Il resto indivisibile. Su Schelling e questioni correlate


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Il resto indivisibile. Su Schelling e questioni correlate

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Dialectica collana diretea da Diego Giordano

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Slavoj Zizek Il resto indivisibile Su Schelling e questioni correlate

a cura di Diego Giordano

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Tutti i diritti riservati Titolo originale: The Indivisible Remainder On Schelling and Related Matters Copyright © 1996 [2007] Verso, London Copyright © 2012 Orthotes, Napoli Traduzione di Laura Basile ed Emanuele Leonardi Revisione e cura di Diego Giordano isbn 978-88-905619-3-1 Orthotes Editrice Via Palermo 22/B 80010 Napoli www.orthotes.com

Presentazione

T)ubblicato nel 1996 (rist. 2007) dall’editore inglese Verso, Il JL resto indivisibile. Su Schelling e questioni correlate ( The Indivisible Remainder. On Schelling and Related Matters) può considerarsi l’opera filosofica più importante di Slavoj Zizek. Sebbene il debito di formazione contratto nei confronti della scuola psicoanalitica slovena (lacaniana del campo freudiano) resti evidente nel dialogo continuo intrattenuto con Jacques Lacan — e benché non manchino neanche in questo lavoro stimolanti e originali riferimenti alla cultura popolare, soprattutto cinematografica (vedi i paralleli con Casablanca, Speed, I Flintstones, o con i film di Hitchcock) — Il resto indivisibile è inequi­ vocabilmente l’opera più filosofica, nel senso classico’ del termine, di Zizek; quella in cui, più che altrove e con indubbio spessore filologi­ co, egli mostra la sua personale, e necessaria, ricezione dell’idealismo tedesco. La linea di sviluppo della riappropriazione di Hegel da parte di Zizek (ma non solo) ha il suo termine a quo nella famosa serie di lezioni tenute a Parigi tra il 1933 e il 1939 da Alexandre Kojève sulla Fenomenologia di Hegel (evento che segnò una svolta fondamentale per tutta la cultura francese), passa attraverso la lettura di Freud ope­ rata da Lacan (resa possibile dagli strumenti di decifrazione concet­ tuale offerti dal seminario parigino appena citato), e giunge a Zizek per il tramite di colui che lo ha introdotto al pensiero di Lacan, e cioè Jacques-Alain Miller. Se la teoria lacaniana è una psicoanalisi fenomenologica, se per capire a fondo Lacan, le sue difficili argomentazioni e i suoi astrusi as­ serti e grafi, bisogna riappropriarsi del tentativo di riarticolare l’intera teoria psicoanalitica in termini hegeliani, il chiaro e imprescindibile punto di partenza di tale operazione resta allora uno studio attento e ‘riqualificante’ dell’idealismo tedesco. Il resto indivisibile è l’opera in cui Zizek, a partire da un’analisi condotta sulle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809) e sui frammenti di Weltalter (1811-1815) di Schelling, iscrive se stesso all’interno del solco inter­ pretativo scavato da Kojève.

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Se si fermasse al solo titolo, un lettore attento potrebbe intuire che Il resto indivisibile. Su Schelling e questioni correlate ha come filosofi di riferimento da un lato Lacan e dall’altro Schelling (lo Schelling del pe­ riodo teosofico e della filosofia della libertà). La prima parte del titolo è infatti un evidente riferimento alla nozione lacaniana di objetpetit a, la quale designa l’inattingibile oggetto corrispondente al desiderio (non potendo quest’ultimo essere espresso da nessun oggetto reale). llobjet petit a è, cioè, l’oggetto di quel desiderio che viene ricercato nell’Altro e che, dopo l’introduzione del Simbolico nel Reale, vie­ ne associato a ciò che delle proprie pulsioni primordiali ancora resta come residuo (si vedano a tal proposito soprattutto i seminari X, XI e XX). Questa nozione viene reinterpretata da 2izek come mancanza, o meglio come resto del Reale che mette in moto il movimento simboli­ co dell’interpretazione, una sorta di punto oscuro al centro dell’ordine simbolico. La seconda parte del titolo - al di là del riferimento reso perspicuo dalla presenza del nome del filosofo tedesco - allude, sotto la dizio­ ne «questioni correlate» (in virtù del richiamo a quella che è, anche nel caso di Schelling, una aggiunta al titolo), alle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana «und die damit zusammenhàngenden Gegenstànde», cioè «e gli oggetti che vi sono connessi». Una prima connessione tra i due autori — o meglio, uno degli spet­ tri di matrice lacaniana adoperati da Èizek nella sua lettura di Schel­ ling- è così individuata: a partire dalle Ricerche Schelling fà un passo oltre l’idea di Assoluto come indifferenza — che era stato l’oggetto della critica mossagli da Hegel - elaborando l’idea di un Dio che non sarebbe tale senza il mondo e che deve essere concepito come sede di una contrapposizione dialettica di contrari. Nel rapporto dialettico­ critico tra i due filosofi, Schelling rappresenta per Hegel un ‘mediatore evanescente’, cioè un elemento transitorio destinato a scomparire una volta che il conflitto venga risolto in una sintesi superiore (in Hegel stesso), mentre Hegel continua a rappresentare per Schelling quel­ l’oscuro substrato inconscio, queirtf£&0 da cui egli emerge e che si tira addosso (per il resto della vita) come fuoriuscito, che è, appunto, un resto indivisibile (del desiderio filosofico). Un ulteriore trait d’union tra Lacan e Schelling può individuarsi nella discussione di quelle questioni materiali — nonché del pensiero materialista in genere — che, se rivestono una grande importanza nel-

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la riflessione condotta dagli psicoanalisti del campo freudiano sulla . condizione attuale postmoderna e postcapitalistica, ancor di più sono importanti per uno che come Zizek è cresciuto intellettualmente, e da dissidente, a Lubiana, cioè nella capitale della Repubblica socialista di Slovenia (ancora, fino all’indipendenza del 1991, parte integran­ te della Jugoslavia comunista), che è esponente di quello che si può chiamare neo-marxismo post ‘89, e che resta, nel bene e nel male, in­ triso di mentalità stalinista. Così Zizek individua il carattere (sempre incompleto) del pensiero materialista di Schelling — primo filosofo ad aver trattato i motivi post-idealisti della finitudine, della contingenza e della temporalità — nel tentativo (promosso nelle bozze di Weltalter) di formulare un ‘inizio del mondo’ e cioè, in termini lacaniani, di dare corpo al passaggio da un universo pre-simbolico del Reale, ca­ ratterizzato dal movimento rotatorio delle pulsioni, all’universo del logos. L’opera di Schelling preannuncia quindi sia la critica di Marx all’idealismo speculativo, sia la nozione propriamente freudiana di pulsione, cioè di impulso cieco alla ripetizione («il Reale [das Reale] è il movimento circolare delle pulsioni ‘irrazionali’ — pre-logiche, pre­ simboliche — che trovano soddisfazione nella ‘insensata’ ripetizione del loro cammino circolare») che mai può essere superato nel medium ideale (e simbolico) del linguaggio. Ancora: uno dei principali proble­ mi affrontati da Schelling riguarda il tentativo di unire nel concetto di Assoluto l’io di Fichte, la pura attività soggettiva, e la sostanza di Spinoza (il mondo naturale), che è il principio dell’infinità oggetti­ va. Questo problema, che Schelling definisce non il primo, bensì il più elevato compito della filosofia trascendentale, viene approfondito nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800). Schelling si chiede in quale modo possono a un tempo le rappresentazioni essere pensate come determinate dagli oggetti, e gli oggetti come determinati dalle rappresentazioni. Zizek riporta questo problema cruciale, e cioè quel­ lo di un principio unico che possa essere inteso come attività razionale e attività inconscia, alla distinzione lacaniana tra un Reale «‘radical­ mente’ impossibile (la materna Cosa-Corpo che può essere colta solo per via negativa)» e l’ordine degli scambi simbolici. Ora, se Schelling risolve il problema affermando che il soggetto condiziona l’oggetto perché il volere si presenta come continuazione e realizzazione, a li­ vello cosciente, della libertà e della creatività mediate dalla presenza dell’oggetto, la Cosa lacaniana non è semplicemente il Reale che si ri­ tira negli indistinti recessi dell’irraggiungibile con l’entrata nell’ordine

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simbolico, bensì è proprio l’universo delle pulsioni: la Realtà non è la ‘cosa in sé’, ma è già-sempre simbolizzata, costituita, strutturata per mezzo del meccanismo simbolico.

L’ultima parte de II resto indivisibile è dedicata alla fisica quantisti­ ca, che è la questione che Zizek ‘correla’ a Schelling. La fisica quanti­ stica, infatti, ci permette di mettere fine alla situazione di stallo, con cui Schelling fa i conti, della doppia relazione ‘uomo naturalizzato’/natura spiritualizzata. La sinergia, che potrebbe sembrare anche arrischiata, tra due differenti campi del sapere quali sono la filosofia e la scienza, è resa governabile per due ragioni: da un lato Zizek, da attento osservatore della cultura di massa (globale) e dei fenomeni sociali e di costume, cerca di interpretare (o prendere coscienza) della contemporaneità attraverso le categorie e le acquisizioni del pensie­ ro ‘messe a disposizione’ dal proprio tempo; in tal senso egli muove dall’assunto hegeliano che la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero e, simultaneamente, fa sue le istanze classiche’ e ideologiche del pensiero nella consapevolezza che queste non possano mai essere ‘superate’, o anche bollate come antiquate. Se ciò significa che il ‘pro­ prio tempo’ vive d’eredità, si nutre del passato, è figlio del passato, dall’altro lato bisogna necessariamente riconoscere - ed è l’assunto marxiano - che il passato ‘cambia’ in funzione della lettura che di esso se ne dà ‘dal presente’ il quale, proprio in funzione di questa ri­ lettura del passato, viene nuovamente modificato (così come accade in Ritorno alfuturo). Oggigiorno — e l’opera di Zizek ce lo mostra — dopo l’esaurimento delle ermeneutiche novecentesche, e ormai alla fine del postmoderno, l’ordine simbolico soggiacente al pensiero filosofico si va addensando attorno a posizioni pi uriculturali che rimandano a un modello espli­ cativo unitario del sapere, e cioè alla confluenza di saperi differenti (filosofia, scienza, teologia) in differenti saperi (politica e sociologia, psicoanalisi e fisica quantistica, cristianesimo e New Age). C’è allora da temere che - come H.P. Lovecraft ha profetizzato nel racconto il richiamo di Cthulhu — un giorno (forse più vicino) la connessione di conoscenze disgiunte possa aprire visioni terrificanti della Realtà e della nostra spaventosa posizione in essa. A quel punto, in barba a

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Hegel e Lacan, la cosa più misericordiosa al mondo non sarebbe forse l’incapacità della mente umana di mettere in correlazione tutti i suoi contenuti? OSSO

A differenza dell’edizione inglese la presente edizione ha due parti­ colarità: 1) il terzo capitolo (“La fisica quantistica con Lacan”) è stato da Zizek leggermente abbreviato in virtù delle nuove acquisizioni del­ la fisica delle particelle, che dal 1996 al 2012 ha modificato più di una volta i propri obiettivi, oltre ad aver fatto passi da gigante nella for­ mulazione di modelli integrati di fisica; 2) la presenza di un’originale Prefazione all'Edizione italiana (in verità ripresa dall’“Introduzione” di Zizek al suo Less Than Nothing: Hegel and thè Shadow ofDialectical Materialism, Verso, Londra 2012). La traduzione del primo e del terzo capitolo, nonché della Prefàzione e dell’introduzione, è di Laura Basile; quella del secondo capito­ lo è di Emanuele Leonardi. La revisione completa del testo e del denso apparato di note sono invece a mia cura. Sono quindi da imputare solo a me eventuali imperfezioni e refusi che vi si dovessero trovare. Ringrazio coloro che hanno permesso a quest’opera di vedere la luce, primo tra tutti l’Autore, Slavoj Zizek, per la disponibilità mo­ strata in tutte le fasi della lavorazione. Ma molto più che questo libro non sarebbe stato possibile senza i miei amici filosofi, Laura, Lele, Luigi, Marco, Riccardo, Stefania.

Diego Giordano Salerno, aprile 2012

Prefazione All’Edizione

italiana

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/""X uel continente a cui ci riferiamo col nome di ‘filosofia’ può considerarsi esteso quanto si vuole nel passato o nel futuro, ma c’è un unico momento filosofico in cui la filosofia appare ‘in quanto tale’ e che funge da chiave - la sola chiave - di lettura per chiamare l’intera tradizione precedente e successiva con il nome di filosofia (proprio come quando Marx dichiara che la borghesia è la prima classe nella storia dell’umanità che è posta in quanto tale, come classe, e pertanto è solo con l’ascesa del capitalismo che l’intera storia fino a quel momento diventa leggibile come storia di lotta tra classi). Questo momento è quello àe\\ Idealismo tedesco, delimitato da due date: 1787, l’anno in cui appare la Critica della Ragion Pura di Kant, e 1831, l’anno della morte di Hegel. Queste poche decadi rappresentano un periodo di straordinaria tensione e intensità per il pensiero: in questo breve lasso di tempo è accaduto più che in secoli, se non in millenni, di ‘normale’ sviluppo del pensiero umano. Tutto ciò che ha avuto luogo prima può e deve essere letto, in maniera spudoratamente anacronistica, come preparazione a questa esplosione, e tutto ciò che ha avuto luogo di conseguenza può e deve essere letto proprio così — come una conseguenza fatta di interpretazioni, rovesciamenti e (cattive) letture critiche dell’idealismo tedesco. Nel suo rifiuto della filosofia, Freud citò la descrizione ironica del filosofo hegeliano fatta da Heinrich Heine: «Con i brandelli del suo berretto e della sua camicia da notte cerca di mettere le toppe nelle falle della struttura del mondo». (Il berretto e la camicia da notte sono, ovviamente, riferimenti ironici al noto ritratto di Hegel). Ma la filosofia al suo apice è davvero riducibile a un tentativo disperato di riempire i vuoti e le inconsistenze presenti nella nostra visione della realtà, e dunque di offrire una Weltanschauungarmoniosa? La filosofia è davvero una forma più evoluta di sekundàre Bearbeitung nella formazione di un sogno, di volontà di armonizzare gli elementi di un sogno in una narrativa coerente? Si può dire che, almeno a partire dalla

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svolta trascendentale di Kant, è avvenuto l’esatto opposto: Kant non espone forse una spaccatura, una serie di antinomie irreparabili, che emergono nel momento in cui vogliamo concepire la realtà come un Tutto? E Hegel, invece di superare questa spaccatura, non la radicalizza? Ciò che Hegel rimprovera a Kant è di essere stato troppo delicato con le cose: egli scova le antinomie nei limiti della nostra ragione, invece di scovarle nelle cose stesse, vale a dire invece di concepire la realtà in se stessa come spaccata e antinomica. È vero che si trova in Hegel un impulso sistematico a trattare di ogni cosa, a proporre una descrizione di tutti i fenomeni dell’universo nella loro struttura essenziale; ma questo impulso non vuol dire che Hegel si sforzi di collocare ogni fenomeno in un armonioso edificio globale; al contrario, il punto dell’analisi dialettica è di dimostrare come ogni fenomeno, ogni cosa che accade e che smarrisce la strada, comporti una spaccatura, un antagonismo, uno squilibrio al suo interno. Lo sguardo di Hegel sulla realtà è come quello di un macchinario di Rontgen che vede in tutto ciò che è vivo le tracce della futura morte. Le coordinate basilari di questo periodo di incontenibile densità di pensiero sono fornite dalla madre di tutte le Gangs ofFour. Kant, Fichte, Schelling, Hegel.1 Sebbene ognuno di questi quattro nomi rappresenti ‘un mondo a parte’ per le loro posizioni filosofiche radicali e uniche, si può mettere in ordine il gruppo dei quattro grandi idealisti tedeschi con precisione, facendo riferimento alle quattro condizioni’ della filosofia elaborate da Badiou: Kant va correlato alla scienza (newtoniana), e in effetti la sua domanda fondamentale è quale tipo di filosofia sia adeguata alla conquista newtoniana; Fichte fa riferimento alla politica, a quell’evento che è la Rivoluzione francese; Schelling all’arte (romantica) nel suo subordinare esplicitamente la filosofia all’arte come il più alto approccio all’Assoluto; e Hegel, 1 Io, ovviamente, approvo in pieno i risultati di quelle nuove ricerche che di­ mostrano definitivamente non solo che non c’è una semplice progressione lineare nell’ordine di successione di questi quattro nomi - Fichte e Hegel hanno ‘frainteso’ Kant nelle loro critiche, Schelling ha frainteso Fichte, Hegel è stato totalmente cicco di fronte a quella che forse è la più grande impresa di Schelling, il saggio sulla libertà umana -, ma anche che, spesso, non si può neanche passare direttamente da un nome all’altro: Dietcr Henrich ha mostrato come, per afferrare la logica interna del passaggio da Kant a Fichte, si dovrebbe tener conto degli immediati successori critici di Kant, Rcinhold, Jacobi c Schulze, c cioè si dovrebbe tener conto del fatto che il primo sistema di Fichte si può intendere correttamente come reazione a queste prime critiche a Kant.

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infine, si riferisce all’amore: il problema soggiacente al suo pensiero fin dall’inizio è l’amore. Tutto comincia con Kant, con la sua idea di costituzione trascendentale della realtà. Si potrebbe dire che è solo con quest’idea di Kant che la filosofia conquista il suo terreno: prima di Kant la filosofia era fondamentalmente percepita come scienza generale dell’Essere in quanto tale, come una descrizione della struttura universale dell’intera realtà, senza alcuna differenza qualitativa con le scienze particolari. È stato Kant a introdurre la differenza tra la realtà ontica e il suo orizzonte ontologico, la rete di categorie a priori che determina come noi comprendiamo la realtà, ciò che a noi appare come realtà. A partire da qui la filosofia precedente è leggibile non come la più generale conoscenza positiva della realtà ma, nel suo nucleo ermeneutico, come descrizione dello ‘svelamento dell’Essere’ storicamente predominante, come avrebbe detto Heidegger. (Quando Aristotele, nella sua Fisica, si occupa del problema della vita e propone una serie di definizioni — un essere vivente è una cosa che si muove da sé, che ha in se stessa la causa del suo movimento —, non sta davvero esplorando la realtà degli esseri viventi; sta piuttosto descrivendo il complesso di concetti preesistenti che determinano ciò che già-sempre comprendiamo con ‘essere vivente’ quando designiamo un oggetto come ‘vivo’). Il modo più appropriato di afferrare il carattere radicale dalla rivoluzione filosofica kantiana è fare riferimento alla differenza tra Schein (apparenza come illusione) e Erscheinung (apparenza come fenomeno). Nella filosofia pre-kantiana l’apparenza era concepita come il modo illusorio (difettivo) in cui le cose appaiono a noi, esseri finiti e mortali; il nostro compito era di guardare oltre queste false apparenze, al modo in cui le cose sono veramente (dalle Idee platoniche alla ‘realtà oggettiva’ scientifica). Con Kant, tuttavia, l’apparenza perde questa caratteristica peggiorativa. Essa designa il modo in cui le cose appaiono (sono) a noi tutto ciò che percepiamo come realtà, e il compito non è di denunciarle come ‘mere apparenze illusorie’ e di raggiungere la realtà trascendente che è oltre esse, ma uno totalmente diverso: cioè quello di distinguere le condizioni di possibilità di questo apparire delle cose, della loro ‘genesi trascendentale’. Cosa presuppone tale apparenza, cosa deve già-sempre esserci perché le cose ci appaiano come ci appaiono? Se per Platone il tavolo che vedo di fronte a me è una copia difettiva e imperfetta dell’idea eterna di tavolo, per Kant sarebbe stato insensato dire che il tavolo che vedo è una copia difettiva

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temporale/materiale delle sue condizioni trascendentali. Anche se prendiamo una categoria trascendentale come quella di Causa, è privo di senso per un kantiano affermare che la relazione empirica di causalità tra due fenomeni partecipi alla (sia una copia imperfetta della) eterna Idea di causa: le cause che percepisco tra i fenomeni sono le sole cause che ci sono, e il concetto a priori di Causa non è il loro modello perfetto, ma, precisamente, la condizione di possibilità perché io possa percepire una relazione tra fenomeni, come lo è la relazione causale. Nonostante l’insormontabile abisso che separa la filosofia critica di Kant dai suoi grandi successori idealisti (Fichte, Schelling e Hegel), le coordinate basilari che rendono possibile la Fenomenologia dello Spirito di Hegel sono già presenti nella Critica della Ragion Pura. In primo luogo, come puntualizza concisamente Dieter Henrich: «La motivazione filosofica di Kant non era identica a quella che riteneva essere la motivazione peculiare per fare filosofia».2 La motivazione peculiare per fare filosofia è metafisica, è cioè quella di offrire una spiegazione della totalità della realtà noumenica; in quanto tale, questa motivazione è illusoria, prescrive un compito impossibile; invece la motivazione di Kant è una critica a ogni possibile metafisica. Il tentativo di Kant sopraggiunge quindi successivamente: perché vi sia una critica della metafisica deve in primo luogo esservi una metafisica originale; per denunciare l’*illusione trascendentale’ della metafisica, deve prima esserci questa illusione. In questo preciso senso Kant è stato «l’inventore della storia filosofica della filosofia»:3 ci sono stadi necessari nello sviluppo della filosofia, e cioè non si può arrivare direttamente alla verità, non si può cominciare con essa, dunque la filosofia necessariamente comincia con le illusioni metafisiche. Il cammino dall’illusione alla sua denuncia critica è il nocciolo della filosofia, il che vuol dire che la filosofia vittoriosa (quella ‘vera’) non è più definita dalla sua spiegazione veritativa della totalità dell’essere, ma dalla sua giustificazione delle illusioni, e cioè dal fatto di spiegare non solo perché le illusioni sono illusioni, ma anche perché sono strutturalmente necessarie, inevitabili, e non solo accidenti. Il ‘sistema’ della filosofia non è più una struttura ontologica diretta della realtà, ma «un sistema puro e completo di tutte le prove e di 2 Dieter Henrich, Between Kant and Hegel, Harvard University Press, Cam­ bridge (MA) 2008, p. 32. i Ibidem.

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tutte le asserzioni metafisiche».4 La prova della natura illusoria delle proposizioni metafisiche è che necessariamente generano antinomie (conclusioni contraddittorie), e siccome la metafisica ha cercato di evitare le antinomie che emergono quando pensiamo ai concetti metafisici ultimi, il ‘sistema della filosofia critica è la serie completa — e dunque auto-contraddittoria, ‘antinomica — dei concetti e delle proposizioni metafisiche: «Solo colui che può guardare attraverso l’illusione della metafisica può sviluppare il più coerente e consistente sistema metafisico, poiché anche un sistema metafisico consistente è contraddittorio»5 — vale a dire, precisamente, inconsistente. 11 ‘sistema’ critico è la sistematica struttura a priori di tutti i possibili/pensabili ‘errori’ nella loro necessità immanente: ciò che otteniamo alla fine non è la Verità che vince/supera le precedenti illusioni — la sola verità è l’edificio inconsistente dell’interconnessione logica di tutte le possibili illusioni... Non è questo che ha fatto Hegel nella Fenomenologia (e, su un piano diverso, nella Logica)! L’unica (ma cruciale) differenza è che, per Kant, questo processo ‘dialogico’ della verità che emerge come denuncia critica dell’illusione precedente appartiene alla sfera della nostra conoscenza, e non riguarda la realtà noumenica che rimane esterna e indifferente a essa, mentre, per Hegel, il locus adatto a questo processo è la Cosa stessa. Schopenhauer ha paragonato benissimo Kant [nel saggio Sul fondamento della morale, §8] «con un uomo che a un ballo in maschera fa la corte tutta la sera a una mascherina, illudendosi di fare una conquista, mentre alla fine essa si toglie la maschera e si fa conoscere per... sua moglie» — (che poi è quanto accade nell’operetta Die Fledermaus di Johann Strauss). Per Schopenhauer, chiaramente, il punto del paragone è che la bella mascherata è la filosofia e la moglie il cristianesimo - la critica radicale di Kant è davvero solo un nuovo tentativo di difendere la religione, e la sua trasgressione è fasulla. E se, invece, ci fosse più verità nella maschera che non nel vero volto che si cela sotto? E se questo gioco critico cambiasse radicalmente la natura della religione, di modo che Kant avrebbe effettivamente minato ciò che era suo obiettivo proteggere? Forse i teologi cattolici che hanno visto nel criticismo kantiano la catastrofe originaria del pensiero moderno che ha aperto la strada al liberalismo e al nichilismo avevano ragione? 4 Ibidem. 5 Ibidem.

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La ‘radicalizzazione’ fichtiana di Kant è l’anello più problematico nella catena degli idealisti tedeschi: Fichte è stato (e tutt’ora lo è) bollato, e persino ridicolizzato, come ‘idealista soggettivo’, mezzo pazzo e solipsista. (Non sorprende che, per la tradizione analitica anglo-sassone, Kant sia il solo idealista tedesco che venga preso sul serio, mentre con Fichte entriamo nel dominio della speculazione oscura). Essendo il meno popolare, è richiesto uno sforzo per arrivare al vero nucleo del suo pensiero, alla sua ‘intuizione fondamentale’ (Fichtes Grundeinsicht è il titolo dello studio di Dieter Henrich su Fichte). Tuttavia la sua opera vale la fatica: come per tutti i pensatori veramente grandi, una corretta comprensione del suo pensiero rivela un’insuperabile descrizione della struttura profonda della soggettività interessata. II pensiero di Schelling deve essere diviso in due fasi, l’iniziale ‘filosofia dell’identità’ e la ‘filosofia della rivelazione’ degli ultimi anni — e, come spesso accade, la conquista vera di Schelling si manifesta tra le due, nel breve periodo tra il 1805 e il 1815, quando diede alla luce i suoi due capolavori assoluti, il saggio sulla libertà umana e i manoscritti delle tre versioni delle ‘età del mondo’. Qui si dischiude un universo interamente nuovo: l’universo delle pulsioni pre-logiche, l’oscuro ‘fondamento dell’Essere’ che abita nel cuore di Dio come ciò che è ‘in Dio più di Dio stesso’. Per la prima volta nella storia del pensiero umano, l’origine del Male non è collocata nell’umana Caduta da Dio, ma in una divisione nel cuore di Dio stesso. In Schelling la fondamentale figura del Male non è lo Spirito opposto alla Natura, ma lo spirito direttamente materializzato nella Natura come non-naturale, come mostruosa distorsione dell’ordine naturale — dagli spiriti maligni e dai vampiri ai mostruosi prodotti delle manipolazioni tecnologiche (cloni, ecc.). La Natura in sé è Bene, in essa il fondamento maligno è per definizione sempre subordinato al Bene: «in ogni stadio della natura prima della comparsa dell’uomo il fondamento è subordinato all’esistenza; in altre parole, la volontà del particolare è necessariamente subordinata alla volontà universale del tutto. Quindi la volontà individuale di ogni singolo animale è necessariamente subordinata alla volontà delle specie, che contribuiscono all’armonia del tutto della natura» [Bret W. Davis, Heidegger and thè WilL On thè Way to Gelassenheit, Northwestern University Press 2007, p. 107, che a sua volta parafrasa Martin

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Heidegger, Schelling. Iltrattato del1809sull’essenza della libertà umana]. Quando, con l’emergenza dell’uomo, il fondamento dell’esistenza è legittimato ad agire per proprio conto, affermando egoisticamente se stesso, ciò non significa solo che esso afferma se stesso contro l’amore divino, l’armonia del tutto, la volontà universale (non egoistica) — ma significa che esso afferma se stesso nella forma del suo opposto. L’orrore dell’uomo è che, in esso, il Male diventa radicale: non più un semplice male egoistico, ma il Male mascherato da (che appare come) universalità, che è il caso esemplare del totalitarismo politico, in cui un particolare agente politico si presenta come l’incarnazione diretta della Volontà universale e della Libertà dell’umanità. In nessun altro luogo la differenza tra il pensiero di Hegel e la filosofia dell’ultimo Schelling è maggiormente evidente di quanto lo è a proposito del problema del principio: mentre Hegel comincia con la più povera nozione di essere (che, nella sua astrazione, nella sua mancanza di determinazioni, equivale al niente), la ‘filosofia negativa’ di Schelling (che rimane parte del suo sistema, ma viene integrata dalla filosofia positiva), pur cominciando con l’affermazione di una negazione, di un vuoto, asserisce che questo vuoto è la forza affermativa del desiderio della volontà: «ogni inizio si colloca in un’assenza; la più profonda potenza, che si tiene saldamente a tutto, è il non-essere e la sua brama di essere».6 Dal dominio della logica e dei suoi concetti a priori, passiamo al dominio della vita reale, il cui punto di partenza è un’insufficienza, la ‘brama’ di un vuoto che deve essere riempito da un essere reale positivo. La critica di Schelling a Hegel è dunque che, per passare davvero dall’essere/nulla al divenire attuale, che si concretizza in ‘qualcosa’ di positivo, il ‘niente’ con cui cominciamo dovrebbe essere un ‘niente vivente’, il vuoto di un desiderio che esprime la volontà di generare o di afferrare qualche contenuto. L’enigma della lettura data da Henrich dell’idealismo tedesco è: perché quest’ultimo sistematicamente ridimensiona il ruolo di Schelling, specialmente dello Schelling della Freiheitschrift e di Weltalterì Questo ridimensionamento è un enigma perché è precisamente questo Schelling ‘intermedio’ ad aver esplorato nelle più grandi profondità ciò che Henrich indica come il problema centrale di Fichte (e dell’idealismo tedesco), il problema dello ‘spinozismo della libertà’: come pensare il Fondamento della Libertà,

6 Citazione tratta da Bruce Matthews, “Introduzione del traduttore”, in F.W.J. Schelling, Ihe Grounding ofPositive Pbilosophy, SUNY Press, Albany 2007, p. 34

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un Fondamento trans-soggettivo della soggettività che non solo non vincola la libertà umana ma la fonda letteralmente? La risposta di Schelling nella Freibeitschrift si situa letteralmente nel Fondamento stesso: la libertà umana è resa possibile dalla distinzione, in Dio stesso, tra il Dio esistente e il suo Fondamento, ciò che in Dio non è ancora pienamente Dio. Questo spiega l’unicità di Schelling, anche per quanto riguarda ‘Giudizio ed essere’ di Hólderlin: come l’ultimo Fichte (anche se, come è ovvio, in modo totalmente diverso), Schelling giunge al Fondamento trans-soggettivo della libertà soggettiva, ma, se per Hólderlin (e Fichte) questo ordine trans-soggettivo dell’Essere (o Vita divina) è pienamente Uno, pre-riflessivo, indivisibile, benché non auto-identico (perché l’auto-identità già implicherebbe la distanza formale di un termine con se stesso), solo Schelling ha introdotto un divario radicale, un’instabilità, una discordia in questo Fondamento pre-soggettivo/pre-riflessivo. Nel suo tentativo speculativo più ardito, in Weltalter, Schelling prova a ricostruire (a ‘narrare’) in questo modo la nascita del logos, del discorso articolato, fuori dal Fondamento pre-logico: il logos è un tentativo di risolvere il debilitante stallo di tale Fondamento. Questo è il motivo per cui i due veri vertici dell’idealismo tedesco sono lo Schelling di mezzo e l’Hegel maturo: hanno fatto quello che nessun altro ha osato fare — hanno introdotto un vuoto nel Fondamento stesso. Questo inedito gesto di introdurre un vuoto nel Fondamento stesso è l’argomento de II resto indivisibile, con le cui implicazioni continuo a combattere in tutti i lavori successivi a questo libro. Non ho ancora trovato una formulazione appropriata, dunque la ricerca prosegue.

Slavoj Zizek

Il resto indivisibile Su Schelling e questioni correlate

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Introduzione

T"\ a sloveno ho sempre prestato attenzione a quei pochi luoghi ■L -X in cui Freud, nei suoi scritti e nelle sue lettere, fa riferimen­ to a uno sloveno o alla Slovenia. Poiché ai suoi tempi la Slovenia faceva parte dell’impero austriaco, è sorprendente che tali riferimenti siano così rari. Oltre al fugace ma nondimeno enigmatico accenno a un ‘unanalysierbares (inanalizzabile) paziente sloveno, in una lettera all’analista italiano Edoardo Weiss,’ vi è un altro caso, forse anche più significativo. Durante una vacanza estiva Freud visitò le grotte di Skocjan, un magnifico sistema di cave sotterranee nella Slovenia meridionale (è noto il fatto che la discesa nelle grotte gli servisse come metafora dell’ingresso agli inferi). Nel mezzo del cammino in questo affasci­ nante oscuro universo, Freud improvvisamente impallidì di fronte a una spiacevole sorpresa: lì, fermo di fronte a lui nelle profondi­ tà crepuscolari, c’era un altro visitatore delle grotte, il dottor Karl Lueger, sindaco di Vienna, un populista demagogo cristiano dell’ala destra nonché noto antisemita... Quel che non deve sfuggire qui è il gioco di parole con Lueger che, chiaramente, in tedesco si associa immediatamente a Liige, menzogna. Per Freud era come se questo incontro imprevisto avesse messo in scena la verità fondamentale del suo insegnamento, una verità nascosta dall’approccio oscurantista New Age secondo il quale penetrando nell’ultimo anfratto della no­ stra personalità vi scopriamo il nostro vero Io al quale dobbiamo poi aprirci (cosa che garantirebbe la possibilità di una libera espressione): al contrario, invece, ciò che scopriamo nel nucleo più profondo della nostra personalità è una fondamentale, costitutiva, primordiale men­ zogna, il proton pseudos, la fantasmatica costruzione per mezzo della quale ci sforziamo di nascondere l’inconsistenza dell’ordine simboli­ co nel quale abitiamo. 1 Per un'analisi dettagliata di questo riferimento si veda il Capitolo 1 di Slavoj Zizbk, Ilgodimento comefattore politico, Raffaello Cortina, Milano 2001.

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Qui, è chiaro, Lacan (vale a dire Freud) smentisce il foucaultiano inserimento della psicoanalisi sulla linea di sviluppo che comincia con la pratica cristiana della confessione, e il presupposto che nel corso della cura psicanalitica il soggetto analizzante sveli, sondi, por­ ti alla luce la verità su se stesso, nascosta nel profondo dell’inconscio: ciò che il soggetto incontra nei propri abissi inesplorati è, al con­ trario, una primordiale menzogna. Perciò la psicoanalisi sottolinea l’inverso del famoso motto dissidente di Vàclav Havel ‘la vita nella verità’: lo ‘stato naturale’ dell’animale umano è di vivere in una men­ zogna. Il perturbante incontro di Freud condensa, per così dire, due tesi lacaniane strettamente connesse: il Padrone è inconscio, nasco­ sto nel mondo infernale, ed egli è un turpe impostore — la ‘versione del padre’ è sempre una père-version. In breve, la lezione della Ideologiekritik è che non c’è alcuna Herrschafi che non sia supportata da un qualche godimento fantasmatico. Un’esperienza personale mi ha rivelato questa intrinseca oscenità del Potere in una maniera a un tempo disgustosa e divertente. Negli anni Settanta ho prestato il servizio militare (obbligatorio) nell’Esercito Popolare della vecchia Jugoslavia, in una piccola caserma senza alcuna appropriata struttura medica. In una stanza, che faceva an­ che da dormitorio a un soldato semplice addestrato come assistente medico, un dottore del vicino ospedale militare teneva il suo am­ bulatorio una volta a settimana. Nella cornice del grande specchio posto sopra il lavandino all’interno di questa stanza, il soldato aveva incollato un paio di cartoline di ragazze mezze nude, una risorsa co­ mune per la masturbazione in quei tempi pre-pornografici. Quando il dottore veniva a fare la sua visita settimanale tutti noi, che ci era­ vamo presentati per la visita medica, sedevamo su una lunga panca accostata al muro di fronte al lavandino, e venivamo esaminati a turno. Un giorno, mentre aspettavo di essere visitato, viene il turno di un giovane soldato semi-analfabeta che lamenta dolori al pene (il che, ovviamente, era già sufficiente a scatenare in tutti, dottore in­ cluso, risatine oscene): il suo prepuzio era troppo stretto e non riu­ sciva a ritrarlo normalmente. Il dottore gli ordina di abbassarsi i pan­ taloni e di mostrargli il problema; il soldato obbedisce e il prepuzio scivola dolcemente sul glande, ma egli subito aggiunge che il fastidio sopraggiungeva solo durante l’erezione. Il dottore allora dice: ‘OK, masturbati, procurati un’erezione, così possiamo controllare!’. Pro-

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fondamente imbarazzato e rosso in viso, il soldato comincia a ma­ sturbarsi di fronte a noi ma, naturalmente, non riesce a raggiungere l’erezione. Allora il dottore prende dallo specchio una delle cartoline con le ragazze mezze nude, la piazza davanti alla faccia del soldato e comincia a urlargli: ‘Guarda! Che seni, che fica! Masturbati! Com’è che non riesci a ottenere un’erezione? Che razza di uomo sei! Forza, masturbati!’. Tutti noi nella stanza, incluso il dottore, accompagnam­ mo questo spettacolo con risate oscene; lo sfortunato soldato presto si unì a noi con una risatina imbarazzata, cercando sguardi di solida­ rietà da parte nostra mentre continuava a masturbarsi... Questa sce­ na ha rappresentato per me un’esperienza di quasi-epifania: in nuce c’era tutto, l’intera panoplia del Potere — la sconcertante mescolanza di divertimento imposto e l’umiliante esercizio del Potere, l’operato del Potere che grida ordini severi ma al tempo stesso condivide con noi, suoi subordinati, risate oscene che recano testimonianza di una profonda solidarietà... Si potrebbe anche dire che questa scena esemplifichi il sintomo del Potere: il grottesco abuso per il quale, in un peculiare cortocircuito, gli atteggiamenti che sono ufficialmente opposti e che si escludono reciprocamente rivelano la loro sconcertante complicità, laddove il solenne rappresentante del Potere improvvisamente comincia a farci l’occhiolino in un gesto di solidarietà oscena, facendoci capire che la cosa (e cioè i suoi ordini) non è da prendere troppo sul serio, e con ciò stesso consolidando il suo potere.1 Lo scopo della ‘critica dell’ideologia, dell’analisi di un edificio ideologico, è di estrarre questo nucleo sin­ tomatico che l’argomento ideologico pubblico e ufficiale contempo­ raneamente sconfessa e di cui ha bisogno per il suo funzionamento indisturbato. Si sarebbe tentati di dire che ognuna delle tre principali 2 In cosa, allora, consisterebbe il sovversivo antipode a questa oscenità del po­ tere? Lasciatemi ancora evocare un’esperienza personale degli ultimi anni del regime comunista in Slovenia, quando i comunisti, ben consapevoli di avere i giorni con­ tati, tentavano disperatamente di piacere a tutti. La radio studentesca di Lubiana intervistò un vecchio quadro comunista (uno vero, con la divisa grigia, sgraziato, ecc.) bombardandolo di domande provocatorie circa la sua vita sessuale; volendo a tutti i costi piacere, il quadro pronunciò le giuste parole, ma in rigido burocratese: la sessualità era una componente importante della sua personalità socialista; osser­ vare donne nude e toccare le loro parti intime rappresentava un forte incentivo per i suoi sforzi creativi... Ciò che era veramente sovversivo in questo spettacolo era la grottesca discrepanza tra il modo di parlare (un austero burocratese) c il contenuto intimo, sessuale.

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posizioni politico-ideologiche (‘Destra’, ‘Centro’, ‘Sinistra’) si basi su un tale assunto non riconosciuto ma inevitabile: la ‘Destra’ trova difficile nascondere la sua fascinazione per il mito di un ‘primor­ diale’ arto di violenza fondativo dell’ordine legale; il ‘Centro’ conta sull’innato egotismo umano (tra le righe, il liberalismo di norma mira all’indifferenza egotistica dell’individuo per le sventure altrui); la ‘Sinistra’, come è stato a lungo insinuato da perspicaci critici con­ servatori, da Nietzsche in poi, manipola grazie al ressentiment e alla promessa di rivincita (‘Adesso è il nostro turno di ...’). La conclusione che deve essere tracciata qui, dunque, non è che non vi sia via d’uscita, che ogni sovversione della struttura di po­ tere esistente sia falsa, illusoria, già imbrigliata nella rete di ciò che cerca di minare, ma l’esatto opposto: ogni struttura di potere è ne­ cessariamente scissa, inconsistente; c’è una spaccatura proprio nelle fondamenta del suo edificio, e questa spaccatura può fare da leva per l’effettivo sovvertimento della struttura di potere... In breve, le fondamenta del Potere possono essere scosse perché la stessa stabilità del suo poderoso edificio è imperniata su un equilibrio inconsistente e fragile. L’altra conclusione a cui si deve giungere è profondamente affine alla precedente, sebbene possa dar luogo alla falsa impressio­ ne di contraddirla: forse è giunto il momento di lasciarsi alle spalle l’ossessione della vecchia Sinistra per i modi e i mezzi per ‘sovverti­ re’ o ‘minare’ l’Ordine, e focalizzarsi sulla questione opposta, su ciò che, per seguire Ernesto Laclau, possiamo chiamare ‘ordinamento dell’Ordine’: non come si possa minare l’ordine esistente, ma come, in primo luogo, l’Ordine emerge dal disordine? Quali inconsistenze e scissioni permettono all’edificio dell’Ordine di mantenersi? Il filosofo che è arrivato più vicino a questa scandalosa, indistin­ ta doppiezza del Potere pubblico è stato F.W.J. Schelling: non c’è Geist senza Geisterwelt, nessuna pura spiritualità del Logos senza la scandalosa, spettrale ‘corporeità spirituale’ di un morto vivente, e così via. Questa perversione della spiritualità e dell’idealità non è qualcosa che avviene accidentalmente: la sua possibilità è contenuta nella nozione stessa di spiritualità. La nozione schellinghiana di ‘cor­ poreità spirituale’ ci permette di stabilire un inatteso collegamento con Marx. È stato chiaramente stabilito che Schelling prefigura una serie di motivi-chiave marxiani, compreso il ‘rivoluzionario’ discre­ dito da parte di Marx della dialettica di Hegel secondo la quale la risoluzione speculativo-dialettica della contraddizione lascia intatto

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il reale antagonismo sociale (il ‘positivismo speculativo’ di Hegel).3 Le radici della problematica marxiana del ‘feticismo delle merci’ in Schelling fornisce un altro collegamento in questa serie. Sarebbe a dire: perché Marx sceglie proprio il termine feticismo per designa­ re il ‘capriccio teologico’ dell’universo delle merci? Ciò che qui si deve tener presente è che ‘feticismo’ è un termine religioso con cui si intende un’idolatria (passata) ‘falsa’ in opposizione con la credenza (attuale) vera: per gli Ebrei il feticcio è il vitello d’oro; per un soste­ nitore della pura spiritualità il feticismo rappresenta la ‘primitiva superstizione, la paura dei fantasmi e di altre apparizioni spettrali, e così via. Il punto di Marx è che l’universo delle merci garantisce il surplus feticistico necessario alla spiritualità ‘ufficiale’: può ben essere che l’ideologia ‘ufficiale’ della nostra società sia la spiritualità cristia­ na, ma cionondimeno il suo vero fondamento è l’idolatria del vitello d’oro: il denaro. In breve, il punto di Marx qui è profondamente schellinghiano: non c’è spirito senza spettri, nessuna ‘pura’ spiritualità senza lo spet­ tro osceno della ‘materia spiritualizzata’. Il primo a compiere questo passaggio ‘dallo spirito agli spiriti’ in forma di critica del puro ideali­ smo spirituale, del suo nichilismo ‘negativo’ e sterile, è stato proprio Schelling che, nel dialogo Clara (1810), ha cercato di scardinare la semplice e complementare relazione speculare tra interno ed esterno, tra spirito e corpo, tra l’elemento ideale e quello reale che insieme formano la vivente totalità dell’organismo, richiamando l’attenzio­ ne su una duplice eccedenza che ‘sporge fuori’. Da una parte c’è l'elemento spirituale della corporeità', la presenza, nella materia stessa, di una componente fisica ma non materiale, di un corpo diafano, relativamente indipendente dal tempo e dallo spazio, che fornisce la base materiale della nostra volontà libera (magnetismo animale, ecc.). Dall’altra parte c’è l'elemento corporeo della spiritualità', le mate­ rializzazioni dello spirito in una sorta di pseudo-cosa, in apparizioni senza sostanza (fantasmi, morti viventi). È chiaro come queste due eccedenze includano in nuce la logica dell’opposizione del feticismo delle merci e quella degli Apparati Ideologici di Stato (AIS) althusseriani: il feticismo delle merci implica la sconcertante ‘spiritualiz­ zazione’ della merce-corpo, mentre gli AIS materializzano il grande Altro, spirituale e senza sostanza, dell’ideologia.4 5 Per questo debito di Marx verso Schelling, si veda Manfredo Frank, Der Unendliche Mangelan Sein, Suhrkamp, Frankfurt 197\S 4 Per una più dettagliata disamina di questo punto, si veda Slavoj 2izek, “Lo spettro dell’ideologia”, in Spettri del potere. Ideologia, identità, traduzione negli studi culturali, C. Bianchi, C. Demaria, S. Nergaard (cur.), Meltemi, Roma 2002.

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Le oscure elucubrazioni di Schelling Sull’Assoluto prima della creazione del mondo non sono forse fiori dal mondo per il nostro pragmatico universo post-illuministico? Tra le numerose banalità proposte da Karl Popper, un’idea si fa avanti più insensata delle altre: quella di un intrinseco collegamento tra il ‘totalismo’ filosofico (filo­ sofia ‘forte’ che cerca di cogliere l’Assoluto) e il totalitarismo politico, l’idea che un pensiero che miri all’Assoluto fondi in tal modo il do­ minio totalitario. È fàcile irridere questa idea come caso esemplare dell’idiozia tipica della filosofia analitica, della sua inferiorità rispetto alla tradizione dialettica (e/o ermeneutica). Ma Adorno e Horkhei­ mer, i due grandi oppositori deU’orientamento popperiano, nella loro Dialettica dell'illuminismo non deducono alla fin fine un’idea equivalente? Per cominciare, si sarebbe tentati di azzardare una confutazione empirica’ della nozione di un legame effettivo tra ‘totalismo’ filosofico e totalitarismo politico: da una parte la filosofia che legittima un regime politico totalitario è generalmente una sorta di relativismo vitalista o evoluzionista; dall’altra parte la pretesa di un ‘contatto con l’Assoluto’ può legittimare una resistenza da parte dell’individuo a un potere politico terrestre (il collegamento è ben lontano dal­ l’essere necessario o autoevidente, piuttosto è l’opposto). Schelling, che sostiene la versione più forte della filosofia dell’Assoluto (nella parte prima di Weltalter tenta di presentare il passato come l’età’ di Dio stesso che precede la creazione), non fornisce forse l’argomento fondamentale contro tale legame? Lui che, proprio in nome del ri­ ferimento all’Assoluto, relativizza lo Stato, cioè, lo concepisce come qualcosa di contingente, irraggiungibile e incompiuto nella sua stes­ sa nozione? Allora, come guardiamo a Schelling oggi? Le coordinate del­ la scena filosofico-ideologica contemporanea sono fissate da due orientamenti: il ‘postmoderno’ relativista dei nuovi sofisti (dai neo­ pragmatici ai decostruzionisti) e gli oscurantisti della New Age. Per entrambi gli orientamenti il riferimento a Schelling, alla sua critica di Hegel e dell’idealismo moderno in generale, è di cruciale impor­ tanza. I nuovi sofisti sottolineano come Schelling sia stato il primo a introdurre una frattura nell’edificio panlogista di Hegel grazie ai concetti di contingenza e finitudine; gli oscurantisti della New Age considerano Schelling come il filosofo che ha portato a compimento la svolta ‘junghiana’ grazie alle nozioni di Weltseele, saggezza primor­ diale, cosmologia sessualizzata, e così via.

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Ancora una volta la relazione rra Schelling e Hegel è il nodo entro cui ‘tutto viene deciso’. Secondo la doxa predominante, nel panlo­ gismo e nell’idealismo assoluto di Hegel l’automovimento dell’idea genera il suo proprio contenuto e retroattivamente fonda i suoi pre­ supposti, mentre Schelling apre un varco che spalanca la strada alla problematica post-hegeliana della finitudine: l’idea hegeliana può afferrare solo la necessità ideale di una cosa, cosa è una cosa, la cosa nella sua determinazione concettuale, nella sua possibilità concettua­ le. Ciò che è fuori dalla sua portata è il fatto contingente che qualcosa esista, un fatto che dipende da un libero atto di creazione. Questo surplus che sfugge all’automediazione concettuale può essere esemplarmente individuato a proposito della problematica del Male. Hegel riduce il Male a momento subordinato nell’automediazione dell’idea qua Bene supremo, mentre in Schelling il Male rima­ ne una possibilità permanente che non può mai essere pienamente ‘superata [aufgehoben]' nel e dal bene. Una doxa (quasi un cliché) su Schelling è che nella sua filosofia il soggetto possa far valere la sua autopresenza solo sullo sfondo di un oscuro, denso, impenetrabi­ le Grund che ritira-in-sé il momento in cui viene illuminato dalla luce della Ragione: il logos non può mai completamente mediare/ interiorizzare questa Alterità del fondamento - nella sua dimensio­ ne elementare, il Grund non è altro che l’ostacolo di un’alterità che mantiene sempre la sua esteriorità... Questa comprensione del processo dialettico hegeliano come automediazione del Concetto che si esteriorizza, che postula il con­ tenuto nella sua indipendenza e realtà, e quindi lo interiorizza e si riconosce in esso, è corretta? Il nostro presupposto, ovviamente, è che non lo è. Lo scopo, comunque, non è semplicemente difendere Hegel dalla critica di Schelling dimostrando come Schelling fallisca il punto e in definitiva combatta contro un uomo di paglia (ché sarebbe piuttosto un noioso, puro esercizio accademico). La nostra tesi è più complessa: nel caso di Schelling, così come in quello di Hegel, ciò che possiamo chiamare un involucro dell’errore (la comune immagine erronea di Schelling come filosofo del Grund irrazionale, del Weltseele, ecc.; la comune immagine erronea di Hegel come fi­ losofo dell’idealismo assoluto, della compiuta automediazione del Concetto, ecc.) nasconde, e al tempo stesso contiene, un gesto sov­ versivo senza precedenti che — e qui risiede la nostra premessa fon­ damentale — è lo stesso in entrambi i casi. Ciò che è effettivamente in

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gioco nei nostri propositi, allora, non è di contrapporre le arguzie di Hegel a quelle di Schelling ma di individuare i contorni di questo gesto rispetto al quale le interpretazioni ufficiali di Schelling e Hegel, questi ‘involucri formali dell’errore’, sono unicamente delle modali­ tà di evirare il gesto, di renderlo invisibile. Il secondo presupposto, naturalmente, è che è la teoria psicanalitica di Lacan a permetterci d’affrontare un tale gesto, la sola vera Sache des Denkens. Dunque, perché ci soffermiamo proprio sui frammenti del Weltalterì Jean-Claude Milner5 di recente ha cercato di enumerare le caratteristiche che contraddistinguono i grandi testi del pensiero ma­ terialista, dal De rerum natura di Lucrezio, attraverso il Capitale di Marx, fino all’opera di Lacan. Il tratto principale è il loro carattere non-finito: queste opere sembrano affrontare ripetutamente lo stesso punto nodale (la genesi del feticismo delle merci in Marx; il ‘nodo’ che congiunge il reale, il simbolico e l’immaginario in Lacan) e seb­ bene in ultima analisi falliscano, e il lavoro rimanga frammentario, proprio tale fallimento è dal punto di vista teoretico estremamente produttivo. Chiaramente la nostra tesi è che il progetto dei Weltalter di Schelling, con il ripetuto fallimento di fornire una formulazione definitiva dell’inizio del mondo’, del passaggio dal caos pre-simbolico del reale all’universo del logos, appartiene a questa tipologia di opere. Ciò che qui è di particolare interesse è che Schelling non ha problemi ad addentrarsi negli oscuri inferi delle pulsioni pre-simboliche (‘Dio precedente alla creazione del mondo’), ma il punto in cui continuamente fallisce è il ritorno da questo ‘continente nero’ al nostro comune universo del linguaggio.

Questo libro è stato scritto nella speranza che possa contribuire a farci considerare il progetto dei Weltalter di Schelling come uno dei lavori germinali del materialismo. Tale affermazione non può non provocare una reazione immediata: Schelling materialista? Non è, piuttosto, l’ultimo grande rappresentante di una teosofìa antropo­ morfica e pre-scientifica? Nella sua Introduzione alla prima traduzio­ ne francese delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana di Schelling, Henri Lefebvre scrisse che questo trattato «certamente

’ Cfr. Jean-Claude Milner, L’auvre claire, Seuil, Paris 1995.

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non è vero, ma è nondimeno molto importante per la verità».6 Que­ sta dichiarazione può anche servirci da linea guida, a condizione che non ci sfugga il suo paradosso: il punto non è di rifiutare ciò che non c’è di vero in Schelling, la finta impalactura (‘oscurantista’, ‘teosofico-mitologica) del suo sistema, in modo da raggiungere il suo nucleo di verità. La sua verità, piuttosto, è inestricabilmente legata a ciò che, dalla nostra prospettiva contemporanea, non può non appa­ rire sfacciatamente ‘non vero’, così che ogni sforzo volto a scartare la parte o l’aspetto considerato ‘non vero’ inevitabilmente comporta la perdita della verità stessa (non c’è modo di gettare via l’acqua sporca senza perdere il bambino). Vale a dire: come si interpreta generalmente questo intreccio di non-vero e vero in Schelling? Uno dei luoghi comuni su Schelling è che sia un filosofo di transizione, a cavallo tra due epoche - con un piede ancora nell’universo dell’idealismo speculativo, il cui tema è l’autosviluppo immanente dell’eterno Assoluto, e con l’altro piede già a invadere l’universo post-hegeliano di finitudine-contingenzatemporalità. Sebbene i frammenti di Weltalter (dal 1811 al 1815) contengano tutti gli ingredienti per una ‘analitica della finitudine’ fondata sulla struttura della temporalità,7 Schelling tiene fermo che le tre dimensioni temporali di passato, presente e futuro non sono semplicemente l’orizzonte della temporalità umana finita ma desi­ gnano le tre età’ dello stesso Assoluto... Il presupposto implicito a tale lettura è, chiaramente, che bisogna rifiutare l’Assoluto, il siste­ ma, e così via, e sostenere tutto ciò che preannuncia un successivo sviluppo (la critica di Marx a Hegel, l’analisi della temporalità di Heidegger, ecc.). Lo stesso Heidegger ci ha offerto la più concisa formula di tale lettura dichiarando che la filosofia di Schelling — il ‘sistema della libertà’ — è caratterizzata da un’implacabile e insanabile tensione tra i suoi due termini costitutivi, libertà e sistema. Secondo Heidegger, quindi, il limite fatale di Schelling risiede nella sua aderenza al siste­ ma: vale a dire, è la cornice del sistema che condanna al fallimento gli sforzi di Schelling di comprendere adeguatamente l’essenza della 6 H enri Leeebvre, Introduzione a F.W.J. Schelling, La liberti humaine, Rieder, Paris 1926, p. 7. 7 Cfr. Alan White, Schelling: An Introduction to thè System of Freedom, Yale University Press, New Haven (Connecticut) e Londra 1983, p. 142.

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libertà... In breve, come Marc Richir (studioso generalmente prò Heidegger) afferma quando ironicamente sintetizza la posizione di Heidegger, la struttura del sistema impedisce a Schelling di diventare già Heidegger e sviluppare l’analitica della finitudine.8 La nostra lettura è radicalmente opposta a tale riduzione di Schelling a fenomeno ‘intermedio’ per cui, allo scopo di ottenere un’analitica della finitudine, basterebbe gettar via la forma dell’As­ soluto. Siamo lontanissimi dal liquidare la narrativa dell’Assoluto schellinghiano come incoerente cortocircuito tra la problematica post-metafisica di contingenza-temporalità-finitudine e quella me­ tafisica dell’Assoluto. La posizione di Schelling è sì ‘intermedia’, ma proprio in quanto tale, come una sorta di ‘mediatore evanescente’ tra l’idealismo dell’Assoluto e l’universo post-hegeliano di finitudinetemporalità-contingenza, il suo pensiero (per un breve momento, per così dire in un lampo) rende visibile qualcosa che prima era invi­ sibile e che poi si ritira nell’invisibilità. In questo consiste la peculiare posizione intermedia di Schelling, la sua totale non-contemporaneità al suo tempo: egli appartiene a tre domini discorsivi - parla simul­ taneamente, per così dire, tre linguaggi: il linguaggio dell’idealismo speculativo; il linguaggio della teosofia mistico-antropomorfica; il linguaggio post-idealista della contingenza e della finitudine. Il pa­ radosso, ovviamente, è che è stato proprio il suo 'regresso' dal puro idealismo filosofico alla problematica teosofica pre-modema a permetter­ gli di superare la modernità stessa. Vale a dire: da una parte Schelling è l’ultimo grande rappresentante della visione pre-modema ‘antro­ pomorfica’ sessualizzata dell’universo (alcuni dei suoi allievi hanno portato questa nozione all’estremo, per esempio J.J. von Gòrres, nel suo voluminoso Sistema sessuale di ontologia)', dall’altra parte, solo una sonile linea invisibile lo separa dal sostenere apertamente, con una vena completamente postmoderna, l’impossibilità della relazione sessuale (cioè, un fondamentale ‘fuor di sesto’, un equilibrio com­ promesso) come costituente ontologica positiva dell’universo. Occupandosi di Weltalter si dovrebbe sempre tenere in mente il preciso contesto discorsivo dell’opera: il proposito fondamenta­ le di Schelling era realizzare, fin dalla giovinezza, il cosiddetto ‘più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco’ e trasmettere il sistema della ‘mitologia razionale’, due punti che avrebbero rap-

’ Cfr. Marc Richir. “Schelling et l’utopic métaphysique”, in F.WJ. Schelling, Recherches sur la liberti humaine, Payot, Parigi 1977, p. 176.

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presentato le più alte intuizioni della natura dell’Assoluto in forma mitologico-popolare, così da mettere in moto un totale rinnovamen­ to politico-spirituale della nazione tedesca superando lo stallo della modernità. Come dobbiamo considerare, oggi, nel nostro contesto discorsi­ vo, questo passaggio dalla presentazione logica alla narrativa mitica? Esso non produce forse ‘regresso’ verso una versione New Age della mitologia? Quando, nei punti chiave dei loro edifici teoretici, Freud e Lacan pure ricorsero a una narrativa mitica (il mito freudiano del padre primordiale in Totem e Tabù, il riferimento al mito platonico dell’uomo primordiale androgino in Al di là del principio di piacere', il mito lacaniano della ‘lamella’ in I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), erano spinti dalla stessa necessità di Schelling. Il bisogno di ricorrere alla forma della narrativa mitica sorge quando ci si sforza di spezzare il cerchio dell’ordine simbolico e di dare ragio­ ne della sua genesi (delle ‘origini’) dal reale e del suo antagonismo pre-simbolico. In breve, Weltalter deve essere letto come un’opera metapsicologica nel vero senso freudiano del termine.

Parte i F.WJ. Schelling O ALLE ORIGINI DEL MATERIALISMO DIALETTICO

I

I SCHELLING-IN-SÉ: V ORGASMO DELLE FORZE

Prima del Principio

ome si dovrebbe iniziare un saggio su Schelling? Forse il V_y modo più appropriato è quello di concentrarsi sul problema del Principio stesso, il problema cruciale dell’idealismo tedesco - basti richiamare la dettagliata elaborazione di Hegel di questo problema e di tutte le sue implicazioni nella Scienza della Logica. Il contri­ buto ‘materialista’ di Schelling è meglio esemplificato nella sua tesi fondamentale, secondo la quale, senza mezzi termini, il vero Prin­ cipio non è in principio', c’è qualcosa che precede il Principio stesso — un movimento rotatorio il cui circolo vizioso è rotto, in un gesto analogo al taglio del nodo gordiano, dal Principio vero e proprio, e cioè, dall’atto di decisione originaria. Il principio di tutti i principi, il principio kat'exoehen — ‘la madre di tutti i principi’, si direbbe oggi — è, ovviamente, il ‘In principio era il Verbo' del Vangelo secondo Giovanni. Prima c’era il nulla, cioè il vuoto dell’eternità divina. Se­ condo Schelling, comunque, ‘l’eternità’ non è una massa indistinta — un sacco di cose vi dimorano. Prima del Verbo c’è l’universo caotico-psicotico delle pulsioni cieche, del loro movimento rotatorio, del loro indifferenziato palpitare; e il Principio si presenta quando il Verbo è ciò che, pronunciato, ‘reprime’ e rigetta nell’eterno Passato questo circuito conchiuso di pulsioni. In breve, nel Principio vero e proprio si pone una risoluzione, un atto di decisione che, differenzian­ do tra passato e presente, risolve l'insopportabile tensione precedente del movimento rotatorio delle pulsioni', il vero Principio è il passaggio dal movimento rotatorio ‘chiuso’ al progredire ‘aperto’, dalla pulsione al desiderio - o, in termini lacaniani, dal Reale al Simbolico. Si è tentati qui di evocare ‘The Sole Solution’, un racconto fan­ tascientifico, profondamente schellinghiano, di Eric Frank Russell, che descrive le sensazioni interiori di chi trabocca di dubbi, di chi gira a vuoto in un inutile circolo e non riesce a prendere una decisio-

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Parte I - Schelling o alle origini de! materialismo dialettico

ne, che fa ogni genere di progetto che immediatamente abortisce. In definitiva, il protagonista cambia idea e dice: ‘Che sia fatta la luce!’. In breve, quel che attraverso tutto il racconto abbiamo capito essere i gemiti di qualche confuso idiota, si rivela essere l’esitazione di Dio immediatamente prima dell’atto della creazione. Il principio si veri­ fica quindi quando si ‘trova la parola’ che rompe lo stallo, il circolo vizioso del vagare vuoto e confuso. In questo preciso senso, il problema del Principio è il problema della ‘fenomenalizzazione’: come accade che Dio pronunci la Parola e con ciò disveli se stesso, appaia a se stesso? Dobbiamo stare attenti a non mancare questo punto. Come in Hegel, il problema non è in che modo riuscire a cogliere il noumeno in se stesso oltre i fenomeni. Il vero problema è come e perché questo in sé si divida da sé, come acquisisca una distanza verso se stesso liberando quindi lo spazio per la sua apparizione (a se stesso). In che modo, dunque, si verifica que­ sta fenomenalizzazione di Dio, questa enunciazione del Verbo in Lui che, magicamente, in maniera inesplicabile, scaccia l’impenetrabile oscurità delle pulsioni? Si verifica solo a condizione che il movimento rotatorio delle pulsioni che precede il Principio non sia a sua volta un fatto primordiale, insuperabile. Vale a dire, il concetto di vortice delle pulsioni come fondamento ultimo, come ‘origine di tutte le cose’, rende inconcepibile di fatto la libertà: come può la Parola emergere da questo vortice e dominarlo, conferirgli una forma, ‘disciplinarlo’? Conseguentemente, questo Fondamento ultimo {Grand} della real­ tà, questo vortice primordiale delle pulsioni, questa Ruota della For­ tuna che prima o poi fagocita e distrugge ogni oggetto determinato, deve essere preceduto da un’inconoscibile X che a quel punto, in un modo ancora tutto da spiegare, ‘contrae’ le pulsioni. Non è dunque il primordiale vortice delle pulsioni il fondamento ultimo preceduto da nient’altro? Schelling sarebbe completamente d’accordo con questo, aggiungerebbe solo che il punto in questione è precisamente l’esatto status di questo ‘niente’: prima del Grund può esserci solo un abisso {Ungrund) — e cioè, ben lungi dall’essere un mero nihilprivativum, questo ‘niente’ che precede il Fondamento rappresenta l’assoluta indifferenza’, come abisso della pura Libertà che non è ancora la proprietà predicativa di qualche Soggetto ma, piuttosto, designa una pura e impersonale Volontà {Wollen} che non vuole niente. Come possiamo noi umani, mortali e finiti, trovare accesso a questo abisso di libertà che è l’origine primordiale di tutte

Schelling-in-sé: lox^psnxQ delle forze

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le cose? La premessa fondamentale di Schelling qui è radicalmente ‘antropocentrica’: l’uomo non è un mero epifenomeno dell’universo, un insignificante granello di polvere; tra tutte le cose create egli è il solo a possedere centralità’, e come tale si pone in contatto diretto con l’abisso della libertà primordiale:

All’uomo va riconosciuto un principio che è esterno e superiore al mondo; altrimenti, come potrebbe l’uomo, unica tra tutte le crea­ ture, ripercorrere il lungo cammino evolutivo, dal presente fino alla più profonda notte del passato? Come potrebbe, egli solo, risalire sino all’inizio dei tempi, se non ci fosse in lui un principio dell’ini­ zio dei tempi? Creata alla fonte delle cose c ad essa uguale, l’anima umana ha una con-scientia (Mitwissenschafi) della creazione.1 Tuttavia, abbiamo proceduto troppo frettolosamente. Si dovreb­ bero ricostruire tutti i passaggi che hanno condotto Schelling verso l’affermazione di un’identità tra la libertà umana e l’abisso primor­ diale che è ‘la fonte delle cose’. Schelling è stato prima e soprattutto un filosofo della libertà, un filosofo che ha affrontato l’impresa ‘im­ possibile’ di pensare la libertà nella cornice di un sistema filosofico, di elaborare un sistema filosofico che non precludesse la libertà. Che cos’è, precisamente, un sistema? Affrontiamo questo problema attraverso una deviazione forse inaspettata, prendendo come spunto iniziale i Flintstones. Oltre a fornire una lezione esemplare sul concetto di ‘primitivo’ (la ‘proie­ zione’ anacronistica di elementi odierni nella ‘primitiva’ Età della Pietra rende visibile la struttura elementare della società di oggi nella sua forma distillata, ridotta alla sua scarna essenzialità), il motivo d’interesse principale del film giace nella sua ‘premessa’ di stabilire una perfetta correlazione tra due serie (la nostra vita contemporanea di consumatori tardo-capitalisti e l’Età della Pietra), così da indurre lo spettatore in una costante inquietudine: riuscirà il film a trovare una controparte preistorica a tutti i fenomeni della nostra società — vale a dire, riuscirà a trasporre le moderne invenzioni tecnologiche nelle condizioni dell’Età della Pietra senza barare (macchine messe in moto dai piedi; aerei che volano grazie agli uccelli attaccati alle ali, un pappagallo che funge da dittafono, ecc.)? Un professore di

1 F.W.J. Schelling, Le età del mondo, Carlo Tatasciorc (cur.), Guida Editori, Napoli 2000, p. 40.

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filosofìa moderna dell’università di Lubiana ha recentemente avuto un’esperienza analoga: a un esame orale, uno studente aveva inven­ tato per ogni domanda una scusa per non rispondere - Dio in Spi­ noza? Spiacente, sono membro di una setta religiosa che mi proibisce di pronunciare il nome di Dio in pubblico, dunque non posso ri­ spondere alla domanda. Le monadi di Leibniz? Leibniz diceva che le monadi sono chiuse in loro stesse e non hanno né porte né finestre, io sono claustrofobie© e non posso parlare di monadi, mi causa­ no troppa ansia... Ancora, si ottiene un sistema’ quando si accetta come premessa che sia completo e che includa l’intera storia della filosofia: Talete? Mi dispiace, egli sosteneva che l’origine di tutto è l’acqua, e io non so nuotare, ho paura di affogare. Platone? Secondo Platone le idee dimorano nell’aria, molto al di sopra della terra, ma io ho paura dell’altezza, il solo pensiero delle idee di Platone mi fa venire le vertigini... ecc., ecc. In Schelling si trova un’incertezza radicale in qualche modo simi­ le: è possibile per un filosofo riuscire a contenere tutto all’interno del suo sistema? O dovrà, prima o poi, imbattersi in un elemento che smaschererà la sua vana pretesa e rivelerà la sua impotenza? Ed è pro­ prio il sistema hegeliano che significativamente innesca più spesso tale ansia nel lettore. Secondo la doxay Hegel è il filosofo che sostiene di tener conto di tutto, così ogni volta che entra in gioco la dialettica si aspetta impazienti — riuscirà ancora a eseguire il suo trucco’ e a fornirne una sembianza convincente di spiegazione razionale, o verrà finalmente colto in flagrante e sarà quindi costretto ad ammettere la sua impostura? Il ‘sistema implica sempre una tale temeraria premes­ sa, e cioè che le due serie (quella della realtà empirica e quella della rete concettuale) saranno completamente correlate, e questa perenne ansia circa l’esito dell’impresa è ciò su cui si basa Schelling. Il fatto che l’universo sia razionalmente ordinato, catturato in un nesso cau­ sale, non è di per se stesso evidente, ma è precisamente qualcosa che deve essere spiegato: «l’intero mondo è completamente afferrato dal­ la ragione. Ma la domanda è: come è accaduto che venisse catturato nella rete della ragione in primo luogo?».2 Qui Schelling ribalta la prospettiva: il problema non è come, in un universo regolato da ine­ sorabili leggi naturali, ci sia posto per una libertà che non sia mera illusione basata sull’ignoranza delle vere cause, ma come, piuttosto, 2 F.WJ. Schelling, Grundltgung ckrpositiven Philosophie, Bottega d’Erasmo, Torino 1972, p. 222 (trad. dal tedesco di Zizek; qui trad. mia).

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il mondo quale totalità razionale di interconnessioni causali abbia fatto la sua apparizione. Come vedremo dopo, Schelling compie una svolta simile a proposito della prova ontologica di Dio: il problema, secondo lui, non risiede nel salto dalla nozione di Dio alla realtà di Dio; la realtà è sempre già data, pertiene all’originale ex-stasis del no­ stro spirito. Dunque il vero problema è piuttosto come passiamo dal crudo fatto dell’esistenza senza significato di Dio (dell’Assoluto) alla Sua nozione: cioè, come Dio dà luogo al logos, come Egli pronuncia la Parola e pone Se Stesso come Ragione? Per Schelling allora il fatto primordiale, assolutamente contingente, che in nessun modo può essere spiegato, è la libertà stessa, una libertà legata da nulla, una libertà che, in un certo senso, è Nulla. E il problema è, quindi, come questo Nulla dell’abisso della libertà primordiale venga stretto nelle catene causali della Ragione.

L’atto inconscio T)otrebbe sembrare che questa nozione di libertà non abbia JL proprio niente a che fare con ciò che solitamente, nella vita di tutti i giorni, comprendiamo attraverso tale parola. Ciò che Schel­ ling vuole ottenere è scalzare l’astratta nozione filosofica di libertà mediante il ricorso alla nostra più concreta esperienza esistenziale. Per lui la libertà non è, in puro senso idealista, la piena autonomia dell’Assoluto, il potere di dispiegare il proprio contenuto ‘liberamen­ te’, di determinarsi indipendentemente da ogni limitazione esterna, di porre le sue limitazioni come auto-determinazioni. Piuttosto, essa riguarda la concreta esperienza della tensione interna alla persona vivente, agente e sofferente, posta tra Bene e Male. Non c’è reale li­ bertà senza quest’ansia insopportabile. Allora, in che modo Schelling stabilisce il collegamento tra la libertà in quanto Vuoto primordiale e la concreta esperienza di libertà? Affrontiamo questo problema in medias res, all’apice creativo del­ le Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana, dove Schelling si sforza di trattare la dimensione più radicale della libertà umana. Schelling si riferisce qui a Kant che, nel suo La religione entro i limiti della sola ragione, aveva già prestato attenzione al misterioso parados­ so della nostra ragione etica: quando si incontra una persona davvero malvagia, non si può evitare l’impressione che nel compiere i suoi

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orrendi atti egli stia semplicemente seguendo la necessità inscritta nella sua natura, che non è nelle sue possibilità agire diversamente: egli è proprio ‘fatto così’. Il mistero risiede nel fatto che - malgrado questa impressione, e in apparente contraddizione con essa — noi lo riteniamo pienamente responsabile delle sue azioni, come se la sua stessa natura malvagia fosse accidentale rispetto alla sua libertà di scelta:

...prescindendo dall’innegabile necessità di tutte le azioni, e sebbene ognuno, se presta attenzione a sé, debba confessare che in nessun modo è buono o cattivo per caso o arbitrariamente — il mal­ vagio, ad esempio, non si ritiene affatto costretto (perché la costri­ zione può essere sentita solo nel divenire, non nell’essere), e compie le sue azioni con volontà, non contro il proprio volere. Che Giuda diventasse traditore di Cristo, non lo poteva cambiare né lui stesso né una creatura, e tuttavia egli tradì Cristo non perché costretto ma volontariamente e in piena libertà... Quante volte accade che un uomo fin dalla fanciullezza, in un tempo in cui noi, considerandolo empiricamente, difficilmente pos­ siamo crederlo capace di libertà e di riflessione, mostra una tenden­ za al male, da cui è facile prevedere che egli non cederà a nessuna di­ sciplina e a nessun insegnamento, e che in seguito porta veramente a maturazione i frutti maligni che noi avevamo previsto in germi: e nondimeno nessuno dubita della sua responsabilità e della colpa di questo uomo si è così persuasi, come si potrebbe esserlo soltanto se ogni singola azione fosse stata in suo potere.3 Schelling qui ci offre testimonianza della sua straordinaria abili­ tà di argomentare un’esperienza etica molto concreta nei termini di una più audace speculazione filosofica. Come Kant, è nelle sue più ardite speculazioni che egli si avvicina di più alla nostra esperienza di vita. Seguendo le orme di Kant, egli spiega il paradosso della libertà invocando un atto di auto-posizione noumenico ed extra-temporale per mezzo del quale l’uomo crea se stesso, sceglie la sua natura eterna. La prima cosa da notare ^ui è il dente avvelenato verso Fichte: questo atto di decisione originaria con il quale io scelgo me stesso non può essere attribuito all’io quale soggetto dell’auto-coscienza. L’atto che crea me come soggetto conscio di se stesso, della sua natura specifica

3 F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana, Bom­ piani, Milano 2007, pp. 209-211.

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(cioè quello per il quale io creo-pongo me stesso in quanto tale) può essere solo inconscio:

Questo giudizio generale di una inclinazione al male comple­ tamente inconscia e nella sua origine persino irresistibile, come un atto di libertà, rinvia ad un atto, e dunque a una vita anteriore a questa; solo che essa non va pensata antecedente proprio nel tempo, in quanto l’intelligibile in generale è fuori del tempo. Poiché nella creazione c’c la più alta armonia e nulla è così diviso e separato, come noi dobbiamo rappresentarlo, ma in ciò che precede agisce già ciò che segue e tutto accade nello stesso tempo in un colpo magico; così l’uomo, che qui appare deciso e determinato, si è concepito nella prima creazione in una forma determinata e viene generato così come egli è dall’eternità, in quanto attraverso quell’atto è deter­ minata persino la maniera e la natura del suo incorporarsi.4

L’affermazione schellinghiana di una divisione radicale — se non di urìincompatibilità ontologica — tra coscienza e libertà, è qui antifìchtiana, in chiaro contrasto non solo con Fichte ma anche con la comune associazione di libertà e coscienza (‘io decido liberamente quando faccio una scelta in coscienza, mentre una decisione incon­ sapevole è per definizione nient’affatto una decisione, ma qualcosa di ciecamente imposto’). In un certo senso Schelling è ‘più fichtiano di Fichte stesso’: mentre approva pienamente la tesi di Fichte secon­ do la quale la vera essenza dell’uomo è il suo stesso agire, egli non colloca questo agire nell’auto-coscienza ma lo considera in termini di nucleo reale dell’essere umano che precede la coscienza — l’uomo contrae il suo vero essere, la sua natura eterna (nel doppio significato del verbo, che è cruciale per Schelling: rafforzare-condensare-concentrare in una forma coerente e venirne infettati) per mezzo di un inconscio atto originario di decisione? Schelling reinterpreta lungo questa linea il problema teologico della predestinazione', la predesti­ nazione non si riferisce più all’arbitraria decisione di Dio riguardo alla mia dannazione o alla mia salvezza; piuttosto, il soggetto prede4 Ivi, p. 211. 5 Più precisamente, qui Schelling spiega semplicemente cosa è ‘in sé’ già in Fichte: non è il fondamentale paradosso della Selbst-Dcivnsstsein fichciana, di questo puro atto di autoposizione, di questo performativo che fonda se stesso assoluta­ mente, che è totalmente fuori portata per la coscienza fìnita-temporalc-soggcttiva, qualcosa di radicalmente inconscio!

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stina se stesso — produce la cifra del suo destino’, come avrebbe detto Lacan, quando, in un passato indefinito ed extra-temporale, l’atto libero inconscio sempre-già-compiuto, sceglie la natura eterna della sua esistenza temporale. Durante la sua esistenza temporale, ovvia­ mente, questa libera decisione gli appare come il suo opposto: come un’inesorabile necessità.6 Qui Schelling mette in gioco l’opposizione tra essere e divenire-. dal punto di vista del divenire temporale, l’uomo è imprigionato nel­ la, e condizionato dalla, catena necessaria di cause ed effetti. La sua emergenza è subordinata a - risulta da - una complessa rete causale. Dal punto di vista deli* essere eterno, egli è libero: è un’entità che pone se stessa, parte da se stessa nell’abisso della libertà, nel processo temporale del divenire, egli semplicemente diventa ciò che sempregià era. La visione ‘evoluzionistica’ comune subordina l’essere al di­ venire: il divenire è la verità dell’essere, la genesi di una cosa fornisce la chiave di che cosa è quella cosa — si sa cosa è una cosa quando si è capaci di spiegare come è nata, da dove proviene. Schelling, tuttavia, •n accordo non solo con Hegel ma anche con Marx (per il quale, Bine si vede nell’introduzione ai Grundrisse, l’anatomia dell’uomo i la chiave per l’anatomia della scimmia), inverte la relazione tra i termini: il ‘divenire’ designa una mera realizzazione temporale di ciò che una cosa, nella sua eterna essenza, sempre-già è. Secondo l’ordine delle entità finite e non-libere, il divenire effettivamente ha un vantaggio sull’essere: le entità finite non sono auto-centrate, non possiedono quella che Schelling chiama ‘centralità’. La loro essenza giace altrove, al di fuori, e questo è il motivo per il quale si può

6 Questo può anche essere formulato nei termini di una relazione tra colpa e libertà. La nostra nozione comune implica la co-dipcndcnza, se non la sovrapposi­ zione, di questi due termini: solo un essere libero può essere colpevole. In un primo approccio, Schelling sembra scalzare questa nozione proclamando che ritorno può essere colpevole anche se non è libero: può essere colpevole, cioè ritenuto responsabile, per qualcosa che non è stato nemmeno libero di scegliere, dal momento che ha fatto la sua scelta fondamentale prima della sua esistenza fenomenica - la sua colpa è la traccia di questa ‘repressa’, primordiale libera scelta della sua natura eterna che ora esercita la sua presa su di lui con un’inesorabile necessità. Si può pertanto dire che, in un ceno senso, Schelling e Kant sono qui all’esatto opposto della liberatoria affermazione nietzscheana del Unschuld des Werdens, di una libertà non costretta da alcuna colpa c/o responsabilità: il paradosso del soggetto schcllinghiano è che egli è pienamente responsabile e colpevole, sebbene (nella sua esistenza fenomenica) non abbia mai avuto la possibilità di scegliere liberamente, cioè di compiere un atto che potrebbe renderlo colpevole.

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spiegare un’entità finita rendendo visibile la rete causale a cui è su­ bordinata la sua esistenza. L’uomo come essere libero, al contrario, ha la ‘centralità’, e perciò si può comprendere il divenire temporale dell’uomo, la storia della sua vita, solo per mezzo di un riferimento al suo essere eterno (la natura senza tempo). Nella prospettiva psicoanalitica, chiaramente, questo atto Primordiale di libera auto-posizione non può non apparire come il reale di una costruzione fantastica: lo status dell’atto primordiale è analogo a quello del parricidio freudiano e, sebbene non abbia mai luogo effettivamente nella realtà temporale, lo si deve presupporre ipoteticamente per poter giustificare la coerenza del processo tem­ porale. Il paradosso di questo atto primordiale è lo stesso di quello del Barone di Miinchhausen che cerca di tirarsi fuori dalla palude sollevandosi per i capelli — in entrambi i casi il soggetto in qualche modo è già qui prima della sua esistenza e poi, per mezzo di un atto libero, crea-pone se stesso, il suo stesso essere. Qui ci troviamo faccia a faccia con il circolo temporale che definisce la struttura del fantasma: prima del suo vero e proprio essere, il soggetto è mira­ colosamente presente come puro sguardo che osserva la sua stessa non-esistenza. A proposito di questo primordiale atto noumenico di auto-predestinazione in cui libertà e necessità coincidono, Schelling azzarda un passo ulteriore, che è cruciale, rispetto a Kant: lo rapporta all’Assoluto stesso — un passo strettamente proibito all’interno della prospettiva kantiana. Vale a dire, secondo Schelling, che in questo atto di libera auto-posizione con il quale l’uomo fa a pezzi la catena della necessità causale, si tocca l’Assoluto stesso come primordiale abisso-origine di tutte le cose: ...Questa decisione non può cadere nel tempo; essa cade fuori da ogni tempo e perciò insieme con la prima creazione (quantunque come un atto distinto da essa). L’uomo, anche se è generato nel tem­ po, è tuttavia creato all’inizio della creazione (nel centro). L’atto per cui la sua vita è determinata nel tempo non appartiene esso stesso al tempo, ma all’eternità: esso inoltre non precede la vita secondo il tempo, ma attraverso il tempo (senza esserne toccato) come un atto per sua natura eterno. Attraverso tale atto la vita dell’uomo giunge fino all’inizio della creazione; e perciò l’uomo, grazie a esso, è anche fuori del creato, libero ed esso stesso inizio eterno.7

7 F.W.J. Schelling, Ricerchefilosofiche sull'essenza della libertà umana, eie,, pp. 207-209.

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Di conseguenza, quando Schelling concepisce la libertà come sospensione del Fondamento, il termine ‘Fondamento’ deve essere compreso qui in entrambi i suoi due sensi principali: Fondamento come ‘fondamenta’, l’unico terreno su cui può ergersi l’edificio spiri­ tuale, e Fondamento come ragione-causa (nel senso del ‘principio di ragion sufficiente’). L’emergenza della libertà indica che lo Spirito ha posto se stesso in quanto tale in opposizione al suo impenetrabileinerte Fondamento, e che ha acquisito una distanza dal suo Fonda­ mento e adesso può usarlo a suo piacimento, e che la ‘catena dell’es­ sere’ è tona — vale a dire che lo Spirito non è più determinato dalla catena della causalità. La libertà è quindi strido sensu un momento dell’eternità, che si pone grazie alla sospensione della catena tempo­ rale delle ragioni-cause (sufficienti), grazie al salto dalla concatena­ zione (Verkettung) delle entità determinate del finito verso l’abisso della loro origine primordiale, la ‘fonte delle cose’. Nell’esperienza della libertà, nel vortice che percepiamo per un breve momento quando siamo di fronte a un atto di libertà senza fondamento, ‘ricongiungiamo l’Assoluto’ — cioè, ri-stabiliamo un contatto — e persino la nostra identità — con l’origine primordiae fuori dalla realtà temporale, con l’abisso dell’eternità prima della caduta delle creature sulla terra. L’uomo è direttamente collegato all’Assoluto nella misura in cui occupa un posto peculiare entro il creato: ciò che ri-emerge in lui (e solo in lui) è una ‘possibilità-po­ tenzialità dell’essere {Seinkonnerì')' che non collassa immediatamente nella realtà. Le altre entità pur realmente esistenti non hanno una tale possibilità; nel loro caso, una possibilità è semplicemente realiz­ zata. Solo l’uomo si relaziona con la possibilità in quanto tale - per lui una possibilità è in un certo senso ‘piu della sua attualità, come se l’attualizzazione-realizzazione di una possibilità fosse quasi un ‘tradimento’ o una ‘svalutazione’ di essa. Questa opposizione, ovvia­ mente, coincide con l’opposizione tra necessità e libertà: un’entità non-libera semplicemente è, coincide con la sua realtà positiva, men­ tre (come sostiene Schelling, annunciando con ciò la problematica esistenzialista) un essere libero non può mai essere ridotto a ciò che è, alla sua reale, positiva presenza. Il suo ‘progetto’, l’apertura inde­ cidibile di ciò che potrebbe fare o diventare, il suo ‘voler-essere’, è il cuore della sua propria esistenza. Schelling va ancora più lontano: l’atto di libera decisione origina­ ria non è solo il contatto diretto dell’uomo con la libertà primordiale

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come abisso da cui tutto ha origine, e cioè una sorta di cortocircui­ to, di diretta sovrapposizione, tra uomo e Assoluto. Questo atto di contrazione dell’essere, di scelta della propria natura, deve essere una ripetizione dello stesso atto dellAssoluto. Al contrario di Kant — che concepisce l’atto di decisione originaria come il gesto fondativo di un libero soggetto (umano) - e con l’audacia speculativa che caratte­ rizza il suo pensiero, Schelling ardisce attribuire questo atto allo stesso Assoluto. Perché? Con l’emergere dell’uomo, il primo ciclo della creazione è con­ cluso, dato che nell’uomo, come abbiamo appena visto, la libertà è posta in quanto tale — e con questo siamo di nuovo all’origine, nell’assoluta indifferenza. Cioè, la più profonda essenza dell’uomo è l’abisso della libertà come pura indifferenza, come volontà che non vuole niente. Questo significa che, considerando l’universo come moltitudine di entità effettivamente esistenti, l’Assoluto (Dio) Stesso doveva compiere un analogo atto su Se Stesso: doveva liberarsi dalla primordiale indifferenza e porre l’universo, la realtà. L’atto di deci­ sione dell’uomo, il suo passaggio dalla pura potenzialità-essenzialità di una volontà che non vuole niente a una volontà reale, è pertanto una ripetizione dell’atto di Dio. In un atto primordiale Dio Stesso ha dovuto ‘scegliere Se Stesso’, la Sua natura eterna, per contrarre l’esi­ stenza, per rivelarsi. Nello stesso senso per cui la storia è il cimento dell’uomo — il terreno su cui l’umanità deve provare la sua creatività, realizzare il suo potenziale — la natura stessa è il cimento di Dio, il terreno su cui Egli deve disvelarsi, mettere alla prova la Sua creatività. Schelling delinea i contorni di questo inaudito atto primordiale di Dio nelle ultime pagine della seconda bozza dei Weltalter. Perché ci fosse un vero inizio, questa vita superiore doveva spro­ fondare di nuovo nella incoscienza di sé. Come infatti è una legge a imporre che, nell’uomo, quell’atto originario che precede tutte le singole azioni, che mai si arresta e grazie al quale egli è propriamente se stesso, si ritiri, di fronte alla coscienza che si eleva sopra di esso, in una insondabile profondità, affinché vi sia un insopprimibile ini­ zio, una radice della realtà assolutamente irraggiungibile: così anche quell’atto originario della vita divina cancella nella decisione la co­ scienza di se stesso, coscienza che solo a seguito di una rivelazione più alta può essere risvegliata in ciò che nella decisione è stato posto a fondamento. Solo così vi è un vero inizio, un inizio che non cessa di essere inizio. La decisione che costituisce, in qualunque atto, il

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vero inizio, non può essere portata dinanzi alla coscienza, richiama­ ta alla coscienza: in verità, ciò significherebbe revocarla. Chi si ri­ serva di riportare ogni volta alla luce una decisione presa, non inizia mai veramente.8

La chiave di questo enigma dell’azione primordiale è che essa «è posta come un passato eterno, ossia come un passato che non è divenuto tale, ma che era già originariamente e da tutta l’eternità un passato».9 Ciò che viene risolta è quindi la tensione tra eternità e singolarità dell’atto: come può un arto, unico per definizione, una casualità, essere eterno? Ciò che è fatto eternamente (nel senso di rimanere, nel suo stesso ritirarsi, il fondamento eterno del presente e non solo qualcosa che scompare nei recessi del passato) deve essere eternamente (in ogni tempo sempre-già) fatto, ed è pertanto intrin­ secamente passato — cioè, deve appartenere a un passato che non è mai stato presente. Questo è quello che il predicato ‘inconscio’ indica: un passato che, sebbene non sia mai esistito, persiste come fondamento durevole del presente. Il paradosso di un tale ‘passato eterno’ è costitutivo del tempo', non c’è tempo senza riferimento a un passato che non è mai stato presente, vale a dire, la temporalità, nella sua dimensione originale, non è una singola linea di eventi che parte dal passato, attraversa il presente e va verso il futuro, ma implica la tensione di una relazione a un atro che, precisamente nella misura in cui non è mai stato presente, nel suo ritirarsi, è sempre qui come il fondamento (passato) del presente.

La contrazione dell’Essere

ome abbiamo già evidenziato, questo eterno atto di decisione — che, separando il passato dal presente, apre le porte alla temporalità — non è ciò che avviene per primo, all’inizio delle ‘età del mondo’. Per primo vi è Dio che inevitabilmente, all’inizio della Sua ‘preistoria’, prima del Principio stesso, della cieca necessità che caratterizza le macchinazioni del Fato (secondo la prima bozza dei Weltalter), ‘contrae’ l’Essere, cioè un solido, impenetrabile, Fonda­ mento. Schelling di certo gioca sul doppio significato del termine • F.WJ. Schelling, Le età del mondo, eie., p. 148. 9 /w,p. 91.

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contrazione: stringere-comprimere-condensare e contagiarsi, essere affetti (da una malattia), ammalarsi - la Libertà primordiale contrae’ l’Essere come un doloroso fardello a cui è vincolato...10 Prima di questa primordiale contrazione, di questo atto di generazione-espul­ sione del Fondamento, Dio è - come Schelling in modo inedito sostiene nella seconda bozza dei Weltalter- un puro Niente che «in­ clina massimamente a essere non-essente».11 È significativo che Schelling ricorra alla stessa formulazione quando, nelle Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo, descrive la falsità di una persona divertita al pensiero della sua morte: quando si indulge in fantasie sulla propria morte, ci si immagina sempre miracolosamente sopravvissuti e presenti al proprio funerale in for­ ma di puro sguardo che osserva l’universo dal quale si è già assenti, assaporando le ipotetiche reazioni commosse dei parenti, e così via. In questo modo siamo di nuovo al fondamentale circolo temporale del fantasma: essere presenti come puro sguardo prima del proprio concepimento. Non è forse Dio prima della primordiale contrazione questo puro sguardo che trae godimento dalla contemplazione del suo non-essere, un fantasma-formazione nella sua forma più pura? Schelling sottolinea più volte che il passaggio del puro Seinkònnen dell’Abisso primordiale nel Fondamento contratto non può essere spiegato o ‘dedotto’: esso può essere descritto (narrato) solo post festum, dopo che ha già avuto luogo, dal momento che non stiamo trattando di un atto necessario ma di un atto libero che potrebbe anche non essere accaduto. E non equivale questo a un’implicita ammissione del fatto che il suo status è quello di un fantasma re­ troattivo? Quindi Dio, in quanto pura Libertà che non ha ancora contratto l’essere, stricto sensu, non esiste: la ‘breccia nella simmetria’ sponta10 Si impone qui un parallelo tra la triade lacaniana di identificazione simbolica (lo Ideale), superego c il Reale della libertà radicale da una parte, e Schelling dall’al­ tra: in maniera strettamente analoga all’affermazione lacaniana che l’identificazione simbolica con l’io Ideale che ci coinvolge nel ‘servizio dei beni’ sia necessariamente preceduto dal feroce e ‘malvagio’ supcrio, laddove l’attitudine etica (‘non scendere a compromessi coi propri desideri’) ci permetterebbe di spezzare questo circolo vizio­ so dell’io Ideale e del supcrio assumendo pienamente il ‘fardello del desiderio’. Con Schelling siamo capaci di distinguere i contorni del Reale delle pulsioni che precede l’esistenza ideale come suo inesplicabile Grand, così come - prima di entrambi - l’indifferenza dcll’Assoluto come Libertà primordiale che non ha un suo essere, ma semplicemente gode del suo non-csscre. 11 F.W.J. Schelling, Le età del mondo, eie., p. 62.

