in rapporto con la propria vocazione. Credo che sia la cosa più importante che oggi debba fare un genitore per proteggere un figlio dalle insidie della vita, dall’imprevedibilità della vita. Cfr. Idem, A ciascuno la sua relazione. Psicoanalisi e fenomenologia nella pratica clinica, pref. di M. Rossi Monti, Alpes, Roma 2019. 5
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La psicoanalisi suggerisce che in quest’epoca dove i riferimenti sociali sono meno stabili e duraturi è ancora più importante puntare sulla dimensione della vocazione singolare di ciascun soggetto. Puntare sulla singolarità non vuol dire però fare a meno del legame dell’Altro, ma investire diversamente il proprio slancio desiderante verso l’Altro. 3. La credibilità della testimonianza Oggi i genitori fanno fatica a essere credibili con la generazione successiva perché a differenza di qualche decennio fa quello che funzionava per la generazione precedente non funzionerà più per quella successiva. Quindi il deposito di tradizione, di informazioni, di conoscenze che le generazioni precedenti hanno accumulato nel corso della loro storia familiare non garantisce più il futuro, il benessere e il successo dei figli. La cosiddetta “evaporazione del padre”6 implica il non credere più che quello che viene tramandato dalle generazioni ci garantirà nell’incontro con il Reale, con qualcosa che ci spiazzerà. È lì che la sfiducia dei giovani verso gli adulti, soprattutto in epoca adolescenziale, inizia a comparire: quello che mi viene insegnato non mi orienterà nell’affrontare la vita, nell’affrontare le sfide della vita.7 Nell’epoca del tramonto di ogni visione del mondo il compito dei genitori sembra più arduo perché sono cambiati i parametri sociali con cui i genitori si confrontano. Nella società del XXI secolo ciò che sembra orientare la progettualità di ciascuno è il criterio di performance e affermazione di sé. Anche la vita affettiva e familiare sembra doversi riferire a nozioni di competenza sociale e comunicativa, adattamento e flessibilità. In tal modo il criterio dell’autostima e della consapevolezza delle proprie capa J. Lacan, Nota sul padre e l’universalismo (1968), «La Psicoanalisi» 33 (2003) 9. 7 È possibile leggere in questa prospettiva anche le tesi sviluppate da Baricco a proposito dei barbari e della nuova civiltà digitale quando sottolinea che non esistono più i sacerdoti del sapere. Cfr. A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango, Roma 2006; Idem, The Game, Einaudi, Torino 2018. 6
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cità entra in gioco anche nel campo dei legami familiari. Essere genitori diventa così un lavoro nuovo che si deve a sua volta confrontare con i vincoli ideali vigenti. Come si fa a essere considerati dei buoni genitori? Ad affrontare il giudizio del proprio bambino? A evitare il fallimento in questo compito così essenziale? Ecco solo alcune delle domande che alimentano le preoccupazioni dei genitori contemporanei. Queste preoccupazioni sono però fuorvianti perché rischiano di rendere il rapporto tra genitori e figli come un ulteriore banco di prova per le proprie competenze personali e sociali. Abbracciando questa prospettiva si capovolge la fisiologia della trasmissione intergenerazionale perché i genitori dipendono dai figli, dalla valutazione che i figli fanno dei genitori. E così possiamo trovarci di fronte a casi limite dove i genitori non riescono a dire di “no” ai propri figli per paura di scontentarli, per paura che una qualche forma di privazione possa nuocere al loro sano sviluppo. In realtà, in questi casi i genitori cercano nei figli una conferma per il proprio narcisismo abdicando però al vero compito genitoriale che è quello di trasmettere la funzione virtuosa del limite e di testimoniare l’apertura verso il desiderio. Se il genitore è troppo preso dal conseguire un buon livello di autostima genitoriale darà priorità al consenso che può ottenere dai figli e non al conflitto intergenerazionale dove entra in gioco la difficile trasmissione del valore dei limiti. La nostra società non è più orientata dalla funzione del limite, i messaggi sociali dominanti rimandano semmai a un imperativo che promuove la spinta al soddisfacimento. La cosiddetta rinuncia pulsionale appare come una questione obsoleta e addirittura come una negazione della libertà dei singoli di scegliere la propria strada. L’esperienza clinica di chi pratica la psicoanalisi mostra però quanto l’assenza dei limiti lasci i soggetti smarriti e privi di riferimenti simbolici in grado di tracciare un percorso verso la propria singolarità. Il ricorso compulsivo e senza filtri alla soddisfazione immediata non consente infatti ai figli di scoprire il proprio desiderio. 157
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Ogni percorso educativo deve mirare alla promozione dell’esperienza virtuosa del limite, un’esperienza virtuosa perché costituisce il presupposto per poter avventurarsi nella scoperta di un desiderio inedito, un desiderio non omologabile a nessun imperativo sociale o familiare. Il compito genitoriale rimane ancora oggi quello che ogni generazione deve svolgere per quella successiva: garantire una cornice simbolica (tradizione) che possa custodire le occasioni in cui ciascun figlio può rinnovare ciò che gli è stato trasmesso rilanciandolo in un viaggio soggettivo che costituisce una pagina inedita nella trama delle generazioni.8 Durante alcuni incontri di formazione dedicati ai genitori mi capita spesso di citare alcuni versi con cui Khalil Gibran ricordava che le anime dei figli dimorano nella casa del domani e ai genitori non è concesso di visitarla neppure in sogno.9 Ecco la radice del mistero che riguarda il destino di ogni figlio. E si tratta di un mistero di cui i genitori possono prendersi cura – come suggerisce Alessandro D’Avenia nel suo libro L’arte di essere fragili – invitando i figli non a essere sicuri di se stessi ma stimolandoli a essere sicuri di essere se stessi.10 Questo è un punto cruciale per ogni trasmissione intergenerazionale: la funzione del limite può diventare virtuosa soltanto se si nutre della testimonianza del desiderio. A questo proposito ho sempre trovato illuminante l’ultima pagina del libro Le piccole virtù di Natalia Ginzburg dove possiamo leggere che se vogliamo salvare i nostri figli dobbiamo cercare innanzitutto di avere noi stessi una vocazione, perché solo l’amore per la vita genera amore per la vita. Si tratta di una prospettiva che è comune anche all’approccio relazionale-simbolico della scuola di Scabini e Cigoli. Per un intreccio tra il modello psicoanalitico lacaniano e quello relazionale-simbolico mi permetto di rimandare a due miei lavori già citati: La generatività del desiderio e A ciascuno la sua relazione. 9 G.K. Gibran (1923), Il Profeta, trad. it e cura di T. Pisanti, Newton, Roma 1995, 29. 10 A. D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano 2016, 34. 8
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Nicolò Terminio E se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l’abbiamo tradita, se abbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, a servirla con passione, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell’amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l’abbiamo, o se l’abbiamo abbandonata e tradita, per cinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amor paterno, o per qualche piccola virtù che si è installata in noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago al tronco dell’albero, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che siano assolutamente e senza scampo quali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi mancato; finiamo col chiedere a loro tutto quanto può darci soltanto la nostra vocazione stessa: vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se, per averli una volta procreati, potessimo continuare a procrearli lungo la vita intera. Vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se si trattasse non di esseri umani, ma di opera dello spirito. Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l’abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dell’ombra e dello spazio che richiede il germoglio d’una vocazione, il germoglio d’un essere. Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l’amore alla vita genera amore alla vita.11
Testimoniare il desiderio vuol dire riuscire a trasmettere ai propri figli l’esperienza di essere soddisfatti della propria vita anche nei momenti dove la nostra pazienza se n’è andata da parecchio tempo. Allora proprio quei momenti in cui i bambini fanno i capricci o gli adolescenti ci mettono in difficoltà sono l’occasione migliore per mostrare il nostro gusto di vivere con loro perché una relazione educativa non è soltanto un esercizio fatto di sacrificio dove mettiamo da parte le nostre esigenze per sopportare quelle dei nostri figli. Vista così l’educazione sarebbe una mera riproposizione del sacrificio e non invece l’opportunità per sentirci pienamente realizzati mentre ci accostiamo al vissuto dei nostri figli. Il desiderio non è un momento extra rispetto alle situazioni di tensione, ma è la via principale che ci permette di attraversarle con lo spirito giusto per sentirci realizzati men N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1984 (1ª ed. 1962).
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tre ci sintonizziamo con la tensione dei nostri figli, mentre siamo lì per dare un ritmo (e un destino) diverso a quel vissuto emotivo. Non si tratta soltanto di simbolizzare gli eventi emotivi che risultano insopportabili, non è solo una questione di pazienza amorevole, ma si tratta innanzitutto della spinta desiderante a dare una direzione e un senso a un nuovo al modo di vivere le emozioni e gli affetti. 4. L’amore di coppia e la funzione paterna Diversi psicoanalisti legano l’assenza di riferimenti valoriali del nostro tempo alla crisi del significato simbolico del padre, nell’epoca ipermoderna sembra che debba essere ripensata la figura del padre, però credo che la vera questione sia recuperare la dimensione dell’amore di coppia. Secondo la psicoanalisi ogni figura del padre trae forza e credibilità dalla capacità di esercitare la funzione paterna. Essenzialmente la funzione paterna consiste – così come ha efficacemente sottolineato Massimo Recalcati – nell’unire Legge e desiderio, ossia la dimensione universale dei vincoli sociali con la singolarità della propria vocazione.12 La funzione paterna non è trasmessa soltanto dalla figura del padre, ma anche da tutte le altre figure educative che ciascun soggetto può incontrare nel proprio percorso di formazione. La crisi attuale del significato simbolico del padre riguarda non solo la figura del padre, ma ogni altra figura deputata a trasmettere il legame virtuoso tra Legge e desiderio. Possiamo infatti osservare come ogni padre che voglia trasmettere la funzione paterna debba affrontare la sfida educativa senza il sostegno del discorso sociale dominante. Quello che osserviamo oggi nella pratica clinica è uno smarrimento sempre più marcato dei padri a interpretare e veicolare la funzione paterna. È una condizione che riflette un andamento ancor più generale che investe il discorso e l’immaginario sociale contemporaneo. Persino i M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina, Milano 2011. 12
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cartoni animati che vanno per la maggiore e che sono seguiti da intere famiglie (si veda per esempio la serie di Peppa Pig) mostrano ripetutamente un padre inabilitato a rappresentare la portata incisiva della funzione paterna. Il padre viene semmai rappresentato come il principale esponente di una impotenza radicale a vincere e a superare gli inciampi dell’esistenza. E la madre viene di conseguenza consegnata in modo esclusivo a una funzione critica verso il padre. Il padre debole e la madre che ironizza su questa debolezza è ormai uno schema narrativo che va dai cartoni animati alla pubblicità, dai romanzi ai film, dalla concretezza della vita quotidiana alle astrazioni più sofisticate. Grazie a tutto questo il mercato dei consumi spiega, addolcisce e, soprattutto, utilizza il declino della figura del padre. Oggi bisogna trovare un punto di appoggio per la figura del padre nell’ambito del legame di coppia tra padre e madre. La pratica psicoanalitica ci insegna che nella vita di ciascun soggetto un padre è stato in grado di trasmettere la funzione paterna soprattutto se la madre ha fatto posto alla parola del padre. Ogni volta che pensiamo al rapporto tra padre e figlio dobbiamo verificare lo sfondo della relazione della coppia genitoriale. Come ho già avuto modo di approfondire, il bambino recepisce la funzione paterna attraverso la declinazione particolare con cui la parola del padre entra in rapporto con la madre.13 La funzione paterna è dunque effetto del legame tra padre e madre, effetto del modo in cui i genitori si amano e si sono amati come marito e moglie. Nell’epoca contemporanea va dunque valorizzata ancor di più la dimensione dell’amore di coppia come elemento imprescindibile per non perdere il significato simbolico della funzione paterna. Se consideriamo la funzione paterna come l’effetto del modo in cui padre e madre testimoniano il loro incontro d’amore, allora gli sforzi futuri andranno concentrati non verso la riabilitazione di padri deboli, ma nel sostegno dei legami di coppia. È attraverso questa via che si potrà fare del legame di coppia non lo Mi permetto di rimandare a N. Terminio, Siamo pronti per un figlio? Amarsi e diventare genitori, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015. 13
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scenario del declino della funzione paterna, ma lo spunto per l’invenzione di un modo attuale di darne testimonianza. Per immaginare cosa voglia dire mantenere la dimensione del desiderio negli inciampi della vita di coppia possiamo fare riferimento al ballo del tango. Come suggeriva lo psicoanalista argentino-triestino Aldo Becce, nel tango ci sono dei momenti in cui si inciampa: se li si affronta cercando subito di addossare la colpa all’altro, allora il ballo si ferma, ma se invece si fa prevalere il desiderio di continuare a ballare allora quel momento di inciampo diventa l’occasione per inventare insieme un nuovo passo, un nuovo modo per ritrovare il ritmo del desiderio grazie alla relazione con l’Altro. 5. Il vincolo della Legge Dal punto di vista della psicoanalisi la Legge è un vincolo che introducendo un limite apre la possibilità del legame con l’Altro. Nell’opera di Massimo Recalcati la Legge è un’occasione per un godimento generativo. La prospettiva etica che Recalcati recepisce dall’insegnamento di Lacan pone l’esperienza del desiderio in relazione all’esperienza del godimento. In tutto il suo lavoro Recalcati si interroga sulla possibilità di un rapporto di alleanza tra desiderio e godimento, superando una visione moralistica che vedrebbe il desiderio come una rinuncia al godimento, come mera apertura relazionale che intenderebbe esorcizzare la scabrosità Reale del godimento; allo stesso tempo evita di celebrare la retorica idealizzante di un godimento fine a se stesso e senza senso. Il godimento che viene messo in gioco nell’etica psicoanalitica sa mantenersi connesso alla “trascendenza del desiderio”. La posta in gioco della psicoanalisi, secondo Recalcati, risiede nella possibilità di raggiungere un godimento nuovo «che renda la vita risorta, ricca, generativa nella sua presenza su questa terra».14 Il desiderio è la via attraverso cui giungere a questa M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina, Milano 2012, XVII. 14
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possibilità umana di vivere l’esperienza del godimento, godimento che si manifesta sempre sotto il segno dell’intemperanza, della dismisura, dell’eccesso, della singolarità che non è mai disgiunta dall’atto etico con cui ciascun soggetto si assume la responsabilità del proprio desiderio e del proprio essere di godimento. Il desiderio è allora un’esperienza dove viene vissuto un godimento che non è chiuso su se stesso, ma si apre in modo assoluto alla vita. Ecco perché «la promessa analitica si fonda sulla Legge del desiderio».15 E la Legge del desiderio va pensata non come una canalizzazione morale del proprio slancio pulsionale, ma come l’opportunità di trovare nel desiderio di avere un proprio desiderio un Vincolo che «non opprime la vita, ma la rende generativa». 6. La funzione temporale della Legge Nel mio lavoro clinico ho seguito diversi pazienti giovani che andavano bene al liceo, ma che all’università si sono bloccati perché la loro modalità di gestione del tempo, basata sul fare un compito solo quando ci si trova in prossimità della scadenza, non gli aveva più permesso di affrontare lo studio senza essere inondati dall’angoscia. Lo studio del liceo gli aveva consentito di affrontare le prove all’ultimo minuto esprimendo il massimo potenziale in quel breve tempo che era richiesto per le interrogazioni o per l’esame di maturità. All’università però questa modalità di gestione del tempo non funzionava più perché era diventata necessaria un’organizzazione del tempo che andasse oltre l’impegno a breve termine. In ambito psicoanalitico lacaniano la Legge indica quella funzione psichica che ci consente di modulare il nostro modo di vivere il tempo. All’università alcuni ragazzi si bloccano perché non sanno fare il passaggio da un’organizzazione delle proprie attività dal breve al lungo termine e solitamente raccontano di esser cresciuti in un contesto familiare dove nessuno gli ha dato dei limiti. Ma cosa vuol dire limiti? Non vuol dire punizioni, pri Ivi, 333.
