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Scriptores ivris Romani 14
Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone
INSTITVTIONES
FLORENTINVS
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FLORENTINVS INSTITVTIONES LIBRI XII Lauretta Maganzani
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
«L’ERMA»
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Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone
Volumi pubblicati: 1. Quintus Mucius Scaevola. Opera Jean-Louis Ferrary, Aldo Schiavone, Emanuele Stolfi (2018) 2. Iulius Paulus. Ad edictum libri I-III Giovanni Luchetti, Antonio L. de Petris, Fabiana Mattioli, Ivano Pontoriero (2018) 3. Antiquissima iuris sapientia. Saec. VI-III a.C. Anna Bottiglieri, Annamaria Manzo, Fara Nasti, Gloria Viarengo. Praefatores Valerio Marotta, Emanuele Stolfi (2019) 4. Aelius Marcianus. Institutionum libri I-V Domenico Dursi (2019) 5. Callistratus. Opera Salvatore Puliatti (2020) 6. Iulius Paulus. Decretorum libri tres. Imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum libri sex Massimo Brutti (2020) 7. Aemilius Macer. De officio praesidis. Ad legem XX hereditatium. De re militari. De appellationibus Sergio Alessandrì (2020) 8. Cnaeus Domitius Ulpianus. Institutiones. De censibus Jean-Louis Ferrary, Valerio Marotta, Aldo Schiavone (2021) 9. Herennius Modestinus. Libri VI excusationum Alberto Maffi, Bernard H. Stolte, Gloria Viarengo (2021) 10. Papirius Iustus. Libri XX de constitutionibus Orazio Licandro, Nicola Palazzolo (2021) 11. Q. Cervidius Scaevola. Quaestionum libri XX Alessia Spina (2021) 12. Iulius Paulus. Ad Neratium libri IV Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon (2021) Continua a p. 275
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FLORENTINVS INSTITVTIONVM LIBRI XII
Lauretta Maganzani
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European Research Council Advanced Grant 2014 / 670436
Scriptores iuris Romani Principal Investigator Aldo Schiavone, Sapienza - Università di Roma Host Institution Sapienza - Università di Roma, Dipartimento di Scienze giuridiche Senior Staff / Comitato editoriale Oliviero Diliberto, Sapienza - Università di Roma Andrea Di Porto, Sapienza - Università di Roma Valerio Marotta, Università di Pavia Fara Nasti, Università della Calabria Emanuele Stolfi, Università di Siena Direzione della collana Aldo Schiavone Coordinamento editoriale e della redazione Fara Nasti Redazione del volume Alessia Spina Volume sottoposto a doppia peer review © Copyright «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER® 2022 Via Marianna Dionigi 57 00193, Roma - Italy www.lerma.it
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Scriptores iuris Romani.14. -1(2022) Roma: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2022. -v.; 24 cm. ISBN CARTACEO: 978-88-913-2601-0 ISBN DIGITALE: 978-88-913-2603-4 ISSN: 2612-503X CDD 349.37 1. Diritto romano
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INDICE
I FIORENTINO: NOTE BIOGRAFICHE UN GIURISTA SCONOSCIUTO
3 3 8 9 9 14 15 17 24 26
1. La vita e l’opera 2. La questione cronologica 3. Indizi per la datazione: a. D. 13.7.35pr. b. D. 38.2.28 c. D. 30.116pr. d. D. 1.1.3, D. 1.5.4 e. D. 41.1.4, D. 49.15.26 f. D. 15.1.39
II TESTIMONIA TRADIZIONE MANOSCRITTA
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III OPERA INSTITUTIONUM LIBRI XII
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INTRODUZIONE I. La scrittura e il testo 1. Struttura 2. Contenuti 3. Ipotesi palingenetiche
35 35 35 37 40
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II. Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino 1. Premessa 2. La parentela naturale fra gli uomini 3. La definizione di libertà 4. I limiti della libertà 5. Furono mere petizioni di principio? 6. Possibile contesto
43 43 44 52 62 64 67
BREVI CONCLUSIONI
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FRAGMENTA
76
IV COMMENTO AI TESTI INSTITUTIONUM LIBRI
109 109 111 118 133 142 172 175 181
LIBRO I LIBRO III LIBRO VI LIBRO VII LIBRO VIII LIBRO IX LIBRO X LIBRO XI
APPARATI E INDICI Bibliografia Abbreviazioni Giuristi citati Fonti antiche
199 241 243 245
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I FIORENTINO: NOTE BIOGRAFICHE
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UN GIURISTA SCONOSCIUTO
1. La vita e l’opera Sotto il nome di Florentinus compaiono nel Digesto giustinianeo 41 frammenti tratti da un’opera di institutiones divisa in 12 libri1. Nella Palingenesi leneliana il giurista è qualificato, pur dubitativamente, come contemporaneo di Ulpiano e Paolo (Ulpiani et Pauli, ut videtur, aequalis)2, ma negli Addenda et corrigenda dell’opera3 lo si dichiara probabile coetaneo di Cervidio Scevola: ritrattazione, questa, che è già di per sé prova dell’incertezza che circonda la vita e l’opera di questo giurista, a parte l’unico punto fermo del terminus post quem al 161 d.C., data di morte di Antonino Pio, ricavabile dalla citazione di questo imperatore con l’appellativo di divus in uno dei frammenti del VI libro ([F. 9]4 D. 41.1.16). In seguito, comunque, ci si soffermerà su alcuni indizi che fanno propendere per l’età severiana (infra, § 3). Fiorentino è noto col solo cognomen5 e non risulta mai citato in altri passi del Digesto, il che complica la questione della cronologia e fa pensare che anch’egli, come Gaio6, non dovette godere in vita di grande notorietà. È ben vero che un passo controverso dell’historia
1 Sull’opera in generale Rudorff 1857, 199; Ferrini 1929a [1900], 318 [111]; Brassloff 1909, 2755-2756; Girard 1910 (1912), 259 (330); Krüger 1912, 215 ntt. 17, 18; Wieacker 1949, 596 (rectius 594) s.; Bonfante 1959, 132; Wieacker 1960, 200-202; Orestano 1961, 373; Guizzi 1964, 321; Casavola 1965, 32 ss.; Martini 1966, 253-257; Kunkel 1967, 217; Schulz 1968, 280-283; Liebs 1976, 348-349; De Cristofaro in Casavola 1980 (2011), 400-402 (166-168); Nelson 1981, 372-374; Stein 1983, 159 nt. 25; Gaudemet 1987, 89 e ntt. 39, 40; Guarino 1990, 458; Querzoli 1991, 67-102; Querzoli 1992, 31-38; Maganzani 1993, 207-258; Querzoli 1996, passim; Liebs 2000, 235-236. Sulla nascita del genere letterario delle institutiones, da ultimo, Marotta 2021a, 79 ss. (con altra lett.). 2 Lenel 1889. I. 171-172. 3 Lenel 1889. II. 1261. 4 [F.] indica i Fragmenta delle Istituzioni di Fiorentino secondo l’ordine della Palingenesia iuris civilis (e come riportati infra, cap. III); [T.] indica i Testimonia (infra, cap. II). 5 Che si tratti di un cognomen è attestato da Solin, Salomies 1994, s.v. Florentinus, 80. Da ultimo sul tema, Rocchi 2020, 49. 6 Da notare che anche ‘Gaius’ doveva essere un cognomen: sul punto Rocchi 2020, 33 con altra lett.
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Lauretta Maganzani Augusta dedicato alla vita di Alessandro Severo ([T. 1] HA. Alex. 68.1) lo menziona all’interno di una serie di giuristi definiti omnes iuris professores discipuli (…) splendidissimi Papiniani et Alexandri imperatoris familiares et socii: e tuttavia si tratta di un passo che risulta omesso nel manoscritto più antico e autorevole dell’opera risalente al primo quarto del IX secolo (P = Palatinus Vaticanus 899) e che, benché riportato nella prima edizione veneziana (del 1489), oggi è in genere tralasciato dalle edizioni più accreditate7. Fra l’altro il fatto che l’elenco comprenda anche giuristi certamente più antichi del nostro, come, nell’ordine in cui vengono menzionati, Pomponio, Alfeno, Africano, Venuleio, Meciano, Celso, Proculo, e uno certamente posteriore come Ermogene, ha sempre condotto a dubitare dell’attendibilità del testo, considerato in genere frutto di falsificazione tardoantica8. Il passo attesta peraltro l’alta considerazione di cui Fiorentino dovette godere nei secoli successivi alla sua morte9: il che è confermato, da una parte, da una citazione dell’A. negli scholia Sinaitica [T. 2, F. 4]; dall’altra, dall’ampio utilizzo della sua opera da parte dei compilatori delle Istituzioni giustinianee. In schol. Sin. 13.35 è, infatti, citato un passaggio delle institutiones Florentini tratto dal III libro: lo scoliaste greco, commentando un lemma di un testo dei libri ad Sabinum di Ulpiano e ricordando che la dote durante il matrimonio può aumentare o diminuire – il che significa che l’obbligo di restituzione gravante sul marito in caso di scioglimento del vincolo può essere più o meno oneroso – cita le opinioni adesive espresse sul punto da vari giuristi, e cioè lo stesso Ulpiano in un’opera diversa da quella commentata, poi Fiorentino, Modestino e Paolo. A proposito di Fiorentino, in particolare, egli fa il seguente commento: τò αὐτό φησι ὁ Florentinus βιβλίῳ γ’ τῶν institutionon αὐτοῦ περὶ τὰ τέλη τοῦ βιβλίου πρὸ ε’ φύλλων τοῦ τέλους ‘ρήμασιν τούτοις ut incrementum dotis prosit et deminutio noceat (‘Lo stesso dice anche Fiorentino nel III libro delle sue Istituzioni più o meno alla fine del libro, prima che terminino i fogli, e più o meno con queste parole: che giovi un incremento della dote o nuoccia una sua diminuzione’). Ciò, come ha notato Wieacker nei Textstufen10, rende le Istituzioni di Fiorentino una delle poche opere giurisprudenziali della cui conoscenza nel V secolo si può essere certi. Lo scolio dimostra anche che il testo era disponibile in esemplari paginati. L’opera di Fiorentino risulta inoltre utilizzata dai compilatori delle Istituzioni giustinianee, pur se ovviamente molto meno delle Istituzioni di Gaio e comunque non nello schema espositivo, visto che i giustinianei scelsero di adottare la tripartizione gaiana personae-res-actiones, mentre, come si vedrà, Fiorentino aveva organizzato il suo materiale in modo totalmente diverso. Comunque corrispondenze letterali precise, salvo poche varianti, fra testi delle institutiones Florentini compresi nel Digesto e nelle Istituzioni giustinianee sono rilevabili in sei
7 Cfr. vol. II dell’ed. Loeb Classical Library curata da J. Handerson, 312 nt. 3. Schulz 1968, 280 s. nt. 7 affermava che si trattasse “dell’aggiunta di un falsario altrettanto familiare con il nome del giurista delle Pandette quanto immerso nell’ignoranza più candida della di lui cronologia” (l’A., d’altra parte, era convinto della datazione di Fiorentino al II secolo d.C.). Sosteneva l’idea di un’aggiunta successiva già Mommsen 1905, 66. 8 Da ultimo Puliatti 2020, 4 e nt. 5, 57 con altra lett.; Querzoli 1996, 30 nt. 29. Sulla biografia di Alessandro Severo nell’historia Augusta, Pottier 2016, 405-417. Sull’historia Augusta come fonte storica, Rohrbacher 2013, 146180; Savino 2017; Velaza Frías 2017, 701-730; Pottier 2019, 495-506; Stover 2020, 167-198: a queste opere rinvio per la discussione della lett. prec. 9 Querzoli 1996, 31 nt. 29. 10 Wieacker 1960, 170. Vd. anche Querzoli 1996, 12-14 nt. 4. Di recente sul testo Thüngen 2017, 355-356; Zwalve, De Vries 2017, 497s.
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Fiorentino: note biografiche casi ([F. 5] D. 1.8.3 = I. 2.1.18; [F. 15] D. 45.2.7 = I. 3.16.2; [F. 16] D. 45.3.15 = I. 3.17.1; [F. 25] D. 1.5.4 = I. 2.19.4; [F. 29] D. 28.6.37 = I. 2.16.6; [F. 31] D. 29.1.24 = I. 2.11.1) e altre marcate assonanze si notano in tre casi ([F. 7] D. 41.1.6 e I. 2.1.19; [F. 18] D. 46.1.22 e I. 3.17pr.; [F. 21] D. 46.4.18 e I. 3.29.2). Proprio sulla base delle varianti fra i testi florentiniani tràditi dal Digesto e dalle Istituzioni, Wieacker ha mostrato che le rispettive commissioni dovettero far uso di due diverse edizioni del manuale e che quella utilizzata dai compilatori delle Istituzioni doveva essere qualitativamente migliore: non si potrebbe spiegare se non così – secondo l’A. – la presenza, accanto a varianti formali fra Digesto e Istituzioni dovute a interpolazioni effettuate autonomamente dalle due commissioni (es. il passaggio dalla prima persona singolare o plurale alla terza plurale o al passivo impersonale, come in [F. 5] D. 1.8.3 e I. 2.1.18) e a probabili glossemi tardoantichi in entrambi gli esemplari, di varianti oggettive (di cui si farà menzione nel corso dell’esegesi dei singoli frammenti): queste ultime, infatti, sarebbero difficilmente imputabili a una revisione realizzata da editori del V secolo – il cui scopo era piuttosto la mera conservazione del testo – o a emendamenti compilatorii – data la mancanza di tempo sufficiente allo scopo durante la redazione dei Digesta e delle Institutiones11 –. Fiorentino è ricordato soltanto come autore di un manuale di institutiones e non è da escludere che questa sia stata la sua sola opera. La dottrina è quindi concorde nel ritenere che, come forse Gaio, egli non svolgesse attività di consulente o funzionario negli apparati amministrativi imperiali, ma soltanto di insegnante12: sappiamo del resto da Aulo Gellio noct. Att. 13.13.1, della diffusione, a partire dai regni di Adriano e Antonino Pio, di stationes ius publice docentium et respondentium, quindi di centri di attività respondente e didattica insieme. Inoltre l’Encomio a Origine datato presumibilmente 238 d.C. e attribuito a Gregorio Taumaturgo13 ricorda come importanti scuole di diritto in lingua latina fossero all’epoca attive sia a Roma, sia a Berito e come il diritto romano, nonostante le sue difficoltà soprattutto per studenti di lingua greca, fosse considerato ‘il più grande viatico’ per i giovani desiderosi di una proficua carriera (l’espressione si trova in in Orig. 60; ma cfr. anche 7; 64-65; 68; 77; 192)14. Sulla provenienza, le origini, lo status sociale di Fiorentino non abbiamo notizie dirette15 ma si trattò probabilmente di un provinciale, forse d’oriente16: secondo Liebs ciò sarebbe attestato dall’uso di termini ed espressioni non altrimenti usati dai giuristi (mentio, delibatio, mansuefactus, parsimonia, propulsare, semissarius, opus praestare), dalla scrittura talvolta goffa
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Wieacker 1949, 596 (errato per 594)-595; Wieacker 1960, 200. Bretone 1992, 256. 13 Sull’attribuzione dell’opera, Rizzi 2002, 9 nt. 1; Moreschini 2013, 461-464. 14 Ad es. Gregorio (o comunque l’A., che parla in prima persona) ricorda l’ottima carriera del cognato che, dopo avere studiato diritto, venne nominato consulente giuridico dal governatore di Palestina (65). 15 Querzoli 1996, 19-20 e nt. 14 ha chiarito che nessun aiuto per l’individuazione dell’origo del giurista viene dalla ricognizione delle attestazioni epigrafiche del cognomen Florentinus, per la verità relativamente diffuso, sin dal I secolo d.C., in gran parte dell’impero (Italia, Gallia, nelle province orientali e in Africa). L’A. sottolinea che tali attestazioni mostrano un generale trend di ascesa sociale dei portatori del suddetto cognomen che, spesso schiavi e liberti agli inizi dell’impero, divengono parte delle aristocrazie provinciali nel II e III secolo: forse ad una di queste famiglie aristocratiche della provincia potrebbe appartenere il nostro giurista. Omonimo illustre, ma non identificabile con il Fiorentino giurista, è un Florentinus autore di un’opera di georghikà in almeno 11 libri, risalente agli inizi del III secolo (forse sotto il regno di Macrino) che, insieme ad altre numerose opere agronomiche, fu fonte dei Geoponica di Cassiano Basso, opera di agricoltura risalente al V-VI secolo: Querzoli 1996, 22-23 a cui rinvio per altra lett. 16 Liebs 1976, 348-349. 12
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Lauretta Maganzani (es. in [F. 11] D. 16.3.17.1 e [F. 19] D. 18.1.43.2)17 e da alcuni contenuti dell’opera, come lo ius alluvionis negli agri limitati ed arcifinii ([F. 9] D. 41.1.16) e il postliminium ([F. 10] D. 49.15.26)18. Si doveva comunque trattare di un intellettuale di ottimo livello, con buoni basi – e convinzioni – etico-filosofiche, presumibilmente eclettiche (infra, III.II), che di regola usava un buon latino19, non mancava di citare termini greci20 e termini latini poco usati o tecnici21, di usare vocaboli ed espressioni non altrimenti utilizzati dai giuristi22, di fare citazioni letterarie23 e di richiamare con ottima cognizione di causa giuristi antichi, come Aquilio Gallo e Trebazio, del secondo dei quali Pomponio, nel liber singularis enchiridii, sottolineava la poca diffusione già ai suoi tempi (D. 1.2.2.45: Cascelli scripta non extant nisi unus liber bene dictorum, Trebatii complures, sed minus frequentantur). Fiorentino inoltre riprende testualmente frasi di Pomponio sia in [F. 25] D. 1.5.4.2 dove, a proposito dell’etimologia di servus, richiama il lib. sing. ench. D. 50.16.239.1, sia in [F. 30] D. 28.7.17 dove richiama Pomp. 3 ad Sab., D.28.5.27.224. In [F. 32] D. 38.2.28, poi, egli riproduce il contenuto di un testo di Paolo. Infine due frammenti che mostrano come Fiorentino conoscesse e rielaborasse i risultati della letteratura giurisprudenziale precedente sono rispettivamente [F. 19] D. 18.1.43.2 e [F. 38] D. 15.1.39. Il primo contiene la definizione del dolo negoziale. Vi si specifica che il dolus malus non è proprio soltanto di chi fallendi causa obscure loquitur ma anche di chi insidiose obscure dissimulat e in ciò, come si vedrà, il giurista pare richiamare e rielaborare le precedenti definizioni di Aquilio Gallo (Cic. de nat. deor. 3.74; de off. 3.60; top. 40; de inv. 2.61), Servio Sulpicio Rufo (Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1.2), Antistio Labeone (Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1.2), Sesto Pedio (Ulp. 4 ad ed., D. 2.14.7.9), che a loro volta appaiono connesse fra loro nel senso che ciascuna sembra aver superato in qualcosa la o le precedenti25. Il secondo testo pare specificare le definizioni di peculio dei giuristi precedenti e, da ultimi, di Paolo e Ulpiano. Ciò ancora una volta convince della cultura e raffinatezza tecnica di Fiorentino. Molti testi conservati presentano, come si vedrà, soluzioni giuridiche caratterizzate da una spiccata originalità, alcune delle quali sono divenute veri e propri capisaldi della tradizione giuridica occidentale: si pensi a [F. 11] D. 16.3.17 su cui si è fondata l’idea tralatizia che il sequestratario avesse il possesso ad interdicta della cosa depositata presso di lui; [F. 18] corrispondente a D. 46.1.22 e D. 29.2.54, fondamentali sulla dottrina dell’eredità giacente e sulla presunta nascita del concetto di ‘personalità giuridica’; [F. 15] D. 45.2.7 da cui si è tratta la regola (ancora sancita dal Codice civile italiano del ’42 all’art. 1293) per cui non è di ostacolo
17
Osservazione non condivisa da chi scrive. Liebs 2000, 235. 19 Querzoli 1996, 21 nt. 16. 20 Es. kενοτάφιον [F. 12] D. 11.7.42. 21 Ad es. in [F. 16] D. 45.3.15 impersonaliter che, insieme a impersonalis, è definito dal TLL termine tecnico dell’ars grammatica; in [F. 8] D. 41.1.4 mansuefactus, aggettivo considerato poco frequente e tipico della prosa letteraria elevata; in [F. 34] D. 30.116pr. delibatio, termine utilizzato per definire il legato, attestato come tale – oltre che in Fiorentino – nel solo ambito della letteratura cristiana, in primis nelle opere di Tertulliano. Cfr. Querzoli 1996, 21 nt. 16, 31 nt. 30, 31. Sul tema infra, § 3c in questo stesso cap. 22 Es. mentio nel senso di proposta di matrimonio di cui in [F. 2] D. 23.1.1 e opus praestare di cui in [F. 13] D. 19.2.36. 23 Varr. de ling. lat. 6.85 e Fest. de verb. sign. 115.19 in [F. 25] D. 1.5.4.3; Verg. aen. 1.1. in [F. 14] D. 45.1.65. 24 Reinoso-Barbero 1997, 230 nt. 53. 25 Cfr. in particolare Carcaterra 1970, passim; Querzoli 1996, 156 ss. 18
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Fiorentino: note biografiche alla creazione di un vincolo obbligatorio solidale il fatto che uno dei debitori si obblighi puramente e semplicemente, l’altro sotto condizione. Tale originalità si osserva anche nella struttura dell’opera: mentre infatti le institutiones di Gaio si basavano su una classificazione del ius per genera e species e sulla sua distinzione nei tre campi personae, res, actiones, Fiorentino pare svolgere la sua trattazione ponendo al centro l’uomo e le fasi normali della sua vita (nascita, matrimonio, acquisto della proprietà e contratti, testamento) senza apparentemente dare spazio all’occorrenza eventuale e patologica del processo (sul tema infra, III.I.1). Un accenno, infine, ad un’ipotesi di lettura dei testi di Fiorentino, risalente agli anni ’90, particolarmente incline a considerarli influenzati dalle dottrine filosofiche delle scuole più in voga nel II-III secolo dell’impero, soprattutto quella stoica, ma anche quella platonica e aristotelica. Ci si riferisce agli scritti di Serena Querzoli26 e, in particolare, alla monografia del 1996, l’unica, a quanto risulta, ad essersi dedicata specificamente a questo giurista. L’Autrice in primo luogo afferma27 che l’idea dell’esistenza di una naturalis cognatio fra gli uomini (ma non fra gli animali) sostenuta dagli Stoici, costituirebbe una sorta di Leit-Motiv del manuale florentiniano: essa, infatti, emergerebbe non solo nel frammento espressamente dedicato a questa tematica (D. 1.1.3 [F. 1] su cui infra § 3d in questo cap. e III.II.2) ma anche, ad es., in D. 18.1.43.2 [F. 19] dove Fiorentino definirebbe il dolus malus del venditore per sottolineare la necessità di rispetto reciproco fra gli uomini; in D. 23.4.24 [F. 3] dove metterebbe in rilievo la cognatio naturalis esistente fra genitori e figli; in D. 41.1.4 [F. 8] e D. 49.15.26 [F. 10] dove distinguerebbe fra l’uomo e l’animale, essendo quest’ultimo privo di logos, e sottolineerebbe l’inesistenza di un vincolo di naturalis cognatio fra esseri arazionali; in D. 50.16.209 [F. 33] dove affermerebbe che, fra gli uomini, nemmeno il furiosus e l’infans sono privi di logos28. Ma l’A. pensa ad un’influenza filosofica anche sul piano della forma, sottolineando il diffuso utilizzo da parte del nostro giurista dei procedimenti logici stoici per il solo fatto che in un caso egli si serve di definizioni etimologiche (D. 1.1.3 [F. 1])29 e in altri contrappone due o più species fra loro (come in D. 16.3.17 [F. 11]30 deposito e sequestro; in D. 11.7.42 [F. 12]31 sepolcro, monumento e cenotafio; in D. 28.6.37 [F. 29] due diversi tipi di sostituzione pupillare; in D. 35.1.34 [F. 36]32 demonstratio e condicio): in particolare, in questa seconda ipotesi, Fiorentino utilizzerebbe, secondo l’Autrice, le tecniche definitorie per contrarium tipiche della Stoa.
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Querzoli 1991, 67 ss.; Querzoli 1992, 31 ss.; Querzoli 1996, passim. Queste idee sono sostenute con maggior convinzione nei saggi del 1991 e 1992, con più cautela nella monografia del 1996. 28 Querzoli 1991, 84-87 e 1996, 207-219. 29 Querzoli 1991, 77-80. 30 Querzoli 1991, 75; con maggior cautela Querzoli 1996, 189 s. 31 Querzoli, 1991, 76 s.; con maggior cautela Querzoli 1996, 191-193. 32 Querzoli 1996, 204-207. “Fiorentino, infatti, sembra il solo, in base alle testimonianze disponibili, ad impiegare quale tecnica definitoria un confronto fra gli oggetti analizzati introdotto dall’espressione Inter …hoc interest, quod” (204). Poiché, poi, “Questo modo di introdurre una definizione era non infrequente già negli autori della tarda età repubblicana, in particolare nella rhetorica ad Herennium e nelle opere di Cicerone” (205), non sarebbe da escludere, secondo l’A., “che Fiorentino ne derivasse la conoscenza dalla lettura di manuali di altre technai, dimostrando, rispetto ad altri autori severiani di Institutiones giuridiche, forse, una maggiore attenzione alla produzione manualistica delle artes diverse dal diritto” (206). 27
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Lauretta Maganzani In un frammento, poi, relativo all’interpretazione di un legato (D. 34.2.29, [F. 40]), l’A. pensa addirittura di rinvenire l’applicazione da parte del giurista di principi di fisica coerenti con gli indirizzi culturali della koinè platonico-aristotelico-stoica33. Dei singoli frammenti si tratterà a tempo debito. Già da ora, tuttavia, preme sottolineare che – a parte D. 1.1.3 e D. 1.5.4, i cui contenuti presentano certamente influssi delle concezioni etico-filosofiche diffuse all’epoca (sul tema infra, III.II.2-4) –, gli altri testi sono di contenuto tipicamente tecnico-giuridico e in questa luce vanno valutati34. Nulla giustifica, dunque, le azzardate affermazioni dell’Autrice.
2. La questione cronologica Sulla questione cronologica era già divisa la letteratura risalente: da una parte, infatti, vi era chi, come Lenel35 – che in seguito cambiò opinione – e Rudorff36, propendeva per il III secolo d.C., specificamente il regno di Alessandro Severo, sulla base dell’identificazione del Fiorentino giurista con un omonimo destinatario di un rescritto del 223 riportato nel Codex Iustinianus (C. 3.28.8). Tale ipotesi è tuttavia caduta a seguito della constatazione (di autori come Karlowa, Brassloff, Krüger e Schulz37) che lo stesso rescritto compare in un altro testo del Codex, sempre del 223 (C. 6.30.2) in cui al nome del destinatario Florentinus viene aggiunto l’appellativo di miles, il che consente ragionevolmente di escludere la sua identificazione coll’autore delle Istituzioni. Fra l’altro, allo stesso (o a un altro) Florentinus miles, nel 222 Alessandro Severo aveva già destinato un rescritto, conservato in C. 2.27.1, rimproverandogli di essere stato ‘perfido’ e ‘spergiuro’, appellativi che non si addicono alla levatura sociale e morale di un professore di diritto autore di un manuale e senza dubbio gradito all’establishment imperiale38. Fra l’altro lo stesso Lenel, avvedendosi dell’errore, negli Addenda et corrigenda della Palingenesi (1889. II. 1261) formulò l’ipotesi della probabile contemporaneità di Fiorentino e Cervidio Scevola, definendoli addirittura ‘coetanei’. Altra ipotesi cronologica, rimasta per lungo tempo prevalente, colloca Fiorentino nella tarda età antonina, dopo il 161 d.C., data di morte di Antonino Pio, richiamato come divus in uno dei frammenti del manuale ([F. 9] D. 41.1.16). Già Karlowa39, Ferrini40, Girard41 e Krüger42, seguiti da altri43, collocavano la probabile stesura delle institutiones ai tempi di Com-
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Querzoli 1992, 31-38; Querzoli 1996, 219-231. Così anche il recensore Gamauf 1999, 351-352. 35 Lenel 1889, I, 171-172. 36 Rudorff 1857, 199 e nt. 25. 37 Karlowa 1885, 751; Brassloff 1909, 2755; Krüger 1912, 215 nt. 17; Schulz 1968, 280 nt. 7. 38 Querzoli 1996, 23-29. 39 Karlowa 1885, 751. 40 Ferrini 1929, 282. 41 Girard 1910 (1912), 259 (330). 42 Krüger 1912, 215. 43 Come, ad es., Orestano 1961, 373; Schulz 1968, 280; Meincke 1973, 95; Goria 1976, 357; De Cristoforo in Casavola 1980 (2011), 400-402 (166-168); Bretone 1992, 430 (ma l’A. esprime dubbi su tale ipotesi a p. 270); Tondo 1993, 422 s.; Maganzani 1993, 208 e nt. 2; Melillo 2007, 85, 101. Al II secolo pensa, da ultimo, anche Rocchi 2020, 49. 34
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Fiorentino: note biografiche modo, cioè fra il 180 e il 192 d.C. e ciò essenzialmente sulla base della posizione dell’autore all’interno dell’index Florentinus 19, dopo Scevola e prima di Gaio. Tuttavia è noto che l’Indice fiorentino non è attendibile che per una collocazione cronologica di massima, come dimostra il fatto che riporta le opere di Marcello e Cervidio Scevola prima di quelle di Gaio. Gli studi più recenti (Detlef Liebs e Serena Querzoli44) hanno infine messo in luce alcuni indizi, ricavabili dall’interno dell’opera di Fiorentino o dal confronto con altre opere, che fanno propendere per l’età severiana45. Si tratta di indizi vari e, come si vedrà, più o meno probanti, collegati sia a singole soluzioni giuridiche proposte dal giurista, sia al lessico utilizzato, sia alla struttura dell’opera. Altri indizi saranno presentati nel corso della presente ricerca: essi, oltre a confermare la suddetta ipotesi cronologica, mostrano l’esistenza di una possibile connessione fra Fiorentino e Ulpiano, o nel senso che il primo abbia conosciuto l’opera del secondo (in particolare le institutiones, datate, secondo Honoré, 213-21446) o perlomeno che i due condividessero il medesimo retroterra culturale.
3. Indizi per la datazione a. D. 13.7.35pr. Incominciamo dagli indizi collegati a soluzioni giuridiche proposte da Fiorentino per casi specifici. Di essi ha già trattato Serena Querzoli nella monografia del 1996 dedicata al giurista47 ma li si riformula qui perché le osservazioni dell’A., pur innovative e perspicaci, devono essere riviste a causa di alcune imprecisioni nell’interpretazione dei testi. Ci si riferisce prima di tutto a [F. 20] D. 13.7.35pr. tratto dall’VIII libro delle institutiones. Esso formula a scopo didattico la regola, evidentemente all’epoca già consolidata, per cui il ricavato della vendita dei pegni dati dal debitore al creditore andava imputato prima agli interessi e poi al capitale. La regola è qualificata dal giurista come inderogabile, nel senso che non potevano essere prese in considerazione eventuali diverse richieste avanzate dal debitore: Cum et sortis nomine et usurarum aliquid debetur ab eo, qui sub pignoribus pecuniam debet, quidquid ex venditione pignorum recipiatur, primum usuris, quas iam tunc deberi constat, deinde si quid superest sorti accepto ferendum est: nec audiendus est debitor, si, cum parum idoneum se esse sciat, eligit, quo nomine exonerari pignus suum malit48.
Nel Digesto il passo è collocato nel titolo 13.7 De pigneraticia actione vel contra e costituisce il principium di un frammento più ampio, il cui primo paragrafo si riferisce agli effetti del con-
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Liebs 1976, 348 s.; Querzoli 1996, 11 ss.; Liebs 2000, 235. Dello stesso avviso ora anche Marotta 2000, 156; Zwalve, De Vries 2017, 498 nt. 27 e Schiavone 2021, 59. Liebs 2000, 235, in particolare, pensa alla fine estrema del II secolo o, più probabilmente, al III. 46 Honoré 2002, 195-196. Così, da ultimi, Schiavone 2021, 57 e Marotta 2021a, 84-85. 47 Querzoli 1996, 33 ss. 48 Per la traduzione dei testi di Fiorentino, si veda infra cap. III Fragmenta. 45
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Lauretta Maganzani tratto di pegno sulla posizione giuridica delle parti in relazione al bene pignorato: Fiorentino vi precisa infatti che il possesso del pegno passa al creditore ma la proprietà rimane al debitore il quale, comunque, potrà trattenerlo presso di sé o a titolo di precario o di locazione-conduzione: Pignus manente proprietate debitoris solam possessionem transfert ad creditorem: potest tamen et precario et pro conducto debitor re sua uti. Nella Palingenesia Lenel scorporò le due parti come se appartenessero a contesti diversi del libro VIII: pose infatti il principium in [F. 20] sotto la rubrica De solutionibus et liberationibus facendone il seguito di un altro testo florentiniano, cioè il fr. 2 del titolo 46.3, e invece pose il § 1 in [F. 24] come se fosse in origine riferito (insieme a [F. 23] D.50.16.211) al tema dell’interdictum uti possidetis. Salvo riprendere tale proposta palingenetica sia nel capitolo III (infra, III.I.3), sia nel quadro del commento ai singoli testi, si può osservare sin da ora che la regola espressa in [F. 20] risulta confermata da altre fonti di età severiana, segnatamente Ulpiano e Paolo, come un precetto autoritativo già introdotto in precedenza, mentre non pare ancora nota né a Marcello né a Cervidio Scevola: il che significherebbe che Fiorentino scrisse dopo la composizione dei digesta di questi ultimi giuristi. I testi utili per dimostrare ciò possono essere divisi in due gruppi: da una parte due testi di Ulpiano e uno di Paolo che si riferiscono al caso di un solo rapporto di debito-credito esistente fra le parti, rapporto garantito da pegni e per il quale sono maturati interessi; dall’altra un frammento di Scevola e una costituzione di Caracalla, che invece si riferiscono al caso di più rapporti di debito-credito esistenti fra le stesse parti. Il primo frammento del primo gruppo, Ulp. 43 ad Sab., D. 46.3.5.2, riporta il contenuto di un rescritto emesso da Settimio Severo e Caracalla a proposito del caso di un debito garantito da pegni per il quale, fra debitore e creditore, sia stata pattuita la corresponsione di interessi attraverso due diverse modalità: da una parte attraverso un’autonoma stipulatio usurarum, dall’altra attraverso un mero patto aggiunto al contratto costitutivo della prima obligatio. Si tratta, nel primo caso, di usurae effettivamente debitae e azionabili in quanto fondate su un contratto, la stipulatio appunto; nel secondo caso, invece, di usurae di per sé indebitae e non autonomamente azionabili perché fondate su un mero pactum, idoneo tuttavia – dice Ulpiano – a costituire un’obligatio ‘naturale’; il che, com’è noto, significava che la pretesa del creditore era sfornita di azione ma, nel caso di pagamento spontaneo da parte del debitore, esso non era soggetto a ripetizione: Imperator Antoninus cum divo patre suo rescripsit, cum distractis pignoribus creditor pecuniam redigit (in nota Mommsen aggiunge ‘deficiunt quaedam’): si sint usurae debitae et aliae indebitae, quod solvitur in usuras, ad utramque causam usurarum tam debitarum quam indebitarum pertinere: puta quaedam earum ex stipulatione, quaedam ex pacto naturaliter debebantur. si vero summa usurarum debitarum et non debitarum non eadem sit, aequaliter ad utramque causam proficit quod solutum est, non pro rata, ut verba rescripti ostendunt. Sed si forte usurae non sint debitae et quis simpliciter solverit, quas omnino non erat stipulatus, imperator Antoninus cum divo patre suo rescripsit, ut in sortem cedant. Eidem autem rescripto ita subicitur: ‘Quod generaliter constitutum est prius in usuras nummum solutum accepto ferendum, ad eas usuras videtur pertinere, quas debitor exsolvere cogitur: et sicut ex pacti conventione datae repeti non possunt, ita proprio titulo non numeratae pro solutis ex arbitrio percipientis non habebuntur’. L’imperatore Antonino con il suo divo padre rescrisse che, quando con la vendita dei pegni il creditore riscuote del denaro (Mommsen aggiunge in nota che ‘qui manca qualcosa’): se
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Fiorentino: note biografiche ci sono interessi dovuti e altri non dovuti, ciò che viene pagato per gli interessi concerne sia la causa degli interessi dovuti, sia di quelli non dovuti: per esempio se alcuni di essi fossero dovuti in seguito a una stipulazione, altri naturalmente in seguito a patto. E anche se la somma degli interessi dovuti e non dovuti non sia la stessa, egualmente ciò che viene pagato va a vantaggio di entrambe le cause, non in proporzione, come mostrano le parole del rescritto. Ma se per caso gli interessi non siano dovuti e uno semplicemente li abbia pagati pur non avendoli stipulati, l’imperatore Antonino con il suo divo padre dispose con rescritto che venga imputata al capitale. Ma al medesimo rescritto viene aggiunto quanto segue: ‘Ciò che generalmente è statuito, e cioè che il denaro pagato venga imputato prima agli interessi, si ritiene che riguardi quegli interessi che il debitore è tenuto a pagare: , come gli interessi dati in base ad un patto non si possono ripetere, così quelli che non sono stati pagati per un titolo proprio non saranno considerati pagati ad arbitrio del ricevente’.
Nel caso di specie i pegni erano stati venduti e il creditore, conscio della regola (riportata anche da Fiorentino) per cui il ricavato andava imputato prima agli interessi e poi al capitale, si domanda se tale somma possa essere imputata soltanto alle usurae formalmente dovute oppure anche a quelle naturales. Gli imperatori Settimio Severo e Caracalla rispondono che la somma può essere imputata ad entrambe le usurae, purché almeno una parte di esse sia stata oggetto di regolare stipulatio. In mancanza, essi vietano al creditore di imputare a suo arbitrio (ex arbitrio percipientis) la somma ricavata dalla vendita dei pegni alle usurae ‘naturales’, a meno che ciò non sia stato specificamente richiesto dal debitore all’atto del pagamento. Ciò che in questa sede interessa particolarmente è la parte del rescritto degli imperatori, che Ulpiano cita testualmente, da cui si evince che, all’epoca, la regola per cui ‘est prius in usuras nummum solutum accepto ferendum’ era già generaliter constituta49. In una fattispecie simile, di cui in Ulp. 43 ad Sab., D. 46.3.5.3, il giurista severiano presenta e risolve una questione dubbia che era stata posta da Marcello nel XX libro dei suoi digesta: Apud Marcellum libro vicensimo digestorum quaeritur, si quis ita caverit debitori ‘in sortem et usuras se accipere’, utrum pro rata et sorti et usuris decedat an vero prius in usuras et, si quid superest, in sortem. Sed ego non dubito, quin haec cautio ‘in sortem et in usuras’ prius usuras admittat, tunc deinde, si quid superfuerit, in sortem cedat. Presso Marcello nel libro ventesimo dei digesta ci si chiede se, qualora qualcuno abbia prestato al debitore una cautio in questi termini ‘di ricevere per capitale ed interessi’, sia imputata proporzionalmente al capitale e agli interessi, oppure (se debba essere imputata) prima agli interessi e, se rimane qualcosa, al capitale. Ma io non dubito che questa cautio ‘per capitale ed interessi’ ammetta prima gli interessi, e poi, se è rimasto qualcosa, esso venga imputato al capitale.
49 Sul significato tecnico-giuridico dei termini constituere, constitutio, con riferimento specifico agli atti normativi imperiali, Giodice Sabbatelli 1981, 338 ss.
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Lauretta Maganzani Di fronte ad una cautio in cui un creditore prometteva al suo debitore che avrebbe imputato il pagamento di ogni singola rata ‘al capitale e agli interessi’ (in sortem et in usuras), Marcello si chiede se ciascuna rata dovesse coprire una parte del capitale e delle usurae, oppure se prima si dovessero pagare tutte le usurae e poi, sull’eventuale rimanenza, il capitale. Ulpiano supera il dubbio rispondendo decisamente nel secondo senso, probabilmente proprio perché alla sua epoca era già stata emanata la disposizione autoritativa a cui già accennavano Severo ed Antonino nel rescritto di cui in D. 46.3.5.2. Analoga considerazione viene espressa da Paolo 3 decr., D. 46.1.68.1, dove si parla di un tale di nome Aurelius Romulus, che era conductor vectigalis per una somma di cento all’anno, somma il cui pagamento era garantito da fideiussori. A causa dell’inadempimento di Romolo, il fisco si impossessa dei suoi beni (per poterli eventualmente vendere e soddisfarsi sul ricavato) ma nello stesso tempo conviene i fideiussori per il pagamento sia del capitale, sia degli interessi. Questi allora agiscono in giudizio lamentando di essersi impegnati per iscritto per la sola somma di cento annui, non per l’intero l’ammontare della mercede dovuta dal conductor vectigalis compresi gli interessi. Il giudice decreta che effettivamente i fideiussori non sono tenuti al pagamento delle usurae e tuttavia dispone che, una volta effettuata la vendita all’incanto del patrimonio del debitore e imputato il ricavato prima agli interessi e poi al capitale, l’eventuale residuo scoperto venga imposto ai fideiussori (sull’esempio di ciò che accade per la vendita dei pegni): Pro Aurelio Romulo conductore vectigalis centum annua Petronius Thallus et alii fideiusserant: bona Romuli fiscus ut obligata sibi occupaverat et conveniebat fideiussores tam in sortem quam in usuras: qui deprecabantur. Lecta subscriptione fideiussionis, quoniam in sola centum annua se obligaverant, non in omnem conductionem, decrevit fideiussores in usuras non teneri, sed quidquid ex bonis fuisset redactum, prius in usuras cedere, reliquum in sortem, et ita in id quod defuisset fideiussores conveniendos exemplo pignorum a creditore distractorum. Petronio Tallo ed altri avevano prestato fideiussione di cento all’anno a favore del conduttore del vectigal Aurelio Romolo. Il fisco aveva occupato i beni di Romolo in quanto posti a garanzia dell’adempimento del debito e conveniva i fideiussori sia per il capitale, sia per gli interessi: quelli imploravano venia. Letto il documento della fideiussione, poiché i fideiussori si erano obbligati per soli cento all’anno, non per tutta la conduzione, decretò che essi non fossero tenuti per gli interessi, ma qualunque cosa fosse stata riscossa (dalla vendita dei) beni, prima venisse imputato agli interessi, il residuo al capitale, e così che i fideiussori dovessero essere convenuti per ciò che mancava sull’esempio dei pegni venduti dal creditore.
Anche in questo passo emerge che la regola espressa da Fiorentino in [F. 20] era in età severiana già consolidata, mentre non lo doveva essere ancora in età antonina quando scriveva Marcello. Il secondo gruppo di testi riguarda l’ipotesi di due o più rapporti di debito-credito esistenti fra le stesse parti: il problema, in questi casi, era stabilire quale dovesse essere il debito saldato per primo quando il pagamento non avesse coperto l’intero l’ammontare. Il titolo 46.3 del Digesto, sotto la rubrica De solutionibus et liberationibus, tratta della questione sin dai primi frammenti, con dovizia di argomenti e utilizzando soprattutto materiale ulpianeo. Ne deriva un elenco dettagliato di regole riassumibile grosso modo così: in primo luogo è facoltà del 12
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Fiorentino: note biografiche debitore indicare all’atto del pagamento quale debito intenda estinguere per primo; in mancanza la scelta passerà al creditore al quale, tuttavia, si chiede un atteggiamento favorevole agli interessi debitorii, cioè, in sostanza, di imputare il pagamento al debito il cui saldo sia da ritenere più urgente (perché scaduto, non garantito da fideiussori, gravato da penale etc.); se, infine, nessuna delle due parti si sia espressa sul punto, si ordinerà ‘d’ufficio’ di saldare innanzitutto il debito scaduto per primo. A questo scenario si ricollega D. 46.3.89.2 dove Cervidio Scevola, in un testo tratto dal XXIX libro dei suoi digesta, tratta di due diversi rapporti di debito-credito costituiti fra le stesse parti lo stesso giorno ma con la previsione di una diversa scadenza: il caso di specie è quello di un debito di venti che ha una scadenza a breve termine ma a cui sono apposti interessi gravosi, e di un debito di quindici che ha una scadenza più a lungo termine ma su cui gravano interessi più lievi. Accade comunque che il debitore non adempia entro la scadenza né all’uno né all’altro debito e poi paghi una somma totale di ventisei, cioè leggermente superiore all’importo del debito scaduto per primo (di importo pari a 20) senza tuttavia indicare a quale debito intenda imputare questo pagamento. Tale indicazione non viene fornita nemmeno dal creditore. A questo punto, alla domanda su quale dei debiti si intenda saldato con questo importo, Scevola risponde che, in base agli usi, il pagamento dovrà essere imputato per un totale di 20 alla sors del debito scaduto per primo e per i rimanenti 6 ai relativi interessi: Lucius Titius duabus stipulationibus, una quindecim sub usuris maioribus, altera viginti sub usuris levioribus Seium eadem die obligavit, ita ut viginti prius solverentur, id est idibus Septembribus: debitor post diem utriusque stipulationis cedentem solvit viginti sex neque dictum est ab altero, pro qua stipulatione solveretur. Quaero, an quod solutum est eam stipulationem exoneraverit, cuius dies ante cessit, id est ut viginti sortis videantur et in usuras eorum sex data. Respondit magis id accipi ex usu esse. Lucio Tizio obbligò Seio nello stesso giorno con due stipulazioni, una di quindici con interessi maggiori, l’altra di venti con interessi più lievi, in modo che i venti fossero pagati prima, cioè alle idi di Settembre: il debitore, dopo la scadenza del termine di entrambe le stipulazioni, pagò una somma di ventisei senza che fosse detto da parte di nessuno dei due per quale stipulazione essa veniva pagata. Domando se ciò che è stato pagato sia da imputare a quella stipulazione il cui termine era scaduto prima, cioè se i venti risultino dati per il capitale e i sei per gli interessi di quelli. Rispose che questa soluzione è maggiormente da accogliere in base all’uso.
Ciò mostra che, all’epoca della redazione dei digesta di Scevola, la regola dell’imputazione del pagamento prima agli interessi e poi al capitale non era ancora stata fissata autoritativamente, ma in base agli usi si intendeva saldato il debito scaduto per primo con i relativi interessi. Diversamente, in un rescritto del 212 di cui in C. 8.42.1, Caracalla stabilisce che, nel caso di più rapporti di debito-credito fra le stesse parti, la scelta dell’imputazione del pagamento spetti in primis al debitore e poi al creditore, mentre, se nessuno dei due aveva espresso una scelta, sarebbe valsa la regola generale per cui il pagamento doveva coprire prima gli interessi e poi il capitale: Imp. Antoninus A. Aristenetae. In potestate eius est, qui ex pluribus contractibus pecuniam debet, tempore solutionis exprimere in quam causam reddat. Quod si debitor id non fecit, convertitur electio
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Lauretta Maganzani ad eum qui accepit. Si neuter voluntatem suam expresserit, prius in usuras is quo solvitur, deinde in sortem accepto feretur. Imp. Antonino Augusto a Aristeneta. È nella potestà di chi deve denaro in ragione di più contratti esprimere al momento del pagamento per quale causa paghi. Se il debitore non lo ha fatto, la scelta passa a colui che riceve. Se nessuno dei due ha espresso la sua volontà, colui a cui si paga imputerà il pagamento prima agli interessi, poi al capitale.
Tutto questo fa pensare che Fiorentino abbia scritto in età severiana, dopo la fissazione autoritativa della regola. b. D. 38.2.28 Un altro frammento delle institutiones di Fiorentino è segnalato da Detlef Liebs e Serena Querzoli come possibile indizio per una datazione del giurista in età severiana50: si tratta di [F. 32] D. 38.2.28, tratto dal X libro, inserito nel titolo De bonis libertorum del Digesto e relativo al caso di un liberto condannato per un crimen che, prima dell’esecuzione della condanna, muoia di morte naturale. Tenuto conto che i beni dei condannati in un giudizio criminale venivano rivendicati dal fisco, ci si chiede se, in tal caso, l’aspettativa ereditaria del patrono venga ad essere sacrificata. La risposta è che il patrono non perderà la quota ereditaria che civilmente gli spetta, pur andando regolarmente al fisco tutto il resto del patrimonio del liberto (pr.). Lo stesso vale – aggiunge Fiorentino nel § 1 – se il liberto si sia dato volontariamente la morte per paura dell’accusa oppure sia fuggito: pr.: Si in libertinum animadversum erit, patronis eius ius, quod in bonis eius habituri essent, si is in quem animadversum est sua morte decessisset, eripiendum non est. sed reliquam partem bonorum, quae ad manumissorem iure civili non pertineat, fisco esse vindicandam placet. 1. Eadem servantur in bonis eorum qui metu accusationis mortem sibi consciverint aut fugerint, quae in damnatorum bonis constituta sunt.
Il concetto espresso nel principium compare quasi con le stesse parole in un frammento di Paolo tratto dal liber singularis de portionibus quae liberis damnatorum conceduntur, opera monografica dedicata specificamente alle portiones del patrimonio paterno che venivano concesse ai figli di un condannato perché non fossero lasciati sul lastrico dopo la condanna paterna nonostante la confisca dei beni a favore del fisco: D. 48.20.7.1: Si in libertinum animadversum erit, patrono eius id, quod in bonis illius habiturus esset, si is in quem animadversum est sua morte decessisset, eripiendum non erit: reliqua pars bonorum, quae ad manumissorem non pertinebit, fisco erit vindicanda. Se sarà stato condannato un liberto, non bisognerà togliere al suo patrono ciò che dei suoi beni
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Liebs 1976, 348 s.; Querzoli 1996, 37-41; Liebs 2000, 235.
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Fiorentino: note biografiche gli spetti, se colui che è stato condannato è deceduto per morte naturale: la parte restante dei beni che non spetterà al manumissor, dovrà essere rivendicata dal fisco.
La differenza fra i due testi, a parte l’uso del plurale in Fiorentino e del singolare in Paolo, è che il primo giurista, con il placet posto alla fine del principium, pare riferire una regola già consolidata: egli probabilmente la trasse proprio dal citato passo di Paolo, di cui, fra l’altro, nel § 1, specifica l’assunto. Ciò fa credere che Fiorentino abbia scritto le sue institutiones dopo la pubblicazione della citata opera di Paolo51. c. D. 30.116pr. Anche un indizio lessicale è portato da S. Querzoli a sostegno della collocazione cronologica di Fiorentino al III secolo: l’XI libro delle institutiones, dedicato secondo Lenel ai legati, inizia, nella ricostruzione della Palingenesi, con [F. 34] D. 30.116, un lungo frammento tratto dal titolo 30 del Digesto. Esso esordisce con una definizione del legato come delibatio hereditatis, qua testator ex eo, quod universum heredis foret, alicui quid collatum velit, cioè ‘un prelevamento dall’eredità, dalla quale il testatore vuole che qualcosa di ciò che sarebbe divenuto interamente dell’erede venga attribuito a qualcun altro’. Ciò che qui interessa è l’espressione delibatio hereditatis nel senso di ‘sottrazione, prelevamento’ usata per definire il legato. Il termine delibatio, infatti, pare attestato, almeno per il II-III secolo, oltre che in questo caso, soltanto nella letteratura cristiana (cfr. TLL s.v.), in primis negli scritti di Tertulliano, ove compare in più contesti e con significati parzialmente diversificati benché paralleli in base alla comunanza di radice (de e libare). In verità, se non proprio il termine delibatio, il participio del relativo verbo, con analogo significato – delibans – risulta utilizzato in una costituzione di Valente, Valentiniano e Graziano datata 376 (C. 1.28.3 = CTh. 1.6.7), il che significa che esso non era limitato agli ambienti cristiani ma, forse, diffuso anche in quelli dell’amministrazione imperiale. È comunque significativo l’uso del termine da parte di Fiorentino almeno un secolo e mezzo prima rispetto alla data della costituzione. Com’è noto, Tertulliano nacque a Cartagine tra il 150 e il 160 d.C. e non sembra si sia spostato durante la sua vita dalla provincia d’Africa se non, forse, per un breve soggiorno a Roma52. Il monaco Girolamo nel de viris illustribus 53, scritto a Betlemme nel 292-293, lo dichiara figlio di un centurione proconsolare, ‘fiorito’ soprattutto sotto gli imperatori Severo e Caracalla, di carattere fiero ed impetuoso tanto da indurlo, in età matura, a passare alla dottrina estremista di Montano. Eusebio di Cesarea in hist. eccles. 2.2.4 lo definisce profondo conoscitore delle leggi dei Romani, il che ha indotto taluno a identificarlo con l’omonimo giurista che l’index auctorum 22 del Digesto dichiara autore di due opere, otto libri di quaestiones e un liber singularis
51 Anche Reinoso-Barbero 1997, 215 ritiene molto probabile che il testo di Paolo preceda quello di Fiorentino. Non riteneva il confronto ‘decisivo’ Bretone 1992, 270 nt. 70, opinione a cui in un saggio di quasi trent’anni fa avevo aderito io stessa (Maganzani 1993, 208 nt. 2). Su queste ‘geminazioni’, Reinoso-Barbero 1997, 207 ss.; Mattioli 2017, 397-413. C’è tuttavia incertezza sulla cronologia delle opere di Paolo: da ultimo Pontoriero 2018, 3 ss.; cfr. anche Brutti 2020, 3 ss. 52 Tränkle 2000, 494 ss.; Moreschini 2013, 485 ss.
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Lauretta Maganzani de castrensi peculio53. Tuttavia si è per lo più propensi a dubitare di tale identificazione, sia perché il cognomen Tertullianus era piuttosto diffuso all’epoca, sia perché il giurista risulta aver scritto verso il 190, data in cui il nostro autore si stava convertendo al cristianesimo ed è dunque parso strano che si dedicasse ancora alla stesura di opere giuridiche. In ogni caso il Tertulliano cristiano si mostra, nelle sue opere, vero conoscitore del diritto, il che appare in particolar modo nella strenua difesa dei Cristiani dalle persecuzioni. Ciò che tuttavia è più importante in questa sede è che Tertulliano è stato particolarmente studiato dai latinisti a causa delle rilevanti e numerose innovazioni sintattiche, stilistiche, ma soprattutto lessicali e semantiche, apportate nelle sue opere alla lingua latina, tanto da essere definito da von Harnack come “il vero creatore della lingua latina cristiana”54. Fra l’altro pare che egli abbia scritto, almeno quando citava l’Antico Testamento, avendo sotto gli occhi il testo greco e traducendolo poi di volta in volta in modo diverso, il che significa che dovrebbero risalire proprio a lui i numerosi neologismi sparsi nelle sue opere. D’altra parte, come scrive Hoppe, poiché Tertulliano “è tutto preso dalla convinzione che con il cristianesimo abbia avuto inizio sotto ogni riguardo un’epoca nuova, non riconosce più la sua dipendenza culturale e letteraria dal mondo pagano. Il cristianesimo gli ha dato libertà anche nella lingua e questa libertà in lui diviene arbitrio”55, tanto che i suoi scritti sono considerati fra quelli di più complessa lettura dell’intera letteratura latina. Il sostantivo delibatio deriva dalla congiunzione della particella de col verbo libare (nel significato di ‘versare libagioni’, ‘dedicare agli dei’, ma anche ‘assaggiare’, ‘gustare’, ‘estrarre’, ‘attingere’, ‘prendere una piccola parte dal tutto’, ‘diminuire’, ‘alterare’). È usato da Tertulliano nel significato di ‘sottrazione di una parte dal tutto’ ma anche, di conseguenza, di raccolta e assaggio di un frutto da un albero oppure di assaggio di un argomento nel senso di accenno veloce. In particolare viene usato in de carn. res. 7.2, risalente al 211-21356, con riferimento alla sottrazione di una costola ad Adamo per creare Eva; sempre nel senso di sottrazione, diminuzione, ma con riferimento a beni materiali, è usato in de pat. 8.1, composto fra il 197-198 e il 203-20657; nel senso di distacco dall’albero di un frutto e, quindi, di assaggio, è usato in adv. Marc. 1.22.758, risalente al 207-20859; nel senso di tocco, incursione in un argomento, accenno veloce, è utilizzato in adv. Val. 6.260, databile circa al 209-21161. Sulla base dell’uso del termine anche da parte di Fiorentino, S. Querzoli62 ha ventilato la possibilità di una “comunanza di ambiente linguistico” fra il nostro giurista e l’apologeta cristiano e quindi di una comune origine africana: ma l’indizio pare debole, anche se senza dubbio l’uso di un vocabolo culturalmente ‘marcato’ e per di più in una definizione di un istituto importante come il legato, potrebbe far pensare ad una conoscenza da parte del giurista degli scritti dell’apologeta. Con quest’ultima ipotesi non contrasta l’uso del termine analogo deli-
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Annunziata 2019, passim. von Harnack 1893, 667. Così Hoppe 1985, 213-214. Tränkle 2000, 527; Podolak 2004, 29. Carpin 2018, 13-16; Tränkle 2000, 539; Adorno 1992, 175. Sull’opera Tränkle 2000, 521 ss.; Moreschini 2017, 140 ss. Adorno 1992, 175: i primi quattro libri “furono composti tra il 207 e il 208; il quinto tra il 210 e il 211”. Sull’opera Tränkle 2000, 519 ss. Adorno 1992, 175. Querzoli 1996, 31-33 ntt. 30, 31.
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Fiorentino: note biografiche bans nella già citata costituzione di Valente, Valentiniano e Graziano del 376 d.C.: infatti potrebbe ben essere che la voce, dal linguaggio letterario cristiano, si sia, in un secolo e mezzo e più, estesa a quello dell’amministrazione imperiale. Il dato lessicale è dunque significativo ai fini della collocazione di Fiorentino in età severiana. Direi anche che esso consente un’ipotesi cronologica più precisa: infatti, poiché le opere di Tertulliano in cui questo termine compare sono comprese fra il 197 e il 213, è verosimile che Fiorentino abbia scritto in questo lasso di tempo o, più probabilmente dopo, cioè quando il vocabolo era già entrato nell’uso. d. D.1.1.3, D. 1.5.4 Si è già notato – e si vedrà meglio in seguito (infra, III.I.1) – che la trattazione istituzionale di Fiorentino pare seguire come filo conduttore quello dello svolgersi della vita dell’uomo, dalla nascita alla morte (matrimonio, filiazione, acquisti della proprietà, obbligazioni e contratti, successioni mortis causa) mentre tralascia di analizzare autonomamente, almeno a quanto risulta dai frammenti superstiti, la materia processuale. L’opera, inoltre, stando a quanto ci è pervenuto, pare povera di riferimenti a regole giuridiche tradizionali del ius civile romano (ad es. quelle attinenti alla patria potestas, tipiche, secondo Gai. inst. 1.55, dell’esperienza romana), ma sembra piuttosto riportare principi ‘delocalizzati’, cioè adatti e applicabili a tutti i popoli dell’ecumene63. In proposito torna alla mente quanto scriveva Diodoro Siculo, nel proemio alla bibliotheca historica (1.1.3), circa il suo intento di rendere edotti tutti gli uomini, parenti fra di loro, dell’esperienza storica che li accomunava benché divisi nello spazio e nel tempo64. Già tale constatazione induce a ritenere verosimile che Fiorentino destinasse la sua opera a un pubblico indistinto di nuovi cives, cioè quelli che, dopo la constitutio Antoniniana del 212, avevano incominciato a condividere in toto le regole del ius romanum, pur mantenendo probabilmente intatte alcune delle loro ataviche tradizioni, soprattutto nell’ambito del diritto di famiglia. Ma l’indizio più rilevante ai fini della collocazione cronologica di Fiorentino all’età severiana sta nel confronto di alcuni peculiari contenuti della sua opera con quelli, da una parte, delle Istituzioni di Gaio, dall’altra, di alcuni dei manuali isagogici severiani, in particolare di Ulpiano65 e di Marciano66 e di altri testi non istituzionali della medesima epoca dello stesso Ulpiano e di Trifonino. A tale scopo si analizzeranno brevemente alcune caratteristiche di tali manuali, cominciando da Gaio, per poi passare a Fiorentino, a Ulpiano e a Marciano, senza tralasciare altri testi significativi di età severiana, pur non istituzionali.
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Cfr., da ultimo, Marotta 2021a, 84. Da notare che anche Diodoro usa il termine ‘sungeneia’, parallelo al latino cognatio usato da Fiorentino in D. 1.1.3 [F. 1]. 65 Sulle institutiones di Ulpiano, da ultimi, Ferrary, Marotta, Schiavone 2021, passim. Cfr. anche Honoré 2002, passim. 66 Sulle institutiones di Marciano, cfr. in particolare De Giovanni 1994, passim; De Giovanni 2006, 487 ss.; Dursi 2019, passim. Le caratteristiche che avvicinano questi manuali istituzionali severiani a quello di Fiorentino (tripartizione del ius in naturale, gentium e civile; definizione della schiavitù come istituto contra naturam) non si riscontrano, almeno a quanto possiamo sapere dal materiale superstite, nelle Istituzioni di Paolo e di Callistrato: sulle prime cfr. Cossa 2018, 93 ss.; sulle seconde Puliatti 2020, passim. 64
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Lauretta Maganzani Le Istituzioni di Gaio furono, com’è noto, un’opera di grande successo nei secoli a venire fino all’età giustinianea, e ciò si comprende bene vista la loro organicità e chiarezza espositiva dovuta anche alla tripartizione sistematica del ius in personae-res-actiones. Qui, come, fra gli altri, ha bene chiarito Philippe Didier in un contributo del 198167, il concetto di natura viene richiamato essenzialmente con riferimento “à la nature des choses, tant à la nature physique qu’à la nature biologique”68: ad es. “il y a une nature propre à certains animaux et Gaius cherche à déterminer (…) ceux qui ont une nature de bête féroce ou sauvage” e “dans ce sens simplement biologique la nature qualifiera tous les rapports de parenté, pour les opposer à la parenté adoptive”69. Tale ‘natura delle cose’ appare a Gaio come un’evidenza universale contro cui “la loi ne peut rien”70 ed è per questo che le regole giuridiche che ne derivano, e che sono esemplate su di essa, sono comuni a tutti i popoli e costituiscono il cd. ius gentium: un’istituzione universale che, sulla base di quanto si è detto, si fonda – afferma Gaio – sulla naturalis ratio71. Allorché Gaio menziona lo ius naturale, lo fa dunque a proposito degli aspetti ‘più concreti’ dell’esperienza giuridica, come quando afferma, nelle Istituzioni 2.65, che adparet quaedam naturali iure alienari, qualia sunt ea, quae traditione alienantur, oppure quando, in Gai. 25 ad ed. prov., D. 43.18.2 e in Gai. inst. 2.73, dice che l’accessione è un modo di acquisto iure naturali, o ancora quando, in Gai. inst. 1.155-156, rileva che i famigliari dello stesso sangue sono naturali iure cognati. Ciò significa che il diritto che, formalmente, in quanto adottato da tutti i popoli, è detto ius gentium, per Gaio è nel contempo ius naturale in virtù del suo oggetto “partout immédiatement matériel”72. E a tale ius gentium-naturale appartiene anche l’istituto della schiavitù fondato sull’universale “droit de prise sur l’ennemi” (2 res cott., D. 41.1.5.7; Gai inst. 1.52)73. È pur vero che ciò costituisce un paradosso perché lo stesso Gaio trae dall’evidenza della natura l’idea che anche gli schiavi sono uomini, tanto che ne tratta fra le ‘personae’74. E tuttavia Gaio tiene ben separato il mondo dei liberi da quello degli schiavi e a questo scopo, apre la sua trattazione sulle ‘persone’ con la distinzione liberi-servi, precisando in Gai. inst. 1.52, senza alcun imbarazzo, che, se la potestas sui servi è
67 Didier 1981, 201 ss. L’A. si richiama a importanti, benché risalenti, contributi, come quelli di Maschi 1937, passim; Levy 1949, 3 ss.; Villey 1953, 475 ss.; Burdese 1954, 407 ss.; Grosso 1967, 99 ss. Da ultimo sul tema, Schiavone 2021, 68 ss. 68 Didier 1981, 201. 69 Didier 1981, 201. 70 Didier 1981, 202. 71 Tuttora rilevanti sul tema Stein 1974, 305 ss. e Archi 1978, 97 ss. 72 Didier 1981, 206. 73 Didier 1981, 204. 74 Così Quadrato 1986, 1 ss., in part. 24 ss. Ma ciò non giustifica l’accostamento proposto dall’A. (24 nt. 140) fra la concezione gaiana della ‘persona’ espressa, ad es., in 2 rer. cott., 22.1.28.1 (il parto della schiava non è da considerare un frutto perché omnes fructus rerum natura hominum gratia comparaverit) e l’affermazione di Fiorentino di cui in [F. 25] D.1.5.4 sulla libertà naturale di tutti gli uomini. In ogni caso, tale postulazione della categoria unitaria di ‘persona’, indipendentemente dallo status giuridico e sociale, proviene dalla filosofia stoica: in de off. 1.107, 115, Cicerone trae questo concetto da Panezio, sottolineando che ci sono aspetti, come la razionalità, che sono comuni a tutti gli uomini: cfr. Stagl 2013, 107. Lo stesso si ritroverà secoli più tardi nella definizione del termine persona riportata da Boezio (nel contra Eutychen et Nestorium cap. 3, P.L. 64, 1343) come ‘naturae rationalis individua substantia’, cioè ‘sostanza naturale di natura razionale’: Solidoro 2019, 8384.
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Fiorentino: note biografiche di ius gentium (quindi fondata sulla naturalis ratio), quella sui figli è di ius civile ed è tipica ed esclusiva del mondo romano (Gai. inst. 1.55)75. In ciò Gaio si limitava a riflettere, più o meno consapevolmente, le condizioni storiche reali di una società schiavistica al suo apogeo, in cui i segni della crisi non erano ancora evidenti76, almeno per un maestro di diritto di frontiera77, non particolarmente aggiornato sulle novità giuridiche dell’Urbe. Anche Fiorentino, in alcuni passi del VI libro posti da Lenel nella Palingenesi sotto il titolo De adquirendo rerum dominio, allude allo ius naturale con riferimento a una serie di figure giuridiche la cui disciplina è esemplata sull’osservazione della natura (es. l’inventio, l’occupatio, l’alluvio). E tuttavia è da notare come, accanto a tale prospettiva tradizionale, il giurista si elevi oltre la dimensione del sensibile per affermare – in due frammenti molto noti – [F. 1] D. 1.1.3 e [F. 25] D. 1.5.4 – principi etici in precedenza diffusi soltanto fra filosofi e retori78, come quello della cognatio naturalis esistente fra tutti gli uomini e quello della loro naturale condizione di libertà a cui, per effetto delle guerre, lo ius gentium avrebbe contrapposto l’istituto contra naturam della schiavitù79. Si pensi, in primo luogo, a [F. 1] tratto dal I libro delle institutiones, che, nella Palingenesi leneliana, è posto sotto la rubrica De iustitia et iure. Qui, dall’osservazione dell’esistenza di un legame di parentela naturale fra tutti gli uomini (naturalis cognatio), si giunge a dichiarare nefas ogni insidia di un uomo verso un altro uomo e lecita per diritto naturale la difesa del proprio corpo da qualunque vis o iniuria sferrata da un terzo: [Iure gentium fit], ut vim atque iniuriam propulsemus: nam iure hoc evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse existimetur, et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse80.
Il frammento, che nel Digesto giustinianeo si presenta connesso ai due precedenti (di Ulpiano e Pomponio) in un contesto unitario relativo al ius gentium81, estrapolato da tale contesto risulta tronco delle parole iniziali (infatti esordisce con ut vim atque iniuriam propulsemus): per questo Lenel, nella Paligenesia, ne integrò l’esordio con l’espressione ‘iure gentium fit’ come se il giurista si riferisse a tale sfera del diritto anche nell’opera originaria. In realtà, ad opinione
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Goria 1976, 345-346. In generale sul tema, Goria 1976, 331 ss.; Morabito 1987, 51 ss. Goria 1976, 353. 77 Azzeccata espressione di Quadrato 2010, utilizzata a mo’ di titolo del suo volume. 78 C’è dunque anche qui, come nel manuale ulpianeo, secondo Schiavone (2021, 69 s.; 2021a, 203), un’ambiguità fra due regimi del ius naturale: da una parte la regola del ius civile fondata sull’evidenza della natura (gli acquisti della proprietà iure naturali), dall’altra la formulazione di principi etici universali di giustizia (l’eguaglianza fra gli uomini e la loro libertà naturale). 79 Per un’esegesi approfondita dei testi, infra III.II.2, 3, 4. 80 Sul passo, da ultima, Maganzani 2019, 30 ss.; Maganzani 2020, 164 ss.; Maganzani 2020a, 58 ss. con altra lett., fra cui, in part., Behrends 2002, 98; Querzoli 1996, 132-165 e Aricò Anselmo 1983, 562-563. 81 D. 1.1.1.4, Ulp. 1 inst. Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur. quod a naturali recedere facile intellegere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit. D. 1.1.2, Pomp. lib. sing. enchir. Veluti erga deum religio: ut parentibus et patriae pareamus: D. 1.1.3, Flor. 1 inst. ut vim atque iniuriam propulsemus: nam iure hoc evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse existimetur, et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse. 76
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Lauretta Maganzani della maggioranza degli studiosi82, è più probabile che qui Fiorentino, dichiarando la legittimità della difesa dell’incolumità personale di ciascuno dalle insidie e violenze altrui, si riferisse all’ambito del ius naturale, visto che, in vari testi letterari e giuridici, tale reazione difensiva è qualificata come principio fondato sulla natura83. Il secondo frammento significativo è [F. 25] dove si definisce in termini filosofico-giuridici la libertà come naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur, e la schiavitù come una costruzione del diritto delle genti contraria alla natura84, con ciò presupponendo una tripartizione del ius in naturale, gentium e civile85: Libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur. 1. Servitus est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam subicitur. 2. Servi ex eo appellati sunt, quod imperatores captivos vendere ac per hoc servare nec occidere solent: 3. Mancipia vero dicta, quod ab hostibus manu capiantur 86.
Secondo l’autore conforme alla natura è la libertas, mentre la servitus rappresenta una ‘costruzione’ giuridica dell’uomo contro l’evidenza della natura perché comporta il dominio di un soggetto su un altro nonché una presa di possesso fisica e violenta del vinto da parte del vincitore. D’altra parte la schiavitù è quasi un ‘male necessario’, derivata com’è dalla pratica comune della guerra che è sorta con la nascita stessa del genere umano, nonché un ‘male minore’, visto che, attraverso di essa, i vinti vengono servati, cioè mantenuti in vita per la benevolenza dei vincitori87. Si tratta evidentemente di principi ‘rivoluzionari’ rispetto alla prospettiva gaiana, almeno per la giurisprudenza, visto che, come si vedrà, essi non erano affatto nuovi, pur come mere
82 Ad es. Aru 1936, 122 ss.; Longo 1970, 330; Waldstein 2002, 68; Boari 2007, 65; Onida 2007, 5-6; Carro 2009, 149-167; Giltaij 2014, 351; Schiavone 2021, 53 ss. 83 Ad es. in pro Mil. 10 Cicerone parla di una non scripta sed nata lex fondata sulla natura, volta alla difesa della propria incolumità personale da insidiae, vis, tela di latrones ed inimici; in 69 ad ed., D. 43.16.1.27, Ulpiano cita il pensiero di C. Cassio Longino sulla liceità naturale del vim vi repellere in relazione alla tutela interdittale contro le spoliazioni violente; un analogo richiamo alla naturalis ratio per la difesa dalle insidie di un latro si trova in Gai. 7 ad ed. prov., D. 9.2.4pr. 84 Sul tema si è scritto molto: per i contributi più risalenti mi limito a citare Nocera 1962, 30-37 per le osservazioni ancor oggi significative; ora ampiamente Schiavone 2017, 431 ss.; Schiavone 2019, 57 ss.; Schiavone 2021, 53 ss. con altra lett. Cfr. anche, fra gli altri, Cavallini 1994, 72-86; Querzoli 1996, 109-131; Stolfi 2002, 395 ss.; Maganzani 2019, 30 ss.; Maganzani 2020, 166 ss.; Maganzani 2020a, 58 ss. 85 Sulla tripartizione cfr., fra i saggi recenti, Gallo 2009, 423 ss.; Honoré 2010, 199 ss.; Chevreau 2014, 308 ss.; Brouwer 2015, 60-76; Rainer 2015, 859 ss.; Winkel 2015, 341 ss.; Erdödy 2016, 101 ss.; Giltaij 2016, 193 ss.; Winkel 2018, 161 ss.: ad essi rinvio per altra lett. 86 Ampia esegesi in Querzoli 1996, 109-131, con altra lett.; v. anche Schmidlin 1978, 53 ss. (rec. di Schrage 1975); Cavallini 1994, 80-81; Waldstein 2002, 68; Filip-Fröschl 2007, 1868; Behrends 2011, 1 ss.; Muroni 2013, 6-8; Stolfi 2014, 169 ss.; Maganzani 2019, 30 ss.; Maganzani 2020, 166 ss.; Maganzani 2020a, 58 ss.; Amanátegui Perelló 2020, 364-373 e 2020a, 97 ss.; De Falco 2020, 1 ss. Il frammento corrisponde ad un passo contenuto in I. 1.3.1-3, con varianti di lieve entità che, tuttavia, secondo Wieacker 1960, 174, proverebbero che le Istituzioni giustinianee hanno tratto il passo da una migliore tradizione manoscritta. A proposito della dubbia collocazione palingenetica del passo nel IX libro delle institutiones di Fiorentino, infra, III.I.3. Sul termine constitutio, Giodice Sabbatelli 1981, 338 ss. 87 Knoch 2017, 37 ss. La contraddizione fra lo ius naturale, che prevede la libertà di tutti gli uomini, e il diritto delle genti, che ha istituito la schiavitù, rimane esplicita nelle fonti di età giustinianea: Scarcella 2019, 1-37.
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Fiorentino: note biografiche enunciazioni di principio, nelle opere filosofiche, retoriche e letterarie in genere88 (infra, III.II.3, 4). Ebbene è importante notare che tali principi si trovano enunciati anche in una serie di testi di età severiana, istituzionali e non, di giuristi come Ulpiano, Marciano e Trifonino che, proprio come Fiorentino, tripartiscono il ius in naturale, gentium e civile. Anch’essi, infatti, sulla scorta degli ideali etici di cosmopolitismo e di unità del genere umano, contrappongono la condizione di libero e quella di servo, ascrivendo la prima alla natura – per cui tutti gli uomini sono uguali – e la seconda al ius gentium89, il che, da quanto possiamo sapere, non accadeva nelle opere giurisprudenziali dei secoli precedenti90. Si pensi, in primo luogo, a Ulpiano il quale, nel primo libro delle sue institutiones, definisce la libertà degli uomini come regola di diritto naturale e la schiavitù e le manomissioni come regole di diritto delle genti91: D. 1.1.4: Manumissiones quoque iuris gentium sunt. Est autem manumissio de manu missio, id est datio libertatis: nam quamdiu quis in servitute est, manui et potestati suppositus est, manumissus liberatur potestate. Quae res a iure gentium originem sumpsit, utpote cum iure naturali omnes liberi nascerentur nec esset nota manumissio, cum servitus esset incognita: sed posteaquam iure gentium servitus invasit, secutum est beneficium manumissionis. Et cum uno naturali nomine homines appellaremur, iure gentium tria genera esse coeperunt: liberi et his contrarium servi et tertium genus liberti, id est hi qui desierant esse servi. Anche le manomissioni sono di diritto delle genti. Ma la manumissio è una missio de manu, cioè una dazione della libertà: infatti per tutto il tempo in cui uno è in schiavitù, è sottoposto alla manus e alla potestas (altrui), quando è manomesso viene liberato dalla potestas. Il che ha tratto
88 L’influsso del pensiero filosofico riguarda i contenuti del passo. Lo stesso si è notato a proposito di [F. 1] D. 1.1.3. Ingiustificata, tuttavia, mi pare l’idea, sostenuta da Querzoli 1991, 77-80, che esso mostri anche la padronanza da parte del giurista degli strumenti specifici della dialettica stoica, in particolare per l’uso di definizioni etimologiche. Fra l’altro l’A. aggiunge, in parte contraddicendo quando sostenuto poco sopra, che sarebbe esistita “una fondamentale differenza fra l’uso dell’etimologia negli stoici e in Fiorentino. Mentre i primi sottolineavano il valore delle indagini etimologiche al fine di scoprire il logos celato nel linguaggio, Fiorentino si limita ad impiegarle nella costruzione della definitio” (80). 89 La letteratura più risalente usava sospettare di interpolazione i frammenti (oltre a quelli citati nel testo, anche D. 1.1.1.4, Ulp. 1 inst.; D. 12.6.64, Tryph. 7 disp.; D. 40.11.2, Marcian. 1 inst.; D. 50.17.32, Ulp. 43 ad Sab.) ove ius gentium e ius naturale fossero tenuti distinti: ritenevano, infatti, che i giuristi classici sarebbero stati propensi a equiparare le due fonti del diritto, al contrario dei giustinianei che avrebbero invece adottato la tripartizione ius civile, gentium e naturale, intendendo quest’ultimo come ‘quod semper bonum et aequum est’, cioè come un diritto eterno, ideale, divino, contrapposto sia al ius civile, sia al ius gentium. Così, ad es., Perozzi 1928, 100 nt. 3; Albertario 1937, 287 e Lombardi 1947, 159. Tuttavia già a partire dalle ricerche di Maschi 1937, 173-176, Levy 1949, 13-14 e Crifò 1958, 62-63, il testo è stato generalmente considerato genuino e si è ammesso che, con l’età severiana, alcuni giuristi abbiano potuto distinguere fra le sfere del ius naturale e del ius gentium, anche sottolineandone la possibile contrapposizione. 90 Ad es., come già notato nel testo, nelle Istituzioni di Gaio 1.52 l’istituto della schiavitù è qualificato come di ius gentium e quest’ultimo si ritiene fondato sulla naturalis ratio: Morabito 1987, 51 ss. 91 In ragione delle prese di posizione ulpianee contro la schiavitù, Honoré 2002, passim, ha definito Ulpiano come ‘pioneer of human rights’ (e così ha intitolato il suo volume): ma la qualifica pare francamente eccessiva perché alla dichiarazione della libertà naturale da parte di alcuni giuristi, fra cui Ulpiano, non corrispose mai alcun intervento concreto volto alla realizzazione concreta di tali ideali.
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Lauretta Maganzani origine dal ius gentium, poiché in base al diritto naturale tutti gli uomini nascerebbero liberi e non sarebbe nota la manomissione, essendo sconosciuta la schiavitù: ma dopoché con lo ius gentium la schiavitù è dilagata, ne è seguito il beneficio della manomissione. E mentre saremmo chiamati col solo nome di uomini, in base al diritto delle genti incominciarono ad essercene tre generi: i liberi e, all’opposto di essi, gli schiavi e, come terzo genere, i liberti, cioè coloro che hanno cessato di essere schiavi.
Un’analoga prospettiva ‘umanitaria’ risulta dalle Istituzioni di Marciano che, nel I libro, definiscono la cd. restitutio natalium come la procedura che riporta lo schiavo nella sua condizione originaria e naturale di ingenuità: D. 40.11.2: Interdum et servi nati ex post facto iuris interventu ingenui fiunt, ut ecce si libertinus a principe natalibus suis restitutus fuerit. Illis enim utique natalibus restituitur, in quibus initio omnes homines fuerunt, non in quibus ipse nascitur, cum servus natus esset. Hic enim, quantum ad totum ius pertinet, perinde habetur, atque si ingenuus natus esset, nec patronus eius potest ad successionem venire. Ideoque imperatores non facile solent quemquam natalibus restituere nisi consentiente patrono92. Talvolta anche gli schiavi diventano ingenui ex post per una ragione di diritto, come se il liberto sia stato restituito ai suoi natali dal principe. Infatti egli viene restituito a quei natali nei quali all’inizio furono tutti gli uomini, non a quelli in cui lui stesso è nato quando è nato schiavo. Costui infatti, per quanto riguarda la sua intera situazione giuridica, viene considerato come se fosse nato ingenuo e il suo patrono non può succedergli. Perciò gli imperatori non sono soliti disporre a favore di qualcuno la restitutio natalium se non con il consenso del patrono.
Lo stesso emerge da un frammento di Ulpiano: Ulp. 43 ad Sab., D. 50.17.32: Quod attinet ad ius civile, servi pro nullis habentur: non tamen et iure naturali, quia, quod ad ius naturale attinet, omnes homines aequales sunt. Per ciò che attiene al ius civile, i servi non hanno alcuna considerazione: non tuttavia per il diritto naturale perché, per ciò che attiene al diritto naturale, tutti gli uomini sono uguali.
Infine Trifonino enuncia lo stesso principio per la soluzione tecnica di un caso concreto: Triph. 7 disp., D. 12.6.64: Si quod dominus servo debuit, manumisso solvit, quamvis existimans ei aliqua teneri actione, tamen repetere non poterit, quia naturale adgnovit debitum: ut enim libertas naturali iure continetur et dominatio ex gentium iure introducta est, ita debiti vel non debiti ratio in condictione naturaliter intellegenda est. Ciò che il padrone doveva allo schiavo, se glielo paga dopo averlo manomesso, non potrà ripeterlo perché ha riconosciuto un debito naturale, anche se credeva di essere tenuto nei suoi con-
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Sul passo da ultimo Dursi 2019, 58, 67, 118; inoltre Lambertini 1995, 271-283 e Thomas 2011, 35.
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Fiorentino: note biografiche fronti con qualche azione: infatti, come la libertà è un istituto di diritto naturale e la condizione di dominus è stata introdotta dal diritto delle genti, così anche la ratio di ciò che è dovuto o non dovuto con la condictio deve essere intesa su questa base naturale.
Dall’epoca di Gaio era stata percorsa molta strada: questi, sulla scorta di un’idea che era già stata di Cicerone, doveva tendere ad una ‘delocalizzazione’ e ‘universalizzazione’ del diritto romano e in quest’ottica era lo ius gentium, “– cioè una parte del diritto positivo romano – a essere identificata in modo diretto con la ‘ragione naturale’, e quindi a essere sussunta all’interno di un modello in cui la natura figurava implicitamente come ordine normativo”93. Al contrario Ulpiano e altri giuristi severiani, in un mondo che aveva ormai visto trionfare l’assolutismo imperiale e in cui la constitutio Antoniniana aveva da poco esteso la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero94, ritennero probabilmente loro dovere assurgere a custodi della giustizia e dell’equità ed elaborarono per questo una tripartizione del ius che vedeva in primo piano un insieme di precetti validi e giusti per loro intima natura95. Fiorentino si colloca molto bene in tale contesto e ciò rende più probabile una cronologia di età severiana: infatti, se collocato nel II secolo, il manuale, oltre a costituire un’alternativa radicale a quello gaiano (benché nei secoli successivi risultata perdente), farebbe del giurista un precursore rispetto agli sviluppi della manualistica giuridica di età severiana96, soprattutto per il suo insistito richiamo alla natura come fonte di principi etico-giuridici; collocato, invece, nel III secolo, esso appare pienamente coerente col contesto intellettuale dell’epoca, visto che alcuni dei suoi contenuti peculiari si possono spiegare proprio alla luce delle tendenze tipiche dei giuristi-professori di quell’età. Fra i testi citati, d’altra parte, emerge una differenza che forse può ulteriormente chiarire la posizione e gli intenti di Fiorentino: Ulpiano e Marciano nei loro manuali istituzionali, forse proprio in ragione della funzione didattica dell’opera, si ponevano su un piano, per così dire, evolutivo, evidenziando l’uno come, allo status originario di liberi proprio di tutti gli uomini, sarebbe poi seguita, a causa delle guerre instauratesi fra i popoli, la tripartizione degli esseri umani in tre status, ingenui, schiavi e liberti (Ulp. 1 inst., D. 1.1.4); l’altro come la restitutio natalium rimettesse i beneficiari nello status in cui tutti gli uomini si trovavano all’inizio dei tempi (Marcian. 1 inst., D. 40.11.2)97. Al contrario Ulpiano 43 ad Sab., D. 50.17.32 e Trifonino 7 disp., D. 12.6.64 accennano al tema della libertà naturale degli uomini come a un dato di fatto ravvisabile nel presente e anche utilizzabile, almeno nel caso di Trifonino, come possibile criterio guida nella decisione dei casi concreti. A questa seconda prospettiva, nonostante il carattere didattico dell’opera, si avvicina il testo di Fiorentino: anch’egli, infatti, osserva con pacatezza che oggi e senza riserve gli uomini sono per natura liberi e ciò indipendentemente dalla constatazione successiva (§ 1) per cui il
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Schiavone 2017, 433. Mastrocinque 2018 (on line). 95 Crifò 1976, 708 ss.; Crifò 1999, 11 ss. (con la lett. più risalente); De Giovanni 2010, 81 ss.; Schiavone 2017, 401 ss.; Schiavone 2021, 61 ss. 96 Goria 1976, 370-371. 97 Sul rapporto guerra-schiavitù-ius gentium, Ortu 2005a, 5 ss. con altra lett. 94
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Lauretta Maganzani diritto delle genti ha costituito un istituto, comune a tutti i popoli, tale per cui qualcuno può essere sottoposto contra naturam al dominio di un altro98. Non si può sapere se Fiorentino conoscesse i testi citati di Ulpiano e Trifonino e ne abbia tratto in qualche modo esempio, ma l’analoga prospettiva adottata dai tre giuristi è un dato di fatto significativo della loro partecipazione a un comune contesto valoriale. e. D. 41.1.4, D. 49.15.26 Ulteriore indizio a sostegno della collocazione cronologica delle institutiones Florentini in età severiana si trae da alcuni frammenti del libro VI, il cui confronto con una nota testimonianza istituzionale ulpianea fa pensare anche alla possibile esistenza, fra Fiorentino e Ulpiano, di un qualche rapporto, o nel senso che uno abbia scritto avendo presenti e facendo tesoro delle osservazioni dell’altro, o perlomeno che i due condividessero il medesimo retroterra culturale. Sotto la rubrica, supposta da Lenel, De adquirendo rerum dominio, dopo alcuni testi relativi all’acquisto della proprietà iure naturali di ferae bestiae, volucres et pisces e dei loro piccoli, compare un frammento mutilo relativo al cd. animus revertendi degli animalia mansuefacta: la regola enunciata è quella tralatizia (cfr. Gai. inst. 2.68; I. 2.1.15-16) secondo cui rimangono in proprietà del dominus, pur sottraendosi alla sua custodia, gli animalia che ‘emitti ac reverti solita sunt’ ([F. 8] D. 41.1.4). A questo frammento, dopo un altro passaggio dedicato allo ius alluvionis, succede, nella ricostruzione di Lenel, un ultimo testo in tema di postliminium ([F. 10] D. 49.15.26) che riguarda il caso di un prigioniero di guerra che, liberatosi dai nemici con proprie forze o con aiuti esterni, torni fisicamente in patria ma, essendo ormai alienus (nel senso di ‘altrui’ oppure ‘estraneo, straniero’) con la mens, preferisca rientrare in territorio nemico: Fiorentino sottolinea che, in questo caso, il postliminium non ha luogo in quanto per la sua operatività occorre, oltre alla presenza fisica nell’ager romanus del captivus reversus, anche la sua intenzione di non ritornare nel luogo della sua prigionia. Ebbene sarebbe strano che Fiorentino avesse deciso di affrontare in questa sede quest’ultima tematica, estranea al contenuto generale del titolo, se non si pensasse ad una sorta di progressione o successione di idee fra l’osservazione di cui in [F. 8] D. 41.1.4 e quella di cui in [F. 10] D. 49.15.26: come, infatti, l’animale catturato che si allontani dalla custodia del dominus riacquista di regola il suo stato di libertà naturale a meno che, essendo mansuefactus, nutra il cd. animus revertendi, così il civis romanus catturato dai nemici che si allontani dal luogo della sua prigionia per tornare in patria, riacquista per postliminium la sua condizione (naturale) di
98 Il principio, peraltro, non resterà lettera morta ma talvolta verrà ripreso dalla letteratura cristiana: come da Gregorio di Nissa (335-395 circa) che, nelle Omelie sull’Ecclesiaste 4.334-335 scrive: ‘Chi fa proprio ciò che appartiene a Dio, attribuendo al genere umano il potere suddetto, che cosa altro fa, oltre a travalicare con la sua tracotanza la natura, lui che si ritiene qualcosa di diverso da coloro che gli sono soggetti? “Possedetti schiavi e ancelle”. Che cosa vuoi dire? Condanni alla schiavitù l’uomo, per natura libero e padrone di se stesso; stabilisci una legge contro Dio, sovvertendo la legge che egli ha dato alla natura. (…) Come puoi, andando al di là di quanto è stabilito, innalzarti al di sopra della stessa natura libera, annoverando tra i quadrupedi e anche tra gli apodi chi ha la tua identica origine?’.