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nea, auto-generata — saremmo tentati di dire la primordiale ‘fluttua­ zione del vuoto’ che mette in movimento lo sviluppo dell’Assoluto — è la contrazione primordiale grazie alla quale Dio acquisisce l’esse­ re?2 Questa contrazione del/nell’essere è necessariamente seguita da un contraccolpo di espansione. Perché? Facciamo un passo indietro per un momento e riformuliamo la contrazione primordiale nei ter­ mini di un passaggio da una Volontà auto-soddisfatta, che non vuole niente, a una reale Volontà, che effettivamente vuole qualcosa: la pura potenzialità della Libertà primordiale. Questa beata tranquilli­ affer-­ tà, questo puro godimento, di una Volontà neutrale, che non affer ma nulla, che non vuole niente, si attualizza in guisa di una Volontà che attivamente, effettivamente, vuole questo niente’, e cioè, l’annichilimento di qualsiasi contenuto positivo e determinato. Per mezzo di questa conversione puramente formale della potenzialità in attualità, la beata pace della Libertà primordiale si tramuta in pura contrazio­ ne, in un vortice di ‘follia divina’ che minaccia di inghiottire tutto, nella più alta affermazione dell’egotismo di Dio che non tollera nulla al di fuori di sé. In altre parole, la beata pace della Libertà primor­ diale e l’onni-distruttiva fùria divina che spazza via ogni contenuto determinato, sono una sola e identica cosa, solo in modalità differen­ ti. Il primo nella modalità della potenzialità, il secondo dell’attualità: «è un simile movimento di rotazione continua... che continuamente divora e rigenera se stesso».13 Esperendosi come negativa e distruttiva, la Volontà oppone se stessa a se stessa nella forma della propria controparte implicita, la Volontà che vuole qualeosa, e cioè, la Volontà positiva di espansione. Tuttavia, lo sforzo della Volontà positiva di abbattere le barriere della sua contrazione auto-imposta è destinato a fallire, dato che l’antago12 L’acme di questa speculazione filosofica nella sua forma più audace c ‘folle’ combacia perfettamente con la reale esperienza soggettiva del non-csscre del sog­ getto stesso, l’esperienza che rappresenta il prezzo da pagare per il suo accesso alla libertà radicale oltre la catena delle entità. Nella sua autobiografia, Louis Althusser scrive che era diventato consapevole della sua non-csistcnza - cioè del fatto che egli era un impostore che fingeva solo di esistere. Per esempio, la sua grande paura dopo la pubblicazione di Leggere il Capitale era che qualche perspicace critico avesse rivelato lo scandaloso fatto che l’autore di questo libro non esisteva... In un certo senso, questo è ciò a cui mira Schelling e, anche, ciò che dice la psicoanalisi: la cura psicoanalitica è effettivamente finita quando il soggetto perde questa paura e libera­ mente assume la sua non-esistenza. 13 F.W.J. Schelling, Le età del mondo, eie., p. 68.

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nismo delle due Volontà, quella contrattiva e quella espansiva, è sotto il dominio, cioè nella potenza, della contrazione. Si può dire che, pri­ ma che venga pronunciata la Parola, Dio stesso è ‘nella potenza di B’. Egli, per così dire, sbatte continuamente contro il suo stesso muro: incapace di rimanere all’interno, segue il suo impulso a esplodere, con la conseguenza che più lotta per scappare, più è imprigionato nella sua stessa trappola. Forse la migliore metafora per questo movi­ mento rotatorio è quella di un animale catturato che disperatamente cerca di divincolarsi da una trappola: sebbene ogni sussulto restringa maggiormente la trappola, una cieca compulsione lo porta a lottare sempre di più, col risultato di condannarsi a un’infinita ripetizione dello stesso gesto... Quello che qui abbiamo in Schelling è la grandiosa visione ‘wa­ gneriana di un Dio in uno stato di perenne ‘piacere nel dolore’, ago­ nizzante e in lotta con se stesso, scosso da un’insopportabile ansia, la visione di un folle Dio ‘psicotico’ che è assolutamente solo, un Uno che è ‘tutto’ perché non tollera niente al di fuori di Sé - una «sfrenata follia, che lo dilania».14 L’orrore di questo movimento rotatorio sta nel fatto che esso non è più impersonale: Dio già esiste come Uno, come il soggetto che soffre e subisce l’antagonismo delle pulsioni. Qui Schelling offre una definizione precisa di angoscia: l’angoscia sorge quando un soggetto esperisce contemporaneamente l’impossi­ bilità di chiudersi in se stesso, di ritirarsi completamente in se stesso, e l’impossibilità di aprirsi, ammettendo un’Alterità. In tal modo egli è chiuso in un circolo vizioso di impulsi e ogni tentativo di creazio­ ne-espansione-estrinsecazione ‘abortisce’ ripetutamente, collassa su se stesso. Questo Dio non è ancora il Creatore, dal momento che un vero e proprio atto di creazione pone l’essere (la realtà contratta) di un’Alterità che possiede una minima auto-consistenza ed esiste fuori dal suo Creatore. Questo è proprio ciò che Dio, nella furia del suo egotismo, non è incline a tollerare. E, come Schelling sottolinea in più riprese, ancora oggi questo onni-distruttivo vortice divino rimane l’intimo fondamento di tutta la realtà: «se essi fossero capaci di penetrare al di là del lato esteriore delle cose, vedrebbero che appunto il terribile è la vera sostanza fonH F.W.J. Schelling, Samtliche Werke (= Monumento delle cose divine, ecc. del Signor Friedrich Jacobi e dell’accusa che vi èfatta di ateismo intenzionalmente menzo­ gnero e ingannevole) [1812], ed. K.EA. Schelling, Cotta, Stuttgart 1856-1861, voi. Vili, p. 43 (qui trad. mia).

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«lamentale di ogni vita e di ogni esistenza».15 In questo senso tutta la

realtà implica un fondamentale antagonismo ed è pertanto, presto o tardi, destinata a cadere preda della furia Divina, a sparire nell’«orgasmo delle forze».16 La ‘realta è intrisecamente fragile, il risul­ tato di un equilibrio precario tra contrazione ed espansione che ad ogni momento può ‘impazzire ed esplodere in uno degli estremi.17 Hogrebe ricorre a un’analogia con il cinema: se la proiezione di un film ha l’intento di suscitare ‘un’impressione di realtà’ nello spetta­ tore, la bobina deve andare alla velocità giusta - se va troppo veloce, il movimento sullo schermo è sfocato e non riusciamo più a distin-

15 F.W.J. Schelling, Le età del mondo, cit., p. 172. 16 Ivi, p. 169. 17 Qui risiede la ‘frecciata’ anti-hegeliana dell’estetica schellinghiana: per Schel­ ling, l’arte non è in primo luogo ‘l’apparire sensibile dell’idea (das sinnliche Scheinen der Idee)' (anche se considerassimo questa ‘Idea’ come fantasmatica nel senso psicoanalitico del termine) ma, piuttosto, ‘l’apparire sensibile di un disturbo del/nell’Idea (das Sinnliche Scheinen der VERSTÓRUNG der Idee)', e cioè l’apparire di ciò che Schelling chiama la ‘potenza B’, quello dell’indicibiie-caotico Fondamento che è si­ multaneamente la condizione di possibilità e la condizione di impossibilità dell’idea - vale a dire ciò che sempre mette un ostacolo nel cammino della piena realizzazione dell’idea. In breve, lungi dal rappresentare l’idea soprasensibile in un mezzo sensibi­ le, la potenza della grande arte risiede nel risultato opposto di evocare, all’interno del puro dominio ‘apollineo’ della forma eterea, idealizzata, l’informe vortice del Reale - o, come sostiene Rilke in un famoso detto, ‘il Bello è solo l’inizio del Tremendo’, del caotico vortice primordiale del Reale. Nel suo Discours, figure (Klinsieck, Parigi 1971), Jean-Fran^ois Lyotard si riferi­ sce implicitamente a questo concetto anti-hegeliano di Schelling quando pone una semplice ma cionondimeno cruciale domanda: se un’opera d’arte ha origine sem­ pre da una sona di matrice fantasmatica, se ‘inscena’ desideri inconsci organizzati, strutturati in fantasie (il classico topos freudiano), perché ciò non è riducibile a un sintomo clinico? La risposta comune secondo cui un’opera d’arte rappresenti le fan­ tasie inconsce in modo accettabile dal grande Altro dello spazio simbolico pubblico, c non in maniera diretta, oscena, è chiaramente insoddisfacente, dal momento che un sintomo ordinario è anche una formazione di compromesso che esprime un de­ siderio illecito in una forma ‘asettica’ c accettabile, e non è per questa ragione meno ‘clinica’. La risposta di Lyotard è che un’opera d’arre, attivando l’impulso di morte, rappresenta la non-soddisfazione del desiderio e della sua matrice fantasmatica. In termini lacaniani, potremmo dire che un’opera d’arte contiene sempre un minimo di ‘attraversamento del fantasma (la traversie du fantasmi)''. la vera trasposizione del fantasma in una forma d'arte implica una distanza dal contenuto fantasmarico. La doxa secondo cui l’arte traspone meramente le fantasie illecite in una forma socialmente accettabile deve essere quindi invertita: un’opera d’arte, allora, rende visibile ciò che il contenuto fantasmarico nasconde, ciò che è nella sua funzione nascondere.

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guere i diversi oggetti; se è troppo lenta, percepiamo i fotogrammi uno per uno e l’effetto di continuità che ci dà l’impressione di star vedendo la ‘vera vita è perso.18 E qui che risiede la tesi fondamentale di Schelling: quella che esperiamo come ‘realtà’ è costituita e si man­ tiene attraverso un giusto equilibrio nella tensione tra le due forze antagoniste, con il sempre-presente pericolo che una delle due parti venga ‘spaccata’, perda il controllo e infine distrugga ‘l’impressione di realtà’. Questa speculazione non è forse confermata dalla premessa ba­ silare della cosmologia contemporanea secondo la quale la ‘realtà’ del nostro universo è in bilico, cioè dipende dal fragile equilibrio tra espansione e gravitazione? Se l’espansione fosse anche solo un po’ più forte, l’universo ‘esploderebbe’, si dissolverebbe e nessun concre­ to, stabile oggetto si formerebbe; se, al contrario, fosse più debole (o la gravitazione più forte), sarebbe collassato molto tempo fa, spro­ fondato... Nel dominio dell’intersoggettività capita spesso di incon­ trare un ragazzino che, per impressionare i suoi coetanei, è pronto ad ‘andare all’eccesso’ e a compiere un ‘folle’ atto suicida senza riguardo per le conseguenze auto-distruttive (per esempio finire una bottiglia di whisky in un minuto). Questa tendenza ‘fanatica’, questa propen­ sione ad ‘andare all’eccesso’, deve essere contenuta, ‘normalizzata’, attivando la contro-tendenza, come nella fisica quantistica, dove si arriva a una stabile situazione finita attraverso la ‘rinormalizzazione’ di due infiniti opposti. Ci riferiamo di nuovo a Hogrebe, che evoca un’altra bella analo­ gia con l’atletica:19 appena prima dello start, il corridore deve ‘contrarsi’-concentrarsi, ‘immobilizzarsi’, irrigidirsi come una statua, così da potere, al suono della pistola, scattare e correre più che può — o, come avrebbe detto Lenin, fare ‘un passo indietro, e due avanti’. In questo preciso senso il Principio è l’opposto del Processo stesso: il ‘passo indietro’ preparatorio-contrattivo è l’istituzione di un fonda­ mento che poi serve da trampolino per il lancio e la corsa in avanti. In breve, è la negazione ( Verneinungì di ciò che segue, di ciò che è il principio: «solo nella negazione risiede l’inizio».20 A un livello se vogliamo più alto, più ‘spirituale’, non si riesce a prendere atto di come un libero gioco della nostra immaginazione 18 Wolira.m Hogrebe, Pràdikation und Genesis, Suhrkamp, Francoforte 1989, p. 100. 19 Ivi, p. 90. 20 F.W.J. Schelling, Le età del mondo, cit., p. 63.

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teoretica sia possibile sullo sfondo di coercizioni concettuali ‘dog­ matiche consolidate: la nostra creatività intellettuale può essere ‘li­ berata’ solo dentro i confini di qualche cornice concettuale imposta nella quale, precisamente, siamo in grado di ‘muoverci liberamente’. La mancanza di questa cornice imposta è necessariamente vissuta come un peso insopportabile, dal momento che essa ci costringe a fàr convergere costantemente i nostri sforzi su come rispondere a ogni singola situazione empirica in cui ci troviamo. Basti richiamare la lezione paradossale delle cosiddette società chiuse’: quando un edificio ideologico viene imposto come quadro di riferimento ob­ bligatorio (come è stato per il marxismo col ‘Socialismo reale’), il soggetto è sollevato dalla pressione di dover riflettere tutto il tempo sullo schema concettuale di base. Le regole del gioco sono definite chiaramente, così si può dedicare la propria energia intellettuale al gioco stesso... Su un piano differente, la stessa esperienza è regolar­ mente testimoniata dagli scienziati giapponesi: intervistati dai loro colleghi occidentali su come si ponessero rispetto all’esistenza di una rigida gerarchia e alle procedure ritualizzate della cortesia, che re­ golano le relazioni intersoggettive persino nella comunità scientifi­ ca (contraddire apertamente un’autorità superiore è considerato un comportamento estremamente rozzo, ecc.) gli scienziati rispondono che queste regole (imposte) di corretta condotta gli consentono di sgombrare la mente da ogni preoccupazione circa le tensioni inter­ soggettive, e di concentrarsi interamente sulle invenzioni e sul lavoro scientifico. La più acuta formulazione filosofica di questo motivo, quello della ‘disciplina come condizione della libertà’, si trova in Hegel che, nell’‘Antropologia (Sottosezione A della Prima Parte della Fi­ losofia dello Spirito}2' enfatizza l’aspetto liberatorio dell’abitudine: essa ci permette di essere dispensati dalle preoccupazioni continue, che rappresentano una perdita di tempo, circa il modo di reagire alla moltitudine di situazioni empiriche sempre nuove che ci cir­ condano. L’abitudine fornisce risposte preconfezionate che possono essere applicate ciecamente, senza riflessione. Quando un’abitudine diventa una nostra seconda natura che seguiamo spontaneamente, questa stessa inconsapevolezza delle regole che dirigono la nostra at­ tività ci libera la mente per cose più altamente spirituali. In breve, 21 Cfr. G.W.E Hegel, Enciclopedia delle scienzefilosofiche, Laterza, Bari 1971, voi. 2, §§ 388-412.

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quello che effettivamente ci libera è la contrazione ‘meccanica’ del nostro rapporto con ciò che più da vicino ci circonda, in un reticolo di abitudini che costituiscono la nostra ‘seconda natura. L’esempio supremo, di sicuro, è il linguaggio stesso come paradigma di tutte le istituzioni. Si è effettivamente capaci di pensare liberamente solo quando si è del tutto avvezzi al linguaggio nel quale si pensa — quan­ do si perde consapevolezza delle sue regole e si impara a seguirle ‘ciecamente’. Nel momento in cui si deve prestare attenzione alle regole della grammatica, e così via, il pensiero non si muove più in libertà, ma comincia a incespicare — la libera espansione del pensiero ha il suo fondamento nella contrazione’ della grammatica e di altre regole. L’esempio della consuetudine dimostra chiaramente che la contrazione non è esterna alla libera espansione: la libera attività del pensiero non si afferma contro la consuetudine, anzi, noi ‘pensiamo liberamente’ solo quando seguiamo le regole del linguaggio senza esserne consapevoli.22 Alla fine, quando tutto è detto e fatto, questo è ciò che si può chiamare auto-identità', un’auto-identità non è mai del tutto traspa­ rente — più è auto’, più comporta un minimo di contrazione opaca che la tiene insieme e ne previene la dispersione. Quando Derrida dice che l’identità del testo di Kafka non si coglie

in una riflessione speculare assicurata da qualche trasparenza auto­ referenziale, ed insisto su questo punto, ma ncH’illeggibilità del te­ sto, se si vuole ben intendere attraverso ciò anche l’impossibilità in cui siamo, di accedere al suo senso, al contenuto forse inconsistente che custodisce gelosamente in riserva.23 egli è ancora una volta più vicino a Schelling e Hegel di quanto possa sembrare: il nucleo di illeggibilità del testo, che resiste e smentisce ogni appropriazione interpretativa — e cioè, il vero contenuto che 22 Forse l’esempio più ‘palpabile’ di questa dipendenza dell’espansione dalla contrazione è offerta dall’amore: la professione di amore universale per l’umanità in quanto tale necessariamente ci suona come un esercizio di superficiale, insipido e inefficace umanismo sentimentale - se devo amare qualcosa in un modo veramente attivo e passionale, se voglio dare me stesso con tutto il potere di espansione, devo prima contrarrc-condensare questo ‘qualcosa’ in un oggetto particolare che io amo ‘più di ogni altra cosa... 21 Jacques Derrida, Pre-giudicati. Davanti alla legge, Francesco Garritane (cur.), Abramo, Catanzaro 1996, p. 93.

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rende un testo sempre non identico a se stesso’, l’inappropriabile elemento estraneo a causa del quale un testo elude e rinvia sempre il suo esser-compreso — è la fondamentale garanzia della sua identità. Senza questo nucleo inassimilabile, al testo mancherebbe una pro­ pria consistenza, sarebbe un mezzo trasparente, una mera apparenza di un’altra identità essenziale. Questa co-dipendenza di espansione e contrazione è meglio espressa per mezzo della formula lacaniana del fantasma $ 0 a\ non ci può essere alcun $, alcun vuoto di espansione, di auto-sorpasso e di rinuncia, senza una minima contrazione in un elemento nel quale il supporto positivo del soggetto si condensi. Senza il collante’ di que­ sto oggetto, il soggetto semplicemente ‘si darebbe via’ e perderebbe il minimo di consistenza per la quale si può parlare di soggetto. Forse il più alto esempio ideologico-politico di contrazione è of­ ferto dagli odierni fondamentalismi religiosi ed etnici che emergono come reazione al deperimento dello Stato-Nazione. Il fattore chiave del mondo di oggi è l’inedita espansione del capitalismo, sempre meno legato alla forma dello Stato-Nazione (finora elemento fon­ damentale della contrazione del capitalismo), e che si afferma sem­ pre più in forma direttamente ‘transnazionale’. La reazione a questa espansione illimitata che minaccia di spazzar via ogni particolare auto-identità sono i fondamentalismi ‘postmoderni’ come violenta ‘contrazione’ della vita sociale nelle sue radici etnico-religiose. Que­ sta contrazione non è forse una sorta di beffarda imitazione dell’atto primordiale schellinghiano che sceglie la propria natura eterna? Ri­ scoprendo le proprie radici etniche o le proprie tradizioni religio­ se (le quali sono tutte, è sicuro, proiezioni retroattive falsate), un gruppo sociale sceglie, per così dire, la sua eterna natura, cioè decide liberamente ciò che è sempre-già stato.

Le pulsioni e il loro movimento rotatorio ’Tj' facile dimostrare in che modo il film Speed di Jan de Bone -i—/modifichi la nota formula hollywoodiana che determina il formarsi di una coppia: c’è bisogno della situazione estremamente stressante di un bus pieno di ostaggi per impegnare Keanu Reeves (la cui tendenza omosessuale è risaputa) in una ‘normale’ relazione eterosessuale. Il film finisce in accordo col più tradizionale scena-

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rio edipico (l’uccisione dell’oscena figura paterna - Dennis Hopper - consolida l’amore tra Reeves e Sandra Bullock). Il fatto che ci sia bisogno di un tale stress estremo per far nascere una relazione di coppia è sicuramente indicativo dei turbamenti odierni nelle rela­ zioni tra i sessi. C’è, tuttavia, qualcosa di più profondo (o piuttosto, di più vicino alla superficie, e proprio per questo più pertinente): all’inizio l’andatura frenetica del bus (la sua velocità deve rimanere al di sopra delle 50 miglia orarie: semmai dovesse andare più lenta­ mente, la bomba esploderebbe...) è vissuta come un perenne stato di suspense, uno stressante incubo senza fine. Il nostro unico desiderio è che quello stato cessi il più presto possibile. Prima o poi, comunque, lo spettatore diventa consapevole che l’andatura frenetica del bus è una metafora della vita stessa. Nella misura in cui la vita è anche un permanente stato di tensione, una cosa la cui ‘velocità’ (il battito car­ diaco) non deve scendere oltre un certo livello se vogliamo rimanere vivi, la fine agognata della folle corsa è semplicemente la morte stessa. In breve, ciò che all’inizio è percepito come un’attentato alla vita si rivela essere la fondamentale metafora della vita stessa... Questa folle andatura del bus in Speed — il suo carattere agitato, nervoso, squilibrato - fornisce un’accurata metafora di ciò che ha in mente Schelling col movimento rotatorio delle pulsioni. L’atteggia­ mento nei confronti dell’universo implicito nel concetto di movi­ mento rotatorio è l’esatto opposto di ciò che solitamente si percepi­ sce come ‘saggezza’. Il movimento rotatorio delle pulsioni non offre una visione pacificata della totalità, che con calma ruota su se stessa e segue il suo corso (sacralmente indifferente verso, ed elevata oltre, le nostre insignificanti preoccupazioni e angosce) ma, piuttosto, una sorta di folle carosello la cui corsa deve essere discontinua... Questa logica dell’antagonismo pre-simbolico, del movimento rotatorio delle pulsioni, non dovrebbe essere confusa con la proble­ matica della Lebensphilosophie di una vita-sostanza pre-logica delle pulsioni ‘irrazionali’. Lo status del movimento rotatorio anterio­ re al Principio è completamente logico, dal momento che stiamo 24 Ciò clic abbiamo qui è anche un caso esemplare della differenza tra mate­ rialismo storico e dialettico: l’analisi storico-materialista di Speed raggiunge il suo limite individuando l’ideologia della ‘produzione della coppia’ come punto di ri­ ferimento fondamentale sottostante alla narrativa del film, mentre il materialismo dialettico è in grado di andare oltre (o, meglio, sorto) questa dimensione sociale, e di scovare nella folla corsa del bus una metafora della vita stessa.

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trattando di una logica fallita, con un infinito e ripetuto sforzo di cominciare, e cioè di porre ridentità-e-differenza tra il soggetto (lo­ gico) e il predicato. Prima del Principio, in un certo senso c’è solo il Principio fallito, tentativi falliti di Principio, una sterile ripetizione imprigionata nel suo stesso circolo vizioso, uno sforzo barcollante che continuamente collassa su se stesso, incapace di ‘decollare’ cor­ rettamente. Come risolutivamente dimostra Hogrebe, l’oscillazione infinita tra contrazione ed espansione è spinta dall’impossibilità di formulare la relazione ‘stabile’ tra S e P che forma la struttura di una proposizione di giudizio: il soggetto (anche e soprattutto nel senso logico del termine) ‘contrae’ se stesso, ritira in sé e annichilisce il suo contenuto predicativo, mentre, nel conseguente gesto di espansione, passa nel predicato e perciò perde il terreno stabile della sua auto­ consistenza. Un’altra confusione da evitare qui è quella con la nozione comu­ ne (alla quale, di volta in volta, tutti i grandi teoretici hanno dovuto soccombere - non solo Schelling, ma anche Freud in II disagio della civiltà, per esempio) di Eros e Thanatos o espansione e contrazione come due forze opposte impegnate in un’infinita e inesorabile lotta per il predominio. La co-dipendenza delle due forze antagoniste non risiede nel fatto che una forza abbia bisogno dell’altra come unica entità in opposizione alla quale poter affermare se stessa (niente luce senza oscurità, niente amore senza odio...). La logica all’opera qui è molto più vicina a ciò che Marx ha in mente quando parla del con­ ceno cruciale di ‘tendenza’ che può portare contro-effetti: la caduta tendenziale del saggio di profitto’, per esempio, può mettere in moto i ‘meccanismi di difesa’ del Capitale che — a breve termine almeno — aumentano il saggio di profitto.25 25 Althusser c alcuni dei suoi allievi (incluso Etienne Balibar) si riferiscono a questo concetto marxiano di ‘tendenza’ per esemplificare la differenza tra Hegel e Marx: la ‘contraddizione’ hegeliana conduce automaticamente alla sua auto-canccllazione, al suo ‘superamento [Aujhebun^', una sorta di ‘riconciliazione’ a un livello più alto; laddove la ‘contraddizione’ materialista in Marx è meglio esemplificata dall’oscuro ma cruciale concetto di ‘tendenza’: una ‘tendenza’ genera da sé la sua contro-tendenza, si realizza nella forma di una relazione antagonistica al cui interno non c’è alcuna necessità teleologica a garantire la vittoria finale della tendenza sulla con tra-tendenza - il risultato dipende dal reticolo concreto sovradeterminato delle condizioni contingenti. Basti richiamare l’esempio summenzionato della ‘caduta tendenziale del saggio di profitto’: questa tendenza induce il Capitale a modificare le condizioni materiali c sociali della produzione in modo da far salire il saggio di profitto. Il risultato (sempre precario) di questa lotta dipende dalla potenza del la-

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Come Jacqueline Rose ha dimostrato, la raffigurazione di Mela­ rne Klein degli antagonismi pre-simbolici della vita psichica implica un meccanismo analogo: una sola e stessa causa può portare effetti opposti, e cioè mettere in moto un processo il cui risultato è radical­ mente indecidibile. Un’eccessiva aggressività può essere contrastata dalla soppressione dell’aggressività, o innescare una spirale ascendente di aggressività sempre più violenta. L’omosessualità può derivare dal­ l’ansia generata da fantasie eterosessuali troppo forti; talvolta l’an­ goscia e la colpa rallentano lo sviluppo libidico, altre volte lo accre­ scono (dal momento che il soggetto, per reazione all’angoscia e alla colpa, è spinto verso un lavoro integrativo di restituzione)... Non deve sfuggire il punto cruciale: l’omosessualità non emerge come rivolta della ‘perversione polimorfa repressa o, in ogni caso, contro il sistema fallico eterosessuale, ma come reazione alla forza davvero eccessiva dellefantasie eterosessuali. È stato Freud che, in L'Io e l’Es, ha indicato questa logica paradossale quando ha messo in risalto come il ‘progresso’ della cultura sia fondato su una ‘regressione’ libidica o fissazione regressiva. Non si può sfuggire a questo paradosso tramite il ricorso all’infelice distinzione tra due ‘aspetti’ o ‘livelli’: il pun­ to non è che, al livello della cultura, ciò che sta per una forma di ‘progresso’ sia, al livello della maturazione biologica, una fissazione regressiva; il problema è che il ‘progresso’ libidico stesso può avere voro organizzato, dal ritmo dei cambiamenti tecnologici, dalle differenze nel saggio di profitto dei diversi paesi, ecc.; a causa di questa complessa interazione di fattori, l’effetto immediato della caduta tendenziale del saggio di profitto può ben essere una temporanea crescita (o, per prendere un altro esempio, l’effetto immediato della lotta di classe può essere la ‘pace di classe’). Tuttavia, è questa effettivamente un’ar­ gomentazione contro Hegel? La nozione marxiana di tendenza non è, al contrario, un caso esemplare della necessità propriamente dialettica di ‘riconoscere la nostra essenza nella forza contro cui stiamo lottando’, il cui caso esemplare è fornito dal­ la dialettica dell’anima bella? La ‘riconciliazione’ sopraggiungc quando il soggetto riconosce la sua condizione di possibilità in ciò che in primo luogo appariva come la sua condizione di impossibilità, come l’impedimento alla sua piena realizzazio­ ne. L’anima bella è dunque spinta a riconoscere, nel disordine e nell’ingiustizia del mondo, la condizione positiva della sua attitudine a deplorare i modi malvagi del mondo; necessita degli ambienti corrotti per conservare la sua coerenza - nel mo­ mento in cui questo ostacolo esterno scompare, l’anima bella perde il suo punto d’appoggio. Hegel articolò questa dialettica quando era ancora giovane, a proposito del Crimine come trasgressione delle usanze della Comunità e della conseguente riconciliazione per mezzo della quale ognuno dei due riconosce la sua essenza nell’Altro: il criminale riconosce nella comunità la sua verità sostanziale; la comunità riconosce nell’atto criminale un suo frutto necessario.

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luogo solo come reazione a una fissazione libìdica eccessivamente ‘regressiva’, proprio come una sensibilità morale altamente svilup­ pata emerge per reazione a un’eccessiva propensione verso il male. Ancora — per prendere un ulteriore esempio da Klein — la formazione molto precoce di un ego sovrasviluppato può cominciare a funziona­ re da ostacolo al suo sviluppo successivo, e viceversa.26 Due caratteristiche di questa causalità paradossale dovrebbero essere mantenute: una causa è intrinsecamente indecidibile, e può sia accrescere il suo contenuto sia funzionare nel modo opposto; e, soprattutto, non c’è alcuna ‘misura corretta nella relazione tra una causa e il suo effetto — l’effetto è sempre in eccesso rispetto alla sua causa, sia nella forma dell’eccessiva spirale ascendente (l’aggressivi­ tà che porta a una sempre maggiore aggressività) sia nella forma di un’eccessiva controparte (la consapevolezza dell’aggressività gene­ ra una paura di ‘sovrareagire’ che depriva il soggetto della misura normale’ di auto-affermazione aggressiva).27 Questa indecidibilità nella causa non dovrebbe, quindi, essere confusa con la retroattivi­ tà simbolica nella quale l’intervento di un ‘punto di sutura {point de capitoli)' retroattivamente stabilizza-total izza il campo e specifica l’efficienza delle cause, cioè il modo in cui le cause agiranno.28 26 Cfr. Jacqueline Rose, “Negativity in thè Work of Melanie Klein”, in Why War?, Blackwell, Oxford 1993, specialmente pp. 167-168. Per inciso, un analogo concetto di ‘contraddizione’ è stato elaborato da Etienne Balibar a proposito di Spi­ noza. Cfr. Etienne Balibar, “Spinoza, thè Anti-Orwell: thè Fear of thè Masses", in Masses, Classes, Ideas, Roudedge, New York 1994. 27 Un ulteriore esempio di tale paradossale causalità antagonistica è il modo in cui le esplicite regole di coercizione influenzano l’eccitazione sessuale. Le regole del ‘politicamente corretto’ nell’interazione sessuale con una donna (prima di ogni passo successivo, bisogna chiedere al partner l’esplicito permesso - ‘Posso sbotto­ narti la camicetta?’, ecc.) possono rovinare completamente il gioco, privandolo di rutta l’eccitazione; o, al contrario, possono scatenare l’eccitazione nella misura in cui aggiungono un ‘giro di vite’ supplementare al doppio entendre erotico. Lo stesso accade con la procedura opposta, col trattamento del partner ‘non-politicamente corretto’, brutale e sconsiderato: esso può terrorizzare ed essere ripugnante per il partner, oppure può diventare eroticamente investito c quindi offrire uno stimolo aggiuntivo - la situazione è radicalmente ambigua, non ci sono leggi che garanti­ scano Peffetto in anticipo. 28 Risiede qui il paradosso della nozione lacaniana di causalità simbolica: in contrasto con la comune difesa della libertà che la fonda nella deficienza della rete causale, cioè nella sua insufficienza a spiegare l’emergenza della soggettività libera, Lacan fonda la libertà nell’eccesso di cause. Ci sono sempre troppe cause; un’eccessi­ va moltitudine, per così dire, vaga intorno in cerca di effetti - esse sono cause, ma

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Il senso comune logico delle coppie complementari degli opposti al quale Schelling spesso si lascia andare, e che forma il vero nucleo deirinvolucro dell’errore’ nel suo pensiero (c’è bisogno del Male, dato che il Bene può affermare se stesso solo nella forma di un ine­ sauribile sforzo di superare il Male; la Luce può emergere solo su­ perando la resistenza deU’Oscurità, ‘penetrando l’oscurità e illumi­ nandola, ecc.), rende oscura l’economia veramente perversa, in cui il Male non è soltanto il retroterra del Bene, il principio opposto di cui il Bene ha bisogno per affermarsi, ma mantiene e supporta il Bene in modo molto più diretto e sorprendente. Consideriamo il proverbiale atteggiamento cattolico nei confronti dell’adulterio: per principio la Chiesa si oppone alla pornografia, all’adulterio, alle perversioni, e così via. Tuttavia, se una dose moderata di queste cose può salvare un matrimonio (un’occasionale visita a un bordello, una chiacchierata piccante su fantasie perverse, o il ricorrere alla pornografia per ravvi­ vare la sessualità stantia dei consorti), allora non solo sono tollerate, ma persino caldamente raccomandate (un caso esemplare della tesi lacaniana secondo la quale la perversione, lungi dall’essere sovversi­ va, è un atteggiamento socialmente costruttivo). Durante le riprese di Fitzcarraldo nella giungla amazzonica, un prete cattolico implorò Werner Herzog di reclutare prostitute da una città vicina come uni­ co modo per evitare che i membri bianchi della squadra stuprassero le donne indigene... Non ci si dovrebbe sorprendere dell’attuale e costante esplosio­ ne di scandali sessuali, solitamente di natura perversa, proprio in quei partiti politici o movimenti che sostengono una rigida moralità conservatrice — dal partito conservatore britannico (dove una serie di scandali sessuali resero ridicolo il motto della campagna morale, ‘Back to basics!’, visto che il membro del parlamento che lanciò strali contro le madri single aveva due figli illegittimi; un altro che lottava contro le pratiche sessuali ‘contro natura’ in nome dei valori cristiani si rivelò essere gay; un terzo morì soffocato durante una masturba­ zione...) ai predicatori televisivi americani (l’incontro di Jim Bakker con una prostituta e le sue manipolazioni finanziarie; le strane pra­ tiche sessuali di Jimmy Swaggart con le prostitute...). Qui non c’è alcuna ‘contraddizione’: la trasgressione del pervertito è intrinseca all’ordine morale, e serve come supporto essenziale. non è chiaro di cosa sono cause, c perciò il capitonnage struttura questa moltitudine in una stabile rete causale.

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Quando Jimmy Swaggarr rivendicò che, sebbene fosse un pec­ catore, la sua perenne lotta contro le tentazioni del peccato (e cioè contro le sue inclinazioni perverse) gli dava il diritto di predicare, offuscò completamente il vero stato delle cose: le sue perversioni non erano semplicemente l’ostacolo che doveva abbattere e continuamente superare per affermare la propria fede, ma erano un supporto diretto alla sua fede - l’occasionale ‘detour’ attraverso il peccato gli permetteva di sostenere il fardello della fede. Qui risiede l’hegeliana ‘inversione dell’inversione’ per la quale possiamo superare l’estrin­ seca co-dipendenza degli opposti: il peccato non è semplicemente l’inverso della fede ma il suo intrinseco costituente. Vale a dire, si può mantenere la propria fede contro la minaccia del completo pre­ dominio del peccato solo ricorrendo al peccato stesso (in misura re­ golata, contenuta, quella misura minima ma inevitabile). Alle volte un matrimonio in profonda crisi può essere salvato dalla minaccia di divorzio e dissoluzione solo rivolgendosi a un minimo necessario di pornografìa, adulterio, e così via. In altre parole, la ‘contrazione’ del peccato offre quel minimo di terreno stabile su cui la fede può sorge­ re, così che se sottraiamo il peccato, la fede si disperde in un’espan­ sione illimitata. Dunque, il punto non è che il dominio etico sia il campo dell’eterna Iona tra virtù e peccato. Il punto è, piuttosto, che la virtù stessa può vincere sulpeccato solo ricorrendo al peccato (in misura moderata, controllata).29 29 Questa logica dell’antagonismo ci aiuta anche a chiarire la nozione lacaniana di hainamoration: ciò a cui mira Lacan non è il tema usuale della ‘ambiguità’ tra amore e odio, della loro co-dipendenza polare, di come l’uno passi continuamente al suo opposto, così che non c’è amore senza odio, ecc.; il suo punto è, piuttosto, che l’odio è - dall’interno, per così dire - deformato dall’amore. Vale a dire: l’og­ getto d’amore è sempre diviso tra sé e ciò che in esso lo eccede, Vobjet a, e infatti io mi sforzo ad annichilirti precisamente per distillare da te ciò che amo veramente di te... Il caso esemplare di questa tensione amore-odio è l’atteggiamento verso la dama nellamor cortese: quando il poeta cavalleresco mette la donna amata su di un piedistallo e la glorifica come dama inaccessibilc-sublime, quello che egli teme effettivamente è che l’amata scenda dal piedistallo c si comporti come un essere sensuale attivo, incalzandolo con la richiesta di soddisfarla sessualmente - in breve, l’elevazione poetica della donna nasconde la paura per la sessualità femminile, per la donna come attivo soggetto sessuale. Per questa ragione, l’elevazione poetica della dama è il rovescio della medaglia dell’odio per una donna sessualmente attiva che viene liquidata come ‘volgare’ c può facilmente diventare vittima di esplosioni di estrema violenza. Pertanto, la logica dell’antagonismo non dovrebbe essere confusa con la coincidentia oppositorum dialettica; come caso esemplare di qucst’ultima, basti

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C’è ancora un’altra cosa da evidenziare a proposito del cieco mo­ vimento rotatorio di Dio prima di pronunciare la Parola: questo mo­ vimento non è ancora temporale, non si verifica ‘nel tempo’, dal mo­ mento che il tempo presuppone già che Dio si sia liberato dal circolo psicotico chiuso. L’espressione comune ‘dall’alba dei tempi...’ deve essere presa letteralmente: è il Principio, l’atto di decisione/risoluzione originaria, che costituisce il tempo. La ‘repressione’ del movi­ mento rotatorio nell’eterno Passato stabilisce la minima distanza tra passato e presente che permette la successione lineare del tempo. Qui incontriamo la prima delle tante ‘frecciate’ anti-platoniche di Schelling: l’eternità prima della Parola è il movimento rotatorio senza tempo, la follia divina, che è al di sotto del tempo, ‘meno del tempo’. Tuttavia, in disaccordo con coloro che enfatizzano l’affinità di Schelling con l’affermazione heideggeriana della temporalità come il fondamentale e insuperabile orizzonte dell’Essere, si dovrebbe dire che in nessun altro luogo Schelling è tanto lontano da Heidegger, dalla sua analitica della finitudine, quanto nella sua concezione di una relazione tra tempo ed eternità. Per Schelling l’eternità non è una modalità del tempo, piuttosto è il tempo stesso a essere un modo spe­ cifico (o meglio una modificazione) dell’eternità: lo sforzo supremo di Schelling è di ''dedurre il tempo stesso dal punto morto dell'eternità. L’Assoluto ‘spalanca il tempo’, ‘reprime’ il movimento rotatorio nel passato, col proposito di sbarazzarsi dell’antagonismo al suo interno che minaccia di trascinarlo nell’abisso della follia. D’altro canto - e ancora in chiaro contrasto con Heidegger — la libertà è per Schelling il momento della ‘eternità nel tempo’, il punto dell’infondata deci­ sione per la quale una creatura libera (l’uomo) spezza, sospende, la catena temporale delle ragioni e, per così dire, si connette direttamente con VUngrund dell’Assoluto. Questa nozione schellinghiana di eternità e tempo — o, per metterla in termini più contemporanei, di sincronia e diacronia - deve dunque essere opposta alla nozione comune di tempo come riflesso finito/distorto dell’ordine eterno,

menzionare l’opposizione tra il femminismo che si concentra sulle donne vittime della dominazione patriarcale e il femminismo ‘aggressivo’ che dice alle donne di smettere di lamentarsi e di avvantaggiarsi del loro ascendente sessuale ed emotivo sugli uomini - eppure, assumere il ruolo di vittima non è forse la maniera più effica­ ce di guadagnare potere c disarmare l’oppositore? Quando dichiaro di parlare dalla posizione di vittima, non svaluto ogni contro-argomento in anticipo assicurandomi ‘l’autenticità’ del discorso? Non è forse l’atteggiamento aggrcssivo-manipolatorio più efficace?

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Così pure la moderna nozione di eternità come modo specifico della temporalità: l’eternità stessa genera il tempo per risolvere lo stallo in cui era impigliata. Per tale ragione, è prò fondamente fuorviarne e inade­ guato parlare di ‘caduta nel tempo’ da parte dell’eternità. ‘L’alba dei tempi’ è, al contrario, un’ascesa trionfele, l’atto di decisione/differenziazione con il quale l’Assoluto risolve l’agonizzante movimento rotatorio delle pulsioni, e si smarca dal suo circolo vizioso per entrare nella successione temporale. Ciò che Schelling qui realizza è una teoria del tempo la cui par­ ticolare caraneristica è quella di non essere formale ma qualitativa: in contrasto con la comune nozione di tempo che concepisce le tre dimensioni temporali come determinazioni puramente formali (il medesimo contenuto’ ‘viaggia’, per così dire, dal passato attraverso il presente verso il futuro), Schelling offre una minima determinazione qualitativa di ogni dimensione temporale. Il movimento rotatorio delle pulsioni è ilpassato in sé. non è stato una volta presente e adesso è passato ma è passato sin dall’alba dei tempi. La divisione come tale è presente, e cioè il presente vale come momento della divisione, della trasformazione del palpitare indifferenziato delle pulsioni nella differenza simbolica, mentre il futuro designa la riconciliazione a ve­ nire. L’obiettivo della critica schellinghiana non è solo il formalismo della comune nozione di tempo ma anche, e forse maggiormente, la nascosta, inconfessata, prerogativa del presente in esso coinvolta. Per Schelling questa prerogativa equivale alla supremazia della necessità meccanica sulla libertà, dell’attualità sulla possibilità.

Dalla libertà al soggetto libero

TI ‘materialismo dialettico’ di Schelling è dunque incapsulato 1 nell’affermazione ricorrente per cui si dovrebbe presupporre un momento eternamente passato in cui Dio stesso era ‘nella po­ tenza (esponente) di B’, alla mercé dell’antagonismo della materia, senza alcuna garanzia che A, il principio spirituale della luce, preval­ ga alla fine su B, l’oscuro principio del Fondamento. Dal momento che non c’è nulla al di fuori di Dio, questo ‘folle Dio’, il movimento rotatorio antagonistico della materia contratta deve generare da sé un Figlio, e cioè la Parola che risolverà l’insopportabile tensione.30 30 Quella che incontriamo ancora qui è la profonda ‘frecciata’ anti-heideggeriana di Schelling: come rileva Hogrcbc (vedi W. Hogrebe, Pràdikation und Genesis,

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Il battito indifferenziato delle pulsioni è dunque soppiantato dallo stabile reticolo di differenze che sostiene l’autp-identità delle enti­ tà differenziate: nella sua dimensione più elementare, la Parola è lo strumento della differenziazione. Qui incontriamo quella che forse è la fondamentale opposizione concettuale dell’intero edifìcio filosofico schellinghiano, l’opposizio­ ne tra il movimento rotatorio atemporale chiuso’ delle pulsioni e la progressione lineare aperta del tempo. L’atto di ‘repressione pri­ mordiale’ col quale Dio espelle il movimento rotatorio delle pulsioni nell’eterno passato, e con ciò ‘crea il tempo’, dischiude la differenza tra passato e presente -è la sua prima azione da Soggetto libero: com­ piendola, Egli sospende la paralizzante alternativa tra l’abisso senza soggetto della Libertà e il Soggetto che è non-libero, catturato nel circolo vizioso del movimento rotatorio.31 Qui Dio è esattamente nel­ la stessa posizione dell'uomo sulla soglia delfatto atemporale della scelta della sua natura eterna. E solo tramite questa decisione originaria che la libertà di Dio diventa la reale ‘libertà di fare il Bene o il Male’, vale a dire, Egli deve scegliere se auto-ritirarsi o aprirsi, deve scegliere tra la follia psicotica e la Parola. La differenza tra Dio e uomo, na­ turalmente, è che Dio inevitabilmente sceglie il Bene (pronuncia la Parola, crea l’Ordine dal caos), mentre l’uomo non meno inevitabil­ mente incorre nella caduta. In entrambi i casi la scelta è allo stesso

cit., p. 58), Schelling rifiuta il dualismo ontologico (il dualismo tra l’ontico e l’onto­ logico, tra le entità intra-mondanc e il loro orizzonte ontologico, tra genesi e valore, tra i processi fisici c le verità ideali, tra corpo c anima, tra Reale e Ideale, tra oggetto e soggetto, ecc.); invece egli afferma un dualismo ‘pre-mondano’, puramente ontico delle pulsioni in Dio (contrazione ed espansione, cioè egotismo e amore). Questo spostamento rappresenta lo sconcertante sentimento che la filosofia di Schelling inevitabilmente suscita in un lettore abituato alla filosofia tradizionale: nonostante il suo monismo ufficiale, la posizione di Schelling sembra implicare un dualismo di gran lunga più radicale di quello di ogni altra tradizione versione filosofica... 51 Si può vedere ancora come, nell’uomo come in Dio, l’atto di decisione comporti la distinzione tra identità e fondamento: al livello dell’identità essenziale, è tutto qui, gli opposti coincidono in una pura simultaneità senza tempo (la libertà non è ancora antagonista della necessità, essa coincide pienamente con l’abilità di un’entità di dispiegare il suo potenziale secondo la sua necessità intrinseca; la Vo­ lontà stessa non è ancora una volontà attuale ma coincide con il suo opposto nella forma di una Volontà che non vuole niente); quando la Volontà si attualizza attra­ verso l’atto di decisione, e diventa una Volontà che effettivamente vuole qualcosa, l’indifferenza originale è. spezzata, il tempo e istituito, cioè uno dei due termini dell’antagonismo è represso nel Passato come Fondamento dell’altro.

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tempo libera e ‘forzata’. Questa nozione di decisione originaria di Dio permette inoltre a Schelling di rispondere alla comune accusa contro la teodicea: perché Dio ha creato l’universo con così tanto male e sofferenza? Ciò non mette forse il credente nell’imbarazzo dell’alternativa se Dio sia malvagio oppure non sia onnipotente? In nessun modo Schelling contesta la quantità di male che c’è nel mon­ do. Egli non ricorre mai alla vecchia scusa, presa in prestito dal retro­ terra teologico, secondo la quale ciò che percepiamo (erroneamente) come male è semplicemente una piccola parte di un più ampio piano divino fuori dalla portata della mente umana. Al contrario, il grande motivo conservatore’ di Schelling è che il nostro universo, la terra, è il dominio di indicibili orrori che sgorgano come escrementi di Dio. Lasciata sola con le sue forze, senza l’intervento di Dio, l’umanità è persa. Tuttavia, il punto che Schelling sostiene è che la Creazione, il pronunciamento della Parola in Dio, è, come tale, una vittoria del Bene sul Male, optando per la Creazione Dio si è spostato dalla potenza contrartiva di B a quella espansiva di A. Questo primordiale atto di ‘repressione’ che dischiude la di­ mensione della temporalità è esso stesso ‘eterno’, atemporale, in stretta analogia con la decisione originaria per mezzo della quale l’uomo sceglie la sua natura eterna. In altre parole, a proposito deH’affermazione schellinghiana secondo cui la coscienza umana sorge dall’atto primordiale che separa la coscienza presente-attuale dallo spettrale, ombroso, regno dell’inconscio, bisogna porsi una domanda appa­ rentemente ingenua ma cruciale: cosa si intende qui, precisamente, per inconscio? La risposta di Schelling è inequivocabile: ‘l’inconscio’ non è principalmente il movimento rotatorio delle pulsioni riget­ tato nell’eterno passato. Piuttosto ‘l’inconscio’ è il vero atto di EntScheidung con il quale le pulsioni sono state rigettate nel passato. Oppure, per dirla con termini leggermente diversi, ciò che è dav­ vero ‘inconscio’ nell’uomo non è l’immediatamente opposto della coscienza, l’oscuro e confuso vortice ‘irrazionale’ delle pulsioni, ma il vero gesto fondativo della coscienza, l’atto di decisione grazie al quale io ‘scelgo me stesso’, cioè combino questa moltitudine di pul­ sioni nell’unità del Sé. ‘L’inconscio’ non è il contenuto passivo delle pulsioni inerti che viene usato dalla creativa attività ‘sintetica’ dell’io cosciente. ‘L’inconscio’, nella sua dimensione più radicale, è la più alta Azione della mia auto-posizione, o, per usare termini ‘esistenzia­ listi’ recenti, la scelta del mio fondamentale ‘progetto’ che, per rima-

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nere operativo, deve essere ‘represso’, tenuto inconscio, fuori dalla luce del giorno - o, per citare ancora dalle ultime ammirevoli pagine della seconda bozza di Weltalter.

La decisione che costituisce, in qualunque atto, il vero inizio, non può essere portata dinanzi alla coscienza, richiamata alla co­ scienza: in verità, ciò significherebbe revocarla. Chi si riserva di riportare ogni volta alla luce una decisione presa, non inizia mai veramente.32 Ciò che incontriamo qui, chiaramente, è la logica del ‘media­ tore evanescente’, del gesto fondativo di differenziazione che deve annegare nell’invisibilità una volta che la differenza tra il vortice ‘ir­ razionale’ delle pulsioni e l’universo del logos ha avuto luogo.33 Nella più tarda filosofia schellinghiana questa figura del ‘mediatore eva­ nescente’ è concettualizzata come Satana. Il suo ruolo è di mediare tra l’iniziale stato di inarticolata potenzialità equilibrata in cui Dio non è ancora posto in quanto tale, in un contenuto determinato, e l’attualizzazione dell’unico vero Dio che afferma se stesso attraverso

32 F.W.J. Schelling, Le età del mondo, eie., p. 148. 33 La categoria di ‘mediatore evanesccnte,, una delle categorie fondamentali del materialismo dialettico, è stata introdotta da Fredric Jameson a proposito di Max Weber (cfr. Fredric Jameson, “The Vanishing Mediator; or, Max Weber as Stoiyteller”, in The Ideologies oflheory, voi. 2, University of Minnesota Press, Min­ neapolis 1988; per una lettura lacaniana di questo tema, vedi il capitolo 5 di Slavoj 2izek, For They Knoiv Not What They Do, Verso, Londra 1991; e il capitolo 3 di Slavoj Èizek, Enjoy Your Symptom!, Routledgc, New York 1992). Come caso esem­ plare di un’analisi che giace sulla logica del ‘mediatore evanescente’, basti richiamare il grande studio musicologico di Charles Rosen Lo stile classico', ciò che Rosen rende visibile è la forma sonata ‘nel suo divenire’, quando aveva ancora un impatto ‘scan­ daloso’, e cioè prima che si stabilisse come norma egemonica; in altre parole, egli rende visibile il processo di formazione radicalmente contingente, ‘aperto’ di ciò che percepiamo oggi come tradizione. Nella teoria politica, il caso esemplare di ‘media­ tore evanescente’ è fornito dalla nozione hegeliana dcll’rroc storico che risolve lo stallo del passaggio dallo ‘stato naturale’ di violenza allo stato civile di pace garantito dal potere legittimo. Questo passaggio non può avere luogo direttamente, in una linea continua, dal momento che non c’è alcun terreno comune, alcuna intersezio­ ne, tra lo stato di violenza naturale c lo stato di pace civile; ciò di cui c’è bisogno, pertanto, è un agente paradossale che, per mezzo della violenza stessa supera la violenza, si parla quindi del paradosso di un atto che retroattivamente stabilisce le condizioni della sua legittimità e dunque oblitera il suo carattere violento, trasfor­ mandosi in un solenne ‘atto fondativo’.

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l’esclusione e l’annichilimento dei falsi dei. Satana dunque rappre­ senta la paradossale unità di attualità e potenzialità: da una parte è la pura potenzialità, l’eterno richiamo della tentazione che non può mai completamente vincere e attualizzarsi; dall’altra parte, proprio in questa capacità di tentazione, Satana ci spinge ad agire e ad affer­ mare effettivamente il vero Dio tramite il rifiuto dei falsi idoli. La figura di Satana inoltre reca testimonianza del fatto che Dio stesso ha bisogno di ‘deviazioni’ per arrivare, sconfiggendo quest’ultime, alla sua piena realizzazione.34 Questo passaggio dalla pura libertà al soggetto libero giace sul­ l’opposizione tra essere e divenire, tra principio di identità e principio di ragion-fondamento (sufficiente). La libertà implica il principio di identità, designa l’abisso di un atto di decisione che spezza la catena causale, dal momento che è fondata solo in se stessa (quando compio un vero atto libero, non lo faccio per nessuna ragione determinata, ma semplicemente ‘perché volevo farlo’). Il Fondamento designa la realtà esistente come una rete di cause ed effetti in cui ‘niente acca­ de senza una ragion-fondamento’. Questa opposizione tra identità e fondamento si sovrappone a quella tra eternità e tempo: quando le cose sono concepite secondo la modalità dell’identità, esse appaiono sub specie aternitatis, nella loro assoluta contemporaneità, nel modo in cui sono secondo la loro essenza eterna. Quando sono concepite nella modalità del fondamento, appaiono nel loro divenire tempo­ rale, come momenti passeggeri della complessa rete causale in cui il passato ‘fonda’ il presente. In questo preciso senso, la libertà è atemporale: un lampo di eter­ nità nel tempo. Il problema con cui Schelling combatte, tuttavia, M Per chiarire questa logica di Satana, possiamo ricordare il discorso stalini­ sta in cui al ‘traditore’ viene imputato il ruolo di Satana (nelle caricature stalinistc Trotsky, l’arci-traditore, veniva regolarmente dipinto come il Diavolo). Nell’uni­ verso stalinista, il Partito avanza, afferma la condotta corretta, attraverso la ripetuta esclusione dei nemici revisionisti-deviazionisti - è il Traditore, il nemico interno’, che disturba ancora e ancora il nostro equilibrio compiaciuto e ci istiga alla deci­ sione, al passale à Catte. Come il Satana di Schelling, il ‘traditore’ stalinista dunque rappresenta l’eterna tentazione della ‘deviazione’ in tutte le sue molteplici forme (la deviazione dell’ala destra, dell’ala sinistra, persino - perche no? - la deviazione cen­ trista ‘opportunista’): in quanto tale — cioè come pura potenzialità della tentazione - egli forza ripetutamente il Partito a realizzare la sua condotta corretta purificando i suoi ranghi dai deviazionisti. Su questo ruolo di Satana in Schelling, cfr. Lidia Procesi, “Unicité et pluralité de Dieu: la contradiction et le diablc chez Schelling”, in Jcan-Fran^ois Courtine e Jean-Fran^ois Marquet, Le dernier Schelling, Vrin, Pa­ rigi 1994, pp. 101-115.

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è che necessità e libertà sono anche opposte come la logica atem­ porale e la narrativa temporale: anche ‘l’identità* rappresenta l’uni­ verso eleatico della necessità logica atemporale in cui non c’è libero sviluppo, in cui tutto coesiste in assoluta contemporaneità, mentre la libertà reale è possibile solo nel tempo, come decisione libera-con­ tingente di una entità reale nel suo divenire.35 Lo sforzo di Schelling consiste nel pensare la libertà come abisso atemporale di identità (il miracolo di un atto che è ‘il suo stesso principio’, fondato solo in se stesso) e come il predicato di un Soggetto libero che decide nel tem­ po. In breve, Schelling tenta di compiere il passaggio dalla libertà a un soggetto libero, dall’impersonale Es del c’è la liberta al ‘Lui’, un Dio che è libero. Questo passaggio della libertà dal soggetto al predicato implica un’inversione che è strettamente analoga alla paradigmatica inversio­ ne hegeliana di soggetto e predicato (dalla ‘riflessione determinante’ alla ‘determinazione riflessiva’, ecc.). Dalla auto-limitazione/contrazione della libertà si passa a un’entità auto-limitata/contratta (cioè realmente esistente) che è libera.06 Questo è il fondamentale mistero

35 Questa relazione doppia, trasversale dell’opposizione libertà/nccessità con l’opposizione tempo/eternità testimonia il cambiamento di vasta portata che opera Schelling nell’edificio deH’idealismo filosofico classico, un cambiamento che può anche essere articolato nei termini di un quadrato semiotico di Greimas: Schelling integra l’opposizione fondamentale dell’idealismo, quella tra l’ideale c il Reale, con l’opposizione tra espansione e contrazione che non si sovrappone con la prima, in modo da ottenere da una parte ‘l’anima’, c cioè lo Spirito ideale che ha contratto’ c penante esiste effettivamente come persona; e, dall’altra pane, il Reale nella moda­ lità dell’espansione (la luce in natura come opposta alla materia, ecc.). 36 Questa inversione dalla riflessione determinante dia determinazione rifles­ siva trova un’analogia precisa nell’inversione lacaniana ideale dell’io all’/o ideale: l’ideale dell’io è un punto virtuale simbolico da cui l’io si osserva per trovarsi at­ traente, mentre l’io ideale è un’entità immaginaria positiva in cui l’ideale è realizza­ to. Nel dominio dell’epistemologia, la distinzione cruciale tra l’ideale della scienza c la scienza ideale segue la stessa logica: l’ideale della scienza è un punto virtuale a cui le scienze concrete tendono; la scienza ideale è una scienza esistente che agisce come modello per le altre scienze (la fisica per le scienze naturali, la linguistica per 10 ‘strutturalismo’). Ancora, qui abbiamo a che fare con l’opposizione tra divenire ed essere", l’ideale della scienza mette in moto l’infinito processo del divenire delle scienze, laddove la scienza ideale si riferisce a un’entità nella modalità dell’essere, cioè a una scienza realmente esistente. Nella teoria politica, la distinzione francese tra le politique (il politico) e la politique (la politica) gioca lo stesso ruolo strutturale: 11 ‘politico’ designa il processo del divenire (‘dell’ordinamento’) di un ordine politi­ co, la sua ‘invenzione’, il suo movimento generativo; mentre la ‘politica’ si riferisce a

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dei Weltalter, come pure dell’inversione dialettica hegeliana: la liber­ tà ‘in sé’ è un movimento di espansione illimitato che non può essere vincolato ad alcuna entità limitata, e allora come può essa diventare proprio il predicato di una tale entità limitata? La risposta di Schel­ ling è che la libertà può diventare il predicato di un soggetto solo nella misura in cui questo soggetto compie l’atto di auto-differen­ ziazione per il quale pone se stesso come fondato nella, e contempo­ raneamente diverso dalla, sua sostanza contratta. Un soggetto libero deve avere un fondamento che non è se stesso, deve prima contrarre questo fondamento e poi assumere una libera distanza da esso trami­ te l’atto di decisione originaria che dischiude il tempo.

La follia divina

’è una sottile differenza tra le bozze dei Weltalter e le Lezio\^sni di Stoccarda per quanto riguarda la contrazione divina dell’essere. Nelle bozze dei Weltalter la contrazione di B, la potenza’ inferiore (la grezza, informe materia), precede l’auto-affermazione di Dio come libero Soggetto reale (Dio diventa un Soggetto libero solo dopo, con l’emergenza della Parola), così che siamo costretti a con­ getturare una età’ in cui Dio non era ancora auto-illuminato, in cui esisteva non come se stesso ma solo nella potenza (esponente) di B’, come l’infuriare cieco delle pulsioni inconsce. In implicito ma chia­ ro contrasto, nelle Lezioni di Stoccarda la primordiale contrazione è concepita come un atto che coincide con la Ent-Scheidung di Dio, l’auto-differenziazione, ovvero con l’atto con cui Dio ‘deposita’ l’og­ getto in se stesso, se ne sbarazza, e quindi si costituisce come libero. La contrazione dunque non è più l’atto di prendere una malattia ma il suo esatto opposto: l’atto di guarigione, di espulsione del corpo estraneo in Dio. Ora, essa rappresenta l’atto col quale Dio distur­ ba la propria originale indifferenza, espelle ciò che in Lui non è lui stesso, diventando così quello che veramente è - quel che Kristeva avrebbe chiamato abietto. La Creazione vera e propria che segue è lo sforzo di Dio di forgiare questo informe abietto nella moltitudine di oggetti ben formati. In effetti c’è un’abbondanza di allusioni ‘anali’ un dominio costituito dell'essere sociale... L’esempio principe - la ‘madre di tutti gli esempi’ - ovviamente, è offerto dal passaggio dalla dialettica materialista (il processo di analisi dialettica) al materialismo dialettico come sistema filosofico positivo.

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ed escrementizie in Schelling: Dio secerne 'l’abietto' e poi pronuncia la Parola per tirarsi fuori dalla merda in cui si trovava...37 Questa struttura dell’abiezione mostra palesemente l’inadegua­ tezza della problematica della ‘identificazione proiettiva : essa impli­ ca che il soggetto originariamente possieda, abbia dentro sé, l’intero contenuto; poi, in una seconda fase, espella, proietti nell’Altro, la parte di sé con cui non può venire a patti. Quello che si cela nello sfondo è, ovviamente, la vecchia nozione pseudo-hegeliana di ‘di­ salienazione’ o riappropriazione: il soggetto dovrebbe pienamente presupporre il contenuto ‘represso’ proiettato nell’Altro, riconoscen­ dolo come proprio. Nell’antisemitismo, per esempio, al soggetto è richiesto di proiettare nella figura dell’Ebreo tutte le pulsioni aggres­ sive che è incapace di riconoscere... La posizione di Schelling è molto più raffinata e ‘postmoderna’: non è abbastanza dire che il soggetto proietta nell’Ebreo la parte ripudiata di se stesso, dal momento che è solo attraverso questa espulsione che un Sé coerente si costituisce in primo luogo. Il rigetto del contenuto ‘inaccettabile’, di un traumatico corpo estraneo che non può essere integrato nell’universo simbolico del soggetto, è costitutivo del soggetto. Questa idea chiave distingue il concetto lacaniano di alienazione dalla sua controparte pseudo-hegeliana: non c’è soggetto senza una sorta di supplemento ‘protetico’ esterno che fornisce il minimo della sua identità fantasmatica, vale a dire che il soggetto emerge grazie alla ‘estrinsecazione’ del nucleo più intimo del suo essere (il suo ‘fan­ tasma fondamentale’). Nel momento in cui si avvicina troppo a que­ sto contenuto traumatico e lo ‘interiorizza, la sua vera auto-identità si dissolve. Per questa ragione, assumere il fantasma fondamentale e la ‘destituzione soggettiva’ sono due operazioni strettamente correla­ te, due aspetti della stessa operazione. Il problema fondamentale delie Lezioni di Stoccarda, quindi, è che l’Assoluto come ‘indifferenza’, come abisso della Libertà primordia­ le, non è ancora un Dio personale: in esso la libertà coincide con la cieca necessità poiché non è ancora ‘esplicato’, posto in quanto tale, trasformato in un predicato di una entità (libera). Per porsi come libera entità attuale sciolta dalla cieca necessità - in breve, come per­ sona — l’Assoluto deve raddrizzare le cose, chiarire la sua confusione, acquisendo una distanza verso ciò che in esso non è Dio ma sempli37 Cfr. F.WJ. Schelling, “Lezioni di Stoccarda (1810)", in Scrini sulla filoso­ fia, la religione, la libertà, L. Pareyson (cur.), Mursia, Milano 19906, pp. 141-193.

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cernente il Fondamento della sua esistenza, cioè espellendo da sé il Fondamento. Questo processo di contrazione e creazione è necessa­ rio se Dio vuole chiarire il suo stesso status e porre-reai izza re se stes­ so in quanto Entità libera che non è immediatamente fusa col suo Fondamento ma mantiene una libera distanza da esso (come l’uomo che, sebbene sia fondato in natura e possa sopravvivere solo nel suo corpo biologico, non è il suo corpo ma lo ha, si rapporta liberamente a esso e lo può usare come strumento per scopi più alti). Ciò che dunque si è raggiunto è il primo passo verso il recupero idealistico della svolta materialistico-dialettica di Schelling: reinterpretando la contrazione primordiale come espulsione dell’oggetto Schelling può fare a meno della età divina in cui la ‘follia’ egotistica infuria sen­ za limiti. Tuttavia, il divario che separa le Lezioni di Stoccarda dalla più tarda ‘filosofia positiva’ schellinghiana rimane incolmabile. Neli’ultimo Schelling, Dio possiede il suo Essere già prima. Il processo della Creazione concerne quindi un altro essere, non l’essere di Dio stesso. In quanto tale la Creazione non è più il doloroso processo di auto-chiarificazione e auto-differenziazione (si potrebbe persino dire auto-castrazione) che Dio doveva sopportare, ma implica un’attività eseguita a distanza di sicurezza.38 Il punto critico dei Weltalter (e al tempo stesso la fonte principale della sua sensazionale importanza, il segnale dell’assoluta integrità del pensiero schellinghiano e la caratteristica che rende quei fram­ menti il testo fondante del materialismo dialettico) risiede nel ripe­ tuto fallimento del tentativo disperato di Schelling di evitare il terri­ ficante stadio intermedio tra la pura, beata, indifferenza della libertà primordiale e Dio come libero creatore.39 Ciò che entra in gioco tra la libertà primordiale e Dio in quanto soggetto libero è uno stadio in cui Dio è già un soggetto (diviene un soggetto quando, per mezzo della contrazione, acquisisce realtà), ma non ancora libero. A questo livello, dopo aver contratto l’essere, Dio è sottomesso alla cieca ne-

* Più precisamente, nelle ultime opere di Schelling l’atto della creazione è anche non semplicemente esterno a Dio ma riguarda il suo stesso essere: creando l’universo fuori di sé, in un certo modo Dio sospende il suo essere (attuale), c cioè lo cambia in mera potenzialità. Cfr. Miklos Veto, “L’unicité de Dicu sclon Schel­ ling", in Jean-Fran^ois Courtinc c Jean-Fran^ois Marquct, Le dernier Schelling, eie., pp. 96-97. ** Cfr. Jean-Fran^ois Marquet, Liberti et existence, itude sur la fornuttion de la philosophie de Schelling, Gallimard, Parigi 1973, probabilmente il libro sullo sviluppo delia filosofia di Schelling.

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cessità di un movimento rotatorio ristretto, come un animale colto in una trappola di sua costruzione e destinato infinitamente a ripe­ tere gli stessi insensati movimenti. Il problema è che la Ragione di Dio, la sua consapevolezza di ciò che accade, si può dire arrivi troppo tardi, dopo questo cieco processo. Così dopo, quando pronuncia la Parola e dunque ottiene la vera libertà, può in un certo senso ricono­ scere, accettare, solo ciò che ha ‘contratto’ non solo senza volere, ma nel corso di un processo cieco e spontaneo in cui la sua libera volontà semplicemente non aveva alcun ruolo.40 In altre parole, il problema è che «si deve ammettere un momento di cecità, persino di follia, nella vita divina», a causa del quale la creazione appare come «un processo in cui Dio era coinvolto a proprio rischio, se così si può dire».41 Nel­ le tre bozze consecutive dei Weltalter Schelling propone tre diverse versioni di questo momento traumatico di ‘cortocircuito’ tra libertà ed esistenza, vale a dire della contrazione primordiale che disturba la beatitudine e la pace della pura Libertà o, nei termini della fisica quantistica, che rompe la simmetria originaria: • Nella prima bozza, la Libertà primordiale come Volon­ tà che non vuole niente ‘contrae l’essere — si condensa in un punto contratto di densità materiale - della necessità, non attraverso un atto di libera decisione poiché la contrazione primordiale non può non accadere dal momento che deriva dalla Libertà primordiale in modo assolutamente immediato, cieco’, non-riflesso, inesplicabile. La prima tensione interna dell’Assoluto è qui la tensione tra la libertà espansiva e la cieca necessità della contrazione.

• La seconda bozza, che va più lontano nella direzione del­ la Libertà, tema di concepire la contrazione primordiale stessa come un atto libero: appena la Libertà primordiale si attualizza, appena si trasforma in Volontà attuale, si divide in due oppo­ ste Volontà, così che la tensione è strettamente interna alla libertà. Essa appare come la tensione tra la volontà-di-contrazione e la volontà-di-espansione.

• La terza bozza delinea già la soluzione adottata dalla più tarda ‘filosofia positiva’ schellinghiana. In essa Schelling evita 40 Ivi, p. 464. 41 Ivi, pp. 541-542.

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il problema del passaggio della libertà nell’esistenza conce­ pendo il punto d’inizio dell’intero processo, la Libertà pri­ mordiale, come un ‘principio sintetico’, come la simultaneità di libertà ed esistenza necessaria. Dio è un’entità che esiste necessariamente, la sua esistenza è garantita in anticipo, e pro­ prio per questa ragione la creazione dell’universo fuori di Dio è atto veramente libero e contingente, cioè atto che poteva anche non accadere. Dio non è coinvolto in esso, non è il suo proprio essere a essere in gioco. Lo spostamento, la sostituzio­ ne rispetto alle prime due bozze è enorme: da un Dio che è implicato nel processo della creazione, per cui la creazione è la sua via crucis, passiamo a un Dio che crea l’universo dalla distanza di sicurezza del ‘metalinguaggio’.

Con un gesto interpretativo in qualche modo rischioso, si è ten­ tati di affermare che le tre bozze consecutive dei Weltalter forniscano in immagine speculare condensata dei tre principali stadi dell’intero .viluppo filosofico schellinghiano. Schelling] (la sua ‘filosofia del.’identita ) è nella potenza (esponente) dell’Essere, cioè in esso la ne­ cessità contiene la libertà, e la libertà può risiedere solo nella ‘neces­ sità che è compresa’, nella nostra consapevolezza dell’eterno ordine della Necessità razionale di cui partecipiamo. In breve, qui Schelling è uno spinozista in quanto per lui la nozione di Assoluto implica l’assoluta contemporaneità, co-presenza, dell’intero contenuto. Di conseguenza, l’Assoluto può essere concepito solo nella modalità della deduzione logica la quale restituisce la sua eterna articolazione interna (la successione temporale è semplicemente un’illusione del nostro punto di vista finito).42 Per contro, Schelling2 (quello delle Ricerche filosofiche e dei Weltalter) è nella potenza (esponente) della Libertà, motivo per cui il suo problema cruciale è quello della ‘con­ trazione’: come l’abisso della Libertà primordiale contrae l’Essere? Di conseguenza, riguardo al modo di presentazione deU’Assoluto, la deduzione logica deve cedere il passo alla narrativa mitica.43 Infine, 42 II continuum spazio-temporale di Einstein - ovvero la sua nozione di un universo statico senza tempo in cui ogni cosa esiste simultaneamente, c la successio­ ne temporale è una mera illusione deH’osservatore, della sua visione limitata — non è forse analogo all’Assoluro di Schelling in cui tutto è anche assolutamente contem­ poranco, e la successione temporale c’è solo per lo sguardo finito dell’uomo? 42 In questa seconda fase la filosofia diventa una ‘storiografia trascendentale’, una narrativa deU’Assoluto: la sua forma non è più quella della deduzione logica (di

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la nozione di Dio in Schelling^ unisce libertà ed esistenza necessaria, ma il prezzo è la divisione della filosofia in ‘positiva e ‘negativa : la filosofia negativa fornisce la deduzione a priori della necessità con­ cettuale di cosa Dio e l’universo sono. Tuttavia questa quiddità (WasSeiri) non può mai spiegare il fatto che Dio e l’universo sono (è il proposito della filosofia positiva quello di funzionare come una sorta di empirismo trascendentale, e di ‘testare’ la verità delle costruzioni razionali nella vita reale).

un sistema) ma quella dei dialogo. La filosofia come narrativa è il processo di rimem­ branza del passato dell’Assoluto; in quanto tale, esso implica una divisione socratica tra ‘il sapere che non sa’ (Socrate) e ‘l’ignoranza che sa’ (l’interlocutore sottoposto a domande): colui che sa pone domande all’interlocutore per penare la conoscenza nascosta die l’interlocutore possiede, ma di cui è inconsapevole, dalle profondità oscure alla luce del giorno. E come provare a ricordare un nome dimenticato: una parte di noi (la parte che non sa) cerca il nome nell’altra parte in cui sappiamo che il nome è nascosto. C’è una grande tentazione a concepire lungo le stesse linee la relazione tra l’ana­ lista e l’analizzante nel processo psicoanalitico: la posizione dell’analista non è ca­ ratterizzata dalla stessa ‘ignoranza sapiente’? E, dall’altra parte, non è il presupposto fondamentale della psicoanalisi la presenza, nell’inconscio dellanalizzante, di una conoscenza che egli stesso non sa? Schelling collega questi due poli alla differenza sessuale: la donna possiede una conoscenza oscura, passiva, silente e intuitiva che dimora nelle profondità insondabili della Terra — lei ‘sa più di quanto si rende con­ to’, è inconsapevole di sapere - laddove è compito dell’uomo di sondare dall’alto in queste profondità, c di dissotterrare la Saggezza lì nascosta... Questa differenza si sovrappone a quella della coppia di Verità c Conoscenza: la Verità è una (come già sapeva Nietzsche), mentre l’uomo si sforza di portare questa Verità alla luce del gior­ no - cioè al livello della conoscenza esplicita — per mezzo di un’indagine dialogica. (In maniera analoga, Richard Wagner ‘sessualizzò’ la relazione tra musica e poesia: il poeta è un uomo il cui compito è di fecondare il femminile che è la musica...). Nessuna meraviglia, allora, che - a proposito della coppia analoga di arte e scienza - Schelling abbia scritto la prima versione del freudiano Wo es war, soli ich werderr. dove l’arte si trova (con le sue intuizioni), lì la scienza (con la sua artico­ lazione concettuale) dovrebbe arrivare. Per dissipare l’impressione sbagliata per cui stiamo trattando solo di variazioni oscurantiste sul tema delle profondità insonda­ bili della Verità a cui la nostra conoscenza può solo approcciarsi asintolHqticamente, senza mai raggiungerla, basti ricordare la versione marxista di Alain Badiou: dove si trova la confusa e spontanea ideologia di massa, lì il partito comunista dovrebbe arrivare per organizzare la coscienza di massa.

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La politica schellinghiana T a suddetta distinzione tra i tre stadi del pensiero di Schelling JL—/— specialmente tra il secondo e il terzo stadio, dominato dal progetto dei Weltalter e dell’ultima filosofia ‘positiva’ - è di cruciale importanza se vogliamo comprendere correttamente la dimensione politica schellinghiana. Ciò che avviene nel passaggio dal secondo stadio al terzo — cioè in conseguenza dell’esaurimento del proget­ to dei Weltalter - è una ‘regressione’ nell’ontologia tradizionale: per evitare lo stallo in cui si è trovato irretito Schelling ha fatto ricorso all’apparato concettuale aristotelico. Nella ‘filosofia positiva l’intero edificio ontologico precedente è reinterpretato per adattarsi alla cor­ nice delle coppie tradizionali di forma e materia, essenza ed esistenza, possibilità e attualità, e così via. Lo sforzo gigantesco dei frammenti dei Weltalter per soppiantare la filosofia speculativa ‘negativa’ con la storia dell’Assoluto, con la narrativa delle ‘età’ dello sviluppo divino, spiana la strada a una nuova divisione del lavoro tra ‘filosofia negati­ va’ (concepita per trattare l’aspetto formale, logico-dialettico, cioè le essenze, le verità concettuali) e ‘filosofia positiva’ (concepita per trat­ tare l’aspetto materiale, ciò che è positivamente dato o, per usare un tipico gioco di parole schellinghiano, ciò che è letteralmente ‘fuori di testa: Dio realmente esistente in opposizione al Dio meramente concepito, alla nozione di Dio). Si finge di risolvere lo stallo sempli­ cemente tenendo separati i due aspetti. Bisogna essere particolarmente attenti leggendo i testi in cui ha luogo il passaggio dalla problematica dei Weltalter alla ‘filosofia po­ sitiva’, dal momento che Schelling spesso continua a usare gli stessi termini con significati totalmente diversi, alle volte persino diret­ tamente opposti. Prendiamo ad esempio il termine ‘Esistenza: nel saggio sulla libertà, l’esistenza di Dio è identificata col Logos (è solo emettendo una Parola che Dio esiste strido sensu\ la pre-logica ‘na­ tura in Dio’ è semplicemente l’oscuro Fondamento dell’Esistenza), mentre nella ‘filosofia positiva’, l’esistenza è Tessere-dato’ pre-razionale di una cosa che non può essere dedotta dal suo concetto; in quanto tale è opposta all’essenza (al Logos che definisce l’universale essenza-possibilità di una cosa), interamente in linea con l’ontologia tradizionale. Dall’inedita coppia Fondamento/Esistenza, che mina proprio la fondazione della metafisica tradizionale, siamo dunque tornati alla coppia tradizionale Essenza/Esistenza.

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È lo stesso con la coppia di espansione e contrazione: nei Weltalter ‘espansione’ esprime l’amore di Dio, il suo ‘darsi’, ‘contrazione’ esprime la sua furia distruttiva, il suo egotistico ritirarsi-in-Sé. Nella ‘filosofia positiva abbiamo ancora un’inversione: l’espansione j qui identificata con la furia distruttiva che attira ogni essere finito, li­ mitato e ben delineato all’interno del suo vortice informe, mentre la forza contrattiva è considerata creativa, formativa, come un’at­ tività che fornisce cose con una forma stabile che sola garantisce la loro consistenza ontologica. Questa inversione è anche chiaramente condizionata dalla reiscrizione del pensiero schellinghiano nel qua­ dro dell’ontologia tradizionale che opera con la coppia concettuale di materia informe e forma come intrinseco limite di una cosa, la ‘corretta misura (la coppia platonica peiros!apeirony l’entelechia ari­ stotelica). Habermas ha sottolineato lo sfondo politico di questi tre stadi del pensiero schellinghiano.44 Lo Schelling della ‘filosofia dell’identità’ è un classico pensatore borghese che concepisce lo Stato moderno e l’ordine legale da esso garantito come l’unica possibile cornice del­ la libertà umana. Lungi dal coercizzare la libertà, l’ordine legale ne garantisce la sola fondazione, dal momento che senza la regola della legge la libertà inevitabilmente degenera in una dispotica auto-vo­ lontà. In chiaro contrasto, l’ultimo Schelling della ‘filosofia positiva’ è effettivamente ‘reazionario’: egli riconosce pienamente il carattere ‘repressivo’ del potere dello Stato, ovvero l’irriducibile e costitutivo antagonismo tra lo Stato e i suoi soggetti. È pienamente consapevole di come il potere dello Stato alla fine constrasti sempre la libertà dei suoi soggetti, di come rimanga sempre un potere straniero che esercita pressione sui soggetti, di come i soggetti non ‘interiorizzino’ mai davvero il potere dello Stato e lo esperiscano come il ‘loro’, come un’espressione della loro più intima volontà. In breve, per porla nei tradizionali termini marxisti, Schelling riconosce pienamente il ca­ rattere alienato dello Stato. Tuttavia, la conclusione che traccia non è l’idea rivoluzionaria della necessità di ‘abolire’ il potere dello Stato: egli è del tutto a favore dello Stato e del carattere inviolabile, incon­ dizionato, della sua autorità. Egli ragiona in questo modo: l’uomo è un essere peccatore, la nostra stessa esistenza porta il marchio della 44 Cfr. Jùrgen Habermas, “Dialektischcr Idealismus im iibergang zum Materialismus - Gcschichtphilosoplùsche Folgcrungen aus Schelling Idee einer Contra­ don Gottcs”, in Theorie uvei Praxis, Luchterhand, Berlino 1969, pp. 108-161.

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caduta del primo uomo, che ha preferito la superbia all’amore, e lo Stato è precisamente la punizione per questa falsa superbia. 11 potere dello Stato è dunque letteralmente divino: la punizione di Dio per la superbia egotistica dell’uomo e per la sua ribellione contro la sua autorità. Con la caduta l’uomo ha perso irrimediabilmente l’abilità di condurre la sua vita di comunità nello spirito dell’amore umile. Se si deve prevenire l’universale massacro egotistico, un potere su­ periore è necessario per disciplinare l’uomo, per imbrigliare il suo egotismo e la sua falsa superbia, e questa autorità non può che essere lo Stato. Quello che abbiamo qui è una conseguente apologia teolo­ gica del potere dello Stato: la stessa esistenza del potere dello Stato reca testimonianza del fatto che l’uomo è una creatura peccatrice, reca testimonianza della sua incapacità di condurre i suoi affari au­ tonomamente... Sorprendentemente, tuttavia, lo Schelling ‘di mezzo’ traccia da queste stesse premesse l’opposta, ‘rivoluzionaria’, conclusione: lungi dall’agire come un’autorità pacificatrice che imbriglia il nostro ego­ tismo, lo Stato è il Male personificato, materializzato, un’autorità che terrorizza la società, un potere estraneo, un parassita del corpo socia­ le, e per questo la sua abolizione è un sine qua non di una società li­ bera. Questo Schelling è certamente molto vicino a Marx: lo Stato è un’unità falsa esternamente imposta che nasconde la divisione anta­ gonistica della società. Esso funziona come sostituto per la mancanza di vera unità sociale. In contrasto con Hegel, per Schelling (persino per l’ultimo Schelling) lo Stato non è un’attualizzazione della Ra­ gione ma sempre un sostituto contingente, inautentico, della vera unità perduta. Come ha osservato Gérard Bensussan,45 per Schel­ ling l’intera problematica della politica e dello Stato giace sotto il doppio segno àe\\' inversione e del mancato compimento (rispetto alla vera unità): lo Stato è un’unità meccanica invertita, persino perverti­ ta, falsa, violentemente imposta, nel migliore dei casi un’imperfetta indicazione-imitazione di una vera unità a venire, ma mai l’unità compiuta. Vedere nello Stato la personificazione della necessità ra­ zionale significa accettare apologeticamente l’ordine reale delle cose come necessario, e rimanere ciechi di fronte al fatto che questo or­ dine è contingente, qualcosa che potrebbe anche essere differente, o potrebbe non essere affatto. 45 Cfr. Gérard Bensussan, “Schelling - une politiquc négative”, in Le dernier Schelling, cit„ pp. 71-86.

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Questo significa che l’ultimo Schelling ‘reazionario’ non è da congedare a cuor leggero: egli percepiva chiaramente come, a causa dell’originale caduta dell’uomo — a causa, cioè, del suo costituivo ‘es­ sere fuor di sesto’, della perdita della primordiale unità organica - lo Stato risultava essere una formazione-sostituto contingente, non una ‘naturale’, autentica, forma di unità sociale. Precisamente in quanto tale, e proprio per questa ragione, esso è inevitabile. Schelling dun­ que minava la falsa alternativa se sia opportuno glorificare lo Stato in quanto regno etico o sforzarsi di abolirlo in quanto strumento di oppressione.46

La dissonanza primordiale

TJ icapitoliamo: il punto cruciale, di svolta, nella storia dell’As-LVsoluto è l’atto divino di Ent-Scheidung, la risoluzione che, re­ spingendo il vortice delle pulsioni, la loro ‘folle danza’, nell’oscurità del ‘passato eterno’, fonda l’universo della ‘progressione’ temporale Z^w-luce-desiderio. Come si rapporta questo atto alla storia umana*. La relazione tra le divine ‘età del mondo’ e la storia umana è quella di una ripetizione-, in primo luogo, il movimento rotatorio di contra­ zione ed espansione, questa ‘follia divina, è liberato dall’intervento della Parola divina, e cioè dall’atto della creazione. Tuttavia, riguardo alla caduta dell’uomo, questo spostamento dal movimento rotatorio senza-tempo/eterno alla progressiva linea temporale si ripete all’in­ terno della storia umana. La storia umana stessa è dunque divisa in due grandi epoche, l’epoca pagana del movimento rotatorio (l’eterno ‘ritorno dell’uguale’, la circolare ascesa e caduta delle grandi civiltà pagane sta chiaramente sotto il segno del vortice pre-simbolico delle pulsioni che, presto o tardi, riduce ogni formazione ‘progressiva in 46 Dobbiamo stare attenti a non confondere la posizione di Schelling con il luogo comune liberale secondo cui nessuno Stato è perfetto, così che possiamo avvicinarci solo all’ideale c migliorare gradualmente la forma esistente dello Sta­ to: questa distinzione liberale tra lo Stato perfetto inaccessibile e le sue imperfette approssimazioni empiriche dovrebbe essere abbandonata per una più pertinente distinzione tra lo Stato esistente e il processo del suo divenire, la ‘scarificazione’ (nel senso in cui Heidegger distingue tra il ‘mondo’ e la sua ‘mondificazione {Wdtung\\ o Ernesto Laclau tra l’ordine e il suo ‘ordinamento’) — ciò che si perde nello Stato in quanto istituzione positiva, esistente è il processo radicalmente contingente del suo divenire.

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cenere) e V epoca cristiana del progresso teleologico lineare (il continuo avvicinamento all’ideale di libertà regolato dal Logos divino che in­ fine, nella Rivelazione di Cristo, ha la meglio sul distruttivo vortice delle pulsioni). Nella misura in cui lo stesso spostamento dal dominio del movi­ mento rotatorio al dominio del progresso lineare si ripete nella storia cristiana nella forma del passaggio dalle società medievali del circola­ re ‘ritorno dell’uguale’ alle moderne società capitaliste dell’incessante progresso ed espansione, si è tentati, in spirito storico-materialista ‘riduzionista’, di ancorare la grande narrativa schellinghiana delle di­ vine Età del Mondo a un evento ‘ontico’ molto preciso e circoscritto: il passaggio dalla comunità tradizionale, pre-moderna, alla moderna società capitalista. Vale a dire, quella che Schelling propone è una narrativa delle ‘età’ dell’Assoluto stesso. Questa narrativa, il più pos­ sibile anti-lyotardiana, il più possibile ampia, si offre come il miglior terreno di prova per l’idea provocatoria di Frederic Jameson secondo cui tutte le narrative sono fondamentalmente variazioni di un unico e solo tema, quello del passaggio dalla comunità organica ‘chiusa’ alla moderna società capitalista. Ogni narrativa alla fine tenta di fornire una risposta all’enigma di come le cose si siano scardinate, di come i vecchi legami ‘autentici’ si siano disintegrati, di come l’equilibrio or­ ganico di un movimento circolare che caratterizza le società tradizio­ nali abbia ceduto il passo alla società moderna, ‘alienata, squilibrata e individualista in cui viviamo. Dunque non è forse il passaggio schellinghiano dal movimento rotatorio al progresso lineare questa stessa storia dell’emergenza della moderna società capitalista elevata (o gonfiata) al livello dell’Assoluto? Com’è connessa l’emergenza della Parola con la pulsante ‘rota­ zione’ in Dio, vale a dire con lo scambio di espansione e contrazione, di estrinsecazione e interiorizzazione? Precisamente, come la Parola scarica la tensione del movimento rotatorio, come media l’antagoni­ smo tra la forza contrattiva e quella espansiva? La Parola è una con­ trazione nella forma del suo esatto opposto, di una espansione - ovvero, pronunciando una parola, il soggetto contrae il suo essere fiori di sé; egli ‘coagula il nucleo del suo essere in un segno esterno. Nel segno (verbale), io, per così dire, trovo me stesso fiori di me, pongo la mia unità fuori di me, in un significante che mi rappresenta: Sembra un fatto universale che ogni creatura che non possa trat­ tenersi in se stessa o contrarsi nella pienezza del sé, si contragga

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fuori di sé, verso il luogo, cioè, a cui appartiene il miracolo della formazione della parola, che è genuina creazione del tutto interno, allorché non sia possibile restare ulteriormente presso sé.47

Questa nozione di simbolizzazione (del pronunciamento della Parola) come contrazione del soggetto fuori di sé, ovvero nella for­ ma del suo esatto opposto (dell’espansione), annuncia la nozione strutturale/differenziale di significante come elemento la cui identità rappresenta il suo esatto opposto (per pura differenza). Noi entria­ mo nell’ordine simbolico nel momento in cui un elemento funziona come indice del suo opposto (il momento dell’odio del leader politi­ co nei confronti dei ‘nemici’ è percepito dai sudditi proprio come la forma dell’apparenza del suo illimitato amore per il popolo; il mo­ mento dell’apatica indifferenza di una femme fatale è percepito dai suoi ammiratori come segno della sua intensa passione, ecc.). Per lo stesso e identico motivo per Lacan il fallo è il significante ‘puro’: esso sta per il suo opposto, ovvero funziona come significante della castra­ zione. La transizione dal reale al simbolico, dal regno dell’antagoni­ smo pre-simbolico (di contrazione ed espansione) all’ordine simbo­ lico in cui la rete dei significanti è correlata al campo del significato, può aver luogo solo per mezzo di un significante ‘puro’ paradossale, un significante senza significato. Per far emergere il campo del signi­ ficato, per fare in modo che le serie di significanti significhi qualcosa (abbia un senso determinato), ci deve essere un significante (un qual­ cosa) che sta per niente’, un elemento significante la cui stessa presen­ za sta per l’assenza di significato (o meglio, per l’assenza tout court). Questo ‘niente’, naturalmente, è il soggetto stesso, il soggetto come $, l’insieme vuoto, il vuoto che emerge come risultato della contrazione in forma di espansione. Quando contraggo me stesso fuori di me, mi deprivo del mio contenuto sostanziale. La formazione della parola è dunque l’esatto opposto della primordiale contrazione/abiezione per mezzo della quale, secondo le Lezioni di Stoccarda, Dio espelle - rimuove, scaccia, respinge fuori di sé - la sua vera faccia, il vortice delle pulsioni, e dunque si costituisce nella sua idealità, come libero soggetto. 11 primordiale rifiuto è un atto di supremo egotismo dal 47 F.W.J. Schelling, Le età del mondo, qui però tratto dalla bozza I del 1811, non tradotta in italiano, per cui si è fatto ricorso all'edizione tedesca (citata anche da Zizek): Die Welmlter Fragmente. In den Urfassungen von 1811 und 1813, Manfred Schròtcr (cur.), Bicderstein, Monaco 1946 (rist. 1979), pp. 56-57 (trad. mia).