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vazioni o castighi, ma vuol dire innanzitutto avere dei vincoli sul modo di vivere il tempo perché di fronte a un esame della facoltà di ingegneria bisogna saper dosare il proprio impegno, giorno per giorno. Se vogliamo capire come vive intimamente una persona possiamo chiedergli semplicemente come vive il tempo. Il modo in cui una persona vive il tempo mostra non solo la sua capacità progettuale, ma anche il ritmo tipico in cui persegue la propria soddisfazione. Pensiamo, per esempio, alle persone che fanno fatica ad addormentarsi la sera perché non riescono a uscire da un tempo iperattivo o a trovare un tempo in cui non sono orientati verso alcun obiettivo. Oppure proviamo a pensare al momento in cui rimaniamo incantati di fronte alla bellezza di un tramonto o di un’opera d’arte: sono momenti che avvengono quando ci troviamo in una certa condizione interiore dove grazie al fatto di non essere accelerati diventiamo disponibili all’incanto. Purtroppo, nel lavoro clinico con le famiglie osserviamo che oggi la vita familiare tende verso un’accelerazione che non consente la possibilità di sostare sulle cose. L’accelerazione è un modo per riempire il tempo e per evitare di confrontarsi con un tempo apparentemente vuoto. Non è difficile collegare le difficoltà nello studio di alcuni ragazzi con la cattiva abitudine appresa in famiglia di riempire ogni istante: basta pensare a tante serate in pizzeria dove gli adulti riescono a conversare tranquillamente mentre i propri figli sono ipnoticamente catturati dallo schermo di un dispositivo tecnologico. In diversi lavori sull’adolescenza e sui legami virtuali viene sottolineato quanto l’accelerazione del tempo non permetta di tollerare l’attesa: ciò che viene considerato come attesa viene ridotto a un vuoto da riempire.16 I sintomi della contemporaneità mostrano la fatica soggettiva di entrare in sintonia con il proprio tempo, perché entrare in sintonia con il proprio tempo vuol dire entrare in sintonia con un mistero, con una mancanza, con un’attesa. Cfr. M. Giorgetti Fumel, Giovani in Rete. Comprendere gli adolescenti nell’epoca di Internet e dei nuovi media, Red!, Milano 2013. 16
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7. Il tempo della preghiera Da questo punto di vista l’educazione alla pratica della preghiera diventa un’occasione per vivere una modalità temporale che non è finalizzata al raggiungimento di nessun obiettivo, ma è soltanto apertura verso il mistero.17 Nell’esperienza continuativa e praticata con costanza vengono costruiti i neurosentieri che portano all’esperienza del sacro.18 La preghiera non è improvvisazione di una pratica, ma è una pratica che predispone all’imprevisto dell’incontro. Fare pratica della preghiera vuol dire dare un ritmo al nostro funzionamento, imparando così a entrare in quella concentrazione profonda che ci permette di gustare la sintonia con le parole della preghiera. Possiamo chiederci fino a che punto noi esercitiamo un’attenzione cosciente su quello che stiamo recitando nella preghiera. In che modo avviene il passaggio dallo sforzo attivo nell’esercitarsi nella pratica della preghiera al momento in cui ci si apre a un incontro che disabilita la padronanza dell’Io cosciente? Questo passaggio credo che la psicoanalisi lo possa spiegare come un possibile passaggio d’amore. Io amo quando mi faccio prendere dall’amore. Nell’amore vivo quell’eternità di passaggio, quella “vibrazione d’eternità”,19 quell’esperienza dove «durano nel tempo solo le cose / che non furono del tempo».20 Possiamo compiere questo passaggio se abdichiamo innanzitutto al potere dell’Io. Ecco il modo in cui la pratica della preghiera diventa un esercizio di apertura all’esperienza di amore, se per amore intendiamo l’abbandono delle proprie abituali difese e È un tema che ho approfondito in un libro di prossima pubblicazione: N. Terminio, L’eredità creativa. Preghiera e testimonianza tra Bibbia e Psicoanalisi, Il melangolo, Genova, in stampa. 18 Cfr. F. Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, pref. di C. Sgorlon, Astrolabio, Roma 2010. 19 J. Escrivá (1955, 1967), L’intimità con Dio. Due omelie sull’orazione, pres. di F. Capucci, Ares, Milano 2005, 18. 20 J.L. Borges (1975), “Eternità”, in T. Scarano (a cura di), La rosa profonda, Adelphi, Milano 2013, 53. 17
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l’abbandonarsi con fiducia all’incontro con l’alterità radicale del partner. È solo per questa via che il partner (anche Dio è un partner) può veramente sconvolgere la nostra esistenza spingendoci a essere ciò che non saremmo mai stati. Non credo che questo passaggio, come nell’amore, sia garantito. L’annullamento del tempo nell’esperienza mistica non si verifica sempre, non è un qualcosa che si può ottenere attraverso una procedura cognitiva. Troviamo scritto che ci sono tanti modi di pregare quante sono le persone che pregano. Non è un caso che nella Chiesa cattolica si parla di metodo di meditazione e di dono della contemplazione: il metodo è qualcosa che applichiamo ed è un modo con cui gestiamo il tempo allenandoci ad avere quel ritmo e solo attraverso questo forse si può verificare in maniera del tutto imprevista l’incontro con il mistero dell’Altro. 8. La trama delle generazioni Se il desiderio è una vocazione, la Legge è una sintassi che vincola la vocazione a trovare una forma. Sintassi vuol dire organizzazione di elementi che segue una successione temporale, cioè un ritmo che non può essere schiacciato nell’istante altrimenti si perde la possibilità stessa che la sintassi generi un momento di senso e soddisfazione. Molte storie familiari sono esasperate non soltanto perché ci sono dei ritmi frenetici, ma anche perché i giovani non vengono educati a conoscere la propria storia, a conoscere il loro essere agganciati a una trama intergenerazionale. Se oggi si prova a chiedere a un adolescente quanti anni hanno i nonni, la storia familiare dei nonni, il modo in cui i nonni si sono incontrati, perché si sono sposati, la storia dei propri genitori, addirittura l’età dei propri genitori, allora ci si accorgerà che per il giovane che stiamo incontrando questi interrogativi sembrano del tutto irrilevanti. La storia familiare non sembra più strutturare la soggettività. A questo proposito possiamo pensare ai pazienti borderline che rappresentano il caso più eclatante di un disan166
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coraggio del soggetto da una trama narrativa fondata sull’appartenenza ai legami intergenerazionali. Il borderline vive in una condizione di “stabile instabilità”: la sua vita non segue una progettualità perché nella sua storia familiare non ha incontrato la sintassi dell’Altro. L’Altro del borderline è semmai una nebulosa che non si condensa; allo stesso tempo il borderline non è capace di tollerare l’attesa perché vive sempre con i nervi a fior di pelle ed è sempre pronto a litigare con tutti, a spaccare tutto, pur di trovare un argine esterno a una tensione emotiva che lo incalza in quasi tutti i momenti della sua quotidianità. Come sottolineavo all’inizio del mio discorso, i casi clinici ci mostrano l’importanza di alcune funzioni psichiche proprio nel momento in cui ci permettono di osservarne il deterioramento: l’ascolto di storie cliniche ci insegna quali sono gli ingredienti irrinunciabili per la strutturazione della soggettività umana. Una trama storico-familiare-narrativa entro cui collocarsi è uno degli aspetti fondamentali per poter diventare soggetti di un’esperienza umana. I traumi che caratterizzano le storie familiari dei borderline impediscono oppure ostacolano la costruzione di una trama soggettiva, e non è solo una scelta stilistica se nella cura di queste forme di psicopatologia si parla di “umanizzazione”.21 9. L’istante della profondità Per cogliere gli effetti di una sintassi estremamente frammentata non è necessario rivolgersi alle forme psicopatologiche contemporanee. Fermiamoci un attimo e pensiamo al nostro utilizzo dello smartphone. Quanto tempo passiamo a cliccare per verificare informazioni che sappiamo irrilevanti, ma che allo stesso tempo cerchiamo compulsivamente? E con quale frequenza? Quanti genitori mangiano insieme ai figli senza rispondere al telefono? Cfr. V. Lingiardi, F. De Bei, La terapia come processo di umanizzazione: sogno e memoria nell’analisi di una paziente traumatizzata, in V. Caretti, G. Craparo (a cura di), Trauma e psicopatologia. Un approccio evolutivo-relazionale, introd. di N. Dazzi, Astrolabio, Roma 2008, 308-332. 21
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Per accordare la vita familiare al desiderio basterebbe molto poco, innanzitutto aprire uno spazio e un tempo non saturato dalla voglia di riempimento compulsivo che attanaglia non soltanto la quotidianità dei soggetti borderline, ma anche un po’ tutti noi, ormai ostaggio dei vari dispositivi tecnologici che predispongono la cornice dei nostri incontri e addirittura del nostro modo di funzionare: mentre ci sentiamo padroni dei contenuti mentali che cerchiamo o produciamo non ci accorgiamo che la forma e il ritmo con cui li trattiamo non sono più vincolati da un nostro ritmo interiore, ma da un’accelerazione talmente alienante che ormai la sentiamo come una nostra seconda natura, alcuni la osannano come una possibilità evolutiva. Eppure, se riflettiamo un attimo sul nostro modo di funzionare, a breve termine e compulsivo, possiamo notare quanto questo assetto mentale ci influenzi nel sopportare ogni minimo contrattempo che diventa un momento di esasperazione soltanto perché ci manca la capacità mentale – speriamo solo in modo transitorio – di vedere quello che ci sta succedendo soltanto come un frammento di un arco temporale più ampio. I momenti di esasperazione possono trovare una cura desiderante se vengono inseriti in una sintassi relazionale dove ci muoviamo cercando soluzioni che si sviluppano attraverso una trama e non nell’istante fulminante dove tutto si sistema con un clic. Ci sono due tipi di istanti. Un conto è il tempo dell’incanto, in cui io guardo una donna e la riscopro come per la prima volta, e quello è l’istante dell’incanto; altra cosa è invece l’istante di chi non è capace di fermarsi su quella esperienza e deve passare irrefrenabilmente a una successiva. Per cogliere la dimensione del desiderio bisogna introdurre un intervallo che interrompa questo scorrimento incessante che fa passare sempre alla cosa successiva senza possibilità di soffermarsi. Certo, gli psicoanalisti lacaniani ricorderebbero che Lacan dice che «il desiderio è una metonimia»,22 lo slancio del desiderio sposta sempre in là il momento in J. Lacan (1957), L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Contri (a cura di), Scritti, vol. I, 523. 22
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cui sentiamo di raggiungere quello che vogliamo, la caratteristica del desiderio è di non farsi mai bastare quello che si ha, di volere sempre qualcos’altro. Non dobbiamo immaginare però che il saltare di fiore in fiore farà fiorire il desiderio. La dimensione Reale del desiderio scaturisce dalla possibilità di assaporare l’esperienza, non dal surfare senza concedersi quell’intervallo in cui la vita ci tocca e ci trasforma. Il momento del desiderio non è un’occasione fugace, è un incontro che lascia una traccia, la traccia di una soddisfazione che ci rimane addosso, ma che non acciuffiamo mai. Se non ci diamo il tempo di assaporare un’esperienza fino in fondo, non possiamo neanche distinguerla dall’altra: l’intercambiabilità del partner, dei momenti, degli oggetti, delle persone, dei legami, è data dal fatto che quei legami non sono coltivati in profondità, perlomeno fino al punto da sentirci autenticamente coinvolti. Se la vita familiare non viene vissuta in profondità, diventa una vita come tutte le altre, non diventa espressione del desiderio, non diventa la possibilità per incontrare un mistero. Ecco perché parlare della Legge del desiderio non è il richiamo nostalgico a vecchie tradizioni, ma è solo il rimando alla dimensione strutturante (anche a livello neurobiologico)23 della soggettività umana. 10. Il tempo della scuola Nel tempo dell’eterno presente caratteristico dei social, che ha radicalmente riformulato la nostra dimensione relazionale, sembra che occorra ripensare anche l’insegnamento. Nelle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar troviamo una frase che può aiutarci nel concepire la funzione dell’insegnamento: «il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri».24 Quando siamo giovani i libri ci parlano perché c’è stato un insegnante che ha fatto da tramite, che ha dato testimonianza della propria Cfr. D.J. Siegel (2012), La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, trad. it. di L. Madeddu, Cortina, Milano 2013. 24 M. Yourcenar (1951), Memorie di Adriano, seguite da Taccuini di appunti, a cura di L. Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 2002 (1ª ed. 1963), 32. 23
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passione e ha favorito il transito verso la lettura costruendo i presupposti per un incontro con la tradizione (l’Altro). Ebbene, è questo tipo di esperienza che la scuola dovrebbe favorire sin dalla prima infanzia: deve cioè stimolare il bambino e l’allievo nella ricerca di qualcosa di sé, una ricerca soggettiva che passa attraverso l’esplorazione e la “lettura” del mondo dell’Altro. La scuola è la chance perché questo incontro possa avvenire. La scuola oggi però è presa dalla preoccupazione di promuovere innanzitutto l’adattamento alla realtà e ai tempi ipermoderni. La scuola si trova a competere con una società dove il modello vincente viene rappresentato da un cervello playboy, capace di navigare tra diversi input e diverse informazioni, che necessariamente non possono che essere superficiali.25 La profondità del tempo della lettura e dello studio non viene più concepita come funzionale allo sviluppo delle competenze adatte per vivere nell’epoca contemporanea. Se le richieste e i modelli socio-culturali dominanti privilegiano la capacità di oscillare nella molteplicità degli stimoli, come farà un insegnante a chiedere ai suoi allievi di studiare? In che modo la scuola e il discorso educativo che la attraversa potrà svolgere la sua funzione di formazione? La scuola rischia di diventare uno specchio della realtà sociale e virtuale: una scuola aperta e flessibile che sta al passo con i tempi, dove però non è sempre custodita la possibilità per il giovane di incontrare la testimonianza del desiderio dell’insegnante. In un tempo dove il disinvestimento sulla scuola italiana si fa più marcato e nel tempo dell’evaporazione dell’Ideale, Recalcati ha ribadito il valore testimoniale dell’ora di lezione.26 L’ora di lezione si realizza quando la lezione si apre al tempo dell’inconscio. Il tempo dell’inconscio è il tempo in cui le certezze dell’Io si indeboliscono e il desiderio dell’Altro si fa più evidente. In questo scenario l’insegnante è chiamato a dare testimonianza Cfr. P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, Guanda, Parma 2004. M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014. 25
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del proprio amore per il sapere. Non si tratta di trasmettere semplicemente il sapere, ma di portare il fuoco che accende il desiderio di sapere. Il maestro deve svuotarsi del sapere di tipo universale e cumulativo e deve mostrare piuttosto la passione con cui interroga l’Altro del sapere. Il sapere del maestro non è il sapere cumulativo, ma traspare innanzitutto dall’atteggiamento verso il sapere. Il maestro non travasa il suo sapere nella coppa vuota degli allievi, ma mostra la sua mancanza di sapere, ossia il modo in cui a partire dalla propria mancanza si rivolge al sapere. Nell’ora di lezione il sapere non riempie il vuoto, ma lo mantiene vivo, come un vuoto causativo che permette al sapere di essere aperto verso il nuovo. È la vocazione del maestro che attiva e contagia la vocazione degli allievi. «Perché vi sia desiderio di sapere è necessario un contagio, un incontro con un testimone di questo desiderio».27 Lo stile dei maestri che sono rimasti indimenticabili è sempre espressione di un rapporto singolare con il sapere. Un maestro durante l’ora di lezione offre agli allievi la testimonianza del proprio modo di soggettivare il sapere. È questo movimento desiderante del maestro che rende il sapere non ripetitivo, ma aperto alla contingenza dell’ora di lezione. Per rendere presenti gli allievi nell’ascolto, è necessario che il maestro sappia innanzitutto rendere presente a se stessa la propria presenza. […] La presenza dell’insegnante assume le forme di uno stile. Perché quello che conta innanzitutto è lo stile singolare del maestro. Capita ogni volta che un insegnante parla. Al di là di ciò che dice, conta da dove dice ciò che dice, da dove trae forza la sua parola. Qual è il punto singolare di enunciazione da cui scaturiscono i suoi enunciati? La forza dell’enunciazione coincide con la sua presenza presente.28
Mentre il maestro spiega un argomento con parole nuove impara qualcosa di nuovo. Il maestro trasmette qualcosa se ha imparato lui stesso dalla lezione, se produce un’opera che supera il sapere dell’Io ed esprime un movimento verso ciò che ancora Ivi, 61. Ivi, 101.
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non si sa, verso ciò che nel campo del sapere rimane inesauribile, impossibile da sapere del tutto. Il vero maestro entra in un rapporto erotico con gli oggetti del sapere, trasforma i libri in corpi e trasforma l’allievo da recipiente ad amante del sapere. Ecco perché secondo Recalcati – che a questo proposito cita Pier Paolo Pasolini – la scuola è il più grande vaccino contro il godimento rovinoso: se la scuola sa far sperimentare l’esperienza dell’innamoramento verso il sapere permetterà all’allievo di fare esperienza della trascendenza del desiderio, permetterà all’allievo di far transitare il godimento sulla giostra del desiderio. Nell’epoca della crisi del significato simbolico del Maestro l’unica possibilità per tenere vivo il desiderio di sapere è puntare sul Maestro-testimone, testimone del suo amore per il sapere, testimone del suo stile singolare di rivolgersi al sapere. Perché non esiste un modo generale di rivolgersi al sapere, ciascuno ha il suo modo unico di rapportarsi al sapere. Si può sostenere la scuola senza necessariamente introdurre altre professionalità, come per esempio gli psicologi. La prevenzione è la scuola, non la psicologia nella scuola. È l’ora di lezione in quanto occasione di trasmissione del desiderio di sapere che potrà continuare a rendere la scuola un luogo generativo. «Un’ora di lezione può sempre aprire un mondo, può sempre essere il tempo di un vero incontro».29 Il desiderio va inteso non come una facoltà tra le altre, ma come quell’apertura verso l’esistenza che permette a tutte le altre facoltà di crescere e migliorare. Senza il desiderio la scuola rischia di essere schiacciata sui protocolli, sulla burocrazia, su un discorso istituzionale anonimo che invece di favorire l’emersione della soggettività, degli insegnanti e degli allievi, la uniformizza in procedure e dispositivi desoggettivanti. La proposta di Recalcati non intende trascurare le questioni relative al dispositivo istituzionale della scuola o le necessarie evoluzioni della didattica che bisogna affrontare. Recalcati si focalizza sulla posizione etica, prima ancora che metodologica, dell’inse Ivi, 7.
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gnante. All’interno del dispositivo istituzionale della scuola, l’ora di lezione si configura come il possibile evento trasformativo, per insegnanti e studenti, che fa emergere la dimensione generativa della scuola. Una scuola che può così diventare un luogo d’incontro con quel sapere che causa il desiderio di sapere. 11. Le nuove generazioni e l’eredità di Telemaco In un tempo dove l’autorità simbolica del padre sembra irreversibilmente tramontata siamo sempre più confrontati con una trasformazione dello scambio intergenerazionale. Secondo Recalcati le nuove generazioni assomigliano alla figura di Telemaco perché invocano la presenza di padri-testimoni, testimonianze paterne che sappiano mostrare l’annodamento singolare tra Legge e desiderio. Per illustrare la particolarità della posizione soggettiva dei figli Telemaco, Recalcati propone una differenziazione rispetto alle figure dei figli-Edipo, dei figli Anti-Edipo e dei figli Narciso. Il figlio-Edipo sfida le vecchie generazioni e vede nel padre un Ideale e un rivale. L’ambivalenza edipica risiede nella tendenza nevrotica a confrontarsi con la Legge paterna solo come limite al proprio soddisfacimento, salvo poi mantenerla strenuamente come protezione irrinunciabile di fronte al non-senso della vita. Quindi il figlio-Edipo cova odio verso il padre perché viene considerato come un padre-padrone che ostacolerebbe la libertà di esprimere il desiderio. Allo stesso tempo però fa di tutto per mantenere intatta la figura del padre, non ne può fare a meno perché il padre garantisce comunque una protezione rispetto alla minaccia del Reale senza-senso. L’errore di Edipo non è la rivendicazione del sogno come diritto, ma quello di aver frainteso la Legge vivendola solo come un ostacolo nel cammino che conduce alla realizzazione del proprio desiderio. Questo comporta la riduzione della sua libertà a pura opposizione nei confronti della Legge che finisce per nutrire il mito del desiderio come liberazione da ogni limite. In questo senso Edipo porta già paradossalmente con sé il germe dell’Anti-Edipo.30 M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, 101. 30
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Il figlio Anti-Edipo vorrebbe fare a meno della Legge e la considera come un’inutile reliquia del passato. La posizione del figlio Anti-Edipo trova il suo perno nella forza acefala della pulsione promuovendo la «potenza anarchica del corpo che gode ovunque, al di là di ogni limite, al di là di ogni Legge».31 Si tratta però di un’apparente liberazione del desiderio perché seguendo questa prospettiva la trascendenza del desiderio, privata dall’effetto vitalizzante del Simbolico, si richiude in una forma di godimento cinico e dissipativo dove l’abolizione della Legge si trasforma in passione per l’abolizione, in tendenza incestuosa verso un godimento rovinoso. Il figlio-Narciso è espressione della trasformazione della gerarchia rigida dei rapporti tipici della famiglia patriarcale che si trova oggi rovesciata nell’orizzontalità speculare dove genitori e figli sono catturati dalle stesse esigenze narcisistiche. L’accudimento del bambino produce un figlio-Narciso quando le leggi simboliche della famiglia vengono unilateralmente piegate sulle necessità e i bisogni dei figli. Il figlio-Narciso non facendo esperienza simbolica del limite ricerca costantemente delle gratificazioni narcisistiche a cui non può rinunciare. Il rischio dei figli-Narciso non è soltanto quello di essere assorbiti da un desiderio capriccioso ed egoistico, ma innanzitutto è quello di non poter accedere alla dialettica del Simbolico perdendo così «la forza generativa del desiderio».32 Il figlio-Narciso non è allora solo il figlio autorizzato a coltivare il sogno della propria realizzazione e della propria felicità, ma è anche il figlio senza desiderio, plastificato, apatico, perso nel mondo fagico degli oggetti, insofferente a ogni frustrazione, è il piccolo re-vampiro insensibile alla fatica dell’Altro e al suo debito simbolico.33
«Nell’Odissea di Omero Telemaco è il figlio di Ulisse».34 Nell’attesa che il padre faccia il suo ritorno, Telemaco è costretto Ivi, 104. Ivi, 109. 33 Ivi, 110-111. 34 Ivi, 111. 31 32
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ad assistere alle violazioni del Simbolico inferte dai Proci. L’attesa di Telemaco non è soltanto attesa del padre, ma del ritorno della Legge dell’ordine Simbolico. Il figlio-Telemaco è il paradigma delle giovani generazioni che attendono che qualcosa del padre torni dal mare. È questa la nuova figura con cui Recalcati interpreta il disagio della giovinezza nell’epoca contemporanea. «Il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo».35 Nell’epoca del tramonto del padre le nuove generazioni guardano al mare come Telemaco e attendono che «qualcosa del padre ritorni».36 Telemaco non si limita però ad attendere il ritorno del padre. Ciò che contraddistingue Telemaco come “giusto erede”37 è il fatto che oltre a invocare la presenza del padre si mette in moto e inizia un viaggio cercando tracce del padre. In questo viaggio rischia di perdersi, si confronta con il suo passato e assume la sua condizione di erede scoprendosi orfano, potremmo dire orfano del padre Ideale. È sulla base di questo essere orfano che Telemaco potrà incontrare il padre. «L’incontro col padre è una possibilità del nostro essere figli. Nel racconto omerico esso diventa possibile solo dopo il viaggio di Telemaco».38 Il viaggio di Telemaco ci insegna che l’eredità è possibile solo attraverso un processo di filiazione simbolica, in un movimento in avanti dove un soggetto assume la mancanza dell’Altro e proprio grazie a questa assenza di garanzia ha occasione per riconoscere il debito simbolico verso l’Altro. Ecco l’aspetto decisivo del Telemaco di Recalcati: ciò che ritorna dal mare non è il padre Ideale, ma la traccia singolare della sua testimonianza che, in molti casi, viene ritrovata nel silenzio, soltanto retroattivamente, perché solo dopo il viaggio della soggettivazione è possibile riconquistare la propria eredità. Ivi, 12. Ivi, 13. 37 Ivi, 133. 38 Ivi, 134. 35 36
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12. Cosa ci rende figli generativi Essere figli è la condizione degli esseri umani, nessuno di noi può evitare di essere figlio, ossia nessuno di noi è padrone delle proprie origini. La vita del figlio prende origine dall’Altro. «Portiamo su di noi la scrittura dell’Altro senza mai poterla leggere chiaramente, né decifrare compiutamente».39 Ognuno porta su di sé le tracce delle aspettative dei genitori, l’impronta con cui il desiderio dell’Altro ha dato forma alla vita del figlio. Nel primo tempo della vita ogni figlio ha bisogno che l’Altro lo faccia sentire accolto e amato. C’è un momento però in cui la vita del figlio inizia a non nutrirsi soltanto del desiderio dell’Altro perché la vita inizia a chiedere di avere una forma propria, una forma che può anche entrare in contrasto con quella desiderata dall’Altro. Nel tempo dell’adolescenza la vita non si soddisfa più nel soddisfare le attese dell’Altro. In adolescenza, la relazione con l’Altro va incontro a notevoli perturbazioni, che esprimono esigenze ambivalenti: il soggetto oscilla infatti tra la spinta verso la separazione e la necessità del vincolo. L’esigenza di separarsi dal vincolo che lo lega alle aspettative dell’Altro è concomitante alla necessità di sentirsi ancora integrato nel contesto familiare. L’adolescente vuole scoprire attivamente il significato di ciò che assomiglia alla felicità: vuole cioè comprendere fino in fondo quello che desidera e cerca di distinguere ciò che dipende dai consigli o dalle attese dell’Altro (famiglia, amici, insegnanti) e ciò che invece esprime la sua verità. In questo senso, l’adolescente incarna una sorta di eroe-poeta che è rapito da un genuino interesse per la verità. L’adolescenza è un viaggio che richiede tempo e creatività, e soprattutto non ammette facili soluzioni come quella dell’imitazione dei coetanei o dell’identificazione negli idoli proposti di volta in volta dai mass-media. Scoprire la propria autenticità vuol dire innanzitutto confrontarsi con ciò che ancora non è stato detto, ma anche con la possibilità di smarrirsi. M. Recalcati, Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato, Feltrinelli, Milano 2017, 32. 39
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Nicolò Terminio La famiglia non può esaurire l’orizzonte del mondo. Come la vita umana necessita dell’accoglimento, della casa, della famiglia, così, con la stessa intensità, necessita di andare altrove, di separarsi, di coltivare il proprio segreto. Appartenenza ed erranza sono due poli egualmente fondamentali del processo di umanizzazione della vita.40
Nel Segreto del figlio Recalcati riprende dal Vangelo di Luca la parabola del “figlio ritrovato”, meglio conosciuta come quella del figliol prodigo, per mostrare l’intreccio famigliare tra appartenenza ed erranza. La vita ha necessità dell’erranza e nella parabola lucana il figlio secondogenito scalpita per avere la propria quota di eredità, per ottenere ciò che gli spetta e inoltrarsi al di là del recinto familiare. Qui Recalcati mostra che nella parabola il padre non risponde assumendo una posizione simmetrica al conflitto con il figlio, evita di replicare specularmente il conflitto. È un padre che si rifiuta di impugnare il bastone, non interpreta la Legge solo nella sua versione punitiva e patibolare. Il padre risponde in modo asimmetrico e accetta la richiesta imperativa del figlio perché «l’alterità del figlio ribadisce che la paternità – come la maternità – non è mai un’esperienza di appropriazione ma di decentramento».41 Ma ancor di più questa figura di padre mostra che un padre non deve offrire solo ciò che ha, “la metà del suo patrimonio”, ma deve anche esporsi in un atto di fiducia verso il desiderio del figlio. Ecco perché lo lascia andare. «Dona al figlio, come Abramo dona a Isacco, la possibilità di perderlo».42 La parabola ci fa anche vedere – come mette in luce Recalcati – che la colpa del figlio primogenito, che non tollera l’accoglienza e la gioia del padre verso il secondogenito al momento del ritorno, è stata quella di aver interpretato l’eredità come fedeltà passiva, come ripetizione della vita del padre. Nonostante l’iniziale rivolta il secondogenito è il giusto erede perché ha avuto il coraggio di essere eretico e smarrirsi. L’eretico, infatti, si assume la responsabilità del viaggio, chi rimane fermo invece è colpe Ivi, 79. Ivi, 77. 42 Ivi, 78. 40 41
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vole di una interpretazione scorretta dell’eredità. Il compito di ogni figlio è quello di saper ereditare e l’eredità implica la realizzazione della singolarità del proprio desiderio. «L’erede non è stabilito dall’ordine naturale della successione, ma da qualcosa che lo distingue e che concerne il coraggio dell’esposizione alla dimensione singolare del desiderio».43 La parabola del figlio ritrovato mostra che la vita del figlio ha diritto alla differenza e che il vero dono della genitorialità è amare il figlio nella sua differenza. Un genitore ama nel figlio non il fatto che egli sia un suo replicante, ma ama proprio ciò che non comprende del figlio, ama il suo segreto. Quando nella parabola il padre perdona il figlio non introduce soltanto una eccezione alla Legge, ma umanizza la Legge: «il padre si rivela madre nell’atto del perdono perché rinuncia all’esercizio della Legge nel nome di un’altra Legge che è quella dell’amore per il nome proprio del figlio».44 Nella lezione cristiana il perdono è la prova più alta a cui è esposto l’amore umano. Il perdono non risponde a nessuna logica di scambio, non è effetto della simmetria speculare e non è neanche una fuga dal trauma dell’offesa. Il perdono non restaura ciò che si rotto, non ripristina la situazione così come era prima, ma converte l’offesa nella possibilità di un nuovo inizio. Il perdono dona la possibilità di un’altra occasione, di un’altra possibilità, di un nuovo cominciamento. Non dichiara persa, morta, quella vita – la vita del figlio – che sembrava definitivamente persa e morta. Il dono del padre è il dono di una fede che resiste al fallimento e alla sconfitta. Il padre con il suo abbraccio “misericordioso” dona una seconda possibilità, […] la parola “misericordia” in ebraico significa, non a caso, “generare di nuovo”.45
Anche per la psicoanalisi il cuore della soggettività umana è costituito dalla possibilità di frequentare il futuro generando il nuovo. Ciò che accomuna la psicoanalisi, l’educazione e l’amore Ivi, 102. Ivi, 100. 45 Ivi, 99. 43 44
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è questa apertura generativa verso il futuro. Il soggetto non è solo il risultato di ciò che è stato, non è già scritto dai condizionamenti che lo hanno determinato. Il soggetto del desiderio si rivela sempre come un’eccedenza rispetto al già stato, anzi configura la possibilità e il compito etico di riprendere costantemente ciò che è avvenuto provando a soggettivare il mistero della vocazione che lo abita e lo trascende. Bibliografia A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango, Roma 2006; Idem, The Game, Einaudi, Torino 2018. G. Benedetti (1992), La psicoterapia come sfida esistenziale, ed. it. a cura di G.M. Ferlini, Cortina, Milano 1997. J.L. Borges (1975), “Eternità”, in T. Scarano (a cura di), La rosa profonda, Adelphi, Milano 2013. A. D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano 2016. D. Demetrio, Silenzi d’amore. Scrivere i sentimenti taciuti, Mimesis, Milano-Udine 2015. J. Escrivá (1955, 1967), L’intimità con Dio. Due omelie sull’orazione, pres. di F. Capucci, Ares, Milano 2005. F. Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, pref. di C. Sgorlon, Astrolabio, Roma 2010. G.K. Gibran (1923), Il Profeta, trad. it e cura di T. Pisanti, Newton, Roma 1995. N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1984 (1ª ed. 1962). M. Giorgetti Fumel, Giovani in Rete. Comprendere gli adolescenti nell’epoca di Internet e dei nuovi media, Red!, Milano 2013. J. Lacan (1953), Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in G.B. Contri (a cura di), Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974. J. Lacan (1957), L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Contri (a cura di), Scritti. Idem, Nota sul padre e l’universalismo (1968), «La Psicoanalisi» 33 (2003) 9. V. Lingiardi, F. De Bei, La terapia come processo di umanizzazione: sogno e memoria nell’analisi di una paziente traumatizzata, in V. 179
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Caretti, G. Craparo (a cura di), Trauma e psicopatologia. Un approccio evolutivo-relazionale, introd. di N. Dazzi, Astrolabio, Roma 2008, 308-332. P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, Guanda, Parma 2004. M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina, Milano 2011. Idem, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina, Milano 2012. Idem, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013. Idem, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014. Idem, Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato, Feltrinelli, Milano 2017. D.J. Siegel (2012), La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, trad. it. di L. Madeddu, Cortina, Milano 2013. N. Terminio, La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico, pref. di C. Pontalti, Franco Angeli, Milano 2011. Idem, Siamo pronti per un figlio? Amarsi e diventare genitori, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015. Idem, A ciascuno la sua relazione. Psicoanalisi e fenomenologia nella pratica clinica, pref. di M. Rossi Monti, Alpes, Roma 2019. Idem, L’eredità creativa. Preghiera e testimonianza tra Bibbia e Psicoanalisi, Il melangolo, Genova, in stampa. M. Yourcenar (1951), Memorie di Adriano, seguite da Taccuini di appunti, a cura di L. Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 2002 (1ª ed. 1963).