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Fiorentino: note biografiche libertà, a meno che in lui domini per qualche ragione il desiderio di rientrare presso i nemici: l’esempio principe – di cui, fra gli altri, parla Pomponio 37 ad Quint. Muc. in D. 49.15.5.3 – è quello del generale Attilio Regolo che, inviato come ostaggio dai Cartaginesi a Roma, non volle rimanervi in quanto vincolato al popolo nemico da un giuramento e non potè quindi giovarsi del postliminium. Un esempio meno noto ma egualmente significativo è presentato dallo stesso Pomponio nel medesimo passo e riguarda il caso del greco Menandro che, catturato dai Romani e poi manomesso, quando tornò in Grecia come interprete in occasione di un’ambasceria romana, non subì il postliminium perché non aveva alcuna intenzione di restarvi essendo ormai pienamente integrato presso il popolo romano che lo aveva accolto. Ciò trova conferma nelle Istituzioni giustinianee, ove al tema dell’occupatio di bestiae, volucres et pisces (2.1.12 ss.) e al lungo passo sulla conservazione del dominium sugli animali dotati di animus revertendi che si allontanano dalla custodia del dominus (2.1.15-16), si collega il tema dell’acquisto della proprietà sulle cose dei nemici e poi quello del riacquisto del pristinum statum da parte dei nemici catturati che siano reversi ad suos (I. 2.1.17 Item ea, quae ex hostibus capimus, iure gentium statim nostra fiunt, adeo quidem, ut et liberi homines in servitutem nostram deducantur, qui tamen, si evaserint nostram potestatem, et ad suos reversi fuerunt, pristinum statum recipunt). Secondo Riccardo Cardilli, tale collegamento fra il tema della libertà naturale degli animali selvatici, che viene meno con la cattura da parte del cacciatore, e quello della libertà naturale dell’uomo, che viene meno con la cattura da parte del nemico, mostrerebbe che Fiorentino si inseriva in un dibattito che si era acceso sul tema nell’ambito della giurisprudenza coeva99. Ma si può forse essere ancora più precisi, notando che il collegamento di Fiorentino fra i due testi assume, almeno ai nostri occhi, un senso compiuto alla luce di un altro specifico passo, e cioè quello del I libro delle institutiones ulpianee (D. 1.1.1.3) che parla di ius naturale come di un diritto comune a tutti gli esseri animati in quanto fissato ‘direttamente dalla natura nei comportamenti di tutti i viventi, non solo umani’100. Ulpiano esemplificava tale ius richiamando l’unione fra maschio e femmina, la procreazione e l’educazione dei figli; Fiorentino, invece, doveva evocarlo trattando di quella libertà di fatto di cui tutti i viventi godono per natura fino a che non ricadano, per qualche ragione, sotto il dominio di un uomo, cacciatore o nemico che sia, e sottolineava che, in caso di ritorno nella propria sede originaria, tale libertà viene riacquistata sia dall’uomo, sia dall’animale, a meno che essi, per decisione consapevole o per mera consuetudo, non siano portati a ritornare presso colui che li aveva a suo tempo catturati. Ulpiano e Fiorentino, quindi, dovevano condividere questa nozione ampia di ius naturale. Quale dei due giuristi abbia potuto influenzare l’altro, non è dato saperlo. È tuttavia suggestiva e fors’anche più verosimile l’idea che l’oscuro maestro di diritto abbia formulato quel paragone proprio ispirandosi al famoso testo dell’opera istituzionale del noto giurista-funzionario: del resto Fiorentino amava le citazioni (cfr. [F. 9] D. 41.1.16), comprese quelle ‘nascoste’, in cui, cioè, si asteneva dal rivelare la sua fonte: si pensi a [F. 19] D. 18.1.43.2 dove
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Cardilli 2019, 20 ss. Analogamente Filip-Fröschl 2007, 1851 ss. Schiavone 2021a, 204.
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Lauretta Maganzani richiama senza citarle le precedenti definizioni giurisprudenziali di dolo negoziale; a [F. 30] D. 1.5.4 dove richiama senza citarli D. 50.16.239.1 di Pomponio, Varr. de ling. lat. 6.85 e Fest. de verb. sign. 115.19; a [F. 30] D. 28.7.17 dove riproduce le parole di Pomponio 3 ad Sab., D. 28.5.27.2101 senza menzionarlo e a [F. 32] D. 38.2.28 dove allo stesso modo ripropone le parole di Paolo D. 48.20.7.1102. In ogni caso è difficile negare che i due giuristi abbiano partecipato del medesimo humus culturale, come risulta anche dal fatto che la medesima comunanza fra uomini e animali si palesa, pur su un piano meramente naturalistico, in un passo de ‘La vita di Apollonio di Tiana’ (2.14) di Filostrato: autore che, com’è noto, aveva ricevuto l’incarico della redazione dell’opera da parte di Giulia Domna – animatrice di un circolo di intellettuali operanti all’ombra del potere imperiale – proprio al fine di recuperare ed innalzare la figura di questo sapiente del I secolo d.C. intriso di pitagorismo103. Questo significa che probabilmente, come già notava Mantello, “elemento catalizzatore per la singolare consonantia” delle idee sugli uomini e gli animali espresse da Ulpiano, da Filostrato – e forse anche da Fiorentino –, dovette essere proprio l’emersione e la diffusione “di siffatti modelli culturali, così come controllati e privilegiati dall’alto”104. f. D. 15.1.39 Un’ultima osservazione a sostegno della collocazione cronologica di Fiorentino in età severiana e verosimilmente dopo la pubblicazione degli scritti di Ulpiano, Paolo e Trifonino (che forse conosceva), si trae da una (pur succinta) analisi della riflessione giurisprudenziale circa il significato del termine ‘peculio’. Il giurista, in un passo in tema di legatum peculii tratto dall’XI libro delle institutiones ([F. 38] D. 15.1.39), precisa che è ‘peculio’ anche ciò che il servus si sia ‘procurato con il suo risparmio oppure che abbia ricevuto in dono da qualcuno per un servizio prestato’ e che (ovviamente) il dominus abbia voluto che egli tenesse come proprio patrimonio (Peculium et ex eo consistit, quod parsimonia sua quis paravit vel officio meruerit a quolibet sibi donari idque velut proprium patrimonium servum suum habere quis voluerit) 105. Ai fini di un’ipotesi sulla collocazione cronologica del giurista, interessa capire a che punto stia questa notazione nell’evoluzione della riflessione giurisprudenziale in materia. Sappiamo infatti dal Digesto che la nozione, soprattutto nell’ambito del commento all’actio pretoria de peculio, fu da vari punti di vista oggetto di discussione fra i giuristi. Innanzitutto fra i veteres vi doveva essere chi riteneva che l’esistenza di un peculium in capo a un servus (o a un filius familias) richiedesse continuativamente la voluntas positiva del dominus (cfr. Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.7.1): il che significava che lo schiavo il cui padrone, che aveva a suo
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Reinoso-Barbero 1997, 230 nt. 53. Anche in [F. 10] D. 49.15.26, [F. 36] D. 35.1.34 e [F. 38] D. 15.1.39, come si vedrà nel commento ai testi, Fiorentino pare richiamare giuristi precedenti. 103 Mantello 1991-1992, 402 ss. 104 Mantello 1991-1992, 406. 105 Di recente sul testo, Gamauf 2017, 225-253; v. anche Astolfi 1979, 1 ss., in part. 12; Buti 1976, 36 nt. 57; Bürge 2010, 376. 102
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Fiorentino: note biografiche tempo costituito il peculio, fosse a un certo punto impazzito, avrebbe perso il suo peculium in quanto il dominus non era più in grado di manifestare la volontà di mantenerglielo. Lo stesso sarebbe accaduto se, ad es., il dominus fosse morto e a lui fosse succeduto un impubere incapace, per ragioni di età, di manifestare la sua voluntas in tal senso. Ma molti giuristi, a partire da Tuberone (e fra di loro, due secoli dopo, lo stesso Ulpiano), rifiutarono tale soluzione, ritenendo che la voluntas positiva del dominus dovesse essere manifestata soltanto al momento della costituzione del peculio (Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.5.4), realizzandosi concretamente in una traditio dei beni da destinare allo schiavo (Paul 4 ad Sab., D. 15.1.8). Il che significava che il servus, nei due casi sopra enunciati, avrebbe mantenuto il suo peculio fino a quando il dominus non avesse espresso l’intento di privarlo di esso106. Per questo Tuberone – stando ancora al testo già citato di Ulpiano – dovette fornire la prima vera e propria definitio di peculium, che sarebbe poi stata accolta da Giuvenzio Celso (cfr. anche Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.7pr.): “È peculio tutto ciò che lo schiavo col permesso del padrone ha in una contabilità separata da quella dominica”107. Tuttavia tale definitio, che in qualche modo sminuiva l’importanza del permissus domini in favore dell’iniziativa dello schiavo, dovette essere criticata da Masurio Sabino108: ciò risulta da Pomp. 7 ad Sab., D. 15.1.4pr. nel cui primo periodo – probabilmente di Sabino – si sottolinea proprio che la separazione delle due contabilità non doveva essere opera dello schiavo ma del padrone109. Un altro problema discusso dai giuristi fu relativo al modo di conteggiare il peculio e in materia si era forse già pronunciato Quinto Mucio Scevola110 il cui pensiero fu precisato da Servio Sulpicio Rufo: lo nota Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.9.2-3, secondo cui il peculio andava conteggiato al netto dei debiti dello schiavo verso il padrone nonché – precisava Servio – di coloro che erano in potestate di quello111. Altri giuristi trattarono questo tema in un’ampia casistica indicando quando i debiti naturali dello schiavo verso il padrone e del padrone verso lo schiavo andavano conteggiati nel peculio. Un terzo problema, che è quello che interessa maggiormente in questa sede, riguardava i potenziali acquisti dello schiavo: in primo luogo ci si chiese se occorresse per ognuno di essi l’approvazione espressa del dominus. La risposta che, riferita da Pomp. 4 ad Quint. Muc., D. 15.1.49pr., si deve probabilmente già a Quinto Mucio, manifesta anch’essa l’intento dei giuristi di valorizzare l’autonomia dello schiavo: vi si dice, infatti, che doveva rientrare nel peculium non solo ciò che il dominus aveva concesso al servus, ma anche ciò che era stato da questi ac-
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Bürge 2010, 376. Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.5.4 Peculium autem Tubero quidem sic definit, ut Celsus libro sexto digestorum refert, quod servus domini permissu separatum a rationibus dominicis habet, deducto inde si quid domino debetur; Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.7pr. Quam Tuberonis sententiam et ipse Celsus probat. Così Amirante 1983, 4. 108 Anche Amirante 1983, 4-5 rileva che Sabino era “preoccupato, forse, che l’accenno al solo permissus domini accentuasse l’iniziativa dello schiavo in tema di peculio” sminuendo la rilevanza della voluntas dominica. 109 Peculii est non id, cuius servus seorsum a domino rationem habuerit, sed quod dominus ipse separaverit suam a servi rationem discernens: nam cum servi peculium totum adimere vel augere vel minuere dominus possit, animadvertendum est non quid servus, sed quid dominus constituendi servilis peculii gratia fecerit. 110 Stolfi 2018, 201 ss. con altre fonti e altra lett. 111 2. Peculium autem deducto quod domino debetur computandum esse, quia praevenisse dominus et cum servo suo egisse creditur. 3. Huic definitioni Servius adiecit et si quid his debeatur qui sunt in eius potestate, quoniam hoc quoque domino deberi nemo ambigit. Cfr. Aubert 2009, 189-193; Pesaresi 2012, 79 ss. con altra lett. 107
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Lauretta Maganzani quisito nell’ignoranza del dominus, e che tuttavia lui gli avrebbe concesso se avesse avuto notizia dell’iniziativa dello schiavo112. Anche Giuliano si interessò del problema: a lui si deve, infatti, una soluzione innovativa che fu probabilmente ripresa dallo stesso Fiorentino. Il suo pensiero è riportato da Trifonino 8 disp., D. 15.1.57 dove, nei paragrafi 1 e 2, si presentano due casi di legato di peculio, uno a favore dello schiavo manomesso, l’altro a favore di un estraneo. Secondo Giuliano, nel primo caso avrebbe dovuto essere ricompreso nel peculio qualsiasi incremento avutosi prima dell’aditio hereditatis; nel secondo caso, invece, soltanto gli incrementi naturali, come i parti delle ancelle e i fetus pecudum, ma non quelli derivati dall’iniziativa dello schiavo, come le donazioni ricevute da terzi o l’acquisto di beni come corrispettivo per la prestazione di opere. Questo significava concretamente attribuire al servus un’ampia autonomia, spingendolo a incrementare il proprio peculio con l’impegno personale, anche per avere la possibilità, un giorno, di prometterlo al dominus dietro il beneficio della manomissione oppure di ottenerlo quando il padrone lo avesse liberato. Da qui alla qualificazione del peculio come quasi patrimonium113, il passo era breve e lo fecero Ulpiano e Paolo in più occasioni: ad es. Ulpiano in 29 ad ed., D. 15.1.5.3 definisce il peculium quasi pusilla pecunia sive patrimonium pusillum e in 29 ad ed., D. 15.1.19.1 e 2 disp., D. 15.1.32pr. sottolinea che i terzi che contrattano con lo schiavo considerano il peculio veluti patrimonium; così Paolo, in 4 ad Plaut., D. 15.1.47.6, definisce il peculio quasi patrimonium liberi hominis e in 4 quaest., D. 15.1.52pr. ne parla come di ciò che lo schiavo pro patrimonio habet114. A questo stadio della riflessione giurisprudenziale appartiene anche la notazione di Fiorentino. Egli infatti, seguendo da una parte Giuliano (a sua volta ripreso da Trifonino), dall’altra Paolo e Ulpiano, precisa che fa parte del peculio anche ogni suo incremento dovuto all’iniziativa dello schiavo (per il suo risparmio, i suoi lavori extra, le donazioni ricevute) e che il dominus abbia voluto che lui tenesse velut proprium patrimonium. Ciò conferma la collocazione cronologica del giurista all’età severiana, ma fa pensare anche che egli abbia scritto avendo presenti sia l’opinione di Giuliano e forse Trifonino, sia la qualificazione del peculium come quasi patrimonium (o simili) di Paolo e Ulpiano.
112 Non solum id peculium est, quod dominus servo concessit, verum id quoque, quod ignorante quidem eo adquisitum sit, tamen, si rescisset, passurus erat esse in peculio. Stolfi 2018, 201 ss. con altre fonti e altra lett. 113 Si parla di ‘quasi patrimonium’ perché, come precisa Ulp. 27 ad ed., D. 50.16.182, tecnicamente ‘Pater familias liber “peculium” non potest habere, quemadmodum nec servus “bona”’: Bürge 2010, 375. D’altra parte, come sottolinea sempre Bürge 2010, 390 “a Roma, come in Grecia, c’erano schiavi che agivano per loro conto presentandosi nella vita privata ed economica, con il loro patrimonio, come indipendenti”. 114 Secondo Amirante 1983, 8, i giuristi prima quantificarono il peculio e solo più tardi lo definirono: tale quantificazione, del resto, era funzionale alla determinazione dell’entità della condanna del dominus nell’actio de peculio. Cfr. Bürge 2010, 374 s.; Stolfi 2018, 201 ss. con altre fonti e altra lett.
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II TESTIMONIA
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TRADIZIONE MANOSCRITTA
Historia Augusta 1 – Alex. 68.1: Et ut scias, qui viri in eius consilio fuerint: Fabius Sabinus, Sabini insignis viri filius, Cato temporis sui; Domitius Ulpianus, iuris peritissimus; Aelius Gordianus, Gordiani imperatoris parens, vir insignis; Iulius Paulus, iuris peritissimus; Claudius Venacus, orator amplissimus; [Pomponius legum peritissimus, Alphenus, Aphricanus, Florentinus, Martianus, Callistratus, Hermogenes, Venuleius, Triphonius, Metianus, Celsus, Proculus, Modestinus: hi omnes iuris professores discipuli fuere splendidissimi Papiniani, et Alexandri imperatoris familiares et socii, ut scribant Acholius et Marius Maximus]1; Catilius Severus, cognatus eius, vir omnium doctissimus; Aelius Serenianus, omnium vir sanctissimus; Quintilius Marcellus, quo meliorem ne historiae quidem continent. E perché tu sappia quali uomini ci furono nel suo consilio: Fabio Sabino, figlio dell’illustre Sabino, Catone del suo tempo; Domizio Ulpiano, espertissimo di diritto; Elio Gordiano padre (o parente) dell’imperatore Gordiano, uomo insigne; Giulio Paolo, espertissimo di diritto; Claudio Venaco, oratore illustrissimo; [Pomponio, espertissimo di leggi, Alfeno, Africano, Fiorentino, Marziano, Callistrato, Ermogene, Venuleio, Trifonio, Meziano, Celso, Proculo, Modestino: tutti questi furono professori di diritto, discepoli dello splendidissimo Papiniano e familiari e compagni dell’imperatore Alessandro, come scrivono Acolio e Mario Massimo]. Catilio Severo, suo parente, uomo più dotto di tutti; Elio Sereniano, uomo più degno di reverenza di tutti; Quintilio Marcello, di cui le storie non contengono nessuno di migliore.
1 Il passo fra parentesi quadra, ove è citato anche Florentinus, è in genere considerato un inserto posteriore: cfr. vol. II dell’ed. Loeb Classical Library curata da J. Handerson, Cambridge 1924, 312 nt. 3. Esso è assente nel manoscritto più antico dell’historia Augusta risalente al primo quarto del IX secolo (P = Palatinus Vaticanus 899) e, benchè riportato nella prima edizione veneziana dell’opera (1489), oggi è in genere tralasciato dalle edizioni più accreditate.
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Lauretta Maganzani Scholia Sinaitica 2 – 13.35: τò αὐτό φησι ὁ Florentinus βιβλίῳ γ’ τῶν institutionon αὐτοῦ περὶ τὰ τέλη τοῦ βιβλίου πρὸ ε’ φύλλων τοῦ τέλους ‘ρήμασιν τούτοις ut incrementum dotis prosit et deminutio noceat. Lo stesso dice anche Fiorentino nel III libro delle sue Istituzioni più o meno alla fine del libro, prima che terminino i fogli, e più o meno con queste parole: che giovi un incremento della dote o nuoccia una sua diminuzione.
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III OPERA
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INSTITUTIONUM LIBRI XII
INTRODUZIONE I. La scrittura e il testo 1. Struttura I compilatori delle Istituzioni giustinianee decisero, com’è noto, di esemplare il loro manuale su quello gaiano, cioè con una prima parte dedicata alle fonti del diritto, seguita da una parte dedicata alle personae (diritto delle persone e della famiglia), una alle res (classificazione dei beni, modi di acquisto della proprietà e diritti reali limitati, successioni, obbligazioni) e infine una alle actiones1. Peraltro i compilatori – come risulta espressamente dalle costituzioni imp. maiest. 6, omnem 2, tanta-δέδωκεν 11 – trassero il loro materiale anche da altri trattati istituzionali classici come quelli di Fiorentino, Ulpiano, Marciano, Callistrato e Paolo, ed è proprio da questi che essi dovettero ricavare quelle frasi di esordio di contenuto etico-filosofico che, come già notato, erano estranee al manuale gaiano2. Si osservi inoltre che la prima sezione delle Istituzioni giustinianee dedicata alle personae esordisce spiegando la ragione della collocazione prioritaria di tale tematica con una frase assente nel manuale gaiano (I. 1.2.12)3: ac prius de personis videamus. Nam parum est ius nosse,
1 La sistematica gaiana fu quella che prevalse anche nei secoli della tradizione europea, ma le trattazioni istituzionali del III secolo dovettero seguire le sistematiche più varie: ancora significativo sul punto Wolodkiewicz 1978, passim. Da ultima sulla sistematica gaiana, Romano 2020, 167 ss. 2 Sulle institutiones di Ulpiano, da ultimi, Ferrary, Marotta, Schiavone 2021, passim; sui primi cinque libri di quelle di Marciano, Dursi 2019, passim; su quelle di Callistrato, Puliatti 2019, 61-76; Puliatti 2020, passim; su quelle di Paolo, Cossa 2018, 93-118. 3 Gai. inst. 1.8 scrive soltanto: Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones. Sed prius videamus de personis.
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Lauretta Maganzani si personae, quarum causa statutum est, ignorentur (‘e prima vediamo delle persone. Infatti è vano aver conosciuto il diritto, se si ignorano le personae per le quali il diritto stesso è stato costituito’). Non si vuole certo dire che tale frase sia stata recepita dai compilatori dalle institutiones Florentini, anche perché essa trova corrispondenza in altri frammenti giustinianei (ad es. Hermog. 1 iuris epit., D. 1.5.2)4 e secondo Ferrini potrebbe essere stata tratta da Ulpiano5. È tuttavia interessante notare che tale prospettiva incentrata sull’idea di persona, che viene per così dire seguita nell’esplicarsi della sua “personalità” durante l’intera vita, è proprio quella che ritroviamo nella strutturazione del materiale didattico del manuale florentiniano: infatti nel libro I il giurista premetteva considerazioni di carattere etico-filosofico sull’uomo e i rapporti con i suoi simili alla luce del ius naturale e della morale stoica (infra, II.2). Nel libro III (del contenuto del II libro non siamo informati) erano collocati passi dedicati ai vincoli familiari, fidanzamento, matrimonio, dote, procreazione e rapporti con i figli. Nel libro VI (del IV e V non siamo informati) erano posti passi dedicati ai modi di acquisto della proprietà di diritto naturale, cioè connessi all’evidenza della realtà naturale così come si presenta agli occhi di tutti (inventio, occupatio, parti degli animali, alluvio etc.), nonché a quel modo particolare di acquisto – o riacquisto – dei diritti, e in genere della situazione giuridica, del civis romanus catturato e reso schiavo dai nemici a seguito del postliminium. Nel libro VII doveva comparire una trattazione dedicata alle obligationes re e consensu6, mentre le obligationes verbis e, in particolare, la stipulatio erano oggetto del libro VIII, il che evidenzia ancora una volta l’originalità della trattazione rispetto a quella dei manuali gaiano e giustinianeo che, com’è noto, seguivano l’ordine, divenuto poi tradizionale in tutta la tradizione giuridica occidentale, obligationes re, verbis, litteris e consensu. Lenel ha peraltro ipotizzato che il libro VIII contenesse anche testi in tema di pagamenti e liberazioni e sull’interdetto uti possidetis ma, come si vedrà, questa ipotesi presenta alcune criticità (infra, I.3 in questo stesso cap.). Al libro IX è ascritto un solo frammento in tema di libertà e schiavitù, cioè il già menzionato D. 1.5.4, che Lenel pone sotto la rubrica De statu hominum, ma alcuni autori7 – alla cui opinione si aderisce – hanno, come si vedrà, dubitato della correttezza di tale collocazione, in quanto l’argomento parrebbe più consono al contesto del I libro e alle tematiche filosofico-giuridiche tipiche degli esordi dei manuali istituzionali severiani. Infine i libri X e XI trattavano di eredità, legati e, forse, fedecommessi, mentre non si sa a che cosa si riferisse il libro XII. Manca, a quanto risulta dal materiale tràdito, una sezione dedicata al processo e, anche in questo, il manuale di Fiorentino si distanzia significativamente da quello gaiano, mentre, a quanto possiamo sapere, si avvicina a quello ulpianeo8.
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Tafaro 2006, 1 ss. Ferrini 1929, 334. 6 Così, pur dubitativamente, Lenel 1889. I. 173 nt. 4: ‘De obligationibus, quae re aut consensu contrahuntur?’. 7 Così già Albertario 1937, 287 nt. 3. Analogamente Goria 1976, 357-358. 8 È stato ipotizzato (Schiavone 2021, 71) che Ulpiano considerasse il processo non dall’angolo visuale delle formulae, ma da quello della cognitio a cui forse “attribuiva un’autonomia concettuale e funzionale che ne faceva un blocco a sé stante, con connotati che noi diremmo pubblicistici”. Non è da escludere che questo valesse anche per Fiorentino. 5
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La scrittura e il testo
2. Contenuti Le institutiones Florentini erano certamente un’opera destinata all’insegnamento. Molti dei frammenti conservati presentano definizioni e chiarimenti basilari adatti a un pubblico di studenti (ad es. [F. 2] D. 23.1.3; [F. 5] D. 1.8.3; [F. 12] D. 11.7.42; [F. 14] D. 45.1.65; [F. 23] D. 50.16.211; [F. 25] D. 1.5.4; [F. 26] D. 28.1.24; [F. 28] D. 28.5.50; [F. 31] D. 29.1.24; [F. 34] D. 30.116pr.). Ciò non toglie, tuttavia che in altri casi i frammenti pervenuti rivelino contenuti originali e complessi, non sempre adatti ad un pubblico di esordienti nello studio del diritto. I singoli testi saranno analizzati a tempo debito, ma sin da ora è possibile segnalare alcune peculiarità del discorso del giurista, anche per farsi un’idea delle finalità e dei possibili lettori dell’opera. L’esordio è dedicato a un precetto di ius naturale, quello della difesa dalla vis e dall’iniuria altrui, e pare richiamare concetti etico-filosofici pur rivisitati in chiave tecnico-giuridica. Il libro III riguarda gli sponsalia e la dote, temi non trattati nel manuale gaiano9. Alcuni passi appartenenti al libro VI, titolo De adquirendo rerum dominio, dedicati a casi di acquisto della proprietà iure naturali, presentano elementi di particolare originalità nel quadro delle fonti a noi note sulla tematica. Ci si riferisce, in primo luogo, a [F. 6] D. 41.1.2 e [F. 7] D. 41.1.6 relativi all’acquisto del dominium sui parti degli animali. Se, infatti, in genere, nei testi della giurisprudenza classica a noi noti sul tema, i parti degli animali, in particolare dei pecudes, erano considerati frutti della cosa madre e in questo senso differenziati dai parti della schiava sin dalla famosa sententia Bruti (che escluse che un essere umano potesse essere considerato frutto ‘perché è proprio per l’essere umano che la natura prepara i suoi frutti’10), nei lacerti di Fiorentino che i compilatori giustinianei hanno conservato collegandoli a passi delle res cottidianae sulla caccia delle ferae bestiae, volucres et pisces, essi sono dichiarati res nullius acquistabili per occupazione. Forse Fiorentino metteva in luce una differenza corrispondente ad una evidenza della natura: mentre abitualmente i piccoli dei pecudes sono animalia mansuefacta al pari dei loro genitori, cioè sono caratterizzati per indole naturale dall’animus revertendi, al contrario i piccoli delle ferae bestiae, degli uccelli e dei pesci mantengono indefessamente il loro carattere selvatico e la loro naturale propensione alla fuga e alla libertà: per questo il loro acquisto richiede un’autonoma occupatio. Non è quindi da escludere che i compilatori dei Digesta abbiano conservato, pur mutilandoli, i frammenti sopra citati proprio al fine di salvare il particolare punto di vista dell’autore. Sempre nel titolo VI delle institutiones si rivela di particolare originalità [F. 9] D. 41.1.16 in tema di acquisto della proprietà iure naturali per incremento fluviale. Nel frammento si tratta del cd. ius alluvionis, inteso come la prerogativa dei fondi rivieraschi di estendere la loro superficie per ‘automatica’ accessione degli incrementi di terra formatisi a seguito dei vari fenomeni fluviali (alluvio; avulsio, alveus derelictus; insula in flumine nata). Ciò che rende di particolare interesse il contenuto del frammento, oltre alla citazione espressa di una constitutio di Antonino Pio e di un testo di Trebazio, è che esso sottolinea che l’operatività della regola di ius naturale dello ius alluvionis è limitata ai territori cd. arcifinii, cioè quelli che permangono nella forma originaria forgiata dalla natura, senza il radicale intervento di riorganizzazione
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Quadrato 1979, 31 ss.; Stagl 2014, 313 ss.; Stagl 2015, 1 ss.; Varvaro 2016, 409 ss. Cfr. Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.68pr.-1.
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Lauretta Maganzani che caratterizzava i territori cd. limitati, cioè quelli in cui la ‘centuriazione’ ne aveva modificato i contorni e le caratteristiche fisiche e giuridiche. In sostanza è come se Fiorentino sottolineasse che anche i principi autoevidenti di ius naturale, fra cui quello dell’automatica accessione degli incrementi fluviali ai terreni che hanno come confine le rive dei fiumi, possono essere sovvertiti dall’intervento dell’uomo che, con la sua techne, modifica lo stato dei luoghi riorganizzandoli anche topograficamente. Complessa, dotta e forse non del tutto adatta ad un pubblico di studenti alle prime armi è poi la citazione, inserita nello stesso testo, di Trebazio, giurista repubblicano le cui opere, secondo Pomponio (lib. sing. ench., D. 1.2.2.45), erano poco lette già alla sua epoca. Attraverso questa citazione Fiorentino illustra la regola privatistica appena formulata attraverso un’interessante notazione storico-politica. Quando i Romani conquistavano un territorio, erano due le tipologie di intervento su di esso (con effetti diversi sul piano dello ius alluvionis): o si consentiva alla civitas degli autoctoni di conservare la propria autonomia anche territoriale, pur sotto il controllo politico di Roma e acquistando la cittadinanza romana, oppure il territorio veniva confiscato, reso ager publicus e strutturalmente modificato attraverso la centuriazione per accogliere nuove comunità romane e latine. Ebbene Fiorentino spiega che la regola ‘naturale’ dello ius alluvionis perdeva la sua operatività soltanto in questo secondo caso. Un altro frammento di contenuto peculiare, la cui complessità tecnica fa dubitare della destinazione del manuale a studenti esordienti di diritto, è [F. 11] D. 16.3.17: qui, infatti, il contratto di deposito e la sua forma particolare, detta sequestro, vengono confrontati con elevato tecnicismo. Da questo passo è sorta l’idea, divenuta tralatizia, che il sequestratario, a differenza del depositario, avesse il possesso ad interdicta della cosa collocata presso di lui. Altro testo significativo, il cui principio si è mantenuto nella tradizione giuridica occidentale11, è [F. 15] D. 45.2.7 da cui risulta non essere di ostacolo all’assunzione in solidum di un obbligo (nel caso di specie ex stipulatu) il fatto che uno dei rei promittendi si obblighi puramente e semplicemente e l’altro a termine o sotto condizione. Di grande spessore tecnico e scientifico è poi la definizione di dolo negoziale che si legge in [F. 19] D. 18.1.43.2 tratto dall’VIII libro: secondo Fiorentino è caratterizzato da dolus malus non solo l’atteggiamento del contraente che fallendi causa obscure loquitur, ma anche quello di chi insidiose obscure dissimulat. Tale definizione pare tener conto della profonda riflessione giurisprudenziale precedente sul tema (di Aquilio Gallo, Servio, Labeone, Pedio) di cui abbiamo notizia sia da fonti ciceroniane, sia da frammenti ulpianei12. Infatti, l’espressione ‘obscure loquitur’, in cui il giurista considera dolosa in primo luogo la rappresentazione alterata e confusa della realtà da parte del venditore o di un contraente in genere, pare tener conto del pensiero di Aquilio Gallo (de nat. deor. 3.30.74; de off. 3.14.60; top. 40) che individuava il nucleo del dolus malus nel contrasto emergente fra il comportamento di un soggetto (cd. agere) e la sua rappresentazione esterna (simulare). Ma a questo primo elemento il giurista aggiunge l’intenzione del venditore di ingannare la controparte (fallendi causa) e ciò conformemente ad uno spunto risalente a Servio Sulpicio Rufo (Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1.2) a sua volta
11 La regola fu ripresa nell’art. 1201 del codice civile napoleonico e, di conseguenza, nell’art. 1187 del codice civile italiano del 1865. Risulta anche dall’art. 1293 del codice civile italiano del 1942: Rossetti 2013, 16 s. nt. 41. 12 Cfr. in particolare Carcaterra 1970, passim; Querzoli 1996, 156 ss.
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La scrittura e il testo ripreso da Pedio (Ulp. 4 ad ed., D. 2.14.7.9) che metteva in evidenza la necessità dell’elemento intenzionale. Poi Fiorentino precisa ulteriormente che è doloso anche l’atteggiamento di chi insidiose obscure dissimulat – cioè tace insidiosamente particolari che avrebbero indotto la controparte a non contrarre –: e in ciò pare avere tratto da Labeone (di cui ci dà notizia Ulpiano 11 ad ed., D. 4.3.1.2) che aveva definito il dolo come ‘calliditas, fallacia, machinatio ad circumveniendum fallendum decipiendum alterum adhibitam’13. Di particolare interesse è anche [F. 21] D. 46.4.18 che riporta il formulario della cd. stipulatio Aquiliana, geniale creazione del giurista tardo-repubblicano Aquilio Gallo. Esso compare anche nelle Istituzioni giustinianee, I. 3.29.2, con poche varianti, ma la versione del Digesto, che deriva probabilmente da una diversa fonte, si distingue per l’introduzione al formulario (assente nella versione delle Institutiones) nella quale Fiorentino precisa la funzione e l’ambito di applicazione dello strumento di cui si appresta a riportare il testo. Un altro frammento di particolare interesse è il già richiamato [F. 25] D. 1.5.4 (su cui infra, II.3–4), tratto dal libro IX e posto da Lenel sotto la rubrica De statu hominum. Infine sono da segnalare i frammenti dedicati al diritto ereditario compresi nei libri X e XI, che costituiscono un esempio significativo dell’ambiguità dell’opera florentiniana: infatti, a testi definitori e di evidente contenuto didattico, si alternano testi complessi e non facilmente accessibili a un pubblico di studenti alle prime armi. In particolare, i frammenti del libro X, posti da Lenel sotto il titolo De testamentis, sono di regola molto chiari, mentre quelli del libro XI dedicati ai legati e fedecommessi presentano notevoli difficoltà di lettura. Si è rilevato fra gli studiosi, facendo particolare riferimento all’insegnamento di Scevola, come questo giurista tenesse sia lezioni aperte ai principianti, sia altre, svolte quasi sempre in auditorio, adatte ad un pubblico più specializzato, a cui dovette assistere anche Ulpiano14. Nel caso del manuale florentiniano, a testi semplici e spesso meramente definitori si alternano testi complessi, il che fa pensare ad un’opera sui generis di cui è difficile dare una definizione precisa. Tuttavia la sua ampiezza, la complessità di alcune tematiche trattate, l’originalità di molte soluzioni, il tecnicismo del linguaggio, la profondità concettuale di svariati ragionamenti rendono probabile che le institutiones Florentini, pur destinate ad un pubblico di studenti, fossero nel complesso ben più ampie di quelle gaiane15 e che si trattasse di un manuale che, pur partendo dalle basi, giungeva a un elevato livello di approfondimento, anche se non doveva includere tematiche processuali. Lo attesta, ad es., il libro VIII dedicato alle obligationes verbis, in particolare la stipulatio, di cui ci sono pervenuti un certo numero di frammenti. Esso, almeno secondo la mia proposta palingenetica che si distanzia parzialmente da quella di Lenel (infra, § 3), dopo alcuni testi generali sulla forma del contratto e gli effetti e i limiti delle stipulationes servorum, ne prende in considerazione, con un approccio che appare specialistico, le varie applicazioni, come la stipulatio duplae, quella Aquiliana, quella usurarum e, forse anche le stipulationes praetoriae (in particolare la cautio damni infecti).
13 Non a caso Ulpiano premette alla definizione labeoniana la frase ‘Labeo antem posse et sine simulatione id agi ut quis circumveniatur’ che mostra che Labeone aveva inteso precisare la definizione aquiliana del dolo come simulatio estendendola all’ipotesi della dissimulatio. 14 Marotta 2021, 10. 15 Come si è notato, le institutiones Florentini affrontano nel libro III il tema della dote, non trattato nel manuale gaiano.
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Lauretta Maganzani Schulz sosteneva che l’opera, sia nella versione del Digesto, sia in quella delle Istituzioni, sarebbe “in uno stato postclassico” e a sostegno di questa tesi portava soprattutto i già citati D. 46.4.18.1 = I. 3.29.2, testi tratti da manoscritti diversi la cui formula orale della stipulatio novativa sarebbe stata ‘contaminata con la forma narrativa in cui essa veniva ricordata nel documento’16 in seguito all’intervento di un ‘editore postclassico’ (il quale avrebbe anche aggiunto, pur senza alcun collegamento, la formula dell’acceptilatio). Sempre a questo tardo editore sarebbe dovuta la mancanza di citazioni, presenti nel solo D. 41.1.16 ove vengono menzionati Antonino Pio e Trebazio. Nessuno degli autori successivi ha tuttavia ripreso tale ipotesi interpretativa che, in effetti, non si giustifica alla luce dell’esegesi dei singoli frammenti (su cui infra, cap. IV).
3. Ipotesi palingenetiche L’esegesi dei testi condotta nella sezione dedicata del presente volume (infra, Parte IV) ha evidenziato talune possibili criticità nella ricostruzione palingenetica delle institutiones Florentini proposta da Otto Lenel. Tali proposte di revisione verranno esaminate col dovuto approfondimento nel corso dell’analisi dei singoli frammenti, ma sin da ora è possibile anticipare e riassumere alcuni risultati. Si pensi in primo luogo a [F. 2] corrispondente a D. 23.1.1 e 3, due frammenti che nei Digesta giustinianei si presentano separati da un testo di Ulpiano, D. 23.1.2 tratto dal liber singularis de sponsalibus, ma che Lenel ha riunito in un unico contesto. Tale scelta palingenetica pare per lo meno azzardata, perché essa fa dire a Fiorentino che gli appellativi sponsus e sponsa propri dei fidanzati deriverebbero dal termine sponsalia usato anche ai suoi tempi per il fidanzamento, mentre è ben possibile che, come risulta dalla versione del Digesto, il giurista nell’opera originaria ricollegasse i due appellativi al verbo spondere, cioè alla forma solenne della sponsio con cui in origine il fidanzamento veniva celebrato. In tal caso D. 23.1.1 e 3 dovrebbero essere tenuti separati nella ricostruzione palingenetica delle institutiones. Parrebbe poi opportuna una variazione nella sequenza dei frammenti del libro VI, titolo De adquirendo rerum dominio, proposta da Lenel nella Palingenesia. Infatti l’anomalia della presenza in questo titolo di un passo sul postliminium ([F. 10] D. 49.15.26 posto da Lenel in ultima posizione fra i frammenti conservati) che apparentemente non ha nulla a che fare con il tema generale, suggerisce la possibilità che esistesse, nell’opera originaria di Fiorentino, una stretta connessione fra questo frammento e quello mutilo precedente relativo all’animus revertendi degli animalia mansuefacta ([F. 8] D. 41.1.4)17 (cfr. supra, I.3d): se così fosse, i due testi dovrebbero essere collocati, nella ricostruzione palingenetica dell’opera, l’uno di seguito all’altro, non separati da [F. 9] D. 41.1.16 come ora si presentano. Una rivalutazione della ricostruzione palingenetica leneliana pare opportuna anche in relazione al libro VIII, ripartito dall’A. in una serie di titoli le cui rubriche sono state da lui ipo-
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Schulz 1968, 282-283. Presuppongono un collegamento fra la libertas naturalis degli animali e quella degli uomini recuperata in seguito al postliminium anche Filip-Fröschl 2007, 1851 ss. e Cardilli 2019, 15-25: ciò si osserva, oltre che nei frammenti di Fiorentino qui commentati, anche in alcuni passi di Gaio e Ulpiano. 17
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La scrittura e il testo tizzate come segue: [De verborum obligationibus], [De stipulatione duplae et edicto aedilium?], [De solutionibus et liberationibus] e un’ultima di contenuto incerto ma forse attinente all’interdictum uti possidetis18. Per illustrare le criticità rilevate, è utile riassumere qui le scelte palingenetiche effettuate da Lenel: i frammenti del Digesto tratti, sulla base dell’inscriptio, dal libro VIII sono in tutto dodici. Di questi l’A. ne collocò sei nel titolo De verborum obligationibus, e cioè [F. 14] D. 45.1.65 dedicato alla forma della stipulatio; [F. 15] D. 45.2.7 sulle obbligazioni solidali da stipulatio; [F. 16] D. 45.3.15 sulle stipulationes servorum; [F. 17] D. 46.2.16 sulle stipulazioni novative di obligationes servorum; infine [F. 18] che riunisce in un unico contesto D. 46.1.22 e D. 29.2.54, dedicato alla stipulazione fideiussoria per un debito ereditario, contratta durante la giacenza dell’eredità. A questa prima parte seguirebbe, nella ricostruzione leneliana, [F. 19] D. 18.1.43 dedicato, pur dubitativamente, alla stipulatio duplae del venditore per l’evizione e i vizi della cosa venduta e alla responsabilità edilizia: [De stipulatione duplae et edicto aedilium?]. Rimangono cinque frammenti dei Digesta ascritti al libro VIII, cioè D. 2.14.57, D. 13.7.35pr. e 1, D. 46.3.2, D. 46.4.18, D. 50.16.211. Tre di questi frammenti (D. 46.3.2; D. 46.4.18; D. 2.14.57) e il principium di un quarto (D. 13.7.35pr.) furono posti da Lenel sotto il titolo De solutionibus et liberationibus: si tratta di [F. 20] che riunisce in un unico contesto D. 46.3.2 e D. 13.7.35pr., relativo alle imputazioni dei pagamenti del debitore; [F. 21] corrispondente a D. 46.4.18, sulla stipulatio Aquiliana; e [F. 22] D. 2.14.57 sul pactum de non petendo. Gli ultimi due frammenti, cioè [F. 23] D. 50.16.211 e il primo paragrafo di [F. 24] D. 13.7.35, furono posti da Lenel sotto una rubrica incerta, forse relativa all’interdictum uti possidetis. Si tratta, come si vede, di interventi molto penetranti sul materiale tràdito che tengono conto in misura minima della posizione in cui i testi si trovavano nei Digesta giustinianei e, inoltre, non danno ragione della presenza nel libro di frammenti come D. 50.16.211 e D. 13.7.35.1 e di una tematica come quella dell’interdictum uti possidetis. In realtà l’esegesi dei testi (di cui nella IV Parte del volume) induce a credere che non soltanto [FF. 14-18] ma anche altri frammenti del titolo (se non tutti) riguardassero il tema generale delle obligationes verbis, in particolare della stipulatio e di alcuni dei suoi utilizzi più frequenti e tipici (es. stipulatio Aquiliana; cautio damni infecti etc.). Quanto a [F. 19] D. 18.1.43, l’esegesi del testo mostra, come si vedrà, che esso riguardava i limiti di applicazione dell’actio empti di buona fede nel caso in cui il venditore, formalmente (ad es. tramite stipulatio duplae) o informalmente (con semplici dicta), avesse assicurato alla controparte la presenza di determinate qualità della cosa venduta in realtà inesistenti. Non doveva riguardare, invece, se non in seconda battuta l’editto edilizio e la relativa responsabilità. La sua presenza all’interno del libro VIII, dunque, si può spiegare quale una sorta di digressione all’interno di una trattazione dedicata alla stipulatio duplae. D. 13.7.35, poi, che Lenel, come si è visto, divise riferendone il principium al tema dei pagamenti e liberazioni (insieme a D. 46.3.2) e il primo paragrafo (forse) all’interdictum uti possidetis insieme a D. 50.16.211, potrebbe essere stato un testo unitario non solo nei Digesta ma anche nell’opera originaria di Fiorentino ed essere relativo al tema della stipulatio usurarum:
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Lenel 1889. I. 175 nt. 2.
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Lauretta Maganzani in tal caso il giurista avrebbe dapprima richiamato la regola introdotta in età severiana per cui il ricavato della vendita dei pegni era da imputare prima agli interessi e poi al capitale senza che rilevasse un’eventuale opposizione del debitore; e poi avrebbe precisato che tale opposizione del debitore era da ritenersi irrilevante nonostante il fatto che questi rimanesse proprietario del pegno e addirittura ne potesse ottenere ex precario o ex conducto la detenzione. Al tema dei debiti da stipulatio e della stipulatio usurarum si potrebbe forse ricollegare anche D. 46.3.2, un lacerto che i compilatori giustinianei hanno congiunto a D. 46.3.1, Ulp. 43 ad Sab. Lo stesso tema veniva forse trattato in [F. 22] D. 2.14.57, che riguarda sì una problematica attinente al pactum de non petendo, ma con riferimento specifico ad una stipulatio usurarum. [F. 21] D. 46.4.18 era poi relativo alla stipulatio Aquiliana e dunque si spiegherebbe bene in un libro interamente dedicato alla stipulatio e alle sue diverse applicazioni. Infine è possibile che le definizioni dei termini locus, aedes, fundus contenute in [F. 23] D. 50.16.211 fungessero da commento lemmatico alla formula della cautio damni infecti la quale, infatti, così recitava: ‘Quod aedium loci operisve quibus de agitur vitio si quis ibi ruet sciendetur fodietur aedificabitur in aedibus meis intra annum damnum factum erit, quanti ea res erit, tantam pecuniam dari dolumque malum abesse afuturumque esse spondesne?’ ‘Spondeo’. Se così fosse, l’intero libro VIII avrebbe trattato delle obligationes verbis, con particolare riguardo alla stipulatio e alle sue varie applicazioni (es. stipulatio usurarum, stipulatio duplae, stipulatio Aquiliana) comprese quelle pretorie (stipulatio-cautio damni infecti), con un’impostazione del materiale didattico molto originale e un livello notevole di approfondimento. Da aggiungere che, come si vedrà, fra i frammenti del libro VIII inseriti anche da Lenel sotto il titolo De verborum obligationibus (cioè [F. 14] D. 45.1.65, [F. 15] D. 45.2.7, [F. 16] D. 45.3.15 e [F. 17] D. 46.2.16, [F. 18] D. 46.1.22 e D. 29.2.54), [F. 16] D. 45.3.15 dovrebbe essere posto dopo [F. 18] in quanto coerente con il suo contesto, come risulta in particolare dal confronto con il testo corrispondente delle Istituzioni giustinianee (I. 3.17pr. e 1). Parrebbe infine da suggerire l’idea di un possibile spostamento di [F. 25] D. 1.5.4 dal IX libro in cui è collocato, al libro I. Infatti è anomala la posizione della teoria degli status personali fra il diritto delle obbligazioni e quello ereditario. Un errore di trascrizione, del resto, è ben ipotizzabile: lo stesso risulta per [F. 35] D. 34.4.14, che in F risultava tratto dal I libro delle institutiones, in F1 recte dall’XI19. Fra l’altro un indizio a favore della collocazione di D. 1.5.4 nel I libro in luogo del IX si ravvisa nella corrispondenza contenutistica rilevabile fra questo passo e quello di esordio del libro I, [F. 1] D. 1.1.3. Infatti il principio dettato in D. 1.5.4 secondo cui la libertà, intesa come ‘facoltà di fare ciò che piace’, può essere impedita dalla vis o dal ius (infra, II.4), si connette bene con quanto si legge in D. 1.1.3 sulla legittimità del repellere l’altrui vis o iniuria: Fiorentino, cioè, potrebbe aver precisato che, se può accadere che la libertas propria di ogni uomo per diritto naturale venga limitata dalla violenza altrui (ad es. un nemico o un brigante) o dal diritto (ad es. la pubblica autorità), permane comunque una differenza radicale fra le due forme di limitazione della libertà: in effetti chiunque può opporsi con violenza alla violenza e all’iniuria altrui per difendere la propria incolumità e libertà personale – e questo è conforme alla natura perché è nefas che un uomo insidi un altro uomo –, ma nessuno può opporsi al ius e all’autorità costituita.
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Lenel 1889. I. 177 nt. 2.
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II. Il cd. giusnaturalismo1 di Fiorentino
1. Premessa L’opera di Fiorentino è particolarmente nota al pubblico degli studiosi per due passi a cui si è già fatto riferimento (supra, I.3d), il primo collocato nel I libro delle institutiones ([F. 1] D. 1.1.3), il secondo nel IX ([F. 25] D. 1.5.4). Essi, infatti, sono indicativi di una svolta (di cui furono protagonisti alcuni fra i giuristi severiani, forse, secondo Philippe Didier2, quelli di origine orientale), consistente nel ricondurre alla natura alcuni istituti del ius e nel distinguere fra figure giuridiche ‘naturali’, cioè elaborate dall’uomo a partire dalle evidenze della natura, e figure giuridiche ‘innaturali’ anche se comuni a tutti i popoli (come la schiavitù). Si è notato che già Gaio richiamava a più riprese la naturalis ratio come fondamento degli istituti di ius gentium, comuni, proprio per questo, a tutti i popoli: fra di essi, ad es., quei modi di acquisto della proprietà, come gli incrementi fluviali, caratterizzati dal fatto che una regola già immanente in natura veniva assunta come norma giuridica, almeno apparentemente senza un intervento ordinatore dell’uomo che, con la sua ars, disciplinasse l’acquisto. Tuttavia alcuni giuristi severiani fecero un passo avanti rispetto a questa configurazione, rendendo sotto il profilo tipicamente giuridico istanze che, nei secoli precedenti, erano state estranee agli ambienti della giurisprudenza per essere piuttosto campo peculiare della filosofia e della retorica3. Essi, infatti, recuperarono la nozione di ius naturale distinguendola dallo ius
1 Per i limiti dell’uso del termine ‘giusnaturalismo’ per l’età antica, Schiavone 2007, 3; Mantello 2007, 201 ss.; Nörr 2007, 560 s.; Gallo 2009, 417 ss.; Pani 2010, 6 ss. In realtà si può parlare per quest’epoca soltanto di un “abbozzo di paradigma giusnaturalistico”, inteso come “riferimento a un ordine naturale che si supponeva avesse iscritto dentro di sé una regolarità e una misura in grado di guidare, in determinate circostanze, la condotta sociale degli uomini”: Schiavone 2007, 4. 2 Didier 1981, 249. Già Frezza 1968, 363 ss. aveva mostrato che la cultura filosofica e retorica di Ulpiano si era formata in Siria. Sulla diffusione del diritto romano nella parte orientale dell’impero nel III secolo, Millar 2005, 37 ss.; Jones 2007, 1331 ss.; Marotta 2021a, 81 s. 3 Fra i saggi recenti si vedano, ad es., Honoré 2010, 199 ss.; Chevreau 2014, 308 ss.; Brouwer 2015, 60-76; Rainer 2015, 859 ss.; Winkel 2015, 341 ss.; Erdödy 2016, 101 ss.; Giltaij 2016, 193 ss.; Winkel 2018, 161 ss.: ad essi rinvio per altra lett.
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Lauretta Maganzani gentium e civile e colorandola di istante etiche: come nell’affermazione della condizione di libertà in cui tutti gli uomini si troverebbero in base allo ius naturale se la conflittualità dettata dalla loro innata cupidigia non li avesse condotti a combattersi a vicenda e quindi a divenire sovente, in seguito alla cattura, schiavi gli uni degli altri. Anche Fiorentino, come si è visto (supra, I.3d), fece proprie queste istanze addirittura parlando dell’esistenza di una cognatio naturalis fra tutti gli uomini [F. 1] e qualificando come contra naturam l’istituto della schiavitù [F. 25]. Le domande che vengono alla mente di fronte a tali recise affermazioni sono attinenti, in primo luogo, alle ragioni per cui Fiorentino avrebbe richiamato con tale forza, all’inizio e nel corso della sua opera, istanze etiche di grande portata teorica ma irrealizzabili sul piano concreto; in secondo luogo, che cosa egli volesse con ciò comunicare agli studenti a cui indirizzava il suo manuale; in terzo luogo, se e da quali correnti filosofiche o di altra matrice attingesse tali principi; in quarto luogo, se si possa riscontrare un’originalità nella sua trattazione manualistica rispetto a quella degli altri giuristi autori di institutiones; infine, se davvero si trattasse di mere petizioni di principio oppure se per i giuristi esse avessero anche un qualche riflesso sul piano concreto. La risposta, se c’è, può essere data soltanto a partire da un’esegesi serrata dei due frammenti, da un’analisi dei loro richiami ad altre fonti, soprattutto non giuridiche, e dal confronto con altri manuali istituzionali di cui abbiamo maggiori notizie, in primis quello celeberrimo di Ulpiano col cui testo di esordio i compilatori giustinianei decisero di aprire i loro Digesta (D. 1.1.1, 1 inst.)4. Del resto, come argutamente sottolineava Watson con riguardo alla definizione di libertà di [F. 25], se essa non richiamasse precetti filosofici tralatizi e diffusi5, non potrebbe essere che “nonsensical” vista la comune accettazione dell’istituto della schiavitù nell’epoca considerata. Dovremmo allora pensare che avesse ragione la critica interpolazionistica (cfr. l’Index interpolationum) e non daremmo torto allo stesso Albanese6 quando qualificava come generiche, ovvie e di scarso peso le accezioni di libertà presentate dalle fonti. Al contrario si vedrà come i sottintesi richiami alla tradizione colta, soprattutto filosofica e retorica, mostrino la profondità culturale del ragionamento di Fiorentino che, peraltro, non mancò di dare a tali dotti richiami una specifica coloritura giuridica e una buona dose di concretezza.
2. La parentela naturale fra gli uomini [F. 1] D.1.1.3, tratto dal I libro delle institutiones Florentini, esordisce richiamando il principio per cui è lecito a chiunque propellere, cioè reagire con forza e con una spinta violenta del proprio corpo, alla vis e all’iniuria perpetrata a suo danno da un altro soggetto. Si tende di solito ad identificare in tale principio quello puro e semplice della legittima di-
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Da ultimo sul testo, con altra lett., Schiavone 2021a, 187 ss. Watson 2002, 12. Albanese 1979, 19-20.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino fesa7, in effetti richiamato in alcuni testi, sia del Digesto, sia di fonti letterarie, come appartenente alla sfera del ius naturale (pro Mil. 9-11; Ulp. 69 ad ed., D. 43.16.1.27; Gai. 7 ad ed. prov., D. 9.2.4pr.)8. Tuttavia bisogna notare che qui Fiorentino parla non solo di una reazione alla vis con la vis, ma più in generale di una reazione alla vis e all’iniuria, quindi ad un’offesa all’integrità fisica, ma forse anche morale, della persona. Egli quindi sta affrontando un tema più ampio della semplice legittima difesa e in particolare sta citando un principio che, sin da Cicerone, è più e più volte richiamato per il suo valore topico sia nelle opere filosofiche, sia in quelle retoriche, e che viene presentato come uno dei cardini delle regole di natura insieme allo ius ulciscendi, cioè il diritto di vendicare le offese9. Così, ad es., in de off. 2.18, Cicerone, trattando della virtù e della saggezza che si esige dagli uomini grandi ‘al fine di stimolare negli altri uomini le loro naturali attitudini pronte e disposte ad accrescere il benessere e la felicità comuni’, precisa che la virtù si esplica press’a poco in tre forme: ‘penetrare con la mente la pura e schietta essenza delle cose’; ‘frenare le turbolente passioni dell’anima’; ‘trattare con moderazione e con accorgimento coloro coi quali viviamo socialmente uniti’. Quanto a questa terza forma, poi, egli aggiunge che il suo scopo è che, coll’aiuto degli altri uomini, ‘noi possiamo respingere (propellere) le eventuali offese e vendicarci di coloro che ci abbiano fatto del male, infliggendo ad essi quella giusta punizione che l’equità e l’umanità comportano’ ([…] per eosdemque, si quid importetur nobis incommodi, propulsemus ulciscamurque eos, qui nocere nobis conati sint, tantaque poena adficiamus, quantam aequitas humanitasque patiatur). Alla stessa regola l’A. allude in de off. 1.20 ove afferma che ‘primo munus della iustitia è quello di non nuocere ad alcuno, a meno che non si sia provocati da un’iniuria’, caso in cui la reazione è, non solo ammessa, ma doverosa (iustitiae primum munus est, ut ne cui quis noceat, nisi lacessitus iniuria), e in de off. 1.33-34 dove aggiunge che comunque, anche nella reazione all’offesa, occorre rispettare un certo modus (Sunt autem quaedam officia etiam adversus eos servanda, a quibus iniuriam acceperis. Est enim ulciscendi et puniendi modus). Ma anche nelle opere retoriche Cicerone ripete come una regola consolidata che, nelle argomentazioni difensive o nelle obiezioni alle stesse, l’avvocato deve in primo luogo richiamare le regole di diritto naturale in ottemperanza alle quali il suo cliente ha tenuto un certo comportamento, e in de inv. 2.65 precisa che per ius naturae si intende ‘quanto ci ha fornito non l’opinione, ma un’indefinibile facoltà innata in noi, come la religione, la pietà, la riconoscenza, la vindicatio, l’ossequio, la verità’ (quod nobis non opinio, sed quaedam innata vis adferat,
7 Sul tema Querzoli 1996, 138 ss.; Behrends 2002, 45 ss., 98; Querzoli 2004, 277 ss.; Varvaro 2013, 215 ss. In pro Mil. 9 Cicerone cita anche le XII Tavole sul diritto di uccidere il fur nocturnus e quello diurnus ‘si se telo defendit’ e vi sia stata l’endoploratio (tab. 8.12, 13, 14 = FIRA2 Leges, 57-59): per tutti Cursi 2016, 305 ss. Cursi 2018, 583 ss. sottolinea l’esistenza di una disputa dottrinale fra chi ritiene che le norme decemvirali sul furto avessero introdotto una forma di legittima difesa, e chi vi vede, invece, una forma di vendetta privata: nel primo senso, ad es., Mommsen 1899, 620 e nt. 6; Arangio-Ruiz 1974, 375; Corbino 1991-92, 245 ss.; De Francesco 2005, 428 ss.; nel secondo senso, ad es., Wieacker 1944, 134 ss.; Cantarella 1998, 67 s.; Gagliardi 1999, 433; Cantarella 2011, 323 ss. 8 Altri riferimenti alle fonti in Querzoli 2004, 277 ss. 9 Behrends 2002, 45 ss., 98 (in part. su D. 1.1.3).
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Lauretta Maganzani ut religionem, pietatem, gratiam, vindicationem, observantiam, veritatem)10. Per religio – continua nel § 66 - si intende ‘quella che consiste nel timore e nel culto in onore degli dei’; per pietas ‘quella che ci esorta a rispettare il nostro dovere verso la patria o verso i genitori o verso altri con i quali abbiamo legami di sangue’; per gratia ‘quella che ci lega nel ricordo e nella ricompensa dei beni ricevuti al rispetto degli onori e dell’amicizia’; per vindicatio ‘quella con cui allontaniamo – propulsamus – con il difenderci e con il vendicarci, la violenza e l’offesa, da noi e dai nostri congiunti, che ci devono essere cari, e con cui puniamo le colpe’ (vindicationem, per quam vim et contumeliam defendendo aut ulciscendo propulsamus a nobis et nostris, qui nobis cari esse debent, et per quam peccata punimur); per observantia ‘quella con cui veneriamo e rispettiamo quelli che ci precedono per età, per saggezza, per prestigio o per qualche carica pubblica’; per veritas ‘quella con cui ci adoperiamo perché non avvenga nel presente, nel passato o nel futuro qualcosa di diverso da quanto abbiamo affermato’11. Si vede bene, dunque, che la vindicatio, cioè il diritto di propellere la vis e la contumelia altrui e quello di punire le colpe, deriva all’uomo dalla natura, esattamente come altre regole indiscusse quali il timore degli dei, il dovere verso i genitori, il rispetto per i superiori, la coerenza di vita etc. Allo stesso modo, ad uno ius propulsandae iniuriae Cicerone si riferisce, accanto allo ius ulciscendi, in part. orat. 131 quando affronta il caso di un imputato che, pur ammettendo di aver fatto ciò che gli viene rimproverato, dichiari di averlo fatto iure e, in particolare, dica di averlo fatto per reagire a un’iniuria o vendicare un’offesa (de propulsanda iniuria, de ulciscenda), il che rientra nell’ambito dell’equità e dello ius naturale12. Infine, allo stesso diritto di reagire con violenza alla vis e all’iniuria altrui Cicerone fa riferimento nel de inventione (1.15 e 2.124), trattando della cd. relatio criminis con cui l’avvocato mostrava ai giudici che l’omicidio commesso dal proprio cliente era stato la giusta reazione ad una vis perpetrata da altri13: l’esempio classico era quello del miles Arruntius che il tribuno Lusius aveva tentato di violentare, scatenando così la sua reazione fisica con la conseguente uccisione dell’aggressore (del caso trattano anche, ad es., Cic. pro Mil. 9; Quint. inst. 3.11.14; Val. Max. 6.1.12; Plut. Mar. 14). Il confronto con tali fonti mostra che già in questa prima parte, [F. 1] evoca scenari molto più vasti della semplice regola della legittima difesa. Questo contribuisce a spiegare il seguito del passo che, in caso contrario, apparirebbe eccessivamente altisonante e, non per nulla, ha suscitato in passato numerosi sospetti di inter-
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Sul testo D’Aloja 2007, 129. La stessa partizione, in breve, è in Cic. de inv. 2.161. Cfr. Bettini 2016, 37 s. 12 Anche in Cic. top. 90, secondo il codice O (Ottobonianus 1406 del sec. X), si parlerebbe di tuitio sui, accanto allo ius ulciscendi, con le seguenti parole: Natura partes habet duas: tuitionem sui et ulciscendi ius. Institutio autem aequitatis tripertita est; una pars legitima est, altera conveniens, tertia moris vetustate firmata. Ma in genere la lezione prescelta dagli editori è tributio sui cuique, cioè l’attribuzione a ciascuno di ciò che gli spetta, manifestazione prima della giustizia, secondo la lezione dei codici A e f, cioè Vossianus 84 del sec. X e Vitebergensis del sec. XV. Sul tema Behrends 2000, 49 nt. 73; Behrends 2002, 45 s. e nt. 3, che propende per la prima soluzione. Cfr. anche Cic. de fin. 5.37, su cui Behrends 2002, 46 nt. 3; top. 84; ad fam. 12.3.1; pro Sest. 90-92. 13 Cic. de inv. 1.15: Relatio criminis est, cum ideo iure factum dicitur, quod aliquis ante iniuria lacessierit. 11
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino polazione14: (…) et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse. Perché – sembra chiedersi Fiorentino – si considera iure qualunque reazione violenta opposta ad un’offesa altrui e finalizzata alla tutela del proprio corpo? La risposta sta nei ‘massimi sistemi’: per il giurista la reazione violenta ob tutelam corporis sui è ammessa dal diritto naturale perché è da considerare la necessaria opposizione ad un’insidia altrui, la quale, a sua volta, costituisce una grave infrazione del fas: la natura, infatti, ha costituito fra gli uomini una sorta di parentela naturale e infrangere tale equilibrio rappresenta un nefas, cioè un’offesa al diritto divino. La domanda da porsi è prima di tutto da dove venga questa idea della ‘cognatio’ esistente fra gli uomini, cioè se essa abbia una matrice stoica – come di regola è stato sostenuto15 – oppure si richiami più genericamente ad un’idea diffusa presso le classi colte del II-III secolo che spesso fondevano principi e detti provenienti da diverse scuole. D’altra parte è anche da notare che, se non di rado – ad es. nelle opere ciceroniane – si parla di una comunanza, di una coniunctio o di una societas naturale fra gli uomini16, è più raro trovarvi attestazioni dell’esistenza di una vera e propria cognatio, cioè di un vincolo di parentela di sangue come fra i figli di una stessa madre17. Questo permette di restringere il campo sulle possibili fonti dell’affermazione di Fiorentino. Ebbene, dell’esistenza di una cognatio (συγγένεια) fra popoli di diverse città si parlava già nel mondo greco – e molte sono le attestazioni in questo senso (cfr. ad es. Isocr. paneg. 4318) – a proposito, in particolare, dei rapporti pacifici fra diverse poleis in occasione dell’organizzazione comune di giochi –. Ma degno di nota è che, almeno stando alle fonti disponibili, pare che di una sungeneia abbia tra i primi parlato il sofista Ippia che, come risulta dal Protagora di Platone 337 ss., avrebbe sostenuto, pur con riferimento agli abitanti dell’Ellade e non a tutti quelli dell’ecumene, che ‘gli uomini sono consanguinei (συγγενεῖς), familiari e concittadini per natura, non per legge, in quanto per natura il simile è parente del suo simile, mentre la legge, che è tiranna degli uomini, costringe a molte violenze contro natura’19; lo stesso poi risulta sostenuto da Platone nella Repubblica 470b. Invece, di una sungeneia non solo fra tutti gli uomini ma anche con gli animali, parla Teofrasto in un frammento del suo trattato de pietate (ΠΕΡΙ ΕΥΣΕΒΕΙΑΣ)20 trasmesso da Porfirio: (…) diciamo che sono parenti e congiunti fra di loro un greco con un greco, un barbaro rispetto a un barbaro e tutti gli uomini reciprocamente, per uno di questi due motivi: o perché discen-
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Lombardi 1947, 156; Guarino 1939, 458-461; Nocera 1962, 10. Secondo Giltaij 2016, 193, ‘The only jurist showing an adherence to a specific current is Florentinus, namely the Stoicism’; così già Pohlenz 1948, 263-264; Winkel 1988, 677-678; Vander Waerdt 1994, 4890-4891; Wieacker, Wolff 2006, 88: Brutti 2019, 49 s. Parla di ‘stoicismo imperfetto’ Querzoli 1991, 67-102. Cfr. Querzoli 1992, 31-38 e Querzoli 1996, 207 ss. 16 Cfr. SVF III.340-348 (in Radice 2014, 1135-1139). Turelli 2007, 163 ss. 17 In generale sull’unità del genere umano nel pensiero greco, sempre attuale è Baldry 1965, passim. 18 Curty 2005, 101 ss.; Sammartano 2008/2009, 111 ss. Cfr. anche Sammartano 2020. 19 Ippias, Diels Kranz (D.K.) 86C1. Cfr. Bonazzi 2020, 38. 20 Ed. Pötscher 1964, fr. 20; cfr. Ditadi 2005, 259-263 (fr. 10) con lett. 15
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Lauretta Maganzani dono dagli stessi progenitori o perché hanno in comune il cibo, i costumi e la stirpe. Così pure riteniamo tutti gli uomini congiunti fra di loro e anche con tutti gli animali; infatti i principi somatici sono gli stessi21.
L’esistenza di una cognatio fra gli uomini (ma non con gli animali22) fu poi sostenuta dagli Stoici in connessione con la dottrina fondamentale dell’oikeiosis: si tratta dell’istinto di autoconservazione proprio di ogni essere vivente che, negli uomini, raffinato dalla ragione, avrebbe creato una tensione positiva verso la piena corrispondenza del proprio vivere alla razionalità cosmica e portato con ciò a riconoscere l’eguaglianza di tutti gli uomini e l’esistenza di una parentela naturale fra loro23. Tale forza autoconservativa era, secondo questo movimento, insita sia negli organismi vegetali, sia in quelli animali e nell’uomo. Nei primi, tuttavia, essa operava automaticamente e inconsapevolmente, in quanto la sopravvivenza degli stessi è garantita dalla provvidenza della natura; nei secondi si manifestava sotto forma di istinto primordiale; ma era soltanto nell’ultimo che, all’istinto primigenio di autoconservazione che si osserva, ad es., nel bambino appena nato, subentra via via la ragione, tipica ed esclusiva dell’essere umano, che lo spinge a realizzare in sé il logos universale facendo corrispondere pienamente i suoi atti alla razionalità cosmica. D’altra parte, nell’uomo, al puro istinto di autoconservazione che comincia dalla nascita e che legittima anche agli occhi della natura la propria autodifesa rispetto alle insidie altrui, subentra via via l’amore per i parenti prossimi e poi, alla fine, per tutto il genere umano: è ciò che Cicerone spiega bene in de fin. 3.62-63 affermando che, secondo gli Stoici, dall’amore dei genitori verso i figli ha avuto origine la socievole convivenza del genere umano24: infatti – scrive – ‘62. (…) sarebbe un’incongruenza dire che la natura vuole la procreazione e non si interessa di fare amare le creature generate (…). 63. Ne deriva che è naturale anche la reciproca solidarietà degli uomini fra loro, per cui necessariamente un uomo non può risultare un estraneo per un altro uomo, per il fatto stesso che è uomo (…). Pertanto è la natura che ci rende idonei alle riunioni, alle assemblee, alle città’25.
21 Porph. de abst. 3.25 (p. 220.16-221.10 Nauck2): Τοὺς ἐκ τῶν αὐτῶν γεννηθέντας, λέγω δὲ πατρὸς καὶ μητρός, οἰκείους εἶναι φύσει φαμὲν ἀλλήλων· καὶ τοίνυν καὶ τοὺς ἀπὸ τῶν αὐτῶν προπατόρων σπαρέντας οἰκείους ἀλλήλων εἶναι νομίζομεν καὶ μέντοι καὶ τοὺς ἑαυτῶν πολίτας τῷ τῆς τε γῆς καὶ τῆς πρὸς ἀλλήλους ὁμιλίας κοινωνεῖν. (…) οὕτω δέ, οἶμαι, καὶ τὸν Ἕλληνα μὲν τῷ Ἕλληνι, τὸν δὲ βάρβαρον τῷ βαρβάρῳ, πάντας δὲ τοὺς ἀνθρώπους ἀλλήλοις φαμὲν οἰκείους τε καὶ συγγενεῖς εἶναι, δυοῖν θάτερον, ἢ τῷ προγόνων εἶναι τῶν αὐτῶν, ἢ τῷ τροφῆς καὶ ἠθῶν καὶ ταὐτοῦ γένους κοινωνεῖν. οὕτως δὲ καὶ τοὺς πάντας ἀνθρώπους ἀλλήλοις τίθεμεν καὶ συγγενεῖς καὶ μὴν καὶ πᾶσι τοῖς ζῴοις· αἱ γὰρ τῶν σωμάτων ἀρχαὶ πεφύκασιν αἱ αὐταί (Dico che quelli generati dalle stesse persone, cioè dal padre e dalla madre, sono per
natura parenti tra di loro; e riteniamo che anche quelli discendenti dagli stessi progenitori siano parenti tra di loro e così pure i propri concittadini, in quanto hanno in comune la terra e la relazione reciproca. (…) Cosi, credo, diciamo che sono parenti e congiunti fra di loro un greco con un greco, un barbaro rispetto a un barbaro e tutti gli uomini reciprocamente, per uno di questi due motivi: o perché discendono dagli stessi progenitori o perché hanno in comune il cibo, i costumi e la stirpe. Così pure riteniamo tutti gli uomini congiunti fra di loro e anche con tutti gli animali; infatti i principi somatici sono gli stessi). 22 Sull’antropocentrismo stoico, Grecchi 2018, 264-265, con altra lett. 23 Radice 2000; Casavola 2004, 425; Vimercati 2007, 573-608; Forschner 2008, 169-192. 24 Cfr. anche Diog. Laert. vit. phil. 7.1.85-86 (Zenone). Sul tema, ampiamente, Radice 2000. Sulla possibile influenza dello Stoicismo sull’idea di diritto naturale dei giuristi severiani, Manning 1989, 1531 ss.; Honoré 2010, 199 ss. 25 Neque vero haec inter se congruere possent, ut natura et procreari vellet et diligi procreatos non curaret (…). Ex hoc nascitur ut etiam communis hominum inter homines naturalis sit commendatio, ut oporteat hominem ab homine ob id ipsum, quod homo sit, non alienum videri. (…) Itaque natura sumus apti ad coetus, concilia, civitates.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino Forse per influsso della filosofia stoica26 (o per un ‘generico sincretismo filosofico proprio dell’epoca’27), parla di συγγένεια fra tutti gli uomini anche Diodoro Siculo all’inizio della sua opera (1.1.3) dichiarando di aspirare ‘a ricondurre tutti gli uomini, che pure condividono tra loro la comunanza di stirpe ma sono separati da spazio e tempo, in un unico medesimo insieme ordinato, come se fossero, per così dire, ministri della divina provvidenza’. Questo potrebbe fare pensare che in [F. 1] anche Fiorentino abbia riportato un principio stoico e che dunque aderisse pienamente a questa dottrina. Tuttavia si è visto come già Teofrasto avesse parlato di sungeneia fra tutti gli esseri animati. Inoltre bisogna ricordare che la teoria dell’oikeiosis, pur con qualche differenza, era sostenuta anche nell’ambito dell’Aristotelismo che, confrontandosi con lo Stoicismo che era sin dal III sec. a.C. la dottrina più diffusa, ne reinterpretava alcuni concetti chiave adattandoli alle proprie esigenze. Tale movimento, chiamato anche Eclettismo, aveva avuto come iniziatore Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone, e tendeva ad una conciliazione fra filosofia platonica, aristotelica e stoica28. Non a caso la dottrina dell’oikeiosis è spiegata dallo stesso Cicerone, in un passo del de finibus bonorum et malorum successivo a quello sopra riportato (5.65), come parte dell’insegnamento di Antioco di Ascalona: ‘In tutta l’onestà di cui stiamo parlando – scrive – non vi è nulla tanto illustre né di così vasta estensione quanto l’unione degli uomini fra di loro e per così dire una specie di alleanza e compartecipazione reciproca delle utilità e lo stesso vincolo di affetto fra il genere umano. Ciò insorge fin dalla nascita, perché i figli sono amati dai genitori e tutta la casa è tenuta insieme dal matrimonio e dal fatto di generare la prole; poi gradualmente si diffonde all’esterno, prima toccando i consanguinei, poi i parenti acquisiti, quindi gli amici, in seguito i vicini, e ancora i concittadini e coloro che sono consociati e amici per la vita pubblica, giungendo infine ad abbracciare tutta l’umanità. Questa disposizione dell’anima che assegna a ciascuno il suo e mantiene con generosità ed equità questo, per così dire, patto di unione fra gli uomini viene chiamata giustizia (…)’29. Ciò significa che l’idea dell’esistenza di una naturalis cognatio fra gli uomini non fu una prerogativa soltanto stoica e che anzi, come fra poco si vedrà, essa si diffuse fra gli intellettuali anche al di là dell’ambito strettamente filosofico: da qui potrebbe averla tratta lo stesso Fiorentino, pur senza aderire in particolare all’uno o all’altro movimento. In effetti, da tali premesse, l’idea dell’esistenza di una parentela naturale fra gli uomini dovette poi diffondersi sia fra i filosofi romani del tardo Stoicismo, sia fra i retori dell’età imperiale.
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Cordiano 2004, 13. Così Vernière 1993, 3-4. Questa ipotesi è scartata da Cordiano 2004, 13 nt. 21. 28 Tsouni 2019, 36 ss., 75 ss. 29 In omni autem honesto, de quo loquimur, nihil est tam illustre nec quod latius pateat quam coniunctio inter homines hominum et quasi quaedam societas et communicatio utilitatum et ipsa caritas generis humani. Quae nata a primo satu, quod a procreatoribus nati diliguntur et tota domus coniugio et stirpe coniungitur, serpit sensim foras, cognationibus primum, tum affinitatibus, deinde amicitiis, post vicinitatibus, tum civibus et iis, qui publice socii atque amici sunt, deinde totius complexu gentis humanae. Quae animi affectio suum cuique tribuens atque hanc, quam dico. Societatem coniunctionis humanae munifice et aeque tuens iustitia dicitur (…). Che l’oikeiosis fosse un tema centrale dell’aristotelismo che si era mischiato con la dottrina etica stoica, risulta anche da due frammenti dell’Anthologium di Stobeo (V sec. d.C.): il primo menziona un testo chiamato ‘Estratto da Aristotele e dagli altri peripatetici: sull’etica’ (2.116.19-152,5), il secondo (4.39.28) riporta un breve passo, tratto, a suo dire, dall’Epitome di Didimo, che ripropone la dottrina stoica dell’oikeiosis reinterpretata alla luce dell’aristotelismo. I due testi, in traduzione inglese, sono riprodotti da Sharples 2010, 111 ss. e 132 ss. 27
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Lauretta Maganzani Ad es. la troviamo espressa a più riprese nel de beneficiis e nelle lettere a Lucilio di Seneca30: de ben. 3.28.1-2 (…): Tutti abbiamo gli stessi inizi e la stessa origine, nessuno è più nobile di un altro se non chi ha una natura più retta e più adatta alle buone azioni (…) 2. Il mondo è l’unico genitore comune a tutti ed è a questo che risale la genealogia di ognuno, che ciò avvenga attraverso passaggi splendidi oppure oscuri31. epist. ad Luc. 44.1 (…): tutti, se si rifanno alla loro prima origine, discendono dagli dei32. epist. ad Luc. 47.10: Considera che costui che tu chiami ‘schiavo’ è nato dagli stessi semi, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vedere lui come un ingenuo come lui può vedere te come uno schiavo33. epist. ad Luc. 95.52-53: Tutto ciò che vedi e che racchiude l’umano e il divino è una sola cosa; noi siamo le membra di un grande corpo. La natura ci ha generato cognati poiché ci ha creato dalla stessa materia e indirizzato alla stessa meta; ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatti socievoli34.
30 Argiroffi 2012, 52 ss.; Vitelli 2016, 1-18 con altra lett. L’idea, poi, si estende, com’è noto, alla letteratura cristiana. Cfr. ad es. Lactant. div. inst. 5.8.10: Sicut una eademque natura mundus omnibus partibus inter se congruentibus cohaeret ac nititur, sic omnes homines inter se natura confusi pravitate dissentiunt, nec se intellegunt esse consanguineos et subiectos sub unam eandemque tutelam; quod si teneretur, deorum profecto vitam homines viverent. (Come tutto il mondo è connesso e si sostiene per la comunanza di un’unica natura e per la concordia fra tutte le sue parti, così gli uomini, tra loro mescolati per natura, discordano per ignoranza e non comprendono di essere consanguinei e soggetti ad un’unica medesima potenza. Ma, se ne avessero coscienza, essi vivrebbero certamente la vita degli dei). 31 Sen. de ben. 3.28.1: Post tot exempla num dubium est, quin beneficium aliquando a servo dominus accipiat? Quare potius persona rem minuat, quam personam res ipsa cohonestet? Eadem omnibus principia eademque origo; nemo altero nobilior, nisi cui rectius ingenium et artibus bonis aptius. 2. Qui imagines in atrio exponunt et nomina familiae suae longo ordine ac multis stemmatum inligata flexuris in parte prima aedium conlocant, non noti magis quam nobiles sunt? Unus omnium parens mundus est, sive per splendidos siue per sordidos gradus ad hunc prima cuiusque origo perducitur. (E dopo tutti questi esempi dubitiamo ancora che qualche volta il padrone possa ricevere un beneficio dal suo schiavo? Perché mai la condizione sociale del benefattore dovrebbe diminuire il valore della sua azione anziché essere il beneficio stesso ad innalzare questa condizione? Tutti abbiamo gli stessi inizi e la stessa origine, nessuno è più nobile di un altro se non chi ha una natura più retta e più adatta alle buone azioni. 2. Quanti espongono le immagini dei loro antenati negli atri e mettono all’entrata delle loro dimore i nomi di famiglia disposti in una lunga fila e collegati fra loro dalle ramificazioni dell’albero genealogico, non sono forse più noti di quanto non siano nobili? Il mondo è l’unico genitore comune a tutti ed è a questo che risale la genealogia di ognuno, che ciò avvenga attraverso passaggi splendidi oppure oscuri). Sul testo, ampiamente, Mantello 1979, 39 ss. 32 Sen. epist. ad Luc. 44.1: Iterum tu mihi te pusillum facis et dicis malignius tecum egisse naturam prius, deinde fortunam, cum possis eximere te vulgo et ad felicitatem hominum maximam emergere. Si quid est aliud in philosophia boni, hoc est, quod stemma non inspicit; omnes, si ad originem primam revocantur, a dis sunt. (Di nuovo ti fai piccolo ai miei occhi e dici che la natura prima e la sorte poi si sono comportate alquanto male con te, e invece potresti emergere dalla massa e innalzarti alla più grande felicità umana. La filosofia ha, fra l’altro, questo di buono: tutti, se si rifanno alla loro prima origine, discendono dagli dei). Citti 2013-2014, 85 ss. 33 Vis tu cogitare istum quem servum tuum vocas ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum. 34 [52] (…) omne hoc quod vides, quo divina atque humana conclusa sunt, unum est; membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino Il principio dell’esistenza di una parentela fra gli esseri umani costituisce, poi, un Leitmotiv nei Pensieri di Marco Aurelio35, che tuttavia, parla degli uomini come sungeneis in quanto compartecipi della stessa mente più che dello stesso sangue e dello stesso seme: 2.1 (…): so che è mio parente (sungenes) non perché derivi dallo stesso sangue e dallo stesso seme, ma perchè partecipe con me della stessa mente, cioè di una particella divina. … Ecco perché è cosa contro natura agire l’uno contro l’altro (…)36
Ancora più significativo – perché mostra come l’idea della parentela naturale fra gli uomini si fosse estesa dalla filosofia alla retorica diventando quasi un luogo comune –, è un passo della IX delle declamationes maiores37. Qui, infatti, un giovane salvato dalla schiavitù da un amico desidera ricambiare il favore impegnandosi a mantenere il padre di quello, ma in ciò trova l’opposizione del suo proprio padre in ragione del più stretto rapporto di sangue che esiste fra genitore e figlio. A questo, tuttavia, il protagonista contrappone l’idea dell’esistenza di una cognatio naturalis fra tutti i mortali38: 9.15: Se mai avessi aiutato con il cibo una persona estranea e sconosciuta, dato che tutti gli uomini, avendo avuto come unico genitore la natura, sono cognati, sembrerebbe forse degno di punizione l’aver salvato una vita sul punto di estinguersi e l’aver avuto compassione per le vi-
Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. [53] Ille versus et in pectore et in ore sit: homo sum, humani nihil a me alienum puto. Habeamus in commune: nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur. (Tutto ciò che vedi e che racchiude l’umano e il divino è una sola cosa; noi siamo le membra di un grande corpo. La natura ci ha generato cognati poiché ci ha creato dalla stessa materia e indirizzato alla stessa meta; ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatti socievoli. Ha stabilito l’equità e la giustizia; in base alle sue norme chi fa del male è più sventurato di chi il male lo riceve; per suo comando le mani siano sempre pronte ad aiutare. 53. Medita e ripeti spesso questo verso: ‘Sono un uomo e niente di ciò che è umano lo ritengo estraneo a me’. Mettiamo tutto in comune: siamo nati per una vita in comune. La nostra società è molto simile a una volta di pietre: cadrebbe se esse non si sostenessero a vicenda ed è proprio questo che la sorregge). 35 Oltre al passo citato nel testo, cfr., nella stessa opera, 4.4.; 7.13; 7.55; 8.34; 10.6; 11.8. 36 Ἕωθεν προλέγειν ἑαυτῷ· συντεύξομαι περιέργῳ, ἀχαρίστῳ, ὑβριστῇ, δολερῷ, βασκάνῳ, ἀκοινωνήτῳ· πάντα ταῦτα συμβέβηκεν ἐκείνοις παρὰ τὴν ἄγνοιαν τῶν ἀγαθῶν καὶ κακῶν. ἐγὼ δὲ τεθεωρηκὼς τὴν φύσιν τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι καλόν, καὶ τοῦ κακοῦ ὅτι αἰσχρόν, καὶ τὴν αὐτοῦ τοῦ ἁμαρτάνοντος φύσιν ὅτι μοι συγγενής, οὐχὶ αἵματος ἢ σπέρματος τοῦ αὐτοῦ ἀλλὰ νοῦ καὶ θείας ἀπομοίρας μέτοχος, οὔτε βλαβῆναι ὑπό τινος αὐτῶν δύναμαι· αἰσχρῷ γάρ με οὐδεὶς περιβαλεῖ· οὔτε ὀργίζεσθαι τῷ συγγενεῖ δύναμαι οὔτε ἀπέχθεσθαι αὐτῷ. γεγόναμεν γὰρ πρὸς συνεργίαν ὡς πόδες, ὡς χεῖρες, ὡς βλέφαρα, ὡς οἱ στοῖχοι τῶν ἄνω καὶ τῶν κάτω ὀδόντων. τὸ οὖν ἀντιπράσσειν ἀλλήλοις παρὰ φύσιν· ἀντιπρακτικὸν δὲ τὸ ἀγανακτεῖν καὶ ἀποστρέφεσθαι. (Già dal mattino comincia a dire a te stesso: incontrerò curiosi, ingrati, prepotenti, imbroglioni,
invidiosi, egoisti. Tutti questi vizi provengono loro dall’ignoranza del bene e del male. Ma io, che ho compreso che la natura del bene è il giusto e quella del male l’errore e ho inoltre osservato la natura di chi sbaglia e so che è mio parente [sungenes] non perché derivi dallo stesso sangue e dallo stesso seme, ma perché partecipe con me della stessa mente, cioè di una particella divina, non posso ricevere danno da nessuno di loro giacchè nessuno riuscirà a coinvolgermi in azioni disoneste né posso adirarmi con chi mi è parente o averlo in odio. Ecco perché è cosa contro natura agire l’uno contro l’altro; e irritarsi contro qualcuno e detestarlo è proprio di persone fra loro nemiche). 37 Di recente, sulle Declamazioni maggiori dello Ps. Quintiliano, Lovato, Stramaglia, Traina 2021, passim. 38 Raccanelli 2000, 117 s.; Richter 2000, 90; Pasetti 2008, 126-127.