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momento che tramite questo atto Dio, per così dire, ‘si sbarazza della merda che ha in sé’ per purificare e tenere per sé la preziosa essenza spirituale del suo essere. Mentre nella formazione della parola Egli articola fuori di sé, dischiude, si (ar)rende a questa essenza davvero ideale-spirituale del suo essere. In questo preciso senso la formazione della Parola è l’atto supremo e il caso paradigmatico della creazione'. creazione’ significa che io rivelo, consegno all’Altro, la più intima essenza del mio essere. Il problema, chiaramente, è che questa seconda contrazione, que­ sto originale atto di creazione, questo ‘riunire fuori di sé’, è in ultima istanza sempre inappropriato, contingente, esso ‘tradisce’ il sogget­ to, lo rappresenta inadeguatamente. Qui Schelling annuncia già la problematica lacaniana del vel, della scelta forzata che è costitutiva dell’emergenza del soggetto: o il soggetto persiste in se stesso, nella sua purezza, e perciò si perde in una vuota espansione, o esce fuori di sé, si estrinseca, ‘contraendo’ o ‘assumendo’ un tratto significante, e perciò si aliena — e cioè non è più ciò che è, il vuoto del puro $: ...il soggetto non può arrivare a possedersi come ciò che esso r, giacché appunto nel rivestirsi di sé diventa un altro; questa è la contraddizione fondamentale, e, potremmo dire, l’infelicità di ogni esistenza — giacché o esso si lascia com’è, e allora è come nulla; o esso si riveste, e allora è diverso e dissimile da sé, - e non più libero dall’esistenza come prima, ma impastoiato in essa — esso sente que­ st’esistenza come qualcosa che gli si è tirato addosso, e quindi come qualcosa di accidentale.48 Qui risiede la riformulazione schellinghiana della classica que­ stione ‘perché c’è qualcosa e non nulla?’ Nel primordiale vel il sog­ getto deve decidere tra il ‘niente’ (l’infondato/abisso della libertà a cui manca tutto l’essere oggettivo - in materni lacaniani: puro $) e il ‘qualcosa’, ma sempre nel senso irriducibile di «qualcosa in più, qualcosa in aggiunta, qualcosa di estraneo/assunto, per certi versi qualcosa di contingente».49 Il dilemma è perciò il seguente:

...o esso si ferma (rimane come è, e quindi puro soggetto), e al­ lora non c’è alcuna vita, cd esso stesso è come nulla; o vuole se stesso, 41 F.WJ. Schelling, Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna. Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 81-82. 49 Cfr. Ibidem.

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e allora è diverso e dissimile da sé, sui dissimile. Egli si vuole bensì come tale [com’è nella sua essenza]; ma questo appunto gli è im­ possibile immediatamente-, nell’atto stesso di volere, egli già diventa diverso e si deforma.50

Tutto ruota intorno all’atto originario per il quale ‘niente’ diventa ‘qualcosa e l’intera rivoluzione filosofica di Schelling è contenuta, condensata, neH’afFermazione che questo atto che precede e fonda ogni necessità è in se stesso radicalmente contingente — proprio per questo non può essere dedotto, inferito, ma solo presupposto re­ troattivamente. Questo atto implica una primordiale, radicale ed ir­ riducibile alienazione, una distorsione dell’equilibrio originario, una sorta di costitutivo ‘essere fuor di sesto’: «Tutta questa costruzione incomincia dunque col sorgere dell’accidentale primo - del dissimile da sé —; essa incomincia con una dissonanza, e deve incominciare così».51 Allo scopo di enfatizzare il carattere non-spontaneo, ‘artifi­ ciale’, corrotto’, di questo atto, Schelling gioca sui molteplici signi­ ficati del verbo tedesco anziehen-. essere attratto, attirato da qualcosa; contrarre una malattia; indossare dei vestiti; agire in un modo fal­ so, finto. A proposito di questa ultima caratteristica, Schelling evo­ ca direttamente ciò che è stato in seguito concettualizzato (da John Elster) come ‘stati che sono essenzialmente sottoprodotti’:

Ci sono certe proprietà morali e altre proprietà, che si hanno pre­ cisamente in quanto non si hanno, o, come dice la lingua tedesca, in quanto non ce le attiriamo addosso [non ce ne rivestiamo]. Per es., la vera grazia è possibile precisamente soltanto in quanto si ignora di averla; invece una persona che ha coscienza della sua grazia, che se la tira addosso [se ne riveste] cessa subito di essere graziosa, e se si atteggia come una graziosa, diventa piuttosto il contrario.52 Le implicazioni sono molto radicali e di ampia portata: il falso è l’originale, cioè, ogni tratto positivo, ogni ‘qualcosa che siamo, è fondamentalmente ciò che indossiamo’. A questo punto è consuetudine opporre Schelling a Hegel, alla necessità logica hegeliana dell’immanente auto-dispiegamento del­ l’idea assoluta. Prima di cedere a questo luogo comune, comunque, 50

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Ivi, p. 82. Ibidem. Ivi, p. 81.

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varrebbe la pena soffermarsi a considerare il fatto che Hegel sviluppa un analogo vel nella Fenomenologìa dello Spirito a proposito dell’Anima Bella e dell’atto. La scelta che affronta il soggetto è: o l’inattività o un atto che è per definizione contingente, marcato con un conte­ nuto meramente soggettivo. Questa contingenza dell’atto disturba l’equilibrio della Sostanza (sociale) in cui il soggetto è conficcato. La reazione della Sostanza inesorabilmente messa in moto porta al fallimento dell’impresa del soggetto53. La vera integrazione critica 53 A un livello più generale, la contropane hegeliana della divisione schellinghiana tra il soggetto puro (S) e il carattere artificiale-contingente che il soggetto ‘indossa’ è la contraddizione stessa: in Hegel la ‘contraddizione’ designa il fatto che il soggetto ‘è’ un carattere che definisce la sua identità e allo stesso tempo la negazione di questo carattere. Di conseguenza, quando Hegel afferma contro Aristotele che S può essere sotto il medesimo riguardo ‘P e non-P’, si deve stare attenti a non lasciarsi sfuggire il suo punto: non si tratta qui di un S fisso, auto-identico - il passaggio da P a non-P cambia lo status di S, dividendolo daH’interno. Nella misura in cui P (il predicato) è sempre un carattere simbolico, la versione lacaniana della contraddi­ zione è: ‘$ è simultaneamente, sotto il medesimo riguardo, S] e a' - il soggetto è allo stesso tempo il significante che lo rappresenta e l’oggetto che colma il divario del fallimento della rappresentazione (simbolica). (Per quanto riguarda la contrad­ dizione’ hegeliana, vedi il capitolo 4 di Slavoj Zizek, Tarrying with thè Negative, Duke University Press, Durham, NC 1993). A un livello in un certo senso diverso, un perfetto esempio di contraddizione hegeliana è offerto dalla dialettica della Causa sociale: la contraddizione non risiede nel fatto che gli individui postulano/sostengono la loro Causa (Dio, Nazione, Stato ... uno Stato o una Nazione sopravvivono solo nella misura in cui gli individui sono impegnati su tale conto) c sono allo stesso tempo posti da essa (gli individui sono esseri sociali reali solo come membri di qualche comunità spirituale che è la loro Sostanza effettiva); essa risiede, piuttosto, nel farro che gli individui postulano la loro Causa come indipendente da loro stessi, dalla loro attività, e cioè come un In-sé- TIn-sé’ di una Causa è sempre in-sé ‘per noi’, per un soggetto. Basti ricordare l’esempio della natura e del suo sfruttamento da parte dell’uo­ mo: la natura appare come un ‘In-sé’ effettivo - come un meccanismo obbediente a regole oggettive - solo ‘per noi’, per il soggetto che non è più del tutto immerso nel contesto determinato del suo ambiente, ma è capace di superare i suoi particolari interessi vitali e di assumere verso la natura la distanza deirosservazione teoretica ‘disinteressata’. Per un animale, la natura non è ‘in-sé’ ma un ambiente vivente, una collezione di entità che stimolano il suo interesse nella misura in cui soddisfano alcuni dei suoi bisogni oppure rappresentano una minaccia: la natura può essere percepita come ‘indipendente’ solo dall’uomo, che non è direttamente parte di essa ma se ne sta al di sopra. Questa distanza rende possibile lo sfruttamento della natura per mezzo della ‘astuzia della ragione’: si tratta qui anche della contraddizione’, dal momento che possiamo sfruttare la natura per i nostri scopi, ridurla a nostro stru­ mento, solo nella misura in cui riconosciamo in essa il suo ‘In-sé’ c la concepiamo come un meccanismo che funziona a modo suo a prescindere da noi c dai nostri bisogni.

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‘materialista’ a Schelling va ricercata altrove: in Marx che, nella sua dialettica della forma-merce, comincia dal bisogno del Valore astrat­ to-universale di incorporarsi in un valore d’uso contingente, di ‘in­ dossare’ un valore d’uso, di apparire nella forma di un valore d’uso. Comunque, come egli si affretta ad aggiungere, almeno due valori d’uso (merci) sono necessari se un Valore deve esprimersi, affinché il valore d’uso della prima merce dia corpo al Valore della seconda. E la definizione di Lacan del significante come ciò che ‘rappresenta il soggetto per un altro significante’ equivale, in ultima istanza, alla stessa affermazione di un irriducibile dualismo: se un soggetto deve essere rappresentato da un significante ci deve essere una minima catena di due significanti, uno dei quali rappresenta il soggetto per l’altro.

‘Castrazione simbolica’ T1 punto cruciale da non lasciarsi sfuggire qui è che nella misura Ain cui stiamo trattando col Soggetto, la ‘contrazione’ in que­ stione non è più la primordiale contrazione per la quale la Libertà originaria cattura l’essere e dunque rimane catturata nel movimen­ to rotatorio di contrazione ed espansione, ma è la contrazione del soggetto fuori di sé, in un segno esterno, che risolve la tensione, la ‘disputa interna’, tra contrazione ed espansione. Il paradosso della Parola è dunque che la sua emergenza risolve la tensione dell’anta­ gonismo pre-simbolico, ma a un prezzo: la Parola, la contrazione del Sé fuori di Sé, implica un’irrimediabile estrinsecazione-alienazione. Con l’emergenza della Parola passiamo daH’£»frZ£0nù>ft0 alla hege­ liana contraddizione tra $ e S}, tra il soggetto e la sua inadeguata rappresentazione simbolica. Questa ‘contingenza’ della contrazione nella Parola punta verso ciò che, nei cari vecchi termini strutturalisti, è chiamata ‘l’arbitrarietà del significante’. Schelling afferma l’irridu­ cibile divario tra il soggetto e un significante che il soggetto deve ‘contrarre’ se vuole acquisire esistenza (simbolica): il soggetto come $ non è mai adeguatamente rappresentato in un significante.54 Questa

54 Cfr. Andrew Bowie, Schelling and Modem European Philosopby, Routledge, New York c Parigi 1993, pp. 156-157. Bowie conclude da questo fallimento che la matrice filosofica della riflessione è inadeguata, dal momento che presuppone una rappresentazione riflettente ‘riuscita’ del soggetto nel suo segno. Tuttavia, il

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contraddizione’ tra il soggetto e la sua rappresentazione simbolica (necessariamente, costitutivamente inadeguata) fornisce il contesto per la formulazione ‘lacaniana di Schelling secondo cui Dio-Assol uto diventa inesprimìbile proprio nel momento in cui Egli si esprime, cioè pronuncia la Parola. Prima della sua estrinsecazione simbolica non si può dire che il soggetto sia ‘inesprimibile’ poiché il mezzo dell’espressione stessa non è ancora dato - o, per evocare la formu­ lazione precisa di Lacan, il desiderio è non-articolabile precisamente perché già-sempre articolato in una catena significante. In breve, per mezzo della Parola il soggetto alla fine trova se stes­ so, viene a sé: egli non è più un mero sconosciuto in cerca di se stesso dal momento che, nella Parola, raggiunge direttamente se stesso, si pone in quanto tale. Il prezzo, tuttavia, è l’irrimediabile perdita dell’auto-identità del soggetto: il segno verbale che sta per il soggetto — in cui il soggetto pone se stesso come auto-identico — porta il mar­ chio di una dissonanza irriducibile, non si adatta’ mai al soggetto. La necessità paradossale per la quale l’atto di tornare-in-sé, di trovarsi, immediatamente, nella propria realizzazione, assume la forma del suo opposto, della radicale perdita della propria auto-identità, mani­ festa, cioè, la struttura di ciò che Lacan chiama castrazione simboli­ ca’. Questa castrazione implicata nel passaggio alla Parola può anche essere formulata come reduplicazione, divisione, di un elemento in se stesso e del suo posto nella struttura. A proposito della Parola, Schelling si riferisce alla logica medie­ vale in cui reduplicatio designava l’operazione con cui un termine non era più concepito simpliciter ma veniva posto in quanto tale-, reduplicatio si riferisce al minimo divario costitutivo che separa per sempre un elemento dal suo ri-posizionamento nella rete simbolica. Qui Hogrebe55 evoca la differenza tra un elemento e il suo posto (Piatì) in una struttura anonima. A causa di questa struttura della castrazione lo Spirito è sovrannaturale o extra-naturale, sebbene sia cresciuto in seno alla Natura. La Natura ha un’inestirpabile tendenza

fondamentale paradosso della riflessione assoluta hegeliana non sta proprio nel fat­ to che ‘riesce’ nel suo fallimento? Tale fallimento nel trovare una rappresentazione adeguata non sostiene forse il soggetto? E non è questo fallimento a essere responsa­ bile della trasformazione di S in 5, del soggetto ‘patologico’, completo e sostanziale in un soggetto come pura negatività, come punto vuoto di auto-relazione? Cfr. il Capitolo 2 di Slavoj Zizek, Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina, Milano 2001. 55 Cfr. Wolfram Hogrebe, Pràdikation und Genesis, cit., pp. 102-103.

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a ‘parlare chiaro’, è impegnata nella ricerca di un Parlante {die Suche nach dem Sprecher) la cui Parola la porrebbe in quanto tale. Questo Parlante, tuttavia, può essere solo un’entità che non è naturale in sé, non è parte della Natura, ma Altro dalla Natura. Oppure - per met­ terla in modo leggermente diverso — la Natura è in cerca di se stessa, lotta per se stessa, ma può ‘trovarsi’, raggiungersi, solo fuori di sé, in un mezzo che non è naturale in sé. Nel momento in cui la Natura diviene qualcosa che può essere detto in proposizioni sensate (das Aussprechlichè) smette di essere ciò che parla {das Aussprechendè}'* il potere di parlare è lo Spirito come $, il vuoto senza sostanza della non-Natura, la distanza della Natura da sé. In breve, il paradosso fondamentale della simbolizzazione - il paradosso che il termine ‘castrazione simbolica’ cerca di cogliere — è che la Natura può raggiungere sé, la sua auto-identità, solo al prezzo di un radicale decentramento: può trovare se stessa solo in un mezzo fuori di sé. Un padre diventa padre ‘in quanto tale’, portatore di au­ torità simbolica, solo nella misura in cui assume la sua ‘castrazione’, la differenza tra sé nell’immediata realtà del suo essere e il posto nella struttura simbolica che garantisce la sua autorità. L’autorità paterna è radicalmente ‘decentrata’ per quanto riguarda il padre in quanto persona in carne e ossa, ovvero, è l’anonima struttura della Legge simbolica che parla attraverso lui. Questo paradosso può ovviamente anche essere formulato nei termini dell’opposizione hegeliana di in-sé e per-sé: nella misura in cui un oggetto è ‘in sé’, esso non è ancora pienamente se stesso, non ha ancora trovato se stesso, acquisito la sua auto-identità. Tuttavia può diventare ‘per sé’ solo per mezzo di una reduplicatio che lo de­ centri. Vale a dire che il prezzo per acquisire una piena auto-identità è che l’oggetto in questione non sia più solo se stesso ma se stesso più una ri-posizione supplementare, essenziale se l’auto-identità deve es­ sere realizzata. L’opposizione in-sé/per-sé, dunque, implica la logica paradossale di un incontro fallito, la divisione dell’identità in un ‘non ancora’ e un ‘non piu. Per chiarire questo punto, basti richia­ mare la problematica derridiana del dono:57 nel momento in cui un dono è riconosciuto dall’altro ‘in quanto tale’, come dono, non è più un puro dono ma è già catturato nella logica dello scambio - così

56 F.W.J. Schelling, Le età del mondo, eie., p. 90. 57 Si veda a tal proposito Jacques Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, Rafìàello Cortina, Milano 1996.

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il dono è sempre nel mezzo, o non è ancora un dono, un dono solo ‘in sé’, o non più un dono, dal momento che questo riconoscimento (il suo porsi come un dono ‘per sé’, ‘in quanto tale’) gli fa perdere lo status di dono. Allo stesso modo funziona per ‘l’invenzione’ di qual­ cosa di nuovo: per essere pienamente realizzata come invenzione, l’atto dell’invenzione deve essere riconosciuto come tale nell’ambito del sapere esistente, integrato in esso, accettato come invenzione, ma nel momento in cui questo avviene, l’invenzione non è più una pura invenzione ma diventa parte del sapere ufficiale.58 Questa distinzione schellinghiana tra il movimento rotatorio delle pulsioni e l’universo del logos, della identità-e-differenza sim­ bolica, fornisce anche il corretto sfondo per il concetto lacaniano di identificazione: l’identificazione ha luogo al livello del logos, essa è sempre identificazione con un significante. In quanto tale viene dopo ‘l’impossibile’ relazione tra una pulsione reale e il suo oggetto, objet petit a (una pulsione è condannata a ruotare per sempre intorno alla sua causa-oggetto, vale a dire, può solo circondarla, girare intorno al suo posto, senza mai raggiungerla). In altre parole, l’identificazione simbolica (in fin dei conti l’identificazione col significante padrone che rappresenta il soggetto) compensa ‘l’impossibilità’, il fallimento strutturale, della relazione traumatica del soggetto con l’objet a\ il soggetto che si identifica (con un tratto significante) è sempre-già diviso nella sua relazione con a, e si identifica con un significante per risolvere (o almeno offuscare) lo stallo dell’ambigua attrazione/re­ pulsione della sua relazione con a. Il problema con l’identificazione è che questo concetto è conce­ pito di solito in un senso troppo ristretto. Cioè la discussione sul­ l’identificazione nel campo politico è generalmente incentrata su quella che Freud definisce, nella sua Psicologia delle masse, come la prima forma di identificazione: l’identificazione verticale con l’og­ getto come Leader che costituisce il collegamento orizzontale tra i soggetti. Le altre due forme di identificazione (messe da Lacan sotto 5» E per quanto riguarda il terzo termine, Tin-sé-e-per-sé’? Il ‘pcr-sé’ rimane catturato neH’illusione riflessiva secondo cui il suo gesto di reduplicalo ‘rimarca’ (constata, prende nota di) semplicemente qualche in-sé pre-csistcntc; Tin-sé-eper-sé’ interviene quando l’illusione è svanita, cioè quando diventa chiaro che la reduplicano riflessiva ‘si postula retroattivamente, porta avanti l’in-sé che si perde con l’ingresso della riflessione - è la perdita (riflessiva) stessa a costituire l’oggetto perduto...

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un unico concerto) sono forse più interessanti. Freud menziona un gruppo di ragazze in un collegio che si identificano con le esplosioni isteriche delle loro compagne innamorate. In questo modo, attraver­ so questa particolare caratteristica, si identificano con l’essere-innamorate, con la relazione d’amore. Un simile meccanismo metoni­ mico è all’opera nel sogno dal contenuto apparentemente triste che Freud cita in L'interpretazione dei sogni', il soggetto sogna di essere a un funerale. La chiave di questo sogno: al funerale, dove era stato ef­ fettivamente il giorno precedente, il sognatore incontra, dopo lungo tempo, il suo grande amore, che aveva sposato un altro uomo. Ciò che troviamo in questo sogno dunque non è masochismo, né impul­ so di morte, ma un semplice spostamento dalla causa vera, la persona amata. La stessa logica spiega la grande popolarità della problematica dell’alienazione nel capitalismo sviluppato’ (consumismo, perdita di comunicazione autentica, ecc.) nelle società tardo-socialiste. Questa particolare deviazione, questa compassione’ per le angosce di coloro che vivono nel capitalismo sviluppato, rende possibile l’identificazio­ ne, come il povero che è sempre pronto a simpatizzare con le angosce del milionario preoccupato a morte per i suoi investimenti... L’ulteriore punto di Lacan è che l’identificazione simbolica è sem­ pre identificazione con le trait unaire, il tratto unario. Richiamiamo proprio l’esempio che Lacan fa durante il Seminario sull’identifica­ zione (a dire il vero è preso da Saussure): il treno delle 10.45 da Parigi a Lione. Sebbene, materialmente, il treno non sia ‘lo stesso’ (i vagoni e la locomotiva probabilmente cambiano ogni paio di giorni), esso è considerato simbolicamente ‘lo stesso’, e cioè ‘il treno delle 10.45 per Lione’. E anche quando il treno è in ritardo (quando, per esem­ pio, per via di un guasto meccanico, parte alle 11.05), è ancora lo stesso ‘10.45 per Lione’ che, sfortunatamente, è in ritardo... Le trait unaire è dunque il tratto ideale che ci permette di identificare il treno come ‘lo stesso’ anche se non si adatta alle caratteristiche materiali che sono contenute nella sua designazione. Come tale, le trait unaire si situa al confine tra l’immaginario e il simbolico: è un’immagine che, tagliata fuori dalla continuità della ‘realtà’, ha cominciato a fun­ zionare da simbolo. Questo confine è forse meglio illustrato dalla nozione di insignia: un’immagine che funziona come simbolo, come ‘marchio’, rappresenta il suo portatore, anche se egli non possiede più le proprietà che essa designa. Bisogna stare molto attenti a non lasciarsi sfuggire la differenza tra questo concetto di trait unaire e

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la nozione idealista o gesraltista di unità ideale che si ripete come identica nella diversità delle sue realizzazioni empiriche: il punto del­ l’esempio di Lacan (e di Saussure) del treno è che il tratto ‘10.45 per Lione’ rimane valido anche quando è ‘falsificato’ — quando il treno parte realmente, per esempio, alle 11.07.59

Il paradosso della riflessione uesra problematica schellinghiana della dissonanza primordiale nel processo di rappresentazione del soggetto ci per­ mette aT evitare la trappola fatale di accettare troppo velocemente la cosiddetta critica del modello della coscienza riflessiva. Secon­ do questa doxa, non possiamo fondare la nostra esperienza diretta e immediata del senso dell’Essere nella riflessione concettuale, c’è sempre qualche resto che non può essere preso in considerazione per mezzo della riflessione, così dobbiamo presupporre una origi­ nale apertura al mondo’ o auto-cognizione’ pre-ri flessiva che pre­ cede l’auto-coscienza riflessiva... La prima cosa da notare qui è che Schelling stesso, di solito considerato il principale precursore di tale critica, proprio nel gesto di affermare, contro Hegel, la supremazia dell’Essere — cioè il necessario fallimento di ogni tentativo di ridurre l’Essere alla riflessione - sottolinea a più riprese che questa suprema­ zia è completamente ‘vuota’. Come abbiamo appena visto, il punto di Schelling è che se il soggetto deve effettivamente ‘raggiungersi’, ‘porsi in quanto tale’ e acquisire un minimo di auto-cognizione, deve alienare-re se stesso, ‘indossare’ un abito contingente. Un punto an­ cora più importante, tuttavia, è che questa critica della riflessione inevitabilmente rimane irretita in aporie che non sono nient’altro che le buone vecchie aporie hegeliane della riflessione (si tende a

59 A un livello diverso, il tratto unario come significante padrone è il gesto di decisione che risolve l'incerto status degli ‘argomenti’: gli argomenti abbondano sempre, eppure non è mai chiaro in anticipo di che cosa sono argomenti. Una donna, per esempio, ride in un certo modo, fa dei gesti tipici, ecc. - queste caratteri­ stiche possono funzionare come qualcosa che la rendono attraente o come qualcosa che la rendono repellente. (La fine di una storia d’amore è a un passo quando ci repellono proprio quelle caratteristiche che una volta rendevano la persona amata irresistibile.) E il significante padrone è il significante, il tratto che determina come tutti gli altri tratti ci influenzeranno. Cfr. il Capitolo 4 di Slavoj 2jzek, Tarrying with thè Negative.

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dimenticare l’assunto chiave soggiacente alla logica di Hegel: ogni tentativo della riflessione di compiere la completa mediazione di un contenuto immediato fallisce nella misura in cui produce il suo ec­ cesso di immediatezza non-riflessa). Per provare questo punto spo­ stiamoci su Maurice Merleau-Ponty, che ha sviluppato la critica della riflessione con un rigore ineguagliabile decenni fa, molto prima che diventasse di moda:

La ricerca delle condizioni di possibilità è, per principio, po­ steriore a un’esperienza attuale, e ne consegue che, anche se poi si determina rigorosamente il ‘ciò senza cui’ di questa esperienza, esso non potrà mai essere mondato dalla macchia originaria di essere stato scoperto post festum, né divenire ciò che positivamente fon­ da questa esperienza... Pertanto la filosofia riflessiva non potrà mai installarsi nello spirito che essa svela, per vedere, di qui, il mondo come suo correlato. Proprio perché è riflessione, ritorno, ri-conqui­ sta o ripresa, essa non può illudersi di coincidere semplicemente con un principio costitutivo già all’opera nello spettacolo del mondo, di ripercorrere, a partire da questo spettacolo, il cammino stesso che . il principio costitutivo avrebbe seguito in senso inverso. Orbene, la riflessione dovrebbe però realizzare tutto questo, se è veramente ritorno, cioè se il suo punto di arrivo fu anche punto di partenza.00 Qui abbiamo il classico motivo di un mondo-esperienza pre-riflessivo primordiale che non può mai essere recuperato dalla rifles­ sione, o così sembra. Vale a dire: cosa, parlando scrupolosamente, elude il recupero riflessivo? Il rigore filosofico di Merleau-Ponty è attestato dal fatto che egli ha evitato la tentazione di ‘reificare’ que­ sta irrecuperabile eccedenza in un in-sé positivo p re-ri flessivo, e ha fornito la sola risposta adeguata: ciò che in ultima istanza elude la riflessione è il suo stesso atto'.

Il movimento di ripresa, di recupero, di ritorno a sé, il cammino verso l’adeguazione interna, lo sforzo stesso per coincidere con un naturante che è già noi e che si presume dispieghi di fronte a sé le cose c il mondo, sono, appunto come ritorno o riconquista, opera­ zioni seconde di ri-costituzione o di restaurazione che per principio non possono essere l’immagine speculare della costituzione interna 60 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, M. Carbone (cur.), Bom­ piani, Milano 2007, p. 69.

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e dell’instaurazione della riflessione... la riflessione recupera tutto salvo se stessa come sforzo di recupero, illumina tutto tranne la sua propria funzione.61

E ancora, questa aporia, lungi dal rappresentare una minaccia per Hegel (come Merleau-Ponty tende a credere), era stata esplici­ tamente formulata dallo stesso Hegel nella forma dell’opposizione tra riflessione ‘estrinseca e ‘ponente’: nel passaggio dalla riflessione ponente a quella estrinseca, il luogo dell’immediatezza che elude il recupero riflessivo si sposta dalla riflessione stessa al suo punto d’inizio/presupposizione estrinseco. Come suggerisce il termine, la premessa della riflessione ‘ponen­ te’ è che ogni contenuto positivo dato possa essere ‘mediato’, ridotto a qualcosa di ‘posto’, recuperato dall’attività riflessiva. C’è qualcosa, tuttavia, che elude il potere di questa riflessione universale - se stes­ sa, il suo stesso atto. Quando la riflessione diventa consapevole di tale intrinseca limitazione alla sua attività, si ritorna all’immediatez­ za — vale a dire, la riflessione necessariamente (mis)percepisce il suo stesso atto in forma ‘reificata, come l’in-sé di una presupposizione estrinseca. Ciò che è cruciale per impasse della riflessione è pro­ prio questa oscillazione del luogo del suo irrecuperabile centro tra l’in-sé che precede l’attività riflessiva e l’attività riflessiva stessa - e il ‘trucco’ hegeliano, naturalmente, consiste nel risolvere lo stallo assumendo semplicemente l’identità di questi due centri irrecuperabili: la rifles­ sione in-sé che si sforza vanamente di recuperare lo svantaggio, come Achille con la tartaruga, coincide con l’attività riflessiva stessa — l’igno­ ta X della riflessione della vita-esperienza immediata segue, per così dire, la sua stessa coda.. ,62 61 Ivi, p. 58. 62 Tra i popolari film degli ultimi anni, il Frankenstein di Kenneth Branagh rappresenta un caso esemplare di questa iscrizione riflessiva della cornice formale nel contenuto diegetico. È piuttosto azzeccato che in questo film il ruolo del dottor Frankenstein, che mette insieme il mostro con parti e pezzi di diversi cadaveri, venga interpretato dal regista stesso. Vale a dire, il film c indubbiamente un confuso bric-à-brac di frammenti fantasmatici presi da numerosi universi letterari del primo diciannovesimo secolo: sullo scheletro del romanzo di Mary Shelley sono innesta­ ti frammenti da Emily Brontè, Charles Dickens, ecc., col risultato che ciò che lo spettatore ha di fronte è una composizione inconsistente artificialmente resuscitata - in breve, un’entità esattamente come il mostro del dottor Frankenstein, che dun­ que rappresenta all’interno dello spazio diegetico lo stesso principio strutturante del film...

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In altre parole, il modo di spezzare il circolo vizioso della riflessio­ ne non consiste neH’impadronirsi di qualche sostegno pre-riflessivo positivo-immediato esentato dal gorgo riflessivo, ma, al contrario, nel chiamare in causa questo punto d’inizio estrinseco della riflessione, l’immediata vita-esperienza che presumibilmente elude il recupero riflessivo: questa vita-esperienza immediata è ‘sempre-già’ contami­ nata dalla riflessione. Per ripetere la precisa formula di Hegel tratta dalla sua Grande Logica, il ritorno (riflessivo e critico) all’immedia­ tezza crea ciò a cui ritorna. O - per dirla nei termini di Schelling - bisognerebbe sempre tenere in mente che il Reale, il ‘resto indivi­ sibile’ che resiste alla sua idealizzazione riflessiva, non è una specie di centro estrinseco che l’idealizzazione/simbolizzazione è incapace di ‘inghiottire’ o di interiorizzare, ma ‘l’irrazionalità’, l’inesplicabile ‘follia’, del vero gesto fondativo di idealizzazione/simbolizzazione.

La realtà virtuale delle Idee



un altro stadio intermedio strano, sebbene profonda­ mente giustificato, nell’auto-dispiegamento dell’Assoluto schellinghiano. Lo spostamento dal movimento rotatorio delle pul­ sioni all’universo della Luce, della Parola parlata — in breve, della creazione reale - non si verifica direttamente: tra i due, prima del pronunciamento della Parola ma già dopo il movimento rotatorio, Schelling situa l’universo etereo di ciò che chiama ‘idee’. Già nel suo Saggio sulla libertà, egli afferma che Dio, prima della vera creazione del mondo, pronuncia una Parola in lui.6i Cosa intende dire esatta­ mente? Come accade spesso in Schelling, un riferimento all’intima esperienza personale illumina istantaneamente un’altrimenti oscura e strana nozione: all’inizio di una tentazione, prima di cedere ad essa e di volere attivamente l’oggetto da cui si è tentati — ovvero, prima di postulare questa volontà come effettivamente mia — la si esperisce come una ‘volontà-di-nessuno’, come un’intenzione passiva-impersonale, né mia né di nessun altro, che mi tenta con le sue immagini seduttive. In maniera analoga, Dio, prima di creare le cose reali, gio­ ca nella sua mente con la possibilità delle cose, con le loro idee. Le idee sono dunque le cose in uno stato di indifferenza, quando non 6J Cfr. F.WJ. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, eie., pp. 149-151.

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sono ancora poste come reali — la loro esistenza nelle idee è senza tempo, ma nel senso di una fantasmagoria onirica, di una pseudo­ esistenza spettrale. Qui ritroviamo ancora Tanti-platonismo di Schelling: per quanto riguarda il loro status ontologico, le idee senza tempo sono meno delle cose che appartengono alla realtà temporale, e possono essere meglio immaginate come una sorta di barlume notturno prenatale che non è ancora stato portato alla luce del giorno. Si dovrebbe in­ somma presupporre una vita magica delle cose che precede la loro reale esistenza. O - se ci vogliamo avventurare in un rischioso para­ gone con la fìsica quantistica - le ‘idee’ designano una sorta di realtà virtuale delle cose in cui possibilità multiple e incompatibili coesi­ stono prima del collasso’ della funzione d’onda che causa l’effettiva esistenza delle cose. In termini lacaniani, qui abbiamo a che fare con il libero fluttuare di una moltitudine di significanti prima del loro capitonnage, ovvero, prima che una risoluzione soggettiva converta questa moltitudine in un campo unificato strutturato dotato di sen­ so (o, come avrebbe detto Kant: l’esistenza reale ha luogo attraverso l’azione sintetica del soggetto). Questa nozione di vita fantasmatica delle cose prima della loro effettiva creazione si riferisce chiaramente alla nozione leibniziana di una moltitudine di mondi possibili tra i quali Dio sceglie realizzando poi il migliore. Schelling, tuttavia, conferisce una piega specifica a questo argomento. Per rendere questa piega visibile basti richiama­ re Ricomincio da capo (Groundhog Day), un film in cui l’eroe (Bill Murray) rimane ‘bloccato nel tempo’: ogni mattina consecutiva si risveglia nello stesso giorno, e così vive questo giorno ancora e anco­ ra con il ricordo del precedente ‘stesso’ giorno intatto (sa in anticipo chi incontrerà fuori dall’hotel in cui soggiorna, ecc.). Riassorbito lo shock iniziale, l’eroe, un astuto e cinico reporter televisivo, trae van­ taggio dalla situazione conoscendo approfonditamente il suo amore (Andie MacDowell) finché un giorno, dopo tante prove ed errori, è capace di sedurla, anche se all’inizio di quel giorno lei non prova nient’altro che disprezzo per il suo atteggiamento cinico e superficia­ le. La dimensione ‘schellinghiana’ nel film risiede nel deprezzamento anti-platonico dell’eternità e delTimmortalità: finché l’eroe sa di es­ sere immortale, intrappolato ‘nell’eterno ritorno dell’uguale’ - e che lo stesso giorno albeggerà sempre - la sua vita porta il marchio della ‘insostenibile leggerezza dell’essere’, di un insipido e futile gioco in

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cui gli eventi hanno una sorta di pseudo-esistenza eterea. Egli ritorna nella realtà temporale solo e precisamente quando il suo attaccamen­ to alla ragazza matura in vero amore. L’eternità è un gioco falso e insipido: un incontro autentico con l’Altro, in cui ‘le cose si fanno serie, necessariamente comporta un ritorno alla realtà temporale.

L’ascesa dall’Eternità al Tempo ovrebbe essere chiaro, da ciò che abbiamo detto, perché -Lz Schelling debba avventurarsi nelle speculazioni sull’tfagrund dell’Assoluto come Libertà primordiale. Il suo problema fon­ damentale è la libertà umana, la sua possibilità: senza l’abisso della Libertà primordiale che precede il vortice del Reale, sarebbe impos­ sibile parlare dell’emergenza della libertà umana nel cuore del regno della necessità naturale. La catena della necessità naturale può essere fatta a pezzi, la Luce della libertà può spezzare il circolo vizioso delle pulsioni naturali e illuminare l’oscuro Fondamento dell’essere, solo se la necessità naturale stessa non è il fatto originario ma risulta dal­ la contrazione dell’abisso primordiale della Libertà, di una Volontà che non vuole niente. Vale a dire, solo se questa Libertà primordiale che, per mezzo della sua contrazione rimane intrappolata nel circolo vizioso della sua stessa catena auto-imposta, fa a pezzi nell’uomo le catene e riguadagna se stessa. In altre parole: la libertà umana è reale - non solo un’illusione dovuta alla nostra ignoranza della necessità che effettivamente governa le nostra vite — solo se l’uomo non è un mero epifenomeno dell’universo ma un ‘essere del Centro’, un essere in cui l’abisso della Libertà primordiale irrompe nel mezzo dell’uni­ verso creato. In questo modo Schelling è in grado di pensare la liber­ tà umana come reale e l’uomo come essere finito e mortale, subor­ dinato all*Assoluto. È in grado, cioè, di evitare entrambi gli estremi: il concetto di uomo come epifenomeno la cui libertà è un’illusione fondata sulla sua ignoranza, e la falsa elevazione dell’uomo a soggetto di tutto l’essere con nessun Assoluto al di sopra di lui. Nella ‘filosofia dell’identità’ di Schelling, la libertà è ancora con­ cepita nella classica maniera idealistica: come capacità dell’Assoluto di dispiegare il suo contenuto, di attualizzare il suo potenziale, se­ condo la sua intrinseca necessità, non costretta da alcun impedimen­ to esterno. Da questo punto di vista dell’Assoluto come Identità non

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è possibile offrire una soluzione soddisfacente al problema chiave di come l’Assoluto infinito passi alla moltitudine finita delle entità temporali. È solo quando Schelling rompe gli indugi della ‘filosofia dell’identità’ con la descrizione della libertà come ‘concreta’ libertà di una persona vivente che viene risolto il problema della creazione, ovvero della ‘discesa dall’infinito al finito’ — sintomatico punto di fallimento della ‘filosofia dell’identità’. Vale a dire, nella sua filoso­ fia-identità Schelling fornisce tre versioni incompatibili di tale ‘di­ scesa’,64 rimanendo così invischiato nell’argomentazione paradossale della ‘padella di rame presa in prestito’ (dell’elencare argomenti che si escludono a vicenda) evocata da Freud (non ho preso in prestito la padella da te; la padella era già rotta quando l’ho presa in prestito...) — argomentazione, questa, che chiaramente conferma indirettamen­ te ciò che si sforza di negare (che ho tono la padella che ho preso in prestito — o, nel caso di Schelling, che Dio è pienamente responsabi­ le dell’emergenza dei Male):

• il finito è esso stesso responsabile della sua caduta dall'As­ soluto'. la causa positiva del finito non è Dio stesso ma il col­ legamento spezzato tra Dio e la sua creatura - cioè la caduta della creatura da Dio — che è il motivo per cui la finitudine in quanto tale è il Male. Questa posizione non deve essere confusa con la classica posizione (sostenuta, tra gli altri, da Agostino e Leibniz) secondo la quale il Male è puramente negativo, una mancanza, una deficienza di qualche carattere positivo. In chiaro contrasto, Schelling sottolinea l’atto effet­ tivo di apostasia ontologica, di affermazione egotistica della propria autonomia di fronte a Dio, di un deliberato cader via dall’Assoluto, che offre il finito con la sua falsa libertà. • il finito risulta indirettamente dall’atto divino di porre le idee-, le idee sono postulate in Dio come infinite, cioè come momenti diretti del suo essere infinito. È solo quando un’idea è ‘riflessa-in-sé’ - compresa in-e-per-sé, come entità autono­ ma e non più come essa è in modo relativo, rispetto a Dio — che diventa finita... 64 Cfr. Alan White, Schelling: An Introduction to thè System ofFreedom, Yale University Press, New Havcn c Londra 1983, p. 94.

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• ilfinito è creato da Dio in modo tale da poter diventare in­ finito attraverso i suoi stessi sforzi'. Dio ha effettivamente creato il finito, ma con l’intento di far emergere l’essere nel mezzo del finito, il quale sarà il Gegen-Bild di Dio, cioè parteciperà alla libertà infinita di Dio. Lo scopo della creazione è l’emer­ genza dell’uomo, nel quale il finito ritorna all’infinito.

Ciò che qui abbiamo è dunque un graduale retrocedere dalla pu­ rezza di Dio: (1) Dio non è responsabile del finito come Male; la responsabilità cade sulle creature finite che hanno attivamente ab­ bandonato Dio; (2) Dio è responsabile del finito, ma solo indiretta­ mente, per aver articolato le idee in lui stesso; (3) Dio è pienamente responsabile del finito, lo ha creato, ma col proposito di far nascere l’uomo come suo Gegen-Bild. Con lo spostamento da parte di Schelling dalla ‘filosofia del­ l’identità’ ai Weltalter, tuttavia, lo status del finito appare in una luce del tutto nuova: l’emergenza del finito è ora fondata su un antago­ nismo che giace nel mezzo di Dio stesso. Il passaggio dall’infinito al finito, dall’eternità alla realtà temporale delle entità finite, non è più caratterizzato come caduta o discesa dall’Assoluto. La creazione dell’universo delle entità temporali finite è, al contrario, concepi­ ta come ‘ascesa’: essa designa il processo grazie al quale Dio tenta di ‘trovare se stesso’, di riguadagnare il suo spirito guarendosi dal movimento rotatorio delle pulsioni, dalla ‘follia divina. Questo è il modo in cui Schelling risolve il problema della ‘Caduta’ dell’eternità nel tempo: questa ‘Caduta’ in realtà non è esattamente una caduta ma un Principio, nel preciso senso di liberazione da una tensione insopportabile, una risoluzione — e cioè l’atto di risolvere uno stallo acuto e debilitante. Postulando la realtà finita-temporale, Dio spez­ za il circolo vizioso delle pulsioni, compie il passaggio dal palpitare auto-rinchiuso delle pulsioni, che mai può stabilizzarsi in una solida realtà, al mondo reale degli oggetti differenziati, dall’antagonismo pre-simbolico alla differenza simbolica.65 65 Un caso esemplare di come si raggiunga la piena attualità solo per mezzo di una ‘caduta’ nella realtà temporale è, nella Valchiria di Wagner, la decisione di Brunilde di rinunciare alla sua immortalità divina per amore, e di diventare una comune donna mortale: ciò che appare come un 'meno' (la deficienza dell’esistenza terrestre, di abitare un mondo di mortalità c mancanza) è effettivamente un ‘piu, cioè l’unico modo per realizzare pienamente il proprio desiderio - la caduta’ di Bru­ nilde è effettivamente il suo accesso a una passione sanguigna inaccessibile agli dei

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‘L’incatenameli to’

T n questo sforzo di pensare insieme ‘sistema e ‘libertà’ risiede la I peculiarità del pensiero di Schelling per la storia della filosofia: l’uomo è un momento subordinato dell’Assoluto, un anello nella ‘grande catena dell’essere’. Egli è emerso dalla natura, e la natura rimane per sempre il Fondamento del suo essere. Eppure egli è anche un essere libero che, come tale, è auto-centrato, una fine-in-sé, che si ricongiunge direttamente all’Assoluto. Come possiamo, precisamen­ te, pensare insieme questi due lati? Schelling ricorre alla sua nozione chiave di ‘potenze [Potenzen]': nella ‘grande catena dell’essere’, gerar­ chicamente ordinata, la stessa relazione strutturale-formale si ripete in diverse potenze. Ciò che la gravitazione è per la materia inerte (lo sforzo di ricongiungere il centro di gravità esterno) la malinconia lo è per l’uomo in quanto essere finito e mortale separato dall’Assoluto e desideroso di ricongiungersi ad esso: una pianta è per un animale ciò che la donna è per V uomo, e così via. II punto cruciale da notare è il carattere auto-referenziale di questa ripetizione: quando una relazione data tra due poli (tra ‘A’ e ‘B’, il polo ideale e il polo reale) è innalzata a una più alta potenza, uno dei due poli funge da forma, da medium neutrale, della nuova e più alta polarità. La polarità tra pianta e animale, per esempio, ha come suo medium neutrale la vita (il dominio della vita è strutturato lungo l’asse polare di vita vegetale e vita animale). La vita innalzata a una potenza più alta è la vita animale e, all’interno del dominio animale, la polarità tra pianta e animale è ripetuta come polarità tra femmina e maschio. Essa è causa dell’auto-referenzialità, quella che qui stia­ mo trattando non considerando la forma che si ripete uguale nei differenti domini materiali, ma considerando l’incessante scambio tra forma e contenuto: parte del contenuto di un livello più basso diventa il principio formale di un livello più alto. Adesso possiamo nella loro esistenza anemica ed eterea. E questo non ci porta al pensiero più audace di Schelling: che Dio stesso è in un certo senso ‘meno attuale*, ‘meno reale [ivirklich]' dell’uomo? Non si dovrebbe confondere questo con l’usuale affermazione del­ l’ateismo: il punto di vista di Schelling non c che non c’è Dio, che Dio è un mero prodotto dell’immaginazione umana. Senza dubbio ci sono dei, tuttavia - come avrebbe detto Lacan - essi ‘appartengono al reale (pre-simbolico)’, vale a dire che in loro stessi non sono ancora esplicitati, posti in quanto tali - solo nell’uomo Dio diventa wirklich, reale.

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capire perché Schelling usa il termine ‘incatenamento [VerkettungX per designare la successione gerarchica delle polarità: queste polarità sono letteralmente ‘incatenate nella misura in cui un polo del livello più basso diventa il principio globale e formale che comprende en­ trambi i poli del livello più alto. In breve, questo incatenamento di potenze dispiega la struttura della mise en abimefi6 Che cosa abbiamo, allora, ai due estremi di questo processo di elevazione auto-referenziale a potenze via via più alte? All’estremi­ tà inferiore, sicuramente, das Ding, l’ineffabile Reale della Cosa; al­ l’estremità opposta, il vuoto senza sostanza di $, il soggetto puro. Ciò che mette in moto questo processo in cui una sola e stessa pola­ rità riappare ripetutamente in diverse ‘potenze’ è il fatto che a ogni livello dato, in ogni ‘potenza data, la subordinazione del reale sot­ to il polo ideale (dell’oscurità sotto la luce, della femmina sotto il maschio...) non termina mai senza un resto che, chiaramente, è il lacaniano objet petit a. Questo riferimento a Lacan ci permette di interpretare la tensione polare schellinghiana di A e B come la mini­ ma diade significante di S, e S2, mentre la relazione ‘impossibile’ tra $ e a ($ 0 a) designa la stretta correlazione tra il resto, che elude la coppia significante, e il soggetto. Per Lacan (come per Schelling) il soggetto in quanto $ non è né una cosa né uno stato di cose ma un evento che sopraggiunge quando l’incatenamento simbolico collassa nel suo sforzo di assorbire il Reale della Cosa senza resto... In bre­ ve, la ripetizione della diade A:B in sempre nuove ‘potenze’ è stricto sensu la ripetizione simbolica che costituisce una catena significante. E finché la relazione A:B evoca la differenza sessuale (tra i principi maschile e femminile — in Schelling la connotazione sessuale di A:B è esplicita), la sua ripetizione in potenze sempre più alte reca testi­ monianza del fatto che ‘non c’è relazione sessuale’: ogni formulazio­ ne di A:B comporta-produce un resto che, naturalmente, è Xobjet a in quanto asessuato. 66 In La vérité en peinture [1978] (cfr. Jacques Derrida, La verità in pittura, Newton Compton, Roma 1981), Derrida mostra il punto debole della logica della miseen ahimè. essa evita proprio la cosa in cui pretende di immergerci, cioè spalanca un vuoto di ciò che è oltre la rappresentazione, eppure riempie questo vuoto ancora c ancora, e dunque rimane intrappolato nell’alternanza tra l'aprire c il riempire il vuoto (['hegeliana cattiva/spuria infinità). Forse bisognerebbe leggere la raffigurazio­ ne di Hegel del Monarca nella sua Filosofia del diritto come una sorta di inversione della struttura della mise en abinir. il Monarca è un elemento la cui stessa presenza ‘sostituisce’ il vuoto, la sua apertura, c dunque punta verso una dimensione oltre la presenza.

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Come accade che questa ripetizione della relazione antagonistica-‘impossibile’ tra A e B porti all’emergenza dell’uomo? Secondo Schelling la posizione dell’uomo è radicalmente problematica, segna­ ta dal massimo divario tra possibilità e attualità. Per quanto riguarda il suo posto nell’incatenamento delle potenze, l’uomo è in potentia la corona della creazione, ma la sua attualità è quella di una disa­ strosa Caduta, tanto che Schelling caratterizza persino l’apparizione dell’uomo come un ‘blocco dello sviluppo’. Nell’uomo lo sviluppo (l’incremento delle potenze) è destinato alla fine a raggiungere un punto di svolta e a causare la cruciale inversione nella relazione tra A e B: il predominio di A (il principio ideale, spirituale di espansione) su B (il principio reale, corporeo di contrazione). Vale a dire che in natura la relazione A:B sta sotto la potenza di B, e cioè lo Spirito si rivela gradualmente ma rimane vincolato all’inerzia della Materia, avvolto da essa. Nell’uomo, al contrario, B dovrebbe subordinarsi ad A, e cioè lo Spirito dovrebbe prendere il sopravvento e avere di­ rettamente il controllo, mentre la corporeità dovrebbe sbarazzarsi della sua inerzia e trasformarsi in un medium, etereo e trasparente, della lucentezza dello Spirito. È dunque fàcile immaginare la gran­ de catena dello sviluppo come una continua progressione dalle più basse (inorganiche) alle più alte (organiche) forme della natura, fino all’uomo. Ma con l’uomo come corona della creazione’ sorge un’ina­ spettata complicazione: invece del semplice spostamento da B ad A come principio predominante, B stesso, il principio contrattivo, trae profitto dalla potenza illuminante di A per guadagnare piena consa­ pevolezza di sé, viene alla luce, è postulato in quanto tale, emancipa e afferma se stesso come l’egotistico Spirito malvagio - e in questo consiste la ‘Caduta’. Q>ui risiede il paradosso dell’uomo: se la progressione della natura continuasse imperturbata in lui, una nuova entità angelica appari­ rebbe a dimorare nella potenza di A, un’entità per cui la materia perderebbe la sua inerzia e si trasformerebbe in un medium traspa­ rente di A. A causa della sua Caduta, tuttavia, l’uomo è un’entità radicalmente divisa: da una parte gli manca il suo posto, incapace com’è di trovare una casa in natura — vale a dire che è consapevole di ‘non appartenere realmente a questo posto’, che è straniero sulla terra, che la sua vita terrestre è uno spettacolo di orrori; dall’altra parte il mondo vero, il mondo degli spiriti, gli appare come spet­ trale, irragiungibilmente Al-di-là, come il fondamentale enigma, la

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radicale incertezza di ciò che accadrà dopo la morte. Invece della su­ bordinazione della vita naturale alla vita spirituale già nell’esistenza terrestre umana, le due vite sono tenute separate dalla barriera della morte, così che una subentra all’altra. Per l’uomo la vita vera può es­ sere immaginata solo in forma di aldilà. In breve, Schelling offre una delle più forti formulazioni della paradigmatica nozione moderna di dislocamento radicale e costitutivo dell’uomo, della mancanza di un suo ‘posto giusto’.

‘L’ipseità in quanto tale è spirito’ T1 paradosso, quindi, è che Spirito e Materia, al contrario di J.ciò che ci si può aspettare, sono armoniosamente coordinati in natura, laddove la caduta dell’uomo perverte la loro relazione e comporta la loro irriducibile discordia: la vera pietra d’inciampo al­ l’idealizzazione del Reale non è nella natura ma nell’uomo - è con l’uomo che la scala di progressione gerarchica, dell’intensificazione delle potenze, inciampa. La natura è l’immagine di un armonioso progresso di forme di vita, mentre l’universo dell’uomo, della storia umana, offre il triste spettacolo di una natura degenerata, avvelenata, intrappolata in un circolo vizioso — il mondo dell’uomo è pieno di rovine. Significativamente le descrizioni teleologiche si riferiscono come regola alla finalità della natura. È facile presentare la natura come una totalità finale in cui ogni organismo inconsapevolmen­ te serve a più alti scopi. La storia umana, al contrario, è un luogo di orrori e disgrazie, di imprese andate smarrite, un luogo in cui il nostro sguardo non può discernere altro che rovine e tracce di sofferenze senza senso e distruzione, con a mala pena qualche pro­ gresso. Ivi risiede il fondamentale paradosso della teleologia: è fàcile scoprire scopi nascosti nella natura che agisce ciecamente, come un meccanismo senza scopo, mentre l’uomo — che, nella sua attività, consapevolmente persegue degli obiettivi — viene coinvolto in un insensato dispendio del suo potenziale...67 L’uomo intralcia la libera 67 La struttura qui, ovviamente, è più complessa: secondo la nozione schellinghiana di principio come opposto al processo che segue, il principio della storia è necessariamente la Caduta, e la storia del genere umano è il processo teleologico del­ la graduale crescita dalle profondità di questa catastrofe primordiale che si verifica in tre stadi principali: l’era pagana, l’era cristiana, c la riconciliazione a venire. Schel-

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circolazione della natura, è una sorta di embolia nel flusso ascenden­ te delle energie naturali, e - come dice Schelling con la sua peculiare ingenuità - è come se la natura possedesse un oscuro presentimento di questo fatto e si prendesse la sua rivincita portando all’uomo le catastrofi naturali: terremoti, siccità, alluvioni... Il primo compito della lettura ‘materialista’ di Schelling è chiara­ mente quello di dimostrare come la natura non-umana appaia come una totalità senza significato, armoniosa, finale solo dalpunto di vista dell'uomo come il luogo della distruzione insensata e del dispendio inuti­ le diforze-, il punto da cui tutto appare sensato deve essere esso stesso il punto di sospensione del significato. Il secondo compito di una tale lettura è di riconoscere pienamente la necessità strutturale della 'stagnazione' del progresso naturale nell'uomo', questa stagnazione non è uno sfortunato accidente dal momento che la perversione 'egotistica' dello Spirito è costitutiva della spiritualità'.

Il principio emerso dal fondamento della natura, per cui l’uomo è distinto da Dio, è l’ipseità in lui, che però diviene spirito attra­ verso la sua unità con il principio ideale. L’ipseità in quanto tale è spirito, ovvero l’uomo è spirito in quanto è un’essenza a sé stante e particolare (separata da Dio), e questo legame costituisce appunto la personalità. Ma dal momento che l’ipseità è spirito, essa è al tempo stesso innalzata dal puro creaturale al sovracreaturale, essa è volontà, che contempla se stessa in piena libertà, non più strumento della volontà universale che crea nella natura, ma è sopra e fuori di ogni natura. Lo spirito è sopra la luce, nella misura in cui nella natura si eleva oltre l’unità della luce e del principio oscuro. Poiché è spirito, l’ipseità è dunque libera da ambedue i principi.68 Nell’uomo in quanto spirito vivente e attuale la sua ipseità - che in un animale è semplicemente un cieco sforzo egotistico — viene alla luce. Per mezzo di questa auto-illuminazione io divento consapevole di me stesso, mi ‘postulo’ nella radicale esclusione di tutta l’akerità. ling situa la sua filosofia in questo processo, alle porte della terza era, come annuncio di una totale trasmutazione politico-spirituale per mezzo della quale l’umanità si redimerà e Dio si rivelerà completamente. Tuttavia, questo risultato non è affatto assicurato: nuovi disastri sono in agguato aH'orizzontc, che minacciano di cancellare tutto il progresso fino ad ora raggiunto, e di farci tornare alla barbarie originaria... 64 F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana, cit., pp. 157-159.

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Ciò che in me resiste alla beata sommersione nel Bene non è la mia natura biologica inerte ma il reale nucleo della mia ipseità spirituale, la consapevolezza che, oltre tutti i tratti particolari fisici e psichici, io sono ‘me’, una persona unica, un punto assolutamente singolare di auto-riferimento. In questo preciso senso, Tipseità in quanto tale è lo spirito’: lo Spirito nella sua attualità è la contrazione della Luce stessa contro la natura (‘al di sopra e fuori da tutta la natura ). In altre parole, se l’uomo dovesse dimorare nel Bene, dovrebbe rinunciare a quella vera unità che lo rende una persona individuale, e venire sommerso nell’universale strumento della Luce. Questa contrazione della Luce (del principio spirituale dell’amo­ re) in una concreta persona vivente è impensabile per l’idealismo tradizionale che è capace di trattare solo con l’impersonale regno delle Idee, mai con resistenza attuale e personale del principio ideale. Per mezzo di questa contrazione-in-sé, lo Spirito - sebbene esso non sia altro che il fondamento auto-illuminato, l’unità di due principi (A e B) - ‘disconnette/slega/disgiunge il legame’ di A e B, e perciò acquisisce una distanza verso entrambi. Questa distanza, ovviamen­ te, è la libertà in quanto predicato di un soggetto attuale e vivente che non è legato né ai suoi rivestimenti materiali, corporei, né al determinato contenuto spirituale del suo essere, e cioè è capace di trascenderli entrambi. Questo legame non è sciolto né nella natura né in Dio: nella natura, la Luce rimane intrappolata, incatenata nel Fondamento, mentre in Dio, il Fondamento si trasforma in un ete­ reo e non-resistente strumento della Luce. Solo l’uomo ha la libertà di una scelta reale tra i due principi. Possiamo vedere adesso come la libertà dipenda dalla finitudine dell'uomo', solo una creatura finita ‘in­ nalzata dalla creaturalità alla sovra-creaturalità’ può disconnettere il legame dei due principi e comportarsi nei loro confronti liberamen­ te. La Libertà come legame slegato è, naturalmente, un altro modo di dire Caduta: se il legame non fosse sciolto avremmo l’armoniosa ‘grande catena dell’essere’, l’ordine teleologico che corre dalla mate­ ria inanimata attraverso gli animali e verso gli eterei Spiriti angelici impersonali che sguazzano nella loro beatitudine. La visione di uno stato di riconciliazione in cui il progresso na­ turale (la spiritualizzazione graduale della natura) si adempierebbe, raggiungerebbe il suo apice, troverebbe la sua completezza nel pieno predominio del principio ideale - in cui, cioè, la corporeità si sbaraz­ zerebbe della sua inerzia e si trasformerebbe in uno strumento etereo

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della lucentezza dello Spirito — è dunque un’illusione che offusca il fatto che il Mondo degli Spiriti debba rimanere per sempre un’appa­ rizione spettrale, che la barriera che lo separa dalla nostra realtà ter­ rena è insormontabile. Il paradosso sta nel fatto che ‘il meno è più’: l’uomo è libero precisamente e solamente nella misura in cui egli è ‘fuor di sesto’, è spostato, ostacolato, ‘non a casa in questo mon­ do’. L’ostacolo che gli impedisce di lasciare la miseria della sua vita terrestre alle spalle, di entrare in un’eterea esistenza spirituale, è la condizione positiva della sua libertà. Questa struttura della finitudi­ ne è anche responsabile della possibilità della reduplicano simbolica: la finitudine è il limite che impedisce a una cosa di divenire piena­ mente se stessa, di raggiungere la sua auto-identità, in modo che una cosa o non è ancora se stessa, e si trova in uno stato di proto-esistenza virtuale, o diventa se stessa, è ‘posta in quanto tale’, ma grazie al supplemento della Parola - e cioè, la cosa è già ri-velata, non è più soltanto se stessa. Dunque non c’è meraviglia nel fatto di incontrare, a proposito della Parola, l’inversione che caratterizza il dislocamento dell’uomo: ciò che dovrebbe essere ‘più’, il significato spirituale delle cose, è esperito come ‘meno’, come significato transitorio delle parole, la pallida copia-carbone delle cose reali (in stretta analogia col fatto che il mondo vero, il mondo degli spiriti, appare all’uomo come uno spettrale e irraggiungibile Al-di-là). Pertanto è fuorviante concepire il dislocamento costitutivo del­ l’uomo come divisione tra la finitudine della sua esistenza corporea e l’infinità dello Spirito: l’infinito diviene attuale, Spirito vivente, solo quando ‘si raggiunge’, quando diventa consapevole di sé, in una creatura finita ‘sollevata dalla creaturalità alla super-creaturalità’. Vale a dire: che cos’è lo Spirito? Il dominio della significazione, il domi­ nio del simbolico. Come tale esso può emergere solo in una creatura che non è né costretta nella sua finitudine corporea né direttamente infinita (ossia non più ancorata al Fondamento terrestre) ma che si trova nel mezzo, un’entità finita in cui l’infinito risuona nella forma di una ombrosa fantasmagoria, il presentimento di un Altro Mondo. Il dominio dello Spirito è dunque intrinsecamente anamorfico: può esistere solo nelle vesti di un’anticipazione di sé. Nel momento in cui ‘lo guardiamo dritti in faccia’ il suo incanto è spezzato, si dissolve in volgare positività. Per tale ragione, solo un’entità finita può parlare: Dio in quanto infinito non parla dal momento che in lui nessuna distanza separa le ‘parole’ dalle ‘cose’. In altri termini la Parola di Dio

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necessariamente implica la sua finitudine. Forse Schelling è stato l’unico a considerare fino in fondo la conseguenza sconcertante del fatto che Dio pronunci la Parola.

L’Esistenza e il suo Fondamento

AA uesta perversione ‘egocistica’ dello Spirito che inerisce alla W nozione di Spirito realmente esistente forma il nucleo della concezione schellinghiana del Male, a cui egli arriva tramite la ra­ dicai izzazione della nozione kantiana di ‘Male radicale’ contenuta in La religione entro i limiti della sola ragione. Il punto di partenza di Schelling è il ripudio del tradizionale topos filosofico secondo cui la possibilità del Male è fondata nella finitudine dell’uomo, nella sua carenza in confronto alla perfezione divina, nel fatto che egli è scisso tra il mondo materiale e quello spirituale. Schelling capovolge letteralmente questo topos e afferma che, al contrario, la radice del Male giace nella perfezione dell’uomo, nel suo vantaggio rispetto alle altre creature finite, e anche in una certa scissione che avviene in Dio stesso. Vale a dire: il principio centrale delle Ricerche filosofiche è che se c’è qualcuno da ritenere responsabile della possibilità del Male si dovrebbe presupporre una scissione dello stesso Assoluto in Dio, nella misura in cui Egli è pienamente esistente ed è l’oscuro e impenetrabile Fondamento della sua Esistenza. Questa distinzione tra l’Esistenza di Dio e il suo Fondamento, tra l’Assoluto come ciò che esiste pienamente — nella misura in cui esso è posto in quanto tale, illuminato dalla Luce della Ragione - e l’Assoluto come oscuro struggimento [Sehnsucht] che lotta per qualcosa al di fuori di sé senza possedere una chiara nozione di ciò per cui sta lottando, denota che Dio non è pienamente ‘se stesso’ - che c’è qualcosa in Dio che non è Dio. Nelle Ricerche filosofiche questa relazione tra l’oscura Volontà del Fondamento e la Volontà illuminata, effettivamente esistente, non è ancora stata pensata da cima a fondo, e perciò la posizione di Schelling è, parlando a rigore, contraddittoria. Vale a dire, la sua risposta alla domanda ‘a cosa aspira la Volontà oscura?’ è: lotta per l’illuminazione, brama che la Parola venga pronunciata. Se, tuttavia, la Volontà oscura del Fondamento stesso aspira al logos, in che senso poi si oppone a esso? I Weltalter risolvono questa contraddizione qua-

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liticando la prima Volontà come Selbstheit divina, forza contrattiva che si oppone attivamente alla Luce della Ragione servendo in tal modo da fondamento necessario della successiva espansione.69 Già nelle Ricerche filosofiche, comunque, la posizione di Schelling è più sfumata di quanto possa sembrare: questo lato oscuro-impenetrabile di Dio, il Fondamento della sua Esistenza, non deve essere concepito come Base positiva, come vera fondazione dell’Essere con la Ragione come suo accidente parassitico. Il Fondamento è in se stesso onto­ logicamente ostacolato, intralciato, il suo status è, in senso radicale, pre-ontologico-. ‘è’ soltanto sous rasure, nella modalità del suo stesso ritirarsi. La sola vera Sostanza è lo Spirito, cioè Dio nella sua Esi­ stenza attuale. E il Grund è fondamentalmente un nome per l’autodifferenziarsi di Dio, per quella X elusiva che manca di ogni propria consistenza ontologica, per la quale Dio non è mai pienamente se stesso, non può mai raggiungere la piena auto-identità. Dio ha bi­ sogno di questo corpo estraneo come suo cuore, dal momento che senza questo minimo di forza contrattiva Egli non sarebbe ‘se stesso’. Ciò che paradossalmente impedisce per sempre a Dio di raggiungere la piena auto-identità è l’impenetrabile nucleo del suo Selbstheit... Questa tensione nel mezzo dell’Assoluto stesso è, dunque, molto più enigmatica di quanto possa sembrare, dal momento che è del tutto incompatibile con le opposizioni che definiscono lo spazio del­ l’ontologia tradizionale: l’opposizione tra Fondamento ed Esistenza 69 Persino questa vistosa contraddizione nelle ‘Ricerche filosofiche’, tuttavia, fa presagire una verità più profonda: questa oscura bramosia \Sehnsticht] del Fonda­ mento per raggiungere l’esistenza - cioè per illuminarsi, per porsi in quanto tale - è la più grande nemica della Luce, dal momento che in essa abbiamo a che fare con 10 sforzo del Fondamento per illuminarsi, di porsi in quanto tale, cioè come Fonda­ mento in contrasto con la Luce (già esistente) - come abbiamo già visto, il ‘Male’ non è semplicemente il Fondamento in quanto opposto della Luce dell’Esistenza ma il Fondamento che si illumina, che raggiunge piena attualità e si pone come Fondamento. Il Fondamento dell’Esistenza è una forza benefica nella misura in cui si mantiene sullo sfondo rispetto alla Luce, agendo come una sorta di catalizzatore della sua lucentezza; si trasforma in forza del Male quando si attualizza e si pone in quanto tale. O - per metterla ancora in un altro modo - il più perfido tradimento della Verità è optare per l'infinita ricerca della Verità, dal momento che il vero scopo di questa ricerca non è il raggiungimento dell’obiettivo prefissato - la Verità - ma la perpetuazione del processo di ricerca stesso. Questo stesso ‘paradosso economico’ è 11 tratto distintivo del concetto freudiano di pulsione-, l’oscura bramosia del Fonda­ mento schei li nghiano è un altro modo per chiamare la pulsione il cui vero scopo è l’infinita riproduzione del suo movimento circolare.

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non coincide con l’opposizione tra mera possibilità e attualità (se così fosse, il Fondamento non potrebbe corrodere l’auto-identità dell’Esistenza attuale dall’interno). Essa non è semplicemente un nuovo nome per la dualità di Reale e Ideale della prima filosofia di Schelling, e cioè per la polarità simmetrica di due principi ontologici (il Fondamento è ‘meno’ dell’Esistenza, gli manca la piena consisten­ za ontologica), e decisamente non implica che il Fondamento sia in ogni caso la ‘vera sostanza’ o ‘fondazione’ della Ragione. L’enigma risiede nel fatto che il Fondamento è incompiuto ontologicamente, ‘meno’ dell’Esistenza, ma precisamente tale da corrodere la consi­ stenza dell’edificio ontologico dell’Esistenza dall’interno. In altre parole, Schelling oppone prima l’Esistenza (il Dio completamente attuale) e il mero Fondamento dell’Esistenza (il cieco lottare che manca di attualità) come il Perfetto e l’imperfetto, poi va avanti a trattare i due come complementari, a concepire la vera completezza come l’unità dei due, come se il Perfetto avesse bisogno dell’imper­ fetto per affermare se stesso. Questo è il motivo per il quale il Male è nel mondo: a causa del perverso bisogno del Perfetto dell’imperfetto, come se l’intersezione del Perfetto e dell’imperfetto fosse più perfetta del Perfetto stesso... Il Male come unità perversa di Esistenza e Fondamento

T n che modo, dunque, l’emergenza del Male si relaziona a que-Lsta distinzione tra Fondamento ed Esistenza? La fondamentale definizione scheilinghiana del Male come Verkehrung (perversione, o meglio inversione distorsiva) della relazione tra Fondamento ed Esistenza è fuorviarne poiché lascia aperta la porta a due tradizionali malintesi contro i quali è diretta l’offensiva dell’intera argomentazio­ ne di Schelling: la nozione di Male come divisione (tra Esistenza e Fondamento, tra Infinito e Finito) - come, cioè, la caduta del Finito dall’infinito (in contrasto col Bene come unità di Finito e Infinito) - e la nozione di Male come affermazione del Fondamento a detri­ mento dell’Esistenza, del Finito a detrimento dell’infinito - vale a dire il predominio del Fondamento Sull’Esistenza (in contrasto col Bene come predominio dell’Esistenza sul Fondamento, della Ragio­ ne sulle pulsioni oscure). La tesi di Schelling qui è molto più sottile: sia il Bene che il Male sono modi dell’ww/V/à di Fondamento ed Esistenza. Nel caso

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del Male questa unità è falsa, invertita — in che modo? Basti richia­ mare l’odierna crisi ecologica: la sua possibilità è stata spalancata dalla natura divisa dell’uomo, dal fatto che l’uomo è al tempo stesso un organismo vivente (e come tale parte della natura) e un’entità spirituale (e come tale elevata sopra la natura). Se l’uomo fosse solo uno dei due la crisi non si verificherebbe. Come parte della natura l’uomo sarebbe un organismo vivente in simbiosi col suo ambiente, un predatore che sfrutta altri animali e piante ma, proprio per questa ragione, incluso nel circuito della natura e incapace di rappresentare una reale minaccia per essa. Come essere spirituale l’uomo intratter­ rebbe con la natura un rapporto di comprensione contemplativa con alcun bisogno di intervenire attivamente in essa per ragioni di sfrut­ tamento materiale. Ciò che rende l’esistenza umana così esplosiva è la combinazione dei due tratti', nella lotta dell’uomo per dominare la natura, per farla funzionare secondo i suoi scopi, il ‘normale’ egoti­ smo animale - l’attitudine di un organismo vivente in natura impe­ gnato in una battaglia per la sopravvivenza in un ambiente ostile — è auto-illuminata’, posta in quanto tale, innalzata alla potenza dello Spirito, e dunque esacerbata, universalizzata nella propensione per il dominio assoluto che non serve più al fine della sopravvivenza ma si trasforma in un fine-in-sé.70 Questa è la vera ‘perversione’ del Male: in esso il ‘normale’ egotismo animale è ‘spiritualizzato’, si esprime per mezzo della Parola, non stiamo trattando più con un impulso oscuro ma con una Volontà che, alla fine, ‘trova se stessa’. Possiamo ora vedere quanto siamo lontani dalla tradizionale no­ zione di mancanza, privazione o imperfezione, come fondamento del Male. Come Schelling osserva, «la semplice riflessione che l’uo­ mo, la più perfetta di tutte le creature visibili, è l’unico capace di male, mostra che il suo stesso fondamento non può assolutamente 70 Qui mi baso su Vittorio Hòsle, Praktische Philosophie in der modemen Welt, Beck, Monaco 1992, pp. 166-197. Questo riferimento all'ecologia ci permette incidentalmente di apprezzare in pieno la sottigliezza della posizione di Schelling. Ci si aspetterebbe che la determinazione schei linghiana di uomo come ‘essere del Centro’, di natura come semplice sfondo della lotta etica dell’uomo, lo condanni a un’attitudine antropoccntrica desueta e non in sintonia con i nostri tempi, che richiedono una visione più ‘cosmocentrica’. Per Schelling, tuttavia, è proprio il fatto che l’uomo è ‘l’essere del Centro’ a conferirgli la vera e propria responsabilità c umiltà - è l’ordinario atteggiamento materialista di ridurre l’uomo a una specie in­ significante in un piccolo pianeta in una galassia distante a implicare effettivamente l’attitudine soggettiva di dominazione sulla natura c il suo sfruttamento spietato.

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consistere nella mancanza o nella privazione».71 Il Male non sta nel­ la finitudine in quanto tale, nella sua deficienza rispetto all’infinito Dio. Esso può emergere solo in una creatura finita che si unisce di nuovo all’infinito, cioè quando l’unità di Finito e Infinito è ristabi­ lita nell’uomo come essere finito, ma libero.72 Il problema del Male può dunque essere riformulato come segue: come è possibile la falsa unità di Fondamento ed Esistenza? La prima cosa da evidenziare è l’elementare nocciolo dialettico per cui l’uomo è ['unità di Fondamento ed Esistenza precisamente nella misura in cui solo in lui la loro differenza è infine dispiega­ ta, posta in quanto tale: solo l’uomo è consapevole di essere scisso tra l’oscuro vortice delle pulsioni naturali e la beatitudine spirituale del logos. Vale a dire, la sua vita psichica è il campo di battaglia di due principi o Volontà, mentre nella natura la Luce dell’Esistenza rimane implicita, contenuta’ nel Fondamento.73 L’uomo è la sola

71 F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, cit., p. 167. 72 In ciò consiste il collegamento tra Male e libertà: il Male non può dipendere dalla necessità o dal caso (la necessità o il semplice caso, per definizione, non impli­ cano la responsabilità morale contenuta nella nozione di Male), può risultare solo da un atto libero-autonomo, vale a dire, un atto compiuto da una creatura che, a causa della sua libertà, partecipa direttamente della natura divina. Data questa posizione dell’uomo unica tra le creature, è la Gegen-Bilddi Dio e, come tale, il mediatore tra Dio e la Natura. Tuttavia, a causa della Caduta dcll’uomo, questa mediazione fallisce, tanto che c’è bisogno di un altro tra Dio e l’uomo come primo mediatore: Cristo, il ‘secondo uomo’. A proposito del cristianesimo, Schelling ha pienamente ragione ncH’osservarc che Cristo non era un’entità mitica come Zeus ma un uomo vero, vivente c in carne e ossa. Nelle religioni pre-cristianc, o incontriamo le incarnazioni eteree della divinità che mancano della piena mate­ rialità corporea (entità mitiche o apparizioni spettrali che personificano le Potenze divine) o le vere persone in carne c ossa che sono rappresentanti o Messaggeri di Dio: ciò che è impensabile in questo caso è una reale persona in carne e ossa che non è semplicemente rappresentante di Dio ma direttamente Dio. In chiaro con­ trasto con lo spiritualismo New Age che concepisce Cristo come una delle tante personificazioni della Divinità, insieme con gli dei Hindu, Buddha, Maometto, e altri, il cristianesimo è una ‘religione rivelata’: è solo in Cristo che la distanza di rappresentazione che separa la divinità dalla sua incarnazione terrestre è superata. Qui abbiamo un altro - il fondamentale - esempio di come la ‘Caduta nella tem­ poralità’ non è affatto una caduta ma l’acquisizione della piena attualità: Cristo è il reale c vero Dio precisamente e solo nella misura in cui è stata una reale persona (sofferente c mortale). 75 Nelle sue Ricerche filosofiche Schelling compie ancora un passo in avanti e dichiara che il vero Male può emergere solo sulla scia del cristianesimo in quanto

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creatura che può elevare se stesso a questa dualità e sostenerla: è il più alto paradosso della universalità singolare — il punto di massima contrazione, l’Uno dell’auto-coscienza che esclude tutto, e il Tutto che abbraccia ogni cosa - un essere singolare (il punto di Riga del cogito) che è capace di comprendere/rispecchiare l’intero universo. In Dio prima della Creazione i due principi sono ancora in uno stato di indifferenza. Nel regno della natura il secondo principio — A, lo Spi­ rito - può apparire solo sotto il dominio o nella potenza di B (come implicito contenuto spirituale segreto della natura). Questo significa ancora che la loro differenza non è ancora posta in quanto tale, che i due non possono ancora scontrarsi tra loro. Quando, tuttavia, con l’emergenza dell’uomo, i due principi - l’Esistenza e il suo Fonda­ mento - sono posti nella loro distinzione, non sono semplicemente opposti l’uno all’altro: anche la loro unità deve essere postulata — vale a dire che ognuno di loro è nello stesso tempo posto come unito col suo opposto, come il costituente intrinseco al suo opposto. In altre parole, dalla precedente indifferenza dei due principi si passa alla loro unità — ed è qui che incontriamo la libertà come libertà per il Bene e il Male, dal momento che questa unità può prendere due forme, la forma della vera o della perversa unità. Da un lato, la natura può spi­ ritualizzarsi, può tramutarsi in strumento della auto-manifestazione dello Spirito; dall’altro, con l’emergenza della Parola, l’oscuro prin­ cipio del Fondamento e dell’Ipseità, che finora ha agito come forza anonima, impersonale, cieca, è esso stesso spiritualizzato, illuminato; esso diventa una Persona consapevole di sé, così che adesso stiamo parlando di un Male che, in piena coscienza di sé, vuole sé come Male — che non è semplicemente indifferenza verso il Bene ma un attivo sforzo per il Male.74 Verità rivelata. Nell’universo pagano, la Saggezza proviene ‘dal basso’, si origina nel­ le profondità oscure e insondabili; vale a dire che le civiltà pagane sono ‘formazioni naturali’, intrappolate nel ciclo di corruzione c generazione, mentre la Saggezza cristiana viene ‘dall’alto’, si origina nella eterna Luce risparmiata dal circuito delle pulsioni. Ed è solo in contrasto con questa Luce, sul suo sfondo, che il Male si può affermare in quanto tale: la decadenza e gli orrori della fine dell’impero Romano testimoniano di un Male che si afferma aggressivamente, con un gesto di sfida con­ tro la Verità rivelata... 74 Nel dominio della vita sociale, il caso supremo dell’unità falsa c perversa è lo Stato-, come un vero precursore di Marx, Schelling denuncia costantemente lo Stato come intrinsecamente malvagio, dal momento che è una unità del popolo falsa, meccanica, coercitiva, esterna, un’unità imposta dall’alto, e non la sua unità organica che nascerebbe ‘dal basso’.

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L’ambito della lotta ideologico-politica esemplifica perfettamente come il ‘Male non sia la particolarità in quanto tale ma la sua unità, erronea e ‘perversa.', con l’Universale'. non ‘l’egotismo’ in quanto tale, ma l’egotismo nella forma del suo opposto. Quando un agente poli­ tico (il partito, ecc.) pretende di rappresentare l’interesse universale dello Stato o della Nazione - in contrasto coi suoi oppositori che, ovviamente, sono accusati di perseguire solo la loro ristretta sete di potere - ciò struttura lo spazio discorsivo in modo tale che ogni attacco a esso — al particolare soggetto politico — è eo ipso un attacco alla stessa Nazione. Il ‘Male’ nella sua forma più elementare è un tale cortocircuito’ tra il Particolare e l’Universale, una tale propensione a credere che le mie parole e le mie azioni siano direttamente parole e azioni del grande Altro (Nazione, Cultura, Staro, Dio), una propen­ sione che ‘inverte’ la corretta relazione tra il Particolare e l’Universale. Quando mi proclamo l’immediato ‘funzionario dell’umanità’ (o della Nazione o della Cultura), in tal modo compio effettivamente l’esatto opposto di ciò che pretendo di fare - cioè degrado la dimen­ sione Universale alla quale mi riferisco (Umanità, Nazione, Stato) alla mia propria particolarità, poiché è il mio particolare punto di vista che decide sul contenuto dell’Umanità. Resto quindi intrap­ polato nell’infernale circolo del ‘più si è puri, più si è sporchi’: più mi riferisco all’Universale per legittimare i miei atti, più lo abbasso a tramite della mia stessa auto-affermazione.75 Possiamo vedere adesso perché, secondo Schelling, lo status della filosofia della natura è introduttivo o, più precisamente, preparato­ rio: solo nell’uomo, in cui entrambi i principi sono finalmente posti in quanto tali, ‘le cose sono vere’; nell’uomo, per la prima volta, tutto - la sorte dell’intero universo, il successo o il fallimento della Creazione - è veramente in gioco. Schelling è radicalmente ‘antropo­ centrico’: l’intero della natura, l’universo in quanto tale, è stato crea­ to per fungere da scenario per la battaglia etica dell’uomo, per la bat­ taglia tra Bene e Male.76 Di conseguenza Schelling può affermare che 75 L’esempio più chiaro, di certo, è il caro vecchio Partito Comunista ‘totalita­ rio’, che dichiarava di rappresentare direttamente la liberazione delfiniera umanità (in contrasto con tutti gli altri agenti politici, che rappresentavano limitati interessi di classe): ogni attacco contro di esso equivaleva a un attacco contro tutto ciò che cera di progressista nell’intera storia dell’umanità... 76 A questo riguardo la procedura di Heidegger in Essere e tempo è l’esatto op­ posto di quella di Schelling. Schelling (e, tra gli altri che seguono le sue orme, Otto Weininger) propone una lettura etica dell’ontologia (il latto stesso della realtà, il fot-

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Dio ama e vuole la natura e l’universo, la sua intera Creazione, solo in nome dell’uomo e nell’uomo. In tal modo egli può anche rendere conto della strana sensazione che proviamo quando ci imbattiamo in una cattiva azione di proporzioni enormi: è come se questo genere di azioni avesse a che fare non solo con gli esseri umani ma con l’intero universo - come se, in esso e attraverso di esso, l’universo in quanto tale fosse andato storto, fosse stato pervertito, fosse uscito fuori dai binari (pensiamo, per esempio, agli episodi di furia naturale - ter­ remoti, eclissi solari - che hanno accompagnato la Crocifissione). In questo preciso senso l’uomo è per Schelling ‘l’essere del Centro’. Forse il riferimento a una specifica tecnica hitchcockiana può essere di qualche aiuto: in una serie di suoi film abbiamo un’inquadratura che, per la sua connessione con l’inquadratura precedente, è percepi­ ta dagli spettatori come un’inquadratura soggettiva (punto di vista); poi, mentre la telecamera rimane immobile, proprio il soggetto il cui punto di vista sembrava essere rappresentato da questa inquadratura entra in essa — cioè entra, per così dire, nella sua stessa immagine/cor­ nice. Questo è quanto avviene con la centralità’ dell’uomo: in un certo senso l’uomo ha ‘il proprio centro in se stesso’, a differenza degli oggetti naturali-materiali il cui ‘centro di gravita è situato al di fuori (e ciò è il motivo per cui, precisamente, la materia è subordina­ ta alla forza di gravitazione).77

to che l’universo esiste, implica una decisione etica; ne è una dimostrazione il fatto che, in Dio, il Bene abbia prevalso sul Male, l’espansione sulla contrazione); laddove Heidegger ha l’abitudine di prendere una categoria la cui connotazione etica’ nel nostro linguaggio comune è indelebile (quella di colpa [Schuld\t l’opposizione di esistenza ‘autentica’ e ‘inautentica’) e di privarla di questa connotazione, cioè offren­ dola come una descrizione neutrale della difficile situazione ontologica dell’uomo (Schuld come designazione del fatto che l’uomo, a causa della sua finitudine, deve optare per una serie limitata di possibilità, sacrificando tutte le altre, ccc.). Questa negazione della connotazione ‘etica’, chiaramente, offre un caso esemplare della Verneinung freudiana: l’intera potenza dell’argomento heideggeriano giace sul fatto che la dimensione etica negata mantiene la sua efficacia sotterranea. 77 Vittorio Hòsle (in Praktische Philosophie in der modernen Welt, cit., p. 44) fornisce una soluzione estremamente ingegnosa alla contraddizione tra la tesi di Kant, assunta da Schelling, secondo cui il mondo è stato creato perché diventasse il campo di battaglia del conflitto morale tra Bene c Male, conflitto il cui successo — c cioè la vittoria finale del Bene - è garantito da Dio in quanto postulato neces­ sario della ragion pura, e la minaccia odierna dell’autodistruzione dell’umanità per mezzo di una catastrofe nucleare o ecologica: la necessaria esistenza di un’intelligenza extraterrestre. Vale a dire, se la possibilità di questa catastrofe è seria, ciò non rende l’universo privo di significato, e non smaschera dunque l’impotenza (o, peggio, la perversità) dell’atto di Creazione di Dio?

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Ricapitolando: negli esseri umani il Male, il Selbstheit del Fon­ damento, è auto-illuminato, elevato fino allo Spirito. Esso subentra come principio spirituale dell’egotismo che lotta per ridurre a stru­ mento e subordinare a sé ogni Alterità. Il Male puro è l’egotismo dello Spirito che recide tutti i legami con la natura. Come tale esso è - come Schelling sottolinea più volte - molto più spirituale del Bene, dal momento che il vero Bene spirituale non ambisce a domi­ nare la natura ma le permette di essere nella sua Alterità. In breve, il vero Male ‘diabolico’ consiste nella contrazione dello Spirito contro la Natura: in esso lo Spirito, per così dire, si offre con un suo proprio Fondamento, fuori dalle sue circoscrizioni ‘naturali’, con un punto d appoggio dal quale può opporsi al mondo e disporsi a conquistar­ lo. Per questa ragione è fuorviarne asserire semplicemente che nel Bene il Fondamento è dominato dalla Ragione, mentre nel Male la Ragione è dominata dal Fondamento: nel Male il Fondamento, come base naturale della Ragione, è brutalmente sottomesso dalla Ragione-Luce egotisticamente pervertita — dal principio del Selb­ stheit che vuole se stesso nella piena consapevolezza di sé.78 L’emergenza del Male può anche essere presa in conto come la lacaniana ‘castrazione (simbolica)’ - cioè la differenza tra una struttura formale e gli elementi che riempiono i suoi spazi. La possibilità del Male è spalancata dalla minima distanza tra la struttura (il Centro

La sola soluzione che segue è di prendere seriamente c letteralmente la ripetuta insistenza di Kant sul fatto che l’imperativo morale non vale solo per gli uomini, ma per tutti gli altri esseri razionali finiti che forse, a nostra insaputa, esistono su altri pianeti, c di trarre la conclusione che questi ET, che prolungheranno la battaglia per la moralità in caso di autodistruzione dell’umanità, devono esistere... La maniera per evitare questa conclusione è di abbandonare la sua premessa fondamentale, il deter­ minismo assoluto: secondo Hòsle, Dio è onnipotente, Egli prevede tutto, inclusa la (eventuale) autodistruzione dell’umanità - in questo caso, ovviamente, la creazione dcH’univcrso c deH’umanità con la piena preconoscenza della sua futura autodistru­ zione è un atto privo di senso, perverso. Schelling, al contrario, rimane radicalmen­ te antropoccntrico’: il fato dell’uomo è aperto; egli può - ma non necessariamente - sprofondare nell’autodistruzione, e dunque causare la regressione dell’universo al movimento rotatorio prima della Ent-Scheidung, di conseguenza, ciò che è in gioco nella lotta umana per il Bene è il destino di Dio stesso, il successo o il fallimento del suo arto di Creazione. 71 Da una prospettiva hegeliana, dovremmo sottolineare l’ambiguità della nozione schcllinghiaila di Male come il principio del Fondamento innalzato alla potenza della Ragione-Luce: questa non è forse proprio la definizione di Ragione? Non è la Ragione stessa il ‘Fondamento illuminato’?

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versus la sua base inferiore o la sua periferia) e gli elementi (Ragione, Fondamento). Per mezzo di questa distanza la Ragione non è più automaticamente al Centro: vale a dire, è possibile che questa situa­ zione ‘naturale’ sia pervertita e che il Fondamento si piazzi al centro. Il paradosso, chiaramente, è che la Ragione è il Centro: il Centro è semplicemente la Ragione stessa nella sua reduplicalo, come ‘ri­ velata’. La logica qui è la stessa di quella del nome-del-padre: nel momento in cui il ‘padre’ diventa un nome simbolico, non coincide più immediatamente con la persona empirica del padre, così che è possibile per una persona che non è un ‘vero padre’ di ‘funzionare’ effettivamente come se lo fosse, e viceversa. Per questa precisa ragio­ ne, il Male può intervenire solo all’interno dell’universo simbolico-, esso designa il divario tra un’entità reale e la sua reduplicatio simbolica, così da poter essere meglio definito come tautologia perturbata. Nel Male ‘il padre non è più il Padre’ o ‘il Centro non è più al centro’.79 Questa inversione può verificarsi solo nell’uomo dal momento che l’uomo è la sola creatura che ha in se stessa la ‘potenza del cen­ tro’ e può usarla liberamente, ponendo al centro sia la Ragione — il ‘Centro stesso’ - sia il Fondamento. Anche Dio ha in sé la ‘potenza del centro’, ma dal momento che la sua natura è perfetta, è insensato definire la sua libertà come la libertà di fare il Bene o il Male - in lui, la struttura formale del Centro si sovrappone direttamente con il re­ gno della Luce della Ragione in quanto vero Centro. Vale a dire che Egli, per così dire, usa automaticamente la sua libertà per scegliere il Bene. Le creature animali, dall’altra parte, mancano della ‘potenza del centro’, la loro volontà non è auto-illuminata, ed esse gravitano intorno a un centro che è a loro esterno. Questo squilibrio tra for­ ma e contenuto è responsabile dell’intrinseca instabilità del Male, a causa della sua natura auto-distruttiva: la Volontà malvagia ‘vuole tutto’, lotta per dominare l’universo, ma inevitabilmente collassa, dal momento che essa si basa su di una inversione ‘innaturale’ della corretta relazione tra differenti elementi e/o potenze.

79 La famosa battuta di Jean-Luc Godard «ogni film deve avere un inizio, una metà e una fine, anche se non necessariamente in quest’ordine» si basa proprio su questo vuoto della reduplicatio che separa per sempre ‘quello che effettivamente ha luogo nel principio’ dal principio ‘in quanto tale’ (la determinazione formale di Principio): potrebbe ben accadere che il principio ‘in quanto tale’ non sia al principio...