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1. Introduzione Di seguito si intende presentare i fattori di rischio e di protezione che contribuiscono in diversa misura a costruire e strutturare l’identità della persona, più o meno solida o fragile. Secondo il rapporto CENSIS (Censis, 2018) l’84,4% dei giovani sotto i 30 anni possiede un profilo social e secondo una ricerca condotta dall’Istituto DEMOPOLIS1 la fascia dei più giovani (tra i 15 ed i 24 anni) afferma di restare “connessa” per oltre 10 ore al giorno: quasi integralmente tramite smartphone. Inoltre, negli ultimi 10 anni i casi di suicidio, depressione e autolesionismo sarebbero aumentati sensibilmente e numerosi studi su vasta scala mostrano che gli utenti che hanno un consumo elevato di tecnologia digitale hanno il doppio delle probabilità rispetto agli utenti che passano poco tempo connessi di essere depressi o avere un basso livello di benessere. Inoltre, il declino nell’interazione sociale faccia a faccia può avere un impatto anche sui non utenti dei media digitali. Sebbene l’uso della tecnologia non sia la causa della maggior parte della depressione, è possibile affermare che un aumento del tempo dedicato alla tecnologia e Demopolis, Su smartphone e web il “patto generazionale” sembra impossibile, 2018 (retrived from: https://www.agi.it/innovazione/italiani_uso_internet_dati_demopolis_smartphone-1831651/news/2017-05-31/). 1
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l’ambiente tecnologico possa essere un fattore di rischio per l’insorgere della depressione,2 soprattutto se inseriamo il fenomeno descritto in una più ampia prospettiva d’insieme che riguarda l’intera società occidentale.3 L’inizio del III millennio è stato contrassegnato dalla più straordinaria ed epocale crisi della relazione interpersonale. In fondo, la tecnologia digitale ne è la risposta e forse anche una concausa, come se, in una sorta di causalità circolare, l’esplodere della rivoluzione digitale avesse intercettato una crisi della relazione in parte già esistente e al tempo stesso ne avesse accelerato drammaticamente lo sviluppo. Un corpus crescente di letteratura scientifica associa un uso eccessivo dei media digitali a conseguenze negative fisiche, psicologiche, sociali e neurologiche stabilendo la correlazione tra un uso pervasivo del digitale ed un’incidenza negativa sul benessere psicologico dell’individuo.4 La ricerca si sta concentrando maggiormente sull’uso dei dispositivi mobili e gli studi suggeriscono che la durata, il contenuto, l’uso durante la notte, il tipo di media e il numero di dispositivi sono componenti chiave che determinano gli effetti che la fruizione di media digitali Cfr. J.M. Twenge, Why increases in adolescent depression may be linked to the technological environment, «Current Opinion in Psychology» 32 2020 8994 (https://doi.org/https://doi.org/10.1016/j.copsyc.2019.06.036). 3 Cfr. J.K. Das, R.A. Salam, Z.S. Lassi, et. al., Interventions for Adolescent Mental Health: An Overview of Systematic Reviews, «Journal of Developmental and Behavioral Pediatrics» 59 (2016) 49-60 (https://doi.org/10.1016/j. jadohealth.2016.06.020); Direzione Generale del Sistema Informativo e Statistico Sanitario, Relazione sullo Stato Sanitario del Paese, 2010 (retrived From: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1655_allegato. pdf); P. Gray, The Decline of Play and the Rise of Psychopathology in Children and Adolescents, «American Journal of Play», 3/4 (2011), 443-463; G. Lissak, Adverse physiological and psychological effects of screen time on children and adolescents: Literature review and case study, «Environmental Research», 164 2018 149-157 (https://doi.org/https://doi.org/10.1016/j.envres.2018.01.015). 4 A. Orben, A.K., Przybylski, The association between adolescent well-being and digital technology use, «Nature Human Behaviour» 3 (2) 2019 173-182 (https://doi.org/10.1038/s41562-018-0506-1). 2
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può avere.5 Sebbene il tempo trascorso dagli adolescenti con le tecnologie digitali susciti sempre più preoccupazioni diffuse sul fatto che il loro uso potrebbe essere negativamente associato al benessere mentale, queste potenziali influenze deleterie sono ancora oggetto di studio.6 Riteniamo importante prendere in considerazione tre aspetti che Cantelmi7 individua come caratteristici dell’era digitale e che indica come base della crisi della relazione interpersonale. I tre fenomeni sono i seguenti: • l’incremento del tema narcisistico nelle società postmoderne (di cui gli innamoramenti in chat e le amicizie in Facebook sembrano essere i corrispettivi telematici), sostenuto da una civiltà dell’immagine senza precedenti nella storia dell’umanità; • il fenomeno del sensation seeking, caratterizzato da una sorta di ricerca di emozioni, anche estreme, capace di parcellizzare e scomporre l’esperienza interumana facendola coincidere con l’emozione stessa (è come se tutta la relazione interpersonale coincidesse con l’emozione); • il tema dell’ambiguità, cioè la rinuncia all’identità e al ruolo in favore di una assoluta fluidità dell’identità stessa Lissak, Adverse physiological and psychological effects of screen time on children and adolescents: Literature review and case study. 6 J. Nesi, M.J. Prinstein, In Search of Likes: Longitudinal Associations Between Adolescents’ Digital Status Seeking and Health-Risk Behaviors, «Journal of Clinical Child & Adolescent Psychology» 48 (5) 2019 740-748 (https:// doi.org/10.1080/15374416.2018.1437733); Orben, Przybylski, The association between adolescent well-being and digital technology use; A.K. Przybylski, N. Weinstein, A Large-Scale Test of the Goldilocks Hypothesis: Quantifying the Relations Between Digital-Screen Use and the Mental Well-Being of Adolescents, «Psychological Science», 2017 204-215 (retrived from: https://doi. org/10.1177/0956797616678438); J.M. Smyth, Beyond Self-Selection in Video Game Play: An Experimental Examination of the Consequences of Massively Multiplayer Online Role-Playing Game Play, «CyberPsychology & Behavior», 10 (5) 2007 717-721 (https://doi.org/10.1089/cpb.2007.9963). 7 T. Cantelmi, La psicoterapia nell’era tecnoliquida «Modelli per la mente» 6 (1) 2014 5-8. 5
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e dei ruoli, con la conseguente rinuncia alla responsabilità della relazione ed alle sue caratteristiche generative.
Questi tre elementi sono altresì fondamentali per comprendere la costruzione dell’identità proprio a partire dal rapporto con la sfera emotiva personale, soprattutto nei giovani. Li prendiamo in esame in modo sintetico. I ragazzi infatti sono spinti a ricercare conferme del proprio valore personale attraverso la compulsiva dinamica ingenerata dai sistemi ricorsivi di gratificazione interpersonale sfruttati dai social network. Per tale motivo viene sovrastimolato il lato della personalità narcisistica che spinge a mostrare di sé i lati vincenti e dominanti ed emozioni come gioia e trionfo, inibendo simultaneamente l’espressione e la percezione delle emozioni negative e la condivisione autentica. Nell’adolescenza, invece, la possibilità di vivere emozioni come tristezza e noia, senso di vuoto e incertezza sono esperienze comuni che spingono chi le vive a ricercare soluzioni integrative e complesse.
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Anche la dinamica che spinge i ragazzi a cercare impulsivamente sensazioni forti e che li rende pertanto dei sensation seeker, coinvolge le emozioni con il rischio di disregolare il processo di costruzione identitario. La ricerca continua di sensazioni forti tende a creare un equilibrio dinamico basato sulla continua e vorace ricerca di emozioni tanto rapide e accessibili nel dare eccitazione e gratificazione quanto veloci nell’estinzione. Inoltre, questa dinamica porta i ragazzi a disincentivare l’investimento in attività più calme, ragionate e complesse che, se pur richiedendo maggiore investimento, sono veicoli di maggiore apprendimento. Ad esempio, risulta più facile vedere una dopo l’altra le puntate di una serie tv dai contenuti eccitanti piuttosto che mettersi d’accordo con gli amici, organizzare un’uscita al cinema a cui può seguire un momento di riflessione e condivisione delle impressioni. Per ultimo, il tema della fluidità relazionale e valoriale non consente ai ragazzi di sperimentare percorsi di costruzione personale stabili e contenitivi che sussistono nonostante il mutare degli eventi e delle condizioni contingenti. La mancanza di strutture valoriali e di percorsi di significato persistenti risulta particolarmente negativa in adolescenza quando l’intensità delle emozioni e la variabilità dei vissuti può portare i ragazzi a passare da una esperienza ad un’altra senza possibilità di creare nessi costruttivi e progressivi. Questa riflessione teorica può essere utilizzata per strutturare percorsi con i giovani che li aiutino ad integrare aspetti che il mondo digitale rischia di tagliare fuori e che sono tuttavia fondamentali per la costruzione di un’identità solida, flessibile, vitale e in relazione. Ispirandoci a tale categorizzazione abbiamo individuato tre ambiti d’intervento intorno ai quali strutturare un percorso psicoeducativo concreto, “Le Nere Lame”, tale che possa contrastare le derive del mondo postmoderno. In particolare, all’imperante diffusione della digitalizzazione abbiamo contrapposto una nuova attenzione al corpo come crocevia dell’esperienza soggettiva dell’identità personale e d’incontro con l’altro.
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2. Il meccanismo di base Il senso d’identità personale si realizza attraverso la coscienza di sé. Come spiega il dott. Damasio, docente di neuroscienze, neurologia e psicologia presso la University of Southern California, il fondamento della coscienza sarebbe da rintracciare nel costante conoscere «oggetti neurali», tra cui la propriocezione degli stati interni, ovvero, le emozioni. L’autore ricerca le fondamenta neurobiologiche della rappresentazione del Sé e correla le emozioni di fondo con il proto-sé, da lui definito come collezione di dispositivi non coscienti che regolano la vita mentale.8 A.R. Damasio, Descartes’Error. Emotion, Reason and the Human Brain, 1994 (tr. it. L’errore di Cartesio. emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995); Idem, The feeling of what Happens. Body and Emotion in the Making of Consciusness, 1999 (tr. it. Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 2000); M. Ceccarelli (a cura di), La relazione incarnata: neurobiologia e complessità del comportamento umano, in M. Andolfi, M. Viaro, Biologia e relazioni, Franco Angeli, Milano 2001; M. Ceccarelli, La mente: proprietà della relazione corpo-mondo, «Psicobiettivo XXIX», (2) 2009 17-30; Idem, L’organizzazione gerarchico-funzionale della mente: lo sviluppo dei processi 8
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Le emozioni costituiscono, quindi, configurazioni neurali ed il substrato fisiologico della percezione di un sentimento. Le emozioni scaturiscono da due cambiamenti biologici: il circuito del corpo e quello del «come se». Se ne analizzano di seguito le rispettive peculiarità. Il circuito del corpo utilizza segnali umorali, provenienti dal flusso sanguigno, e segnali neurali relativi al sistema nervoso. Tali segnali corporei informano e contribuiscono alla formazione di mappe somatosensoriali, site nel tronco dell’encefalo.9 Tale configurazione di mappe somatosensoriali, creata a partire da input e segnali fisiologici nel corpo, viene poi sottoposta al controllo di aree cerebrali di tipo prefrontale. È il controllo di tali altre aree cerebrali, come le cortecce prefrontali, che permette il costituirsi del circuito del «come se»: infatti, ciò che avviene è «come se» il corpo avesse davvero subito un cambiamento, anche se non è accaduto. Un’attività che stimoli il processo di immedesimazione attraverso la simulazione, permette l’attivarsi dei circuiti sopra descritti e, di conseguenza, contribuisce a plasmare l’identità personale di chi vive l’esperienza simulativa.10 Il gioco «è un’attività mentali, in C. Blundo (a cura di), Neuroscienze cliniche del comportamento, Elsevier, Amsterdam 2011. 9 P.D. Maclean, A Triune Concept of the Brain and Behaviour, University of Toronto Press, Toronto, 1973 (tr. it. Evoluzione del cervello e comportamento umano, Einaudi, Torino 1984); Idem, Evoluzione del cervello e del comportamento umano. Studi sul cervello trino, Einaudi, Torino 1984. 10 J. Tuomas H., Physical Presence in Simulation, A Scratch at the Surface of Complexity, «International Journal of Play Therapy» 6 2016 29-32; P.J. Tansey, Educational aspects of simulation, McGraw-Hill Publishing Company Limited, Berkshire 1971; V. Gallese, A. Goldman, Mirror neurons and the simulation theory of mind-reading, «Trends in Cognitive Science», 2 1998 493501; V. Gallese, Embodied simulation: from neurons to phenomenal experience, «Phenomenology and the Cognitive Science», 4 2005 23-48; G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina Editore, Milano 2006; L. Carr, M. Iacoboni, M.C. Dubeau, J.C. Mazziotta, G.L. Lenzi, Neural mechanism of empathy in humans: a relay for imitation to limbic areas, «Proceedings of National Academic Sciences» 100 2003 5497187
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intrinsecamente piacevole e gratificante e, in quanto tale, è desiderata e ben accolta con un notevole gradi di immedesimazione da parte del fruitore con l’attività proposta, apprezzata e ricercata per essere ripetuta»,11. Inoltre, il gioco è correlato con l’innalzamento delle endorfine a livello del nucleo accumbens e del pallidum ventrale dei gangli della base. La simulazione, pur essendo una riproduzione approssimativa dei fenomeni, non è vincolata alla realtà fisica o psicologica esistente, bensì può rivolgersi in modo altrettanto efficace verso nuovi scenari e mondi possibili. Qui si trova la radice profonda dell’originalità intrinseca della simulazione. Essa appartiene al “mondo del possibile”: ciò che ancora non c’è ma che, date certe condizioni può esistere e diventare reale.12
Utilizzare attività intrinsecamente piacevoli che favoriscono la simulazione diventa, perciò, un efficace strumento per influenzare il processo di costruzione della coscienza e identità individuale, in quanto influenzata da tali processi a partire dal livello corporeo e fisiologico.13 È possibile concludere che il cervello rappresenta le strutture e gli stati dell’organismo e, mentre provvede alla sua regolazione attraverso i vari canali neurofisiologici, chimici, umorali e cognitivi, intreccia in modo naturale storie senza parole su ciò che accade all’organismo immerso nell’ambiente. Ciò è stimolato dall’attività ludica in quanto intrinsecamente stimola 5502; T. Singer, B. Seymour, J.P. O’doherty, K.E. Stephan, R.J. Dolan, C.D. Frith, Empathic neural responses are modulated by the perceived fairness of others, «Nature», 439 2006 466-469; I.G. Meister, S.M. Wilson, C. Deblieck, A.D. Wu, M. Iacoboni, The essential role of premotor cortex in speech perception, «Current Biology», 17 2007 1692-1699. 11 L. Anolli, La sfida della mente multiculturale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, 56. 12 Ibidem. 13 J. Tuomas H., Physical Presence in Simulation, A Scratch at the Surface of Complexity, I. Rosenfield, The strange, familiar, and forgotten, Basic Books, New York, 1992 (tr. it. Lo strano, il familiare, il dimenticato. Un’anatomia della coscienza, Rizzoli, Milano 1992). 188
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tale processo attraverso la simulazione e l’immedesimazione. Per Damasio, dunque, la coscienza nucleare nasce dalla creazione di una mappa non verbale di eventi esperienziali collegati tra loro ed è, perciò, preverbale.14 3. Il Metodo LabGDR e il progetto “Le Nere Lame” Di seguito si riporta un esempio di applicazione dei principi e delle riflessioni sinora illustrate: il Metodo LabGDR e il progetto psicoeducativo “Le Nere Lame”, nato dalla applicazione del suddetto Metodo. Sarà possibile rintracciare concretamente le riflessioni illustrate circa i tre ambiti d’intervento promossi a partire dalla dimensione corporea e come le teorie di Damasio ed Anolli trovino compimento e siano fondamento delle attività proposte dal progetto. Il Metodo LabGDR favorisce l’apprendimento di nuove abilità metacognitive, emotive e relazionali, utilizzando lo strumento dei giochi di ruolo nelle sue forme da tavolo e dal vivo, attraverso l’uso della simulazione, delle dinamiche d’interazione e del gioco, intenzionalmente orientati al perseguimento di obiettivi significativi scelti tenendo conto dell’ambito d’intervento, delle caratteristiche dei partecipanti e dei risultati ambiti.15 Damasio, The feeling of what Happens. Body and Emotion in the Making of Consciusness; J. Panksepp, Can PLAY diminish ADHD and facilitate the construction of the social brain?, «Journal of the Canadian Academy of Child and Adolescent Psychiatry» 16 (2) 2007 57; J. Panksepp, L. Biven, The archeology of mind. neuroevolutionary origins of human emotions, Norton, New York, 2012 (tr. it. Archeologia della mente. origini neuroevolutive delle emozioni primarie, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014); S. M. Siviy, J. Panksepp, In search of the neurobiological substrates for social playfulness in mammalian brains, «Neuroscience & Biobehavioral Reviews» 35 (9) 2011 1821-1830. 15 M. Scicchitano (a cura di), Metodo LabGDR, un manuale operativo per l’utilizzo del gioco di ruolo in clinica, educazione e formazione, Franco Angeli, Milano 2019, Tuomas H., Physical Presence in Simulation, A Scratch at the Surface of Complexity; L.A.M.W. Wijnhoven, H. Niels-Kessels, D.H.M. Creemers, A.A. Vermulst, R. Otten, R.C. M.E. Engels, Prevalence of comorbid depressive symptoms and suicidal ideation in children with autism spectrum disorder and elevated anxiety symptoms, «Journal of Child & Adolescent Mental Health» 31 (1) 2019 77-84 (https://doi.org/10.2989/17280583.2019.1608 14
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La sperimentazione del Metodo LabGDR parte del 2012, con il primo laboratorio di gioco di ruolo presso il Centro CuoreMenteLab con adolescenti e giovani con ex diagnosi Asperger.16 Il progetto si apre nel 2015 ad altri centri clinici e ad adolescenti con diagnosi varie, non più necessariamente nello spettro autistico.17 Nel 2018, il Metodo LabGDR è applicato trasversalmente ad adolescenti interessati al gioco di ruolo e che apprezzano l’ambientazione Tolkieniana. Il Metodo LabGDR, infatti, seppur 83; World Health Organization-Who, Prevention of Mental Disorders. Effective Interventions and Policy Options, in WHO, A Report of the World Health Organization, Department of Mental Health and Substance Abuse in collaboration with the Prevention Research Centre of the Universities of Nijmegen and Maastricht, 2004. 16 C. Barney, On the spectrum, on the stage, «Teaching theatre», 26 (4) 2019 6-13 (retrieved from http://web.b.ebscohost.com/ehost/detail/detail? vid=28&sid=0cff8117-c949-4fbe-8cb5-eb005b3264a2%40sessionmgr120&b data=Jmxhbmc9aXQmc2l0ZT1laG9zdC1saXZl#db=eue&AN=108555982); M.K. Belmonte, Autism and Abnormal Development of Brain Connectivity, «Journal of Neuroscience» 24(42) 2004 9228-9231 (https://doi.org/10.1523/ JNEUROSCI.3340-04.2004); P.A. Rao, D.C. Beidel, M.J. Murray, Social Skills Interventions for Children with Asperger’s Syndrome or High-Functioning Autism: A Review and Recommendations, «Journal of Autism and Developmental Disorders», 38 (2) 2008 353-361 (https://doi.org/10.1007/s10803-007-0402-4); J. Tse, Æ.J. Strulovitch, Æ.V. Tagalakis, L. Meng, Æ.E. Fombonne, Social Skills Training for Adolescents with Asperger Syndrome and High-Functioning Autism, 2007 1960-1968 (https://doi.org/10.1007/s10803-006-0343-3); G.B. Mesibov, Social skills training with verbal autistic adolescents and adults: A program model, «Journal of Autism and Developmental Disorders» 14 (4) 1984 395 (https://doi.org/10.1007/BF02409830). 17 M. Solomon, M. Miller, S.L. Taylor, S.P. Hinshaw, C.S. Carter, Autism Symptoms and Internalizing Psychopathology in Girls and Boys with Autism Spectrum Disorders, «Journal of Autism and Developmental Disorders» 2012 48-59 (https://doi.org/10.1007/s10803-011-1215-z); M. Uljarević, D. Hedley, K. Rose, I. Magiati, R. Ying, C. Dissanayake, Anxiety and Depression from Adolescence to Old Age in Autism Spectrum Disorder, «Journal of Autism and Developmental Disorders», 50 (2020, 3155-3165 (https://doi.org/10.1007/ s10803-019-04084-z); Wijnhoven, Niels-Kessels, Creemers, Vermulst, Otten, Engels, Prevalence of comorbid depressive symptoms and suicidal ideation in children with autism spectrum disorder and elevated anxiety symptoms. 190
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nato con obiettivi specifici e definiti riguardanti una precisa categoria d’utenti, oggi accoglie obiettivi generalizzati ed adotta un approccio educativo olistico, concretizzandosi in modo particolarmente brillante nel progetto “Le Nere Lame”. Tale progetto psico-educativo, rivolto ad adolescenti e giovani adulti, si avvale dello strumento del Gioco di Ruolo (GDR) da Tavolo (GRV) e dal Vivo (LARP) a fini terapeutico-riabilitativi e psicoeducativi, come proposta orientata all’empowerment dell’individuo, alla promozione del benessere e dei processi di socializzazione al fine di includere la presa in carico di condizioni cliniche specifiche.18 Infatti, in seguito alla sperimentazione dell’efficacia del Metodo LabGDR con ragazzi con diagnosi di Asperger,19 abbiamo voluto sperimentarci con la creazione di una versione inclusiva, rivolta sia alla popolazione target generale che a condizioni cliniche specifiche, di applicazione del GDR da Tavolo e GDV combinato e integrato con tecniche e pratiche di area psicologica ed educativa. Tale percorso si adatta a una popolazione clinica e non-clinica, ciò permette di trarre beneficio anche dalla varietà delle caratteristiche dei partecipanti. Questa modalità d’intervento, quindi, non solo contrasta l’insorgenza di difficoltà nella popolazione verso la quale è rivolto e può modificare abitudini e comportamenti dannosi, ma può portare anche all’individuazione precoce dei soggetti a rischio Gray, The Decline of Play and the Rise of Psychopathology in Children and Adolescents; S. Lynne Bowman, The Wyrd Con Companion Book 2014, The Wyrd C, Los Angeles, 2014; A. Tychsen, M. Hitchens, T. Brolund, M. Kavakli, Live action role-playing games: Control, communication, storytelling, and MMORPG similarities, «Games and Culture», 1 (3) 2006 252-275 (https:// doi.org/10.1177/1555412006290445). 19 S. Baron-Cohen, Perceptual role taking and protodeclarative pointing in autism, «British Journal of Developmental Psychology» 7 (2) 1989 113-127 (https://doi.org/10.1111/j.2044-835X.1989.tb00793.x); A.A. Randall, The Relationship Between Social Skills and Problem Behaviors in Adolescent Males with Autism Spectrum Disorders, 2019 (Dissertation); J.G. Rosselet, S.D. Stauffer, Using group role-playing games with gifted children and adolescents: A psychosocial intervention model, «International Journal of Play Therapy», 22 (4) 2013 173-192 (https://doi.org/10.1037/a0034557). 18