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Lauretta Maganzani cende umane e, in considerazione della sorte comune a tutti, l’aver fatto un’offerta alla fortuna come a una divinità che si adora?39
Da queste e altre simili fonti Fiorentino dovette trarre la sua osservazione sulla cognatio naturalis fra gli uomini, riprendendo, quindi, un principio filosofico enunciato in varie scuole (anche se approfondito soprattutto da quella stoica) e poi diffuso anche negli ambienti della retorica, e facendone oggetto di insegnamento ai suoi studenti di diritto al fine di spiegare la ragione di fondo della legittimità di ogni reazione, anche violenta, alla vis ed iniuria altrui. Egli, dunque, appare un insegnante di diritto sui generis, che non teme di richiamare principi filosofici per fondare precetti giuridici: lo dimostra anche la qualifica di nefas da lui riferita ad ogni insidia di un uomo verso un altro, che è appunto ciò che giustifica e legittima la reazione difensiva della vittima. Anche qui, infatti, Fiorentino riprende un principio filosofico – quello secondo cui, come scriveva Marco Aurelio nei Pensieri (9.1), è ‘impius ogni comportamento ingiusto commesso da un uomo nei confronti di un altro’ perché contrastante con la natura universale che ha creato gli esseri razionali gli uni per gli altri40 – e tuttavia lo traduce in termini giuridici, non parlando soltanto di empietà, ma di nefas, cioè di vera e propria violazione del diritto sacro.
3. La definizione di libertà Si può dunque ritenere che Fiorentino con [F. 1] D. 1.1.3 si inserisca nell’ordine di idee appena delineato, riprendendo posizioni che, fra il II e il III secolo, dovevano essere universalmente diffuse fra le classi colte, indipendentemente dall’adesione espressa a un preciso movimento filosofico. Passiamo ora ad analizzare [F. 25] D. 1.5.4 dove Fiorentino definisce la libertà come ‘la facoltà naturale di fare ciò che piace, a meno che qualcosa sia proibito dalla vis o dal ius’ e la schiavitù come ‘un istituto iuris gentium contra naturam in base al quale un uomo è sottoposto al potere di un altro’. La prima domanda da porsi per comprendere e contestualizzare adeguatamente il passo è relativa alle fonti da cui Fiorentino potrebbe avere tratto queste affermazioni. La risposta al quesito, infatti, può fornirci ulteriori indizi per ricostruire il retroterra culturale del giurista e scoprire i termini del suo cd. ‘giusnaturalismo’. Un abbozzo di risposta si può forse trovare tratteggiando il percorso delle idee sulla libertà e sulla schiavitù dell’uomo espresse dalle varie scuole filosofiche dell’antichità greco-romana41:
39 Ergo si alienum et ignotum, tamen, quae publica omnium mortalium quippe sub uno parente naturae cognatio est, hominem cibo forte iuvissem, poena dignum videretur servasse perituram animam et ignovisse rebus humanis et respectu communis omnium sortis velus adorato numini [et] stipem posuisse fortunae? 40 Queste le parole precise dell’imperatore filosofo: ‘Avendo infatti la natura universale creato gli esseri razionali gli uni per gli altri, per darsi reciproco aiuto secondo il merito di ognuno senza arrecarsi mai il minimo danno, è chiaro che chi ne trasgredisce il volere commette azione empia contro la più venerabile delle divinità, perché la natura universale è natura degli enti, e gli enti sono intimamente collegati con tutte le realtà esistenti’. 41 Garnsey 2004, 30 ss., 151 ss.; Hunt 2017, 191 ss.; Schiavone 2019, 10 ss.; Brutti 2019, 39 ss.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino a queste, infatti, il nostro giurista si riconnette, non certo alle fonti romane, soprattutto repubblicane, che attribuiscono alla libertà un carattere politico riferendosi essenzialmente ai diritti del civis romanus all’interno della civitas42. Chiarificatrice, sul punto, un’osservazione di Giuliano Crifò: “la cd. libertà naturale non va identificata con la libertà individuale che, per essere una libertà garantita dal diritto, non esiste in natura come prodotto spontaneo: tanto che misura e limite le sono costituiti dalla oggettività delle istituzioni (…) quando si parla di naturalis libertas, si allude a questo stato di mero fatto, all’esistenza fisica dell’uomo quando non sia necessario pensarlo immerso in un rapporto sociale e risulti quindi dipendente dalle sole sue forze e qualità”43. Premesso che anche nella Grecia classica era regola consolidata quella per cui il prigioniero di guerra cadeva in schiavitù del nemico44, siamo al corrente di un dibattito risalente al V-IV sec. a.C. sulla naturalità o innaturalità della schiavitù, intendendo per giusto e ingiusto per natura – come scrive Aristotele nella Retorica 1373b 6-9 – ‘ciò che tutti presagiscono e che è comune a tutti, anche se fra loro non esiste alcuna comunanza o patto reciproco’45. Di tale dibattito ci informa lo stesso Aristotele nel libro I della Politica (1252a 24 ss.) dove cita alcuni autori a lui precedenti o contemporanei – di cui taluni esperti di leggi – che avevano sostenuto l’innaturalità della schiavitù viste le caratteristiche comuni, fisiche e psicologiche, di tutti gli uomini46. Un passo celeberrimo in tal senso è quello ascritto al sofista Antifonte (P. Oxy. 1364 fr. 2) – da identificare forse con l’Antifonte di Ramnunte, logografo e organizzatore del colpo di stato oligarchico del 411 – che, rinviando probabilmente alla materialità del primo sapere medico, sosteneva che ‘(…) gli uni verso gli altri ci trattiamo da barbari mentre, proprio per natura, in tutto tutti abbiamo la medesima costituzione, sia barbari che greci. Si possono osservare le facoltà necessarie per natura in tutti gli uomini (…) e nessun barbaro si distingue da noi, e nessun greco: respiriamo nell’aria tutti con la bocca e con le narici’47. Si è sottolineato come l’A. fosse di fede oligarchica e in questa veste, cioè in mera funzione propedeutica alla
42 Su questa accezione di libertà mi limito a citare Crifò 1958, 8 ss.; Crifò 2000, 11 ss. Sul tema, di recente, anche Stolfi 2014, 154 ss. e Cascione 2020, 9 ss. 43 Crifò 1958, 62-63. Cfr. Brutti 2019, 39 che sottolinea come “Le visioni antiche e moderne (…) hanno in comune l’immagine di una distanza, di un’antitesi tra ciò che è connaturato all’uomo e ciò che vale in concreto come disciplina giuridica”. 44 Tale regola era frutto del nòmos, cioè della legge o della convenzione: es. Heraclit. 22B53 D.K.; Arist. pol. 1255a 6-7. Parla di ‘legge eterna’ Xenoph. cyrop. 7.5.73; Xenoph. memor. 4.2.14-15. 45 Pani 2010, 34 ss. 46 Sulla teoria della naturalità della schiavitù in Aristotele e sui suoi innominati oppositori, fra gli altri, Rousseau 1978/79, 132 ss.; Camus 1979, 99 ss.; Goldschmidt 1979, 183 ss.; Schiavone 1996, 142 ss.; Miller jr. 1997, 102, 147, 240 ss.; Burns 2003, 16 ss.; Simpson 2006, 95 ss.; Biavaschi 2007, 79 ss.; Bodei 2007, 181 ss.; Heath 2008, 243 ss.; Vlassopoulos 2011, 115 ss.; García Mercado 2015, 151 ss.; Cambiano 2016, 155 ss.; Kamtekar 2016, 150 ss.; Hunt 2017, 193 ss.; Vegetti 2018a, 23 ss.; Vegetti 2018a, 146 ss.; Bodei 2019; Fussi 2020, 391 ss. Forse apparteneva a questi innominati oppositori anche il cinico Antistene di cui Diogene Laerzio ne ‘Le vite dei filosofi’ 6.16 dice che scrisse un’opera dal titolo ‘Della libertà e schiavitù’. Naturalmente vi era anche chi (Tucidide, Gorgia, Callicle), sempre sulla base della natura, affermava il potere del più forte di assoggettare i più deboli: cfr. Neschke-Hentschke 2007, 25 ss. Vi era inoltre chi affermava la difformità fisica dello schiavo rispetto al libero: ad es. Teognide 535-538 opponeva al capo eretto del libero quello curvo del servus. 47 Cfr. Cambiano 2016, 167 s.; Schiavone 2019, 10 ss.
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Lauretta Maganzani rivalutazione di altre forme di consenso fondate sulla concordia e sulla moderazione48, non tanto per affermare una comunanza naturale fra gli uomini, abbia pronunciato tali parole49. È certo comunque che, come scrive Aldo Schiavone, “nessun tentativo di restituirgli uno sfondo può spegnere la forza oggettiva di questo pensiero, che si presenta con l’impatto di un pronunciamento drastico, aperto a tutti gli esseri umani”50. Parole analoghe, benché con riferimento soltanto ai Greci liberi51, potrebbe aver pronunciato il sofista Ippia che, secondo il Protagora di Platone 337c-d, avrebbe sostenuto che gli uomini sono consanguinei (sungeneis), familiari e concittadini per natura, non per legge, in quanto per natura il simile è parente del suo simile, mentre la legge, che è tiranna degli uomini, costringe a molte violenze contro natura. Anche il sofista Alcidamante, seguace di Gorgia, stando ad un passo della Retorica di Aristotele (1373b 5–20) il cui senso è completato da uno scolio52, in un’orazione a difesa dei Messeni che, ribellatisi agli Spartani, non volevano tornare in schiavitù (Messeniaco 153), avrebbe sostenuto che dio lascia tutti gli uomini liberi e che nessuno è irrevocabilmente schiavo per natura: ἐλευϑέρους ἀφήκε πάντα ϑεός· οὐδένα δοῦλον ἠ φύσις πεποίκεν. I sofisti, in effetti, furono i primi a evidenziare l’esistenza di un rapporto di opposizione fra la fusis e il nomos, intesa la prima come ‘la realtà come essa è a prescindere dall’intervento dell’uomo’, la seconda come ‘ciò la cui validità è determinata dall’uomo e dalle sue decisioni, con un ventaglio di significati assai esteso: la legge, sia orale sia scritta, ma anche la tradizione, le abitudini, le convenzioni’54. Al contrario, come si vedrà, Platone e Aristotele tesero sempre ad individuare fra i due elementi un completamento, una sussidiarietà nell’orizzonte della polis, pur essendo la prima non scritta in quanto semplicemente data come ovvia nel quadro dell’ordinamento giuridico della città55. Osservazioni analoghe a quelle dei sofisti si trovano in alcune tragedie euripidee, cioè nello Ione 854-856 (‘Una cosa sola arreca disonore agli schiavi, il nome: per tutto il resto, lo schiavo non è inferiore in niente ai liberi se è di animo nobile’) e nell’Elena 728 ss. (‘Che io possa, anche se sono nato schiavo, essere considerato tra gli schiavi generosi, dal momento che non ho il nome di libero, ma la mente sì’). Significativo anche il lamento dell’Ecuba di Euripide 354 ss.: ‘Ero sovrana tra le donne dell’Ida, io l’infelice, ammirata fra le vergini, simile agli dei anche se mortale; ora sono una schiava. Basta questo nome, che non è per me, a rendermi cara la morte. E poi potrebbero capitarmi padroni crudeli, che si sono acquistati per denaro la sorella di Ettore e di tanti altri eroi: (…) No, non sarà così. È libero lo sguardo dei miei occhi, ora: il mio corpo, lo dedico all’Ade’56.
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Bonazzi 2020, 50-51. Bonazzi 2004, 769 ss.; Bonazzi 2006, 101 ss.; Bonazzi 2009, 25 ss.; Bonazzi 2012, 21 ss. 50 Schiavone 2019, 12. 51 Cambiano 2016, 176. 52 La citazione non compare direttamente nel testo aristotelico; si tratta di uno scolio (Anon. in Rh. CAG XXI.2 p. 74 b 18 Rabe): Avezzù 1982, 36. Cfr. Cambiano 2016, 158 s., 167 ss. 53 Avezzù 1982, 36. 54 Bonazzi 2020, 35; Brutti 2019, 41. 55 Pani 2010, 21. 56 Per una disamina dei richiami alla schiavitù in Euripide, Synodinou 1977, passim. 49
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino Il commediografo della commedia nuova Filemone sosteneva, infine, che ‘Anche se uno è schiavo, ha però la medesima carne: nessuno infatti morì schiavo per natura; è la sorte, al contrario, che ha fatto schiavo il corpo’ (Kock II.1 fr. 95, p. 508). Al contrario Platone (pol. 309a; resp. 469b-c; leg. 776b ss.) e Aristotele (pol. 1253b, 3 ss.) affermavano che vi erano uomini, essenzialmente i barbari57, che erano fatti naturalmente per servire perché, date le loro caratteristiche fisiche – adatte ai lavori di fatica – intellettive – inferiori a quelle dei Greci tanto da balbettare un dialetto incomprensibile in luogo dell’aulico greco58 – e psicologiche – un senso innato di soggezione dovuto alla loro abitudine a servire – erano destinati a questa posizione di subordinazione (nella quale, fra l’altro, avrebbero vissuto felicemente giungendo anche, talvolta, a instaurare rapporti di amicizia col loro dominus59). Al contrario era da considerare contro natura la schiavitù per prigionia di guerra di un Greco, in quanto basata sulla mera violenza e non giustificata dall’inferiorità fisica e psicologica del prigioniero rispetto al nemico60. In realtà fra i sofisti ed Aristotele era cambiato il senso stesso del termine natura, dal campo della fisica, della medicina e della fisiologia proprio dei presocratici e poi dei sofisti come Antifonte, a quello dei fini della specie umana che, destinata a cooperare, presupponeva necessariamente una rigida divisione di ruoli fra chi comandava e chi era comandato61. Tuttavia, se osserviamo con attenzione i termini di questo dibattito, vediamo che, anche per i due grandi filosofi greci, la ‘naturalità’ della schiavitù non era un dato scontato; anzi essi fanno una certa fatica a giustificarlo, come dimostra il fatto che devono postulare l’esistenza di persone psicologicamente e intellettivamente inferiori, adatte per natura a questo tipo di subordinazione, così come accadeva per la subordinazione, anch’essa ritenuta naturale, della femmina rispetto al maschio o dell’animale rispetto all’essere umano62. In sostanza, come scrive Mario Vegetti, per Aristotele lo schiavo doveva essere inferiore per natura o la stessa postulabilità della schiavitù come istituto giuridico sarebbe divenuta ‘ideologicamente inaccettabile, un paradosso intollerabile in una società che il suo punto di forza nella convinzione della libertà e dell’eguaglianza fra gli uomini’63, tanto più che il potere che il padrone esercitava sullo schiavo era proprio quello tirannico, aborrito dai Greci (etic. Nicom. 1160b 29-30; così anche Plat. resp. 578 d)64. Inoltre l’idea della schiavitù naturale era ‘in contraddizione con l’antropologia di Aristo-
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Smith 1983, 109 ss.; Berti 2008, 251 ss.; Cambiano 2016, 167ss.; Schiavone 2019, 23 ss. Lo schiavo per natura – scrive Bodei 2019, 59 – “manca, infatti, d’intelligenza (non solo quindi di logos, di pensiero discorsivo, ma anche di nous, di intelletto) (…) e, di conseguenza, di autonomia e capacità di scelta e ha quindi bisogno di un padrone in carne e ossa”. 59 Non in quanto schiavi, ma in quanto uomini: Arist. etic. Nicom. 1161b. 60 Cfr. Gorgia 82B5b (D.K.); Xenoph. Ages. 7.6; ellen. 1.6.14; Isocr. paneg. 132; Plat. resp. 469b – 471b: Cambiano 2016, 172. 61 Schiavone 2019, 30-32. 62 Fermani 2015, 77 ss. 63 Cambiano 2016, 164: “Lo stesso Aristotele non esita a riconoscere nello schiavo un uomo (ànthropos) [pol. I.4.1254a 26-27; etic. Nicom. 8.10.1161a 32 – b 8] e non una specie distinta entro un genere costituito di uomini e schiavi: la specie umana è semplice e non presenta differenze analoghe a quelle riscontrabili, per esempio, negli equidi tra cavallo, asino e mulo (hist. animal. 490 a 16-18)”. 64 Vegetti 2018b, 154. 58
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Lauretta Maganzani tele’65 secondo la quale l’uomo era per natura ‘animale dotato di ragione’ e ‘animale politico’. Fu probabilmente proprio di questa contraddizione che si servirono i sofisti per affermare, forse a scopi specifici che il più delle volte ci sfuggono, la libertà naturale di tutti gli uomini o, almeno, dei Greci fra loro. E, del resto, che contro tale ostacolo logico si fossero scontrati anche Platone ed Aristotele è dimostrato da una serie di affermazioni dei due grandi filosofi. Ad es., in leg. 777b-d, Platone manifesta così il suo disagio rispetto alla categoria degli iloti greci: È evidente che, poiché l’animale uomo è di carattere difficile e mostra di non voler in nessun modo adattarsi ad essere o diventare docile davanti alla necessaria distinzione per la quale noi nei fatti separiamo schiavo e libero e padrone, si tratta di un difficile possesso (…)66.
Lo stesso disagio emerge in alcuni brani della Politica di Aristotele, soprattutto quando egli deve ammettere che è difficile spiegare perché la schiavitù dei barbari sia da considerarsi ‘naturale’ e, invece, quella dei Greci frutto di inaccettabile violenza: pol. 1254b 27 ss.: La natura vuole fare diversi i corpi dei liberi e quelli degli schiavi, gli uni forti per gli usi delle necessità della vita, gli altri invece eretti e inutili per attività di questo genere, ma utili per la vita politica (che viene a trovarsi suddivisa in occupazioni di guerra e di pace). Ma spesso accade il contrario e gli uni hanno il corpo di liberi e gli altri l’anima67. pol. 1255a 3 ss.: (…) è dunque evidente che per natura alcuni uomini sono liberi e altri schiavi e che per questi ultimi l’essere schiavi è giusto e utile. Ma che anche coloro i quali sostengono tesi contrarie alle nostre in un certo senso abbiano ragione non è difficile vedere. Le espressioni ‘essere schiavo’ e ‘schiavo’ hanno due sensi. Infatti ci può essere qualcuno che si trova in schiavitù
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Berti 2008, 262.
Δῆλον ὡς ἐπειδὴ δύσκολόν ἐστι τὸ θρέννα ἄνθροπος, καὶ πρὸς τὴν ἀναγκαίαν διόρισιν, τὸ δοῦλόν τε ἔργῳ διορίζεσϑαι καὶ ἐλεύθερον καὶ δεσπότην, οὐδαμῶς εὔχρηστον ἐϑέλειν εἶναί τε καὶ γίγνεσϑαι φαίνεται, χαλεπὸν δὴ τὸ κτῆμα: ἔργῳ γὰρ πολλάκις ἐπιδέδεικται περὶ τὰς Μεσσηνίων συχνὰς εἰωϑυίας ἀποστάσεις γίγνεσϑαι, καὶ περί γε τὰς τῶν ἐκ μιᾶς φωνῆς πολλοὺς οἰκέτας κτωμένων πόλεις, ὅσα κακὰ συμβαίνει, καὶ ἔτι τὰ τῶν λεγομἐνων περιδίων τῶν περὶ τὴν Iταλίαν γιγνομένον παντοδαπὰ κλωπῶν ἔργα τε καὶ παϑήματα. Πρὸς ἅ τις ἂν πάντα βλέψας διαπορήσειε τί χρὴ δρᾶν περὶ ἁπάντων τῶν τοιούτων. Δύο δὴ λείπεσϑον μόνω μηχανά, μὴτε πατριώτας ἀλλὴλων εἶναι τοὺς μέλλοντας ῥᾷον δουλεύσειν, ἀσυμφώνους τε εἰς δύναμιν ὅτι μάλιστα, τρέφειν δ’αὐτοὺς ὀρϑῶς, μὴ μόνον ἐκείνων ἔνεκα, πλέον δὲ αὑτῶν προτιμῶντας 66
(…). (È evidente che, poiché l’animale uomo è di carattere difficile e mostra di non voler in nessun modo adattarsi ad essere o diventare docile davanti alla necessaria distinzione per la quale noi nei fatti separiamo schiavo e libero e padrone, si tratta di un difficile possesso: e questo nei fatti viene spesso dimostrato dalle frequenti ed abituali rivolte dei Messeni e da quei mali che avvengono in quelle città dove si possiedono molti servi che parlano la stessa lingua e, ancora, da quei furti di ogni specie e da quelle sventure causate da coloro che vengono chiamati vagabondi e sono in Italia. Considerando tutti questi fatti, si potrebbero nutrire non poche perplessità sul comportamento da assumere in casi del genere. Non restano che due sistemi: chi vuole possedere senza difficoltà gli schiavi faccia in modo, per quanto possibile, che non siano dello stesso paese e non parlino la stessa lingua, in secondo luogo li allevi come si deve, non solo nel loro interesse, ma preoccupandosi soprattutto per se stessi […]). 67 Βούλεται μὲν οὖν ἡ φύσις καὶ τὰ σώματα διαφέροντα ποιεῖν τὰ τῶν ἐλευϑέρων καὶ τῶν δούλων, τὰ μὲν ἰσχυρὰ πρὸς τὴν ἀναγκαίαν χρῆσιν, τὰ δ’ὀρϑὰ καὶ ἄχρηστα πρὸς τὰς τοιαύτας ἐργασίας, ἀλλὰ χρήσιμα πρὸς πολιτικὸν βίον (οὗτος δὲ καὶ γίνεται διῃρημένος εἴς τε τὴν πολεμικὴν χρείαν καὶ τὴν εἰρηνικήν), συμβαίνει δὲ πολλάκις καὶ τοὐναντίον, τοὺς μὲν τὰ σώματα ἔχειν ἐλευϑέρων τοὺς δὲ τὰς ψυχάς. Cambiano 2016, 165 s.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino o è schiavo anche per la legge in base alla quale si dice che ciò che in guerra cade in potere di qualcuno appartiene a chi lo ha catturato, per comune riconoscimento. Molti che s’intendono di leggi come i retori accuserebbero di illegalità questo diritto, ritenendo mostruoso che chi è vittima della violenza sia schiavo di chi può esercitarla e di chi è per potenza il più forte e possa essergli sottoposto; i pareri tuttavia sono discordi anche tra i sapienti. (…) Alcuni, attenendosi del tutto a ciò che essi credono essere una specie di giustizia (…) ammettono che sia giusta la schiavitù dovuta alla guerra, ma contemporaneamente si riservano di non ammetterlo, adducendo che l’origine della guerra potrebbe essere ingiusta e non si potrebbe mai dire che sia schiavo chi non merita di esserlo, perché potrebbe accadere che quelli che sembrano discendere da nobile lignaggio siano schiavi o discendenti da schiavi, qualora fosse possibile vendere le persone che si sono catturate. Perciò non costoro essi intendono chiamare schiavi, ma i barbari68. pol. 1255b 4 ss.: È dunque chiaro che quella divergenza di tesi aveva ragione di sussistere e che alcuni schiavi e alcuni liberi non sono tali per natura; ma è del pari evidente che in alcuni casi questa distinzione può essere tracciata, cioè quando alcuni hanno convenienza a servire, altri hanno convenienza a essere padroni (…) Perciò sussistono legami di interesse e amicizia reciproca tra lo schiavo e il padrone, quando la loro posizione è definita per natura; quando invece è definita non per natura ma per legge e in seguito a violenza, allora avviene il contrario69.
Questa fase di ‘scontri’ e dibattiti su un tema scottante come la schiavitù mostra l’intento dei suoi protagonisti – se non certo di eliminare uno dei pilastri economico-giuridici del mondo antico – per lo meno di trovarne una giustificazione sul piano della natura oppure del nòmos: del resto, come scriveva Aristotele nella Politica 1253b 33 – 1254a 1, soltanto quando le spole e i plettri tessessero e suonassero da sé – cioè con ‘un impossibile sovvertimento della natura delle cose’70 – si sarebbe aperta la strada alla soppressione della schiavitù. Del resto, come osserva Brutti, se le culture del mondo antico ‘a volte immaginano una condizione del singolo fuori dall’ordine giuridico, non sottoposta alle diseguaglianze che questo regola, e la collocano nell’ambito della natura’, esse comunque ‘non riconoscono alla persona l’aspettativa di essere trattata secondo natura entro la concreta regolamentazione’71.
68 (…) ὅτι μὲν τοίνυν εἰσὶ φύσει τινὲς οἱ μὲν ἐλεύθεροι οἱ δὲ δοῦλος, φανερόν, οἷς καὶ συμφέρει τὸ δουλεύειν καὶ δίκαιόν ἐστιν. Ὅτι δὲ καὶ οἱ τἀναντία φάσκοντες τρόπον τινὰ λέγουσιν ὀρϑῶς, οὐ χαλεπὸν ἰδεῖν. διχῶς γὰρ λέγεται τὸ δουλεύειν καὶ ὁ δοῦλος. ἔστι γάρ τις καὶ κατὰ νόμον δοῦλος καὶ δουλεύων· ὁ γὰρ νόμος ὁμολογία τίς ἐστιν ἐν ᾗ τὰ κατὰ πόλεμον κρατούμεϑα τῶν κρατούντων εἶναι φασιν. τοῦτο δὴ τὸ δίκαιον πολλοὶ τῶν ἐν τοῖς νόμοις ὥσπερ ῥήτορα γράφονται παρανόμων, ὡς δεινὸν εἰ τοῦ βιάσασϑαι δυναμένου καὶ κατὰ δύναμιν κρείττονος ἔσται δοῦλον καὶ ἀρχόμενον τὸ βιασϑέν. καὶ τοῖς μὲν οὕτως δοκεῖ τοῖς δ’ἐκείνως, καὶ τῶν σοφῶν. (…) ὅλως δ’ἀντεχόμενόι τινες, ὡς οἴονται, δικαίου τινός (…) τὴν κατὰ πόλεμον δουλείαν τιϑέασι δικαίαν, ἄμα δ’οὔ φασιν· τήν τε γὰρ ἀρχὴν ἐνδέχεται μὴ δικαίαν εἷναι τῶν πολέμων, καὶ τὸν ἀνάξιον δουλεύειν οὐδαμῶς ἂν φαίε τις δοῦλον εἷναι· εἰ δὲ μή, συμβήσεται τοὺς εὐγενεστάτους εἷναι δοκοῦντας δούλους εἷναι καὶ ἐκ δούλων, ἐὰν συμβῇ πραϑῆναι ληφϑέντας. διόπερ αὐτοὺς οὐ βούλονται λέγειν δούλους, ἀλλὰ τοὺς βαρβάρους. 69 ὅτι μὲν οὖν ἔχει τινὰ λόγον ἠ ἀμφισβήτησις, καὶ οὐκ εἰσιν οἱ μὲν φύσει δοῦλοι οἱ δ’ἐλεύϑεροι, δῆλον, καὶ ὅτι ἔν τισι διώρισται τὸ τοιοῦτον, ὧν συμφέρει τῷ μὲν τὸ δουλεύειν τῷ δὲ τὸ δεσπόζειν (…) διὸ καὶ συμφέρον ἐστί τι καὶ φιλία δούλῳ καὶ δεσπότῃ πρὸς ἀλλήλους τοῖς φύσει τούτων ἠξιωμένοις, τοῖς δὲ μὴ τοῦτον τὸν τρόπον, ἀλλὰ κατὰ νόμον καὶ βιασϑεῖσι, τοὐναντίον. 70 71
Bodei 2019, 78. Brutti 2019, 38.
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Lauretta Maganzani Comunque, dopo questo periodo di ricco dibattito sul tema propriamente giuridico della schiavitù, le varie scuole filosofiche, in particolare quella stoica ed epicurea72, mentre si distaccavano dall’orizzonte della polis ormai in declino, smisero di misurarsi con questa tematica. Non che non richiamassero il tema dello status giuridico di libertà o schiavitù degli individui, ma lo facevano soltanto per sminuirne il rilievo ai fini del raggiungimento della felicità, considerato lo scopo primo di ogni uomo, per il quale era indispensabile piuttosto raggiungere la libertas interiore, cioè il distacco dalle passioni, dai vizi dell’anima e dai desideri malsani. Già in un passo del Gorgia di Platone (468d-e) la libertà giuridica, definita come ‘facoltà di fare ciò che piace’ (si badi, come in Fiorentino: infra73), era presentata come l’accezione ‘volgare’ e popolare di libertà, in luogo di quella moralmente più elevata di ‘fare ciò che si vuole’ che è propria del filosofo e indica il distacco dalle passioni e la capacità del saggio – schiavo o libero che sia – di realizzare la virtù: [468d] Socrate: Dunque, visto che su questo siamo d’accordo, se uno, tiranno o retore che sia, uccide qualcuno o lo scaccia dalla città o lo spoglia dei beni pensando che questo sia meglio per lui mentre in realtà si dà il caso che sia peggio, senza dubbio costui fa ciò che gli pare. O non è così? Polo: Sì. Socrate: E fa, forse, anche le cose che vuole, se in realtà si dà il caso che queste cose siano mali? Perché non rispondi? Polo: Ebbene non mi sembra che faccia le cose che vuole. Socrate: Può essere allora che costui abbia grande potere in quella data città, se è vero che l’avere grande potere è, per tua ammissione, un bene? Polo: Non può essere. Socrate: Allora io dicevo la verità quando sostenevo che può ben essere che un uomo [468e] che faccia nella città ciò che gli pare, non abbia tuttavia grande potere né faccia ciò che vuole74.
Tale spunto platonico venne poi ampiamente ripreso soprattutto dal medio e tardo Stoicismo a fronte dell’abbandono, invece, della tematica aristotelica sulla naturalità o innaturalità della schiavitù. Dagli Stoici, infatti, il tema della libertà venne affrontato sottolineando soprattutto l’irrilevanza del profilo giuridico di essa rispetto a quello morale (cfr. SVF III.349-36675), con l’eccezione di Crisippo che, stando a un passo di Filone di Alessandria nel de specialibus legibus II.16.69, avrebbe detto che ‘nessun uomo è schiavo per natura’ (ἄνϑροπος γὰρ ἐκ φύσεως
72 Per la scuola epicurea, cfr.. Lucr. de rer. nat. 1.455-458, secondo cui la schiavitù per l’uomo è da intendersi come mero evento o accidente. 73 Analoga definizione in Pers. sat. 5.82: an quisquam est alius liber, nisi ducere vitam cui licet ut libuit? 74 [468d] Σωκράτης: Oὐκοῦν εἴπερ ταῦτα ὁμολογοῦμεν, εἴ τις ἀποκτείναι τινὰ ἢ ἐκβάλλει ἐκ πόλεως ἢ ἀφαιρεῖται
χρήματα, εἴτε τύραννος ὢν εἴτε ῥήτωρ, οἰόμενος ἄμεινον εἶναι αὐτῷ, τυγκάνει δὲ ὂν κάκιον, οὗτος δήπου ποιεῖ ἃ δοκεῖ αὐτῷ: ἦ γάρ; Πῶλος: Nαί. Σωκράτης: Ἆρ’ οὖν καὶ ἃ βούλεται, εἴπερ τυγκάνει ταῦτα κακὰ ὄντα; τί οὐκ ἀποκρίνῃ; Πῶλος: Ἀλλ’οὔ μοι δοκεῖ ποιεῖν ἃ βούλεται. Σωκράτης: Ἒστιν οὗν ὅπως ὁ τοιοῦτος [468e] μέγα δύναται ἐν τῇ πόλει ταύτῃ, εἴπερ ἐστὶ τὸ μέγα δύνασϑαι ἀγαϑόν τι κατὰ τὴν σὴν ὁμολογίαν; Πῶλος: Oὐκ ἔστιν. Σωκράτης: Ἀληϑῆ ἄρα ἐγὼ ἔλεγον, λέγων ὅτι ἔστιν ἄνϑροπον ποιοῦντα ἐν πόλει ἃ δοκεῖ ἀυτῷ μὴ μέγα δύνασϑαι μηδὲ ποιεῖν ἃ βούλεται. 75 Cfr. i passi riportati in Radice 2014, 1139-1146. Particolarmente significativo sotto questo profilo il trattato Quod omnis probus liber sit di Filone di Alessandria (Petit 1974), spec. 1, 17-25, 32-37, 41, 48-55, 62, 152-159.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino δοῦλος οὐδείς: SVF III.35276) e a Epitteto che, nelle Diatribe 1.29.60, avrebbe affermato ‘Che cos’è infatti un padrone? Un uomo non è padrone di un altro uomo’ (τί γάρ ἐστι κύριος; ἄνϑροπος ανϑρώπου κύριος οὐκ ἔστιν).
Dunque alla concezione comune di libertà come ‘fare ciò che piace’ (o che ‘pare’) si contrappose in genere la libertà del saggio, schiavo o libero che fosse, di ‘fare ciò che si vuole’ realizzando, così, la propria intima natura in connessione con la natura universale. Non a caso quando gli Stoici (ad es. Epitt. diatrib. 4.1 ss.77; Sen. ep. ad Luc. 47. 2-5, 10-13, de ben. 3.19.2, 20.1, 21.2, ma anche Cic. par. stoic. 34)78 nonché alcuni autori letterari (es. Pers. sat. 5.73 ss.) e quelli della seconda sofistica (es. Dione di Prusa, orazioni 14 e 15 sulla schiavitù e la libertà)79 trattavano del tema della schiavitù, lo facevano essenzialmente per contrapporre al senso giuridico del termine (la sottomissione di un uomo ad un altro), quello filosofico (l’incapacità di dominare le passioni)80. Essi, cioè, usavano spostare l’attenzione su aspetti intimistici, sminuendo la rilevanza della libertas in senso tecnico-giuridico a fronte di quella libertas interiore a cui può accedere chiunque sia in grado di realizzare la virtù, libero o schiavo che sia81. In questo contesto le parole di Fiorentino nel principium e nel primo paragrafo di [F. 25] assumono una portata peculiare: infatti, in primo luogo, si nota che l’A. non ha elaborato una nuova definizione giuridica di libertas, ma ha fatto ricorso proprio alla concezione già espressa da Platone nel Gorgia e ripresa da molti autori successivi. In ciò egli mostra le sue notevoli competenze filosofiche e letterarie. In secondo luogo, non è da escludere che Fiorentino possa aver voluto riprendere i termini del dibattito aristotelico, forse mantenuto vivo nella letteratura latina o nelle scuole filosofiche stoiche, peripatetiche o eclettiche tardo-repubblicane o imperiali, per prendere posizione a favore dell’innaturalità della schiavitù, pur colorandolo di istanze tipicamente giuridiche, cioè ascrivendo la servitus allo ius gentium, in contrapposizione allo ius naturale per cui tutti gli uomini sono liberi. Del resto, che tale dibattito non si fosse sopito nei secoli successivi al suo sorgere, nonostante la penuria di attestazioni in tal senso giunte fino a noi, lo mostrano alcune fonti poco citate: in primo luogo il de civitate Dei di Agostino 19.21.2 e il de compendiosa doctrina di Nonio (nella sua parte lemmatica: lit. F fr. 1 = Lindsay 155) che riferiscono al de re publica ciceroniano, del cui testo, com’è noto, conosciamo una minima parte, alcune significative affermazioni sulla schiavitù, chiaramente dipendenti dalla trattazione aristotelica: Agost. de civ. Dei 19.21.2: Sempre nei medesimi libri del de re publica si svolge una discussione veramente energica e vivace contro l’ingiustizia, a favore della giustizia. Prima si prendono le difese dell’ingiustizia contro la giustizia e si sostiene che una res publica può reggersi ed essere
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Radice 2014, 1140-1141. Reale, Cassanmagnago 2017, 787 ss. 78 Garnsey 2004, 177-206. Sulla schiavitù in Epitteto, Wehus 2019, 227-242; in Seneca, Manning 1989, 1525 ss. 79 Panzeri 2011, passim. 80 SVF III. 355-366: Radice 2014, 1139-1147. Cfr. Pohlenz 1967, 313 e nt. 7; Manning 1989, 1518 ss.; Huwiler 1993, 207 ss.; Garnsey 2004, 36-40; Hunt 2017, 197ss.; Brutti 2019, 44 ss. Sul punto si vedano anche le illuminanti parole di Neschke-Hentschke 1995, 232-233. 81 In questo senso, secondo Garnsey 2004, 31, va forse interpretata l’affermazione di Crisippo di cui in SVF III.352 = Radice 2014, 1140-1141. 77
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Lauretta Maganzani governata soltanto per mezzo dell’ingiustizia; anche se era stata riconosciuta come assolutamente valida l’idea secondo cui era ingiusto che degli uomini fossero servi e altri dominatori, si ammette tuttavia che una città che ha un impero e che quindi è una grande res publica, se non ricerca l’ingiustizia non può comandare alle sue province. In difesa della giustizia viene risposto allora che giustamente è utile a quegli uomini essere servi, e ciò va a loro vantaggio quando viene condotto rettamente, cioè quando si toglie ai malvagi la possibilità di commettere sregolatezze, e allora essi si troveranno meglio in uno stato di soggezione, poiché si trovarono peggio in uno stato di indipendenza82. Non. de comp. doctr. 155 (Lindsay) s.v. Famulantur (lit. F fr. 1): ‘Famulantur’ a ‘servono’. M. Tullio De re publica libro III: c’è infatti un genere di ingiusta servitù, quando quelli che potrebbero essere liberi sono in potere di altri: dunque quando essi ‘famulantur’83.
Evidentemente Cicerone nel de re publica aveva ripreso il dibattito aristotelico per affermare che la servitus di un uomo rispetto ad un altro è ingiusta per natura ma necessaria per l’esercizio del comando e la supremazia politica di Roma84. Questo significa che, pur a fronte di una lex naturae – che accomuna tutti gli uomini indipendentemente dalla posizione sociale e dallo status giuridico – posta da Cicerone in tanti passi come riferimento della legge positiva giusta85, l’impero di Roma, secondo l’Arpinate, esigeva comunque l’applicazione di norme ingiuste e contra naturam, necessarie per la sua sopravvivenza e prosperità86. Era certo una riflessione preparata dalla filosofia stoica che aveva condotto quell’opera di astrazione della categoria ‘persona’ che sarebbe stata ripresa da Cicerone, da Gaio e, con più ampio respiro, dai giuristi severiani. Si ricordi infatti che Panezio di Rodi, come ricorda Cicerone de off. 1.107, 115, sosteneva che ciascun uomo ha quattro personae: ‘la razionalità, che è comune a tutti, l’individualità, che si determina attraverso spirito e corpo, il destino e la propria volontà’ e ciò, palesemente ispirato alle quattro cause di Aristotele (causa formalis, materialis, efficiens e finalis), costituiva ‘il presupposto teorico per poter giungere ad affermazioni di carattere ge-
82 Disputatur certe acerrime atque fortissime in eisdem ipsis de republica libris adversus iniustitiam pro iustitia. Et quoniam, cum prius ageretur pro iniustitiae partibus contra iustitiam et diceretur nisi per iniustitiam rempublicam stare gerique non posse, hoc veluti validissimum positum erat, iniustum esse, ut homines hominibus dominantibus serviant; quam tamen iniustitiam nisi sequatur imperiosa civitas, cuius est magna res publica, non eam posse provinciis imperare: responsum est a parte iustitiae ideo iustum esse, quod talibus hominibus sit utilis servitus, et pro utilitate eorum fieri, cum recte fit, id est, cum improbis aufertur iniuriarum licentia, et domiti melius se habebunt, quia indomiti deterius se habuerunt. 83 Famulantur pro serviunt. M. Tullius De republica lib. III est enim genus iniuste servitutis, cum hi sunt alterius qui sui possunt esse; cum autem hi famulantur. Si tratta del XII dei frammenti rimasti del III libro del de republica (cfr. ed. Castiglioni, CSLP, Torino 1948) 84 Sul rapporto fra politica e diritto naturale in Cicerone, con particolare riferimento al de legibus, Fontanella 2012, sop. 11 ss. 85 Fonti in Pani 2010, 147 ss. 86 A ciò è avvicinabile un altro frammento del III libro del de re publica (XI) richiamato da Agostino, contra Iulianum Pelag. 4.12.61, secondo cui ‘Come Dio comanda all’uomo, l’anima al corpo, la ragione alla sensualità …’ così ‘un padrone tiene a freno e doma i servi’; i padroni, infatti, ‘tengono soggetti gli schiavi, come la parte più nobile dell’animo, la sapienza, ne tiene soggette le parti più viziose e più deboli’. Al contrario Schiavone 2021a, 208, afferma, a partire da questo passo, che per Cicerone ‘il tratto caratterizzante della schiavitù’ era ‘l’attitudine coercitiva e repressiva di un disciplinamento del tutto artificiale, aspro e severo, aperto alla violenza’. Cfr. anche Schiavone 2017, 435.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino nerale sull’uomo. (…) Diversamente, la sussistenza di tali differenze avrebbe impedito di ricondurre tutti gli uomini all’interno di una categoria unitaria’87. Ma la tematica dovette entrare in circolo anche al di fuori delle scuole filosofiche, ad es. nell’ambiente delle declamationes retoriche: infatti Seneca il vecchio, stando a un passo delle controversiae, riferisce ad Albucio Silo, retore spagnolo di età augustea, l’affermazione secondo cui nessun uomo è libero o schiavo per natura, ma questi nomi vengono imposti successivamente dalla Fortuna. Significativo, tuttavia, il fatto che Seneca padre dichiari che qui Albucio philosophatus est: contr. 7.6.18: Anche Albucio ha fatto il filosofo: ha detto che nessuno è libero e nessuno è schiavo per natura; questi nomi li ha imposti in seguito ai singoli la Fortuna88.
Lo stesso si legge nel § 8 della declamatio maior 13 con queste parole: ‘Che cosa, d’altra parte, la natura ha generato che non sia in origine libero? Taccio degli schiavi, che l’iniquità delle guerre ha dato in preda ai vincitori, benché siano nati con le stesse leggi, lo stesso aspetto, lo stesso destino, traggano lo spirito dal medesimo cielo e non la natura, ma la sorte abbia dato loro un padrone’89. Tutto ciò dimostra che, benché pochissimo ci sia pervenuto, il dibattito risalente ad Aristotele sulla naturalità o innaturalità della schiavitù non doveva essersi sopito nella Roma repubblicana e imperiale. L’affermazione di Fiorentino si spiega, dunque, in questo contesto: egli, reinterpretando in senso giuridico il pensiero di Cicerone o di altri esponenti dell’intellettualità tardo-repubblicana o imperiale, voleva probabilmente dichiarare che la schiavitù era sì un’ingiustizia contra naturam perché gli uomini avevano caratteristiche comuni, soprattutto per ciò che attiene alla razionalità, ma un’ingiustizia inevitabile perché l’impero di Roma potesse trionfare. In questo senso si deve ritenere che né Fiorentino né gli altri giuristi severiani, classificando come di ius naturale la libertà degli uomini e definendo come iuris gentium la schiavitù, intendessero esprimere una posizione a favore della sua eliminazione. Al contrario essi, con le parole di Schiavone, rinnovavano ‘quella connessione a suo tempo inseguita da Cicerone per giustificare il dominio mediterraneo di Roma, e poi sempre lasciata cadere dal pensiero successivo’90. Dal punto di vista filosofico, poi, Fiorentino, più che aderire al più puro Stoicismo, pare seguire una forma di eclettismo che combinava le varie correnti filosofiche e, in particolare
87 Stagl 2013, 107. Tale riferimento alla comune natura razionale di tutti gli uomini si ritrova anche nella definizione di persona di Boezio (contra Eutychen et Nestorium cap. 3, P.L. 64, 1343) come ‘naturae rationalis individua substantia’, cioè ‘sostanza naturale di natura razionale’: Solidoro 2019, 83-84. 88 Albucius et philosophatus est: dixit neminem natura liberum esse, neminem servum; haec postea nomina singulis inposuisse Fortunam. 89 Quid autem non liberum natura genuit? Taceo de servis, quos bellorum iniquitas in praedam victoribus dedit, isdem legibus, eadem forma, eadem necessitate natos; ex eodem caelo spiritum trahunt, nec natura illis sed fortuna dominum dedit. Mantovani 2007, 382-383, al cui studio sulla declamatio in oggetto, rinvio. 90 Schiavone 2019, 60. Si intende lasciare da parte qui l’ampio dibattito sviluppatosi in letteratura, anche sulla base del testo di Fiorentino esaminato, sulla formazione, almeno embrionale, del concetto di ‘diritti umani’ nell’esperienza giurisprudenziale romana. Sul tema rinvio, da ultima, a Solidoro 2019, 83 ss. con la lett. cit.
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Lauretta Maganzani sulla scorta dell’Aristotelismo, sosteneva che la felicità si raggiunge sì con la libertà dell’anima, ma che anche il corpo e le sue disavventure (malattie, riduzione in schiavitù) hanno il loro rilievo91. Uno Stoico, infatti, non avrebbe probabilmente scritto che la schiavitù in senso giuridico è contra naturam, ma avrebbe sminuito questo aspetto a favore della libertà dell’anima.
4. I limiti della libertà Ma c’è un’altra peculiarità di [F. 25] che merita di essere messa in luce e che riguarda ancora la definizione di libertà del principium: infatti l’A., oltre a sostenere secondo tradizione che la libertas è la facultas eius quod cuique facere libet, aggiunge l’inciso ‘nisi si quid aut vi aut iure prohibetur’. Capire da chi Fiorentino lo abbia tratto potrebbe contribuire a chiarirne il senso. Un precedente si può trovare nell’Alcibiade Primo (134e-135a) attribuito a Platone92 dove Socrate fa capire al giovane allievo che non ha senso parlare di libertà dell’uomo come ‘fare tutto ciò che vuole’, perché ci sono sempre doveri a cui egli deve sottostare per la sua stessa incolumità personale o quella dei suoi simili: 134e-135a [134e]: Socrate: Infatti colui che abbia la possibilità di fare ciò che vuole, caro Alcibiade, ma non ha raziocinio, che destino è verosimile che gli capiti, sia egli un privato o si tratti di una città? Ad esempio a un malato, che abbia facoltà di fare ciò che [135a] vuole, privo di raziocinio del medico, e agisca come un tiranno che non si lasci reprimere da nessuno in nulla, che cosa accadrà? Non è probabile, come è naturale, che mandi in rovina il suo corpo? Alcibiade: Dici il vero. Socrate: E su una nave, se qualcuno ha facoltà di fare ciò che gli pare, senza essere provvisto del raziocinio e della capacità del pilota, intuisci che cosa potrebbe capitare a lui e ai suoi compagni di traversata? Alcibiade: Io penso che morirebbero tutti’93.
A questa fonte, molti secoli dopo, si dovette riferire, sviluppandola, Dione di Prusa nel Discorso 14 sulla libertà94, che consente di comprendere appieno l’affermazione, altrimenti poco chiara, del nostro giurista: Dion. sulla libertà e sulla schiavitù 14.1: Gli uomini desiderano essere liberi più di ogni altra cosa e dicono che la libertà è il bene più grande, la schiavitù, invece, la condizione più vergognosa
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Falcon 2017, 23 ss., 41; Berti 2017, 170. L’attribuzione è contestata, ma senza prove decisive. In ogni caso si tratterebbe di un’opera contemporanea o di poco successiva: Pennesi 2009, 11 ss. 93 [134e] ΣΩΚΡΑΤΞΣ: ῟Ωι γὰρ , ὦ φίλε Ἀλκιβιάδη, ἐξουσία μὲν ᾖ ποιεῖν ὃ βούλεται, νοῦν δὲ μὴ ἔχῃ, τί τὸ εἰκὸς 92
συμβαίνειν, ἰδιώτῃ ἢ καὶ πόλει; οἷον νοσοῦντι ἐξουσίας οὔσης δρᾶν ὃ βούλεται, [135a] νοῦν ἰατρικὸν μὴ ἔχοντι, τυραννοῦντι δὲ ὡς μηδὲν ἐπιπλήττοι τις αὐτῷ, τί τὸ συμβησόμενον; ἆρ’οὐχ, ὡς τὸ εἰκός, διαφϑαρῆναι τὸ σῶμα; ΑΛΚΙΒΙΑΔΞΣ: Ἀληθῆ λέγεις. ΣΩΚΡΑΤΞΣ: Τί δἐ νηί, ἔι τῳ ἐξουσία εἴη ποιεῖν ὃ δοκεῖ, νοῦ τε καὶ ἀρετῆς κυβερνητικῆς ἐστερημένῳ, καϑορᾷς ἃ ἂν συμβαίνη αὐτῷ τε καὶ τοῖς συνναύταις; ΑΛΚΙΒΙΑΔΞΣ: Ἔγωγε, ὅτι γε ἀπόλοιντο πάντες ἄν. 94
Panzeri 2011, passim; Desideri 1978, 205 ss.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino e infelice, ma proprio questo, cioè che cosa significhi essere libero o essere schiavo, non lo sanno (…) 3. (…) Se dunque si domandasse loro che cosa sia l’essere liberi, essi probabilmente direbbero non essere sottomessi a nessuno, ma fare semplicemente ciò che a loro pare. 4. Ma qualora si domandi a chi ha dato questa risposta se egli ritenga giusto e proprio di un uomo libero, essendo membro di un coro, non prestare attenzione al corifeo e non obbedire alle sue istruzioni, ma intonare e stonare come gli passi per la testa, (…) non sarebbe, io credo, di questo parere. 5. E neppure qualora gli si domandasse se, a bordo di una nave, ritenga proprio di un uomo libero un comportamento di questo tipo, non badare al timoniere e non fare ciò che quello comandi (…) neppure costui direbbe che è libero, né che la sua condizione è invidiabile per il fatto che fa ciò che gli pare. 6. E certo non direbbe che i soldati sono schiavi perché sono sottomessi al comandante e balzano in piedi al suo comando e prendono il cibo e impugnano le armi e si schierano e avanzano e retrocedono solo quando sia il comandante ad ordinarlo; e di sicuro gli ammalati, per il fatto che obbediscono ai medici, non per questo diranno che sono schiavi (…). 13. ‘Ma certo, per farla breve, bisogna affermare che chi ha la possibilità di fare ciò che desidera è libero, chi invece non ne ha facoltà è schiavo’. ‘Ebbene, non dirai così di quanti vanno per mare, né degli ammalati, né dei soldati, né di quanti imparano a scrivere o a suonare la cetra o a lottare o qualsiasi altra arte: costoro, infatti, non possono agire secondo il loro volere, ma secondo le prescrizioni del timoniere e del medico e del maestro. E inoltre neppure gli altri possono fare ciò che vogliono, ma qualora uno si comporti contro le leggi vigenti, andrà incontro alla punizione (…)95.
Nel lungo testo in esame, di cui si è riportato soltanto un estratto, Dione partiva dalla definizione comune di libertà (la stessa riportata da Fiorentino) per portare gli interlocutori, attraverso una serie di domande retoriche, a consentire sul fatto che ciò che conta non è tanto la libertà come ‘facoltà di fare ciò che piace’ senza altrui costrizioni, ma quella dell’uomo coscienzioso e saggio che ottempera ai doveri che il vivere in società per forza di cose gli impone. Ebbene è significativo il fatto che il passo sia tutto giocato sull’idea che la persona di status libero non sempre può fare ciò che gli piace, in quanto capita sovente che egli sia costretto da taluno con vis, spesso anche per il suo stesso bene, a tenere un comportamento che non
95 1. Οί ἄνϑροποι ἐπιϑυμοῦσι μὲν ἐλεύϑεροι εἶναι μάλιστα πάντων, καί φασι τὴν ἐλευϑερία μὲγιστον τῶν ἀγαϑῶν, τὴν δὲ δουλείαν αἴσχιστον καὶ δυστυχέστατον ὑπάρχειν, αὐτὸ δὲ τοῦτο, τί ἐστιν ἐλεύϑερον εἶναι ἢ τί δουλεύειν, οὐκ ἴσασιν. (…) 3. (…) εἰ οὖν ἔροιτό τις αὐτοὺς ὅτι ἐστὶ τὸ ἐλεὑϑερον εἶναι, φαῖεν ἂν ἴσως τὸ μηδενὸς ὑπήκοον εἶναι, ἀλλὰ πράττειν ἁπλῶς τὰ δοκοῦντα ἑαυτῷ. 4. τὸν δὲ τοῦτ’ἀποκρινάμενον, ἐάν τις ἐπεσωτᾷ, εἰ ἐν χορῷ χορευτὴν ὄντα μὴ προσέκειν τῷ κορυφαίῳ μηδὲ ὑπήκοον εἶναι αὐτοῦ, ἀλλ’ᾄδειν τε καὶ ἀπᾴδειν, ὅπως ἂν αὐτῷ ἐπίῃ, τοῦτο καλὸν οἴεται εἶναι καὶ ἐλευϑέριον, (…) οὐκ ἂν οἶμαι ὁμολογοῖ. 5. oὐδὲ εἴ τις ἐρωτήσειε πλέοντα μὴ φροντίζειν τοῦ κυβερνήτου μηδὲ ποιεῖν ἄττ’ἂν ἐκεῖνος εἴπε εἰ τὸ τοιοῦτον ἐλευϑἐριον οἴοιτο (…) οὐδὲ τοῦτον εἴποι ἂν ἐλεύϑερον οὐδὲ ζηλωτόν, ὄτι πράττει τὰ δοκοῦντα αὑτῷ. (…). 6. καὶ μὴν τούς γε στρατιώτας οὐκ ἂν φαίε δούλους εἶναι, διότι ὑπήκοοί εἰσι τοῦ στρατηγοῦ καὶ τοτ’ἀνίστανται ὁπόταν ἐκεῖνος προστάξῃ, καὶ σῖτον αἱροῦνται καὶ ὅπλα λαμβάνουσι καὶ παρατάττονται καὶ ἐπίασι καὶ ἀναχωροῦσιν οὐκ ἄλλως ἢ τοῦ στρατηγοῦ κελεύσαντος. ουδέ γε τοὺς κάμνοντας, ὅτι πείϑονται τοῖς ἰατροῖς, οὐ διὰ τοῦτο φήσουσι δούλους εἶναι (…). 13. - Ἀλλὰ μὴν, ἑνὶ λόγῳ συλλβόντα, χρὴ ἀποφήνασϑαι ὡς ὅτῳ μὲν ἔξεστιν ὃ βούλεται πράττειν, ἐλεύϑερός ἐστιν, ὅτῳ δὲ μὴ ἔξεστι, δοῦλος. - Οὐ δὴ ἐπὶ τῶν πλεόντων οὐδὲ τῶν καμνόντων οὐδὲ τῶν στρατευομένον οὐδὲ τῶν μανϑανόντων γράμματα ἢ κιϑαρίζειν ἢ παλαίειν ἢ ἅλλην τινὰ τέχνην ἐρεῖς ἀυτό· οὐ γὰρ ἔξεστι τούτοις πράττειν ὡς αὐτοὶ ἐϑέλουσιν, ἀλλ’ ὡς ὅ τε κυβερνήτης καὶ ἰατρὸς καὶ διδάσκαλος προστάττει. οὐ τοίνυν οὐδὲ τοῖς ἅλλοις ἔξεστιν ἃ ἐϑέλουσι ποιεῖν, ἀλλ’ἐάν τις παρὰ τοὺς νόμους τοὺς κειμένους πράττῃ, ζημιώσεται. Sul testo, ampiamente, Panzeri 2011, 151 ss.
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Lauretta Maganzani gli aggrada e che non terrebbe senza costrizione fisica (ad es. seguire le dolorose prescrizioni del medico) oppure che sia lo ius ad imporgli il compimento di atti che di per sé aborrisce ed avrebbe volentieri evitato (ad es. fare il servizio militare o scavare in una miniera a seguito di una condanna)96. Ecco, dunque, svelato il senso dell’oscura precisazione florentiniana: è libero colui che può fare ciò che gli piace, ma questa facultas va presa con le dovute eccezioni, sia perché, in generale, per vivere in società, occorre seguire delle regole (es. il cantore segue le indicazioni del maestro del coro, il militare del suo comandante) sia, più specificamente, perché capita sovente di essere costretti con la violenza, anche per il proprio stesso bene (come nel caso del medico), oppure per una prescrizione del ius, a tenere un certo comportamento che non ci aggrada e che non avremmo tenuto in mancanza di costrizione. L’uomo è quindi per Fiorentino un animale sociale e come tale, pur essendo per natura libero di fare ciò che gli piace – come del resto tutti gli animali selvatici –, deve tuttavia, per vivere in società con gli altri uomini o anche soltanto per stare bene con se stesso e il proprio corpo, sottostare per forza a regole o divieti fissati da altri. Ciò significa che la libertà naturale non è mera licenza ma ha essa stessa dei limiti che l’uomo, per quanto libero, deve necessariamente rispettare97. D’altra parte – sembra aggiungere Fiorentino – gli uomini, essendo simili, hanno anche gli stessi desideri e questo li porta inevitabilmente a scontrarsi l’uno con l’altro determinando, di conseguenza, la sottomissione giuridica dei vinti ai vincitori. Tale soggezione non è dettata dalla natura ed è tuttavia in certo qual modo inevitabile, anche se, a ben guardare, l’istituto della schiavitù, nonostante la sua innaturalità, è pur sempre la conseguenza – afferma il giurista nel § 3 di [F. 25] riprendendo un passo dell’enchiridion di Pomponio, D. 50.16.239.198, debitore anch’esso di una lunga tradizione99 – di un atto di clemenza del vincitore sul vinto che decide di serbarlo in vita (da qui servus) in luogo di ucciderlo.
5. Furono mere petizioni di principio? Si è visto nei paragrafi precedenti che le riflessioni etico-giuridiche di Fiorentino, pur debitrici di una lunga tradizione, avevano una portata pratica peculiare, sottolineando [F.1] il fonda-
96 Sul commento di Teofilo nella Parafrasi delle Istituzioni giustinianee a I. 1.3.1 (= D. 1.5.4), Russo Ruggeri 2016, 56-57. 97 Stolfi 2014, 164 ss. 98 Cfr. Liebs 1976, 349; Querzoli 1996, 122. 99 Ampia, sul punto, la trattazione di Querzoli 1996, 122 ss. Cfr., ad es., Xenoph. cyrop. 7.73 (‘E nessuno di voi pensi, per il fatto che possiede questi beni, di possedere beni di altri, perché tra tutti gli uomini è legge eterna che, qualora una città di combattenti venga presa, i corpi di coloro che sono all’interno e i loro beni siano di coloro che l’hanno conquistata. Di conseguenza, ciò che sarà vostro non lo avrete per un atto di ingiustizia e sarà invece per generosità se non porterete via qualcosa e lascerete che l’abbiano gli sconfitti’); Agesil. 1.22 (‘Tutte quante le città che riusciva a portare dalla sua parte, le esentava da quei servigi che i servi devono ai padroni, chiedeva loro solo quegli atti di obbedienza che gli uomini liberi riservano a chi li comanda; riduceva così in proprio potere con la clemenza molti popoli, le cui mura erano inespugnabili con la forza’). Frontone nell’epistula de bello Parthico 3, probabilmente riferendosi a Traiano, scrive che ‘(…) bonus ille imperator (…) venire captivos iubebat’. Sul tema e sulla sua ripresa in età moderna, Bodei 2019, 33 ss.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino mento della regola della legittimità della reazione violenta all’altrui insidia e [F. 25] che la libertà dell’uomo, pur se naturale, aveva dei limiti connaturati alle esigenze del suo vivere in società. Ciò che ora ci si chiede è se tali enunciati valoriali siano rimasti confinati nel campo dei principi, oppure se se ne possa riscontrare un qualche influenza nella soluzione giurisprudenziale di casi concreti a noi noti attraverso i Digesta. Il tema, ovviamente, è troppo ampio per poter essere esaminato in questa sede e, del resto, è noto che già nel II secolo alcune costituzioni imperiali a favore degli schiavi furono il riflesso di tali concezioni (es. Gai. inst. 1.52-53). Qui, pertanto, ci si limiterà alla presentazione di un florilegio di testi meramente indicativo, da cui, tuttavia, emerge la tendenza dei giuristi severiani a valutare l’uomo, libero o schiavo che sia, in modo uniforme, dal momento della nascita fino a quello della morte, per il solo fatto che esiste come individuo e che ha caratteristiche fisiche e psichiche comuni agli altri membri della sua specie, il che poi si riflette sulla soluzione del caso100. Un primo esempio concerne il passo di Trifonino (7 disp., D. 12.6.64: cfr. supra, I.3d) secondo cui il padrone che abbia pagato allo schiavo manomesso un debito naturale che aveva assunto nei suoi confronti quando era schiavo, non potrà ripetere quanto pagato: ‘come infatti la libertà è un istituto di diritto naturale e la condizione di dominus è stata introdotta dal diritto delle genti, così anche la ratio di ciò che è dovuto o non dovuto con la condictio deve essere intesa su base naturale’. Come si vede la soluzione del caso dipende qui dall’applicazione del principio della libertà naturale di tutti gli uomini e dall’idea che siano naturali gli stessi rapporti che gli schiavi intrattengono con i loro domini. Interessante è anche un frammento di Marciano 7 inst., D. 32.65.3, che richiama una disputa giurisprudenziale risalente al II secolo relativa all’interpretazione di un legato di schiave ricamatrici, fra cui si dubitava se dovessero essere ricomprese anche le semplici apprendiste. Secondo Marciano anche queste ultime devono essere incluse nell’oggetto del legato ‘visto che tutte possono ancora imparare e ogni tecnica è suscettibile di miglioramento’ ([…] cum omnes adhuc discere possint et omne artificium incrementum recipit). La soluzione è definita dal giurista ‘congrua all’umana natura’ perché la capacità di apprendere e di affinare di continuo le proprie capacità è una qualità comune a tutti gli esseri umani (quod magis optinere debet, quia humanae naturae congruum). Su un piano analogo si pone Ulpiano (51 ad ed., D. 30.71.4) quando sostiene che della comunanza naturale fra liberi e schiavi anche il pretore deve tenere conto, attribuendo una diversa rilevanza giuridica all’attaccamento del dominus verso uno schiavo e verso una cosa inanimata: per questo all’erede tenuto per damnationem a dare al legatario un servus a cui è particolarmente affezionato, il pretore concederà di liberarsi prestando l’equivalente in denaro, ma il beneficio non verrà esteso al caso di cosa inanimata. Infatti ‘una è la condizione degli uomini, un’altra quella di tutte le altre cose’ (alia enim condicio est hominum, alia ceterarum rerum). Non mancano poi casi la cui soluzione si fonda sull’idea della necessità di una solidarietà naturale fra gli uomini a dispetto delle differenze giuridiche e sociali. La prospettiva adottata
100
Cfr. Maganzani 2011, 534 ss.
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Lauretta Maganzani qui è quella concreta della spontanea partecipazione dell’uomo ai sentimenti dei suoi simili quando siano colpiti dal dolore, dalla disgrazia o dalla malattia, qualunque sia la rispettiva condizione giuridica e sociale. Così, per Ulpiano (1 ad ed. aed. cur., D. 21.1.35), è per spirito di umana compassione che gli schiavi malati devono talvolta essere restituiti al venditore in compagnia dei loro cari, perché non rimangano soli e inaccuditi proprio nel momento della prova (Plerumque propter morbosa mancipia etiam non morbosa redhibentur, si separari non possint sine magno incommodo vel ad pietatis rationem offensam. Quid enim si filio retento parentes redhibere maluerint vel contra? Quod et in fratribus et in personam contubernio sibi coniunctas observari oportet). D’altra parte, sempre secondo Ulpiano, allo schiavo che si sia ferito volontariamente non si deve imporre di rimborsare il dominus con il proprio peculio per il deprezzamento subito. Infatti, benchè il diritto civile qualifichi come malus il servus che attenti alla propria vita (Ulp. 1 ad ed. aed. cur., D. 21.1.23.3), l’autodeterminazione dell’uomo sul proprio corpo è un principio inderogabile di diritto naturale valido per l’intero genere umano ([…] licet enim etiam servis naturaliter in suum corpus saevire). Ed è sempre in ragione di tale principio superiore di solidarietà umana, accolto talvolta dal pretore e dai giuristi come criterio di soluzione dei casi, che l’iniuria grave viene punita anche se inferta ad uno schiavo (Ulp. 77 ad ed., D. 47.10.15.35 […] hanc [iniuriam] enim et servum sentire palam est) e che l’omicidio viene sanzionato come crimen qualunque sia la condizione giuridica della vittima (Gai. inst. 3.213; Marcian. 14 inst., D. 48.8.1.2; coll. 1.3.2)101. Altrove fa capolino, sempre ai fini della soluzione di un caso concreto, una concezione dell’uomo come essere superiore degno di particolare considerazione nonostante lo stato di asservimento in cui, per gli avversi casi della vita, possa trovarsi. Particolarmente significativo in questo senso è un famoso testo di Paolo tratto dal II libro del commento ad edictum aedilium curulium (D. 21.1.44pr.) ove, in un caso di emptio-venditio di un gruppo di beni fra cui rientra anche un servus (es. un carro con il suo guidatore, un gregge con il suo pastore, una taberna con il suo cuoco) si esclude che lo schiavo possa essere considerato come un mero accessorio dell’oggetto principale della compravendita (il carro, il gregge, la taberna) perché l’uomo – scriveva Pedio – ha una dignitas superiore a tutte le altre cose (Iustissime aediles noluerunt hominem ei rei quae minoris esset accedere, ne qua fraus aut edicto aut iure civili fieret: ut ait Pedium, propter dignitatem hominum). La citazione pediana è stata da taluni intesa come espressione della morale stoica sulla condizione privilegiata del genere umano102, da altri come semplice riconoscimento del maggior valore economico dello schiavo rispetto alle altre res103. Ma l’espressione pare evidenziare piuttosto il riconoscimento giurisprudenziale dell’effettiva superiorità del servus sugli altri beni in proprietà del dominus (animali e cose inanimate) in ragione delle qualità innate, comuni a liberi e schiavi, che lo contraddistinguono in quanto uomo – razionalità, intelligenza, discernimento, volitività, progettualità etc. –. Anche Guarino104 nel 2010 si è espresso in que-
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Altri esempi, fra gli altri, in Stagl 2013, 87 ss., sop. 98 ss.; Solidoro 2019, 83 ss. Wacke 2002, 811 ss.; Giachi 2005, 101 ss.; Ortu 2008, 469 ss. De Filippi 2009, 113 ss.; Vincenti 2009, 65 s. e nt. 100; Frare 2010, on line. Guarino 2010, 417.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino sto senso affermando che, nel contesto della citazione pediana, dignitas significa ‘livello’, ‘rilievo’ oggettivamente proprio degli schiavi in quanto personae, distinte dalle pure e semplici res, anche se animate come gli animali, perché, oltre alle solite misurazioni, necessitano, per un eventuale acquisto, di ‘una valutazione supplettiva della lingua che parlano, delle capacità che hanno, dei difetti che mostrano o non mostrano’. I passi scelti provengono da autori di età severiana e, almeno nel caso di Marciano, da un’opera istituzionale: essi mostrano che Ulpiano, Marciano, Trifonino e lo stesso Fiorentino enunciarono sì principi sull’unità ed eguaglianza degli uomini riprendendoli da opere filosofiche, retoriche o letterarie in genere, ma non lo fecero per mera erudizione, quanto piuttosto intendendoli come summae di regole valoriali su cui più volte loro stessi (o i loro predecessori) avevano improntato le loro decisioni. Essi, quindi, non dovettero essere meri imitatori, come talvolta è stato sostenuto105, ma espressero principi funzionali alle loro elaborazioni casistiche.
6. Possibile contesto Nel frammento istituzionale di Ulpiano che fu considerato dai compilatori come degno di occupare la prima posizione nei Digesta (D. 1.1.1pr. e 1, 1 inst.), proprio rivolgendosi a chi iuri operam daturus, quindi lo studente di diritto, il giurista ricordava, con un’etimologia falsa ma fortemente allusiva, che la parola ius deriva da iustitia e che era quest’ultima, quindi, la virtus che il giovane studente di diritto avrebbe cominciato ad apprendere con l’aiuto dei maestri, veri sacerdotes iuris tendenti alla vera philosophia106. Il giurista era dunque l’intellettuale eticamente corretto, che non cercava gli agi ma la iustitia e questa prima di tutto desiderava insegnare ai suoi studenti. A tale educazione completa era volta la scuola di diritto, ancor più e meglio delle diverse scuole filosofiche sparse nell’impero. Questo monito dovette valere a maggior ragione per il nostro giurista che, non avendo una posizione politica di rilievo come quella di Ulpiano, verosimilmente espresse tale tensione valoriale soltanto sul piano didattico, al fine specifico, cioè, di trasmettere alle future generazioni di giuristi che avrebbero operato anche in territori periferici dell’impero, oltre ai contenuti tecnici del ius romanum universale, principi etici di base ormai comunemente condivisi, quali il cosmopolitismo, l’unità del genere umano, l’eguaglianza naturale di tutti gli uomini, e definendoli nel loro insieme ‘ius naturale’ in contrapposizione allo ‘ius gentium’. Si può pensare che una delle ragioni di tale tendenza (che peraltro – come bene ha sottolineato Renato Quadrato in una serie di contributi107 – era già in nuce nell’opera gaiana) sia stata l’introduzione del modello istituzionale nell’insegnamento del diritto e il conseguente allineamento dello ius romanum, almeno sul piano didattico, alle altre artes greco-latine – in
105
Es. Burdese 1954, 407 ss. Sul testo, approfonditamente, fra gli altri, Crifò 1976, 780 ss.; Falcone 2004, 1 ss.; Schiavone 2007, 8 ss.; Marotta 2007, 563 ss.; Schiavone 2017, 399 ss.; Schiavone 2021a, 187 ss. con altra lett. Cfr. anche Mantovani 2018, 79 ss.; Maganzani 2019a, 25-33; Maganzani 2020a, 55-87; Maganzani 2020c, 583-598. In un altro testo Ulpiano definisce il ius ‘res sanctissima’ e ‘civilis sapientia’ (8 de omn. trib., D. 50.13.1.5). 107 Cfr. i vari scritti raccolti in Quadrato 2010. 106
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Lauretta Maganzani primis la filosofia e la retorica108 – nonché la diffusione delle scuole giuridiche in ogni parte dell’impero109. Fu un fenomeno che ebbe luogo, come è stato detto, in ‘une époque charnière’ della storia romana, quando, cominciando l’impero a burocratizzarsi, il reclutamento di funzionari specializzati e, dunque, un’organizzazione capillare e un’impostazione sistematica degli studi giuridici si resero necessari110. Non a caso, se il genere letterario delle institutiones ebbe una prima, importante manifestazione nel II sec. d.C. con le Istituzioni di Gaio, fu certamente in età severiana che esso si diffuse in tutto l’impero e cominciò ad essere coltivato anche dalle più importanti personalità di giuristi (ad es. Ulpiano e Paolo)111. Oltre a Roma, sede scolastica di prestigio fu Berito112, ma centri di didattica del ius dovettero trovarsi anche in altri importanti città, come Alessandria d’Egitto e Cartagine113. Inoltre, da un passo di Paolo ad Plautium contenuto nei Digesta (D. 50.13.4) che parla in generale di studiosi iuris a cui un rescritto di Antonino Pio avrebbe concesso un salario su richiesta, può ipotizzarsi la presenza nell’impero di scuole di diritto anche meno rinomate. Sappiamo del resto dalle noctes Atticae di Aulo Gellio (13.13.1) della diffusione, a partire dai regni di Adriano e Antonino Pio, di stationes ius publice docentium et respondentium, mentre un esempio concreto di esperto di diritto, pur non giurista nel senso proprio del termine, formatosi in provincia e lì rimasto per tutta la vita, salvo forse un breve viaggio a Roma, è, come già notato, quello dell’apologista Tertulliano, definito da Eusebio di Cesarea, nella Storia ecclesiastica 2.2.4, ‘profondo conoscitore delle leggi dei Romani’. Da aggiungere che Modestino 2 excus., D. 27.1.6.12 parla di νòμων διδάσκαλοι ἐν ἐπαρχίᾳ διδάσκοντες (insegnanti di diritto svolgenti la loro attività in provincia). Infine, in un passo della Vita di Apollonio di Tiana (7.42.2), Filostrato racconta di un giovane arcade incontrato dal filosofo nel carcere di Roma, che deplorava che suo padre avesse voluto mandarlo nell’Urbs a studiare diritto in luogo di impartirgli l’educazione tradizionale greca.
108 Sulla qualifica del ius come ars nella definizione celsina ‘ius est ars boni et aequi’ (Ulp. 1 inst., D. 1.1.1pr.) la letteratura è amplissima ma, ai i fini della presente ricerca è sufficiente notare quale fosse la possibile interpretazione ulpianea di tale qualifica: come scrive Schiavone 2021a, 199, l’identificazione “del ius come ars, agli inizi del terzo secolo, doveva risultare, per quanto ancora abbastanza inusuale, non più sorprendente, resa accettabile dall’enciclopedismo della cultura antoniniana”. È noto che di un diritto strutturato come un ‘ars’ aveva parlato Cicerone de orat. 1.185 ss. in funzione polemica contro il metodo casistico dei giuristi (ma anche questo è estraneo alla tematica qui trattata). Il ius si trova qualificato incidentalmente fra le artes anche in Tac. ann. 3.75 e Gell. noct. Att. 13.10.1 a proposito del giurista Labeone. Per altre fonti, Schiavone 2021a, 197. Anche in Galen. protr. 14.6 (ed. Kühn) e in un passo di Apuleio tratto dall’opera de Platone et eius dogmate (2.8) la scienza giuridica è accostata alle altre artes: in particolare Galeno distingue fra arti nobili, che implicano l’uso della ragione, e arti meccaniche e manuali, e nel primo gruppo colloca la medicina, la retorica, la musica, la geometria, l’aritmetica, la dialettica, l’astronomia, la grammatica e la scienza giuridica. Sul passo di Apuleio, Maganzani 2020a, 77 ss. 109 In generale sul tema, Tondo 2007, 2645 ss.; Liebs 1976a, 197 ss.; Harries 2016, 151 ss.; Möller 2011, 455 ss.; Wibier 2019, 93 ss.; Evêque 2019, 45 ss.; Salazar Revuelta M. 2020, 11-37; Fuenteseca 2021, 41 ss. Per il periodo dell’anarchia militare successivo ai Severi (235-284), Marotta 2007a, 927 ss.; sul tardoantico, di recente, Giomaro 2011a, passim; Giomaro 2019, passim; Di Pinto 2020, 515-531 e Ferri 2020, 565-576. 110 Evêque 2019, 45; cfr. Liebs 1997, 186-188 = 2000, 212-213; Viarengo 2012, 7. 111 Babusiaux, Mantovani 2020, passim; Marotta 2021a, 79 ss. a cui rinvio per la letteratura. Allo stesso genere isagogico dovevano appartenere le opere di regulae, definitiones, differentiae etc.: Viarengo 2012, 6-7 con altra lett. 112 Collinet 1925, passim; Jones Hall 2004, passim; Jidejian 2011, passim; Isaac 2017, 268 ss.; Evêque 2019, 53 ss. 113 Cfr. Marotta 2021a, 80-81 ntt. 10 e 11.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino Tutto ciò induce a ipotizzare che i giuristi del III secolo non siano stati immuni dall’influenza delle opere didattiche in genere e che, come i maestri delle altre discipline, anch’essi abbiano teso a definire il carattere del loro insegnamento non solo come pienamente tecnico, ma anche come formativo del vir bonus e delle sue virtù. È del resto noto che, in età antica, la scuola, di qualunque ordine e grado, era intesa come funzionale non soltanto alla conoscenza, ma anche alla trasmissione di valori, personali e civici114: già Vitruvio, nel de architectura, si curava di premettere che il vero architetto doveva essere anche filosofo (perché ciò ‘contribuisce a renderlo magnanimo, modesto, condiscendente, equo, fidato e, cosa più importante, non avido’: de arch. 1.7) e Quintiliano, nel proemio delle institutiones oratoriae (1.10; 18) e nell’ultimo libro (12.3.1 ss.), dichiarava di voler formare studenti validi non solo in una tecnica ma in tutte le virtù dell’anima. Lo stesso Galeno faceva presente tale esigenza in molti scritti medici: ad es. il cd. Protrepticos, esortazione allo studio della medicina, in cui metteva in rilievo la necessità per il medico di conoscere le altre arti, ma soprattutto la filosofia (cfr. ad es. 1.4)115, nonché il trattatello dal titolo Quod optimus medicus sit quoque philosophus in cui sosteneva che il medico dovesse essere capace di dominare diversi campi del sapere tradizionalmente riservati alla filosofia: la logica – per effettuare diagnosi plausibili –, la fisica – per conoscere l’uomo e il suo ambiente –, l’etica – per l’esercizio complessivo della sua professione e specialmente i rapporti coi malati – (cfr. ad es. 3.10)116. È anche possibile che, fra le scuole sparse nel territorio dell’impero e in voga nell’epoca a cui ci riferiamo – di diritto, di filosofia, di retorica, di medicina – ci fosse una qualche concorrenza117 e per questo ciascuna di esse tendesse a precisare questo carattere onnicomprensivo. Del resto, quella di sottolineare polemicamente la superiorità della filosofia ‘pratica’ propria delle artes che avevano ricadute dirette sulla vita, la salute e il benessere degli uomini (come la medicina e il diritto) rispetto alla pura speculazione filosofica è – scrive Mario Bretone – una tendenza tipica del mondo romano-ellenistico del II-III secolo d.C. quando “ogni scienza o arte tende a riassumere in sé l’intera sapienza filosofica superando l’idea che la filosofia sia l’unica “scienza della verità” e delle “cose necessarie” ed immutabili secondo la tradizione platonica e aristotelica, o stoica. Al contrario (...) l’intelletto speculativo (...) arretra di fronte all’intelletto pratico-empirico e calcolante o diversamente teoretico come strumento del vero”118. Tutto questo può trovare un’ulteriore, indiretta conferma in un’opera come l’Encomio a Origene attribuito a Gregorio Taumaturgo e databile al 238 d.C., che mostra bene quanto
114 Cfr. da ultimo Seguí 2016, 167-181 con altra lett. Sulle scuole di filosofia nell’impero, ampiamente, Donini 1982, passim; Hadot 2004, passim; Chiaradonna 2009, 133-149; Bretone 2010, 3 ss. (2011, 69 ss.). 115 Il riferimento usuale per la citazione dell’opera è all’ed. Kühn 1821, 1-39. Ma cfr. anche Boudon 2000, passim. 116 Kühn 1821a, 53-63. Ma cfr. anche l’ed. di Boudon-Millot 2007, 235-314. 117 Tale concorrenza, questa volta a favore dell’insegnamento retorico e contro quello giuridico, si osserva anche, per il IV secolo, in Libanio orat. 4.18: egli, infatti, dichiara di considerare lo studio del diritto come il ‘campo proprio degli spiriti più lenti’. 118 Bretone 2010, 3-14 (2011, 69-70). In questa osservazione l’A. si ricollega a un’intuizione di Giuliana Lanata 1984, 218, secondo cui “teologia, medicina e diritto proposero (...) il loro modello alternativo di filosofia ‘autentica’: modello che, nel caso di Galeno come di Ulpiano, era basato sulla convinzione che le ‘vere filosofie’ come la medicina e il diritto sono sì delle scienze teoriche, ma che altrettanto importante è il loro aspetto operativo, la loro capacità di tradursi in un’attività razionale che possa adempiere a funzioni sociali essenziali come quella di assicurare in concreto la salute o l’utilità degli uomini”. Critico su questa ricostruzione Mantello 1991-1992, 395 ss., n. 90 (2014, 401).