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L’inevitabile conclusione delle Ricerche filosofiche è dunque che Dio, nella misura in cui è Egli stesso impegnato nel processo della Creazione, diviene Dio attuale solo attraverso la libera decisione del­ l’uomo per lui. Non è difficile distinguere qui gli echi della vecchia idea teosofica sostenuta, tra gli altri, da Meister Eckhart, secondo cui Dio stesso è nato attraverso l’uomo. L’uomo dà alla luce il Dio vivente dal suo interno, vale a dire, compie il passaggio dalla divinità impersonale, anonima, alla responsabilità personale. Tutto ciò ovvia­ mente carica l’uomo del peso di una responsabilità terribile: la sorte dell’intero universo - e, fondamentalmente, di Dio stesso - dipende dai suoi atti. Ogni vittoria umana sul Male, ogni emergenza di una comunità di credenti, contribuisce alla formazione del corpo mistico di Dio stesso, e, viceversa, la scelta del Male da parte dell’uomo af­ ferma il Selbstheit di Dio, la sua forza contrattiva. Schelling descrive l’inferno come il ‘fuoco travolgente dell’egotismo divino^. Qui egli si inscrive nel ceppo della teologia messianica rivoluzionaria il cui rappresentante più esplicito nell’ambito marxista è Walter Benjamin (si vedano le sue Tesi di filosofia della storia)-, la storia è un processo aperto’, una successione di segni vuoti, di tracce che puntano verso il momento escatologico a venire in cui ‘tutti i conti verranno rego­ lati’, tutti i debiti (simbolici) verranno saldati, tutti i segni acquisi­ ranno il loro pieno significato. La venuta di questo momento non è garantita in anticipo ma dipende dalla nostra libertà. Il risultato della lotta per la libertà determinerà il significato del passato stesso: verrà deciso ciò che le cose ‘erano veramente’. Possiamo vedere come solo una linea sottile e appena percettibile separa questa logica mes­ sianica rivoluzionaria dal più estremo fatalismo secondo cui tutto è già accaduto e le cose, nel processo temporale del divenire, diventano semplicemente ciò che sono sempre-già state: il passato stesso non è fissato, esso ‘sarà stato’ - vale a dire, attraverso la liberazione-a-venire, diventerà ciò che è senipre-già stato. I tre livelli della libertà

T} {capitolando ancora: in cosa consiste, secondo Schelling, la XvCaduta dell’Uomo? Quando l’uomo emerge come auto-co­ scienza, egli si pone come un essere auto-centrato, come un soggetto

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che riduce tutte le altre entità a strumento della propria auto-af­ fermazione, a meri oggetti di cui appropriarsi e da sfruttare. L’im­ pensabile paradosso per questo atteggiamento auto-centrato è che la mia auto-coscienza non è semplicemente ‘mia, la coscienza di me stesso come soggetto - come auto-coscienza, io sempre sempre-già ‘decentrato’, un mezzo in cui un Oggetto trascendente (l’Assoluto) raggiunge coscienza, diventa consapevole di sé. Non è possibile per me comprendere questo Oggetto, dal momento che esso mi trascen­ de - io posso apprendere la sua dimensione solo per mezzo di un cedimento estatico. Il prezzo che la coscienza attiva-appropriativa paga per la sua falsa pretesa di essere il proprio Centro è che il mon­ do che essa abita necessariamente assume l’apparenza di una Potenza estranea, ostile, superiore, indifferente alla sua situazione. Qui in­ contriamo un caso esemplare di ciò che Hegel chiama ‘determinazio­ ne riflessiva’: nella mia percezione della realtà oggettiva come Regno di Satana, come luogo della miseria e del dolore, io percepisco il mio atteggiamento egotistico, auto-centrato, verso questa stessa realtà in forma ‘oggettivata’, ‘reificata’ - o, in lacanese, ricevo il mio stesso messaggio nella sua forma inversa. Ivi risiede la cruciale ‘stoccata’ politica di Schelling: più gli indi­ vidui si esperiscono come soggetti auto-responsabili e auto-centrati che perseguono i loro scopi autonomi e auto-posti, più lo Stato si oppone a loro nella forma di un’autorità estranea e ostile che demoli­ sce i loro progetti - cioè essi sono sempre più incapaci di riconoscere loro stessi, la loro sostanza spirituale, nello Stato. In una prospettiva utopica (utopica, dal momento che nell’uomo è intrinseco il falso orgoglio) lo Stato verrebbe scartato in favore di una comunità reli­ giosa fondata sulla relazione estatica con l‘Altro trascendente. Que­ sta relazione estatica è la più alta libertà accessibile all’uomo. In altre parole Schelling distingue tre livelli di libertà: • La comune nozione di libertà è concepita come libertà di scegliere, di decidere ‘liberamente’ dopo aver ponderato i prò et cantra, senza tener conto di alcuna coercizione esterna: come dessert ho scelto torta di mele piuttosto che di ciliegie perché le mele mi danno più piacere, non perché ero costret­ to a fere così sotto la pressione di qualche autorità (genitori, classe sociale...). Questo è il livello dell’utilitarismo: nel suo comportamento l’uomo segue il ‘calcolo felicifico’, così se uno

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sapesse e fosse capace di manipolare stimoli che risvegliano piacere o dolore, saprebbe controllare il suo comportamento, e dunque dominarlo. Se questo fosse tutto, comunque, l’uo­ mo agirebbe come il proverbiale asino di Buridano e morireb­ be di fame tra due mucchi di fieno.

• Il successivo e più alto livello della libertà è dunque l’in­ commensurabile, infondata, decisione, una decisione basata su nessuna ragione positiva ma solo su se stessa. Il caso para­ digmatico, ovviamente, è l’atto primordiale per cui io scelgo la mia eterna natura. Un tale atto getta un orribile incantesimo sulle persone dalla volontà debole - cioè che qui si incontra è la terrificante ostinazione della Volontà su se stessa, irrispetto­ sa delle ragioni prò et cantra — come se per un breve momento la catena delle connessioni causali fosse stata fatta a pezzi. Il caso paradigmatico della libertà non è una persona che, ce­ dendo alle tentazioni ‘patologiche’, abbandona il suo dovere, ma una persona che, con ‘irrazionale’ ostinazione, segue la sua strada anche se essa va chiaramente contro i suoi interessi materiali (basti ricordare la storia preferita di Orson Welles sullo scorpione che punse la rana sulla cui schiena stava attra­ versando il fiume, sebbene sapesse che come conseguenza del suo atto sarebbe annegato). Questo soltanto è il Male spiri­ tuale, il Male demoniaco, diabolico, di cui Schelling dice che è incomparabilmente più spirituale, lontano dal Genuss sen­ suale, del Bene.80 Il Bene implica sempre un’armoniosa unità di sensuale e spirituale - è uno Spirito che penetra e illumina la natura dall’interno e, senza essere obbligato a essa, la rende eterea, la depriva della sua impenetrabile inerzia - laddove il vero Male ‘diabolico’ è un pallido, esangue e fanatico spiri­ tualismo che disprezza la sensualità e si volge a dominarla e sfruttarla violentemente. Questo spiritualismo diabolico, una perversione della vera spiritualità, è l’oscuro Fondamento che ha ‘raggiunto se stesso’, la propria ipseità - vale a dire, ha rag­ giunto la Luce e si è posto in quanto tale.81 80 Cfr. EW.J. Schelling, “Lezioni di Stoccarda (1810)”, in Scritti sulla filoso­ fia, la religione, la libertà, eie., p. 180. 11 Per una comprensione adeguata dell’affermazione di Schelling secondo cui il Male è clas reinste Geistige, molto più spirituale del Bene, può essere d’aiuto un rife-

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• Questa libertà come infondato arto di decisione, come ostinazione vertiginosa di una Volontà attuale che ignora le ragioni, non è ancora, tuttavia, la più alta. Ciò che sta ancora al di sopra è il mio me stesso sommerso nell’abisso primordia­ le \Ungrund\ dell’Assoluto, nella primordiale Volontà che non vuole niente - uno stato in cui attività e passività, essere-attivi ed essere-agiti, si sovrappongono armoniosamente (il caso pa­ radigmatico, ovviamente, è l’esperienza mistica dell’Amore). In questo contesto Schelling dà una caratteristica svolta alla distinzione tra Vernunfie Verstand, Ragione e Comprensione, che gioca un ruolo cruciale nell’idealismo tedesco: ‘la ragione non è altro che l’intelletto nella sua sottomissione a ciò che gli è superiore, all’anima.’82 La Verstand è l’intelletto umano attivo, come potere di attiva presa e decisione grazie al quale l’uomo si afferma come Soggetto pienamente autonomo. Tut­ tavia l’uomo raggiunge il suo apice quando trasforma la sua soggettività nel Predicato di una Potenza ancora più alta (nel senso matematico del termine) - quando egli, per così dire, fa spazio all’Altro, ‘depersonalizza’ la sua più intensa attività e la compie come se qualche altra, più alta Potenza agisse attra­ verso lui, lo usasse come strumento - come un artista che, al massimo della frenesia creativa, si esperisse come mezzo me­ diante il quale qualche Potenza più sostanziale e impersonale si manifesta.

rimcnto alla formula lacaniana della castrazione simbolica (~phi\ il godimento - phi — è permesso, ma solo nella misura in cui incorpora il ‘meno’ della castrazione, e cioè nella misura in cui è addomesticato, ‘{silicizzato’, sottoposto alla metafora paterna). Come ha osservato Jacqucs-Alain Miller, è possibile per i due clementi della formu­ la, - ephi, separarsi, dividersi l’uno dall’altro, in modo tale da ottenere da un iato il puro (-), il Simbolico privo della vita-sostanza del godimento c reso dunque sterile — cioè la cancellazione radicale del godimento - c dall’altro phi, il godimento che è, per così dire, libero, e vaga in libertà al di fuori del Simbolico. Il prezzo, ovviamente, è che questo godimento non è più esperito come ‘sano’, liberatorio e soddisfacente, ma è marchiato come qualcosa di putrido, soffocante c oppressivo. Basti ricordare l’incisiva descrizione di Lenin dello status ‘spirituale’ della Russia dopo il giro di vite della rivoluzione del 1905: un’atmosfera di pura e mistica spi­ ritualità, di violento rifiuto della corporeità, accompagnata da un’ossessione per la pornografia e la perversione sessuale... La lezione è che la cosiddetta sessualità ‘sana’, lungi dall’essere un ‘naturale’ stato di cose che solo occasionalmente viene turbato, è sospesa su di un fragile equilibrio, sulla combinazione di due clementi ( - c /»/?/), che può disintegrarsi nei suoi due componenti in ogni momento. “ Ivi, p. 183.

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La nozione materialista di soggetto AA uesra categorizzazione tripartita della libertà è fondata sulla distinzione tra l’abisso della pura Libertà e Dio come Entità [Seienaes\ che non è più la libertà stessa ma è libera-, la pura Libertà non è ancora il Dio personale ma la Deità impersonale [Gottheit]. La Libertà può diventare un predicato solo se stiamo già trattando con la dualità dell’Esistenza e del suo Fondamento: Dio in quanto per­ sona reale che è libera deve possedere un fondamento contratto del suo essere che non è direttamente accessibile ma può essere inferito solo dall’attività di Dio come sua base solitaria e ritirata. La realtà in quanto tale (inclusa la realtà psichica di una persona) implica con­ trazione: senza contrazione essa esplode in pezzi in espansione illi­ mitata... Hogrebe ha dunque ragione ancora una volta: il problema cruciale di Schelling riguarda la relazione ‘impossibile’ tra Soggetto e Predicato. Ciò che ha luogo in questo passaggio dalla libertà come soggetto alla libertà come predicato - a un’entità che non è la libertà stessa ma è un essere libero - è il ‘disciplinamento’ della libertà: la trasformazione della libertà in un predicato la rende sopportabile, neutralizza il suo impatto traumatico poiché, fintanto che la libertà rimane il suo proprio soggetto e non un predicato, essa può com­ piersi solo nella forma di un vortice distruttivo che divora ogni con­ tenuto determinato, un fuoco che dissolve ogni forma fissata. Nelle ultime pagine di Liberté et existence, Jean-Fran^ois Marquet fornisce un chiaro quadro dell’enigma della libertà a cui Schelling cerca di far fronte.83 Schelling interpreta il frammento parmenideo «lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero» (8,34) come l’unità del Das-Sein e del Was-Sebr. tutto ciò che è deve es­ sere qualcosa, deve possedere un concetto che lo rende pensabile nel suo Was-Sein, in ciò che è — quello che è in gioco è precisamente il concetto, non un semplice nome. Tuttavia, come osserva Schelling, quando abbiamo a che fare con una persona la relazione tra concetto e nome è l’opposto di ciò che essa è rispetto a una cosa: il concetto di una cosa fornisce una qualche minima informazione su di essa, mi dice cos’è quella cosa, mentre il suo nome non mi dice niente; nel caso di una persona, al contrario, non posso dire di conoscerla’

” Jean-Fran^ois Marquet, Libertà et existence, étude sur Li fonnation de la philosophie de Schelling, cit.» pp. 569-570.

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davvero se so solo che esiste e cosa è (le sue caratteristiche positive). Di fatto ‘conosco’ una persona solo quando concepisco sia la sua esistenza (il fatto che esiste) sia il suo concetto (ciò che è) come i due ‘predicati’ dell’io, della persona in quanto tale, dell’imperscrutabile nucleo della sua libertà: ciò che devo sapere di una persona per affer­ mare di conoscerla non è semplicemente cosa è ma, soprattutto, chi è — ‘ciò che vuole’ come essere libero.84 Vera libertà non significa solo che non sono interamente deter­ minato da ciò che mi circonda ma anche che non sono interamente determinato da me stesso (dal mio stesso concetto, da ciò che sono, dalle mie caratteristiche positive): una persona si rapporta libera­ mente sia alla sua esistenza che al suo concetto - vale a dire, non è completamente determinata da loro ma li può trascendere (può mettere in gioco, rischiare, la sua esistenza, come pure può trasfor­ mare il fascio di caratteristiche che costituiscono la sua identità). Il fatto che un’Altra Persona sia per me originariamente un enigma, un abisso, oltre le sue caratteristiche positive, spiega il ruolo cruciale giocato àaìVobbligazione e dal debito simbolici, dal disperato tenta­ tivo di vincolare l’Altro nelle relazioni intersoggettive: dal momento che non posso direttamente impossessarmi dell’Altro, dell’abisso che forma il centro elusivo del suo essere, posso solo portarlo alla Parola. E Schelling ha semplicemente preso sul serio e letteralmente il fatto che Dio stesso, questo assoluto Altro, è anche una persona libera: come tale, pure Lui può diventare libero soltanto guadagnando una distanza verso il Fondamento del suo essere, rapportandosi libera­ mente a questo Fondamento, senza farsi determinare interamente da esso. Il paradosso (chiaramente un sacrilegio dal punto di vista M Tutto questo andrebbe messo in relazione con la lettura lacaniana della no­ zione freudiana di Vorstellungs-Repràsentanz: non semplicemente ‘una rappresenta­ zione che agisce come rappresentante della pulsione organica’ ma ‘un (significante) rappresentante della rappresentazione (perduta)’. Il nome di una persona è una tale Vorstellungt- Repràsentanz: ciò a cui mira, ciò che circonda senza significare, è pre­ cisamente quell’abisso in un’altra persona che elude le rappresentazioni [Vorstellungen], quella X ‘irrappresentabile’ oltre le proprietà positive, oltre ‘ciò che sono positivamente’, che mi rende una persona. E, incidentalmente, tutto questo ci per­ mette anche di distinguere lo sfondo kantiano della psicoanalisi: non solo il punto piuttosto ovvio che la pulsione come Cosa-in-sé [Ding-an-sich] è accessibile solo attraverso le sue Vorstellungen psichiche ma, soprattutto, il fatto non così ovvio che il Ding kantiano è, nella sua dimensione fondamentale, un altro soggetto, non un oggetto fisico.

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ortodosso) è che questa relazione libera verso il Fondamento pre­ suppone, al contrario, una dipendenza dal Fondamento: la Luce di Dio, l’emanazione creativa del suo Logos è, come dice Schelling, una ‘follia regolata che estrae la sua energia dal vortice delle pulsioni (come per una persona umana, che è veramente libera non quando si oppone alle proprie pulsioni ma quando sfrutta abilmente la loro energia, quando ne controlla la follia...). Seppur in maniera paradossale Schelling, con questa specifica no­ zione di libertà come libero relazionarsi del soggetto alla sua esisten­ za, è stato il primo a delineare i contorni di una nozione materialista di soggetto. Nella comune versione (idealista e materialista) dell’op­ posizione filosofica di soggetto e oggetto, la materialità è sempre dal lato dell’oggetto: l’oggetto è denso, impenetrabile e inerte, mentre il soggetto rappresenta la trasparenza del pensiero a se stesso. In questo orizzonte, il solo modo di asserire una posizione ‘materialista’ è di provare a dimostrare come il soggetto è sempre-già un oggetto (come lo sforzo derridiano di dimostrare che la voce è sempre-già una scrit­ tura, che sempre-già contiene qualche traccia materiale che introdu­ ce un minimo di differanza, di non-coincidenza con se stessa). In chiaro contrasto con la versione classica, la nozione materiali­ sta di soggetto delineata da Schelling (ma anche da Hegel, nella sua giustamente famosa descrizione della lotta tra Servo e Padrone - per non menzionare Lacan, ovviamente) si focalizza sulla fondamentale ‘impenetrabilità’, sulla densità inerte, che pertiene sempre al nostro incontro con un Altro Soggetto - che distingue questo incontro dal­ l’incontro con un oggetto ordinario. Inoltre, benché possa suonare paradossale, gli oggetti ordinari sono in questo preciso senso meno ‘materiali’ di un Altro Soggetto, dal momento che essi mancano del­ l’opacità tipica del desiderio dell’Altro, dell’eterno enigma del 'Che vuoi?\ di cosa l’Altro vuole da me. Da ciò si è portati ad affermare che il Ding freudiano-lacaniano (e già kantiano) è originariamente l’Altro Soggetto, non una mera cosa non-soggettiva. Un ordinario oggetto materiale è alla fine sempre trasparente, gli manca l’enigma che lo renderebbe effettivamente opaco... Questa originaria violen­ za dell’Altro, la violenza costitutiva di ciò che Heidegger chiamava Mit-Sein, il nostro relazionarci a un altro essere umano, è ciò che viene completamente perso nell’ideologia habermasiana del libero spazio del dialogo intersoggettivo (forse anche l’analisi diversamente esemplare di Heidegger del Mit-Sein in Essere e Tempo passa troppo

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velocemente sopra questa dimensione traumatica).85 È sullo sfondo di questa nozione materialista di soggetto che si può comprendere il limite dell’impresa filosofia di Schelling, e con ciò la causa del fallimento del progetto dei Weltalter. Come abbiamo già indicato, il criticismo di Schelling (che sembra imporsi da una prospettiva lacaniana) riguarda la sua incapacità ad attraversare il fantasma’: Schelling non rimane forse catturato in una spirale fantasmatica? La problematica schellinghiana di un atto senza tempo che è sempre-già compiuto e per questo precede la sua genesi temporale cioè, è il presente precedente alla sua attuale emergenza — non richie­ de forse la struttura del fantasma nella sua massima purezza? E, inol­ tre, non è la presupposizione di un tale atto eterno anche la matrice elementare àc\Xideologia*. Non è quindi la massima affermazione che si possa fare su Schelling dire che egli affermi apertamente il para­ dosso costitutivo (il circolo temporale, il ‘sempre-già’) dell’ideologia? Egli non evade in tal modo la vera domanda ‘materialista’ su come possa un processo materiale-temporale causare retroattivamente la sua stessa fondazione fàntasmatica? La risposta è no: ciò che secondo Schelling precede il processo materiale-temporale non è un eterno ordine ideale, e così via, ma il puro vuoto/abisso \Ungrund\ della Libertà. Il punto di vista di Schelling è precisamente questo: se la Libertà deve attualizzarsi — e cioè diventare il predicato di un’Entità libera - essa deve ‘contrarre’ il Fondamento opaco. Il problema è, invece, che Schelling formula l’essere ‘fuor di sesto’, lo squilibrio coinvolto in questa contrazione primordiale, come condizione ontologica dell’universo (‘c’è qualco­ sa e non il niente’ solo attraverso una catastrofe primordiale, solo nella misura in cui le cose sono fuori di sesto...), nei termini della mitologia pre-moderna di un universo sessualizzato (dell’equilibrio primordiale da ristabilire, ecc.). Su questo punto la sua ambiguità è radicale e irriducibile: la logica del suo pensiero lo spinge ad af85 A un livello diverso, la stessa dimensione traumatica è offuscata anche dal concetto althusseriano di interpellanza: quando Althusser definisce l'interpellanza come il (mis)riconoscimento costitutivo del soggetto nella chiamata dell'Altro - c cioè come l’atto di identificazione col grande Altro - in tal modo evita il momento intermedio, transitorio ma necessario della ‘interpellanza prima dell’identificazione’ in cui il soggetto è messo a confronto con una chiamata opaca del('Altro a cui non può venire attribuito alcun significato discernibile c che, pertanto, preclude ogni possibilità di identificazione; vedi il Capitolo 3 in Slavo; Zizek, The Metastases of Enjoyment, Verso, Londra 1994.

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fermare l’inevitabilità dell’essere ‘fuor di sesto’ e della Caduta del­ l’uomo - proprio quando A dovrebbe prevalere su B, le cose devono andar male - ma la stessa logica lo porta a mantenere il sogno di una riconciliazione finale — dovrebbe essere possibile guarire la ferita e ristabilire l’equilibrio perduto, ovvero l’armoniosa linea di sviluppo della ‘grande catena dell’essere’ dagli stadi più bassi a quelli più alti (si veda, ad esempio, il dialogo Oaray contemporaneo ai Weltalter, in cui la morte è ridotta a passaggio da uno stadio più basso, la vita terrestre, a uno più alto, il ‘mondo degli Spiriti [Geisterwelt]'). Siamo dunque tornati al punto di partenza: l’errore non può essere semplimente tolto dalla Verità - vale a dire che per Schelling è stato possi­ bile compiere l’inedito passo verso la contingenza radicale soltanto nella forma di una ‘regressione’ alla mitologia pre-moderna di un universo sessualizzato. Proprio questa ‘regressione’ gli ha permesso di formulare il concetto materialista di soggetto (l’opaco-enigmatica Alterità della libertà) in contrasto al soggetto ‘idealista puramente spirituale: il soggetto materialista come punto in cui la natura ‘im­ pazzisce’ ed esce fuori dai binari...

L’Assoluto ‘Fuori di testa’ T T no dei temi fondamentali del tardo pensiero schellinghiavJ no è l’originaria ex-stasi, Ausser-sich-gesetzt-werden, dello Spirito: l’attività predicativa della Comprensione è fondata su un riferimento pre-predicativo a un ‘Fuori costitutivo’. Vale a dire, lo Spirito è costitutivamente ‘fuori di sé’; una sorta di cordone ombe­ licale lo connette a un nucleo traumatico che è allo stesso tempo la sua condizione di possibilità (il pozzo da cui lo Spirito estrae le sue risorse) e la sua condizione di impossibilità (l’abisso il cui vortice onnidistruttivo minaccia continuamente di ingoiare lo Spirito). Nella migliore tradizione dei giochi di parole hegeliani, Schelling riattiva il significato letterale di ‘fuori di testa’, la comune espressione per lo stato di pazzia: la costitutiva ‘follia’ della mente umana risiede nel fatto che essa è originariamente ‘fuori di testa, estatica rispetto a se stessa. In questo modo egli può fornire una risposta persuasiva alla critica kantiana secondo cui le elucubrazioni Sull’Assoluto implicano una ‘regressione’ alla metafisica pre-critica — un’illegittima incursio­ ne nel dominio noumenico, un salto proibito dalla mera nozione di Dio alla sua esistenza attuale.

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Dal punto di vista di Schelling, i termini del tradizionale proble­ ma della prova ontologica di Dio devono essere invertiti: ciò che è veramente problematica non è l’esistenza di Dio ma il suo concetto. Dal momento che lo Spirito stesso è originariamente non ‘dentro di sé’ ma ‘fuori di sé’, la vera domanda non è come possiamo progredire dal mero concetto di Dio alla sua reale esistenza, ma l’esatto contra­ rio. Ciò che viene prima, ciò che è sempre-già qui, è l’esperienza di una ‘insensata’ esistenza pre-predicativa e pre-semantica, e il vero problema per la filosofia è come possiamo compiere il passaggio da questa insensata esistenza alla Ragione - cioè come il nostro universo venga in primo luogo intrappolato nella ragnatela della Ragione... Qui è dove Schelling si separa dall’idealismo filosofico che non è pronto ad ammettere la dipendenza del logos dal suo Fondamen­ to. L’Idealismo è pienamente giustificato nel suo affermare che non si può ridurre la Cultura, il dominio dei Significati spirituali, a un semplice prolungamento della natura, a un mezzo più differenziato, più ‘intelligente’ di sopravvivenza biologica. Lo Spirito è Fine-insé, i cui dintorni fisici e biologici alimentano il suo Fondamento. Il paradosso che si deve sopportare, comunque, è che l’universo dei prodotti ‘spirituali’ non è meno radicato nel suo Fondamento. L’at­ tuale minaccia di una catastrofe ecologica globale fornisce la prova fondamentale: l’universo della cultura umana dipende dall’equilibrio precario della nostra ecosfera; la minima variazione — l’esaurimento della fàscia d’ozono, il riscaldamento globale, per non parlare della possibilità che una cometa gigante colpisca la terra — può spazzar via la razza umana, e comportare la fine della civilizzazione. Lo stato del nostro universo ‘spirituale’ è dunque molto più fra­ gile di quanto possa sembrare: l’ambiente naturale in cui la nostra civiltà prospera è il prodotto di una serie di circostanze radicalmen­ te contingenti, così che in ogni momento, a causa delle impreviste conseguenze dell’attività industriale umana o della sua logica impre­ vedibile, la natura può ‘impazzire’ e uscire fuori dai binari. Per di più, la stessa umanità vive sulle macerie delle gigantesche catastrofi passate (le nostre principali fonti di energia, il petrolio e il carbone, recano testimonianza diretta di catastrofi globali di proporzioni qua­ si inconcepibili) e, per aggiungere al danno la beffa, la più probabile ipotesi sulle origini dell’uomo è che lo stimolo che spinse \ Homo sapiens a distinguersi dal regno della vita animale è stato qualche tumulto ecologico globale. In breve, la cometa che tutti temiamo

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ha già colpito la Terra - noi umani ne siamo la prova vivente! Così, di nuovo, il cerchio si chiude — vale a dire, la struttura della nostra paura di una catastrofe finale che ci attende nel futuro è chiaramente fantasmatica: questa catastrofe ha già avuto luogo, ciò che temiamo sono le nostre stesse origini eternamente passate’. jQm Schelling è agli antipodi di Kant: la Ragione è originariamen­ te ‘estatica, fuori di sé, non comincia mai in se stessa; la sua attività non è mai fondata in se stessa, ma sempre scatenata da qualche in­ contro traumatico, qualche collisione che offre l’impulso al pensiero - questa collisione, questo incontro col reale, distingue un’esperien­ za effettiva dalla mera possibilità dell’esperienza. Al contrario Kant, da bravo nevrotico compulsivo, procede nella direzione opposta: egli istituisce il reticolo delle condizioni di possibilità dell’esperienza per assicurarsi che l’esistenza effettiva del reale, l’incontro con la Cosa, non abbia mai luogo, così che tutto ciò che il soggetto incontrerà effettivamente sarà la già riqualificata-addomesticata realtà delle rap­ presentazioni...86 Schelling dà subito vita a una serie di associazioni ‘postmoderne’: la Ragione può prosperare solo sul Fondamento estraneo, ‘irraziona­ le’, del movimento rotatorio delle pulsioni da cui prende la sua forza vitale; ma deve allo stesso tempo mantenere un’adeguata distanza verso di esso — se va troppo vicino al vortice delle pulsioni corre il pericolo di perdere la sua identità e diventare folle:

Secondo l’eterno atto dell’autorivelazione, tutto è cioè nel mon­ do, così come noi adesso lo consideriamo, regola, ordine e forma; tuttavia nel fondamento si trova sempre l’irregolare, come se esso potesse una volta riapparire, e sembra che da nessuna parte l’ordine e la forma rappresentino l’originario, ma che dovunque un’irrego­ larità originaria sia stata ricondotta all’ordine. Questa è nelle cose l’inafferrabile base della realtà, il resto indivisibile, ciò che, malgrado gli sforzi più grandi, non si lascia ridurre all’intelletto, e rimane in­ vece eternamente nel fondamento. Da questo irrazionale è nato in senso proprio l’intelletto. Senza questa precedente oscurità non si dà alcuna realtà della creatura; la tenebra è il suo necessario retaggio.87 16 A uno sguardo più ravvicinato, le cose sono ancora più ambigue: per mezzo di questo gesto negativo - e cioè della delimitazione del Reale (delia Cosa in sé) dal dominio fenomenico delle semplici rappresentazioni - Kant apre, circoscrive il luogo del Reale che viene poi ‘popolato’ da Schelling. 87 F.WJ. Schelling, Ricerche filosofiche sull'essenza della libertìì umana, cit., p. 147. La determinazione schellinghiana di oggetto come ‘resto indivisibile’ è il

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Questo Fondamento è abbastanza simile alla figura della donna nei film di David Lynch: la Cosa traumatica, il punto di simulta­ nea attrazione e repulsione, ciò che rappresenta il vortice della Vita stessa che minaccia di ricacciarci nel suo abisso depressivo. Questo vortice pre-predicativo del Reale non punta forse direttamente alla lacaniana jouissancéì Non è lo stesso Schelling a determinare jl Rea­ le [das Reale] come movimento circolare delle pulsioni ‘irrazionali’ (pre-logiche, pre-simboliche) che trovano soddisfazione nella ‘insen­ sata ripetizione del loro cammino circolare?88 Per Schelling (come per Lacan) questo Reale è il Limite, l’ultimo ostacolo per cui ogni ‘idealismo semantico’, ogni tentativo di dispiegare l’Assoluto come matrice chiusa in grado di generare tutte le possibili significazioni dell’Essere, è destinato a fallire. Sia per Schelling sia per Lacan la versione più radicale di questo ‘idealismo semantico’ è, ovviamente, il sistema di Hegel, che è quindi il principale bersaglio delle loro critiche: l’ordine simbolico non può mai raggiungere il suo pieno compimento e chiudere il suo cerchio in quanto la sua stessa costitu­ zione comporta un momento in cui il Significato inciampa nel suo limite e si sospende nel godi-senso \Jouis-sense\.

La ‘formula del mondo’ T) er quanto possa sembrare accattivante per la nostra sensibilità X ‘postmoderna, una tale lettura è quantomeno fuori luogo. Essa è insufficiente alla Grundoperation dell’idealismo tedesco tipica di Schelling e di Hegel poiché non riesce a portare il dualismo tra

lacaniano avant la lettre, nella misura in cui va contro la doxa del soggetto indivisibile (‘l’individuo’, la sua unità indivisibile, in contrasto con l’oggetto che può essere diviso ad infinituni). Secondo Lacan, non solo il soggetto è divisibile, ma di fatto diviso: esso è il prodotto dell’operazione di divisione significante, mentre l'oggetto è il resto indivisibile, il ‘fuoriuscito’, di questa stessa operazione. Il ‘materna’ del fantasma di Lacan che esprime questo collegamento tra soggetto e oggetto ($ 0 a) è pertanto una formula che designa l’incontro di due entità radicalmente eterogenee: S come vuoto della distanza tra i significanti in una catena, e il resto inerte del reale che resiste alla simbolizzazione. Il ‘materna’ lacaniano è dunque proprio l’opposto del dispiegamento intrinseco del contenuto concettuale: esso esprime una collisione inconcepibile di due clementi la cui natura è radicalmente eterogenea. M Per inciso, Schelling ha scelto come suo sigillo la sfinge sulla ‘ruota della fortuna’, l’antico simbolo del movimento rotatorio della natura.

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la Ragione e il suo Fondamento al punto di auto-riferimento. Vale a dire: ciò che deve cadere è l’ultima barriera che separa la Ragione dal suo Fondamento ‘irrazionale’. Il compito più difficile, lo sforzo più grande della speculazione filosofica, è di portare alla luce la ‘follia [Wahnsinn]’ del peculiare gesto di istituzione del dominio del Peccato. Ogni Organizzazione di Senso, ogni schema concettuale universale con il quale tentiamo di comprendere la realtà, è in se stesso - nella sua forma fondamentale, per ragioni strutturali e non semplicemen­ te per circostanze contingenti - parziale, squilibrato, ‘folle’, legger­ mente ‘paranoico’ (come avrebbe detto il primo Lacan): la sua impo­ sizione disturba il ‘naturale ordine delle cose’ e gena l’universo nello squilibrio. In altre parole, non c’è alcuna Universalità neutrale, ogni Universalità, ogni sforzo per il Tutto, per una comprensione globale, porta il marchio indelebile di un’esclusività ‘patologica’ dell’Uno - e cioè, dipende dalla ‘parzialità’ della sua posizione di enunciazione.89

89 Questa tesi, secondo cui un Universale è sempre macchiato da qualche parti­ colarità, non è mai veramente neutrale, implica sempre un particolare punto di vista da cui il Tutto è dischiuso (ogni nozione universale di filosofìa comporta sempre la posizione di una filosofia particolare, per esempio), è, di certo, solamente un altro modo di affermare che ogni significante padrone (St) è ‘marchiato’, stigmatizzato, da a, dalla particolarità assoluta di un avanzo oggettuale. Un caso esemplare di questo Uno che sostiene il Tutto deU’Universalità è offerto da una rapida occhiata a qualsiasi manuale di filosofia: diventa chiaro come ogni universale, onnicomprensiva nozione di filosofìa sia radicata in una filosofia parti­ colare, come essa implichi il punto di partenza dell’i/w, di una filosofia particolare. Non esiste una nozione neutrale di filosofia da dividere in filosofia analitica, filosofia ermeneutica, ecc.; ogni filosofia particolare contiene se stessa e (la sua visione di) tutte le altre filosofie. O - come dice Hegel nelle sue Lezioni sulla storia dellafilosofia - ogni filosofia epocale è in un certo senso l’intera filosofia, non una suddivisione dell’intero ma l’intero stesso afferrato in una modalità specifica. Ciò che abbiamo qui dunque non è una semplice riduzione dell’universale al Particolare ma, piutto­ sto, una sorta di surplus dell’universale: nessun singolo Universale contiene l’intero contenuto particolare, dal momento che ogni Particolare ha il suo Universale, c cioè contiene una prospettiva specifica sull’intero campo. Se, allora, il Male risiede nella posizione soggettiva contratta’ implicata nella nostra presunta visione neu­ trale sull’intero campo universale, come ne usciamo? Il punto, ovviamente, è che il riferimento all’universalità è inevitabile, dal momento che è intrinseco al discorso in quanto tale: nel momento in cui parliamo, una sorta di dimensione universale è sempre coinvolta. Dunque la cosa da fare non è dichiarare o ammettere aperta­ mente che parliamo solo dalla nostra posizione particolare (questa affermazione già comporta una visione di totalità all’interno della quale si situa la nostra posizione particolare), ma ammettere l’irriducibile pluralità degli Universali stessi: la discordia è già al livello dell’Univcrsalc, così che la sola vera autolimitazionc è ammettere la particolarità del proprio Universale...

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Così, di nuovo, non è sufficiente dire che non vi è una struttura con­ cettuale perfettamente neutrale che riesca a comprendere la realtà in modo davvero imparziale. Il punto è, invece, che lo status di questa ‘parzialità’ è a priori, è strutturale. Qui abbiamo a che fare con l’intrinseco elemento costitutivo del­ l’emergenza di una struttura formale — in breve, con la condizione di consistenza della struttura. Ma a causa di questo fondamento esclu­ sivo in un Uno — a causa di questa parzialità e distorsione sostenuta da un minimo di egotismo — la struttura si disintegra, perde la sua consistenza nella pluralità dispersa. Quando seguendo Schelling ri­ petiamo che ogni Ordine sorge da e ha le sue radici in un generale Disordine, non stiamo però riportando la solita prospettiva relativi­ sta secondo cui l’attività ordinatrice dell’uomo è limitata a tentativi circoscritti di introdurre un minimo di Ordine nel vasto oceano del caos primordiale — a tentativi che, in quanto tali, sono fondamen­ talmente condannati a fallire. Il nostro punto di vista, invece, è che l’imposizione di un Ordine è un atto di suprema violenza — l’Ordine è un’imposizione violenta che getta l’universo fuor di sesto.90 Il Disordi­ ne è la condizione di possibilità dell’Ordine non solo nel senso che la nozione di Ordine è concepibile solo sullo sfondo dei Disordine generale, come una serie di tentativi circoscritti di limitare il Disor­ dine — il più grande Disordine, la più grande violazione del naturale equilibrio’ èproprio l’imposizione di un Ordine (influenzato). Così sia­ mo tornati al punto di partenza: ‘l’inconscio’ non è in primo luogo il Reale nella sua opposizione all’ideale. Nella sua dimensione più radicale ‘l’inconscio’ è, piuttosto, l’atto di decisione/difFerenziazione con il quale l’ideale si costituisce nella sua opposizione al Reale e im­ pone il suo Ordine al Reale, l’atto per cui il Presente si differenzia dal Passato - vale a dire, l’atto con il quale il movimento rotatorio delle pulsioni è ‘represso’ nel passato eterno. Non è questo chiaramente indicato nella ‘formula del mondo \WeltformeDf di Schelling tratta dai Weltalter IIP.-?' \ _____ B =(A = B))

90 ^Anello di Wagner non testimonia un simile presagio? L’universo del logos di Wotan, dei contratti simbolici e delle leggi, è fondato su una rottura originaria c in quanto tale è destinato a cadere in rovina... 91 EW.J. Schelling, Le età del mondo, cit., p. 146.

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- la sempre-crescente conservazione [Aufhebun$ del Reale (B) nell’ideale (A), la progressiva subordinazione del Reale all’ideale, di­ pende dall’eccezione di una B che, come fondamento escluso del processo di conservazione, ne garantisce la consistenza. Questa B supplementare che mette-tra-parentesi/racchiude la ‘conservazione’ progressiva di B da parte di A, fornisce una definizione minimale di materialismo dialettico: la fondamentale tesi materialista è che un Universale può diventare ‘per-sé’, essere ‘posto in quanto tale’, solo nella misura in cui una sorta di cordone ombelicale lo collega a un particolare elemento che, dal punto di vista della posizione ‘ufficia­ le’, è semplicemente una classe dell’Universale. In altre parole, l’ele­ mentare illusione idealista risiede nel credere alla possibilità di un Universale puramente neutrale, un Universale che non sia ‘ancorato’ a un particolare luogo materiale (o, relativamente al linguaggio, nel credere a un puro enunciato che non implichi una particolare/parziale posizione soggettiva di enunciazione). Hogrebe è allora del tutto giustificato a completare l’affermazio­ ne hegeliana «Das Wahre is das Ganze» (il Vero è l’intero) in questo modo: «Das Wahre ist so das Ganze bis auf Eins, dafìir steht das B nebem dem Kammerausdruck» (il Vero è l’intero fino all’Uno, ragion per cui B sta fuori dalle parentesi).92 Non è anche Hegel, a un livello differente, consapevole di questo? Non è precisamente questa la que­ stione della sua teoria del Monarca: per attualizzarsi come struttura della mediazione universale-razionale di tutto il particolare contenu­ to sociale lo Stato ha bisogno di essere racchiuso, fondato in un’ec­ cezione ‘irrazionale’, cioè nel Monarca, il quale introduce l’elemento di contingente capriccio ed egotismo personali e che, come tale, ap­ partiene certamente alla potenza di ‘B’? La condizione di possibili­ tà della Ragione è la condizione della sua impossibilità — o, come avrebbe detto Lacan, ‘c’è l’Uno [y’a de lUn]': una struttura razionale conforme deve essere ancorata a un’eccezione ‘irrazionale’ dell’Uno che, nella sua stessa funzione di eccezione, garantisce la consistenza della struttura. Per tale ragione - e ancora, tutto dipende da questo punto - la ‘repressione’ è sempre doppia: non solo il Reale è ‘represso’ - mediato, conservato, addomesticato — dall’ideale (messo al servizio dell’ideale), ma l’Ordine Ideale stesso emerge nella misura in cui la sua stessa ‘follia’ - l’atto violento della sua imposizione o, in termini 92

Wolfram Hogrebe, Priidikation und Genesis, eie., p. 112.

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kierkegaardiani, il suo ‘divenire’ — viene ‘repressa’. In breve, l’oscuro Fondamento non è semplicemente la base e lo sfondo della Luce della Ragione, ma in primo luogo la macchia oscura dello stesso gesto che dà luogo alla Luce in quanto opposta all’Oscurità. L’atto inconscio, la decisione che spezza il movimento rotatorio ‘irraziona­ le’ delle pulsioni, è esso stesso radicalmente contingente, infondato — in breve: ‘irrazionale’. È come se Schelling fosse a questo punto imprigionato in una ra­ dicale ambiguità: egli a più riprese soccombe alla tentazione riducen­ do la ‘follia dell’atto auto-referenziale con cui l’oscuro Fondamento impone a se stesso lo schema della Ragione alla relazione esterna della Ragione con l’oscuro Fondamento dal quale prende la sua forza vita­ le, e verso cui, tuttavia, deve mantenere una corretta distanza. Nelle ultime pagine dei Weltalter III, che irradiano una potenza poetica quasi raccapricciante, Schelling lotta per dimostrare come, a causa della finitudine dell’uomo, la divisione tra Fondamento e Ragione 10 condanna al Wahnsinn: ciò che si insinua e si inserisce tra il na­ turale Un-sinn, il fatto insensato dell’esistenza fisica, e il Sinn beato, Divino, è il Wahn-Sinn (follia o, letteralmente, il Senso delirante, il Senso che va fuori strada vagando). Queste pagine istantaneamente richiamano il famoso frammento tratto dalla Jenaer Realphilosophie di Hegel sull’io puro come la ‘notte del mondo’ pre-simbolica in cui apparizioni raccapriccianti affollano la mente (‘balza fuori qui una testa sanguinante, là un’altra figura bianca’) in attesa che l’alba della Parola le scacci. Il Sinn, la vera libertà spirituale, appare all’uomo solo in un lam­ po, in guisa di un incontro traumatico il cui bagliore improvviso lo spinge fuori dai binari. L’uomo è ancorato a questo Fondamento egotistico a tal punto che non può tollerare la vista diretta della luce del Sinn, ma può solo imitare il Senso, sotto la costante minaccia di scivolare indietro nel movimento rotatorio del Fondamento. Que­ sto è il modo di Schelling di asserire la natura fondamentalmen­ te isterica della soggettività umana: il soggetto isterico - femminile — semplicemente ‘imita’ la moralità, l’ordine simbolico, e così via; esso semplicemente ‘indossa [anziehen]' l’abito della moralità senza identificarsi effettivamente con essa. Ma è sufficiente concedere che questo Wahn-Sinn sia il supplemento eterno e costitutivo del Sinn, 11 Fondamento da cui il Sinn prende la sua forza vitale, la fonte del perpetuo rinnovamento e della scoperta di nuovi orizzonti del Sinriì

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Non è il concetto del Wahn-Sinn dell’uomo, che si inserisce tra l’/7wSinn naturale e il Sinn divino, insufficiente e fuorviarne nella misura in cui rende invisibile la natura wahnsinnig (‘folle’) del gesto con il quale il Sinn emerge àz\\' Un-Sinnì Non è quindi sufficiente afferma­ re che la Ragione non è altro che una ‘follia regolata’: il gesto stesso di regolare lafollia è stricto sensu folle. O, per dirla in altro modo, non è sufficiente asserire che la Ragione distingue l’isola della Necessità nel mare del Caos: il gesto di istituire la Necessità è in se stesso radical­ mente contingente. Per ricapitolare: due cose meritano di essere tenute a mente a pro­ posito della Weltformel di Schelling. Per prima cosa, questa formula ci permette di tracciare la linea di demarcazione che effettivamente separa il materialismo dialettico dall’idealismo: l’affermazione che il movimento progressivo di conservazione-mediazione di B da parte di A è esso stesso incorniciato in B, che esso si può verificare solo nella misura in cui ha un punto d’appoggio in B, fornisce la defini­ zione minimale di materialismo dialettico. In altre parole, la piena conservazione di B in A, la spiritualizzazione compiuta della materia con cui la materia perderebbe il suo carattere inerte-impenetrabile e si trasformerebbe in un etereo strumento di A, non è altro che uno spettro idealista. In qualche modo Hegel era già consapevole di que­ sto, ragion per cui egli ha denunciato l’idea di un’altra materia eterea e spiritualizzata come concetto vuoto della Comprensione. In secon­ do luogo, però, bisognare stare attenti alla trappola pericolosa che si cela qui: se affermiamo semplicemente che A è sempre incorniciato in B, non ci esponiamo al pericolo di sposare una versione della Lebenspbilosophie secondo la quale la Ragione è sempre ‘al servizio della passione? E, di conseguenza, la nostra affermazione che non c’è uni­ versalità neutrale, che ogni schema della Ragione è un’imposizione parziale-violenta, non punta verso il prospettivismo nietzschiano? Questa, tuttavia, non è la posizione di Schelling. Per dirla in ma­ niera piuttosto semplificata: per lui il punto capitale è precisamente che ‘B non è tutto’ - il vortice del Reale non è il fatto ultimativo, dal momento che esso è preceduto dall’abisso della pura Libertà come assoluta indifferenza di A e B. Il punto di vista di Schelling, quindi, non riguarda il fatto che A è definitivamente vincolato a servire B, ma riguarda il divario irriducibile tra la pura Libertà ($) e ogni schema simbolico della Ragione, ogni determinata rappresentazione simbolica del soggetto in A, cioè nell'elemento dell'ideale. Il salto da $ (la pura

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Libertà) ad A è possibile solo tramite un detour attraverso B, nell’ele­ mento di B. In altre parole questo salto è radicalmente contingente: se il soggetto ($) deve rappresentare-esprimere se stesso in A, esso deve basarsi su B, su un elemento contratto che elude l’idealizzazio­ ne. In termini lacaniani, non c’è rappresentazione simbolica senza fantasma, cioè, il soggetto ($) è costitutivamente diviso tra S] e a. Esso può rappresentarsi in S,, in un significante, solo nella misura in cui la consistenza fantasmatica della rete significante è garantita dal riferimento dXobjetpetit a.

II Sch elling-per-Hegel: IL MEDIATORE EVANESCENTE

Dalla soggettivazione alla destituzione soggettiva

T a nozione schellinghiana di Grundoperation - la ‘media-L/zione evanescente’ tra i due poli (il Reale e l’ideale, B e A) - lascia emergere la possibilità di stabilire una connessione con la dialettica hegeliana: il gesto fondativo ‘represso’ dall’involucro dell’Hegel ‘panlogista’ è lo stesso gesto che l’involucro dello Schelling oscurantista ‘reprime’ pur utilizzandolo, al tempo stesso, come suo fondamento non riconosciuto. Ciò a cui penso, naturalmente, è il gesto delineato da Schelling nelle ultime pagine della seconda bozza dei Weltalter, laddove egli si sofferma su come ciò che è realmente ‘inconscio’ non sia tanto il movimento rotatorio delle pulsioni ‘re­ presse’ dalla decisione originaria quanto, piuttosto, questo stesso atto, ovvero l’atto di stabilire una distanza rispetto al movimento rotato­ rio, di distinguere il passato delle pulsioni dal presente della Parola. Si sarebbe addirittura tentati di fare un passo ulteriore: non è forse già previsto in Kant questo stesso gesto, o quantomeno la sua po­ sizione strutturale, nella problematica nozione di ‘Male diabolico’, di un Male che si realizza ‘al di fuori di ogni principio’, solo per il gusto di farlo, per nessuna convenienza ‘patologica’, e in quanto tale formalmente indistinguibile dal Bene? Questo ‘Male diabolico’ in effetti funziona come ‘mediatore evanescente’ la cui scomparsa rende possibile l’opposizione del Bene a un Male ‘normale’, semplicemente ‘patologico’. Non allude dunque questo gesto di ‘mediazione evane­ scente’ a ciò che, secondo alcuni interpreti tedeschi, si potrebbe de­ finire la Grundoperation des Deutschen Idealisnius, la fondamentale, elementare operazione dell’idealismo tedesco? Intendiamo sostenere che una chiara articolazione della Grun­ doperation dell’idealismo tedesco richiede un riferimento a Lacan. In altri termini, la nostra premessa è che la ‘via maestra’ a questa Grundoperation richieda l’interpretazione dell’idealismo tedesco

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attraverso il prisma della teoria psicoanalitica lacaniana. Tuttavia, per ottenere l’accesso a questa Grundoperation, è necessario in pri­ mo luogo invalidare la lettura ‘filosofica’ predominante di Lacan: l’idea di un Lacan ‘filosofo del linguaggio’ che enfatizza il prezzo che il soggetto deve pagare per ottenere l’accesso all’ordine simbolico, tutta la falsa poetica della ‘castrazione’, di un qualche atto primor­ diale di sacrificio e rinuncia, dell’impossibile jouissance, l’idea che, al termine della cura psicoanalitica, l’analizzando debba assumersi la castrazione simbolica, debba accettare una fondamentale e costi­ tutiva perdita o mancanza, e così via. A questo tipo di approccio è necessario contrapporre il suo inverso, sul quale di norma si sorvola silenziosamente: il problema della jouissance non riguarda tanto la sua irraggiungibilità, il suo continuo eludere la nostra presa, quanto piuttosto il fatto che non è possibile liberarsene definitivamente, che il suo alone non sparirà mai - qui risiede l’elemento cruciale del lacaniano plus-godere. È proprio la rinuncia dùz jouissance che produce un resto/eccesso di jouissance stessa. Occorre dunque riconoscere un briciolo di verità a quelle critiche della psicoanalisi basate sulla pre­ tesa che Freud intendesse ‘infangare tutto’ e rintracciare un alone di godimento persino nei gesti eticamente più alti. Fra l’altro questo plus-godere complica il problema della respon­ sabilità. Il soggetto può rifuggire dalla responsabilità rispetto alla rete simbolica della tradizione che sovradetermina il suo atto linguistico. Esso è giustificato nel dire: ‘dal momento che non faccio che replica­ re i modelli performativi nei quali sono cresciuto non sono l’autore reale delle mie affermazioni - è in effetti il grande Altro che parla attraverso di me’ (chi facesse un commento razzista, ad esempio, po­ trebbe sempre evocare il reticolo di sedimentazioni storiche nel quale è radicato il suo atto linguistico). Ciononostante il soggetto è pie­ namente responsabile per quel poco di godimento che trae dal suo aggressivo sfogo razzista. Lo stesso può dirsi per il caso opposto della vittima: la mia descrizione delle circostanze delle quali sono stato vit­ tima può essere interamente veritiera e accurata. Ma la trappola sta nel fatto che la mia narrazione è sempre inserita in una costellazione all’interno della quale mi è garantito un plus-godere (il racconto del­ la mia vittimizzazione, attraverso il quale indico altri come colpevoli e mi presento come vittima passiva e innocente, fornisce sempre una profonda soddisfazione 1 ibidinale), e per questo godimento contenu­ to nella mia posizione soggettiva di enunciazione, mentre racconto

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la mia vittimizzazione, io sono pienamente responsabile. Per questo la linea di demarcazione è situata lungo l’asse Aìtro-jouissance. Ri­ spetto al ‘grande Altro’ io non sono l’autore dei miei atti linguistici: essi sono (sovra)determinati dal loro contesto simbolico, così che io possa rifuggire la mia responsabilità. Tuttavia rimango pienamente responsabile per il frammento di jouissance contenuto in ognuno dei miei atti linguistici. La lettura ‘filosofica predominante di Lacan non è un sempli­ ce errore interpretativo, non è semplicemente estranea rispetto ai risultati effettivi della ricerca lacaniana. Al contrario, c’è un intero strato di teoria lacaniana che corrisponde a questa chiave di lettura: il modo più semplice di isolare questo strato consiste nel focalizzarsi sui mutamenti delle formule lacaniane che rimandano alla conclu­ sione della cura psicoanalitica. Qui è cruciale il passaggio dalla sogget­ tivazione alla destittizione soggettiva. Nella misura in cui lo status del soggetto in quanto tale implica una certa colpa e/o indebitamento - topos filosofico derivato da Kierkegaard e Heidegger, prontamente accettato da Lacan negli anni ’50 — il gesto di ‘soggettivazione’ alla conclusione della cura significa che il soggetto deve completamente sobbarcarsi la propria colpa costitutiva e/o il proprio debito, offusca­ to nella propria ‘inautentica’ esperienza quotidiana. All’opposto, la ‘destituzione soggettiva’ come conclusione della cura rimanda a una liberazione dalla propria colpa e/o debito. Per questa via giungiamo a due interpretazioni opposte del detto freudiano Wo es war, sollich werden [Là dove era l’Es, deve venire l'Io\.x Soggettivazione in quanto ammissione di colpevolezza implica che l’analizzando ‘soggettivizzi’, assuma pienamente, ‘interiorizzi’ il suo destino contingente. Detto altrimenti, essa indica il gesto tragico/ eroico dell’amorfati, il cui caso letterario esemplare è Edipo: sebbene Edipo non fosse colpevole del suo crimine - i suoi atti erano predeterminati dalla contingenza del destino ben prima della sua nascita - egli cionondimeno ha assunto eroicamente la piena responsabilità delle sue orribili azioni, cioè si è fatto carico del proprio destino, lo ha ‘interiorizzato’ e vissuto fino alla sua amara conclusione... ‘Soggetti­ vazione’ consiste perciò nel gesto puramente formale di conversione

1 Si tralasciano qui, evidentemente, le due letture tradizionali, pre-lacaniane: quella cgo-psicologica: ‘L’Ego deve occupare il territorio deU’Es’; e quella irrazio­ nalista: ‘L’Ego deve lasciare spazio all’Es, a pulsioni die formano il nucleo della personalità umana, ben al di sotto dell*Ego razionale’.

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simbolica per mezzo del quale il soggetto integra nel proprio univer­ so simbolico - trasforma in parte integrante della propria narrazione di vita, fornisce di significato — la contingenza svuotata di senso del proprio destino. Tutt’al contrario, ‘destituzione soggettiva’ evoca il gesto opposto: alla fine della cura psicoanalitica, l’analizzando deve sospendere l’urgenza di simbolizzare/interiorizzare, di interpretare, di cercare un ‘significato più profondo’. Egli deve accettare che gli incontri traumatici che hanno segnato l’itinerario della sua vita sono stati del tutto contingenti e indifferenti, che essi non hanno alcun ‘significato più profondo’ da offrire. È su questo sfondo che diviene possibile determinare il ruolo ambiguo dell’amore nella cura psicoanalitica: per quanto l’analista si trovi costretto a manipolare scaltramente il transfert amoroso, egli non deve in alcun modo farsi prendere all’amo. Perché? Nella sua forma più elementare l’amore consiste nell’interiorizzare un incontro o collisione esterno e privo di significato. Da un lato, l’evento del­ l’amore è radicalmente contingente, tanto che non è possibile preve­ derne il verificarsi: esso offre l’esempio supremo di tyche. Dall’altro lato, quando ci imbattiamo nel nostro ‘vero amore’, esso ci appare come se lo stessimo aspettando da tutta la vita, come se, in qualche modo misterioso, tutta la nostra vita precedente abbia condotto a quell’incontro... ‘Amore’ è uno dei nomi per il già menzionato atto puramente formale di conversione per mezzo del quale una contin­ genza esterna e priva di significato del Reale viene ‘interiorizzata’, simbolizzata, dotata di Significato. La principale ingiunzione etica della psicoanalisi è perciò di non cedere alla tentazione di simboliz­ zare/interiorizzare. Nella cura psicoanalitica l’analizzando rivive, per così dire, l’innaniorarnento a ritroso', giunti al momento dell“uscita dal transfert’, che segna la fine delia cura, il soggetto è in grado di percepire gli eventi attorno ai quali la propria storia si è cristallizzata in una Totalità densa di senso nella loro contingenza priva di signi­ ficato... Desiderio versus pulsione

T paradossali rischi del gioco insiti nella nostra strategia stanno X ormai diventando in qualche modo più chiari: è proprio per il fatto che vogliamo elevare Lacan alla dignità di autore in grado di fornirci la chiave d’accesso alla Grundoperation dell’idealismo te-

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desco - forse l’apice dell’intera storia della filosofia - che il nostro principale avversario è la tipica lettura ‘filosofica’ di Lacan, una doxa lacaniana che riduce il suo insegnamento al quadro d’insieme della filosofia tradizionale. Lungi dall’essere un semplice caso di lettura erronea, questa doxa trova sicuramente supporto in Lacan: è lo stesso Lacan a cedere in più occasioni alla sua tentazione, dal momento che questa doxa è una sorta di ‘filosofia spontanea della psicoanalisi (lacaniana)’. Quali sono, dunque, i suoi contorni di base? Nel momento in cui si entra nell’ordine simbolico l’immedia­ tezza del Reale pre-simbolico è persa per sempre e il vero oggetto del desiderio (la ‘madre’) diviene impossibile-irraggiungibile. Ogni oggetto positivo che incontriamo nella realtà è già un surrogato di questo originale perduto, dell’incestuoso Ding [Cosa] reso inaccessi­ bile dall’esistenza stessa del linguaggio — cioè dalla ‘castrazione sim­ bolica. L’esistenza stessa dell’uomo in quanto essere-di-linguaggio si pone quindi sotto il segno di una irriducibile e costitutiva mancan­ za: siamo sommersi da un universo di segni che incessantemente ci impediscono di raggiungere la Cosa. La cosiddetta ‘realtà esterna’ è essa stessa già ‘strutturata come un linguaggio’, il che comporta che il suo significato sia sempre-già sovradeterminato dalla cornice simbolica che struttura la nostra percezione della realtà. L’autorità simbolica della proibizione paterna (il ‘Nome-del-Padre’) semplicemente personifica e dona corpo all’impossibilità che è consustanziale alla presenza stessa dell’ordine simbolico — «il godimento è proibito a chi parla come tale».2 Questo divario che irreparabilmente separa la Cosa perduta dai sembianti simbolici, che tuttavia non sono mai 'quella Cosa, defi­ nisce i contorni dell’etica del desiderio: ‘non compromettere il tuo desiderio’ può significare soltanto ‘non rassegnarti ad alcuno dei so­ stituti della Cosa, mantieni aperto il divario del desiderio’. L’analo­ gia con la filosofia di Kant è cruciale in questo contesto. In Kant, infatti, si devono aggirare due trappole: non solo la semplice limita­ zione pragmatico-utilitaristica dei nostri interessi rispetto all’oggetto dell’esperienza fenomenica, ma anche l’oscurantista Schwàrmerei, il sogno di un contatto diretto con la Cosa al di là della realtà feno­ menica. In maniera analoga, l’etica del puro desiderio ci costringe a evitare non solo un debilitante appagamento dei piaceri procurati dagli oggetti della realtà fenomenica, ma anche il pericolo di arren-

2 Jacques Iacan, Scritti, Einaudi, Torino 2002, Voi. Il, p. 825.

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dersi alla fascinazione per la Cosa ed essere risucchiati nel suo vortice letale, il quale non può che condurre alla psicosi o a un passage à l’acte di stampo suicida. Nella vita di tutti i giorni costantemente cadiamo preda di esche immaginarie che ci promettono la guarigione dalla ferita origina­ ria/costituti va della simbolizzazione, dalla Donna con la quale sarà possibile godere di un pieno rapporto sessuale, fino all’ideale politico totalitario di una comunità pienamente realizzata. Al contrario, la massima fondamentale dell’etica del desiderio sarebbe semplicemen­ te il desiderio in quanto tale: occorre mantenere il desiderio nella sua propria insoddisfazione. Ciò a cui assistiamo è una sorta di eroismo della mancanza: il fine della cura psicoanalitica è quello di indurre il soggetto ad assumere eroicamente la propria costitutiva mancanza, a resistere nel mantenere viva quella frattura che muove il suo deside­ rio. Una via d’uscita produttiva a questo vicolo cieco sarebbe dunque fornita dalla possibilità della sublimazione', quando si identifica un oggetto empirico, positivo, e ‘lo si eleva alla dignità della Cosa’ — tra­ sformandolo cioè in una sorta di controfigura dell’impossibile Cosa - si rimane di conseguenza fedeli al proprio desiderio senza finire risucchiati nel vortice mortifero della Cosa... Una tale (erronea) let­ tura di Lacan ha condotto Rudolf Bernet3 a interpretare l’awinghiarsi di Antigone attorno al proprio desiderio come un’atteggiamento negativo, cioè come un caso esemplare di ossessione letale verso la Cosa che non può raggiungere lo stato di sublimazione e perciò si perde in un abisso suicida — come se la lettura lacaniana deWAntigone non fosse interamente dedicata a presentarla come un caso esempla­ re dell’etica della psicoanalisi, del ‘non scendere a compromessi con il proprio desiderio’! Bernard Baas4 trae da questa lettura di Lacan conseguenze politi­ che: il campo del politico è caratterizzato dal rapporto radicalmente ambiguo tra i soggetti e la Cosa pubblica [respublica], il nucleo del reale attorno al quale ruota la vita di una comunità. Il soggetto, in quanto membro di una comunità, non è diviso solo tra i suoi impul­ si ‘patologici’ e la sua relazione con la Cosa, ma anche il suo rapporto

5 Cfr. Rudolf Bernet, “Subjekt und Gcscrz in dcr Ethik von Kant und La­ can”, in Hans-Dietcr Gondek e Peter Widmcr (cur.), Ethik und Psychoanalyse, Fi­ scher, Francoforte 1994. 4 Cfr. Bernard Baas, “Das òffendiche Ding", in Gondek c Widmcr, Ethik und Psychanalyse, cit.

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con la Cosa è lacerato. Da un lato, la legge del desiderio ci ingiunge di tralasciare i nostri interessi patologici e di seguire la nostra Cosa; dall’altro, una legge ancor più elevata (Baas la scrive con la L maiu­ scola) ci impone di mantenere una minima distanza nei confronti della nostra Cosa, e di tenere in mente, a proposito di ogni azione politica che si prefigga di realizzare la propria Causa, che ‘essa non è questa [ce riestpas fa]’. La Cosa può apparire unicamente nel suo ri­ trarsi, in qualità di Fondamento oscuro che motiva la nostra attività ma scompare nel momento in cui ci apprestiamo ad afferrarla nella sua consistenza ontologica positiva: se tralasciamo questa Legge, pri­ ma o poi verremo catturati in un circolo vizioso ‘totalitario’ auto­ distruttivo... Ciò che si nasconde dietro le quinte è, naturalmente, la distinzione kantiana tra l’aspetto costitutivo e quello regolativo: la Cosa (la libertà, ad esempio) deve rimanere un ideale regolativo - ogni tentativo di realizzarlo pienamente conduce invariabilmente alla tirannia più spietata. È semplice qui distinguere i contorni della critica mossa da Kant alla perversa trasformazione della Rivoluzione Francese nel terrore rivoluzionario dei Giacobini. E come possia­ mo evitare di riconoscere un chiaro legame con il panorama politico contemporaneo, con i suoi due estremi di pragmatismo liberale sel­ vaggio e fanatismo fondamentalista?

A un primo sguardo questa lettura di Lacan non può che apparire convincente, quasi scontata — eppure è proprio la facilità di questa traslazione dei concetti lacaniani nello strutturalismo moderno e/o dei filosofemi esistenzialisti della mancanza costitutiva, e così via, che dovrebbe renderla sospetta. Per dirla in maniera piuttosto schiet­ to, qui ci troviamo di fronte a una distorsione ‘idealistica’ di Lacan. A questa problematica ‘idealistica’ del desiderio, della sua mancanza costitutiva eccetera, bisogna opporre la problematica ‘materialistica’ del Reale delle pulsioni. Vale a dire: per Lacan il Reale non è, kantia­ namente, una categoria puramente negativa, la designazione di un limite senza alcuna specificazione di quel che si trova al di là. Il Reale in quanto pulsione si presenta, al contrario, come l’agens, la ‘forza motrice’ dell’attività desiderante.5 5 Questa cruciale distinzione è stara elaborata da Peter Widmer nel suo saggio “Ethik und Psychoanalyse”, in Ethik unii Psychoanalyse, dt.» p. 16.

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Questo status attivo’ (e non puramente negativo) della pulsione, della libido ‘pre-simbolica’, induce Lacan a elaborare il mito, for­ temente schellinghiano, della ‘lamella’: in esso egli ripercorre - in forma di narrazione mitica, non di articolazione concettuale — la ‘genesi reale’, ossia ciò che deve accadere prima della simbolizzazio­ ne, prima dell’emergere dell’ordine simbolico.6 In breve, qui Lacan sostiene che il passaggio dal Reale radicalmente ‘impossibile’ (la ma­ terna Cosa-Corpo che può essere colta solo per via negativa) al regno della Legge simbolica - al desiderio regolato dalla Legge, sostenuto dalla Proibizione fondamentale - non è diretto. Qualcosa avviene tra la natura ‘pura’, ‘pre-umana’, e l’ordine degli scambi simbolici: questo qualcosa è esattamente il Reale delle pulsioni - non più il circolo chiuso degli istinti e del loro innato ritmo di soddisfazione (le pulsioni sono già ‘natura deragliata ) e tuttavia non ancora il desi­ derio simbolico sostenuto dalla Proibizione. La Cosa lacaniana non è semplicemente il Reale ‘impossibile’ che si ritira negli indistinti recessi dell’irraggiungibile con l’entrata nell’ordine simbolico, essa invece è proprio l’universo delle pulsioni.7 In questo contesto il ri6 Su questo mito lacaniano della lamella, si veda il terzo capitolo di Slavoj 2izek, Tarrying with thè Negative, Duke University Press, Durham, NC 1993. Per inciso, ^iò che si è appena detto non implica in alcun modo che il Reale della pulsione sia, nel suo status ontologico, una sona di sostanzialità piena, ‘materiale’ positiva per strutturazioni simbolico-formali. Ciò che Lacan fece con la nozione di pulsione è singolarmente simile a ciò che Einstein, nella sua teoria generale della relatività, fece con la nozione di gravità. Einstein ha ‘desostanzializzato’ la gravità ri­ ducendola alla geometria: la gravità non è una forza sostanziale che ‘inarca’ lo spazio quanto piuttosto il nome della curvatura stessa dello spazio. Analogamente, Lacan ha ‘desostanzializzato’ le pulsioni: una pulsione non è una positiva forza primordiale ma un fenomeno puramente geometrico, topologico, il nome della curvatura dello spazio del desiderio - producendo il paradosso per cui, all’interno di questo spazio, il raggiungimento dell’oggetto a non si deve a una sua diretta ricerca (la via più certa per farselo scappare) ma a un suo accerchiamento, a un ‘movimento circolare’. La pulsione non è che questa distorsione puramente topologica dell’istinto naturale che si soddisfa nel consumo diretto del suo oggetto. 7 La critica di Mikkel Borch-Jakobscn a Lacan (per altri versi davvero note­ vole) secondo la quale Lacan rimarrebbe confinato nel soggetto cartesiano della rappresentazione (simbolica) e sarebbe perciò in grado di comprendere il Reale pre­ simbolico solo attraverso una modalità puramente negativa, come mancanza, vuoto o assenza, è perciò giustificata solo nella misura in cui Lacan viene ridotto a questo aspetto ‘filosofico’ e viene visto come un teorico della ‘mancanza costitutiva’, della ‘castrazione simbolica’ e così via (si veda al proposito Mikkel Borch-Jacobsen, Lacan, il maestro assoluto, Einaudi, Torino 1999). C’è tuttavia un altro problema riguardo Borch-Jakobsen: quando critica la no­ zione lacaniana di inconscio (‘strutturato come un linguaggio’) in quanto questa

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ferimento a Schelling si rivela di cruciale importanza, dal momento che Schelling è stato il primo a operare una simile mossa nel campo della filosofia: la sua narrazione mitica delle età del mondo’ si con­ centra su un processo in Dio che precede la realizzazione del Logos divino. Inoltre, come abbiamo già visto, questo processo è descritto in termini che chiaramente spianano la strada alla nozione lacaniana del Reale delle pulsioni. Le conseguenze filosofiche di questa operazione sono di ampia portata: essa infatti ci impone di mettere in discussione uno dei luo­ ghi comuni del discorso filosofico, da Kant, attraverso Heidegger, fino al (primo) Lacan, cioè la nozione dell’uomo come entità strut­ turalmente - a un livello formale-trascendentale - ‘colpevole’, man­ cante, in difetto rispetto alla propria determinazione etica. Come abbiamo appena notato, l’uomo regredisce al Male più orribile pro­ prio nel momento in cui si sforza di riscattare completamente la propria ‘mancanza ontologica attraverso la realizzazione diretta della sua dimensione etico-noumenica. Qui occorre dare ‘un altro giro di vite’ e trasporre la mancanza del soggetto (la sua incapacità a confor­ marsi pienamente all’ingiunzione etica del grande Altro) su di una mancanza dell’Altro stesso: come sottolinea Schelling, lo stesso Asso­ luto è scisso tra la sua vera Esistenza e l’impenetrabile Fondamento della sua Esistenza, di modo che Dio Stesso, in modo inaudito, pare resistere alla completa attuaiizzazione dell’ideale - e naturalmente questo dislocamento della scissione all’interno dell’Assoluto stesso ci sgrava dalla colpa. Hegel compie addirittura un passo ulteriore; se si dovesse formiliare la sua posizione in termini schellinghiani si potrebbe dire rimarrebbe troppo razional-cartesiana, in quanto concepirebbe l’inconscio come composizione di rappresentazioni simboliche e quindi mancherebbe di cogliere il ‘vero’ inconscio che non è una rappresentazione meramente umbratile, non pie­ namente realizzata, ma si pone oltre (o, meglio, al di sotto) il campo stesso delle rappresentazioni, egli sfonda - per così dire - una porta aperta e chiaramente non coglie l'argomento di Lacan. La nozione di un inconscio al di là del cogito (oltre il discorso, oltre le rappresentazioni...) non ha mai posto alcun problema alla filosofia moderna: l’intera Lebensphilosophie si appoggia su un simile inconscio istintuale, puramente ‘irrazionale’. L’aspetto traumatico dell’inconscio freudiano risiede piut­ tosto nel fatto ch’esso possieda esattamente quelle qualità che vengono di norma attribuite al privilegio razional-discorsivo della coscienza: lungi dall’essere composto di pulsioni cieche c ‘irrazionali’, esso si configura al contrario come una rete di rap­ presentazioni significanti, un discorso con una sua propria ‘razionalità’ - questo è ciò che lo rende così traumatico per l’attitudine filosofica ordinaria...

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che Hegel pone l’identità tra Dio Stesso e il Fondamento della sua Esistenza. La loro differenza è puramente formale, cioè richiede uno spostamento del punto di vista dal quale si osserva l’Assoluto. La differenza tra il Bene e il Male, ad esempio, non è un semplice at­ tributo dell’oggetto della nostra percezione; esso è sempre mediato dialetticamente da un differente atteggiamento dello stesso soggetto osservante verso l’oggetto percepito come ‘buono’ o ‘cattivo’. Come dice Hegel, ciò che in effetti è male risulta in ultima istanza essere lo sguardo stesso che percepisce uno stato di cose come cattivo. In ogni caso il paradosso non va ridotto al classico luogo comune teologico secondo il quale le cose appaiono cattive solo nella nostra prospettiva finita e limitata mentre dal punto di vista della totalità esse sarebbe­ ro ‘buone’ nel senso che contribuirebbero all’armonia del Tutto (si consideri ad esempio il famoso paragone tra la nostra visione finita e un individuo che osservi un bel quadro da troppo vicino: ciò che gli appare come un insieme di informi macchie di colore è, se si fa un passo indietro e si coglie l’immagine nella sua interezza, una serie di elementi che contribuiscono alla sua bellezza e armonia). Invece il ragionamento hegeliano è l’esatto opposto di tale luogo comune teologico — nella misura in cui la Donna che esiste è uno dei nomi di Dio, si è tentati qui di evocare la famosa freddura maschilista nella Finestra sul vuoto di Chandler: «A trenta passi di distanza, era un tipo di gran classe. A dieci passi, aveva l’aria di un oggetto fabbricato per essere guardato a trenta passi di distanza».8 Le cose stanno più o meno nello stesso modo riguardo all’Assoluto: se esso continua a originare il sublime sgomento, si deve mantenere una certa distanza da esso — come il castello dell’omonimo romanzo di Kafka che ap­ pare magnifico dalla valle sottostante, ma quando l’agrimensore K. scala la collina e si avvicina a esso, aH’improwiso si rende conto che il castello, questo misterioso seggio del Potere, altro non è se non una manciata di vecchie baracche diroccate...

‘La voce è una voce’ TA opo Schelling, quindi, Hegel: come dobbiamo penetrare il JLx suo ‘involucro dell’errore’? Come già indicato, lo si farà at­ traverso Lacan - nella misura in cui si sarà evitato di ridurre Lacan

• Raymond Chandler, Finestra sul vuoto, Feltrinelli, Milano 2002, p. 40.

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a un ulteriore ‘decostruzionista. Ci sia consentito elaborare questo elemento cruciale con l’ausilio della coppia derridiana supplemento/centro. In qualche modo reminiscente delle infinite variazioni foucaultiane sulla complessa eterogeneità delle relazioni di potere (esse si muovono verso l’alto, verso il basso, lateralmente...), anche a Derrida piace indulgere pesantemente in esuberanti variazioni sul carattere paradossale del supplemento (quell’elemento eccedente che non è né dentro né fuori, che si distacca dalla serie cui appartiene e simultaneamente la completa, ecc.). Lacan, al contrario - attraverso un gesto che senza dubbio per Derrida indicherebbe la reinscrizione nel discorso filosofico tradizionale - offre direttamente un concetto di questo elemento, ovvero il concetto di Significante-Padrone, S,, in relazione a S2, la catena ‘ordinaria’ della conoscenza. Questo concet­ to non è un semplice concetto privo di ambiguità, ma il concetto dell’ambiguità strutturale stessa; vale a dire, Lacan riunisce proprio nello stesso concetto ciò che Derrida tiene separato: in Lacan S( rap­ presenta il supplemento - il tratto che sporge ma che, in quanto tale, nella sua eccedenza, è inevitabile - e, nel contempo, il SignificantePadrone totalizzante. Qui, in questa ‘identità speculativa di supple­ mento e Centro, risiede la mossa implicitamente ‘hegeliana’ di La­ can: il Centro che Derrida tenta di decostruire in ultima istanza non è che il supplemento stesso che minaccia di sconvolgere il suo potere totalizzante — oppure, per dirla con Kierkegaard, il supplemento è il Centro stesso ‘nel suo divenire’. In questo senso, il supplemento è sia la condizione di possibilità che la condizione di impossibilità del Centro. Mutatis mutandis, lo stesso discorso può essere applicato alla cop­ pia voce/scrittura: la voce fornisce un caso esemplare di auto-identità hegeliana. Nella sua ‘decostruzione’ del logo-fono-centrismo occi­ dentale, Derrida ha avanzato l’ipotesi che la ‘metafisica della presenza’ sia in ultima istanza fondata sull’illusione del ‘sentirsi-parlare [sentendre-parler]', sull’esperienza illusoria della Voce in quanto medium trasparente che rende possibile e garantisce l’immediata auto-presen­ za del parlante. Nella sua teoria psicoanalitica della voce come ogget­ to parziale (al pari di altri simili oggetti quali seni, escrementi, ecc.), Lacan va oltre Derrida aggiungendovi, quale supplemento, l’identità hegeliana in quanto coincidenza degli opposti. Vero, l’esperienza del sentendre-parler serve da fondamento all’illusione della trasparente auto-presenza del soggetto parlante. Tuttavia, non è forse la voce ciò

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che allo stesso tempo mette in crisi nel modo più radicale l’auto-presenza e l’auto-trasparenza del soggetto? Non la scrittura, che disar­ ticola la voce per così dire dal di fuori, da una distanza minima, ma la voce stessa, la voce, si è quasi temati di dire, in quanto tale, nella sua presenza perturbante — mi ascolto parlare, eppure ciò che ascolto non è mai pienamente me stesso ma un parassita, un corpo straniero nei miei più profondi recessi. Per farla breve, la voce è ciò sulla cui base non riesco a sentirmi pensare’, di modo che l’essenziale appello da rivolgere alla propria voce sia: potresti per favore stare zitta, non riesco a sentirmi pensare!’. Questo straniero dentro di me acquisisce un’esistenza positiva in vari modi, dalla voce della coscienza a quella opaca dell’ipnotista, fino a quella del persecutore nella paranoia. L’auto-identità’ della voce risiede nel fatto che la voce in quanto medium di auto-presenza trasparente coincide con la voce in quanto corpo straniero che recide la mia auto-presenza ‘dal di dentro’. Nella tensione antagonistica tra significante e oggetto, la voce è dunque dalla parte dell’oggetto: la voce, nella sua dimensione fondamentale, non è il significante ideale (totalmente trasparente, flessibile, umile), ma il suo esatto opposto, cioè l’inerzia opaca di un resto oggettuale. Rispetto alla frizione in­ terna della voce, la tensione tra voce e scrittura è già secondaria: in essa questa frizione interna si trova per così dire dislocata nella rela­ zione tra voce e scrittura in quanto suo Altro esterno? Di conseguenza lo status della voce in Lacan non si configura come semplice inversione simmetrica della nozione derridiana di scrittura come supplemento — e cioè non si tratta di sostituire la voce come supplemento della scrittura alla scrittura come supplemento della voce —, ma è la logica stessa del rapporto a variare per ciascun caso.10 In Lacan la voce che precede la scrittura (e il movimento della 9 Di tanto in tanto, Derrida evoca inoltre la possibilità che la voce possa funzio­ nare come un ‘supplemento’ il cui libero fluttuare debba essere ancorato ai contorni ceni della scrittura. A suo dire, tuttavia, questo non sarebbe che un rovesciamento subordinato e secondario rispetto alla primordiale congiunzione della scrittura in quanto sovvertita daU’auto-prescnza della voce. 10 Questa differenza tra Derrida e Lacan rimanda inoltre a una diversa strategia di ‘decostruzione’ (sempre che, naturalmente, si accetti come pertinente l’ipotesi che anche Lacan pratichi una specifica tipologia di ‘decostruzione’). In Derrida, il termine subordinato di una qualsiasi diade della metafisica tradizionale viene in primo luogo avanzato come il decisivo, guadagnando in tal modo una priorità nei confronti della sua controparte; successivamente, si cercano di delincare i contorni

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différancè} è una pulsione e, come tale, è catturata nell’antagonismo di un movimento circolare chiuso: attraverso l’espulsione della pro­ pria opaca materialità nella ‘esteriorità’ della scrittura, la voce si pone come medium ideale dell’auto-trasparenza. Il passaggio da questo antagonismo interno della voce alla relazione ‘esterna tra voce e scrittura è dunque analogo in senso stretto al passaggio schellinghiano dal movimento rotatorio ‘chiuso’ delle pulsioni all’apertura della differenza che risolve la vibrante tensione delle pulsioni. E forse qui che ha sede l’abisso che sempre separa il Reale dell’antagonismo dalla différancè di Derrida: quest’ultima si muove in direzione del costante e costitutivo differimento di un’impossibile auto-identità, mentre in Lacan ciò che il movimento di differimento-sostituzione non riesce mai a ottenere non è l’identità ma il Reale dell’antagonismo. Nel contesto sociale, per esempio, ciò che la moltitudine di simbolizzazioni-narrativizzazioni [ideologiche] non riesce a comporre non è tanto \'auto-identità della società, quanto piuttosto il suo antagoni­ smo, la scissione costitutiva del ‘corpo politico’. Ricapitolando: in Derrida la voce è il medium di un’illusoria auto­ trasparenza. Di conseguenza, il fatto che la voce, per ragioni struttu­ rali, non riesca mai a esprimere questa auto-trasparenza significa che essa è sempre-già corrotta dalla scrittura, che sempre-già contiene la minima materialità di una traccia che a sua volta introduce un inter­ stizio, un divario, nella pura auto-presenza della voce... Tuttavia, nel ‘grafo del desiderio’ di Lacan la voce è ciò che resta dell’operazione di significazione, cioè quell’elemento insensato del reale che rimane una volta che l’operazione di ‘sutura [capitonnage]', da cui dipende la stabilizzazione del significato, sia stata portata a termine - la voce è ciò che, ?ielsignificante, resiste al significato, essa rappresenta l’inerzia opaca che nessun significato può recuperare. È solo l’operazione di scrittura che garantisce la stabilità del significato — oppure, per citare le parole immortali di Samuel Goldwyn: ‘Un contratto verbale non vale la carta su cui è scritto’. In se stessa, la voce non è né morta sfumati di un movimento ancor più originario’ che genera la diade in questione c può essere coito solo sous rature, mai ‘in quanto tale’: dalla scrittura (che assume priorità rispetto all’atto linguistico) all’archi-scrittura, ad esempio. Al contrario, in Lacan (c Hegel) il termine privilegiato della metafisica è considerato nella forma dell’apparirc del suo Altro: la ‘voce’ stessa è simultaneamente il medium dell’autotrasparenza e l’opaco corpo estraneo che mina alla radice l’auto-presenza del sogget­ to. Il centro’ è il supplemento, c così via.

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né viva: il suo statuto è piuttosto quello di un ‘morto vivente’, di un’apparizione spettrale che in qualche modo sopravvive alla propria morte - l’eclissi del significato. In altre parole, è vero che la vita di una voce può essere contrapposta alla lettera morta della scrittura, ma questa vita è la vita perturbante di un mostro ‘non-morto’, non certo la ‘sana e robusta’ auto-presenza vivente del Significato... È su questo sfondo che andrebbe situata la nozione lacaniana di ‘seconda morte’: ciò che in essa viene eliminato è lo spettro che era sopravvis­ suto alla prima morte, quella fisica — in essa, cioè, ‘solo il luogo ha luogo’, per parafrasare Mallarmé - per un breve istante, il soggetto si confronta con il vuoto riempito dalla presenza spettrale. Come ho già accennato, si potrebbe formulare questa paradossale posizione della voce anche nei termini della nozione hegeliana di tautologia come contraddizione suprema. ‘La voce è la voce’ nel sentendre-parler è una tautologia simile a ‘Dio è... Dio’: la prima voce (‘La voce è...’) è il medium della presenza auto-trasparente, mentre la seconda voce (‘...la voce’) è la macchia opaca che mi decentra dall’interno, un corpo estraneo al centro di me stesso - la forma dell’identità contiene un’assoluta eterogeneità. La mia auto-identità è sostenuta dalla sua ‘condizione di impossibilità’, da uno ‘spettrale’ corpo estraneo nei miei più profondi recessi. Al contrario, l’espres­ sione ‘il Supplemento è il Centro’ va letta come ‘giudizio infinito’ nell’accezione hegeliana dell’espressione: invece di una tautologia che dà forma all’antagonismo radicale tra due aspetti dello stesso termine, proprio la giustapposizione di due termini che sembrano incompatibili rende visibile la loro ‘identità speculativa’ (‘lo spirito è un osso’, ad esempio). Il definitivo ‘giudizio infinito’ di Lacan è, ovviamente, la sua formula del fantasma $ 0 a, che pone la dipendenza reciproca del puro vuoto della soggettività e del resto informe del Reale il quale, appunto, resiste alla soggettivazione: \'objet a non è semplicemente il correlato oggettuale del soggetto; esso piuttosto è il soggetto stesso nella sua ‘impossibile’ esistenza oggettuale, una sorta di surrogato oggettuale del soggetto. Avviene la stessa cosa con la locuzione ‘il Supplemento è il Centro’: il punto non è il mero riconoscimento del fatto che non v’è Centro senza supplemento, cioè che sia solo il supplemento a costituire, retroattivamente, il Centro; piuttosto, è il Centro stesso a non essere null’altro che il supplemento percepito da un certo angolo visuale - lo spostamento dal Centro al supplemento

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concerne il punto di vista, non la ‘cosa stessa’. Siamo qui di fronte a uno spostamento puramente topologico, analogo al mutamento di condizione del cibo del popolo determinato dallo sviluppo del cibo di massa industrializzato: il cibo più economico ed elementare (ad esempio il pane nero integrale) scompare gradualmente dal mercato, soppiantato da panini bianchi quadrati o crocchette di pollo prodot­ te industrialmente, solo per poi ritornare in grande stile nella forma di specialità ‘naturali’ ‘fatte in casa, decisamente più costose...11 La lotta contro la Voce opaca è perciò la lotta contro la stessa auto-iden­ tità trasparente; nello sforzo di inglobare il supplemento, il Centro mina le sue stesse fondamenta. Per dirla ancora in un altro modo, Lacan sovverte la ‘metafisica della presenza’ nel punto stesso in cui, equiparando voce e soggettivi­ tà, sembra soccombere a una delle sue premesse basilari: per l’orrore e/o il diletto dei decostruzionisti, egli afferma che una catena signifi­ cante si soggettivizza attraverso la voce — non c’è alcun soggetto pri­ ma della voce. La scrittura è in se stessa non soggettiva, non richiede alcuna posizione soggettiva di enunciazione, alcuna differenza tra il contenuto enunciato e il suo processo di enunciazione. Cionono­ stante, la voce attraverso la quale la catena significante si soggettiviz­ za non è la voce in quanto medium della trasparente auto-presenza del significato, bensì la voce in quanto macchia oscura di quel resto non-soggettivabile, il punto d’eclissi del significato, il punto in cui il significato scivola nel jouissense. Oppure, ancor più propriamente, si consideri una catena di segni (scritti) che designano in modo traspa­ rente il loro significato: quando questa catena si soggettivizza, come avviene che Tinvariabile’ significato (la denotazione nella quale non riverbera alcuna soggettività) si trasformi in Senso? Ciò è possibile solo quando un’assurda macchia vocale oscura, nella sua stessa opa­ cità, funziona da surrogato del soggetto, si aggiunge a esso. Il paradosso lacaniano appare dunque nel momento in cui per tra­ sformare il Significato (oggettivo-denotativo) in Senso (soggettivoespressivo) bisogna semplicemente aggiungere un’insensata macchia vocale, per cui: Senso = significato + nonsenso. La presenza di questa

11 Ovviamente, qui ci si imbatte in un’ulteriore variante del circolo vizioso del­ la simbolizzazione: da un lato, l’universo dei simboli è una ragnatela di sottrazioni dalla Cosa, di sue copie, imitazioni c simulacri; dall’altro, questa stessa Cosa non prc-esiste ai suoi simulacri, bensì ne è l’effetto retroattivo - il punto di riferimento centrale, la Causa ultima, non è che un effetto dei suoi effetti.

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impenetrabile aggiunta vocale produce la trasformazione magica di una catena scritta di significanti in un atto linguistico ‘soggettivato’ nel quale è possibile discernere, al di là del significato denotativo, il riverbero della posizione soggettiva di enunciazione. In questo senso specifico, Lacan può asserire che la voce rappresenta quel minimo passage à l’acte della catena significante. Può essere sufficiente richia­ mare l’esempio del ‘discorso dell’odio’, vale a dire di atti linguistici in cui proprio l’intenzione-di-significare, l’intenzione di ‘dire qualcosa, è eclissata dall’intenzione di afferrare e distruggere il nucleo del reale, Vobjeta, nell’AJtro (la vittima) - ed è cruciale notare come il termine utilizzato sia ‘discorso dell’odio’ e non ‘scrittura dell’odio’.

‘E’ come categoria

Q embra che Schelling, in opposizione a questa matrice (lacaniaO na e) hegeliana dell’auto-identità, insista su di una irriducibile e irrecuperabile Alterità (nella forma di un Fondamento oscuro che elude la presa del Logos, ecc.). Questo lo conduce inevitabilmente a concepire l’Assoluto come un’Entità terza rispetto alle polarità op­ poste di Ideale e Reale, del Logos e del suo Fondamento: l’Assoluto è in prima istanza l’assoluta indifferenza’ che costituisce il medium neutrale per la co-esistenza delle polarità opposte.12 La premessa he­ geliana è invece che non ci sia alcun bisogno di questa Entità ter­ za: un elemento può ben configurarsi come ‘parte di se stesso’, cioè unità inclusiva di se stesso e della sua Alterità - che riguarda l’au­ to-relazione concettuale. La reazione del senso comune filosofico a questo proposito sostiene che naturalmente Hegel non necessiti di un’Entità Terza, del medium comune degli opposti, dal momento che lo Spirito è già l’unità di se stesso e della propria Alterità - ma l’argomento centrale di Schelling è che non si può ridurre il Reale all’ideale, la contingenza alla necessità dei concetti...13 In ogni caso, 12 Un’eccellente esemplificazione di come una tale Entità terza possa fungere da medium neutrale degli estremi polari è la lettura schellinghiana dell’identità spe­ culativa. Quando si sostiene che *À è B’, e si asserisce dunque l’esistenza di una X che sia (da un certo punto di vista) A e (da un altro) B. L’identità di Ideale c Reale, ad esempio, non implica che il Reale sia un mero predicato dcH’ideale (o viceversa); essa mostra piuttosto l’Assoluto in quanto indifferenza assoluta che contiene Ideale e Reale quali propri modi. 13 In questo contesto è nuovamente importante non dimenticare la differenza tra i tre stadi del pensiero di Schelling. Nella sua ‘filosofia dell'identità’ i due poli,

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è forse questa l’unica lettura possibile? Quel che qui è in gioco potrebbe essere formulato anche come il problema dello status di e’ come categoria. In Althusser, la ‘e’ fun­ ziona come una categoria teoretica precisa: quando una ‘e’ compare nel titolo di uno dei suoi saggi, questa parolina indica senza possi­ bilità d’errore il confronto di qualche concetto ideologico generale (o, più precisamente, di un concetto neutro e ambiguo che oscilla tra attualità ideologica e potenzialità scientifica) con la propria spe­ cificazione. Tale confronto ci suggerisce come bisogna concretizza­ re questo concetto, così che esso cominci a funzionare in maniera non-ideologica, come concetto teoretico in senso stretto. ‘E’ dunque spezza l’ambigua unità di partenza, introducendo in essa la differen­ za tra ideologia e scienza. Sia qui sufficiente menzionare due esempi. ‘Ideologia e Apparati Ideologici di Stato’: gli AIS designano la rete concreta delle condizioni materiali di esistenza di un edificio ideolo­ gico, cioè quel che l’ideologia stessa deve misconoscere nel proprio normale’ funzionamento. ‘Contraddizione e Sovradeterminazione’: nella misura in cui il concetto di sovradeterminazione designa una complessa e indecidibile totalità come modalità d’esistenza della con­ traddizione, essa ci permette di sgravarci del peso idealistico-teleologico che solitamente fa da zavorra alla nozione di contraddizione (la necessità teleologica che garantisce anticipatamente il ‘superamento’ della contraddizione in un’unità superiore).14 Forse il primo caso esemplare di un simile uso della ‘e’ si trova nella famosa espressione ‘libertà, uguaglianza e Bentham da II Capitale di Marx: il ‘Bentham’ supplementare si riferisce alle circostanze sociali che forniscono il contenuto concreto dei patetici richiami a libertà e uguaglianza - lo scambio di merci, la contrattazione sul mercato, l’egotismo utilita­ rista... E non si incontra forse un’analoga congiunzione in Essere e Tempo di Heidegger? ‘Essere’ designa il tema fondamentale della filosofia nella sua astratta universalità, mentre ‘Tempo’ sta per l’oriz­ zonte concreto del senso dell’essere.

Ideale c Reale, si incontrano tramite il medium neutrale dell’indifferenza assoluta. Nel problematico c instabile ‘monismo della libertà’, cioè lo stadio mediano, lo Schelling più sovversivo pone la questione della genesi materialistica. Infine, nella sua tarda ‘filosofia positiva’, l’insopportabile tensione della seconda fase è risolta attraverso una ‘regressione’ verso le opposizioni ontologiche tradizionali di essenza cd esistenza, ccc. 14 Questo elemento è stato sviluppato da Robert Pfaller nel suo intervento “Zum Althusscrianische Nominalismus” al convegno Der Altbusser-Ejjekt, Vienna, 17-20 Marzo 1994.