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e ridurre la gravità delle disabilità funzionali legate a uno stato psicopatologico preesistente.20 Il Metodo LabGDR e il progetto “Le Nere Lame” usano il Gioco di Ruolo (GDR) in modo intenzionale con finalità terapeutico – riabilitative. Il GDR ha trovato, negli ultimi anni, larga applicazione e diffusione in differenti settori ed ambiti applicativi.21 Se in principio, infatti, il suo utilizzo era circoscritto al settore ludico-ricreativo e di intrattenimento, nel tempo se ne sono gradualmente scoperte e riscoperte le potenzialità, non solo in ambito terapeutico ma anche nel settore educativo e formativo.22 Il GDR è funzionale, infatti, al raggiungimento di obiettivi diversi: l’elaborazione emozionale e la promozione del cambiamento individuale, la realizzazione d’una didattica inclusiva e alternativa, lo sviluppo di soft skills e la gestione di dinamiche di gruppo.23 Cfr. M. Scicchitano (a cura di), Metodo LabGDR. S. Salcuni, C. Mazzeschi, C., C. Capella, C., Editorial: The Role of Play in Child Assessment and Intervention, «Frontiers in Psychology» 8, 2017 1-3 (https://doi.org/10.3389/fpsyg.2017.01098). 22 N. Larti, E. Ashouri, A. Aarabi, The effect of an empathy role-play program for operating room nursing students, «Journal of Educational Evaluation for Health Professions» 15 2018 29 (https://doi.org/10.3352/jeehp.2018.15.29); P. Lankoski, Game Research Methods: An Overview, lulu.com, 2015 (https:// doi.org/10.1184/R1/6686765.v1); L. Gjedde Potentials of a Narrative GameBased Curriculum Framework for Enhancing Motivation and Collaboration, in Proceedings of the 8th European Conference on Games Based Learning. Academic Conferences and Publishing International, 2014; M.A.F. Randi, H.F. De Carvalho, Learning Through Role-Playing Games: an Approach for Active Learning and Teaching, «Revista Brasileira de Educação Médica» 37 (1) 2013 80-88 (https://doi.org/10.1590/S0100-55022013000100012). 23 W. Admiraal, J. Huizenga, S. Akkerman, G. Ten Dam, The concept of flow in collaborative game-based learning, «Computers in Human Behavior» 27 (3) (2011) 1185-1194; N. Ajleaa, N. Maarof, The Effect of Role-Play and Simulation Approach on Enhancing ESL Oral Communication Skills, «International Journal of Research in English Education», 3/3 2018 63-71; K. Becker, Learning by doing: A comprehensive guide to simulations, computer games, and pedagogy in e-learning and other educational experiences, «Canadian Journal of Learning and Technology / La Revue Canadienne de l’apprentissage et de La Technologie» 31 (2) 2005 105-108; Lankoski, Game Research Methods: An 20 21
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Il Gioco di Ruolo o Role Playing è una tecnica esperienziale condotta in una condizione sperimentale e protetta. È un metodo attivo che prevede l’esame, perlopiù di gruppo, ma talvolta anche individuale, di una data situazione sociale e nella successiva simulazione da parte dei membri del gruppo delle relazioni sociali previste e rese necessarie dalla situazione stessa.24 L’obiettivo è riflettere e lavorare sui ruoli sociali condivisi: sviluppando la capacità di analisi di situazioni complesse e individuare alternative comportamentali diverse, al fine di prendere decisioni in presenza di elevate pressioni psicologiche; potenziando le capacità di comunicazione e gestione delle relazioni interpersonali attraverso una migliore gestione delle emozioni, capacità di ascolto e comprensione dell’altro.25 A livello terapeutico i giochi di ruolo costituiscono un valido strumento che permette una modalità esperienziale basata sulla capacità di immedesimarsi in un personaggio che vive una determinata situazione. Attraverso l’assunzione di un ruolo si ha la possibilità di esplorare le alternative possibili e di verificare le proprie ipotesi e intuizioni. Questo rende il role-playing un utile strumento per riflettere su di sé e sugli altri, per comprendere i modelli mentali con cui si affrontano, il più delle volte inconsapevolmente, le situazioni. Il gioco, inoltre, stimola e promuove la definizione dei confini corporei, la comunicazione delle emoOverview; Gjedde Potentials of a Narrative Game-Based Curriculum Framework for Enhancing Motivation and Collaboration. 24 J. Arjoranta, Defining Role-Playing Games as Language-Games, «International Journal of Role-Playing» (2) 2011 3-17 (retrieved from http://www.ijrp. subcultures.nl/wp-content/issue2/IJRPissue2-Article1.pdf); J.C. Flack, L.A. Jeannotte, F. De Waal, Play signaling and the perception of social rules by juvenile chimpanzees (Pan troglodytes), «Journal of Comparative Psychology» 118 (2) 2004 149; Tuomas H., Physical Presence in Simulation, A Scratch at the Surface of Complexity. 25 S.S. Boocock, E.O. Schild, Simulation games in learning, Sage Publications, Beverly Hills CA, 1968; Y. Anzai, H.A. Simon, The theory of learning by doing, «Psychological Review», 86(2) 1979, 124-140 (https://doi.org/10.1037/0033295X.86.2.124); Mesibov, Social skills training with verbal autistic adolescents and adults: A program model. 193
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zioni e la gestione di tensioni e conflitti provenienti dal mondo interno o dall’ambiente, il senso di competenze e stima di sé e contribuisce, in tal modo, allo sviluppo del senso sociale.26 Questi elementi ci segnalano che il gioco non solo svolge una funzione strutturante l’intera personalità ma per certi versi riveste anche un ruolo terapeutico.27 Il gioco, inoltre, attiva funzioni corticali superiori: la gioia sociale stimolata dal gioco e condivisa è uno dei momenti terapeutici più potenti per gli esseri umani in buona salute così come per pazienti con problemi psichiatrici. I sentimenti sociali potenziano i protocolli psicoterapici e le funzioni cerebrali cognitive di apprendimento e memoria.28
S.L.B. Kaylor, Dungeons and Dragons and literacy: The role tabletop role-playing games can play in developing teenagers’ literacy skills and reading interests, «Graduate Research Papers» 215 2017 1-47. 27 W.A.H. Robinson, The Potential Benefits and Deficits of Role Playing Gaming, Rpgreasearch.com, 2007. 28 A. Team, 5 Surprising Bene ts of Role-playing Games There’s Something For Everyone Ready to Try Roleplay Games for Yourself ?, 2017 (retrived from: https://www.lifehacker.com.au/2015/02/the-surprising-benefits-of-roleplaying-games-and-how-to-get-started/); S. Ahuja, A. Saha, They lead, you follow: Role of non-directive play therapy in building resilience, «Journal of Psychological Research», 11 (1) 2016 167-175 (retrieved from http://web.b.ebscohost.com/ehost/detail/detail?vid=15&sid=0cff8117-c949-4fbe-8cb5-eb005 b3264a2%40sessionmgr120&bdata=Jmxhbmc9aXQmc2l0ZT1laG9zdC1saXZl#AN=2016-32553-017&db=psyh); D.J. Leonard, T. Thurman, Bleed out on the Brain. The Neuroscience of Character to Player Spillover in Larp, «International Journal o Role-Playing» 9 2018 9-15; A. Lieberoth, Shallow Gamification: Testing Psychological Effects of Framing an Activity as a Game, «Games and Culture» 10 (3) 2015, 229-248 (https://doi.org/10.1177/1555412014559978); G. Lockwood, I. Shaw, Schema Therapy and the Role of Joy and Play, in J. Wiley & Sons, The Wiley-Blackwell Handbook of Schema Therapy, Chichester, UK, 2012, 209-227 (retrived from: https://doi.org/10.1002/9781119962830. ch14); M.L. Manca Amore e Psiche. La dimensione corporea in psicoterapia, Alpes, Roma, 2018; B. Shapiro, Your core energy is withink your grasp, «Bioenergetic Analysis» 18 Edition Psychosozial, 2008; Idem, Ridurre la paura attraverso la risata, manuale per il workshop, 2013 (retrived from: http:// www.fiap.info/workshop2016/pdf/nitrodi-b-81.pdf). 26
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4. La promozione di consapevolezza, senso di comunità ed esperienze significative Nel progetto psicoeducativo “Le Nere Lame”, basato sull’applicazione del gioco di ruolo usato intenzionalmente con obiettivi terapeutici, sono proposte attività che concretamente, a partire dal corpo, promuovono consapevolezza, senso di comunità e percorsi esperienziali significativi e progressivi, contribuendo allo sviluppo del processo identitario dell’individuo nel contesto. La promozione intenzionale di tali elementi si colloca in netta contrapposizione al narcisismo, alla fluidità valoriale e relazionale e al sensation seeking, elementi stimolati dai sistemi ricorsivi di gratificazione interpersonale dei social network, illustrati in precedenza.29 Il progetto intende favorire i processi di crescita personale e adattamento sociale in adolescenti e giovani adulti, con l’intento di promuovere anche l’inclusione di individui in condizione di rischio/fragilità psichica, utilizzando una metodologia innovativa e coinvolgente.30 Obiettivi espliciti del progetto,31 i quali orientano ed ispirano le attività proposte, sono: Das, et al., Interventions for Adolescent Mental Health: An Overview of Systematic Reviews. 30 M. Scicchitano (a cura di), Metodo LabGDR; S.L. Bowman, A. Standiford, Enhancing healthcare simulations and beyond: Immersion theory and practice, «International Journal of Role-Playing» 6 2016 12-19. 31 M. Scicchitano (a cura di), Metodo LabGDR; S.R. Balzac, Capella University, Social And Behavioral Sciences, U., An exploration into how Live Action Role-Playing game (LARP) participants e…, Proquest, East Eisenhower Parkway, 2019 (retrieved from http://web.b.ebscohost.com/ehost/detail/deta il?vid=13&sid=15eac25e-cf29-4650-a56c-fd27e4e13871%40sessionmgr120&bdata=Jmxhbmc9aXQmc2l0ZT1laG9zdC1saXZl#AN=2017-01054-007&db=psyh); D. Simkins, Negotiation, simulation, and shared fantasy: Learning through live action r...: The University of Wisconsin, Madison, 2012. Retrieved February 21, 2019 (from, http://web.b.ebscohost.com/ehost/detail/detail?vid =12&sid=0cff8117-c949-4fbe-8cb5-eb005b3264a2%40sessionmgr120&bdata=Jmxhbmc9aXQmc2l0ZT1laG9zdC1saXZl#db=psyh&AN=2012-99171-082). 29
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• Aumento delle capacità di problem solving e di coping necessarie al superamento di situazioni stressanti; • Acquisizione di nuove autonomie e senso di auto-efficacia; • Raggiungere un maggiore grado di consapevolezza e di capacità di auto-monitoraggio; • Stimolazione di capacità riflessive e metacognitive su emozioni, identità e sistemi valoriali (personali e sociali di provenienza e quello Tolkieniano); • Sviluppo delle abilità di Teoria della Mente (Theory of Mind - ToM); • Potenziamento delle Social skills e promozione di comportamento collaborativo;32 • Promozione di adattamento sociale e costruzione di legami di amicizia. Di seguito si illustra come concretamente sono promossi nel progetto le finalità e le dimensioni precedentemente esposte, attraverso strumenti psico educazionali ed attività pratiche.33 Il senso di comunità è promosso attraverso:34 • I Plotoni: i ragazzi svolgono una parte delle loro avventure divisi in tre plotoni, piccoli gruppi identificati con i nomi di tre personaggi che per l’ambientazione di riferimento hanno sconfitto draghi per i quali vengono a interagire tra partecipanti anche ad anni differenti.35 S.L. Bowman, A. Lieberoth, Psychology and Role-Playing Games, in J.P. Zagal, S. Deterding (eds.), Role-Playing Game Studies: Transmedia Foundations, Routledge, New York 2018, 245-264. 33 M. Scicchitano (a cura di), Metodo LabGDR. 34 Ibidem. 35 J.M. Chan, R. Lang, M. Rispoli, M. O’reilly, J. Sigafoos, H. Cole, Use of peer-mediated interventions in the treatment of autism spectrum disorders: A systematic review, «Research in Autism Spectrum Disorders» 3 (4) 2009 876889 (https://doi.org/https://doi.org/10.1016/j.rasd.2009.04.003); S.J. Rogers, Interventions That Facilitate Socialization in Children with Autism, «Journal 32
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• La peer education: la divisione in plotoni mira a potenziare le conoscenze acquisite e dar spazio alla trasmissione orizzontale delle acquisizioni e delle esperienze, favorendo tra i membri del gruppo una modalità di partecipazione attiva, il confronto di differenti punti di vista, lo scambio di idee, l’analisi dei problemi e la ricerca condivisa di soluzioni.36 • Il circle time: strumento utilizzato per favorire la possibilità per ogni singolo di contribuire ai processi di gruppo; ciascuno nella sua diversità ha la possibilità di esprimersi e tutti i contenuti sono riconosciuti, condivisi e valorizzati; i conduttori saranno gli psicologi e le regole condivise al momento dell’avvio dell’attività. • Battle for Vilegis: il gruppo si appoggia all’organizzazione di Battle For Vilegis nella quale abbiamo trovato un ottimo partner interessato agli aspetti educativi e riabilitativi del GRV. A fine anno proponiamo ai ragazzi di partecipare a Battle for Vilegis, un evento live nazionale della durata di quattro giornate al termine del quale viene svolta una verifica finale sull’esperienza e su tutto l’anno, in gruppo attraverso un circle time. • Colloqui psicologici individuali: vengono effettuati nel corso dell’anno (almeno 2) con uno psicologo di riferimento, utili per la definizione e la verifica degli obiettivi individuali, la somministrazione dei test e la gestione di eventuali criticità. Il percorso proposto, infatti, pone attenzione sia alla dimensione del grupof Autism and Developmental Disorders» 30 (5) 2017 399-409 (https://doi. org/10.1023/A:1005543321840). 36 Chan, Lang, Rispoli, O’reilly, Sigafoos, Cole, Use of peer-mediated interventions in the treatment of autism spectrum disorders: A systematic review; K. Pierce, L. Schreibman, Increasing complex social behaviors in children with autism: effects of peer-implemented pivotal response training, «Journal of Applied Behavior Analysis» 28 (3) 1995 285-295 (https://doi.org/10.1901/ jaba.1995.28-285). 197
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po che a quella individuale offrendo a ciascun partecipante la possibilità di definire obiettivi personali nell’ottica di potenziare quelle abilità personali che permettano d’essere più efficaci in quanto individui parte d’un gruppo. Mormegiliath: nome della Compagnia in elfico, durante le sessioni viene utilizzato spesso dai formatori o dai singoli giocatori come forma di incitamento, sostegno, esultanza; tale espressione, che si traduce letteralmente “tutte le Nere Lame”, pone enfasi sull’importanza dell’appartenenza e del sostegno reciproco.37 È promosso un maggiore grado di consapevolezza e di capacità di auto-monitoraggio attraverso:38 Laboratori creativo-espressivi: le arti espressive possono sostenere il processo di sviluppo dei talenti individuali, valorizzare le capacità espressive e creative, svilupparle e potenziarle. Inoltre, l’arte può essere efficace anche nella riduzione dei livelli di stress e un mezzo utile per esprimere le proprie emozioni e comunicarle agli altri (teatro, disegno, etc.).39 Interventi basati sulla mindfulness: vengono dedicati specifici momenti alla consapevolezza, per favorire i processi di autoregolazione della gestione delle emozioni e dei processi sociali, stimolare meccanismi che promuovono qualità umane positive come empatia, compassione, altruismo. Tale strumento viene inserito in ogni fase
Rogers, Interventions That Facilitate Socialization in Children with Autism; Chan, Lang, Rispoli, O’reilly, Sigafoos, Cole, Use of peer-mediated interventions in the treatment of autism spectrum disorders: A systematic review. 38 M. Scicchitano (a cura di), Metodo LabGDR. 39 E. Fassbinder, U. Schweiger, D. Martius, O. Brand-De Wilde, A. Arntz, Emotion regulation in schema therapy and dialectical behavior therapy, «Frontiers in Psychology» 7 2016 1-19 (https://doi.org/10.3389/fpsyg.2016.01373); D.M. Thorp, A.C. Stahmer, L. Schreibman, Effects of sociodramatic play training on children with autism, «Journal of Autism and Developmental Disorders» 25 (3) 1995 265-282 (https://doi.org/10.1007/BF02179288). 37
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del progetto (GDR da tavolo e GRV) e applicato sia in modalità “In Game” che “Out Game”.40 • Infine, al fine di promuovere ed offrire percorsi esperienziali significativi e progressivi, sono utilizzati i seguenti strumenti ed attività:41 • La dinamica dell’Ombra: questa dinamica viene utilizzata per rappresentare gli aspetti dell’esperienza umana personale e sociale che possono favorire l’instaurarsi di una condizione di malessere persistente. Attraverso la progressiva evoluzione ed involuzione nel personaggio di elementi relativi all’Ombra, egli potrà sperimentare esperienze progressivamente significative per lo strutturarsi della sua identità. Alla base di tale dinamica c’è l’idea che ogni persona abbia un’inclinazione alla vulnerabilità che può, a causa della corruzione, portare alla sottomissione all’Ombra. Non è la vulnerabilità in sé ad essere elemento del male, ma diventa il perno interiore sul quale l’Ombra fa leva per soggiogare. I tipi di vulnerabilità, ispirati ai peccati capitali, tra cui i ragazzi possono scegliere per il proprio personaggio, sono: ricerca di potere (superbia), desiderio di conoscenza (vanagloria), gusto del bello (avidità), veemenza (ira), distacco (accidia), edonismo (gola lussuria). Il messaggio chiave è che avere la capacità di godere di ciò che da piacere sia una qualità che se insidiata dal male può portare a vivere unicamente per procurarsi piacere fine a sé stesso e ad esserne dipendente. Il personaggio vive quindi un movimento interiore tra tali elementi più o meno presenti dentro di sé e, gradualmente e progres A. Rivers, I.E. Wickramasekera, R.J. Pekala, J.A. RiversEmpathic Features and Absorption in Fantasy Role-Playing, «American Journal of Clinical Hypnosis» 58 (3) 2016 286-294 (https://doi.org/10.1080/00029157.2015.11036 96); S.D. Preston, F.B. De Waal, Empathy: Its ultimate and proximate bases, «Behavioral Brain Science», 25 (1) 2002 1-20. 41 M. Scicchitano (a cura di), Metodo LabGDR. 40
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sivamente, sperimenta un mutamento significativo del proprio sé. • Ambientazione Tolkieniana: il gioco si serve di un’ambientazione specifica all’interno della quale, seguendo il regolamento e l’iniziativa dei singoli, i giocatori si muovono e procedono insieme. Ogni giocatore può caratterizzare il suo personaggio, a seconda del tipo di gioco di ruolo, nelle sue peculiarità caratteriali, nell’abbigliamento, nell’equipaggiamento e nella storia, che è sempre personale ed unica. Considerato il contesto sociale attuale, di cui già discusso in precedenza, e le difficoltà comuni tra i giovani, i quali faticano talvolta a orientarsi e a trovare riferimenti e sistemi valoriali stabili, si è scelto di utilizzare un’ambientazione che fosse dotata di questo tipo di contenuti: il mondo fantastico creato da J.R.R. Tolkien. L’ambientazione viene usata, quindi, non soltanto per la scelta di nomi, classi dei personaggi e sfondo narrativo ma, soprattutto, per attingere dall’ambiente valoriale proposto dall’autore, i temi centrali quali l’esistenza del Bene e la necessità di opposizione al Male, la libertà, l’importanza del coraggio e dell’epica, il senso del sacrificio, il valore della compassione, dell’amicizia e del gruppo (la “Compagnia”), la responsabilità individuale, il pericolo dell’Ombra, la quale interessa l’esperienza di ciascun uomo, fuori e dentro di lui. • Cura, Combattimento e Sapienza: sono rappresentati nel gioco sia nello stemma delle Nere Lame (rispettivamente: lacrima, spada e stelle) che dai tre maestri referenti. Sono i tre aspetti che i personaggi sono chiamati ad “allenare” se vogliono davvero aderire alla Compagnia e avventurarsi nella missione di difesa del Bene e lotta contro il Male. In conclusione, è importante sottolineare la centralità della dimensione corporea nel perseguire gli obiettivi prefissati attra200
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verso tali strumenti e modalità. Grazie ai più recenti sviluppi nella comprensione del funzionamento mentale e di pratiche cliniche e formative, il ruolo del corpo nei contesti riabilitativi e psicoterapeutici ha preso sempre più spazio e sostanza: si sta attuando il passaggio sostanziale da interventi quasi esclusivamente verbali a interventi sul corpo dove il processo terapeutico è incentrato sul riconoscimento dell’attività mentale in quanto tale attraverso interventi meditativi ed esperienziali. Apprendendo in gruppo e con il corpo, si sfrutta il modeling come modalità e fonte di acquisizione di schemi comportamentali. 5. Conclusione In un contesto caratterizzato dal rischio di iperconnessione ed abuso dei dispositivi tecnologici, d’una crisi identitaria caratterizzante la società moderna e dal rischio concreto che un circolo autoperpetuante continui a minare l’identità della persona umana, è stata proposta una riflessione sul ruolo che le emozioni hanno nella costruzione dell’identità personale. Tale riflessione trova concreta applicazione nel laboratorio psicoeducativo, sperimentato ormai da diversi anni “Le Nere Lame”, frutto della brillante applicazione del Metodo LabGDR. Bibliografia W. Admiraal, J. Huizenga, S. Akkerman, G. Ten Dam, The concept of flow in collaborative game-based learning, «Computers in Human Behavior» 27 (3) (2011) 1185-1194. S. Ahuja, A. Saha, They lead, you follow: Role of non-directive play therapy in building resilience, «Journal of Psychological Research», 11 (1) 2016 167-175 (retrieved from http://web.b.ebscohost.com/ehost/ detail/detail?vid=15&sid=0cff8117-c949-4fbe-8cb5-eb005b3264a2%40sessionmgr120&bdata=Jmxhbmc9aXQmc2l0ZT1laG9zdC1saXZl#AN=2016-32553-017&db=psyh). N. Ajleaa, N. Maarof, The Effect of Role-Play and Simulation Approach on Enhancing ESL Oral Communication Skills, «International Journal of Research in English Education», 3/3 2018 63-71.