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Lauretta Maganzani potente fosse il richiamo delle scuole di diritto anche per i giovani greci che aspirassero ad una veloce e proficua carriera119. L’Autore dice di essersi fermato per qualche tempo presso la scuola di Origene in quanto, per così dire, ‘fulminato’ dai suoi insegnamenti filosofico-teologici120, proprio mentre era in cammino dalla sua città natale verso Berito ove si proponeva di studiare diritto romano: una materia che, nonostante le sue intrinseche difficoltà, soprattutto per gli studenti di lingua greca, era considerata all’epoca ‘il più grande viatico’ per chi desiderasse affermarsi in una professione lucrativa e di carriera (l’espressione si trova in in Orig. 61; ma v. anche 7; 60-62; 64-65; 68, 77; 192): egli, ad es., ricorda che suo cognato, formatosi in una scuola di diritto, era stato poi chiamato come consulente giuridico dal governatore di Palestina (5.65). L’A., peraltro, dopo qualche tempo alla sequela di Origene, incalzato dalla famiglia dovette ritornare sull’originario progetto e recarsi finalmente a studiare in una scuola di diritto. Peraltro dal racconto pare emergere strisciante anche l’idea di una sorta di ‘concorrenza’, nella formazione ‘globale’ dei giovani, fra le scuole di filosofia e quelle di diritto121 e ciò può forse aiutare a comprendere il senso dei richiami filosofici degli autori severiani di institutiones, in particolare Ulpiano e Fiorentino. I giuristi potrebbero voler mostrare, in esordio ai loro manuali, che la scuola di diritto, a cui si dedicavano ormai anche grandi personalità della giurisprudenza – come Ulpiano e Paolo – non era soltanto formativa in una techne (ars), pur di altissimo livello, come lo ius, ma anche portatrice di valori etici al pari e meglio delle scuole filosofiche dell’epoca122, in particolare della iustitia che – come scriveva Aristotele nell’Etica Nicomachea123 – è maestra di tutte le virtù e tutte le comprende. Va certo sottolineato che già da secoli la giurisprudenza romana, almeno in ambito civilistico e nei limiti dei valori fondanti la società di cui faceva parte – una società senza pentimenti elitaria e schiavistica – era riuscita bene nell’intento di tenere ferma la ‘bussola’ dei valori civili da seguire nell’interpretatio e ciò anche in un impero, per l’epoca, ‘globalizzato’. Tale processo era stato controllato per mezzo di una declinazione ampia e coerente del principio di buona fede, pur differente nelle singole epoche considerate. Ma anche altri valori extragiuridici, come l’humanitas, la dignitas, l’utilitas, la veritas, etc. furono spesso richiamati dai giuristi nella soluzione dei casi concreti che si presentavano alla loro attenzione. È noto del resto che, fra le peculiarità dell’esperienza giuridica romana, vi è proprio quella di essersi sviluppata essenzialmente per mezzo dell’opera interpretativa e lo ius controversum dei prudentes. Ma con l’età severiana, complice soprattutto il rilievo assunto dai giuristi nell’amministrazione a fianco dell’imperatore e, con Caracalla, l’estensione della civitas romana a tutto
119 Per i dubbi sull’attribuzione dell’opera, Rizzi 2002, 9 nt. 1; Mihai 2013, 215-227; Mihai 2013a, 237-242; Moreschini 2013, 461-464. 120 Sulla scuola di Origene, Moreschini 2013, 361 ss. 121 Del resto tematiche filosofiche, in particolare le dottrine platoniche, erano anche oggetto delle lezioni di retorica. Non a caso pure fra le scuole di filosofia e quelle di retorica si individua una certa rivalità, soprattutto in età imperiale: cfr. Pernot 2008, 95-112 con altra lett. Scrive Pasetti 2008, 113: “Responsabile dell’irritazione dei filosofi il crescente successo dei retori in campo educativo, con il rischio che la retorica prendesse il sopravvento sulla filosofia nella formazione della classe dirigente prima greca, poi romana”. 122 Mantovani 2018, 79 ss. 123 Notoriamente la riflessione filosofica sul diritto si trova già in Platone ed Aristotele, anche se nel mondo della filosofia classica essa era fatta rientrare nella ‘politica’.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino l’impero, la voce degli iurisperiti si dovette fare più possente e, a quanto risulta dalle fonti, dovette ambire, prima di tutto in ambito scolastico, cioè partendo dalle giovani generazioni provenienti da ogni parte dell’ecumene, ad accostarsi o addirittura sostituirsi ai filosofi nella trasmissione di valori etici e di istanze cosmopolitiche124. È noto, del resto, che, se già da molto tempo la filosofia greca (o greco-romana), in particolare lo Stoicismo, era divenuta un elemento unificante delle élites intellettuali dell’impero (al punto da annoverare fra i suoi cultori un membro del gruppo di governo dell’età neroniana come Seneca o un imperatore come Marco Aurelio), tuttavia, sin dai primi secoli dell’età imperiale, gli studi filosofici propriamente detti versavano in uno stato di crisi senza precedenti: essi, infatti, venivano non di rado denigrati come portatori di un sapere meramente speculativo e privo di ricadute pratiche per la vita e tale critica divenne via via più generalizzata fino alla piena età severiana. D’altra parte, con sospetto ancora più marcato venivano guardate le persone dei filosofi a causa di alcuni degradanti sviluppi dell’antica tradizione filosofica greca: infatti, spesso dispregiativamente chiamati dalle fonti ‘filosofanti’, essi figuravano come ipocriti perdigiorno, che professavano a parole ma non praticavano nei fatti la virtù e simulavano una morale a cui in realtà non credevano. Quello qui sommariamente descritto doveva essere il clima culturale dominante all’epoca della constitutio Antoniniana. Lo si osserva, oltre che nelle fonti letterarie125, in una serie di si-
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Cfr. Schiavone 2021a, 193. La cattiva fama dei filosofi e dei loro auditores diventò presto un topos, come si vede, ad esempio, in Petronio, che nell’epitaffio da lui stesso composto per la sua sepoltura, si vanta di non aver mai ascoltato un filosofo (Petron. sat. 71): D’Onofrio 2013, 31 e n. 59. Ma si pensi anche al rimprovero rivolto al giovane Marco Aurelio da Frontone per aver preferito la filosofia alla retorica al solo scopo, secondo il maestro, di coltivare uno studio più facile e meno disciplinato (Fronto ad Marcum Antoninum imperatorem de eloquentia liber 4.5): D’Onofrio 2013, 31 e nt. 60: uno studio che, anche secondo Quintiliano, era di gran lunga inferiore a quello della retorica visto che esso ‘si può simulare’ con un comportamento falsamente integerrimo, mentre ciò non è per la complessa arte del dire (inst. or. 12.3.12): Pasetti 2016, 83, 92. Cfr. anche Sen. ep. 108.36 e de benef. 2.17.2. Analoghe considerazioni già in Epitt. diatr. 4.8.5 e 16. Ma anche gli stessi cultori di filosofia ammoniscono gli allievi di fronte ad alcuni pessimi esempi di fraudolenti millantatori della vera philosophia: così Seneca che, nelle epistulae ad Lucilium, ammonisce il giovane a non imitare il mos dei filosofi che non proficere sed conspici cupiunt (5.1) e a evitare asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem barbam et indictum argento odium e cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur. Lo stesso Seneca, poi, richiama più volte la contrapposizione fra il philosophus verus, colui che coltiva la virtù, e quello che propone soltanto sophismata, in latino cavillationes, e ‘cammina sulle punte dei piedi per apparire più alto con l’inganno’ (ep. 111.1-4): è il cd. philosophus cathedrarius (Sen. de brev. vit. 10.1). Analoghe critiche all’ipocrisia di molti sedicenti filosofi compaiono in fonti come lo Ps. Quint. decl. min. 268.5 (cd. controversia delle artes), in cui un oratore, un filosofo e un medico si contendono il primato per l’utilitas della res publica e il medico, che è il solo a parlare, polemizza soprattutto contro i filosofi, reputati falsi e oziosi nonché incatenati a quella stessa ambizione contro cui hanno l’aria di fare i più grandi discorsi (Hos [scil. philosophos] illi et vanos vocant, et otiosos et in ambitum ipsum, contra quem maxime disserere videntur alligatos). È un tema comune allo Ps. Quint. decl. min. 283.5 dove un falso filosofo viene smascherato proprio per il suo attaccamento alla fama e al denaro che mostra di disdegnare a parole. Cfr. anche Gell. noct. Att. 9.2.1 ss., dove si racconta che Erode attico smaschera un sedicente filosofo, e 17.19.1, dove si cita Epitteto che sosteneva che molti filosofi sono ‘lontani dai fatti, limitati alle parole’. Analoga critica si legge in Luciano che, nei Fuggitivi 56.14, afferma essere ‘cosa molto facile (...) ed agevole imitare noi altri, esternamente dico; e non ci vuol molto a mettere un mantello indosso, appendersi una bisaccia sulla spalla, tenere una mazza in mano e gridare, anzi ragliare e latrare, e ingiuriare tutti’. Significativo anche il contrasto, ravvisabile nelle opere di Apuleio, fra l’esaltazione di Cratete che rinuncia alla ricchezza per amore della filosofia (apol. 22) e il disprezzo per i palliata mendicabula (flor. 9.9). Cfr. anche Lucian. de morte peregr. 125
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Lauretta Maganzani gnificativi testi giuridici dell’epoca126. Del resto i tempi erano maturi per questo approccio ‘umanitario’ e ‘cosmopolita’ e le notizie di cui disponiamo circa il contesto culturale lo confermano: si pensi all’appoggio imperiale, sin dall’età antonina, alle concezioni stoiche dell’unità del genere umano e del supremo valore della saggezza, intesa come libertà dalle passioni, raggiungibile da chiunque, indipendentemente dal suo status di cittadino o straniero, libero o schiavo, honestior o humilior; si pensi ad un’opera esemplare, come la ‘Vita di Apollonio di Tiana’, redatta da Filostrato, intellettuale della corte di Giulia Domna, per celebrare un filosofo itinerante del I secolo d.C. che aveva fatto dell’ecumene la sua patria e delle diversità fra le culture dei popoli che visitava la sua ricchezza127. Si pensi, ancora, al movimento culturale della Seconda Sofistica, ‘diffuso in tutta la parte orientale dell’impero, che per molti aspetti avrebbe rappresentato un vero e proprio luogo d’incontro fra cultura greca e potere politico romano’128. Si pensi infine alla constitutio Antoniniana che, pur avendo senz’altro come scopo, secondo le parole di Dione Cassio (78.9.4-5), l’allargamento della base tributaria e l’aumento delle entrate fiscali dell’im-
1 ss. e Philostr. de vita soph. 2.1. Si può anche citare un testo del filosofo medioplatonico Massimo di Tiro, del IIIII secolo d.C., che, in diss. 26.2.37 ss., lamenta che i filosofi più recenti abbiano ‘reso la filosofia nuda, ingiuriata, comune a tutti e, per comprensione, a portata di ciascuno’, e uno di Plutarco in virt. 81B (il trattato fa parte dei Moralia [Lelli, Pisani 2017, 134-155] e si intitola Quomodo quis suos in virtute sentiat profectus), che descrive gli allievi esordienti delle scuole filosofiche come persone arroganti, dedite ai sofismi e che ‘non cessano di insuperbire in nome della barba e del mantello’. Infine si possono citare i florida di Apuleio, dove più volte ritorna la polemica contro i falsi filosofi: ad esempio in flor. 7.2.6, citando il divieto di Alessandro di raffigurazioni della sua persona se non ad opera dei più grandi artisti del tempo (Policleto, Apelle, Pirgotele), l’A. commenta: ‘Magari un editto avesse efficacia in egual modo per la filosofia, perché nessuno ne contraffacesse sconsideratamente l’immagine (…)’. Sul tema cfr. Maganzani 2020a, 61 ss. 126 Un frammento tratto dal I libro dei responsa di Papiniano (D. 50.5.8.4) precisa che ai filosofi si rimettono i munera sordida e corporalia ma non quelli pecuniari, perché vere philosophantes pecuniam contemnunt, cuius retinendae cupidine fictam adseverationem detegunt, cioè ‘quelli che filosofeggiano davvero disprezzano il denaro, e nel desiderio di trattenerlo svelano la loro falsa fermezza’. Lo stesso asserisce Modestino 2 excus. in un testo greco, D. 27.1.6.7, in cui si tratta dell’esenzione dai munera civilia prevista da Antonino Pio per alcune categorie di maestri itineranti, come sofisti, grammatici, medici, nel senso che essi mantenevano gli obblighi nella patria d’origine, ma non nelle sedi che visitavano, e inoltre con un limite numerico di beneficiari per ogni città (forse per evitare abusi): ebbene il giurista aggiunge con una certa malizia che, per i filosofi, tale numero (massimo) di beneficiari non viene indicato dalla costituzione imperiale e ciò perché i ‘veri filosofi’ costituiscono una rarità. Infatti, precisa, se un filosofo è ricco, può ben partecipare ai munera civilia; se, invece, dice di essere povero e per questo di non voler partecipare ai munera civilia, significa che non è un vero filosofo. La disposizione rappresenta evidentemente una presa di posizione polemica e irriverente verso tutti i citati ϕιλοσοϕοῦντες che giravano per il mondo in cerca di allievi paganti e, con essi, di benessere, convivialità e donativi. Infine un testo tratto dal libro VIII de omnibus tribunalibus di Ulpiano (D. 50.13.1.4), enumerando una serie di questioni da rimettere alla extraordinaria cognitio del praeses provinciae, precisa che questi si dovrà occupare, in primo luogo, della mercede dei precettori degli studi liberali, cioè retori, grammatici, geometri, in secondo luogo di quella dei medici generici (fr. 1.1), delle ostetriche (1.2) e dei medici ‘specialisti’ (1.3), mentre non si occuperà di quella dei filosofi perché essi sono i primi che devono insegnare agli altri a disprezzare l’opera mercenaria (1.4). Lo stesso vale, aggiunge, per i professores iuris civilis, la cui attività è talmente sacra da non ammettere compenso (eppure molti disonestamente lo richiedono). 127 Motta 2016, 166-174; Sfameni Gasparro 2007, 271-288. Sull’opera di Filostrato in rapporto a Caracalla, Galimberti 2014, 125-136. 128 Desideri, Schiavone 2013, 10; Sfameni Gasparro 2007, 271-288. Ad es. un motivo comune ai discorsi di Elio Aristide è la parentela fra tutte le razze e i popoli (Buraselis 2013, 98) nonché la rappresentazione di Roma come centro dell’ecumene, patria di tutte le genti e mercato comune del genere umano (Lo Cascio 2013,185-201). Sugli autori classici citati da Elio Aristide, Capano 2012, 1 ss.
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Il cd. giusnaturalismo di Fiorentino pero, viene comunque presentata da P. Giss. 40.I, c. I, ll. 1-26129 e dallo stesso Dione Cassio in 52.19.6 come volta a creare un’unità fra tutti gli abitanti dell’ecumene, soprattutto sotto il profilo religioso130. Inoltre, come ha notato Goria131, un effetto sulla mentalità, almeno delle classi colte, dovettero produrre gli stessi cambiamenti economico-sociali dell’epoca considerata, in ragione, da una parte, della “posizione sempre più autonoma assunta da molti servi impegnati in attività produttive”, dall’altra dell’avvicinamento graduale “tra le condizioni dei servi e quelle di molti liberi (si pensi, ad es., agli schiavi affittuari di un fondo in posizione di quasi coloni)” e della “mescolanza degli uni e degli altri sia sul piano dei rapporti di produzione sia su quello delle relazioni sociali”, infine della posizione di rilievo assunta da “alcuni servi nel campo della filosofia e della cultura”132. Quella di Fiorentino dovette dunque essere una presa di posizione coerente con il contesto dell’epoca in cui scrisse e con i valori sostenuti, almeno a parole, dalla dinastia al potere.
129
FIRA2 Leges, 88; Purpura 2012, 695 ss. Parla di “afflato universalista” a proposito delle ll.1-26 del P. Giss. 40.I Purpura 2012, 699. Sulla constitutio Antoniniana e il P. Giss. 40.I e sulla reductio ad unitatem del pluralismo imperiale ad opera del provvedimento imperiale, Corbo 2013, passim, in part. 26-42 con altra lett., fra cui occorre citare almeno Wolff 1976, passim. Cfr. anche Marotta 2009, 110; Andrades Rivas 2009, 87 ss.; De Giovanni 2010, 65-81; Purpura 2013, 73-85; Marotta 2013, 53-72; Purpura 2015, 2-10; Marotta 2016, 461-491; Marotta 2020, 1003-1019. Non è da tutti accettata l’idea che il P. Giss. 40.I contenga effettivamente il testo della constitutio antoniniana sulla cittadinanza romana (di cui parla Ulpiano 22 ad ed., D. 1.5.17 In orbe romano qui sunt ex constitutione imperatoris Antonini cives romani effecti sunt). Esso potrebbe infatti riferirsi soltanto ai peregrini entrati nell’esercito: così, da ultimo, Manganaro 2016, 384, con altra lett. Sul cosmopolitismo antico e sul passaggio dall’ecumene stoica all’ecumene imperiale, in sintesi, Casavola 2004, 423-430 e Canfora 2008, 261-265. 131 Goria 1976, 370-371. 132 Si pensi ad es. ad Epitteto o all’opera sugli schiavi illustri redatta da Ermippo di Berito in età adrianea: Mazzarino 1966, 131 ss.; Goria 1976, 371 nt. 127; Sartori 1981, 260 ss.; Stolfi 2007, 5439. 130
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BREVI CONCLUSIONI
Tutto questo ci può forse aiutare a elaborare un profilo della cultura del nostro giurista e della natura e i limiti del suo ‘giusnaturalismo’: Fiorentino dovette operare nei primi decenni del III secolo, presumibilmente dopo la constitutio Antoniniana e, quando scrisse il suo manuale, doveva conoscere almeno alcuni testi di Paolo e Ulpiano, comprese le Istituzioni di quest’ultimo. Probabilmente di origine provinciale, fu senza dubbio un giurista colto, lettore e conoscitore di varie opere della tradizione classica, greche e latine, attento ai risultati più consolidati della ricerca filosofica, interprete degli statuti valoriali della sua epoca (es. cosmopolitismo, unità del genere umano ed eguaglianza naturale fra gli uomini) e teso ad una formazione degli studenti di grande tecnicismo ma anche pienamente coerente con questi standard. In ciò egli pare condividere l’humus culturale a cui appartenne Ulpiano, della cui opera potrebbe essere stato un lettore. La ragione di questo interesse per le questioni etico-filosofiche si può forse ritrovare nel desiderio, oltre che di estendere la cultura giuridica romana all’intera ecumene, anche di farsi portavoce autorevole – conformemente al volere della dinastia regnante – di valori condivisi e di istanze cosmopolitiche, magari ambendo in questo a sostituirsi, nella formazione delle giovani generazioni, ai filosofi della grande tradizione classica. Ciò che peraltro caratterizza il nostro autore rispetto agli altri autori severiani di institutiones, è che egli, almeno da ciò che possiamo leggere allo stato delle fonti, non pare limitarsi all’enunciazione di precetti etico-filosofici, ma piuttosto farne la base di partenza per dettare regole giuridiche: ad es. la libertà è uno stato di fatto di cui gli uomini godono per natura, oggi e per sempre, e tuttavia deve essere esercitata rispettando tutti i doveri che derivano dal vivere sociale [F. 25]. Al contrario altri giuristi severiani (in particolare Ulpiano e Marciano nelle institutiones1), pur qualificando essi stessi l’uomo come libero per il ius naturale, si ponevano su un piano, per così dire, evolutivo, sottolineando che in origine, cioè in una mitica età dell’oro, gli uomini godevano di tale stato naturale di libertà, ma questa situazione idilliaca
1
La stessa prospettiva di Fiorentino si osserva, invece, in Ulp. 43 ad Sab., D. 50.17.32.
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Brevi conclusioni era da lungo tempo venuta meno a causa delle guerre e, quindi, dell’inevitabile introduzione dell’istituto della schiavitù. In ogni caso né Fiorentino né gli altri giuristi severiani richiamati intendevano con tali dichiarazioni propugnare un’impossibile abolizione della schiavitù, quanto piuttosto affermare che essa era sì un istituto contra naturam, ma anche inevitabile perché l’impero di Roma potesse trionfare. Ciò tuttavia non significa che tali enunciazioni rappresentassero per i giuristi mere petizioni di principio e non direttive valoriali a cui tendenzialmente attenersi nella soluzione dei casi concreti: lo si è visto in una serie di passi in cui queste tendenze egualitarie costituiscono per i giuristi una sorta di principio guida per la decisione. È probabilmente da escludere che Fiorentino fosse uno stoico tout court, quanto piuttosto un eclettico che non si esimeva dal trarre da varie fonti, anche molto risalenti, o dalle loro recenti reinterpretazioni di scuola, i concetti di cui faceva parte ai suoi studenti. D’altra parte, come si è visto in particolare riguardo alle nozioni giuridiche di libertà e schiavitù, egli non si limitava a riproporre astratti enunciati filosofici riservati a un ristretto numero di saggi ma, al contrario, rifletteva con categorie filosofiche su istituti giuridici controversi (quali appunto la libertas e la servitus) evidenziandone la ragion d’essere e il fondamento, e ciò al fine di dettare una regola universalmente valida e variamente declinabile nella prassi. È bene comunque sottolineare che tali constatazioni non autorizzano in alcun modo a trarre illazioni su una presunta influenza, sia nell’intera opera di Fiorentino sia nelle singole trattazioni casistiche (ad eccezione di [FF. 1 e 25]), delle concezioni logiche, etiche, fisiche sincretistiche stoiche, peripatetiche e medioplatoniche tipiche del II-III secolo d.C., come, invece, è stato sostenuto nella monografia e in altri contributi degli anni ’90 di Serena Querzoli2. In verità, come si vedrà nella esegesi dei singoli testi, la trattazione di Fiorentino è, a parte quei due frammenti, tipicamente tecnico-giuridica e gli stessi riferimenti ai valori etici sopra richiamati devono essere valutati in questo contesto. L’opera alterna testi semplici e definitori, adatti ad un pubblico di principianti, e testi di tale complessità da far pensare a un pubblico più specializzato: rimane quindi il dubbio sui possibili destinatari del manuale. Forse si trattava di un’ampia trattazione didattica che, pur partendo dalle basi, giungeva a un elevato livello di approfondimento. Pur disponendo di pochi frammenti delle institutiones Florentini, sappiamo infine che si trattò di un manuale molto apprezzato nella tarda antichità, tanto da rappresentare una delle poche opere giurisprudenziali certamente conosciuta e utilizzata nel V secolo (v. schol. Sin. 13) e da fornire ampio materiale ai redattori delle Istituzioni giustinianee.
2
Querzoli 1991, 67-102; Querzoli 1992, 31-38; Querzoli 1996, 182 ss.
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FRAGMENTA*
Liber I
[De iustitia et iure] 1. D. 1.1.3 (Lenel 1) [Iure gentium fit], ut vim atque iniuriam propulsemus: nam iure hoc evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse existimetur, et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse. B. 2.1.3. Ep. 2.15 – propulsemus] propolsemos Fae – mini insidiari ne] sic f2, minehoinscidiari ne f1 in litura; inc. F
* Le lezioni dei testi e l’ordine dei frammenti sono quelli della Palingenesia Iuris Civilis di Otto Lenel, I, Lipsiae 1889, 171-178 nonostante nelle pagine precedenti (40 ss.) siano state avanzate, in alcuni casi, ipotesi di un ordine diverso. Sono restituite fra parentesi quadre [ ], come nella Palingenesia, anche le rubriche dei titoli ipotizzate da Lenel. La riproduzione dei frammenti è accompagnata, ove è apparso utile e senza alcuna pretesa di esaustività, da un apparato critico basato su quello dell’editio maior dei Digesta di Theodor Mommsen (con l’aggiunta delle eventuali diverse proposte editoriali di Bonfante, Fadda, Ferrini, Riccobono, Scialoja nell’edizione dei Digesta del 1931 nonché, ove rilevanti, delle note di Otto Lenel nella Palingenesia Iuris Civilis). Dopo ogni frammento sono segnalati dapprima i passi paralleli, poi le notazioni o proposte di emendazione dello stesso Mommsen nonché i casi in cui il testo del manoscritto Fiorentino presenti scritture sovrapposte: in particolare, seguendo l’explicatio signorum notarumque dell’editio maior (I, LXXXIV-LXXXVI), si sono indicati con la sigla Fa la scrittura primitiva corretta successivamente dalla medesima mano, con Fb l’emendazione del librarius primus, con F1 la scrittura primitiva poi corretta da una seconda mano, amanuense o correttore sulla base (sembra) dello stesso manoscritto da cui è stata copiata la Fiorentina, con F2 una correzione degli emendatori ordinari, con F3 la correzione di un antico diverso dal correttore ordinario, con f un’emendazione di un correttore più recente, dell’epoca della scuola di Bologna, con Fae la lezione della littera florentina precedente all’emendazione di una mano incerta, o del primo librarius
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FRAGMENTA
Liber I
[De iustitia et iure] 1. D. 1.1.3 (Lenel 1) [Dal diritto delle genti risulta] che possiamo respingere la violenza e l’ingiuria: infatti da questo diritto deriva che si deve ritenere legittima ogni azione compiuta da una persona a difesa del proprio corpo, e poiché fra noi la natura ha creato una sorta di parentela di sangue, ne consegue che è contro il diritto sacro (nefas) che un uomo insidi un altro uomo.
o dell’emendatore antico, con Fem la lezione della littera florentina emendata da una mano antica incerta. La sigla inc. significa che la lezione del codice è incerta (I, LXXXXVI); dett. significa deteriores ed è stata usata soltanto per indicare le congetture nate nella scuola di Bologna e da qui propagate nelle ulteriori edizioni (I, LXXXXVI). Om. Significa omisit, em. significa emendavit. Tra i segni ῾᾽ si pongono le lettere che sono state cancellate in un secondo momento; tra i segni ⊢ ⊣ si indicano le lettere aggiunte in un secondo momento. Si sono poi indicate le lezioni alternative dei manoscritti della littera Bononiensis ove segnalate nell’editio maior. Per lo scioglimento delle sigle dei manoscritti, si veda ancora l’explicatio signorum notarumque. Sono comunque stati richiamati nell’ordine: P (Parisinus n. 4450 del Digestum vetus), V (Vaticanus n. 1406 del Digestum vetus), U (Patavinus del Digestum vetus), L (Lipsiensis del Digestum vetus), Y (Parisinus n. 4458 A del Digestum novum), M (Bambergensis del Digestum novum), C (Colladonianus codex), O (Regiomontanus codex del Digestum novum), X (Parisinus n. 4455 del Digestum novum), R (Berolinensis Digestorum partis l. I), D (Berolinensis Infortiati), E (Bambergensis n. D. 1. 10 Infortiati), I (Bambergensis codex n. D. I. 12 Infortiati), Q (Parisinus n. 4454 partis Infortiati cum parte Digesti novi), W (Uaticanus n. 1407 Infortiati), K (Cantabrigiensis Infortiati). Quando alla sigla indicativa di un codice si aggiungono in esponente delle lettere (a, b, c etc.), si intende indicare con a la lezione primitiva (es. Pa), con b la prima emendazione (es. Pb), con c la seconda emendazione e così via. Nell’editio dei Digesta di Bonfante, Fadda, Ferrini, Riccobono, Scialoja, la lettera S indica i ‘secundi ordinis libri Digestorum, scilicet Bononienses a Mommseno adhibiti et in eius editione maiore recensiti, praecipue tres qui sequuntur Digesti veteris P V L’.
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Lauretta Maganzani
Liber II [Deest]
Liber III
[De nuptiis et de dote]
2. D. 23.1.1, 3 (Lenel 2) Sponsalia sunt mentio et repromissio nuptiarum futurarum. Unde et sponsi sponsaeque appellatio nata est. Sponsalia (…) futurarum: B. 28.1.1. Ep. 20.1 – Unde … est: B. 28.1.2. Ep. 20.2 – mentio] firmant Graeci (MNHMH B et BS) – et] e‘s’t F2 om. L – sponsaequ῾a᾽e F2 – editio Bonfante, Fadda, Ferrini, Riccobono, Scialoia 1931: mentio] ita et Bas. cum sch. sponsio? scr. Fadda
3. D. 23.4.24 (Lenel 3) Si inter uirum et uxorem pactum est, ut certa pars dotis vel tota ob unum vel plures liberos intervenientes retineatur, etiam eorum liberorum nomine, qui ante nati sunt, quam dos daretur aut amplietur, conuentio rata est: nam sufficit eos ex eo matrimonio nasci, in quo dos data est. B. 29.5.24 – plures] plurem Pa – retineatur] retineantur FPaVU – quo: quod (Krüger)? (ed. maior)
4. fr. Sin. 13 (Lenel 4) (…) ut incrementum dotis prosit et deminutio noceat.
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Fragmenta
Liber II [Manca]
Liber III
[De nuptiis et de dote]
2. D. 23.1.1, 3 (Lenel 2) Gli sponsali sono proposta e correlativa promessa di nozze future. Da qui sono nati gli appellativi di sposo e sposa.
3. D. 23.4.24 (Lenel 3) Se tra marito e moglie è stato pattuito che una certa parte della dote o tutta sia trattenuta (dal marito) per uno o più figli intervenienti, il patto è valido anche per i figli che sono nati prima che la dote sia stata data o accresciuta: infatti è sufficiente che nascano dal matrimonio per il quale la dote è stata data.
4. fr. Sin. 13 (Lenel 4) (…) che giovi un incremento della dote e nuoccia una sua diminuzione.
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Lauretta Maganzani
Liber IV [Deest]
Liber V [Deest]
Liber VI
[De adquirendo rerum dominio]
5. D. 1.8.3 (Lenel 5) Item lapilli, gemmae ceteraque, quae in litore invenimus, iure naturali nostra statim fiunt. I. 2.1.18. BS. 46.3.2
6. D. 41.1.2 (Lenel 6) [Nostra fiunt animalia, quae terra mari caelo capiuntur, id est ferae bestiae et volucres et pisces,] vel quae ex his apud nos sunt edita. B. 50.1.2 – Lenel 1889. I. 173 nt. 2: ad 6. 7 cf. I. (2.1) 19: item ea, quae ex animalibus dominio tuo subiectis nata sunt, eodem iure [sc. naturali] tibi adquiruntur. Quae equidem genuina esse Florentini verba suspicor; inde Tribonianus videtur ea confecisse, quae in dig. l.c. Gai fragmentis sunt interiecta.
7. D. 41.1.6 (Lenel 7) [Nostra fiunt, quae ex hostibus capiuntur,] item quae ex animalibus dominio nostro eodem iure subiectis nata sunt. I. 2.1.19 B. 50.1.5 – Item ea, quae ex animalibus dominio tuo subiectis nata sunt, eodem iure [sc. naturali] tibi adquiruntur Inst. (cf. l. 2 h.t.) (ed. maior)– subiecti⊢s⊣F2 – Lenel 1889. I. 173 nt. 2: cf. n. 6
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Fragmenta
Liber IV [Manca]
Liber V [Manca]
Liber VI
[De adquirendo rerum dominio]
5. D. 1.8.3 (Lenel 5) Parimenti diventano immediatamente nostri per diritto naturale i sassolini, le gemme e le altre cose che troviamo sulla spiaggia.
6. D. 41.1.2 (Lenel 6) [Diventano nostri gli animali che catturiamo in terra, nel cielo e nel mare, cioè le bestie selvatiche, gli uccelli e i pesci,] o quelli che da essi nascono (quando si trovano) presso di noi.
7. D. 41.1.6 (Lenel 7) [Diventano nostre le cose prese ai nemici,] e ugualmente allo stresso titolo i nati dagli animali in nostra proprietà.
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Lauretta Maganzani 8. D. 41.1.4 (Lenel 8) [Fera animalia capta eo usque nostra esse intelleguntur, donec nostra custodia coercentur: quam si evaserint, nostra esse desinunt], nisi si mansuefacta emitti ac reverti solita sunt. B. 50.1.3
9. D. 41.1.16 (Lenel 9) In agris limitatis ius alluvionis locum non habere constat: idque divus Pius constituit e Trebatius ait agrum, qui hostibus devictis ea condicione concessus est, ut in civitatem veniret, habere alluvionem neque esse limitatum: agrum autem manu captum limitatum fuisse, ut sciretur, quid cuique datum esset, quid venisset, quid in publico relictum esset. B. 50.1.15 – limitatis] huimitatis F1 – veniret: idem Graeci: venirent? (ed. maior) – autem manu captum limitatum om. F1, legit interpres Graecus (cf. B.) – quid in publico relictum (relictoum Fa) esset] id ipsum legit Graecus interpres, etsi non recte accepit.
10. D. 49.15.26 (Lenel 10) Nihil interest, quomodo captivus reversus est, utrum dimissus an vi vel fallacia potestatem hostium evaserit, ita tamen, si ea mente venerit, ut non illo reverteretur: nec enim satis est corpore domum quem redisse, si mente alienus est. sed et qui victis hostibus recuperantur, postliminio redisse existimantur. recuperantur] recuperentur F – Lenel 1889. I. 173 nt. 3: cf. (41.1) 7 pr.
Liber VII
[De deposito]
11. D. 16.3.17 (Lenel 11) Licet deponere tam plures quam unus possunt, attamen apud sequestrem non nisi plures deponere possunt: nam tum id fit, cum aliqua res in controversiam deducitur. Itaque hoc casu in solidum unusquisque videtur deposuisse: quod aliter est, cum rem communem plures deponunt. 1. Rei depositae 82
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Fragmenta 8. D. 41.1.4 (Lenel 8) [Gli animali selvatici catturati sono considerati nostri finché sono trattenuti nella nostra custodia: se scappano, invece, cessano di essere nostri], a meno che, avendoli addomesticati, quando li facciamo uscire siano soliti ritornare.
9. D. 41.1.16 (Lenel 9) È noto che nei territori limitati non ha luogo il diritto di alluvione: e questo lo ha disposto il divo Pio e Trebazio dice che il territorio concesso ai nemici vinti alla condizione di entrare nella civitas, ha l’alluvione e non è limitato: che invece il terreno preso con la forza è stato limitato in modo che si sappia che cosa è stato dato a ciascuno, che cosa è stato venduto, che cosa è stato lasciato in pubblico.
10. D. 49.15.26 (Lenel 10) Non importa in che modo un prigioniero di guerra sia tornato, se sia stato lasciato andare o sia sfuggito al potere dei nemici con la forza o con l’inganno, purché sia venuto con l’intenzione di non tornare là: infatti non è sufficiente che uno sia rientrato in patria col corpo, se con la mente è estraneo. Ma anche quelli che vengono recuperati dopo la vittoria sui nemici, si considerano tornati con (il beneficio del) postliminio.
Liber VII
[De deposito]
11. D. 16.3.17 (Lenel 11) Anche se possono effettuare un deposito sia più persone, sia una sola, nondimeno presso il sequestratario non possono depositare che più persone: infatti ciò ha luogo quando una cosa è dedotta in controversia. Pertanto in questo caso si ritiene che ciascuno depositi in solido: il 83
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Lauretta Maganzani proprietas apud deponentem manet: sed et possessio, nisi apud sequestrem deposita est: nam tum demum sequester possidet: id enim agitur ea depositione, ut neutrius possessioni id tempus procedat. B. 13.2.17 – 1 sequestrem] sequestrum F2 PVUa – deposuisse] debuisse F1 – deponent P – proprietas] propriaetas F – deponentem manet] deponente⊢m⊣ mane‘n’t F2 – nisi] nesi F1 – sequestrem] sequestrum F2 PVU
[De emptione et venditione?]
12. D. 11.7.42 (Lenel 12) Monumentum generaliter res est memoriae causa in posterum prodita: in qua si corpus vel reliquiae inferantur, fiet sepulchrum, si vero nihil eorum inferatur, erit monumentum memoriae causa factum, quod Graeci kενοτάφιον appellant. reliquiae] reliqu⊢i⊣ae F2 – graeci] graeci‘n’ F2 – kενοτάφιον] kενο pro et ον L, κεπωζαφν , kenotaphium P – Lenel 1889. I. 173 nt. 5: monumentum …. factum gloss.
[De locatione et conductione]
13. D. 19.2.36 (Lenel 13) Opus quod aversione locatum est donec adprobetur, conductoris periculum est: quod vero ita conductum sit, ut in pedes mensurasve praestetur, eatenus conductoris periculo est, quatenus admensum non sit: et in utraque causa nociturum locatori, si per eum steterit, quo minus opus adprobetur vel admetiatur. Si tamen vi maiore opus prius interciderit quam adprobaretur, locatoris periculo est, nisi si aliud actum sit: non enim amplius praestari locatori oporteat, quam quod sua cura atque opera consecutus esset. B. 20.1.35 – periculum] periculo (dett.)? (ed. maior) – periculo] periculum PVU – maiore] fPU, maiori F – opus prius] prius opus P – nisi si] si om. PU
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Fragmenta che è diverso quando più persone depositano una cosa comune. 1. La proprietà della cosa depositata rimane presso il deponente: ma anche il possesso, a meno che sia depositata presso un sequestratario: infatti allora possiede soltanto il sequestratario: si fa questo con quel (tipo di) deposito in modo che il tempo corrispondente non proceda (ai fini dell’usucapione) a favore di nessuna delle due parti.
[De emptione et venditione?]
12. D. 11.7.42 (Lenel 12) In generale monumento è una cosa che si tramanda come memoria per il futuro: se vi è introdotto un corpo o delle reliquie, diventa un sepolcro, se, invece, non vi è introdotta nessuna di queste cose, sarà un monumento eretto a mo’ di memoriale, quello che i greci chiamano cenotafio.
[De locatione et conductione]
13. D. 19.2.36 (Lenel 13) Il rischio del perimento dell’opera appaltata in blocco grava sul conduttore fino all’approvazione: se, invece, l’appalto è stato assunto con la clausola che si risponda per ogni singolo piede, il rischio grava sul conduttore finché non sia stata fatta la misurazione: e in entrambi i casi precedenti il rischio graverà sul locatore se è dipesa da lui la mancata approvazione o misurazione. Se tuttavia l’opera perisce per forza maggiore prima di essere approvata, il rischio grava sul locatore a meno che sia stato diversamente pattuito: non bisogna infatti rispondere nei confronti del locatore per più di quanto lui stesso avrebbe conseguito con la sua cura ed attività.
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Lauretta Maganzani
Liber VIII
[De verborum obligationibus]
14. D. 45.1.65 (Lenel 14) Quae extrinsecus et nihil ad praesentem actum pertinentia adieceris stipulationi, pro supervacuis habebuntur nec vitiabunt obligationem, veluti si dicas: ‘arma virumque cano: spondeo’, nihilo minus valet. 1. Sed et si in rei quae promittitur aut personae appellatione varietur, non obesse placet: nam stipulanti denarios eiusdem quantitatis aureos spondendo obligaberis: et servo stipulanti Lucio domino suo, si Titio, qui idem sit, daturum te spondeas, obligaberis. B. 43.1.62 – arma virumque cano: Vergilius Aen. 1.1 (ed. maior) – 1 obligaberis] obligaueris F
15. D. 45.2.7 (Lenel 15) Ex duobus reis promittendi alius in diem vel sub condicione obligari potest: nec enim impedimento erit dies aut condicio, quo minus ab eo, qui pure obligatus est, petatur. I. 3.16.2 B. 43.2.7 – alius in diem vel sub condicione] non plenius videntur legisse Graeci B.43.2.7 (Tipuc.) – enim] del. (Inst.) (ed. maior) – pure, alius ins. (Inst.) (ed. maior)
16. D. 45.3.15 (Lenel 16) Sive mihi sive sibi sive conservo suo sive impersonaliter dari servus meus stipuletur, mihi adquiret. I. 3.17pr. B. 43.3.14
17. D. 46.2.16 (Lenel 17) Servus nec peculiarem quidem obligationem citra voluntatem domini novare potest, sed adicit potius obligationem quam pristinam novat. B. 26.4.16
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Fragmenta
Liber VIII
[De verborum obligationibus]
14. D. 45.1.65 (Lenel 14) Ciò che aggiungerai alla stipulazione che abbia carattere esterno ad essa e non sia per nulla attinente all’atto presente, sarà considerato superfluo e non vizierà l’obbligazione, come se tu dica: ‘Canto le armi e l’eroe: prometto’, nondimeno (l’obbligazione) vale. 1. Ma si ritiene che anche la variazione dell’appellativo usato per la cosa che viene promessa o per la persona, non sia di ostacolo agli effetti dell’obbligazione: infatti sarai obbligato nei confronti di chi abbia stipulato per dei denari, anche se tu abbia promesso aurei della stessa quantità: e nel caso che uno schiavo abbia stipulato ‘per il suo padrone Lucio’, se tu abbia promesso di dare a Tizio, che è la stessa persona, sarai ugualmente obbligato. 15. D. 45.2.7 (Lenel 15) Tra due promittenti da stipulazione uno può essere obbligato a termine o sotto condizione: e infatti il termine o la condizione non saranno di impedimento a pretendere la cosa dovuta da quello che è obbligato puramente e semplicemente.
16. D. 45.3.15 (Lenel 16) Sia che il mio schiavo stipuli che una cosa sia data a me o a lui o a un suo compagno di schiavitù o impersonalmente, sono io ad acquistarla.
17. D. 46.2.16 (Lenel 17) Lo schiavo non può novare senza la volontà del padrone neppure un’obbligazione peculiare, ma aggiunge una nuova obbligazione più che novare quella precedente.
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Lauretta Maganzani 18. D. 46.1.22, D. 29.2.54 (Lenel 18) Mortuo reo promittendi et ante aditam hereditatem fideiussor accipi potest, quia hereditas personae vice fungitur, sicuti municipium et decuria et societas. Heres quandoque adeundo hereditatem iam tunc a morte successisse defuncto intellegitur. D. 46.1.22 B. 26.1.22 – vice] vitae F1 – Lenel 1889. I. 174 nt. 3: cf. I. (3.17)pr., v. etiam fr. 34 § 3
[De stipulatione duplae et edicto aedilium?]
19. D. 18.1.43 (Lenel 19) Ea quae commendandi causa in venditionibus dicuntur, si palam appareant, venditorem non obligant, veluti si dicat servum speciosum, domum bene aedificatam: at si dixerit hominem litteratum vel artificem, praestare debet: nam hoc ipso pluris vendit. 1. Quaedam etiam pollicitationes venditorem non obligant, si ita in promptu res sit, ut eam emptor non ignoraverit, veluti si quis hominem luminibus effossis emat et de sanitate stipuletur: nam de cetera parte corporis potius stipulatus videtur quam de eo, in quo se ipse decipiebat. 2. Dolum malum a se abesse praestare venditor debet, qui non tantum in eo est, qui fallendi causa obscure loquitur, sed etiam qui insidiose obscure dissimulat. ea quae (…) vendit e dolum malum (…) dissimulat B. 19.1.43 – appareant] appareat (u. i.)? (ed. maior) – appareant] appareat Pa – obligant] obliga‘vera’nt F2, obligat Pa – bene] vene F1 – at] aut Pa – 1 in promptu] impromptu FP – effossis] effosis FP – potius] potuis F (em. f) – eo est] eodem Pa – insidiose] insidiosae F – obscure del. (u. i.) (ed. maior): agnoscunt B. 19.1.43: sed recte videtur delevisse Brunemannus, cum sibi opponantur ut fallendi causa et insidiose, ita obscure loqui et dissimulare – editio Bonfante, Fadda, Ferrini, Riccobono, Scialoia 1931: obscure] habent et Bas.: ergo agitur de vetere glossemate
[De solutionibus et liberationibus]
20. D. 46.3.2, D. 13.7.35pr. (Lenel 20) [Quotiens quis debitor ex pluribus causis unum debitum solvit, est in arbitrio solventis dicere, quod potius debitum voluerit solutum:] (D. 46.3.2) dum in re agenda hoc fiat, ut vel creditori liberum sit non accipere vel debitori non dare, si alio nomine exsolutum quis eorum velit. (D. 13.7.35pr.) Cum et sortis nomine et usurarum aliquid debetur ab eo, qui sub pignoribus pecuniam debet, quidquid ex venditione pignorum recipiatur, primum usuris, quas iam tunc deberi constat, deinde si quid superest 88
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Fragmenta 18. D. 46.1.22, D. 29.2.54 (Lenel 18) Dopo la morte del promittente da stipulazione e prima dell’accettazione dell’eredità può essere assunto un fideiussore, perché l’eredità fa le veci della persona, come il municipio, la decuria e la società. Quando l’erede acquista l’eredità, si ritiene che sia succeduto al defunto sin dalla sua morte.
[De stipulatione duplae et edicto aedilium?]
19. D. 18.1.43 (Lenel 19) Le cose che vengono dette nelle vendite per raccomandare (l’acquisto di un determinato bene), se riguardano aspetti chiaramente visibili, non obbligano il venditore, come se per esempio egli dica che uno schiavo è di bell’aspetto o una casa bene edificata: ma se invece abbia detto che uno schiavo è letterato o artigiano, deve risponderne: infatti proprio per questo lo ha venduto ad un prezzo maggiore. 1. Anche alcune promesse non obbligano il venditore se la cosa è così evidente da non poter essere ignorata dal compratore, come se qualcuno compri uno schiavo con gli occhi cavati e la stipulazione abbia per oggetto la sua salute: si deve infatti ritenere che abbia stipulato riferendosi alla restante parte del corpo piuttosto che a quella relativamente alla quale si sbugiardava da solo. 2. Il venditore deve garantire di essere esente da dolo malo, il che c’è non solo in chi si esprime in modo oscuro al fine di ingannare, ma anche in chi, insidiosamente e in modo oscuro, dissimula qualcosa.
[De solutionibus et liberationibus]
20. D. 46.3.2, D. 13.7.35pr. (Lenel 20) [Ogni volta che un debitore, fra più debiti, ne paga uno, rientra nell’arbitrio del solvente dire quale debito egli abbia voluto pagare per primo:] (D. 46.3.2) purché, al compimento dell’atto, ciò venga fatto in modo tale che il creditore abbia la libertà di non ricevere (il pagamento) o il debitore di non effettuarlo se uno di loro vuole che esso avvenga ad altro titolo. (D. 13.7.35pr.) Quando una prestazione sia dovuta sia a titolo di capitale sia di interessi da parte 89
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Lauretta Maganzani sorti accepto ferendum est: nec audiendus est debitor, si, cum parum idoneum se esse sciat, eligit, quo nomine exonerari pignus suum malit. D. 46.3.2 B. 26.5.2 – D. 13.7.35pr. B. 25.1.34 – usurarum] usuram Pa – debetur] debeatur PVLU – ab] ad Pa – transfert] transferat F1La – et prec.] ut prec. PU
21. D. 46.4.18 (Lenel 21) Et uno ex pluribus contractibus vel certis vel incertis vel, quibusdam exceptis, ceteris et omnibus ex causis una acceptilatio et liberatio fieri potest. 1. Eius rei stipulatio, quam acceptio sequatur, a Gallo Aquilio talis exposita est: ‘Quidquid te mihi ex quacumque causa dare facere oportet oportebit praesens in diemve, quarumque rerum mihi tecum actio quaeque adversus te petitio vel adversus te persecutio est eritve, quodve tu meum habes tenes possides: quanti quaeque earum rerum res erit, tantam pecuniam dari stipulatus est Aulus Agerius, spopondit Numerius Negidius’. ‘Quod Numerius Negidius Aulo Agerio promisit spopondit, in haberetne a se acceptum, Numerius Negidius Aulum Agerium rogavit, Aulus Agerius Numerio Negidio acceptum fecit’. B. 26.6.18 ‘quidquid (…) acceptum fecit’ I. 3.29.2 – ex pluribus] YbMbC cum B (Anon.), pluribus F1, et pluribus F2XYaMa?O – vel certis vel incertis vel, quibusdam exceptis, ceteris] vel certis vel, certis quibusdam exceptis, ceteris? ed. maior – 1 acceptio] acceptilatio (ed. maior): acceptio] F, acceptilatio XYMOC – adversus te] abs te (Inst.)? (ed. maior) – quodve] quodque (Inst.)? (ed. maior) – possides] possideresue (scr. possederasue et cogita de interdicto utrubi) doloue malo fecisti quo minus possideas ins. Inst. (ed. maior) – spopondit Numerius Negidius’.] deinde sic cavetur similiaue ins. ed. maior – quod Numerius Negidius] om. F1 – editio Bonfante et alii (1931): ex S, et F2, om. F1
22. D. 2.14.57 (Lenel 22) Qui in futurum usuras a debitore acceperat, tacite pactus videtur, ne intra id tempus sortem petat. 1. Si ex altera parte in rem, ex altera in personam pactum conceptum fuerit, veluti ne ego petam vel ne a te petatur: heres meus ab omnibus vobis petitionem habebit et ab herede tuo omnes petere poterimus. B. 11.1.56 – intra] inter Pa – 1 ne ego] n⊢e⊣ ego F2 – heres] et heres PVU – omnes] onus Pa
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23. D. 50.16.211 (Lenel 23) ‘Fundi’ appellatione omne aedificium et omnis ager continetur. Sed in usu urbana aedificia ‘aedes’, rustica ‘villae’ dicuntur. Locus vero sine aedificio in urbe ‘area’, rure autem ‘ager’ appellatur. Idemque ager cum aedificio ‘fundus’ dicitur. B. 2.2.203 – ‘ager’ appellatur] ager‘e’ appellatur F2 – Lenel 1889. I. 175 nt. 2: fr. 23. 24 videntur pertinere ad interdictum uti possidetis. Ad fr. 23 cf. Ulp. 69 ad edict. (50.16) 60
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Fragmenta di uno il cui debito in denaro è garantito da pegni, qualunque somma si ricavi dalla vendita dei pegni, essa prima deve essere imputata a pagamento degli interessi che già allora risultano dovuti, poi, se avanza qualcosa, al pagamento del capitale: né deve essere ascoltato il debitore se, sapendo di essere poco solvibile, scelga a quale titolo preferisce liberare il suo pegno.
21. D. 46.4.18 (Lenel 21) Si può fare un’unica acceptilatio e un’unica liberazione sia per uno solo fra più contratti sia certi, sia incerti o, eccettuati alcuni, per tutti i rimanenti, sia per tutte le cause 1. La stipulazione avente tale oggetto, che è seguita dall’accettazione, è stata esposta così da Gallo Aquilio. 1. ‘Qualunque cosa per qualunque causa tu devi o dovrai dare o fare a mio favore ora o in futuro, per qualunque cosa io esercito o eserciterò un’actio, petitio o persecutio contro di te, o per ciò che tu di mio hai tieni, possiedi: quanto varrà ciascuna di queste cose, tanto denaro Aulo Agerio ha stipulato che gli sia dato e Numerio Negidio ha garantito di dare’. ‘Numerio Negidio ha chiesto ad Aulo Agerio se ha ricevuto ciò che Numerio Negidio ha promesso e garantito ad Aulo Agerio, e Aulo Agerio ha risposto a Numerio Negidio di averlo ricevuto’.
22. D. 2.14.57 (Lenel 22) Si ritiene che chi aveva ricevuto interessi per il futuro dal debitore, abbia tacitamente pattuito di non pretendere il capitale prima di quel tempo. 1. Se un patto è stato formulato da una parte in rem, dall’altra in personam, come per esempio ‘che io non pretenda’ o ‘che da te non sia preteso’, il mio erede potrà pretendere il pagamento da voi tutti e dal tuo erede tutti potremo pretendere il pagamento. ?
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23. D. 50.16.211 (Lenel 23) Nell’appellativo di ‘fundus’ è ricompreso ogni edificio e ogni campo. Ma nell’uso gli edifici urbani vengono chiamati ‘aedes’, quelli rustici ‘villae’. Invece un ‘locus’ privo di edificio in città viene chiamato ‘area’, in campagna ‘ager’. E lo stesso ager dotato di edificio viene detto ‘fundus’.
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Lauretta Maganzani 24. D. 13.7.35.1 (Lenel 24) Pignus manente proprietate debitoris solam possessionem transfert ad creditorem: potest tamen et precario et pro conducto debitor re sua uti. B. 25.1.34 – transfert] transferat F1La
Liber IX
[De statu hominum]
25. D. 1.5.4 (Lenel 25) Libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur. 1. Servitus est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam subicitur. 2. Servi ex eo appellati sunt, quod imperatores captivos vendere ac per hoc servare nec occidere solent: 3. Mancipia vero dicta, quod ab hostibus manu capiantur. I. 1.3.1-3 B. 46.1.2 Servi (…) capiantur BS. 46.1.1 – Si quid vi] si quid ⊢vi⊣ F2 cum Inst., si quid via R, quod vi PVU – 1 constitutio] constutio F, constitucium R – dominio] domino Pa – naturam] natura Pa
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Fragmenta 24. D. 13.7.35.1 (Lenel 24) Il pegno trasferisce al creditore il solo possesso (della cosa) mentre la proprietà rimane al debitore: tuttavia il debitore può usare della sua cosa sia in precario, sia a titolo di locazioneconduzione.
Liber IX
[De statu hominum]
25. D. 1.5.4 (Lenel 25) La libertà è la facoltà naturale di fare ciò che ci piace, a meno che qualcosa sia proibito dalla forza o dal diritto. 1. La schiavitù è un istituto di diritto delle genti in base al quale uno viene sottomesso contro natura al dominio di un altro. 2. Gli schiavi sono chiamati servi perché gli imperatori sono soliti vendere i prigionieri e dunque conservarli e non ucciderli. 3. Sono chiamati inoltre mancipia, perché sono presi dai nemici con la mano.
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Lauretta Maganzani
Liber X
[De testamentis]
26. D. 28.1.24 (Lenel 26) Unum testamentum pluribus exemplis consignare quis potest idque interdum necessarium est, forte si navigaturus et secum ferre et relinquere iudiciorum suorum testationem velit. B. 35.1.25 – quis] qui⊢s⊣ F2 – ferre] forre F1 – relinquere] reliquere F
27. D. 28.2.17 (Lenel 27) Filii etiam hoc modo exheredantur ‘filius exheres sit’: ‘filius exheres erit’.
28. D. 28.5.(49) 50 (Lenel 28) Si alienum servum liberum et heredem esse iussi et is postea meus effectus est, neutrum valet, quia libertas alieno servo inutiliter data est. 1. In extraneis heredibus illa observantur: ut sit cum eis testamenti factio, sive ipsi heredes instituantur sive hi qui in potestate eorum sunt, et id duobus temporibus inspicitur, testamenti facti, ut constiterit institutio, et mortis testatoris, ut effectum habeat. Hoc amplius et cum adibit hereditatem esse debet cum eo testamenti factio, sive pure sive sub condicione heres institutus sit: nam ius heredis eo vel maxime temporis inspiciendum est, quo adquirit hereditatem. Medio autem tempore inter factum testamentum et mortem testatoris vel condicionem institutionis existentem mutatio iuris heredi non nocet, quia, ut dixi, tria tempora inspicimus. B. 35.9.43 In extraneis heredibus (…) inspicimus I. 2.19.4 – iussi] ius⊢si⊣ F2 – is] us F1 – meus] ⊢m⊣ eus F2 – 1 eis] eos F1 – ipsi] DEIC cum Inst., ipse FW – adibit] ad‘h’ibit F2, adibit Ia, adiit WC cum Inst., adit DIb, addit E, addidit Q – maxime] moxime F1 – editio Bonfante, Fadda, Ferrini, Riccobono, Scialoia (1931): illa observantur] illus observatur Inst. – testamenti facti] testamenti quidem facti ins. Inst. – et mortis] mortis vero Inst. – dixi] diximus Inst. – inspicimus] inspici debent Inst.
29. D. 28.6.37 (Lenel 29) Vel singulis liberis vel qui eorum novissimus morietur heres substitui potest, singulis, si neminem eorum intestato decedere velit, novissimo, si ius legitimarum hereditatium integrum inter eos custodiri velit. I. 2.16.6 B. 35.10.35 – singulis] singulas F1 – vel] Inst. WEb, vel ei DEaIC, om. FQ – eos] eum F1
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Fragmenta
Liber X
[De testamentis]
26. D. 28.1.24 (Lenel 26) Un solo testamento si può autenticare in più esemplari e ciò talvolta è necessario, per esempio se uno, in procinto di mettersi in navigazione, voglia sia portare con sé, sia lasciare un’attestazione scritta delle sue volontà.
27. D. 28.2.17 (Lenel 27) I figli vengono diseredati anche in questo modo: ‘Il figlio sia diseredato’: ‘il figlio sarà diseredato’. 28. D. 28.5.50 (Lenel 28) Se ho ordinato che uno schiavo altrui fosse libero ed erede e costui successivamente è stato reso di mia proprietà, non vale né l’una né l’altra disposizione, perché inutilmente è concessa la libertà a uno schiavo altrui. 1. Si osservano queste regole quando sono istituiti eredi estranei: che abbiano la testamentifactio, sia che siano istituiti eredi loro stessi, sia coloro che sono sotto la loro potestà, e questo deve essere osservato in due momenti, sia quello della redazione del testamento perché l’atto possa dirsi esistente, sia quello della morte del testatore perché abbia effetto. E a maggior ragione deve avere la testamentifactio quando adirà l’eredità, sia che sia istituito erede puramente e semplicemente, sia sotto condizione: infatti la situazione giuridica dell’erede deve essere esaminata attentamente soprattutto nel momento in cui acquista l’eredità. Invece nel periodo fra la redazione del testamento e la morte del testatore o il verificarsi della condizione dell’istituzione, non nuoce all’erede un mutamento della sua situazione giuridica perché, come ho detto, abbiamo osservato i tre momenti.
29. D. 28.6.37 (Lenel 29) Un erede può essere sostituito o ai singoli figli o a quello di loro che muoia per ultimo: ai singoli se non vuole che nessuno di loro muoia intestato, all’ultimo se vuole che sia mantenuto integro fra loro il diritto delle eredità legittime.
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Lauretta Maganzani 30. D. 28.7.17 (Lenel 30) Si plures institutiones ex eadem parte sub diversis condicionibus fuerint, condicio, quae prior exstiterit, occupabit institutionem. B. 35.12.17 – exstiterit] ex⊢s⊣titerit F2
31. D. 29.1.24 (Lenel 31) Divus Traianus Statilio Severo ita rescripsit: ‘Id privilegium, quod militantibus datum est, ut quoquo modo facta testamenta rata sint, sic intellegi debet, ut utique prius constare debeat testamentum factum esse, quod et sine scriptura et a non militantibus fieri potest. Si ergo miles, de cuius bonis apud te quaeritur, convocatis ad hoc hominibus, ut voluntatem suam testaretur, ita locutus est, ut declararet, quem vellet sibi esse heredem et cui libertatem tribuere: potest videri sine scripto hoc modo esse testatus et voluntas eius rata habenda est. Ceterum si, ut plerumque sermonibus fieri solet, dixit alicui: ‘ego te heredem facio’, aut ‘tibi bona mea relinquo’, non oportet hoc pro testamento observari. Nec ullorum magis interest, quam ipsorum, quibus id privilegium datum est, eiusmodi exemplum non admitti: alioquin non difficulter post mortem alicuius militis testes existerent, qui adfirmarent se audisse dicentem aliquem relinquere se bona cui visum sit, et per hoc iudicia vera subvertuntur. I. 2.11.1 B. 35.21.19 – Statilios Severos duos novimus consulem ordinarium a. 144 (Bullett. dell’Inst. 1867, 125) et Arualem qui vixit saec. III medio (Annali dell’Inst. 1867 p. 289): male igitur hic cogitarunt quidam viri docti de Catilio Severo – privilegium] privilegio F1 – et a non militantibus] a non mil. quoque Inst. – si ergo m. d. c. b. a. t. q.] is ergo m. d. c. b. a. t. q. si Inst. – bonis] uonis F1 – hominibus] ⊢ho⊣minibus F2 – declararet] declaret Inst. 2 – tribuere] F1Ea cum Inst., tribueret F2WDQEbIC – existerent] existent Inst. – aliquem del. (ed. maior) – subvertuntur] subvertantur Inst.
[De bonis libertorum]
32. D. 38.2.28 (Lenel 32) Si in libertinum animadversum erit, patronis eius ius, quod in bonis eius habituri essent, si is in quem animadversum est sua morte decessisset, eripiendum non est. Sed reliquam partem bonorum, quae ad manumissorem iure civili non pertineat, fisco esse vindicandam placet. 1. Eadem servantur in bonis eorum qui metu accusationis mortem sibi consciverint aut fugerint, quae in damnatorum bonis constituta sunt. B. 49.4.24 – ius om. F1 – quae] qu⊢a⊣e F2 – 1 in bonis] is b. F1 – consciuerint] consciberint F
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Fragmenta 30. D. 28.7.17 (Lenel 30) Se sono state fatte più istituzioni per la medesima parte d’eredità sottoposte a condizioni diverse, avrà efficacia l’istituzione subordinata alla condizione che per prima si è verificata.
31. D. 29.1.24 (Lenel 31) Il divo Traiano rescrisse così a Statilio Severo: ‘Quel privilegio che è stato concesso ai militari per cui i loro testamenti, in qualunque modo siano fatti, si considerano validi, deve essere inteso così, che prima di tutto deve essere attestato che un testamento è stato fatto, il che si può fare anche oralmente e da parte di non militari. Se dunque il soldato dei cui beni si domanda presso di te, convocate appositamente alcune persone perché fosse attestata la sua volontà, ha parlato in modo da designare chi voleva diventasse suo erede e a chi intendeva attribuire la libertà: si può vedere che in questo modo egli ha fatto testamento (pur) senza uno scritto e la sua volontà deve essere considerata valida. Diversamente se il soldato ha detto a qualcuno, come molto spesso capita nel parlare, ‘Io ti nomino mio erede’ oppure ‘ti lascio i miei beni’, non bisogna considerare queste parole come un testamento. A nessuno più che agli stessi cui è stato accordato il privilegio interessa che un exemplum come questo non venga ammesso: altrimenti non sarebbe difficile che, dopo la morte di un soldato, venissero fuori testimoni ad affermare che era loro sembrato di averlo udito dire di voler lasciare i propri beni a qualcuno: in questo modo sarebbero sovvertite tutte le effettive manifestazioni di volontà’.
[De bonis libertorum]
32. D. 38.2.28 (Lenel 32) Se sarà stato condannato un liberto, non bisogna privare i suoi patroni del diritto che spetta loro sui suoi beni, se colui che è stato condannato è deceduto di morte naturale. Ma la parte restante dei suoi beni che per diritto civile non appartiene al manumissor, si ritiene che debba essere rivendicata dal fisco. 1. Le stesse regole disposte per i beni dei condannati si osservano per i beni di coloro che si sono dati la morte per paura di un’accusa o che sono fuggiti.
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Lauretta Maganzani [De adquirenda hereditate]
33. D. 50.16.209 (Lenel 33) ‘Coram Titio’ aliquid facere iussus non videtur praesente eo fecisse, nisi is intellegat: itaque si furiosus aut infans sit aut dormiat, non videtur coram eo fecisse, scire autem, non etiam velle is debet: nam et invito eo recte fit quod iussum est. B. 2.2.201 – Lenel 1889. I. 176 nt. 3: cf. (29.2) 25 § 10
Liber XI
[De legatis]
34. D. 30.116 (Lenel 34) Legatum est delibatio hereditatis, qua testator ex eo, quod universum heredis foret, alicui quid collatum velit. 1. Heredi a semet ipso legatum dari non potest, a coherede potest. Itaque si fundus legatus sit ei qui ex parte dimidia heres institutus est et duobus heredibus, ad heredem cui legatus est sexta pars fundi pertinet, quia a se vindicare non potest, a coherede vero semissario duobus extraneis concurrentibus non amplius tertia parte: extranei autem et ab ipso herede cui legatum est semissem et ab alio herede trientem vindicabunt. 2. Alienus servus heres institutus legari ipse a se nec totus nec pro parte potest. 3. Servo hereditario recte legatur, licet ea adita non sit, quia hereditas personae defuncti, qui eam reliquit, vice fungitur. 4. Fundus legatus talis dari debet, qualis relictus est. Itaque sive ipse fundo heredis servitutem debuit sive ei fundus heredis, licet confusione dominii servitus exstincta sit, pristinum ius restituendum est. Et nisi legatarius imponi servitutem patiatur, petenti ei legatum exceptio doli mali opponetur: si vero fundo legato servitus non restituetur, actio ex testamento superest. B. 44.1.110 – delibatio] FDaK, delibano] W, deliberatio] DbEQIC – alicui] ali‘q’cui F – 1 a coherede] F2DbEQICKb (a coh. potest om. Ka), a te coherede F1 – legatus] legatum ECK – uindicare] indicare uendicare W – semissario] semisse E, semissario in semissem I – concurr.] autem c. Ea – tertia parte] parte tertia D – extranei] FemICK, extraneis FaeWDEQ – autem et] autem D – trientem] trente⊢m⊣ F2 – 2 ipse a se] ipso asse W – 3 ea adita] F, ea her. adita E, adita K, adita hereditas D, hereditas adita IC, hereditarias adita K – personae] persona FaQ – 4 ipse] ipso WI – exstincta] ex⊢s⊣tincta Fb – petenti] petente E – opponetur] opponentur W, opponeretur C – restituetur] restitueretur DE, restituatur CKb, resti K a – Lenel 1889. I. 177 nt. 1: (ad § 3) v. fr. 18.
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Fragmenta [De adquirenda hereditate]
33. D. 50.16.209 (Lenel 33) Se è stato dato l’ordine di fare qualcosa ‘davanti a Tizio’, non si deve ritenere che questo sia stato fatto realmente alla sua presenza se non lo può comprendere: pertanto se si tratta di un pazzo o di un bambino piccolo o di uno addormentato, non si deve ritenere fatto davanti a lui. Costui, tuttavia, deve intendere, non anche volere. Infatti il comando viene rettamente eseguito anche contro la sua volontà.
Liber XI
[De legatis]
34. D. 30.116 (Lenel 34) Il legato è un prelevamento dell’eredità, dalla quale il testatore vuole che qualcosa di ciò che sarebbe divenuto per intero proprio dell’erede venga attribuito a qualcun altro. 1. L’erede non può essere onerato a favore di se stesso, può invece essere onerato a favore dell’erede il coerede. Pertanto se un fondo è stato legato all’erede istituito per metà (del patrimonio ereditario) e a due estranei, appartiene all’erede a cui è stato fatto il legato la sesta parte del fondo, poiché da se stesso egli non può reclamare nulla, invece dal suo coerede non può reclamare più della terza parte della metà poiché vi concorrono i due estranei: invece gli estranei reclameranno dallo stesso erede legatario la metà e dall’altro erede la terza parte. 2. Se uno schiavo altrui è stato istituito erede, egli non può formare oggetto di legato disposto a suo carico, né in toto né pro parte. 3. Si dà legittimamente in legato a uno schiavo ereditario anche se l’eredità non è stata accettata, perché l’eredità fa le veci della persona del defunto che l’ha lasciata. 4. Un fondo deve essere dato in legato tale e quale è stato lasciato. Pertanto sia che il fondo legato fosse servente del fondo dell’erede, sia che il fondo dell’erede fosse servente del fondo legato, benché la servitù si sia estinta per la confusione della proprietà, deve essere ricostituita la precedente situazione giuridica. E se il legatario non permette che sia imposta la servitù, gli si può opporre l’eccezione di dolo: se invece al fondo legato non è restituita la posizione di fondo dominante, soccorre l’actio ex testamento.
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Lauretta Maganzani 35. D. 34.4.14 (Lenel 35) Legata inutiliter data ademptione non confirmantur, veluti si, domino herede instituto, servo pure legatum sub condicione adimatur: nam pure legatum si sub condicione adimatur, sub contraria condicione datum intellegitur et ideo confirmatur. Ademptio autem, quo minus, non quo magis legatum debeatur, intervenit. 1. Quibus ex causis datio legati inutilis est, ex isdem causis etiam ademptio inefficax habetur, veluti si viam pro parte adimas aut pro parte liberum esse vetes. B. 44.17.13 – si domino herede instituto servo pure legatum sub condicione adimatur nam pure legatum si sub condicione adimatur] F1, si (om. D) seruo a (a om. D) domino herede instituto pure legatum si (si om. DIC) sub condicione adimatur nam pure legatum si sub condicione adimatur F2WDK, et sic, sed om. extremis nam (…) adimatur, EQIC – et ideo confirmatur] del., nisi plura exciderunt (ed. maior) – nam] quasi esset quamquam, verterunt Graeci in B. (Tip.) – 1 isdem] ⊢h⊣isdem F2 – editio Bonfante et alii (1931): nam pure (...) confirmatur del. Scial. L I, 177 nt. 2: libro primo inscr. F, undecimo recte F1 – nam pure legatum sc. utiliter datum
36. D. 35.1.34 (Lenel 36) Nominatim alicui legatur ita ‘Lucio Titio’ an per demonstrationem corporis vel artificii vel officii vel necessitudinis vel adfinitatis, nihil interest: nam demonstratio plerumque vice nominis fungitur. Nec interest, falsa an vera sit, si certum sit, quem testator demonstraverit. 1. Inter demonstrationem et condicionem hoc interest, quod demonstratio plerumque factam rem ostendit, condicio futuram. B. 44.19.33
[De usu et usu fructu legato]
37. D. 7.1.42 (Lenel 37) Si alii usus, alii fructus eiusdem rei legetur, id percipiet fructuarius, quod usuario supererit: nec minus et ipse fruendi causa et usum habebit. 1. Rerum an aestimationis usus fructus tibi legetur, deducto eo, quod praeterea tibi legatum est, ex reliquis bonis usum fructum feres: sin autem aestimationis usus fructus legatus est, id quoque aestimabitur, quod praeterea tibi legatum est. nam saepius idem legando non ampliat testator legatum: re autem legata etiam aestimationem eius legando ampliare legatum possumus. B. 16.1.42 – usuario] usario Pa, usuraario L – 1 an aestimationis usus om. P – sin autem aestimationis usus fructus legatus] si naute aest. usum fructum legatus Pa
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Fragmenta 35. D. 34.4.14 (Lenel 35) I legati attribuiti inutilmente non possono venire confermati da un’ademptio, come per esempio se, dopo essere stato istituito erede il padrone, il legato conferito puramente e semplicemente ad uno schiavo gli sia tolto sotto condizione: infatti se un legato puro e semplice viene tolto sotto condizione, allora si considera dato sotto la condizione contraria, e pertanto confermato. Ma l’ademptio interviene ad impedire che un legato sia dato, non a confermarlo. 1. Per le cause per cui l’aver dato un legato è inutile, è ritenuta priva di effetti anche l’ademptio del legato, come se solo in parte si privasse uno del diritto di passaggio o solo in parte gli si proibisse di essere libero.
36. D. 35.1.34 (Lenel 36) Non c’è alcuna differenza se si dà in legato un bene a una persona nominandola così ‘A Lucio Tizio’, oppure indicandola attraverso la descrizione del suo corpo o del suo mestiere o della carica che ricopre o del rapporto di parentela o di affinità che ci lega a lei: infatti, per la maggior parte, la descrizione fa le veci del nome. E non importa se sia falsa o vera, se è chiaro chi il testatore intendeva indicare. 1. Tra la demonstratio e la condicio c’è questa differenza, che la demonstratio per lo più mostra un evento già accaduto, la condicio un evento futuro.
[De usu et usu fructu legato]
37. D. 7.1.42 (Lenel 37) Se a uno è dato in legato l’uso di una cosa e ad un altro l’usufrutto della stessa cosa, l’usufruttuario percepirà ciò che avanzi all’usuario. Nondimeno anche lui (l’usufruttuario) avrà l’uso della cosa fruendi causa. 1. C’è differenza fra il legato di usufrutto di cose e il legato di usufrutto del loro valore: infatti, se ti è stato legato l’usufrutto di cose, otterrai l’usufrutto delle cose che rimangono dopo avere dedotto ciò che ti è stato legato successivamente: se, invece, ti è stato legato l’usufutto del valore di cose, anche questo sarà calcolato, poiché ti è stato legato in aggiunta. Infatti più frequentemente il testatore, quando lega la stessa cosa (già legata prima), non amplia l’oggetto del legato. Invece se una cosa è già stata legata prima, possiamo, legando anche il suo valore, ampliare l’oggetto del legato.
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Lauretta Maganzani [De peculio legato]
38. D. 15.1.39 (Lenel 38) Peculium et ex eo consistit, quod parsimonia sua quis paravit vel officio meruerit a quolibet sibi donari idque velut proprium patrimonium servum suum habere quis voluerit. B. 18.5.39
[De suppellectili legata]
39. D. 33.10.2 (Lenel 39) [Suppellex…] id est res moventes non animales. B. 44.13.2
[De auro et argento legato]
40. D. 34.2.29 (Lenel 40) Si quando alterius generis materia auro argentove iniecta sit, si factum aurum vel argentum legetur, et id quod iniectum est debetur. 1. Utra autem utrius materiae sit accessio, visu atque usu rei, consuetudinis patris familias aestimandum est. Utra (…) aestimandum est B. 44.15.27 – iniecta] intecta? (ed. maior) – iniectum] intectum? (ed. maior) – 1 visu atque usu rei, consuetudinis patris familias] visu rei atque usu patris familias? (ed. maior) – editio Bonfante et alii (1931): consuetudine edd. cum Bas.
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Fragmenta [De peculio legato]
38. D. 15.1.39 (Lenel 38) Il peculio è formato anche da ciò che uno si è procurato con il suo risparmio oppure che ha ricevuto in dono da qualcuno per un servizio prestato e che il padrone ha voluto che il suo schiavo tenesse come proprio patrimonio.
[De suppellectili legata]
39. D. 33.10.2 (Lenel 39) (Suppellettile) cioè cose mobili, non animali.
[De auro et argento legato]
40. D. 34.2.29 (Lenel 40) Se è stata introdotta nell’oro o nell’argento una materia di altro genere ed è stato legato oro o argento lavorato, è dovuto anche ciò che è stato introdotto. 1. Quale delle due materie sia acceduta all’altra, deve essere valutato sulla base dell’aspetto e dell’uso della cosa, secondo la consuetudine del padre di famiglia.
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Lauretta Maganzani [De fideicommissis?]
41. D. 35.2.90 (Lenel 41) Si heres, cuius fidei commissum est, ut accepta certa pecunia hereditatem restituat, a voluntate eius qui testamentum fecit discedat et postea legis Falcidiae beneficio uti volet: etsi non detur ei, quo accepto hereditatem restituere rogatus est, tamen fideicommissum restituere cogi debet, quoniam quod ei pater familiae dari voluit legis Falcidiae commodum praestat. B. 41.1.89 – postea] ὔστερον B (Anon.): pro ea? (ed. maior)
Liber XII [Deest]
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Fragmenta [De fideicommissis?]
41. D. 34.2.29 (Lenel 41) Se l’erede a cui è stato imposto per fedecommesso di restituire l’eredità accepta certa pecunia, si discosta dalla volontà del testatore e poi vuole usufruire del beneficio della lex Falcidia: anche se non gli è stata data la somma, accettata la quale egli è pregato di restituire l’eredità, tuttavia deve essere costretto ad eseguire il fedecommesso, poiché ciò che il pater familias ha voluto che gli fosse dato assicura il beneficio della lex Falcidia.
Liber XII [Manca]
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IV COMMENTO AI TESTI
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INSTITUTIONUM LIBRI XII
LIBRO I
F. 1 – D. 1.1.3 Il frammento è posto, nella Palingenesi leneliana, sotto la rubrica De iustitia et iure. Esso è riportato nel Digesto mutilo della parte iniziale, in quanto collegato dai compilatori ai due testi precedenti come per formare un discorso unitario1. La trattazione parte infatti da Ulp. 1 inst., D. 1.1.1.4, che definisce il ius gentium come quel diritto quo gentes humanae utuntur e lo contrappone al ius naturale in quanto illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit. A questo i compilatori hanno fatto seguire due esempi di regole applicabili al solo genere umano, e cioè in primo luogo quella della devozione religiosa e dell’obbedienza ai genitori e alla patria – tratti da un testo del liber singularis enchiridii di Pomponio (Veluti erga deum religio: ut parentibus et patriae pareamus) – e poi appunto quella della tutela corporis sui tratta dal testo di Fiorentino: Ulp. 1 inst., D. 1.1.1.4: Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur. quod a naturali recedere facile intellegere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit. Pomp. lib. sing. enchir., D. 1.1.2: Veluti erga deum religio: ut parentibus et patriae pareamus: Flor. 1 inst., D. 1.1.3: Ut vim atque iniuriam propulsemus: nam iure hoc evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse existimetur, et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse.
Questa è la ragione per cui Lenel, nella Palingenesia, ha premesso al testo florentiniano l’inciso [Iure gentium fit] adeguandosi alla portata da esso assunta nel contesto del Digesto giustinianeo.
1
Per un’esegesi approfondita, cfr. supra, III.II.2.
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Lauretta Maganzani Pare tuttavia più verosimile che Fiorentino, nel contesto originario, si riferisse allo ius naturale, come attesta anche il riferimento, che si trova nella seconda parte del passo, alla natura che crea fra gli uomini un legame di parentela. Ciò è confermato dal confronto con altri testi che richiamano la ‘natura’ come fondamento del principio della difesa del proprio corpo dalle insidie altrui: ad es. Cicerone nella pro Milone 102 richiama una non scripta, sed nata lex, fondata sulla natura, che legittima ogni reazione, anche violenta, alle insidie dirette contro la propria incolumità personale, alla vis, ai tela dei latrones e dei nemici (il tutto al fine, ovviamente, di scagionare Milone dall’accusa di omicidio del rivale politico Clodio)3. Nello stesso senso recita un passo di Ulpiano in tema di tutela interdittale contro le spoliazioni violente (69 ad ed., D. 43.16.1.27) citando l’autorevole parere di Gaio Cassio Longino, il quale aveva ricollegato alla natura la liceità di vim vi e arma armis repellere (Vim vi repellere licere Cassius scribit idque ius natura comparatur: apparet autem, inquit, ex eo arma armis repellere licere) 4. Infine un passo di Gaio tratto dal settimo libro del commento all’editto provinciale, D. 9.2.4pr., invoca la naturalis ratio a sostegno del diritto alla propria difesa personale contro un’insidia altrui diretta contro la propria incolumità fisica (Itaque si servum tuum latronem insidiantem mihi occidero, securus ero: nam adversus periculum naturalis ratio permittit se defendere) 5. Si noti fra l’altro l’uso – comune a Cicerone, Gaio, Fiorentino – dei termini insidiari-insidians-insidator6 per alludere al comportamento violento dell’offensore a cui è legittimo reagire con pari violenza per la propria difesa personale. In ogni caso, come già evidenziato nella I Parte del volume, il frammento, soprattutto nella seconda parte, pare fondare la regola affermata nel principium su un concetto extragiuridico: sembra infatti richiamare la cd. oikeiosis, cioè l’istinto di autoconservazione proprio di ogni essere vivente che, negli uomini, raffinato dalla ragione, crea una tensione positiva verso la piena corrispondenza del proprio vivere alla razionalità cosmica e porta con ciò a riconoscere l’eguaglianza di tutti gli uomini e l’esistenza di una parentela naturale fra loro7. Ecco allora, in sintesi, il probabile significato del testo: l’istinto primordiale alla difesa del proprio corpo dalle insidie altrui si fonda sulla natura che, da una parte, instilla nell’uomo come negli altri esseri viventi la tendenza all’autoconservazione e quindi all’autodifesa; dall’altra, nell’uomo soltanto, crea progressivamente, sulla base della ragione, la consapevolezza dell’esistenza di una parentela naturale con i suoi simili, di qualunque condizione e stato, la quale rende nefas ogni attentato all’integrità fisica di ciascuno di essi.
2 Sul tema Querzoli 1996, 138-150; Behrends 2002, 45 ss., 98; Querzoli 2004, 277 ss.; Varvaro 2013, 215-255. In pro Mil. 9 Cicerone cita anche le XII Tavole sul diritto di uccidere il fur nocturnus e quello diurnus ‘si se telo defendit’ (tab. 8.12, 13, 14 = FIRA2 Leges, 57-59): per tutti Cursi 2016, 305 ss. Ciò costituiva un topos anche per la tradizione filosofica: cfr. ad es. Platone che, in leg. 870d-e, 874b-c, 881b, dichiarava ‘puro e immune da colpa’ l’uccisore del ladro notturno o del rapinatore a scopo di difesa. 3 Sul principio, cfr. anche Cic. de inv. 2.65 ss.; 2.161; top. 84 e 90; ad fam. 12.3.1; pro Sest. 90-92. Sulla tutela del proprio corpo Cic. de fin. 5.37. 4 Querzoli 1996, 151-153. Altri riferimenti alle fonti in Querzoli 2004, 277 ss. 5 Querzoli 1996, 153-155. 6 Termine giudicato da Guarino 1939, 457-466 interpolato, ma senza valide ragioni. Si veda, infatti, nello stesso contesto, l’uso della parola in Gai. 7 ad ed. prov., D. 9.2.4pr. (insidiantem); in Cic. pro Mil. 10 (insidiatori), 11 (insidiatorem), 14 (insidiae). 7 Radice 2000, passim; Fiasse 2002, 527 ss.; Casavola 2004, 425; Forschner 2008, 169-192; Marotta 2010, 192193; Radice 2012, 92; Grecchi 2018, 262-264; Murgier 2013, 13.
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Commento Significativo è in questo contesto l’uso del termine nefas, tipico del linguaggio giuridicoreligioso romano: esso mostra che Fiorentino, nel proemio della sua opera didattica, riprendeva sì principi filosofici ma non lo faceva passivamente, quanto rielaborandoli e presentandoli sotto un profilo prettamente giuridico.
LIBRO III
F. 2 – D. 23.1.1, 3 Il secondo passo delle institutiones di Fiorentino nella ricostruzione palingenetica di Otto Lenel si compone di due frammenti che nei Digesta di Giustiniano si presentano separati. Si tratta di D. 23.1.1 e 3, posti dai giustinianei in esordio al titolo 23.1 dedicato al fidanzamento (De sponsalibus) ma intercalati da un testo tratto dal liber singularis de sponsalibus di Ulpiano dedicato alle origini degli sponsali: Flor. 3 inst., D. 23.1.1: Sponsalia sunt mentio et repromissio nuptiarum futurarum. Ulp. lib. sing. de sponsal., D. 23.1.2: Sponsalia autem dicta sunt a spondendo: nam moris fuit veteribus stipulari et spondere sibi uxores futuras. Flor. 3 inst., D. 23.1.3: Unde et sponsi sponsaeque appellatio nata est.
Lenel ha evidentemente ritenuto che, nell’opera di Fiorentino, D. 23.1.1 e 3 costituissero un unicum e che questo poi sia stato frazionato dai compilatori intercalando il richiamo ulpianeo alle origini degli sponsalia. Si tratta tuttavia di una scelta palingenetica incerta e per di più non ininfluente sul significato complessivo del testo: essa, infatti, induce l’interprete ad attribuire all’inciso finale del passo ‘Unde et sponsi sponsaeque appellatio nata est’ un significato diverso da quello che ha nella compilazione giustinianea. Infatti in quest’ultima, alla definizione florentiniana del fidanzamento come proposta e correlativa promessa di nozze future, segue l’etimologia ulpianea di sponsalia da ‘spondere’ giustificata dall’uso romano arcaico di richiedere e promettere una donna in moglie attraverso la forma contrattuale-rituale della sponsio, e tutto ciò si completa con l’osservazione di Fiorentino per cui proprio da tale antico mos deriverebbe l’uso di chiamare i fidanzati rispettivamente sponsus e sponsa. Al contrario la ricostruzione leneliana fa dire a Fiorentino che gli appellativi di sponsus e sponsa, ancora usati alla sua epoca per i fidanzati, derivano dal termine latino sponsalia in uso per il fidanzamento. Potrebbe ben essere, invece, che, anche nella versione originaria delle Istituzioni di Fiorentino, D. 23.1.1 e 3 costituissero due testi distinti appartenenti a un diverso contesto e che, anche per il nostro giurista, i termini sponsus e sponsa derivassero, secondo l’opinione comune, dal verbo spondere. Quanto alla definizione florentiniana di sponsalia come ‘mentio et repromissio nuptiarum futurarum’, la sua genuinità è stata messa in dubbio, pur con una certa cautela (segnalata 111
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Lauretta Maganzani dal punto interrogativo) sia da Mommsen8 , sia da Fadda (nell’edizione milanese)9. Il primo proponeva in luogo del termine mentio – unanime nei manoscritti – quello di conventio10; il secondo quello di sponsio nonostante le testimonianze dei Basilici e relativi scholia che confermano la lezione tràdita11. La ragione dei dubbi stava nell’incertezza della parola mentio nel senso di ‘proposta’, ignota come tale alle altre fonti giuridiche. Al contrario molte fonti letterarie presentano, come si vedrà, il fidanzamento o come accordo informale fra lo sposo (o suo padre) e il padre (o tutore) della sposa (da qui la correzione mommseniana) o come sponsio reciproca o unilaterale (da qui la correzione di Fadda). Ma già nel 1907 una memoria di Giuseppe Brini presentata alla Classe di Scienze morali della R. Accademia delle Scienze di Bologna12, dimostrò la genuinità della lezione tràdita. Egli infatti riportò alcune fonti (Liv. 29.23.313; Plaut. aulul. 204-20514, 68515) dalle quali il termine mentio risultava significare proprio ‘proposta di matrimonio’. Le sagaci osservazioni di Brini indussero Fadda a ritornare sui suoi passi, accogliendo senza riserve la tesi della genuinità del testo16 e da allora non pare che alcun altro autore ne abbia più dubitato17. Non è comunque facile comprendere a fondo le parole di Fiorentino collocandole in un contesto coerente. Infatti le fonti a nostra disposizione sugli sponsalia sono spesso complesse e in apparente contrasto fra loro. Pare, tuttavia, che un riesame delle stesse consenta di evidenziare la possibile evoluzione dell’istituto e, su questa base, l’effettiva portata del testo di Fiorentino18. Una prima serie di fonti attesta l’esistenza di una fase storica, probabilmente molto risalente, in cui gli sponsali avvenivano per il tramite di reciproche sponsiones fra il ‘pretendente’ (o suo padre se alieni iuris) e il padre della prescelta, accompagnate da riti religiosi e libagioni agli dei confermati ancora per l’età augustea da Verrio Flacco in una citazione del de verborum significatione di Festo19.
8 Mommsen 1870, Dig. ed. maior I, 656 nt. 1; Mommsen, Krüger 1911, Dig. ed. minor, 330 nt. 3. La proposta fu seguita, ad es., da Karlowa 1901, 178. 9 Bonfante, Fadda, Ferrini, Riccobono, Scialoia 1931, 520 nt. 2. 10 Sulle ragioni della proposta di emendazione e del suo successivo, generalizzato rifiuto da parte della dottrina romanistica, ampiamente Labruna 2005, 114-121 (con la lett. prec.). 11 B. 28.1.1 e sch. ad l. 12 Brini 1906-7, 22-25. 13 Sed mentio quoque incohata adfinitatis, ut rex duceret filiam Hasdrubalis. Ad eam rem consummandam, tempusque nuptiis statuendum. 14 Credo, edepol, ubi mentionem ego fecero de filia, mi ut despondeat, sese a me derideri rebitur. 15 Fac mentionem cum avuncolo. 16 Fadda 1910, 241-243. Nonostante ciò la proposta di Fadda è rimasta nell’edizione del Digesto milanese del 1931 (in un unico volume, mentre nel 1908 l’opera era stata stampata in due volumi). 17 Cfr. ad es. Bonfante 1963, 307 nt. 2; Kupiszewski 1967 (2000), 74 e nt. 8 (195 e nt. 8); Astolfi 1994, 67 nt. 13; Franciosi 1995, 150 nt. 55; Labruna 2005, 114-121; Ferretti 2020, 145. Accolgono il passo come genuino, senza riferimento alle proposte editoriali di cui sopra, da ultimi, Bramante 2007, 111; Ingallina 2016/17, 3 nt. 3; Greco 2018, 20 nt. 43; Piro 2018, 66. 18 Interessanti osservazioni in Piro 2018, 65-102 sull’aspetto linguistico e semantico del termine sponsalia. 19 Fest. de verb. sign., s.v. spondere (Lindsay 440.1): sul testo v. oltre.
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Commento In particolare un testo di Aulo Gellio (noct. Att. 4.4.1-3)20, citando da un’opera di Servio Sulpicio Rufo sulla dote e da un’altra di Nerazio Prisco sul matrimonio, attesta che nel Lazio, fino alla concessione della cittadinanza romana a seguito della lex Iulia del 90 a.C., il fidanzamento constava di due reciproche sponsiones: la prima dell’uomo che prometteva di sposare la donna, la seconda del padre di lei che prometteva che l’avrebbe concessa in moglie. In caso di inadempimento di una delle parti, l’altra avrebbe avuto la titolarità di un’actio ex sponsu da cui sarebbe derivato un processo nel quale i giudici, in mancanza di un giusto motivo per il rifiuto del matrimonio, avrebbero condannato il convenuto ad una somma pari alla valutazione economica del suo interesse insoddisfatto (litem pecunia aestimabat, quantique interfuerat eam uxorem accipi aut dari, eum, qui spoponderat, ei qui stipulatus erat, condemnabat). È verosimile che la medesima procedura fosse seguita in età arcaica anche dai Romani21 ma che poi, sin dal III sec. a.C., il diritto di questi si sia evoluto rispetto a quello delle altre città latine, le quali invece si sarebbero adeguate alla regolamentazione della capitale soltanto dopo l’acquisto della civitas romana a seguito della guerra sociale22. È probabile poi che dall’uso di due sponsiones reciproche, tipico dell’età più risalente, si sia passati, intorno al III sec. a.C., ad una sponsio-stipulatio fra l’uomo (stipulante) e il padre (o tutore) della donna (promittente), come attesta Ulpiano nel lib. sing. de spons., D. 23.1.2 (Sponsalia autem dicta sunt a spondendo: nam moris fuit veteribus stipulari et spondere sibi uxores futuras). Tale sponsio doveva avere per oggetto sia il fidanzamento vero e proprio, sia le condizioni patrimoniali del futuro matrimonio, in particolare l’ammontare della dote. Ovviamente la sponsio doveva essere l’atto finale di una trattativa intercorsa fra le parti e inaugurata dalla proposta del pretendente (mentio): più volte, infatti, le fonti parlano di una mentio e di una pactio antecedenti alla sponsio vera e propria. Una messe di notizie su queste pratiche co-
20 Sul passo, da ultimi, Piro 2018, 70 ss. e Ferretti 2020, 143-144 nt. 8, con altra lett., fra cui, in particolare, Astolfi 1994, 9 ss. 21 Così già Karlowa 1901, 178; poi, ad es., Volterra 1991, 15-16; Volterra 1991, 344-345; Volterra 1991, 499-500; Gaudemet 1955 (1979) 48-49 (24-25); Astolfi 1992, 262 ss.; Franciosi 1995, 152-154; Bramante 2007, 111. 22 Nel medesimo senso testimonia il grammatico Servio nel suo commento all’Eneide 10.79 (quid soceros legere et gremiis abducere pacta […]?) in cui Giunone, protettrice di Turno, re dei Rutuli, contro Enea, protetto da Venere, domanda a quest’ultima se ritenga giusto che i Troiani, nuovi arrivati sulle coste del Lazio, facciano prepotenza ai Latini, opprimano i loro territori, ‘si impongano con la forza ai suoceri e strappino ai grembi materni le fanciulle promesse’. Con riferimento al termine pacta utilizzato da Virgilio per le fidanzate secondo un uso noto anche ad altre fonti (infra), il commentatore tardoantico osserva che propriamente è la fanciulla ad essere oggetto di sponsio da parte del padre, mentre il suo pretendente si chiama sponsus non perché venga a sua volta promesso ma perché promette in prima persona con sponsio di sposare la giovane e fornisce all’uopo anche garanti. Se dunque Virgilio aveva utilizzato per le fidanzate il termine pacta che, come si vedrà, era usuale alla sua epoca, Servio, probabilmente servendosi di fonti più antiche, ben anteriori allo stesso Virgilio, lo spiega rinviando alla pratica della sponsio, reciproca e garantita, fra il pretendente e il padre della prescelta. Alla medesima procedura allude Isidoro di Siviglia in orig. 9.7.3-4, rifacendosi al passo di Servio or ora citato: egli attesta, infatti, come, prima dell’uso, invalso dagli inizi dell’impero, di documenti scritti (tabellae) per la promessa di matrimonio e la regolamentazione dei suoi aspetti patrimoniali, in particolare la dote, le parti in causa (sponsus e padre della sponsa) erano solite, al fine di consentire l’un l’altro agli iura matrimonii, scambiarsi reciproche sponsiones garantite da fideiussores.