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La congiunzione ‘e’, dunque, è in un certo senso, tautologica'. congiunge infatti un medesimo contenuto nelle sue due modalità - nella sua evidenza ideologica e, successivamente, nelle sue extra­ ideologiche condizioni d’esistenza. Per questa ragione, non c’è alcun bisogno di un elemento terzo per designare il medium per mezzo del quale i due termini, congiunti da una ‘e’, si incontrano: questo terzo termine è già lo stesso secondo termine che sta per la rete (il ‘medium’) dell’esistenza concreta di una universalità ideologica. Al contrario di questa ‘e’ dialettico-materialista, la e’ ideologico-idealista funziona precisamente da terzo termine, come medium comune della polarità o pluralità degli elementi. Qui risiede il divario che separa irrimediabilmente le nozioni di libido freudiana e junghiana: Jung concepisce la libido come una sorta di energia neutrale, con le sue forme concrete (libido sessuale, creativa, distruttiva) a segnalare le sue varie ‘metamorfosi’; Freud, invece, insiste sul fatto che la libi­ do nella sua esistenza concreta è irriducibilmente sessuale — tutte le altre forme di libido sono forme di misconoscimento ‘ideologico’ di questo contenuto sessuale. E non è forse la stessa operazione che troviamo ripetuta in ‘uomo e donna’? L’ideologia ci spinge ad assu­ mere l’umanità’ come medium neutrale all’interno del quale ‘uomo’ e ‘donna’ sono posti come due poli complementari. Contro questa evidenza ideologica, si potrebbe sostenere che ‘donna sta per l’aspet­ to di esistenza concreta e ‘uomo’ per l’universalità vuota e ambigua. Il paradosso (di natura profondamente hegeliana) è che ‘donna’ — cioè il momento della differenza specifica - funziona da fondamento inclusivo che rappresenta l’emergere dell’universalità dell’uomo. La differenza tra queste due ‘e’ - quella ‘idealista’ che sta per il medium della coesistenza dei due poli, e quella ‘materialista’ in cui il secondo termine designa il medium concreto dell’esistenza del primo (cioè dell’universalità ideologica) - restituisce l’ambiguità radicale, chiaramente percepibile, di Schelling. Da una prospettiva materialista, la ‘e’ nell’accezione schellinghiana di libertà, nella sua attualità come ‘libertà per il bene e per il male’, si dirige verso la sconcertante constatazione che il Male è resistenza concreta del Bene. La libertà non è la ‘e’ neutrale tra Male e Bene, bensì, nella sua esistenza con­ creta, la libertà di una persona vivente, finita e umana, il Male stesso, la forma pura del Male — questo, forse, è ciò che Schelling tentò di celare a se stesso trovando rifugio nelle sospette formule ideologiche sull’‘inversione della relazione naturale’.,.

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Qui, in queste due versioni della e’, risiede la differenza ulti­ ma tra Schelling e Hegel, come pure il limite cruciale di Schelling: quando Schelling afferma l’irrazionale Fondamento del Logos come resto indelebile del caos primordiale della Cosa che incessantemente minaccia di risucchiarci nel proprio vortice - «quello che noi chia­ miamo intelletto, quando è intelletto vero, vivente, attivo, non è propriamente altro che follia regolata. L’intelletto può manifestarsi, mostrarsi soltanto nel suo opposto, e quindi soltanto in ciò che è privo di intelletto»15 — si espone alla tentazione permanente di con- c cepire Fondamento e Logos, il principio Reale e quello Ideale, come complementari. Tale limite di Schelling diviene più che ovvio nel momento in cui egli è costretto ad affrontare l’eterna ‘ingenua’ que­ stione di come l’Assoluto divino contragga la ‘stonatura di disso­ nanza ed egotismo: fin troppo spesso egli fa ricorso alle ‘sapienze’ da senso comune rispetto al Fondamento impenetrabile come unica base sulla quale l’edificio della Ragione può essere costruito - non c’è alcun focolare che dia calore senza un ambiente da riscaldare; la luce può brillare solo quando illumina l’oscurità che la circonda... Sulla stessa falsariga, un Dio deprivato del Fondamento della Sua esistenza è una mera astrazione senza vita, un ‘principio divino’, non un Dio reale, vivente, personale. Tra parentesi, si incontrano spesso le stesse banalità nei tentativi pseudo-hegeliani di spiegare come mai l’idea assoluta si estrinsechi completamente, come mai rinunci alla sua immediata auto-identi­ tà: in che modo, con il superamento di questa scissione, essa possa restaurare la propria unità a un livello superiore - la disarmonia è quel che ci vuole affinché un’armonia nuova, più alta e complessa possa emergere; quanto più grande è la dissonanza da superare, tanto più grande è l’armonia... L’effettiva posizione di Hegel è ben più inquietante: certo, nella ‘riconciliazione’ l’armonia è restaurata, ma questa ‘nuova armonia non ha nulla a che fare con la restituzione dell’armonia originaria perduta - nella nuova armonia, la perdita dell’armonia originaria è compiuta. Vale a dire che lo spostamento dalla totale ‘perversione’ all’armonia restaurata riguarda principal­ mente il modello concettuale con cui si misura la ‘perversione’: esso sopraggiunge nel momento in cui il soggetto abbandona il (vecchio) modello secondo il quale il nuovo stato di cose gli appariva ‘per-

15 F. W. J. Schelling, “Lezioni di Stoccarda (1810)", in Scritti sullafilosofia, la religione, la libertà, cit., p. 181.

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verso’, e accetta un modello appropriato alla nuova costellazione. Come Hegel spesso ripete, quando uno stato di cose smette di essere adeguato al proprio concetto (al suo fondamento normativo), ogni sforzo di porre nuovamente questo stato di cose in armonia col suo concetto è vano: occorre modificare il concetto stesso.16 Schelling sostiene che la libertà schiuda la possibilità del Male come inverso della relazione ‘normale’ tra il Logos e il suo Fondamen­ to contraente: il Fondamento può prevalere sulla Luce della Ragione e, invece di rimanere sullo sfondo, si pone direttamente come prin­ cipio dominante dell’intero. Per Hegel, tuttavia, questa inversione è proprio la definizione di soggetto’, ‘soggetto’ è il nome per il principio di Ipseità che subordina a se stesso l’intero sostanziale di cui era originariamente un momento particolare. L’inversione è perciò sempre-già l’inversione dell’inversione stessa-, non che il soggetto debba ab­ bandonare il proprio ‘orgoglio egotistico’, la sua posizione centrale, e quindi porsi come momento subordinato di un Intero sostanziale più elevato (nel senso che ciò che il soggetto deve abbandonare è il modello stesso di Intero sostanziale che lo riduce a un momento subordinato), piuttosto il soggetto deve innalzare una nuova Totalità soggettiva come misura della ‘normalità’.

L’ambigua posizione di lalangue T)er comprendere quel che è effettivamente in gioco nell’hegeL liano ‘rovesciamento del rovesciamento’ occorre metterlo in relazione con l’alternativa proposta dall’attuale dibattito ‘post-strut­ turalista’, rappresentata dalla coppia Althusser-Foucault. È proprio la prossimità tra la nozione althusseriana di Apparati Ideologici di Stato e la nozione foucaultiana di ‘micro-pratiche’ che rende visibi-

16 Tutto ciò, ovviamente, non ha assolutamente nulla a che vedere con la po­ sizione empirista riguardo ‘l'infinita ricchezza della vita reale’ al di là delle nozioni astratte: il punto non è che i nostri presupposti teorici debbano confarsi alla ‘vita reale’. Per Hegel, in quanto idealista radicale, il surplus della ‘vita’ rispetto alle sue determinazioni concettuali segnala sempre un’insufficienza intrinseca di queste de­ terminazioni stesse: quando facciamo esperienza della ‘realtà’ come un qualcosa di infinitamente più complesso e ricco delle nostre astrazioni concettuali, questo non significa che ci siamo soffermati troppo sulla teoria e dovremmo quindi occuparci maggiormente della ‘vita stessa’ - ciò significa, al contrario, che non abbiamo pensato abbastanza, che il nostro pensiero è rimasto troppo ‘astratto’.

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le il divario che le separa: in entrambi i casi siamo di fronte a una ‘perforazione’ che si impone direttamente sul soggetto, aggirando il livello del Significato. La differenza cruciale sta nel fatto che in Al­ thusser il ‘grande Altro’ - il rapporto transferenziale con il Soggetto ideologico — è sempre-già presente, mentre la questione di fondo della ‘micro-fisica del potere’ foucaultiana è il tentativo di dimostrare che ‘il Potere non esiste’ (in stretta analogia con la formula di Lacan secondo cui ‘la Donna non esiste’) — non c’è Potere ma solo una rete dispersa e plurale di pratiche locali, un ‘non-tutto’ che non fa riferi­ mento a un’istanza centrale e totalizzante. Si deve essere prudenti qui per non perdere l’elegante paradosso di Foucault: quando sostiene che ‘il Potere non esiste’ — cioè che i rapporti di potere formino una costellazione ‘femminile’, non-totalizzabile, non-tutta — egli in tal modo si impegna ad applicare alla questione dei rapporti di potere l’apparato concettuale solitamente attivato per rappresentare Xassenza di potere in una rete di relazioni. Per dirla in modo succinto, Foucault tratta il potere come non-potere (quantomeno nell’approccio tradizionale, l’imporsi dell’Uno come eccezione che ‘totalizza’ l’insieme di relazioni disperse è la definizione stessa di Potere). In breve, Foucault si sforza di raggiungere rispetto alla questione dei rapporti di potere ciò che la nozione lacaniana di lalangue (‘lalingua’) aveva raggiunto rispetto al tema del linguaggio: il delincarsi dei contorni di una complessa, ‘non-tutta, rete di pro­ cedure contingenti e inconsistenti non ancora del tutto prese nella logica della totalizzazione-per-castrazione, cioè attraverso l’eccezione dell’Uno — quell’Uno (il ‘grande Altro’ lacaniano) che altro non è se non uno spettro secondario che dovrebbe dedursi dal funzionamento immanente delle micro-pratiche. Questa è la ragione per cui — come chiarisce un’attenta lettura dell’Archeologia del sapere, il ‘Discorso sul metodo’ di Foucault — Foucault non è uno ‘strutturalista’: Pepisteme’ foucaultiana non è un sistema formale-differenziale, una strut­ tura i cui termini sono definiti attraverso la loro relazione negativa a tutti gli altri termini (‘l’identità come fascio di differenze’), bensì un’insieme di singolarità contingenti, delle regole del loro emerge­ re e scomparire - contrariamente allo stretto ‘realismo’ concettuale degli strutturalisti, Foucault è un radicale ‘nominalista’ concettuale. In poche parole, il problema di Foucault è il seguente: come si può concepire una regola dell’emergere di eventi singolari che non sia ancora una legge (nel senso preciso della struttura formale delle me­ diazioni differenziali)?

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Deleuze si era duramente confrontato con lo stesso problema: per molti anni aveva confidato che lo ‘strutturalismo’ stesso fosse la teoria delle regole dell’emergere e scomparire di segni-eventi singola­ ri; solo alla fine si era reso pienamente conto del divario che separa il ‘differenzialismo’ strutturalista (nel quale la presenza positiva di ogni elemento è ‘mediata’ dalla negatività; persino la consistenza della struttura stessa è mantenuta dal continuo dislocarsi di una mancanza centrale, costitutiva) dall’assoluta positività spinoziana. Il riferimen­ to di Deleuze a Spinoza è cruciale nella misura in cui in Spinoza ha rintracciato l’asserzione di differenze che rimangono assolutamente positive, e perciò aggirano le trappole della negatività. Sia Foucault che Deleuze quindi tentano di concettualizzare una struttura ‘non castrata’17 — una struttura che non funzioni come una cornice for­ male imposta dall’esterno in cui gli elementi positivi vadano sempli­ cemente a occupare posizioni pre-ordinate. Le regole foucaultiane che presiedono all’emergere e combinarsi di eventi devono essere riconosciute come assolutamente immanenti, esse sono le regole in­ trinseche di questi elementi stessi (gli eventi); non c’è differenza tra una posizione (vuota) nella struttura e l’elemento che occupa quella posizione.18 In ultima istanza, qui l’alternativa è tra idealismo e materialismo: è il ‘grande Altro’ (l’ordine simbolico ideale) già-sempre presente come una sorta di orizzonte insuperabile, oppure è possibile impiegare la sua ‘genesi’ a partire dalla rete dispersa, ‘non-tutta’, delle singolari­ tà materiali e contingenti? Questa alternativa giustifica l’inesplicata tensione di Violence of Language,™ opera per altri versi eccellente di Jean-Jacques Lecercle. L’autore oscilla chiaramente tra due concezio17 Per un’analisi più dettagliata della nozione di ‘castrazione’, si veda “The Parerga of hainamoration”, in Renata Salecl e Slavoj Zizek, Gaze and Voice as Love Objects, Duke University Press, Durham 1996. 11 Ciò che corrisponde a questo passaggio nella storia della musica è forse il crucile mutamento, formulato c praticato da Webcrn, dalla Klangstruktur alla Strukturlang. dal suono che segue la struttura tonale (imposta), la ‘struttura dei suoni’, a un suono senza precedenti che si pone direttamente come ‘suono della struttura stessa’ - cioè a una struttura che è direttamente la struttura del suono stes­ so nella sua positiva materialità. Questo è ciò che realmente caratterizza la ‘musica moderna’: la sospensione della tonalità rende palpabile la presenza di suoni nel reale della loro materiale densità. 19 Cfr. Jean-Jacques Lecercle, Violence of Language, Routledgc, Londra c New York 1990.

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ni, in ultima analisi incompatibili, di ciò che nel linguaggio elude la presa dell’ordine sincronico e formale: quello lacaniano (elaborato da Jean-Claude Milner) e quello di Deleuze e Guattari. Da un lato, Lecercle ricorre al lalangue lacaniano per designare il ‘resto’ dell’or­ dine simbolico del linguaggio, e cioè tutte quelle caratteristiche che recano testimonianza del fatto che il linguaggio ‘perse il senno’ e cominciò a parlare da sé, aggirando la dominazione del significato (giochi di parole, non-sensi, ecc.), come pure le inscrizioni violen­ te dei rapporti di potere ‘patologici’, della storia nella sua assoluta contingenza che distorce, disloca, deforma il linguaggio inteso come ordine formale-neutrale. Dall’altro lato, Lecercle segue la nozione nietzschiana di linguaggio proposta da Deleuze e Guattari, secondo la quale il linguaggio stesso sarebbe il medium di violenti interventi intersoggettivi, di ‘metamorfosi’ opposte a ‘metafore’ benigne: il si­ stema formale-neutrale del linguaggio non è altro che il ‘prolunga­ mento della violenza con altri mezzi’, uno stratagemma ordito per imporre una data prospettiva come quadro di riferimento universale, e quindi per reprimere la forza vitale di altre prospettive. Benché la linea che separa queste due concezioni possa appari­ re quasi impercettibile, esse nondimeno divergono radicalmente: è lalangue — cioè tutte quelle caratteristiche a causa delle quali il linguaggio non può essere ridotto a un sistema sincronico, forma­ le-neutrale, di trasmissione del Significato — un ‘resto’ secondario, sebbene irriducibile, oppure è il sistema stesso del linguaggio una formazione secondaria, ‘repressiva’, il cui fine strategico è di tenere a freno la produttività ‘rizomatica’ di lalanguel L’ambiguità radicale della dimensione politica di lalangue si aggiunge al senso di urgenza contenuto in questa alternativa. Da un lato lalangue si riferisce ov­ viamente all’emergere di una liberatoria pluralità di contraddittori germogli di godimento che contrastano il sistema formale del lin­ guaggio, e che il potere ‘repressivo’ del linguaggio si sforza di con­ tenere... Tuttavia, non si riferisce forse lalangue anche all’emergere di ‘patologie’ sociali — per esempio all’oscena jouissance razzista che, attraverso una fuggevole e oscena insinuazione o uno scherzo ag­ gressivo, si fa sentire negli interstizi del discorso democratico ‘civile’ governato dai concetti di uguaglianza, tolleranza e solidarietà? Non sono forse questi inquietanti momenti, quando la pacifica superficie del discorso ufficiale viene improvvisamente scossa da gesti indicanti il disprezzo verso le donne, la crudele derisione dei deboli e dei po-

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veri, l’osceno spiegamento del potere, la fascinazione ambigua verso la superiore prestanza sessuale degli afro-americani, ecc. — non sono questi casi esemplari di Clangne*. Non si pone dunque il Super Io - dal momento che il termine psicoanalitico per questo aspetto osce­ no della Legge sociale è Super Io20 — sullo stesso piano di lalangue? Come si pone Lacan nei confronti di questa alternativa? La prima impressione, naturalmente, è che anche lui oscilli: uno dei leitmo­ tiv lacaniani è che il grande Altro sia sempre-già presente, cosicché il Reale di ciò che resta debba essere dedotto, giustificato, a par­ tire dalle inconsistenze dell’Altro. Ma, in apparente opposizione a questo status di lalangue come resto secondario, Lacan sottolinea ripetutamente come la jouissance della lettera sia una sorta di base dalla quale, attraverso l’operazione di esclusione fallica (la ‘castra­ zione simbolica’), emerge l’ordine discorsivo del grande Altro. In ogni caso, si dovrebbe a questo punto raggiungere il definitivo gesto hegeliano dell’identità speculativa: la precedenza (tanto temporale quanto logica) di lalangue rispetto al grande Altro va concepita come strettamente correlativa a un idealismo portato agli estremi, cioè all’idea che l’eccesso del Reale nella sua densità materiale è il risultato di un ceno blocco della simbolizzazione. Ci si permetta di elaborare ulte­ riormente questo punto cruciale. Il grande problema degli ultimi anni di insegnamento di Lacan era - per dirla in termini Maoisti - il seguente: come si giunge dall’Uno all’Altro? Come accade che l’Uno si divida in Due? Come avviene che l’ordine delle ‘lettere’ pre-discorsive che materializzano il godimento si tramuti nella struttura simbolica differenziale (il ‘grande Altro’), nell’ordine della comunicazione e dello scambio - in breve, in un discorso? Come ci si ritrova, dalla circolazione ‘acefala’, pre-discorsiva delle lettere, al significante che ‘rappresenta il soggetto per un altro significante’? Possiamo ora vedere a cosa Lacan realmen­ te puntasse nelle sue tarde ruminazioni sull’enigma di come il grande Altro fosse intimamente intrecciato con il resto di lalangue-. egli tenta di far scoppiare l’eterna disputa tra il linguaggio - il sistema sincro­ nico formale-neutrale — e lalangue — l’incoerente bric-à-brac di tic ‘patologici’ che indicano l’intrusione violenta del Reale della storia e delle pulsioni nell’ordine simbolico — focalizzando l’attenzione su un tertium datur, un ‘mediatore evanescente’ tra questi due poli. Ciò 20 Si veda il terzo capitolo di Slavo; 2izek, The Metastasi ofEnjoyment, Verso, Londra 1994.

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che il ‘grande Altro’ deve ‘reprimere’ affinché possa farsi valere come ordine formale-neutrale coerente è proprio il suo stesso gesto fondativo, il taglio violento (incessantemente ripetuto) attraverso il quale il linguaggio differisce da lalangue. E a questo punto, ovviamente, incontriamo di nuovo la Grundoperation dell’idealismo tedesco.

Che cos’è l’idealismo? uali sono, dunque, le varianti della relazione tra l’ordine ideale del ‘grande Altro’ e il ‘non-tutto’, incoerente colle­ zione dei frammenti del Reale? L’alternativa di base, naturalmente, è tra la linea ‘materialista deleuzo-foucaultiana e la linea ‘idealista’ tradizionale: o si asserisce un certo tipo di processo pre-simbolico primordiale — il ‘flusso di desiderio’, le ‘micro-pratiche di potere’, il Semiotico di Kristeva, lalangue, e così via - il quale, attraverso i meandri della propria auto-limitazione, ‘si divide in Due’ e lascia emergere il ‘grande Altro’ (l’ordine simbolico edipico, lo spettro di un Potere totalizzato-centralizzato, eccetera), oppure si deduce la densità materiale e l’opacità del Reale dai paradossi dell’auto-relazione negativa dell’ideale (la ‘realtà’ come prodotto dell’auto-mediazione concettuale). Cerchiamo di evitare un pericoloso malinteso: certamente non mi riferisco a questa soluzione ‘idealista come esempio esclusivamente negativo — nella sua formulazione più radicale, essa non è estranea neppure a Lacan. Questo significa che ciò a cui l’idealismo filosofico giunge, nella sua espressione più sovversiva, non è una sorta di ema­ nazione graduale della realtà materiale dall’Assoluto, à la Plotino, quanto piuttosto la nozione hegeliana di ‘realtà’ come qualcosa che esiste solo nella misura in cui l’idea non è completamente attualiz­ zata, realizzata: l’esistenza della realtà (‘dura’, ‘esterna’) testimonia il fatto che l’idea rimane chiusa in un vicolo cieco. L’idealismo auten­ tico perciò rovescia l’intuizione di senso comune (nonché kantiana) secondo la quale la realtà eccederebbe infinitamente le potenzialità di comprensione della nostra ragione finita, di modo che ogniqualvolta si tenti di cogliere l’universo nella sua totalità, si rimane inevitabil­ mente intrappolati in una rete di antinomie e contraddizioni. Ma il possedimento causale si muove di fatto nella direzione opposta, vale a dire, lungi dall’essere alla radice delle antinomie della nostra

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capacità di intendere, la stessa realtà finita-temporale emerge per il fatto che la Ragione, nel suo movimento intrinseco, resta coinvolta nei nodi della contraddizione, e continua a esistere solo finché la Ragione non li avrà sciolti. Per quanto eccentrico possa apparire, questo atteggiamento è strettamente analogo alla più ‘concreta logica del sintomo in psicoa­ nalisi: il reale di un sintomo testimonia alcuni punti di blocco nel processo di simbolizzazione; nel momento in cui il nucleo traumati­ co viene integrato alla sua radice nell’ordine simbolico, il sintomo si dissolve da sé... In questo preciso senso, il reale emerge dall’zw/>/Wje della formalizzazione (come Lacan spiega nel seminario Ancora)’. il Reale non è il nocciolo duro esterno che resiste alla simbolizzazione, bensì il prodotto di un punto di blocco nel processo di simbolizza­ zione. Forse l’esempio più chiaro di ciò che di fatto è in gioco nell’idea­ lismo autentico ci è fornito dalla distinzione kantiana tra nozioni costitutive e regolative. Nella nostra esperienza siamo confinati in un segmento di realtà limitato, sia nello spazio che nel tempo. La nostra comprensione di questo segmento che è una piccola parte dell’universo’, cioè dell’intera realtà che esiste ‘in sé’, è una (neces­ saria) illusione trascendentale: in questa comprensione conseguiamo il segmento che ci è concesso relazionandolo all’idea regolativa dell’Universo (la realtà nella sua interezza). Questo è il rovesciamento idealistico di Kant: ciò che comprendiamo ‘spontaneamente’ come realtà che esiste ‘là fuori’, indipendentemente dall’esperienza che ne facciamo (l’universo-in-sé come totalità della realtà cui accediamo solo per piccoli segmenti), è in effetti il risultato del nostro (cioè del soggetto che percepisce) contributo, e muove quindi dalla totalizza­ zione dei frammenti empirici prodotta dall’idea regolativa della real­ tà nella sua totalità (l’‘universo’).21 Il confine tra costitutivo e regolarivo non è quindi assoluto: soltanto l’intervento dell’idea regolativa 21 Leibniz propone una delle più pregnanti formulazioni di questa fondamen­ tale caratteristica deU’idealismo filosofico. Il senso comune sembra suggerirci che le idee siano rappresentazioni mentali (‘soggettive’) racchiuse nella nostra mente, mentre la realtà vera che esiste indipendentemente dalla nostra mente sarebbe l’uni­ verso materiale concreto. Secondo Leibniz, tuttavia, è l’impenetrabile mondo ma­ teriale a essere null’altro che una rappresentazione sfocata, ‘soggettiva’ delle monadi minori: agli occhi di Dio - la monade perfetta in grado di percepire le cose sub specie aeternitatis, cioè nel modo in cui esse effettivamente sono - esistono solo entità spirituali, non materiali.

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ci permette di comprendere la realtà (trascendentalmente costituita) come composizione coerente e non semplicemente come un bricà-brac di frammenti senza senso. In questo modo Kant ‘estraneizza’ (nel senso brechtiano del termine) la nostra esperienza più ‘naturale’ della realtà: ciò che il soggetto, conficcato nel suo atteggiamento ‘na­ turale, esperisce come unica e omogenea realtà di cui fa parte, non è in effetti che un composto ‘artificiale, la fusione di due ingredienti tra loro radicalmente eterogenei. Questa fusione non riguarda sol­ tanto la sintesi trascendentale della moltitudine di intuizioni sen­ sibili, vale a dire la rete di concetti a priori che conferiscono forma coerente di realtà esperienziale all’informe moltitudine sensibile; è l'emergenza stessa di questa realtà esperienziale che fa perno sull’idea regolaiiva, il cui intervento permette al soggetto di esperire la realtà come totalità coerente. Qui risiede il ruolo propriamente ontologico immaginazio­ ne'. l’immaginazione nel suo senso radicale (trascendentale) non è mera attività di imitazione e ricombinazione delle percezioni sen­ sibili, bensì come attività il cui apporto è costitutivo della nostra comprensione della realtà stessa come Intero coerente dell’universo’. Limmaginazione può svolgere questa finzione ontologica solo nella misura in cui la realtà è intrinsecamente 'incompleta', 'aperta', come nella nota idea fantascientifica di un universo la cui creazione non è ancora giunta a compimento, di modo che ai suoi limiti si possano incontrare strane creature costituite solo a metà: un tavolo con una forma ma senza colore, un uccello con un corpo ma senza voce, e così via, come se la realtà stessa non riuscisse ancora a ‘montarsi’ correttamente e fornirsi di tutti i suoi ingredienti... Forse il modo migliore per rendere palese questo paradosso del­ l’idealismo - cioè che è la nostra Ragione a spiegare la ‘realtà della realtà’ - è richiamandosi a un’esperienza cinematografica in qualche modo simile. Oggi capita spesso che si aggiunga a una scena di ‘real­ tà reale’ un supplemento di immagine generato a computer (un’im­ magine ‘live’ di aerei in volo o di una cascata...), il quale non solo si adatta armoniosamente al quadro generale della realtà dello schermo, ma è addirittura responsabile dell’*impressione di realtà’ che caratte­ rizza la scena: se si sottraesse questo elemento ‘artificiale’, generato a computer, il resto si muterebbe improvvisamente in un puzzle a cui ancora mancano alcuni tasselli cruciali... In una fase più antiquata della tecnica cinematografica, erano i dettagli dipinti sullo sfondo

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— l’orizzonte, i palazzi al di là della strada — che producevano l’im­ pressione di realtà’ e facevano dimenticare l’ambiente degli studios.22 E questo il modo in cui l’idealismo autentico supera l’opposizione tra Idea e Realtà: l’idea non si limita a ‘interiorizzare’, ‘ingoiare’, ‘dissolvere’, ‘generare’, e così via, la realtà esterna - il punto è, invece, che solo il supplemento dell’idea rende coerentemente distinguibile la realtà dal caos delle rappresentazioni empirico-sensibili. La Realtà-in-sé, l’universo’ come totalità coerente di oggetti che esistono indipendentemente dai soggetti che comprendono, è un’idea della Ragione, cioè una determinazione concettuale pura: a causa di una sorta di illusione ottica ‘spontanea’, il soggetto (mis)percepisce il suo stesso contributo come nucleo della ‘realtà-in-se stessa’. Questo è anche ciò cui si riferisce la ‘determinazione concettua­ le completa’ hegeliana: quando un oggetto è completamente deter­ minato nel suo concetto, esso diviene semplicemente parte della ‘realtà’; esso esiste realmente.23 Una delle critiche standard a Hegel riguarda l’ambiguo uso della stessa nozione di Concetto [Begriffi: talvolta si riferisce al termine Begriff per designare comunemente in mero Concetto’ [nur im Begriff] contrapposto all’esterna, ‘vera’, ale esistenza; altre volte Begriffrimanda alla sola vera realtà (come intrapposta alla transitoria realtà empirica). Tuttavia, questa am­ biguità è inevitabile dal momento che indica il paradosso dell’idea­ lismo filosofico: essa è il supplemento di qualcosa il cui status è quello di mero concetto* (come opposto alla realtà, cioè, in termini kantiani, vuoto concetto senza contenuti positivi) che determina la trasformazio22 Due ulteriori esempi. Un’attenta disamina de L’anello di Wagner rivela che precisamente quegli elementi che vengono ‘spontaneamente’ appresi come i più arcaici e mitici (l’inizio di Rheingold con il furto da parte di Alberico dell’oro sorve­ gliato dalle vergini del Reno, ad esempio) non sono in realtà in alcun modo basati sull’antica mitologia nordica o germanica, ma sono al contrario invenzioni dello stesso Wagner. Le cose stanno in maniera simile nel Jasager di Brecht: una dettaglia­ ta comparazione con l’antico teatro giapponese No, che Brecht utilizza come punto di partenza, dimostra che tutti gli clementi che sono percepiti come espressioni estreme dello ‘spirito orientale' dell’obbedienza incondizionata all’autorità e al sa­ crifìcio ‘irrazionale’ sono forniti dallo stesso Brecht... 23 L’idea comune (in questo caso kantiana) della determinazione concettuale completa dell’intuizione, che abolirebbe lo spazio che separa il concetto (univer­ sale) dall’intuizione - che cioè spingerebbe la specificazione delle determinazioni concettuali universali alla sua conclusione c renderebbe possibile concettila! izzare l’unicità di un’entità singolare - è perciò l’esatto contrario dcU’hegcliano ‘universale concreto’: un insensato eccesso di Comprensione.

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ne della confusa moltitudine delle rappresentazioni empiriche in realtà pienamente esistente*

Ma facciamo un passo avanti. La rivoluzione filosofica di Schel­ ling è esemplificata nel modo migliore dal titolo Real-ldealismus'. dal momento che non è possibile generare il Reale dall’ideale (e vicever­ sa), è necessario localizzare l’Assoluto nella stessa e’ (‘il Reale e l’idea­ le’), cioè concepirlo come {'indifferenza dei due poli, come il medium neutrale della loro coesistenza. Un’altra possibilità è concepire questa ‘e’ come il mediatore evanescente ‘originariamente represso’ che gene­ ra la differenza stessa tra il Reale e l’ideale. Queste quattro posizioni costituiscono un quadrato semiotico greimasiano: il primo asse in questa ‘madre di tutti i quadrati’ è quello di materialismo versus idea­ lismo (generare l’ideale dal Reale, o viceversa), mentre entrambe le restanti posizioni si dirigono verso una dimensione che sta oltre (o, piuttosto, sotto) la coppia Ideale-Reale - dimensione che si specifica o nella modalità ‘idealistica, come medium neutrale degli opposti, o nella modalità ‘materialistica’, come loro mediatore evanescente. Le due posizioni ‘idealiste’ corrispondono perciò a ciò che ho chiamato i due ‘involucri dell’errore’, quello di Hegel e quello di Schelling; al contrario, le due posizioni ‘materialistiche’ sono il concepimento dell’ideale attraverso il Reale (ciò che Deleuze, in Logica del senso, ha chiamato ‘genesi reale’ in contrapposizione alla genesi trascendenta­ le) e il focalizzarsi sul mediatore evanescente.25 24 L’attuale decomposizione ‘postmoderna’ del Soggetto auto-identico, che vie­ ne sempre più ridotto a un incoerente bric-à-brac di esperienze frammentarie, con­ ferma per negationem questa dipendenza della ‘realtà oggettiva’ dal gesto soggettivo del porre. Infatti, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, esso non rende affatto la ‘realtà oggettiva’ pre-soggettiva più vicina o comunque più fàcilmente accessibile in via diretta: al contrario, come risultato di questa dissoluzione del sog­ getto, è proprio questa ‘realtà oggettiva’ che perde la sua consistenza ontologica c si muta in una moltitudine di simulacri. 25 Non stiamo forse assistendo a qualcosa di strettamente analogo nel campo della politica? L’intera dialettica della sovradeterminazionc non è forse generata dal fatto che l’opposizione basilare tra le classi (la ‘lotta di classe’) riceva come necessario supplemento la coppia del Potere e dell’opposizione populista a esso, senza la garan­ zia che i due termini si sovrappongano in un’unità ‘naturale’, ‘propria’ (opposizione populista della classe sfruttata al Potere della classe dominante)? - la lotta di classe non è mai ‘pura’, c sempre dislocata attraverso la coppia Potere/Populismo, di modo

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La prova della coerenza concettuale di queste quattro posizioni è fornita dal fetto che ognuna di esse coinvolge una chiara definizio­ ne del Male. La prospettiva ‘materialista’ deleuziana è, ovviamente, nietzschiana: il ‘Male’ designa la subordinazione del flusso di desi­ derio a un Ideale che trancia il suo potere vitale affermativo, la sua produttività molteplice. Nella prospettiva ‘idealista’, al contrario, il Male è la Caduta del finito, la recisione dei suoi legami con l’idea. In Schelling, come abbiamo visto, i due poli (l’ideale e il Reale, il Logos e il Fondamento) sono sempre uniti, di modo che il Male non sia la loro separazione in quanto tale, ma piuttosto la loro falsa unità (unità sotto il dominio del fondamento egotistico). Nella quarta ver­ sione, il Male è il Bene ‘nel suo divenire’, cioè Dio è il Male elevato all’Universale attraverso la sua attività di auto-relazione.

La genesi ‘repressa’ della modernità

Q iamo dunque ritornati alla Grundoperation dell’idealismo teO desco. Per delimitare il più chiaramente possibile questa Grun­ doperation nella sua opposizione alPinvolucro dell’errore’ hegeliano, è necessario affrontare quella che senza dubbio è la più tradizionale e noiosa questione negli studi su Hegel: la matrice elementare o il modello del processo dialettico hegeliano. Prendiamo come punto di partenza una caratteristica del processo dialettico di rado menziona­ ta: il ferro che il suo dénouement avviene sempre in due passaggi. Lo Stato, ad esempio, è prima posto come la totalità razionale che su­ pera la contingenza dei destini individuali; in seguito, tuttavia, con un ulteriore ‘giro di vite’, diviene evidente che la realizzazione stessa dello Stato poggia sul Monarca in quanto esistenza corporea contin­ gente. Si può dunque subito rispondere alla critica classica secondo la quale il processo dialettico hegeliano sarebbe catturato nella circo­ larità chiusa della teleologia, essendo la sua conclusione preordinata dal, e contenuta nel, suo principio: ciò che mina alla base lo scorrere fluido della macchina teleologica è il perturbante fatto che ci siano troppe conclusioni - più precisamente, almeno due. Tra i vari romanzi di Erle Stanley Gardner con protagonista Perry

che si dà sempre la possibilità dell’emergenza di un legame ‘innaturale’, ‘perverso’ tra la classe dominante c il populismo: l’origine di tutti i problemi è il ‘populismo di destra’.

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Mason, Perry Mason e ilpappagallo spergiuro è famoso per il suo dop­ pio dénouement. dopo il consueto smascheramento dell’assassino per mezzo di una brillante deduzione, Perry è ancora infastidito da un piccolo dettaglio che non si conforma perfettamente allo stato delle cose; così architetta una nuova interpretazione che rovescia comple­ tamente le cose e finalmente chiarisce la situazione... Si è tentati di affermare che il processo dialettico hegeliano fornisca un caso em­ blematico di pappagallo spergiuro, dal momento che il ribaltamento della negatività che si auto-relaziona in una nuova positività segue il medesimo ritmo di doppio dénouement. In primo luogo si ha la ‘ne­ gazione della negazione’ in quanto perdita assoluta e auto-riferentesi, ‘perdita della perdita’; nella dialettica del desiderio questo momento si produce quando l’esperienza frustrante dell’inaccessibilità dell’og­ getto (del desiderio) si muta nella consapevolezza di come questo stesso oggetto non sia che una ‘metonimia della mancanza’: di come esso dia soltanto corpo a una certa inaccessibilità/impossibilità, cioè al vuoto fondamentale che costituisce il desiderio. L’ultima parola di Lacan, tuttavia, non è l’impasse del desiderio: ciò che segue è un ulteriore ‘giro di vite’, il rovesciamento de\V impasse nel passe, del­ la negatività del desiderio nella positività della pulsione: si ‘cambia marcia, per così dire, dal desiderio alla pulsione nel momento in cui si diviene consapevoli di come la nostra libido realizzi il proprio scopo (cioè trovi soddisfazione) proprio nel movimento circolare del fallimento ripetitivo nel raggiungere il proprio obiettivo... Questa logica del doppio dénouement ci riporta alla questione del soggetto moderno (cartesiano) in quanto $, punto vuoto dell’auto* referenza: questo soggetto è strettamente correlativo al resto escre­ mentizio (l’osso’) che viene rilasciato alla fine del processo. Proprio per questa ragione, paradossalmente, è Voperaio che occupa il posto del soggetto nel rapporto antagonistico tra operaio e capitalista: come Marx ha enfatizzato più volte, dai Grundrisse a II capitale, l’operaio è un soggetto, si libera cioè delle rimanenti vestigia di sostanzialità nel momento in cui offre se stesso - la sua forza produttiva, il nucleo del suo essere — sul mercato, e può dunque essere acquistato per denaro. Questo è il motivo per cui la donna — nella misura in cui essa funziona (anche) come oggetto di scambio tra uomini - è più soggetto dellùomo'. non si dà soggettività senza la riduzione del nucleo sostanziale del mio essere, de\\'agalma che è in me, del tesoro segreto che rende conto del mio valore e della mia dignità, a escremento liberamente circolante e disponibile...

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Questa paradossale costellazione smaschera la storia ‘ufficiale’ della genesi della soggettività, che recita come segue: l’individuo tradizionale è inserito nell’intelaiatura del Destino, il suo posto è preordinato dalla forza della Tradizione, la sua tragedia risiede nell’obbligo di dover ripagare un debito che egli ha contratto non per sua esplicita decisione, bensì semplicemente a causa del suo essere inscritto in una rete di relazioni familiari - insomma, egli è colpevole di essere ciò che è (nella sua posizione simbolica) e non a causa di ciò che ha effettivamente fatto o desiderato. Il soggetto moderno, al contrario, si libera del fardello della Tradizione, afferma se stesso come auto-responsabile e autonomo padrone del proprio destino; per lui la Tradizione conta soltanto nella misura in cui è stata testata dal tribunale indipendente della Ragione. La congettura di Hegel, Marx e Lacan, tuttavia, è che il passaggio dall’individuo pre-moderno immerso nel quadro di riferimento della Tradizione al soggetto autonomo moderno non possa avvenire direttamente. C’è qualcosa tra i due, una sorta di ‘mediatore evanescente’, ed è proprio per desi­ gnare il gesto di orripilante e insensata rinuncia che il ruolo di questo ‘mediatore evanescente’ svolge — il quale dà conto della ‘genesi della modernità’ repressa - che Lacan fa ricorso al concetto freudiano di Versagung. In cosa, dunque, consiste questa Versagung

Die Versagungi da Paul Claudel... T acan impiega i contorni di questo concetto nel suo dettaglia-L/to commento alla trilogia dei Coùfontaine di Paul Claudel, elevata a corrispettivo contemporaneo Antigone. Il riferimento alla lettura lacaniana di Antigone come caso esemplare dell’etica del desiderio è diventato di uso comune negli ultimi anni, in significa­ tivo contrasto con l’assenza di reazioni al commento lacaniano del­ l’opera di Claudel. Questa assenza di reazioni, tuttavia, non è certo sorprendente dal momento che qui le cose sono ben più inquietanti: nessuno sprazzo di bellezza generato dal pathos sublime degli eventi tragici rappresentati sul palco, soltanto un tic repulsivo... Ci limiteremo alla prima parte della trilogia, L’ostaggio [L’otage]. L’opera è ambientata verso la fine del regno napoleonico, presso la residenza della nobile famiglia impoverita dei Coùfontaine, nelle campagne francesi. Dopo molti anni di sforzo continuo, Sygne de

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Coùfontaine, una bella ma sbiadita donna sulla trentina, nonché ultimo membro della famiglia rimasto nella residenza, raggiunge l’obiettivo di riunire ciò che resta dei possedimenti dopo i tumul­ ti della rivoluzione. In una notte di tempesta riceve un’inaspettata visita segreta di suo cugino Georges, erede della famiglia e fervente monarchico, che era emigrato in Inghilterra; preda di una trance mi­ stica simile a quella del Tristano di Wagner, Sygne e Georges fanno voto di eterno amore, atto che contemporaneamente esprime il loro profondo attaccamento alle terre della famiglia e al titolo nobiliare. I due amanti si trovano riuniti nella prospettiva del matrimonio e della continuazione della tradizione familiare: vi hanno dedicato e sacrificato ogni cosa, la loro giovinezza come la loro felicità; il titolo di famiglia e un piccolo appezzamento di terreno sono tutto ciò che hanno. Tuttavia, nuove sventure si stagliano all’orizzonte: Georges è tornato in Francia per una delicata missione politica segreta — egli ha condotto alla residenza il Papa che sta fuggendo da Napoleone. Il mattino seguente Sygne riceve la visita di Toussaint Turelure, prefetto della regione e nouveau riche, una persona ch’ella detesta profondamente: Turelure, figlio della sua serva e nutrice, ha usato la Rivoluzione per compiere progressi di carriera — in qualità di monar­ ca giacobino locale ha ordinato l’esecuzione dei genitori di Sygne alla presenza dei figli. Questo stesso Turelure, l’arci-nemico di famiglia, ora si accosta a Sygne con la seguente proposta: le sue spie l’hanno in­ formato della presenza di Georges e del Papa, e naturalmente egli ha ricevuto perentori ordini da Parigi affinché arresti immediatamente i due; tuttavia, egli è disposto a lasciarli fuggire a condizione che Sy­ gne lo sposi e dunque gli trasferisca il titolo nobiliare della famiglia Coùfontaine... Benché Sygne rigetti orgogliosamente la profferta e cacci Turelure, una susseguente, lunga conversazione con il parroco del paese, confidente della famiglia, la spinge a cambiare idea. Nella sua strategia squisitamente moderna volta a indurre Sygne ad accet­ tare l’offerta di matrimonio di Turelure, e di conseguenza a salvare il Papa, il parroco rinuncia a chiamare direttamente in causa i doveri di Sygne e i suoi obblighi: egli ripete senza posa che nessuno, nem­ meno Dio stesso, ha il diritto di chiederle un tale, orrendo sacrificio — la decisione spetta a lei, Sygne ha il diritto di negarsi senza alcun rimprovero... Un anno più tardi, Turelure, ormai marito di Sygne e prefetto della Sei ne, conduce i negoziati per la resa di Parigi ai realisti: grazie

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alle sue doti di negoziatore egli si assicura una delle più ambite cari­ che della Francia post-napoleonica. Il capo delegazione per il ritorno del Re altri non è che Georges; inoltre, i negoziati si svolgono nel giorno in cui nasce il figlio di Sygne eTurelure. Incapace di soppor­ tare il fatto che Turelure, corrotto e opportunista, abbia usurpato il nome della famiglia, Georges si lancia con lui in una violenta lotta. Ne nasce una sparatoria, alla presenza di Sygne, nella quale Geor­ ges viene ferito a morte mentre Sygne fa da scudo a Turelure con il proprio corpo, intercettando il proiettile esploso da Georges. In una versione alternativa della scena che segue questa sparatoria, Turelure siede accanto al letto di Sygne, ferita fatalmente, chiedendole dispe­ ratamente di dargli un segno che conferisca un qualche significato al suo inaspettato gesto suicida che ha salvato la vita all’odiato marito - qualsiasi cosa, foss’anche il fatto che a spingerla non fu l’amore ma la mera volontà di risparmiare il disonore al nome di famiglia. Sy­ gne, ormai morente, non emette suono: fa soltanto segno di rifiutare una riconciliazione finale con il marito mediante un tic compulsivo, una sorta di convulsa contrazione che distorce ripetutamente i tratti gentili del suo volto^Qui Lacan è pienamente giustificato nel leggere il nome ‘Sygne’ come un distorto ‘signe’ (‘segno’, in Francese): ciò che Sygne rifiuta di dare è un segno che inserirebbe l’assurdo gesto di sacrificarsi per il marito detestato nell’universo simbolico dell’onore e del dovere, ammorbidendone in tal modo l’impatto traumatico. L’ultima scena dell’opera: mentre Sygne muore a causa delle ferite, Turelure offre un patetico benvenuto al Re a nome della Francia fedele... Il Papa è rappresentato come un vecchio impotente, sentimentale e mezzo demente, decisamente spaesato rispetto al suo tempo, per­ sonificazione della saggezza rituale, ipocrita e senza vita di un’istitu­ zione decadente; la restaurazione àe\\'ancien régime dopo la caduta di Napoleone è una parodia oscena in cui i più corrotti parvenus della Rivoluzione, vestiti da realisti, comandano. Perciò Claudel segnala chiaramente che l’ordine per il quale Sygne compie l’estremo sacri­ ficio non è l’autentico ordine antico, bensì il suo sembiante impo­ tente e superficiale, una maschera sotto la quale le nuove forze della corruzione e della degenerazione fortificano il proprio dominio. A dispetto di ciò, tuttavia, la sua parola la obbliga — o, come dice La­ can, Sygne è ostaggio della sua Parola - a compiere, per vacua con­ venzione, il sacrificio di sé per il marito, al quale non solo è tenuta

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a obbedire, ma che deve anche rispettare e amare di tutto cuore... Qui risiede l’orripilante assenza di senso del suo gesto suicida: questo gesto è vuoto, non c’è alcun Destino essenziale che predetermini le coordinate simboliche dell’esistenza dell’eroe, alcuna colpa che egli debba assumere nel gesto pateticamente eroico di auto-sacrificio. ‘Dio è morto’ - l’Universale essenziale per il quale il soggetto è pron­ to a sacrificare il nucleo del proprio essere altro non è che una forma vuota, un rituale ridicolo privo di ogni contenuto sostanziale, ma che nondimeno tiene il soggetto in suo ostaggio. Il soggetto moderno si costituisce per mezzo di un tale gesto di rinuncia reduplicata, cioè di sacrificio del nucleo del suo essere, della sua particolare sostanza per la quale è d’altra parte disposto a sacrifi­ care ogni cosa. In altre parole, egli sacrifica il nucleo sostanziale del suo essere a favore di un ordine universale che, tuttavia, dato che ‘Dio è morto’, si rivela come un impotente guscio vuoto. Il soggetto perciò trova se stesso nel vuoto dell’alienazione assoluta, per giunta deprivato della bellezza del pathos tragico - ridotto a uno stato di umiliazione radicale, trasformato nel guscio vuoto di se stesso, egli è forzato a obbedire al rituale e a fingere un’entusiastica adesione alla Causa nella quale non crede più, o che addirittura disprezza profon­ damente. Il fatto più che ovvio che L'ostaggio si avvicini spesso a un melodramma ridicolo ed eccessivo non è, allora, una debolezza; al contrario, ciò funziona come indicatore di un’impasse soggettiva che non può più esprimersi nel pathos tragico — il soggetto è privo anche di quel minimo di dignità tragica. Il divario che separa l’opera di Claudel Antigone è qui chia­ ramente percepibile: se si dovesse riscrivere VAntigone come tragedia moderna, si dovrebbe modificare la storia in modo da privare il gesto suicida di Antigone della sua sublime dignità e trasformarlo in un caso di ridicola e testarda perseveranza chiaramente fuori luogo e con ogni probabilità manovrato da quello stesso potere statale che si pretende di mettere in questione... La precisa formulazione lacaniana di questo punto cruciale calza a pennello rispetto alla posizione dell’accusato nei processi-spettacolo di Stalin: nella tragedia mo­ derna, al soggetto «viene richiesto di assumere come un godimento quell’ingiustizia che gli fa orrore» [il est deniandé d'assumer cornine une jouissance l'injustice tnènie qui lui fait horreur].2G Non è questa 26 Jacques Lacan, Il seminario. Libro Vili: il transfert, Einaudi, Torino 2001, p. 333.

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una perfetta descrizione dell’fw^/WJ^ del soggetto stalinista? Non solo egli è spinto a sacrificare al Partito tutto ciò a cui tiene — tradizione, lealtà verso gli amici, ecc. — ma gli è anche richiesto di farlo con entusiastica fedeltà... Si è dunque tentati di arrischiare l’ipotesi che i processi-spettacolo di Stalin, con la loro assoluta (e autoreferen­ ziale) umiliazione dell’accusato (il quale viene costretto a richiedere la pena di morte per se stesso, ecc.), forniscano la realizzazione più chiara nella stessa realtà sociale della struttura fondamentale della tragedia moderna articolata da Lacan a proposito di Claudel.27 Nella misura in cui il soggetto tradisce il nucleo del proprio esse­ re, per così dire precludendosi la possibilità di una dignitosa ritirata nell’autenticità tragica - cosa dunque gli rimane se non un ‘No!’, un gesto di diniego che, in Claudel, appare nella forma dei tic convulsi della morente Sygne. Una tale smorfia, un tic che distorce l’armo­ nia di un bel volto femminile, registra la dimensione del Reale, del soggetto in quanto ‘risposta al reale’. Questo piccolo, appena per­ cettibile tic - «un rifiuto, un no, un non, quel tic, quella smorfia, 27 Nel capitolo 5 di Slavoj 2izek, Enjoy Your Symptoml, Routledge, New York 1993, ho tentato di dimostrare che i ‘learning plays’ di Brecht — specialmente Vie Measure Taken, che allude apertamente ai processi staliniani - esibiscono la strut­ tura della Versagung anche più esemplarmente della trilogia di Claudel. Proprio il passaggio dal leninismo allo stalinismo, che rimanda all’inversione hegeliana tra il nobile guerriero che silenziosamente serve lo Stato e il cortigiano corrotto che adula il Monarca (si veda il capitolo ‘Alienazione’ della Fenomenologia dello spirito), fornisce un caso esemplare di Versagung. Nella sua decisa devozione e fedeltà alla Causa Comunista il leninismo si pone come indubbiamente non privo di una certa sublime eticità: indifferente alle norme della moralità borghese nonché alla propria felicità personale, un vero leninista è pronto a mettere in gioco ogni cosa per la Causa. Nello stalinismo questa devozione si trasforma nella smaccata adulazione del Maestro che impersonifica la Causa, condizionata dalla Iona per la sopravvivenza personale e per il mantenimento dei privilegi. Il punto cruciale, ovviamente, è comprendere questa inversione tra una pura devozione rivoluzionaria e il suo opposto (adulazione conformista) nella sua neces­ sità, la quale consiste precisamente nella logica della Versagung-. in primo luogo, si rinuncia a ogni cosa per la Causa (il ComuniSmo); successivamente la Causa stessa perde la sostanza e si trasforma nel guscio vuoto del proprio contenuto reale, la cui unica raison detre è la legittimazione dell’esercizio brutale del potere c verso la quale sia i carnefici che le loro vittime intrattengono una cinica distanza. In altre parole, lo stalinismo è la ‘verità’ del leninismo proprio nella misura in cui ne rappresenta la radicale perversione: è la devozione autentica e sincera di un comunista leninista verso la Causa, la prontezza a sospendere considerazioni etiche ‘esteriori’ nel ten­ tativo di seguire la Causa che comporta la conversione a un’adulazione puramente esteriore...

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insomma, quel cedere del corpo, quella reazione psicosomatica»28 — incomparabilmente più orripilante del vortice ciclopico del Reale celebrato da Schelling, è il gesto elementare dell’isteria: attraverso i suoi sintomi, la donna isterica dice ‘No’ alla richiesta del grande Altro (sociale) di accettare con godimento proprio quell’ingiustizia che le fa orrore’ - cioè, di fingere di trovare soddisfazione e realizza­ zione personale nel sopportare la propria ‘vocazione’ come definita dall’ordine patriarcale dominante. Sarebbe qui opportuno ricordare l’inversione lacaniana della fa­ mosa proposizione di Dostoevskij nei Fratelli Karamazotr. «Se Dio non esiste — dice il padre — allora tutto è permesso. Nozione evidente­ mente ingenua, poiché sappiamo bene, noi analisti, che se Dio non esiste, allora più niente è permesso. I nevrotici ce lo dimostrano ogni giorno».29 In altre parole, il fatto che non ci sia più un Destino che preordina i contorni della mia colpa, in alcun modo mi permette di godere dell’innocenza del soggetto autonomo sgravato da ogni modello di colpa imposto dall’esterno: al contrario, questa assenza del Destino mi rende assolutamente colpevole - mi sento in colpa pur non sapendo precisamente di cosa sono colpevole, e questa ignoran­ za non fa che accrescere la mia colpevolezza. È questa ‘colpa astratta’ che rende il soggetto vulnerabile alla trappola ‘totalitaria. C’è quindi un briciolo di verità neH’affermazione conservatrice che la libertà del soggetto moderno è ‘falsa: un’inquietudine isterica pervade la sua stessa esistenza perché essa manca di una stabile identità sociale, che può discendere soltanto da un rapporto solido con la Tradizione. Questa colpa astratta, indefinita e proprio per questo assoluta, che pesa come un macigno sul soggetto liberato dal potere del Destino, è in ultima istanza l’oggetto della psicoanalisi in quanto si situa alla radice di qualsiasi forma di ‘psicopatologia’. Precisamente in questo 28 Jacques Lacan, Il seminario. Libro Vili: il transfert, eie., p. 333. 29 Jacques Lacan, //seminario. Libro II: L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2006, p. 148. Una sorta di patetico avvaloramen­ to dell’inversione lacaniana di Dostoevskij è la piaga degli intellettuali cx-dissidenti nei paesi post-comunisti dell’est europeo: quando la censura comunista era ancora operativa, cera la possibilità di lanciare messaggi sovversivi da leggersi tra le righe - la censura stessa affinava l’attenzione dei lettori verso il contenuto nascosto, di modo che ognuno comprendesse ciò cui un testo intendeva riferirsi. Ora che non c’è alcuna censura e che tutto è permesso, la proibizione risulta universalizzata: è im­ possibile lanciare un messaggio sovversivo, i lettori semplicemente non lo colgono, il discorso degli intellettuali critici non trova alcuna eco...

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senso, Lacan sostiene che il soggetto della psicoanalisi è il sogget­ to cartesiano della scienza moderna — quel soggetto caratterizzato da scompensi e tensioni nervose permanenti che provengono dalla mancanza di supporto presente nel grande Altro del Destino. Il passaggio, cui assistiamo oggi, dalla Legge in quanto Proibi­ zione al dominio delle ‘norme’ e degli ‘ideali’ non è forse la prova definitiva dell’inversione lacaniana di Dostoevskij? In tutti i campi della nostra vita quotidiana, dalle abitudini alimentari ai compor­ tamenti sessuali fino ai successi professionali, ci sono sempre meno proibizioni e sempre più norme-ideali da seguire. La sospensione della Legge-Proibizione ri-emerge nelle vesti del feroce Super Io che riempie il soggetto di colpa nel momento in cui la sua condotta vie­ ne ritenuta insufficiente rispetto alla norma o all’ideale. Qui risiede la lezione del Cattolicesimo tanto apprezzata da Lacan: la funzione di una chiara ed esplicita Proibizione esterna non è quella di render­ ci colpevoli ma, al contrario, di alleviare l’insopportabile pressione della colpa che ci opprime nel momento in cui la Proibizione cessa di intervenire. Nel nostro universo tardo-capitalista, il soggetto non è colpevole quando infrange una proibizione; è ben più verosimile che esso si senta colpevole quando (o, meglio, perché) non è felice - l’ordine di essere felici è forse la più definitiva delle ingiunzioni superegoiche...30 30 Questa storia a proposito della felicità comincia con la Rivoluzione Fran­ cese. Cosa significa, precisamente, l’affermazione di Saint-Just secondo la quale la felicità sarebbe un fattore politico? Il punto non riguarda semplicemente il fatto che il popolo, ormai sfuggito al giogo della tirannia, abbia il diritto di essere felice, c che il nuovo Stato sia obbligato a darsi per obiettivo la felicità dei propri sudditi. Ciò che si agita sotto la superficie è un’inversione potenzialmente ‘totalitaria’: è tuo dovere essere felice — il che significa: se, nel bel mezzo della Rivoluzione c dei suoi inediti avvenimenti, tu sei infelice, allora se ne può dedurre che tu sia un traditore controrivoluzionario. Robespierre è stato Vespaio insuperato nella manipolazione del senso di colpa legato all’essere infelici: in uno dei suoi grandi discorsi, dopo aver spaventato a mone i membri dcU’Assemblca Nazionale asserendo che si contassero tra loro nu­ merosi traditori (nessuno poteva dirsi sicuro di non trovarsi sulla lista), Robespierre proseguiva: ‘Se, in questo preciso istante, qualcuno in questa sala è spaventato, que­ sta è una prova inconfutabile ch’egli sia un traditore!’. Ciò cui assistiamo in questo passaggio non è una mera variazione sul tema notorio del ‘se non hai nulla da na­ scondere, non hai nulla da temere!’. Questa è anche una grandiosa manipolazione del desiderio dell’uditorio: la colpa cui Robespierre si riferisce è, in ultima istanza, quella di nutrire un desiderio perverso che ci fa resistere alla nostra stessa felicità - in breve, la colpa di avere un desiderio tour court. Il ragionamento esplicito di Robespierre potrebbe anche essere formulato come segue: il soggetto che reagisce con paura di fronte all’accusa che vi siano traditori

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...a France PreSeren

T a letteratura slovena offre un esempio di Versagung per niente JLuinferiore a quello proposto da Claudel: il Battesimo presso la Savica di France Preseren, un lungo poema epico scritto negli anni Quaranta dell’Ottocento sulla violenta cristianizzazione degli slove­ ni nel corso del IX secolo. Secondo la mitica narrazione dell’origine, questo poema avrebbe ‘fondato’ la nazione slovena; la verità è che, almeno fino a oggi, ogni alunno sloveno ha dovuto impararlo a me­ moria. Un Prologo descrive la lotta eroica degli ultimi pagani slo­ veni: il luogo della loro ultima resistenza è un castello di montagna circondato da cristiani. Nel corso di una sanguinosa battaglia nottur­ na essi vengono tutti trucidati, con l’unica eccezione di Crtomir, il loro giovane capo; dopo aver approfittato della confusione notturna per fuggire, egli si rifugia in un santuario pagano isolato di cui si prende cura la bella sacerdotessa Bogomila, suo grande amore. In questo luogo, tuttavia, una crudele sorpresa attende Crtomir: men­ tre egli combatteva tenacemente, Bogomila era stata convertita al cristianesimo. Ella tenta ora passionalmente di persuaderlo a battez­ zarsi - i due possono essere uniti solo in Cristo. L’amore di Crtomir per Bogomila è talmente forte che egli è pronto a rinunciare a tutto pur di averla, anche agli antichi costumi pagani che costituiscono la sostanza stessa del suo modo di essere. Tuttavia, dopo aver accon­ sentito alla conversione che avrebbe dovuto ricongiungerlo a Bogo­ mila, Crtomir si avvede di un nuovo giro di vite alla questione: ora Bogomila gli chiede di rinunciare al suo amore carnale per lei — se veramente la ama, deve accettare ciò che più conta per lei: una vita casta al servizio di Cristo. Come reagisce Crtomir alla seconda batosta, cioè alla rinuncia a Bogomila — il che significa, in lacanese, come riesce ad assumere nella sala sta mostrando di preferire la propria sicurezza c il proprio benessere indi­ viduale alla libertà c al benessere del popolo Francese, cioè alla Causa rivoluzionaria - e questa attitudine è già in se stessa infida, è tradimento allo stato puro, una forma di tradimento che precede qualsiasi atto di infedeltà determinata. Si riscontra la stessa logica nell’insistenza stalinista sulla colpevolezza dell’accusato in un processo politico anche qualora la sua rivendicata innocenza venisse provata al livello dei fat­ ti: egli infatti mostra di preoccuparsi del proprio personale destino disdegnando la Causa proletaria; il fatto è che la sua rivendicazione di innocenza mette seriamente in dubbio l’autorità del partito c, quindi, indebolisce la sua unità - è in questa atti­ tudine individualista c piccolo-borghese che risiede la sua vera colpa...

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pienamente la castrazione simbolica? Ciò che accade in questo fran­ gente è la rappresentazione di una fascinazione: Crtomir fìssa Bogomila ed è stregato dalla sua celestiale bellezza - nel momento in cui quest’immagine esercita su di lui il suo incantesimo, egli è perduto. Quest’immagine è l’esca par excellence, il segnaposto di una man­ canza o, in lacanese, Vobjetpetit a (l’oggetto-causa del desiderio) che sta al di sopra del menophi (la castrazione) - la ‘castrazione’ viene in genere presentata sono forma di un’immagine affascinante. La sce­ na finale: Crtomir, totalmente distrutto, si sottopone alla cerimonia battesimale alla cascata di Savica, nelle attuali alpi slovene. Gli ultimi versi del poema accennano soltanto a ciò che accade subito dopo il battesimo: Crtomir si reca ad Aquileia (una città nell’odierna Italia settentrionale), diventa missionario e dedica il resto dei suoi giorni cercando di convertire pagani al cristianesimo; lui e Bogomila non si rivedranno mai più in questo mondo...31 Nell’ambito della teoria e della critica letteraria slovena questo poema ha ricevuto due opposti tipi di interpretazione. Le letture ‘di sinistra’ enfatizzano il Prologo e si concentrano sull’eroica resistenza alla violenta imposizione di una religione straniera - Crtomir è vi­ sto come il precursore delle Ione contemporanee per l’indipendenza nazionale... Le letture ‘di destra valorizzano il processo di cristianiz­ zazione e sostengono che il messaggio ultimo del poema sia la spe­ ranza, non la disperazione — alla fine Crtomir trova la pace interiore in Cristo. Entrambe le interpretazioni perdono di vista la posizione soggettiva di Crtomir nella scena finale che, ovviamente, è precisamente quella di una Versagnng. Dopo aver rinunciato a tutto ciò che gli importa — le sue radici etniche, la sostanza stessa del suo essere sociale - per il bene del suo amore, Crtomir è costretto a rinunciare alla realizzazione di quello stesso amore, in modo tale da trovarsi ‘oltre la seconda morte, ridotto al guscio di ciò che era e costretto a diffondere una fede nella quale non crede... Un luogo comune pop-psicologico a proposito del ‘carattere na­ zionale sloveno’ è che questa posizione soggettiva di Crtomir esem­ plifichi la struttura caratteriale dello sloveno medio, proverbialmente portato al compromesso, irresoluto, autolesionista. Invece di pren­ dere una decisione chiara e fronteggiarne le conseguenze (il che si31 E forse un tale gesto definisce anche la nascita di un poeta, che in primo luogo deve sacrificare tutto per la sua Donna, e in seconda battuta deve sacrificare la Donna stessa.

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gnifica, in questo caso, o rimanere fedeli alle proprie specifiche radici etniche a qualsiasi prezzo, oppure abbracciare senza compromessi il nuovo ordine cristiano universale), uno sloveno tipico preferisce l’in­ definito stato intermedio — cristianesimo, certo, ma non del tutto; teniamo le dita incrociate e manteniamoci a distanza di sicurezza; meglio dita incrociate che dita bruciate...32 Il problema, tuttavia, è che l’intersezione dei due insiemi, il particolare (le radici etniche) e l’universale (il cristianesimo), è vuota, e ciò implica che, qualora si decida di stare nell’intersezione, si perde tutto - e il nome di questa perdita radicale è, naturalmente, ‘soggetto’. In altre parole, il soggetto moderno è in stretta correlazione con la dimensione dell’‘oltre la seconda morte’: la prima morte è il sacri­ ficio della nostra sostanza particolare, ‘patologica, per la Causa uni­ versale. La seconda morte è il sacrificio, il ‘tradimento’, della Causa stessa, in modo tale che tutto ciò che rimane è il vuoto che costitui­ sce $, il ‘soggetto barrato’ — il soggetto emerge solo attraverso questo doppio sacrificio auto-referenziale di quella Causa stessa per la quale

32 La narrazione mitica del passato sloveno è la narrazione di una serie di scelte nelle quali l’autentica decisione etica avrebbe dovuto condurre all’estinzione: nella memoria collettiva slovena, la cristianizzazione dell’ottavo secolo è inscritta come doloroso compromesso - coloro che si arresero sopravvissero, mentre coloro che ri­ masero fedeli alle proprie tradizioni pre-cristiane furono massacrati. La soppressione violenta del protestantesimo segui la medesima logica - coloro che persistettero nel­ la fede protestante furono uccisi oppure emigrarono nei paesi tedeschi protestanti, e la feccia senza spina dorsale furono gli antenati degli sloveni di oggi... In breve, il fatto stesso della sopravvivenza testimonia di uno status come resto escrementale - come se uno sloveno fosse la prova vivente c/o il resto di un compromesso, del­ la ‘compromissione del desiderio’, dello scegliere il lato sbagliato di una decisione etica. Questa 'scelta sbagliata’ è vissuta come un’umiliazione da parte di un’autorità paterna - che è la ragione per cui, nella mitologia slovena, il padre è un ubriacone impotente e fragile mentre il pilastro della famiglia è sempre la madre, sul cui sa­ crificio silenzioso dipende l’intero edificio sociale. Si è tentati di avanzare un’ipotesi secondo la quale per gli sloveni sarebbe il Nome-dclla-Madre, e non il Nomc-dclPadre, a garantire il meccanismo fondamentale della socializzazione, dell’entrata nell’ordine simbolico. La prova che questo mito struttura la stessa realtà sociale è la diffusione dell’alcolismo in Slovenia dove, stando a dettagliati rapporti clinici, la tipica costellazione familiare comprende un padre alcolizzato c umiliato messo all’angolo dalla madre (sua moglie) in un doppio vincolo: la madre lo implora di curarsi, ma nello stesso tempo il suo messaggio tra le righe rimanda al suo essere troppo debole per farlo, di modo che ella effettivamente lo diriga verso il bere an­ cora di più...

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era pronto a sacrificare tutto.33 Forse il fantasma fondamentale della modernità riguarda la possibilità di una ‘sintesi’ tra il Particolare e l’Universale - il sogno di una lingua (universale) permeata da passio­ ni (particolari), di una Ragione universale e formale permeata dalla sostanza di un concreto mondo della vita, e così via - in breve, il fantasma riempie l'insieme vuoto dell’intersezione-, la sua premessa è che questo insieme non sia vuoto.34 Una delle ironie della nostra vita da intellettuali è che agli occhi della doxa filosofica, Hegel - cioè il filosofo che più d’ogni altro ha articolato la logica del ‘sacrificio del sacrificio’ — venga considerato il rappresentante paradigmatico di questo fantasma. Kierkegaard, contemporaneo di Preseren e grande oppositore di Hegel, si trova, a questo proposito, stranamente molto vicino a Hegel: la nozione kierkegaardiana di Religioso non implica forse un gesto, fortemente analogo, di doppio sacrificio auto-refe­ renziale? Per prima cosa, dobbiamo rinunciare al particolare conte­ nuto ‘estetico’ in nome della Legge etica universale; successivamente, la Fede ci ingiunge di sospendere questa stessa Legge... A questo punto possiamo avanzare una definizione precisa del­ la trappola in cui sono caduti la Sygne di Claudel e il Crtomir di Preseren: entrambi oppongono astrattamente la Cosa stessa (per Sy­ gne, la religione cristiana; per Crtomir, l’amore per Bogomila) al particolare contesto di vita nel quale, unicamente, questa Cosa può prosperare (l’attaccamento di Sygne alla residenza di famiglia e alla tradizione feudale; il radicamento di Crtomir nell’antico mondo della vita pagano) — il che significa che entrambi falliscono nel riconoscere che la loro rinuncia del contenuto particolare in nome della Cosa stessa conduce di fatto alla rinuncia della Cosa.35 In termini hegelia” Nella misura in cui il soggetto emerge da un tale scambio asimmetrico (non solo non si ottiene niente in cambio di ciò che si è dato, ma addirittura si perde la Cosa per la quale si è rinunciato a tutto), c nella misura in cui il vero nucleo del cristianesimo , del 'supplemento' cristiano alla Legge Ebraica, risiede in un omologo disturbo traumatico dello scambio bilanciato (in cambio di ciò che si è perso, si deve addirittura offrire ciò che ancora si possiede - ‘porgere l’altra guancia’ invece che ‘occhio per occhio’, ecc.), non è per caso che il processo di cristianizzazione fornisca lo sfondo del poema di Preseren: il soggetto moderno è concepibile solo all’interno dell’economia simbolica cristiana. 54 La verità della modernità, naturalmente, è che la rinuncia alla Cosa parti­ colare (etnicità, ecc.) per l’ordine universale (della Ragione, ecc.) mina alla radice le condizioni di possibilità di quello stesso ordine universale. 35 In questo contesto è possibile comprendere la strategia dell’interrogatorio deciso e senza sconti al fine di fiaccare la resistenza della vittima ed estorcerne una confessione che ne comprometta i principi. L’inquisirore comincia inducendo la vittima a cedere su punti particolari che apparentemente non implicano la rinuncia

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ni: entrambi si aggrappano alla credenza illusoria che la cosa (il vero Universale) possa in qualche modo persistere, mantenere la propria consistenza, al di fuori delle proprie concrete condizioni di esistenza (che la religione cristiana possa mantenere il proprio significato al di fuori dell’aneien regime, in nuove condizioni post-rivoluzionarie...). Qui risiede il nucleo esistenziale’ della hegeliana ‘negazione della negazione’: il soggetto deve esperire come la negazione (il sacrificio) di un contenuto particolare in nome della Cosa sia già la negazionesacrificio della Cosa, di ciò a causa di cui si sacrifica il contenuto particolare. In Claudel il cristianesimo — la Cosa — sopravvive, ma come mero guscio inanimato di se stesso, privo della propria sostan­ za vitale. In Preseren, Crtomir sopravvive come guscio del proprio sé anteriore, scevro del proprio contenuto sostanziale - in breve, come /aggetta36 Ciò significa che solo attraverso tale doppio movimento di ‘sacrificio del sacrificio’ che spoglia il soggetto del proprio intero contenuto sostanziale il soggetto puro in quanto $ può emergere — si può cioè passare dalla Sostanza al Soggetto.37 Ovviamente, ciò che

ai propri principi; successivamente, dopo aver estratto dalla vittima un numero sufficiente di queste concessioni ‘inessenziali’, ('inquisitore non deve far altro che ricordarle che il gioco è già terminato e che è tempo di abbandonare le false pretese - i principi della vittima sono stati compromessi molto tempo fa, allora perché non chiamare le cose col proprio nome?... La trappola in cui è caduta la vittima consiste nella sua credenza illusoria che l'Essenza universale, la Cosa a cui veramente tiene possa persistere anche al di fuori della rete di circostanze concrete ‘inessenziali’. • Sebbene a un livello in qualche modo diverso, accade la stessa cosa ai ten­ tativi di ‘contestualizzare’ la psicoanalisi sulla base di circostanze particolari. È qui sufficiente richiamare il tristemente noto consiglio di Jung a Freud, sul transatlanti­ co che si dirigeva a New York, di evitare un’eccessiva enfasi sulla sessualità al fine di rendere la psicoanalisi più appetibile per i puritani americani, e la replica piccata di Freud che se si lasciassero da parte ancora più contenuti, la psicoanalisi diventerebbe tanto più appetibile... Il destino della psicoanalisi in America - dove, naturalmente, essa è sopravvissuta come guscio inanimato del suo vero contenuto - giustifica pie­ namente il rigetto di freudiano di tali concessioni tattiche’. 57 Nella sua interpretazione della Trilogia dei Coufontainc di Claudel, Lacan propone tre formulazioni di questo gesto della Versagung (o, in lacanesc, castrazione simbolica): • «... la castrazione, insomma, è architettata così: si sottrae a qualcuno il suo de­ siderio e, in cambio, si dà lui a qualcun altro - all'ordine sociale, nel caso specifico» Oacques Lacan, Il seminario. Libro Vili: il transfert, cit., p. 356.) • «... si toglie al soggetto il suo desiderio e, in cambio, lo si lancia sul mercato, dove viene messo all’incanto» (Ibidem) • «Gli effetti sull’uomo del suo divenire soggetto alla legge si riducono al fatto che gli viene tolto tutto ciò che gli è più intimamente proprio e che in cambio egli

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non va dimenticato è il modo in cui la differenza sessuale dà conto dei differenti atteggiamenti dei due eroi dopo l’esperienza della Versagung. Xuomo Crtomir continua a partecipare al gioco della società — si fa egli stesso agente di quella cristianizzazione che aveva origina­ to la sua caduta - mentre la donna Sygne persiste nel proprio ‘Noi’ al rito sociale...

La transustanziazione dialettica

T a magistrale e ingannevole manipolazione del punto di vista, JL/operata dal regista Fritz Lang in Dietro la porta chiusa, una variazione sul tema di Barbablù, fornisce un esempio inquietante di una tale perdita di contenuto sostanziale. Celia Qoan Bennett) è sempre più convinta che suo marito Mark (Michael Redgrave) sia uno psicopatico intenzionato a ucciderla; una notte cede al pani­ co e si proietta violentemente fuori casa, nel giardino avvolto nella nebbia, dove si trova di fronte una figura maschile - la dissolvenza è talmente veloce da non permettere allo spettatore di verificarne l’identità. Questo incontro, ovviamente, segue le regole classiche dell’horror gotico: quando la vittima designata decide di fuggire, incontra sulla sua strada l’assassino che l’attende, come se già sa­ pesse del suo tentativo di fuga e l’avesse incluso nel piano omicida. viene consegnato al tran-tran della trama che annoda tra loro le generazioni» (Ivi, p. 357.) La concatenazione di queste tre formulazioni mostra la struttura di una triade hegeliana. Ciò che cambia dalla prima alla seconda formulazione c la natura del­ l’ordine al quale il soggetto è indirizzato: dall’ordine sociale’ in generale, il quale suggerisce un complesso edifìcio di relazioni di dominazione c interdipendenza, si passa al mercato, a questo equalizzatore universale (nell’atto dello scambio, tutte le differenze di status sociale svaniscono magicamente). Dall’altro lato, la natura di ciò di cui il soggetto viene privato rimane la medesima: il proprio desiderio. Nella terza formulazione, si ritorna alla prima per quanto riguarda la natura dell’ordine al quale il soggetto è indirizzato (^insieme delle generazioni’, cioè la rete complessa delle interdipendenze), mentre ciò di cui il soggetto viene privato non c più il proprio desiderio, bensì ‘ciò che per esso è più importante’: l’oggctto-causa del proprio desi­ derio, il tesoro nascosto che dà conto del suo valore, \'objetpetit a. Ix> iato che separa questa terza formulazione dalle prime due è cruciale: nell’ultimo caso il desiderio non c più ciò di cui il soggetto viene privato nel corso dello scambio, ma ciò che il soggetto ottiene nel corso dello scambio - si diviene soggetto desiderante solo nella misura in cui ci si ritrova privi di ciò che è più importante’.

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A questo punto il film riporta la voce fuori campo di Mark e il suo processo per il presunto assassinio di Celia: siamo dunque portati a pensare che sia stata uccisa dal marito. Tuttavia, mentre Mark si aggira per la stanza di Celia, questa appare improvvisamente sulla porta - la sua inaspettata apparizione sorprende non tanto Mark (il quale sa di non averla uccisa) quanto lo spettatore; apprendiamo in breve che la figura avvolta nella nebbia non era quella di Mark ma quella di Bob, l’ex-fidanzato di Celia, nei suoi confronti protettivo come un fratello, che aveva risposto alla chiamata della donna ed era andato a salvarla... La sorpresa qui è doppia. In primo luogo lo spettatore, abitua­ to alle regole classiche del genere, è portato ad aspettarsi che dopo {'aphanisis della vittima, in seguito all’incontro con la spaventosa fi­ gura nella nebbia, il film passi dalla narrazione soggettiva (basata sul punto di vista) alla narrazione oggettiva (impersonale); invece, smentendo le aspettative dello spettatore, anche la scena che segue Vaphanisis dell’eroina è girata attraverso la modalità narrativa basata sul punto di vista (dell’imputato omicida). Inoltre, diviene presto evidente che l’imputato omicida non è affatto un assassino - che il crimine è stato puramente fantasticato: l'angoscia delta vittima si è 'sovrapposta' allafantasia dell'assassino.03 L’inversione è perciò doppia: dapprima dal punto di vista di Celia a quello di Mark; in seguito, è l’improvvisa (ri)apparizione di Celia che ‘fictionalizza entrambe le narrazioni. L’economia libidinale di tale inversione dei punti di vista sogget­ tivi, dopo che il primo soggetto ha incontrato la figura dell’orrore finale e si è dissolto, implica una sorta di ‘transustanziazione’: è come

M Faccio qui riferimento all’eccellente analisi di questa scena proposta da Eli­ zabeth Cowic nel suo "Film noir and Women”, in Joan Copjec (cur.), Shudes of Noir, Verso, Londra 1993, pp. 155-159. Sarebbe di grande interesse teorico tema­ tizzare tutte le diverse versioni cinematografiche di questo strano processo di aphanisis nel corso del quale un soggetto dalla realtà diegctica viene ucciso o comunque ‘sviene’ e poi miracolosamente sopravvive alla propria morte: ciò che qui si incontra è la stessa struttura di ‘transustanziazione’, cioè il fatto che il soggetto che soprav­ vive alla propria morte non è ‘sostanzialmente’ lo stesso di prima. È qui sufficiente richiamare II club dei 39 di Hitchcock, nel quale Hannay è colpita dalla pistola della figura paterna traditrice e salvata dalla Bibbia che porta in tasca, la quale miracolo­ samente intercetta il proiettile. È assai significativo che la aphanisis segua l’incontro di Hannay con il ‘padre anale’ che mostra oscenamente la propria mancanza (il dito medio tagliato, il suo segno di riconoscimento).

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se la realtà stessa del secondo soggetto materializzasse, desse corpo, al sogno del primo — cioè, come se nel secondo soggetto il primo soprav­ vivesse alla propria morte. E questo è ciò a cui si riferisce l’hegeliano ‘ritorno dello Spirito a se stesso’: nella negazione della negazione’ lo Spirito effettivamente ‘ritorna a se stesso’; tuttavia, è assolutamente cruciale tenere a mente la dimensione ‘performativa’ di questo ritor­ no - lo Spirito modifica la sua stessa sostanza tramite questo ritorno a se stesso. Lo Spirito al quale si ritorna, lo Spirito che ritorna a sé, non è lo stesso Spirito che si era precedentemente perso nell'alienazione — ciò che avviene nel mentre è una sorta di transustanziazione, così che è proprio questo ritorno a sé a contrassegnare il punto oltre il quale l’iniziale sostanza dello Spirito è definitivamente perduta.39 È sufficiente ricordare la perdita, l’auto-alienazione, dello Spirito di una comunità sostanziale che ha luogo nel momento in cui i suoi legami organici si dissolvono per effetto dell’emergere dell’individua­ lismo astratto: al livello della ‘negazione’, questa dissoluzione è anco­ ra misurata attraverso gli standard dell’unità organica, e per questo motivo essa viene vissuta come una perdita. La ‘negazione della ne­ gazione’ si verifica quando lo Spirito ‘ritorna a se stesso’ — non come riappropriazione della comunità organica perduta (l’unità organica immediata è persa per sempre), bensì come pieno compimento di tale perdita, cioè mediante l’emergere di una nuova determinazione dell’unità sociale: non più l’unità organica immediata, ma l’ordine legale e formale che sostiene una società civile di liberi individui. Questa nuova unità è sostanzialmente differente dalla perduta uni­ tà organica immediata. Altrimenti detto: la ‘castrazione’ designa il fatto che il soggetto ‘pieno’, immediatamente identico alla sostanza ‘patologica’ delle pulsioni (S), deve sacrificare la facile soddisfazione delle pulsioni in modo da subordinare la sostanza delle pulsioni alle ingiunzioni di un reticolo etico-simbolico esterno. In che modo, al­ lora, questo soggetto ‘ritorna a se stesso’? Attraverso il pieno compi­ mento della perdita di sostanza, cioè spostando il ‘centro di gravità’ del suo essere da S a $, dalla sostanza delle pulsioni al vuoto della negatività: il soggetto ‘ritorna a se stesso’ nel momento in cui non riconosce più il nucleo del proprio essere nella sostanza delle pul­ sioni ma si identifica con il vuoto di un’auto-riferimento negativo. 59 Per una formulazione insuperata di questo fondamentale passaggio del pro­ cesso dialettico hegeliano, si veda Gérard Lebrun, La patience du concepì, Galli­ mard, Parigi 1973.

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Da questo punto di vista, le pulsioni appaiono come qualcosa di esterno e contingente rispetto al soggetto, come qualcosa che non è ‘veramente se stesso’.40 Siamo ora nella condizione di chiarire il malinteso che struttura la comune (mis)percezione della critica di Hegel a Kant. Questo si­ gnifica che, nell’approcciarsi al ripudio hegeliano della tesi di Kant a proposito della natura inconoscibile del soggetto trascendentale, occorre essere molto prudenti per evitare la consueta trappola, che consiste nella seguente riflessione: secondo Kant, il soggetto è in­ conoscibile, inaccessibile a se stesso nella sua dimensione noumenica, in quanto Cosa, dal momento che l’autocoscienza è confina­ ta all’opposizione categoriale tra soggetto e oggetto (per esempio, nell’atto dell’autocoscienza, il soggetto diventa il proprio oggetto: l’autocoscienza è la coscienza di se stessi in qualità di oggetto). Di conseguenza il soggetto (che è precisamente un non-oggetto) non può essere compreso adeguatamente per mezzo delle categorie che definiscono e costituiscono la realtà oggettiva fenomenica; per que­ sta ragione, Kant è costretto a concepirlo come una x inconoscibile. Tuttavia, le categorie della realtà oggettiva (la tavola kantiana delle dodici categorie) sono categorie della Comprensione, si adattano unicamente all’analisi di entità positive isolate (‘astratte’). In chiara opposizione, Hegel sviluppa una logica dialettica della Ragione che ci consente di comprendere la specifica dimensione della soggettività senza ridurre il soggetto a un ulteriore oggetto positivo ed empiri40 Secondo la critica standard della cosiddetta ‘nozione rappresentazionali sta della politica*, bisognerebbe rinunciare alia nozione di soggetto politico dal mo­ mento che tale nozione si riferisce al soggetto in quanto entità che prc-esiste all'atto (politico) e/o l'evento e si ‘esprime’ in esso. Tuttavia, dovrebbe ormai essere chiaro dove questa critica sbaglia: la soggettività politica si costituisce in acni, attraverso il suo atto; di conseguenza, è azzardato parlare di ‘suo’ atto dal momento che il soggetto è performativamente posto dal ‘suo’ atto - dietro un vero atto politico non c’è alcun ‘soggetto’ pre-csistente i cui ‘interessi’ vi sarebbero ‘rappresentati’ (come sostiene invece il marxismo volgare attraverso la nozione di lotta politica, nella quale le differenti posizioni ‘rappresentano’ o ‘traducono’ interessi di classe pre-esistenti). In breve, il problema con la critica della ‘nozione rappresentazionalista della politica’ è che questa concepisce il soggetto (politico) come un’entità sostanziale e non come l’idealismo tedesco: nell’idealismo tedesco, la ‘sostanza* designa il sostrato che prece­ de l’atto/evento ed ‘esprime’ in esso se stesso, il suo ‘contenuto’, mentre il ‘soggetto’ coincide con il ‘proprio’ atto. La formulazione migliore di questo status puramente performativo del soggetto è fornita dalla nozione fìchtiana di Tathandlung, la quale indica il soggetto come risultato performativo del suo stesso auto-porsi.

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co (per questa ragione, la seconda parte della Logica di Hegel, ‘la dottrina dell’essenza’ che rimane all’interno del campo della ‘logica oggettiva, è seguita da una terza parte, la ‘dottrina del concetto’, che appartiene a un dominio superiore di ‘logica soggettiva, che condu­ ce oltre Kant)... Questa argomentazione, per quanto evidente possa sembrare, non coglie l’essenza profonda della critica di Hegel a Kant: Hegel non produce un supplemento della logica kantiana della Compren­ sione astratta, che si blocca sulla soglia dell’inconoscibile, nella for­ ma di urialtra logica, la logica della Ragione capace di penetrare le Cose-in-se-stesse. Ciò che Hegel davvero raggiunge è semplicemen­ te una sorta di inversione riflessiva attraverso la quale la questione (mis)percepita da Kant come ostacolo epistemologico diviene una determinazione ontologica positiva. L’‘inconoscibilita del soggetto in quanto Cosa è semplicemente il modo in cui la Comprensione (mis)percepisce il fatto che il soggetto ‘è’ un vuoto non-sostanziale. Quando Kant afferma che il soggetto trascendentale è inconoscibile, una x vuota, tutto ciò che resta da fare è assegnare uno status onto­ logico a questa determinazione epistemologica: il soggetto è il NonEssere vuoto deH’auto-riferimento puro... La nozione del moderno soggetto cartesiano in quanto negatività radicale del doppio sacrificio (auto-referenziale) ci permette inoltre di demarcare il luogo paradossale delle teorie di Georges Bataille, cioè del fascino di Bataille per il sacrificio ‘reale’, materiale, nelle dif­ ferenti forme dell’olocausto e della sfrenata distruzione (economica, sociale, ecc.) della realtà.41 Da un lato, naturalmente, il tema di Ba­ taille è la soggettività moderna, la negatività radicale implicata nella posizione del soggetto trascendentale puro. Dall’altro lato, l’uni­ verso di Bataille rimane l’universo pre-newtoniano del movimento circolare bilanciato o - per dirla in altri termini - la sua nozione di soggettività è decisamente pre-Kantiana: il ‘soggetto’ di Bataille non è ancora il puro vuoto (il punto trascendentale della negativi­ tà auto-referenziale), ma rimane una forza intrarnondana, positiva. All’interno di queste coordinate, la negatività che caratterizza il sog­ getto moderno può esprimersi solo come distruzione violenta che fa deragliare l’intero circuito della natura. È come se, in una sorta di corto-circuito eccezionale, Bataille proiettasse all’indietro la nega-

41 Si veda Georges Bataille, La parte maledetta. Bollati Boringhicri, Torino 2003.

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tività del soggetto moderno, verso l'universo aristotelico pre-moderno e 'chiuso' del movimento circolare bilanciato, all'interno del quale questa negatività può materializzarsi soltanto come dissipazione 'irrazionale', eccessiva e anti-economica. In breve, ciò che Bataille non riesce a rico­ noscere è che il soggetto moderno (cartesiano) non ha più bisogno di sacrificare intestini di capra, i propri figli e così via, dal momento che la sua stessa esistenza già implica il più radicale (raddoppiato e auto-referenziale) dei sacrifici, il sacrificio del nucleo stesso del suo essere. Incidentalmente, questo fallimento di Bataille getta nuova luce sulla violenza sacrificale — l’ossessione per il crepuscolo finale dell’universo - che è all’opera nel nazismo: anche in questo si riscontra la reinscri­ zione della negatività radicale, caratteristica del soggetto moderno, nel ristretto universo ‘pagano’ in cui la stabilità dell’ordine sociale è garantita da un qualche tipo di gesto sacrificale reiterato. Ciò che si incontra nell’economia libidinale del nazismo è la soggettività mo­ derna percepita dalpunto di vista dell'universo 'pagano'pre-moderno

In che modo lo Spirito ritorna a se stesso?

T Tn luogo comune postmoderno contro Hegel è la critica alVJ l’economia ristretta: nel processo dialettico perdita e ne­ gatività sono circoscritte in anticipo, già tenute in conto - ciò che si perde è semplicemente l’aspetto inessenziale (e il fatto stesso che una caratteristica sia andata persa costituisce la prova ultima del suo status inessenziale), mentre si può esser certi che la dimensione essenziale non solo sopravvivrà, ma sarà addirittura rafforzata dal calvario della negatività. Il punto centrale (teleologico) del processo di perdita e recupero è di permettere all*Assoluto di purificarsi, di rendere manifesta la sua dimensione essenziale attraverso l’elimina­ zione dell’inessenziale, come un serpente che, di tanto in tanto, deve cambiar pelle per ringiovanire... Possiamo dunque vedere dove questo rimprovero, che imputa a Hegel l’economia ossessiva del ‘posso darti tutto tranne questo', commetta un errore e manchi il bersaglio: la basilare premessa di Hegel è che ogni tentativo di distinguere l’Essenziale dall’Inessenzia­ le si dimostra sempre falso - ogniqualvolta si fa ricorso alla strategia 42 Devo questa linea di ragionamento ad una conversazione con Mark de Kes-

scl.

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della rinuncia all’Inessenziale onde salvare l’Essenziale, prima o poi (ma sempre troppo tardi) si è obbligati a scoprire di aver commesso un errore fatale nel momento in cui si è deciso cosa fosse essenzia­ le, mentre la dimensione essenziale era già scivolata via tra le dita. L’aspetto cruciale di un’inversione dialettica propriamente detta è questo spostamento della stessa relazione tra l’Essenziale e l’Inessen­ ziale — quando, per esempio, si difende la smaccata adulazione nei confronti dei propri superiori sostenendo che essa implica semplicemente il raggiungimento di privilegi esteriori, mentre nel profondo del cuore si continua ad aderire alle proprie personali convinzioni e si odiano le altre, si vuole restare ciechi di fronte alla realtà della situazione: si è già rinunciato a ciò che veramente importa, poiché è la stessa convinzione intima personale, per quanto sincera, a confi­ gurarsi come veramente inessenziale... La negazione della negazione’ non è una specie di gioco di pre­ stigio esistenziale con cui il soggetto finge di giocarsi tutto ma in realtà sacrifica soltanto l’inessenziale; piuttosto, essa rappresenta la terribile esperienza che si verifica quando, dopo aver sacrificato tutto ciò che si considera inessenziale, ci si rende conto aH’improwiso che proprio la dimensione essenziale per la quale si è sacrificato l’ines­ senziale è già perduta. Il soggetto salva la sua pelle, sopravvive a una dura prova, ma il prezzo che ha dovuto pagare è la perdita della sua stessa sostanza, del più prezioso nucleo della sua individualità. Più precisamente: prima di questa ‘transustanziazione’ il soggetto non è affatto un soggetto dal momento che 'soggetto' è in ultima istanza il nome di questa stessa 'transustanziazione' della sostanza la quale, dopo la disseminazione, ‘ritorna a se stessa’, ma non come ‘l’uguale’. È fin troppo facile, perciò, essere confusi dalle ben note pro­ posizioni hegeliane secondo le quali lo Spirito sarebbe il potere di ‘indugiare nel negativo’, cioè di risuscitare dopo la propria morte: nella prova della negatività assoluta, lo Spirito nel suo particolare egotismo di fatto muore, cessa d’essere, di modo che lo Spirito che risorge non è lo Spirito che precedentemente è venuto meno. Lo stesso può dirsi della Resurrezione: Hegel sottolinea a più riprese che Cri­ sto muore realmente sulla Croce - egli ritorna come Spirito della comunità dei credenti, non di persona. Di nuovo, quindi, quando Hegel afferma, in quello che è forse il passo più famoso della Feno­ menologia, che lo Spirito è in grado di ‘indugiare nel negativo’, di mantenere il potere del negativo, ciò non significa che nella prova

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della negatività il soggetto deve soltanto attaccarsi con le unghie e con i denti e resistere. Certo, perderà qualche piuma, ma alla fine, magicamente, in qualche modo tutto andrà a posto. .. Il nucleo del discorso di Hegel è che il soggetto non sopravvive alla prova della negatività: esso veramente perde la propria essenza e passa nel proprio Altro. Si è qui tentati di evocare il tema fantascientifico dei cambio di identità, quando un soggetto sopravvive biologicamente ma non è più la stessa persona - questo è esattamente ciò di cui ci parla la transustanziazione hegeliana e, naturalmente, è proprio questa tran­ sustanziazione che distingue il Soggetto dalla Sostanza: il ‘soggetto’ designa quella x che è in grado di sopravvivere alla perdita della sua identità sostanziale, e quindi di continuare a vivere come ‘guscio vuoto del proprio sé precedente’. Una transustanziazione analoga è all’opera nella hegeliana ‘astu­ zia della ragione’: nella triade Fine, Mezzo e Oggetto, l’unità reale, l’operatore della mediazione, non è il Fine ma il Mezzo. Il mezzo in effetti domina l’intero processo attraverso la mediazione tra il Fine e l’Oggetto esterno nel quale il Fine deve realizzarsi/attualizzarsi. Il Fine è dunque ben lontano dal dominare il mezzo e l’Oggetto: il Fine e l’Oggetto esterno sono due oggettivazioni del mezzo in quan­ to medium mobile della negatività. In breve, il risultato cui Hegel perviene è che, da ultimo, il Fine è un ‘mezzo dei mezzi stessi’, un mezzo auto-posto dai mezzi per mettere in movimento l’attività di mediazione. Qualcosa di simile avviene coi mezzi di produzione in Marx: la produzione di beni materiali è, naturalmente, un mezzo il cui fine è quello di soddisfare i bisogni umani; a un livello più profondo, tuttavia, questa stessa soddisfazione dei bisogni umani è un mezzo auto-posto dai mezzi di produzione per mettere in moto il suo stesso sviluppo — il vero Fine dell’intero processo è lo sviluppo dei mezzi di produzione in quanto affermazione del dominio del­ l’uomo sulla natura o, per dirla con Hegel, in quanto ‘auto-ogget­ tivazione dello Spirito’. L’aspetto centrale dell’astuzia della ragione’ non è dunque il fatto che il Fine si realizzi attraverso una deviazione: il Fine che il soggetto ha inseguito lungo il processo è di fatto perdu­ to, dal momento che il Fine reale è precisamente ciò che gli attori in­ trappolati nel processo esperiscono come semplice Mezzo. Alla fine, il Fine è realizzato, ma non il Fine posto all’inizio, proprio come nel caso del soggetto che torna a se stesso, ma che non è più lo stesso ‘sé’ del soggetto che si è perso all’inizio...