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terza parte questioni aperte
Identità e intimità: educazione in famiglia Mariolina Ceriotti Migliarese
1. Premessa Credo che separare nella riflessione il discorso educativo dal discorso psicologico sia una semplificazione che risulta oggi particolarmente fuorviante: si educa infatti sempre nel contesto di una relazione. Possiamo tranquillamente affermare che gli aspetti psico-relazionali nella loro complessità costituiscono lo sfondo, il clima (positivo o negativo/costruttivo o distruttivo) nel quale si costruisce ogni rapporto educativo. Anche di fronte al sorgere di difficoltà o distorsioni nel corso del processo di sviluppo, non è sempre facile decidere se l’origine principale dei problemi sia da ricercare in errori di tipo educativo, in problematiche psico-relazionali, o se, come più probabile, veda in gioco entrambe le questioni. Chi come me ha la fortuna di svolgere il bellissimo lavoro dello psicoterapeuta ha il privilegio di poter riflettere in modo approfondito non solo su ciò che serve al suo paziente nell’hic et nunc della terapia, ma anche su tutto ciò che riguarda la sua storia e su ciò che in quella storia ha e non ha funzionato, e dunque su ciò che sarebbe stato possibile fare (sia dal punto di vista relazionale che da quello educativo) per prevenire e forse evitare i danni e le fatiche incontrate dal paziente. È una riflessione che potrebbe fornire spunti davvero interessanti in un’ottica preventiva. Nel confronto con la storia di ciascuno, si osserva come la personalità si costruisca sempre intorno a due dimensioni principali: da un lato c’è la dotazione personale, con le sue caratteristi213
Identità e intimità: educazione in famiglia
che innate sia biologiche che psichiche; dall’altro c’è il polo delle relazioni che hanno contribuito e continuamente contribuiscono a dare forma all’identità stessa; ne fanno parte le relazioni più prossime (quelle familiari), ma anche tutte le altre, allargate secondo centri concentrici: si parte dalle relazioni primarie di cura, per proseguire con quelle parentali, amicali ed educative, i diversi rapporti lavorativi e sociali, fino ad arrivare al contesto culturale di appartenenza. Dall’intersecarsi di queste due complesse dimensioni emerge poco alla volta un quadro unico; in questo quadro il “modo di funzionare” di ciascuno (sia esso un modo adeguato o un modo invece problematico o disfunzionale) rappresenta sempre la migliore strategia vitale che la persona ha potuto adottare fino a quel momento, cercando di conciliare le risorse e i bisogni personali con il modo in cui si pone nei suoi confronti l’ambiente di riferimento. È fondamentale però collocare tutte queste riflessioni all’interno di un’ottica “evolutiva”, che tenga conto cioè delle differenze cruciali che si incontrano nelle diverse età di sviluppo: il bambino (anche in questo caso con variabili legate all’età), l’adolescente e l’adulto non possono leggere e interpretare nello stesso modo ciò che sperimentano di sé e della realtà: le differenze sono sostanziali proprio per la progressiva maturazione del pensiero, che rende il bambino e l’adulto profondamente diversi sul piano qualitativo. Proprio per questo, il nostro mondo psichico è popolato prevalentemente non tanto dalla oggettiva realtà dei fatti accaduti, quanto soprattutto dall’interpretazione che di quei fatti abbiamo potuto dare nel momento di sviluppo in cui si sono verificati: momento che ci rende più o meno recettivi, più o meno vulnerabili, più o meno capaci di comprendere e di far fronte a quello che accade. Per stabilire buone relazioni e per mettere in atto processi educativi efficaci, è molto importante perciò conoscere queste differenze e farne oggetto di riflessione; si tratta infatti di differenze e specificità che riguardano sia le risorse, che i bisogni, che i “compiti evolutivi” di ogni fase della vita. Questo richiede di 214
Mariolina Ceriotti Migliarese
affiancare ad un pensiero più generale (relativo agli orientamenti e alle modalità di fondo necessarie per una buona relazione affettiva ed educativa) un pensiero più specifico e articolato per età, soprattutto per quanto riguarda le competenze relazionali ed educative necessarie all’adulto per supportare adeguatamente le diverse fasi dello sviluppo. Se si tiene conto di questa premessa, risulta molto difficile parlare in modo esauriente degli interventi educativi utili a supportare fase dopo fase lo sviluppo dell’identità e dell’intimità nel contesto familiare. È possibile invece fornire alcune piste di orientamento, che richiedono però prima di tutto un chiarimento sulla relazione esistente tra identità e intimità. 2. La questione dell’identità Alla nascita il bambino non è dotato di alcun senso della propria identità e non potrebbe raggiungerla se non attraverso un lungo processo che passa attraverso le relazioni; si tratta di un percorso sostenuto in primo luogo dalle identificazioni con le figure genitoriali, e che si rende più complesso attraverso il costante “rispecchiamento” che riceviamo dall’ambiente; “essere visti” ci rimanda qualcosa di noi, e l’immagine che ogni relazione ci rimanda agisce e ci condiziona con una intensità che è proporzionale al valore che quella relazione riveste. Quando il bambino dice Io e quando parla di sé si appoggia dunque prevalentemente alle immagini che ha ricevuto, nel modo in cui le ha percepite e interiorizzate anche in rapporto alle possibilità del suo pensiero in quel momento; è importante in ogni caso ricordare che il desiderio di essere amato, apprezzato e riconosciuto dalle persone significative guida e modella l’agire in modo determinante per tutta l’età infantile. Lo sviluppo massiccio delle competenze cognitive e la nascita delle capacità autoriflessive dell’età puberale segnano un passaggio cruciale: con l’adolescenza si avvia un processo progressivo di “disidentificazione” dal mondo parentale, cui si ac215
Identità e intimità: educazione in famiglia
compagna la necessità di nuove identificazioni e di nuovi rispecchiamenti, diretti ora verso un mondo più allargato; il mondo familiare, che forniva un supporto importante alla prima identità, viene messo in discussione e sostituito (in modo solo parziale nei casi di sviluppo più fisiologici) da appartenenze nuove, a loro volta necessarie per supportare il processo di crescita. Tali appartenenze vengono ricercate soprattutto nel gruppo dei coetanei, che si riconoscono aggregandosi intorno a modelli simili, fortemente connotati e riconoscibili. L’identità è perciò un processo che ha uno snodo cruciale proprio nell’adolescenza; in adolescenza infatti le competenze cognitive, le capacità di astrazione, le modalità di gestione delle emozioni si modificano drasticamente, in conseguenza di un importante rimodellamento della struttura cerebrale (meccanismi di neurogenesi, di apoptosi o morte cellulare programmata, di mielinizzazione, di elaborazione e retrazione dendritica, di sinaptogenesi, di eliminazione di sinapsi). Assistiamo qui alla meravigliosa novità della nascita di un pensiero auto-riflessivo, come porta di accesso al mondo unico della propria intimità: una competenza nuova, che permette di mettere in discussione anche le immagini di sé precedentemente assimilate e di rimaneggiarle in modo profondo; è possibile ora mettere a confronto in modo critico le proprie sensazioni, sentimenti, impulsi, pensieri con i rimandi e i messaggi su di sé che arrivano dal mondo esterno. Ogni esperienza viene valutata ora anche in base alla risonanza che provoca nel mondo interno di ciascuno. L’adolescente ha fame di nuove esperienze e di nuovi rispecchiamenti, si confronta con nuove possibilità e con nuove immagini, e ha la possibilità preziosissima di inaugurare un percorso nel quale l’esperienza può trasformarsi in pensiero e in parola, divenendo così parte sempre più integrante della consapevolezza di sé. Dire “possibile” però non significa dire automatico, né sicuro: l’adolescenza è “per sua natura” un tempo di inquietudine in216
Mariolina Ceriotti Migliarese
torno al tema dell’identità, ma può divenire luogo di dispersione invece che tempo di consolidamento; la prima questione è dunque proprio quella di come sia possibile trasformare l’inquietudine in domande, evitando che si disperda in innumerevoli rivoli di emotività fine a se stessa. In assenza di ciò, l’adolescente rischia di strutturare un “Io senza profondità”, smarrito e frammentato nelle innumerevoli immagini identificatorie che di volta in volta lo colpiscono e lo attirano, facendo leva sulla sua forte emotività: potremmo dire in questo senso che “il fallimento del processo di identificazione è conseguenza del mancato accesso dell’esperienza al livello dell’intimità personale”, intesa come luogo nel quale l’esperienza vissuta viene lasciata risuonare, fino a rivestirsi di parole e a trasformarsi in domanda. Domanda che dovrà essere personale, alla ricerca di una risposta unica e altrettanto personale, perché nata dal contatto con il Sé. 3. La questione dell’intimità Parlando di intimità, dobbiamo avere in mente due diverse accezioni della parola: “l’intimità come il luogo più vero della propria identità” (luogo del Sé, inteso come la parte più profonda e personale dell’esperienza) e “l’intimità come il luogo più vero dell’incontro e della relazione con l’altro”. Ritengo che la difficoltà a dare spazio e valore alla propria dimensione interiore e la difficoltà a prendere consapevolezza piena di sé siano anche all’origine della difficoltà a costruire relazioni di vera intimità con l’altro e a comprenderne l’alterità inalienabile. Se l’identità personale non raggiunge una sufficiente stabilità, coesione e profondità, non è neppure possibile comprendere pienamente l’altro come “altro-da-sé”, dotato del proprio pieno diritto ad essere se stesso; la relazione rischia allora di trasformarsi in un gioco di proiezioni in cui il compito principale dell’oggetto è quello di continuare a rispondere ai nostri bisogni, soprattutto a quello di vedere confermato il nostro valore attraverso un costante rispecchiamento. 217
Identità e intimità: educazione in famiglia
Credo che l’esperienza angosciante di “vuoto” così frequente negli adolescenti e negli adulti di oggi, e che è la causa prima delle moltissime “dipendenze” con cui dobbiamo confrontarci (dipendenze da cibo, droghe, farmaci, gioco, relazioni affettive simbiotiche ecc.) dipenda in buona parte proprio dallo smarrimento del contatto con la propria intimità, e dunque con il proprio Sé. Stiamo assistendo sempre più allo sviluppo di identità di superficie, prive del nutrimento essenziale che nasce dal contatto con la propria intimità. Il vero benessere psichico nasce invece proprio dalla possibilità di sperimentare il Sé come stabile e soddisfacente, come una sorgente interiore di creatività, dalla quale è possibile muovere per stabilire obiettivi e dare direzione alla propria vita, e per costruire relazioni di incontro autentico con gli altri. La questione posta al mondo adulto riguarda a questo punto la domanda: cosa facilita o al contrario ostacola la possibilità per il bambino prima e per l’adolescente poi di incontrare se stesso, di scoprire la dimensione della propria intimità, di apprezzarla, di alimentarla, e di raggiungere quindi il senso pieno della propria identità? Cosa favorisce lo sviluppo di una identità coesa, che non si riduca ad un caleidoscopio di immagini “di superficie” che lascia inquieti, smarriti e privi della percezione di poter contare su un proprio baricentro personale? Il percorso che porta a scoprire e coltivare la propria intimità non avviene da solo, ma richiede l’acquisizione di una progressiva consapevolezza personale. Se da un lato possiamo affermare che nessuno di noi può fare a meno di contenere in sé un luogo “intimo”, è invece del tutto possibile non conoscerlo, non frequentarlo, non coltivarlo. È del tutto possibile ignorarlo rimanendo alla superficie di sé, anche se questo comporta, come risposta, quella di “ammalarsi”. La parola “intimo” è il superlativo assoluto di “interiore” e indica qualcosa che si trova “il più all’interno possibile”. L’intimità è un luogo silenzioso, uno spazio segreto, qualcosa che può essere raggiunto solo da chi ne è il proprietario; uno spazio prezioso, 218
Mariolina Ceriotti Migliarese
dove far riposare ciò che di noi è più personale, più delicato, più profondo. Nell’intimo di una persona si trovano le tracce vive dei suoi ricordi e della sua esperienza, con la loro colorazione personale e mai completamente condivisibile. È lì che il sé di ciascuno ha le proprie radici e il proprio fondamento. L’intimità è anche un luogo legato alla nostra corporeità: un luogo di esperienza più che di pensiero, il luogo dove origina la nostra vitalità. Ma perché questo luogo ricco e segreto possa diventare vera sorgente creativa, è necessario che possa prendere forma attraverso un linguaggio: è necessario che ciò che percepiamo, sperimentiamo, “sentiamo” attraverso le nostre emozioni possa venire espresso. Noi possediamo pienamente (e dunque possiamo anche condividere) solo ciò che sappiamo nominare; abbiamo bisogno di un linguaggio che ci aiuti a prendere consapevolezza di noi stessi: abbiamo bisogno di parole perché ciò che sentiamo acquisti pieno significato. Noi possediamo la nostra storia nella misura in cui riusciamo a narrarla a noi stessi e dunque abbiamo anche la possibilità di condividerla. 4. Identità: spunti operativi Il percorso identitario segue in qualche modo un suo iter “spontaneo” (positivo o negativo che sia) perché le identificazioni e i rispecchiamenti si verificano in modo naturale e inevitabile nello stesso momento in cui il bambino/adolescente si trova immerso in un contesto relazionale. La questione, a questo livello, è dunque articolata su due punti: come favorire rispecchiamenti corretti e positivi, e quali modelli identificatori mettere a disposizione delle generazioni che ci seguono. La “questione educativa” mostra in questo caso tutta la sua disarmante semplicità: educare è soprattutto “essere per trasmettere”. Tutti coloro che si occupano e si sono occupati di bambini e di adolescenti sia dal punto di vista psicologico che da quello 219
Identità e intimità: educazione in famiglia
educativo ripetono la stessa cosa: ciò che serve ai ragazzi è soprattutto che ci siano adulti che si prendano la responsabilità di fare gli adulti. Fare gli adulti significa incoraggiare la sperimentazione dei ragazzi (sperimentazione anche cognitiva e intellettiva); fissare confini di sicurezza al loro comportamento; testimoniare con le proprie parole ed azioni che la vita ha un senso e un valore; insegnare che ciò che ha valore va curato, rispettato e conquistato, se serve anche con fatica. Purtroppo la mancanza attuale di un contesto adulto capace di riconoscere un valore incondizionato alla vita comporta inevitabilmente per i ragazzi una grave perdita di senso e di direzione: non c’è più niente da cercare, niente da contestare, niente da conquistare che vada al di là del puro successo e benessere personale. Dovremmo riflettere sull’enorme successo di serie Tv come quella recente di “Euphoria” su Sky, che rappresentano il disorientamento identitario di una generazione alle prese con un mondo senza più adulti. I ragazzi si riconoscono in questo smarrimento, che diventa per loro una nuova bandiera: l’identità di chi rinuncia persino all’idea di identità, la non-identità come nuovo modo (e disperato) di stare nel mondo. Ciò che dunque il mondo adulto in generale e ogni singolo adulto in particolare (genitore o educatore che sia) deve fare da subito è perciò interrogarsi seriamente sulle ragioni del proprio vivere, perché solo il riconoscerle può orientare in modo significativo ed efficace anche ciascuna delle sue macro o micro-scelte educative. Il ruolo degli adulti nel processo di identificazione dei figli può essere riassunto in alcuni brevi punti, che sarebbero naturalmente da approfondire uno per uno: • esserci (prima e indispensabile condizione, che richiede anche tempo e presenza); • prendere consapevolezza di quali modelli di identificazione stiamo offrendo; 220
Mariolina Ceriotti Migliarese
• permettere all’adolescente il processo di disidentificazione, senza temere le aree di conflitto; • trasmettere ai ragazzi una fiducia sempre rinnovata; • indicare senso e valori; • dare regole chiare che orientino e fissino i confini all’agire dei figli, ricordando che con la crescita ogni regola deve lasciare progressivamente il posto al raggiungimento di un’autonomia; • non sostituirsi a loro, ma permettere esperienza e giudizio, commisurati all’età. 5. Intimità: spunti operativi Una riflessione diversa si apre se pensiamo in modo più specifico al “tema dell’intimità”. Ciò che permette di coltivare lo spazio dell’intimità personale, ma anche di trasformare i semplici “vissuti” in esperienza feconda passa attraverso “la trasformazione dell’emozione in parola”: • parola per definire (le cose, i sentimenti, le sensazioni, le emozioni…) che è insieme modo per conoscere e per appropriarsi dei contenuti; • parola per interrogare, per fare domande su di sé, sul mondo, sul senso, sulla vita; • parola per definirsi, detta con libertà e accolta/ascoltata con libertà; • parola che cerca una oggettivazione, come nella scrittura; • parola detta a noi stessi, come nella riflessione; • parola sospesa, come nel silenzio; • parola capace di costruire la narrazione della propria storia. La parola è per definizione sempre rivolta ad un “tu”: è per definizione sempre relazionale. La parola, e con lei il pensiero, non si sviluppano in assenza di un altro che si definisca come colui che ascolta, che ci ascolta. 221
Identità e intimità: educazione in famiglia
Lo sviluppo di una buona identità, quello basato sul rapporto con la propria intimità, nasce dunque anche dalla possibilità di condividere con l’altro ciò cui stiamo cercando di dare forma: la parola che si va scoprendo su di sé. Abbiamo bisogno di dirci e di venire ri-conosciuti. È questo bisogno di venire riconosciuti per riconoscersi ciò che spinge tra l’altro oggi i ragazzi (ma non solo…) alla sovraesposizione della propria immagine in rete: si attende con ansia una risposta sotto forma di like o di commenti: si attende la conferma che qualcuno ci ha visto, e che dunque esistiamo. Ma cosa mostriamo agli altri in questo modo se non un caleidoscopio di immagini di superficie? La domanda inconsapevole è una domanda identitaria (Cosa mi dici di me? Che valore mi dai? E dunque: Chi sono?). Ma la risposta, impersonale e fugace, non può essere soddisfacente: per sapere chi siamo abbiamo bisogno di relazioni personali. Cosa può dunque fare il mondo adulto? Aiutare a coltivare l’intimità (e dunque il senso unico del Sé e un’identità coesa e personale) significa lavorare ogni giorno sullo spazio dato alla parola e al pensiero nel rapporto con i figli. Il terreno va preparato ben prima dell’adolescenza, perché nel momento in cui il figlio cercherà se stesso possa avere a disposizione gli strumenti che gli sono necessari. Anche in questo caso posso provare a fornire spunti in ordine sparso, che necessitano di approfondimento: • Si può iniziare a parlare ai propri figli già nel grembo: il bambino è già un “tu”, un “altro-da-sé”. La nostra voce gli è necessaria. • Favorire l’allenamento di tutti i sensi all’ascolto; i nostri sensi sono le nostre porte sul mondo e il dato sensoriale costituisce la base percettiva del Sé: è fonte di una ricchezza non sostituibile. • Non temere le domande, e non soffocarle: ascoltare le gioie, le paure, i perché dei bambini con curiosità autentica. 222
Mariolina Ceriotti Migliarese
• Non soffocare “la” domanda (di senso). Non soffocare il naturale senso religioso dei bambini, e non eludere le loro domande impegnative. Il “Tu” di Dio è per tutti, anche per chi non ha avuto la fortuna di un tu umano coerente e affidabile. • Dare ascolto vero a ciò che viene detto dal figlio, così come lui lo dice: il bambino impara a pensare parlando, ma anche l’adolescente affina il proprio pensiero parlando a qualcuno che abbia davvero interesse ad ascoltarlo. • Favorire la capacità di ascolto (la voce che narra, le favole, le immagini interiori). • Favorire la scrittura, che è un importante strumento di riflessione e di pensiero, spesso un parlare con sé. • Favorire la lettura, che arricchisce il linguaggio e dunque aumenta la possibilità di avere le parole per dire le cose, in tutta la loro complessità. • Allenare al silenzio (si pensi a Maria Montessori: le “lezioni di silenzio”). • Favorire la “contemplazione” (la capacità di “osservare amorevolmente” le cose). • Ritrovare lo spazio del gioco libero: il gioco simbolico, che è prima espressione della creatività naturale del bambino (si pensi a Winnicott): essere bambini non può essere considerato solo come un apprendistato della vita adulta (o adultescente)! • Far riflettere su un uso responsabile dei media, prendere consapevolezza di ciò che vogliamo trasmettere di noi e perché (immagini e parole). Bibliografia M. Ceriotti Migliarese, La famiglia imperfetta, Ares, Milano 2010. Eadem, L’alfabeto degli affetti, Ares, Milano 2021. E. Erikson, I cicli della vita, continuità e mutamenti, Armando, Roma 1999. A. Freud, Normalità e patologia del bambino, Feltrinelli, Milano 1970. V. Gheno, B. Mastroianni, Tienilo acceso (posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello), Longanesi, Milano 2018. 223
Identità e intimità: educazione in famiglia
P. Jeammet, Adulti senza riserva, Raffaello Cortina, Milano 2008. C. Mencacci, G. Migliarese, Quando tutto cambia. La salute psichica in adolescenza, Pacini, Pisa 2017. M.-A. Martì Garcìa, L’intimità, conoscere e amare la propria ricchezza interiore, Ares, Milano 2004. C. Risè, Guarda, tocca, vivi, Sperling & Kupfer, Milano 2011. D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.