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Lauretta Maganzani muni viene dalle commedie plautine23. A tale uso della sponsio allude anche un controverso passo del de lingua latina di Varrone24. Ma, com’è noto, progressivamente, forse a partire dal II secolo a.C., il matrimonio si trasformò in un rapporto di mero fatto fondato sulla volontà permanente dei coniugi di mantenere intatto il loro legame (affectio maritalis) a partire da un momento iniziale nel quale esso, attraverso cerimonie di valenza religiosa e sociale, era stato contratto. Venne via via meno, invece, l’uso della conventio in manum a scopo di matrimonio e, con essa, della sottoposizione formale della moglie loco filiae al potere del pater familias. È verosimile che tale mutamento abbia influenzato anche il regime del fidanzamento, sempre fondato su cerimonie religiose e riti sociali prestabiliti25 ma non più in sé produttivo di obligatio civile bilaterale o unilaterale26. Da qui l’osservazione di Verrio Flacco, grammatico di età augustea, richiamata nel de verborum significatione di Festo, secondo cui i termini sponsus e sponsa deriverebbero dal greco σπονδαί, cioè libagioni, quelle che i futuri coniugi facevano durante il rito del fidanzamento27. Evidentemente nel corso dell’età augustea, quando Verrio Flacco scrive, il fidanzamento aveva perso già da tempo il carattere obbligatorio tipico delle origini per divenire scambio di consenso alle nozze future, preceduto da numerosi incontri e accordi fra le parti, accompagnato da riti religiosi e occasioni conviviali e costituito da una proposta informale (mentio) da parte maschile e una correlativa promessa (repromissio) da parte femminile (attraverso il padre o il tutore), come risulta appunto da [F. 2] di Fiorentino28. Tale scambio di consensi non richiedeva alcuna formalità (Ulp. 35 ad Sab., D. 23.1.4pr.) anche se spesso, nelle fonti, si parla ancora di sponsio o desponsio (es. Liv. 1.26.2; Apul. metam. 4.32; Cic. ad fam. 8.7.2; ad Quint. fratr. 2.6[5].1) secondo l’uso tradizionale; poteva avvenire anche tra assenti – anzi era questa la prassi consueta – (Ulp. 35 ad Sab., D. 23.1.4.1) o per interposta persona (Ulp. 6 ad ed., D. 23.1.18). Inoltre, come per il matrimonio, la donna non era più mero oggetto di trattativa contrattuale, ma doveva consentire al legame o ratificare quanto stabilito da altri (Pomp. 16 ad Sab., D. 23.1.5; Paul. 35 ad ed., D. 23.1.7.1) espressamente (Iul.
23 Sulla mentio cfr. supra. Sulla pactio e successiva sponsio, cfr., ad es., Plaut. aulul. 255-257; curc. 672-675; poen. 1156; trin. 499-502; 569-575; 1156-1163; cfr. anche Ter. Andr. 99 ss. Sulla base di queste attestazioni, Treggiari 1991, 142 afferma che “The precision with which Plautus uses the verbal contract to emphasize the moment when a formal engagement is made, marking it in some instances as a dramatic climax, suggests that in his day the sponsio was still a vital custom”. Sul diritto nelle commedie di Plauto, con riferimento specifico agli sponsalia, Bramante 2007, 108-115. 24 Varro de ling. lat. 6.70-72. Il testo non è dei più perspicui, ma pare comunque attestare l’uso di promettere con sponsio la figlia al pretendente, insieme a una somma di denaro per il caso in cui la promessa non fosse mantenuta (spondebatur pecunia aut filia nuptiarum causa). Nel caso di inadempimento, poi, il padre della sponsa avrebbe subito un doppio giudizio: uno dinanzi al pretore per l’inottemperanza alla lex (da intendere, forse, come ‘clausola penale’ inserita nella sponsio); uno dinanzi ai censori, fondato sull’equità, per la grave infrazione dei mores di cui si era macchiato. Cfr. Albanese 1992, 134-167; Astolfi 1994, 23 ss.; Franciosi 1995, 150 s.; Bartocci 2002, passim; Iodice 2003 76-83; Piro 2018, 70-71; Ferretti 2020, 144 e nt. 12 con altra lett. 25 Treggiari 1991, 145-153; Piro 2018, 73 ss. 26 Scrive Treggiari 1991, 142: “It seems likely that the verbal contract had gone out of use during the second century”. Contra Mitchell 2016, 400 ss. 27 Lindsay 440.1: Spondere Verrius putat dictum, quod sponte sua, id est voluntate, promittatur; deinde oblitus inferiore capite sponsum et sponsam ex graeco dictam ait, quod ii σπονδὰς interpositis rebus divinis faciunt. 28 Cfr. Franciosi 1995, 149 s.
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Commento 16 dig., D. 23.1.11) o anche con un silenzio assertivo (Ulp. lib. sing. de spons., D. 23.1.12pr.; Paul. 35 ad ed., D. 23.1.7.1, che cita Giuliano)29. Ciò, tuttavia, non significa che l’informale scambio di consensi non fosse spesso accompagnato da una serie di accordi preliminari e anche da una stipulazione, magari redatta per iscritto a scopo probatorio, in ordine alle condizioni economiche del matrimonio, con particolare riferimento ai doni fra i fidanzati e alla futura dote. La differenza rispetto al passato doveva stare, comunque, nella separazione tra i due momenti, personale e patrimoniale: per la promessa vera e propria era sufficiente, infatti, lo scambio informale del consenso (e di questo testimonia in primis Fiorentino) accompagnato da cerimonie, il che non obbligava civilmente le parti perché ciò era ritenuto contra bonos mores (Paul. 15 resp., D. 45.1.134pr.); le condizioni economiche della futura unione potevano, invece, essere statuite sia attraverso pattuizioni preliminari informali, sia attraverso stipulatio (come si dice nel già cit. D. 45.1.134pr.), spesso contratta da intermediari (cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 23.1.18) e naturalmente sottoposta alla condizione che il matrimonio avesse luogo (cfr. Ulp. 35 ad Sab., D. 23.3.21; Iul. 16 dig., D. 12.4.7.1) 30. Il frammento rientra dunque in tale contesto: Fiorentino, tuttavia, si limita a definire gli sponsalia come accordo informale quali erano effettivamente divenuti sin dall’inizio dell’impero, senza menzionare le numerose pattuizioni e stipulazioni sugli aspetti patrimoniali del futuro rapporto che il più delle volte lo precedevano o lo accompagnavano. F. 3 – D. 23.4.24 Sin dall’età arcaica doveva essere radicato l’uso di costituire una dote a favore della nubenda o della sposa al fine di sostenere gli oneri del matrimonio. Si trattava, tuttavia, di un mero dovere sociale, anche perché con la conventio in manum la donna diveniva loco filiae rispetto al
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Sul tema del consenso della filia familias agli sponsali conclusi dal padre, da ultimo, Greco 2018, 18-26. A questo fa pensare un passo di Arnobio di Sicca (adv. nation. 4.20.2) che, criticando i pagani per l’uso di riconoscere agli dei sembianze e abitudini umane, domanda retoricamente: ‘habent speratas, habent pactas, habent interpositis stipulationibus sponsas?’ (‘hanno forse fanciulle desiderate, promesse, fidanzate rese tali attraverso stipulazioni?’). Esso pare infatti presupporre che gli sponsalia veri e propri, costituiti da una proposta matrimoniale e una promessa corrispondente, fossero di solito accompagnati da stipulazioni per gli aspetti patrimoniali del rapporto, redatte poi per iscritto su tabellae matrimonii o tabulae nuptiales. Ma a tali pattuizioni precedenti o contemporanee al fidanzamento vero e proprio alludono anche altre fonti: ad es. Iuven. 6.25-26 (Conventum tamen et pactum et sponsalia nostra tempestate paras) dove l’A., rivolgendosi all’amico Postumio, sottolinea che, malgrado la decadenza delle consuetudini matrimoniali, quello prepara comunque il proprio matrimonio con conventum, pactum e sponsalia; Fest. s.v. conventae condicio (Lindsay 54 Conventae condicio dicebatur, cum primus sermo de nuptiis et earum condicione habebatur); un passo del commento di Servio ad Aen. 10.723 in cui, a proposito di un ornamento di porpora donato ad Acrone dalla fidanzata, quest’ultima viene indicata come pacta coniunx: ebbene il commentatore, all’espressione ‘pactae coniugis’, precisa ‘hic ordo est: conciliata primo, dein conventa, dein pacta, dein sponsa’, mostrando che una sequenza di pattuizioni erano previste per la conclusione del fidanzamento. Donat. ad Ter. Phorm. 474, che accenna ad una convenientia come patto fra la parte maschile e il ‘portavoce’ di quella femminile, per la futura celebrazione delle nozze. In un lemma di Nonio 5.69 (Gatti, Salvadori 2015 = Lindsay 706) si indica che una virgo, prima di essere chiesta in sponsa (priusquam petatur in sponsa) è detta sperata, poi diventa promissa o, più precisamente, dicta, pacta o sponsa. Infine Albanese 2002, 11-15 sottolinea come il verbo ‘conciliare’ abbia il significato di ‘adoperarsi, presso due soggetti interessati, al fine di favorire un futuro matrimonio’: così, ad es., in Fest., s.v. conciliatrix (Lindsay 54); Corn. Nep. 25.12.2 (Atticus); Plaut. mil. gl. 1410; trin. 386; 442-444. Aggiunge di non escludere che in questa attività prenuziale del conciliare fosse ricompresa, in età risalente, un’offerta preliminare o una promessa di doni alla controparte da colui che caldeggiava le nozze. 30
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Lauretta Maganzani pater familias e dunque il patrimonio da essa portato confluiva in quello familiare. Ma in progresso di tempo non solo venne meno la pratica della conventio in manum e si introdusse quella del matrimonio come unione di fatto libera di forme, ma si diffusero anche i casi di divorzio: la tradizione riportata da Aulo Gellio noct. Att. 4.3.2 ne fa risalire il primo caso alla metà del III secolo a.C., richiamando il ripudio della moglie da parte di Spurio Carvilio Ruga a causa della sterilità di lei. Proprio da quell’episodio, secondo un passo del liber de dote di Servio Sulpicio Rufo citato da Gellio, si diffuse l’uso di un’apposita cautio rei uxoriae, stipulata prima o al momento delle nozze, per la restituzione della dote in caso di scioglimento del matrimonio. All’actio ex stipulatu fondata sulla cautio consensuale, si aggiunse presto un’apposita actio rei uxoriae per la restituzione della dote, di origine e contorni incerti, la cui formula, contenendo un richiamo espresso al bonum et aequum, consentiva al giudice valutazioni equitative31. Da qui nacque l’obbligo giuridico del marito di restituire la dote in caso di scioglimento del matrimonio ma, probabilmente per opera dell’interpretatio giurisprudenziale, egli fu legittimato ad opporre un’exceptio finalizzata a trattenerne alcune quote per particolari finalità (cd. retentiones)32: fra queste retentiones, la più importante era quella disposta propter liberos per la quale il marito manteneva un quinto o un sesto della dote per ogni figlio a seconda che il matrimonio si fosse sciolto per morte della moglie o per divorzio dovuto a colpa di lei (tit. Ulp. 6.4, 10; Paul. 7 resp., Vat. 108). Tuttavia la coppia era anche autorizzata ad adottare un regime diverso da quello legale attraverso un’apposita convenzione e tale pratica si diffuse tanto da giustificare l’esistenza, nel Digesto e nel Codice giustinianeo, di due appositi titoli dedicati ai pacta dotalia (D. 23.4 de pactis dotalibus; C. 5.14 de pactis conventis tam super dote quam super donatione ante nuptias et paraphernis): è a questo sistema convenzionale alternativo che Fiorentino allude in [F. 3], dove appunto parla di un apposito pactum stipulato inter virum et uxorem con la funzione di aumentare la retentio propter liberos a cui il marito era generalmente legittimato33. Si tratta di un patto dotale piuttosto comune (cd. pactum de non reddenda dote o de lucranda dote) che, a favore dei figli, ammetteva che la donna potesse rimanere in tutto o in parte priva dei beni dotali quando lo scioglimento del matrimonio fosse avvenuto per morte di lei o per divorzio non dovuto a colpa del marito34. Esso rappresentava un’eccezione giustificata dall’interesse dei figli al principio generale dell’invalidità dell’accordo di non restituzione della dote (Paul. 35 ad ed., D. 23.4.12.1; Paul. 35 ad ed., D. 23.4.16) e del divieto di peggioramento della condizione della donna attraverso pacta de dote (Paul. 35 ad ed., D. 23.4.14; Proc. 11 epist., D. 23.4.17; Ulp. 33 ad ed., Vat. 120)35: infatti, come scrive Pomponio, la dote era volta ad subolem procreandam replendamque liberis civitatem (15 ad Sab., D. 24.3.1). Per la stessa ragione il patto non contravveniva al principio base per cui la dote era destinata a sostenere gli oneri del matrimonio (cfr. ad es. Paul. 6 ad Plaut., D. 23.3.56.1). Questa particolare convenzione aveva poi, come si può dedurre dal confronto di [F. 3] con altri
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Varvaro 2006, passim; di recente Giumetti 2018, 2-11 con altra lett. I casi di retentio, introdotti nell’ambito della prassi dei iudicia rei uxoriae, furono poi minutamente elaborati dai giuristi: cfr. Franciosi 1995, 193-195; Salomón Sancho 2008, on line. 33 Knütel 2014, 73-74. 34 Cfr. Cic. top. 19; Ulp. 19 ad Sab., D. 23.4.2; Paul. 35 ad ed., D. 23.4.12pr.; Afric. 7 quaest., D. 23.4.23; Pap. 4 resp., D. 23.4.26pr.; Ulp. 19 ad Sab., D. 33.4.1.1; Ulp. 33 ad ed., Vat. 120; C. 5.14.3 del 239. Cfr. Burdese 1959, 172176; Magagna 2002, 269-280; Stagl 2009, 109-112; Knütel 2014, 47-78. 35 Sánchez-Moreno Ellart 2016, 123-131. 32
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Commento frammenti che ad essa si riferiscono36, un formulario preciso: in particolare era sempre presente l’espressione interveniens o intervenientes riferita al figlio o ai figli nel cui interesse il marito era autorizzato a trattenere la dote in misura superiore alla quota legale. Fiorentino si preoccupa proprio di fornire un’interpretazione precisa dell’espressione ob liberos intervenientes: il termine intervenientes, infatti, è di per sé ambiguo e potrebbe far cadere nell’equivoco di ritenere che beneficiari del patto fossero i soli figli nati dopo la sua stipulazione. In realtà la convenzione doveva, secondo il giurista, produrre i suoi effetti nei confronti di tutti i figli nati da quel matrimonio, indipendentemente dal fatto che fossero o non fossero già nati al tempo della stipulazione37. Nel testo tràdito dalla littera Florentina il verbo che indica il contenuto della convenzione fra i coniugi è al plurale (retineantur) ed è stato corretto in singolare dagli editori per coordinarlo col soggetto singolare certa pars (dotis vel tota). Krüger ha proposto inoltre di sostituire il quo della frase finale (in quo dos data est) in quod, per indicare che la dote viene data ‘per il matrimonio’ non ‘nel matrimonio’38: ma si tratta di un intervento non indispensabile39. F. 4 – Fr. Sin. 13 I cd. scholia o fragmenta Sinaitica sono commenti in greco relativi ai libri 35-38, in tema di dote e tutela, dei libri ad Sabinum di Ulpiano. Furono ritrovati da G. Bernadakis nella biblioteca del Monastero di S. Caterina sul monte Sinai nel 1874 o 75 (certo prima del 1879) su fogli di papiro che erano stati riutilizzati come copertina di un libro e, editi per la prima volta nel 1880 da R. Dareste sulla base di un apografo inviatogli dallo scopritore, furono identificati e riediti da Karl Eduard Zachariae von Lingenthal nel 1881 e poi da Paul Krüger nel 1883. Su quest’ultima edizione si basano le edizioni più recenti e attualmente utilizzate, come quella dei FIRA40. Tratti da un’opera destinata all’educazione giuridica – come dimostrano le frequenti esortazioni rivolte agli studenti (ad es. ‘si noti che’ ‘σημείωσαι ὅτι’ o ‘impara che’ ‘μάθε ὅτι’ o ‘passa oltre’ ‘Δίελθε’) – furono probabilmente redatti fra il 438 e il 529, visto che citano estratti del Codex Theodosianus ma non di quello giustinianeo. Le materie trattate dovevano rientrare nell’insegnamento del primo anno nel quale – come si ricava dal § 1 della const. Omnem – prima della riforma giustinianea si leggevano per estratti, oltre alle institutiones gaiane, quattro parti (de re uxoria, de tutelis, de testamentis e de legatis) dei libri ad Sabinum di Ulpiano41. Si tratta di commenti in greco a un testo che probabilmente gli studenti avevano davanti in lingua origi-
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Cfr. supra, nota 33. Querzoli 1991, 84-85 rileva, a mio avviso senza giustificazione, un influsso stoico nel pensiero del giurista espresso in questo testo nonché un collegamento con la teoria dell’oikeiosis di cui in [F. 1] D. 1.1.3, in quanto esso rivelerebbe l’importanza riconosciuta dal giurista al vincolo naturale fra genitori e figli. 38 La proposta è accolta da Knütel 2014, 73. 39 Di recente, in un saggio che costituisce un anticipo di un progetto di revisione dei manoscritti della Vulgata ai fini di una nuova edizione dei Digesta Iustiniani, Lambrini 2020, 460 ha notato come nel manoscritto Torinese (T), dopo il finale di D. 23.4.24 (nam sufficit eos ex eo matrimonio nasci in quo data est dos) il copista prosegue con le parole pactum ad heredem suum transmisisse, che sono la conclusione di D. 23.4.25, frammento che ha invece dimenticato e che aggiunge poi a margine (ma nella Fiorentina e nelle principali edizioni del Digesto non compare il termine ‘pactum’, ma ‘nanctum’). 40 FIRA2 Auctores, pp. 635 ss. Dettagli sulle edizioni in Thüngen 2017, 316–320. 41 Zwalve, De Vries 2017, 496. 37
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Lauretta Maganzani nale, visti i richiami espressi in lingua latina. Tuttavia, se i libri ad Sabinum di Ulpiano erano il testo latino base oggetto di commento, non mancavano, almeno nella prima parte degli scholia relativi alla dote, richiami dettagliati a passi di altri giuristi portati dal maestro in funzione chiarificatrice o esemplificativa della riferita tesi ulpianea. In particolare si trovano nei frammenti cinque citazioni del giurista Paolo (dai libri responsorum e dai commentarii ad Sabinum), due di Modestino (dalle regulae e dalle differentiae), una dell’opera di Marciano ad formulam hypothecariam e una delle institutiones di Florentinus. È quindi probabile che anche le opere di questi autori fossero disponibili, sia ai maestri sia agli allievi, in esemplari manoscritti: il che, per giuristi come Paolo e Modestino, è comprensibile vista la loro menzione nella cd. Legge delle citazioni del 426 (CTh. 1.4.3), ma è più significativo per giuristi meno noti e comunque non menzionati dalla suddetta costituzione, come Marciano e Fiorentino. Fiorentino, in particolare, viene citato nel fr. 13.35, l’ultimo in materia dotale, in cui viene commentato un testo dell’opera ulpianea ad Sabinum relativo alla restituzione della dote constante matrimonio, specificando che essa durante il matrimonio può subire sia incrementi, sia diminuzioni. A commento di questo testo si richiamano prima un altro testo ulpianeo, purtroppo mutilo, riguardante la restitutio della dote alla mulier minor, poi il passo tratto dal III libro delle institutiones Florentini e, infine, due passi tratti rispettivamente dalle regulae di Modestino e dal commentario ad Sabinum di Paolo. A proposito di Fiorentino lo scoliaste greco fa il seguente commento: τò αὐτό φησι ὁ Florentinus βιβλίῳ γ’ τῶν institutionon αὐτοῦ περὶ τὰ τέλη τοῦ βιβλίου πρὸ ε’ φύλλων τοῦ τέλους ‘ρήμασιν τούτοις ut incrementum dotis prosit et deminutio noceat (‘Lo stesso dice anche Fiorentino nel III libro delle sue Istituzioni più o meno alla fine del libro, prima che terminino i fogli, e più o meno con queste parole: che giovi un incremento della dote o nuoccia una sua diminuzione’). Ciò mostra che il manuale era disponibile, all’epoca della redazione degli scholia, in esemplari paginati, il che, come ha notato Wieacker nei Textstufen42, lo rende una delle poche opere giurisprudenziali dell’età imperiale certamente nota ed utilizzata nel V secolo.
LIBRO VI
F. 5 – D. 1.8.3 Mentre i Digesta giustinianei non hanno conservato frammenti tratti dal IV e V libro delle institutiones Florentini, rimangono sei testi del libro VI la cui rubrica, secondo Lenel, era De adquirendo rerum dominio: in effetti i primi cinque testi del titolo affrontano da vari punti di vista la tematica dell’acquisto della proprietà; il sesto, invece, sembra esularne, trattando dello ius postliminii del prigioniero di guerra tornato in patria (ma sul punto cfr. supra, I.3e, III.I.2, 3 e infra, il commento a [F. 10] D. 49.15.26).
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Vd. anche Querzoli 1996, 12-14 nt. 4.
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Commento Il primo frammento, relativo all’inventio di lapilli, gemmae e altre cose che si trovano sulla spiaggia, corrisponde, con poche varianti, a I. 2.1.18 (Item lapilli, gemmae et cetera, quae in litore inveniuntur, iure naturali statim inventoris fiunt)43. Entrambi i testi riportano, oltre al precetto, il suo fondamento giuridico, che è il ius naturale, espressione che ricorre come tale, nelle institutiones Florentini, in questo solo testo. Si può dunque immaginare che, come già nelle Istituzioni di Gaio, anche in questo caso il giurista alluda all’inventio come a un modo di acquisto che non è il frutto di una statuizione positiva dell’uomo, ma si fonda sulle evidenze della natura (Gaio diceva ‘sulla naturalis ratio’44): dunque, come per Marciano il mare e il suo lido sono res communes omnium per diritto naturale – essendo ‘pensate, secondo la filosofia stoica, come il terreno e il mezzo di un’utilità spettante a tutti gli esseri umani: naturalmente e senza limiti estrinseci’45 –, allo stesso modo le cose portate dal mare e non appartenute ad altri in precedenza possono essere acquistate da chi, liberamente intrattenendosi sulla spiaggia, le trovi e se ne appropri46. È la stessa prospettiva da cui parte l’A. della declamatio maior 13.8 quando afferma che quod omnibus nascitur, industriae praemium est, cioè ‘ciò che nasce per tutti – animali o altre res nullius – diventa ricompensa per chi è intraprendente’47: naturalmente in quest’ultimo caso si tratta di una formulazione a scopo di didattica oratoria che non tiene conto di tutte le implicazioni discusse dai giuristi in ordine alla natura giuridica del litus maris e alle varie forme di conflitto tra utenti delle risorse marine, in particolare fra pescatori e proprietari delle ville marittime48. Quella seguita da Fiorentino è dunque una prospettiva non nuova, affondando le sue “radici nella cultura tardo-repubblicana, dove, la legittimazione ‘naturale’ della signoria su beni, che il valore socioeconomico rendeva di vitale importanza per la sussistenza e la conservazione dei gruppi sociali dominanti, era attentamente considerata”49. Si pensi, fra i molti esempi, a Cicerone che, in de off. 1.20, trattando della iustitia, afferma che un suo importante munus è quello di ‘usare delle cose comuni come comuni e delle cose private come proprie’ e aggiunge che ‘non vi sono cose private per natura ma per antica occupatio’ (1.21) come accade per quelli che vennero un tempo in luoghi non occupati o per quelli che se ne impadronirono per vittoria bellica o per legge, contratto o sorteggio (ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte): non è dunque la proprietà privata in sé ad essere ‘naturale’, ma il suo acquisto per occupazione (o per invenzione, che ne costituisce una forma), legittimato nell’uomo dalla sua propensione a procacciarsi i beni necessari ad usum vitae (Cic. de off. 3.22). Lo stesso si legge in de fin. 3.67: ‘Come, pur essendo il teatro comune a tutti, è tuttavia giusto dire che il posto è di chi lo ha occupato, così nella
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Cfr. Kaiser 2016, 55. Gai. inst. 2.66 ss. 45 Brutti 2011, 260. 46 In realtà la ratio della regola non è chiarissima: Brutti 2011, 284-285. Cfr. Querzoli 1996, 80-81. Voci 1952, 12 si chiede espressamente: ‘Perché si parla di res inventae in litore maris?’; e risponde: ‘La cosa può avere la sua spiegazione in ciò, che le pietre, più o meno preziose, fanno parte del fondo privato in cui si trovano, e quindi appartengono al proprietario di esso: perché non siano di alcuno, occorre si trovino su cosa, che non sia in proprietà di alcun privato’. 47 Mantovani 2007, 383. 48 Fiorentini 2003, 277 ss.; Fiorentini 2010, 263-282. 49 Querzoli 1996, 99. 44
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Lauretta Maganzani città e nel mondo comune a tutti, non è in contrasto con il diritto il concetto di proprietà individuale’. Ma lo stesso riferimento all’occupatio come modo naturale di acquisizione dei beni individuali necessari alla sussistenza, si osserva già nella Politica di Aristotele (1256b) che distingueva fra ‘l’arte dell’acquisizione dei beni necessari’ e quella ‘commerciale atta a procurare ricchezze in modo illimitato attraverso il denaro’50. FF. 6-8 – D. 41.1.2; D. 41.1.6; D. 41.1.4 Seguono, nel libro VI delle institutiones nella ricostruzione della Palingenesi, [FF. 6-8] corrispondenti rispettivamente a D. 41.1.2, D. 41.1.6 e D. 41.1.4, semplici lacerti che nei Digesta giustinianei sono posti ad integrazione di passi tratti dal II libro delle res cottidianae relativi all’acquisto o alla perdita della proprietà sulle ferae bestiae. Si vedrà come, tramite questi collages, i compilatori abbiano attribuito a Fiorentino punti di vista che forse, nel contesto della sua opera, egli non aveva manifestato. Talvolta, comunque, nonostante tali invasivi interventi, risulta possibile ricostruire – o almeno ipotizzare – il pensiero originario dell’autore. D. 41.1.2 nel Digesto risulta posposto a D. 41.1.1pr. e 1, testo delle res cottidianae che, dopo aver distinto nel principium fra acquisti del dominium iure gentium e iure civili (precisando che il ius gentium è quello che di regola viene osservato presso tutti gli uomini in quanto fondato sulla naturalis ratio), aggiunge nel § 1 che sul ius gentium si basa l’acquisto della proprietà per occupazione delle ferae bestiae, uccelli e pesci. A questo i compilatori hanno collegato, astraendolo dal contesto originario, il lacerto di Fiorentino secondo cui anche i piccoli che nascono dagli animali catturati vengono acquisiti dagli occupanti. Con ciò essi hanno attribuito al nostro giurista l’idea che l’acquisto del dominium sui parti degli animali catturati si fondi sullo ius gentium (fondato a sua volta sulla naturalis ratio), non sullo ius naturale come si è letto in [F. 5] a proposito dell’inventio. In realtà, come si vedrà in occasione dell’esegesi di [F. 7] D. 41.1.6, è molto verosimile che Fiorentino, nell’opera originaria, parlasse anche in questo caso di ius naturale: Gai. 2 rer. cott., D. 41.1.1pr.: Quarundam rerum dominium nanciscimur iure gentium, quod ratione naturali inter omnes homines peraeque servatur, quarundam iure civili, id est iure proprio civitatis nostrae. et quia antiquius ius gentium cum ipso genere humano proditum est, opus est, ut de hoc prius referendum sit. 1. Omnia igitur animalia, quae terra mari caelo capiuntur, id est ferae bestiae et volucres pisces, capientium fiunt: Flor. 6 inst., D. 41.1.2: Vel quae ex his apud nos sunt edita.
È interessante notare che, da queste poche parole di Fiorentino, benchè avulse dal contesto originario e mutilate, pare emergere uno spunto originale dell’A. Infatti, mentre di regola i giuristi qualificavano i parti degli animali come ‘frutti’ e come tali li ritenevano acquisiti in proprietà dal dominus della cosa madre nel momento stesso della loro nascita, qui Fiorentino pare precisare che anche i piccoli delle ferae bestiae, volucres et pisces si acquistano per occupazione. È del resto noto che, sul problema dei parti degli animali, la giurisprudenza aveva di-
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Querzoli 1996, 105 nt. 75.
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Commento scusso. Anzi, secondo Riccardo Cardilli51, il passo potrebbe rivelare proprio l’esistenza di una controversia – forse di età tardo-repubblicana o del primo impero – fra chi considerava i nati dagli animali come frutti e chi, invece, li considerava o accessiones della cosa madre, o res nullius passibili di occupazione. Si tratterebbe di una controversia contemporanea a quella sul partus ancillae di cui, com’è noto, sulla base della sententia Bruti si escluse la qualifica di frutto52. In questo quadro si potrebbe forse pensare che Fiorentino avesse nel suo manuale sottolineato la differenza di regime fra l’acquisto della proprietà sui nati dai pecudes, considerati come frutti, e sui nati dagli animali selvatici, uccelli e pesci, acquisibili invece, come i loro genitori, per occupazione, e ciò in ragione della loro inidoneità ad essere addomesticati e quindi della loro irrefrenabile tendenza alla fuga e, di conseguenza, al riacquisto della naturale libertà: e forse proprio in ragione della perspicacia dimostrata sul punto, i compilatori decisero di riprendere le sue parole collegandole al passo precedente delle res cottidianae. Segue nella Palingenesia [F. 7] D. 41.1.6, che nella compilazione si presenta posposto a un lungo passo delle res cottidianae in gran parte relativo alla differenza fra ferae bestiae e animalia mansuefacta, i primi dei quali, allontanandosi dal cospetto di chi li ha catturati, riacquistano la loro naturale libertà, al contrario dei secondi che rimangono in proprietà del dominus se sono soliti allontanarsi e ritornare nella loro sede abituale in virtù del cd. animus revertendi. A tale ampia disamina succede un paragrafo, il settimo, che pare un fuor d’opera rispetto al contesto precedente e che dice che le cose prese ai nemici divengono immediatamente degli occupanti per una regola di ius gentium: ed è a questo paragrafo che i compilatori hanno collegato il breve lacerto tratto dal VI libro delle institutiones Florentini che afferma testualmente: ‘Parimenti ciò che è nato dagli animali sottoposti al nostro dominio in base al medesimo diritto’ (Item quae ex animalibus dominio nostro eodem iure subiectis nata sunt): Gai. 2 rer. cott., D. 41.1.5: pr. Naturalem autem libertatem recipere intellegitur, cum vel oculos nostros effugerit vel ita sit in conspectu nostro, ut difficilis sit eius persecutio. (…) 5. (...) in his autem animalibus,
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Cardilli 2000, 97-100. Cfr. anche Cardilli 2018, 288-299 e Benincasa 2019, 83-102. Che la controversia sulla natura di fructus del partus ancillae si estendesse in origine anche ai parti degli animali, pare potersi trarre da Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.68pr. e 1: infatti il principium allude ad una generica vetus quaestio, an partus (sia di schiave, sia di animali?) ad fructuarium pertinere e a questa domanda si risponde nello stesso principium per i parti della schiava (escludendo che siano frutti sulla base della Bruti sententia) e nel § 1 in ordine agli animali, precisando che la soluzione opposta fu accolta da Sabino e Cassio: Fetus tamen pecorum Sabinus et Cassius opinati sunt ad fructuarium pertinere. Ad una passata controversia sul punto, sembra alludere anche Gaio 2 rer. cott., D. 22.1.28pr. con l’espressione ‘etiam fetus’: In pecudum fructu etiam fetus est sicut lac et pilus et lana: itaque agni et haedi et vituli statim pleno iure sunt bonae fidei possessoris et fructuarii. Come accessioni sembrano considerare i partus e i fetus Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3.6; Tryph. 8 disp., D. 15.1.57.2; Pomp. 4 ad Quint. Muc., D. 15.2.3; Cels. 17 dig., D. 30.63; Ulp. 25 ad Sab., D. 33.8.8.8; Gai. 18 ad ed. prov., D. 35.2.73pr.; come augmenta del fundus instructus Pap. 8 resp., D. 33.7.3pr.; come frutti Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.68.1; Iul. 58 dig., D. 21.2.43. Distinguono i partus e i fetus dai fructus Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.12pr.; Ulp. 22 ad ed., D. 12.2.11.1; Pomp. 4 ad Quint. Muc., D. 15.2.3; Ulp. 52 ad ed., D. 36.4.5.8; Ulp. 38 ad ed., D. 47.4.1.11; Paul. sent. 2.17.7. Sul tema, con altre fonti, Kaser 1958, 156 ss.; Filip-Fröschl 1993, 100-121; Cardilli 2000, 97-100. Che la nozione di fructus fosse oggetto di contrasti nell’età tardo-repubblicana e primo-imperiale lo mostrano anche Zuccotti 2000, passim, spec. 111 ss.; Zuccotti 2001, 185-326; Fei 2009, 1-13; Sanna 2012, 1-37; Di Nisio 2017, passim. 52
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Lauretta Maganzani quae consuetudine abire et redire solent, talis regula comprobata est, ut eo usque nostra esse intellegantur, donec revertendi animum habeant, quod si desierint revertendi animum habere, desinant nostra esse et fiant occupantium. intelleguntur autem desisse revertendi animum habere tunc, cum revertendi consuetudinem deseruerint. (…) 7. Item quae ex hostibus capiuntur, iure gentium statim capientium fiunt: Flor. 6 inst., D. 41.1.6: Item quae ex animalibus dominio nostro eodem iure subiectis nata sunt.
In verità il lacerto, così come è riportato dai Digesta, presenta elementi di insuperabile incertezza: manca, infatti, del verbo, a meno che non si intendano sottintese le parole capientium fiunt che chiudono il paragrafo precedente, caso in cui esso potrebbe significare che, come si è letto già in D. 41.1.2, per Fiorentino i parti degli animali appartenevano agli occupanti. In ogni caso non convince la collocazione di ‘eodem iure’ prima di ‘subiectis’ che priva il testo di senso compiuto. Ma fortunatamente lo stesso testo compare nelle Istituzioni giustinianee (I. 2.1.19)53, preceduto da un passo corrispondente al già esaminato [F. 5] D. 1.8.3 (= I. 2.1.18) e ciò contribuisce a superare i dubbi suscitati dalla versione dei Digesta: I. 2.1.18: Item lapilli gemmae et cetera quae in litore inveniuntur, iure naturali statim inventoris fiunt. 19. Item ea quae ex animalibus dominio tuo subiectis nata sunt eodem iure tibi adquiruntur.
La versione delle Istituzioni è più chiara e completa di quella corrispondente del Digesto: infatti, come scriveva Gabrio Lombardi54, la formulazione dei Digesta è “inaccettabile perchè l’eodem iure nella presente collocazione non può intendersi che come complesso di norme e istituti in base al quale sono soggetti al nostro dominio gli animali dei cui nati si tratta. Ora manifestamente non questo era il punto che interessava al giurista di chiarire, sibbene l’altro punto, cioè che in base a un determinato complesso di norme e istituti vengono a noi acquisiti i nati degli animali che sono pacificamente e indiscutibilmente soggetti al nostro dominio. Ed infatti ben diversa è la formulazione che il passo ha nelle Istituzioni di Giustiniano I. (2.1)19. Qui il problema è impostato e risolto nella giusta luce. Per questo ritengo che più vicine al dettato originario siano le Istituzioni di Giustiniano”. Aggiunge Lombardi che l’eodem iure del Digesto nella posizione attuale non deve “neppure considerarsi portato di cosciente elaborazione ma frutto solo di una svista o di troppo zelo di amanuense (contemporaneo o successivo alla redazione del Digesto) suggestionato forse grossolanamente dal corrispondente passo delle Istituzioni di Fiorentino (nel caso si pensi ad un amanuense successivo alla redazione della compilazione – suggestionato dal corrispondente passo delle Istituzioni giustinianee)”55. Il testo riportato da I. 2.1.19, quindi, corrisponde verosimilmente a quello genuino di Fiorentino, come afferma anche Lenel nella Palingenesia (Quae equidem genuina esse Florentini verba suspicor; inde Tribonianus videtur ea confecisse, quae in Dig. l. c. Gai fragmentis sunt interiecta56). Ciò significa che il giurista, nel contesto originario, doveva dichiarare che sia le res
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Kaiser 2016, 55. Lombardi 1947, 157. Lombardi 1947, 158. Lenel 1889. I. 173 nt. 2. Così anche Ferrini 1929a, 312.
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Commento inventae in litore maris, sia i nati dagli animali sottoposti al dominio di un privato erano acquistati in proprietà per diritto naturale. Lo stesso può verosimilmente essere esteso al contesto originario di D. 41.1.2. In tale quadro assume un senso compiuto anche l’ultimo lacerto di frammento, D. 41.1.4, connesso, nella versione dei Digesta, al § 2 del fr. 3 D. 41.1 tratto sempre dal II libro delle res cottidianae e relativo alla perdita della proprietà sulle ferae bestiae e i volatili catturati che siano sfuggiti alla custodia del dominus ritornando nel loro naturale stato di libertà (e divenendo quindi nuovamente occupabili): Gai. 2 rer. cott., D. 41.1.3.2: Quidquid autem eorum ceperimus, eo usque nostrum esse intelligetur, donec nostra custodia coercetur: cum vero evaserit custodiam nostram et in naturalem libertatem se receperit, nostrum esse desinit et rursus occupantis fit: Flor. 6 inst., D. 41.1.4: nisi si mansuefacta emitti ac reverti solita sunt.
Fiorentino, infatti, potrebbe aver voluto precisare che soluzioni giuridiche diverse valgono per le ferae bestiae, i pesci e gli uccelli da una parte, e per gli animali mansuefatti dall’altra, nel senso che soltanto per i secondi, che sono soliti uscire al pascolo e poi ritornare presso il dominus, vale la regola della permanenza della proprietà in capo al titolare nonostante l’allontanamento dalla loro sede abituale57. F. 9 – D. 41.1.16 Il dettato di questo frammento è connotato, nei codici che lo tramandano, da una qualche incertezza: nel manoscritto Fiorentino, infatti, le parole ‘autem manu captum limitatum’ sono scritte a margine del testo. Si tratta probabilmente di una dimenticanza del copista integrata, secondo Mommsen58, da F1: in ogni caso gli interpreti greci le leggevano già, come si deduce dal testo dei Basilici (50.1.15)59, del Tipucito (50.1.15)60 e di Michele Attaliota61. Anche il termine limitatis è una correzione di huimitatis, che risale secondo Mommsen a F1, e il participio relictum è la correzione di relictuom risalente, sempre secondo Mommsen, a F2. Come nei passi precedenti del titolo VI, Fiorentino tratta qui di un tipico modo di acquisto della proprietà iure naturali, vale a dire quello sui cd. incrementi fluviali. Più precisamente il giurista parla di ius alluvionis, espressione tecnica non particolarmente diffusa nelle fonti giuridiche, che si trova soltanto, oltre che in questo testo, in D. 41.1.12pr. tratto dal II libro delle Istituzioni di Callistrato, in D. 41.1.56 tratto dall’VIII libro delle epistulae di Proculo e in C. 7.41.1, un rescritto dell’imperatore Gordiano datato 239.
57 È possibile fra l’altro che pure tale precisazione, stando anche ad altri testi della stessa tematica (Gai. inst. 2.68; Gai. 2 rer. cott., D. 41.1.5.5 e 6; Paul. 54 ad ed., D. 41.2.3.15 e 16; I. 2.1.12-16; coll. 12.7.10), sia stata il risultato dell’interpretatio giurisprudenziale del termine ‘custodia’ che, scrive Onida 2012, 297, “con riferimento agli animali dotati di animus revertendi dovette subire un processo di adattamento e di estensione, con il quale la giurisprudenza romana tenne conto delle particolari qualità di tali specie di animali”. Cfr. anche Manfredini 2006, 7 ss.; Polara 1983, 111 ss. 58 dig. ed. maior II, 492. 59 Scheltema, van der Wal 1969, 2322. 60 Hoermann, Seidl 1957, 16. 61 Zepos 1931, VII, 453.
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Lauretta Maganzani Nel primo testo Callistrato nega che lo ius alluvionis abbia luogo a favore dei fondi situati sulla riva di laghi o stagni, perché i fenomeni di crescita o diminuzione delle acque che interessano queste aree sono meramente temporanei e dunque non ne modificano stabilmente i confini62. Nel secondo testo Proculo esamina il caso di un’isola emersa nel fiume vicino ad un terreno rivierasco ed entro la longitudo delle sue rive che, in un secondo momento, si estende per alluvione contra frontes et superioris vicini et inferioris. Si domanda a chi spettino l’isola e il suo ulteriore accrescimento. La risposta è che la prima neoformazione fluviale spetta per accessione al proprietario dell’ager più vicino, purchè naturalmente esso sia dotato di ius alluvionis, e che lo stesso vale per i successivi incrementi alluvionali dell’isola già in proprietà di quello63. Infine l’imperatore Gordiano nel 239, nella parte finale di C. 7.41.1, dispose che ciò che paulatim si stacca da una sponda del fiume per accostarsi e inglobarsi nell’altra, viene acquistato adluvionis iure dal proprietario del fondo accresciuto64. Dai passi si comprende che con ius alluvionis si intendeva la prerogativa, propria dei fondi aventi come confine la riva di un fiume, di estendere la loro superficie per ‘automatica’ accessione degli incrementi di terra formatisi a seguito dei fenomeni fluviali, fossero essi nella forma di alluvio – accrescimento latente ed insensibile delle rive per effetto della forza della corrente – di alveus derelictus – abbandono parziale o totale dell’alveo – o di insula in flumine nata – emersione di un’isola65 –. Si deve, tuttavia, precisare che questa accezione ampia dell’espressione ius alluvionis (riferita a tutti i fenomeni fluviali più importanti, non solo all’alluvio in senso stretto) dovette essere il frutto di un dibattito fra i giuristi di fine repubblica e primo impero, visto che, se mai si dubitò della spettanza dell’incremento alluvionale per accessione al dominus rivierasco66, alcune delle fonti più antiche – giuridiche e agrimensorie – non mancano di definire pubblica l’isola nata nel fiume (es. Lab. 6 pith. a Paul. epit., D. 41.1.65.4; Front. de contr., Th. 8,12 ss. = Lach. 20,7 ss.; Agenn. de contr., Th. 42,18 ss. = Lach. 50,8 ss.)67. In ogni caso, nel testo qui esaminato, Fiorentino precisa che ci sono terreni rivieraschi nei quali tale acquisto ‘automatico’, cioè per accessione, degli incrementi fluviali, non ha luogo,
62 Lacus et stagna licet interdum crescant, interdum exarescant, suos tamen terminos retinent ideoque in his ius alluvionis non adgnoscitur. 63 Insula est enata in flumine contra frontem agri mei, ita ut nihil excederet longitudo regionem praedii mei: postea aucta est paulatim et processit contra frontes et superioris vicini et inferioris: quaero, quod adcrevit utrum meum sit, quoniam meo adiunctum est, an eius iuris sit, cuius esset, si initio ea nata eius longitudinis fuisset. Proculus respondit: flumen istud, in quo insulam contra frontem agri tui enatam esse scripsisti ita, ut non excederet longitudinem agri tui, si alluvionis ius habet et insula initio propior fundo tuo fuit quam eius, qui trans flumen habebat, tota tua facta est, et quod postea ei insulae alluvione accessit, id tuum est, etiamsi ita accessit, ut procederet insula contra frontes vicinorum superioris atque inferioris, vel etiam ut propior esset fundo eius, qui trans flumen habet. 64 Imp. Gordianus A. Marco. Quamvis fluminis naturalem cursum opere manu facto alio non liceat avertere, tamen ripam suam adversus rapidi amnis impetum munire prohibitum non est. et cum fluvius priore alveo derelicto alium sibi facit, ager quem circumivit prioris domini manet. Quod si paulatim ita auferat aliique parti applicet, id adluvionis iure ei quaeritur, cuius fundus crescit. 65 Maganzani 1993, 221-222; Pavese 2004, 54 e nt. 36; Barbati 2014, 367-368; Barbati 2015, 260-261. Si veda anche, benchè risalente, l’opera di insieme sul tema degli incrementi fluviali di Maddalena 1970, passim. 66 Maganzani 1997, 370 ss.; Barbati 2014, 366 ss. 67 Maganzani 1997, 361 ss.; Barbati 2014, 363 ss.; Barbati 2015, 248 ss.
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Commento e cioè nei cd. agri limitati: sono quei territori in cui un radicale intervento umano sul paesaggio chiamato ‘centuriazione’ ne abbia modificato i contorni nonché le caratteristiche fisiche e giuridiche e, di conseguenza, venga meno anche l’operatività della regola dello ius alluvionis, basata com’è sulla natura e sull’originaria conformazione dei luoghi68. Si tratta, secondo l’A., di un principio consolidato da tempo nella giurisprudenza (e nelle fonti agrimensorie) ma anche ribadito da una costituzione del divo Antonino Pio69 (la cui citazione, fra l’altro, fornisce, come già visto, l’unico elemento certo per la datazione dell’opera del giurista). È del resto noto che, quando un territorio veniva limitato, esso non era soltanto ripartito in centurie e poi in singoli lotti, ma era anche totalmente ristrutturato (con canalette di drenaggio, strade, sentieri etc.) in funzione migliorativa delle sue potenzialità di sfruttamento agricolo, nonché riportato su una forma agrorum, conservata sia in loco sia a Roma, che lo descriveva topograficamente e indicava sia la localizzazione delle centurie, sia gli elementi naturali presenti sul terreno (es. strade, fiumi) nonché il modus della parcella assegnata ad ogni singolo beneficiario. I fiumi, poi, almeno a partire da Augusto, erano esclusi dalle assegnazioni, insieme alle loro rive: il che significa che i terreni rivieraschi, chiusi nei loro confini retti, perdevano il cd. ius alluvionis, cioè l’idoneità ad estendersi seguendo la linea del fiume e ad acquistare la proprietà degli eventuali incrementi70. Fiorentino riporta questo principio nell’esordio del passo, precisando che si tratta di una regola chiara e da tutti riconosciuta (constat). Aggiunge che lo stesso divus Pius l’aveva espressamente prevista in una constitutio e, infine, cita un’opinione di Trebazio, giurista repubblicano amico e collaboratore di Cesare, delle cui opere Pomponio, nel liber singularis enchiridii, dichiarava la scarsa conoscenza e diffusione già alla sua epoca (D. 1.2.2.45). Si tratta quindi di una citazione dotta che arricchisce di contenuti storici la regola esposta in esordio ed era forse funzionale a chiarire agli studenti il senso di questo radicale intervento dell’uomo sul territorio e le situazioni in cui i Romani ne facevano uso. Peraltro Trebazio, nella citazione florentiniana, non parla di ius alluvionis ma di semplice alluvio, segno forse che all’epoca in cui egli scrisse, l’originaria regola dell’accessione degli incrementi alluvionali ai fondi rivieraschi non si era ancora estesa a fenomeni fluviali diversi, come l’alveus derelictus e l’insula in flumine nata. Trebazio, comunque, ai fini dell’operatività della regola dell’accessione al terreno rivierasco dell’incremento alluvionale, distingue fra territorio ‘concesso ai nemici vinti a condizione di entrare nella civitas’ – caso in cui l’alluvio aveva luogo – e territorio manu captus, cioè sottratto ai nemici con la forza, che, venendo limitato ‘perché si sapesse che cosa era stato dato a ciascuno, che cosa era stato venduto, che cosa era stato lasciato in publico’, non poteva godere dell’alluvio. Infatti ciascun assegnatario era titolare soltanto di ciò che a lui era stato formalmente assegnato e che era riportato sulla forma (e/o nei documenti annessi) e pertanto il suo fondo, benchè rivierasco, non era suscettibile di accrescimenti di sorta per effetto dei fenomeni fluviali.
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Sul testo ampiamente Maganzani 1993, 207-258. V. anche Pavese 2004, 68; Barbati 2015, 261 ss. Sul verbo constituere con riferimento ad una disposizione normativa imperiale, Giodice Sabbatelli 1981, 338
ss. 70
Maganzani 2018, 229.
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Lauretta Maganzani L’aggettivo manu captus riferito a un ager è di uso inconsueto: infatti questo termine indica, in genere, l’apprensione materiale di un bene mobile (come nel caso della mancipatio o della cattura degli schiavi: cfr. oltre, dello stesso Fiorentino, [F. 25] D. 1.5.4.3). Lo stesso vale per le tre espressioni finali quid cuique datum esset, quid venisset, quid in publico relictum esset tipiche delle fonti agrimensorie, che alludono rispettivamente ai poderi sorteggiati e attribuiti in piena proprietà ai coloni in seguito a divisio et adsignatio di una zona di ager publicus, agli agri vectigales dati in venditio-locatio a privati dai censori dietro il pagamento di un vectigal, alle aree dei territori coloniali non assegnate in piena proprietà né concesse in venditio-locatio, come ad es. le selve ed i pascoli, le cd. centuriae vacuae, i subseciva. Ma il punto più dolente del frammento riguarda la prima parte della citazione di Trebazio (agrum qui hostibus devictis ea condicione concessus est, ut in civitatem veniret) che è stata intesa nei modi più disparati: in particolare Mommsen (dig. ad locum) corresse veniret in venirent ritenendo che nella versione originaria il verbo si riferisse non all’ager, ma agli hostes devicti; proposta che io stessa avevo accolto in un saggio del 199371 dove avevo creduto possibile che Trebazio alludesse ad un’evenienza storica precisa, cioè la concessione della civitas romana ai latini e socii italici con la lex Iulia del 90 a.C. a conclusione della guerra sociale: su questa strada ero stata indotta dall’espressione ‘in civitatem venire’ che, in varie fonti latine (es. Cic. pro Balb. 19; 29; 44; Plin. paneg. 37.3; Fest. de verb. sign., s.v. municipium [Lindsay 155]; Gell. noct. Att. 16.13.8, lex munic. Salpens. c. XXIII ll. 18-19) risulta utilizzata con riferimento all’entrata nella civitas romana di una comunità di peregrini. Secondo questa linea interpretativa, Trebazio avrebbe messo a confronto la politica attuata con la lex Iulia del 90 a.C. e basata sulla pratica delle concessioni (ager concessus ut […]), con quella che fino al bellum sociale i Romani avevano sempre adottato con successo e che si fondava sulle armi (ager manu captus): il giurista tardo-repubblicano testimonierebbe dunque che soltanto le zone conquistate e ridotte ad ager publicus venivano di regola centuriate, non invece le zone della penisola fino all’Arno e all’Esino annesse alla civitas dopo il bellum sociale. Ma, a ben vedere, il testo si può agevolmente intendere più in generale anche come relativo a due diverse soluzioni applicate dai Romani in seguito ad una vittoria militare. Se infatti essi decidevano di fare entrare gli hostes devicti (e il relativo territorio) nella civitas romana, concedendo loro la cittadinanza, allora il territorio veniva lasciato ai precedenti possessori e compreso nei confini di un nuovo municipium romano. Se, invece, decidevano di sterminare o deportare gli autoctoni, magari anche in ragione della loro condotta nella guerra, allora usavano accaparrarsi il loro territorio, centuriarlo e assegnarlo, di regola a Romani o Latini. Nel primo caso i terreni occupati dagli hostes devicti divenuti cives e a loro concessi dai vincitori non erano limitati e perciò godevano dell’alluvio. Nel secondo il territorio era centuriato e l’alluvio non aveva luogo perché la misura dei lotti assegnati ai nuovi beneficiari era stata fissata su documenti ufficiali e non era dunque modificabile per effetto di fenomeni naturali. Tale contrapposizione è messa più volte in evidenza dai Gromatici che, per la prima ipotesi, usavano parlare di ager per extremitatem mensura comprehensus, caso in cui i conquistatori si limitavano a conoscere i confini esterni del territorio e non intervenivano direttamente nella
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Maganzani 1993, 207-258. Cfr. anche Barra 1998, 18.
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Commento sua ristrutturazione: in tale ipotesi essi entravano in contatto, per qualsiasi rapporto con la civitas di appartenenza (compresa l’eventuale esazione delle imposte nonché l’adempimento dei munera) soltanto per il tramite dei magistrati locali. Il testo di Trebazio, dunque, intendeva forse rendere edotti i lettori delle due tipologie di intervento sul territorio che, in generale, Roma usava realizzare dopo aver debellato un popolo e, di conseguenza, della sorte della regola dell’alluvio applicata ai terreni rivieraschi. Si pensi ad es. alla Cisalpina a sud del Po, dove le popolazioni celtiche locali vennero sterminate e il territorio, reso ager publicus, venne agrimensoriamente riorganizzato e distribuito con assegnazioni viritane su larga scala. Comunque, al di là dell’interpretazione di questa parte controversa, il frammento di Fiorentino è particolarmente degno di interesse perché è uno dei pochi che, nelle fonti giustinianee, trattino esplicitamente di problemi di organizzazione giuridica della terra, con particolare riguardo alla limitatio. Nei Digesta, infatti, il solo fr. 1 § 6 e 7 D. 43.12, tratto dal libro LXVIII ad edictum di Ulpiano, richiama, a proposito di due casi di insula in flumine nata e alveus derelictus, la differenza fra agri limitati ed arcifinii: il testo ulpianeo ne tratta peraltro in occasione del commento all’interdetto ‘ne quid in flumine publico ripave eius fiat’ (D. 43.12.1pr.) per escluderne l’applicazione nel caso dell’isola nata nel fiume e dell’alveo abbandonato, in quanto questi, pur formandosi in un fiume pubblico, sono tuttavia oggetto di proprietà privata, essendo acquisiti per accessione nel caso di agri arcifinii e per occupazione nel caso di agri limitati. Si noti, fra l’altro, che questo frammento ulpianeo costituisce anche un interessante termine di confronto rispetto a [F. 9]: infatti, se Fiorentino si limitava ad escludere che nei terreni limitati avesse luogo lo ius alluvionis, Ulpiano, contrariamente agli altri testi giuridici ed agrimensori della prima età imperiale citati sopra, precisa che, anche nei terreni centuriati, gli incrementi fluviali sono acquisibili in proprietà dai privati per occupazione. Ciò fu probabilmente conseguenza della generalizzazione del principio dell’occupabilità dei subseciva, cioè delle aree dei territori limitati non assegnate per penuria di assegnatari o inadeguatezza del terreno, situate o nelle centurie o fra queste ed i confini esterni dell’area limitata, avvenuta in seguito a taluni provvedimenti imperiali (in particolare di Domiziano) di cui le fonti danno ampia testimonianza. Un’ultima suggestione sulla constitutio di Antonino Pio citata nell’esordio del testo: pare strano che l’imperatore abbia formulato espressamente un principio che da tempo doveva essere consolidato (ius alluvionis in agri limitatis locum non habere constat) se non fosse per esprimersi autoritativamente intorno ad un caso particolare occorso nell’epoca del suo regno. Ebbene, una singolare coincidenza è che proprio Antonino Pio centuriò e assegnò l’area prosciugata del lago Fucino72, il che potrebbe aver fatto sorgere una serie di contrasti fra i locali – che ritenevano di aver acquisito per accessione le terre emerse – e i nuovi assegnatari. È ovviamente una mera ipotesi suggestiva che la costituzione abbia voluto ribadire il principio dell’assenza di ius alluvionis negli agri limitati proprio a fronte di tali questioni. In ogni caso, come si è visto, il tema del cd. ius alluvionis negli agri arcifinii e limitati è ampiamente discusso dagli agrimensori i quali, peraltro, sottolineano i contrasti e le incertezze
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Cfr. Russi 2011, 80-83.
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Lauretta Maganzani interpretative della relativa disciplina73. Anche in questo interesse per materie tipicamente extragiuridiche si rivela l’originalità del nostro giurista. F. 10 – D. 49.15.26 Come ultimo frammento del libro VI, Lenel colloca D. 49.15.26 in tema di postliminium, cioè di riacquisto, da parte del civis romanus catturato dai nemici74 e da questi reso schiavo75, in caso di ritorno nei confini del territorio romano, della libertà e dell’intera situazione giuridica che a lui faceva capo prima della cattura. Si trattava di un istituto antico e reciproco, cioè applicabile anche all’hostis catturato dai Romani76. La tematica affrontata dal giurista è quella del ritorno in territorio romano di un captivus il quale, tuttavia, mostra di non avere l’intenzione di rimanere presso il suo popolo d’origine, ma vuole ritornare presso il luogo della sua prigionia sentendosi mente alienus (o nel senso di ‘appartenente ad altri’ o nel senso di ‘estraneo’, ‘straniero’) rispetto alla patria natia. Fiorentino afferma che, quando manchi nel captivus reversus il requisito dell’animus revertendi o remanendi (a Roma), il suo ritorno fisico entro i confini della patria, comunque sia avvenuto, non è sufficiente ai fini dell’applicazione del postliminium: infatti tale animus si richiede sia per chi sia stato liberato dai nemici o altrimenti dimissus77 (ad es. perché inviato a Roma in ambasceria), sia per chi sia loro sfuggito con vis o fallacia, sia per chi sia stato recuperato dall’esercito romano dopo una vittoria (di una battaglia o della guerra). La parte finale del frammento ‘sed et qui victis hostibus recuperantur78, postliminio redisse existimantur’ corrisponde al ‘sed et qui victis hostibus recuperatur, postliminio rediisse existimatur’ di I. 1.12.5: la versione delle Istituzioni, secondo Ferdinando Bona79, sarebbe da preferire, perché più coerente con il testo che precede nella versione dei Digesta, declinato al singolare, non al plurale come la chiusa. Ciò, del resto, vale più o meno per tutti i testi presenti in entrambe
73 Maganzani 1993, 207-258 (con la lett. prec.); Maganzani 1997, 343-390; Pavese 2004, 77 ss.; Castillo Pascual 2012/2013, 1-23; Castillo Pascual 2013, 221-233; Barbati 2014, 349-378; Barbati 2015, 218-293. 74 Sulla schiavitù di guerra, cfr. D’Amati 2004, passim; D’Amati 2013, 321-352, con altra lett.; sul lessico giuridico della guerra, Ortu 2005, on line; sugli aspetti giuridici e religiosi, Sini 2005, on line. Il postliminio si applicava nel solo caso di guerra con un popolo straniero, non nel caso di cattura da parte dei latrones (Ulp. 1 inst., D. 49.15.24; Pomp. 2 ad Quint. Muc., D. 50.16.118) o di guerre civili (Ulp. 5 opin., D. 49.15.21.1). Non si applicava rispetto a popoli federati o liberi perché, in questo caso, Romani e stranieri mantenevano reciprocamente sia la propria libertà, sia la propria situazione giuridica (Proc. 8 epist., D. 49.15.7pr.). 75 Non tutti gli Autori sostengono che la prigionia di guerra comportasse per il prigioniero la capitis deminutio maxima. Secondo alcuni, invece, il capivus avrebbe subito una mera restrizione di fatto della libertà: sui termini del dibattito, Cursi 2001, 297 ss. 76 I giuristi parlano del postliminio come di un istituto introdotto antiquitus (Mod. 3 reg., D. 49.15.4) e moribus legibus constitutum (Paul. 16 ad Sab., D. 49.15.19pr.). Si tratta anche di un istituto ‘reciproco’: ad es. in Lab. 4 pith. a Paul. epit., D. 49.15.28, si espone il caso di un captivus che, dopo la fine della guerra, torni in patria col postliminio e poi, rinnovatasi la stessa guerra, venga di nuovo catturato, e spiega che egli tornerà sempre per postliminio nel dominio di quello da cui nella precedente guerra era stato catturato. 77 Sul termine, Cursi 1996, 187 e nt. 19. Secondo quest’ultima, tuttavia, l’animus remanendi non sarebbe stato richiesto nell’ultima ipotesi prevista dal testo, cioè quando i prigionieri fossero stati liberati dopo una vittoria dell’esercito sui nemici (Cursi 1996, 187). 78 F recuperentur. 79 Bona 1961 (2003), 205 nt. 28 (244 nt. 28). Cfr. Barbati 2014a, 594 nt. 15.
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Commento le opere e mostra che i compilatori delle Istituzioni giustinianee avevano a disposizione un esemplare migliore dell’opera rispetto a quelli del Digesto80. Si è già notata (supra, I.3e e III.I.2-3) la stranezza della collocazione del frammento nel libro VI, tenuto conto che gli altri frammenti pervenuti appartenenti allo stesso titolo riguardano i modi di acquisto della proprietà. Tuttavia il contesto rende ragione di tale collocazione: infatti, come lo stesso Lenel suggerisce in nota81 richiamando D. 41.1.7 tratto dalle res cottidianae di Gaio e relativo all’acquisto della proprietà sui prigionieri di guerra e le loro cose, alla tematica dell’occupatio degli animali selvatici e delle res nullius in genere, si accosta bene quella della riduzione in schiavitù del captivus da parte del nemico: come gli animali selvatici, infatti, anche gli uomini perdono con la cattura la loro naturale libertà82. Come tali, essi divengono giuridicamente res appartenenti ai nemici benchè, nella loro patria d’origine, prima di privarli di ogni aspettativa in ordine al possibile recupero della rispettiva situazione giuridica, si attenderà di vedere se il loro destino, nel corso della guerra o subito dopo, sarà quello di tornare in patria oppure quello di morire in stato di schiavitù. Nel primo caso essi riacquisteranno al loro ritorno per postliminio la posizione giuridica precedente la cattura; nel secondo, in base alla lex Cornelia, si aprirà la successione ereditaria sulla base del testamento redatto prima della partenza per la guerra, fingendo che il prigioniero sia morto al momento della cattura83. In questo quadro è pensabile che Fiorentino paragonasse la sorte degli animali mansuefatti, che si allontanano dalla vista del padrone eppure non riacquistano il loro stato di naturale libertà (perché si sa che, per abitudine, torneranno in autonomia sotto il suo diretto controllo), a quella dei cives romani, uomini e donne resi servi del nemico che, pur tornando in territorio romano, non riacquistano in virtù del postliminio la loro naturale libertà perché, per le più svariate ragioni, mente alieni sunt: e ciò vale indipendentemente dal modo in cui siano ritornati – per volontà del nemico, per loro iniziativa o per la conclusione della guerra a favore dei Romani. Ciò, fra l’altro, si collega bene con quanto si legge in [F. 25] D. 1.5.4 dove Fiorentino afferma che la libertas è una facultas naturalis propria di tutti gli uomini indipendentemente dalla loro condizione, nascita e provenienza, mentre la servitus è una consti-
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Wieacker 1949, 577-607; Wieacker 1960, 199 ss. Lenel 1889. I. 173 nt. 3. 82 Individuano un’analogia fra la libertas naturalis degli animali e quella degli uomini recuperata in seguito al postliminium, Cardilli 2019, 15-25 e Filip-Fröschl 2007, 1851 ss. 83 Comunque, in caso di operatività del postliminium, lo stato di ‘pendenza’ in patria della situazione giuridica del prigioniero di guerra non doveva essere destinato ad avere lunga durata: infatti il p.l. si applicava soltanto al captivus reversus nel corso della stessa guerra durante la quale era stato fatto prigioniero (Pomp. 37 ad Quint. Muc., D.49.15.5.1) oppure quando essa si fosse conclusa, purchè la sorte di quello non fosse stata già disciplinata nel foedus di pace concluso con i nemici. Non si sarebbe applicato, invece, se il civis romanus avesse deciso di passare al nemico (fosse cioè transfuga) – anche perché in tal caso egli non era reso schiavo dagli hostes – o se, pur potendo ritornare in patria dopo la guerra, egli volontariamente non l’avesse fatto: ciò, secondo Tryph. 4 disp., D. 49.15.12pr., era stato giustificato da Servio Sulpicio Rufo con l’idea che i Romani avessero voluto che i cittadini fondassero la propria spes revertendi più sulla virtù bellica che sulle trattative di pace. Una buona definizione di tale ‘stato di pendenza’ si ha in Gai. 1 de testam. ad ed. praet. urb., D. 28.5.32.1: Is qui apud hostes est recte heres instituitur, quia iure postliminii omnia iura civitatis in personam eius in suspenso retinentur, non abrumpuntur (…). Sul tema, ampiamente, Amirante 1950, passim; Amirante 1969, passim; Maffi 1992, 73 ss.; Cursi 1996, passim; D’Amati 2004, 63 ss.; Sanna 2007, on line; Periñán Gómez 2008, 24 ss.; Cuena Boy 2008, 1 ss.; Nicosia 2010, 231 ss.; Montañana Casaní 2013, 87-98; Stagl 2014a, 129 ss.; Barbati 2014a, 631 ss. 81
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Lauretta Maganzani tutio iuris gentium, diretta conseguenza della guerra, primo istituto in ordine di tempo che fu comune a tutti i popoli del mondo. Il giurista, infatti, precisa anche che lo schiavo è detto mancipium perché manu ab hostibus capitur, servus perché il comandante militare, invece di ucciderlo, lo serba (in vita) vendendolo al miglior offerente84. Se tale ipotesi è plausibile, è da ritenere che, dal punto di vista palingenetico, D. 49.15.26 vada collocato non alla fine del titolo VI delle institutiones Florentini, ma subito dopo [F. 8] D. 41.1.4 relativo alla consuetudo revertendi degli animalia mansuefacta, al posto di [F. 9] D. 41.1.16 che andrebbe collocato per ultimo (cfr. supra, III.I.3). Proprio nella collocazione di questa tematica nel quadro dei modi di acquisto della proprietà e nel paragone verosimilmente posto dal giurista fra l’animus revertendi delle bestiae mansuefactae e quello dei soldati catturati sta, forse, un elemento di originalità della trattazione florentiniana. Fiorentino comunque generalizza una discussione che dovette sorgere fra i giuristi dell’ultimo secolo della repubblica sull’animus del captivus reversus ai fini dell’applicazione delle regole del postliminio. Non a caso un riferimento espresso all’animus remanendi nel postliminio si trova in un passo di Pomponio tratto dal XXXVII libro di commento ad Quintum Mucium: D. 49.15.5.3: Captivus autem si a nobis manumissus fuerit et pervenerit ad suos, ita demum postliminio reversus intellegitur, si malit eos sequi quam in nostra civitate manere. et ideo in Atilio Regulo, quem Carthaginienses Romam miserunt, responsum est non esse eum postliminio reversum, quia iuraverat Carthaginem reversurum et non habuerat animum Romae remanendi. et ideo in quodam interprete Menandro, qui posteaquam apud nos manumissus erat, missus est ad suos, non est visa necessaria lex, quae lata est de illo, ut maneret civis romanus: nam sive animus ei fuisset remanendi apud suos, desineret esse civis, sive animus fuisset revertendi, maneret civis, et ideo esset lex supervacua.
Il testo si apre coll’affermazione secondo cui il nemico catturato dai Romani e poi da questi manomesso, se ritorna presso i suoi, si considera postliminio reversus soltanto se preferisce restare presso il suo popolo d’origine piuttosto che rimanere nella civitas romana. Seguono due esempi: il primo riguarda la nota vicenda del console Attilio Regolo, fatto prigioniero dai Cartaginesi durante una spedizione in Africa nella prima guerra punica e poi inviato a Roma a negoziare uno scambio di ostaggi dopo aver giurato che sarebbe tornato a Cartagine se le richieste non fossero state esaudite dal senato. Cicerone (de off. 3.100) sottolinea che egli, pur venendo in senato ad esporre le richieste dei nemici, non volle votare, dichiarando di non essere senatore (quanto piuttosto servus hostium) finchè vincolato al giuramento85. Pomponio, forse richiamando un’opinione di Quinto Mucio,
84 Tale libertas appare, da Pomp. 26 ad Quint. Muc., D. 11.7.36, quasi come qualcosa di sacro: il giurista, infatti, paragona i loca religiosa vel sacra che, capta ab hostibus, perdono tali caratteri, all’uomo che, catturato dal nemico, perde la sua naturale libertà: Cum loca capta sunt ab hostibus, omnia desinunt religiosa vel sacra esse, sicut homines liberi in servitutem perveniunt: quod si ab hac calamitate fuerint liberata, quasi quodam postliminio reversa pristino statui restituuntur. 85 (…) in senatum venit, mandata exposuit, sententiam ne diceret, recusavit; quandiu iure iurando hostium teneretur, non esse se senatorem (...).
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Commento ricorda che, in questo caso, responsum est non esse eum postliminio reversus, sia per la forza vincolante del suo giuramento di tornare a Cartagine, sia, di conseguenza, per l’assenza in lui dell’animus Romae remanendi. Il secondo esempio, più calzante rispetto alla premessa generale del testo, riguarda un tale di nome Gn. Publicio Menandro, un greco catturato dai Romani presumibilmente verso la fine del II sec. a.C. e poi da loro manomesso, a cui fu richiesto di accompagnare una delegazione romana in Grecia come interprete. Si pose allora il problema del suo ritorno fisico nella patria d’origine e del conseguente effetto del postliminio, con la perdita della civitas romana e il riacquisto di quella greca. Cicerone richiama questo caso nella pro Balbo 28 ricordando come fu votata un’apposita legge affinché Publicio si domum revenisset et inde Romam redisset, ne minus civis esset; inoltre in de orat. 1.182 egli richiama sul punto una disputa fra i maiores nostri. Pomponio, invece, forse riportando un’opinione di Quinto Mucio, definisce la legge emanata per Menandro supervacua, perché al riacquisto della cittadinanza greca non bastava il suo ritorno fisico nella patria d’origine, ma occorreva anche l’animus remanendi presso i suoi. Da ciò Floriana Cursi è giunta ad affermare che, già all’epoca di Menandro o poco dopo, ‘una parte dei prudentes avesse avanzato l’ipotesi della rilevanza dell’animus remanendi’86 (forse Quinto Mucio), anche se l’orientamento di maggior fortuna fu quello secondo cui il postliminio aveva luogo automaticamente per il solo ritorno fisico in patria, il che portò all’emanazione della richiamata lex publica. Comunque secondo l’A. la giurisprudenza romana dovette elaborare ‘la teoria dell’animus remanendi in risposta ad esigenze di natura prevalentemente pratica’87 nel senso che, ‘mentre nei casi di coincidenza tra azione e volontà l’elemento psicologico rimane presupposto implicito nel funzionamento del postliminio, nelle situazioni in cui vi sia divergenza tra il materiale redire intra fines e l’effettiva intenzione di rientrarvi, l’animus remanendi assume una sua autonoma considerazione’88. Dopo Quinto Mucio, anche Sabino si interessò alla tematica, come risulta da un passo di Trifonino tratto dal IV libro delle disputationes, D. 49.15.12.9: Manumittendo autem utrum desinit tantum dominus esse et relictus ab eo servus in ius prioris domini redit? an et liberum eum facit, ne praestatio libertatis dominii fiat translatio? certe apud hostes manumissus liberatur, et tamen si eum nanctus dominus ipsius vetus intra praesidia nostra fuisset, quamvis non secutum res nostras, sed dum eo consilio venisset, ut ad illos reverteretur, servum retineret iure postliminii. quod in liberis aliter erat: non enim postliminio revertebatur, nisi qui hoc animo ad suos venisset, ut eorum res sequeretur illosque relinqueret, a quibus abisset: quia, ut Sabinus scribit, de sua qua civitate cuique constituendi facultas libera est, non de dominii iure.
Il testo distingue fra schiavi e cives romani catturati dai nemici, sottolineando che lo schiavo, anche se manomesso dal nemico, se torna in territorio romano e viene ripreso
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Cursi 1996, 82. Cursi 1996, 79-80. Cursi 1996, 77.
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Lauretta Maganzani dal vecchio dominus, ritorna oggetto del suo dominio, senza che rilevi la sua volontà di tornare presso i nemici. Diversa è la situazione del civis romanus ab hostibus captus: egli riacquista per postliminio la posizione giuridica precedente alla cattura soltanto se hoc animo ad suos venisset, ut eorum res sequeretur illosque relinqueret, a quibus abisset: Sabino, infatti, precisa che, se è libera facoltà di ciascuno di scegliere la propria civitas, non si può scegliere de dominii iure. Secondo Bona89 queste discussioni della giurisprudenza repubblicana sull’animus remanendi, poi riportate da autori successivi (es. Pomponio, Trifonino), dovevano avere per oggetto il solo caso del captivus reso schiavo dai nemici e poi manomesso, come nell’exemplum di Menandro, perché soltanto in quest’ipotesi sarebbe sorto per l’ex-captivus il problema della scelta della propria civitas. Al contrario sarebbero insiticii sia il tratto di D. 49.15.5.3 concernente Attilio Regolo – che non a caso appare fuori contesto90 – sia il principio generale enunciato da Fiorentino. Ma se può essere vero che le discussioni dei giuristi repubblicani abbiano avuto questo specifico oggetto, è verosimile che la regola dell’animus remanendi si sia in seguito generalizzata estendendosi a chiunque fosse stato catturato dai nemici, anche se non manomesso. Del resto già dal II-III secolo d.C. era cambiata la natura stessa della guerra, non più volta alla conquista di nuovi territori, ma alla strenua difesa dei confini estremi dell’impero attraverso truppe stanziali91. Fu forse allora che venne ripreso da Pomponio come exemplum antico il caso di Attilio Regolo92 e, un secolo dopo, Fiorentino dovette generalizzare la regola dell’animus remanendi specificando che, ai fini del riacquisto della civitas, non rilevavano tanto le modalità del ritorno in patria, quanto la volontà di restarvi come civis romanus: né si può trarre prova della sussistenza di tale volontà dal comportamento ‘concludente’ del captivus reversus, come quando egli sfugga ai nemici vi vel fallacia93. Forse la ragione di tale ‘apertura’ si può comprendere proprio contestualizzando la questione all’epoca in cui presumibilmente visse Fiorentino. I Barbari premevano ai confini e gli eserciti stanziali li combattevano indefessamente. La guerra non era più un episodio di durata definita. D’altra parte il postliminium non aveva più luogo soltanto al
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Bona 1961 (2003), 186 ss. (223 ss.). Infatti il testo esordisce dicendo che l’hostis catturato dai Romani e poi da questi manomesso riacquista la cittadinanza d’origine tornando fisicamente in patria soltanto se ha l’intenzione di rientrare presso i suoi abbandonando la civitas romana. 91 Ulpiano, ad es., nel suo manuale istituzionale, fa l’esempio di un civis ab hostibus captus da Germani o Parti: 1 inst., D. 49.15.24. Non pare, dunque, che, almeno per il III sec. d.C., possa essere accolta la tesi di Cursi 1996, 339 s. e Barbati 2014a, 705, secondo cui le popolazioni barbariche non erano considerate hostes, ma praedones o latrones, con la conseguente assenza per il cittadino catturato dello ius postliminii: ciò anche in considerazione dell’affermazione dello stesso Barbati 2014a, 706, secondo cui, “attesa (…) la triste ricorrenza del fenomeno, le scuole postclassiche (…) sarebbero state costrette a riconoscere la rilevanza giuridica della cattura, e dunque l’operatività del p.l. nel caso di rientro”. Barbati 2014a, 704, 748 ss. e De Iuliis 2015, 591 ss. considerano la regola dell’animus remanendi desueta in età tardoantica-giustinianea. 92 Anche secondo Amirante 1969, 34, è probabile che, una volta formatasi la leggenda della missione di Attilio Regolo a Roma, “l’episodio sia stato preso a materia di esercitazioni giuridiche, abbia costituito cioè un exemplum atto ad essere utilizzato, e forse proprio da Quinto Mucio, in una discussione sui presupposti del verificarsi del postliminium”. 93 Considerano genuino il testo di Fiorentino anche Maffi 1992, 78 ss. e Cursi 1996, 186 ss. 90
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Commento momento del ritorno del captivus entro il pomerio, ma bastava che egli fosse giunto ad amicos nostros o intra nostra praesidia94. In questa nuova situazione era molto più facile che si verificasse il caso di un romano o una romana catturati dai nemici che, stando a lungo prigionieri, col tempo si adeguassero alla società in cui si trovavano a vivere. E se ciò poteva accadere a un uomo o una donna romani, soprattutto nel caso che fossero manomessi presso i nemici, a maggior ragione poteva accadere ai figli delle Romane catturate, nati in cattività, che non avevano mai conosciuto la civiltà della loro madre. Non a caso i giuristi si interrogano ampiamente sul caso dei figli delle Romanae ab hostibus captae95. Da qui all’affermazione generale di Fiorentino per cui, per il recupero della posizione giuridica avuta in patria prima della cattura, non rilevava soltanto il ritorno corpore nei confini dell’impero, ma anche l’animus del reversus di rimanervi, il passo fu probabilmente molto breve.
LIBRO VII
F. 11 – D. 16.3.17 Il libro VII conteneva probabilmente – come suggerisce, pur dubitativamente, Lenel nella Palingenesia96 – testi in tema di obligationes re e consensu, visto che i frammenti rimanenti si riferiscono al depositum in sequestre, forse all’emptio-venditio e alla locatio-conductio. Le obligationes verbis e, in particolare, la stipulatio erano invece esaminate nel libro VIII. Anche in questa disposizione l’opera pare, quindi, differenziarsi sia dalle Istituzioni gaiane, sia da quelle giustinianee che, com’è noto, trattavano, nell’ordine, le obligationes re, verbis, litteris e consensu. Il libro VII si apre, secondo la disposizione proposta da Lenel, con un frammento in tema di depositum in sequestre, il cui dettato ha costituito nella tradizione giuridica occidentale un punto fermo in materia da cui, in particolare, la dottrina ha tratto la convinzione97, soltanto di recente messa in dubbio98, del possesso ad interdicta della cosa depositata in capo al sequestratario.
94 Pomp. 37 ad Quint. Muc., D. 49.15.5.1 (…) tunc autem reversus intellegitur, si aut ad amicos nostros perveniat aut intra praesidia nostra esse coepit; Paul. 16 ad Sab., D. 49.15.19.3: Postliminio redisse videtur, cum in fines nostros intraverit, sicuti amittitur, ubi fines nostros excessit. Sed et si in civitatem sociam amicamve aut ad regem socium vel amicum venerit, statim postliminio redisse videtur, quia ibi primum nomine publico tutus esse incipiat. 95 Cfr. Iul. 69 dig., D. 1.5.26; Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.15.1; Ulp. 10 ad Sab., D. 28.3.6.2; Ulp. 12 ad Sab., D. 38.17.1.3; Ulp. 27 ad Sab., D. 40.7.6pr.-2. Fonti e letteratura in Sanna 2001, 111 ss.; Sanna 2007, 10 ss. 96 Lenel 1889. I. 173 nt. 4. 97 Per tutti Albanese 1985, 90-91. Così anche Camodeca 1992, 122; García Vásquez 2001, 369 ss.; Rodríguez Martín 2007-2008, 372 ss. Sui vari aspetti della disciplina del sequestro, v. ancora García Vásquez 2001, 351 ss. 98 Ad es. Aricò Anselmo 1988, 217-331; Nicosia 1999, 65-81; Nicosia 2002, 277-309; Albanese 2003, 45-69. Contra Guarino 2005, 144-146.
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Lauretta Maganzani Il passo è tutto scandito dal confronto fra il contratto di deposito e la sua forma particolare99 detta appunto sequestro100: infatti, in primo luogo, si sottolinea che, se il deposito tout court può essere effettuato sia da una sola persona, sia da un gruppo di persone, il depositum in sequestre, invece, viene sempre effettuato da più persone e ciò per il fatto che esso ha per oggetto beni dedotti in controversia, di cui cioè sia incerta la titolarità. Il sequestro, inoltre, è in solidum, il che significa che i depositanti sono creditori solidali rispetto al sequester: costui, infatti, restituirà la cosa, almeno nella situazione più comune – che è quella descritta da Fiorentino – a quello dei depositanti che risulti vincitore nella controversia. Diverso, secondo il giurista, è il caso in cui più persone depositino una cosa comune: in effetti a questa ipotesi si riferisce un altro frammento del titolo, Ulp. 30 ad ed., D. 16.3.1.44, che specifica che in tale situazione la configurazione del deposito come solidale o parziario dipende dalla volontà delle parti101. Il confronto fra deposito e sequestro prosegue nel § 1, dove si specifica che, se nel deposito il deponente rimane proprietario e possessor ad interdicta della cosa (mentre il depositario è soltanto detentore), al sequester si trasferisce anche il possesso ad interdicta ‘in modo che il tempo non proceda (ai fini dell’usucapione) a favore di nessuna delle due parti’102: notazione, quest’ultima, che fa pensare che qui Fiorentino alludesse al sequestro per volontà delle parti di una res oggetto di reivindicatio. Ciò mostra che il giurista, forse anche in ragione della finalità didattica dell’opera103, intendeva presentare il caso più frequente di depositum in sequestre – cioè quello stipulato fra il sequester e le parti di un processo di rivendica –. Lo stesso fanno sia Modestino in 6 pand., D. 50.16.110, dove si definisce il sequester come colui presso cui plures eandem rem, e qua controversia est, deposuerunt, sia altri giuristi (Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.9.3; Lab. 6 post. a Iav. epit., D. 16.3.33; Iul. 2 ex Minic., D. 41.2.39), sia Gellio noct. Att. 20.11.5, Serv. ad Aen. 11.133 e Petr. satyr. 15, sia TP Sulp. 40 (= TP 28 + 105) del maggio 52104. Bisogna tuttavia ricordare che le fonti sul tema, pur non essendo molte, presentano anche situazioni differenti: ad es. Ulp. 30 ad ed., D. 16.3.7pr. parla del depositum apud sequestrem di uno schiavo per sottoporlo a tortura al fine di ottenere prove utili in un pro-
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Sulla qualificazione del sequestro come una forma particolare di deposito, García Vásquez 2001, 352 s. In ragione di questo confronto, Querzoli 1991, 75 richiama, fra gli altri, questo passo come esempio della “importanza dei procedimenti logici della Stoa nell’esposizione del ius” da parte di Fiorentino: in particolare, nel caso in esame, ciò sarebbe rivelato dal “frequente ricorso alle tecniche definitorie per contrarium”. Lo stesso l’A. afferma, pur con maggior cautela, in Querzoli 1996, 189-190. L’ipotesi è a mio avviso ingiustificata: salvo che in [FF. 1 e 25], non sono ravvisabili nella trattazione del giurista, tipicamente tecnico-giuridica, influssi filosofici. 101 Sed si duo deposuerunt et ambo agant, si quidem sic deposuerunt, ut vel unus tollat totum, poterit in solidum agere: sin vero pro parte, pro qua eorum interest, tum dicendum est in partem condemnationem faciendam. 102 Aricò Anselmo 1988, 217-331, Nicosia 1999, 65-81 e Nicosia 2002, 277-309, escludendo l’idea del possesso del sequestratario, pensano a un rimaneggiamento del passo. Nicosia, in particolare (2002, 277 ss.) ipotizza l’errore di un amanuense che, in luogo dell’originario nec, avrebbe scritto nam. Al contrario, secondo Albanese 2003, 45 ss., che accoglie in parte le conclusioni di Nicosia, quella descritta da Fiorentino sarebbe proprio la situazione in cui, contrariamente al solito, il sequester acquisiva il possesso della cosa. Una parte della dottrina ha tentato di giustificare il possesso del sequestratario con l’origine storica del sequestro nel possesso interinale attribuito ad una parte durante la legis actio per sacramentum in rem. Sul tema Broggini 1963, 43-63; Jakab 1985, 235-243. 103 Guizzi 1964, 321 spiega la preoccupazione della precisione e della completezza, che spesso si nota nell’opera di Fiorentino, in particolare in questo passo, col fatto che il tema del sequestro non era trattato nella sezione corrispondente del manuale gaiano. Mi pare, tuttavia, un’ipotesi peregrina. 104 Camodeca 1992, 120 ss. 100
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Commento cesso105; Ulp. 30 ad ed., D. 16.3.5.1 parla dell’obbligo del sequester di exhibere una res, il che poteva accadere anche al di fuori dell’ambito processuale, ad es. con riferimento alle tabulae testamenti (cfr. Gai. 7 ad ed. prov., D. 10.2.5); Ulp. 30 ad ed., D. 19.5.18 tratta del deposito di denaro destinato a pagare un terzo qualora riesca a ricondurre uno schiavo fuggitivo dal suo dominus; C. 4.34.5, costituzione degli imperatori Valeriano e Gallieno dell’anno 259, parla di sequestro di instrumenta utili a scopo probatorio in un successivo processo. Dunque Fiorentino deve aver fornito una definizione che privilegiava l’uso più comune di questo contratto nella pratica, ma formalmente più corretta è quella generica data da Paolo 2 ad ed., D. 16.3.6 che lo qualifica come una forma particolare di depositum effettuato da più creditori in solido ad un soggetto tenuto a custodire e restituire la cosa certa condicione, cioè al verificarsi di un certo fatto previsto nel contratto (Proprie autem in sequestre est depositum, quod a pluribus in solidum certa condicione custodiendum reddendumque traditur). Del resto l’idea che Fiorentino abbia ristretto la tematica all’ipotesi più frequente di sequestro, ma che esso potesse aver luogo anche al di fuori di un caso di controversia strettamente intesa, si ricava pure da D. 41.2.39, un passo di Giuliano 2 ex Minic.: Interesse puto, qua mente apud sequestrum deponitur res. nam si omittendae possessionis causa et hoc aperte fuerit approbatum, ad usucapionem possessio eius partibus non procederet: at si custodiae causa deponatur, ad usucapionem eam possessionem procedere constat.