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È questo il modo in cui si dovrebbe riformulare lo status differen­ te della riflessione nella logica oggettiva’ dell’essenza e nella logica soggettiva’ del concetto: la logica dell’essenza comprende ancora la nozione di Essenza oggettiva’, sostanziale come una sorta di sostrato che si riflette nel proprio Altro, cioè che pone l’Alterità come suo doppio inessenziale (il suo effetto, la sua forma, la sua apparenza...), ma è incapace di operare con esso una piena mediazione - si sforza di preservare ‘intatto’ il nucleo della propria auto-identità, al riparo dalla mediazione riflessiva, che è poi il motivo per cui si incaglia in una grande quantità di aporie. E solo al livello del concetto che la ‘sostanza’ ‘diviene effettivamente soggetto’ dal momento che in essa la riflessione è ‘assoluta’. Ciò significa che il processo di tran­ sustanziazione si indirizza verso quella stessa sostanza che diviene il predicato di ciò che è (era) il suo stesso predicato. La classica critica a Hegel - secondo la quale il Soggetto assoluto hegeliano non si esporrebbe realmente all’Alterità ma semplicemente inscenerebbe un gioco narcisistico di auto-alienazione e recupero di sé - non riesce a dar conto del fatto che nell’alienazione’ di Hegel la sostanza è persa per sempre. Su questo sfondo è inoltre possibile decifrare l’enigmatica am­ biguità del riferimento di Althusser a Hegel: sebbene Hegel sia la bestia nera di Althusser, il caso paradigmatico di una dialettica con un soggetto (l’idea assoluta che, per così dire, tira le fila dell’intero processo), egli è cionondimeno costretto a identificare quella stessa dialettica hegeliana come la fonte principale del concetto materiali­ sta di ‘processo senza soggetto’ [procès sans sujet\. Per sintetizzare una lunga storia, l’althusseriano ‘processo senza soggetto’ dovrebbe essere ridefinito come ‘processo senza sostanza’, come processo non deter­ minato da alcuna unità sostanziale soggiacente, dal momento che ciò che in esso ha luogo è proprio il dislocamento di questa unità da un ‘centro di gravita a un altro. Proprio in quanto tale, tuttavia, questo processo ha un ‘soggetto’ - il suo soggetto è il ‘mediatore evanescen­ te’ tra queste figure multiple di unità sostanziale che si sostituiscono a vicenda, il non-luogo, l’insieme vuoto, la ‘mancanza costitutiva’ che mette in moto questo processo di dislocamento permanente.43

45 Un modo per dar conto del paradosso della Aufhebung hegeliana è semplice­ mente quello di concepire le due più importanti critiche a essa apparse recentemen­ te in Francia, quella di Deleuze e quella di Derrida, come complementari. Deleuze oppone alla Aujhebung in quanto negazione limitata-ristretta, negazione che non

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annichilisce completamente il suo oggetto ma lo mantiene ed eleva il suo conte­ nuto essenziale a un livello supcriore, ‘mediato’, la radicale negazione-distruzione nietzschiana la quale ‘sgombra il campo’ interamente e quindi produce lo spazio per la creazione del Nuovo. Derrida, al contrario, sottolinea che la Aufhebung non ha mai luogo senza un resto che resiste al superamento-mediazione. Se per Deleuze, quindi, Hegel ‘non è abbastanza radicale’ e non spinge alle estreme conseguenze il movimento di negazione, restando anzi intrappolato in un reticolo di differimenti c mediazioni, per Derrida Hegel è ‘troppo radicale’, cioè sottovaluta fino a che punto i detours dei differimenti c delle mediazioni incidono e dislocano l’auto-idcntità del movimento di negazione-mediazione, producendo in tal modo la sua irresistibile ‘disseminazione’. La soluzione risiede nella sintesi dialettica’ di questi due opposti - non, ovvia­ mente, nel senso che Hegel offrirebbe una ‘misura adatta’ della negazione attraverso l’aggiramento dei due estremi, cioè l’eccesso di totale annichilimento in Deleuze c il suo eterno differimento in Derrida. L'ipotizzabile risposta di Hegel consisterebbe, piuttosto, nel focalizzarsi sul livello sul quale queste due opposte critiche alla/l/^vbttngcoincidono: l’ultima risorsa della Aufhebung è proprio questa coincidenza dei due modi del suo fallimento. L’*infinito giudizio’ di Hegel Die Geist ist eia Knochen [lo spirito è un osso), per esempio, designa la coincidenza tra la pura, assoluta, in­ controllata negatività con un resto inerte, non-dialettizzabilc. Oppure si consideri il Monarca nella Filosofia del diritto. Monarca che rappresenta la negatività assoluta esentata dalla mediazione sociale (egli non deve ‘formarsi’ attraverso il lavoro del negativo, attraverso il suo movimento di differimento; egli incarna la minaccia della guerra che può mettere in crisi l’intero edificio sociale in qualsiasi momento...) pro­ prio nella misura in cui egli è il resto delfimmediatezza’ biologica, l’ultimo pezzo di una natura grezza, non-mediata, non-superata (si è Re per diritto di nascita, non per merito...). Incidentalmente, nella sua formulazione altrimenti esemplare della critica se­ condo la quale Hegel rimarrebbe confinato nell’economia ristretta’ del sacrificare-negare solo l’incsscnziale (si veda Michael Hardt, Gilles Deleuze, Minnesota University Press, Minneapolis 1994), lo stesso Hardt rimane impantanato in una ‘essenziale’ c inaggirabile inconsistenza. In primo luogo, egli cita i disastri atomici come esempi di una radicale distruzione-negazione nella quale nulla del contenuto negato viene ‘superato’, cioè salvato ed elevato; successivamente, all’improvviso, egli sostiene die non ci sia alcun bisogno dell’effettivo accadere del reale annichilimen­ to fisico - un rigetto radicale del passato e della tradizione sarebbe sufficiente. (Si consideri l’esempio, proposto dallo stesso Hardt, del movimento operaio: contro la rivendicazione riformista ‘hegeliana’ secondo la quale il lavoro, e non il capitale, do­ vrebbe dettare le regole - contro una tale negazione intrinseca, un tale ‘superamen­ to’, del capitalismo -, si dovrebbe rigettare la nozione stessa di lavoro in quanto già impregnata della logica del capitale... Da un punto di vista hegeliano si è tentati di trarre da questo rifiuto radicale del concetto di lavoro, non soltanto di quello ‘alie­ nato’, un buon esempio di negazione della negazione’, cioè di quella negazione che nega il presupposto stesso che è condiviso sia da ‘ciò che è posto’ — in questo caso, il dominio del Capitale - che dalla sua negazione ‘immediata’, la rivendicazione di co­ mando del lavoro). Nel momento in cui si introduce questo passaggio nella nozione

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Non c’è soggetto senza significante vuoto Q i potrebbe giungere alla stessa conclusione prendendo in conO siderazione la dialettica dell’in-sé e per-sé. Nelle attuali lot­ te ecologiche la posizione del ‘muto in-sé’ dell’Universale astratto è esemplificata perfettamente da un osservatore esterno che venisse a contatto con l’ecologia’ come universalità neutra di un genere che in seguito si suddivide in una moltitudine di specie (ecologia fem­ minista, ecologia socialista, ecologia New Age, ecologia conserva­ trice, ecc.). Tuttavia, per un soggetto che è ‘all’interno’, impegnato in battaglie ecologiche, non esiste una siffatta universalità neutra. Agli occhi di una femminista ecologista, ad esempio, l’incombente minaccia di una catastrofe ecologica dipende dall’attitudine maschile alla dominazione e allo sfruttamento, in modo tale ch’ella non si ponga come femminista e ecologista — il femminismo le fornisce il contenuto specifico dell’identità ecologista, il che significa che dal suo punto di vista un’ecologista non-femminista’ non è un altro tipo

di ‘negazione radicale’, ci si lascia alle spalle la negazione pura, selvaggia, e si entra nel campo di ciò che Lacan definisce ‘cra-le-due-moni’: la morte reale (distruzione fisica, catastrofe atomica) c la ‘seconda morte’ simbolica. Questa differenza, tuttavia, ci introduce immediatamente nei paradossi dialettici hegeliani dal momento che implica la differenza tra un potere pienamente realizzato (che conduce all’effettiva distruzione dell’altro) e un potere che non si realizza pienamente e rimane sospeso, una minaccia potenziale (una tale nozione di potere, che produce effetti reali nella sua stessa potenzialità, è indistinguibile dalla ‘seconda mone’ simbolica). In breve, Hardt è costretto a riformulare silenziosamente la ‘distruzione radicale’ in modo che questa nozione si leghi a quella di potere sospeso, di potere ostruito nel proprio atto - qualcosa che, da una prospettiva strettamente nietzschiana, non può che apparire come segno di nichilistico auto-impedimento della forza vitale... Tornando alla relazione tra Derrida e Deleuze, è interessante notare come la differenza di ‘contenuto’ tra queste due critiche di Hegel si sovrapponga alla dif­ ferenza dei loro rispettivi stili di scrittura. Derrida è un filosofo ipcr-riflessivo che sembra non avanzare mai proposte positive c dirette ma si concentra piuttosto sulla ricerca di inconsistenze nei testi di altri filosofi - anzi, di inconsistenze in ciò che il filosofo B sostiene a proposito del filosofo A. Di conseguenza, il suo stile è denso di citazioni, di percorsi riflessivi che riaffermano e riconfigurano ciò che è stato appena detto. Deleuze, tuttavia, sembra effettuare una sorta di ritorno alla grande innocen­ za ‘pre-critica’ dello sviluppo diretto di impegnative formulazioni ontologiche sul­ la natura dell’Assoluto, ecc. Anche quando interpreta un altro filosofo (Nietzsche, Spinoza, ecc.), pratica una versione del discours indirect libre tale per cui la messa in forma della riflessione del filosofo interpretato diviene indistinguibile dal suo stesso sviluppo di pensiero.

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di ecologista, ma semplicemente qualcuno che non è un vero ecologi­ sta. Il problema — propriamente hegeliano — del ‘per-sé’ di un Uni­ versale è perciò il seguente: come, a quali concrete condizioni, la di­ mensione universale può diventare ‘per sé’, come può essere posta ‘in quanto tale’, in esplicito contrasto rispetto alle proprie qualificazioni particolari, di modo che si possa esperire la specifica qualificazione femminista (o socialista, o conservatrice, ecc.) della mia attitudine ecologica come qualcosa di contingente rispetto alla nozione univer­ sale di ecologia? E, per tornare al rapporto tra Derrida e Lacan, qui troviamo il di­ vario che li separa: per Derrida, il soggetto rimane sempre sostanza, mentre per Lacan (così come per Hegel), il soggetto è precisamente ciò che non è sostanza. Il seguente passaggio da Della grarnniatologia è esemplificativo: (la categoria del soggetto] in qualsiasi modo modificata, sia essa affetta in modo cosciente o inconscio, sarà legata, per tutto il filo della sua storia, alla sostanzialità di una presenza impassibile sotto gli accidenti, o all’ identità del proprio [lepropre] nella presenza del rapporto a sé.44

Per Derrida, quindi, la nozione di soggetto implica un minimo di auto-identità sostanziale, un nucleo di auto-presenza che rimane 10 stesso al di sotto del flusso dei mutamenti accidentali. Per Hegel, al contrario, il termine soggetto’ designa proprio il fatto che la so­ stanza, nel nucleo della sua identità, è perturbata dalle contingenze. 11 ‘divenire-soggetto della sostanza’ richiama il gesto di hubris per mezzo del quale un mero accidente o un predicato della sostanza, un momento subordinato della sua totalità, si installa in qualità di nuovo principio totalizzante e subordina a sé la precedente Sostanza, mutandola in un suo momento particolare. Nel passaggio dal feuda­ lismo al capitalismo, per esempio, il denaro — nel medioevo un mo­ mento della totalità delle relazioni economiche chiaramente subor­ dinato — si afferma come principio di totalità (dal momento che il fine della produzione capitalistica è il profitto). Il ‘divenire-soggetto’ della Sostanza implica un tale, continuo, dislocamento del Centro: a più riprese, il vecchio Centro si tramuta in un momento subordi44 Jacques Derrida, Delhi Gramtnatologia, Gianfranco Dalmasso (cur.), Jaca Book, Milano 19982, p. 101.

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nato della nuova totalità dominata da un principio di strutturazione differente - lungi dall’essere un potere soggiacente ‘più profondo’ che ‘tira le fila di questo dislocamento del Centro (cioè il principio di strutturazione della totalità), il ‘soggetto’ designa il vuoto che fa da medium e/o operatore a questo processo di dislocamento. Siamo ora in grado di specificare la differenza tra le tre parti della Logica di Hegel: ‘Essere’, ‘Essenza’ e ‘Concetto’. Nella sfera dell’Essere si ha a che fare con determinazioni immediate e fisse incapaci di mantenere un qualsiasi tipo di dinamica interna - ogni contatto con la propria Alterità ne segna la decomposizione: ognuna delle deter­ minazioni dell’Essere semplicemente passa in un’altra determinazio­ ne. Nella sfera dell’Essenza la dinamica è già localizzata all’interno di ogni determinazione: l’Essenza auto-identica si esprime/riflette nella pluralità delle sue apparenze. Perciò ogni determinazione essenziale già contiene la propria Alterità (non c’è Essenza che non appaia, né Causa senza effetti, ecc.). Il problema, tuttavia, è che questa Alterità si riduce all’attributo ‘inessenziale’ di Un’Essenza fissa e auto-identica, lasciata intatta dal mutamento — il processo di mutamento riguarda soltanto le apparenze ‘inessenziali’. Proprio per questa ragione, ogni determinazione essenziale si volge nel suo opposto: il Fondamento si rivela come qualcosa che dipende da ciò che fonda; l’Onestà so­ stanziale si rivela più vile dello sfrenato opportunismo superficiale che tanto disprezza; l’intero contenuto dell’Essenza deriva dalla sua apparenza ‘inessenziale’, e così via — qui, in questi improvvisi rivolgi­ menti, risiede il carattere ‘vertiginoso’ della logica dell’Essenza. In altre parole, la dialettica consuma la propria rivincita nei con­ fronti dell’affermata identità tra Essenza e Fondamento sostanziale indipendente rispetto al processo di mediazione: proprio quell’Alterità che l’Essenza tenta di mediare-interiorizzare come sua ‘ines­ senziale’ apparenza, si ‘reifica’ in una sorta di contro-immagine del­ l’immediata auto-identità dell’Essenza, si muta in un’impenetrabile Sostanza inaccessibile alla mediazione riflessiva. (Per esempio, agli occhi dello Stato ‘totalitario’ che cerca di imporsi come Centro as­ soluto della vita sociale, la società stessa prima o poi apparirà come quell’Altro sostanziale e impenetrabile che elude la sua presa...). Si passa dunque nella sfera del Concetto nel momento in cui ci si sba­ razza di questo residuale Fondamento auto-identico del processo, in modo tale che il processo diventi effettivamente un ‘processo senza sostanza’, il processo di dislocamento continuo di ogni principio to-

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talizzante, di ogni centro di gravità’ — qui dove risiede la ben nota ‘fluidità del Concetto. Qui la trappola da evitare, allora, è quella di concepire il Con­ cetto come un riflesso dell’Essenza vittoriosa: come se il movimento della riflessione, che nella ‘logica dell’Essenza’ non riesce a interioriz­ zare il suo altro e rimane dunque intrappolato nella dualità esterna delle coppie di opposti (Essenza - Apparenza, ecc.), avesse invece suc­ cesso nella ‘logica del Concetto’, riuscendo infine a superare-mediare la propria Alterità trasformandola in un medium trasparente della propria auto-identità. Ciò di cui una tale interpretazione di Hegel non riesce a dar conto è il prezzo che bisogna pagare per questa ‘trasparenza: il processo diviene ‘trasparente’ al prezzo della ‘tran­ sustanziazione’ - non c’è più un unico Centro, un agente centrale che si può dire rimanga lo ‘stesso’ nel processo di ‘estrinsecarsi’ e poi riappropriarsi della sua Alterità, dal momento che nel movimento di ‘ritorno-a-sé’ l’identità stessa di questo ‘sé’ viene irrimediabilmente dislocata.45 Si deve dunque rinunciare alla usuali formule hegeliane deirUniversale concreto’ come Universale che è l’unità di se stesso e del suo Altro (il Particolare) - cioè non astrattamente opposto alla ricchezza del contenuto particolare, ma movimento stesso di auto-mediazione e auto-superamento del Particolare: il problema con questa immagi-

45 Rodolphe Gasché cade con ogni evidenza in questa trappola: secondo la sua lettura di Hegel, nell’assoluta identità dello Spirito «tutte le condizioni esterne che possono essere sembrate necessarie per concepirlo mostrano di essere non solo istanze nelle quali l’Assoluto è presente, dal momento che esse si superano da se stesse, ma anche l’Altro in cui l’Assoluto si relaziona a se stesso. L’Assoluto, relazionandosi all’Altro, si relaziona per ciò stesso anche a sé» (Rodolphe Gasché, Inventions of Differente, Harvard University Press, Cambridge 1994, p. 205). Ciò che incontriamojqui è la classica storia dello Spirito Assoluto in quanto piena trasparenza e presenza di auto-mediazione, la quale interiorizzerebbe ogni relazione con l’Altcrità attraverso un’auto-relazione... Ciò che si perde in questa storia, come abbiamo ap­ pena visto, è il prezzo da pagare per l’auto-trasparcnza: la perdita di auto-identità del ‘Sé’ - il Sé che ‘ritorna a sé’ non è sostanzialmente io stesso di quello preceden­ temente perduto... Ciò che rimane identico in questo processo di perdita e ritorno è il vuoto stesso come suo ‘operatore’, cioè come soggetto privo di ogni contenuto sostanziale ($). Il soggetto lacaniano, ovviamente, non è un mero ‘puro vuoto’, esso è piuttosto sostenuto da un minimo di materialità inerte che gli serve da supporto (questa paradossale congiunzione è designata in Lacan dal materna del fantasma: S 0 a). Questo supporto, tuttavia, è un oggetto che fa da contrappunto al soggetto c, in quanto tale, dà corpo ad una mancanza - il che significa che esso si configura come l’oggetto originariamente mancante’.

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ne organica’ classica dell"Universale concreto’ come Totalità sostan­ ziale vivente che si riproduce attraverso il movimento stesso del suo contenuto particolare è che in essa l’Universale non è ancora ‘per sé’, cioè posto come tale. In questo preciso senso, l’emergere del soggetto è correlativo al porsi dell’universale ‘in quanto tale’, nella sua oppo­ sizione al contenuto particolare. Torniamo all’esempio dell’ecologia: ogni tentativo di definire un nucleo sostanziale dell’ecologia, il contenuto minimo su cui ogni ecologista è d’accordo, è destinato a fallire dal momento che questo stesso nucleo si modifica nella lotta per l’egemonia ideologica. Per un socialista la causa ultima della crisi ecologica è da rintracciarsi nel modo di produzione capitalistico orientato al profitto, motivo per cui l’anti-capitalismo è per lui l’elemento centrale di una sincera atti­ tudine ecologica. Per un conservatore la crisi ecologica è radicata nel falso orgoglio dell’uomo, nella sua volontà di dominare l’universo, di modo che un umile rispetto per la tradizione venga a definire l’aspet­ to fondamentale di una sincera attitudine ecologica. Per una fem­ minista, la crisi ecologica deriva dalla dominazione maschile. E così via. La posta in gioco nella lotta ideologico-politica è, ovviamente, il contenuto positivo che finirà per riempire il significante ‘vuoto’ ‘eco­ logia’: che cosa significherà essere un ‘ecologista (o un ‘democratico’, o appartenere a una ‘nazione’...)? Il nostro punto è che {.emergeredel 'soggetto' è strettamente correlativo alporsi di questo significante centrale come 'vuoto'-, si diventa ‘soggetto’ quando il significante universale cui ci si riferisce (‘ecologia’, in questo caso) non è più legato da alcun cordone ombelicale a qualche contenuto particolare, ma è esperito come spazio vuoto che necessita di essere riempito da un contenuto particolare (femminista, conservatore, statale, pro-mercato, socia­ lista...). Questo significante ‘vuoto’ il cui contenuto positivo è la ‘posta in gioco’ della lotta ideologico-politica ‘rappresenta il soggetto per gli altri significanti’, per i significanti che rappresentano il suo contenuto positivo. Derrida ha spesso attirato l’attenzione sul ‘Sì!’ della risposta ri­ chiesto anche dalla più auto-inclusiva totalità dialettica del Sistema compiuto: anche una tale totalità, per affermarsi, deve indirizzarsi a un Altro chiedendogli di pronunciare un ‘Sì!’; essa rimane ciò che è solo grazie a questo ‘Sì!’ raddoppiato, all’essere ‘re-inscritta’ da esso — solo grazie a questo atto di re-inscrizione un Sistema si costitui­ sce performativamente e acquisisce la realtà di un evento. Ad ogni

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modo, cosa accadrebbe se, nel momento in cui sembra aprire una crepa nell’edificio della Conoscenza Assoluta, Derrida fosse più vici­ no ad Hegel di quanto non appaia? In altri termini, cosa accadrebbe se questa necessità performativa del minimo indirizzarsi all’Altro for­ nisse una risposta propriamente hegeliana a una delle critiche clas­ siche a Hegel: perché il processo dialettico ‘va avanti’ in ogni caso? Quale necessità spinge una ‘figura a dissolversi e a passare in una figura ‘superiore’? La risposta risiede nel fatto che una ‘figura non è mai direttamente ‘se stessa: diviene se stessa attraverso un riferimento minimo a un Altro, attraverso un re-inscriversi che vi introduce un minimo di inconsistenza, ed essa è questa irriducibile esteriorità del re-inscriversi posta proprio nell’auto-identità di una figura che le im­ pedisce di rassegnarsi a una compiaciuta paralisi...

L’identificazione forzata uesto passaggio dall’‘involucro dell’errore’ di Hegel e Schelyy ling alla loro comune Grundoperation ci permette anche di resistere a un’ulteriore tentazione, forse non meno pericolosa della lettura ‘filosofica’ di Lacan che si concentra sulle nozioni di castra­ zione simbolica e mancanza: l’inversa, quasi complementare, ten­ tazione di identificare la pura positività della pulsione con il celato centro di gravità verso il quale Lacan stava lentamente convergendo. Come per l’altra tentazione, anche in questo caso la possibilità di questa (mala)interpretazione è contenuta nei testi stessi di Lacan: l’inconfondibile nostalgia lacaniana per Spinoza esplicitata nelle ul­ time pagine del suo Seminario XI acquisisce primaria importanza nel momento in cui, seguendo le pioneristiche interpretazioni di Deleu­ ze, Spinoza viene posto al fianco di Nietzsche come il filosofo che ha asserito una differenza pura, positiva, sgravata dalle vestigia della negatività, della mancanza e della mediazione. Parafrasando il celebre modo d’operare di Sherlock Holmes, si dovrebbe richiamare l’attenzione sul curioso incidente di cui, nei testi e nei seminari di Lacan, Nietzsche è protagonista: per ragioni eminentemente pratiche, Nietzsche non è mai menzionato — e qui risiede il curioso incidente. Cioè, non è la pulsione pura, il suo mo­ vimento circolare ripetitivo come ciò che rimane del desiderio dopo

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la traversée dii fantasme,46 un altro nome per il nietzschiano eterno ritorno dell’uguale’, per un movimento affermativo che vuole far ac­ cadere per sempre, ancora e ancora, ciò che è accaduto una volta? Si è quindi tentati di interpretare il fatto profondamente sintomatico che Nietzsche sia il grande Assente’ di Lacan - a parte un paio di riferimenti affrettati47 si cerca invano il nome di Nietzsche nei testi e nei seminari di Lacan - come la prova negativa che l’eterno ri­ torno dell’uguale’ già fornisca la formulazione filosofica definitiva dell’enigmatica posizione soggettiva della pulsione al di là del quadro di riferimento del fantasma, posizione a cui Lacan, esitando, si sta­ va avvicinando verso la fine del suo insegnamento. In questo modo si arriva a una incondizionata ‘leggerezza dell’essere’: il movimento circolare della ripetizione perde l’inerzia del suo peso; non più an­ corato al nucleo traumatico che tenta (fallendo ripetutamente) di recuperare, esso si trasforma in una danza liberamente fluttuante di jouissance che intende godere di sé per l’eternità...48 La nostra pre46 «...dopo il reperimento del soggetto rispetto all’/?, l’esperienza del fantasma fondamentale diventa la pulsione. Che cosa diventa, allora, colui che è passato at­ traverso l’esperienza di questo rapporto, opaco all’origine, con la pulsione? In che modo un soggetto, che ha attraversato il fantasma radicale, può vivere la pulsione? Questo è lai di là dell’analisi e non è mai stato affrontato» (Jacques Lacan, Il se­ minario. Libro XI. I quattro concettifondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p. 269). 47 Con ciò non s’intende negare che le allusioni svolgano un ruolo assai per­ tinente. Ne II transfert, ad esempio, Lacan pone l’attenzione sulla superfluità con­ cettuale del sintagma nietzschiano ‘al di là del Bene e del Male’ («non già come si dice in una specie di ritornello, al di là del bene e del male - formula buona solo a rendere oscura la questione-, ma per l’esattezza al di là del bene» (Jacques Lacan, Il seminario. Libro Vili: il transfert, cit., p. 302): nel momento in cui si attraversa l’orizzonte del Bene, ci si lascia anche il Male alle spalle. 48 A questo livello della pura positività della pulsione, il ‘non cedere sul pro­ prio desiderio [ne pas cèdere sur son désir]' non è più operativo dal momento che, nella prospettiva della pulsione, il desiderio in quanto tale è già un cedimento, una formazione difensiva contro la jouissancr. «Perche il desiderio è una difesa, difesa dall’oltrepassare un limite nel godimento» (Jacques Lacan, Scritti, cit., Voi. II, p. 828). L’etica del desiderio e l’etica della pulsione sono perciò quasi simmetricamen­ te opposte. Il desiderio è sempre desiderio di desiderare, il suo scopo principale è di mantenersi in quanto desiderio, cioè di mantenere aperto il vuoto della propria insoddisfazione - a proposito di un oggetto, l’esperienza del desiderio è sempre ‘questo non è quello'-, da questo punto di vista, naturalmente, la pulsione non può che apparire come l’imbecille auto-chiusura che offusca il vuoto del desiderio. La pulsione, al contrario, è un movimento circolare che trova soddisfazione nella ripe­ tizione del proprio fallimento; da questo punto di vista, il desiderio appare come

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messa, tuttavia, è l’esatto opposto di questa ‘nietzschianizzazione’ di Lacan: ciò che in quella si perde è precisamente la Grundoperation dell’idealismo tedesco, la logica del ‘mediatore evanescente’ che ab­ biamo tentato di articolare... La posta in gioco è probabilmente la più radicale di tutte le que­ stioni filosofiche: l’alternativa tra pulsione e desiderio, tra mancanza e positività — l’alternativa tra, da un lato, rimanere costretti all’interno dell’ontologia negativa della mancanza, della costitutiva uscita ‘fuor di sesto’ dell’uomo e, dall’altro, sostenere la positività pura della pul­ sione in quanto eterno ritorno della volontà che vuole il soggetto in eterno — è veramente l’alternativa definitiva, inevitabile delle nostre vite?49 La nostra premessa, naturalmente, è che la Grundoperation del­ l’idealismo tedesco indichi un tertium datar. E che, inoltre, sia solo questa terza posizione a permetterci di affrontare il problema fon­ damentale del ‘giorno dopo’: cosa accade - non quando la cura psi­ coanalitica si conclude, ma dopo, quando non c’è più cura? In altri termini: è facile sospendere il grande Altro per mezzo dell’atto in quanto reale, esperire l’‘inesistenza del grande Altro’ in un lampo momentaneo - e tuttavia, cosa si fa dopo aver attraversato il fanta­ sma? Non è forse necessario ricorrere di nuovo a una qualche forma di grande Altro? Come si può evitare la conclusione dolorosa che l’esperienza deil’inesistenza del grande Altro, dell’atto in quanto rea­ le, sia solo un fugace ‘mediatore evanescente’ tra due Ordini, un entusiastico momento intermedio seguito necessariamente da un lucido ritorno nel regno del grande Altro? Ciò che a tutto questo l’infinita procrastinazione dell’incontro con la Cosa Reale, come la fuga dalla soddi­ sfazione della jouissance, dal fatto che sì possieda semprc-già ciò di cui si è alla ricerca. Jcan-Claude Milner è perciò pienamente giustificato quando afferma che il 'ne pas céder sur son désir non è un elemento fondamentale deH’insegnamcnto lacaniano, cioè non si pone come proposizione che ritorna a più riprese con significati ogni volta diversi (come invece è il caso per ‘il desiderio è desiderio dell’altro’, ‘l’inconscio è strutturato come un linguaggio’, la triade Immaginario - Simbolico - Reale, ecc.), bensì come proposizione limitata a una certa fase dell’insegnamento lacaniano che successivamente scompare senza lasciare traccia. (Si veda Jean-Claude Milner, Louvre claire, Seuil, Parigi 1994). 49 E questa alternativa - eterno ritorno delle pulsioni versta infinita metoni­ mia della mancanza - non ci conduce forse di nuovo a Schelling? L’eterno ritorno delle pulsioni non è forse un altro nome per il movimento rotatorio di Schelling? E la metonimia della mancanza non è forse un altro nome per il progresso infinito dischiuso dall'cmcrgerc della Parola?

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corrisponde nel campo della politica è la rassegnata nozione conser­ vatrice della rivoluzione come momento transitorio di liberazione, di sospensione dell’autorità sociale, che immancabilmente origina il contraccolpo di un potere ancor più oppressivo. Dunque, vale davvero la pena combattere la battaglia per la li­ bertà? Quali sono le modalità del grande Altro che emerge dopo l’esperienza della sua inesistenza? C’è una considerevole differenza tra il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’ grande Altro? La soluzione ovvia, natu­ ralmente, è il cinismo come atteggiamento post-rivoluzionario par cxcellcncr. pienamente consapevole della nullità del grande Altro, si finge un’alleanza con esso e si gioca seguendone le regole tenendo, per così dire, ‘le dita incrociate’ - in questo modo, tuttavia, ci si tuffa semplicemente nel problema, dal momento che la distanza cinica, per definizione, copre la vera dimensione di un coinvolgimento rea­ le.50 Si è dunque condannati alla rassegnata conclusione che il gesto fondativo debba necessariamente essere eclissato da quello stato di cose cui ha dato vita? L’uscita da questo vicolo cieco è tuttavia già indicata negli scritti giovanili di Lacan sul tempo logico;51 qui si trova una versione in qualche modo abbreviata e semplificata del puzzle logico dei tre pri­ gionieri a proposito del quale Lacan sviluppa tre modalità del tempo logico. Il direttore di una prigione può, in seguito a un’amnistia, rila­ sciare un prigioniero tra tre. Per decidere quale, gli sottopone un test di logica. I prigionieri sanno che ci sono cinque cappelli, tre bianchi e due neri. Tre di questi cappelli sono distribuiti ai prigionieri che si siedono a triangolo, di modo che ognuno di essi possa vedere il colore dei cappelli degli altri due ma non il colore del cappello che si trova sulla sua testa. Il vincitore è colui che indovina per primo il colore del proprio cappello, di cui darà notizia alzandosi e lasciando la stanza. Abbiamo dunque tre possibili situazioni: • Se un prigioniero ha un cappello bianco e gli altri due hanno cappelli neri, quello con il cappello bianco può imme50 Un’ulteriore soluzione proposta da alcuni lacaniani contempla il tentativo di articolare due diversi modi del grande Altro: gli analisti formano un collettivo di conoscenza mantenuta da un riferimento condiviso alla propria Causa, cioè l’ogget­ to a, in contrapposizione all’usuale comunità della credenza (conoscenza supposta) mantenuta da un riferimento condiviso a qualche significante padrone (S(). 51 Si vedano Jacques Lacan, “il tempo logico e l’asserzione di certezza antici­ pata. Un nuovo sofisma” in Scritti, eie., Voi. I, pp. 191-207 e il Capitolo 2 di Slavoj Zizek, Tarrying with thè Negative, Duke University Press, Durham, NC 1993.

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diatamente ‘vedere’ che il suo è bianco attraverso un semplice processo di deduzione: ‘Ci sono solo due cappelli neri; posso vederli sulla testa degli altri, quindi il mio deve essere bianco’. In questo caso non c’è coinvolgimento del tempo, solo un ‘istante dello sguardo’. • La seconda possibilità è che ci siano due cappelli bian­ chi e uno nero. Se il mio fosse bianco, ragionerei così: ‘Posso vedere un cappello bianco e uno nero, quindi il mio è o bian­ co o nero. Tuttavia, se il mio fosse nero, il prigioniero con il cappello bianco vedrebbe due cappelli neri e concluderebbe immediatamente che il suo è bianco — e poiché non l’ha fatto, anche il mio deve essere bianco’. Qui, un po’ di tempo deve passare — ciò significa che abbiamo bisogno di un certo ‘tem­ po per la comprensione’: mi trasporto, per così dire, nel ragio­ namento dell’altro e arrivo alla mia conclusione sulla base del fatto che l’altro non agisce.

• La terza possibilità - tre cappelli bianchi - è la più com­ plessa. Qui il ragionamento si dispiega come segue: ‘Posso vedere due cappelli bianchi, quindi il mio è o bianco o nero. Se fosse nero, uno degli altri due prigionieri ragionerebbe in questo modo: “Posso vedere un cappello bianco e uno nero, quindi se il mio fosse nero, il prigioniero con il cappello bian­ co vedrebbe due cappelli neri e subito si alzerebbe e lascerebbe la stanza. Tuttavia, non avendolo fatto, il mio deve essere bianco, quindi posso alzarmi e lasciare la stanza”. Ma siccome nessuno degli altri due prigionieri si è alzato e ha lasciato la stanza, anche il mio cappello deve essere bianco’. Qui, tuttavia, Lacan sottolinea come questa soluzione richieda un doppio ritardo e un gesto interrotto, impedito. Ciò significa che se tutti e tre i prigionieri fossero di pari intelligenza, allora dopo il primo ritardo, cioè dopo aver notato che nessuno degli altri si è an­ cora mosso, tutti e tre si alzerebbero contemporaneamente — quindi si bloccherebbero scambiandosi sguardi perplessi: il problema è che essi non saprebbero il significato del gesto dell’altro (ognuno si chie­ derebbe: ‘Gli altri si sono alzati per la mia stessa ragione, oppure si sono alzati perché hanno visto un cappello nero sulla mia testa?’).

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Solo a questo punto, dopo aver notato che tutti condividono la me­ desima esitazione, sarebbero in grado di giungere alla conclusione finale: proprio il fatto di condividere la stessa esitazione prova che sono tutti sulla stessa barca - hanno tutti un cappello bianco sulla resta. In questo preciso momento il ritardo si muta in fretta, con ogni prigioniero che si dice: ‘Devo correre alla porta prima che gli altri mi precedano!’. E fàcile rendersi conto come uno specifico modo della soggettivi­ tà corrisponda a ognuno dei tre momenti del tempo logico: Distante dello sguardo’ implica l’uno’ impersonale (‘uno vede’), il soggetto neutrale del ragionamento logico privo di qualsivoglia dialettica in­ tersoggettiva. Il ‘tempo della comprensione’ comprende fin da subito l’intersoggetrività — cioè, per giungere alla conclusione che il mio cappello è bianco devo ‘traspormi’ nel ragionamento dell’altro (se l’altro prigioniero col cappello bianco avesse visto un cappello nero sulla mia testa avrebbe immediatamente dedotto che il suo è nero e si sarebbe alzato - non avendolo fatto, anche il mio deve essere bian­ co). Tuttavia, questa intersoggettività rimane quella del ‘soggetto re­ ciproco indefinito’, come dice Lacan: una semplice capacità recipro­ ca di considerare il ragionamento dell’altro. È solo il terzo momento, il ‘momento della conclusione’, che fornisce la vera ‘genesi dell’io*: ciò che in esso accade è il passaggio da S a S,, dal vuoto del soggetto esemplificato dalla radicale incertezza riguardo a cosa si è - dall’asso­ luta indecidibilità del mio status — alla conclusione che sono bianco, all’assunzione dell’identità simbolica — ‘sono Io!’. Occorre qui tenere a mente il carattere anti-lévi-straussiano di queste ruminazioni di Lacan. Claude Lévi-Strauss concepiva l’ordi­ ne simbolico come una struttura asoggettiva, un campo oggettivo all’interno del quale ogni individuo occupa, riempie, il suo posto preordinato; ciò che Lacan invoca è la ‘genesi’ di questa identità so­ cio-simbolica oggettiva: se ci si limita ad attendere che uno spazio simbolico ci venga assegnato, non vivremo abbastanza per vederlo ciò significa che, nel caso di un mandato simbolico, non ci limitiamo mai ad accertarci di ciò che siamo, ma ‘diveniamo ciò che siamo’ per mezzo di un gesto soggettivo forzato. Questa identificazione forzata implica il passaggio dall’oggetto al significante: il cappello (bianco o nero) è l’oggetto che sono, e il fatto che mi sia invisibile esprime il fatto che io non possa mai accedere a ‘ciò che sono in quanto oggetto’ ($ e a sono topologicamente incompatibili) - quando dico

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‘sono bianco’ assumo un’identità simbolica che riempie il vuoto del­ l’incertezza rispetto al mio essere. Ciò che questo superamento anti­ ciparono rappresenta è il carattere inconclusivo della catena causale: l’ordine simbolico è governato dal ‘principio di ragion insufficiente’: all’interno dello spazio dell’intersoggettività simbolica non posso mai semplicemente accertarmi di ciò che sono; per questo motivo la mia identità sociale ‘oggettiva’ si stabilisce attraverso l’anticipazione ‘soggettiva’. Un dettaglio rilevante spesso passato sotto silenzio è che Lacan cita come caso politico esemplare di una tale identificazione collettiva l’affermazione d’ortodossia da parte del comunista stalini­ sta: mi affretto a promulgare le mie vere credenziali comuniste per paura che altri mi espellano come traditore revisionista... Quindi, tornando al nostro problema riguardo l’emergere del grande Altro, ciò che colpisce quando si leggono i testi di Lacan sul tempo logico ‘retrospettivamente’, applicandovi concetti elaborati più tardi, è come il grande Altro (['intersoggettività nella sua propria dimensione) emerga solo nel terzo tempo (il 'momento della conclusio­ ne). 11 primo tempo (ristante del guardare’) implica un soggetto solitario che immediatamente ‘vede’ lo stato delle cose. Nel secondo tempo (il ‘tempo della comprensione’), il soggetto si traspone nel ra­ gionamento dell’altro — si ha a che fare qui con la relazione-specchio nei confronti dell’altro, non ancora con il grande Altro. E soltanto con il terzo tempo - quando, per mezzo del gesto di identificazione forzata, di un atto non coperto dalla garanzia del grande Altro, mi riconosco nel mio mandato-identità simbolico (come comunista, americano, democratico...) - che la dimensione del grande Altro diviene operativa. Il grande Altro non è ‘sempre-già qui’, pronto a fornire una copertura per la mia decisione: io non riempio, non occupo semplicemente un posto preordinato che mi attende nella struttura simbolica - al contrario, è proprio l’atto soggettivo di ri­ conoscimento che, attraverso il suo carattere forzato, crea il grande Altro in quanto ordine strutturale sincronico-atemporale. Il sembiante dello ‘Spirito oggettivo’

T? su questo sfondo che si dovrebbe considerare il passaggio JL—snell’insegnamento di Lacan dal suo radicale anti-nominalismo - dal ‘realismo’ della struttura simbolica (il grande Altro che predetermina gli atti del soggetto) - degli anni Cinquanta al ‘fictio-

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nalismo’ (piuttosto che nominalismo) degli anni Settanta (‘il grande Altro non esiste’, l’ordine simbolico è un ordine di finzioni). Negli ultimi anni del suo insegnamento Lacan sottolinea sempre più come l’ordine simbolico sia un sembiante^ una finzione senza garanzia di validità. L’identità di A e a, del grande Altro e dell’atto in quanto objet petit at è comprensibile solo se si concepisce il grande Altro come ordine ‘virtuale’ di finzioni simboliche. Il passaggio di Lacan dal ‘realismo’ del grande Altro alla nozione della sua natura fittizia è strettamente correlativo all’affermazione secondo cui non ci sarebbe nessun Altro dell’Altro, nessuna meta-garanzia della validità dell’or­ dine simbolico al cui interno il soggetto dimora. La più succinta formulazione di questa mancanza di garanzia ultima è fornita dal paradosso scettico di Wittgenstein, il quale rende visibile l’inquie­ tante fatto che non può mai esserci una certezza assoluta - non solo riguardo alla regola che segue colui che comunica con me, ma anche riguardo alla regola che io stesso seguo in ciò che faccio. Il punto cruciale che qui non va perso di vista è che questa indecidibilità, questa incertezza radicale, questa mancanza di garanzia che riguarda il significato delle parole del mio interlocutore, o del­ le regole che regolano il suo uso di parole conosciute (‘Come pos­ so essere sicuro che egli voglia dire ciò che io vorrei dire attraverso l’uso delle sue parole?’) non è una deficienza ma una caratteristica positiva, la prova ultima della mia inclusione nel grande Altro: il grande Altro ‘funziona’ da sostanza dell’essere, il ‘dentro’ in cui si è, l’effettiva incarnazione, precisamente e solo nella misura in cui il suo status è irriducibilmente indecidibile, mancante di qualsivoglia garanzia — qualsiasi prova della sua validità presupporrebbe una sorta di distanza esterna del soggetto rispetto all’ordine simbolico. E stato Hegel a mostrare che la sostanza spirituale è sempre segnata da que­ sto abisso tautologico - ‘è perché è’. La nozione di grande Altro ‘virtuale’ ci permette inoltre di ap­ procciare in termini nuovi la tradizionale alternativa sociologica tra l’individualismo metodologico, la cui premessa di base è la priorità degli individui e che, di conseguenza, insiste sulla necessità di far de­ rivare le entità collettive trans-individuali dall’interazione tra indivi­ dui, dal mutuo riconoscimento delle loro intenzioni (la ‘conoscenza comune’), ecc.; e, dall’altro lato, il presupposto durkheimiano di una Società come ordine sostanziale che è ‘sempre-già qui’, che prece­ de gli individui e serve da fondazione spirituale del loro essere, in

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qualche modo come l’hegeliano ‘Spirito oggettivo’. Il Lacan ‘realista’ degli anni Cinquanta continua a concepire, al modo di Durkheim, il grande Altro come ordine sostanziale che è ‘sempre-già qui’ e che fornisce l’orizzonte insuperabile dell’esperienza soggettiva. Diversamente, il tardo Lacan ‘fictionalista fa derivare la sostanza sociale (il ‘grande Altro’) dall’interazione tra individui, ma con una torsione paradossale che rovescia completamente la riduzione individualistanominalista della Sostanza sociale a ‘conoscenza comune’, allo spa­ zio di intenzioni soggettive reciprocamente riconosciute. La posta in gioco qui è niente di meno che l’enigma dell’emergenza del grande Altro: com’è possibile per l’individuo percepire i suoi dintorni in­ tersoggettivi non come una moltitudine di altri, creature-individui simili a lui, ma come campo radicalmente asimmetrico del ‘grande Altro’? Come può passare da una speculare, mutua riflessione di altri individui (‘Penso a ciò che pensa che io pensi lui stia pensando’, ecc.) allo ‘Spirito oggettivo’, all’ordine dei costumi in quanto Ordine impersonale ‘reificato’ che non può essere ridotto alla mera somma di ‘tutti gli altri’? Quando, per esempio, l’ingiunzione sociale si tra­ sforma dal ‘(dico che) dovresti fare questo!’ all’impersonale ‘così è come va fattoi Ciò che qui incontriamo è il fondamentale problema hegeliano di come si debba pensare la Sostanza contemporaneamente come posta dai soggetti e come un in-sé: come è possibile per gli indivi­ dui porre la propria Sostanza sociale per mezzo della propria azione sociale, e anche porla come un in-sé, come una fondazione indipen­ dente, presupposta, della loro attività? Dal punto di vista individua­ lista-nominalista, il grande Altro emerge come risultato del processo nel corso del quale gli individui riconoscono gradualmente un certo contenuto condiviso: quando, ripetutamente, esperisco il fatto che la maggior parte della gente attorno a me reagisce in maniera simile allo stesso segnale o situazione, allora questo modo di reazione ‘si reifica’ in una ‘regola’ impersonale. L’individualista-nominalista, ov­ viamente, aggiunge rapidamente che un margine di incertezza per­ mane sempre: questo contenuto condiviso non è mai pienamente garantito, è sempre possibile che qualche nuova esperienza lo metta in discussione - tuttavia, nonostante tali casi estremi, si è sempre impegnati nella graduale formazione di un universo di valori e regole condivise... La soluzione hegeliana di Lacan a questa impasse è paradossale e assai raffinata. Egli accetta la critica comunitaria dell’individualismo

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nominalista, secondo la quale è illegittimo ridurre la Sostanza sociale all’interazione tra individui: la Sostanza spirituale di una comunità è sempre-già qui come fondazione dell’interazione degli individui, come cornice di riferimento definitiva, di modo che essa non possa essere generata da questa interazione. Il passaggio dall’interazione tra individui alla Sostanza sociale implica un salto, una sorta di atto di fede di cui non si può in alcun modo dar conto attraverso il ragiona­ mento strategico individuale riguardante le intenzioni degli altri in­ dividui: non importa quanto intricato e riflessivo possa essere un tale ragionamento, lo spazio di una fondamentale impossibilità separa ir­ rimediabilmente l’interazione degli individui dall’in-sé della sostan­ za spirituale. Tuttavia, la conclusione a cui giunge Lacan partendo da questa impossibilità, non è quella apparentemente più ovvia: il suo punto di vista non è che vista l’impossibilità di far derivare dall’in­ terazione tra individui la Sostanza spirituale la si debba presupporre come un in-sé che precede tale interazione. Hegelianamente (sebbe­ ne ciò non sia stato riconosciuto), Lacan afferma che è proprio questa impossibilità che lega un individuo alla propria sostanza spirituale', la sostanza collettiva emerge proprio perché gli individui non possono mai coordinare pienamente le loro intenzioni, non possono divenire reciprocamente trasparenti. Questa impossibilità di coordinare le intenzioni, ovviamente, si apre alla ‘nozione materialista di soggetto’: l’esperienza primordiale dell’altro soggetto come una Cosa opaca. Il surplus dello ‘Spirito og­ gettivo’ rispetto agli (altri) individui, del collettivo rispetto alla mera somma degli altri, testimonia per questo motivo il fatto che gli altri rimangono per sempre un enigma impenetrabile. In breve, l’impos­ sibilità è primordiale, e la sostanza spirituale è il supplemento virtuale di questa impossibilità', se gli individui fossero in grado di coordinare le proprie intenzioni attraverso una conoscenza condivisa, non ci sarebbe alcun bisogno del grande Altro dal momento che la Sostanza spirituale in quanto entità spettrale esperita da ogni individuo come un in-sé esterno - l’intersoggetdvità habermasiana, l’interazione tra soggetti fondata sulle regole dell’argomentazione razionale - sarebbe sufficiente. Il problema è che la nostra quotidiana esperienza inter­ soggettiva di appartenenza a una Sostanza spirituale si basa sempre su di un in-sé al di là dell’interazione intersoggettiva diretta — una ‘Nazione’, per esempio, è ‘di fatto’ nulla più che la somma degli indi­ vidui che la compongono; essa acquista reale esistenza solo attraverso

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gli atti di questi individui e, in qualche modo, fa parte della stessa struttura di una Nazione, dell’identificazione nazionale, che ognuno di questi individui la esperisca come propria Sostanza spirituale e sociale che esiste indipendentemente da lui e fornisce il fondamento del suo essere. Occorre non perdere di vista la natura hegeliana di questa inver­ sione — la sua stretta analogia con la critica di Hegel alla kantiana Cosa-in-sé (la barriera di impossibilità viene prima; la Cosa è in ul­ tima istanza null’altro che lo spettro che riempie il vuoto di questa impossibilità): il grande Altro è una finzione, un puro presuppo­ sto, un’ipotesi non sostanziata (in tutte le accezioni del termine) che riempie il vuoto della radicale incertezza rispetto alle intenzioni degli altri (‘Che vuoi?). Derrida sembra seguire la stessa logica quando, in Donare la morte, inverte la relazione tra la nozione di un segreto inte­ riore nel cuore del soggetto, anche a lui inaccessibile (il mistero dell’incomprensibile atto di decisione, per esempio) e Dio (lo sguardo dell’Altro che vede questo segreto interiore celato anche agli altri): «Dio è il nome della possibilità per me di mantenere un segreto che è visibile all’interno ma non all’esterno».52 In ciò consiste ciò che si è tentati di chiamare, senza nemmeno un’ombra di ironia, la nozione materialista di Dio-. ‘Dio’ non è altro che un nome per la possibilità di questo inesplicabile segreto del ‘puro dono’ che è oltre ogni com­ prensione, oltre ogni economia dello scambio. Per questa ragione, la critica secondo la quale la nozione di Dio (lo sguardo che vede tutto) ‘re-inscriverebbe’ il puro segreto nell’economia della presenza (c’è l’Uno-Dio che vede tutto, che rende ragione di ciò di cui non si può dare ragione, che economizza il puro dispendio...) in qualche modo manca il bersaglio: ‘Dio’ mantiene semplicemente aperta, per così dire, la possibilità del puro dispendio al di là dell’economia ristretta’ dello scambio. Nel nostro linguaggio quotidiano, ‘Dio solo sa significa che nessuno (nessun soggetto reale) sa; sulla medesima falsariga, ‘Dio solo vede il segreto della nostra decisione’ significa che il segreto è impenetrabile. La trascendenza del grande Altro in quanto in-sé sostanziale — cioè l’ordine dello ‘spirito oggettivo’ che esiste indipendentemente dall’attività del soggetto — è perciò una sorta di necessaria illusione prospettica: è la forma sotto la quale il soggetto (mis)percepisce la 52 Jacques Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002, p. 107.

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sua propria incapacità di ottenere l’in-sé dell’altro reale le cui vere intenzioni rimangono impenetrabili. Precisamente in questo senso lo statuto della Sostanza spirituale è virtuale: ciò che è virtuale del grande Altro è proprio il suo in-sé, ciò per cui il grande Altro non può essere ridotto alle intenzioni, ai significati, agli stati psichici, e via dicendo, degli individui realmente esistenti. Un individuo esperisce la propria società non come mera somma di individui ma come un ordine che trascende questi individui e forma la sostanza delle loro vite - ed è proprio questo in-sé sostan­ ziale che si pone come puramente virtuale, una finzione simbolica, dal momento che esiste semplicemente come presupposto, per ogni individuo, della già-esistente coordinazione di tutti gli altri indivi­ dui. In altre parole, lungi dal dipendere da una sorta di coordina­ zione minimale che gli individui sono stati capaci di raggiungere a dispetto dell’opacità delle loro reali intenzioni, la Sostanza spirituale emerge come modo per evitare l’impasse di questa opacità attraverso la presupposizione della coordinazione-delle-intenzioni come già data nel Terzo Ordine, puramente virtuale, delle regole impersonali, in modo tale che la questione non sia più ‘Gli individui si capiscono veramente tra loro?, bensì ‘Ogni individuo segue le regole comuni?. Esattamente in questo senso, ogni comunità umana è ‘virtuale’, cioè fondata su regole, valori, e così via, la cui validità è per definizione presupposta, mai definitivamente provata. Lo status del grande Altro è sempre quello di sembiante.

Il gioco di prestigio simbolico T a risposta di Hegel alla perenne questione deH’Illuminismo J—/- e possibile ingannare la maggioranza del popolo?’ è un de­ ciso ‘No!’. Tuttavia, il ragionamento che sostiene questa risposta non ha nulla a che fare con la fiducia nel buon senso sostanziale e nella prudenza della maggioranza. Piuttosto, esso si basa sulla definizione circolare e performativa di ciò che è ‘vero’ nel campo sociale: anche nel caso in cui una data nozione fosse stata imposta in principio come mezzo puramente strumentale di inganno ideologico, nel mo­ mento in cui la maggioranza del popolo accetta pienamente questa nozione in quanto fondamento della propria esistenza sociale non ci si trova più di fronte a una menzogna ma a una verità sostanziale della comunità.

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Nel campo contemporaneo della pragmatica e della teoria delle azioni, Pierre Livet ha raggiunto la medesima conclusione: cruciale per il funzionamento di una comunità simbolica è lo status indeci­ dibile dell’errore.50 Il punto di partenza di Livet è il ragionamento strategico di un individuo in una situazione esemplificata dal noto dilemma del prigioniero: finché l’individuo persiste nella ricerca ‘razionale’ del proprio interesse egoistico, intrappolato nel gioco di specchi di ciò che sa che gli altri sanno che lui sa, e così via, una vera cooperazione non può avere luogo. Per lui, l’unica soluzione, l’uni­ ca via d’uscita impasse, è una mossa che, dal punto di vista del ragionamento strategico puramente razionale, si configura come un errore’, una mossa ‘irrazionale’ — ogni cosa dipende quindi da come i suoi compagni reagiranno a questo errore’. Se questi, per così dire, lo assumessero e rispondessero da parte loro con un ‘errore’ corri­ spondente, si assisterebbe al passaggio dall’interazione strategica all: genuina cooperazione. Tuttavia, non si può mai essere sicuri di com la prima mossa ‘irrazionale’ funzionerà: forse sarà ricevuta comt mero errore, forse si muterà in genuina cooperazione in divenire, cioè funzionerà come ciò che Derrida, nella sua interpretazione di Hegel in Glas, ha chiamato il Sì! primordiale, il gesto del dono ‘irra­ zionale’ che mette in moto il processo di scambio. Questa inversione ‘magica di un ‘errore’ nel gesto fondativo della cooperazione può anche avvenire nella direzione opposta, ‘all’indietro’: nel corso della disgregazione di una comunità ‘organica’ nell’individualismo egoisti­ co, può ben accadere che un gesto che fino a quel momento è stato parte delle procedure standard di cooperazione (il codice d’onore, la solidarietà con coloro che sono in difficoltà, ecc.) venga improvvisa­ mente percepito come sciocco errore di cui approfittare... E di nuovo, il punto cruciale è che questa impossibilità struttu­ rale di verificare le regole o le intenzioni che sottostanno all’attività socio-simbolica, questa indecidibilità tra cooperazione ed errore, è la condizione positiva di una genuina cooperazione: nel momento in cui si investe un altro soggetto della capacità di possedere e determi­ nare le regole che controllano il vero significato del discorso, non si partecipa più di una genuina cooperazione simbolica, dal momen­ to che ci si concepisce come puri strumenti manipolati da coloro che controllano le regole del gioco. In questo caso, l’ordine simbolico 53 Si veda 1’ccccllcnte Pierre Livet, La communauté virtuelle, Éditions de l’éclat, Combas 1994.

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perde il proprio status virtuale — che è la più succinta definizione di paranoia. Si ricordi il riferimento alla Nazione: Nazione è una no­ zione aperta; nessun soggetto controlla il suo ‘vero significato’; e, proprio per questo, essa può configurarsi come quadro di riferimento di una genuina cooperazione, cioè come sostanza dell’essere sociale e non solo come ingannevole manovra manipolata dai governanti al fine di controllare e sfruttare i loro subordinati. Si ha effettivamente a che fare con la ‘Sostanza spirituale’ quando una nozione originariamente imposta come mezzo di illusione ideo­ logica e manipolazione inaspettatamente sfugge al controllo del crea­ tore e inizia a condurre una vita sua propria. La religione cristiana, violentemente imposta a una popolazione colonizzata da un potere colonizzatore, è stata spesso ripresa dai colonizzati e utilizzata come mezzo di articolazione delle proprie autentiche aspirazioni. Caso esemplare di una tale ‘re-inscrizione’ è la ‘Vergine di Guadalupe’, una Vergine Maria nera che apparve in visione all’azteco Juan Diego nel 1531, presso una collina vicina a Città del Messico dove fu a lungo adorata Tonantzin, madre degli dei Aztechi. Tale apparizione segna il momento di una riappropriazione del cristianesimo da parte delle popolazioni indigene. Una comunità spontanea emerge dunque attraverso una tale in­ versione paradossale: invece di persistere infinitamente nella vana ricerca di un qualche comune denominatore positivo, si presuppone che questo denominatore sia già presente- e il prezzo da pagare è la virtualizzazione del denominatore. Si ha qui a che fare con una sorta di corto circuito, un’ingannevole sostituzione: il futuro viene confuso con il passato, ciò che deve avvenire viene confuso con — riferito a, presentato come - ciò che già c’è. Il gesto della ‘dichiarazione’ - di dichiararsi un soggetto libero, per esempio - avviene sempre ‘sulla base della fiducia’: si riferisce a, si basa su, qualcosa che, forse, emer­ gerà come risultato di questo stesso atto di dichiarazione. In altre parole, un tale gesto mette in movimento un processo che, retroat­ tivamente, lo fonderà — e, affinché questo processo prenda piede, l’inganno è necessario: cioè la sua conseguenza (possibile) deve essere presupposta come già presente. Si può notare come la struttura di base dell’ordine simbolico implichi l’illusione della predestinazione — o, con termine psicoanalitico, il cerchio del ‘transfert’: affinché il Significato emerga, occorre presupporlo come già dato. Questo futur antérieur del Significato mostra il carattere virtuale del grande Altro:

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il grande Altro è un’ipotesi che mai ‘è’ direttamente, ma semplicemente che ‘sarà stata. Qui risiede l’enigma fondamentale della comunità simbolica: com’è possibile mettere in atto il gioco di prestigio costitutivo dell’or­ dine simbolico, questa illusoria presentazione di ciò che ancora deve accadere come se fosse già dato? Lacan fornisce una risposta precisa: la presupposta coordinazione non riguarda il livello del significato (di qualche contenuto positivo condiviso) ma il livello del significan­ te. L’indecidibilità riguardo al significato (gli altri intendono davvero ciò che intendo io?) si trasforma in un significante eccezionale, il Si­ gnificante Padrone vuoto, il significante-senza-significato. ‘Nazione’, ‘Democrazia’, ‘Socialismo’ e altre Cause stanno per quel ‘qualcosa che non si è mai sicuri di sapere, esattamente, cosa sia. Il punto è, invece, che attraverso l’identificazione con la Nazione si segnala l’ac­ cettazione di ciò che gli altri accettano, con un significante padrone la cui funzione è quella di radunare tutti gli altri. In altre parole, l’iden­ tificazione con un tale significante padrone vuoto si configura, nella sua dimensione più basilare, come un’ identificazione con il gesto stesso dell’identificazione. Si può dunque vedere in quale senso lo statuto del significante in quanto tale è virtuale: la virtualità è la virtualità del significato, cioè il significante fa affidamento su di un ‘significato-a-venire’ che, sebbene mai pienamente realizzato, funziona come se fosse già operante. Quando il significante ‘nostra Nazione’ comin­ cia a funzionare come punto di convoglio per un gruppo di persone, esso di fatto coordina le loro attività, sebbene ognuno di essi possa avere una nozione differente di ciò che ‘nostra Nazione’ significhi.54 Il finale del film Casablanca di Michael Curtiz (Humphrey Bogart rimane a Casablanca e lascia che Ingrid Bergman se ne vada con il suo eroico marito) è così profondamente soddisfacente perché con­ densa, in un solo gesto, tre modalità che corrispondono alla triade Estetico-Immaginario, Etico-Simbolico, Religioso-Reale. Il primo modo, ‘estetico’, di leggere il gesto di Bogart è quello di discerner54 Di norma, i leader populisti-corporativi eccellono nell’arte di attivare in ogni sottogruppo della nazione l’impulso a riconoscere il proprio contenuto spe­ cifico nella Causa comune; come ha sottolineato Ernesto Laclau, Juan Perón si è presentato di fronte ai sindacati come il rappresentante degli interessi dei lavoratori contro la plutocrazia corrotta del capitale, di fronte alla Chiesa Cattolica come cri­ stiano devoto nemico della decadenza liberale, all’esercito come zelante partigiano dei valori patriottici della difesa della patria, e cosi via.

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vi la consapevolezza che, sebbene appassionatamente innamorati, il coronamento del loro rapporto (i due che stanno insieme) appassi­ rebbe necessariamente — così è meglio mantenere aperto il sogno di una possibile felicità... La seconda lettura è ‘etica: Bogart preferisce la Causa politica universale all’idiosincrasia del piacere privato (mo­ strandosi dunque all’altezza dell’amore di Bergman). C’è però una terza possibile interpretazione che delinea la rinuncia finale di Bo­ gart come crudele ano narcisistico di vendetta su Bergman - come una punizione per averlo deluso a Parigi: adesso che l’ha costretta ad ammettere che lo ama davvero, è giunto per lui il momento di rifiutarla attraverso un gesto il cui messaggio cinico è ‘Hai voluto tuo marito - ora sei costretta a stargli accanto, anche se vorresti me!’. Questa logica da ‘resa dei conti’ vendicativa, umiliante e crudele ren­ de il gesto finale di Bogart ‘religioso’, non solo ‘estetico’. Naturalmente, il punto è che il gesto di rinuncia di Bogart è il gesto simbolico nella sua forma più pura, ragione per cui è sbagliato domandarsi ‘Quale di queste tre interpretazioni è vera?’. L’impatto del gesto finale di Bogart fa affidamento precisamente sul fatto che esso funziona come una sona di ‘contenitore’ neutrale per tutte e tre le modalità libidinali, di modo che il medesimo gesto soddisfi una moltitudine di desideri inconsistenti, persino contraddittori (evitare la disillusione che segue la realizzazione del proprio desiderio; af­ fascinare una donna assumendo la posa morale dell’auto-sacrificio; vendicarsi di una ferita narcisistica). Qui risiede il risultato parados­ sale della simbolizzazione: la vana ricerca del ‘senso vero’ (il significa­ to ultimo) è soppiantata da un unico gesto significante.

‘Aè/Z T a prima conseguenza, quindi, è che l’atto e il grande Altro, JL-/lungi dall’essere semplicemente opposti l’uno all’altro, si tro­ vano interconnessi in modo costitutivo: l’ordine simbolico in quan­ to struttura ‘atemporale’ e trans-soggettiva che predetermina il posto del soggetto, ruota su di un atto temporale (di riconoscimento forzato) non 'coperto' (nel senso bancario-finanziario del termine) dal grande Altro. Nel riconoscersi come ‘Socialista’, si pone allora il contesto stesso del riferimento ‘oggettivo’ che permette la mia identificazione ‘soggettiva. Oppure - per dirlo in modo leggermente diverso - l’og-

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gettivi tà’ del grande Altro implica una riflessione ‘soggettiva’ redu­ plicata: io sono ciò che (penso che gli altri pensino che io pensi che) sono... Questa precisa formulazione mette inoltre un ostacolo sul sentiero della fallace interpretazione ‘umanistica’ dell’interdipenden­ za tra soggetto e grande Altro: il punto non è che il grande Altro (la struttura simbolica) sia ‘sempre-già qui’, sebbene incompleto, ‘non­ tutto’, e che il soggetto in qualche modo ricavi una sua nicchia, un margine di libertà nelle inconsistenze e nelle mancanze del grande Altro. Quando Lacan afferma che c’è un soggetto solo nella misura in cui c’è una mancanza nell’Altro, solo nella misura in cui la strut­ tura è ‘non-tutta’, inconsistente, egli ha in mente qualcosa di ben diverso: è lo stesso supplemento del mio atto di decisione ‘soggettivo’ (di identificazione forzata) che trasforma l’insieme disperso, ‘non­ tutto’, dei significanti nell’ordine ‘oggettivo’ del grande Altro.55 Da un punto di vista strettamente hegeliano, l’alternativa tra il persistere nella solitudine dell’atto che sospende il grande Altro e il ‘venire a un compromesso con il proprio desiderio’ accettando il proprio posto nel grande Altro (l’ordine socio-simbolico), è una falsa alternativa, è l’ultima trappola piazzata dalla Comprensione astrat­ ta per impedire l’accesso alla vera speculazione filosofica. L’identità speculativa ultima è l’identità dell’atto e dell’Altro: un atto autentico sospende momentaneamente il grande Altro, ma è allo stesso tempo il 'mediatore evanescente che fonda, porta all'esistenza, il grande Altro. In altre parole, la proposizione A è d designa la precisa struttura del giudizio speculativo nel quale l’identità dei due elementi è mediata da un’impossibilità centrale: A, il grande Altro, l’ordine simbolico, è intrinsecamente ‘barrato’, inceppato, strutturato attorno al vuoto di un’impossibilità centrale: non è mai all’altezza della propria nozio­ ne; questa impossibilità centrale è la sua condizione di possibilità e Vobjet a è precisamente l’oggetto paradossale che dà corpo a tale im­ possibilità, la quale altro non è se non la materializzazione di questa impossibilità.56 Precisamente in questo senso a è l’oggetto-causa del ” Un lettore attento non ha certamente mancato di notare la stretta omologia tra questa interdipendenza e la premessa fondamentale dell’idealismo filosofico: è il libero atto soggettivo del porre che trasforma la moltitudine caotica delle impressio­ ni in una coerente ‘realtà oggettiva’. 56 La relazione tra A e a non deve perciò essere confusa con la logica dell’Universalc c della sua eccezione costitutiva: Vobjetpetit a non è l’eccezione che garanti­ sce la consistenza del grande Altro ma, al contrario, proprio ‘l’osso conficcato nella gola’ che impedisce al grande Altro di stabilirsi come campo consistente.

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desiderio: esso non preesiste difatto al desiderio come ciò che lo stimola; esso dà semplicemente corpo ai suoi intrinseci vicoli ciechi, alfatto che il desiderio non può mai essere soddisfatto da un oggetto positivo-, il che significa, a proposito di qualsiasi oggetto positivo, che l’esperienza del soggetto sarà sempre ‘questo non è quello .51 Oppure — detto in maniera leggermente diversa — si dovrebbero trarre tutte le conseguenze dal fatto che il grande Altro è il campo della conoscenza supposta, cioè che è strettamente correlativo all’ef­ fetto di transfert (esattamente nel senso in cui Kant sostiene che la Legge morale acquisisce esistenza reale solo nel rispetto che il soggetto ha verso essa). Il transfert’ designa la fiducia del soggetto nel signi­ ficato-a-veni re: nel contesto della cura psicoanalitica, per esempio, la relazione di transfert con l’analista testimonia della convinzione del soggetto che l’analista ‘conosca’ - la presenza dell’analista è la garanzia che i sintomi del paziente posseggono un qualche significa­ to segreto da scoprire. Di conseguenza, nella misura in cui il grande Altro funziona come garanzia del significato-a-venire, il fatto stesso dell’esistenza del grande Altro implica il gesto soggettivo della forza­ tura. In altre parole: come si passa dall’insieme disperso, ‘non-tutto’, inconsistente dei significanti al grande Altro in quanto ordine con­ sistente? Attraverso il supplemento della serie inconsistente dei si­ gnificanti con un significante padrone, Sj, un significante della pura potenzialità del signi fi cato-a-ven ire; attraverso questa forzatura (l’in­ tervento di un significante ‘vuoto’ che fa le veci del signi fica to-a-ve­ nire) il campo simbolico si completa, si muta in un ordine chiuso.58 Tuttavia, dal momento che la relazione di transfert è per definizione dipendente da un soggetto che è in se stesso come scisso/diviso, un soggetto che si trova sotto il segno della mancanza e della negatività 57 Si incontrano spesso, in campi differenti, strani casi similari di oggetti spet­ trali che mancano di qualsiasi consistenza intcriore, dal momento che sono generati unicamente dall’inconsistenza di un campo - un tale oggetto si dissolve nell’aria nel momento in cui le relazioni nel campo si chiarificano. Nella fisica prc-modcrna, per esempio, elementi misteriosi quali l’etere’ c il ‘flogisto’ danno semplicemente corpo al limite intrinseco dell’apparato concettuale di dar conto dei fenomeni osservabili. 58 A un livello in qualche modo differente, qui risiede il problema centrale della Filosofia del diritto di Hegel: come si può concepire un ordine sociale la cui positività dia corpo, per cosi dire, a una radicale negatività? Questa radicale ambi­ guità è condensata nella figura del Monarca che, precisamente in quanto segno della negatività alla radice dell’edificio sociale, funge da garanzia ultima della stabilità dell’ordine.

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(solo un tale soggetto dislocato ha l’urgenza di costruirsi un suppor­ to nel grande Altro attraverso il gesto di identificazione forzata), ciò significa che il grande Altro ruota su di un soggetto diviso/scisso. Per questa ragione, la dissoluzione del transfert (alla conclusione della cura psicoanalitica), l’esperienza che ‘il grande Altro non esista’ e la ‘destituzione soggettiva’ sono strettamente equivalenti. Nella misura in cui, secondo Lacan, io status dell’atto è in ul­ tima istanza quello dell’oggetto (objet petit /*), potrebbe qui essere conveniente menzionare il recente tentativo di Dieter Hombach di illustrare lo status di strani oggetti quali i quark o i gluoni nella fisi­ ca quantistica: sebbene la teoria stessa definisca questi oggetti come entità che non possono essere isolate e verificate empiricamente, li si deve comunque presupporre affinché l’edificio teorico mantenga la propria consistenza. Secondo Hombach, questi oggetti sono una sorta di pseudo-oggetti portati alla luce dal movimento generativo auto-referenziale della teoria stessa: essi semplicemente si materializ­ zano e danno corpo alla statistica di un’entità fittizia.59 Il punto, na­ turalmente, è che lo status àe\\'objetpetit a lacaniano è esattamente omologo: non è forse il linguaggio, l’ordine simbolico, l’esempio cru­ ciale di un sistema ‘auto-organizzato’, un sistema che determina da se stesso l’alterità a cui si riferisce, un sistema che interviene sempre in modo auto-referenziale sui propri oggetti (li ‘disturba’) in modo tale che esso parli in ultima istanza soltanto di se stesso? E Vobjet petit a è precisamente l’oggetto paradossale generato dal linguaggio stesso come sua ‘diminuzione’, come resto materiale del movimento puramente auto-referenziale dei significanti: Vobjet a è un puro sem­ biante di un oggetto che dà corpo al movimento auto-referenziale dell’ordine simbolico. Si potrebbe dire anche nel modo seguente: l’ordine simbolico (il grande Altro) è organizzato attorno a un vuoto nel suo stesso centro, attorno a una Cosa traumatica che lo rende ‘non-tutto’; è definito dall’impossibilità di accedere alla Cosa; tuttavia, è proprio questo riferimento al vuoto della Cosa che dischiude lo spazio della simbo­ lizzazione, dal momento che senza di esso l’ordine simbolico ‘col­ lasserebbe’ immediatamente nella realtà designata - scomparirebbe cioè la distanza che separa le ‘parole’ dalle ‘cose’. Il vuoto della Cosa è perciò entrambe le cose allo stesso tempo', l’inaccessibile ‘nocciolo duro’ ” Si veda Dieter Hombach, Vom Quark zum Urknall, Boer, Monaco 1994, pp. 70-80.

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attorno al quale ruota la simbolizzazione, che lo elude, la causa del suo fallimento, e lo spazio stesso della simbolizzazione, la sua condizio­ ne di possibilità. Questo è il ‘circolo’ della simbolizzazione: proprio il fallimento della simbolizzazione dischiude il vuoto all’interno del quale ha luogo il processo di simbolizzazione. Questa identità ultima degli opposti, l’identità della Cosa e dell’Altro, forse il problema speculativo più difficile da affrontare, ci permette anche di fornire una risposta a una critica mossa a Lacan che - almeno a prima vista - non può che suonarci convincente: la teoria lacaniana non è forse confinata a un aspetto della soggettività molto limitato - a ciò che ci tiene, come soggetti umani, chiusi nel circolo vizioso della coazione-a-ripetere, costretti nella intelaiatura fantasmatica, sovradeterminati dalla rete dei simboli, catturati dall’immagine-specchio, e così via? La fondamentale triade lacaniana di Immaginario-Simbolico-Reale non è forse di fatto una matrice dei tre modi della prigionia del soggetto, del suo essere alla mercé di cause e meccanismi esterni: cattività immaginaria, sovradeterminazione operata dalla struttura simbolica, attrazione esercitata dagli incontri traumatici con il reale? Ma è questa tutta la verità? Non c’è forse un altro lato dell’esperienza umana, la dimensione dell’in­ venzione e della creatività, la capacità del soggetto di definire il suo spazio di realizzazione, di escogitare il proprio progetto esistenziale, di ‘definirsi’? Esiste uno spazio, nell’edificio teorico lacaniano, per questa dimensione? La risposta è un deciso ‘sì’ - ed è contenuta nella difesa inaspetta­ ta da parte di Lacan della nozione di creatività nella sua forma più ra­ dicale, quella della creatio ex nihilo-, attraverso il riferimento al vuoto della Cosa nel centro della struttura simbolica, il soggetto è in grado di ‘piegare’ lo spazio simbolico in cui essa abita e perciò di definire il proprio desiderio in quella sua idiosincrasia. Il paradosso, di nuovo, è che qui non c’è alcuna ‘misura adatta’ per definizione: c’è, simulta­ neamente, troppa e troppo poca creatività. Troppo poca dal momen­ to che la struttura simbolica che è sempre-già qui sovradetermina i miei atti; troppa dal momento che si è cionondimeno pienamente responsabili dei modi attraverso cui ci si relaziona alla struttura. Non si è mai ‘presi in una struttura senza che ci sia un resto’; c’è sempre un resto, un vuoto attorno al quale la struttura è articolata, e attra­ verso la localizzazione in questo vuoto si può assumere una distanza minima rispetto alla struttura, ‘separarsi’ da essa.

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Sebbene si debba qui stare attenti a non confondere l’atto in quanto reale con il gesto performativo del significante padrone, i due sono tuttavia strettamente connessi: il paradosso ultimo del processo di simbolizzazione, il suo ‘più inaccessibile mistero’, è il fatto che l’atto in quanto reale (cioè il gesto che, una volta che l’ordine sim­ bolico sia stabilito, funziona come sua sospensione, come elemento eccessivo rispetto a esso) è simultaneamente il ‘mediatore evanescen­ te’ che fonda l’ordine simbolico. Un atto, nella sua dimensione più fondamentale, è il ‘mediatore evanescente’ tra l’in-sé e il per-sé: tra la realtà pre-simbolica, ‘virtuale’, non ancora pienamente realizzata e la realtà che è già simbolizzata, re-inscritta. Un ordine simbolico comprende la struttura del circolo ermeneutico: è per definizione ‘auto-poietico’ e auto-inclusivo; come tale, esso non ha esteriorità, di modo che il soggetto umano che alberga nel linguaggio non possa mai uscirne e assumere una distanza rispetto a esso - la stessa realtà ‘esterna’ appare sempre tale dall’interno dell’orizzonte del linguaggio. L’atto, tuttavia, è precisamente il gesto ‘impossibile’ che dischiude l’impenetrabile linea di separazione tra le ‘cose’ e le ‘parole’ (der Unter-Schied, come Heidegger lo chiama), un gesto che è ‘represso’ una volta che si sia ‘dentro’ (all’interno del dominio del Significato). E il significante padrone è l’atto stesso, percepito soltanto ‘dall’interno’, da un già-costituito orizzonte simbolico. In breve, l’atto in quanto reale e il significante padrone non sono ‘sostanzialmente’ differenti: essi sono una sola e unica entità, concepita o nel modo del ‘divenire’ oppure in quello dell’essere’.

La voce come supplemento ome bisogna considerare, guardando più da vicino, questa ^--/coincidenza - addirittura tautologia - tra atto in quanto reale e significante? Non abbiamo forse già incontrato qualcosa di simile nella tautologia della voce, cioè a proposito della coincidenza tra voce come medium dell’auto-presenza trasparente del soggetto e voce in quanto macchia opaca che mette in discussione questa stessa auto-presenza? Forse, allora, la chiave ci verrà fornita dallo status della voce eccessiva che rappresenta l’eclissi del significato. Per dare espressione a questa voce perturbante è sufficiente gettare un rapido sguardo alla storia della musica — che si può leggere come una sorta

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di contro-storia della derridiana storia della metafisica occidentale come dominazione della voce sulla scrittura. Ciò che in essa incon­ triamo a più riprese è la voce che minaccia l’Ordine stabilito e che, per questa ragione, deve essere messa sotto controllo, subordinata all’articolazione razionale della parola scritta e parlata, fissata nella scrittura. Per designare il pericolo che qui si cela, Lacan ha coniato il neolo­ gismo jouis-sense, godimento-nel-significato — nel momento in cui la voce nel canto ‘fògge impazzita, scioglie i suoi legami con il signifi­ cato e si getta in un auto-godimento divoratore. I due casi esemplari di questa eclissi del significato nell’auto-godimento divoratore sono, ovviamente, il climax (femminile) dell’aria operistica e l’esperienza mistica. Lo sforzo di dominare e regolare questo eccesso va dalla Cina antica, dove l’imperatore in persona dettava legge in campo musica­ le, e giunge fino a Elvis Presley, che scandalizzava sia la maggioranza puritana conservatrice degli Stati Uniti sia i comunisti integralisti dell’Unione Sovietica. Nella sua Repubblica, Platone tollera la musi­ ca solo nella misura in cui essa è rigorosamente sottoposta all’ordine della Parola. La musica è situata precisamente al crocevia tra Natura e Cultura; ci coglie, per così dire, ‘nel reale’, ben più direttamente rispetto al significato delle parole; per questa ragione, essa può certo servire come la più potente arma di educazione e disciplina, eppure, nel momento in cui smarrisce il proprio punto d’appoggio e finisce preda del circolo vizioso auto-propulsivo del godimento, può mette­ re in crisi le fondamenta stesse non solo dello Stato, ma dell’ordine sociale in quanto tale. Nel medioevo la Chiesa dovette affrontare lo stesso dilemma: è impressionante osservare quanta energia e cura le più alte cariche ecclesiastiche (i papi) dedicarono all’apparentemente insignificante questione della regolamentazione della musica (il pro­ blema della polifonia, il ‘tritono del diavolo’, ecc.). La figura che impersonifica l’ambigua posizione del Potere verso l’eccesso della Voce è, naturalmente, Ildegarda di Bingen, che inserì il godimento mistico nella musica e fu per questo costantemente a un passo dalla scomunica, sebbene appartenesse al livello più alto della gerarchia del potere, consigliera dell’imperatore, e così via. La medesima matrice è di nuovo all’opera nella Rivoluzione France­ se, che vide i suoi ideologi sforzarsi per stabilire una ‘normale’ dif­ ferenza sessuale sotto la dominazione della parola parlata maschile contro l’indulgenza decadente aristocratica verso i piaceri derivanti

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dall’ascolto dei castrati. Uno degli ultimi episodi di questa infinita battaglia è la celebre campagna sovietica promossa da Stalin contro la Katerina Izmajlova di Sostakovic: abbastanza curiosamente, uno dei principali capi d’imputazione era che l’opera fosse un insieme di gridi disarticolati... Quindi il problema è sempre lo stesso: come si può impedire alla voce di scivolare verso l’auto-godimento divorato­ re che ‘rende effeminata’ l’affidabile Parola maschile?60 La voce funziona qui come un ‘supplemento’ nel senso derridiano: ci si sforza di contenerla, di regolarla, di subordinarla alla Parola articolata, eppure non se ne può fare a meno completamente poiché una certa quantità è vitale per l’esercizio del potere (è suffi­ ciente richiamare il ruolo delle canzoni patriottico-militare nell’in­ grandimento della comunità totalitaria, oppure — oscenità ancor più lampante - i ‘canti di marcia’ ipnotici dei Marines statunitensi: il loro ritmo debilitante e il contenuto sadico e privo di senso non è forse un caso esemplare dell’auto-godimento divoratore al servizio del Potere?). Lo status sessuale di questa voce auto-gaudente è estremamente interessante: è come se, in essa, gli opposti coincidessero. Da un lato l’eccesso, il ‘più-di-godimento ’ che pertiene a questa voce, è esperi­ to come distintamente femminile, è la voce seducente par excellence (in una fortissima coloratura, per esempio);61 in quanto tale, essa rappresenta il momento della divinizzazione della donna (Diva ). Dall’altro lato essa è asessuata, la voce di un angelo personificato nella figura del cantante castrato. Essa designa perciò la sovrappo-

60 Mi riferisco qui ai due volumi di Michel Poizat, L’Opera oh le cri de Cange, Éditions A.M. Mctailie, Parigi 1986 c La Voix dn diable: La jonissance lyrique sacrée, Éditions A.M. Mctailie, Parigi 1991. 61 Esistono, tuttavia, diverse versioni di questa voce. Nei Racconti di Hoffinan di Offenbach le tre donne rappresentano non solo i tre modi dell’impossibilità della relazione sessuale, ma anche le tre tipologie della canzone: quella di Olimpia è la canzone di una bambola meccanica, di un automa; quella di Giulietta è la voce se­ ducente di una donna ammiccante; quella di Antonia è la voce mortifera che segue il ‘demone’ etico interiore - essa testimonia la preferenza del soggetto per 1 ’objet a piuttosto che per il partner maschile. Questa triade non obbedisce forse alla logi­ ca dei lacaniani I-S-R: l’esca immaginaria di Giulietta; il meccanismo simbolico di Olimpia; il reale delle pulsioni di Antonia? Antonia è per questo una figura propria­ mente etica, come la Veronica polacca ne La doppia vita di Veronica di Kicslowski: nella scelta tra 'le pére oh le pire' [il padre o il peggio), cioè tra una relazione sessuale (garantita dalla metafora paterna) e la Voce, Veronica opta per la seconda sebbene sappia che il prezzo da pagare sia la mone.

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sizione paradossale della più appassionata sessualità e della purezza asessuale. E il caso del castrato non è forse esemplificativo della for­ mula lacaniana dell’oggetto feticistico in quanto disconoscimento della castrazione: Z^~? Il castrato raggiunge le sublimi altezze della voce-oggetto asessuale attraverso una rinuncia radicale, alla lettera un taglio nel suo corpo, la sua mutilazione. (La controparte femmi­ nile di questa mutilazione sono le assai diffuse leggende riguardanti le sofferenze fisiche e le rinunce cui una vera diva deve sottoporsi per ottenere una Voce divina). Ciò che colpisce in Farinelli di Gérard Corbeau, il film biografico sul famoso cantante castrato del XVIII secolo, è la maniera in cui il protagonista si sente orgoglioso della propria mancanza-, egli esibisce senza vergogna la propria voce, che testimonia la sua mutilazione — mentre canta egli incrocia lo sguardo del suo pubblico con aria di sfida; sono le persone del pubblico che prima o poi si vergognano di questo sfoggio e abbassano lo sguardo. In cosa consiste il privilegio che permette al castrato di mostrare apertamente la propria mancan­ za? Certamente non per evocare il virtuosismo della propria voce, dal momento che questa voce è il monumento della sua perdita: il suo virtuosismo è infatti un supplemento che riempie e quindi espone la sua mancanza. Invece, la vera questione è questa: quale prerogativa è attestata dalla mutilazione del castrato? La caratteristica fondamen­ tale della voce del castrato è che essa funziona come un ‘oggetto parziale’ freudiano: un resto spettrale, un segnaposto, di ciò che è perduto con la sessualizzazione di un essere umano. In altre parole, la castrazione 'reale'può avere l’effetto di produrre una voce-oggetto solo nella misura in cui è preceduta da una perdita che contraddistingue la sessualità 'piena’, normale’. Il nome lacaniano per questa perdita è, naturalmente, castrazione simbolica. La castrazione ‘reale’ (del can­ tante) è perciò in un certo senso la perdita della perdita stessa - un tentativo di disfare la castrazione simbolica per riguadagnare ciò che è perduto attraverso l’entrata nel dominio della differenza sessuale. Ciò rappresenta inoltre la congiunzione paradossale tra un più e un meno nella figura della donna: proprio nella misura in cui ‘non ha il fallo’, nella misura in cui è effettivamente sottoprivilegiata all’in­ terno dell’economia sessuale fallica, la donna possiede un vantaggio sull’uomo rispetto a ciò che è perduto con il prevalere dell’economia fallica della differenza sessuale. A un livello più radicale, si potrebbe dire che — nella misura in cui la dimensione della voce in quanto

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oggetto abita la parola in quanto tale - ogni soggetto parlante è nella posizione di un castrato, del disconoscimento della differenza sessuale che dà accesso alla voce-oggetto asessuale: questo disconoscimento è l’unico modo di mantenere la superficie neutrale-asessuale del Sen­ so.

Lo shofar

T7 siste tuttavia un’altra voce che non può essere ridotta a questo LI/eccesso di jouis-sense, sebbene anch’essa funzioni da resto del Reale. In un saggio ormai classico degli anni Venti Theodor Reik ri­ chiamava l’attenzione sul dolorosamente basso e ininterrotto suono di tromba dello ‘shofar’, un corno utilizzato nel rituale serale dello Yom Kippur che segna la fine del giorno delle meditazioni. Reik collega il suono dello shofar alla problematica freudiana del crimine primordiale del parricidio (in Totem e tabù)’, egli interpreta il ron­ zio spaventosamente pomposo e grave dello shofar, che invoca un miscuglio perturbante di dolore e godimento, come ultima vestigia della primordiale sostanza vitale del padre, come l’urlo indefinita­ mente protratto del padre sofferente-morente-impotente-umiliato. In altre parole, lo shofar è il segno della ‘repressione primordiale’, una sorta di monumento vocale all’uccisione della sostanza pre-simbolica del godimento: il padre, dentro cui risuona l’urlo di morte, è il ‘non-castrato’ Padre-Godimento. A riprova della sua tesi, Reik richiama l’attenzione sulla similitudine tra lo shofar e un altro stru­ mento primitivo, il ‘rombo’, che imita il muggito del toro colpito a morte nell’arena: la lotta tra tori come ricostruzione dell’assassinio del primordiale Padve-Jouissance.62 Dall’altro lato, la tradizione ebraica concepisce il suono dello sho­ far come un’eco del fulmine che accompagnò il momento solenne in cui Dio consegnò a Mosè le tavole della legge, su cui erano riportati i Dieci Comandamenti; in quanto tale, esso rappresenta anche il Patto tra il popolo ebraico e il proprio Dio, cioè il gesto fondativo della Legge. li suono dello shofar è perciò una sorta di ‘mediatore evanescente’ tra la mitica espressione vocale diretta della sostanza vitale pre-simbolica e la parola articolata: esso rappresenta il gesto 62 Si veda Theodor Reik, “Lo Shofar", in II rito religioso, Bollati Boringhieri, Torino 1977.

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attraverso il quale la sostanza vitale, attraverso il proprio ritrarsi, la propria auto-cancellazione, dischiude lo spazio per la Legge simboli­ ca. Qui, in riferimento allo shofar in quanto ‘mediatore evanescente’, incontriamo di nuovo la Grundoperation dell’idealismo tedesco che è all’opera nelle profondità del pensiero di Schelling e Hegel: lo shofàr, questa strana sonorità che rappresenta l’auto-superamento della sostanza vocale nella Parola articolata, è strettamente analogo all’atto inconscio di stabilire la differenza tra il vortice inconscio delle pul­ sioni e il campo del Logos in Schelling. Ecco come la psicoanalisi ci permette di rompere il circolo vizioso dell’oscillazione tra la Parola ‘disciplinante’ e la Voce divoratrice e ‘trasgressiva’: cioè focalizzando l’attenzione su una voce eccessiva che serve da gesto fondativo della stessa parola anicolata. Il che significa: che cos’è, per l’esattezza, l’articolazione? Una struttura ‘artificiale’. È sufficiente richiamare un perspicace dettaglio dell’analisi di Casablanca proposta da Umberto Eco: Victor Laszlo (Paul Henreid), eroe della Resistenza e marito di Ingrid Bergman, ordina un drink differente in ogni occasione (whisky, vermouth, li­ quore...). A prima vista questo aspetto non può che risuonare di­ scordante rispetto al ‘carattere’ ufficiale di questa persona (l’ascetico combattente per la libertà che sacrifica tutto alla Causa, e ovviamen­ te non ha tempo per piccoli piaceri privati). Se dovessimo conside­ rare l’unità e la coerenza psicologica di Laszlo, saremmo costretti a speculare sul lato oscuro, edonistico e decadente, di questo eroe della Resistenza. Come Eco sottolinea, tuttavia, il problema an­ drebbe affrontato da una prospettiva non-psicologica — gli sceneggia­ tori avevano semplicemente ammucchiato frammenti discorsivi di comportamenti differenti in situazioni differenti, e non erano certo preoccupati della coerenza psicologica della persona alla quale questi comportamenti erano attribuiti. Occorre qui fare un passo avanti e affermare che la stessa cosa accade anche alle persone ‘reali’-, il nostro comportamento non è ‘tenuto insieme’ da qualche atteggiamento psicologico coerente, ma esso consiste di un bricolage di frammenti eterogenei. Un riferimento a Bach potrebbe risultare d’aiuto per chiarifi­ care questo punto. L’aspetto straordinario del secondo movimento (Fuga) delle sonate di Bach per violino solo — specialmente la sua Sonata No. 1, BWV 1001 — è la polifonia melodica: più ‘voci’ sono inserite in un’unica linea melodica. Lo straordinario effetto di questo

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movimento (che viene perso nelle trascrizioni per organo) ruota sulla condensazione’ della moltitudine di voci in una sola linea sonora: l’ascoltatore è fin dall’inizio consapevole che suona solo uno stru­ mento (il violino). Si è tentati di sostenere che la polifonia melodica di Bach superi dialetticamente l’opposizione tra melodia ‘orizzon­ tale’ e polifonia ‘verticale’ — una moltitudine verticale è in qualche modo ‘proiettata’ su di un singolo asse orizzontale, come la procedu­ ra analoga di proiettare l’asse paradigmatico su quello sintagmatico nella parola poetica. Oswald Ducrot punta a qualcosa di simile con il suo concetto di struttura discorsiva ‘polifonica’:63 una singola linea di enunciazione contiene sempre una molteplicità di ‘voci’ che si le­ gano l’una all’altra nella modalità dell’interrogazione, degli ipertoni ironici, e così via - ciò che abbiamo qui è di nuovo Varticolazione> un soggetto la cui voce si condensa in un bricolage articolato. Lo shofar, tuttavia, ci ricorda l’impossibilità di passare direttamente dall’esperienza vitale immediata e pre-simbolica alla parola articolata: il ‘mediatore evanescente’ tra i due è la Voce stessa della morte, esemplificata dall’urlo dell’animale morente: Ogni animale ha nella morte violenta una voce, esprime sé come sé tolto. (Gli uccelli hanno il canto, di cui gli altri sono privi, poiché essi appartengono aH’clemento dell’aria - voce articolante, un sé più sciolto). Nella voce il senso torna indietro nel suo interno; esso è sé ne­ gativo, desiderio (Begierde). È mancanza, assenza di sostanza in se stesso...64

L’intimo legame tra linguaggio e morte è, naturalmente, un luo­ go comune filosofico con un lungo e venerabile pedigree-, di norma, a questo proposito si cita l’affermazione di Hegel secondo cui una parola è la morte di una cosa, che la cosa è ‘assassinata’ nel suo nome - quando dico ‘questo è un elefante’, sto perciò stesso sospendendo la presenza massiccia dell’animale, riducendola al suono etereo del suo nome. Qui, tuttavia, la distanza — lo iato che sempre separa le ‘parole’ dalle ‘cose’ - è già istituita; ciò che la canzone della morte 6i Si veda Oswald Ducrot, Le dire e le dit, Éditions de Minuit, Parigi 1984. M G.W.E Y\v.gva., Jenenser Realphilosophie II, Die Vorlesungen von 1805-806, J. Hoffmeistcr (cur.), Lipsia 1931 (nuova ed. invariata Jenaer Realphilosophie, Ambur­ go 1967) p. 161 [qui trad. da Giorgio Agamben, // linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982, p. 58].