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La cura delle identità il rispetto della relazione; come riformulare gli approcci educativi, l’annuncio del Vangelo, la predicazione Giuseppe Brighina
Questo tema offre una preziosa occasione per riflettere sulle ricadute pratiche dell’ontologia relazionale. Per evitare un’analisi generalista, limiteremo, in due momenti distinti, l’indagine all’ambito educativo e formativo-pastorale. Cercheremo indirettamente di fare i conti con l’aporia, sentita oggi con viva sofferenza da molti educatori e formatori, secondo cui, nell’attuale contesto postmoderno, sia molto difficile, se non impossibile, comunicare in modo persuasivo e attraente un sapere sul senso dell’esistenza umana e delle sue dimensioni più rilevanti. 1. I nativi nichilisti e gli abitatori del sentire Iniziamo dall’ambito educativo. In queste note mi avvalgo anche dell’esperienza maturata nell’insegnamento della Religione cattolica nei licei statali. Grazie all’ora di religione vissuta da docente mi sono scontrato con l’aporia a cui prima accennavo. Ero convinto che la strada maestra per rendere significativa l’esperienza religiosa fosse la grande domanda sul senso della vita. Ma è bastato poco per capire che la mia strategia non era adeguata. Per lo più, i miei alunni erano convinti che ormai l’umanità, nel suo cammino lungo la storia e nella sua punta più avanzata, fosse giunta alla conclusione definitiva che la nostra vita sia priva di senso. Ho parlato di convinzione, ma non si tratta 225
La cura delle identità il rispetto della relazione
della conclusione di un rigoroso processo razionale quanto piuttosto di un sentire fortemente radicato. È giunto il momento di introdurre una categoria interpretativa che può esserci di aiuto. Mi riferisco a quella di nativi nichilisti. L’espressione è, evidentemente, un calco della più nota nativi digitali, riferita a quanti sono nati già nell’epoca dell’informatica, dei dispositivi elettronici e di internet. I nativi nichilisti sono i ragazzi nati in un contesto culturale in cui la koiné più diffusa è nichilista. Tutti ci troviamo a vivere, per la prima volta nella storia, in un’epoca di nichilismo di massa o nichilismo compiuto. C’è però una differenza non piccola. Noi adulti abbiamo conosciuto un mondo non nichilista e abbiamo assistito al cambiamento epocale del crollo dell’idea di Dio dal vertice dell’ordine simbolico. I ragazzi di oggi invece sono venuti alla luce in un mondo nichilista come se fosse l’unico mondo, come se il mondo fosse da sempre stato nichilista. Non hanno partecipato alla tragedia della morte di Dio, nel senso in cui ne parla Nietzsche; non hanno vissuto l’esperienza angosciante del precipitare nell’abisso senza poter trovare un appiglio che interrompa questa folle corsa verso il nulla.1 Quando sono nati, Dio era già culturalmente morto. È molto difficile, se non impossibile, non provare un senso di smarrimento nei confronti dei nativi nichilisti. Allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere la loro innocenza. Non hanno scelto di essere nichilisti, sono nati così. A questo punto la sfida «Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? – Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?», F. Nietzsche, La gaia scienza, Libro III, n. 125, in F. Masini (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V/2, Adelphi, Milano 1965, 151. 1
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Giuseppe Brighina
sta nel chiedersi se è possibile far qualcosa per riaccendere in questa nuova generazione l’inquietudine per il senso oppure se bisogna rassegnarsi e gettare la spugna. Una prima strada possibile è aiutare i nativi nichilisti a comprendere che è molto difficile essere coerenti con una posizione radicalmente nichilista. È inutile una riflessione teorica e astratta con loro su questo punto. Bisogna prendere in esame i contenuti simbolici di cui si nutrono (canzoni, serie televisive, film, programmi giornalistici d’impatto – per esempio Le Iene – post nei social, libri etc.); alla luce di questa indagine senza pregiudizi, non potranno non riconoscere che spesso in questi testi viene presentata la sensatezza di vari ambiti dell’esperienza umana. Facciamo qualche esempio: molte canzoni, apprezzate dagli adolescenti di oggi, presentano un’ingente carica di rabbia per un mondo che appare ingiusto, per genitori che tradiscono il patto affettivo nei confronti dei figli, per una società che non assicura un futuro ai giovani. etc. Ma questa rabbia non è generata da un’aspettativa di senso che non viene soddisfatta? Perché provare questo sentimento se tutto è privo di senso? Come reagirebbe un ragazzo se il padre lo privasse progressivamente di spazi di libertà (per esempio: orari di rientro, viaggi, acquisti di prodotti informatici…) giustificandosi che la libertà è priva di senso e che la sua autorità paterna è, invece, fondata sul suo massiccio potere economico? Come ritenere privo di senso ciò che risulta piacevole? Anche se, dall’interno dell’esperienza piacevole, si accende la domanda sull’estensione dell’esperienza: come ebbe a dire Nietzsche,2 il piacere vuole eternità, profonda eternità, ma non riesce a ottenerle e lascia delusi. Perché in un mondo privo di senso si desidera un piacere eterno e profondo?
Mentre il dolore vuole eredi, vuole figli non se stesso perché è sensato solo se è fecondo, il piacere «vuole se stesso, vuole l’eternità, vuole il ritorno, vuole il tutto-a-sé-eternamente-eguale», F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra IV, Il canto del nottambulo, in F. Masini (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, 12 «”ogni piacere vuole eternità, vuole profonda eternità». 2
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La cura delle identità il rispetto della relazione
C’è anche una seconda strada, forse migliore della prima. In un orizzonte nichilista viene potenziato al massimo il sentire. Se infatti la realtà è priva di senso, è una noce senza gheriglio, l’unico modo in cui possiamo entrare in contatto con la realtà è il modo in cui la sentiamo, il modo in cui ne siamo affetti. Per questa ragione i nativi nichilisti sono abitatori del sentire nella forma più immediata dove vige assoluto il principio secondo cui emozione scaccia emozione. Si tratta di un sentire formato Instagram. In questo social, così abitato dai giovani, ogni messaggio vive della morte del precedente, fa scorrere giù il precedente, la storia dura 24 ore e poi viene cancellata. Se la realtà appare ai nativi nichilisti come un inarrestabile panta rei con una raffica di stimoli che continuamente li colpiscono, la loro identità è simile ad un tiro a segno dove vanno a fermarsi le frecce per un tempo irrisorio fino a che sopraggiungano altre frecce. Si tratta di un’identità joyceana, un alveo in cui scorre un fiume. Su questo fiume non è pensabile edificare nessun ponte permanente. È inevitabile che tale situazione produca un senso di precarietà e insicurezza. Ogni emozione positiva è come un atollo in un oceano di ansia e inquietudine. In questo scenario, l’educatore può redimere i nativi nichilisti grazie allo sguardo relazionale. Si tratta dello sguardo che riconosce la preziosità dell’altro. Grazie a questo sguardo, l’educatore fa capire ad ogni ragazzo che lo considera assolutamente prezioso, che ci tiene davvero a lui indipendentemente da ogni risultato o performance. Questo sguardo riconsegna ad ogni nativo nichilista la sua permanente dignità. Essere gratuitamente oggetto di questo sguardo origina in lui un sentire intenso, profondo e stabile, di gran lunga superiore ad ogni emozione provocata da uno stimolo esterno. In questo frammento di esperienza, circoscritto dalla relazione, la realtà appare pregna di senso. Viene così praticamente sconfessato il nichilismo. La luce di questo sguardo si percepisce nella relazione, quindi esige un tempo disteso, un tempo sufficiente a far cadere ogni forma di pregiudizio. Lo sguardo relazionale ha una funzione generativa e apre l’orizzonte per ogni altra comu228
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nicazione educativa. È molto difficile che uno studente ascolti un docente da cui non si senta riconosciuto sinceramente come prezioso. Questo percorso non condanna, ma invera, il primato del sentire del nostro tempo. Se, come abbiamo visto il nativo nichilista è abitatore del sentire, non si tratta di buttarlo fuori di casa, ma di mostrargli che la sua casa non è una piccola e angusta stamberga, ma un castello di cui non conoscerà mai tutte le stanze. Ritorna la forza dell’intuizione di Eraclito: «Per quanto andrai peregrinando, non raggiungerai mai i confini dell’anima, tanto profondo è il suo logos».3 2. La sfida formativa nelle aggregazioni carismatiche Cercheremo di affrontare adesso la seguente questione: l’ontologia relazionale può fornire delle indicazioni utili e feconde agli operatori pastorali o impegnati in attività formative? Siamo costretti a limitare la nostra indagine a quanti svolgono attività pastorali e formative all’interno di aggregazioni carismatiche. Nella chiesa i carismi creano campi magnetici che possono dare origine a comunioni di persone. Queste comunioni di persone hanno bisogno di un principio di organizzazione e dell’esercizio dell’autorità. Il senso autentico dell’autorità è essere principio di unità e di comunione. Questa autorità deve essere esercitata per il bene comune ed esige rispetto e obbedienza. Ogni comunione di persone che intenda raggiungere un fine unitario ha bisogno di questo principio di organizzazione. Ricorriamo ad un esempio: se il preside di una scuola chiede ai docenti che nelle ore di disposizione siano veramente a disposizione, cioè pronti ad andare in classe se è necessario, e un docente, invece, viene trovato assente ripetute volte, scatterà necessariamente ai suoi danni un provvedimento disciplinare perché l’ordine costituito va rispettato. In una scuola questa procedura evidentemente ci sta, è pertinente. Eraclito, fr. 45 DK.
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Nelle comunioni carismatiche di persone il fine implica che ci sia anche un servizio di accompagnamento spirituale perché ognuno possa raggiungere la sua piena fioritura e svolgere la missione legata a quel carisma. Ma qual è il principio che può ispirare questo accompagnamento spirituale? Come ipotesi di lavoro, possiamo dire che il principio ispiratore dell’attività di accompagnamento spirituale sia la maturazione verso la comprensione della natura abissale della libertà. Ma cosa vuol dire natura abissale della libertà? Penso che questa sia una tesi che possiamo dedurre dalla filosofia classica.4 Già Aristotele presenta la libertà come la capacità di muoversi da sé.5 Anche san Tommaso si ritrova in questa descrizione.6 Ma si tratta di una capacità di muoversi da sé di natura peculiare. In senso elementare anche gli animali sono capaci di muoversi da sé. Ma l’uomo è capace anche di avere il dominio sul principio che dà origine all’azione. L’uomo è libero nel giudizio che sta a monte dell’azione. L’uomo è libero nell’arbitrio e nella possibilità di volere e di scegliere.7 In un secondo momento, si capisce che la libertà non riguarda soltanto la nostra volontà. Se riguarda la nostra volontà riguarda anche noi, Altrimenti che libertà sarebbe quella in cui la libertà riguardasse soltanto una nostra facoltà (la volontà) e non noi? Si arriverebbe al paradosso che una nostra facoltà è più perfetta di noi che possediamo quella facoltà. Come può essere la nostra volontà libera e noi che siamo il fondamento di questa volontà (non esiste la volontà, esiste la «Il problema della libertà coincide con [quello stesso del]l’essenza dell’uomo, […] la libertà non è qualcosa dell’uomo, non è una semplice “proprietà” della natura umana […], ma è quell’ultimo “fondo” e quel primo “nucleo” verso il quale convergono tutte le altre attività e dal quale prendono figura, fisionomia, significato e valore […] noi intendiamo la “libertà” come la caratteristica metafisica-trascedentale dell’essere umano», C. Fabro, Essere e libertà, corso universitario di Filosofia teoretica, a.a. 1966/7, 8 (pro manoscripto). 5 Aristotele, Metaphysica I, 2 982 b 25: «Diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri» 6 Tommaso d’Aquino, CG 2.48.2; cfr. De Veritate q. 24 a.1. 7 Idem, CG 2.48.2-5 4
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mia e la tua volontà) essere determinati? La libertà riguarda il nucleo più profondo della nostra persona. Qui si capisce cosa voglia dire “natura abissale della libertà”. Non vuol dire libertà anarchica. Se intendo l’abissalità della libertà come anarchia, distruggo la libertà, la perdo. Divento schiavo del sentire nelle forme più banali: emozione scaccia emozione, oppure asservimento al potere. “Natura abissale della libertà” significa che come l’uomo, grazie alla sua anima, è, secondo la famosa sentenza di Aristotele,8 in un certo senso tutte le cose, così egli può volere tutto9. Ciò, evidentemente, non vuol dire che l’uomo possa realizzare tutto ciò che vuole. Infatti nel realizzare ciò che vuole l’uomo incontra tanti limiti. L’esperienza del limite non sarebbe per lui motivo di sofferenza se la sua libertà non fosse abissale. Rimane però che l’uomo vuole tanto quanto è l’essere. Io, in quanto formatore, devo prendere coscienza di questo e devo accompagnare le persone perché maturino questa consapevolezza. Ma se la libertà è abissale devo trovare qualcosa che sia degno di questa abissalità. E proporzionato a questa abissalità è soltanto colui che è veramente abissale, pienamente abissale, cioè Dio e tutti coloro che sono immagine dell’abissalità di Dio. Così la libertà trova il suo senso più alto e più bello nelle rela Aristotele, De anima III, 431 b 21 «Ma in che senso si può dire che la trascendentalità della facoltà appetitiva stia a fondamento della libertà? Se con Aristotele l’anima è “in certo modo tutte le cose” se con Tommaso trascendentale è l’apertura intenzionale secondo la totalità intelligibile e appetibile dell’ente, allora nulla può trascendere l’orizzonte trascendentale, nulla può pre-cedere il suo movimento intenzionale, e dunque il trascendentale per definizione, non può avere una causa determinante esterna: l’intrascendibilità del trascendentale comporta che la volontà non può avere altro principio di movimento che se stessa, non può avere cioè che una causa immanente nella forma della sua automotivazione. L’apertura interale dell’appetizione umana infatti, in quanto spiritualmente riflessiva, la rende capace di autopossesso, cioè priva di una motivazione “esteriore” che la pre-determini come movente autonomo. La trascendentalità interale e riflessiva dello “spirito” è dunque il costitutivo formale della libertà, quale principio di iniziativa assoluta». F. Botturi, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita e Pensiero, Milano 2009, 137. 8 9
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La cura delle identità il rispetto della relazione
zioni tra libertà abissali e, quindi, tra persone. Proprio perché la libertà è abissale può entrare in comunione, senza limiti intrinseci (poi i limiti verranno dall’esterno della relazione, dal tempo, dallo spazio, dalla stanchezza. Se, per esempio, devo telefonare a 10 amici e ognuno mi chiede un’ora mi passo una giornata al telefono trascurando tutte le altre incombenze ordinarie). Però, se la nostra libertà è abissale possiamo essere capaci di una comunione senza limiti. Ma, se due libertà entrano in relazione di comunione, ciò è possibile soltanto liberamente, cioè attraverso la gratuità. Ecco perché la gratuità, precisando quanto già accennato nella sezione precedente, è rivelativa della dignità dell’uomo, perché mette in luce la sua abissalità. Soltanto liberamente, attraverso la gratuità, due o più libertà abissali possono entrare in comunione. E questa comunione porta con sé l’esperienza di una intensificazione senza precedenti del sentire, fino a giungere alla grande passione. La grande passione è quella passione che ha come oggetto un oggetto “interale”. Oggetto interale è un oggetto che ha l’entità di perfezione dell’intero o che assomiglia a questo. Tale relazione tira fuori tutta la profondità del nostro sentire, il massimo coinvolgimento. La grande passione ha come caratteristica di essere sorgente e fonte continua di emozioni, di emozioni di alta qualità, cioè del sentirci sempre intensamente coinvolti. Anche qui può esserci utile un esempio. Immaginiamo un signore che abbia una piccola passione per i francobolli, per lui ogni francobollo è prezioso, gli origina un’emozione intensa. Immaginiamo anche che la sua passione filatelica si estenda agli annulli postali. Annullo postale è il timbro con cui si annulla un francobollo in una giornata in cui ricorre un anniversario di rilievo pubblico. Il nostro signore va a cercare in giro eventi, manifestazione, anniversari e ricorrenze per proporre annulli postali. Di fronte ad ogni annullo postale conquistato, lui è come se fosse in trance. Sembra al momento assolutamente appagato. La passione è sorgente di nuove emozioni. Ciò significa che il soggetto appassionato non ha bisogno di uno stimolo esterno per far scoccare l’emozione. A volte a 232
Giuseppe Brighina
scuola i ragazzi ci dicono che non hanno stimoli, che avrebbero bisogno di stimoli per impegnarsi, per studiare e nessuno di loro sa dove poterli trovare. Nella passione abbiamo invece una sorgente interiore di nuove emozioni. Questo dinamismo raggiunge un’intensità molto elevata nella grande passione dove è in gioco un oggetto interale. L’oggetto interale più adeguato è quello relativo alla passione suscitata dalla relazione di comunione con le libertà abissali, in primo luogo con quella piena assoluta che è Dio e, in secondo luogo, con tutti coloro che sono immagine e somiglianza di Dio. Ma qual è il rischio a cui è esposto l’accompagnamento spirituale nelle comunioni carismatiche? Se devo accompagnare una persona lungo il cammino della maturazione della libertà abissale, mi trovo di fronte ad un percorso lungo, difficile da capire e incerto nei suoi risultati. Potrei ottenere un clamoroso fallimento anche perché non possiamo mettere guinzagli alle libertà abissali. Allora sorge la tentazione di trovare una scorciatoia. La scorciatoia sta nel prendere i modi e i tipi che funzionano nell’organizzazione del governo di un gruppo umano e trasferirli nell’ambito dell’accompagnamento spirituale. Ciò non significa far ricorso a sanzioni disciplinari o a deterrenti di natura normativa, ma a sanzioni che possiamo chiamare, in senso lato, affettive. Vediamo come funziona questo meccanismo: ti faccio capire che se tu non fai ciò che io ti suggerisco o ti consiglio mi sentirò deluso da te. Prima la mia stima nei tuoi confronti era altissima, adesso, se non fai ciò che ti suggerisco, diminuirà vertiginosamente. Questo condizionamento può portare la persona inconsapevolmente ad adeguarsi a quanto viene consigliato per la paura irriflessa di essere privato della stima nel formatore. Questo meccanismo può funzionare per un certo tempo, ma progressivamente toglie il respiro e dà la sensazione di essere in apnea. La ragione è abbastanza evidente. Quello che non scopriamo, non maturiamo nella libertà abissale, che è la nostra più alta dignità, non ci appartiene. Stiamo costruendo sulla sabbia.
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La cura delle identità il rispetto della relazione
L’opera della salvezza, se Dio non avesse voluto rispettare la dimensione abissale della libertà umana, si sarebbe potuta realizzare rapidamente e infallibilmente. Ma Dio non se ne fa niente di ottenere attraverso scorciatoie il nostro consenso perché la salvezza è una comunione di persone. Analogamente, nell’accompagnamento spirituale la scorciatoia del condizionamento affettivo è apparentemente più facile e più rapida, ma crea persone che non raggiungeranno mai il senso, il sapore, la vertigine della libertà abissale e, quindi, il gusto di mettere in gioco tutte se stesse, con grande passione, per realizzare la missione loro affidata. Bibliografia Aristotele, De anima. Idem, Metaphysica. F. Botturi, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita e Pensiero, Milano 2009. Eraclito, fr. 45 DK. C. Fabro, Essere e libertà, corso universitario di Filosofia teoretica, a.a. 1966/7, 8 (pro manoscripto). F. Nietzsche, La gaia scienza, Libro III, n. 125, in F. Masini (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V/2, Adelphi, Milano 1965. Idem, Così parlò Zarathustra IV, Il canto del nottambulo, in F. Masini (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V/2, Adelphi, Milano 1965. Tommaso d’Aquino, De Veritate.