Giuliano, infatti, precisa che il depositum in sequestre poteva essere effettuato per due ragioni: o omittendae possessionis causa, cioè, come chiarisce anche Fiorentino, per evitare che il tempo per l’usucapione decorresse a favore di uno dei due litiganti in un processo di rivendica; o semplicemente a scopo di custodia di un bene, da esibire o restituire ai deponenti al verificarsi di una certa condizione. Soltanto nel primo caso, che era quello più frequente, il possesso ad interdicta del bene sarebbe passato al sequester. Come suggerisce Albanese, “alla base del riconoscimento della tutela interdittale alla situazione possessoria del sequestratario – che certo non possiede nel proprio interesse, e non ha diritto alcuno di usare l’oggetto affidatogli – sta, con ogni evidenza, una ragione pratica. Se i litiganti, nell’affidare la cosa controversa al sequestratario, esplicitamente si accordavano (…) a rinunziare, fino alla risoluzione della controversia, alla propria qualità di possessori, occorreva che sussistesse una persona legittimata a difendere la cosa in controversia da molestie e spogli, sul piano possessorio”106. F. 12 – D. 11.7.42 Il passo, tratto dal titolo del Digesto De religiosis et sumptibus funerum et ut funus ducere liceat, contiene le definizioni dei termini monumentum, sepulchrum e kενοτάφιον: il primo indica qualsiasi ‘res (…) memoriae causa in posterum prodita’; il secondo è un monumentum in cui siano stati introdotti il corpo del defunto e le sue reliquiae; il terzo è un monumentum privo di resti umani che svolge la sola funzione di memoriale107.
105
Sempre che si tratti di un vero sequestro: cfr. Manfredini 1991, 10 ss. Albanese 1985, 90-91. 107 Sulla distinzione fra sepolcro, monumento etc., di recente Zarro 2017, 383-406; D’Amati 2021, 164 ss. con altra lett. Sul termine monumentum come oggetto dei verbi perficere o reficere, Manfredini 1987, 221 ss. 106
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Lauretta Maganzani La ragione della presenza di questo passo nel libro VII dell’opera di Fiorentino, dedicato verosimilmente ai contratti reali e consensuali, è stata spiegata da Lenel ipotizzando, pur con cautela, una rubrica del tipo De emptione et venditione108. Secondo l’A., dunque, la collocazione del frammento in questo libro si può spiegare, nell’ambito di una trattazione sull’emptio-venditio, con l’intento del giurista di definire il sepolcro come res religiosa inalienabile, distinguendolo da monumenti simili o annessi: infatti Lenel richiama109 I. 3.23.5 dove, proprio in tema di emptio-venditio, si specifica la nullità della vendita di loca sacra, religiosa e publica, pur aggiungendo la notazione che chi sia stato ingannato dal venditore sul punto potrà esercitare un’actio ex empto contro di lui110. La tematica è ampiamente trattata dalle fonti giurisprudenziali111: ad es. si definisce ‘sepolcro’ il luogo ove, sua voluntate (Marcian. 3 inst., D. 1.8.6.4), una persona abbia seppellito un cadavere, secondo Aristone anche di condizione servile (Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.2pr.) e, nel caso che le parti del corpo del defunto siano state smembrate, il luogo in cui sia seppellito il suo caput (Paul. 3 quaest., D. 11.7.44). Si precisa, poi, che i sepolcri potevano anche essere destinati a più persone, ad es. ai membri della famiglia o agli eredi (sepulchra familiaria e hereditaria: Gai. 19 ad ed. prov., D. 11.7.5). Si sottolinea inoltre a più riprese il carattere religiosus sia del locus sepulchri, sia dei suoi ornamenta (Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.11.2) e di tutto ciò che fosse ad esso fisicamente congiunto (Paul. 27 ad ed., D. 6.1.43: Quae religiosis adhaerent, religiosa sunt), sia addirittura della porzione di cielo sovrastante e di terra sottostante (Venul. 2 interd., D. 43.24.22.4)112. Anche Cicerone, in de leg. 2.57, affermava che ‘Prima (…) che venga buttata la terra sull’osso, il luogo ove il corpo è stato cremato non ha alcun significato religioso; ma buttatavi sopra la terra, esso dalla terra prende il nome di tumulo, e soltanto allora coinvolge molte regole giuridiche’ (Nam prius quam in os iniecta gleba est, locus ille ubi crematum est corpus nihil habet religionis; iniecta gleba et illic humatus est et sepulcrum vocatur, ac tum denique multa iura complectitur)113. Analoghe definizioni si trovano in Festo 348 s. (Lindsay) secondo cui ‘Religiosum sepulcrum, ubi mortus sepultus aut humatus sit, satis constare ait’ (sc. Aelius Gallus); in Festo 456 (Lindsay) secondo cui ‘chrum est ut ait Gallus Aeli mortuus sepultus est’ e in Serv. ad aen. 3.22.14-15 secondo cui il sepolcro è un’operis exstructio e il monumentum l’inscriptum nomen memoriaque114.
108
[De emptione et venditione?]. Lenel 1889, I, 173 nt. 5. 110 Loca sacra vel religiosa, item publica, veluti forum, basilicam, frustra quis sciens emit, quas tamen si pro privatis vel profanis, deceptus a venditore, emerit, habebit actionem ex empto, quod non habere ei liceat ut consequatur quod sua interest deceptum eum non esse. 111 Ingiustificata è, quindi, l’idea di Querzoli, 1991, 76 s. che questo passo denoti l’utilizzo da parte di Fiorentino della logica stoica per il fatto che contrappone due diverse species (sepolcro e cenotafio) attraverso “la ‘griglia’ espositiva del contrarium”. Lo stesso l’A. sostiene, pur con maggior cautela, in Querzoli 1996, 191-193. 112 Sulla tripartizione res sacrae, religiosae e sanctae, cfr. de Souza 2004, passim, con altra lett. Sulla disciplina delle res religiosae, De Visscher 1963, 55-63; Kaser 1978, 15-92; Palma 1990, 1 ss.; Lazzarini 1991, passim; von Hesberg 1992, 25 s.; Ducos 1995, 135-144; Lazzarini 1997, 83-97; Thomas 1999, 105-112; Remesal Rodríguez 2002, 369-377; Lazzarini 2005, 47-57; Estienne 2008, 687-697; Laubry 2012, 169-180; Laubry 2014, 159-173; Laubry 2016, 75-93; D’Amati 2020, 147-200; Salazar Revuelta C. 2020, 1-22; D’Amati 2021, 107 ss. Sul sepolcro come bene di interesse pubblico, Padovan 2016, 121-170. 113 Sul passo Scheid 2005, 161-188. 114 Laubry 2016, 76 ss. 109
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Commento Altri giuristi, oltre a Fiorentino, precisano poi la differenza fra il sepolcro, il monumentum e il cenotaphium: ad es. Ulpiano afferma che nel termine sepolcro è compresa l’intera area destinata alla sepoltura del cadavere (25 ad ed. praet., D. 47.12.3.2) ma in 25 ad ed. praet., D. 11.7.2.5 precisa, richiamando Celso, che ‘Sepulchrum est, ubi corpus ossave hominis condita sunt. Celsus autem ait: non totus qui sepulturae destinatus est, locus religiosus fit, sed quatenus corpus humatum est’. Nel paragrafo successivo, poi, lo stesso Ulpiano distingue fra sepulchrum e monumentum, precisando che il primo contiene sempre le spoglie di uno o più defunti, mentre il secondo è eretto memoriae servandae gratia (25 ad ed., D. 11.7.2.6)115. Il cenotafio, invece, sempre secondo Ulpiano che cita una costituzione dei divi fratres (Marco Aurelio e Lucio Vero)116, non è mai locus religiosus (25 ad ed., D. 11.7.6.1): infatti è l’inumazione del cadavere a rendere religiosa l’area. Tuttavia, sul punto, l’opinione dei giuristi non doveva essere uniforme, visto che Marciano nel III libro delle institutiones (D. 1.8.6.5) precisa che ‘Cenotaphium quoque magis placet locum esse religiosum, sicut testis in ea re est Vergilius’, richiamandosi in particolare all’episodio narrato in aen. 3.303-305 dove Andromaca, non disponendo del corpo del defunto, dedica ad Ettore un cenotafio con gli stessi riti previsti per la sepoltura117. Ciò mostra che Fiorentino prendeva posizione su una questione controversa e non priva di risvolti pratici: è noto, infatti, che soltanto le res religiosae erano divini iuris e perciò nullius in bonis (Paul. 21 ad ed., D. 18.1.51)118, inalienabili e intrasmissibili (Gai. 2 inst., D. 1.8.1pr.) nonché non passibili di actio in rem (Paul. 21 ad ed., D. 6.1.23.1), di contrattazione privata (ad es. l’eventuale stipulatio era inutilis: Paul. 72 ad ed., D. 45.1.83.5; la vendita era nulla: Pomp. 9 ad Sab., D. 18.1.4; Pomp. 9 ad Sab., D. 18.1.6pr.; Ulp. 28 ad Sab., D. 18.1.22; Pap. 10 quaest., D. 18.1.72.1) e della costituzione di una servitù prediale (Paul. 15 ad Sab. D. 8.1.14.2; Paul. 15 ad Plaut., D. 39.3.17.3). Lenel119 sospettava che l’inciso ‘monumentum memoriae causa factum’ nell’ambito della definizione di ‘cenotafio’ corrispondesse ad una glossa tardoantica. Al contrario esiste una fondata ragione per cui i sepulchra e i cenotaphia furono qualificati come monumenta. Coll’appellativo generale di monumentum venivano designati tutti i manufatti cui fosse stata conferita pubblicamente la funzione di ricordare o attestare qualche cosa: un testo di Marcello, ad es., parla di monumenta publica alludendo alle formae agrorum, ai cippi confinari e a tutto ciò che, in una controversia di confini o di proprietà, poteva dare indicazioni certe all’autorità giudicante sull’estensione dei terreni rispettivi dei contendenti. In particolare
115 Sul termine memoria, in part., Ricci 2010, 163-180. Sui monumenta, von Hesberg 1992, passim; Hope 2001, 1 ss.; Zavadil 2003, 253-257; Laubry 2016, 75 ss. Cfr. anche le seguenti raccolte di scritti: Valenti 2010; Nenna, Huber, Van Andringa 2018, in particolare il contributo di Van Andringa 2018, 381-402. 116 Forse tale costituzione rientra nei provvedimenti di Marco Aurelio e Lucio Vero circa la sepoltura dei cadaveri emessi in occasione di una grave pestilenza scoppiata durante la guerra contro i Marcomanni: ad essi allude HA Vita M. Antonini philosophi (Marco Aurelio) 13.4 Tunc autem Antonini leges sepeliendi sepulchrorumque asperrimas sanxerunt, quando quidem caverunt, ne quis vellet fabricaretur sepulchrum. Quod hodieque servatur. Cfr. Ricci 2006, 19. 117 Tale diatriba sul cenotafio fu oggetto specifico di studio da parte di Alciato e Jacopo Gotofredo: Ferretti 2000, 415-428; Ricci 2006, 19-20. Per altri passi di opere letterarie latine richiamanti il cenotafio, Ricci 2006, 63-64. Ferretti 2000, 415-428, con riferimento alla soluzione della diatriba di cui sopra, pensa che ci fossero a Roma tre tipi di cenotafi, il primo, che era res religiosa, eretto per ricordare un morto disperso, il secondo meramente onorario, il terzo consacrato perché presso un’ara. 118 In Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.4 si dice che il sepolcro videtur ad mortuum pertinere. 119 1889. I. 173 nt. 6.
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Lauretta Maganzani Marcello ricorda un senatusconsultum con cui fu disposto che, nelle controversie di confine, i dati del censimento e quelli ricavabili appunto dai monumenta publica fossero da anteporre, in sede di giudizio, alle testimonianze: Marcell. 3 dig., D. 22.3.10: Census et monumenta publica potiora testibus esse senatus censuit.
Con analogo significato il termine compare in un testo di Papiniano, che parla di vetera monumenta come utili mezzi di prova nelle quaestiones finales: Pap. 2 resp., D. 10.1.11: In finalibus quaestionibus vetera monumenta census auctoritas ante litem incohatam ordinati sequenda est, modo si non varietate successionum et arbitrio possessorum fines additis vel detractis agris postea permutatos probetur.
La stessa accezione di monumentum risulta da C. 3.39.2 del 294, una costituzione di Diocleziano e Massimiano che sottolinea che i dati ricavabili dai cd. vetera monumenta individuabili sul terreno potevano essere privati della loro attendibilità in seguito ad accordi fra i vicini fondiari: Imperatores Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Tatiano: Successionum varietas et vicinorum novi consensus, additis vel detractis agris alterutro, determinationis veteris monumenta saepe permutant. D. VIIII k. Ian. Nicomediae CC. conss.
Ebbene anche i sepulchra erano annoverati dai Romani fra i monumenti con funzione confinaria120 e ciò per due ordini di ragioni: in primo luogo è noto che le necropoli romane erano di regola disposte lungo i principali assi viarii (cfr. Alf. 5 dig., D. 35.1.27) e si inserivano organicamente “nelle maglie della pianificazione territoriale antica”121: infatti “i vari elementi che costituivano la recinzione (termini, maceriae, munitiones) e l’arredo monumentale (ara, monumentum) delle aree funerarie erano in rapporto tra loro e con gli elementi della pianificazione pubblica (limites publici, via publica, fossae) attraverso precisi parametri metrici che ne garantivano l’individuazione catastale nella forma della città e del suo suburbio”122. Sui monumenti funerari o sui cippi delimitanti l’area ne erano perciò indicate le misure, sia lungo la strada, cd. frons, sia in profondità, verso il piano della campagna (cd. ager): era la cd. pedatura. La formula epigrafica più usata, riportata in abbreviazione, era usualmente redatta come segue: in fr(onte) p(edes) (…) in agr(o) p(edes) (...). Tali indicazioni avevano un preciso significato giuridico in relazione alla spettanza del sepolcro nonché all’ampiezza dell’area e potevano essere riportate o sul monumento sepolcrale vero e proprio, di regola in calce al testo dell’iscrizione
120 Su un frammento di una lex de sepulchris (Lach. 271 = Del Lungo 2004, 510-513) relativa proprio alla funzione confinaria dei sepolcri, tràdita da alcuni codici del Corpus Agrimensorum Romanorum e attribuita ai triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido fra il 43 e il 36 a.C. ma poi riproposta con modifiche o commenti dall’imperatore Tiberio il 18, 21 o 31 d.C., cioè durante uno dei suoi consolati, cfr. Maganzani 2020b, 921-938. 121 Zaccaria 2005, 199. Cfr. anche Gregori 2005, 77 ss. Sui sepolcri della via Appia e la loro collocazione spaziale Armellin 1999, 55-58. Sulle iscrizioni funerarie ostiensi, Laubry 2018, 1-39. Sulle ‘vie dei sepolcri’ di varie città venete, Compostella 1995, 80 ss. 122 Zaccaria 2005, 199.
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Commento che riportava la formula onomastica in genitivo del o dei defunti, spesso abbreviata, o su elementi lapidei della recinzione (transenne o loro blocchi di sostegno) oppure su cippi limitanei dell’area sepolcrale123. Talvolta poi le aree sepolcrali erano delimitate da recinzioni in muratura di cui si indicava la distanza dalla via pubblica (es. AÉ 1964, 86 e CIL 6.29773, entrambe da Roma). Per tutte queste ragioni i sepolcri costituivano monumenta ‘protetti’ e inamovibili che, se collocati in posizioni strategiche, potevano costituire ottimi punti di riferimento topografico e catastale124. F. 13 – D. 19.2.36 In tema di locatio operis, il passo si compone di un solo paragrafo ma è diviso logicamente in due parti125. Nella prima si distingue fra opus quod aversione locatum est e opus conductum ut in pedes mensurasve praestetur, statuendo che nel primo caso il periculum grava sul conduttoreappaltatore fino al momento dell’adprobatio da parte del locatore-committente126, nel secondo caso, fino all’effettuata misurazione. Si aggiunge poi che, se l’adprobatio o la mensura non hanno avuto luogo per una causa imputabile al committente, il periculum graverà su quest’ultimo. Nella seconda parte del passo si precisa che, salvo che sia stato diversamente pattuito, il periculum del perimento dell’opus graverà comunque sul locatore anche prima dell’adprobatio, se esso è dipeso da vis maior, in quanto non si può imporre all’appaltatore più di quanto avrebbe potuto conseguire con la sua cura ed attività. Il passo presenta molti aspetti problematici che hanno suscitato in dottrina una discussione piuttosto vivace: in primo luogo è stata oggetto di dibattito la portata della distinzione fra opus aversione locatum127 e opus conductum ut in pedes mensurasve praestetur. La soluzione migliore e più seguita pare quella (espressa da Kaser128, Mayer Maly129, Amirante130, Cannata131, Trisciuoglio132, Fiori133, Knütel134, Procchi135 e altri136) secondo cui tale distinzione non corri-
123 La presenza di cippi è attestata, oltre che archeologicamente, dalla parte finale della già cit. definizione festina del termine sepulchrum (Lindsay 456): Sepulchrum est (…) hisque cippis aut aliqua alia re mortui causa designatus est, intra quos fines sepoltura est facta. 124 Sulle formulae pedaturae come ‘documento giuridico’, Vaquerizo, Sánchez 2008, 110 ss., con altra lett. 125 Anche qui Querzoli 1991, 72-75 richiama il passo come esempio di adozione da parte di Fiorentino “di un criterio organizzatore riconducibile all’argumentum e contrario della dialettica stoica” (74): ma l’ipotesi è ingiustificata. Lo stesso l’A. afferma, pur con maggior cautela, in Querzoli 1996, 187-189. 126 Al termine periculum della prima parte del passo attestato dalla Fiorentina, Mommsen nell’editio maior del Digesto proponeva di sostituire periculo secondo alcuni codici della Vulgata: adesivo sul punto Kaser 1957, 192 nt. 144. 127 Sulle traduzioni ottocentesche dell’ablativo aversione, con particolare riferimento alla compravendita, Abatino 2012, 317 ss. 128 Kaser 1957, 187 s., 192. 129 Mayer Maly 1956, 40. 130 Amirante 1959, 87. 131 Cannata 1967-68, 209-210. 132 Trisciuoglio 1998, 81 nt. 18. 133 Fiori 1999, 254 nt. 232. 134 Knütel 2002, 247. 135 Procchi 2020, 155 s., 162 ss. 136 Ad es. Rainer 1992, 514; Buchwitz 2009, 361.
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Lauretta Maganzani sponderebbe al binomio ‘appalto a corpo’ e ‘a misura’137 (“che viene formulata con riferimento all’obbligazione del locator, basandosi solamente sul modo di calcolare la mercede”138 di un opus aversione locatum), ma a quella fra appalto e cottimo: “si tratta in sostanza – spiega Cannata – di una distinzione formulata con riferimento alla obbligazione del conductor, la quale nell’un caso ha per oggetto il risultato complessivo, nell’altro le singole unità di risultato corrispondenti all’unità di misura adottata”139. Qualche dibattito ha suscitato anche la distinzione fra adprobatio e mensura operis: ad una primigenia opinione secondo cui si sarebbe trattato di una differenza meramente quantitativa e non qualitativa140, si è poi accostata una più corretta visione secondo cui con l’admetiri il conductor veniva liberato da responsabilità ad ogni misurazione, il che significa che non ne assumeva per la perfectio dell’opera141. D’altra parte, secondo tale dottrina, fu soltanto nella prima età imperiale, e precisamente con Labeone (cfr. Paul. 2 ad ed., D. 50.16.5.1), che la giurisprudenza giunse all’elaborazione dell’idea di un corpus che diviene perfectum ‘ex opere facto’142. Ma la maggiore difficoltà incontrata nell’esegesi del testo si è avuta a causa della (presunta) contraddizione fra la prima e la seconda parte: in entrambe, infatti, si parla di periculum, eppure nella prima si statuisce che, almeno nel caso di opus aversione locatum, esso grava sul conduttore fino all’adprobatio, e invece nella seconda lo stesso periculum è fatto ricadere sul locatore se il perimento della cosa è derivato da vis maior. Da qui una serie di ipotesi interpolazionistiche, almeno da parte degli autori più risalenti (come Haymann, Monier, Arangio-Ruiz143) secondo i quali sarebbe sempre insiticia, quando riferita al periodo precedente il collaudo, l’espressione ‘periculum locatoris’, sistematicamente introdotta dai giustinianei sull’esempio di quanto statuito per la compravendita. Emilio Betti, poi, pensava ad un’interpolazione della seconda parte del testo, ritenendo che lì i compilatori avessero generalizzato la soluzione che il giurista riferiva alla sola ipotesi di mora del locator144. Tali interpretazioni partono dal presupposto che il termine periculum abbia, nelle due parti del frammento, la stessa portata, e cioè alluda al cd. ‘rischio contrattuale’, espressione che si riferisce, nell’odierna dogmatica, al caso del perimento del bene oggetto dell’obbligazione per una causa non imputabile al debitore. Sin da Betti, infatti, si è distinto rigorosamente tra responsabilità e rischio contrattuale, riferendosi con il primo termine all’ipotesi di perimento del bene oggetto dell’obbligazione per causa imputabile al debitore (cioè per dolo, colpa o
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Così sostenevano, ad es., Miquel 1964, 185; Alzon 1965, 237 nt. 1102; Martin 1986, 326 ss. Cannata 1967-68, 209-210. 139 Cannata 1967-68, 210. 140 Così pensava De Robertis 1946, 160 sostenendo che, nel caso di opera locata aversione, si faceva luogo ad “una probatio complessiva dell’opera da parte del committente”, nel caso di opera locata in pedes mensurasve “a tante probationes particolari, per quante volte nell’esecuzione dell’opera si fossero raggiunte le dimensioni stabilite”. 141 Amirante 1959, 87-88. In particolare sul termine probatio nella disciplina degli appalti, Santamato 2012, 4553. 142 Amirante 1959, 88. 143 Ad es. Haymann 1920, 155 ss.; Monier 1944-45, 227 e nt. 1; Arangio-Ruiz 1958, 198-201; contra Luzzatto 1938, 197; Alzon 1965, 237 nt. 1102. 144 Betti 1962, 422 ss. 138
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Commento custodia a seconda dei rapporti obbligatori), con il secondo per caso fortuito o forza maggiore145. Vi è da notare, tuttavia, che il termine periculum è attestato nelle fonti giustinianee con svariati significati, alludendo talvolta al rischio contrattuale nel senso odierno del termine146, talatra alla responsabilità del debitore per custodia147, cioè per furto della cosa o danno provocato ad essa da parte di terzi, talatra ancora al mero rischio economico gravante, ad es., sul mutuatario che, per qualche ragione, perda il denaro o altri beni di genere che gli sono stati consegnati, visto che, com’è noto, il suo debito non si estingue mai per perimento della cosa (perché genus numquam perit)148. Ne consegue che Fiorentino deve aver voluto semplicemente affermare che, fino alla misurazione o al collaudo finale, un eventuale danno all’opus è posto a carico del conduttore, a meno che il ritardo nel compimento di queste verifiche sia dipeso dal locatore; e che, tuttavia, qualunque danno precedente alla probatio grava sempre sul locatore se derivato da vis maior149. Del resto, la rigidità della tesi tradizionale, che considera assolutamente incompatibili i problemi di rischio e responsabilità contrattuale – osserva Cannata – non solo è “estranea al pensiero dei giuristi romani”150, ma dimentica del tutto il senso dell’adprobatio operis: “Il fatto che il trasferimento dei rischi che riguardano l’opus coincida con il momento dell’adprobatio” non può che significare che “il trasferimento dei rischi è operato dall’adprobatio stessa. Non potrà quindi che trattarsi dei rischi per le circostanze che la probatio ha precisamente la funzione di verificare; in ogni caso, quindi, non i rischi per eventi puramente obiettivi (vis maior) – che il testo infatti isola attribuendoli sempre al committente – bensì i rischi per quei caratteri dell’opus (…) che il conductor praestare debet e di cui la probatio con esito positivo acquisisce definitivamente la presenza”151. Si aggiunga che, come spiegato da Letizia Vacca, il “giurista può parlare indifferentemente di periculum per il conduttore e per il locatore, perché in entrambe le soluzioni l’esposizione all’azione contrattuale prescinde dall’analisi concreta della condotta del responsabile”152. Un’altra possibilità interpretativa è che Fiorentino abbia inteso il termine periculum nell’accezione di periculum custodiae153 e abbia quindi dichiarato che andava addossato al conduttore, fino all’adprobatio dell’opera, oltre al dolo e alla colpa, il periculum del furto o del
145 Betti 1962, 422 ss. Parlano di un senso tecnico del termine periculum, quando esso venga riferito propriamente al rischio contrattuale, e di un senso atecnico quando venga riferito alla responsabilità, Chamié 2015, 29 ss., Pelloso 2016, 263-302 e Carro 2016, 1-20. 146 Cfr. ad es. Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.70.2; Paul. 5 epit. Alf. dig., D. 13.7.30; Iav. 5 post. Lab., D. 19.2.60 (59); Lab. 1 pith., D. 19.2.62; Ulp. 29 ad Sab., D. 47.2.14.4. 147 Es. Gai. 5 ad ed. prov., D. 19.2.40; Ulp. 5 ad ed., D. 19.2.41; Gai. ad ed. praet. urb. tit. de liberal. caus., D. 40.12.13.1; Ulp. 29 ad Sab., D.47.2.12pr.; Ulp. 29 ad Sab., D. 47.2.14.16. 148 Es. Ulp. 26 ad ed., D. 12.1.9.9. 149 Così Miquel 1964, 183 ss.; Fiori 1999, 254 nt. 232; Knütel 2002, 248; Vacca 2015, 196 s.; Buchwitz 2009, 361; Jakab 2009, 202. 150 Così anche Vacca 2015, 196 s. 151 Cannata 1967-68, 213-214. Sempre Cannata 1993, 28 nt. 334 sottolinea la rarità dell’espressione ‘opus praestare’ (che non compare che nel testo di Fiorentino) che alluderebbe non al praestare l’opus come tale, ma al praestare il facere opus. 152 Vacca 2015, 198. 153 Sulla custodia nella locatio operis, Robaye 1987, 157 ss.; Cardilli 1995, 486 ss.; Siklósi 2015, 223-248.
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Lauretta Maganzani danno prodotto da terzi alla cosa, ma non quello dovuto a vis maior, gravante sempre sul locatore154. Di periculum custodiae nel senso qui indicato parla, ad es., un testo di Gaio tratto dal V libro del commento all’editto provinciale (D. 19.2.40) secondo cui ‘Qui mercedem accipit pro custodia alicuius rei, is huius periculum custodiae praestat’, e molti altri frammenti del Digesto definiscono periculum la responsabilità per custodia (del comodatario, del creditore pignoratizio, del conductor operis). Inoltre Ulp. 5 ad ed., D. 19.2.41 documenta l’estensione ad opera di Marcello (approvata da Ulpiano) della responsabilità per custodia ai danni provocati da terzi: Sed de damno ab alio dato agi cum eo non posse Iulianus ait: qua enim custodia consequi potuit, ne damnum iniuria ab alio dari possit? Sed Marcellus interdum esse posse ait, sive custodiri potuit, ne damnum daretur, sive ipse custos damnum dedit: quae sententia Marcelli probanda est. In ogni caso si deve ritenere che il testo si possa agevolmente interpretare – come già sostenuto alla metà degli anni ’60 da Miquel155 – senza ipotizzare ingiustificati interventi interpolazionistici.
LIBRO VIII
F. 14 – D. 45.1.65 Il libro VIII contiene quattro frammenti in tema di stipulatio, il che prova che, nell’opera, i contratti verbali erano trattati dopo quelli reali e consensuali, diversamente da quanto accade nelle Istituzioni gaiane e giustinianee. Il primo frammento riguarda la forma della stipulatio: in particolare, nel principium, viene posto il problema delle eventuali aggiunte, nella domanda dello stipulante o nella risposta impegnativa del promittente, di frasi estranee al contesto e non pertinenti all’atto; come nel caso in cui il promittente faccia precedere l’espressione del verbo impegnativo ‘spondeo’ dall’enunciazione del notissimo verso poetico con cui si apre l’Eneide di Virgilio (1.1): ‘arma virumque cano’156. Si tratta evidentemente di un’aggiunta superflua che, proprio per questo, non vizia l’obligatio considerandosi come non apposta157. Ma anche nel caso – trattato nel § 2 – di una variazione, fra domanda e risposta, nell’appellatio della res quae promittitur o della persona menzionata nel contratto, l’obligatio produce i suoi effetti, purché ovviamente non vi sia incertezza sull’oggetto o il soggetto indicati: come ad es. nel caso in cui alla domanda dello stipulante di dare una certa quantità di denarii, il promittente rispondesse obbligandosi a dare la corrispondente quantità di aurei (è noto che l’aureo equivaleva a 25 denarii) oppure nel caso in cui alla domanda del servus che dichiarasse di stipulare per il suo padrone Lucio,
154 155 156 157
Così Betti 1956, 186 s. seguito da Babusiaux 2006, 223 s. Miquel 1964, 134-190. Sull’uso della letteratura colta da parte dei giuristi, Fiorentini 2013, 167-197. Gandolfi 1966, 325 s. e nt. 279.
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Commento il promittente promettesse di dare a Tizio, essendo chiaro che in entrambe le ipotesi ci si riferiva al futuro creditore Lucio Tizio. Si tratta forse di casi di scuola che esemplificano e chiariscono regole giuridiche formulate in altri testi del titolo 45.1158: ad es. D. 45.1.1.5 tratto dal XLVIII libro di Ulpiano ad Sabinum dove – come nel testo qui esaminato – si precisa che tutto ciò che di superfluo sia stato aggiunto alla domanda e alla risposta deve essere considerato supervacuum e non vitiat obligationem perché utile per inutile non vitiatur159; Cels. 26 dig., D. 45.1.97pr. dove, nella domanda dello stipulante ‘te sisti? Nisi steteris, hippocentaurum dari?’, la clausola ‘nisi steteris, hippocentaurum dari?’ sarà considerata come non apposta160; Paul. 5 sent., D. 45.1.136pr. dove si specifica che il fatto di chiamare una cosa dedotta nella stipulatio in diversi modi ma con una sola significatio non infirmat obligationem161. F. 15 – D. 45.2.7 Sempre in tema di stipulatio il frammento insegna che non è di ostacolo all’assunzione in solidum dell’obbligo ex stipulatione da parte di due rei promittendi il fatto che l’uno si obblighi puramente e semplicemente, l’altro a termine o sotto condizione: si tratta di una regola che ha sfidato i secoli e che, già dettata dall’art. 1201 del codice civile napoleonico, è stata poi ripresa dall’art. 1187 del codice civile italiano del 1865 e ora dall’art. 1293 del codice del 1942162. Il testo compare anche nelle Istituzioni giustinianee, I. 3.16.2, che recitano: Ex duobus rei promittendi alius pure, alius in diem vel sub condicione obligari potest; nec impedimento erit dies aut condicio, quo minus ab eo, qui pure obligatus est, petatur. L’assenza, nella versione del Digesto, dell’espressione alius pure presente in quello istituzionale è dovuta, secondo Wieacker163, all’omissione di un copista e mostra ancora una volta che i compilatori delle Istituzioni hanno fatto uso di un esemplare dell’opera migliore rispetto a quello utilizzato per il Digesto. La solidarietà di cui si parla nel testo è quella passiva nascente da stipulatio, la cui formula è esplicitata nelle Istituzioni giustinianee 3.16pr.: Duo pluresve rei promittendi ita fiunt: ‘Maevi, quinque aureos dare spondes? Sei, eosdem quinque aureos dare spondes?’ Respondeant singuli separatim ‘Spondeo’164. La formula mostra che, perché un’obbligazione da stipulatio potesse essere considerata solidale, occorreva, da una parte, la cd. unitas actus – per cui i promittenti dove-
158 Regole di cui trattano, ad es., Biondi 1953, 293-310; Castresana 1994, 439-462; Pastori 1994, 255-299; Meyer 2004, 253-265; Pérez Bravo 2009, 137-155; Rampazzo 2009, 408 ss.; Cusmà Piccione 2013, 339-436, spec. 374-381; Coch Roura 2017, 71-127, spec. 108-110. 159 Sed si mihi Pamphilum stipulanti tu Pamphilum et Stichum spoponderis, Stichi adiectionem pro supervacuo habendam puto: nam si tot sunt stipulationes, quot corpora, duae sunt quodammodo stipulationes, una utilis, alia inutilis, neque vitiatur utilis per hanc inutilem. Sulla regola ‘Utile per inutile non vitiatur’, Seiler 1976, 127-147; Zimmermann 1996, 75-76. 160 Si ita stipulatus fuero: ‘te sisti? Nisi steteris, hippocentaurum dari?’ Proinde erit, atque ‘te sisti’ solummodo stipulatus essem. 161 Si sub una significatione diversis nominibus ea res, quae in stipulatum deducitur, appellatur, non infirmat obligationem, si alter altero verbo utatur. 162 Rossetti 2013, 16 s. nt. 41. 163 Wieacker 1949, 580. 164 Nelle fonti giustinianee l’appellativo rei promittendi è di regola riservato ai debitori solidali da stipulatio. Invece per debitori solidali dipendenti da altri tipi di contratto si usavano preferibilmente espressioni come duo rei o quasi duo rei o duo quodammodo rei: cfr. Sacconi 1973, 109; Schmieder 2007, 48 ss., 141 ss.; Parenti 2012, 5; Rossetti 2013, 16 ss.
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Lauretta Maganzani vano rispondere immediatamente ‘Spondeo’ alle domande impegnative loro rivolte dallo stipulante –, dall’altra il cd. idem debitum – per cui il contenuto delle domande del futuro creditore ai due (o più) rei promittendi doveva essere identico –: non a caso la seconda interrogatio riportata nel passo delle Istituzioni (Sei, eosdem quinque aureos dare spondes?) fa esplicito riferimento al contenuto della prima. Nel passo Fiorentino si riferisce in particolare al requisito dell’idem debitum e mostra di interpretarlo estensivamente precisando che i due rei promittendi si considerano obbligati alla medesima prestazione anche se uno dei due si è obbligato puramente e semplicemente e l’altro a termine o sotto condizione. Il testo rappresenta quindi un tentativo del giurista di estendere il concetto di solidarietà attraverso l’interpretazione estensiva di tale requisito. Analogo tentativo risulta, peraltro, effettuato, da un diverso punto di vista, anche da Giuliano: infatti, in 22 dig., D. 45.2.5, il giurista afferma che si può parlare di obbligazione solidale anche nel caso di due fabbri che promettano al medesimo creditore le loro opere, purché esse siano identiche ed uguale sia considerata la loro perizia di artigiani. Per Giuliano, quindi, nell’obligatio solidalis la prestazione poteva avere ad oggetto non solo una res determinata o fungibile (come il denaro), ma anche delle operae intese come identiche, se non completamente nelle caratteristiche materiali, almeno nella valutazione economicosociale. Dopo aver enunciato il principio generale, Fiorentino ne spiega la ragione: l’apposizione di un termine o di una condizione all’obbligo assunto da uno dei due rei promittendi non priva l’attore della possibilità di esercitare la petitio contro quello dei due debitori obbligato puramente e semplicemente. Col termine petitio egli faceva riferimento verosimilmente alla litis contestatio165: quest’ultima, infatti, novando il precedente vincolo solidale in obbligo delle parti in causa di sottostare alla decisione del iudex privatus, liberava tutti gli altri debitori solidali privando l’attore della possibilità di agire contro di loro per soddisfare il suo diritto di credito. Secondo Talamanca166 tale osservazione di Fiorentino si spiega alla luce della connessione esistente fra l’evoluzione delle obbligazioni solidali e quella delle obbligazioni di garanzia:
165 Casavola 1965, 103-104. Cfr. anche Pellegatta 2016, 21 ss. Su questa accezione del termine ‘petitio’, infra, nel commento a [F. 21] D. 46.4.18. Il termine ‘petere’ ha questo significato anche, ad es., in Pap. 4 quaest., D. 45.1.116 che tratta della fideiussio indemnitatis, cioè della garanzia prestata da un terzo di pagare al creditore la somma che quest’ultimo non sia riuscito ad ottenere dal debitore. Papiniano osserva che l’azione esperita dal creditore non libera il fideiussore: infatti, aggiunge Paolo, il debitore e il garante non sono obbligati solidalmente ma l’obbligazione del secondo è subordinata alla mancata solvibilità del primo. La precisazione di Paolo (a Maevio enim ante Titium excussum non recte petetur) chiarisce che, nel contesto, con il termine petitio si allude alla litis contestatio che ha effetto estintivo del rapporto solidale derivante da stipulatio. Un secondo testo significativo, Venul. 3 stip., D. 46.2.31.1, si riferisce al caso di due rei stipulandi e spiega che quello dei due creditori che faccia la litis contestatio col debitore deduce in giudizio l’intera obligatio (unum iudicium petentem totam rem in litem deducere). Con Giustiniano, quando la litis contestatio aveva perso già da tempo il suo originario significato, il verbo petere assunse, invece, il senso di ‘esigere il pagamento’, mentre non fu più la litis contestatio nei confronti di uno dei condebitori ad estinguere l’obbligazione solidale, ma l’effettivo soddisfacimento delle pretese creditorie: ciò risulta da C. 8.40.28 del 531, dove Giustiniano dichiara: Idemque in duobus reis promittendi constituimus, ex unius rei electione praeiudicium creditori adversus alium fieri non concedentes, sed remanere et ipsi creditori actiones integras et personales et hypothecarias, donec per omnia ei satisfiat. 166 Cfr. Talamanca 1970, 128-129 nt. 4; cfr. Sacconi 1973, 136.
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Commento egli ritiene cioè possibile che il giurista abbia affermato la possibilità di apporre un termine o una condizione ad uno dei due rapporti obbligatori solidali sotto l’influenza di un altro simile cambiamento verificatosi nella disciplina delle obbligazioni di garanzia, che dal II secolo (Gai. inst. 3.113; 3.126) si ammise potessero presentare elementi accidentali non presenti nella stipulazione principale. In tal caso Fiorentino si porrebbe in un momento intermedio nell’evoluzione della disciplina della solidarietà: dapprima l’obbligazione solidale doveva esigere rigidamente l’idem debitum fra gli obbligati; poi, forse a seguito di una parallela innovazione in relazione alle obbligazioni di garanzia, anche l’obbligazione solidale dovette essere interpretata estensivamente fino ad ammettere l’apponibilità di un elemento accidentale ad uno dei due vincoli solidali. Da qui si avviò un lento processo di trasformazione del concetto stesso di solidarietà verso il frazionamento del rapporto: esso si concluderà con Giustiniano quando, con la Novella 99, si ammetterà che, fra più debitori solidali, qualora siano solvibili, l’azione si debba frazionare in parti uguali, con l’effetto di trasformare in sostanza la solidarietà in una mutua fideiussione167. Si noti, infine, che D. 45.2.7 in passato è stato spesso oggetto di studio: la ragione sta nell’importanza che questo frammento rivestiva per la soluzione dell’annosa questione, ora superata, se il vincolo solidale presupponesse una sola obbligazione o più obbligazioni a seconda del numero dei debitori (o creditori). Il dubbio sorgeva perché le fonti su questo punto appaiono contraddittorie, parlando alcuni passi di unum debitum e altri di plures obligationes. Tra questi testi D. 45.2.7 era, fra l’altro, l’unico, per così dire, neutrale, perché non conteneva “informazioni né in un senso né nell’altro”168. Già Albertario, comunque, metteva in luce l’unità del rapporto solidale, non influenzata dalla pluralità dei soggetti: unità “non (…) distrutta né pure dal fatto che rispetto a ciascun subbietto il vincolo assuma un atteggiamento diverso per modalità speciali che si aggiungono all’obbligazione di ciascuno. Il debito rimane sempre unico: soltanto, uno dei soggetti non può essere costretto al soddisfacimento dell’obbligazione prima che siasi verificata la condizione o sia scaduto il termine: in altre parole non si esige la perfetta eguaglianza del vincolo dal lato personale”169. F. 16 – D. 45.3.15; F. 17 – D. 46.2.16 I passi attengono all’attività negoziale dello schiavo170, con particolare riferimento al contratto di stipulatio in alcune delle sue applicazioni. Il primo testo dispone che tutto ciò che lo schiavo stipuli viene acquistato dal dominus171, indipendentemente da chi sia il soggetto indicato nel contratto come beneficiario della prestazione dovuta, che sia il dominus stesso oppure il servus stipulante o un suo conservus o anche se la stipulatio sia pronunciata impersonaliter, cioè senza l’indicazione del beneficiario (es. Centum dari promittis? Promitto).
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Di recente sul tema, Zarro 2016, 217-251. Branca 1956, 143. 169 Albertario 1948, 75. 170 Sulla progressiva emersione di un’autonomia negoziale dello schiavo, Buti 1976, 123 ss.; Del Sorbo 2011, 389-405; Del Sorbo 2012, 429-444; Del Sorbo 2017, 109-129; Reduzzi Merola 2018, 225-233. 171 Urbanik 1998, 181-197; Urbanik 2011, sv Stipulatio servorum. 168
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Lauretta Maganzani Si tratta di una regola basilare nel sistema giuridico romano nel quale, com’è noto, il figlio e lo schiavo acquistavano sempre al pater familias-dominus quale che fosse la causa dell’acquisto. Essa è più volte ribadita dalle fonti (es. Gai. inst. 1.52; 2.86-87; 3.163; Gai. 2 inst., D. 41.1.10pr.-1; Gai 11 ad ed. prov., 41.1.32; Mod. 14 ad Quint. Muc., D. 41.1.53; Ulp 50 ad Sab., D. 45.1.45pr.; Iul. 52 dig., D. 45.3.1pr.; I. 3.17; tit. Ulp. 19.18)172. Il passo compare, oltre che nel Digesto, anche in I. 3.17.1: Sive autem domino, sive sibi, sive conservo suo sive impersonaliter servus stipuler, domino adquirit. I testi si differenziano soltanto per la presenza, nel testo delle Istituzioni, della congiunzione avversativa autem posta all’inizio della frase in collegamento con la frase precedente, nonché per l’uso della terza persona singolare invece della prima persona del Digesto: del resto l’aggiunta di congiunzioni colleganti e la trasformazione della prima persona singolare nella terza sono, a detta di Wieacker173, interpolazioni formali tipiche della commissione delle Istituzioni giustiniaee. Si vedrà, infine, nel commento a [F. 18] che, a parere di chi scrive, [F. 16], nella ricostruzione palingenetica delle institutiones Florentini, dovrebbe essere posto dopo [F. 18]. Il secondo testo esclude che lo schiavo possa novare un’obbligazione, neppure peculiare, salvo che per volontà del dominus, disponendo che, indipendentemente da tale volontà egli, più che novare la precedente obbligazione, con la nuova stipulatio aggiunge alla prima obligatio una seconda obligatio174. Com’è noto, la novazione veniva di regola realizzata attraverso stipulatio, la quale aveva l’effetto di estinguere l’obligatio preesistente creandone una nuova, che la sostituiva175. Ciò significa che, secondo Fiorentino, lo schiavo non poteva, senza la voluntas del dominus176, estinguere l’obbligazione precedentemente contratta trasferendo il suo contenuto in una successiva stipulatio con l’aggiunta di un’aliquid novi (es. un termine, una condizione, un fideiussore) oppure mutando la persona del creditore o del debitore. Il principio risulta espresso anche in altri testi del Digesto, ad es. in Cels. 1 dig., D. 46.2.25 dove, a fronte della regola generale per cui è legittimato a novare un’obligatio colui cui recte solvitur, cioè chi può legittimamente ricevere il pagamento dal debitore (di regola il creditore), si obietta che ciò non avviene nel caso delle persone in potestate177: infatti né il filius familias né lo schiavo, pur potendo ricevere il pagamento per il loro padrone, possono novare priorem obligationem178.
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Coppola Bisazza 2008, 37 nt. 46 (con altra lett.). Wieacker 1949, 580. 174 Sulle ipotesi di interpolazione del testo, cfr. Sacconi 1971, 224 nt. 114. Sulla storia del principio e la sua evoluzione (dalla recisa negazione della legittimazione del servo a novare un’obbligazione peculiare, alla sua ammissione purché dotato della libera administratio peculii), Buti 1976, 165 nt. 48, con altra lett. 175 Bonifacio 1959, 155. 176 Alcune fonti alludono a ordini di patres familias o domini ai sottoposti di novare le proprie obligationes: es. Paul. sent. 5.8 Non solum per nosmet ipsos novamus quod nobis debetur, sed etiam per eos, per quos stipulari possumus, velut per filiam familias vel per servum iubendo vel ratum habendo; Paul. 72 ad ed., D. 46.2.20pr.: Novare possumus aut ipsi, si sui iuris sumus, aut per alios, qui voluntate nostra stipulantur. 177 Lo stesso vale per l’adiectus solutionis causa che può ricevere il pagamento ma non novare l’obligatio. Cfr. Paul. 11 ad Sab., D. 46.2.10: Cui recte solvitur, is etiam novare potest, excepto eo, si mihi aut Titio stipulatus sim: nam Titius novare non potest, licet recte ei solvitur. 178 Non ideo novare veterem obligationem quisquam recte potest, quod interdum recte ei solvitur: nam et his, qui in nostra potestate sunt, quod ab his creditum est recte interdum solvitur, cum nemo eorum per se novare priorem obligationem iure possit. 173
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Commento Conseguenza di tale divieto è che – come osserva Pomponio 21 ad Sab., D. 46.3.19 citando Labeone – se il mio schiavo fuggitivo, comportandosi da libero, ha dato a credito a un terzo del denaro che ha rubato a me, il debitore si libererà nei miei confronti se restituisce allo schiavo la somma che gli è stata prestata, ma non si libererà se paga ad un terzo estraneo al rapporto su delegazione dallo schiavo, perché sia la novazione del credito, sia la delegazione sono a quello precluse179. Ciò non significa, ovviamente, che lo schiavo o il filius non possano novare un proprio credito o debito peculiare nemmeno se hanno ottenuto dal dominus la libera administratio peculii180: in tal caso, infatti, l’approvazione del dominus è presupposta dalla concessione iniziale (cfr. Gai. 3 de verb. obl., D. 46.2.34pr.181; Paul. 18 ad ed., D. 12.2.20182 e Gai. 5 ad ed . prov., D.12.2.21183). La ragione di tale divieto non è chiara184 ma potrebbe dipendere dal fatto che la novazione poteva talvolta danneggiare il dominus: come sarebbe accaduto, ad es., se un servus creditore avesse novato l’obligatio ma la stipulatio posteriore fosse inutilis. Infatti, in tal caso la stipulatio novativa avrebbe avuto comunque l’effetto di estinguere l’obbligazione precedente ma non si sarebbe trasferita in quella nuova, che era nulla. Un esempio è presentato da Gai. inst. 3.176: Praeterea novatione tollitur obligatio ueluti si quod tu mihi debeas, a Titio dari stipulatus sim; nam interuentu nouae personae noua nascitur obligatio et prima tollitur translata in posteriorem, adeo ut interdum, licet posterior stipulatio inutilis sit, tamen prima novationis iure tollatur, ueluti si quod mihi debes, a Titio post mortem eius uel a muliere pupillove sine tutoris auctoritate stipulatus fuero; quo casu rem amitto; nam et prior debitor liberatur, et posterior obligatio nulla est185: il creditore ha stipulato che ciò che il debitore doveva a lui sia, invece, pagato da un terzo, ma la stipulatio novativa è inutilis perché, ad es., ha avuto luogo con un pupillo o una donna senza l’auctoritas del tutore. In questo caso – afferma Gaio – il debitore precedente è liberato ma la seconda obligatio è nulla. Ciò tuttavia – conclude – non accade se la prima obligatio era stata contratta con uno schiavo: infatti, in questo caso, essa non si estingue, come se la stipulatio novativa non avesse avuto luogo (non idem iuris est, si a servo stipulatus fuero; nam tunc prior proinde adhuc obligatus tenetur, ac si postea a nullo stipulatus fuissem). Ma anche nel caso di una novazione oggettiva in cui, ad es., all’obligatio fosse stata aggiunta una condicio, Gaio riferisce che, almeno secondo Servio Sulpicio186, qualora la condizione
179 Fugitivus meus, cum pro libero se gereret, nummos mihi subreptos credidit tibi: obligari te mihi Labeo ait et, si eum liberum existimans solveris ei, liberari te a me, sed si alii solvisses iussu eius vel is ratum habuisset, non liberari, quia priore casu mei nummi facti essent et quasi mihi solutum intellegeretur. Et ideo servus meus quod peculiari nomine crediderit exigendo liberabit debitorem, delegando autem vel novando non idem consequeretur. Cfr. Bonifacio 1959, 153 ss. 180 Buti 1976, 165 nt. 48. Sulla distinzione fra concessio peculii pura e semplice e libera administratio peculii, Buti 1976, 18 ss.; così anche Sacconi 1971, 224 nt. 114. 181 Dubitari non debet, quin filius servusve, cui administratio peculii permissa est, novandi quoque peculiaria debita ius habeat, utique si ipsi stipulentur, maxime si etiam meliorem suam condicionem eo modo faciunt. Nam si alium iubeant stipulari, interest utrum donandi animo alium iubeant stipulari an ut ipsi filio servove negotium gerant: quo nomine etiam mandati actio peculio adquiritur. 182 Servus quod detulit vel iuravit, servetur, si peculii administrationem habuit. 183 (…) huic (al servus) enim solvi quoque recte potest et novandae obligationis ius habet. 184 Anche Talamanca 1999, 45 e nt. 153 si mostra incerto sulla ragione di tale divieto. 185 Lambrini 2006, 55 ss. 186 Altri giuristi pensavano invece che, con l’aggiunta di una condizione, si avrebbe avuto novazione della precedente obligatio soltanto al suo verificarsi, e anche Gaio è di questo parere (Gai. inst. 3.179).
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Lauretta Maganzani non si fosse poi verificata, il creditore non avrebbe potuto agire né in base all’obligatio precedente, che si era estinta, né in base a quella nuova (Gai. inst. 3.179: Servius tamen Sulpicius existimavit statim et pendente condicione novationem fieri, et si defecerit condicio, ex neutra causa agi posse eo modo rem perire). Anche in tale ipotesi, dunque, una novazione effettuata dal servus avrebbe potuto danneggiare il dominus. F. 18 – D. 46.1.22, D. 29.2.54 In [F. 18] Lenel ha riunito due frammenti tratti dal libro VIII che nel Digesto giustinianeo si trovavano in posizioni distinte. Il primo (D. 46.1.22) è un passo in tema di eredità giacente che è stato oggetto di moltissimi studi sin dai secoli del diritto comune perché su di esso è stata elaborata la dottrina della personalità giuridica, ignota alle fonti romane187. Ma anche fra i romanisti, soprattutto del XIX e XX secolo, il passo è stato oggetto di molteplici analisi esegetiche e critiche testuali come una delle testimonianze più significative della disciplina romana dell’hereditas iacens188 e della sua evoluzione nei secoli fino all’età giustinianea189: esso afferma che, dopo la morte del promittente di una stipulatio e prima dell’aditio hereditatis da parte del suo erede – cioè durante la giacenza dell’eredità – è possibile assumere un fideiussore a garanzia dell’adempimento dell’obbligo da stipulatio pur mancando una persona fisica che ne sia titolare (visto che il de cuius è morto e l’istituito erede non è ancora subentrato nel patrimonio ereditario) in quanto ‘l’eredità fa le veci della persona, come accade per il municipio, la decuria e la societas’. Ad una tematica affine si riferisce il secondo passo, D. 29.2.54, che afferma che, una volta accettata l’eredità, è come se l’erede fosse succeduto al defunto sin dal momento della morte. Nella ricchezza dottrinale che ha interessato questi testi nei secoli non è facile orientarsi, anche perché l’attenzione degli studiosi si è concentrata, più che sulla regola espressa in esordio del frammento (Mortuo reo promittendi et ante aditam hereditatem fideiussor accipi potest), sulla successiva motivazione ‘quia hereditas personae vice fungitur’, lasciando di solito nell’ombra i problemi posti dalla tematica dell’assunzione di garanti per debiti ereditari prima dell’adizione dell’eredità190. Per questo si è standardizzata l’idea – formulata da Riccardo Orestano in un noto contributo191 – che i giuristi romani siano passati da una concezione originaria
187 Anche i maggiori pandettisti (fra cui Mühlenbruch e Windscheid) riconobbero all’eredità giacente personalità giuridica, mentre Savigny criticò questa impostazione proponendo la tesi della persona fittizia come soggetto dell’hereditas iacens: sul tema, ampiamente, Gioffredi 1965, 285 ss.; Orestano 1968, 7 ss.; Robbe 1975, 7 ss., 16 ss.; Castro Sáenz 1998, passim; Duplá Marín 2003, passim. Notoriamente nemmeno oggi si considera l’eredità giacente come persona giuridica: Dovere 2004, 15 nt. 12. 188 Com’è noto, i Romani non parlavano di hereditas ‘iacens’: si tratta di un’espressione elaborata dai Glossatori sulla base delle fonti romane (es. Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.13.5 hereditas iacebat): cfr., con altra lett., Orestano 1998, 2056; Dovere 2004, 13 ss. e nt. 2. 189 Per un’ampia e ragionata disamina delle ipotesi avanzate sul tema, dalla Pandettistica e poi dagli autori del ‘900, si veda Robbe 1975, 7 ss.; Castro Sáenz 1998, passim; Alonso 2001, 209 ss.; Duplá Marín 2003, passim. 190 Un esempio di tale impostazione è in Orestano 1998, 2055 ss.: “Cominciarono gli stessi giuristi romani, o quanto meno i compilatori giustinianei, a parlare – in un passo famosissimo – di casi in cui l’hereditas personae vice fungitur, sicuti municipium et decuria et societas” (2056). Analoga impostazione in Castro Sáenz 1998, passim. Per tale critica cfr. Robbe 1975, 7 ss. e Cenderelli 2011, 44 ss. 191 Orestano 1998, 2053-2078.
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Commento dell’hereditas come res nullius192 a quella della ‘titolarità dell’eredità nondum adita alla persona fisica dell’erede’193 (I sec. d.C. con Cassio Longino) o alla persona fisica del defunto (II sec. d.C. con Salvio Giuliano)194, poi a quella di una sorta di ‘rappresentanza ideale svolta dall’eredità medesima’195, infine, nel III-IV secolo, alla qualificazione dell’hereditas stessa come ‘domina’, dunque titolare in proprio di rapporti giuridici196. E tuttavia tale ricostruzione non spiega, fra le altre cose, per quale motivo la qualificazione dell’hereditas come res nullius permanga inalterata nei secoli, a volte persino negli stessi testi in cui emerge una delle successive concezioni (es. Ulp. 18 ad ed., D. 9.2.13.2; Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.13.5; Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6). In realtà una rinnovata esegesi del frammento florentiniano nel suo contesto letterale e palingenetico può indicare una via diversa da seguire. Cominciando coll’esaminare la prima parte del frammento, è interessante notare come da almeno un altro testo del Digesto risulti che, già con Giuliano, si considerava possibile che, durante la giacenza dell’eredità, uno o più terzi prestassero fideiussione197 per un debito ereditario assunto dal de cuius prima della morte e si precisava che, in questo caso, i fideiussores si sarebbero obbligati verso il creditore nomine hereditatis. La questione derivava dal fatto che, com’è noto, unico requisito perché una garanzia personale potesse essere prestata a favore di un’obligatio principale era che tale obligatio, anche se naturalis, esistesse effettivamente. Ma, nel caso dell’eredità giacente, il patrimonio ereditario era considerato dai giuristi res nullius suscettibile di usucapione, il che significa che non esisteva un titolare persona fisica dei debiti ereditari: Iul 12 dig., D. 46.1.11: Qui contra senatus consultum filio familias crediderit, mortuo eo fideiussorem a patre accipere non potest, quia neque civilem neque honorariam adversus patrem actionem habet nec est ulla hereditas, cuius nomine fideiussores obligari possent.
Il passo riguarda il caso di un filius familias che abbia ricevuto a mutuo da un terzo contro le disposizioni del senatoconsulto Macedoniano198. Dopo la morte del filius, il giurista esclude che il mutuante possa assumere un fideiussore a garanzia del debito imputandolo al padre (cioè come se fosse lui il debitore principale) perché né in capo a quest’ultimo è sorta, in base allo ius civile, un’obligatio, civilis o naturalis, da garantire, né ovviamente c’è un’hereditas a cui nome i fideiussori si possano obbligare199: a parte la complessità del testo
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Sul tema Castro Sáenz 2001, 19-30. Orestano 1998, 2063. 194 Si è anche parlato, in proposito, di ‘finzione giurisprudenziale’: cfr. Castro Sáenz 1998, 143-181; Marotta 2021b, 302 (con la lett. cit.). 195 Orestano 1998, 2067. 196 Orestano 1998, 2071 ss.; Dovere 2005, 3-16; Dovere 2008, 739-758; Dovere 2017, 255-262; Dovere 2017a, 127-138; Dovere 2017b, 139-155. 197 Trattandosi di una garanzia personale prestata per un’obligatio verbis, è possibile che il testo originariamente trattasse di sponsio, non di fideiussio: cfr. Cenderelli 2011, 53. 198 Sul passo, ampiamente, Cenderelli 2011, 46 ss., a cui si rinvia per la lett. prec. 199 La soluzione di Giuliano risulta espressamente richiamata da Venuleio 2 stip., D. 14.6.18, dove tuttavia si precisa che un terzo potrà prestare fideiussione per il debito del padre, ma soltanto eius actionis nomine, quae de peculio adversus eum competat. Cfr. Cenderelli 2011, 48 ss. 193
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Lauretta Maganzani in sé, esso mostra con chiarezza che in generale, cioè al di fuori del caso specifico considerato, per Giuliano non vi erano ostacoli all’idea che si potessero assumere fideiussori per un debito ereditario durante la giacenza, nonostante mancasse un titolare persona fisica del debito da garantire, e ciò perché la fideiussio poteva essere prestata a nome dell’hereditas. Tale possibilità, secondo Ulpiano 27 ad ed., D. 13.5.11pr. che richiama Pomponio, vale anche per l’assunzione di garanzia personale, durante la giacenza dell’eredità, attraverso un constitutum debiti alieni, per un debito ereditario assunto dal defunto prima della morte (a cui è equiparato il captivus hostium) nonostante che, in quel momento, nessuno appaia titolare di quel debito (nullus apparet, qui interim debeat)200: Hactenus igitur constitutum valebit, si quod constituitur debitum sit, etiamsi nullus apparet, qui interim debeat: ut puta si ante aditam hereditatem debitoris vel capto eo ab hostibus constituat quis se soluturum: nam et Pomponius scribit valere constitutum, quoniam debita pecunia constituta est.
Si comprende allora come anche Fiorentino, forse un secolo dopo Giuliano, abbia potuto scrivere che una fideiussione per un debito ereditario poteva essere prestata con stipulatio da un terzo al creditore anche durante la giacenza dell’eredità, pur mancando un titolare attuale del patrimonio ereditario e, dunque, un soggetto passivo del rapporto obbligatorio garantito: e ciò perché l’hereditas stessa, come si vedrà, era (da tempo) considerata dai giuristi, anche se soltanto a fini pratici, come possibile centro di imputazione delle situazioni giuridiche facenti capo al defunto al momento della morte (vice personae [defuncti]). In questo senso mi pare si giustifichi la famosa frase, martoriata dalla critica di tutti i tempi, secondo cui hereditas personae vice fungitur, di cui non di rado si è sostenuto il carattere insiticio come se riconoscesse all’eredità giacente una personalità giuridica201. È noto, del resto, che sono molti i testi della giurisprudenza romana nei quali si affrontano problemi legati all’assenza di una persona fisica titolare del patrimonio ereditario durante la giacenza e sempre essi sono risolti riconoscendo all’hereditas, pur soltanto a fini pratici, la capacità di essere punto di riferimento dei relativi rapporti, con soluzioni che possono essere anche diversificate a seconda di ciò che i giuristi volevano di volta in volta dimostrare e del problema pratico da risolvere202.
200
Sul testo Cenderelli 2011, 59 ss., con la lett. cit. Così Orestano 1998, 2074-2075. Del resto già Cicerone in de off. 1.124 scriveva che è compito del magistratus gerere personam civitatis (Agnati, 2009, 3-4). Sul rapporto fra la disciplina dell’hereditas iacens nel mondo romano e il concetto di personalità giuridica, Castro Sáenz 1998, passim (con la lett. cit.). Un altro testo controverso, ma comprensibile se collocato nel contesto particolare esaminato dall’autore, è Paul. 15 ad Plaut., D. 41.3.15pr.: nam hereditatem in quibusdam vice personae fungi receptum est (…). 202 Già Cenderelli 2011, 11-13 notava con ragione che il regime giuridico dell’hereditas iacens “costituisce un prisma attraverso il quale i giuristi romani presero in esame numerosi istituti, escogitando al riguardo agili interpretazioni e ricorrendo anche ad arditi espedienti” (11), in particolare per ciò che attiene alla “situazione di vitalità in cui si trovano i rapporti obbligatori nell’ambito di un’eredità senza erede” (13). Tuttavia spesso “ci si è limitati a considerazioni generali o ad ipotesi dogmatiche (…) senza approfondire i problemi interpretativi emergenti dall’esame delle fonti relative al regime concreto di essa” (11-12). Cfr. anche Dovere 2004, 17. Si rinvia ai contributi citati per la letteratura precedente sul tema. 201
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Commento Ad es. è comunemente accolto dai giuristi, sin da età piuttosto risalente, che l’hereditas, considerata res incorporalis o nomen iuris203, potesse, pur in assenza di un titolare, subire incrementi e diminuzioni a seguito di fatti giuridici indipendenti dall’attività negoziale umana204, come per acquisto di frutti o per avulsio di una porzione del terreno rivierasco a causa della violenza del fiume. Ma è anche generalmente accettato dalla giurisprudenza che un servus hereditarius205 potesse, dopo la morte del dominus e prima dell’aditio hereditatis, a nome dell’hereditas considerata fare le veci del defunto, acquistare un bene o un diritto206 (ad eccezione dell’ususfructus207 e del possesso208), essere istituito erede209, ottenere, attraverso stipulatio con un terzo, una fideiussio per un credito ereditario210 o, con acceptilatio, la rimessione di un debito del padrone morto211. Del resto, è lo stesso Fiorentino che, in un frammento successivo delle institutiones in tema di legati, [F. 34] D. 30.116.3, spiega la legittimità del legato a favore del servo ereditario ‘quia hereditas personae defuncti, qui eam reliquit, vice fungitur’212. Egualmente significativo sul punto è Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3pr. e 6 che, commentando la formula in factum negotiorum gestorum introdotta dal pretore, afferma che questi previde espressamente nella clausola edittale la possibilità che un terzo iniziasse a gestire gli affari di un defunto prima dell’aditio hereditatis, perché in mancanza nessuno avrebbe potuto gestire affari non facenti capo ad alcuna persona fisica, mentre era già assodato che erano acquisiti ipso iure all’hereditas gli eventuali acquisti per accessione, per frutti oppure ottenuti per il tramite dell’attività negoziale del servus hereditarius. È dunque comprensibile che, pur per un’ipotesi parzialmente diversa – fideiussio per un debito ereditario durante la giacenza – anche Fiorentino abbia usato lo stesso argomento (personae vice fungitur).
203 L’hereditas è considerata res incorporalis, ad es., da Gai. inst. 2.14 = I. 2.2.2. In 49 ad Sab., D. 50.16.178.1, poi, Ulpiano qualifica l’hereditas come iuris nomen, diverso dai singoli beni che la compongono. Cfr. anche Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3.6; Ulp. 15 ad ed., D. 5.3.20.3; Pap. 6 quaest., D. 5.3.50pr.; Pomp. 5 ad Sab., D. 29.2.37; Ulp. 39 ad ed., D. 37.1.3pr.; Gai. 6 ad ed. prov., D. 50.16.24; Pomp. 3 ad Quint. Muc., D. 50.16.119; Afric. 4 quaest., D. 50.16.208; Iul. 6 dig., D. 50.17.62. 204 Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3.6; Ulp. 15 ad ed., D. 5.3.20.3; Ulp. 49 ad Sab., D. 50.16.178.1. 205 Sulla nozione di servus hereditarius, Duplá Marín 2004, 177 ss. 206 In generale Gai. 11 ad ed. prov., D. 41.1.32; Herm. 6 iuris epit., D. 41.1.61pr.; I. 3.17. Per la stipulatio Ulp. 4 disp., D. 41.1.33pr.; Ven. 12 stip., D. 45.3.25; Paul 24 ad ed., D. 45.1.73.1; Mod. 7 reg., D. 45.3.35. Per il legato Gai. 12 ad leg. Iul. et Pap., D. 31.55.1; Ulp. 4 disp., D. 41.1.33pr.; per la traditio Ulp. 4 disp., D. 41.1.33.2; per la compera e la conseguente usucapio Pap. 23 quaest., D. 41.3.44.3. Sul tema, in particolare, Duplá Marín 2003, passim. 207 Infatti l’usufrutto è un diritto reale strettamente personale che, com’è noto, si estingue con la morte del titolare e dunque non è per natura trasmissibile agli eredi. Il legato di usufrutto potrà pertanto essere acquisito dal servus soltanto prima della morte del dominus o dopo l’aditio hereditatis, non durante la sua giacenza: cfr. ad es. Ulp. 17 ad Sab., D. 7.3.1.2; Herm. 6 iuris epit., D. 41.1.61pr. e 1. Cfr. Duplá Marín 2000, 183 ss. 208 Lo stesso vale per il possesso che, come situazione di fatto, non si trasmette all’erede né rientra nell’hereditas iacens, ma viene meno con la morte del de cuius, potendo eventualmente essere riacquistato dall’erede dopo l’aditio. Per questa ragione – spiega Ulpiano 38 ad ed., D. 47.4.1.15, richiamando Scevola – dell’hereditas ‘nullus est possessor’ e non è quindi nemmeno possibile il furtum dell’eredità. 209 Es. Gai. 17 ad ed. prov., D. 28.5.31.1. 210 Es. Iav. 7 epist., D. 44.3.4; Ven. 12 stip., D. 45.3.25. Cfr. Cenderelli 2011, 61 ss., 65 ss. 211 Es. Paul. 12 ad Sab., D. 46.4.11.2. 212 Non mi pare esistente la contraddizione che Orestano 1998, 2075 individuava fra questo testo e D. 46.1.22 dove si dice che l’hereditas ‘personae vice fungitur’: si tratta di due osservazioni diverse ma compatibili, anche perché pure in quest’ultimo testo il riferimento sottinteso è sempre alla ‘persona’ del defunto.
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Lauretta Maganzani Tutto ciò significa che l’eredità giacente veniva considerata dai giuristi, in una pluralità di casi discussi con grande acribia (compreso quello qui esaminato), ‘fare le veci della persona’ (del defunto) o talvolta dell’erede213, non perché si volesse con ciò costruire una nozione generale di persona giuridica, ma perché occorreva risolvere i numerosi problemi pratici connessi all’assenza di una persona fisica sui iuris titolare dei rapporti giuridici facenti capo all’hereditas durante la giacenza. Questo non contrasta con l’affermazione frequente dei giuristi per cui i beni ereditari, prima dell’aditio hereditatis, sono nullius (es. Gai. 2 inst., D. 1.8.1pr.214; Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3.6; Ulp. 18 ad ed., D. 9.2.13.2; Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.3pr.; Iav. 7 ep., D. 28.5.65 [64]; Gai. 12 ad leg. Iul. et Pap., D. 31.55.1; Ulp. 49 ad ed., D. 38.9.1pr.; Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.13.5; Ulp. 38 ad ed., D. 47.4.1.15) anzi trova in essa la sua giustificazione: benchè, infatti, il patrimonio ereditario, dopo la morte del de cuius e prima del subentro dell’erede, effettivamente manchi di un titolare attuale, viene riconosciuta comunque all’hereditas dall’interpretatio giurisprudenziale, a fini pratici, la posizione di centro di imputazione di (alcuni) rapporti giuridici in sostituzione della persona (del defunto), in particolare quelli che determinino un acquisto di un bene o di un diritto. Occorre, del resto, sottolineare che gli stessi giuristi dovevano essere consci del fatto che quello da loro discusso con tanta acribia costituiva un problema pratico meramente temporaneo215, che
213 Qualcuno, infatti, affermò anche che l’hereditas iacens poteva ‘sustinere personam heredis’, ma pure qui non come principio generale, quanto per risolvere un problema pratico, anche se diverso da quello finora considerato. Un esempio si ha in Pomp. 5 ex Plaut., D. 46.2.24 che tratta di una stipulatio novativa sottoposta a condizione conclusa dal dominus prima di morire: esemplificando, il passo considera il caso in cui, a fronte di un debito di Sempronio verso di me, io concluda una stipulatio novativa chiedendo a Tizio di promettermi di adempiere lui al verificarsi di una determinata condizione (es. Prometti di darmi ciò che mi deve Sempronio se lui tornerà dalla guerra? Tizio risponde: Prometto). Ma Tizio muore prima del verificarsi della condizione (cioè quando Sempronio non è ancora tornato dalla guerra) e tuttavia la condizione (Sempronio torna dalla guerra) si verifica prima dell’aditio dell’hereditas di Tizio, cioè durante la giacenza della sua eredità. Il giurista precisa che la stipulazione novativa produce effetto in quel momento, anche se non c’è ancora un erede che, appunto, è provvisoriamente ‘sostituito’ dall’hereditas (per questo il testo dice che l’hereditas sustinet personam heredis). È chiaro peraltro che l’azione potrà essere esercitata di fatto solo dopo l’aditio, quando ci sarà un soggetto fisico capace in tal senso. Si tratta quindi di un caso diverso da quelli esaminati sopra. Qui l’hereditas è considerata come un’entità giuridicamente rilevante a cui provvisoriamente fa capo il contratto in attesa che l’erede acquisti l’eredità: da quel momento l’erede sarà considerato come subentrato al defunto sin dal momento della morte e come tale potrà esercitare l’azione. Un altro testo significativo, che è stato interpretato come se l’eredità giacente fosse considerata quale titolare impersonale di rapporti giuridici, ma che a mio avviso risponde ad un’esigenza meramente concreta, è Ulp. 71 ad ed., D. 43.24.13.5: al praedium facente parte di un’hereditas iacens ‘aliquid vi aut clam factum sit’ (es. un vicino intraprende un’opera su di esso con la violenza o clandestinamente). Secondo Labeone, Viviano e Ulpiano, l’erede, una volta divenuto tale, potrà chiedere al pretore l’emissione dell’interdictum quod vi aut clam anche se l’attività violenta o clandestina è stata posta in essere quando ancora mancava all’hereditas un titolare attuale. Infatti – spiega Labeone – pure il sepolcro, come res religiosa, manca di un titolare, eppure, per qualsiasi attività violenta o clandestina esercitata su di esso, è possibile richiedere al pretore l’emissione dell’interdetto quod vi aut clam. A questa spiegazione si aggiunge la frase ‘accedit his, quod hereditas dominae locum optinet’, che è stata spesso interpretata nel senso che l’hereditas sarebbe qui considerata come ‘persona giuridica’: effettivamente l’espressione dominae locum optinet può sembrare un fuor d’opera nel contesto del frammento e quindi non si può escludere che essa sia frutto di una glossa o interpolazione. Tuttavia Ulpiano potrebbe anche aver voluto dire semplicemente che, secondo un’opinione giurisprudenziale alla sua epoca consolidata, l’hereditas iacens era considerata dai giuristi idonea a fornire, a titolo meramente provvisorio, cioè in attesa del subentro dell’erede, quella capacità che era stata propria del dominus defunto. 214 Da questo frammento Göschen 1820, nella prima edizione delle institutiones di Gaio, colmò la lacuna di Gai. inst. 2.9. 215 Cfr. Cenderelli 2011, 14.
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Commento sarebbe stato risolto con l’acquisto dell’eredità, quando l’aditio sarebbe stata considerata come retroagente fino al momento della morte del de cuius216. Lo stesso Fiorentino, in D. 29.2.54 (considerato da Lenel come il seguito di D. 46.1.22), precisa che ‘Heres quandoque adeundo hereditatem iam tunc a morte successisse defuncto intellegitur’217. Questi dati inducono a credere che, a dispetto delle usuali ricostruzioni dottrinali della tematica (che spesso hanno avuto il difetto di isolare singoli frammenti o paragrafi dal relativo contesto, elevandoli a principi generali)218, i molteplici testi giurisprudenziali, apparentemente contraddittori, in tema di hereditas iacens, in realtà non dimostrino, come di solito si sostiene, che essa fu considerata dai giuristi dapprima res nullius suscettibile di usucapione, poi ‘persona’ facente le veci del defunto, poi ‘persona’ facente le veci dell’erede. Forse si può pensare ad un’evoluzione nella qualificazione giuridica dell’eredità giacente soltanto quando essa venne definita domina di sé stessa e capace in proprio di rapporti giuridici219. Piuttosto l’hereditas iacens dovette sempre essere considerata nullius (almeno fino alla sua tarda qualificazione come domina)220 in quanto priva di un titolare attuale persona fisica. Tuttavia, sin da età risalente, per specifiche situazioni, in particolare negozi acquisitivi contratti dal servus hereditarius, si trovò la giustificazione teorica di tali acquisti, pur in assenza di una persona fisica sui iuris che ne potesse divenire titolare, equiparando l’hereditas ad un possibile centro di imputazione di situazioni giuridiche in luogo del defunto (come in [F. 34] D. 30.116.3 dello stesso Fiorentino): e ciò perché, pur mancando il legame dell’hereditas con un soggetto, i giuristi “riconobbero l’unità patrimoniale, quale si trovava nel periodo della vita del titolare; ne fecero, per ragioni di utilità, un concetto giuridico, col ricollegare ad essa delle conseguenze giuridiche”221. La stessa giustificazione viene trovata da Fiorentino nel passo qui esaminato per l’assunzione di una fideiussione da parte di un terzo per un debito ereditario, nonostante la mancanza di un titolare persona fisica. Naturalmente non mancano, in tale complessa questione, ampiamente trattata dai prudentes, situazioni controverse: ad es. risulta dai testi che alcuni giuristi dovettero dissentire sul momento a partire dal quale la stipulatio o altro negozio giuridico acquisitivo compiuti dallo schiavo durante la giacenza dell’eredità, producesse effetto. Infatti Cassio, Venuleio e Paolo ritennero che il negozio potesse avere effetto soltanto al momento dell’aditio hereditatis, quindi a nome dell’erede222. Invece, secondo Giuliano e Ulpiano, i negozi acquisitivi dello schiavo ereditario producevano effetto subito223.
216 Ciò trova conferma in un caso esposto da Labeone nel II libro dei Posteriora editi da Giavoleno, dove si tratta di un soggetto che, nel testamento, prima è stato destinatario di uno iussus del testatore a manumittere hereditarium servum, e poi è stato dichiarato heres (D. 28.7.20.1). Tale manumissio – spiega Labeone – non è valida perché effettuata dall’erede istituito prima dell’acquisto dell’eredità. E tuttavia post aditionem, cioè dopo che l’erede diverrà dominus del servus in questione, la manumissio ‘convalescit’ al fine di rispettare le volontà espresse dal defunto. 217 La stessa regola è enunciata da Cels. 38 dig., D. 50.17.193: Cenderelli 2011, 57 ss.; cfr. anche Castro Saenz 1998a, 81. 218 Ampia discussione sulla letteratura precedente in Dovere 2004, 13 ss.; Cenderelli 2011, 51 ss. e nt. 74. 219 Non a caso fu proprio a seguito della qualificazione tardoantica dell’hereditas come domina, che divenne oggetto di discussione l’idea, prima comune, che l’hereditas, come res nullius, non potesse essere oggetto di actio furti. Cfr. ad es. Paul. 1 ad Ner., D. 47.19.6. 220 Così Robbe 1975, 33. 221 Robbe 1975, 33. 222 Ven. 12 stipul., D. 45.3.25; Paul. 24 ad ed., D. 45.1.73.1. 223 Ulp. 4 disp., D. 41.1.33.2.
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Lauretta Maganzani Tali questioni specifiche dibattute dai giuristi, tuttavia, non tolgono nulla alla loro generale concordia – espressa anche nella massima istituzionale riportata da Fiorentino D. 46.1.22 – sulla possibilità che, in determinati casi, per ragioni pratiche, l’hereditas fosse considerata centro di imputazione delle situazioni giuridiche che facevano capo al defunto. Concordo quindi con quanto scriveva Robbe nel 1975 e cioè che in origine l’hereditas iacens, in quanto patrimonio senza soggetto, “si considera come un’unità organica, naturale. Esso può subire aumenti e diminuzioni in forza di eventi naturali e della sua esistenza di fatto. E se questi limiti furono superati dalla giurisprudenza a datare dal I secolo dell’Impero, (…) e in ordine ad acquisti (…) per opera dei servi, si entra nella zona più attiva delle costruzioni dei giuristi romani e delle controversie (…). Qualsiasi idea di personificazione dell’hereditas (…) viene meno e la costruzione si riduce a ciò che essa doveva realmente abbracciare, cioè singoli casi della vita giuridica”224. Passiamo infine al tratto conclusivo di D. 46.1.22, quasi unanimemente sospettato di interpolazione dalla dottrina del Novecento225: l’eredità funge da persona ‘sicuti municipium et decuria et societas’. Bisogna tuttavia notare che anche questa chiusa è stata in genere interpretata avulsa dal suo contesto, mentre assume un senso compiuto se letta alla luce della prima parte del frammento. Infatti qui, verosimilmente, Fiorentino non intendeva equiparare l’hereditas iacens, intesa come persona, al municipio, la decuria, la societas (publicanorum o vectigalis): si tratta infatti di figure non paragonabili, essendo la prima un’universitas di rapporti giuridici, i secondi universitates di persone226 che, oltretutto, anche nell’esperienza romana classica, ottennero un’ampia autonomia del tutto sconosciuta alla figura dell’hereditas iacens (potendo dotarsi, ad es., come dice Gaio 3 ad ed. prov., D. 3.4.1pr.-1, di res communes, arca communis e actor sive syndicus)227. Per questo si può supporre che Fiorentino volesse soltanto precisare che, anche per queste tre entità – municipio, decuria, societas vectigalis – valeva la regola enunciata in esordio, cioè quella per cui un debito gravante sulla collettività poteva essere garantito tramite stipulatio fideiussoria di un terzo, perché la collettività stessa era considerata centro di imputazione di situazioni giuridiche: ad es. poteva assumere crediti228 o debiti229, ricevere legati, fedecommessi, chiedere la bonorum possessio etc.230
224
Robbe 1975, 33-34. Letteratura in Robbe 1975, 29, Orestano 2008, 83; Cenderelli 2011, 55-56: anche i tre autori concordano sull’interpolazione. 226 Rileva questo dato Cenderelli 2011, 55. 227 Sul passo, di recente (con altra lett.) Groten 2015, 34 ss.; Starace 2016, 330-334 e ntt. 24, 25; Siracusa 2016, 39 ss. Sulla nozione di corpus riferita, dall’età del principato, alle situazioni di tipo associativo, Orestano 1968, 172 ss., ora Groten 2015, 34 ss. Sulla rilevanza esterna del contratto di societas, in particolare per le societates publicanorum, con altra bibl., Cerami 2012, 197-202; Onida 2011-2012, on line; Onida 2012a, passim; Trisciuoglio 2013, on line. 228 Cfr. le numerose fonti citate da Gabrielli 2006, 384 ss. e Trisciuoglio 2015, 81-110. 229 Es. Ulp. 10 ad ed., D. 12.1.27 Civitas mutui datione obligari potest, si ad utilitatem eius pecuniae versae sunt: alioquin ipsi soli qui contraxerunt, non civitas, tenebuntur; lex Irn. 80. Cfr. Torrent 2010, 1-11; Mentxaka Elespe 2014, 2069 ss.; Trisciuoglio 2015, 81-110, Trisciuoglio 2019, 1-21. 230 Sul tema, di recente, con altra lett., Peppe 2009, 69 ss.; Nasti 2011, 288 ss.; Corbo 2012, 77 ss; Nasti 2013, 56 ss., 67 ss.; Pulitanò 2016, 599-643. Cfr. il titolo 3.4 del Digesto (quod cuiuscumque universitatis nomine vel contra eam agatur) che presenta molti esempi di azioni esercitate nomine universitatis o contro di essa; Ulp. 39 ad ed., D. 37.1.3.4 riconosce la bonorum possessio ai municipia, alle decuriae, alle societates. Sui dati ricavabili sul punto dalla Lex Irnitana, Mantovani 2006, 261 ss.; Bricchi 2006, 335 ss. Municipia, societatas e ceterae res publicae vengono acco225
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Commento Quanto sin qui detto in ordine al contenuto di [F. 18] trova una straordinaria conferma nel passo corrispondente a D. 46.1.22 delle Istituzioni giustinianee, cioè I. 3.17, titolo de stipulatione servorum, pr. e 1: pr.: Servus ex persona domini ius stipulandi habet. sed hereditas in plerisque personae defuncti vicem sustinet: ideoque quod servus hereditarius ante aditam hereditatem stipulatur adquirit hereditati, ac per hoc etiam heredi postea facto adquiritur. 1. Sive autem domino sive sibi sive conservo suo sive impersonaliter servus stipuletur, domino adquirit.
Nel principium si inizia precisando che lo schiavo trae il diritto di stipulare, quindi di assumere un credito con domanda e risposta impegnative, ex persona domini. Segue la regola di cui anche in [F. 18] D. 46.1.22 (hereditas in plerisque personae defuncti vicem sustinet) e l’osservazione esplicativa per cui ciò che il servus hereditarius acquisisce ante aditam hereditatem viene acquisito all’eredità stessa e poi, da qui, passerà all’erede quando subentrerà. Il § 1 riporta la regola di cui anche in [F. 16] D. 45.3.15, sempre tratta dall’VIII libro delle institutiones Florentini, secondo cui qualunque stipulatio sia conclusa dal servus, essa produrrà effetti sul dominus anche se egli non stipuli espressamente per il dominus, ma per un conservus o impersonaliter. Si può pensare che un analogo contesto fosse quello in cui era inserito, nel titolo VIII delle institutiones di Florentinus, il fr. 22 D. 46.1: il giurista, cioè, stava probabilmente trattando della stipulatio, e in particolare di quella del servus che può contrarre ex persona domini. Poi forse aggiungeva qualcosa sulla possibilità per il servus hereditarius di assumere con stipulatio un fideiussore per un credito ereditario. Quindi doveva passare, per successione di idee, ad esaminare un altro problema, quello di un debito assunto dal de cuius e di una fideiussio prestata da un terzo al creditore dopo la sua morte e durante la giacenza dell’eredità: e, anche in questo caso, egli doveva precisare che tale contratto era possibile sia perché favorevole agli interessi debitori, sia perché c’era effettivamente un debito da garantire che faceva parte dell’hereditas, la quale era considerata fare le veci della persona (del defunto). Infine doveva precisare che il servus stipulante acquista sempre al dominus anche se non lo ha menzionato nella domanda. Tale osservazione consente una rivalutazione della ricostruzione palingenetica leneliana: infatti [F. 16] D. 45.3.15, sull’esempio di I. 13.7pr. e 1, dovrebbe essere posto dopo [F. 18] D. 46.1.22 – D. 29.2.54. F. 19 – D. 18.1.43 In base a una congettura di Lenel, peraltro espressa dall’A. in forma dubitativa, questo frammento sarebbe stato compreso nel titolo De stipulatione duplae et edicto aedilium231: il passo, quindi, nel contesto originario, avrebbe riguardato il tema della responsabilità per vizi della cosa venduta, la cd. stipulatio duplae con cui il venditore usava prestare sia la garanzia per
stati anche in Ulp. 41 ad Sab., D. 47.2.31.1 a proposito del furtum di tabulae instrumentorum. Si tenga conto inoltre che dal Monumentum Ephesenum 1 ss. (Cottier et alii 2008) e da altre fonti epigrafiche e letterarie risulta che una modalità comune di operare dei publicani era tramite servi sociorum, il cui operato sarebbe ricaduto direttamente su tutti i condomini, membri della societas: da ultima, sul punto, Maganzani 2019, 139 ss. 231 [De stipulatione duplae et edicto aedilium?].