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ci mette davanti, al contrario, è questa istituzione ‘nel suo diveni­ re’, come avrebbe detto Kierkegaard. Il che significa: affinché questa distanza venga istituita, il parlante stesso deve ‘morire’, ‘superarsi’, relazionarsi a sé in quanto morto. La canzone della morte designa questa fase intermedia unica quando la sostanza vitale non è ancora pienamente ‘superata’ [aufgehoben], quando il processo del morire si sta ancora svolgendo: è la traccia, l’avanzo, del morire del suo enun­ ciatore’, del passaggio da S a $, dal soggetto ‘patologico’ pieno al soggetto ‘barrato’ vuoto. Ciò che qui incontriamo è la differenza cruciale tra due modalità dello Spirito elaborate per la prima volta da Schelling: da un lato lo Spirito puro e ideale come medium di auto-trasparenza del pensie­ ro razionale; dall’altro, lo Spirito in quanto fantasma, apparizione spettrale. La voce dello shofar e/o della canzone della morte, sebbe­ ne già distaccata dal suo portatore e fornita di autonomia spettrale, non è ancora la voce in quanto medium trasparente del significato spirituale: essa ci pone di fronte al paradosso della ‘corporeità spiri­ tuale’ (Schelling) che, come il morto vivente, o il vampiro, mette in discussione la dualità di densità corporea e trasparenza spirituale.65 Precisamente in questo senso, la differenza Spirito/spettro si sovrap­ pone alla differenza freudiana tra due padri, il padre edipico morto che domina in quanto autorità simbolica di proibizione e l’osceno, primordiale padre-y^wwzzwce: lo shofar è la voce spettrale del padre osceno e primordiale che muore per cominciare a regnare come pro­ prio Nome, come agente dell’autorità simbolica.66 65 Si potrebbe anche dire che questa voce di animale morente attesti una pura intenzione-di-significare primigenia rispetto al senso anicolato - non più mero ri­ verberarsi insignificante, e tuttavia non ancora significato. (Si veda Giorgio Agam­ ben, Il linguaggio e la morte: un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 2008, pp. 27ss.). Questa differenza tra significato e intenzione-di-significare fu in­ trodotta per la prima volta nel De Trinitate di Sant’Agostino a proposito della nostra esperienza di una lingua straniera ‘mona’ (quando ascolto una parola straniera, so che essa significa - o almeno ha significato - qualcosa, ma non so cosa). È stato di nuovo Sant’Agostino a mettere in luce come questa esperienza incrementi il deside­ rio di imparare il vero significato della parola — in breve, questo significante ‘vuoto’ è il significante del transfert. Un fatale malinteso da evitare a ogni costo è quello di concepire questa esperienza semplicemente come secondaria, cioè di seguire l’in­ tuizione di senso comune secondo la quale la parola in questione possiederebbe ‘in origine’ il proprio significato: l‘intenzione-di-significarc precede il significato anche con lo stesso parlante, è un costituente intrinseco della dialettica del significato. 66 In un’analisi più dettagliata, si dovrebbe tracciare un parallelo con la nega­ tività del lavoro', in Hegel anche il lavoro, così come la parola articolata, comprende

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A proposito dello shofar — questo avanzo vocale del parricidio — Lacan compie uno dei suoi unici toursdeforce attraverso un semplice interrogativo: a chi è indirizzato il suono perturbante dello shofar? La risposta classica, naturalmente, sarebbe la seguente: coloro ai qua­ li tale suono è indirizzato sono gli stessi ebrei credenti, e cioè la sua funzione è quella di ricordargli il loro patto con Dio, la Legge divina cui sono obbligati a obbedire. Lacan, tuttavia, ribalta la questione: il vero destinatario dello shofar non è la comunità dei credenti, bensì Dio stesso.67 Quando gli ebrei credenti suonano lo shofar, essi inten­ dono ricordargli - che cosa? Che è morto. A questo punto, certamen­ te, l’orrore si muta in divina commedia — cioè si entra nella logica del famoso sogno freudiano (descritto ndXInterpretazione dei sogni) del padre che ‘non sapeva di essere morto’. Il Dio-Padre non sa di essere morto, ragione per cui agisce come se fosse ancora vivo e continua a molestarci nella forma di uno spentale Super Io; per questo motivo, occorre semplicemente ricordargli che è morto, che collasserà come il proverbiale gatto dei cartoni animati, che precipita non appena si rende conto della mancanza di terra sotto i propri piedi. Da questa prospettiva la funzione dello shofar è profondamente pacificatrice-. il suo rumore, per quanto orribile possa suonare, intende in realtà pacificare e neutralizzare la dimensione ‘pagana’ del Super io di Dio, intende cioè assicurare che Egli agirà come puro rappresentante del l’esperienza della negatività, è cioè una modalità di ‘indugiare nel negativo’ - il lavo­ ro e la parola sono due modalità del differimento dell’abisso del godimento-morte. 67 Individuare il vero destinatario del testo interpretato è forse il gesto fonda­ mentale dcirinterprctazionc psicoanalirica: la ‘repressione’ di cui bisogna disfarsi attraverso l’atto interpretativo non nasconde primariamente il significato; piuttosto, essa costruisce un falso destinatario (per esempio del lamento del paziente) al fine di offuscare quello reale. Un ottimo esempio di una tale interpretazione si trova in uno dei romanzi di Eric Stanley Gardncr con protagonista Perry Mason, nel quale il principale testimone di un omicidio, in presenza della fidanzata, descrive dettaglia­ tamente all'inquirente di polizia c a Mason ciò che è avvenuto al momento dell’as­ sassinio. Mason risolve il mistero nel momento in cui intuisce il vero destinatario di questo rapporto inaspettatamente dettagliato - la fidanzata. Il testimone (cioè il vero colpevole) non era stato in grado di incontrare privatamente la fidanzata prima della conversazione con la polizia c Mason; il vero scopo del suo racconto è dunque quello d’informarla della propria, contraffatta, versione dei fotti di modo che, quan­ do interrogati separatamente, entrambi possano riportate la stessa falsa storia... L’il­ lusione riguarda dunque lo status discorsivo, intersoggettivo della parola: ciò che pretende di essere una versione oggettiva degli eventi serve in realtà ad informare la partner della contraffazione degli eventi a cui dovrà aderire.

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Nome, di un Patto simbolico. Nella misura in cui lo shofar è as­ sociato al patto tra l’uomo e Dio, il suo suono serve da richiamo diretto a Dio a non venir meno al suo status di portatore del Patto simbolico, a non tormentarci troppo con le esplosioni di una jouissance traumatica e sacrificale. In altre parole, la condensazione di due caratteristiche nel suono dello shofar (lo spasmo sonoro del mo­ rente Padre-Godimento primordiale e la scena della proclamazione dei Dieci Comandamenti) richiama l’attenzione di Dio sul fatto che Egli può legittimamente regnare solo se morto.68 La voce in quanto ri chiamo/resto [reminder/remainder] del padre morente non è, come ovvio, qualcosa che può essere cancellato una volta che il regno della legge venga stabilito: è costantemente neces­ saria come inestirpabile supporto della Legge. Per questa ragione il suo riverbero fu udito quando Mosè ricevette da Dio i Comandamenti - vale a dire, proprio nell’istante in cui il regno della Legge (simbolica) veniva istituendosi (di ciò che Mosè fu in grado di di­ scernere come Comandamenti articolati, la folla in attesa ai piedi del monte Sinai apprese soltanto il continuo e disarticolato suono dello shofar): la voce dello shofar è un irriducibile supplemento della Legge (scritta). È solo la voce che conferisce alla Legge la dimensione per68 Si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro X: l’angoscia, Einaudi, Torino 2007, lezione del 22 Maggio 1963. Precisamente in questo senso, si potrebbe dire che lo shofar è una difesa contro la figura psicotica del padre che non è morto, che non agisce come rappresentante dell autorità simbolica e che per questo motivo impedisce il normale funzionamento dell’ordine simbolico. Il che significa che que­ st’ordine può funzionare normalmente solo se il nucleo primordiale della joitissance (il Ding freudiano) si pone come evacuata, ‘primordialmente repressa’: la parola anicolata circonda sempre il vuoto inaccessibile della Cosa. Per uno psicotico, al contrario, la propria parola articolata equivale direttamen­ te alla Cosa, il che comporta che il Simbolico precipiti nel Reale. Le conseguenze di questo conocircuito sono perfettamente esemplificate dal caso di Louis Wolfson, lo scrittore schizofrenico ebreo-americano che non era in grado di ascoltare o leggere la propria lingua ed era compulsivamente forzato a tradurre le proprie parole in un’altra lingua, ‘aliena’. In breve, egli intratteneva un rapporto incestuoso con la propria lingua, la quale rimaneva per lui una Cosa impossibile-reale, incestuosa - e dal momento che la cosa non era evacuata dalla lingua madre, essa infatti non pre­ vedeva alcuna fondamentale proibizione ma rimaneva semplicemente la sua Cosa, la proibizione si era situata sulla stessa lingua madre, conduccndo perciò alla coazione a tradurre. Abbiamo dunque a che fare con un caso esemplare di dislocazione psico­ tica della proibizione: la lingua che ignora la proibizione paterna diviene essa stessa oggetto di proibizione (Si veda Louis Wolfson, Le schizo et les langues, Gallimard, Parigi 1970).

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formativa, che la rende cioè operativa: senza questo supporto nella voce insensata (la voce in quanto oggetto), la Legge non sarebbe che uno scritto senza potere, senza capacità di obbligare nessuno. Attra­ verso lo shofar in quanto voce, la Legge acquista il proprio enuncia­ tore, si ‘soggettivizza, con ciò divenendo a tutti gli effetti un’autorità che obbliga. In altre parole, è l’intervento della voce che trasforma la catena significante in un atto di creazione. Ciò che è cruciale a proposito della shofar, quindi, è l’associa­ zione tra il suo suono e il momento traumatico, frantumato, delristituzione della Legge-, nella misura in cui si rimane all’interno del­ la Legge, la sua ‘origine’ è strido sensu impensabile — il ruolo della Legge presuppone cioè la ‘forclusione’ delle sue origini (‘illegali’); la sua efficienza performativa si basa sulla nostra accettazione di essa in quanto sempre-già data. All’interno del dominio della Legge, le sue impossibili ‘origini’ possono quindi essere presentate solo sotto forma di un vuoto, di un’assenza costitutiva; e il ruolo del fantasma, della narrazione fantasmatica delle origini, è precisamente quello di riempire questo vuoto.69 La Legge (scritta) necessita di questo sup­ plemento fantasmatico - in sua assenza, il vuoto nel cuore dell’edifi­ cio legale diventerebbe visibile e renderebbe perciò la legge inopero­ sa. Di conseguenza, la Voce sta alla Legge (scritta) come il fantasma sta alla struttura simbolica sincronica: in qualità di sostituto delle sue impensabili ‘origini’, essa riempie la sua costitutiva mancanza (e, allo stesso tempo, ne occupa lo spazio). Per questa ragione, presenza e assenza sono indissolubilmente intrecciati nello shofar. Questa voce è ‘il piccolo pezzo di reale’ che resta del Padre-Godimento pre-simbolico; come tale, essa richiama la presenza delle origini traumatiche della Legge. Dall’altro lato, la voce dello shofar testimonia dell’/wjew^w delle origini della Legge - il che significa che il suo rumore sordo è l’oggetto fantasmatico par excellence-. un puro sembiante, un oggetto la cui affascinante presenza rende il soggetto cieco di fronte alla radicale inconsistenza dell’ordi­ ne simbolico, un sostituto per il (e un segnaposto del) significante ultimo mancante, il quale garantirebbe la consistenza e l’autorità dell’ordine simbolico (il ‘grande Altro’). Qui risiede il paradosso in­ superabile segnalato dalla voce dello shofar: l’autorità simbolica è per definizione l’autorità del padre morto, il Nome-dei-Padre; ma se

69 Su 5' questa ‘forclusione’ costitutiva alle origini della Legge si veda il capitolo 5 di Slavoj Zizek, For Ihey Knotu Not Whar They Do, Verso, Londra 1991.

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questa stessa autorità intende entrare in vigore, essa deve fondarsi su un resto (fàntasmatico) del padre vivente, su un pezzo del padre che sopravvive all’omicidio primordiale. Possiamo ora vedere il preciso spazio strutturale dello strano suono dello shofar: esso ci permette di fuoriuscire dall’oscillazione tra la Parola disciplinante e l’auto-godimento divoratore della Voce attraverso l’esecuzione del resto del traumatico gesto fondativo del­ la Parola. Quindi, a un primo approccio, potrebbe sembrare che la lezione dello shofar sia semplicemente questa: il logos, la parola arti­ colata esercitante l’autorità simbolica, può dominare-superare la so­ stanza del godi-senso — cioè la voce ancora permeata dalla jouissance, solo procurandosi l’appoggio di un’altra voce, ancor più traumatica — la battaglia tra il logos e la jouissance eccessiva può essere vinta dal logos solo quando sia trasformata nell’immanente battaglia tra le due voci. Tuttavia, la questione permane: qual è la relazione specifica tra queste due voci, quale delle due è preminente? Il suono dello shofar, l’equivalente del lamento del padre morente, non è semplicemente un tipo di voce diverso dal godimento auto-divoratore di una canzo­ ne femminile, bensì la medesima voce in una differente modalità: le due sono ‘identiche’ nel senso preciso dell’identità speculativa hege­ liana. Qui stiamo trattando di due modalità dello scarto: resto ed ec­ cesso. Entrambe stanno ‘dallo stesso lato’, cioè quello del godimento contro il Logos. Il resto \remainder\ si rivolge verso il suo omonimico promemoria/richiamo \reminder\. In aritmetica il resto è l’ammontare che rimane quando un nume­ ro non può dividersi esattamente per un altro — quando la sostanza del godimento non può essere divisa (strutturata, articolata, contata) esattamente per la rete dei significanti. In qualche modo analogo, il suono dello shofar è il resto/richiamo oggettuale del Padre-/0w/rr#wtr morente: lo scarto del gesto fondativo della Legge, il suo resto indi­ visibile. La relazione tra il Logos e la voce femminile auto-divoratrice è, al contrario, la relazione tra un Ordine simbolico già-stabilito e la sua trasgressione: la voce femminile è eccessiva rispetto alla Legge. O — per dirla in modo leggermente diverso - lo spostamento dalla Voce eccessiva-divoratrice al riverbero dello shofar traspone la tensione tra la Legge e la sua trasgressione nella scissione interna al dominio della Legge stessa - il rapporto esterno della Legge con la sua trasgressione viene interiorizzato nel rapporto della Legge con il suo stesso trau­ matico gesto fondativo — come abbiamo già mostrato, il riverbero

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dello shofàr serve come una sorta di schermo fàntasmatico che indi­ ca il mistero delle origini ‘impossibili’ della Legge. Come non leggere le ‘formule della sessuazione’ di Lacan uesta identità offre inoltre un indizio su come concepire l’affermazione paradossale di Lacan, profondamente hege­ liana, secondo la quale ‘Donna è uno dei nomi del padre’: la femmi­ nilità è una mascherata, e quel che si incontra una volta strappata la maschera è la figura oscena del Padre-Godimento pre-edipico. Una prova indiretta di questo non è forse fornita dalia figura unica della Signora nell’amor cortese, questa dominatrice implacabile e capric­ ciosa? Non rappresenta forse questa Signora, proprio come il ‘padre primordiale’, il Godimento sciolto da qualsiasi Legge? La figura fantasmatica della Donna è perciò una sorta di ‘ritorno del represso’, del Padre-Godimento rimosso grazie al parricidio primordiale - vale a dire, ciò che torna nella sua voce seducente è il lamento del pa­ dre morente... Ci troviamo quindi all’esatto opposto dell’approccio New Age, con il suo riferimento standard alla presunta figura di una Donna ‘archetipica’ primordiale: secondo l’ideologia New Age, il Pa­ dre è un derivato, una sublimazione simbolica, un pallido riflesso della Donna primordiale, di modo che se un poco si grattasse via il volto dell’autorità simbolica paterna si ritroverebbero i contorni della Madre-Cosa. In breve, se per l’oscurantismo New Age il ‘Padre’ è uno dei nomi della Donna primordiale, della Madre-Cosa, per La­ can, al contrario, è la Donna a essere uno dei nomi del padre... Il modo usuale di interpretare male le formule della sessuazione di Lacan70 è la riduzione della differenza tra il lato ‘maschile’ e quello ‘femminile’ alle due formule che definiscono la posizione maschile, come se ‘maschile’ fosse la funzione fallica universale e ‘femminile’ l’eccezione, l’eccesso, il surplus che elude la presa della funzione falli­ ca. Tale lettura perde completamente di vista il punto di Lacan, cioè che proprio questa posizione della Donna come Eccezione (ad esem­ pio sotto forma della Signora dell’amor cortese) è il fantasma ma­ schile par excellence. Come caso esemplare dell’eccezione costitutiva della funzione fàllica si cita spesso la figura fantasmatica e oscena del 70 Su queste ‘formule della sessuazione’ si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino 2011.

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padre-jonisseur primordiale, che, non essendo ostacolato da alcuna Proibizione, era in tal modo pienamente in grado di godere di tutte le donne. Tuttavia, la figura della Signora nell’amor cortese non si adegua forse perfettamente a questa descrizione del padre primordia­ le? Non è forse anche, come si è appena visto, in modo analogo, un Padrone capriccioso che ‘vuole tutto’ - che, non essendo parimenti legata ad alcuna Legge, in maniera arbitraria e stravagante mette alla prova il suo cavaliere-servitore? Proprio in questo senso la Donna è ‘uno dei nomi del padre’. Il cruciale dettaglio da non perdere qui di vista è l’uso del plurale e la mancanza di lettere maiuscole: non il ‘Nome-del-Padre’, ma ‘uno dei nomi del padre’ — una delle nomina­ zioni di quell’eccesso chiamato ‘padre primordiale’.71 Nel caso della Donna — la mitica ‘Lei’, la Regina dell’omonimo romanzo di Rider Haggard, per esempio - così come nel caso del padre primordiale, si ha a che fare con un agente del Potere che è pre-simbolico, svincola­ to dalla Legge della castrazione; in entrambi i casi, il ruolo di questo agente fantasmatico è quello di riempire il circolo vizioso dell’ordine simbolico, il vuoto delle sue ‘origini’: ciò che la nozione di Donna (o quella di padre primordiale) fornisce è il punto di partenza mitico della pienezza svincolata la cui ‘primordiale repressione’ costituisce l’ordine simbolico.72 Una seconda interpretazione erronea consiste nel rendere il ‘pun­ golo’ delle formule della sessuazione ottuso mediante l’introduzione di una distinzione semantica tra i due significati del quantificatore ‘nino’ [tour]: secondo questa (fallace) interpretazione, il caso della funzione universale ‘tutto’ (o ‘non-tutto’) si riferisce a un soggetto singolare (x), segnala se ‘tutto di quello’ è inserito nella funzione 71 Nel campo della politica, la retorica populista offre un caso esemplare di un’eccezione che fonda l’universalità: ogni volta che prevale l’opinione che la po­ litica in quanto tale sia corrotta, infida, ecc., si può star ceni che ci sarà sempre un politico che cavalcherà questa sfiducia e proporrà se stesso come colui a cui concedere fiducia, come il rappresentante neutralc/apolitico dei reali interessi del popolo... 71 Incidentalmente, si può ben capire perche si è pienamente giustificati nel sostenere che il soggetto transessuale, installando la Donna nel posto del Nomedel-Padre, sconfessi la castrazione. Se si concorda con il luogo comune femministadecostruzionista secondo il quale la nozione psicoanalitica di castrazione impliche­ rebbe che la donna, non l’uomo, fosse castrata, allora ci si dovrebbe aspettare che, al contrario, nel momento in cui la Donna viene ad occupare il luogo dell’autorità simbolica, questo luogo venga marchiato dalla castrazione; se, tuttavia, teniamo a mente che sia la Donna che il padre primordiale sono ‘incastragli’, ecco che il mistero scompare immediatamente.

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fallica. Al contrario l’eccezione particolare (‘c’è uno ...’) si riferisce all’insieme dei soggetti e segnala se, all’interno di questo insieme, ‘ce n’è uno’ che è (o non è) interamente dispensato dalla funzione fal­ lica. Il lato femminile delle formule della sessuazione appare perciò testimoniare un taglio che scinde ogni donna dall’interno: nessuna donna è interamente dispensata dalla funzione fallica, e per questa ragione nessuna donna vi è interamente sottomessa - il che significa che c’è qualcosa in ogni donna che resiste alla funzione fallica. Sim­ metricamente, dal lato maschile, raffermata universalità si riferisce a un soggetto singolare (ogni soggetto maschile è interamente sotto­ messo alla funzione fallica) mentre l’eccezione si richiama all’insieme dei soggetti maschili (‘ce n’è uno’ che è interamente dispensato dalla funzione fallica). In breve, dal momento che un uomo è interamen­ te dispensato dalla funzione fallica, tutti gli altri sono interamente sottomessi a essa; e dal momento che nessuna donna è interamente dispensata dalla funzione fallica, nessuna donna, similarmente, vi è interamente sottomessa. Nell’un caso la scissione è ‘estrinsecata’ (rappresenta la linea di separazione che, all’interno dell’insieme ‘tutti gli uomini’, distingue quelli presi nella funzione fàllica da ‘quello’ che ne è dispensato); nell’altro essa è ‘interiorizzata’ (ogni donna sin­ gola è scissa dall’interno: parte di lei è sottomessa alla funzione fàllica e parte di lei ne è dispensata). Se vogliamo davvero assumere pienamente il paradosso delle formule della sessuazione lacaniane, tuttavia, occorre leggerle ben più ‘letteralmente’: la donna mette in discussione l’universalità della funzione fallica per il semplice fatto che in lei non v’è eccezione, nulla che vi resista. In altre parole, il paradosso della funzione fàllica risiede in una sorta di cortocircuito tra la funzione e la sua metafunzione: la funzione fàllica coincide con la sua stessa auto-limita­ zione, con la configurazione di Un’Eccezione non-fallica. Una tale interpretazione è prefigurata dai materni alquanto enigmatici scritti da Lacan sotto le formule della sessuazione, dove la donna (designa­ ta da una ‘La’ barrata) è scissa tra il grande Phi (del fallo) e S(A)> il significante del grande Altro barrato che rappresenta la non-esistenza/inconsistenza dell’Altro, dell’ordine simbolico. Ciò che non si dovrebbe mancare di notare è la profonda affinità tra Phi e S(A)> il significante della mancanza nell’altro - il fatto cruciale che Phi, il significante del potere fallico, del fallo nella sua affascinante presen­ za, semplicemente ‘dà corpo’ all’impotenza/inconsistenza del grande

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Altro. È sufficiente considerare un Leader politico: qual è il supporto ultimo del suo carisma? Il dominio della politica è per definizione incalcolabile, imprevedibile; una persona è incitata a reazioni appas­ sionate senza nemmeno sapere perché; la logica del transfert non può essere controllata, quindi ci si riferisce spesso al ‘tocco magico’, a un imperscrutabile je ne saìs quoi che non può essere ridotto a nessuna delle qualità ‘reali’ del Leader - sembra quasi che il Leader carismatico domini questa ‘x*, come se usasse la propria influenza laddove il grande Altro dell’ordine simbolico ne è incapace. Questa situazione è analoga alla nozione comune di Dio come persona, criticata da Spinoza: nel loro sforzo di comprendere il mon­ do attorno a loro attraverso la formulazione di una rete di connessio­ ni causali tra eventi e oggetti, le persone prima o poi raggiungono il punto nel quale la comprensione fallisce, incontra un limite, e ‘Dio’ (concepito come un saggio anziano e barbuto, ecc.) semplicemente ‘dà corpo’ a questo limite — si proietta sulla nozione di un ‘Dio’ personale la causa nascosta e impenetrabile di tutto ciò che non può essere capito e spiegato attraverso una chiara connessione causale. La prima operazione della critica dell’ideologia è perciò quella di rico­ noscere nella presenza affascinante di Dio il ‘riempitore’ degli spazi vuoti della struttura del nostro sapere - cioè quell’elemento sotto forma del quale la mancanza nel nostro sapere positivo acquisisce una presenza positiva. Penso che ciò sia in qualche modo analogo al ‘non-tutto’ femminile: questo ‘non-tutto’ non significa che la donna non sia interamente sottomessa al Fallo; piuttosto, esso segnala che è in grado di ‘vedere attraverso’ l’affascinante presenza del Fallo, che può discernere in esso il ‘riempitore’ dell’inconsistenza del grande Altro. Ancora un altro modo di dire la stessa cosa sarebbe questo: il passaggio da S(A) al grande Phi è il passaggio dall’impossibilità alla proibizione. S(A) rappresenta l’impossibilità del significante del grande Altro, per il fatto che non c’è nessun Altro dell’Altro’, che il campo dell’Altro è intrinsecamente incoerente; e il grande Phi ‘reifica’ questa impossibilità nell’Eccezione, in un agente proibito/ irraggiungibile ‘sacro’ il quale è in grado di evitare la castrazione e quindi di ‘godere veramente’ (il Padre primordiale, la Signora nell’amor cortese).73 73 Un fatto che - essendo un fatto negativo, qualcosa che I^ican non fa - aggira normalmente la nostra attenzione può essere qui addotto come prova ulteriore della nostra interpretazione delle formule della scssuazione: Lacan non lega la differenza

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La femminilità come mascherata

T) ossiamo ora vedere come la logica delle formule della sessuaA zione coincida in ultima istanza con quella del potere pubbli­ co e della sua intrinseca trasgressione:74 in entrambi i casi la caratte­ ristica cruciale è che il soggetto è effettivamente ‘dentro’ (intrappolato nella funzione fallica, nella rete del Potere) solo e precisamente nella misura in cui non si identifica pienamente con essa e mantiene una sorta di distanza rispetto a essa (pone cioè un’eccezione alla funzione fàllica universale; si concede all’intrinseca trasgressione della Legge pubbli­ ca); e, dall’altro lato, il sistema (della Legge pubblica, dell’economia fallica) è effettivamente compromesso da un’identificazione con esso senza riserve.75 Il racconto di Stephen King Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank affronta questo problema con grande rigore a proposito dei paradossi della vita in carcere. Il luogo comune sulla vita in carce­ re è che ci si integra effettivamente in essa, si viene rovinati da essa in modo tale che l’abitudine a essa divenga così insuperabile da rendere inimmaginabile la libertà, la vita al di fuori della prigione, tanto che sessuale all’opposizione tra linguaggio c falangite, di modo che il linguaggio (cioè la struttura differenziale c formale del grande altro simbolico) sarebbe ‘maschile’ e gli eccessi degli omonimie!, dei giochi di parole, ccc. che costituiscono falangite sareb­ bero ‘femminili’. Qui risiede la differenza tra l’opposizione di Lacan tra linguaggio e falangite e quella di Kristeva tra Simbolico e Semiotico, al di là di alcune similarità tra le due coppie: se Lacan avesse concepito il ‘non-tutto’ femminile come surplus, come eccesso che elude la Legge simbolica, allora falangite sarebbe effettivamente ‘femminile’; ma, stando le cose come stanno, falangite è strettamente non sessualizzata. 74 Si veda il capitolo 3 di Slavoj Éizek, The Metastasi of Enjoynient, Verso, Londra 1994. 75 Dal momento che, nella nostra società patriarcale, il predominio maschile è inscritto nell’ordine simbolico, l’affermazione secondo cui le donne sarebbero inte­ grate senza eccezione nell’ordine simbolico - cioè in un certo senso più pienamente degli uomini - non si porrebbe forse in contraddizione rispetto alla loro posizione subordinata all’interno di questo ordine? Non è forse più logico ascrivere la posizio­ ne subordinata a coloro che non sono pienamente integrati nell’ordine simbolico? L’esercizio del Potere, al contrario, implica sempre un residuo del Reale non-simbolizzato (sotto forma dell'impenetrabile je ne sais qttoi che si suppone contraddi­ stingua il carisma del Padrone, per esempio). Non è assolutamente accidentale che entrambi questi esempi dcH’Eccezione costitutiva , dell’elemento non integrato nel­ l’ordine simbolico (il padre primordiale, la Signora dell’amor cortese), implichino la figura di un Padrone estremamente crudele non limitato da alcuna Legge.

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un rilascio implicherebbe un cotale crollo psichico o, quantomeno, metterebbe in moto un desiderio per la sicurezza perduta della vita in prigione. La vera dialettica della vita in carcere, tuttavia, è in qual­ che modo più raffinata. La prigione distrugge davvero, produce una presa totale, proprio nel momento in cui non si acconsente piena­ mente all’idea di essere in prigione ma si mantiene una sorta di di­ stanza interiore verso essa, ci si aggrappa all’illusione che ‘la vera vita sia altrove’ e ci si abbandona tutto il tempo a sognare a occhi aperti la vita fuori, le belle cose che aspettano una volta rilasciati o fuggi­ ti. Si finisce perciò preda del circolo vizioso del fantasma, di modo che quando si viene finalmente rilasciati, il disaccordo grottesco tra la fantasia e la realtà risulta insopportabile. L’unica vera soluzione, perciò, è accettare pienamente le regole della vita in prigione e poi, all’interno di un universo dominato da queste regole, cercare una via per batterle. In breve, distanza interiore e sogni a occhi aperti sulla Vita Altrove incatenano veramente al carcere, mentre una piena ac­ cettazione del fatto che si è effettivamente lì, costretti alle regole della prigione, dischiude uno spazio di vera speranza.76 Il paradosso della funzione fallica (che inverte simmetricamente il paradosso del non-tutto femminile) è dunque che la funzione fal­ lica agisce come propria auto-limitazione, che essa pone l’eccezione a se stessa.77 E nella misura in cui la funzione fallica — cioè il signi­ ficante fallico - è il significante quasi-trascendentale, il significante 76 Questo paradosso indica la delusione che è l’oggetto proprio della psicoa­ nalisi, una delusione più raffinata di un semplice equivoco rispetto ad una falsa apparenza della cosa in sé. Quando, per esempio, si sogna a occhi aperti della virilità e della conquista, si è, naturalmente, sempre consci dell’illusorictà di queste fantasie - si sa molto bene che in realtà non lo ‘si farà’, che non si è veramente così’. La delusione risiede altrove: questo sognare a occhi aperti è uno schermo che fornisce un’immagine distona di se stessi - non solo delle proprie capacità, ma anche dei propri reali desideri. Se, nella realtà, si desse la possibilità di realizzare le proprie fantasie, ci si ritirerebbe subito spaventati da esse. A un livello ancor più complesso (nel caso dell'indulgere in fantasie sadiche, per esempio), la consapevolezza tran­ quillizzante che ‘si sta solo fantasticando', che non si è davvero così’, può facilmente nascondere fino a che punto il mio desiderio è determinato da queste fantasie... 77 Lo si può dire anche così: nella misura in cui il Simbolico si costituisce po­ nendo un ceno elemento come Cosa traumatica non-simbolizzabile, come sua co­ stitutiva Eccezione, il gesto simbolico par eccellence è il tracciare una linea di separa­ zione tra il Simbolico e il Reale; il ‘Reale’, al contrario, non è esterno al Simbolico in qualità di Sostanza che si sottrae alla simbolizzazione - il Reale è il Simbolico stesso in quanto ‘non-tutto’, cioè nella misura in cui manca di Eccezione costitutiva.

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dell’ordine simbolico in quanto tale, si può sostenere che questo pa­ radosso della funzione fallica semplicemente riveli la caratteristica fondamentale dell’ordine simbolico nella sua forma più pura, una specie di cortocircuito dei differenti livelli che appartengono al do­ minio della logica modale. Al fine di illustrare questa possibilità a priori del cortocircuito tra differenti livelli che riguardano l’ordine simbolico in quanto ordine di mandati-titoli simbolici, ci si conceda di richiamare l’opposizio­ ne padre/zio: il ‘padre’ in quanto autorità severa versus lo ‘zio’ in quanto compagnone che vizia. Il titolo, apparentemente insensato e contraddittorio, di ‘padre zio’ può tuttavia essere giustificato come designazione di un padre che non è pronto a esercitare la propria autorità paterna ma, invece, vizia la sua prole. A scanso di equivoci: lungi dall’essere una sorta di eccentrica eccezione, il ‘padre zio’ è semplicemente il quotidiano padre ‘normale’ che mantiene una certa distanza verso il suo mandato simbolico - che, pur sfruttando la sua autorità^ non perde occasione per ostentare cameratismo e strizzare di tanto in tanto l’occhio al figlio, lasciandogli intendere che, dopo­ tutto, pure lui non è che un uomo... Abbiamo qui a che fare con ur tipo di cortocircuito identico a quello che troviamo ne La storia dell, VKP(b), bibbia dello stalinismo, dove - tra altri numerosi lampi dell logica del significante - si può leggere che a un congresso del Partito ‘la risoluzione era stata unanimemente accettata a larga maggioranza - se la risoluzione era stata adottata unanimemente, dov’è la mino­ ranza (per quanto scarna) che si è opposta alla ‘larga maggioranza? Il modo per risolvere l’enigma di questo ‘qualcosa che non conta nulla’ sta, forse, nel leggere l’affermazione precedentemente citata come la condensazione di due livelli: i delegati stabiliscono a grande maggio­ ranza che la loro risoluzione deve considerarsi unanime... Il legame con la logica lacaniana del significante è qui evidente: la ‘minoranza’ che scompare misteriosamente in questa sovrapposizione enigmatica/assurda tra ‘maggioranza’ e ‘unanimità’ non è null’akro che l’eccezione che costituisce l’ordine universale dell’unanimità.78 La posizione femminile, al contrario, è definita dal rifiuto di questo cortocircuito - come? Prendiamo come punto di partenza il parados78 A un livello più generale, sarebbe produttivo elaborare il legame tra il Leader totalitario c l’arte della comicità assurda nella quale abbondano figure del Padrone capriccioso à la Ubu re di Jarry. Sarebbe cioè produttivo leggere Lewis Carroll con Samuel Goldwyn, i fratelli Marx con Stalin, ecc.

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so propriamente hegeliano della coincidentia oppositorum che carat­ terizza la nozione standard della donna: la donna è simultaneamente una rappresentazione, lo spettacolo par excellence, un’immagine che intende affascinare, attrarre lo sguardo, e un enigma, l’irrappresenta­ bile, ciò che elude a priori lo sguardo.79 Ella è tutta superfìcie, manca di profondità, e tuttavia è anche l’abisso impenetrabile. Per chiarire questo paradosso è sufficiente riflettere sulle implica­ zioni dello scontento che pervade un certo tipo di critica femminista che denuncia persistentemente ogni descrizione della ‘femminilità’ come cliché maschile, come qualcosa di violentemente imposto alle donne. La questione che immediatamente viene fuori è questa: cosa è, allora, l*‘in sé’ femminile offuscato dai cliché maschili? Il proble­ ma è che tutte le risposte (dal tradizionale eterno femminino’ a Ju­ lia Kristeva e Luce Irigaray) possono a loro volta essere condannate come cliché maschili. Carol Gilligan, per esempio,80 oppone ai valori maschili dell’autonomia, della competitività, e così via, i valori fem­ minili dell’intimità, deH’attaccamento, dell’interdipendenza, della cura e della preoccupazione, della responsabilità e deH’auto-sacrificio, e molti altri. Sono queste autentiche’ caratteristiche femminili o 'cliché' maschili sulle donne, cioè caratteristiche imposte alle donne dalla società patriarcale? La questione è indecidibile, così l’unica ri­ sposta possibile è: entrambe le cose allo stesso tempo’.81 79 La questione è elaborata dettagliatamente da Elisabeth Bronfen, Over Her Dead Body, Manchester University Press, Manchester 1992. s0 Si veda Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della perso­ nalità, Feltrinelli, Milano 1991. Un tale ‘sostanzialismo’ (questa parola è probabil­ mente più appropriata deU’usuale essenzialismo’) femminile funge spesso da tacito presupposto deH’argomcntazionc femminista. È sufficiente richiamare la rivendica­ zione standard secondo la quale una donna che partecipa alla repressione patriarcale (seguendo ideali maschili di bellezza femminile, dedicando la propria vita alla cura dei figli, ccc.) sarebbe eo ipso una vittima della manipolazione maschile e interpre­ terebbe un ruolo che le è stato imposto. Abbiamo qui a che fare con una logica strettamente analoga a quella deH’argomcnto vetero-marxista secondo cui la classe operaia sarebbe, data la propria oggettiva’ posizione sociale, ‘progressista’, in modo tale che quando gli operai sostengono il populismo di destra e anti-scmita, essi sa­ rebbero manipolati dalla classe dominante e dalla sua ideologia: in entrambi i casi, occorre affermare che non c’è alcuna garanzia sostanziale della natura ‘progressista’ delle donne o della classe operaia - la situazione è irriducibilmente antagonista c ‘apena’, il terreno di una indecidibilc lotta politica c ideologica. *' Questa ambiguità appartiene già alla diffusa nozione di femminilità che, in linea con la proposta di Gilligan, associa le donne all’intimità, alla capacità di iden­ tificarsi, alla spontaneità, in opposizione alle maschili distanza, riflessività, tendenza

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Il problema deve perciò essere riformulato in termini puramente topologici: rispetto al contenuto positivo, la rappresentazione ma­ schile della donna è identica alla donna in se stessa; la differenza riguarda soltanto il luogo, la modalità puramente formale della com­ prensione del medesimo contenuto (nel primo caso, questo conte­ nuto è concepito come esso è ‘per-l’altro’; nel secondo, come esso è ‘in-sé’) - questo slittamento puramente formale nella modalità, tuttavia, è cruciale. In altre parole, il fatto che ogni determinazione positiva di ciò che la donna è ‘in se stessa’ richiami alla memoria ciò che ella è ‘per l’altro’ (per l’uomo) non obbliga in nessun modo alla conclusione ‘maschile-sciovinista che la donna è ciò che è solo per l’altro, per l’uomo: ciò che resta è il taglio topologico, una differenza puramente formale tra il ‘per-l’altro’ e il ‘per-se-stessa’. Qui bisognerebbe richiamare il passaggio dalla coscienza all’auto­ coscienza della Fenomenologia dello Spirito di Hegel: ciò che si incon­ tra nell’Oltre sovrasensibile è, nel suo contenuto positivo, identico al mondo quotidiano terrestre; questo stesso contenuto viene mera­ mente trasposto in una differente modalità. Il punto di Hegel, tut­ tavia, è che sarebbe falso concludere da questa identità di contenuto che non ci sia alcuna differenza tra la realtà terrestre e il suo Oltre: nella sua dimensione originale, 1“Oltre’ non è un contenuto positive ma uno spazio vuoto, una sorta di schermo sul quale si può proiet­ tare qualsivoglia contenuto positivo — e questo spazio vuoto ‘e il soggetto. Nel momento in cui si diventa coscienti di questo, si passa dalla Sostanza al Soggetto, cioè dalla coscienza all’auto-coscienza.82 Specificamente in questo senso, la donna è il soggetto par excellence. La stessa conclusione può raggiungersi anche in termini schellinghiani - cioè nei termini della differenza tra il soggetto in quanto vuoto originale, privo di ogni ulteriore qualificazione positiva (in materni lacaniani: $), e le caratteristiche che questo soggetto assume, ‘si tira addosso’, che sono in ultima istanza artificiali e contingenti:83 è precisamente nella misura in cui la donna è caratterizzata da un’orial calcolo; allo stesso tempo, tuttavia, anche alla mascherata, alla finzione affettata in opposizione aH’aurenrica interiorità maschile - la donna è contemporaneamente più spontanea e più artificiale dell’uomo. 82 Cfr. G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, A. Novelli (trad.), RossiRomano, Napoli 1863, pp. 76-98. 85 Cfr. F.W.J. Schelling, Lezioni monachesi stilla storia della filosofia moderna, Laterza, Bari 1996, p. 81.

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ginaria ‘mascherata’, nella misura in cui tutte le sue caratteristiche sono artificialmente ‘tirate addosso’, che è più soggetto dell’uomo, dal momento che secondo Schelling ciò che alla fine caratterizza il soggetto è proprio questa radicale contingenza e artificialità di tutte le sue qualità positive, cioè il fatto che ‘lei’, in se stessa, sia un puro vuoto che non può essere identificato con nessuna di queste quali­ tà. Abbiamo dunque a che fare con uno spazio ritorto, curvo, come nella storia di Achille e la tartaruga: le rappresentazioni maschili (che articolano ciò che la donna è ‘per l’altro’) si avvicinano infinitamente alla donna-tartaruga, e proprio nell’istante in cui l’uomo scavalca con un balzo, sorpassa, la donna-tartaruga, ecco che si ritrova indietro dove già stava: all’interno delle rappresentazioni maschili su ciò che la donna è ‘in se stessa’ - l’‘in sé’ della donna è sempre-già ‘per l’al­ tro’. Non si può acchiappare la donna, non la si può raggiungere: si può soltanto o avvicinarla infinitamente o sorpassarla, proprio per il fatto che la ‘donna-in-se-stessa non designa alcun contenuto sostan­ ziale ma solo un taglio puramente formale, un limite mai raggiunto. Questo taglio puramente formale ‘è’ il soggetto in quanto $. Si è dunque nuovamente tentati di parafrasare Hegel: tutto ruota intorno alla concezione della donna non semplicemente come So­ stanza ma anche come Soggetto - cioè sul prodursi di uno sposta­ mento dalla nozione di donna come un contenuto sostanziale oltre le rappresentazioni maschili alla nozione della donna come puro taglio topologico che separa per sempre il ‘per-l’-altro’ dall“in-sé’. L’asimmetria della differenza sessuale risiede nel fatto che nel caso dell’uomo non si ha a che fare con il medesimo taglio, non si distin­ gue nello stesso modo tra il suo ‘in se stesso’ e il suo ‘per l’altro’ in quanto mascherata. Certo, è vero che il cosiddetto ‘uomo moder­ no’ è parimenti intrappolato nella scissione tra ciò che (gli sembra) l’altro (donna o ambiente sociale in genere) si aspetta da lui (essere un macho, ecc.) e ciò che egli effettivamente è in se stesso (debole, insicuro, ecc.). Questa scissione, tuttavia, è di natura fondamental­ mente diversa: l’immagine machista è esperita non come inganne­ vole mascherata ma come quell’io ideale verso cui tendere. Dietro l’immagine machista di un uomo non c’è alcun ‘segreto’ ma solo una debole persona ordinaria che non può vivere all’altezza del suo modello, mentre il ‘trucco’ della mascherata femminile è di presen­ tarsi in quanto maschera che nasconde il ‘segreto femminile’. In altre

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parole, al contrario dell’uomo, che semplicemente tenta di essere all’altezza della sua immagine - che si sforza di dare l’impressione di essere veramente ciò che pretende di essere - la donna inganna per mezzo dello stesso inganno; offre una maschera come maschera, come falso pretesto, proprio per provocare la ricerca del segreto che sta dietro la maschera.84

Elogio dell’isteria

uesta problematica della femminilità come mascherata ci permette anche di approcciarci in modo nuovo al tentativo del primo Lacan (dei tardi anni Cinquanta, ne ‘La Significazione del Fallo’) di concettualizzare la differenza sessuale come interna al­ l’economia fallica, come differenza tra ‘avere’ ed ‘essere’ (l’uomo ha il fallo, la donna è il fallo). Una critica che qui si leva immediatamente riguarda la dipendenza di questa differenza dall’ingenuo evoluzioni­ smo antropologista di Freud la cui premessa è che il primitivo ‘sel­ vaggio’ non ha un inconscio, dal momento che è inconscio (l’incon­ scio del nostro uomo civilizzato): il tentativo di concettualizzare la differenza sessuale per mezzo dell’opposizione di ‘essere’ e ‘avere’ non implica forse la subordinazione della donna all’uomo? La nozione di donna come stadio inferiore, meno ‘riflesso’, più ‘immediato’, non è in qualche modo simile alla nozione schellinghiana di progressio­ ne come passaggio dall’essere’ all’avere’? Vale a dire, nella filosofia di Schelling, (quello che precedentemente era) un Essere diventa il predicato di un Essere più elevato, (quello che precedentemente era) un Soggetto diventa l’oggetto di un Soggetto più elevato: un animale, per esempio, è immediatamente il suo Soggetto, ‘è’ il suo corpo vivente, mentre dell’uomo non si può dire che egli ‘sia’ il suo corpo, egli semplicemente ‘ha’ un corpo che è dunque degradato a suo predicato... M Possiamo ora notare come la nozione di femminilità in quanto masche­ rata sia strettamente corrispondente alla posizione della donna come ‘non-tutto’: la nozione di maschera implica che la maschera sia ‘non-tutto’ (si suppone che la maschera nasconda qualcosa dietro di lei); come abbiamo appena visto, tuttavia, dal momento che non c’è nulla, alcuna verità nascosta dietro la maschera, parimenti non c’è alcun elemento positivo, sostanziale estromesso dalla mascherata, che non sia una maschera - il nome per questo vuoto che non è nulla in se stesso ma che, nondimeno, rende ‘non-tutto’ il campo della maschera, è, naturalmente, soggetto in quanto vuoto ($).

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Tuttavia, come immediatamente attesta una lettura più precisa del testo di Lacan, l’opposizione che stiamo trattando non è quel­ la tra ‘essere’ e avere’ ma, piuttosto, l’opposizione avere!apparire', la donna non ‘è’ il fallo, ma semplicemente appare’ come fallo, e que­ sta apparenza (che, chiaramente, è identica alla femminilità come mascherata) indica una logica di adescamento e inganno. Il fallo può adempiere alla sua funzione solo se velato - nel momento in cui è svelato, non è più il fallo; quello che la maschera della femminilità nasconde, dunque, non è direttamente il fallo ma, invece, il fatto che non ci sia niente dietro la maschera. In una parola: il fallo è un puro sembiante, un mistero che dimora nella maschera in quanto tale. A questo riguardo, Lacan può affermare che una donna vuole essere amata per quello che non è, non per quello che ‘veramente è’: si offre all’uomo non in quanto se stessa, ma in quanto maschera.85 O - per dirla in termini hegeliani — il fallo non rappresenta un Essere imme­ diato ma un Essere che è solo nella misura in cui è per-l’altro, e cioè, per una pura apparenza. A questo proposito, il primitivo freudiano non ‘è’ immediatamente l’inconscio, è semplicemente l’inconscio per noi, per il nostro sguardo esterno: lo spettacolo del suo Inconscio (le passioni primitive, i rituali esotici) è la mascherata con la quale, come la donna con la sua mascherata, affascina il desiderio (nostro) dell’altro. Il lamento dello sfortunato milionario in un film di Claude Chabrol (‘Se solo potessi trovare una donna che mi ama solo per i miei milioni, e non per me stesso!’) è dunque così inquietante in quan­ to è espresso da un uomo, laddove dovrebbe essere espresso da una donna. L’uomo vuole essere amato per ciò che veramente è: questo è il motivo per cui lo scenario archetipico maschile del cimento nel85 «Ella intende essere desiderata e amata a un tempo per quel che non è» (Jac­ Einaudi, Torino 2002, Voi. II, p. 692). Il piccolo capolavoro di Edith Wharton // canto delle muse si può considerare una perfetta esemplificazione della tesi di Lacan. Viene narrata la storia di una donna che era la presunta musa di un famoso poeta morto - il suo grande amore e fonte di ispirazione. Quando il suo giovane amante scopre che lei non era sul serio il vero amore del poeta, continua ad aggrapparsi a lei, dal momento che egli la ama per ciò che veramente è, c non per laura che la circondava per il fatto di essere stata l’oggetto deH’amorc di un grande poeta; lei, tuttavia, lo rifiuta - lei vuole essere amata per quello che non è, c cioè come musa del poeta, non per quello che è veramente... Vedi Renata Salcd, “I Can’t Love You Unless I Give You Up”, in Renata Salecl e Slavoj Éizek, Gaze and Voice as Love Objects, Duke University Press, Durham 1996. ques Lacan, Scrini,

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l’amore della donna è quello del principe delle favole che prima di tutto si avvicina all’amata in guisa di umile servitore per assicurarsi che la donna si innamori di lui per quello che è, e non per il suo ti­ tolo principesco. Questo, tuttavia, è precisamente ciò che una donna non vuole - e questa non è un’altra conferma del fatto che la donna è più soggetto dell’uomo? Un uomo crede stupidamente che nel suo profondo ci sia, oltre al titolo simbolico, un contenuto più sostan­ ziale, un tesoro nascosto che lo rende meritevole di amore; mentre una donna sa che non c’è niente sotto la maschera - la sua strategia è precisamente di mantenere questo ‘niente’ della sua libertà fuori dalla portata dell’amore possessivo dell’uomo... Una recente pubblicità di birra trasmessa dalla televisione inglese ha racchiuso perfettamente questa asimmetria della relazione tra i sessi. La prima parte mette in scena il noto aneddoto della favola: una ragazza cammina lungo un ruscello, vede un rospo, lo porta gentilmente sul suo grembo, lo bacia e, naturalmente, il brutto ro­ spo si trasforma miracolosamente in un avvenente giovane. Tuttavia la storia non è ancora finita: il ragazzo lancia uno sguardo bramoso alla ragazza, la attira a sé, la bacia — e lei si trasforma in una bottiglia di birra che l’uomo tiene trionfalmente tra le mani... Per la donna, il punto è che il suo amore e il suo affetto (testimoniati dal bacio) trasformano un rospo in un bell’uomo, una piena presenza fallica (in materni lacaniani, il grande Phi); per l’uomo, è ridurre la donna a un oggetto parziale, la causa del suo desiderio (in materni lacania­ ni, l’objetpetit a). A causa di questa asimmetria, ‘non c’è relazione sessuale’: o abbiamo una donna con un rospo o un uomo con una bottiglia di birra — quello che non otteniamo mai è la coppia ‘natu­ rale’ della bella donna e del bell’uomo... Dunque, per concludere: due cliché devono essere evitati a proposito della natura isterica della soggettività femminile: • da una parte, la trattazione sprezzante del soggetto iste­ rico (femminile) come un confuso chiacchierone incapace di confrontarsi con la realtà e che perciò trova rifùgio in impo­ tenti gesti teatrali (un esempio preso dal campo del discorso politico: da Lenin in poi, i bolscevichi stigmatizzavano rego­ larmente i loro avversari politici ‘liberali’ come ‘isterici’ che ‘non sanno cosa vogliono veramente’);

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• dall’altra parte, la falsa elevazione dell’isteria a protesta da parte del ‘linguaggio del corpo’ della donna contro la do­ minazione maschile: per mezzo dei sintomi isterici, il soggetto (femminile) segnala il suo rifiuto ad agire come schermo vuo­ to o medium per il monologo maschile.

L’isteria deve essere compresa nella complessità della sua strate­ gia, come una protesta radicalmente ambigua contro l’interpellanza del Padrone che, allo stesso tempo, reca testimonianza del fatto che il soggetto isterico ha bisogno del Padrone, non può stare senza un Padrone, e in questo modo non c’è una via d’uscita semplice e diret­ ta. Per questa ragione, si dovrebbe evitare anche la trappola storicista di respingere la nozione di isteria in quanto appartenente a un’epoca passata, per cui oggi i disturbi borderline, e non l’isteria, sono le for­ me predominanti di ‘malcontento’ nella nostra civiltà. ‘Borderline’ è la forma contemporanea di isteria, e cioè del rifiuto del soggetto ad accettare la modalità predominante di interpellanza il cui agente non è più il tradizionale Padrone ma il ‘sapere esperto’ del discorso della Scienza. In breve, lo spostamento dalla classica forma di isteria ai disturbi borderline è strettamente correlativo allo spostamento dal tradizionale Padrone alla forma di Potere legittimato dal Sapere. Una ragione più che sufficiente per mantenere la nozione di isteria è che lo status del soggetto in quanto tale è fondamentalmente isterico. Vale a dire, quando Lacan afferma che la definizione più succinta di soggetto è ‘ciò che non è un oggetto’, l’apparente banalità di questa dichiarazione non ci deve trarre in inganno: il soggetto — nel preciso senso psicoanalitico di soggetto del desiderio - esiste solo nella misura in cui rimane aperta la questione su cosa è lei per l’Altro in quanto oggetto, cioè, si è un soggetto nella misura in cui la perplessità radicale persiste per quanto riguarda il desiderio dellAltro, per quanto riguarda ciò che l’Altro vede (e trova meritevole di desi­ derio) in me. In altre parole, quando Lacan dichiara che non c’è de­ siderio senza un oggetto-causa, questo non corrisponde alla banalità per cui ogni desiderio è unito al suo correlativo oggettivo: ‘l’oggetto perduto’ che mette in moto il desiderio del soggetto è in definitiva il soggetto femminile stesso, e la mancanza di dubbio riguarda la sua (di lei) incertezza relativamente al proprio status verso il desiderio dell’Altro. In questo preciso senso, il desiderio è sempre desiderio dell’Altro: il desiderio del soggetto è il desiderio di accertare il pro­ prio status, cioè di essere l’oggetto del desiderio dell’Altro.

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Lo status del lacaniano 'Che vuoi?" è dunque radicalmente ambi­ guo. Da una parte, esso promana dall’Altro - vale a dire, rappresenta la domanda che il grande Altro (l’analista) indirizza al soggetto (iste­ rico) il cui desiderio è contraddittorio e, in quanto tale, auto-ostacolante: ‘Cosa vuoi veramente? Vuoi veramente ciò che stai dicen­ do di volere?’ Dall’altra parte, 'Che vuoi? articola la perplessità del soggetto stesso messo di fronte a un impenetrabile Altro che vuole qualcosa da lui, sebbene il soggetto non sia mai capace di accertare cosa sia realmente questo qualcosa (la costellazione di base dei gran­ di romanzi di Kafka) - cosa vuole l’Altro da me? E il fatto che ‘il desiderio del soggetto è il desiderio dell’altro’ significa precisamente che queste due forme sono co-dipendenti: io, il soggetto, non so mai quello che veramente voglio, dal momento che il desiderio dell’Altro rimane per sempre un enigma per me... Questo è il circolo vizioso dell’isteria: da una parte l’isteria è se­ condaria, una reazione contro l’interpellanza, un’interpellanza falli­ ta, un rifiuto dell’identità imposta al soggetto dalla forma predomi­ nante di interpellanza, una messa in discussione di questa identità (‘Sono davvero ciò che dici che sono?’); su di un altro livello, più fondamentale, tuttavia, l’isteria è primaria, articola l’incertezza ra­ dicale e costitutiva su ciò che, come oggetto, io sono per l’altro; e l’identità simbolica che mi è stata conferita tramite interpellanza è una risposta, una via d’uscita dallo stallo dell’isteria. In altre parole, si potrebbe dire che l’isteria esprime il rifiuto del soggetto femminile del predominante ordine simbolico patriarcale, la messa in discussio­ ne dell’autorità del Nome-del-Padre; tuttavia, si dovrebbe allo stesso tempo affermare che questa autorità simbolica paterna emerge essa stessa per rendere invisibile, per ‘riqualificare’ Vimpasse dell’isteria. O — per dirlo in modo ancora più penetrante — non è che ‘la Donna non esiste’ perché, a causa della ‘repressione’ patriarcale, non le è permesso esprimersi liberamente e costituire una sua piena identità simbolica, piuttosto è il contrario - l’autorità simbolica patriarcale emerge per ‘riqualificare’ lo scandalo de ‘la Donna non esiste’, per vincolare il soggetto femminile a un determinato posto nella strut­ tura simbolica. 11 lacaniano ‘la Donna non esiste’ è dunque completamente di­ verso dall’anti-essenzialismo costruzionista di Foucault secondo cui non c’è la Donna come essenza eterna, dal momento che l’identità sessuale femminile è il risultato di molteplici pratiche storiche di-

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scorsive e di potere: non c’è Sesso, c’è solo la sessualità come cam­ po eterogeneo di pratiche che producono il miraggio del Sesso... In chiaro contrasto con l’affermazione del carattere ‘costruito’ della identità sessuale femminile, il lacaniano ‘la Donna non esiste’ signi­ fica precisamente che la ‘donna non può essere costruita', la ‘donna è un’entità la cui costruzione simbolica fallisce necessariamente, al contrario dell’uomo’, che invece esiste - cioè, può essere costrui­ to (nel senso logico del termine, dal momento che c’è un limite, un’eccezione, che permette questa costruzione). Il punto di Lacan, ovviamente, è che questo ‘meno’ è ‘piu: dire che la ‘donna non può essere costruita equivale a dire che lo status del soggetto è femminile — ciò che elude la costruzione logica, lo scoglio dell’impossibilità su cui naufraga la costruzione simbolica, è precisamente il soggetto in quanto $, la mancanza nella catena significante.

Dal punto di vista althusseriano (il cui rigore teoretico non va sottovalutato), è possibile costruire un contro-argomento ben strut­ turato alla tesi lacaniana secondo cui l’interpellanza da ultimo fallisce sempre, vale a dire, che il soggetto non si riconosce mai pienamente nella chiamata interpellante; e che questa resistenza all’interpellanza (all’identità simbolica fornita dall’interpellanza) è il soggetto. Lo sta­ tus del soggetto in quanto tale è isterico; il soggetto mantiene sempre un minimo di ‘distanza interiore’ nei confronti degli apparati e dei rituali in cui l’ideologia acquisisce esistenza materiale - il suo atteg­ giamento verso questa esteriorità è sempre un ‘io non sono quello’ (il mio vero io non dipende da questo stupido meccanismo); l’identi­ ficazione ideologica è sempre, per così dire, un’identificazione a dita incrociate... Questa distanza isterica verso l’interpellanza, tuttavia, non è forse la vera forma del misconoscimento ideologico? Questo apparente fallimento dell’interpellanza, il suo disconoscimento auto-riferito - il fatto che io, il soggetto, esperisco il nucleo più intimo del mio essere come qualcosa che non è ‘semplicemente quello’ (la materia­ lità dei rituali e degli apparati) - non è forse la fondamentale prova del suo successo, vale a dire, del fatto che TefFetto-del-soggetto’ ha davvero avuto luogo? E nella misura in cui il termine lacaniano per questo nucleo più intimo del mio essere è objetpetit a, non è legitti-

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mo dichiarare che questo objetpetit a, il tesoro segreto, \ agalma, è il sublime oggetto dell’ideologia — la sensazione che c’è ‘qualcosa in me che è più di me stesso’ che non può essere ridotto ad alcuna delle mie determinazioni simboliche esteriori, cioè, a ciò che sono per gli altri? Questa sensazione di una ‘profondità’ insondabile e inesprimibile della mia personalità, questa ‘distanza interiore’ verso ciò che sono per gli altri, non è forse la forma esemplare della distanza immagi­ naria verso l’apparato simbolico? Ivi risiede la dimensione cruciale dell’^r-jw/^ ideologico: non nella mia identificazione diretta col mandato simbolico (una tale identificazione diretta è potenzialmente psicotica, mi trasforma in una ‘bambola meccanica senza profondi­ tà’, non in una ‘persona vivente’) ma nella mia esperienza del nucleo del mio Io come qualcosa che pre-esiste al processo di interpellanza, come soggettività prima dell’interpellanza. Il gesto anti-ideologico par excellence è dunque l’atto di ‘destituzione soggettiva’ per mez­ zo del quale io rinuncio al tesoro che è in me e ammetto del tutto la mia dipendenza dall’esteriorità degli apparati simbolici - assumo pienamente il fatto che la mia stessa auto-esperienza di un soggetto il quale era già qui prima del processo esteriore di interpellanza sia un misconoscimento retroattivo determinato proprio da quel processo di interpellanza...86 Per fornire una risposta lacaniana a questa critica, è necessario introdurre la distinzione tra il soggetto come puro vuoto della nega­ tività auto-riferita ($) e il contenuto fàntasmatico che riempie que­ sto vuoto (la ‘stoffa dell’io’, come dice Lacan). Vale a dire: il vero scopo del processo psicoanalitico è, chiaramente, indurre il soggetto a rinunciare al ‘tesoro segreto’ che forma il nucleo della sua identi­ tà fantasmatica; questa rinuncia aW'agalma, ‘all’attraversamento del fantasma [traversée dii fantasme]', è strettamente equivalente all’atto di ‘destituzione soggettiva. Tuttavia, il soggetto prima dell’interpellanza-soggettivizzazione non è questa immaginaria profondità fan­ tasmatica che presumibilmente precede il processo di interpellanza, ma l’esatto vuoto che resta una volta che lo spazio fantasmatico sia svuotato del suo contenuto - quando, cioè, per parafrasare Un coup de dés di Mallarmé, nulla ha luogo se non il luogo stesso. Il processo di interpellanza riempie uno spazio vuoto che deve essere già qui se questo processo deve aver luogo. 86 Devo questa formulazione della contro-argomentazione althusseriana a Ro­ bert Pfaller (comunicazione personale, 21 marzo 1995).

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‘Il desiderio è il desiderio dell’Altro’ f I ’utti al giorno d’oggi, persino coloro che diversamente ecJL cellono nell’arte di deridere Lacan, ripetono con lui in un modo o nell’altro che ‘il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro’. Ciò che questo rimando ordinario non riesce a mettere in evidenza non è solo il preciso luogo in cui si trova una tale affermazione nel­ l’opera di Lacan (nel mezzo della discussione sul desiderio dell’iste­ rico, il che significa che per Lacan il ‘desiderio di desiderare’ isterico, anziché essere una modalità difettiva del desiderio è piuttosto il suo caso paradigmatico, il desiderio tout court), ma anche il fatto che esso deve essere letto in tre modi, in accordo con la triade I-S-R: • ^immaginario è l’imitazione del mio prossimo, che serve da mio ego ideale: ‘io voglio ciò che lui vuole’, cioè, io deside­ ro un oggetto solo nella misura in cui è l’oggetto del desiderio dell’altro. Qui il desiderio è fondato sull’invidia, sulla rivalità tra me e il mio doppio-competitore: su ciò a cui Lacan si rife­ risce come ‘identificazione con ['imago del simile e il dramma della gelosia primordiale’.87 • Al livello simbolico, ‘il desiderio dell’Altro’ deve essere letto sia come genitivus subjectivus sia come genitivus objectivus. In primo luogo, c’è la dialettica del riconoscimento in cui il desiderio dell’altro è l’oggetto del mio desiderio: quello che desidero deve essere desiderato-riconosciuto dall’altro (‘il suo primo oggetto [del desiderio] è di essere riconosciuto dall’al­ tro’).88 In secondo luogo, ‘egli [il soggetto] desidera in quanto Altro’89 — cioè, quello che desidero è predeterminato e deciso nell‘Altrove dell’ordine simbolico anonimo-transoggettivo, è ‘mediato’ dalla rete simbolica della tradizione culturale a cui appartengo. Il ‘grande Altro’ prescrive al soggetto la matrice del suo desiderare, incluse le possibili forme di ‘trasgressione’: ‘il desiderio è presente nel soggetto a condizione, impostagli dall’esistenza del discorso, di far passare il suo bisogno per i défilés del significante’; e l’Altro — l’ordine simbolico trann Jacques Lacan, Scrini, cit., Voi. I, p. 92. M Ivi, p. 261. 89 Jacques Lacan, Scritti, cit., Voi. II, p. 817.

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soggettivo - è precisamente ‘il luogo del dispiegamento della parola’.90 Quello che incontriamo qui, in questa dualità di genitivus subjectivus e genitivus objectivus è, ovviamente, la so­ lidarietà antagonistica tra il Lacan dell’intersoggettività hege­ liana e il Lacan ‘strutturalista. • Tuttavia, quando Lacan afferma che ‘la questione dellAl­ tro, che ritorna al soggetto dal posto dove questi ne attende un oracolo, nella formulazione di un “Che vuoi?\ è quella che meglio lo conduce alla strada del proprio desiderio’,91 egli mira a qualcosa di ancora più importante: l’enigma del de­ siderio dell’Altro nella sua impenetrabilità (per quanto esso elude la simbolizzazione) — in breve, il desiderio dell’Altro mi mette di fronte all’opacità del Reale impossibile che resiste alla simbolizzazione. 11 punto di Lacan è che io posso assumere del tutto il divario che costituisce il mio desiderio solo tramite il confronto con l’enigma del desiderio dell’Altro. Quando, negli ultimi anni del suo insegnamento, Lacan ha concesso tale ruolo di cardinale importanza al desiderio dell’analista, l’analista non era più concepito come il rappresentante privi­ legiato del grande Altro (l’ordine simbolico); ciò a cui Lacan si riferisce come ‘presenza dell’analista’, invece, rappresenta l’enigma del desiderio in quanto tale: il desiderio dell’analista non è il desiderio per qualcosa di determinato (per esempio, una interpretazione corretta) ma una sorta di desiderio ‘bian­ co’ che emerge quando io incontro un Altro i cui bisogni reali non sono chiari, sebbene sembri volere qualcosa da me, come l’autorità misteriosa che indirizza il soggetto nei romanzi di Kafka (//processo, Il castello).

Ciò che da questa triade immediatamente segue sono le tre pos­ sibili fondazioni dell’etica:

• L’etica dell’immaginario è fondata sul riferimento a qual­ che Bene supremo nella sua intera estensione, dal più volgare’ piacere utilitario all’immersione contemplativa nella sostanza divina — rifiutando questa etica, Lacan si comporta da buon Ivi, p. 624. ” /w.p. 817.

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leninista. Vale a dire, uno dei tratti inconfondibili dello stile di Lenin era che quando si trovava davanti a una categoria borghese ‘formale’, la respingeva sempre con una domanda maligna circa il suo contenuto concreto e il contesto del suo soggetto di enunciazione: ‘Libertà - per chi? Di fare cosa? Lacan indirizza la stessa domanda ai filosofi che sostengono un’etica del bene: ‘Per il bene di chi?’92 Non c’è alcun Bene neutrale; ogni determinazione positiva del ‘Bene’ ci invischia in un inevitabile stallo. • Il criterio minimo dell’etica del Simbolico è la priorità della giustizia sopra ogni forma di Bene: il proprio dovere è definito dalla Legge morale che prescrive quello che andrebbe fatto. Ciò di cui ci stiamo occupando qui è l’etica della Pa­ rola: devo obbedire alla legge morale, seguire la sua parola, a prescindere dalle mie inclinazioni ‘patologiche’, persino se va contro il mio (o di chiunque altro) Bene o benessere. • L’etica del Reale, infine, mette in gioco la Legge morale nel suo aspetto impenetrabile, come un’autorità che accresce l’angoscia rivolgendosi a me con l’ingiunzione vuota e tau­ tologica (e proprio per questo enigmatica): ‘Fa’ il tuo dove­ re!’, lasciando a me il compito di tradurre questa ingiunzione in un determinato obbligo morale — Io, il soggetto morale, rimango afflitto sempre dall’incertezza, dal momento che la Legge morale non fornisce garanzie sul fatto che ‘ho capito bene’...

Si può dunque ‘salvare’ Kant dalla tradizionale critica hegeliana riguardo alla natura puramente formale dell’imperativo categorico: secondo questa critica, la forma astratta dell’imperativo è il rovescio dell’effettivo asservimento del soggetto morale kantiano al conte­ nuto empirico, contingente - per lui il solo modo di passare dall’obbligo astratto di fare il proprio dovere a un dovere concreto ed effettivo è di guardarsi intorno all’interno del contenuto ‘patologico’ 92 «...se bisogna fare le cose per il bene, in praticaci si ritrova sempre a chieder­ si per il bene di chi. Da questo momento in poi le cose non vanno da sé» (Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2008, p. 370).

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contingente della propria vita-situazione concreta. È proprio questa apparente debolezza dell’imperativo categorico, tuttavia, a spiegare il suo effetto irresistibile: l’ingiunzione dell’imperativo categorico è incondizionata nel senso che è vuota-tautologica. Questo vuoto segnala che il soggetto morale è pienamente responsabile della tra­ duzione dell’imperativo categorico in un concreto obbligo morale. In questo preciso senso, si potrebbe arrischiare un parallelo con la Critica del giudizio di Kant: la formulazione concreta di un determi­ nato obbligo morale ha la struttura di un giudizio estetico, e cioè di un giudizio in virtù del quale, invece di applicare semplicemente una categoria universale a un oggetto particolare o di includere questo oggetto sotto una determinazione universale già-data, io invento, per così dire, la sua dimensione universale-necessaria-obbligatoria, e con ciò elevo questo oggetto particolare-contingente (l’atto) alla dignità della Cosa etica. Per questo motivo c’è sempre qualcosa di sublime quando si tratta di pronunciare un giudizio che definisce il nostro dovere — in esso, io ‘elevo un oggetto alla dignità della Cosa’ (la defi­ nizione di Lacan della sublimazione). Quello che incontriamo qui è l’inaspettato rovescio — di solito passato sotto silenzio - della proibizione kantiana rispetto al nostro chiamare in causa circostanze esterne oppure la debolezza umana come scusa per il fatto di non compiere il nostro dovere (‘so che do­ vrei farlo, ma che ci posso fare? Sono semplicemente troppo debole, tale è la mia natura...’): ci viene anche proibito di invocare le circo­ stanze (per esempio, la pressione della voce della coscienza) come pretesto per compiere il nostro dovere — vale a dire, anche in que­ sto caso porto tutto il peso della responsabilità per ciò che dichiaro come mio dovere-impegno etico, così che non mi è permesso dire: ‘Mi dispiace, so che è stato spiacevole, ma non ho potuto farne a meno, la legge morale mi ha imposto quell’atto come mio dovere in­ condizionato!’ Secondo Lacan, l’analista autorizza se stesso, per mez­ zo del suo atto, senza alcuna garanzia da parte nel grande Altro (della comunità psicoanalitica, della conoscenza teoretica che possiede...) — e lo stesso vale per il soggetto etico kantiano, che pure ‘autorizza se stesso’ nel senso che è pienamente responsabile per ciò che riferisce come suo dovere. In breve, per portare il discorso agli estremi — e cioè alla tautologia: il dovere non può servire da scusa per fare il no­ stro dovere. Dunque Kant di fatto non è un perverso: quello che gli è completamente estraneo è, per esempio, l’atteggiamento perverso

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di un comunista stalinista che giustifica il suo terrore dichiarando di star semplicemente adempiendo alla necessità storica - una condotta perversa è immorale nella misura in cui la responsabilità viene trasfe­ rita sul grande Altro (‘le leggi della storia’, ecc.) e si dichiara di agire soltanto come suo strumento.93 È pertanto sbagliato considerare l’imperativo categorico kantia­ no come una sorta di matrice formale la cui applicazione a un caso concreto solleva il soggetto morale dalla responsabilità di prendere una decisione: io non sono sicuro se compiere l’atto X sia il mio do­ vere o no. Nessun problema - lo metto alla prova sottoponendolo al doppio criterio formale implicato dall’imperativo categorico (Que­ sto arto può essere universalizzato? Considera gli altri esseri umani anche come fini in sé, e non solo come mezzi?), e se l’atto X supera la prova, so dove si situa il mio dovere... L’intero senso dell’argomen­ tazione kantiana è l’esatto opposto di questa procedura di verifica automatica: il latto che l’imperativo categorico sia una forma vuota significa precisamente che esso non può fornire alcuna garanzia con­ tro un giudizio sbagliato sul nostro dovere (in questo preciso senso, la forma vuota dell’imperativo coincide con il suo opposto, la pura w Esiste nondimeno un’affinità profonda tra l’universo morale kantiano e l’universo della perversione sadiana; forse l’argomento più convincente può essere sostenuto mettendo a fuoco l’intrinseca inconsistenza del postulato kantiano dell’immonalità dell’anima nella Critica della ragion pratica. Secondo Kant, l’azione morale ‘ha senso’ solo se il suo fine, la perfezione del soggetto morale, può essere davvero raggiunta; tuttavia, dal momento che non è possibile raggiungere la perfe­ zione nella nostra esistenza corporea, finita e mortale, dobbiamo postulare l’immor­ talità dell’anima - se il soggetto deve perseguire la battaglia per la perfezione morale, deve sopravvivere alla sua vita terrena... È facile riconoscere la fallacia del ragionamento di Kant: come egli stesso sot­ tolinea, l’azione morale ‘ha senso’ solo negli esseri finiti, e cioè negli esseri che, sebbene razionali, sono anche intrappolati nell’universo fenomenico c hanno un’esi­ stenza corporea spazio-temporale. Il postulato dell’infinito approccio asintotico al­ l’ideale della perfezione etica non richiede pertanto l’immortalità dell’anima ma, al contrario, l'immortalità del corpo - ed è precisamente tale fantasma di un corpo immortale-indistrurtibilc che troviamo in de Sade, nel cui universo letterario la vittima può essere abusata e torturata ad infinitum, ma ciononostante rimane viva e mantiene persino la propria bellezza in maniera miracolosa, come se al di sotto del suo corpo terreno e ordinario, catturato nei ‘destino di tutta la carne’, nel processo di corruzione c generazione, ella possedesse un altro corpo, sublime, etereo, indi­ struttibile... Vedi Alenka Zupanóió, “The Two Faces of Achillcs: Don Juan and ‘Kant with Sade’”, in On Radicai Evil (S Scrics, voi. 2), Joan Copjec (cur.), Verso, Londra 1995.

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mancanza di forma). La struttura dell’imperativo categorico è tauto­ logica nel senso hegeliano della ripetizione dell’uguale che colma e allo stesso tempo annuncia quell’abisso che fa sorgere un’insopporta­ bile angoscia: ‘Il tuo dovere è... [fare il tuo dovere]!’ E facile giocare a tentar di fornire una minima definizione positiva dell’atto etico; nel caso di un uomo, per esempio, il miglior candidato probabilmente è ‘Vestiti come una donna e suicidati in pubblico’.94 Ma qualsiasi cosa facciamo, la facciamo sempre per colmare l’abisso della tautologia che risuona nelle parole ‘Fa’ il tuo dovere!’95

M Due formidabili esempi nel cinema sono Omicidio!di Hitchcock c M. Butterfly di Cronenbcrg. 95 È da qui che si dovrebbe partire per avvicinarsi al complesso problema della relazione tra Kant c Kierkegaard. Il ‘religioso’ in Kierkegaard c sorprendentemente vicino all* etico* in Kant: lo ‘stadio religioso’ kierkegaardiano e la ‘legge morale’ kan­ tiana puntano entrambi allo stesso nucleo traumatico, eppure entrambi lo mancano nel loro modo specifico. In entrambi i casi, il soggetto incontra una richiesta impos­ sibile a cui non ci si può conformare a priori (Kant sottolinea come non si può mai escludere in nome di un auto-compiacimento la possibilità che qualche motivazione patologica nascosta fosse all’opera in ciò che si presenta come l’atto etico compiuto per il dovere; in modo strettamente analogo, Kierkegaard era perennemente roso dal dubbio riguardante la sua fede - non posso mai essere abbastanza sicuro di credere veramente; tutto quello che posso dire è che credo di credere; al punto che verso la fine della sua vita Kierkegaard stesso fu costretto ad ammettere di non essere un credente...). L’inverso di questa prossimità sta nel fatto che in Kierkegaard l’etico’ coincide con ciò che Kant liquidava come la comune concezione ‘patologica’ della religione il cui assunto fondamentale è che io compio buone azioni perché so che Dio mi ricompenserà nell’aldilà, e cioè come pane di uno scambio con Dio. La differenza tra Kant c Kierkegaard che immediatamente balza agli occhi, ov­ viamente, è che la chiamata del dovere in Kant è universale, riguarda ogni essere razionale; mentre in Kierkegaard, la chiamata di Dio è indirizzata solo ai pochi che sono stati scelti da ciò che a noi, comuni mortali, non può che apparire come una decisione imperscrutabile e contingente; tuttavia, l’affermazione di Kant della legge morale come fatto inesplicabile della ragion pura non rappresenta forse una omolo­ ga contingenza nella fondazione stessa dell’etica? Il rifiuto radicale di Kant a fondare l’etica in riferimento a qualsiasi tipo di Bene sostanziale riappare in Kierkegaard sotto forma di differenza tra fede c virtù: l'opposto delpeccato è la fede, non la virtù. La virtù è una nozione pre-cristiana, appartiene all’era pagana quando, dal momen­ to che la Rivelazione non aveva ancora avuto luogo, il peccato in quanto tale era un’entità sconosciuta strido sensir, in stretta analogia col rifiuto kierkegaardiano del­ la virtù, Kant deprezza ogni forma di sforzo compassionevole per il Bene del nostro prossimo come eticamente irrilevante. Per Kierkegaard, il ‘peccato’ enfaticamente non dipende dall’immediato contenuto dei nostri atti, non si riferisce direttamente alle orribili azioni di un peccatore - riguarda solamente il rifiuto della fede; lungo la stessa linea, per Kant, un’azione non etica’ è definita non dal suo contenuto imme-

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Qui, tuttavia, sembriamo inciampare nuovamente nel vecchio rimprovero dell’etica lacaniana: la Legge etica non viene con ciò ri­ dotta a un’autorità superegoica che ci rende colpevoli a priori? Non è questo il caso in cui qualsiasi contenuto positivo avanziamo come nostro concreto obbligo etico, non riusciamo mai del tutto a placare l’angoscia che si annuncia nel vuoto che si spalanca nel cuore stesso del ‘Fa’ il tuo dovere!’? Il fatto che non posso mai essere sicuro di quale sia il mio dovere non mi contraddistingue con un marchio in­ delebile di colpevolezza? In breve, il messaggio doppiamente vinco­ lante dell’imperativo categorico non irradia forse la neutralità mali­ gna di un sadico super-io? Io vengo bombardato con un’ingiunzione incondizionata a compiere il mio dovere, eppure nel momento in cui traduco questa ingiunzione in un obbligo concreto, l’Altro etico assume Patteggiamento di un maligno osservatore neutrale, il cui messaggio rivolto a me cambia tutto d’un tratto in un ‘Io certamente non voglio niente da te! Sei stato tu a definire il tuo dovere, dunque di esso tu devi accettarne le conseguenze come pure la responsabilità! Adesso stiamo a vedere come ti destreggi nel caos in cui ti sei caccia­ to!’... È cruciale qui, tuttavia, tenere in considerazione il fatto che ‘il grande Altro non esiste’ (Lacan): noi siamo colpevoli nella misura in cui accettiamo che il grande Altro esista nella forma di un’autorità trascendente che gioca al gioco perverso del gatto e del topo con noi, sapendo benissimo qual è il nostro dovere eppure nascondendocelo, lasciandoci brancolare di qua e di là e lasciandoci fare congetture alla cieca. Noi ci lasciamo dietro il dominio della colpa superegoica nel momento in cui diventiamo consapevoli che l’Altro stesso non sa quale sia il mio dovere. Per dirla in maniera diversa: è essenziale, nella nostra lettura di Kant, distinguere la forma vera dalla falsa trascendenza della Legge; questa distinzione coincide con quella tra la ‘pura’ Legge simbolica e il super-io. Nella falsa trascendenza, la Legge morale appare come una ‘terrificante’ autorità esterna che mi minaccia assumendo la for­ ma di due oggetti, la voce e lo sguardo (la voce della coscienza che mi perseguita; lo sguardo onnicomprensivo che infallibile scova la mia colpa). Tuttavia, proprio questa nozione di Legge morale come ter­ rificante autorità esterna già riqualifica/attenua la sua vera trascen-

disto (questi e quegli atti non sono etici’) ma in maniera puramente formale, come un’attività che, sebbene caritatevole verso gli altri uomini, non è motivata soltanto dal rispetto per la legge morale.

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denza trasformandola in un agente esterno con cui è possibile una relazione di scambio, sacrificio, ‘mercanteggiamento’ - in breve, la Legge morale è implicitamente ridotta al livello della ‘rappresenta­ zione [Vorstellung^ \ diventa un oggetto che sta di fronte a noi, e non l’Altro assoluto. La pura Legge, al contrario, rappresenta l’Alterità di un Imperativo che non ha proprio niente a che fere col campo delle rappresentazioni vocali o visive, rappresenta l’Alterità vuota della trascendenza assoluta - e il punto implicitamente hegeliano di Kant è, chiaramente, che questa trascendenza assoluta coincide con la pura immanenza. Pensiamo ad Antigone: era guidata da un impe­ rativo scevro da ogni coercizione superegoica, vale a dire che agiva in quel modo senza alcuna pressione esercitata su di lei dalla ‘voce della coscienza’ ma per la semplice ragione che non avrebbe potuto agire diversamente. A un primo approccio, abbiamo a che fere con la distinzione tra la Legge morale ‘in sé’ e il modo in cui questa Legge incide su di noi, i suoi soggetti. La Legge ‘in sé’ è un puro imperativo; il problema è che noi, esseri umani, siamo sempre macchiati dalla ‘patologia, propensi alle impressioni tangibili; così, per poter diventare effettiva, questa pura autorità dell’imperativo categorico deve assumere, nella sua relazione a noi, la forma tangibile di una voce e/o di uno sguardo (come Dio, l’insondabile e irrappresentabile Assoluto che noi, gente comune, dipingiamo come un vecchio barbuto)... Un approccio più profondo, tuttavia, ci spinge esattamente a invertire i termini. Nella misura in cui ‘reifichiamo’ la legge morale in un’autorità che esiste ‘in sé’ ed esercita la sua pressione su di noi dal di fuori, noi riduciamo il suo status a quello di una rappresentazione (di una voce e/o di uno sguardo) — la voce e/o lo sguardo designano precisamente il modo in cui la Legge ‘in sé’ esiste per noi. In chiaro contrasto, la Legge morale come trascendenza pura non è più un’entità che esiste indipendente­ mente dalla sua relazione a noi; essa non è altro che la sua relazione a noi (al soggetto morale). Qui, nella sua determinazione della relazione tra il soggetto e la Legge morale, Kant inaspettatamente si avvicina all’inversione riflet­ tente della speculazione hegeliana. Vale a dire: quando Kant defini­ sce la relazione tra il soggetto e la Legge morale come una relazio­ ne di ‘rispetto’ o ‘riverenza [Achtung]\ aggiunge una qualificazione cruciale: la ‘riverenza’ non designa semplicemente il modo in cui il soggetto si rapporta alla Legge, la sua ‘esperienza soggettiva’ della

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Parte I - Schelling o alle origini del materialismo dialettico

Legge; piuttosto, essa rappresenta la Legge stessa nella sua esistenza soggettiva, ovvero nella sua realizzazione (dal momento che la Legge morale si realizza solo nella misura in cui è svelata nell’esperienza del soggetto). Qui il carattere ‘hegeliano’ sta nell’inversione della relazio­ ne ‘normale’ tra soggetto e predicato: ciò che, a un primo sguardo, dovrebbe possedere lo status di mero predicato (l’effetto, il modo di esistenza della Legge), è la Legge stessa nella sua realizzazione; e viceversa, ciò che appare come la Legge ‘in sé’, esistente indipenden­ temente dal soggetto, è effettivamente una fantasmagoria soggettiva, una non-entità spettrale che semplicemente materializza, dà corpo, alla non-purezza della presa di posizione etica del soggetto.96

Il nostro punto, ovviamente, è che il lacaniano 'nepas céder sur son désir (non cedere sul proprio desiderio’) implica esattamente la stessa ingiunzione tautologica (una nuova corroborazione del fatto che, come dice Lacan, la legge morale di Kant è semplicemente il desiderio al suo stato puro): essa non fornisce alcuna garanzia positi­ va o supporto al nostro desiderio, e cioè al soggetto non è permesso dire: ‘So che questo è riprovevole, ma che posso farci? Questo è ciò che desidero, e non posso rinunciarvi...’ — il soggetto è pienamente responsabile di ciò che desidera. Per tale ragione, l’ingiunzione ‘non cedere al proprio desiderio’ è vuota, impossibile da osservare piena­ mente, vale a dire che essa tocca il reale. Dunque: per concludere, sarebbe appropriato tornare al tema che, forse, fornisce la chiave per l’intero edificio teoretico lacaniano:

96 L’affermazione di Lacan (dal Seminario X Sull’Angoscia) secondo cui la castrazione (simbolica) coincide con l’interpretazione da parte del soggetto della castrazione implica una analoga inversione riflessiva ‘hegeliana’. Ai cognoscenti di Lacan, questa coincidenza paradossale, apparentemente insensata richiama imme­ diatamente la tesi di gran lunga meglio conosciuta sulla relazione tra desiderio e in­ terpretazione: il desiderio è la sua stessa interpretazione. Quando il soggetto si trova di fronte all’enigma del desiderio, si sforza disperatamente di fissare le coordinate — la scena, i materiali e i costumi - di quelle che sono le vere cause del suo desidera­ re, egli produce sempre nuove interpretazioni di quello che vuole davvero - e questa stessa ricerca infinita, questo atteggiamento interrogativo di non essere mai del tutto certi di quello che desideriamo, è il desiderio tota court. Allo stesso modo per la castrazione: la ‘castrazione’ designa il divario che separa per sempre il crudo fatto della castrazione (di una pura mancanza o perdita ‘non-cconomica’) dagli sforzi dei soggetto di integrare questo crudo fatto nella sua economia simbolica.

Schelling-per-Hegel: il mediatore evanescente

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‘Kant avec Sade’. Come possiamo concepire questa tesi paradossale Hi Sade come verità dell’etica kantiana? La prima risposta si offre con ingannevole auto-evidenza: di certo tutti sanno che il sadismo superegoico è la verità nascosta dell’etica kantiana! Vale a dire, la rigorosa etica kantiana non è forse palesemente ‘sadica’? L’autorità che pronuncia l’imperativo etico non è forse una versione sublime del torturatore sadico che esige l’impossibile e trae godimento umi­ liando il soggetto, e cioè dal fallimento da parte del soggetto nel sod­ disfare la sua richiesta? Se, come dice Lacan, Hegel è il più sublime degli isterici, non è dunque Kant il più sublime dei sadici? Tuttavia, sebbene possa sembrare che almeno alcune delle affermazioni di La­ can puntino effettivamente in quella direzione (Lacan non enfatizza forse il fatto che Sade ha scoperto le carte di Kant sul tavolo ren­ dendo visibile l’agente sadico che è il vero soggetto dell’enunciazio­ ne dell’imperativo categorico?), una lettura attenta chiarisce subito che ciò che Lacan ha in mente è l’esatto opposto di questa tesi sul carattere ‘sadico’ dell’etica kantiana: l’obiettivo di Lacan non è di ‘infangare’ la purezza dell’imperativo kantiano - cioè di individuare al di sotto di esso il ‘patologico’ godimento sadico - ma, al con­ trario, di dimostrare che la sadiana Volontà-di-Godimento fVolonté de Jouissance’] è ‘pura*fino in fondo, etica nel senso più rigorosamente kantiano. L’imperativo che sostiene l’infinita ricerca del godimento da parte del soggetto sadiano soddisfa tutti i criteri dell’imperati­ vo categorico. Lungi dallo ‘sporcare’ Kant, Lacan ‘purifica’ Sade: la Volontà-di-Godimento sadica è il caso esemplare di desiderio puro, non-patologico. Forse risiede qui la causa ultima di tutti i problemi della cosiddetta soggettività moderna.

Parte ii Questioni

correlate

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Ili La fisica quantistica con Lacan

La ‘Tesi Undici’ della fìsica quantistica

T? orse la caratteristica più peculiare della fisica quantistica è che _L per la prima volta ha incluso la riflessività nella stessa scien­ za, ponendola come un momento esplicito del processo scientifico.1 A causa del carattere auto-riflessivo delle sue proposizioni, la fisica quantistica si aggiunge al marxismo e alla psicoanalisi come uno dei tre tipi di conoscenza che si concepisce non come una descrizione neutrale e sufficiente dei suoi oggetti ma come un intervento diretto su di essi. ‘Ci sono teorie che non mirano alla congruenza coi loro oggetti, ma vogliono trasformarli’ - è significativo che questa para­ frasi quasi letterale della ‘tesi undici’ di Marx sia una citazione presa da un recente libro sulla fisica quantistica.2 Nella fisica quantistica, come nel marxismo e nella psicoanalisi, la ‘vera conoscenza incide sui suoi oggetti: nel marxismo, la teoria descrive la società dal punto di vista del suo cambiamento rivoluzionario, e pertanto trasforma i suoi oggetti (la classe operaia) in un soggetto rivoluzionario - la de­ scrizione neutrale della società è formalmente ‘falsa’, comporta l’ac­ cettazione dell’ordine esistente; nella psicoanalisi, l’atto di interpre­ tazione interviene esso stesso nei suoi oggetti (dissolve il sintomo); nella fisica quantistica, l’atto della stessa misurazione porta il ‘collas­ so della funzione d’onda. In tutti e tre i casi, l’auto-relativizzazione della teoria, lungi dal minare il suo presupposto cognitivo, vale come ultima prova della sua validità. La vera portata dell’impatto rivoluzionario della fisica quantistica è stata oggetto di un appassionato dibattito per più di mezzo secolo. 1 È stato Lyotard ne La condizione postmoderna a enfatizzare come la caratteri­ stica più suggestiva della conoscenza scientifica postmoderna la sua autoriflessività, la sua disposizione a mettere incessantemente in questione la validità delle sue af­ fermazioni: la distinzione tradizionale tra scienza c filosofìa con ciò e sospesa, dal momento che la scienza stessa include riflessioni epistemologiche che già cadono nel dominio della filosofia. 2 Dietbr Hombach, Vom Quark ztim Urknall, Boer, Monaco 1994, p. 7.