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L’identità nello sguardo del padre Pierluigi Imperatore
Nelle parole di Gesù a santa Caterina da Siena, secondo la Legenda Maior scritta dal beato Raimondo da Capua, possiamo scorgere l’essenza dell’essere del Padre e dell’uomo: «Caterina, ricordati che Io sono Colui che sono, e tu sei colei che non è».1 Il Padre è il solo che ha l’essere, è Lui l’essere, è Lui il datore di essere e di identità. Ogni uomo non è, non in quanto non avente identità in sé o non avente essere, ma in quanto avente un’identità bucata, un’identità instabile, ossia un’identità ricevuta da coloro che lo hanno educato e mantenuta da un processo inconsapevole di identificazione costante. Tale identità storica non esaurisce la persona nella sua potenzialità possibile nel Padre. Ciò che ogni persona definisce come il proprio Io è l’insieme delle identificazioni note di sé che, all’interno della propria storia personale, hanno avuto la funzione di farla sopravvivere agli inevitabili traumi relazionali passati. Data la funzione di sopravvivenza che le identificazioni hanno svolto nel passato, l’istinto più forte dell’essere umano sarà la conservazione delle identificazioni storiche, il mantenimento dell’identità nota di sé. L’essere umano non è naturalmente orientato alla disidentificazione dall’identità nota ma, al contrario, è naturalmente programmato alla conservazione delle identificazioni storiche che gli hanno consentito, nel passato, di sopravvivere ai traumi relazionali.
R. Da Capua, Legenda maior di santa Caterina da Siena, Cantagalli, Siena 1994, 97. 1
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L’identità nello sguardo del padre
Il Padre, Colui che è, Colui che dona l’essere alle sue creature, dona vita nuova e identità nuova ai suoi figli rivelandosi nel Figlio. L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, creato capace di Dio, può accedere al dono della conoscenza del Padre «quando ascolta il messaggio delle creature e quando ascolta la voce della propria coscienza».2 Non potendo sperimentare il Padre «se non a partire dalle creature e secondo il modo umano»3 la relazione con il fratello diviene strumento per una buona formazione della coscienza, «nucleo più segreto e sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità».4 Il fratello che, avendo sperimentato nella propria coscienza, ben formata e ordinata al Padre, il suo sguardo di misericordia generatore di identità nuova al di là delle identificazioni storiche, può generare nell’accompagnamento spirituale un dispositivo in cui l’accompagnato può scorgere la sua identità unica, rivelata dal Padre nell’intimo della sua coscienza, «primo di tutti i vicari di Cristo»5. L’accompagnatore spirituale è dunque colui che, disidentificato dalle identificazioni storiche della propria storia passata, conservative dell’identità acquisita, ha vissuto nell’intimo della propria coscienza, formata alla luce della Parola e dei Sacramenti,6 un’esperienza correttiva nel Padre nella quale ha intuito un’identità altra, generata dalla relazione con il Padre stesso, dallo sguardo di misericordia del Padre sulle proprie identificazioni. L’accompagnatore è colui che ha sperimentato nello sguardo del Padre uno spazio di disidentificazione nel quale ha ricevuto un’identità altra al di là del noto, del noto “psicologicamente sano” (prodotto di un processo di psicoterapia) e del non-noto (prodot Catechismo della Chiesa cattolica, Città del Vaticano, LEV, 1992, n. 46. Ibidem, n. 40. 4 Concilio Ecumenico Vaticano II, cost. ap., Gaudium et spes, 07.12.1965: AAS 58 (1966) 1025-1115, n. 16. 5 J.H. Newman, Lettera al Duca di Norfolk, 5: Certain Difficulties felt by Anglicans in Catholic Teaching, v. 2, Westiminster, 1969, 248. 6 Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1785. 2 3
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Pierluigi Imperatore
to di un processo di analisi), un’identità dalla quale ha verticizzato tutte le identificazioni storiche del proprio Io dal vertice del Padre nell’imitazione del Figlio. L’accompagnatore che, vissuta l’esperienza correttiva del riceversi dallo sguardo del Padre si mantiene stabile in questa posizione, è colui che può donare al fratello un percorso di accompagnamento spirituale orientato all’incontro con il Padre. L’accompagnamento spirituale può così essere definito come un dispositivo relazionale che genera un contenimento per l’accompagnato, uno spazio relazionale in cui l’accompagnato riceve dall’accompagnatore un’accoglienza incondizionata delle proprie identificazioni storiche. L’accompagnatore che ha vissuto l’esperienza correttiva del Padre potrà infatti, nel dispositivo dell’accompagnamento spirituale, donare al fratello una relazione contenitiva, uno sguardo in cui il fratello può perdersi e scorgere di avere esistenza e vita al di là delle proprie identificazioni. Donando uno sguardo di disidentificazione l’accompagnatore riceverà inevitabilmente, da parte dell’accompagnato, costanti tentativi e richieste indirette di conferma della sua identità storica. L’accompagnato, pur nell’intenzionalità positiva, tenterà infatti, inconsapevolmente e inconsciamente, di ottenere dall’accompagnatore una conferma delle proprie identificazioni, per poter continuare a mantenersi in esistenza tramite l’identificazione con la propria identità storica. L’accompagnatore è chiamato a sostare nella sospensione della conferma dell’altro, sospensione dalla quale, nel tempo, l’accompagnato potrà sperimentare che la propria identità non si esaurisce nelle identificazioni con le quali si è sempre identificato. L’accompagnatore riuscirà a mantenersi in questa posizione se delibera ogni giorno una strutturazione del tempo e dello spazio, elette dalla propria soggettività unica, utile a non perdere quanto intuito nell’esperienza correttiva del Padre, in quello sguardo del Padre dal quale ha ricevuto un’identità nuova, un’intuizione dalla quale riorganizzare la propria identità passata a servizio dei fratelli. 237
L’identità nello sguardo del padre
L’accompagnatore potrà generare quello stato mentale necessario per mantenere l’identità che ha eletto e deliberato nel Padre tramite un’organizzazione del proprio tempo e del proprio spazio scandita dai mezzi corrispondenti: «la conoscenza di sé, la pratica dell’ascesi, l’obbedienza ai divini comandamenti, l’esercizio delle virtù morali e la fedeltà alla preghiera».7 La lectio divina, l’adorazione eucaristica e la partecipazione alla vita liturgica della Chiesa saranno i mezzi fondamentali affinchè l’accompagnatore possa “radicarsi e fondarsi” (Ef 3,16-17) nella vocazione ricevuta dal Padre e intuita nel sacrario della propria coscienza. Per poter donare al fratello un percorso di accompagnamento spirituale l’accompagnatore dovrà fare proprio un presupposto: la distinzione tra il Padre, Dio e l’Io. Se il Padre è l’essere che dona vita nuova ai figli nel Figlio, Dio è la proiezione creata dalla mente umana per mantenere l’identità storica e per conservare l’Io in quanto aggregato di identificazioni storiche. La mente identificata in Io utilizzerà inconsciamente la Parola per confermarsi nell’identità nota di sé, rendendo Dio il meta-garante delle proprie identificazioni: «occorre dunque purificare continuamente il linguaggio da ciò che ha di limitato, di immaginoso, di imperfetto per non confondere il Dio ineffabile, incomprensibile, invisibile, inafferrabile, con le rappresentazioni umane».8 Nell’Io l’essere umano si posiziona nel punto più vicino a Dio, garante delle identificazioni storiche, e nel punto più lontano dal Padre, datore di un’identità altra, al di là di ogni identificazione. Come indica la parabola del Padre Misericordioso del Vangelo di Luca, quando il figlio rientra in sé si incammina verso Dio, alterità prodotta da una proiezione che crea l’aspettativa di un padre garante del sé storico. L’aspettativa di incontrare Dio, un padre che conferma le identificazioni del figlio assecondando la sua proposta di trattarlo come uno dei servi, Ibidem, n. 2340. Ibidem, n. 42.
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viene disillusa dall’esperienza della misericordia del Padre, il Totalmente Altro, il totalmente al di là di ogni attesa, il datore di vita nuova che fa tacere il figlio per non farlo precipitare nelle identificazioni, luogo di presenza di Dio e di assenza del Padre. Nel dispositivo dell’accompagnamento spirituale l’accompagnato può sperimentare nello sguardo dell’accompagnatore quanto l’accompagnatore stesso ha vissuto nello sguardo del Padre: un contenimento delle proprie identificazioni storiche, un luogo relazionale in cui poter parlare delle proprie identificazioni e in cui poterle esplorare, allo scopo di riconoscerne la funzione storica conservativa dell’identità passata. L’accompagnatore, restando nella posizione di disidentificazione dal proprio noto e di identificazione con quanto intuito nello sguardo del Padre, potrà donare al fratello quell’ascolto empatico, quella sospensione del giudizio e quell’accoglienza incondizionata che genereranno un contenimento utile a fargli esplorare le identificazioni del proprio Io, fino a mantenersi in una posizione di disidentificazione dalle identificazioni. Se l’accompagnamento spirituale è quel dispositivo relazionale in cui l’accompagnato riceve un contenimento, il discernimento spirituale può essere considerato la tappa successiva del percorso spirituale. L’accompagnato, ricevuto lo sguardo di accoglienza dell’accompagnatore sulle proprie identificazioni, potrà sostare nella posizione di disidentificazione, fino a scorgere, nel dispositivo relazionale, quello sguardo del Padre che lo genera a vita nuova donandogli un’identità altra, un’identità al di là delle identificazioni storiche, un’identità ricevuta dalla gratuità del Padre che chiama a vita nuova i propri figli affinché portino ai fratelli il dono del suo sguardo. Nella relazione con l’accompagnatore l’accompagnato potrà dunque intuire e discernere l’identità nuova, il desiderio del Padre su di sé, il progetto per cui è stato chiamato in esistenza. L’accompagnatore, che non parte dal presupposto della distinzione tra il Padre e Dio, non donerà uno sguardo in cui il 239
L’identità nello sguardo del padre
fratello potrà perdersi, disinvestendo di energia psichica il noto di sé per investire di energia psichica quello stato di sospensione da ogni identità in cui il Padre dona vita ed essere, ma darà uno sguardo in cui il fratello troverà conferma delle proprie identificazioni, sperimentando come pseudo-alterità un Dio inconsciamente creato a garanzia del proprio Io. L’accompagnamento spirituale, in questo caso, si configura come uno pseudo accompagnamento spirituale in cui l’accompagnatore conferma l’accompagnato per evitarsi il dolore mentale prodotto dalla sospensione della rassicurazione data dalle identificazioni. Precipitando nelle identificazioni storiche l’accompagnato non attuerà nel presente la potenzialità che sente nel Padre, ma filtrerà la potenzialità del Padre secondo il proprio storico. Il Padre lo invita a compiere, nel presente, l’ignoto. Precipitando nelle identificazioni l’ignoto viene tramutato nel noto storico. Dio, sembiante del Padre, è colui che rinforza il grado di identificazione con l’identità storica, rassicurando dalla paura di perdersi nella sospensione da ogni identificazione. Il Padre invece, Colui che è, si sperimenta nella relazione con un fratello il cui sguardo amplifica l’assenza di certezza, il vuoto di vitalità nota presente in ogni identificazione, generando uno stato di sospensione da ogni identificazione, unico stato in cui si può scorgere lo sguardo del Padre nello sguardo del fratello. L’energia psichica, liberata dalla sospensione dell’identificazione con la versione storica di sé, genera lo stato della paura di perdersi senza identità, paura che si rende luogo in cui il Padre rivela l’identità nuova nella notte dell’assenza di ogni identità. Se l’accompagnamento spirituale è il dispositivo che contiene l’accompagnato nello sperimentare la paura di perdersi nello stato di sospensione, il discernimento spirituale è la fase successiva. L’accompagnato, dopo aver vissuto l’esperienza correttiva nello scorgere lo sguardo del Padre che dona identità e vita al di là della notte della sospensione, può intuire in questa esperienza di vita l’identità nuova che il Padre gli dona, il progetto del Padre su di sé. Il discernimento si configura così come fase in cui 240
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l’accompagnato, sentendo in sé sia la versione storica di sé sia l’intuizione di un’identità nuova, può distinguere, tra le identificazioni auto-generate dal proprio Io, l’identità etero-generata dallo sguardo del Padre. In questa fase di discernimento il fratello sperimenta una paura diversa dalla paura di perdersi, la paura di deliberare: l’atto di deliberare è l’atto di riorganizzazione cosciente delle identificazioni storiche dal vertice dell’identità intuita nello sguardo del Padre. Nel momento in cui avviene il deliberare ossia la sottrazione di energia psichica dalle identificazioni storiche per riorganizzarle dal vertice del Padre, l’accompagnato può entrare nel discernimento degli spiriti. Nelle prime due tappe dell’accompagnamento e del discernimento non vi è ancora il contatto con gli spiriti, in quanto la via di accesso al Padre è serrata dalle identificazioni dell’Io che aprono la strada al contatto rassicurante e conservativo con Dio, meta-garante delle identificazioni. Solo se l’accompagnato ha il dono di incontrare un fratello che ha sperimentato lo sguardo del Padre e che lo guarda sostando nell’assenza di conferme, potrà arrivare a fare esperienza del Padre e giungere alla tappa del discernimento degli spiriti. Riorganizzate le identificazioni dal vertice del Padre, liberate le identificazioni dalla loro funzione conservativa del noto, si scateneranno gli spiriti allo scopo di far abbandonare alla persona l’intenzione deliberata di riorganizzare la propria strutturazione del tempo a favore dell’identità intuita nell’esperienza correttiva del Padre. L’accompagnatore potrà così guidare l’accompagnato nel discernimento degli spiriti, affinché possa riconoscere e non assecondare gli spiriti che lo porterebbero ad abbandonare quanto intuito, per tornare alle identificazioni precedenti. Gli spiriti tenteranno la persona affinché, rientrando in se stessa, reifichi la propria identità, cercando vita e identità nel noto di sé oppure nel non-noto (effetto di un processo umano come l’analisi), non più cercandola e ricevendola, invece, dalla relazione con il Padre.
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L’identità nello sguardo del padre
Fare esperienza del dispositivo dell’accompagnamento spirituale offre la possibilità di vivere una vita artificialmente costruita a partire da quanto intuito nello sguardo del Padre, una vita artificiale, una vita altra dalla vita proposta naturalmente dall’unione mente-corpo, profondamente orientata alla conservazione del noto. Nel dispositivo dell’accompagnamento spirituale, l’accompagnato delibera tramite un arteficio, sposa la notte dell’assenza di identità per riceversi dallo sguardo del Padre che lo invita ad uscire dal noto, per sostare nell’ignoto e per sperimentare Lui, vertice dal quale riorganizzare artificialmente la propria vita. Sostando nella paura di deliberare e deliberando il riceversi dallo sguardo del Padre, la persona potrà essere, per i fratelli, esperienza correttiva, testimonianza del Totalmente Altro, goccia di misericordia. Bibliografia R. Da Capua, Legenda maior di santa Caterina da Siena, Cantagalli, Siena 1994. Catechismo della Chiesa cattolica, Città del Vaticano, LEV, 1992. Concilio Ecumenico Vaticano II, cost. ap., Gaudium et spes, 07.12.1965: AAS 58 (1966) 1025-1115, n. 16. J.H. Newman, Lettera al Duca di Norfolk, 5: Certain Difficulties felt by Anglicans in Catholic Teaching, v. 2, Westiminster, 1969.
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La questione del rapporto tra l’identità, nella sua evoluzione relazionale e dinamica, e la continuità nella vocazione è una questione che si apre sempre più frequentemente nel contesto della società liquida. Dove le strutture sociali sono state descritte dalla sociologia come “morfogenetiche”, anche la stabilità vocazionale – e dunque l’istituto matrimoniale, sacerdotale e religioso – appare soggetta a morfogenesi. Che cosa significa? Margareth Archer1 ha inteso la morfogenesi come una modalità di interazioni tra strutture e azioni secondo la quale le strutture socioculturali, che stanno tra loro in relazioni logiche intrinseche e necessarie, esercitano la propria influenza causale sull’interazione sociale e culturale, la quale è caratterizzata, dal canto suo, dalle relazioni causali tra i gruppi e gli individui. Archer denomina tale processo “tripla morfogenesi”, perché durante il mutamento del livello sistemico-strutturale accade anche una trasformazione della geografia sia dei gruppi che delle personalità degli individui che costituiscono il livello sociale. Possiamo chiederci, perciò, come l’identità relazionale che si costituisce nell’ambito della struttura vocazionale dell’esistenza sia posta oggi nella dinamica morfogenetica che emerge dalle trasformazioni socioculturali dei gruppi e degli altri individui. Assistiamo di fatto al diffondersi di abbandoni dello stato cleri M. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, Franco Angeli, Milano 1997. 1
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Identità relazionale e vocazione
cale e delle vocazioni religiose e secolari, in modo simile a quello della sempre più frequente instabilità matrimoniale che sfocia nelle note ibridazioni della famiglia;2 anche nel mondo del lavoro assistiamo a una carenza di appartenenza crescente, con grossi problemi di retention nel mondo delle imprese, non soltanto dovuta alla fluidità del mercato del lavoro, ma anche alla facile disaffezione dei lavoratori da una unica identità professionale.3 Dobbiamo allora parlare di Big Quit anche nella Chiesa, o di vocation warming? Vorrei affacciarmi sulla questione senza dover approfondire eccessivamente il fenomeno sociale ma, tenendolo sullo sfondo, vorrei interrogare la concezione di sé e di Dio sottesa a questi approcci fluidi. Mi chiederò allora che cosa permetta di permanere nelle trasformazioni morfogenetiche del nostro tempo, considerando che nella vocazione i soggetti in relazione sono sempre almeno tre: uno eterno, immutabile e semplice (Dio), che si fa presente tra gli uomini in modo simbolico e reale nella comunione operante tra i suoi amici (Chiesa), e uno umano (io), costituito in una forma identitaria che è sottoposta alle caratteristi Il rapporto CISF sulla famiglia in Italia del 2020, porge all’attenzione della società il rischio del family warming, ossia di un “surriscaldamento della famiglia”, per via della crescente ibridazione dell’istituto famigliare per via legale e artificiale. Come ci si chiede quanto sia ecologicamente sostenibile il global warming, così gli autori si interrogano su quanto possa essere socialmente sostenibile il family warming. Senza voler limitare i diritti fondamentali della persona umana, l’invito è a concepirli relazionalmente anziché individualisticamente. La suggestione induce a considerare, prima di abbandonare la famiglia nucleare, che l’alternativa di una famiglia “oltre la natura” porta la nostra società a configurarsi sulla base di una famiglia post-umana. Cfr. Centro Internazionale Studi Famiglia, La famiglia nella società post-famigliare. Nuovo Rapporto CISF 2020, San Paolo, Milano 2020. 3 In situazione post-pandemica si è rilevato, inoltre, il fenomeno USA del “Big Quit” o “Great Resignation” che sta vedendo un vertiginoso aumento delle dimissioni dei lavoratori che si identificano nell’acronimo “YOLO”, dall’inglese You Only Live Once. Cfr. L. Curti, Why The Big Quit Is Happening And Why Every Boss Should Embrace It, «Forbes» June 30 2021. 2
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Ilaria Vigorelli
che mutevoli dello spazio tempo e che è a sua volta una realtà emergente strettamente unita alle relazioni di comunione, che in quanto soggetto costituisce con gli altri proprio in ragione della chiamata e che al contempo è capace di trascendere. Per esemplificare: penso ad una coppia nella quale i coniugi divengono, in virtù del matrimonio, la vocazione – uno dell’altra, una dell’altro – nel cammino verso Dio.4 Ciascuno è radicato in se stesso secondo un’identità relazionale che nella propria immanenza porta le storie dei genitori e tutto il bagaglio di amicizie e disamori, soddisfazioni e traumi, frustrazioni e talenti che la propria vita gli ha tributato nel tempo; al contempo ciascuno è sempre capace di trascenderle, di essere libero di amare o di cessare di amare. Tutto ciò funge da sorgente per la reciprocità sponsale, che è terza e insieme indivisibile dalle relazioni in cui i soggetti si incarnano, ma è pure il modo più concreto di attingimento al divino e alla trascendenza di sé di cui gli sposi dispongono. Altrimenti pensiamo al portatore di una vocazione celibataria e alla comunione che crea con chi condivide nella Chiesa la stessa vocazione: la comunione è terza rispetto alle identità di ciascun componente ma, analogamente al matrimonio, essendo la risultante “emergente” delle identità relazionali dei membri che la compongono è anche luogo della promessa intima e soggettiva della presenza del Regno di Dio in mezzo a noi (cfr. Lc 17,21); è vero, inoltre, che la relazione tra i membri di qualsivoglia comunione agisce retroattivamente sulle identità strutturate e percepite delle persone che la compongono, e che strutture e azioni sono dunque così intimamente unite e al contempo distinguibili – nei gruppi o negli insiemi dei gruppi – che la morfogenesi dell’uno e dell’altro strato può dare adito a fenomeni del tutto inattesi e imprevedibili, nei quali e attra Sull’identità relazionale originaria e l’ampiezza della vocazione alla cooperazione di maschile e femminile, si veda in questa stessa collana P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (edd.), Ecologia integrale della relazione uomo-donna: la prospettiva relazionale, Edusc, Roma 2018. 4
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verso i quali non cessa di operare la libertà degli esseri umani e la misericordia di Dio. Il punto teologico che ricorre come questione aperta è relativo, per tutti gli stati di vita, alla immutabilità di Dio e del suo disegno di amore in rapporto alla mutabilità dell’essere umano che risponde alle sue chiamate e si trova immerso non soltanto nella storia, ma anche nella morfogenesi dei gruppi di appartenenza e dei vari strati della società sui quali opera. Le domande che potrebbero essere rivolte al teologo in tale contesto sarebbero allora: Dio ha una volontà immutabile su di noi (cfr. Ef 1, 3-14)? Il suo disegno è un disegno di amore che cambia con noi man mano che la nostra libertà cresce e si configura nel tempo secondo successive autodeterminazioni? Dal punto di vista antropologico esistenziale, la riflessione potrebbe evolvere così: se per essere felice devo essere fedele anzitutto a me stesso, come è possibile la fedeltà a un’identità e a delle relazioni che non sento più come significative o determinanti per me? Infine, sul piano sociale la domanda si riformula in tal senso: se sono fedele a me stesso, e perciò anche al Dio che mi vuole felice, con questo stesso non sono anche fedele alle relazioni che mi hanno costituito e mi costituiscono nella mia interiorità e nella mia storia fino ad ora? Per tentare una risposta su che cosa permetta di permanere nelle trasformazioni morfogenetiche che paiono inevitabili, proporrò alcune considerazioni teologiche che ci provengono dalla patristica del IV secolo, e più precisamente da Gregorio di Nissa. Autore che ha rivoluzionato il modo di intendere l’umano, intuendo ben prima della psicanalisi che le relazioni interiorizzate sono quelle determinanti la moralità e dunque la felicità dell’essere umano,5 Gregorio ha considerato il cambiamento come una dimensione che può essere santificata dall’ingresso di Dio nella storia. Egli riconosce l’incarnazione come l’eterno che fa proprio – ovvero illumina, salva, conduce a vita infinita – colui che è limite, contingenza, peribilità e mutevolezza, rendendo I. Vigorelli, La relazione: Dio e l’uomo, Città Nuova, Roma 2020.