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Lauretta Maganzani l’evizione, sia quella per vizi232 e, in generale, le cd. azioni edilizie, redhibitoria e aestimatoria, previste dall’edictum aedilium curulium233. Una nuova esegesi del testo consentirà di verificare la plausibilità di tale ipotesi ricostruttiva. Il passo allude ai cd. dicta promissaque venditoris, dichiarazioni informali o promesse formali del venditore concernenti determinate qualità del bene venduto: la domanda del giurista è se e in che misura tali dicta promissaque obblighino il venditore nei confronti del compratore, cioè determinino una sua responsabilità qualora le qualità dichiarate si rivelino inesistenti. Nel principium, in particolare, Fiorentino si riferisce ai cd. dicta commendandi causa, cioè quelle assicurazioni informali circa le buone qualità della res vendita che sono usuali nelle contrattazioni al fine di convincere il compratore della bontà dell’affare234. Nel primo paragrafo, invece, si riferisce alle cd. pollicitationes, cioè alle vere e proprie promesse circa l’esistenza di determinate qualità della merce235, esprimibili sia nell’ambito della stessa compravendita sotto forma di clausole contrattuali, sia per mezzo di apposita stipulatio236. Lenel ha ipotizzato che Fiorentino si riferisse al tema specifico della responsabilità edilizia in quanto nella clausola introduttiva dell’editto degli edili curuli (riportata in Ulp. 1 ad ed. aed. cur., D. 21.1.1.1) in effetti si specifica che le azioni edilizie sono state concesse sia per la presenza di vizi occulti nella cosa venduta, sia per l’assenza di qualità dichiarate o promesse in sede di contrattazione e, per quest’ultimo aspetto, si usa proprio l’espressione ‘dictum promissumque’ (quodsi mancipium adversus ea venisset, sive adversus quod dictum promissumve fuerit cum veniret […])237:
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Cfr. Ortu 2017, 89 ss., con altra bibl. Così anche Kaser 1973a, 129; lo stesso affermava Nicholas 1959, 98 s. sottolineando che il riferimento alla domus bene aedificata, non adatto al contesto dell’edictum aedilium curulium, potrebbe essere il risultato di un’interpolazione giustinianea. 234 Sul commendare nel senso informale di ‘raccomandare’, ad es., Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.14.4; Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.12.12; Ulp. 1 ad ed. aed. cur., D. 21.1.19pr.; Ulp. 2 fideic., D. 32.11.2. 235 Lepore 2005, 1 ss.; Lepore 2019, 1 ss. con fonti e bibliografia. Polliceri è “Tra le espressioni promissorie più diffuse nei testi latini” (ibidem, 1), usata originariamente nell’ambito delle vendite all’asta: si tratterebbe, infatti, di una forma rafforzata di liceri (nel senso di ‘acquistare all’asta’) in ragione del prefisso pol (nel senso di ‘alzare il prezzo’). Da qui il senso comune di ‘offrire’, ‘promettere’ nei più disparati contesti, pubblici o privati, di cui danno prova espressioni proverbiali come ‘maria montesque polliceri’ e ‘polliceri montes auri’ (ad es. Sall. de con. Cat. 23.3 e Ter. Phorm. 68). Nelle fonti giuridiche il verbo polliceri e il sostantivo pollicitatio assumono, nell’ambito del significato generale già sottolineato di ‘promessa unilaterale’, le accezioni specifiche di ‘promessa’ di prestazione in relazione a rapporti di natura privatistica; di ‘promessa di rimedio giudiziario’ (ad es. da parte del pretore, degli edili curuli, del governatore provinciale o di un funzionario imperiale); di promessa rivolta ad una comunità locale avente ad oggetto la realizzazione di una spesa a favore della comunità stessa, in genere per il compimento di un opus. Nel frammento di Fiorentino qui esaminato il termine è volutamente usato, come si vedrà nel testo, nel senso generico di ‘promessa del venditore circa le qualità della res vendita, espressa o sotto forma di specifica stipulatio all’uopo contratta, oppure nel quadro delle clausole contrattuali dell’emptio venditio. Sulla pollicitatio come semplice promessa nell’ambito di vari rapporti privatistici, indipendentemente dalla sua veste formale, cfr. ad es. Ulp. 31 ad ed., D. 17.2.52.2; Mod. 9 resp., D. 33.2.18; Gai. 15 ad leg. Iul. et Pap., D. 34.9.10pr.; con riferimento specifico alla compravendita Pomp. 9 ad Sab., D. 19.1.6.8; Ulp. 1 ad ed. aedil. cur., D. 21.1.19.2. Sulla pollicitatio come antecendente dell’odierna ‘promessa unilaterale’, Carro 2012, 45 ss.; Huang 2018, 9 ss. con altra bibl. 236 Impallomeni 1955, 28 nt. 55 pensa che Fiorentino si sia verosimilmente “riferito ai promissa in senso stretto, comprendenti cioè tanto le nudae promissiones che le stipulationes”. 237 Secondo la comune opinione, l’estensione dell’actio redhibitoria al caso di falsa dicta promissaque relativi alla merce venduta, non sarebbe stata originaria, ma si sarebbe avuta in un secondo momento. Essa comunque era già presupposta dai giuristi dell’età augustea: Donadio 2004, 71 ss., 141 ss., 162 ss., in part. 162 nt. 41; Donadio 2007, 489 ss.; Ortu 2017, 69 ss.; Donadio 2010, 1 ss., con altra bibl. Da ultima, Cortese 2020, 93 ss. 233
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Commento Aiunt aediles: qui mancipia vendunt certiores faciant emptores, quid morbi vitiive cuique sit, quis fugitivus errove sit noxave solutus non sit: eademque omnia, cum ea mancipia venibunt, palam recte pronuntianto. Quodsi mancipium adversus ea venisset, sive adversus quod dictum promissumve fuerit cum veniret, fuisset, quod eius praestari oportere dicetur.
La medesima distinzione presentata da Fiorentino fra dicta commendandi causa (pr.) e promissa (§ 1) compare in un frammento di Ulpiano tratto proprio dal I libro del commentario ad edictum aedilium curulium, D. 21.1.19pr., dove il giurista, richiamando Pedio, afferma che i dicta venditoris consistenti in una nuda laus, cioè finalizzati a una mera commendatio del bene, non lo obbligano verso il compratore, al contrario di quanto accade per le vere e proprie promesse238: Sciendum tamen est quaedam et si dixerit praestare eum non debere. Scilicet ea, quae ad nudam laudem servi pertinent: veluti si dixerit frugi probum dicto audientem. Ut enim Pedius scribit, multum interest, commendandi servi causa quid dixerit, an vero praestaturum se promiserit quod dixit.
Ma, se si osserva bene, Fiorentino affronta il tema dei dicta promissaque del venditore in modo parzialmente diverso da Ulpiano, non riferendosi alla sola responsabilità edilizia, ma più in generale all’oportere ex fide bona del venditore239. Infatti, se Ulpiano e Pedio, con riferimento specifico all’editto edilizio, escludevano che i dicta commendandi causa obbligassero il venditore e, al contrario, lo affermavano per i promissa, Fiorentino precisa con maggior sottigliezza che sia gli uni sia gli altri possono obbligare o non obbligare il venditor a seconda dei termini della loro formulazione e dell’affidamento che sono in grado di creare nella controparte: così, ad es., un generico richiamo del venditore alla bellezza di uno schiavo o alla stabilità di un edificio, pur se volto a raccomandarne l’acquisto, non obbliga il venditore perché si tratta di qualità visibili, della cui presenza (o assenza) il compratore può ben rendersi conto da sé; al contrario una commendatio riguardante qualità della res vendita che, da una parte, non siano immediatamente verificabili – come la peritia di un servus nelle litterae o in un’altra ars – e dall’altra, siano state determinanti ai fini della fissazione del pretium, obbliga il venditore, ed il compratore potrà quindi farne valere in giudizio l’assenza. Per converso, non sempre una promessa formale del venditore (pollicitatio), anche in forma di stipulatio duplae, sulla presenza di certe qualità nella cosa venduta – ad es. la salute del corpo del mancipium – obbligherà il venditore e giustificherà, qualora tali qualità si rivelino assenti, l’esercizio nei suoi confronti di un’actio ex empto, di un’azione edilizia o di un’actio ex
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Donadio 2004, 177 ss. Sul punto rinvio a Donadio 2004, 177 ss., in part. 177-178 nt. 69; Donadio 2010, 112 ss. (con altra lett.). Lo stesso richiamo di Fiorentino alla commendatio del venditore circa la casa oggetto di trattativa, da lui qualificata come ‘bene edificata’, fa pensare che il riferimento del giurista sia non tanto all’editto edilizio e alle relative azioni (specifico per le vendite di schiavi e animali) quanto, più in generale, all’actio empti. Comunque è possibile che già la giurisprudenza tardo-repubblicana avesse esteso l’azione contrattuale all’ipotesi di mancata indicazione da parte del venditore dei difetti di un bene immobile: sul punto Solidoro Maruotti 2007, 39 ss. Sulla proposta di interpolazione del riferimento alla domus nel passo di Fiorentino, cfr. Nicholas 1959, 98 s.; Donadio 2004, 23 nt. 44 con altra lett. 239
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Lauretta Maganzani stipulatu (se è stata prestata una stipulatio duplae). Si pensi al caso esemplare di uno schiavo con gli occhi cavati per cui il venditore abbia prestato una stipulatio de sanitate: il difetto fisico dello schiavo è talmente evidente che le parti non possono che aver inteso il contenuto della stipulatio come un impegno del venditore circa la salute di tutto il resto del suo corpo. Fiorentino, insomma, vuole dire che i dicta promissaque del venditore lo obbligano a garantire la sussistenza delle qualità promesse soltanto se sono stati tali da creare un reale e fondato affidamento in capo al compratore. Il testo, dunque, non sembra riferirsi al tema specifico della stipulatio duplae e dell’editto edilizio, come ipotizzato da Lenel, ma più in generale agli effetti dei dicta promissaque del venditore nei confronti del compratore in relazione al criterio fondante della bona fides a cui tali rapporti erano improntati, anche se è ben vero che tali ‘assicurazioni di qualità’ avevano luogo non di rado proprio attraverso apposita stipulatio. Tale conclusione pare confermata dal secondo paragrafo del frammento ove, non a caso, Fiorentino conclude il ragionamento introdotto nel principium e nel § 1 precisando che il venditore risponde sempre nei confronti del compratore quando i suoi rapporti con quello siano stati improntati a dolus malus. A ciò, poi, segue la definizione di dolus malus che, secondo il giurista, non sussiste soltanto in chi fallendi causa obscure loquitur, ma anche in chi insidiose obscure dissimulat: il che chiude idealmente la trattazione precedente sottolineando che una responsabilità del venditore verso il compratore non sorge soltanto per affermazioni o promesse mendaci, ma anche per colpevoli silenzi e insidiose dissimulazioni240. Com’è noto, quella di Fiorentino non è la sola definizione di dolus malus presente nelle fonti. Altri giuristi, ben più noti del nostro – Aquilio Gallo, Servio Sulpicio Rufo, Antistio Labeone, Sesto Pedio – ne avevano elaborate in precedenza, e Fiorentino, come si vedrà, sembra tenerne conto241. Già negli anni ’70 del 900, in un bel lavoro dedicato proprio al binomio dolus bonus/dolus malus, Antonio Carcaterra aveva evidenziato lo stretto legame intercorrente fra queste varie definizioni, ciascuna delle quali aveva superato in qualcosa la o le precedenti pur traendone decisivi spunti di riflessione242. E ciò vale anche per la definizione proposta da Fiorentino, il che mostra ancora una volta che abbiamo a che fare con un giurista colto, raffinato e attento ai risultati raggiunti dall’elaborazione giurisprudenziale precedente. In particolare tre sono gli elementi della definizione florentiniana nei quali si percepisce il suo debito verso la tradizione: secondo l’A. si ha dolus malus quando il venditore obscure loquitur, quando lo fa fallendi causa e quando insidiose obscure dissimulat. La prima espressione (obscure loquitur) rimanda ai contenuti della definizione di dolus malus più risalente, quella attribuita ad Aquilio Gallo, di cui si ha notizia da alcuni passi ciceroniani:
240 Querzoli 1991, 84-85 e 1996, 156-161 rileva, a mio avviso senza alcuna giustificazione, un influsso stoico nel pensiero del giurista sul dolus e un collegamento con la teoria dell’oikeiosis richiamata in [F. 1] D. 1.1.3. 241 Così anche Querzoli 1996, 156 ss. 242 Carcaterra 1970, passim; Wacke 1977, 10 ss.; MacCormack 1985, 1-38; MacCormack 1986, 236-285; MacCormack 1993-1994, 83-146; MacCormack 1997, 539 ss.; Procchi 2007, 183 ss.; Lambrini 2010, spec. 51 ss.; Lambrini 2011, 228 ss., spec. 229 nt. 40; Corbino 2015, 29 ss.; Santucci 2016, 103-110. Rinvio a questi studi per le citazioni bibliografiche e la discussione dell’ampia lett. sul tema.
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Commento de nat. deor. 3.74 (…) iudicium de dolo malo, quod C. Aquilius familiaris noster protulit; quem dolum idem Aquillius teneri putat cum aliud sit simulatum aliud actum. de off. 3.60: nondum enim C. Aquilius, collega et familiaris meus, protulerat de dolo malo formulas; in quibus ipsis, cum ex eo quaereretur, quid esset dolus malus, respondebat: cum esset aliud simulatum, aliud actum. Cic. de off. 3.61: dolus autem malus in simulatione, ut ait Aquilius, continetur. top. 40 (…): dolus malus est quod aliud simulatur, aliud agitur243.
Si tratta, come si vede, di una definizione concisa, che fa perno sul verbo simulare e che quindi individua il nucleo del dolus malus nella contrapposizione esistente fra l’agere – cioè il comportamento e le parole – di un soggetto, e la sua rappresentazione esterna (simulare)244. Ebbene Fiorentino pare recuperare il senso profondo di questa prima definizione quando individua il dolus malus in chi obscure loquitur e cioè in chi si cura di rappresentare la realtà in modo alterato e confuso al fine precipuo di convincere la controparte a stipulare il contratto. Ma al ‘parlare oscuro’ Fiorentino aggiunge, come requisito del dolus malus, l’intenzione del venditore di fallere, cioè di ingannare la controparte al fine specifico di indurla ad emere il bene oggetto di trattativa, elemento – questo – che restava in ombra nella definizione aquiliana. E in ciò, probabilmente, il giurista si richiamava ad un’altra definizione di dolus malus risalente a Servio Sulpicio Rufo (che verrà a sua volta ripresa da Pedio), il quale aveva integrato quella di Aquilio Gallo dando rilievo all’elemento dell’intenzione dell’agente. Aquilio Gallo, infatti, presentando il dolo come “puro ed obiettivo divario tra un simulare (…) e un agere”245, aveva provocato la reazione di Cicerone secondo cui occorreva accertare utrum malitia aliud agatur aliud simuletur, an stultitia, an necessitudine! (de inv. 2.61). Proprio per questo Servio si era dato cura di completare sotto questo profilo la definizione aquiliana precisando che il divario fra l’agere e il simulare doveva rispondere alla consapevole intenzione del venditore: Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1.2: Dolum malum Servius ita definit: machinationem quandam decipiendi alterius causa cum aliud simulatur aliud agitur.
Pedio, allo stesso fine, aveva invece usato l’espressione ‘circumscribendi alterius causa’: Ulp. 4 ad ed., D. 2.14.7.9 (…): dolus malus fit calliditate et fallacia: et ut ait Pedius, dolo malo pactum fit, quotiens circumscribendi alterius causa aliud simulatur et aliud agi simulatur.
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Cfr. anche, infra, de inv. 2.61. MacCormack 1987, 639 ss. Carcaterra 1970, 87.
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Lauretta Maganzani Ma un’ulteriore precisazione conclude il § 2 di [F. 19]: risponde per dolo non solo chi fallendi causa obscure loquitur, ma anche chi insidiose obscure dissimulat. Si ha dunque dolus malus, per il giurista, non “nella sola simulatio ma pure nella dissimulatio”246. Anche con quest’ultima osservazione Fiorentino pare mostrare il suo debito verso la tradizione giurisprudenziale: in effetti le definizioni di dolus malus di Aquilio Gallo e Servio Sulpicio erano state integrate da Labeone con una soluzione che, a detta dello stesso Ulpiano che la riporta in 11 ad ed., D. 4.3.1.2, era la più completa fra quelle a noi note: Labeo sic definit dolum malum esse: omnem calliditatem fallaciam machinationem ad circumveniendum fallendum decipiendum alterum adhibitam. Labeonis definitio vera est.
Qui il dolo è rappresentato attraverso una sequenza di tre sostantivi seguiti da altrettanti verbi con i quali viene indicato lo scopo perseguito dall’agente: costituisce ‘dolo malvagio’, in un significativo crescendo di azioni malevole, sia la calliditas – furbizia, destrezza – sia la fallacia – falsità, inganno – sia la machinatio – messa in scena, artifizio, macchinazione – volte a circuire la controparte (ad circumveniendum), a farla cadere in errore (ad fallendum), a raggirarla intrappolandola in una falsa rappresentazione della realtà. Labeone, dunque, ha aggiunto alle definizioni di Aquilio Gallo e Servio un elemento importante, che Fiorentino pare recuperare nell’ultima parte di [F. 19]: non soltanto simulando, cioè dicendo o facendo qualcosa per indurre la controparte in errore e convincerla a contrarre, si consuma un comportamento doloso, ma anche dissimulando, cioè tacendo particolari che potrebbero dissuaderla dal concludere l’affare e/o fingendo di ignorarli. Del resto, che Labeone intendesse proprio completare in tal senso il pensiero dei precedessori, in particolare di Aquilio Gallo, è provato dalla premessa ulpianea alla definizione labeoniana di D. 4.3.1.2 ove il giurista severiano precisa: Labeo antem posse et sine simulatione id agi ut quis circumveniatur. F. 20 – D. 46.3.2, D. 13.7.35pr. All’VIII libro delle institutiones appartengono altri cinque frammenti tratti da disparati contesti dei Digesta di Giustiniano: si tratta, di D. 2.14.57, D. 13.7.35pr. e 1, D. 46.3.2; D. 46.4.18 e D. 50.16.211 corrispondenti, nella Palingenesia iuris civilis, a [FF. 20-24]. Secondo Lenel tre di questi frammenti (D. 46.3.2; D. 46.4.18; D. 2.14.57) e il principium di un quarto (D. 13.7.35pr.) dovevano originariamente comparire sotto il titolo De solutionibus et liberationibus, con l’ulteriore precisazione che D. 46.3.2 e D. 13.7.35pr. dovevano costituire una trattazione unitaria (= [F. 20]). Altri due passi, cioè D. 50.16.211 e il § 1 di D. 13.7.35, riuniti da Lenel in un unico contesto ([F. 23]), dovevano invece appartenere a un diverso titolo, la cui rubrica è incerta ma che, come l’A. suggerisce in nota, poteva essere relativo all’interdictum uti possidetis247. Come si vede, in relazione a questi frammenti Lenel è intervenuto in modo penetrante sul materiale tràdito, ipotizzando una soluzione palingenetica che tiene conto in misura mi-
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Carcaterra 1970, 105. Lenel 1889. I. 175 nt. 1.
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Commento nima della posizione in cui i testi si trovano all’interno dei Digesta. Inoltre tale soluzione non spiega la ragione per cui, all’interno di un libro come l’VIII, che fino ad ora si è visto essere relativo a varie sfaccettature della stipulatio, comparissero due titoli di diverso tenore, uno riguardante le solutiones et liberationes, l’altro, almeno secondo la cauta ipotesi leneliana, l’interdetto uti possidetis. Tutto ciò spinge a rivalutare la ricostruzione leneliana per vagliarne la plausibilità e, per farlo, si esamineranno qui di seguito ciascuno dei testi predetti sia nell’ordine stabilito da Lenel, sia nella versione corrispondente dei Digesta. Solo alla fine di questa analisi sarà possibile pronunciarsi sull’attendibilità della proposta palingenetica leneliana e, eventualmente, proporne una alternativa. Si può cominciare da D. 46.3.2, un testo ‘acefalo’ che i compilatori del Digesto, come risulta dalla relativa inscriptio, hanno tratto dal libro VIII dall’opera florentiniana e poi collocato a mo’ di integrazione del frammento d’esordio del titolo 46.3 de solutionibus et liberationibus, un testo di Ulpiano tratto dal XLIII libro ad Sabinum. Qui di seguito, per chiarezza, riporto l’intero frammento di Ulpiano e quello di Fiorentino che lo segue, secondo la versione dei Digesta: Ulp. 43 ad Sab., D. 46.3.1: Quotiens quis debitor ex pluribus causis unum debitum solvit, est in arbitrio solventis dicere, quod potius debitum voluerit solutum, et quod dixerit, id erit solutum: possumus enim certam legem dicere ei quod solvimus. quotiens vero non dicimus, in quod solutum sit, in arbitrio est accipientis, cui potius debito acceptum ferat, dummodo in id constituat solutum, in quod ipse, si deberet, esset soluturus quoque debito se exoneraturus esset, si deberet, id est in id debitum, quod non est in controversia, aut in illud, quod pro alio quis fideiusserat, aut cuius dies nondum venerat: aequissimum enim visum est creditorem ita agere rem debitoris, ut suam ageret. permittitur ergo creditor constituere, in quod velit solutum, dummodo sic constituamus, ut in re sua constitueret, sed constituere in re praesenti, hoc est statim atque solutum est: D. 46.3.2, Flor. 8 inst.: dum in re agenda hoc fiat, ut vel creditori liberum sit non accipere vel debitori non dare, si alio nomine exsolutum quis eorum velit.
Come si vede, i compilatori hanno scelto di fare iniziare il titolo del Digesto De solutionibus et liberationibus con un frammento ulpianeo relativo al caso di pluralità di debiti (pecuniari) fra un debitore e un creditore, al fine di precisare i criteri per l’imputazione del pagamento qualora il debitore paghi una sola parte del dovuto. Sul punto Ulpiano afferma che la scelta dell’imputazione del pagamento spetta, in primo luogo, al debitore e soltanto in un secondo tempo, cioè se il debitore non abbia espresso la sua scelta, passa al creditore. Tuttavia, in questo secondo caso, il giurista precisa che la scelta del creditore non sarà a sua totale discrezione, ma dovrà essere improntata a favorire il debitore secondo alcuni criteri prefissati: egli non dovrà, quindi, portare il pagamento ad estinzione di un debito controverso, di un debito garantito da fideiussore o di un debito non ancora scaduto. Inoltre il creditore dovrà esprimere la sua scelta in re praesenti, cioè immediatamente all’atto del pagamento, in modo – evidentemente – che il debitore possa, se lo ritiene, opporsi248.
248
Zimmermann 1996, 750.
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Lauretta Maganzani A quest’ultima osservazione i compilatori hanno collegato la frase acefala tratta dall’VIII libro delle institutiones Florentini in ragione della connessione contenutistica: in essa, infatti, si specifica che la regola per cui la scelta dell’imputazione del pagamento va fatta in re praesenti (o in re agenda) vale sia che essa sia fatta dal debitore, sia che sia fatta dal creditore. Infatti, in entrambi i casi deve essere sempre lasciata alla controparte – scrive Fiorentino – la possibilità di opporsi249. Ebbene nella Palingenesi Lenel ha sconvolto l’ordine dei frammenti tràdito per collocare in un unico contesto, quello appunto di [F. 20], D. 46.3.2 e il principium di D. 13.7.35. Dunque, secondo Lenel nell’opera originaria Fiorentino, dopo aver osservato in generale che la scelta dell’imputazione del pagamento doveva essere fatta in re agenda al fine di consentire l’eventuale opposizione della controparte, avrebbe richiamato il caso particolare del debitore pignoratizio che dovesse al creditore sia capitale, sia interessi. Si tratterebbe quindi di un soggetto che, da una parte, ha assunto un debito (con mutuo, stipulatio o per altre cause), dall’altra ha promesso con stipulatio di pagare una certa percentuale di interessi su quel debito (cd. stipulatio usurarum) e infine ha consegnato alcuni beni in pegno al creditore a garanzia della sua obbligazione. Ebbene, in questo caso particolare – spiega Fiorentino – la scelta dell’imputazione del pagamento non spetta né al debitore né al creditore, ma vale la regola inderogabile per cui il denaro ricavato dalla vendita dei pegni sia da imputare prima agli interessi e poi al capitale. Il giurista precisa infatti che un’eventuale contraria richiesta del debitore che, sapendo di essere poco solvibile, domandasse di imputare la somma direttamente al capitale (per evitare, evidentemente, la produzione di ulteriori interessi), non sarebbe accolta. Si ritiene ora utile riesaminare tale principium all’interno del contesto in cui risulta inserito nei Digesta, cioè nel titolo 13.7 De pigneraticia actione vel contra, seguìto dal § 1: D. 13.7.35pr.: Cum et sortis nomine et usurarum aliquid debetur ab eo, qui sub pignoribus pecuniam debet, quidquid ex venditione pignorum recipiatur, primum usuris, quas iam tunc deberi constat, deinde si quid superest sorti accepto ferendum est: nec audiendus est debitor, si, cum parum idoneum se esse sciat, eligit, quo nomine exonerari pignus suum malit. 1. Pignus manente proprietate debitoris solam possessionem transfert ad creditorem: potest tamen et precario et pro conducto debitor re sua uti.
Il principium, come si è appena visto, riguarda un problema specifico attinente ad un debito gravato da interessi e garantito da pegni; il § 1 precisa che il pegno, pur rimanendo nella proprietà del debitore, passa nel possesso del creditore e che, tuttavia, il debitore può riottenerne la disponibilità o a titolo di precario o di locazione-conduzione. Fiorentino, dunque, nel principium avrebbe richiamato la regola, introdotta in epoca severiana, per cui il ricavato della vendita dei pegni andava imputato, senza possibilità di opposizione del debitore, prima agli interessi e poi al capitale; nel primo paragrafo avrebbe precisato che tale opposizione del debitore era da ritenersi irrilevante nonostante il fatto che questi rimanesse proprietario del pegno e addirittura ne potesse ottenere ex precario o ex conducto la detenzione.
249 Sulla base di questo lacerto di Fiorentino, la dottrina più risalente, a partire dal Siber 1925, 178 (seguito da Solazzi 1931, 118 ss.), aveva sostenuto che l’imputazione del pagamento fosse frutto di convenzione fra le parti. Io ritengo invece, con la dottrina più recente, che si trattasse di atto unilaterale, salva la possibilità di opposizione della controparte: cfr. Rodeghiero 2005, 76 ss. con altra lett.
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Commento Il contenuto del testo nel suo insieme è dunque perfettamente coerente e non si spiega perché Lenel abbia proposto di separarne le due parti facendo del principium il seguito di 46.3.2. Se ciò è vero, si deve ritenere più verosimile che, conformemente alla versione dei Digesta, nel contesto originario D. 46.3.2 riguardasse il pagamento di un debito (forse da stipulatio visto che il titolo riguarda le obligationes verbis) e D. 13.7.35pr.-1 un problema attinente alla stipulatio usurarum e al pegno. Si ritornerà su quest’ultimo punto nel corso dell’esegesi di [F. 24]. Per ora bastino queste poche osservazioni insieme a quelle già esposte nella Prima parte di questo volume: si ricordi, infatti, che di D. 13.7.35pr. si è già trattato (cfr. supra, I.3a), in quanto la regola ivi presentata da Fiorentino come inderogabile risultava ancora non ben definita all’epoca di Marcello e Scevola, mentre fu fissata in età severiana. Il testo, quindi, fornisce un importante indizio per la datazione delle institutiones all’età severiana. F. 21 – D. 46.4.18 Tratto dal titolo De acceptilatione dei Digesta, il passo riporta per esteso il formulario della cd. stipulatio Aquiliana, geniale creazione del giurista tardo-repubblicano Aquilio Gallo250. Dalle fonti giustinianee risulta che tale stipulatio poteva concludersi al mero scopo di transazione, per evitare alle parti le lungaggini conseguenti alla valutazione (giudiziaria o non) di ciascuno dei rapporti obbligatori intercorrenti fra di loro251. In tal caso la stipulatio novativa avrebbe estinto una pluralità di rapporti obbligatori trasferendoli in una sola obligatio verbis pecuniaria. Tuttavia un utilizzo comune di tale strumento, ricordato anche da Gaio nelle Istituzioni (3.169-170), fu quello volto alla remissione dei debiti ed è proprio a questo tipo di utilizzo che si riferisce Fiorentino nel passo in esame: in tal caso, alla stipulatio novativa che sussumeva in un unico rapporto verbis quelli vari esistenti fra le parti e nascenti da contratti di vario tipo, nominati (re, verbis, litteris o consensu) o innominati, o da altre cause (es. indebiti solutio o negotiorum gestio), seguiva un’acceptilatio finalizzata alla formale remissione del debito da stipulatio. È noto, infatti, che l’acceptilatio era sorta come modo formale di estinzione dell’obligatio da sponsio-stipulatio in un’epoca in cui il semplice adempimento non aveva l’effetto di estinguere tale vincolo obbligatorio, ma occorreva allo scopo il compimento di un atto formale, contrario a quello con cui il vincolo era stato costituito. Pertanto, come l’obligatio ex sponsione derivava da uno scambio di interrogazione e risposta impegnative fra stipulante e promittente (es. Centum mihi dari spondes? Spondeo), così all’estinzione del vincolo occorreva un ulteriore e contrario scambio di interrogazione e risposta che, dalla sua formulazione (Quod tibi debetur, acceptum habes? Acceptum habeo), assunse il nome di acceptilatio. Col tempo, tuttavia, il modo comune di estinzione di ogni obligatio, comprese quelle verbali, divenne la solutio, cioè l’adempimento, e quindi l’acceptilatio finì per divenire strumento funzionale alla sola remissione del debito. Peraltro tale effetto, in conformità all’origine stessa dell’acceptilatio, era formalmente
250 Sul mezzo, ampiamente, Casavola 1965, 34 ss.; Sturm 1972, passim. Più di recente Fuenteseca Degeneffe 2004, 175-187; Reichard 2014, 63-86. In generale sul giurista Aquilio Gallo, Lehne-Gstreinthaler 2019, 159 e nt. 965. 251 Ad es. Pap. 1 defin., D. 2.15.5: Brutti 2017, 95 nt. 175.
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Lauretta Maganzani possibile soltanto per le obligationes verbis; e tuttavia, soprattutto da quando l’acceptilatio assunse la funzione generica di atto di quietanza formale, si sentì l’esigenza di estendere tale strumento anche alle obligationes re, litteris e consensu e alle obbligazioni da atto lecito non contrattuale, per tutti i casi in cui il creditore intendesse rimettere il debito o i debiti al debitore. Da qui l’astuto espediente, escogitato da Aquilio Gallo nel I sec. a.C., di riassumere in un’obligatio verbis attraverso stipulatio novativa uno o più rapporti non verbis esistenti fra le parti che si volessero quietanzare, per poi sottoporre ad acceptilatio l’obligatio verbis nuovamente creata ed estinguere così il rapporto obbligatorio pur in assenza di adempimento. Il formulario riportato da Fiorentino compare anche nelle Istituzioni giustinianee, in I. 3.29.2, con poche varianti (di rilievo soprattutto la precisazione ‘dolove malo fecisti quo minus possideres’ presente nella versione istituzionale, assente in quella dei Digesta)252: Est prodita stipulatio, quae vulgo Aquiliana appellatur, per quam stipulationem contingit ut omnium rerum obligatio in stipulationem deducatur et ea per acceptilationem tollatur. stipulatio enim Aquiliana novat omnes obligationes et a Gallo Aquilio ita composita est: Quidquid te mihi ex quacumque causa dare facere oportet, oportebit oporteretve, praesens in diemve quarumque rerum mihi tecum actio quaeque abs te petitio vel adversus te persecutio est, erit, quodve tu meum habes, tenes, possides, possideresve dolove malo fecisti quo minus possideres, quanti quaeque earum rerum res erit, tantam pecuniam dari stipulatus est Aulus Agerius, spopondit Numerius Negidius. item e diverso Numerius Negidius interrogavit Aulum Agerium: ‘Quidquid tibi hodierno die per Aquilianam stipulationem spopondi, id omne habesne acceptum?’. Respondit Aulus Agerius: ‘Habeo acceptum’ vel et ‘Acceptum tuli’.
Tuttavia, fra gli studiosi, si è dubitato che i due formulari provengano dalla medesima fonte253. La nostra attenzione, pertanto, si concentrerà sulla versione riportata dai Digesta e ripresa da Lenel nella Palingenesia. È comunque verosimile che nessuna delle due redazioni riporti la prima versione della stipulatio Aquiliana risalente ad Aquilio Gallo, quanto piuttosto una sua successiva rielaborazione giurisprudenziale caratterizzata dall’aggiunta progressiva di nuovi incisi via via che nuove esigenze venivano alla luce. Nel principium del frammento, che fa da introduzione al formulario (Et uno ex pluribus contractibus vel certis vel incertis vel, quibusdam exceptis, ceteris et omnibus ex causis una acceptilatio et liberatio fieri potest) e che è assente nella versione delle Institutiones Iustiniani, Fiorentino precisa la funzione e l’ambito di applicazione dello strumento di cui si appresta a riportare il testo: sottolinea, infatti, che, anche in presenza di più obligationes fra due soggetti, era possibile fare un’unica acceptilatio – e conseguentemente sciogliere il debitore dal suo vincolo (liberatio) pur in assenza di adempimento – sia per uno solo dei rapporti contrattuali di debito-credito che intercorrevano fra loro, nominati (certi) o innominati (incerti), sia per tutti quanti – pur con la possibilità di escluderne alcuni – sia per ogni altra causa obbligatoria diversa dal contratto (es. solutio indebiti, negotiorum gestio etc.). In sostanza Fiorentino afferma che le parti di un rapporto obbligatorio ex contractu o quasi ex contractu potevano decidere di estinguere con
252
Cfr. Metro 2012, 561 ss. Così Casavola 1965, 36, che si richiama a Ferrini 1929a, 399. Sostenitore dell’origine comune, invece, Wieacker 1960, 200. 253
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Commento acceptilatio sia uno solo dei rapporti obbligatori di vario genere intercorrenti fra loro, sia una parte di essi, sia tutti. Tale premessa è significativa per comprendere lo stadio di elaborazione giurisprudenziale della stipulatio Aquiliana a cui Fiorentino si riferisce: in primo luogo, infatti, da essa risulta che lo strumento poteva riguardare tutte le obligationes esistenti fra le parti, forse, come si vedrà, con la sola eccezione di quelle da delitto che pare non ammettessero novazione. In secondo luogo essa mostra che la stipulatio Aquiliana, già nel III secolo d.C. (se il testo è genuino), serviva alle parti non solo per ottenere l’effetto della remissione di un solo debito contrattuale non verbis esistente fra loro, ma anche – o forse soprattutto – per riassumere attraverso novazione più rapporti di debito-credito esistenti fra loro in un’unica obligatio verbis pecuniaria e poi estinguerli tutti con acceptilatio. In terzo luogo è interessante la notazione di Fiorentino (sempre che non si debba qui ipotizzare un intervento tardoantico o giustinianeo) per cui erano sussumibili nella stipulatio le obligationes nascenti da contratti ‘certi’ e ‘incerti’, appellativi propri, come risulta da altri testi del Digesto (Ulp. 26 ad ed., D. 12.1.9pr.; Ulp. 27 ad ed., D. 13.5.1.6), dei contratti ‘nominati’ e ‘innominati’254. Un ultimo aspetto rilevante di questa premessa è l’accenno al fatto che le parti fra cui esistevano più rapporti di debito-credito potevano decidere di sussumerli tutti nella stipulatio novativa, oppure di eccettuarne alcuni: il che mostra che, in presenza di una concreta stipulatio Aquiliana, capire quali, fra i rapporti esistenti fra le parti, fossero quelli che le parti intendevano novare poteva porre problemi intepretativi, come in effetti emerge, ad es., da un frammento di Papiniano tratto dal I libro delle definitiones, D. 2.15.5. Il § 1 del frammento esordisce con poche parole introduttive (Eius rei stipulatio, quam acceptio sequatur, a Gallo Aquilio talis exposita est) da cui si evince, da una parte, che il formulario si componeva della sequenza stipulatio-acceptilatio (nel testo si utilizza il termine acceptio, frutto forse di un errore di trascrizione), dall’altra, che esso era stato ideato da Aquilio Gallo, di cui Fiorentino dichiara di riportare le parole. La stipulatio si divide in due parti: prima vengono indicate le possibili pretese del creditore (ego) verso il debitore (tu) con tre generici incisi, da precisare, naturalmente, nell’eventuale stipulatio concreta conclusa dai due soggetti sulla base del formulario: 1. Quidquid te mihi ex quacumque causa dare facere oportet oportebit praesens in diemve; 2. quarumque rerum mihi tecum actio quaeque adversus te petitio vel adversus te persecutio est eritve; 3. quodve tu meum habes tenes possides. Qui il discorso è, come si vede, in forma diretta. Segue la formula stipulatoria vera e propria (Quanti quaeque earum rerum res erit, tantam pecuniam dari stipulatus est Aulus Agerius, spopondit Numerius Negidius) che, invece, è in forma indiretta: essa ha, infatti, per protagonisti i consueti Aulo Agerio (creditore-stipulante) e Numerio Negidio (debitore-promittente), il primo dei quali risulta aver chiesto al secondo di promettere di dargli la somma di denaro corrispondente alla valutazione economica delle sue varie pretese, sopra elencate, che vengono così dedotte nella stipulatio stessa e quindi novate. Il formulario aquiliano presenta dunque una parte mobile e paradigmatica destinata ad essere riempita con i termini concreti dell’attività negoziale delle parti, e una parte fissa destinata ad indicare l’entità della somma dovuta, oggetto della stipulatio.
254
Zhang 2007, 28.
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Lauretta Maganzani La ragione della variazione dalla forma diretta della parte mobile (Quidquid te mihi… etc.) a quella indiretta della parte fissa (stipulatus est Aulus Agerius, spopondit Numerius Negidius) è evidente: il formulario, per riuscire utile alle parti e agli scribi estensori dell’atto orale, doveva essere il più chiaro possibile e, in effetti, la forma diretta nella parte mobile offre una schema di dialogo immediatamente intellegibile e facilmente imitabile che evita le complicazioni grammaticali dovute alla declinazione dei nomi propri; d’altra parte l’uso della forma indiretta nella parte fissa ha la funzione di chiarire al lettore l’inversione dei ruoli fra chi interroga e chi risponde nella stipulatio e nell’acceptilatio: cosa difficilmente comprensibile se Fiorentino, invece dei due nomi tipici delle formule del processo privato repubblicano, avesse continuato ad usare i pronomi personali ego e tu. Nella successiva acceptilatio il dialogo fra le parti è dunque invertito rispetto alla precedente stipulatio, nel senso che Numerio Negidio pone la domanda e Aulo Agerio risponde: Quod Numerius Negidius Aulo Agerio promisit spopondit, id haberetne a se acceptum, Numerius Negidius Aulum Agerium rogavit, Aulus Agerius Numerio Negidio acceptum fecit. Fra la domanda e la risposta si nota una differenza nell’espressione verbale: ‘acceptum habere’ nella prima (id haberetne a se acceptum) e acceptum facere nella seconda (acceptum fecit). Secondo Alan Watson255 la prima forma sarebbe quella più antica e significherebbe proprio ‘avere ricevuto’. Essa ricorderebbe l’epoca in cui l’acceptilatio, non ancora usata come atto di quietanza formale, era la forma necessaria per la liberazione dell’obbligato verbis a seguito dell’adempimento: infatti, in un contesto nel quale l’adempimento era di regola presupposto, ma non era sufficiente allo scioglimento del vincolo debitorio, le ‘formal words’ pronunciate dalle parti non potevano che richiamare un effettivo pagamento (nello stesso senso Gai. inst. 3.169). La forma ‘acceptum facere’, invece, significherebbe propriamente ‘fare acceptilatio’, secondo l’accezione più tarda e traslata assunta dal termine, come si ricava, fra altri testi, da Ulp. 50 ad ed., D. 46.4.7 (Sane et sic acceptilatio fieri potest: ‘Accepta facis decem?’ Ille respondit: ‘Facio’) e da Plin. ep. 2.4.2 (Ad quod te ne verbis magis quam rebus horter, quidquid mihi pater tuus debuit, acceptum tibi fieri iubeo). La variazione, dunque, attesterebbe, secondo Watson, il mutamento sostanziale intervenuto in ordine allo strumento stesso dell’acceptilatio, da atto formale di liberazione dell’obligatus verbis dopo l’adempimento, a quietanza. Ciò si adatterebbe allo stesso formulario aquiliano riportato da Fiorentino, dove ‘id haberetne a se acceptum (…) rogavi’ significherebbe propriamente ‘Gli chiese se aveva ricevuto da lui’, mentre ‘l’acceptum fecit’ finale significherebbe ‘ha fatto acceptilatio’. Tornando alla prima parte della formula stipulatoria, si è detto che tre sono gli incisi atti ad indicare tutte le possibili pretese del creditore deducibili nella stipulatio: 1. Quidquid te mihi ex quacumue causa dare facere oportet oportebit praesens in diemve; 2. quarumque rerum mihi tecum actio quaeque adversus te petitio vel adversus te persecutio est eritve; 3. quodve tu meum habes tenes possides. Il primo indica che possono essere novate attraverso la stipulatio Aquiliana tutte le possibili obligationes esistenti fra le parti che prevedano a carico del debitore un ‘dare facere oportere ex quacumque causa’, presente o futuro, con debito scaduto o non scaduto. La formulazione, volutamente generica, si estende a tutte le obbligazioni civilistiche, da qualunque causa esse
255 Watson 1961, 391-416. Le osservazioni di Watson sono state riprese e discusse da Hankum 1998, 268 ss.; Hankum 2001, 4 ss.
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Commento derivino (in primis il contratto), comprese non solo quelle sottoposte a termine non ancora scaduto (in diemve), ma anche quelle sottoposte a condizione prima del verificarsi dell’evento dedottovi: non a caso il verbo oportere, indicativo dell’obbligo civilistico, è declinato sia al presente sia al futuro (oportet oportebit) proprio per segnalare che sono suscettibili di stipulatio Aquiliana non solo le obligationes già produttive di effetti, ma anche quelle già concluse ma non ancora efficaci in quanto sottoposte a condizione sospensiva pendente. Ciò trova conferma in un altro frammento, Ulp. 46 ad Sab., D. 2.15.4 dove, dopo aver chiarito che tutte le obligationes possono essere dedotte in una stipulatio Aquiliana e estinte con una successiva acceptilatio, si aggiunge che vi possono essere dedotte anche le obligationes nascenti da legato (per damnationem) sottoposto a condizione. Il primo inciso comprende dunque tutte le obbligazioni civilistiche, non, invece, secondo la maggior parte della dottrina, le obligationes ex delicto, in quanto la possibilità di novatio risulterebbe dalle fonti ristretta alle obligationes civili (cfr. Ulp. 46 ad Sab., D. 46.2.1; Ulp. 48 ad Sab., D. 46.2.2). Il secondo inciso estende il possibile contenuto della stipulatio Aquiliana a tutte le eventuali pretese giudiziarie di un soggetto nei confronti di un altro, a qualunque stadio esse siano giunte256: cioè sia che l’attore abbia già esercitato l’actio ma il procedimento non sia ancora giunto alla fase della litis contestatio (actio); sia che la litis contestatio fra le parti abbia già avuto luogo e quindi la pretesa dell’attore si sia ‘consumata’ traducendosi in richiesta al iudex privatus (petitio)257 di emettere la sentenza; sia che il iudex abbia già emesso una sententia di condanna a carico del convenuto e, dunque, all’attore spetti la sola persecutio della summa condemnationis. Come ha bene evidenziato Casavola258, il trinomio actio-petitio-persecutio era tipico, sin dalla fine della repubblica (se non prima) del linguaggio legislativo e negoziale: lo si trova ampiamente, ad es., nella legislazione municipale spagnola (cfr. lex Urson. c. CXXV l. 28, c. CXXVI l. 46, c. CXXVIII l. 30, c. CXXIX l. 38; c. CXXXI l. 13, c. CXXXII ll. 32-33; lex mun. Salpens. c. XXVI ll. 11; lex mun. Malacit. C. LVIII l. 5, c. LXII ll. 71-72, c. LXVII ll. 48-49259), ma è anche attestato da fonti letterarie di età tardo-repubblicana (ad es. Cic. in Verr. 4.70; reth. ad Herenn. 2.18.1). Con tale ampliamento, forse frutto dell’interpretatio della giurisprudenza successiva alla creazione tardo-repubblicana della formula aquiliana, divennero passibili di essere ricomprese nella stipulatio non sono le obbligazioni civilistiche (già previste nel primo inciso), ma anche quelle pretorie (di cui non a caso le fonti parlano in termini di actione teneri) e, forse, quelle ex delicto260.
256 Così, giustamente, Casavola 1965, 34 ss. a cui rinvio per la critica ad alcune tesi interpolazionistiche di autori precedenti. L’A. conclude significativamente (p. 103-104) che “il trinomio esprime la pienezza della condizione attiva della parte attrice in ognuno dei tre momenti fondamentali del processo – nell’agere, nel litem contestari e nel iudicium. (…). Nella composizione triadica la collocazione di ciascun termine rispetta la successione cronologica delle diverse attività processuali. Senza actio non ci può essere petitio, senza petitio non ci può essere persecutio”. Cfr. anche Fuenteseca 1970, 139 ss.; Kaser 1973, 351 s. 257 Dunque qui petitio non va inteso nel senso di actio in rem come in Pap. 1 defin., D. 44.7.28. 258 Casavola 1965, 31 ss. Osservazioni critiche in Guarino 1966, 131 ss. Per altra lett. Longo 2012, 79 nt. 63. 259 Murga Gener 1987, 889 ss. 260 Così Wlassak 1921, 408, 417. Al contrario per Casavola 1965, 34 ss. questa clausola sarebbe da intendere in stretta subordinazione rispetto alla prima e si riferirebbe pertanto a tutti i mezzi giudiziari esercitabili da una parte nei confronti dell’altra a tutela dei diritti di credito appena richiamati.
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Lauretta Maganzani Il terzo inciso (quodve tu meum habes tenes possides) è quello che in dottrina ha suscitato il maggior numero di dubbi. Esso, infatti, parrebbe consentire alle parti di dedurre in una stipulatio Aquiliana anche le pretese reali (come quella di chi agisse in rivendica contro il possessore di un bene di cui egli si afferma proprietario) mentre è noto che lo strumento della novazione era di regola riservato alle pretese in personam. Si è quindi ipotizzato che tale inciso riguardasse azioni come quella ad exhibendum o la procedura interdittale261. Casavola ha, invece, supposto che esso servisse ad evitare che il depositante o il comodante agissero in rivendica nonostante l’avvenuta stipulatio Aquiliana e acceptilatio che avevano estinto la relativa obligatio262. Sono invero tutte ipotesi possibili, anche se i verbi utilizzati habere-tenere-possidere sono tipici della situazione giuridica del convenuto in rivendica263, e così lo è l’aggiunta ‘dolove malo fecisti quo minus possideres’ che si trova nella versione delle Istituzioni giustinianee, I. 3.29.2. Inoltre bisogna ricordare che una costituzione del 290 emessa da Diocleziano e Massimiano, C. 2.4.15, ammette la possibilità del convenuto in una petitio hereditatis o in un’altra actio in rem di opporre come eccezione all’attore l’avvenuta conclusione di una transazione effettuata attraverso stipulatio Aquiliana e acceptilatio. Non si può quindi escludere che già al tempo della redazione delle institutiones Florentini le pretese reali potessero essere dedotte nella stipulatio Aquiliana: ciò, tuttavia, significherebbe che, già in quell’epoca, lo strumento aveva assunto una generica funzione transattiva, il che peraltro sembra confermato dalla premessa di Fiorentino al formulario che si è sopra analizzata. Può anche darsi, comunque, che l’estensione della stipulatio Aquiliana alle pretese reali sia frutto di una modifica tardoantica o giustinianea del testo, successiva al 290, data della costituzione che, per prima, menziona tale possibilità. F. 22 – D. 2.14.57 Il frammento, posto da Lenel nella Palingenesia sotto il titolo del libro VIII dedicato ai pagamenti e alle liberazioni, tratta del pactum de non petendo, la convenzione fra creditore e debitore – di grande diffusione nella prassi – con cui il primo si impegnava a non richiedere il pagamento e a non agire in giudizio entro un certo termine. La sua conclusione consentiva al debitore chiamato in giudizio dal creditore prima della scadenza di quel termine, di opporre la relativa exceptio e così bloccare la sua pretesa. Il principium allude ad un caso di debito di capitale a cui si è aggiunta una stipulatio usurarum e si specifica che il creditore che abbia ricevuto dal debitore il pagamento anticipato di interessi non ancora maturati sul capitale dovuto (in futurum), si riterrà che abbia convenuto tacitamente con lui di non esigere il capitale fino alla data della loro maturazione264. È un caso in cui il pactum de non petendo si ritiene tacitamente concluso265.
261
Wlassak 1921, 432; Casavola 1965, 55. Contra Marrone 1958, 459. Casavola 1965, 55. 263 Sul trinomio habere-tenere-possidere, Cristaldi 2007, 152 ss., in part. 154 s. nt. 90 e 155 nt. 92 (con altra lett.). 264 Cfr. sul testo Sacconi 1987, 429; Knütel 2001, 436; Gröschler 2009, 394; un accenno alla regola si trova anche in Reichel 2018, 69. 265 La possibilità che i pacta siano tacitamente conclusi è affermata da Paolo, richiamandosi a Labeone, in 3 ad ed., D. 2.14.2 e 4pr. Sempre Paul. 3 ad ed., D. 2.14.4.3 presenta poi un caso di pactum del tipo ‘ut donec usurae solverentur sors non peteretur’, simile a quello tacito esaminato da Fiorentino: in questo caso il giurista precisa che, anche se la stipulatio usurarum è stata conclusa puramente e semplicemente, la presenza di quel patto fa sì che il contratto debba essere inteso come sottoposto a condizione. 262
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Commento Nel primo paragrafo si presenta un caso particolare e complesso di pactum de non petendo, stretto in relazione ad un’obligatio che, come si ricava dalla parte finale del testo, vincola fra loro più creditori e più debitori solidali (forse da stipulatio). La formulazione di tale pactum è bifida, nel senso che esso è da una parte in rem, dall’altra in personam. La distinzione fra pacta in rem e pacta in personam, in passato giudicata di origine giustinianea, è stata poi rivalutata, tanto da considerarsi risalente persino all’età di Labeone. Come si legge con chiarezza in Ulp. 4 ad ed., D. 2.14.7.8, un pactum de non petendo è in rem quando il creditore si impegna a non pretendere il pagamento del debito (e a non farlo valere in giudizio) né dal debitore né da altri (ad es. condebitori o fideiussori): in tal caso la sua formulazione è del tipo ‘ne ego petam’. Un pactum de non petendo è, invece, in personam quando esso ha come beneficiario soltanto la persona del debitore, la quale è espressamente indicata: in tal caso la sua formulazione è ‘ne a te petam’266. Ma nel caso esaminato da Fiorentino, il pactum si compone di due parti ed è così formulato: ‘ne ego petam’ e ‘ne a te petatur’. Con esso, dunque, da un lato, uno dei concreditori (che possiamo chiamare A) si è impegnato a non pretendere il pagamento da nessuno dei debitori (e l’impegno si estende ai fideiussori267); dall’altro, tutti i concreditori si sono impegnati a non pretendere il pagamento da uno dei debitori (che possiamo chiamare B). Ebbene Fiorentino specifica che tali pacta, per come sono stati formulati, si intendono non trasmissibili agli eredi: infatti il primo (ne ego petam) menziona espressamente la sola persona del concreditore, non i suoi possibili eredi, e il secondo (ne a te petatur) menziona espressamente la sola persona del condebitore (non i suoi possibili eredi). Pertanto, dopo la morte di A, impegnatosi a non pretendere il pagamento da nessuno dei condebitori, l’erede non sarà vincolato al pactum ma potrà pretendere l’adempimento dell’obbligazione da ciascuno dei debitori e anche agire in giudizio senza timore dell’opposizione di un’exceptio. Allo stesso modo, dopo la morte di B, cadrà il vincolo che tutti i concreditori si sono assunti nei suoi confronti e, dunque, essi potranno pretendere il pagamento dal suo erede. Da notare, comunque, che sul tema della trasmissibilità agli eredi del pactum de non petendo non doveva esserci unanimità fra i giuristi. Lo testimoniano una serie di passi dello stesso titolo 2.14 del Digesto ove si discute sul punto: ad es. Paolo 3 ad ed, D. 2.14.25.1, richiamando Labeone, precisa che per il giurista augusteo il pactum personale (o in personam) non era trasmissibile all’erede (Personale pactum ad alium non pertinere, quemadmodum nec ad heredem, Labeo ait). Ma in un frammento di poco precedente nel titolo, lo stesso Paolo pare affermare il contrario: infatti, in 3 ad ed., D. 2.14.17.3, fa l’esempio di un pactum del tipo ‘ne a se petatur, sed ut ab herede petatur’ sottolineando che in questo caso, data la particolare formulazione, l’exceptio pacti non spettava all’erede, come se presupponesse che di solito il pactum fosse, invece, trasmissibile agli eredi. Si può forse pensare a un’evoluzione del pensiero giurisprudenziale sul punto, da Labeone a Paolo? Non pare, visto che i passi successivi a quello di Paolo appena menzionato smentiscono l’idea della trasmissibilità: ad es. nel paragrafo successivo, D. 2.14.17.4, lo stesso Paolo presenta il caso di un pactum de non petendo concluso a favore del debitore e di un terzo (ne a me neve a Titio petatur) e chiarisce che esso non potrà valere a
266 267
Frezza 1962, 101; Voci 1967, 243; Melillo 1984, 1459 ss.; Melillo 1994, 226 ss.; Zarro 2017a, 6 ss., sop. 9 nt. 10. Zarro 2017a, 1 ss. (con altra lett.).
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Lauretta Maganzani favore del terzo, nemmeno nel caso in cui questi in futuro divenga erede del debitore. Infatti – dice – ‘ex post facto id confirmari non potest’. Ciò pare significare che per Paolo, nel caso normale, il pactum de non petendo si trasmetteva all’erede. Si trattava probabilmente di una questione interpretativa dipendente dai verba utilizzati nel pactum. Le parti, cioè, avrebbero potuto renderlo trasmissibile agli eredi o limitarlo ai paciscenti. In questo senso è significativa un’osservazione di Pedio riportata da Ulpiano che, a proposito della qualificazione del patto concluso come in rem o in personam, sottolinea che tutto dipende dalla volontà delle parti ricostruibile in primis dai verba utilizzati (Ulp. 4 ad ed., D. 2.14.7.8). F. 23 – D. 50.16.211; F. 24 – D. 13.7.35.1 Nell’ambito del libro VIII, due testi sono stati posti da Lenel sotto una rubrica incerta, che l’A. ipotizza essere relativa all’interdictum uti possidetis268. Il primo testo è tratto dal titolo 50.16 del Digesto (De verborum significatione) e definisce i termini fundus, aedes, villa, locus, area, ager269. L’altro è tratto dal titolo D. 13.7 (De pigneraticia actione vel contra) e corrisponde al primo paragrafo del fr. D. 13.7.35 il cui principium, come già visto, è stato posto da Lenel come primo paragrafo di [F. 20] dopo D. 46.3.2: il § 1 detta la regola per cui il pegno passa nel possesso del creditore, ma può anche essere concesso al debitore in locazione o precario. Si è già sottolineato, in occasione dell’esegesi di [F. 20], che l’operazione di Lenel appare in questo caso piuttosto azzardata, perché nulla autorizza a separare le due parti di D. 13.7.35 data anche la comunanza di contenuti (in entrambi i casi si tratta di pegno). D’altra parte ipotizzare che due dei testi superstiti del libro VIII delle Istituzioni, D. 50.16.211 e D. 13.7.35.1, riguardassero il tema dell’interdetto uti possidetis è quanto meno strano, visto che il libro, a quanto si è ricostruito fino ad ora, riguarda ipotesi varie di contratti verbali, in particolare stipulationes. In realtà tale proposta palingenetica leneliana si basa sul confronto fra il fr. 211 e un passo di Ulpiano compreso nello stesso titolo 50.16 del Digesto (dove egualmente si definiscono il locus e il fundus) che dall’inscriptio risulta relativo all’interdictum uti possidetis270: Ulp. 69 ad ed., D. 50.16.60: ‘Locus’ est non fundus, sed portio aliqua fundi: ‘fundus’ autem integrum aliquid est. et plerumque sine villa ‘locum’ accipimus: ceterum adeo opinio nostra et constitutio locum a fundo separat, ut et modicus locus possit fundus dici, si fundi animo eum habuimus. non etiam magnitudo locum a fundo separat, sed nostra affectio: et quaelibet portio fundi poterit fundus dici, si iam hoc constituerimus. nec non et fundus locus constitui potest: nam si eum alii adiunxerimus fundo, locus fundi efficietur. 1. Loci appellationem non solum ad rustica, verum ad urbana quoque praedia pertinere Labeo scribit. 2. Sed fundus quidem suos habet fines, locus vero latere potest, quatenus determinetur et definiatur.
A partire da questo indizio, Lenel ritenne di poter ipotizzare che anche D. 13.7.35.1 avesse riguardato in origine tale tema: in particolare il testo sarebbe servito a rimarcare che, in caso
268 269 270
Lenel 1889. I. 175 nt. 2. López Gálvez 2009, 680. Lenel 1889. I. 175 nt. 2.
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Commento di datio pignoris, la protezione interdittale possessoria proibitoria dell’uti possidetis sarebbe spettata al creditore pignoratizio, non al debitore, pur essendo quest’ultimo proprietario e magari anche detentore della cosa ex precario o ex conducto. A ben vedere, tuttavia, si tratta di un indizio molto tenue, visto che nel medesimo titolo 50.16 altri testi definiscono il locus, il fundus etc. pur provenendo da contesti molto differenti: ad es. lo stesso Ulpiano nel fr. 27pr. dello stesso titolo definisce l’ager come ‘locus qui sine villa est’ trattando, come risulta dall’inscriptio (17 ad ed.), dell’actio in rem vectigalis; Giavoleno, nel fr. 115 tratto dal IV libro delle epistulae, distingue il fundus dalla possessio, dall’ager e dal praedium; e ancora Ulpiano nel fr. 198 tratto dal libro II de omnibus tribunalibus, definisce gli urbana praedia mentre tratta del divieto, disposto da Settimio Severo nel 195, di alienare e ipotecare fondi rustici e suburbani appartenenti a pupilli. Dunque il confronto fra il fr. 211 e il fr. 60 di Ulpiano non può essere ritenuto indice certo, o per lo meno probabile, del contesto tematico del frammento di Fiorentino e, anzi, pare possibile un’ulteriore ipotesi, a mio avviso più aderente a ciò che rimane del libro VIII delle institutiones: è possibile cioè che le definizioni florentiniane di locus, aedes etc. fungessero da commento lemmatico alla formula della cautio damni infecti, la quale, infatti, così recitava: Quod aedium loci operisve quibus de agitur vitio si quis ibi ruet scindetur fodietur aedificabitur in aedibus meis intra annum damnum factum erit, quanti ea res erit, tantam pecuniam dari dolumque malum abesse afuturumque esse spondesne? Spondeo.
Tale soluzione renderebbe ragione anche della collocazione del fr. 211 nel contesto del libro VIII delle institutiones, relativo, come si è visto, alle obligationes verbis. In esso, infatti, Fiorentino avrebbe trattato sia della stipulatio in generale, sia delle sue varie applicazioni (es. stipulatio usurarum, stipulatio duplae, stipulatio Aquiliana) comprese quelle pretorie (stipulatio–cautio damni infecti). D. 13.7.35.1, poi, lungi dall’essere relativo all’interdictum uti possidetis di cui il libro VIII probabilmente non trattava, pare da leggere congiunto al suo principium secondo la versione tràdita: in questo caso Fiorentino, che si stava occupando della stipulatio usurarum, avrebbe dapprima richiamato la regola introdotta in età severiana per cui il ricavato della vendita dei pegni era da imputare prima agli interessi e poi al capitale senza che rilevasse un’eventuale opposizione del debitore; e poi avrebbe precisato che tale opposizione era da ritenersi irrilevante nonostante il fatto che il debitore rimanesse proprietario del pegno e addirittura ne potesse ottenere ex precario o ex conducto la detenzione. Riguardo a quest’ultimo testo, aggiungo soltanto che esso è stato oggetto di ampio dibattito, in quanto ritenuto contrastante col principio, affermato altrove nei Digesta (ad es. Iul. 13 dig., D. 16.3.15; Ulp. 71 ad ed., D. 43.26.4.3; Ulp. 30 ad ed., D. 50.17.45pr.) secondo cui non era possibile precario o locazione di cosa propria271. Tuttavia è ormai opinione consolidata che nella prassi fosse divenuto comune, sin dalla prima età imperiale, il precario di pegno, il che costituiva un’eccezione, opportunamente segnalata dai giuristi, al divieto di precario di
271
Sospetti di interpolazione, ad es., in Silva 1940, 250.
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Lauretta Maganzani res sua272. Una chiara attestazione in proposito si ha in Ulp. 71 ad ed., D. 43.26.6.4273 dove si ricorda la discussione intervenuta fra i giuristi sull’ammissibilità del precario di pegno e la soluzione positiva accolta da Ulpiano per ragioni di opportunità, data anche la diffusione della relativa prassi. Del resto mantenere la detenzione della res pignorata in capo al debitore poteva essere utile anche al creditore, ad es. se si trattava di un bene fruttifero.
LIBRO IX
F. 25 – D. 1.5.4 Posto da Lenel, sulla base dell’inscriptio, nel libro IX delle institutiones sotto la rubrica De statu hominum, il testo distingue fra la libertà – definita come la facoltà naturale di fare ciò che piace a meno che qualcosa sia proibito dalla forza o dal diritto – e la schiavitù – definita come una constitutio iuris gentium per cui un uomo contra naturam viene sottoposto al dominio di un altro274. A questa distinzione si aggiungono poi, nei §§ 2 e 3, le etimologie di servus – da servare ‘quod imperatores captivos vendere ac per hoc servare nec occidere solent’ (§ 2) – e di mancipium – da manu capere perché lo schiavo viene preso dal nemico con la forza della sua manus (§ 3). Il frammento corrisponde ad un passo contenuto nelle Istituzioni giustinianee, I. 1.3.1-3, con varianti di lieve entità che, tuttavia, secondo Wieacker275, proverebbero che anche in questo caso le Istituzioni giustinianee hanno tratto il passo da una migliore tradizione manoscritta. Nessuna delle asserzioni contenute in questo testo è particolarmente originale. La definizione di libertà come ‘facoltà di fare ciò che piace’ si trova già nel Gorgia di Platone 468 in cui è presentata come l’accezione ‘volgare’ di libertà, in luogo di quella di ‘fare ciò che si vuole’ propria del filosofo, che indica la capacità del saggio – schiavo o libero che sia – di realizzare la virtù attraverso il distacco dalle passioni. La stessa contrapposizione fra accezione comune di libertà (‘fare ciò che piace’) e accezione filosofica (‘fare ciò che si vuole’), è ripresa nelle Satire di Persio 5.83 ss. e poi nel discorso 14 sulla schiavitù di Dione di Prusa, esemplato
272 Carcaterra 1940, 17 ss.; Tondo 1959, 171 ss.; Zamorani 1969, 243 ss.; Longo 1979, 93 s.; Kaser 1979, 1 ss.; Russo Ruggeri 1987, 717 ss. (sul passo di Fiorentino 729 nt. 29); Querzoli 1996, 66; Palmirski 2004, 201 nt. 16; Zwalve 2004, 41; Biavaschi 2006, 225 ss. (sul passo di Fiorentino, 235); De Iuliis 2017, 9-10 nt. 23. 273 Quaesitum est, si quis rem suam pignori mihi dederit et precario rogaverit, an hoc interdictum locum habeat, quaestio in eo est, ut precarium consistere rei suae possit. Mihi videtur verius precarium consistere in pignore, cum possessionis rogetur, non proprietatis, et est haec sententia utilissima: cottidie enim precario rogantur, creditores ab his, qui pignori dederunt, et debet consistere precarium. Cfr. Paul. 5 ad Plaut., D. 13.7.37. 274 Per un’esegesi approfondita del testo, cfr. supra, I.3 d e III.II.3–4. Bibl: Querzoli 1991, 81-86; Cavallini 1994, 80-81; Querzoli 1996, 109-131; Waldstein 2002, 68; Stolfi 2002, 395 ss.; Muroni 2013, on line; Stolfi 2014, 169 ss.; Masi Doria 2016, 85 ss. Sulla funzione delle etimologie nel mondo antico, da ultime, Babusiaux 2014, 39 ss. e Chevreau 2016, 111 ss. (con altra lett.). 275 Wieacker 1960, 174.
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Commento – sembra – sull’Alcibiade primo di Platone: in Dione, fra l’altro, proprio come in Fiorentino, si presentano come limite alla libertà (nella sua accezione volgare) la vis oppure il ius (cfr. supra, III.II.4). Lo stesso Cicerone, infine, nei paradoxa stoicorum 34, richiamava questo genere di libertà morale definendola come ‘potestas vivendi ut velis’. Anche la definizione di schiavitù come istituto contra naturam si trova già in fonti precedenti276. Si pensi soltanto che già Aristotele, in un famoso passo del I libro della Politica (1252a 24 ss.), richiamava la disputa già esistente ai suoi tempi fra chi riteneva la schiavitù un istituto conforme alla natura (perché sanciva la superiorità del più forte sul più debole); fra chi, al contrario, la definiva come un istituto innaturale (parà fusin = contra naturam) perché fondato sulla violenza e l’ingiustizia; e chi, invece, come Aristotele stesso, riteneva contro natura soltanto la schiavitù di guerra di un greco rispetto ad un altro greco o a un barbaro e, invece, conforme alla natura quella di un barbaro rispetto ad un greco data l’inferiorità intellettiva dei primi (che giustificava una loro subordinazione) nonché la loro potenza fisica (che li rendeva adatti ai lavori di fatica)277. Gli stessi Stoici, com’è noto, predicavano l’idea dell’unità del genere umano e dell’eguaglianza fra gli uomini278 e quindi, in qualche modo, dell’innaturalità della schiavitù279, anche se poi non facevano nulla per contrastarla sul piano concreto280. Anche le due successive etimologie di servus e di mancipium che compaiono nel II e III paragrafo di D. 1.5.4 non sono originali, ma la prima si trova già nel liber singularis enchiridii di Pomponio (D. 50.16.239.1 Servorum appellatio ex eo fluxit, quod imperatores nostri captivos vendere ac per hoc servare nec occidere solent) e sarà recepita nel de civitate Dei di Agostino 19.15; la seconda si trova in Varro de ling. lat. 6.85 (A manu […] mancipium, quod manu capitur) e Fest. de verb. sign. 115.19 (Manceps dictus, quod manu capiatur)281 e sarà recepita da Ambrosiaster, comm. in ep. ad Coloss. 4.1 (PL 17, 439). Dunque Fiorentino ha certamente citato fonti anteriori – e che dovevano avere una certa diffusione, vista la loro ripresa in opere cristiane – il che peraltro dimostra la sua elevata cultura filosofica e letteraria. Questo tuttavia non significa che il suo apporto alla riflessione tecnico-giuridica sul tema dello status hominum sia stato di poco conto e che egli si sia limitato a riproporre testi precedenti. Al contrario, egli mostra di utilizzare nozioni e definizioni tralatizie in modo tale da reinterpretarne i contenuti e fornire al lettore una concezione tipicamente tecnico-giuridica, e non meramente filosofica, dell’istituto della schiavitù.
276
Schiavone 2019, 10 ss. Fonti e letteratura in Garnsey 2004, sopr. 30 ss., 151-176. 278 Baldry 1965, 141 ss. Amanátegui Perelló 2020, 364-373 e 2020a, 97-105 on line, afferma che Fiorentino segue un principio stoico: in realtà, come si è visto supra (nel testo e nel cap. III.II.2,3), esso aveva un’origine più risalente. 279 Fra gli autori latini, ad es., Cic. par. stoic. 34; Sen. ep. 47.2-5, 10-13; de ben. 3.19.2, 20.1, 21.2: cfr. Garnsey 2004, 177-206. 280 Su questo carattere ‘astorico’ della nozione di diritto naturale accolta dai giuristi severiani e sulla irrealizzabilità in concreto degli ideali di eguaglianza degli uomini propugnati a livello teorico, ampiamente, Schiavone 2007, 8 ss.; Schiavone 2017, 431 ss.; Schiavone 2019, 57 ss.; Schiavone 2021, 53 ss. 281 Diverso il significato di Fest. 137.12 (Lindsay) Manceps dicitur, qui quid a populo emit conducitve quia manu sublata significat se auctorem emptionis esse (…). 277
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Lauretta Maganzani Si è visto, infatti, che, nei testi filosofici o retorici citati, la definizione del termine libertas come ‘fare ciò che piace etc.’ era presentata come quella propria dell’uomo comune, in contrapposizione all’eccezione elevata e attinente alla sfera morale propria del saggio che, schiavo o libero che fosse dal punto di vista giuridico, era considerato comunque ‘libero’ se capace di realizzare sé stesso nella virtù dominando le passioni (cioè – dicono le fonti – di ‘vivere come vuole’). Ebbene qui Fiorentino usa proprio questa accezione ‘volgare’ del termine quasi a mostrare che il suo discorso attiene alla vita concreta dell’uomo comune e non alle astrusità della filosofia (torna in mente la vera philosophia di Ulpiano di cui in D. 1.1.1.1, 1 inst.282); e tuttavia, nello stesso tempo, eleva tale accezione volgare quando qualifica la libertà come naturalis facultas propria di tutti gli uomini. Qualche parola ora sulla collocazione palingenetica del passo: esso, secondo la lezione tràdita, è collocato nel libro IX ma, secondo alcuni autori e anche a mio avviso, è riferibile preferibilmente al I libro accanto a [F. 1] D. 1.1.3283. Pare infatti strano che un passo su questa tematica filosofico-giuridica fosse collocato dopo una serie di testi in tema di contratti e prima di quelli sull’eredità e sul legato. Come scrive Fausto Goria, l’ipotesi è confortata da due ordini di ragioni: in primo luogo “la collocazione della teoria degli status personali fra le obbligazioni e il testamento sembra molto strana e priva di apprezzabile giustificazione”; in secondo luogo “il fatto che Fiorentino certamente iniziava la sua opera con alcuni concetti generali (cfr. D. 1.1.3) e che il libro III era interamente dedicato alla materia matrimoniale (…), mentre nulla si sa del resto del libro I e del libro II: qui potrebbe benissimo aver trovato posto una trattazione delle persone. D’altra parte i libri VII-VIII, dedicati alla materia obbligatoria, non fanno cenno delle obligationes ex delicto, che dovrebbero quindi trovare nel libro IX il loro posto logico e naturale”284. Inoltre è forse rilevabile una sorta di corrispondenza fra D. 1.1.3 e D. 1.5.4, proprio in relazione alla definizione di libertas. Si noti infatti che all’affermazione per cui la libertà, cioè la facoltà di fare ciò che piace, può essere impedita dalla vis o dal ius, farebbe da ottimo contrappunto l’affermazione di D. 1.1.3 per cui è legittimo a chiunque repellere la vis e l’iniuria: in sostanza Fiorentino sottolineerebbe che la libertas può di fatto essere limitata sia dalla violenza altrui – che può condurre fino alla riduzione in schiavitù del malcapitato –, sia dal diritto – che impone ai consociati le dovute regole di comportamento –; e tuttavia c’è una radicale differenza fra le due forme di limitazione della libertà: infatti chiunque può opporsi con violenza alla violenza e all’iniuria, ma nessuno può opporsi legittimamente al ius.
282 Sulla distinzione fra vera e simulata philosophia, da ultima, Maganzani 2020a, 55-87; Maganzani 2020c, 583598. Cfr. Schiavone 2021a, 187 ss. 283 Già Albertario 1937, 287 nt. 3 scriveva: “Libro IX deve essere un errore invece di Libro I: non è pensabile che Fiorentino, allontanandosi dai soliti schemi, intercalasse la trattazione dello status hominum tra il diritto delle obbligazioni e il diritto ereditario”. Così Goria 1976, 357-358. Un errore di trascrizione è ipotizzabile: lo stesso risulta accaduto per [F. 35], D. 34.4.14, che in F risultava tratto dal I libro delle institutiones Florentini, in F1 recte dall’XI (Lenel 1889. I. 177 nt. 2). 284 Goria 1976, 358 nt. 99. L’A. precisa, tuttavia, che potrebbe trattarsi anche di una distinzione tra liberi e servi fatta ad esempio a proposito della noxae datio, oppure in tema di condictio (che nel sistema sabiniano viene subito dopo i delitti) (358 nt. 100),
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Commento
LIBRO X
F. 26 – D. 28.1.24 Con il libro X comincia la parte del manuale dedicata al diritto ereditario con una serie di sei frammenti di cui Lenel ha ipotizzato l’appartenenza al titolo De testamentis. Il primo frammento si riferisce alla pratica di redigere ed ‘autenticare’ più esemplari del medesimo testamento (dotandolo dei sigilli dei testimoni e anche, eventualmente, depositandolo presso un tempio o una persona di fiducia)285. Essa è attestata da più fonti letterarie e giuridiche: oltre a Fiorentino ne parla, ad es., Proculo in un passo del VI libro delle epistulae (D. 31.47)286. Essa risultava addirittura necessaria – scrive Fiorentino – nel caso in cui uno stesse per mettersi in viaggio per mare e dunque volesse essere certo che le sue ultime volontà fossero conoscibili e sicure, qualunque incidente avesse potuto accadergli lontano da casa. Il testo è presente anche in I. 2.10.13 benché, secondo Wieacker, come sempre in una versione più completa e affidabile287: Sed et unum testamentum pluribus codicibus conficere quis potest, secundum obtinentem tamen observationem omnibus factis; quod interdum etiam necessarium est, veluti si quis navigaturus et secum ferre et domi relinquere iudiciorum suorum contestationem velit, vel propter innumerabiles causas, quae humanis necessitatibus imminent.
In effetti il passo delle Istituzioni appare più completo nella parte finale, quando aggiunge che l’opportunità di redigere in due o più esemplari il proprio testamento, soprattutto quando si è in procinto di mettersi in viaggio per mare, dipende da tutti i casi innumerevoli che possono capitare nella vita (vel propter innumerabiles causas, quae humanis necessitatibus imminent). Ma anche la tradizione meccanica è migliore nelle Istituzioni: ad es. nel si quis invece di forte si (dove manca il soggetto) oppure nel locativo domi assente nella versione dei Digesta. Al contrario pare a Wieacker più genuina la lezione del Digesto ‘pluribus exemplis consignare’ rispetto al ‘pluribus codicibus conficere’ delle Istituzioni e quest’ultimo inciso, secondo l’A., può essere frutto di un’interpolazione giustinianea288.
285 Forse per questo uso di depositare presso un amico o un tempio il proprio testamento, Scotti 2016, 9 traduce il verbo ‘consignare’ con ‘consegnare’. In effetti una sorta di ‘autenticazione’ del testamento doveva proprio avere luogo sia attraverso l’apposizione dei sigilli dei testimoni, sia attraverso il suo deposito in mani sicure. Tuttavia ‘consignare’ di per sé significa ‘sigillare’, ‘autenticare’ un documento o un deposito di denaro, come risulta da altri testi del Digesto: es. Scaev. 9 dig., D. 24.1.66pr.; Scaev. 3 resp., D. 33.4.17.1 (per tabulae e instrumenta dotis); Paul. 5 ad Sab., D. 40.7.4pr.; Hermog. 2 iuris epit., D. 46.1.64 (per depositi di denaro); Ulp. 32 ad ed., D. 19.1.13.6 (per documenti di vendita); Callistr. 2 quaest., D. 22.4.5; Marcian. 4 inst., D. 48.10.1.4; Ulp. 10 de off. procons., D. 48.19.9.5 (per vari instrumenta) 286 Fonti e letteratura in Scotti 2016, 8-16. Cfr. anche Voci 1963, 82 e Scotti 2012, 391 ss. 287 Wieacker 1960, 200-201. 288 Wieacker 1960, 201.
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Lauretta Maganzani F. 27 – D. 28.2.17 Il breve frammento riguarda la forma dell’exheredatio. Mentre l’institutio heredis, con l’andar del tempo, si disimpegnò parzialmente dalle solennità, la giurisprudenza rimase sempre molto rigorosa circa le forme della diseredazione. Per questo, forse, Fiorentino specifica che la formula tipica della exheredatio, ‘Titius filius meus exheres esto’, poteva essere sostituita da una più snella, del tipo ‘filius exheres sit’ o ‘filius exheres erit’, dove il nome proprio del figlio veniva eliminato in quanto non necessario ad individuare il soggetto e dove al verbo esto coniugato all’imperativo futuro, si sostituiva il congiuntivo presente sit o futuro erit. F. 28 – D. 28.5.50 Il passo si divide in due parti: il principio che riguarda l’istituzione e manomissione di uno schiavo altrui, e il primo paragrafo che riguarda la testamentifactio passiva degli eredi estranei: quest’ultimo è presente con qualche variante formale anche nelle Istituzioni giustinianee, I. 2.19.4289. Il caso presentato nel principio è quello di un testatore che istituisce erede e contemporaneamente manomette uno schiavo altrui. Ovviamente la disposizione è nulla perché non è possibile manomettere uno schiavo altrui. Tuttavia il caso vuole che questo schiavo, dopo la redazione del testamento, venga acquistato in proprietà del testatore e Fiorentino si chiede se quella disposizione possa allora essere convalidata: si darebbe in tal modo rilievo alla voluntas testantis visto che egli sin dall’inizio desiderava ottenere questo effetto. La risposta del giurista è negativa: nessuna delle due disposizioni testamentarie è valida perché ad un servus alienus la libertà è conferita inutilmente290. Il primo paragrafo si riferisce alla cd. testamentifactio passiva degli heredes extranei che, com’è noto, era a Roma piuttosto ampia, spettando anche agli alieni iuris, liberi e schiavi, per i quali acquistava il rispettivo pater familias o dominus. Fiorentino precisa che gli heredes extranei, siano essi sui iuris o in potestate, per poter essere istituiti eredi devono avere la testamentifactio in alcuni momenti fondamentali: al momento della confezione del testamento perché l’atto possa dirsi esistente, al momento della morte del testatore perché soltanto allora esso diviene efficace, e al momento dell’aditio hereditatis “giacché è solo in questo momento – scriveva Biondi – che si conclude ed esaurisce la successione ereditaria, secondo il principio generale per cui l’erede estraneo subentra solo con l’accettazione”291. Come si vede, si tratta di un passo piuttosto semplice e dal contenuto elementare, adatto a un pubblico di studenti. Tuttavia esso non ha mancato di suscitare sospetti di interpolazione292, essenzialmente per il fatto che nella prima parte parla di duobus temporibus in cui si
289 In extraneis heredibus illud observatur, ut sit cum iis testamentifactio, sive ipsi heredes instituantur sive hi qui in potestate eorum sunt. Et id duobus temporibus inspicitur, testamenti quidem facti, ut constiterit institutio, mortis vero testatoris, ut effectum habeat. Hoc amplius et cum adit hereditatem, esse debet cum eo testamenti factio, sive pure sive sub condicione heres institutus sit; nam ius heredis eo vel maxime tempore inspiciendum est, quo adquirit hereditatem. Medio autem tempore inter factum testamentum et mortem testatoris, vel condicionem institutionis existentem mutatio iuris heredi non nocet, quia ut diximus, tria tempora inspici debent. 290 Buchwitz 2012, 9; v. anche Voci 1963, 132; Buckland 1908, 505. 291 Biondi 1955, 111. 292 Schulz 1916, 52 s.; Perozzi 1928, 508 nt. 5; Bonfante 1957, 592 nt. 1; Grosso 1962, 184-185 nt. 2.
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Commento richiede la testamentifactio, quello della redazione del testamento e quello della morte del testatore; e poi, invece, aggiunge un terzo momento, quello dell’adizione dell’eredità, concludendo con l’inciso ‘quia, ut diximus, tria tempora inspicimus’. A rendere il passo ancor più disorganico contribuisce il fatto che, dalla terza persona plurale degli heredes della prima parte, si passa bruscamente alla terza persona singolare della seconda. Tuttavia già Fadda293, Biondi294 e Voci295 avevano rigettato tali sospetti, rilevando Biondi che le sconcordanze formali del passo possono forse addebitarsi “a quei soliti rimaneggiamenti che talvolta cagionavano imperdonabili sbadataggini”296. Biondi osservò anche che il fatto che la testamentifactio sia richiesta al momento della redazione del testamento costituisce un probabile “residuo della bilateralità insita nella mancipatio familiae da cui si sviluppa il testamento per aes et libram”297. Il tempo della morte, poi, è rilevante perché soltanto allora il testamento produce i suoi effetti; d’altra parte, come precisò Fadda, se l’istituzione di erede è sottoposta a condizione, la testamentifactio non si esige al momento della morte, ma al momento del verificarsi della condizione298: ciò, secondo l’A., troverebbe conferma in un passo di Celso 16 dig., D. 28.5.60.4, dove si parla di un civis romanus istituito erede che, dopo l’istituzione, subisce l’interdictio aquae et igni. Il giurista sottolinea che egli potrà divenire erede se ritornerà cittadino al tempo della morte del testatore o, se l’istituzione è sotto condizione, al momento del verificarsi di questa299. F. 29 – D. 28.6.37 Il testo compare anche nelle Istituzioni giustinianee (I. 2.16.6) in una lezione migliore, sia per la presenza del pronome ei necessario a coordinare le espressioni ‘singulis liberis’ e ‘qui eorum novissimus morietur’, sia soprattutto per l’aggettivo impubes da cui si comprende che il riferimento di Fiorentino era all’istituto della sostituzione pupillare: Vel singulis autem liberis, vel ei qui eorum novissimus impubes morietur, substitui potest. singulis quidem, si neminem eorum intestato decedere voluerit; novissimus si ius legitimarum hereditatum integrum inter eos custodiri velit.
Si comprende perciò che Fiorentino stava spiegando la differenza fra due diverse clausole testamentarie di sostituzione pupillare: il pater familias, infatti, poteva designare nel testamento uno o più sostituti per il caso che il figlio o i figli impuberi istituiti eredi morissero prima di raggiungere la pubertà. Tuttavia era diverso disporre che la sostituzione doveva essere fatta singulis liberis, cioè per la morte precoce di ogni singolo figlio, oppure a quello di loro che novissimus morietur, cioè che morisse per ultimo. Con la prima clausola, infatti, il testatore intendeva evitare che ciascun figlio potesse morire intestato e, dunque, gli nominava
293 294 295 296 297 298 299
Fadda 1949, 200 s. Biondi 1955, 110-111 nt. 3. Voci 1967, 391 nt. 58. Biondi 1955, 110 nt. 3. Biondi 1955, 111. Fadda 1949, 205. Fadda 1949, 205.
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Lauretta Maganzani direttamente un sostituto; con la seconda, invece, disponeva che, alla morte di ciascuno dei figli, seguisse la successione intestata a favore dei fratelli e che il sostituto intervenisse soltanto al momento della morte dell’ultimo300. F. 30 – D. 28.7.17 In questo passo Fiorentino presenta il caso di un testatore che ha istituito eredi più persone per la medesima parte dell’eredità sottoponendo ciascuna istituzione a diverse condizioni. Produrrà effetto, ad esclusione di tutte le altre, quella istituzione la cui condizione si verificherà per prima. Il testo riproduce quasi alla lettera il contenuto di Pomp. 3 ad Sab., D. 28.5.27.2 Sed si plures institutiones ex eadem parte sub diversis condicionibus fuerint factae, utra prior condicio extiterit, id faciet quod supra diximus, si pure et sub condicione idem instituatur301. F. 31 – D. 29.1.24 Il frammento riporta testualmente il contenuto di un rescritto dell’imperatore Traiano a Statilio Severo, forse legato di Tracia tra il 112 e il 114302, circa la corretta interpretazione del caput mandatorum che attribuiva ai militari il privilegio di redigere testamenti liberi da qualsiasi vincolo formale303. La questione posta da Statilio, a cui Traiano risponde, si comprende bene alla luce della storia del testamento militare quale viene descritta da Ulpiano 45 ad ed., D. 29.1.1pr.304: il giurista severiano, infatti, dopo avere individuato l’inizio di tale regime privilegiato nelle concessioni temporanee di Giulio Cesare, precisa che la normativa divenne stabile a seguito di provvedimenti degli imperatori Tito, Domiziano e Nerva, finchè con Traiano cominciò ad essere dettato in materia un apposito caput nei mandati inviati ai governatori provinciali. Ulpiano, poi, riporta per esteso il contenuto di tale caput nel quale, in particolare, si statuiva che le ultime volontà degli optimi fidelissimique commilitones, comunque fossero state manifestate, avrebbero avuto effetto (ut quoquo modo […] voluntas): Caput ex mandatis: ‘Cum in notitiam meam prolatum sit subinde testamenta a commilitonibus relicta proferri, quae possint in controversiam diduci, si ad diligentiam legum revocentur et observantiam: secutus animi mei integritudinem erga optimos fidelissimosque commilitones simplicitati eorum consulendum existimavi, ut quoquo modo testati fuissent, rata esset eorum voluntas. Faciant igitur testamenta quo modo volent, faciant quo modo poterint sufficiatque ad bonorum suorum divisionem faciendam nuda voluntas testatoris.
300 Anche da questo caso, in cui vengono analizzati due diversi tipi di sostituzione pupillare, Querzoli 1991, 77 ha tratto l’idea di un influsso della logica stoica sulla tecnica espositiva di Fiorentino: ma si tratta di un’ipotesi ingiustificata. Il testo mostra piuttosto un giurista tecnico e pienamente conscio del suo ruolo di specialista nell’ars del ius. L’A. ha ribadito il pensiero già espresso, pur con maggior cautela, in Querzoli 1996, 187. 301 Reinoso Barbero 1997, 230 nt. 53. 302 Syme 1965, 348; Scarano Ussani 1984, 1393. 303 Com’è noto, ai militari si applicava, nell’ambito del diritto testamentario, un regime privilegiato che li esimeva dall’applicazione delle regole comuni, sia formali, sia sostanziali, ma il caput mandatorum di cui Fiorentino tratta nel testo riguarda soltanto la libertà dalle forme. 304 Di recente, sul passo, Lovato 2011, 257 ss.; Meyer-Hermann 2012, passim; Stagl 2014a, 129-157; De Falco 2014, 419-446; Stagl 2015a, 109-126; ; Lovato 2018, 125-129; Ruggiero 2019, 237-257.