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Pane II — Questioni correlare

Un rapido esame delle reazioni della filosofia (o, più precisamente, di ciò che si fa passare per filosofia) alla fisica quantistica è sufficiente a validare completamente la tesi di Althusser sulla co-dipendenza di positivismo e oscurantismo: la ‘filosofia spontanea’ della fisica quantistica consiste in un bricolage di stampo positivista verso ciò che è misurabile/osservabile, e di oscurantismo spiritualista (non c’è realtà al di fuori dell’osservatore’, ‘ la realtà esiste solo nella nostra mente’...). Stephen Hawking indubbiamente aveva in mente un tale discorso oscurantista sulla coscienza che genera la realtà’, nonché le associazioni tra fisica quantistica e fenomeni extrasensoriali - come quando si curva un cucchiaio da lontano per mezzo del solo ‘potere della mente’, e così via - quando ha azzardato una provocatoria pa­ rafrasi di Joseph Goebbels: ‘Quando sento del gatto di Schroedinger, metto mano alla pistola.’ Il primo antidoto a un tale oscurantismo è di mettere la fisica quantistica in relazione con la divisione tra l’universo pre-moderno del significato e l’universo della scienza moderna, che è intrinseca­ mente ‘privo di significato’, ‘incomprensibile’, dal momento che va contro i preconcetti più elementari e spontanei che determinano il nostro senso della ‘realtà’. Come si relaziona la psicoanalisi all’uni­ verso della scienza (moderna)? Si tratta di una scienza, di una proce­ dura pre-scientifica interpretativo-mantica, o è qualcosa di comple­ tamente differente (una procedura auto-riflessiva sulla scorta della dialettica dell’idealismo tedesco, per esempio)? Lacan ha spostato il piano di questa classica domanda afferman­ do che il soggetto della psicoanalisi (l’analizzante) è il soggetto carte­ siano della scienza. Consiste in questo la differenza (una delle tante differenze) tra Freud (nella lettura di Lacan) e Jung: Jung sostiene un ritorno all’universo pre-moderno della Saggezza e alla sua ses­ so-cosmologia, all’universo di una armoniosa corrispondenza tra il microcosmo umano e il macrocosmo. Vale a dire, per lui il soggetto della psicoanalisi è il soggetto pre-moderno che vive in un universo in cui ‘tutto ha un senso’; per Lacan, al contrario, l’analizzante è il ‘vuoto’ soggetto cartesiano che vive in un mondo ‘disincantato’, un soggetto deprivato delle sue radici nell’universo del Significato, con­ frontato con un universo intrinsecamente ‘incomprensibile’ in cui la potenza dell’evidenza ermeneutica di tutti i giorni è sospesa. Questa differenza rappresenta la divergenza dei loro rispettivi approcci verso un sintomo; nel caso dell’agorafobia, per esempio, uno junghiano ri-

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correrebbe subito a qualche archetipo, fondando la paura per gli spa­ zi aperti nell’esperienza della nascita, essendo stato gettato fuori dal corpo materno nello spazio aperto, e così via; mentre un freudiano seguirebbe la pista della scienza moderna e applicherebbe a se stesso una reale analisi, allo scopo di dissotterrare qualche legame contin­ gente a un’esperienza particolare senza alcuna connessione intrinseca con lo spazio aperto (recentemente, il paziente è stato testimone di una violenta rissa in uno spazio aperto che ha risvegliato un trauma infantile a lungo dimenticato, per esempio).3 Come si pone, dunque, la fisica quantistica rispetto a questa di­ visione? Tra tutte le scienze, essa ha più delle altre completamente rotto con la nostra comprensione quotidiana della ‘realta, rottura dischiusa dalla fisica moderna galileana: Galileo ha rotto con l’onto­ logia aristotelica che ha dato espressione sistematica alla nostra pre­ comprensione comune (i corpi ‘cadono’ naturalmente e tendono a uno stato di riposo, ecc.). Portando questa rottura agli estremi, tutta­ via, la fisica quantistica affronta anche in maniera più radicale la sua intrinseca situazione di stallo: per entrare nel circuito della comu­ nicazione scientifica, deve affidarsi ai termini del nostro linguaggio giornaliero, che inevitabilmente richiamano alla mente oggetti ed eventi della realtà ‘ordinaria’ e tangibile (lo spiti di una particella, il nucleo di un atomo, ecc.) e dunque introduce un elemento di irridu­ cibile disturbo — nel momento in cui prendiamo un termine troppo ‘letteralmente’, siamo portati fuori strada. L’unica adeguata formulazione della fisica quantistica potrebbe consistere nel rimpiazzare tutti i termini che, qualunque sia il modo, sono usati in relazione all’universo della nostra esperienza quotidia­ na con una sorta di jabberwocky, così che potremmo rimanere con la pura sintassi, con una serie di relazioni matematicamente formula­ te. Di conseguenza, gli scienziati sono abbastanza giustificati quan­ do sottolineano che non si può ‘comprendere’ la fisica quantistica

i La tesi secondo cui il soggetto della psicoanalisi è il soggetto della scienza mo­ derna ha conseguenze di vasta porrata per la pratica psicoanalitica: lungi dall'essere un fattore di disturbo, la conoscenza da parte cicli'analizzante della cura (psicoana­ litica) è un costituente intrinseco non solo della cura psicoanalirica ma della stessa formazione dei sintomi. Un sintomo si riferisce sempre a qualche ‘soggetto che dovrebbe sapere’; esso si forma con un occhio alla sua interpretazione; c il problema è precisamente quale tipo di interpretazione sottintende, quella corretta’ o quella ‘sbagliata’. Per quanto può sembrare folle, la ‘riflessività’ del desiderio significa, tra le altre cose, che abbiamo sintomi teoreticamente sbagliati e teoreticamente corretti.

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Parte II - Questioni correlate

(‘comprendere’ un fenomeno significa localizzarlo precisamente al­ l’interno dell’orizzonte della nostra comprensione sensata della real­ tà): la fisica quantistica semplicemente ‘è efficace’, ‘funziona’, però nel momento in cui si cerca di ‘comprendere’ come funziona, si vie­ ne inghiottiti nel Buco Nero della irragionevolezza. Dall’altra parte, le difficoltà sorgono col cosiddetto collasso della funzione d’onda: si può passare dalla potenzialità all’attualità solo per mezzo di un os­ servatore che funzioni al livello dell’esperienza quotidiana, cosicché ogni linea che separa l’universo quantico dalla nostra realtà di tutti i giorni lavora all'interno della fisica quantistica. John Wheeler ha fornito forse la sola corretta risposta a uno dei più grandi enigmi della fisica quantistica - quando, in che preciso punto, si verifica il collasso della funziona d’onda - identificandola con l’emergenza del significato intersoggettivamente riconosciuto: qui non abbiamo a che fare né con la registrazione automatica per mezzo di una macchina (una foto, per esempio) né con la coscienza, ma semplicemente con il significato del linguaggio.4

‘Complementarità’ uesta rottura radicale della fisica quantistica con la nostra comprensione quotidiana della ‘realtà’ smentisce tutti i ten­ tativi dt"combinare la fisica quantistica col pensiero orientale, che rimane completamente radicato nell’ontologia sessualizzata pre-moderna (la polarità cosmica dei principi maschile e femminile, dello Yin e dello Yang, ecc.). I tentativi di riunire la fisica quantistica e la saggezza orientale di solito evocano la nozione di ‘complementarità’ - questa nozione non rimanda forse alla ‘complementarità’ dei prin­ cipi nella cosmologia pre-moderna (non c’è Yin senza Yang, ecc.)? Un esame più ravvicinato, comunque, ci spinge immediatamente a chiamare in causa questa analogia. Cominciamo con il famigerato ‘principio di indeterminazione’ di Heisenberg: anche alcune popolari introduzioni alla fisica quan­ tistica cadono preda della fallacia epistemologica interpretando il principio di indeterminazione come qualcosa che dipende dal limi­ te intrinseco dell’osservatore e/o dai suoi strumenti di misurazione 4 Cfr. PC.W. Davies e J.R. Brown (cur.), Il fantasma nell’atomo. Enigmi e problemi della fisica quantistica. Città Nuova, Roma 1992.

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- come se, a causa di questo limite (cioè a causa del fatto che la nostra osservazione interviene nel processo osservato e lo influenza), non potessimo allo stesso tempo misurare la massa di una particella e la quantità di moto (o qualsiasi altra coppia di caratteristiche com­ plementari). Il principio di indeterminazione è in realtà molto ‘più forte’: lungi dal riguardare semplicemente il limite dell’osservatore, il suo punto è, invece, che la complementarità è inscritta nella 'cosa stessa' - una stessa particella, nella sua ‘realtà’, non può avere una massa e una velocità pienamente specificati, può avere solo o l’uno o l’altro. Il principio è dunque profondamente ‘hegeliano’: ciò che in prima istanza appariva essere un ostacolo epistemologico si rivela una proprietà della cosa stessa; vale a dire, la scelta tra massa e velo­ cità definisce proprio lo status ‘ontologico’ della particella. Questa inversione di un ostacolo epistemologico in un ‘impedimento’ on­ tologico che inibisce l’oggetto dall’attualizzare la totalità delle sue qualità potenziali (massa e velocità) è ‘hegeliana. E questo è ciò che vuol dire ‘complementarità’: due proprietà complementari non si completano l’un l’altra, si escludono recipro­ camente. La relazione tra massa e velocità somiglia a quella tra una figura e il suo sfondo: noi vediamo sia due fàcce umane di profilo sia un vaso, nessuna ‘sintesi’ è possibile; non possiamo mai avere le due figure. I due termini di una scelta non formano un Tutto, dal momento che ogni scelta già costituisce il suo proprio Tutto (di una figura e del suo sfondo) che esclude il suo opposto. La ‘com­ plementarità’ della fisica quantistica è dunque molto più vicina alla logica peculiare di una scelta forzata articolata nella psicoanalisi di Lacan che non all’equilibrio pre-moderno dei principi cosmici: la sua controparte nella nostra condizione umana è una situazione in cui il soggetto è costretto a scegliere e ad accettare una certa perdita o impossibilità fondamentale. Questa impossibilità è ciò che l’ideale deH’Illuminismo, quello di un’auto-consapevolezza che ci permette di agire, di una conoscenza abilitante esemplificata da espressioni come 'know-how o 'savoir-faire', ci spinge a eludere: una volta che so troppo, non sono più nella posizione di compiere l’atto — vale a dire, un ‘uomo che sa troppo’ è un uomo che non può più agire. La ‘complementarità’ come mistero fondamentale dell’agire umano è in relazione alla conoscenza-consapevolezza e dunque indica il reale di un’impossibilità; Jon Elster ha formulato questa impossibilità come il paradosso di ‘stati che sono effetti secondari necessari’ — è impos-

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Parte II — Questioni correlate

sibile per un soggetto lottare coscientemente per la proprietà X e produrla di fatto (dove X sta per delle proprietà che sono cruciali per la nostra autostima: l’amore degli altri, la dignità, ecc.). In breve, un vero atto può essere compiuto solo nell’inconsapevolezza delle sue condizioni: è impossibile includere nell’atto una consapevolezza della sua dimensione oggettiva’, delle sue conseguenze, e così via.5 Lo stesso paradosso è all’opera nel cosiddetto ‘circolo ermeneu­ tico’: il significato emerge solo se c’è un buco nella catena causa­ le.6 La soluzione ‘determinista’ (più divento consapevole della reale catena causale che determina la mia attività, più perdo l’illusione della libertà) qui risulta insufficiente: il punto che gli sfugge è che la consapevolezza riflessiva di tutte le circostanze che condizionano il mio agire non può mai portarmi ad agire: non può spiegare il fatto dell’agire stesso. Soppesando all’infinito i prò e i contro, non arrivo mai ad agire - a un certo punto, io devo decidermi a ‘uscire allo scoperto’, dicendo a me stesso: ‘non mi importa affatto delle conseguenze, semplicemente lo faccio, a qualsiasi costo’; una volta che la decisione è presa, le condizioni e le circostanze stesse appaiono retroattivamente in una nuova luce. (Questo è analogo alla credenza religiosa: la decisione di credere non risulta mai da un accorto calco­ lo dei prò e dei cantra, cioè, non si può mai dire: ‘io credo in Cristo perché, dopo attenta considerazione, sono giunto alla conclusione che i prò prevalgano’ - è solo l’atto, la decisione di credere, che ren­ de le ragioni per credere veramente comprensibili.) Bisogna dunque appoggiare pienamente il paradosso (nietzschiano) dell’‘oblio atti­ vo’, di un oblio che solo ci permette di agire. In maniera simile, nel dominio della legge, un ordine legale è in vigore solo nella misura in cui i suoi soggetti ‘reprimono’ la sua origine contingente e ‘ille­ gale’ e accettano per buona la sua pretesa di validità. Su un livello in qualche modo diverso, questo è ciò a cui mira Heidegger quando insiste più volte sul fatto che la vera deliberazione filosofica non solo 5 Su questa relazione di complementarità’ (nel senso della meccanica quanti­ stica) tra la consapevolezza delle concrete condizioni storiche e la nostra capacità di agire, si vedano le perspicaci osservazioni di Stanley Fish, specialmente in “Criticai Sclf-Consciousness, Or Can We Know What We’re Doing?", in Doing What Comes Naturally, Duke University Press, Durham, NC and Londra 1989; e in “The Law Wishes to Have a Formai Existencc”, in There’s No Such Thingas Free Speech, Oxford University Press, New York e Oxford 1994. 6 Cfr. Slavoj Zizek, Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina Edi­ tore, Milano 2001.

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non è ‘di nessuna utilità pratica’ ma non può neanche nuocere alla nostra ‘efficienza pratica’: uno scienziato, per esempio, se vuole essere proficuo nel suo particolare dominio, non deve ‘pensare’, ovvero non deve riflettere sull’orizzonte ontologico della pre-comprensione che dischiude questo dominio — è .qui che si trova un aspetto, spesso misconosciuto, della ‘differenza ontologica’. Ancora un’altra versione deH’impossibilità — cioè, del nucleo del Reale - contenuta nella nozione di ‘complementarità’ è offerta dal paradosso della libertà: al livello più radicale, la libertà è esperita nella forma della consapevolezza dell’inesorabile, e spesso auto-di­ struttiva, necessità di agire in un certo modo: ‘non posso fare altri­ menti, dal momento che agire in questo modo è parte della mia reale natura’. Come dice Schelling, è come se, in un atto primordiale, eterno, inconscio e senza tempo, avessi scelto me stesso, la mia ‘natu­ ra eterna : la libertà radicale e la coscienza sono incompatibili, la de­ cisione fondante veramente libera era inconscia, e deve rimanere tale se vuole restare in vigore — nel momento in cui è innalzata al livello della coscienza, è già chiamata in causa e, per tutti gli scopi pratici, ritrattata. L’esempio più toccante, ovviamente, è quello dell’amore: la decisione di amare qualcuno è libera (l’amore imposto non è amo­ re), eppure questa decisione non può mai essere presente e cosciente (non posso mai dire a me stesso: ‘Adesso decido di innamorarmi di questa persona...’) - tutto ciò che posso fare nel presente è consta­ tare che la decisione è già stata presa e che sono preso nell’inesorabile necessità di amare.7 Questa nozione di complementarità ci permette anche di distin­ guere ciò che forse è il punto debole nei saggi politico-filosofici, al-

7 Un altro caso esemplare di questa logica della complementarità è fornito dalla relazione tra le cosiddette gerarchie ‘dinamiche’ c ‘statiche’ dell’autorità nella teoria politica. Perché un funzionario di stato deve eseguire gli ordini dei suoi su­ periori? Da un iato, gli ordini devono essere eseguiti se e nella misura in cui sono nel rispetto delle esistenti norme legali che regolano l’esercizio del potere; dall’altro lato, sono formalmente obbligato a obbedire agli ordini di quelli che, secondo la gerarchia legale dell’autorità, sono i miei superiori. I problemi sorgono, ovviamente, quando questi due livelli collidono: devo obbedire all’autorità superiore a prescin­ dere dal contenuto (forse illegale) dei suoi ordini, oppure ho il diritto (il dovere, persino) di contrastare quegli ordini che, nella mia prospettiva, violano le norme legali esistenti? Qui incontriamo anche una sorta di costante quantistica’, una mi­ nima zona grigia in cui, a causa di una necessità strutturale, le demarcazioni più nette sono sfocate.

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trimenti di rottura, di Chantal Mouffe. Tra i bersagli principali della critica di Mouffe ci sono i contemporanei tentativi liberal-democratici di fornire una fondazione meta-politica della politica in alcune cornici neutrali di riferimento che rappresenterebbero l’insieme delle regole etiche universalmente vincolanti (la posizione originaria di Rawls, la razionalità discorsiva di Habermas, ecc.): l’autrice denun­ cia questi tentativi di fondazione come gesti naturalizzanti che of­ fuscano il Politico [le politique], il campo degli antagonismi in cui le posizioni differenti sono fondate solo in loro stesse, nell’atto per­ formativo di opporle all’avversario politico. Secondo Mouffe, una fondazione etica della politica non è solo teoreticamente sbagliata ma anche politicamente pericolosa, dal momento che tiene nascosto il potenziale totalitario rendendo invisibile il gesto violento della sua imposizione: c’è sempre un’estrema violenza nell’imporre una serie di regole normative come terreno di giudizio neutrale-universale... Sebbene questa critica sia pienamente giustificata, continua a sottrarsi al paradosso della complementarità nella misura in cui contiene l’illusione di una politica liberata dalla mistificazione na­ turalizzante, esente da ogni riferimento a qualche fondazione extra­ politica: come se fosse possibile giocare il puro gioco dell’antagoni­ smo; come se la naturalizzazione — cioè, un riferimento a qualche fondazione neutrale (etica) non-antagonistica — illusoria com’è, non fosse una condizione irriducibile, necessaria, di una prise deposition politicamente efficace. In questo preciso senso, l’etica è un supple­ mento del Politico: non c’è alcuna ‘presa di posizione’ politica senza un minimo riferimento a qualche normatività etica che trascende la sfera del puramente Politico - in altre parole, senza una minima naturalizzazione’ implicita nella legittimazione della nostra posizio­ ne per mezzo di un riferimento a qualche autorità (naturale, etica, teologica...) extra-politica. E - per mettere i puntini sulle i - il ‘Sì!’ della ‘riconciliazione hegeliana è, in ultima analisi, precisamente un ‘Sì!’ alla complementarità: un ‘Sì!’ della piena accettazione del fatto che non è possibile allo stesso tempo ‘sapere’ e ‘fare’; un ‘Sì!’ di of­ ferte d’addio all’illusione illuminista di un’attività auto-trasparente, un’attività pienamente consapevole delle sue implicazioni.

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Contro lo storicismo

T a trappola da evitare qui è la riduzione di questo tema della JL-/complementarità alla critica ora di moda dell’universalismo e dell’affermazione collegata della pluralità di narrative particolari: la complementarità — concepita come impossibilità della descrizione completa di un fenomeno particolare - è, al contrario, il vero luogo dell’iscrizione dell’universalità in un Particolare. Un particolare feno­ meno sociale non può mai essere completamente ‘contestualizzato’, ridotto a una serie di circostanze socio-storiche - una tale particolarizzazione presupporrebbe il più crudo universalismo: cioè, la pre­ supposizione che noi, i suoi agenti, possiamo parlare da un luogo neutrale-universale di puro meta-linguaggio esente da ogni contesto specifico. Nel campo sociale-simbolico, ogni totalità particolare, nella sua auto-chiusura, si (mis)percepisce come universale, vale a dire com­ prende sé e la sua prospettiva al suo Esterno, in tutte le altre parti­ colari totalità (epoche, società, ecc.). Perché? Precisamente perché è in se stessa incompleta, aperta’, non interamente determinata dal suo contesto. La questione dunque non è che noi, gli osservatori incorporati nella nostra situazione particolare, non possiamo mai pienamente comprendere l’insieme delle circostanze particolari che determinano l’Altro, l’oggetto del nostro esame accurato; la carenza è ‘ontologica’, non semplicemente ‘epistemologica’ - questo Altro è già in sé non interamente determinato dalle circostanze. È proprio la sovrapposizione di queste due carenze (o, in lacanese: l’intersezione delle due mancanze) ad aprire la dimensione dell’universalità. Marx, in un famoso passaggio della sua Introduzione ai Grundrisse, percepisce chiaramente questo enigma dell’universalità: come ha potuto la poesia di Omero, sebbene condizionata dal suo tempo, mantenere la sua attrattiva quasi universale fino ai giorni nostri? Il problema non è quello di spiegare come qualcosa simile all’Iliade fos­ se possibile solo nella società greca antica; il problema, invece, è spie­ gare perché questo prodotto della società greca antica ancora ci parli e susciti il nostro entusiasmo. La risposta di Marx, sfortunatamente, non sopravvive alla domanda: partendo da un ingenuo ricorso al parallelo tra le epoche della storia e degli scenari europei per quanto riguarda lo sviluppo dell’individuo umano, un parallelo profonda­ mente in debito con la tradizione del Romanticismo tedesco, egli

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Parte II - Questioni correlate

interpreta il fàscino irresistibile dell’antica società greca come fascino eterno della ‘infanzia dell’umanità’. Anche questa risposta sbagliata, tuttavia, include un principio di spiegazione corretto che giace sulla premessa che ciò che rappresenta l’attrattiva universale della poe­ sia di Omero è il suo grande attaccamento alle specifiche condizioni storiche. Il problema non è come fà la poesia di Omero, a dispetto delle sue radici in una specifica costellazione storica, a mantenere la sua attrattiva universale, ma l’esatto opposto: perché un prodotto di queste (e non di altre) condizioni storiche mantiene un’attrattiva

universale? Questo scacco della critica storicista all’universalismo è chiara­ mente illustrato a proposito della problematica dei diritti umani'. essi sono incorporati nel loro specifico contesto occidentale, o sono universali? È facile storicizzare la nozione di diritti umani universali dimostrando la loro emergenza nel contesto occidentale moderno della lotta borghese per l’emancipazione; il vero problema, tuttavia, è di spiegare il loro richiamo universale, a causa del quale la critica che li congeda come valori occidentali imposti ha vita breve.8 Questa

* Qui si tratta anche del problema della rimembranza e della dimenticanza: la dimenticanza delle origini dei diritti umani nel contesto storico del primo capi­ talismo non è solo ideologica, non serve solo all’espansione dell’imperialismo poli­ tico-culturale occidentale; permette anche a uno specifico complesso ideologico di staccarsi dalla contingenza delie sue origini e di cominciare a fluttuare liberamente, per così dire, così che classi completamente diverse, gruppi sociali e formazioni discorsive possono farne uso. La stessa problematica dei diritti umani offre un caso esemplare di una tale liberatoria ‘dimenticanza attiva’ (Nietzsche): sebbene sia in­ dubbiamente ‘figlia del suo tempo (bianco - maschile - proto-borghese... )’, essa può perdere (e l’ha fatto) il suo ancoraggio a questo momento storico cd essere usata da non-bianchi, donne, lavoratori, ecc. per legittimare le loro richieste. Marx stesso interpreta l’istituzione di un governo di responsabilità del Parlamento (c non del monarca) come un caso di tale fraintendimento produttivo: sebbene abbia preso forma nella confusione politica intorno alla Gloriosa Rivoluzione inglese, come una soluzione improvvisata a un particolare problema (cosa fare con un monarca im­ portato che non parlava neanche inglese, ecc.), si è evoluto nella norma di una vita politica liberal-democratica. In questo preciso senso, la sincronia ha un vantaggio sulla diacronia: cosa im­ porta non è la contingenza delle origini di un certo fenomeno, ma la sua funzione qui e ora - persino se la funzione di oggi del fenomeno in questione è chiaramente basato su un fraintendimento del suo ruolo originale, c’è più ‘verità’ in esso che nella contingenza del ruolo originario. (Allo stesso modo, ovviamente, vale per le parole: l’etimologia può servire come la forma perfetta di ‘bugia in guisa di verità’, dal momento che evocare il significato originario di una parola, per esempio, può ben servire a offuscare la connotazione razzista, ecc. che questa parola dischiude nel contesto odierno).

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attrattiva universale è fondata sul divario, implicato dalla nozione di diritti umani, tra la loro universalità e la loro sempre imperfet­ ta realizzazione. Vale a dire: la differenza cruciale tra l’universo de­ mocratico dei diritti umani e gli altri ordinamenti politici è che il principio strutturante in tutti questi ordinamenti è immediatamente identificato col loro contenuto particolare e determinato, laddove il reale funzionamento dell’ordine democratico si basa sulla differenza tra ‘l’ordinamento’ e ‘l’ordine’ - tra il principio strutturante il siste­ ma, il sistema ‘nel suo divenire’ (come avrebbe detto Kierkegaard), e ogni forma positiva, determinata, di questo ordine. In altre parole, i diritti umani non possono mai essere semplicemente enumerati, presentati come un insieme chiuso - proprio la nozione moderna di diritti umani implica che essi non siano mai ‘tutto’, che ci sia sempre qualcosa da aggiungere alla lista. Essi sono ‘universali’ non solo nel senso che dovrebbero includere tutti gli esseri umani, ma anche nel senso che non possono essere ridotti ad alcuna forma particolare e determinata della loro articolazione positiva — il secondo senso è un si?te qua non del primo. Su tale base, tutti i tipi di cosiddette mino­ ranze (etniche, sessuali, religiose...) possono sempre, nella loro stessa critica di un particolare pregiudizio (sessismo, occidentalismo, ecc.) della formulazione predominante dei diritti umani, riferirsi ancora alla loro universalità, dichiarando che i loro stessi diritti non sono adeguatamente tenuti in considerazione in questa formulazione pre­ dominante. L’universalità si realizza per se stessa, è ‘posta in quanto tale’, quando qualche contenuto particolare è ostacolato nella sua auto-realizzazione.9 Possiamo ora vedere dove, precisamente, l’approccio hegeliano all’universalità differisce da quello comune: l’approccio usuale si preoccupa del problema storicista dell’effettiva portata di un con­ cetto universale (un concetto è davvero universale, o la sua validi­ tà è realmente collegata a una specifica epoca storica, classe sociale, ecc.?), mentre Hegel pone esattamente la domanda opposta: come e in quali precise condizioni storiche può emergere un concetto uni9 Allo stesso modo per il concetto di democrazia: esso ha un’attrattiva po­ tenzialmente universale, e cioè non può essere semplicemente ridono a uno dei ‘giochi linguistici’ della politica fintantoché l’atto di messa in discussione, di pro­ blematizzazione permanente delle sue forme determinate e positive, è costruito in esso - ancora, si può vedere come mancanza e universalità siano strettamente co­ dipendenti.

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versale ‘neutrale’? Sotto quali condizioni il popolo diventa consape­ vole del concetto universale di ‘lavoro’ a prescindere dalle professioni particolari? Quando il concetto neutrale di uno ‘stile’ diventa ope­ rativo nella teoria dell’arte? Quando, per esempio, i pittori hanno cominciato a ritenere che fossero liberi di scegliere tra una moltitu­ dine di stili (espressionista, impressionista, cubista, surrealista...)? In quale tipo di società si esperisce il proprio retroterra culturale come qualcosa di contingente, come una esemplificazione della nozione neutrale-universale di ‘cultura’, così da poter giocare il gioco chia­ mato ‘multiculturalismo’? Posso essere un ecologista femminista, socialista, conservatore, liberista... - in ogni caso, il mio particolare orientamento (socialista, conservatore, femminista...) è costitutivo della mia identità di eco­ logista: l’economia capitalista orientata al profitto (o l’eccesso della modernità, o il dominio patriarcale) è per me la vera radice della catastrofe ecologica. Il tipico problema hegeliano non è di accertare che la mia particolare etichetta (socialista, conservatore, femmini­ sta...) del mio orientamento ecologico sia solo un tipo del genere universale dei movimenti ecologici; il vero problema è come, a quali condizioni, la mia particolare esperienza sociopolitica mi conduca ad abbandonare l'identificazione immediata del mio 'essere un ecologista' con l'etichetta particolare di ecologista, cosicché afferro il collegamento che connette l’ecologia in generale col mio particolare orientamento come contingente. La risposta, ovviamente, è fornita dalla nozione di mancanza-, solo nella misura in cui io esperisco la mia particolare posizione come fondamentalmente carente, la dimensione universale coinvolta in essa (e da essa offuscata) appare in quanto tale - o, in termini hegeliani, è ‘posta, diviene ‘per sé’. O - per dirla in modo leggermente diverso - la riduzione stori­ cista di Marx o di Freud a un’espressione del loro tempo è falsa ed è essa stessa ideologica, sebbene piuttosto accurata a livello fattuale. L’analisi di Marx sul capitalismo è chiaramente ‘figlia del suo tem­ po’, incorporata in una costellazione storica concreta e unica; il vero enigma, tuttavia, è come sia stato possibile per Marx, in quel preciso momento della storia, fornire la chiave che ci permette di decifrare il segreto dell’intera storia fino a ora. La psicoanalisi di Freud è chiara­ mente un prodotto della fine del diciannovesimo secolo; ciò che bi­ sogna spiegare, tuttavia, è come sia stato possibile per Freud guada­ gnare un’intuizione nella logica universale della sessualità umana...

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In una corretta analisi dialettica, l’universalità e la storicizzazione sono dunque strettamente correlate. Ed è qui che risiede anche la falsità di un certo tipo di multicul­ turalismo: il fatto che le culture siano differenti, che ogni cultura possieda la sua specificità irriducibile, è un factuni brutum, una ba­ nalità che manca della dignità di oggetto del pensiero; il problema, al contrario, è spiegare come, a dispetto delle loro differenze, le cul­ ture nonostante tutto interagiscano; come un certo tema (poetico, ideologico, ecc.) possa avere ripercussioni universali e attraversare le barriere che separano culture diverse. Incidentalmente, la prima cosa da fare qui è rifiutare il cliché secondo cui l’imperialismo culturale occidentale sopprime le differenze tra le culture — al contrario, l’im­ perialismo in realtà accentua queste differenze, dal momento che si nutre letteralmente di esse. Già negli anni Venti, Aldous Huxley sot­ tolineò (in Jesting Pilate) come i coloni inglesi in India fossero pro­ fondamente rispettosi della vita indiana tradizionale, della saggezza delle antiche religioni induista e buddista. Un inglese beneducato era sempre pronto ad ammettere la superiorità della saggezza indiana rispetto alla civiltà occidentale moderna — ciò che poteva temere, più di quanto un vampiro tema una collana d’aglio, era un indiano che diventasse occidentalizzato e si integrasse perfettamente con la scienza e la politica occidentali, senza rinunciare alla sua identità in­ diana. In breve, ciò che gli inglesi temevano erano quegli indiani che si sforzavano di trasformare l’india in una nazione moderna come l’Inghilterra. Lungo la stessa linea, si può anche chiarire il carattere presumi­ bilmente ‘astorico’ delle ‘formule della sessuazione’ lacaniana. Ogni epoca, ogni società, ogni comunità etnica, chiaramente, fornisce la propria connotazione ideologica della differenza tra i sessi (in Euro­ pa, per esempio, ‘uomo’ è posto come universalità neutrale della spe­ cie umana, mentre ‘donna rappresenta la differenza specifica, vale cioè per ‘sessualizzazione’; nella Cina antica, al contrario, ‘donna’ designava la continuità e ‘uomo’ la discontinuità, la rottura, la se­ parazione). Ciò che le ‘formule di sessuazione’ lacaniane tentano di indicare, tuttavia, non è già un’altra formulazione positiva della dif­ ferenza sessuale ma l’impasse soggiacente che genera la moltitudine di formulazioni positive come tanti tentativi (falliti) di simbolizzare il reale traumatico della differenza sessuale. Ciò che tutte le epoche hanno in comune non è qualche caratteristica positiva universale,

F

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Parte II - Questioni correlate

qualche costante trans-storica; ciò che tutte condividono, invece, è lo stesso stallo, la stessa antinomia - in termini schellinghiani, si sarebbe tentati di dire che questa stessa impasse persiste e si ripete in differenti potenze/potenziali in differenti culture. La nozione del Reale come antagonismo traumatico che ritorna come l’identico in tutti i tentativi falliti successivi alla sua simbolizzazione dunque ci porta a invertire la fòrmula classica della relazione tra Universale e Particolare (1’Universale come genere che si divide in specie partico­ lari): qui è come se Universale e Particolare si scambiassero di posto — abbiamo una serie di Universali, di matrici interpretative univer­ sali, che sono tutte risposte alla ‘assoluta particolarità’ del traumatico Reale, dello squilibrio di un antagonismo che va fuor di sesto, e per­ ciò ‘particolarizza’ la cornice neutrale-universale, così che lo schema della relazione tra Universale e Particolare sia ora il seguente:

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La critica secondo la quale Lacan ‘reifichi’ il Reale in un nucleo non­ storico escluso dal mutamento storico dunque manca completamen­ te il punto: non solo non c’è incompatibilità concettuale tra il Reale come nucleo non-storico e storicità, ma è proprio il trauma del Reale che mene continuamente in moto il movimento della storia, spin­ gendolo verso sempre nuove storicizzazioni/simbolizzazioni.

Come si crea un ratto umano? T n cosa - oltre alle speculazioni ‘olistiche’ della New Age sulJL la natura spirituale dell’universo, e così via — risiede, allora, l’interesse filosofico per la fisica quantistica? I filosofi si riferiscono solitamente alla fisica quantistica per procurarsi il suo aiuto nella loro eterna battaglia contro il senso comune quotidiano dell’ingenua ontologia realista, o - quando sono d’umore più spirituale, New Age — come prova del fatto che all’interno della stessa scienza contempo­ ranea, il cosiddetto ‘paradigma meccanico cartesiano’ stia perdendo terreno nei confronti di un nuovo approccio ‘distico’. Forse, tutta­ via, la vera svolta della fisica quantistica sta altrove: ci spinge a chia-

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mare in causa il fondamentale e più elastico mito filosofico (come l’ha chiamato Derrida), quello della distanza assoluta che separa la natura dall’uomo - dall’universo del linguaggio in cui gli esseri uma­ ni abitano’, come dice Heidegger. È stato Sartre, forse, a fornire la formulazione più avveduta di questa distanza nella sua opposizione tra l’In-sé della presenza inerte delle cose e il Per-sé della coscienza umana come vortice dell’autonegazione. È interessante notare come anche Lacan, il grande oppo­ sitore di Sartre nel periodo d’oro del dibattito ‘strutturalista negli anni Sessanta, sia rimasto a quel tempo completamente all’interno di queste coordinate: il tema lacaniano negli anni Cinquanta e Sessan­ ta era quello dell’insormontabile opposizione tra l’universo animale della cattività immaginaria, dell’equilibrata relazione speculare tra Innenwelt e Aussenwe/t, e l’universo umano della negatività simboli­ ca, dello squilibrio. Lacan perciò partecipa completamente alla linea di pensiero che comincia con Hegel, secondo cui l’uomo è ‘la ma­ lattia mortale della natura’, un essere contrassegnato per sempre da un dislocamento traumatico, gettato ‘fuori di sesto’, mancante del suo proprio luogo, in contrasto con un animale che si adatta sempre al suo ambiente, vale a dire, che è direttamente ‘cresciuto’ in esso. È sintomatica la metafora ‘meccanica’ lacaniana: una caratterizzazione quasi celebrativa dell’ordine simbolico come un automa che segue la sua strada, totalmente indifferente alle emozioni e ai bisogni umani - il linguaggio è un’entità parassita che si ciba a spese dell’animale umano, squinternando il ritmo della sua vita, facendolo deragliare, subordinandolo al suo stesso andazzo brutalmente imposto. Ciò che giustifica questo specifico gusto lacaniano per una rinnovata affer­ mazione della distanza che separa la ‘cultura’ (l’ordine simbolico) dalla pienezza della vita-esperienza immediata è l’inverso del tipico contrasto idealista cartesiano tra la vita dello spirito e la meccanica della natura: per Lacan, è la macchina nel suo movimento ‘cieco’, insensato, automatico e ripetitivo che eleva l’universo umano al di sopra dell’immediata vita-esperienza animale. La connotazione poli­ tica di questo tema dell’essere l’uomo costitutivamente ‘fuor di sesto’ è radicalmente ambigua — funziona come un ‘significante fluttuante’ di cui può appropriarsi l’opzione di Sinistra (la celebrazione della negatività dell’uomo come potenza del trascendimento e del rivolu­ zionamento permanente di ogni routine, di ogni situazione inerte) come pure quella di Destra (l’antropologia di Arnold Gehlen, per

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Parte II - Questioni correlate

esempio, la cui tesi principale è che, a causa della mancanza di un innato modello istintuale, l’uomo ha bisogno di un Padrone, cioè dell’autorità di un’istituzione forte che possa mantenere i suoi eccessi sotto controllo e garantire uno stabile punto di riferimento).10 I commenti di Jacques-Alain Miller su un inquietante esperi­ mento di laboratorio coi ratti (tratto da uno dei suoi Seminari ine­ diti: Cause et consentement, 1987-88) forniscono un’esemplificazione entusiasmante e a tratti scomoda di questo topos filosofico. In un labirinto, un oggetto desiderato (un gustoso boccone di cibo o un partner sessuale) viene reso in primo luogo facilmente accessibile al ratto. Poi lo scenario viene cambiato in modo tale che il ratto veda e dunque sappia dov’è l’oggetto desiderato, ma non riesca ad acce­ dervi; al suo posto, come una sorta di premio di consolazione, una serie di oggetti simili di valore inferiore è resa facilmente accessibile - come reagisce il ratto? Per qualche tempo, tenta di trovare la sua strada per il ‘vero’ oggetto; poi, dopo aver accertato che questo og­ getto è definitivamente fuori portata, il ratto rinuncerà a esso e si ras­ segnerà a qualche oggetto sostitutivo inferiore — in breve, agirà come un soggetto ‘razionale’ dell’utilitarismo. E solo adesso, tuttavia, che il vero esperimento comincia: gli scienziati eseguono un’operazione chirurgica sul ratto, incasinandogli il cervello, facendo cose coi raggi laser a proposito delle quali — come dice delicatamente Miller - è meglio non sapere nulla. Cosa accade allora quando il ratto operato viene di nuovo lascia­ to libero nel labirinto, quello in cui il ‘vero’ oggetto era inaccessibile? Il ratto insiste: non si rassegna mai all’idea della perdita del ‘vero’ oggetto, accettando uno dei sostituti inferiori, ma ritorna ripetutamente a esso, tentato di raggiungerlo.11 In breve il ratto, in un certo 10 Una tale venerazione per l’istituzione (simbolica) che fornisce un minimo di stabilità al gregge umano altrimenti disorientato non era sconosciuta a Lacan - lo testimonia la sua fascinazione di lunga data per la Chiesa Cattolica come istituzione che regola le vite c i desideri dei credenti, una fascinazione interamente in linea con la tipica tradizione francese del ‘Cattolicesimo ateo’ autoritario dell’ala destra à la Maurras. 11 La teoria più praticabile sulla differenza dell’uomo è quella secondo cui l’uomo si distingue non per qualche vantaggio sugli animali - qualche abilità straor­ dinaria, ecc. - ma, piuttosto, per deficienze, stordimenti, idiozie o stupidaggini originarie: per il fatto che, al contrario degli animali, cade preda di qualche esca. La teoria dello ‘stadio dello specchio’ di Lacan riguarda questo: l’uomo è un babbeo che fissa lo sguardo sulla sua immagine allo specchio, immobilizzandola ed estrapo-

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senso, è stato umanizzato', ha assunto il tragico atteggiamento ‘uma­ no’ verso l’oggetto assoluto irraggiungibile che, proprio a causa della sua inaccessibilità, cattura per sempre il nostro desiderio.12 Il punto di Miller, chiaramente, è che questa quasi-umanizzazione del ratto è risultata dalla sua mutilazione biologica: lo sfortunato ratto ha co­ minciato ad agire come un essere umano in relazione al suo oggetto del desiderio quando il suo cervello è stato macellato e danneggiato da un ‘innaturale’ intervento chirurgico... (Una lettura dettagliata degli ultimi testi di Lacan dimostra che negli ultimi anni del suo insegnamento egli ha lasciato questo tradizionale topos filosofico alle spalle — quando evoca esempi tratti dal comportamento animale non li usa più come semplici ‘analogie’: vale a dire, questi esempi devono essere presi letteralmente', il che, tuttavia, è un’altra storia...) Come, allora, possiamo rompere con questa tradizione senza cadere preda di un ingenuo naturalismo e/o del suo doppio com­ plementare, la teleologia evoluzionistica? Come possiamo evitare la procedura ordinaria di colmare il divario che separa l’uomo dall’ani­ male tramite la ‘naturalizzazione’ dell’uomo, cioè, tramite lo sforzo di spiegare tutte le caratteristiche specificamente ‘umane’ in termini di evoluzione naturale? È davvero quella di ‘spiritualizzare’ la stessa natura la sola alternativa? La fisica quantistica apre una strada total-

landola dal suo continuum temporale... L’epigramma errare è umano’ acquisisce pertanto un significato preciso oltre la banale tolleranza della debolezza umana: l’uomo è definito dalla sua abilità a rimanere intrappolato in un’illusione, a ‘prende­ re sul serio’ la finzione simbolica. O - per dirla in altre parole - l’uomo è un animale che in definitiva non impara dalla storia, ed è condannato a ripetere gli stessi errori di continuo. L’autore di queste righe è stato vittima (meritatamente) di tale argomentazione durante la discussione della sua tesi di dottorato al Dipartimento di Psicoanalisi all’Università di Paris-Vili, quando Francois Regnault pose l’accento su una cita­ zione poco accurata da Un coup de dés di Mallarmé: io semplificai l’originale ‘ricn rìaura eu licu que le licu’ in ’ricn rìaura lieu que le lieù - l’annotazione sarcastica di Regnault è stata che questo errore è perdonabile a un madrelingua francese (dal momento che in Francia tutti lo commettono...) ma del tutto inescusabile per uno straniero che non ha totale familiarità col francese... 12 Questo spostamento è precisamente lo spostamento dall’istinto (biologico) alla pulsione. Per tale ragione, l’incondizionato attaccamento di un animale (ad esempio un cane) al suo Padrone, la sua ‘fedeltà fino alla morte’, non è più propria­ mente animale: si tratta già del risultato deU’intrappolamento (della cattura, anche) del povero animale nell’universo simbolico. L’immagine di un animale fedele che ‘persiste fino alla fine’ nel servire il suo Padrone (un cavallo che trasporta il suo Pa­ drone fino a crollare, per esempio) rappresenta la più pura pulsione.

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Parte II - Questioni correlate

mente diversa: ciò che chiama in causa non è la specificità dell’uo­ mo, la sua posizione eccezionale rispetto alla natura, ma, invece, la stessa nozione di natura sottintesa dalla comune formulazione filo­ sofica della distanza tra natura e uomo, come pure daH’affermazione New Age di un’armonia più profonda tra natura e uomo: la nozione di natura come un universo chiuso’, equilibrato, regolato da qualche Legge o Regola soggiacente. Il vero antropomorfismo’ risiede nel­ la nozione di natura tacitamente assunta da coloro che oppongono l’uomo alla natura: la natura come un circolare ‘ritorno dell’uguale’, come regno deterministico delle inesorabili ‘leggi naturali’, o (più in accordo con la sensibilità ‘New Age’) la natura come un Tutto armonico ed equilibrato di forze cosmiche fatte deragliare dalla hubris umana, dalla sua arroganza patologica. Ciò che va ‘decostruito’ è proprio questa nozione di natura: le caratteristiche a cui ci riferiamo per sottolineare lo status unico dell’uomo - lo squilibrio costitutivo, il ‘Rior di sesto’, in ragione del quale l’uomo è una creatura ‘inna­ turale’, ‘la malattia mortale della natura - devono essere in qualche modo già all’opera nella stessa natura, sebbene — come avrebbe detto Schelling - in un’altra potenza inferiore (nel senso matematico del termine).13

Cinque lezioni sulla ‘doppia fenditura’ T n che modo la fisica quantistica ci permette di mettere fine alla 1 classica situazione di stallo della ‘naturalizzazione’ dell’uomo e/o della spiritualizzazione della natura? Prendiamo come punto di partenza il (meritatamente) famoso esperimento della doppia fendi­ tura’ - è stato Richard Feynman a dichiarare che questo esperimento rivela il mistero centrale del mondo quantistico. Per semplificare la proceduta, immaginiamo un muro con due piccoli fori - fenditure. Su un lato c’è una fonte di un fascio di elet­ troni, dall’altro lato un muro che incorpora un insieme di rilevatori

_lL_Qui abbiamo un altro esempio di come, nell’ideologia, gli opposti coinci­ dano: sia la nozione ‘distica’ della New Agc di un uomo parte del processo globale naturale-spirituale, sia la nozione di uomo come natura traviata, come entità ‘fuor di sesto’, sono ideologiche - ciò che entrambe le nozioni ‘reprimono’ è il fatto che non cè alcuna Natura (equilibrata, conchiusa) da gettare fuori di sesto per mezzo della hubris umana (o alla cui Via armoniosa l’uomo deve adattarsi).

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di elettroni. Gli elettroni emessi dalla fonte passano attraverso (uno dei) due fori e colpiscono l’altro muro, dove l’insieme di rilevatori ci permette di osservare lo schema del modo in cui colpiscono questo muro. L’enigma, ovviamente, riguarda la dualità dell’onda di particelle: quando lo schema osservato è quello delle particelle e quando è quello dell’interferenza delle due onde? Quando entrambe le fendi­ ture sono aperte, lo schema osservato è quello dell’interferenza delle due onde. Quando una fenditura o l’altra è aperta a turno, non c’è interferenza. Quando, con entrambe le fenditure aperte, rallentiamo il fascio in modo tale che solo un elettrone alla volta passi attraverso l’intero impianto, otteniamo ancora lo schema dell'interferenza delle onde. Se, tuttavia, osserviamo le due fenditure per vedere in quale fenditura ogni elettrone passa, non otteniamo uno schema delle in­ terferenze. Questo è il mistero: è come se un singolo elettrone (una particella che, come tale, deve andare verso una delle due fenditure) ‘sapesse’ se l’altra fenditura è aperta, e si comporti conseguentemen­ te: se l’altra fenditura è aperta, si comporta come un’onda; se non lo è, si comporta come una ordinaria particella. E c’è dell’altro: un sin­ golo elettrone sembra ‘sapere’ se viene osservata o no, dal momento che si comporta di conseguenza... Quali sono allora le implicazioni di questo esperimento?

• La prima lezione è che la potenzialità della funzione d’onda non è una ‘mera possibilità’ nel senso ordinario del termine: il punto non è semplicemente che la traiettoria della particella non viene determinata in anticipo - che ciò che viene determinato in anticipo è solo la probabilità che una particella passerà attraverso una fenditura o l’altra; il punto è, invece, che il risultato ‘reale’ (il fatto che quando solo un elet­ trone alla volta attraversa l’intero impianto, otteniamo ancora lo schema di interferenza delle onde) può essere spiegato solo accettando l’ipotesi ‘incomprensibile’ secondo cui una particella effettivamente’ non ha seguito una sola strada ma, in un senso inaudito, tutte le strade che sono possibili all'interno del vincolo della suafinzione d'onda. Ciò che in tal modo viene chiamato in causa è una carat­ teristica che, secondo una doxa filosofica che va da Kierke­ gaard a Heidegger, distingue l’uomo dalla natura: la natura non conosce la possibilità in quanto tale, è solo nell’universo

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umano - cioè, con l’avvento del linguaggio - che la possibi­ lità in quanto tale diventa effettiva, determina la nostra reale prestazione. Basti menzionare l’ovvio esempio dei sentimenti di colpa: sono divorato dalla consapevolezza che avrei potuto agire diversamente, secondo il mio dovere; nell’universo uma­ no fallire in qualcosa è un fatto positivo che può marchiare la mia intera vita. Per Lacan questo cortocircuito tra possibilità e attualità è una caratteristica fondamentale dell’ordine sim­ bolico: il potere, per esempio, è attualmente esercitato solo nella forma di una potenziale minaccia: solo nella misura in cui non esce completamente allo scoperto ma si ‘tiene di riser­ va’. Prendiamo la logica dell’autorità paterna: nel momento in cui un padre perde il controllo e manifesta la sua piena potenza (cominciando a urlare, o a picchiare il figlio), noi percepiamo necessariamente questa manifestazione come rab­ bia impotente, e cioè come indice del suo stesso opposto.14 L’esempio principe in psicoanalisi, ovviamente, è fornito dalla castrazione simbolica: la semplice minaccia della castrazione causa conseguenze psicologiche che equivalgono a un effetto ‘castrante’ — contrassegna Xattuale comportamento del sog­ getto con un marchio indelebile di restrizione e di rinuncia.15 E non è un cortocircuito analogo a quello che incontriamo tra la possibilità e l’attualità nell’universo quantistico in cui il comportamento in atto (la traiettoria) della particella può es­ sere spiegato solo prendendo in considerazione la fluttuazione di particelle virtuali? • La seconda lezione dell’esperimento della doppia fen­ ditura riguarda l’enigma di ciò che Lacan, nel suo Seminario Ancora, chiama conoscenza nel reale’: la natura sembra ‘cono­ scere’ quale legge seguire; le foglie su un albero ‘conoscono’ la regola che permette loro di ramificarsi secondo uno schema 14 Per un’analisi più dettagliata, vedi il Capitolo 4 di Slavoj Zizek, Tarrying with thè Negative, Duke University Press, Durham, NC 1993. 15 Lacan elabora questo paradosso della potenzialità che possiede una sua at­ tualità a proposito della nozione di potere (simbolico): in “Sovversione elei soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano", per esempio, egli caratterizza il significante-padrone come «questo potere tutto in potenza [ce pottvoir tota en pnissance], questa nascita della possibilità» (Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 810).

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complesso, e così via. Uno dei temi basilari della filosofia dell’auto-coscienza è che la nostra consapevolezza (la consapevo­ lezza del soggetto) riguardo a una cosa influenza e trasforma la cosa stessa: non si può semplicemente affermare che una cosa, con tutte le sue proprietà, esiste ‘lì fuori’ a prescindere dalla nostra consapevolezza di essa. Prendiamo lo statuto ambiguo della violenza patriarcale verso le donne: si può dichiarare che questa violenza diventi violenza in atto solo quando viene espe­ rita — ‘registrata’ — conte tale da una donna. In una società in cui la tradizionale ideologia patriarcale esercita un’egemonia indiscussa - una in cui manca anche una minima consapevo­ lezza femminista’ — un certo tipo di atteggiamento ‘possessivo’ di un uomo nei riguardi di una donna non solo non è perce­ pito dalla donna come ‘violento’, ma persino accolto a braccia aperte come segno di autentica e appassionata devozione. Il punto, chiaramente, non è di ‘addolcire’ la violenza riducen­ dola a qualcosa di ‘semplicemente immaginato’: la violenza è ‘reale’, ma la sua cruda e indeterminata realtà diventa la realtà di una ‘inaccettabile violenza’ solo tramite la sua ‘registrazio­ ne’ nell’ordine simbolico. Un altro esempio è offerto da L’Età dell’innocenza di Edith Wharton - con riferimento all’inversione che ha luogo nel­ le ultime pagine del romanzo, quando l’eroe apprende che la sua consorte presunta innocente e all’oscuro di ogni cosa, sapeva da sempre che il suo vero amore era la fatale contessa Olenska. Questa è ‘l’innocenza’ a cui si allude nel titolo: lungi dall’essere un’ingenua, beatamente inconsapevole dei tumulti emozionali del suo amato, ella sapeva tutto, eppure ha con­ tinuato a recitare il suo ruolo di ingenua, salvaguardando in questo modo la felicità del loro matrimonio. L’eroe, chiara­ mente, la scambia proprio per un’ingenua: se avesse saputo che lei sapeva non solo la loro felicità sarebbe stata impossibile, ma anche la sua appassionata relazione con la contessa Olenska sarebbe stata rovinata - una tale relazione può sbocciare solo nella misura in cui non è riconosciuta dal grande Altro (qui esemplificato dalla presunta inconsapevole moglie). Questa è la più spiacevole e umiliante sorpresa per qualcuno che sia implicato in una relazione amorosa clandestina: improvvisa­ mente divento consapevole che la mia sposa sapeva tutto, e semplicemente fingeva ignoranza...

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La lezione dell’esperimento della doppia fenditura è che una simile ‘conoscenza nel reale’, una conoscenza che influen­ za il comportamento ‘attuale’ di una particella, è già operativa al livello della microfisica: se osserviamo la traiettoria dell’elet­ trone per scoprire attraverso quale delle due fenditure passe­ rà, l’elettrone si comporterà come una particella; se, dall’altra parte, non lo osserviamo, mostrerà le proprietà di un’onda — come se l’elettrone in qualche modo sapesse se viene osser­ vato o no... Qui risiede l’enigma della ‘conoscenza nel reale’: come può una particella che passa attraverso la fenditura A conoscere lo stato della fenditura B (se è aperta o no) e compor­ tarsi di conseguenza? • Non è stato un caso che nel secondo paragrafo siamo ricorsi al termine ‘registrazione’ che, preso letteralmente, desi­ gna l’inscrizione di un evento o oggetto in una rete simbolica. Secondo la fisica quantistica, la ‘concreta realtà esterna degli oggetti materiali attuali’ nello spazio e nel tempo si costituisce per mezzo del collasso’ della funzione d’onda, che si verifica quando il processo quantistico influenza il livello definito dal­ la seconda legge della termodinamica (temporalità irreversibi­ le, ecc.). Ed è profondamente sintomatico che nello sforzo di specificare questo ‘collasso’ i fisici quantistici ricorrano a più riprese alla metafora del linguaggio', il ‘collasso’ della funzione d’onda si verifica quando un evento quantistico ‘lascia qual­ che tipo di traccia nell’apparato di osservazione, cioè quando viene ‘in qualche modo registrato'. Ciò che è cruciale qui è la relazione con l’esteriorità: un evento diventa pienamente ‘se stesso’, si realizza, solo quando le circostanze esterne ‘prendo­ no nota’ di esso. Questa relazione costitutiva con l’esteriorità non prefigura forse la logica della ‘realizzazione simbolica’, in cui un evento x ‘conta, diventa ‘effettivo’ tramite la sua in­ scrizione nella rete simbolica esterna alla ‘cosa stessa’? Come ho già sottolineato, quando John Wheeler (tra coloro che più di tutti hanno provato a sviluppare le conseguenze filosofiche della fisica quantistica) fu messo con le spalle al muro dal­ l’intervistatore che gli aveva domandato dell’esatto momento del collasso della funzione d’onda, ricorse come ultima risorsa alla comunità intersoggettiva degli scienziati: si può essere as-

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Xlò

solutamente sicuri di un collasso solo quando il risultato delle misurazioni viene integrato nei discorso scientifico intersoggettivamente riconosciuto... Il parallelo che qui s’impone è quello tra la meccanica quantistica e il processo simbolico di decisione, dell’intervento di un ‘punto di sutura [point de ca­ pitoni che stabilizza il significato.16 Prendiamo la decisione di Agamennone di sacrificare sua figlia; da principio esita; gli argomenti da entrambi i lati sem­ brano convincenti, la situazione è indecidibile: ‘Mala sorte è la mia se obbedienza rifiuto, mala sorte se la figlia sacrifico, splendore della mia casa, e qui, presso l’altare, nei fiotti di sangue della vergine sgozzata, contamino le mie mani pater­ ne. Quale delle due sorti è peggiore?’17 Ad Aulide, tuttavia, Agamennone subisce una strana svolta: Senza transizione o pausa, egli cambia tono. Da un verso all’altro, il conflitto di obblighi è spazzato via - come da venti favorevoli, efficaci ancor prima che soffino. ‘E dunque plachi il sacrificio i venti e sgorghi il sangue della vergine! Questo, con ira e furore, mi è forza desiderare. E così sia.’13 L’aut-aut, che fino a un istante prima era così crudele nelle due leggi contrapposte, è adesso deciso. Per di più, la legge abbracciata da Agamennone non è più malvagia, è corretta, giusta, sacra?9 Non incontriamo qui, in questa operazione di capitonnage che ‘fa da giuntura alla moltitudine di argomenti liberamente fluttuanti, qualcosa di strettamente analogo al collasso’ della funzione d’onda delle potenzialità in una posizione univoca­ mente determinata? E non stiamo anche trattando della stes­ sa logica indicata nel passaggio schellinghiano dall’universo delle potenzialità che sono presenti nella forma di Idee nella mente di Dio (la spettrale, ombrosa proto-esistenza di una 16 Per la nozione di ‘punto di sutura [quilting point]' vedi il Capitolo 3 di Sla­ ztiZEK, Lite Sublime Object ofIdeotogy, Verso, Londra 1989. 17 Eschilo, Agamennone (w. 206-212). " Zw, (w. 214-217). 19 Vedi Reiner Schùrmann, “Ultimare Doublé Binds”, Graduate Faculty Philosophy Journal, New School for Social Research, voi. 14, no. 2 (Heidegger and thè ‘ Politicai), New York, pp. 216-218. vo)

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cosa prima della sua esistenza reale) al nostro mondo spazio­ temporale in atto? Schelling stesso parla della differenza tra la moltitudine passiva nel soggetto e il soggetto che si pone effettivamente come Uno. In ogni caso, l’esatta interpretazione del collasso di una funzione d’onda contiene l’aporia fondamentale della fisica quantistica: essa riguarda l’enigma della relazione tra potentia e attualità, cioè del passaggio dall’universo quantistico del­ le potenzialità alla nostra realtà effettiva’. In definitiva, solo due interpretazioni sembrano praticabili: o la cosiddetta or­ todossia di Copenhagen’, in cui questo collasso è collegato alla funzione dell’osservatore, e da ultimo alla coscienza; o ‘l’interpretazione a Molti Mondi’, che semplicemente fa a meno del collasso dichiarando che tutte le possibilità sono realizzate in un universo plurale, infinitamente ramificato. Alcuni interpreti (Alistair Rae, tra gli altri)20 cercano una via d’uscita da questo dilemma sconcertante e paralizzante in cui — come avrebbe detto Stalin — entrambe le scelte sono le peg­ giori passando per una ridefinizione oggettiva’ della funzione dell’osservatore: il collasso si verifica quando un evento quan­ tistico è inscritto in, e registrato da, un processo che non è più potenziale-reversibile, dal momento che in esso la secon­ da legge delle termodinamica (che prescrive l’irreversibilità di una successione temporale) è già all’opera. Rae si basa sulla dichiarazione di Ilya Prigogine secondo cui la fondamentale realtà del nostro universo non è quella dell’ ‘essere’, della mi­ cro-realtà reversibile delle particelle, ma quella del ‘divenire’, dell’irreversibile processo della realtà regolata dalla seconda legge della termodinamica. Il passaggio dalla realtà quantistica alla realtà osservabile e misurabile, tuttavia, non è un passaggio dall’essere al divenire quanto, piuttosto, l’opposto: la realtà quantistica non è forse il dominio del puro divenire, di una potenzialità indetermi­ nata che, in virtù delle misurazioni, ‘collassa’ nell’essere deter­ minato di un oggetto reale? E, dall’altra parte, la tensione tra particelle e processi (la fondamentale cornice di riferimento di Prigogine) non è caratteristica della fisica classica, pre-quan20 Vedi il Capitolo 9 di Alastair Rae, Quantum Physics: Illusion or Reality?, Cambridge University Press, Cambridge 1994.

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tistica, che si muove tra una riduzione meccanicista newto­ niana dei processi complessi ai suoi costituenti elementari (le particelle) regolari da rigide leggi, in modo che le leggi che descrivono direttamente i processi globali sono soltanto ap­ prossimazioni statistiche, e il suo diretto inverso — che pone i processi globali - è la sola vera realtà? In questo caso abbiamo tre livelli, non solamente due: il livello quantistico con la sua ‘indecidibile’ dualità onda-particella; il livello ‘meccanicista’ dei corpi, delle particelle, o di qualche altro costituente ele­ mentare; e, in ultima analisi, il livello ‘termodinamico ’ delle funzioni processuali globali. Qui, forse, un riferimento a Schelling rende possibile, se non una soluzione, almeno una produttiva riformulazione del problema. L’universo quantistico è un universo di potenzialità in cui non c’è ancora alcuna vera attualità (nessun dispiega­ mento lineare del tempo, dato che i processi temporali sono reversibili, ecc.); in questo universo, la dualità onda-particel­ la rimane ‘indifferente’, una coesistenza non-esclusiva, non­ contraddittoria di due caratteristiche che, nel momento in cui passiamo alla vera e propria attualità, diventano incompatibili (per esempio, nella realtà vera e propria, un’entità non può essere un’onda e una particella allo stesso tempo). Il ‘collasso’ dell’universo quantistico dunque rappresenta la Ent-Scheidung schellinghiana, l’atto di decisione/discernimento grazie al quale la dualità onda-particella è posta come una differenza in atto: solo adesso possiamo parlare di differenza in atto tra corpi (precedentemente: particelle) e processi (precedentemente: onde). In breve, l’opposizione tra il livello 2 e il livello 3 - tra elementi/corpi e processi globali - non è una sorta di ‘explicatio’ dell’opposizione onda-particella, che rimane ‘in­ condizionata’? • Si è tentati di fare un passo ulteriore: secondo la lettura lacaniana del concetto freudiano di Nachtriiglichkeit (‘poste­ riorità, après-coup), l’inscrizione simbolica, la ‘registrazione’ di un evento si verifica sempre ‘dopo il fatto’, con un minimo di ritardo - la realtà ‘sarà sempre stata’: cioè, a causa della sua inscrizione simbolica essa ‘diviene ciò che sempre-già era’. Ora, John Wheeler ha proposto una modifica all’esperimento

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Parte II - Questioni correlate

con doppia fenditura, la cosiddetta ‘doppia fenditura a scel­ ta ritardata, che comporta lo stesso paradosso della ‘scrittu­ ra retroattiva della storia. In breve, resperimento può essere proposto in modo tale che la nostra decisione di osservare o no la traiettoria di una particella venga presa dopo che la par­ ticella sia già passata attraverso lefenditure. in quel breve lasso di tempo in cui la particella è già oltre le due fenditure ma non ha ancora raggiunto l’apparato di misurazione. La nostra decisione dunque sceglie ciò che è accaduto retroattivamente. essa determina se abbiamo avuto a che fare con una ‘particella (osservata) o con una onda (non osservata). Il minimo ritardo dell’inscrizione riferita allo stesso ‘even­ to’ dischiude anche lo spazio per una sorta di ‘imbroglio’ on­ tologico tra le particelle virtuali: un elettrone può creare un protone, e con ciò violare il principio di energia costante, solo se lo riassorbe abbastanza velocemente — ovvero, prima che il suo ambiente ‘prenda nota della discrepanza. L’indetermina­ zione quantistica’ vive di questo minimo di ‘libero spazio’ tra un evento e la sua inscrizione: ciò che incontriamo qui, anco­ ra una volta, è il paradosso basilare del processo di simbolizza­ zione (la realtà diventa ‘ciò che era’ tramite la sua inscrizione nel mezzo simbolico esterno) nella sua ‘potenza inferiore’. una volta arrivati alle particelle virtuali, che le cose cominciano a diventare veramente interessanti. La cosid­ detta ‘fluttuazione del vuoto’, un processo durante il quale una particella spunta ‘dal nulla’ e ritorna nel Nulla, questa esistenza ‘virtuale’ di una particella che si annichilisce prima di raggiungere la piena attualità, è generalmente formulata in termini di ‘conoscenza e ‘registrazione’: «Un pione viene creato, incrocia un altro protone e sparisce, tutto nell’istante di incertezza permesso mentre l’universo “non sta guardan­ do”».21 Tutto questo deve aver luogo in un tempo minimo, prima che le circostanze prendano nota della discrepanza. Nel suo famoso libro In Search ofSchroedingers Cat, Gribbin fa un passo ulteriore e proietta questa presupposizione di conoscen­ za nella particella stessa: 21 John Gribbin, In Search ofSchroedinger’s Cat, Corgi Books, Londra 1984, p. 198.

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In primo luogo appare [un elettrone], spuntando dal vuoto come un coniglio dal cappello del mago, poi viaggia avanti nel tempo per una breve distanza prima di rendersi conto del suo errore, riconoscendo la sua stessa irrealtà, e si gira indietro per tornare da dove è venuto.22

— e cioè, nell’abisso del Nulla. Ed è forse nell’insistenza su questo divario, su questo minimo ritardo tra l’evento e la sua registrazione, che troviamo la rivoluzione epistemologica di più ampia portata della fisica quantistica: nella fisica classica ‘la conoscenza nel reale’ fa valere la sua posizione direttamen­ te, senza alcun ritardo - vale a dire, le cose semplicemente conoscono le leggi a cui devono obbedire - mentre la fisica quantistica permette un minimo di ‘imbroglio ontologico’. Un intero nuovo dominio è dunque aperto, il dominio del­ l’ombroso pseudo-essere delle pure potenzialità, degli eventi sconcertanti che accadono ‘nell’istante dell’incertezza... men­ tre l’universo “non sta guardando’”... Questo stato virtuale di un elettrone che, nel momento in cui ammette il suo errore e riconosce la sua irrealtà, ritorna allo stato di non-esistenza, non equivale forse a ciò che descri­ ve Lacan come Tintermedio-tra-due-morti’? Un’entità esiste solo fin quando non ‘registra’, ‘prende nota’ della sua non­ esistenza - come il proverbiale gatto dei cartoni animati che, sebbene non abbia la terra sorto i piedi, essendone inconsa­ pevole continua tranquillamente a camminare per aria... Ciò che si attesta in questo modo è il disaccordo tra conoscenza ed essere: la conoscenza implica sempre una certa perdita di es­ sere e, viceversa, ogni essere è sempre fondato su di una certa ignoranza. L’esempio principe di questo disaccordo in psicoa­ nalisi, ovviamente, è la nozione di sintomo: un sintomo, nella sua dolorosa realtà, sparisce a sèguito di una corretta inter­ pretazione. Nella fisica quantistica, questo stesso disaccordo è all’opera non solo al livello delle micro-particelle ma anche al macro-livello: l’ipotesi della cosmologia quantistica è che l’universo come tale sia risultato da una gigantesca fluttuazio­ ne del vuoto, e cioè, l’universo nella sua totalità, nella sua esi­ stenza positiva, reca testimonianza di un qualche ‘patologico’ equilibrio globale compromesso, di una simmetria spezzata, ed è quindi destinato a ritornare al Vuoto primordiale. 22

Zw, p. 201.

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Parte II - Questioni correlate

La differenza tra cosmologia quantistica e mitologia New Age dell’equilibrio cosmico è insormontabile: l’atteggiamento ‘New Age’ ci impegna nello sforzo di ‘mettere a posto il no­ stro mondo deragliato’, ristabilendo l’equilibrio perduto dei principi cosmici (Yin e Yang, ecc.), laddove l’implicazione ontologica della cosmologia quantistica e della sua nozione di ‘fluttuazione del vuoto’ è che ‘qualcosa esiste’ solo nella misura in cui l’universo è ‘fuor di sesto’. In altre parole, la stessa esistenza dell’universo reca testimonianza di una sor­ ta di fondamentale disturbo o equilibrio perduto: ‘qualcosa’ può emergere dal ‘nulla’ (il vuoto) solo tramite una simmetria spezzata. La fisica quantistica e la cosmologia sono dunque aìl’interno della tradizione di ciò che Althusser chiamava ‘ma­ terialismo aleatorio’, la tradizione che comincia con Epicuro, secondo il quale il cosmo è nato dalla declinazione [klinamen] degli atomi in caduta. La lezione di Lacan (e di Hegel, pace le banalità usuali circa la relazione complementare degli opposti nella dialettica) in fin dei conti porta alla stessa conclusione: la hubris è costitutiva; la parzialità della nostra esperienza ren­ de conto della sua fragile consistenza, ‘equilibrio’ è un altro nome per la morte. La fisica quantistica dunque tronca la possibilità di una ritirata verso la mitologia New Age dell’equilibrio naturale: la natura, l’universo nella sua totalità, risulta da una pendenza ‘patologica; come tale, e solo nella misura in cui non prende nota della sua non-esistenza... Vale a dire: a questo punto cruciale, dobbiamo delineare tutte le conseguenze dalla fon­ damentale impasse della cosmologia quantistica: la funzione d’onda collassa — vale a dire, la realtà come la conosciamo è costituita — quando l’evento quantistico viene ‘registrato’ nei suoi dintorni, quando un osservatore ‘ne prende nota’; come ha luogo questo collasso quando ‘l’evento’ in questione è l’universo nella sua totalità? In questo caso, chi è l’osservato­ re? Qui, ovviamente, c’è la forte tentazione di introdurre Dio nel ruolo di un tale Osservatore universale: l’universo esiste in atto perché la sua esistenza è ‘registrata da Lui... Il solo modo coerente di resistere a questa tentazione rimanendo co­ munque all’interno delle coordinate dell’universo quantistico è di abbracciare in pieno il paradosso secondo cui l’universo nella sua totalità è ‘femminile’: come la ‘Donna’ in Lacan,

La fisica quantistica con Lacan

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l’universo nella sua coralità non esiste, è una mera ‘fluttuazione quantistica senza alcun limite esterno che ci permetta di con­ cepirlo come ‘in atto’. • La quinta lezione dell’esperimento della doppia fenditura riguarda la relazione dialettica tra un oggetto e il processo di ricerca di esso. Per illustrare la strana logica del collasso di una funzione d’onda mediante la quale la potenzialità quantistica ‘si coagula’ in una realtà, Wheeler menziona una variazione in qualche modo sgradevole del ben noto gioco di società in cui si deve indovinare il nome di un oggetto: che accade se, all’insaputa di colui che pone le domande, i partecipanti si accordano di non scegliere un oggetto in anticipo, in modo tale che quando un partecipante deve rispondere ‘Sì’ o ‘No’ a una domanda (‘E’ vivo?’, ‘Ha quattro zampe?’, ‘Vola?’, ecc.), deve prestare attenzione solo alla coerenza della sua risposta — l’oggetto che ha in mente deve essere tale che la sua risposta sia coerente con tutte le risposte precedenti degli altri parteci­ panti. In questo modo, colui che pone le domande partecipa inconsapevolmente alla determinazione dell’oggetto: la dire­ zione delle sue domande restringe il campo della scelta. La situazione non è dissimile dalla barzelletta sul coscritto che cerca di evitare il servizio militare fingendo di essere paz­ zo: controlla compulsivamente tutti i pezzi di carta che può avere tra le mani, ripetendo costantemente: ‘Non è questo!’ Lo psichiatra, finalmente convinto della sua insanità, gli con­ segna un certificato scritto che lo dispensa dal servizio milita­ re; il coscritto getta uno sguardo al foglio e dice allegramente: ‘Questo è lui!’ Ciò che abbiamo qui è un caso paradigmatico del processo simbolico che crea la propria causa, l’oggetto che lo mette in moto. Il punto di Wheeler, chiaramente, è che le cose sono analoghe nella fisica quantistica: la modalità e la di­ rezione della nostra ricerca partecipano alla creazione dell’og­ getto che stiamo cercando: se decidiamo di misurare la posi­ zione di una particella, essa ‘collasserà’ dalla potenzialità in una serie in atto di coordinate spaziali, mentre la stessa massa della particella rimarrà potenziale-indecisa, e viceversa.23 M Questa stessa procedura sembra essere all’opera nella ricerca del nuovo Dalai Lama nel Buddismo tibetano: il ragazzo celebrato come la nuova reincarnazione del Dalai Lama non viene davvero ‘trovato’; la stessa ricerca lo crea, come nella lettura di Wheeler del gioco sociale dove la stessa ricerca dell’oggetto sconosciuto produce

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Parte II - Questioni correlate

Creatio ex nihilo \ zzardiamo un altro passo in avanti, e spostiamoci verso l’estre_Z1jtio - che, in filosofia, di solito significa: verso il fondamen­ tale tema hegeliano della ‘negazione determinata’, di un Nulla che ciononostante possiede una serie di proprietà (in accordo con la logi­ ca differenziale del significante in cui l’assoluta assenza di contenuto funziona come contenuto positivo, come nella famosa storia di Sherlock Holmes in cui il ‘curioso incidente’ col cane consiste nel fatto che il cane non aveva abbaiato). La ‘negazione determinata’ di Hegel, chiaramente, è la riformulazione speculativa della vecchia nozione teologica di creatio ex nihilo. Nel seminario sulla Etica della Psicoa­ nalisi, Lacan insiste sul fatto che una creatio ex nihilo può verificarsi solo in un ordine simbolico: la creatio ex nihilo punta all’emergenza miracolosa di un nuovo simbolo sullo sfondo del vuoto della Cosa; nel Reale, al contrario, niente viene fuori dal niente... La ‘fluttuazio­ ne del vuoto’, tuttavia, non fornisce un caso esemplare di creatio ex nihilo* Nella fisica quantistica il ‘vuoto’ viene concepito come Nulla, come un vuoto, appunto, che è cionondimeno ‘determinato’, cioè contiene una serie intera di entità potenziali. La ‘fluttuazione’ del vuoto si riferisce allo stesso processo per cui qualcosa (una particella) emerge dal vuoto e poi evapora, svanisce nuovamente in esso - a questo punto la fisica quantistica improvvisamente parla la lingua della dialettica hegeliana... Si potrebbe continuare e aggiungere alla nostra lista numerosi altri paralleli tra fisica quantistica e cosmologia da una parte, e psi­ coanalisi lacaniana dall’altra: la sbalorditiva omologia tra la dualità del tempo ‘immaginario’ e ‘reale’ in Hawking e la dualità delle ‘for­ mule di sessuazione’ femminile e maschile in Lacan;24 il parallelo tra

le sue caratteristiche - i monaci stessi, per mezzo della direzione della loro indagine, gradualmente restringono il cerchio dei possibili candidati affinché ne rimanga uno solo... 24 Vedi Slavoj Zizek, Looking Awry, MIT Press, Cambridge, MA 1991, pp. 46-47. Per inciso, le ‘formule della sessuazione’ lacaniane sembrano anche fornire la matrice delle due principali interpretazioni della fisica quantistica: la cosiddetta ‘ortodossia di Copenhagen’ non è forse fallica, non comporta forse una universa­ lità con l’osservatore come sua eccezione costitutiva? E la ‘Interpretazione a molti mondi’, nella misura in cui implica l’imperscutabile infinità degli universi, non è ‘eccessiva’ in un modo femminile? Inoltre, la teoria di David Bohm sul ‘potenziale quantico’ non fornisce forse una falsa via d’uscita androgina?

La fisica quantìstica con Lacan

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il Buco Nero e la Cosa [Din$ traumatica in Freud e Lacan;25 fino alla definizione di particella puramente ‘differenziale’ che richiama direttamente la classica definizione saussuriana di significante (una particella non è altro che l’insieme delle sue interazioni con altre par­ ticelle)... La conclusione imposta dalla fisica quantistica, pertanto, è la seguente: ciò che esperiamo come la ‘dura realtà’ degli oggetti nel tempo e nello spazio non è la ‘realtà fondamentale’; ‘al di sotto’ c’è un altro universo di potenzialità che non segue l’irreversibile linea temporale, un universo in cui qualcosa può emergere dal nulla, e così via. In breve, l’universo quantistico mostra in uno stato ‘selvaggio’, a un livello più ‘primitivo’, una serie di caratteristiche che, secon­ do la nostra tradizione filosofica, costituiscono la differentìa specifica dell’universo umano del linguaggio — come se il vecchio Schelling avesse avuto ragione, come se nella libertà e nel linguaggio umano qualcosa che già soggiace alla ‘realtà esterna’ venisse innalzato a una potenza superiore. La fisica quantistica ci permette dunque di evitare non solo le strategie gemelle della naturalizzazione volgare-materialista dell’uo­ mo e della spiritualizzazione oscurantista della natura, ma anche la versione più ‘moderna, ‘decostruzionista’, secondo cui la ‘natura è un costrutto discorsivo.26 La sua fondamentale lezione non è che la natura è già in se stessa ‘spirituale’, ma qualcosa di più incomparabil­ mente unheimliches'. negli strani fenomeni dell’universo quantistico, lo Spirito umano per così dire incontra se stesso fuori di sé, sotto for­ ma di suo sconcertante doppio. I processi quantistici sono più vicini all’universo umano del linguaggio di qualsiasi altra cosa si trovi in 25 Questo parallelo è stato proposto da Jacqueune Rose in Why War?, Blackwell, Oxford 1993, pp. 171-176. Rose rivolge l’attenzione alla tesi di Stephen Hawking per cui un buco nero non è solo un abisso che inghiotte tutto ciò che gli si avvicina troppo: esso emette anche particelle (almeno esternamente, dal momento che queste particelle effettivamente rimbalzano dal suo bordo). L’analogia con il Ding frcudiano-lacaniano si impone da sé: das Dirig e una sona di schermo nero su cui proiettiamo le nostre fantasie e poi, quando rimbalzano da esso, le equivochia­ mo come irradiazioni dello stesso das Ding. Qui si dovrebbe aggiungere una nota autocritica: in Looking Au>ry, ho con­ siderato il parallelo tra l’opposizione di tempo immaginario c reale di Hawking e le formule di scssuazione femminile c maschile di Lacan indicativo di come lo stallo fondamentale della simbolizzazione (sovra)determina persino il nostro approccio alla più astratta problematica della fìsica. Adesso la mia posizione è quella del ‘rea­ lismo’: in natura incontriamo l’ordine simbolico, incluso il suo stallo costitutivo, in una porcnza/potcnziale più bassa.

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Parte II - Questioni correlare

natura (nell’uso consueto del termine), eppure proprio questa vici­ nanza (cioè il fatto che sembrino ‘imitare’ queste caratteristiche che, secondo la comprensione comune della distanza che separa la natura dall’uomo, definisce la differentia specifica dell’universo umano) li rende incomparabilmente più strani di qualsiasi altra cosa si incontri in natura’. Risiede qui la misteriosità della fisica quantistica in rife­ rimento alla dimensione trascendentale kantiana: da una parte sem­ bra che, nella fisica quantistica, la fondamentale intuizione kantiana secondo cui (ciò che esperiamo come) la realtà non è semplicemente ‘lì fuori’ ma è costituita dal soggetto che osserva viene finalmente ve­ rificata e pienamente confermata dalla scienza stessa; dall’altra parte, questa realizzazione empirica’ del modello trascendentale appare in qualche modo eccessiva e inquietante, come il proverbiale seccatore che rovina il gioco osservando troppo alla lettera le regole. Ciò che abbiamo snocciolato finora, tuttavia, non è forse solo una serie di metafore e analogie superficiali che semplicemente non sono vincolanti? A questa critica, che si impone con una forza di per­ suasione di per sé evidente, si può fornire una risposta precisa: l’irre­ sistibile urgenza di denunciare le omologie tra universo quantistico e ordine simbolico come analogie esteriori senza alcun fondamento solido — o, almeno, come mere metafore — è essa stessa espressio­ ne e/o effetto del tradizionale atteggiamento filosofico che ci spinge a mantenere un’insormontabile distanza tra la ‘natura’ e l’universo simbolico, proibendo ogni contatto ‘incestuoso’ tra i due domini... L’emergenza della libertà umana può essere spiegata solo dal fatto che la natura stessa non è una ‘concreta realtà omogenea — vale a dire dalla presenza, al di sotto della ‘concreta’ realtà, di un’altra dimen­ sione di potenzialità e delle loro fluttuazioni: come se, con la libertà umana, questo perturbante universo di potenzialità ri-emergesse, ve­ nisse alla luce... Di conseguenza, c’è la tentazione di dichiarare che la schellinghiana libertà come pura ‘possibilità di essere [Seinkònnen]’ che di per sé, con la sua stessa potenza, si attualizza e acquisisce esistenza (questo sommo enigma che Schelling ripetutamente non è stato in grado di spiegare) è prefigurato e/o concretizzato (anche qui la successione temporale lineare è sospesa) nella nozione della fisica quantistica dell’emergenza di qualcosa (una particella) dal ‘nulla’ della fluttuazione del vuoto. Questa fluttuazione del vuoto non so­ miglia alla libertà di Schelling che ancora non esiste? Una tale lettura è poi confermata dalla ripetizione di questo micro-processo al ma-

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ero-livello della cosmologia: come abbiamo già visto, secondo l’ipo­ tesi più audace della cosmologia quantistica, il nostro universo in quanto tale, nella sua totalità, è una sorta di gigantesca fluttuazione del vuoto; è spuntato fuori dal nulla come risultato di un equilibrio disturbato, ed è destinato a tornare nel nulla. In altre parole, il Big Bang non rappresenta forse l’espansione primordiale che segue dalla contrazione primordiale del vuoto della Libertà nel singolo punto della materia completamente condensato? Prima della contrazione primordiale c’era solo il vuoto del puro Seinkònnen, la Libertà di una volontà che non vuole niente; su questo sfondo si può pienamente apprezzare la definizione schellinghiana dell’emergenza dell’uomo: nell’uomo, la possibilità non è più automaticamente realizzata ma persiste come possibilità — precisamente in quanto tale, l’uomo rap­ presenta il punto in cui, in una sona di cortocircuito diretto, l’uni­ verso creato riacquista l’abisso della Libertà primordiale.

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Indice

dei nomi

Adorno Th.W., 26 Agamben G., 215-216 Agostino, 94, 216 Althusser, 48, 56, 120, 147, 150-151, 182, 252, 278 Aristotele, 13, 82

Baas B„ 136-137 Bach J.S., 214-215 Badiou A., 12, 73 Bakker J., 59 Balibar E., 56, 58 Basile L., 9 Bataille G., 178-179 Benjamin W., 113 Bensussan G., 76 Bentham J., 147 Bernet R., 136 Bohm D., 280 Borch-Jacobsen M., 138 Bowie A., 83 Branagh K., 90 Brecht, 158, 166 Bronfen E., 228 Brown J.R., 254 Carroll L., 227 Chabrol C., 232 Chandler R., 140 Claudel P., 162, 164-166, 169, 172-173 CopjecJ., 175,242 Corbeau G., 212

Cowie E., 175 Curtiz M., 203 Davis B.W., 16 Davies P.C.W., 254 de Bont J., 54 de Kessel M., 179 Deleuze G., 152-153, 159, 182184,189 . Derrida J„ 53,85,97, 141-143, 182-185, 188-189, 199, 201, 265 de Sade D.A.E, 242, 247 de Saussure E, 87-88 Dostoevskij E, 167-168 Ducrot O., 215 Durkheim É, 197

Eco U., 214 Einstein A., 72, 138 Elster J., 81, 255 Epicuro, 278 Eschilo, 273

Feynman R., 268 Fichte J.G., 7, 12, 14, 16-18, 40-41 Fish S., 256 Foucault M., 150-152, 235 Frank M., 25 Freud S., 5, 11,21-22,31,5657, 86-87, 94, 132, 148, 167, 173, 231,252, 262, 281 Galileo, 253 Gardner E.S., 160, 217 Gasché R., 187 Gehlen A., 265 Gilligan C., 228

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Indice dei nomi

Giordano D., 5-9 Godard J-.L.» 112 Goebbels J., 252 Goldwyn S., 143, 227 Gòrres (von) J.J., 30 Greimas A.J., 67 Gribbin J., 276 Guattari E, 153 Habermas J., 75, 258 Haggard H.R., 222 Hardt M., 183-184 Havel V., 22 Hawking S., 252, 280-281 Hegel G.W.F., 5-6, 9, 11-12, 14-15, 17-18, 24-29, 35-36, 38, 42, 52-53, 56-57, 76, 81-82, 88-91,97, 114, 119, 124-125, 127-129, 131, 133, 135, 137, 139-141, 143, 145-147, 149, 150-151, 153, 155, 157-163, 165, 167, 169, 171-173, 175, 177-187, 189, 191, 193, 195197, 199-201,203, 205-207, 209,211,213-217,219, 221, 223, 225, 227, 229-231,233, 235, 237, 239, 241,243, 245, 247, 261,265, 278, 280 Heidegger M., 13, 16-17, 2930,61,77, 109-110, 119, 133, 139, 147, 209, 256, 265, 269, 273 Heine H., 11 Henrich D., 12, 14, 16-17 Heisenberg W.K., 254 Herzog W., 59 Hitchcock A., 5, 175, 243 Hogrebe W., 50-51, 56, 62, 84, 117, 127

Hombach D., 207, 251 Horkheimer M., 26 Hòsle V., 106, 110-111 Huxley A., 263

Ildegarda di Bingen, 210 Irigaray L., 228 Jacobi F.H., 12, 49 Jameson E, 65, 78 Juan Perón, 203 Juan Diego, 202 Jung C.G., 148, 173, 252 Kafka F., 53, 140, 235,239 Kant I., 11-16, 39-40, 42-43, 45, 92, 110-111, 123, 131, 135137, 139, 156-157, 177-178, 206, 240-247 Kierkegaard S., 133, 141, 172, 216, 243, 261,269 Kieslowski K., 211 King S., 225 Klein M„ 57-58 Kojève A., 5 Kristeva J., 68, 155,225, 228

Lacan J., 5-6, 9, 22, 28,31, 42, 58, 60, 79, 83-84, 86-88, 96-97, 119, 124-125, 127, 131146, 151, 154-156, 161-162, 164-168, 173, 184-185, 187, 189-198, 203, 205, 207-208, 210,217-218, 221,223-225, 231-232, 234, 236-241,244, 246-247, 252-253, 255, 257, 259, 261,263-267, 269-271, 273, 275,277-281,283 Laclau E., 24, 77, 203

Il resto indivisibile

287

Lang E, 174 Lebrun G., 176 Lecercle J.-J., 152-153 Lefebvre H., 28-29 Leibniz G.W, 38, 94, 156 Lenin, 51, 116, 233, 240 Leonardi E., 9 Lévi-Strauss C., 194 Livet P., 201 Lovecraft H.P., 8 Lucrezio, 28 Lueger K., 21 Lynch D., 124 Lyotard J.-E, 50, 251

Preseren F„ 169, 172-173 Prigogine L, 274 Procesi L., 66

Mallarmé S., 144,237, 267 Marquet J.-E, 70, 117 Marx K., 7, 11,24-25,28-29, 42, 56, 76, 83, 108, 147, 161162, 181,227, 251,259-260, 262 Matrhews B., 17 Meister Eckhart M., 113 Merleau-Ponty M., 89-90 Miller J.-A.» 5, 116, 266-267 Milner J.-C., 28, 153, 191 Mouffe C., 258

Salecl R., 152, 232 Sartre J.-R, 265 Schelling F.W.J., 5-8, 12, 14, 16-19, 24-31,33, 35-51,53, 55-56, 59,61-81,83-85, 88, 91-100, 103-111, 113-124, 126, 128-129, 131, 139-140, 146150, 159-160, 167, 191, 214, 216, 229-231,257, 268, 274275, 281-282 Schopenhauer A., 15 Schulze G.E., 12 Schiirmann R., 273 Shelley M., 90 Socrate, 73 Spinoza B., 7, 38, 58, 152, 184, 189,224 Stalin, 165-166,211,227, 274 Swaggart J.» 59-60 Sostakovic D.D., 211

Nietzsche E, 24, 73, 184, 189190, 260

Offenbach J.» 211 Omero, 259-260 Pfaller R., 147, 237 Platone, 13, 38, 210 Plotino, 155 Poizat M., 211 Popper K., 26

Rae A., 274 Rawls J., 258 Regnault, F. 267 ReikT., 213 Reinhold K.L., 12 Richir M., 30 Rilke R.M., 50 RoseJ., 57-58, 281 Rosen C., 65 Russell E.E, 35

Talete, 38 Wagner R., 73, 95, 126, 158, 163

288

Indice dei nomi

: Weber M.» 65 Webern A., 152 Weininger O., 109 Weiss E., 21 WellesO., 115 Wharton E., 232, 271 Wheeler J„ 254, 272, 275, 279 White A., 29, 94 Widmer P., 137 Wittgenstein L., 196 Wolfson L., 218

Zupancic A., 242

Indice

5

Presentazione di Diego Giordano

li

Prefazione all’Edizione italiana di Slavoj Zizek

Il resto indivisibile

Su Schelling e questioni correlate

21

Introduzione

Parte / F.WJ. Schelling o alle origini del materialismo dialettico

35

I Schelling-in-sé: /orgasmo delle forze

Prima del Principio, 35 — L’arco inconscio, 39 - La contrazio­ ne deU’Essere, 46 — Le pulsioni e il loro movimento rotatorio, 54 — Dalla libertà al soggetto libero, 62 - La follia divina, 68 — La politica scheliinghiana, 74 — La dissonanza primordiale, 77 — ‘Castrazione simbolica’, 83 - Il paradosso della riflessione, 88 La realtà virtuale delle Idee, 91 - L’ascesa dall’Eternità al Tempo, 93 - ‘L’incatcnamcnto’, 96- ‘L’ipseità in quanto tale è spirito’, 99 — L’Esistenza c il suo Fondamento, 103 — Il Male come unità per­ versa di Esistenza e Fondamento, 105 — I tre livelli della libertà, 113- La nozione materialista di soggetto, 117- L’Assoluto ‘fuori di testa’, 121 - La ‘formula del mondo’, 124

131

II Schelling-per-Hegel: il mediatore evanescente

Dalla soggettivazione alla destituzione soggettiva, 131 — Desiderio versus pulsione, 134 - ‘La voce è una voce’, 140 — ‘E’ come ca­ tegoria, 146 — L’ambigua posizione di lalangue 150 — Che cos’è

289

l’idealismo?, 155-La genesi ‘repressa’ della modernità, 160-Die Versagung. da Paul Claudel..., 162- ...a Franco Preseren, 169- La transustanziazione dialettica, 174 - In che modo lo Spirito ritor­ na a se stesso?, 179- Non ce soggetto senza significante vuoto, 184 - L’identificazione forzata, 189- Il sembiante dello ‘Spirito oggettivo’, 195-Il gioco di prestigio simbolico, 200-‘A è a, 204 - La voce come supplemento, 209 - Lo shofar, 213 - Come non leggere le ‘formule della sessuazione’ di Lacan, 221 - La femmini­ lità come mascherata, 225 - Elogio dell’isteria, 231 - ‘Il desiderio è il desiderio dell’Altro’, 238

Parte II Questioni correlate 251

III Lafisica quantistica con Lacan La ‘Tesi Undici’ della fisica quantistica, 251 - ‘Complementarità’, 254 — Contro lo storicismo, 259- Come si crea un ratto umano?, 264 - Cinque lezioni sulla ‘doppia fenditura, 268 — Creatio ex nihilo, 280

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Indice dei

nomi

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Stampato per conto di Orthotes da Rotomail Italia S.p.a. nel mese di gennaio 2019