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così ciò che è instabile e finito saldo in Cristo e aperto a ricevere la vita che non ha termine. Il Nisseno prospetta la vocazione umana come un continuo accrescimento.6 L’essere umano viene all’esistenza creato κατ’εἰκόνα θεοῦ (Gn 1, 26) “secondo l’immagine di Dio”, per divenire partecipe dei beni divini; è perciò fatto in modo tale da poter entrare relazionalmente in comunione con i beni divini, quali la vita, l’amore, la sapienza e l’eternità; creato con il desiderio di ciò che gli corrisponde, l’essere umano è storico, ossia soggetto al divenire, ma secondo un senso, una direzione non soggetta alla ripetizione circolare dell’identico, come per il greco. Il suo primo mutamento è dal non essere all’essere, ma poi il desiderio lo spinge verso l’unione con il Bene da cui è creato e che per primo gli si fa incontro.7 Da ciò consegue, per Gregorio, che il divenire cui è soggetto l’essere umano non sia soltanto il mutamento temibile della corruttibilità che prima o poi porta alla morte, ma «un’ala adatta al volo verso le cose più grandi».8 In questo senso per il Nisseno la più bella manifestazione della mutevolezza è rappresentata dalla crescita nel bene.9 Il Bene è infatti la destinazione, il destino, del mutamento. In tal modo – punto antropologico importantissimo anche se forse qui liminale – la perdita dell’impassibilità del corpo, ovvero l’irrompere della morte e di ogni sorta di sofferenza dell’anima e del corpo nell’armonia dell’essere creato10 non è Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, trad. intr. e note di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1996, 111-115. 7 Or Cat, GNO III/4,18, 4, in Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, introduzione e note a cura di R. Winling, EDB, Bologna 2016, 182. 8 Perf, GNO VIII/1, 214, in Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, 114. 9 Su questo tema si veda A. Spira, Le temps d’un homme selon Aristote et Grégoire de Nysse: stabilité et instabilité dans le pensée grecque, «Colloques internationaux du CNRS», 604, Paris 1984, 288-289. 10 Cfr. Or Cat, GNO III/4,19,1, in Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, 184. 6
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opera di Dio bensì riprova del fatto che l’uomo e la donna non sono stati privati, col peccato (Gn 3), del bene più bello e prezioso: vale a dire della «grazia dell’autodeterminazione e della libertà».11 In conseguenza della libertà, allora, il male può ingenerarsi nella volontà umana quando essa si ritrae dal bene a lei connaturale, per scegliere come oggetto del suo desiderare ciò che è peggio piuttosto di ciò che è meglio;12 ma il carattere mutevole del desiderio umano resta sempre anche segno del dono della libertà come carattere di somiglianza con il divino, che pertanto cerca la relazione con l’infinito. La libertà presentata in tale prospettiva ontologica, come fa Gregorio di Nissa, ci permette di vedere che le identità liquide e perfino i cambiamenti rispetto alla propria vocazione sono pur sempre segno della grandezza degli esseri umani, in quanto tutti siamo orientati all’infinito. Il discrimine è dato dalla destinazione: quando la libertà, con i suoi chiaroscuri, serve l’identità relazionale, essa rinvia al mistero; quando invece cede alla suggestione dell’idolatria e rompe l’identità relazionale, allora nuoce. In fondo la libertà è relazione in senso ontologico e il discrimine non è dell’ordine del giusto o dello sbagliato, ma dell’essere e del non essere. Per questo, ciò che possiamo aggiungere alla prospettiva di Gregorio è che il desiderio del bene è soggetto alle “torsioni” della relazione. Che cosa intendo con questo è presto detto: il desiderio non è una realtà lineare, soprattutto perché intercorre tra due esseri viventi, l’uno temporale e l’altro eterno. Il desiderio è soggetto a metanoia, torsione della mente e del cuore, perché l’infinito si porge al finito secondo una modalità che porta il finito al continuo auto-trascendimento e ciò suppone – in noi che siamo limitati – lo sviluppo della capacità di permanere nella frustrazione (dell’immagine di sé, dell’altro, del soddisfacimento τῆς κατὰ τὸ ἀδέσποτον καὶ αὐτεξούσιον χάριτος. Or Cat, GNO III/4,19,20 in Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, 186. 12 ἡ ἀβουλία τὸ χεῖρον ἀντὶ τοῦ κρείττονος προελομένη. Or Cat, GNO III/4,20, in Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, 188. 11
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immediato del bisogno), affinché il desiderio cresca. Da qui si intravede la via per una risposta antropologica ed esistenziale alle domande incoate sopra. Il desiderio di quel Bene che è la causa del proprio essere porta il segno, sempre più evidente lungo gli anni, che proveniamo da un limite, dal nulla, dalla polvere, cioè il segno che la fonte della vita umana è in un Altro. Rivela però anche l’affinità degli esseri umani con quella realtà infinita e increata che dà loro la vita in un atto di libertà e di amore, e ci insegna che la nostra volontà di reciprocità non basta mai per raggiungere l’oggetto del desiderio, il quale nella frustrazione sembra ritrarsi, ma perché è infinito. In qualche modo, la frustrazione ci rende nota l’idolatria e ci permette di compiere nella libertà la torsione del desiderio verso il Bene. Queste considerazioni conducono a vedere due esiti della continuità e discontinuità nell’identità vocazionale: da una parte la possibilità della consegna a Dio del proprio limite, ovvero dell’instabilità del proprio desiderio e del proprio volere; dall’altra l’apertura all’esperienza concreta della potenza del divino che, sebbene attraverso la frustrazione del limite, si manifesta come capacità di amare gratuitamente la vita in chi si affida alla sua grazia. Il desiderio e il mutamento che caratterizzano la vita umana per la nostra condizione storica e corporale non sono dunque causati originariamente dalla concupiscenza, bensì dalla connaturalità con il divino da cui proviene l’umanità. La pienezza dell’umanità, allora, consiste nella capacità di desiderare e attuare l’unione con l’infinito secondo la disposizione della propria libertà, che sorge da dentro, da un luogo che resta inattingibile da fuori; possibilità che viene illustrata nelle omelie di commento al Cantico dei Cantici come frutto della comunione che proprio in virtù della nostra umanità possiamo avere con il Verbo incarnato.13 Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei cantici, introduzione, traduzione e note a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1988. 13
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Se, dunque, solo posteriormente al peccato appare nel mondo la concupiscenza, cioè il disordine nel desiderio e nella volontà causato dalle passioni per ciò che “è di meno”, la logica da ricomporre è proprio quella intima del desiderio, non tanto quella delle passioni, e il male dell’identità relazionale non risiede primariamente nelle realtà desiderate, ma nel modo di desiderare, ovvero di stare nella relazione. Il problema del giudizio fallace, quindi, non si trova nel corpo, ma nella disposizione dell’anima, quando segue solo il modo di sentire del corpo senza seguire la relazione con l’infinito, dal momento che la condizione ormai mortale rende ambivalente il desiderio e vuole l’appagamento immediato. Il male che affligge l’identità relazionale non scaturisce dalla condizione instabile e mutevole, ma dalla perdita della relazione: dalla rottura della comunione. Nell’antropologia di Gregorio, la nostra condizione ontologica appare dunque come relazionale in modo duplice. Per un verso, infatti, l’essere umano è creato, cioè voluto e amato da Dio che lo fa essere nella libertà dell’auto-trascendimento ed in questo si trova il segno di provenire da Dio; per un altro verso, il segno di essere stati tratti dal nulla si manifesta in noi secondo i molteplici modi dell’essere mutevole: come tendenti al Bene infinito, ma anche come da Lui distinti e fallibili. Anche questa duplice relazionalità, infine, appare ambigua: la libertà, infatti, costituisce l’essere umano a immagine di Dio, ma la morte, che dalla libertà è stata inserita nella creazione, sembra inficiare la possibilità definitiva dell’unione con Dio e così anche la sovranità di cui la stessa libertà è immagine14. Ora, le disposizioni umane, ricordavamo, sono distinte dalla con Cfr. Gregorio di Nissa, Discorso sui defunti, G. Lozza (a cura di) Corona Patrum, Società editrice internazionale, Torino 1991. Si veda in merito D. Gemmiti, La libertà e i fondamenti metafisici dell’antropologia di Gregorio Nisseno, in C. Braidotti, E. Dettori, E. Lanzillotta (edd.), Οὐ πᾶν ἐφήμερον: scritti in memoria di Roberto Pretagostini: offerti da colleghi, dottori e dottorandi di ricerca della Facoltà di Lettere e Filosofia, Quasar, Roma 2009, 209-245. 14
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cupiscenza a motivo della volontà: essa stessa, infatti, si muta interiormente nello stabilire la relazione tra desiderio e bene desiderato. Dal punto di vista ontologico, esser dotati di libertà non emerge, dagli scritti di Gregorio, anzitutto come arbitrio, ma come possibilità di permanere nel Bene15. Dal momento, quindi, che tale duplicità è radicata nella volontà di Dio che crea e che poi con la sua incarnazione assume la morte come via per ricondurre tutto nuovamente al Padre, il desiderio dell’origine è ricondotto da Dio stesso alla relazione con il Bene, mediante il corpo di Cristo che muore e risorge. La prima volontà a ristabilire la relazione è quella di Dio che si incarna, passa attraverso la frustrazione somma della morte e risorge. In tal senso è possibile che la volontà umana si fidi del proprio desiderio. In caso contrario, la prospettiva termina con la morte. Ricordo un film che si intitola Ida,16 in cui la protagonista chiedeva all’amato dopo una notte di passione, “e poi?”; e dopo ogni prospettiva offerta a lei dall’uomo, la domanda si ripeteva dolcemente ma inarrestabile: “e poi?”. Negli anni ho assistito a diverse modalità dinamiche di rottura e di grandi crescite nella comunione, sia di sposi che di celibi, e ho sentito il bisogno di riflettere sull’identità in gioco nelle relazioni in cui si generano alternativamente rottura o rinsaldamento dei legami. Non penso che si possano trarre regole scientifiche e ripetibili da quanto ho osservato, ma si può senz’altro acquisire una più grande consapevolezza del mistero di libertà che sempre avvolge le identità relazionali in rapporto a se stessi e alla propria vocazione. La Metafisica di Aristotele cominciava così: «Tutti gli uomini tendono per natura al sapere (Πάντες ἄνθρωποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει)» (Metaphysica, 980a,21) mentre il De mortuis non esse dolendum di Gregorio di Nissa comincia così: «Tutti gli uomini hanno una naturale inclinazione al bene (φυσική τις πρὸς τὸ καλὸν ἔγκειται σχέσις)» Mort, GNO IX,29,9-10 in Gregorio di Nissa, Discorso sui defunti, 37. 16 Ida: film a regia Paweł Pawlikowski, del 2013. Nel 2015 ha vinto il premio Oscar per il miglior film straniero (polacco). 15
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La soluzione alla volontà deludente e instabile della nostra identità è infine la relazione con Colui che solo è buono: in questa rientrano gli slanci e le delusioni, la gioia e la sconsolatezza, la noia e il sogno e ogni disposizione che riluce da dentro il cuore delle persone rese buone dalla Sua bontà. Nella dinamica della libertà con Dio, infatti, non si è mai da soli e si è sempre accompagnati dal suo Spirito. Bibliografia Aristotele, Metaphysica. M. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, Franco Angeli, Milano 1997. Centro Internazionale Studi Famiglia, La famiglia nella società post-famigliare. Nuovo Rapporto CISF 2020, San Paolo, Milano 2020. L. Curti, Why The Big Quit Is Happening And Why Every Boss Should Embrace It,, «Forbes» June 30 2021. P. Donati, A. Malo, I. Vigorelli (edd.), Ecologia integrale della relazione uomo-donna: la prospettiva relazionale, Edusc, Roma 2018. D. Gemmiti, La libertà e i fondamenti metafisici dell’antropologia di Gregorio Nisseno, in C. Braidotti, E. Dettori, E. Lanzillotta (edd.), Οὐ πᾶν ἐφήμερον: scritti in memoria di Roberto Pretagostini: offerti da colleghi, dottori e dottorandi di ricerca della Facoltà di Lettere e Filosofia, Quasar, Roma 2009, 209-245. Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, trad. intr. e note di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1996, 111-115. Idem, Omelie sul Cantico dei cantici, introduzione, traduzione e note a cura di C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1988. Idem, Discorso catechetico, introduzione e note a cura di R. Winling, EDB, Bologna 2016. Idem, Fine, professione e perfezione del cristiano, trad. intr. e note di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1996. Idem, Discorso sui defunti, G. Lozza (a cura di) Corona Patrum, Società editrice internazionale, Torino 1991. A. Spira, Le temps d’un homme selon Aristote et Grégoire de Nysse: stabilité et instabilité dans le pensée grecque, «Colloques internationaux du CNRS», 604, Paris 1984. I. Vigorelli, La relazione: Dio e l’uomo, Città Nuova, Roma 2020. 252
Indice dei nomi
Aarabi, A., 192 Acerbi, A., 90 Agostino d’Ippona’, 20, 86, 102, 103, 114, 124 Ahuja, S., 194 Ajleaa, N., 192 Andolfi, M., 186 Anolli, L., 188, 189 Anzai, Y., 193 Archer, M., 25, 34, 38, 243, 252 Aristotele, 19, 29, 33, 52, 53, 87, 88, 93, 94, 98, 100, 123, 230, 231, 251 Arjoranta, J., 193 Arntz, A., 198 Ashouri, E., 192 Auerbach, E., 102 Ballesteros, J., 49 Balzac, S.R., 195 Baricco, A., 156 Barney, C., 190 Bauman, Z., 51 Becce, A., 162 Becker, K., 192 Beidel, D.C., 190 Belgioioso, G., 54 Belmonte, M.K., 190 Benedetti, G., 153, 179 Benedetto XVI, 36 Benveniste, E., 97
Biven, L., 189 Blundo, C., 186 Boocock, S.S., 193 Borges, J.L., 165 Borghello, U., 18 Botturi, F., 231 Bowman, S.L., 191, 195, 196 Braidotti, C., 250 Brand-De Wilde, O., 198 Brolund, M. T., 191 Brubaker, R., 41 Buber, M., 28 Butler, J., 50 Cantelmi, T., 183 Capella, C., 192, 195 Caretti, V. , 167 Carter C.S., 190 Carter, M.J., 26 Ceccarelli, M., 186 Chan, J.M., 196, 197, 198 Clavell, L., 21 Cole, H., 196, 197, 198 Collier, A., 44 Contri, G.B., 154, 168 Cooper, F., 41, 45 Craparo, G., 167 Creemers, D.H.M., 189, 190 Croci, F., 90
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Indice dei nomi
D’Avenia, A., 158 D’Avenia, M., 90 Da Capua, R., 235 Dalmasso, G., 57 Damasio, A.R., 186, 188, 179 Das, J.K., 182, 195 Dazzi, N., 167 De Bei, F., 167, 179 De Carvalho, H.F., 192 De Waal, F.B., 193, 199 Deblieck, C., 188 Deleuze, G., 21 De¬metrio, D., 154 Dépelteau, F., 22 Derrida, J., 57 Descartes, R., 54 Deterding, S., 196 Dettori, E., 250 Diels, H., 53 Dissanayake, C., 190 Dolan, R.J., 187 Donati, P., 15, 20, 22, 23, 24, 25, 27, 28, 29, 34, 36, 40, 49, 68, 69, 103, 106, 118, 245 Dubeau, M.C., 187 Engels, R.C. M.E., 189, 190 Eraclito, 229, 87 Escrivá, J., 165
Frith, C.D., 187 Gallese, V., 187 Gambino, G., 27 Game, A., 28 Gemmiti, D., 250 Giardino, C., 58 Gibran, G.K., 158 Ginzburg, N., 158, 159 Giorgetti Fumel, M., 64 Girard, R., 111 Gjedde, L., 192 Goldman, A., 187 Gray, P., 182, 191 Gregorio di Nissa, 20, 86, 98, 100, 103, 104, 114, 122, 124, 246, 247, 248, 249, 250, 251 Grøn, A., 71, 74 Grünbaum, T., 71 Guidano, V., 106, 110 Han, B.-C., 51 Haslam, N., 26 Hedley, D., 190 Heidegger, M., 21, 32, 33 Hinshaw, S.P., 190 Hitchens, M., 191 Iacoboni, M., 187, 188 Jeannotte, L.A., 193
Facioni, S., 57 Fassbinder, E., 198 Ferlini, G.M., 153 Fiske, A.P., 26 Flack, J.C., 193 Floridi L., 22, 42 Fombonne, Æ.E., 190 Frankfurt, H., 34 254
Kant, I., 54, 55 Kavakli, M., 191 Kaylor, S.L.B., 194 Kierkegaard, S., 60, 61, 79 Koslowski, P., 56, 83 Kranz W., 53
Indice dei nomi
Lacan, J., 122, 154, 156, 162, 168 Lang, R., 196, 197, 198 Lankoski, P., 192 Lanzillotta, E., 250 Larti, N., 192 Lassi, Z.S., 182, 203 Lenzi, G.L., 187 Leonard, D.J., 61, 194 Lévinas, E., 44 Lieberoth, A., 194, 196, 202 Lingiardi, V., 167 Liotti, G., 106, 107, 110 Lissak, G., 182, 183 Locke, J., 55 Lockwood, G., 194 Lynne Bowman, S., 191 Lyotard, J.-F., 49, 56 Maarof , N., 192 Maclean, P.D., 187 Magiati, I., 190 Malick, T., 24 Malo, A., 18, 25, 68, 71, 103, 245 Manca, M.L., 194 Martius, D., 198 Masini, F., 226, 227 Maspero, G., 20, 25, 90, 102, 103, 122 Mastrocola, P., 170 Mazzeschi, C., 192 Mazziotta, J.C., 187 Meister, I.G., 188 Meng, L., 190 Mesibov, G.B., 190, 193, 202 Metcalfe, A., 28 Millán Puelles, A., 65 Miller, M., 190 Mitchell, S., 25 Moreschini, C., 249
Murray, M.J., 190 Nesi, J., 183 Newman, J.H., 236 Niels-Kessels, H., 189, 190 Nietzsche, F., 226, 227 O’Doherty, J.P., 187 O’Reilly, M., 196, 197, 198 Orben, A, 182, 183 Otten, R., 189, 190 Ovadia, M., 42, 43, 44 Palmer, J.A., 87 Panksepp, J., 189 Papa Francesco, 22 Parmenide, 87, 90, 93, 97, 112 Parnas, J., 71 Pekala, J.A., 199 Pizzorno, A., 26, 46 Platone, 52, 87, 88, 89, 95, 97 Preston, S.D., 199 Prinstein, M.J., 183 Przybylski, A.K., 182, 183 Randall, A.A., 191 Randi, M.A.F., 192 Rao, P.A., 190 Ratzinger, J., 22, 35, 121 Recalcati, M., 160, 162, 170, 173, 175, 176, 177 Ricoeur, P., 23, 26, 37, 62, 63, 67 Rispoli, M.,196, 197, 198 Rivers, A., 199 Rizzolatti, G., 187 Robinson, W.A.H., 194 Rogers S.J., 196, 198 Rorty, R., 21 Rose, K., 190 255
Indice dei nomi
Rosenfield, I., 188 Rosselet, J.G., 191 Rudder Baker, L., 18, 28 Saha, A., 194 Saint-Exupéry, A. de, 85, 121, 125 Salam, R.A., 182 Salcuni, S., 192 Scamardella, F., 44 Schild, E.O., 193 Schreibman, L., 197 Schweiger, U., 198 Scicchitano, M., 189, 191, 195, 196, 198, 199 Seligman, S., 25 Semerari, A., 107 Seymour, B., 187 Shapiro, B., 194 Shaw, I., 194 Siegel, D.J., 169 Sigafoos, J., 196, 197, 198 Simon, H.A., 193 Singer, T., 187 Sinigaglia, C., 187 Siviy, S. M., 189 Smyth, J.M., 183 Socrate, 52, 90, 92, 119 Sodi, M., 21 Sofocle, 70, 91, 92 Solomon, M., 190 Solov’ev, V., 92 Somers, M.R., 24 Spencer-Brown, G., 17 Spira, A., 247 Stahmer, A.C., 198 Stauffer, S.D., 191 Stephan, K.E., 187
256
Stets, J.E., 26 Strulovitch, A.J., 190 Tagalakis, A.V., 190 Tansey, P.J.,187 Taylor, S.L., 190 Team, A., 194 Terminio, N., 154, 161, 165 Thorp, D.M., 198 Thurman, T., 194 Tomasello, M., 108 Tommaso d’Aquino, 21, 60, 83, 230 Troisfontanes, C., 55 Tse, J., 190 Tuomas, H., 193, 187, 188, 189 Twenge, J.M., 182 Tychsen, A, 191 Uljarević, M., 190 Van de Walle, G., 26 Vermulst, A.A., 189, 190 Viaro, M., 186 Vigorelli, I., 100, 103, 245, 246 Weinstein, N., 183 Wickramasekera, I.E., 199 Wijnhoven, L.A.M.W., 189, 190 Wilson, S.M., 188 Wojtyla, K., 34 Wu, A.D., 188 Ying, R., 190 Yourcenar, M., 169 Zagal, J.P., 196 Zahavi, D., 71
Stampato nel mese di maggio 2022 da Print Group, Szczecin (Polonia)