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Commento La domanda posta a Traiano da Statilio Severo riguarda propriamente il corretto significato da attribuire alle parole ‘ut quoquo modo testati fuissent, rata esset eorum voluntas’ del caput mandatorum sopra riportato. Traiano risponde specificando quali siano i requisiti indispensabili per l’esistenza e la validità di un testamento militare: perché una promessa orale e priva di forma possa essere considerata giuridicamente testamentum, occorre che la dichiarazione del testatore sia fatta alla presenza di testimoni la cui convocazione dimostri la serietà dell’intenzione del disponente; è poi necessario che il miles indichi con chiarezza le persone a cui intende lasciare i propri beni o conferire la libertà. In mancanza di tali accortezze, il privilegio concesso ai militari avrebbe potuto facilmente tradursi in un pregiudizio, tenendo conto soprattutto della loro inesperienza nelle sottigliezze del diritto: infatti – scrive Traiano – ‘non sarebbe difficile che, dopo la morte di un soldato, venissero fuori dei testimoni ad affermare che sembrava loro di averlo udito dire di voler lasciare i propri beni a qualcuno’. Il testo compare anche nelle Istituzioni giustinianee (I. 2.11.1) con una differente introduzione (Plane de militum testamentis divus Traianus Statilio Severo ita rescripsit) e qualche lieve divergenza formale (‘Is ergo miles’ invece di ‘Si ergo miles’; ‘heredem esse’ invece di ‘esse heredem’; ‘subvertentur’ invece di ‘subvertuntur’)305. In entrambe le versioni, comunque, compare l’inciso ‘quod et sine scriptura et a non militantibus fieri potest’ la cui genuinità è stata più volte messa in dubbio306: infatti, se il quod relativo viene riferito a testamentum, la frase risulta in contraddizione con quella precedente secondo cui i milites possono testare con la più ampia libertà di forme. Inoltre non si comprende per quale motivo tale privilegio dovrebbe essere condiviso con persone non appartenenti alle file dell’esercito (et a non militantibus). Tuttavia tali sospetti sono immediatamente fugati se il quod relativo viene riferito, invece che al solo termine testamentum, all’intera frase che precede ‘ut (…) esse’: in tal caso è la certificazione dell’esistenza di un testamento, non il testamento stesso, che può essere fatta anche oralmente e da non militari. Sospetti di interpolazione sono stati in passato avanzati anche con riguardo all’ultima parte del frammento ‘alioquin (…) subvertuntur’: Beseler, ad es., riteneva che il ragionamento per assurdo introdotto dal termine alioquin non corrispondesse al comune modo di argomentare dei classici307. Una giusta critica a tale posizione è stata tuttavia opposta da Bretone il quale ha mostrato come in realtà la deductio ad absurdum fosse “adoperata da quasi tutti i giuristi classici con un’ampiezza e una continuità che ne fanno un elemento centrale ed attuale del loro discorso”308. Inoltre l’A. sottolinea che queste parole “sono così strettamente
305 Id privilegium quod militantibus datum est, ut quoquo modo facta ab his testamenta rata sint, sic intellegi debet, ut utique prius constare debeat, testamentum factum esse, quod et sine scriptura a non militantibus quoque fieri potest. Is ergo miles de cuius bonis apud te quaeritur, si convocatis ad hoc hominibus, ut voluntatem suam testaretur, ita locutus est ut declararet quem vellet sibi esse heredem et cui libertatem tribuere, potest videri sine scripto hoc modo esse testatus, et voluntas eius rata habenda est. Ceterum si, ut plerumque sermonibus fieri solet, dixit alicui: ‘Ego te heredem facio’ aut ‘ Tibi bona mea relinquo’, non oportet hoc pro testamento observari. Nec ullorum magis interest quam ipsorum quibus id privilegium datum est, eiusmodi exemplum non admitti: alioquin non difficulter post mortem alicuius militis testes existent, qui adfirment se audisse dicentem aliquem, relinquere se bona cui visum sit, et per hoc iudicia vera subvertentur. Sulle differenti versioni Wieacker 1949, 596 (errato per 594); Wieacker 1960, 201. 306 Ad es. Beseler 1930, 206; Solazzi 1952, 217; Dell’Oro 1960, 53. 307 Beseler 1930, 202 s.; 205s. 308 Bretone 1963, 337.
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Lauretta Maganzani congiunte al resto del brano, e direi reclamate da esso, che è mero pregiudizio giudicarle insiticie”309. F. 32 – D. 38.2.28 Il frammento è già stato esaminato (cfr. supra, I.3b) in quanto costituisce un indizio per la datazione dell’opera di Fiorentino all’età severiana310: infatti il principium corrisponde ad un testo di Paolo tratto dal liber singularis de portionibus quae liberis damnatorum conceduntur (D. 48.20.7.1) ma introduce il discorso con un placet come se si trattasse di una regola già consolidata e tratta da altre fonti, il che fa pensare che Fiorentino abbia scritto dopo Paolo. Il passo è posto da Lenel sotto la rubrica De bonis libertorum e riguarda la sorte delle aspettative successorie del patrono nel caso in cui un liberto, condannato per un crimen, muoia di morte naturale prima dell’inflizione della condanna con la conseguente confisca del suo patrimonio. Fiorentino precisa che è opinione consolidata che il patrono non perderà la quota ereditaria che gli spetta, anche se il resto del patrimonio andrà regolarmente al fisco. Nel § 1 Fiorentino aggiunge una precisazione che manca nel testo di Paolo, e cioè che la stessa soluzione si applica nel caso che il liberto si sia dato volontariamente la morte per timore dell’accusa oppure sia fuggito. F. 33 – D. 50.16.209 L’ultimo passo del libro X riguarda l’interpretazione dell’espressione ‘coram Titio’ nel caso in cui ad un soggetto sia stato ordinato di fare qualcosa, appunto, davanti ad un terzo espressamente nominato311: in questa ipotesi – spiega Fiorentino – è necessario che il terzo sia in grado di comprendere ciò che viene compiuto in sua presenza. Per questo la prescrizione non si ritiene adempiuta se l’atto viene compiuto dinanzi ad una persona che non è in grado di intenderne il significato, come un insano di mente, un infante, un dormiente. Se, tuttavia, è necessario che questo terzo comprenda il senso del gesto compiuto, non è necessario che lo voglia: la prescrizione, dunque, si considera soddisfatta anche se ciò che è stato comandato avviene alla sua presenza consapevole ma senza la sua adesione volontaria. Il contesto a cui Fiorentino doveva riferirsi nell’opera originaria non risulta chiaro da queste poche parole, anche se la collocazione palingenetica del frammento mostra che si trattava pur sempre di una questione ereditaria. Lenel nella Palingenesia iuris civilis suggerisce che il passo fosse collocato nel titolo del libro X De adquirenda hereditate e giustifica la sua scelta attraverso il richiamo al § 10 di un lungo frammento tratto dall’VIII libro ad Sabinum di Ulpiano, D. 29.2.25312, compreso nel titolo del Digesto De adquirenda vel omittenda hereditate: Si ‘coram Titio’ iussit adire, si ‘arbitrio Lucii Titii’, recte puto iussisse.
309 310 311 312
Bretone 1963, 337 nt. 22. Querzoli 1996, 37-41; Lazo 2004, 41 ss. Querzoli 1996, 217 s. Lenel 1889. I. 176 nt. 2.
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Commento Ulpiano stava trattando, qui e nei paragrafi precedenti e seguenti, del problema dell’aditio hereditatis effettuata da un filius familias o da un servus ‘iussu’ patris o domini, ed elencava una serie di casi specifici caratterizzati dal fatto che non risultava chiaro se il sottoposto avesse effettivamente adito secondo l’ordine del padre o padrone e, quindi, se l’aditio potesse considerarsi valida. Il § 10, in particolare, riguarda il caso in cui il soggetto sui iuris abbia ordinato al sottoposto di adire hereditatem ‘davanti a Tizio’ o ‘per arbitrio di Lucio Tizio’: Ulpiano forse si domandava se, in ipotesi del genere, l’aditio si considerasse comunque ‘ordinata’ dal padre e dunque valida, e alla questione rispondeva positivamente. Quindi se il pater o dominus avesse detto al filius o servus di adire l’eredità ‘dinanzi a un terzo’ da lui nominato, significava che poneva la presenza del terzo all’atto di adizione come condizione della sua efficacia. A questa tematica si riferiva forse anche Fiorentino, specificando il significato dell’espressione ‘coram Titio’. È anche possibile che il frammento si riferisse in particolare alla forma più solenne di accettazione dell’eredità, la cretio, cioè la formale dichiarazione orale, fatta in presenza di testimoni, con cui il chiamato all’eredità ne prendeva possesso: quod me P. Mevius testamento suo heredem instituit eam hereditatem adeo cernoque (Gai. inst. 2.166). A favore di tale soluzione c’è, da una parte, il fatto che la cretio doveva essere compiuta dinanzi a testimoni e di conseguenza era utile per i giuristi fornire la corretta interpretazione dell’espressione ‘coram Titio’; dall’altra il fatto che, essendo la cretio un atto formale, contava l’effettiva presenza del testimone, non la sua adesione volontaria all’atto che si stava compiendo.
LIBRO XI
F. 34 – D. 30.116 Il frammento si apre con la definizione di legato come la ‘sottrazione’ dall’eredità di un bene o di una somma di denaro che altrimenti sarebbe spettata all’erede ma che il testatore ha voluto attribuire ad un altro soggetto313. Tale definizione costituisce l’esordio di una serie di passi dedicati al tema dei legati: il testo è stato posto da Lenel nella Palingenesi in posizione iniziale nel titolo De legatis del libro XI supponendo che, in un’opera didattica, fosse proprio una definizione ad introdurre la trattazione di una nuova materia. Com’è noto, quella di Fiorentino non è l’unica definizione di legato trasmessa dalle fonti314: una seconda, tratta dal III libro delle Pandette di Modestino, si trova nel libro XXXI del Digesto (D. 31.36)315 e una terza, attribuita ad Ulpiano, compare nei tit. Ulp. 24.1. Le tre definizioni presentano caratteristiche diverse: se, infatti, Fiorentino cercava di definire il legato individuandone le caratteristiche sostanziali, Modestino, parlando di donatio
313 Querzoli 1991, 80-81 porta anche questa definizione a riprova dell’utilizzo da parte di Fiorentino degli strumenti della logica stoica, ma l’ipotesi non pare giustificata. Cfr. anche Querzoli, 1996, 196 ss. 314 Puliatti 2016, 125. 315 I. 2.20.1.
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Lauretta Maganzani testamento relicta, insisteva piuttosto sull’aspetto della gratuità e sullo scopo di liberalità della disposizione, e i tituli ex corpore Ulpiani incentravano l’attenzione sugli elementi formali, come quello di essere conferito per mezzo di una disposizione imperativa inserita in un testamento (quod legis modo, id est imperative, testamento relinquitur). La definizione di Fiorentino ha suscitato in dottrina qualche perplessità soprattutto per il fatto che non è facile capire se essa si riferisse al solo legato per vindicationem o se la nozione avesse carattere più generale. Infatti, da una parte, il fatto che i paragrafi successivi espongano casi problematici relativi a diversi tipi di legato, fa pensare che anche la definizione iniziale si estenda ad omnia genera legatorum; dall’altra l’espressione ‘delibatio hereditatis’ e l’inciso ‘quod universum heredi foret’ sembrano adattarsi al solo legato per vindicationem: “Come parlare – scriveva ad es. Biondi316 – di sottrazione per il legato per damnationem, che può avere per obbietto anche cosa non ereditaria, e addirittura un facere o non facere?”. Sul punto le opinioni della dottrina sono state sempre varie: Voci317, per esempio, credeva che la definizione si riferisse a tutti i genera legatorum, mentre Carcaterra318, Biondi319 e Grosso320 la limitavano al legato per vindicationem. Distruttiva, poi, la critica di Schulz che, alla convinzione che la definizione si riferisse al solo legato per vindicationem321, aggiungeva un radicale sospetto di fattura tardoantica: il termine delibatio, infatti, è un unicum nel latino non ecclesiastico e nessun autore classico, secondo l’A., avrebbe potuto usare un termine così singolare322. Tuttavia, a parte la singolarità del termine delibatio, comunque attestato sin da Tertulliano nelle fonti cristiane323, non paiono esistere indizi di interpolazione. D’altra parte ridurre il problema a stabilire se la definizione sia ristretta al legato per vindicationem o sia più comprensiva, pare forse troppo semplicistico. Piuttosto occorrerebbe ripensare all’idea che si trattasse di una definizione di apertura della sezione delle institutiones dedicata ai legati. Infatti, come ha notato Remo Martini324, sembra “poco verosimile che Fiorentino abbia incominciato con il discorso contenuto in quel testo la trattazione dell’argomento, poiché vi vengono esaminate questioni troppo particolari in tema di legati”. Inserita nel suo contesto, dunque, la definizione pare più un’introduzione ai casi sofisticati e complessi trattati nei paragrafi seguenti, adatti ad un uditorio già preparato. Il § 1 inizia con l’enunciazione del principio secondo cui l’erede non può ricevere un legato da sé stesso, mentre può riceverlo dal suo coerede325. Si tratta di una regola espressa anche da altri giuristi: ad es. Iul. 31 dig., D. 30.18; Ulp. 21 ad Sab., D. 30.34.11; Mod. 10 resp., D. 31.34.1; Pap. 15 resp., D. 34.9.18.2; Ulp. 17 ad Sab., Vat. 87; tit. Ulp. 24.22326. Questo principio
316 317 318 319 320 321 322 323 324 325 326
Biondi 1955, 304. Voci 1963, 228. Carcaterra 1966, 167. Biondi 1955, 304. Grosso 1962, 39-40. Schulz 1949, 41. Schulz 1951, 311. Ad es. Tert. de carn. res. 7.2; de patient. 8.1; in Marc. 1.22.7; adv. Valentin. 6.2. Sul tema, cfr. supra, I.3 c. Martini 1966, 257. Wimmer 2004, 97 ss. Cfr. Leuba 1962, 111 ss.; Meincke 1973, 97 ss.; Wimmer 2004, 7-8, 97 ss.; Garcia Quintas 2016, 123 ss.
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Commento è il frutto della complessa evoluzione dell’istituto del prelegato: in origine, infatti, le attribuzioni a titolo particolare a favore dell’erede venivano realizzate attraverso la forma del legato per praeceptionem327; la praeceptio era il prelevamento di un bene dalla massa ereditaria prima che questa fosse divisa. Tuttavia la tesi dei Proculiani secondo cui il legato per praeceptionem poteva essere disposto anche a favore di estranei, contribuì ad assimilarlo al legato per vindicationem328. Quando poi una constitutio di Adriano (Gai. inst. 2.221) accolse la tesi proculiana, l’assimilazione fra i due tipi di legato fu completa329. Da questo momento, non solo per gli altri tipi di legato, ma anche per quello per praeceptionem valse la regola per cui ‘heredi a semet ipso legatum dari non potest’. L’esempio che segue, nello stesso § 1, riguarda l’attribuzione in legato all’erede e a due estranei di un fondo compreso nell’asse ereditario; se l’intera eredità è stata ripartita dal defunto tra due coeredi, quale quota del fondo potrà ottenere in legato l’erede-legatario? Rappresentiamo il caso più semplicemente: il testatore ha istituito eredi A e B, ciascuno dei quali ha quindi diritto a metà del patrimonio ereditario. Contemporaneamente il testatore ha legato un fondo appartenente all’asse ereditario a tre persone, l’erede A e due estranei. Se A non fosse erede avrebbe diritto ad un terzo del fondo. Ma, essendo erede, egli può soltanto ottenere un terzo della metà del fondo appartenente al suo coerede, perché per regola generale egli non può ottenere in legato ciò che già gli spetta come erede. Può dunque ottenere in legato soltanto la metà della quota che gli sarebbe spettata se non fosse stato erede, cioè un sesto del fondo. I due estranei, invece, per la parte dell’erede B otterranno ciascuno un sesto dell’intero fondo (o un terzo della sua metà); si divideranno invece fra loro in parti uguali la parte attribuita all’erede A. Ciò significa che, per Fiorentino, la quota che l’erede A non può acquistare come legato si accrescerà agli altri legatari portando a variazioni nelle quote del legato330. Nel § 2 si presenta il caso di un testatore che istituisce erede uno schiavo altrui e contemporaneamente gli impone di darsi come legato. È certamente un caso di scuola paradossale ma con esso il giurista porta alle estreme conseguenze la regola enunciata nel primo paragrafo: se lì, infatti, l’autore presentava la situazione anomala del soggetto che è erede e legatario per la medesima quota, qui egli rappresenta il caso estremo di uno schiavo che è contemporaneamente l’erede e l’oggetto del legato per damnationem che lui stesso è tenuto ad adempiere. Tra il § 1 e il § 2 c’è quindi una sorta di crescendo, perché nel primo si nega la coincidenza nella medesima persona delle qualità di erede e legatario per la medesima quota, nel secondo della qualità di erede e di res legata. Il caso è bizzarro ma teoricamente ineccepibile: uno schiavo altrui può infatti essere istituito erede anche se ad acquistare è il suo dominus. Lo schiavo, d’altra parte, nonostante l’istituzione, rimane giuridicamente una res, possibile oggetto di rapporti giuridici. Lo schiavo istituito, inoltre, è estraneo al patrimonio ereditario e quindi il legato che ha il servus per oggetto sarà per damnationem. Rimandando, a proposito del terzo §, a quanto esposto in occasione del commento a [F. 18], si può passare al caso complesso esaminato dal § 4: il testatore istituisce erede A; nel patrimonio
327
D’Orta 2004, 34-42. Arces 2010, on line; Arces 2013, 12-18. 329 González Roldán 2014a, 75-79. 330 Lo stesso si legge in Ulp. 21 ad Sab., D. 30.34.11-12, ma non doveva trattarsi di un’opinione condivisa da tutti i giuristi: Puliatti 2016, 148 nt. 561. 328
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Lauretta Maganzani ereditario è compreso un fondo X che gode o che viceversa è gravato da una servitù nei confronti del fondo finitimo Y appartenente a un diverso proprietario. Il testatore impone all’erede A di dare in legato per damnationem a B questo fondo Y. Per farlo, A deve acquistare il fondo Y e consegnarlo poi al legatario B. La domanda che a questo punto Fiorentino si pone è la seguente: posto che la servitù esistente fra i due fondi si è estinta per confusione quando l’erede A ha acquistato il fondo Y, nel momento in cui il legato sarà soddisfatto la servitù si ricostituirà? Se Fiorentino si fosse basato sullo stretto ius civile, avrebbe potuto soltanto rispondere che fra i due fondi la servitù estintasi per confusione non poteva automaticamente ricostituirsi. Era del resto una regola consolidata quella per cui la servitù non risorgeva per il semplice fatto che due fondi cessassero di appartenere allo stesso proprietario (cfr. ad es. Paul. 15 ad Sab., D. 8.2.30pr.). Ma è nota la costante tendenza dei giuristi romani ad adeguare le soluzioni giuridiche all’aequitas. Nell’interpretazione delle disposizioni testamentarie, in particolare, criterio fondamentale era la ricostruzione della voluntas testantis. Questi sono per l’appunto i criteri seguiti da Fiorentino quando afferma che ‘Fundus legatus talis dari debet, qualis relictus est’. Del resto, che il testatore pensasse ad una servitù fra il fondo dell’erede e quello del legatario è provato dal fatto che in genere, quando veniva legato un fondo gravato da servitù, questa si riteneva compresa come qualitas fundi nel legato. Infatti, soltanto quando il testatore legasse il fondo uti optimus maximusque, l’erede doveva prestarlo libero da servitù, altrimenti valeva la regola per cui si fundus qui legatus est servitutem debeat impositam, qualis est dari debet (Gai. 2 de leg. ad edictum praet., D. 30.69.3). Il frammento termina con l’indicazione degli strumenti processuali utilizzabili dal titolare del diritto di servitù contro la pretesa della controparte fondata sulla rigidità dello ius civile. Se, infatti, è il legatario a non permettere la ricostituzione della servitù, l’erede potrà opporre un’exceptio doli alla pretesa dell’attore fatta valere attraverso l’actio ex testamento. Se, invece, è l’erede a non considerare più il suo fondo gravato da servitù, il legatario potrà fare valere la sua pretesa attraverso l’actio ex testamento. F. 35 – D. 34.4.14 Con l’ademptio legati il testatore revocava un legato precedente attraverso una dichiarazione espressa caratterizzata da verba contrari a quelli usati per la sua attribuzione (tit. Ulp. 2.12; 24.29): ad es. ‘Titio fundum Cornelianum non do non lego’ per il legato per vindicationem oppure ‘Heres meus Titio fundum Cornelianum ne dato’ per quello per damnationem331. Tale clausola poteva essere contenuta nel testamento o in codicilli confermati: ovviamente la disposizione più recente revocava quella più risalente. Nel frammento – che in F risulta tratto dal I libro delle institutiones, in F1 recte dall’XI332 –, Fiorentino si riferisce a due tipi particolari di ademptio legati: il principio, infatti, tratta dell’ademptio condizionale, il primo paragrafo dell’ademptio parziale.
331 Voci 1963, 526-527; Ligios 2012, 49 ss.; Aránzazu Calzada González 2012, 269-276. Con il cadere della distinzione fra le forme dei legati, cadde anche il formalismo richiesto per l’ademptio legati, e le Istituzioni giustinianee (I. 2.21pr.) affermano che essa può avere luogo sia contrariis verbis, sia aliis quibuscumque verbis. 332 Lenel 1889. I. 177 nt. 2.
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Commento Per intendere il contenuto del principium occorre premettere che l’ademptio legati poteva essere disposta sub condicione ma in tal caso la giurisprudenza, probabilmente Giuliano333, aveva interpretato nel senso che la revoca condizionale avrebbe reso il legato efficace sotto la condizione opposta: dunque, a fronte di un legato per damnationem del tipo ‘Titio heres meus fundum Cornelianum dato’ e una successiva ademptio del tipo ‘Titio heres meus fundum Cornelianum ne dato si navis ex Asia venerit’, questa seconda disposizione veniva convertita in un legato sotto condizione negativa del seguente tipo: ‘Titio heres meus fundum Cornelianum dato, si navis ex Asia non venerit’. Secondo Voci “la ragione di questa conversione non può essere che la seguente. Se la condizione di revoca si avvera dopo l’aditio hereditatis, il legatario si trova ad avere acquistato e a dover restituire per effetto della revoca: situazione in contrasto con l’impossibilità della costituzione di diritti ad tempus. La conversione evita tutto questo perché sposta l’acquisto del legatario, rendendolo ab initio condizionato”334. Premesso questo, si comprende l’affermazione di Fiorentino: se viene fatta l’ademptio condizionale di un legato puro e semplice (e utiliter datum – aggiunge Lenel335 –), esso si considera confermato sotto la condizione contraria; ma se un legato è invalido, l’ademptio di esso sub condicione non vale rinnovazione del legato sotto la condizione contraria; il legato resta nullo perché ademptio quo minus, non quo magis legatum debeatur, intervenit336. Fiorentino presenta anche un esempio di legato inutiliter datum, quello dell’attribuzione a titolo particolare ad uno schiavo il cui padrone è stato istituito erede; in base a questa disposizione il dominus, come erede, dovrebbe eseguire il legato a favore del suo schiavo; ma in tal caso nella medesima persona, il padrone, verrebbero a concorrere le due posizioni incompatibili di erede e legatario, il che, come già visto in D. 30.116.1, è impossibile. Il primo paragrafo riguarda l’ademptio legati parziale: con essa, ad es., si poteva ridurre il legato dalla proprietà piena all’usufrutto337. Naturalmente l’ademptio parziale poteva avere effetto soltanto quando l’oggetto del legato fosse divisibile. Non poteva avere efficacia, invece, quando fosse indivisibile. Non era possibile ad es. privare soltanto in parte un soggetto del diritto di servitù. Del resto – spiega Fiorentino – questo discorso si adatta anche alla datio legati: non si può, ad es., conferire solo in parte una servitù di passaggio. Due sono gli esempi forniti dal giurista di ademptio legati inefficace: il primo è quello di ademptio parziale di legato avente per oggetto una servitù di passaggio; il secondo riguarda invece il divieto parziale di essere liberi. Si può trattare di un’inserzione tardoantica: questo secondo esempio, infatti, riguarda un caso di manumissio parziale, non di legato parzialmente revocato. F. 36 – D. 35.1.34 Il principio, nella sua prima parte, enuncia la regola per cui il beneficiario di un legato può indifferentemente essere identificato attraverso l’uso del suo nome proprio oppure, e con
333 Iul. 37 dig., D. 34.4.10pr.: Si legatum pure datum Titio adimatur sub condicione et pendente condicione Titius decesserit, quamvis condicio defecerit, ad heredem Titii legatum non pertinebit: nam legatum cum sub condicione adimitur, perinde est, ac si sub contraria condicione datum fuisset. 334 Voci, 1963, 546. 335 Lenel 1889. I. 177 nt. 3. 336 Grosso 1962, 321. 337 Grosso 1962, 320. Cfr. ad es. Pomp. 5 ad Sab., D. 34.4.2pr.
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Lauretta Maganzani eguale efficacia, ricorrendo ad una descrizione delle sue caratteristiche e qualità (cd. demonstratio)338. I criteri di identificazione possono essere vari: è possibile individuarlo descrivendone l’aspetto fisico, il mestiere, la carica che ricopre, il rapporto di parentela o affinità che lo lega al testatore. Tali indicazioni hanno eguale valore, purchè siano idonee all’identificazione della persona. Nella parte finale del principium (nec interest […] demonstraverit) si afferma, poi, che non importa se la demonstratio usata vice nominis sia vera o falsa, purchè risulti chiaro chi il testatore intendeva indicare con essa339. Nel primo paragrafo Fiorentino fornisce un criterio pratico per distinguere la demonstratio da un altro elemento accessorio della disposizione testamentaria, cioè la condicio: la demonstratio – scrive – fa riferimento per la maggior parte dei casi a un evento accaduto, la condicio a un evento futuro340. Il problema fu certamente oggetto di dibattito giurisprudenziale, come risulta in particolare da due testi del Digesto: Iul. 33 dig., D. 30.6: ‘Stichum, qui meus erit cum moriar, heres meus dato’: magis condicionem legato iniecisse quam demonstrare voluisse patrem familias apparet eo quod, si demonstrandi causa haec oratio poneretur, ita concepta esset ‘Stichus qui meus est’, non ‘qui meus erit’. sed condicio talis accipi debet ‘quatenus meus erit’, ut, si totum alienaverit, legatum exstinguatur, si partem, pro ea parte debeatur, quae testatoris mortis tempore fuerit. Pomp. 2 ad Quint. Muc., D. 32.85: (…) plane in mortis tempore collatum hunc sermonem ‘vestem, quae mea erit’ sine dubio pro condicione accipiendum puto: sed et ‘Stichum qui meus erit’ puto pro condicione accipiendum nec interesse, utrum ita ‘qui meus erit’ an ita ‘si meus erit’: utrubique condicionem eam esse. Labeo tamen scribit etiam in futurum tempus collatum hunc sermonem ‘qui meus erit’ pro demonstratione accipiendum, sed alio iure utimur.
Nei passi si discute se gli incisi ‘qui meus est’, ‘qui meus erit’ riferiti all’oggetto certo di un legato debbano essere considerati demonstratio o condicio. Giuliano e Pomponio mostrano come la questione fosse stata già discussa dalla giurisprudenza precedente: Labeone, infatti, la cui opinione rimase probabilmente isolata, riteneva che l’espressione ‘qui meus erit cum moriar’ riferita ad un legato certo e determinato dovesse essere considerata come demonstratio. Evidentemente egli considerava superflua quella formula che precisava un oggetto o soggetto
338 Voci 1963, 823 ss.; Ribas Alba 2013, 371; Pulitanò 2016a, 104-106 (a cui rinvio anche per i sospetti di interpolazione avanzati in passato). 339 Si tratta del famoso principio ‘Falsa demonstratio non nocet’: cfr. Voci 1963, 853 ss.; Wieling 1970, 197 ss.; Foer 1987, passim. 340 Querzoli 1996, 204-207, nel quadro della sua tesi generale (non accolta nella presente ricerca) per cui Fiorentino avrebbe utilizzato, nella stesura del suo manuale istituzionale, tecniche argomentative proprie della tradizione filosofica stoica, richiama questo paragrafo come esempio significativo della sua originalità nel panorama delle opere istituzionali: “Fiorentino, infatti, sembra il solo, in base alle testimonianze disponibili, ad impiegare quale tecnica definitoria un confronto fra gli oggetti analizzati introdotto dall’espressione Inter …hoc interest, quod” (204). Poiché, poi, “Questo modo di introdurre una definizione era non infrequente già negli autori della tarda età repubblicana, in particolare nella rhetorica ad Herennium e nelle opere di Cicerone” (205), non sarebbe da escludere, secondo l’A., “che Fiorentino ne derivasse la conoscenza dalla lettura di manuali di altre technai, dimostrando, rispetto ad altri autori severiani di Institutiones giuridiche, forse, una maggiore attenzione alla produzione manualistica delle artes diverse dal diritto” (206). La tesi, tuttavia, non è fondata su alcuna attestazione positiva.
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Commento già individuato e quindi irrilevante anche nel caso che il suo contenuto non fosse stato rispondente alla realtà (Falsa demonstratio non nocet). Al contrario Giuliano e Pomponio ritennero che “il lascito formulato nei termini ‘lego Stichum qui meus erit’, doveva considerarsi come sottoposto alla condizione ‘se la cosa sarà in proprietà del testatore al momento della morte”341. La regola enunciata da Fiorentino si conforma al parere di questi ultimi giuristi: anche per lui, infatti, l’inciso qui meus est sarebbe stato da qualificare come demonstratio vista la coniugazione del verbo al presente, quello qui meus erit come condicio vista la coniugazione del verbo al futuro. Ciò significa che, per Fiorentino, per capire se una clausola testamentaria accessoria fosse demonstratio o condicio, era necessario osservare se essa enunciasse e descrivesse qualità che il soggetto aveva al momento della redazione del testamento o se, invece, indicasse caratteristiche che avrebbe dovuto avere al momento dell’apertura della successione (o successivamente) perché la disposizione potesse avere effetto. Con la demonstratio, dunque, il disponente intendeva identificare l’oggetto o la persona descrivendo alcune loro caratteristiche attuali o trascorse al momento della redazione del testamento; con la condicio, invece, egli intendeva subordinare la produzione degli effetti della disposizione alla presenza di alcuni requisiti nella cosa o nella persona al momento dell’apertura della successione (o dopo). La distinzione, nel caso concreto, era importante: infatti, considerando un’espressione come demonstratio, la mancanza del requisito in essa richiesto al momento dell’apertura della successione non avrebbe posto nel nulla la disposizione testamentaria perché si sarebbe applicato il principio ‘Falsa demonstratio non nocet’342. Considerando, invece, la medesima espressione come condicio, la mancanza del requisito in essa richiesto avrebbe impedito il prodursi degli effetti della disposizione testamentaria. F. 37 – D. 7.1.42 Nel passo, posto da Lenel nella Palingenesi sotto la rubrica De usu et usu fructu legato, Fiorentino presenta il caso di un testamento in cui compaiono due legati a beneficiari diversi, uno di uso e l’altro di usufrutto di un medesimo bene343. Il problema è stabilire come tali disposizioni testamentarie possano conciliarsi: se è evidente, infatti, che la raccolta e percezione dei frutti di un fondo o la riscossione dei canoni di locazione di un fondo o di un edificio spettano al fructuarius, non è altrettanto intuitivo a chi debba spettare, per es., l’abitazione della casa, visto che questa facoltà competerebbe di per sé sia all’usufruttuario, sia all’usuario. La risposta del giurista è che a subire una ‘riduzione’ delle sue facoltà in seguito alla concomitanza di usus e ususfructus sul medesimo bene, sarà l’usufruttuario, cioè quello dei due legatari che è titolare del diritto più pieno. Ciò, del resto, pare più conforme alla volontà del testatore. Il fructuarius, dunque, potrà trarre dal bene legato tutto ciò che ne costituisce il reddito normale, ad esclusione dei vantaggi che dalla cosa trae legittimamente l’usuario. Se, dunque, oggetto del legato è un fondo, l’usufruttario potrà appropriarsi dei prodotti del suolo, dei parti degli animali e di tutto ciò che rientra nella nozione econo-
341 342 343
Forzieri Vannucchi 1973, 133. Foer 1987, passim. Sul passo Querzoli 1996, 17-18 nt. 8, con la lett. cit.
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Lauretta Maganzani mico-sociale di fructus soltanto dopo che l’usuario abbia percepito dal fondo ciò che serve ai bisogni suoi e della sua famiglia (es. frutta da tavola, acqua per uso domestico, fiori etc.)344. Se, invece, oggetto del legato è una casa, sarà l’usuario ad abitarla limitatamente alle necessità familiari, mentre il fructuarius potrà sfruttarla (abitandola o dandola in locazione) nella sola parte lasciata libera dall’usuario. A ciò Fiorentino aggiunge una precisazione: nec minus et ipse fruendi causa et usum habebit. Con essa egli specifica che, anche se l’usus è stato attribuito in legato ad un terzo con la conseguente limitazione delle facoltà sul bene dell’usufruttuario, quest’ultimo potrà comunque utilizzare la cosa nei limiti in cui ciò sia indispensabile alla percezione dei frutti della stessa (usus fruendi causa). Nel primo paragrafo, che presenta una certa difficoltà interpretativa, Fiorentino cambia tema, riferendosi alla differenza fra legato di usufrutto di cose e legato di usufrutto del loro valore. Il caso esaminato per primo è quello di un testamento in cui compaiono due legati successivi a favore della stessa persona aventi ad oggetto prima l’usufrutto di un bene o del suo valore, poi puramente e semplicemente la proprietà del medesimo bene. Si tratta di un’ipotesi di res saepius legata. C’è differenza – afferma Fiorentino – se nella prima disposizione il testatore abbia legato l’usufrutto di una cosa oppure del suo valore: nel primo caso, infatti, del bene di cui prima è stato legato l’usufrutto e poi la proprietà, il legatario otterrà la proprietà (la proprietà infatti ‘contiene’ l’usufrutto). Nel secondo caso, invece, il legatario otterrà sia una somma di denaro corrispondente al valore economico dell’usufrutto del bene, sia la proprietà del bene stesso. Forse Fiorentino faceva qui riferimento a una costituzione di Antonino Pio che aveva disciplinato il caso della res saepius legata precisando che, ‘qualora fosse stato legato – nello stesso testamento – non un corpus, ma una quantitas – dunque anche del denaro – la summa andava prestata saepius, purché evidentissimis probationibus risultasse la precisa volontà del testatore di ‘moltiplicare’ il legato’345. F. 38 – D. 15.1.39 Nel passo, posto da Lenel sotto la rubrica De peculio legato, Fiorentino precisa che il peculio consiste anche in ciò che lo schiavo ha acquisito risparmiando oppure come donativo per prestazioni di servizi a favore di terzi, e che il dominus ha deciso di concedergli come proprium patrimonium346. Di esso si è già trattato nella Prima parte di questo volume (supra I.3f ) in quanto il testo fornisce un indizio per la collocazione di Fiorentino in età severiana, probabilmente dopo Ulpiano e Paolo. Vari sono gli aspetti del testo degni di osservazione: in primo luogo che il peculio è equiparato a un patrimonio, qualifica che, come si è già visto, Fiorentino condivide con Ulpiano e Paolo e che fu comunque il frutto di un’ampia riflessione giurisprudenziale; in secondo luogo che il peculio può essere incrementato dallo schiavo (ad es. per risparmi, donazioni o corrispettivi ricevuti a seguito di operae prestate a terzi) e che questo incremento si considera
344
Sul legato di uso, González Roldán 2014a, 90-94 con altra lett.; un accenno in Astolfi 1969, 225. Cfr. Ulp. 21 ad Sab., D. 30.34.3. Voci 1963, 250 nt. 52; Querzoli 1996, 18 nt. 8. 346 Di recente sul testo Gamauf 2017, 225-253; v. anche Astolfi 1979, 1 ss., in part. 12; Buti 1976, 36 nt. 57; Bürge 2010, 376. 345
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Commento parte del peculio stesso; in terzo luogo che il peculio e questi suoi incrementi sono comunque concessi allo schiavo per la mera benevolenza del suo dominus che ha voluto che egli li tenesse come proprium patrimonium. Molti giuristi, oltre a Fiorentino, hanno definito il peculio, anche se in genere nell’ambito del commento all’actio pretoria de peculio et de in rem verso, non in tema di legati347: la prima definizione, a noi nota attraverso un passo di Ulpiano tratto dal XXIX libro ad edictum, D. 15.1.9.2-3, risale presumibilmente a Quinto Mucio Scevola348 ma fu precisata da Servio Sulpicio Rufo: 2. Peculium autem deducto quod domino debetur computandum esse, quia praevenisse dominus et cum servo suo egisse creditur. 3. Huic definitioni Servius adiecit et si quid his debeatur qui sunt in eius potestate, quoniam hoc quoque domino deberi nemo ambigit.
Da essa risulta che il peculio doveva conteggiarsi al netto dei debiti dello schiavo verso il padrone, con la precisazione di Servio che in ciò che egli doveva al padrone andava ricompreso anche ciò che doveva a coloro che erano in potestate del padrone349. Sempre Quinto Mucio Scevola, a quanto risulta da Pomp. 4 ad Quint. Muc., D. 15.1.49pr., affermò essere compreso nel peculio non solo ciò che il dominus aveva concesso al servus, ma anche ciò che il servus aveva acquisito ignorante domino, purchè tuttavia, se il padrone l’avesse saputo, gli avrebbe concesso di acquisirlo: Non solum id peculium est, quod dominus servo concessit, verum id quoque, quod ignorante quidem eo adquisitum sit, tamen, si rescisset, passurus erat esse in peculio350.
Un ulteriore contributo all’elaborazione del concetto diede Tuberone che, partendo dalla nozione antica di peculio, fornì una definitio nuova e più precisa (D. 15.1.5.4) che avrebbe più di un secolo dopo riscosso l’approvazione di Giuvenzio Celso (D. 15.1.5.4; D. 15.1.7pr.): ‘È peculio tutto ciò che lo schiavo col permesso del padrone ha in una contabilità separata da quella dominica’351. Entrambi i passi sono contenuti in due frammenti di Ulpiano tratti dal libro XXIX ad edictum: Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.5.4: Peculium autem Tubero quidem sic definit, ut Celsus libro sexto digestorum refert, quod servus domini permissu separatum a rationibus dominicis habet, deducto inde si quid domino debetur. Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.7pr.: Quam Tuberonis sententiam et ipse Celsus probat.
347 Buti 1976, 11 ss.; Amirante 1983, 1-15; Aubert 2009, 180-184; Bürge 2010, 374; Lazo 2013, 184-185. Sul peculio dal punto di vista economico, Pesaresi 2008, passim; Suárez Blásquez 2010, 119 ss.; Aubert 2013, 192-206; Fleckner 2014, 213-239; Silver 2016, 67-93. Specificamente sul legatum peculii, Wacke 1991, 63 ss. 348 Stolfi 2018, 201 ss. con altre fonti e altra lett. 349 Cfr. Aubert 2009, 189-193; Pesaresi 2012, 79 ss. con altra lett. 350 Stolfi 2018, 201 ss. con altre fonti e altra lett. 351 Amirante 1983, 4.
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Lauretta Maganzani La definizione di Tuberone fu poi, secondo Amirante, criticata da Sabino “preoccupato, forse, che l’accenno al solo permissus domini accentuasse l’iniziativa dello schiavo in tema di peculio, laddove questa non può che essere del padrone”352. L’A. trae tale convinzione dal primo periodo – secondo lui di Sabino – di un passo del commento ad Sabinum di Pomponio in cui, in aperta polemica con Tuberone pur senza nominarlo, si afferma che la separazione delle due contabilità non deve essere opera dello schiavo ma del padrone: Pomp. 7 ad Sab., D. 15.1.4pr.: Peculii est non id, cuius servus seorsum a domino rationem habuerit, sed quod dominus ipse separaverit suam a servi rationem discernens: nam cum servi peculium totum adimere vel augere vel minuere dominus possit, animadvertendum est non quid servus, sed quid dominus constituendi servilis peculii gratia fecerit.
Segue una soluzione di Giuliano riportata da Trifonino 8 disp., D. 15.1.57: qui, nei §§ 1 e 2, si presentano due casi di legato di peculio, uno a favore dello schiavo manomesso, l’altro a favore di un estraneo: nel primo caso, secondo il giurista, avrebbe dovuto essere compreso nel peculio qualsiasi incremento avutosi prima dell’aditio hereditatis; nel secondo caso, invece, soltanto gli incrementi naturali, come i parti delle ancelle e i fetus pecudum, ma non quelli dovuti all’iniziativa dello schiavo (es. donazioni ricevute da terzi, corrispettivi per la prestazione di opere). Questo significava concretamente attribuire al servus un’ampia autonomia, spingendolo a incrementare il proprio peculio con l’impegno personale. Da qui alla qualificazione del peculio come quasi patrimonium, il passo era breve e lo compirono Ulpiano e Paolo (es. Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.5.3; 29 ad ed., D.15.1.19.1; Ulp. 2 disp., D. 15.1.32pr.; Paul. 4 ad Plaut., D. 15.1.47.6)353. È a questo punto dell’evoluzione del concetto di peculio che si inserisce l’affermazione di Fiorentino, la quale tiene conto sia dell’osservazione di Giuliano, sia della qualifica del peculium come quasi patrimonium di cui si legge in Ulpiano e Paolo. F. 39 – D. 33.10.2 Il passo, posto da Lenel sotto la rubrica De suppellectili legata, è rappresentato da un breve lacerto estrapolato dai compilatori dal suo originario contesto al fine di precisare il contenuto del frammento di Pomponio immediatamente precedente nei Digesta, D. 33.10.1, tratto dal VI libro ad Sabinum. Quest’ultimo, infatti, riporta la definizione di suppellettile con queste parole: Suppellex est domesticum patris familiae instrumentum, quod neque argento aurove facto vel vesti adnumeratur. In tale contesto la frase di Fiorentino doveva servire, nell’intenzione dei compilatori, a precisare che il termine suppellettile si poteva riferire soltanto a beni mobili inanimati, non ad animali. Ma, secondo Astolfi354, anche nel contesto originario delle institutiones, queste parole dovevano riferirsi, se non proprio alla definizione di Pomponio, ad una sostanzialmente
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Amirante 1983, 4-5. Ulpiano e Paolo utilizzano l’espressione ‘quasi patrimonium’ o simili perché, come precisa Ulp. 27 ad ed., D. 50.16.182, ‘Pater familias liber “peculium” non potest habere, quemadmodum nec servus “bona”’: Bürge 2010, 375. D’altra parte, di fatto, “a Roma, come in Grecia, c’erano schiavi che agivano per loro conto presentandosi nella vita privata ed economica, con il loro patrimonio, come indipendenti” (Bürge 2010, 390). 354 Astolfi 1969, 289. 353
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Commento identica. La precisazione, infatti, si spiega proprio in ragione della qualifica di suppellex come ‘domesticum patris familiae istrumentum’. Si ricordi, infatti, che il termine instrumentum, usato dai giuristi per indicare l’oggetto del legato di fundus instructus, comprendeva, oltre alla suppellettile, anche molti altri oggetti (vesti, oro, argento, vino, libri, ornamenti)355: tra questi, poi, era compreso il cd. instrumentum fundi che aveva per oggetto cose mobili, animate e inanimate, destinate alla utilizzazione economica e conservazione del fondo356. Ecco dunque quale doveva essere la funzione della precisazione di Fiorentino: sottolineare la differenza fra suppellex e instrumentum fundi, oggetti accomunati dal fatto di essere entrambi instrumenta patris familiae, ma differenti perché nella prima erano compresi soltanto beni mobili inanimati, nel secondo anche animales. Come sottolinea Astolfi, la precisazione di Fiorentino non pare avere nulla di innovativo, ma si limita a rendere “esplicito ciò che era dato per scontato fin dall’età repubblicana”357: tutte le fonti in argomento, infatti, definivano la suppellettile come cosa mobile inanimata. F. 40 – D. 34.2.29 Il passo è stato posto nella Palingenesi sotto la rubrica De auro et argento legato: in realtà esso non tratta semplicemente di oro e argento, ma di aurum et argentum factum, espressione con cui i Romani alludevano ad un tipo particolare di metallo, cioè quello lavorato e trasformato in species, in contrapposizione a quello cosiddetto infectum, cioè non lavorato, e a quello cosiddetto signatum, cioè monetato. Lenel ha accolto la versione tràdita del testo, benchè essa presenti qualche incertezza, come il genitivo ‘consuetudinis’ che non si accorda con il resto del passo. Per questo Mommsen, nell’editio maior, aveva proposto, pur dubitativamente, di sostituire l’espressione ‘visu atque usu rei, consuetudinis patris familias’ con ‘visu rei atque usu patris familias’. Inoltre Mommsen aveva dubitato della correttezza dei termini iniecta e iniectum proponendo le lezioni alternative intecta e intectum. Tuttavia il genitivo consuetudinis potrebbe essere il risultato di un mero errore di trascrizione in luogo dell’ablativo consuetudine e i termini iniecta e iniectum con riferimento a un materiale inserito o introdotto in un altro bene sono utilizzati da altri giuristi (ad es. si parla di glarea iniecta in Paul. 49 ad ed., D. 39.3.11.6 e di res iniectas in Iul. 17 dig., D. 39.5.14)358. Il passo, diviso in due parti, presenta il caso di un testatore che ha legato l’aurum vel argentum factum. In base a questa disposizione il legatario non avrà diritto di ottenere quei manufatti composti di uno dei due metalli preziosi che rientrino in una categoria a sé stante, come quella dell’argentum signatum, della suppellettile, dell’ornamentum e del mundus muliebris. Tuttavia, pur limitando in questo modo l’oggetto del legato, si potevano porre alcuni problemi pratici: quando ad esempio nell’oro o nell’argento fossero stati inseriti altri materiali, ci si domandava se l’oggetto risultante potesse ancora considerarsi aurum vel argentum factum. Fiorentino risponde col criterio della ‘prevalenza’: se in un manufatto aureo o argenteo viene inserito materiale di altro genere, la materia iniecta, essendo accessoria, accede al materiale principale e, quindi, si deve considerare parte del legato359.
355 356 357 358 359
Giomaro 2011, 105-166; González Roldán 2014, 135-159. Ligios 1996, passim; Aubert 2009, 174-179. Astolfi 1969, 289. Cfr. Querzoli 1992, 33; Querzoli 1996. 220. Astolfi 1969, 199 e nt. 86 afferma che questo criterio fu, a partire dal I secolo d.C., accolto da tutti i giuristi.
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Lauretta Maganzani Il primo paragrafo precisa il contenuto del principium: criteri per individuare che cosa il testatore intendesse con argentum o aurum factum, quando, ad es., nell’abitazione di quello si trovassero manufatti composti sì di oro o argento, ma anche di materiali diversi (come bronzo o pietre preziose), erano, oltre alla quantità rispettiva dei due materiali, l’aspetto della cosa, poi l’uso a cui essa era normalmente destinata, e infine la consuetudo patris familias. Rilevante è l’aspetto del bene perché il fatto che la cosa sembri essere d’oro o d’argento pur non essendolo, fa pensare che tale l’avesse considerata, pur erroneamente, anche il testatore. Rilevanti sono anche l’usus rei e la consuetudo patris familias: entrambe le espressioni alludono al modo con cui una cosa era adoperata, ma l’usus rei indica l’uso comune di un bene, la consuetudo patris familias, invece, le modalità specifiche con cui il pater familias soleva adoperarlo. La consuetudo patris familias, del resto, è un generale criterio di interpretazione della volontà del testatore: “se uno ha usato a un modo della sua cosa – scriveva Voci – se ne raffigura eguale la conduzione in mano del legatario, e ciò serve per stabilire quale estensione egli attribuisca al legato”360. Serena Querzoli ha rilevato in questo caso una certa originalità nel pensiero di Fiorentino in quanto, a differenza della maggioranza dei giuristi, egli non individuerebbe come criterio per l’accessione di una cosa ad un’altra l’accessorietà della prima alla seconda, ma il visus, l’usus rei e la consuetudo patris familias. Tuttavia bisogna sottolineare che, nel caso considerato, il problema posto dal giurista non è quello dell’accessione, ma quello dell’interpretazione della volontà del testatore che ha legato dell’aurum et argentum factum: interpretazione che non può che tener conto dell’aspetto della cosa, del suo uso comune, ma anche dell’utilizzo che ne era solito fare il pater familias. L’Autrice, poi, ipotizza un utilizzo da parte di Fiorentino, per la soluzione del caso, di principi di fisica coerenti con gli indirizzi culturali della koinè platonico-aristotelico-stoica (che consideravano i visa rei come criterio conoscitivo per eccellenza): scrive infatti che “il criterio per stabilire il dominium della res legata” non parrebbe “né di derivazione strettamente giuridica, né economico-sociale, ma, più verosimilmente, di matrice filosofica”361. Non pare, tuttavia, che vi sia alcun appoggio per questa argomentazione né in questo caso, né in altri in cui ella rileva probabili influssi filosofici nel ragionamento del giurista. L’argomentazione di Fiorentino è, infatti, almeno nella maggior parte dei frammenti, tipicamente tecnico-giuridica. F. 41 – D. 35.2.90 Dalla parte del libro XI forse dedicata al tema dei fedecommessi362, i compilatori hanno tratto questo solo frammento363. La complessità della questione esaminata induce a pensare che esso si trovasse in una posizione piuttosto avanzata nella trattazione della materia e che nel-
360
Voci 1963, 277. Querzoli 1992, 31-38; Querzoli 1996, 219-231. 362 Lenel fa precedere il passo dalla rubrica De fideicommissis ma aggiunge un punto di domanda per sottolineare l’incertezza dell’ipotesi ricostruttiva. 363 Sul passo cfr. Manthe 1989, 128 nt. 10, 133 nt. 36, 165 nt. 45; Mannino 1989, 18 s., 107 ss.; Sixto 1995-96, 400 ss.; Querzoli 1996, 16-17 nt. 8 con altra lett. 361
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Commento l’opera originaria fosse preceduto da una serie di testi dedicati alla disciplina comune di questa disposizione di ultima volontà. In effetti, per comprendere il caso, occorre una breve premessa: com’è noto, la lex Falcidia del 41 a.C. aveva stabilito che il testatore non potesse disporre in legati per più di ¾ del patrimonio ereditario, ma dovesse comunque riservarne all’erede ¼. A questa legge si affiancò, forse nel 72 d.C.364, il senatusconsultum Pegasianum che, con riferimento ai fedecommessi, accordò all’erede fiduciario il diritto di trattenere ¼ dell’eredità (quarta Pegasiana): se questa condizione fosse stata soddisfatta, il pretore avrebbe potuto costringerlo ad accettare l’eredità affinché il fedecommesso potesse produrre i suoi effetti365. Normalmente nel testamento si indicava la quota ereditaria che il fiduciario poteva trattenere prima di eseguire il fedecommesso con la seguente espressione: detracta (o retenta) certa re (o certa summa)366; in questo caso la cosa o la somma detratte sarebbero restate presso l’erede a titolo ereditario e imputate nella quarta. Tuttavia, proprio con riferimento ai possibili acquisti mortis causa dell’erede fiduciario e al problema se dovessero o non dovessero essere imputati nella quarta, si ebbe in età antonina un’ampia riflessione da parte dei giuristi, di cui abbiamo notizia da alcuni frammenti del Digesto: ad es., come risulta da Gai 8 ad ed. prov., D. 39.6.31pr., essi distinsero fra generiche mortis causa capiones – considerate non imputabili nella quarta367 – e acquisti mortis causa dotati di una propria denominazione specifica, come quelli iure hereditario, legati e fideicommissi – imputabili nella quarta –. Lo stesso Gaio, 3 de leg. ad ed. praet., D. 35.2.76pr., precisa che ciò che veniva dato all’erede fiduciario ‘in adempimento di una condizione oppure da parte del coerede oppure da parte del legatario o da parte di uno statuliber’ non doveva essere imputato nella quarta proprio in quanto non era un acquisto iure hereditario, legati o fideicommissi, ma rientrava fra le generiche mortis causa capiones (Id autem quod condicionis implendae causa vel a coherede vel a legatario vel a statulibero in Falcidia non imputatur, quia mortis causa capitur)368. Di fronte, poi, alla prassi che probabilmente si era consolidata, per cui il testatore pregava l’erede di restituire l’eredità al fedecommissario accepta certa pecunia, cioè dopo avere accettato (e ricevuto) una certa somma di denaro, i giuristi si chiesero se la pecunia accepta fosse o non fosse da imputare nella quarta: e in genere la risposta fu negativa sia sulla base del fatto che, per la maggioranza di essi, tale clausola andava interpretata come condizione (e, come si è letto in D. 35.2.76pr., ciò che l’erede fiduciario acquistava adimplendae condicionis causa non andava imputato nella quarta), sia perché si trattava di una mera mortis causa capio, non di un acquisto iure hereditario, legati o fideicommissi. Così in un passo di Scevola si dice che l’inciso accepta certa pecunia era da intendere come condizione (20 dig., D. 35.1.109)369 e questa opinione pare accolta dalla generalità dei giuristi anche se, nello stesso testo, Claudio (Trifonino) dichiara che la soluzione del maestro era da ritenersi dubbia. Anche Gaio 2 fideic., D.
364
Longchamps de Bérier 1997, 116. Sul tema, fra gli altri, Longchamps de Bérier 1997, 116 ss.; Desanti 1999, 10; Migliardi Zingale 1999, 440446; Bertoldi 2015, 171 ss.; Minale 2020, 205 ss. 366 Voci 1963, 764. 367 Sul mortis causa capere, Sixto 1995-96, 337 ss.; Genovese 2011, passim. 368 Sixto 1995-96, 338 ss.; González Roldán 2014a, 115 ss. 369 Sixto 1995-96, 359 ss.; González Roldán 2014a, 116. 365
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Lauretta Maganzani 36.1.65.5370 pare intendere l’inciso allo stesso modo: infatti, richiamando un rescritto di Antonino Pio, afferma che, qualora il testatore avesse chiesto di restituire l’eredità accepta pecunia a Titio, il fedecommesso non avrebbe potuto essere eseguito prima che la somma fosse da questi ricevuta371. Ma considera l’inciso come condizione anche Papiniano (in Ulp. 15 ad ed., D. 5.3.13.6) che specifica, inoltre, che tale somma non era acquisita dall’erede fiduciario a titolo ereditario372. Il ragionamento dei giuristi, dunque, portava ad escludere che la summa accepta fosse da imputare nella quarta, sia perché data implendae condicionis causa, sia perché non data iure hereditario. Nonostante ciò, l’imperatore Adriano, come risulta da Pap. 9 resp., D. 36.1.60 (58).3373 e da Pap. 20 quaest., D. 35.2.93374, dispose in un rescritto che anche la summa accepta, come quella retempta, fosse da imputare nella quarta375. Lo stesso avrebbe più tardi ribadito il successore di Adriano, Antonino Pio (Marcian. 13 inst., D. 35.2.91)376. In questo quadro rientra il caso presentato da Fiorentino, che certamente conosceva questi ultimi sviluppi e si inserisce con cognizione di causa nel dibattito giurisprudenziale sul tema. Il caso è quello di un erede a cui il testatore aveva appunto chiesto di restituire l’eredità al fedecommissario accepta certa pecunia, cioè dopo avere accettato e ricevuto quel denaro. Tuttavia, forse proprio in ragione della qualifica giurisprudenziale dell’inciso accepta certa pecunia come condizione, l’erede decise di discostarsi dalle volontà del testatore e non accettò la summa indicata nel testamento, ricevuta la quale avrebbe dovuto restituire l’eredità377: se, infatti, l’inciso accepta certa summa era da intendere come condizione, non ricevendo la somma, la condizione non si sarebbe verificata e quindi il fedecommesso non avrebbe avuto effetto. Si sa, d’altra parte, che nel senatoconsulto Pegasiano si prevedeva che colui che non avesse restituito volontariamente l’eredità in base al fedecommesso vi sarebbe stato costretto dal pretore e, in tal caso, avrebbe perso la quarta378. Nel caso esaminato da Fiorentino dovette dunque accadere – il testo è brachilogico ma pare di poterlo interpretare così – che l’erede che, approfittando della clausola, non aveva accettato e ricevuto la somma prevista e non aveva eseguito il fedecommesso, venne costretto ad eseguirlo. Fu a quel punto che egli pensò di ripiegare richiedendo la quarta Falcidia (in ottemperenza ai contenuti della lex Falcidia e del senatoconsulto Pegasiano).
370
Sixto 1995-96, 355 ss.; González Roldán 2014a, 116. Non riguarda questo caso, invece, D. 35.2.30.7, 8 fideic. di Meciano, anche se in dottrina (es. Voci 1963, 764 nt. 54) si è detto talvolta che il giurista intendesse l’inciso accepta certa pecunia come a una sorta di corrispettivo della vendita dell’hereditas. 372 Sixto 1995-96, 362 ss.; González Roldán 2014a, 119 s. 373 Voci 1963, 765 nt. 55; Sixto 1995-96, 374 ss.; Querzoli 1996, 16-17 nt. 8. Cfr. anche Manthe 1989, 128, 133, 165 ss., 174 s., 220; Mannino 1989, 85 ss.; González Roldán 2014a, 115. 374 Sixto 1995-96, 394 ss.; González Roldán 2014a, 123. 375 Sulla riforma adrianea, ampiamente, González Roldán 2014, 113-126 a cui rinvio per la lett. prec. 376 Cfr. anche Gai. 2 fideic., D. 36.1.65 (63).5. Cfr. Voci 1963, 765 nt. 55; Sixto 1995-96, 388 ss.; Querzoli 1996, 16-17 nt. 8. 377 Così anche Sixto 1995-96, 400. 378 Voci 1996, 617-618. 371
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Commento Ebbene Fiorentino precisa che egli non potrà ottenere la quarta richiesta379 e ciò non perché, in quanto erede, non ne abbia diritto, ma perché quella somma che il testatore aveva previsto per lui e che lui non aveva voluto ricevere (e che quindi aveva perso) era da imputare alla quarta secondo il rescritto adrianeo: quarta che, in base al senatoconsulto Pegasiano, egli aveva perso essendo stato costretto dal pretore ad eseguire il fedecommesso.
379 Così anche Sixto 1995-96, 400; Invece, secondo Manthe 1989, 165 nt. 45, l’erede viene costretto ad eseguire il fedecommesso ma ottiene comunque la quarta Pegasiana.
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Brini 1906-1907 Broggini 1963 Brouwer 2015 Brumana 2019 Brutti 19892 – 20112 – 2017 – 2019 – 2020 Buckland 1908 Buchwitz 2009
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Bibliografia Cantarella 1998
– 2011 Capano 2012 Carcaterra 1940 – 1966 – 1970 Cardilli 1995 – 2000 – 2018 – 2019 Carpin 2018 Carro 2009 – 2012 – 2016 Casavola 1965 – 1980 = 2011 – 2004 Cascione 2020
Castiglioni 19482
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Lauretta Maganzani Castillo Pascual 2012-2013 – 2013 Castresana 1994 Castro Sáenz 1998 – 1998a = 2021
– 2001 – 2002 Cavallini 1994 Cenderelli 2011 [1964]
Cerami 2012 [2007-2008]
Chamié 2015 Chevreau 2014
– 2016 Chiaradonna 2009 Citti 2013-2014 Coch Roura 2017 Collinet 1925
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Lauretta Maganzani Cursi 1996 – 2001 – 2016 – 2018 Curty 2005 Cusmà Piccione 2013
D’Aloja 2007 D’Amati 2004 – 2013 – 2020 – 2021 De Falco 2014 – 2020 De Filippi 2009 De Francesco 2005 De Giovanni 1994 – 2006 – 2010 De Iuliis 2015 – 2017
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Bibliografia Dell’Oro 1960 Del Lungo 2004 Del Sorbo 2011 – 2012
– 2017 De Robertis 1946 Desanti 1999 Desideri 1978 Desideri, Schiavone 2013 De Souza 2004 De Visscher 1963 Didier 1981 Diels, Kranz 1951-525 [1934-1937]
Di Nisio 2017 Di Pinto 2013 – 2020 Ditadi 2005 Donadio 2004 – 2007
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Lauretta Maganzani Donadio 2010
Donini 1982 D’Onofrio 2013 D’Orta 2004 Dovere 2004 – 2005 = 2006
– 2008 – 2017
– 2017a – 2017b Ducos 1995
Duplá Marín 2000
– 2003 – 2004 = 2021
N. Donadio, Qualità promesse e qualità essenziali della res vendita: il diverso limite tra la responsabilità per reticentia e quella per dicta promissave nel ‘diritto edilizio’ o nel ius civile, in «TSDP» 3 (2010) 1-150 (on line). P. Donini, Le scuole, l’anima e l’impero: la filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino 1982. G. D’Onofrio, Vera philosophia. Studi sul pensiero cristiano in età tardo-antica, alto-medievale e umanistica, Roma 2013. M. D’Orta, Il ‘legato per praeceptionem’. Dal dibattito dei giuristi classici alla riforma giustinianea, Torino 2004. E. Dovere, «Hereditas personam dominae sustinet». Giacenza ereditaria e tradizione romanistica, in «SDHI» 70 (2004) 13-54. E. Dovere, Hereditas centro di imputazione ‘in multibus partibus iuris’, in «Annaeus. Anales de la Tradición Romanistica» 2 (2005) 3-16 = «MEP» 9 (2006) Studia in honorem Mari Amelotti 287-298. E. Dovere, CI. 4.34.9: giacenza ereditaria, ‘depositum per servum’, legittimazione processuale, in F.M. D’Ippolito (a cura di), Φιλία. Scritti per Gennaro Franciosi, II, Napoli 2008, 739-758. E. Dovere, Un problema di personalità: la giacenza e il servo ereditario, in L. Monaco, O. Sacchi (a cura di), Individui e res publica. Dall’esperienza giuridica romana alle concezioni contemporanee. Il problema della ‘persona’, Atti del VI Seminario internazionale ‘Diritto romano e attualità’, Santa Maria C. V., Napoli, 26-29 ottobre 2010, Napoli 2017, 255-262. E. Dovere, Hereditas: pro domino e ut domino, in Scienza del diritto e burocrazia. Hermogenianus iurislator, Bari 2017, 127-138. E. Dovere, Giacenza ereditaria ‘quasi domina’, in Scienza del diritto e burocrazia. Hermogenianus iurislator, Bari 2017, 139-155. M. Ducos, Le tombeau. Locus religiosus, in La mort au quotidien dans le monde romain. Actes du colloque organisé par l’Université de Paris IV, Paris - Sorbonne 7-9 octobre 1993, Paris 1995, 135-144. M.T. Duplá Marín, D.36.216.1 (Iul. 35 Dig.): una excepción à la regla dies autem usus fructus, item usus non prius cedet quam hereditas adeatur, in Estudios de Derecho Romano en memoria de B.M. Reimundo Yanes, 1, Burgos 2000, 183-196. M.T. Duplá Marín, El servus hereditarius y la teoría de la herencia yacente, Valencia 2003. M.T. Duplá Marín, Reflexiones acerca del tratamiento jurisprudencial y doctrinal del servus hereditarius, in F. Del Pino Toscano, R. López Rosa (edd.), El derecho de familia: de Roma al derecho actual, Huelva 2004, 177-192 = Fundamentos romanísticos de derecho contemporáneo, VIII, Derecho de successiones, Madrid 2021, 615-629. 210
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Bibliografia Dursi 2019 Erdödy 2016 Estienne 2008
Evêque 2019
Fadda 1910 – 1949 Falcon 2017 Falcone 2004 Faralli 20142 Fayer 2005 Fei 2009 Ferrary, Marotta, Schiavone 2021 Ferretti 2000 – 2020
Ferri 2020
Ferrini 1929 [1890]
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Lauretta Maganzani Ferrini 1929a [1900] Fiasse 2002 Filip-Fröschl 1993
Filip-Fröschl 2007
Fiorentini 2003 – 2010
– 2013 Fiori 1999 Fleckner 2014
Foer 1987 Fontanella 2012 Forschner 2008
Forzieri Vannucchi 1973 Franciosi 19953 Frare 2010
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Bibliografia Fressura, Mantovani 2018 Frezza 1962 Frezza 1968 Fuenteseca 1970 Fuenteseca Degeneffe 2004 – 2021 Fussi 2020 Gabrielli 2006
Gagliardi 1999 Galimberti 2014 Gallo 1988 = 1999 – 2009 Gamauf 1999 – 2017
Gandolfi 1966 García Garrido 1958 García Mercado 2015 Garcia Quintas 2016 García Vásquez 2001
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Lauretta Maganzani Garnsey 2004 Gatti, Salvadori 2015 Gaudemet 1955 = 1979 – 1987 Genovese 2011 Gerkens 2007 Giachi 2005 Giltaij 2014 – 2016 Giodice Sabbatelli 1981 Gioffredi 1965 Giomaro 2011 – 2011a – 2016 – Giomaro 2019 Girard 1910 = 1912 Giumetti 2018 Goldschmidt 1979 [1973]
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Bibliografia Gonzáles Fernández, Fernández Ardanaz 2010 González Roldán 2014 – 2014a Goria 1976 Göschen 1820 Grecchi 2018 Greco 2018 Gregori 2005
Gröschler 2009 Grosso 19622 – 19672 Groten 2015 Guarino 1939 – 1939 = 1995 – 1966 = 1995 – 19908 – 2005 – 2010 Guizzi 1964
R. Gonzáles Fernández, F. Fernández Ardanaz, Algunas questiones en torno de la promulgación de la Constitutio Antoniniana, in «Gerión» 28 (2010) 157-192. Y. González Roldán, Il legato dell’“instrumentum” nel pensiero di Nerazio, in «QLSD» 4 (2014) 135-159. Y. González Roldán, Il diritto ereditario in età adrianea. Legislazione imperiale e senatus consulta, Bari 2014. F. Goria, Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economicosociali nel principato, in Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, 309-381. J.F.L. Göschen (ed.), Gaii Institutionum Commentarii IV e codice rescripto bibliothecae capitularis Veronensis auspiciis Regiae Scientiarum Academiae Borussicae nunc primum editi, Berolini 1820. L. Grecchi, Natura, Milano 2018. G. Greco, Il rifiuto della figlia alle nozze nel diritto attico, ebraico e romano, in «TSDP» 11 (2018) 1-34 (on line). G.L. Gregori, Definizione e misurazione dello spazio funerario nell’epigrafia repubblicana e protoimperiale di Roma. Un’indagine campione, in G. Cresci Marrone, M. Tirelli (a cura di), “Terminavit sepulcrum”. I recinti funerari nelle necropoli di Altino, Atti del Convegno Venezia 3-4 dicembre 2003, Roma 2005, 77126. P. Gröschler, Darlehnsvalutierung und Darlehenzins in den Urkunden aus dem Archiv der Sulpizier, in Festschrift für Rolf Knütel zum 70. Geburstag, Heidelberg 2009, 387-399. G. Grosso, I legati nel diritto romano, Parte generale, II ed. ampl., Torino 1962. G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, Torino 1967. A. Groten, Corpus und Universitas. Römisches Körpershafts- und Gesellschaftsrecht: zwischen greichischer Philosophie und römischer Politik, Tübingen 2015. A. Guarino, ‘Insidiari’ nei testi giuridici, in «SDHI» 5 (1939) 457466. A. Guarino, Sull’origine del testamento dei militari nel diritto romano, in «RIL» 72 (1939) 355-367 = Pagine di Diritto Romano, VI, Napoli 1995, 346-357. A. Guarino, «Actio, petitio, persecutio», in «Labeo» 12 (1966) 129136 = Pagine di Diritto Romano, VII, Napoli 1995, 12-20. A. Guarino, Storia del diritto romano, Napoli8 1990. A. Guarino, «Depositum in sequestre», in Trucioli di bottega. Dodici acervoli, Napoli 2005, 144-146. A. Guarino, Glossemi romanistici, in «SDHI» 76 (2010) 411-423. F. Guizzi, Intorno alla nozione romana di sequestro, in Mnemeion Siro Solazzi, Napoli 1964, 318-345. 215
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Lauretta Maganzani Hadot 2004 Hahn 2007
Hankum 1998 – 2001
Harries 2016 Haymann 1920 Heath 2008 Hoermann, Seidl 1957 Honoré 20022 – 2010 Hope 2001 Hoppe 1985 [1903] Huang 2018 Hunt 2017 Huwiler 1993
Impallomeni 1955 Ingallina 2016-17 Iodice 2003
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Bibliografia Isaac 2017 Jakab 1985 – 2009 Jidejian 2011 Jones 2007 Jones Hall 2004 Kaiser 2016 Kamtekar 2016 Karlowa 1885 – 1901 Kaser 1957 – 1958 – 1973 – 1973a = 1976
– 1978 – 1979 Knoch 2017 Knütel 2001 – 2002 – 2014
Kock 1884
B. Isaac, Empire and Ideology in the Graeco-Roman World: Selected Papers, Cambridge 2017. É. Jakab, Vom sequestrum der legis actiones bis zum verbindlichen ‘Gerichtsdeposit’ des Prozeßgegenstandes, in Acta Universitatis Szegediensis: «Acta Juridica et Politica» 33 (1985) 235-243. É. Jakab, Risikomanagement beim Kauf. ‘Periculum’ und Praxis im ‘Imperium Romanum’, München 2009. N. Jidejian, Berytus: L’école de droit, Beyrouth 2011. Chr. Jones, Juristes romains dans l’Orient grec, in «CRAI» 151.3 (2007) 1331-1359. L. Jones Hall, Roman Berytus: Beirut in Late Antiquity, New York 2004. W. Kaiser, Studien zu den Institutiones Iustiniani, Teil I, in «ZSS» 133 (2016) 1-134. R. Kamtekar, Studying Ancient Political Thought through Ancient Philosophers: the Case of Aristotle and Natural Slavery, in «Polis» 33.1 (2016) 150-171. O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte. I. Staatsrecht und Rechtsquellen, I, Leipzig 1885. O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte II.1, Leipzig 1901. M. Kaser, Periculum locatoris, in «ZSS» 74 (1957) 155-200. M. Kaser, Partus ancillae, in «ZSS» 75 (1958) 156-200. M. Kaser, Stipulatio aquiliana, in «ZSS» 90 (1973) 346-358. M. Kaser, Unlautere Warenanpreisungen beim römischen Kauf, in Festschrift Heinrich Demelius zum 80. Geburtstag: Erlebtes Recht in Geschichte und Gegenwart, Wien 1973, 127-137 = G. Frotz, W. Ogris (Hrsg.), Ausgewählte Schriften, 2, Napoli 1976, 313-325. M. Kaser, Zum römischen Grabrecht, in «ZSS» 95 (1978) 15-92. M. Kaser, Besitzpfand und ‘Besitzloses’ Pfand, in «SDHI» 45 (1979) 1-92. S. Knoch, Sklavenfürsorge im römischen Reich. Formen und Motive zwischen humanitas und utilitas, Hildesheim-Zürich-New York 2017. R. Knütel, Exempla docent: uccelli liberati, belle addormentate e cani saltellanti, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, IV, Napoli 2001, 431-461. R. Knütel, Beziehungsprobleme: Betrachtungen zu D. 23,2,58; D. 23,3,18 und D. 19,2,36, in L. De Ligt et alii (edd.), Viva vox iuris romani. Essays in honour of J.E. Spruit, Amsterdam 2002, 243-250. R. Knütel, Zum pactum de lucranda dote im klassischen römischem Recht, in P.I Carvajol Ramírez, M. Miglietta (edd.), Estudios jurídicos en homenaje al profesor Alejandro Guzmán Brito, III, Alessandria 2014, 47-78. Th. Kock (Hrsg.), Comicorum Atticorum Fragmenta, II. Novae Comaediae Fragmenta, Pars I, Lipsiae 1884. 217
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Lauretta Maganzani Krüger 19122 Kühn 1821 = 1997 Kühn 1821a = 1997 Kunkel 19672 Kupiszewki 1967 = 2000 Labruna 2005 Lambertini 1984 – 1995 Lambrini 2006 – 2010 – 2011 [2009, 2010]
– 2020 Lanata 1984 Laubry 2012
– 2014
P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des römischen Rechts, München-Leipzig 19122. C.G. Kühn (ed.), Galeni adhortatio ad artes addiscendas, in Claudi Galeni opera omnia, I, Lipsiae 1821, rist. Hildesheim-Zürich-New York 1997, 1-39. C.G. Kühn (ed.), Quod optimus medicus sit quoque philosophus, in Claudi Galeni opera omnia, I, Lipsiae 1821, rist. HildesheimZürich-New York 1997, 53-63. W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Graz-Wien-Köln 19672. H. Kupiszewki, Studien zum Verlöbnis im klassischen römischen Recht, in «ZSS» 84 (1967) 70-103 = Scritti minori, Napoli 2000, 191-224. L. Labruna, Nuptiarum futurarum mentio?, in Z. Służewska, J. Urbanik (edd.), Marriage. Ideal-Law-Practice, Warsaw 2005 (= JJP Supplements V), 111-121. R. Lambertini, L’etimologia di ‘servus’ secondo i giuristi romani, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, V, Napoli 1984, 2385-2394. R. Lambertini, Sull’esordio delle Istituzioni di Marciano, in «SDHI» 61 (1995) 271-283. P. Lambrini, La novazione. Pensiero classico e disciplina giustinianea, Padova 2006. P. Lambrini, Dolo generale e regole di correttezza, Padova 2010. P. Lambrini, Actio de dolo malo e accordi privi di tutela contrattuale, in «SCDR» 22 (2009) 225-249 = Dolo generale e regole di correttezza, Padova 2010, 69-93 = L. Garofalo (a cura di), Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, Padova 2011, 221-246. P. Lambrini, Sulla tradizione manoscritta del Digestum vetus a partire da alcune peculiarità del ms. Torino, Biblioteca Universitaria, F. II.14, in «Iura» 68 (2020) 451-467. G. Lanata, Legislazione e natura nelle Novelle giustinianee, Napoli 1984. N. Laubry, Des rites pour le faire, des mots pour le dire: désignations, conceptions et perceptions de l’espace funéraire à Rome (Ier siècle av. J.-C. – IIIe siècle apr. J.-C.), in M. de Souza, A. PetersCustot, Fr.-X. Romanacce (édd.), Le sacré dans tous ses états. Catégories du vocabulaire religieux et sociétés, de l’Antiquité à nos jours, Saint-Étienne 2012, 169-180. N. Laubry, Sepulcrum, signa et tituli: quelques observations sur la «consecratio in formam deorum» et sur l’expression du statut des morts dans la Rome impériale, in S. Agusta-Boularot, E. Rosso (édd.), Signa et Tituli. Monuments et espaces de représentation en Gaule Méridionale sous le regard croisé de la sculpture et de l’épigraphie, Arles 2014, 159-173. 218
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Bibliografia Laubry 2016
– 2018
Lazo 2004 – 2013 Lazzarini 1991 – 1997 – 2005 Lehne-Gstreinthaler 2019 Lelli, Pisani 2017 Lenel 1889 = 1960 = 2000 Lepore 2005 – 2019 Leuba 1962 Levy 1949 = 1963 Liebs 1976 = 2016 – 1976a = 2016 – 2000 [1997]
N. Laubry, Les lieux funéraires dans la Rome ancienne: désignations et configurations (II s. av. n. è. – III s. de n. è.), in M. Lauwers, A. Zemour (édd.), Qu’est-ce qu’une sépolture? Humanités et systèmes funéraires de la Préhistoire à nos jours, Antibes 2016, 7593. N. Laubry, Iura sepulcrorum à Ostie: un supplément, in M. Cébeillac-Gervasoni, N. Laubry, F. Zevi (a cura di), Ricerche su Ostia e il suo territorio, Atti del Terzo Seminario Ostiense, Rome 2018, 1-39 (on line). P. Lazo, El método de comparación de casos: examen de sus resultados, in «REHJ» 26 (2004) 41-60 (on line). P. Lazo, Merx peculiaris como patrimonio especial, «REHJ» 35 (2013) 179-191. S. Lazzarini, Sepulcra familiaria, Uno studio epigrafico-giuridico, Padova 1991. S. Lazzarini, Tutela legale del sepolcro familiare romano, in Monumenti sepolcrali romani in Aquileia e nella Cisalpina, in «AAAd» 43 (1997) 83-97. S. Lazzarini, Regime giuridico degli spazi funerari, in G. Cresci Marrone, M. Tirelli (a cura di), “TERMINAVIT SEPULCRUM”. I recinti funerari nelle necropoli di Altino, Roma 2005, 47-57. C. Lehne-Gstreinthaler, Iurisperiti et oratores. Eine Studie zu den römischen Juristen der Republik, Köln 2019. E. Lelli, G. Pisani (coord.), Plutarco, Tutti i Moralia, FirenzeMilano 2017. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I-II, Leipzig 1889 = Graz 1960 = Roma 2000. P. Lepore, «Rei publicae polliceri». Un’indagine giuridico-epigrafica, I, Milano 2005. P. Lepore, Saggi sulla promessa unilaterale in diritto romano, Milano 2019. J.F. Leuba, Origine et nature du legs per praeceptionem, Lausanne 1962. E. Levy, Natural Law in Roman Thought, in «SDHI» 15 (1949) 1-23 = Gesammelte Schriften, I, Köln-Graz 1963, 3-20. D. Liebs, Römische Provinzialjurisprudenz, in H. Temporini (Hrsg.), «ANRW» II.15, Berlin-New York 1976 (= Berlin-Boston 2016), 288-363. D. Liebs, Rechtsschulen und Rechtsunterricht im Prinzipat, in H. Temporini (Hrsg.), «ANRW» II.15, Berlin-New York 1976 (Berlin-Boston 2016), 197-286. D. Liebs, Jurisprudence, in R. Herzog, P. Lebrecht Schmidt (édd.), Nouvelle Histoire de la Littérature Latine, IV, trad. fr., Turnhout 2000, 92-248 (ed. orig. tedesca: Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, München 1997). 219
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Lauretta Maganzani Liebs 2017
Ligios 1996 – 2012 Lo Cascio 2013 Lombardi 1947 Longchamps de Bérier 1997 Longo G. 1970
– 1979 Longo S. 2012 López Gálvez 2009 Lovato 2011 – 2018 Lovato, Stramaglia, Traina 2021 Luzzatto 1938 MacCormack 1985 – 1986 – 1987 – 1993-94
D. Liebs, La protezione degli schiavi contro maltrattamenti dei loro padroni in età precristiana, cristiana e nell’alto medioevo, in Ravenna Capitale. Dopo il Teodosiano. Il diritto pubblico in Occidente nei secoli V-VIII. In memoria di G. Mancini, Bologna 2017, 19-39. M.A. Ligios, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’«Instrumentum fundi» tra il I sec. a. C. e il III sec. d. C., Napoli 1996. M.A. Ligios, Studi sull’alienazione del bene oggetto di legato in diritto romano, I, Vercelli 2012. E. Lo Cascio, Roma come «mercato comune del genere umano», in P. Desideri, F. Fontanella (a cura di), Elio Aristide e la legittimazione greca dell’impero di Roma, Bologna, 2013, 185-201. G. Lombardi, Sul concetto di ius gentium, Roma 1947. F. Longchamps de Bérier, Il fedecommesso universale nel diritto romano, Warszawa 1997. G. Longo, Sulla legittima difesa e lo stato di necessità in diritto romano, in von W.G. Becker, L. Schnorr von Carolsfeld (Hrsg.), Sein und Werden im Recht. Festgabe U. von Lübtow zum 70. Geburstag, Berlin 1970, 321-338. G. Longo, Negozi giuridici collegati e negozi sulla cosa propria, in «SDHI» 45 (1979) 93-140. S. Longo, Senatusconsultum Macedonianum. Interpretazione e applicazione da Vespasiano a Giustiniano, Torino 2012. M.N. López Gálvez, Incendios en el paisaje rural: penas y resarcimiento del daño en derecho romano, in A. Palma (a cura di), Scritti in onore di Generoso Melillo, II, Napoli 2009, 679-712. A. Lovato, Testamentum militis. Sul ‘consolidamento’ giuridico di un privilegio, in Scritti di storia per Mario Pani, Bari 2011, 257266. A. Lovato, P. Fay. 10 (Ulpianus 45 ad edictum) + P. Berol. Inv. P 11533, in D. Mantovani, S. Ammirati (a cura di), Giurisprudenza romana nei papiri. Tracce per una ricerca, Pavia 2018, 125-129. A. Lovato, A. Stramaglia, G. Traina (a cura di), Le ‘Declamazioni maggiori’ pseudo-quintilianee nella Roma imperiale, BerlinBoston 2021. G.I. Luzzatto, Caso fortuito e forza maggiore come limite alla responsabilità contrattuale, I, La responsabilità per custodia, Milano 1938. G. MacCormack, ‘Dolus’ in Republican Law, in «BIDR» 27 (1985) 1-38. G. MacCormack, ‘Dolus’ in the Law of the Early Classical Period (Labeo, Celsus), in «SDHI» 52 (1986) 236-285. G. MacCormack, Aliud simulatum, aliud actum, in «ZSS» 104 (1987) 639-646. G. MacCormack, Dolus in Decisions of Mid-Classical Jurists, in «BIDR» 35-36 (1993-94) 83-146. 220
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Bibliografia MacCormack 1997
Maddalena 1970 Maffi 1992 Magagna 2002 Maganzani 1993 – 1997 – 2010
– 2011 – 2018 – 2019 – 2019 a – 2020
– 2020a – 2020b – 2020c
G. MacCormack, Roman Jurisprudence and Interpretation: on ‘dolus’ as Ground of the classical ‘actio de dolo’, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al prof. F. Gallo, I, Napoli 1997, 539-560. P. Maddalena, Gli incrementi fluviali nella visione giurisprudenziale classica, Napoli 1970. A. Maffi, Ricerche sul postliminium, Milano 1992. M. Magagna, I patti dotali nel pensiero dei giuristi classici. Per l’autonomia privata nei rapporti patrimoniali tra i coniugi, Padova 2002. L. Maganzani, Gli incrementi fluviali in Fiorentino VI Inst., in «SDHI» 59 (1993) 207-258. L. Maganzani, I fenomeni fluviali e la situazione giuridica del suolo rivierasco: tracce di un dibattito giurisprudenziale, in «Jus» 44.3 (1997) 343-390. L. Maganzani, La dignità umana negli scritti dei giuristi romani, in A. Sciarrone (a cura di), Dignità e diritto: prospettive interdisciplinari. Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università Cattolica del S. Cuore di Piacenza, Piacenza 2010, 85-98. L. Maganzani, Appunti sul concetto di dignità umana alla luce della casistica giurisprudenziale romana, in «SDHI» 76 (2011) 521-543. L. Maganzani, Augusto e i catasti d’Italia, in S. Segenni (a cura di), Augusto dopo il bimillenario. Un bilancio, Firenze 2018, 217235. L. Maganzani, Publicani romani in Asia nel Monumentum Ephesenum, in C. Bearzot, F. Landucci, G. Zecchini (a cura di), Migranti e lavoro qualificato nel mondo antico, Milano 2019, 129-157. L. Maganzani, Etica e diritto nella formazione del giurista: l’età severiana, in «Jus» 66 (2019) 21-44. L. Maganzani, Afflati ecumenici nelle opere istituzionali di età severiana, in P. Garbarino, P. Giunti, G. Vanotti (a cura di), Confini, circolazione, identità ed ecumenismo nel mondo antico. Atti del VII Incontro di studi fra storici e giuristi dell’antichità, Vercelli, 24-25 maggio 2018, Milano 2020, 161-179. L. Maganzani, Diritto e ‘simulata philosophia’ nelle Istituzioni di Ulpiano, in «Erga-Logoi» 8 (2020) 55-87. L. Maganzani, Testi giuridici nel Corpus Agrimensorum Romanorum: il frammento De sepulchris, in «KOINΩNIA» 44/2 (2020) 921-938. L. Maganzani, Diritto e ‘vera philosophia’ nelle Istituzioni di Ulpiano: osservazioni minime sul primo frammento dei Digesta di Giustiniano, in L. Franchini (a cura di), Armata Sapientia. Scritti in onore di Francesco Paolo Casavola per i suoi novant’anni, Napoli 2020, 583-598. 221
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Lauretta Maganzani Manfredini 1987 – 1991 – 2006 Manganaro 2016 Manning 1989 = 2016 Mannino 1989 Mantello 1979 – 1991-92 = 2014 – 2007 Manthe 1989 Mantovani 2006 – 2007
– 2018 Marino 2006
Marotta 1988 – 1992 – 2000 – 2007 [2006]
A. Manfredini, Monumentum perficere, monumentum reficere (D. 11,8,5), in «RIDA» III S. 34 (1987) 221-227. A. Manfredini, Misericordia ductus, in «AUFG» 5 (1991) 1-126. A. Manfredini, “Chi caccia e chi è cacciato…”. Cacciatore e preda nella storia del diritto, Torino 2006. G. Manganaro, Il ‘paradossale’ Caracalla dona la civitas ai suoi soldati, in «MediterrAnt» 19 (2016) 1-2 381-394. C.F. Manning, Stoicism and Slavery in the Roman Empire, in W. Haase (Hrsg.), in «ANRW» II.36.3, Berlin-New York 1989 (= Berlin-Boston 2016), 1518-1544. V. Mannino, Il calcolo della ‘quarta hereditatis’ e la volontà del testatore, Napoli 1989. A. Mantello, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss. – D.35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.), Milano 1979. A. Mantello, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo, «BIDR» S. III 33-34 (1991-92) 349-415 = Variae, I, Lecce 2014, 353-421. A. Mantello, Natura e diritto da Servio a Labeone, in D. Mantovani, A. Schiavone (a cura di), Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 201-248. U. Manthe, Das senatusconsultum Pegasianum, Berlin 1989. D. Mantovani, Il iudicium pecuniae communis. Per l’interpretazione dei capitoli 67-71 della lex Irnitana, in L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba, Gli statuti municipali, Pavia 2006, 261-334. D. Mantovani, I giuristi, il retore e le api. Ius controversum e natura nella Declamatio maior XIII, in D. Mantovani, A. Schiavone (a cura di), Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 323-385. D. Mantovani, Les juristes écrivains de la Roma antique. Les œvres des juristes comme littérature, Paris 2018. R. Marino, Iura personarum e politeumata in Egitto tra Settimio Severo e Caracalla, in P. Minà (a cura di), Imagines et iura personarum. L’uomo nell’Egitto antico. Per i novanta anni di Sergio Donadoni, Atti del IX Convegno Internazionale di Egittologia e Papirologia, Palermo, 10-13 novembre 2004, Palermo 2006, 169-177. V. Marotta, Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio, Milano 1988. V. Marotta, I giuristi romani come «intellettuali»: la cultura di Callistrato, in «Ostraka» I.1 (1992) 287-293. V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000. V. Marotta, Iustitia, vera philosophia e natura. Una nota sulle Institutiones di Ulpiano, in «SCDR» 19 (2006) 285-334 = D. Mantovani, A. Schiavone (a cura di), Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 563-592. 222
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Bibliografia Marotta 2007a – 2009 – 2010 – 2013
– 2016 – 2016a – 2020 – 2021 – 2021a – 2021b Marrone 1958 Martin 1986 Martini 1966 Maschi 1937 Masi Doria 2016 Mastrocinque 2018 Mattioli 2017 Mayer Maly 1956
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Lauretta Maganzani Pasetti 2016
Pastori 1994 Pavese 2004 Pellegatta 2016 Pelloso 2016 Pennesi 2009 Peppe 2009 Pérez Bravo 2009 Periñan Gómez 2008 Pernot 2008
Perozzi 1928 = 2002 Pesaresi 2008 – 2012 Petit 1974 Pietrini 2012 Piro 2018 Podolak 2004 – 2006 Pohlenz 1967 Polara 1983 Pontoriero 2018
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– 2019 Procchi 2007
– 2020 Puliatti 2016 – 2019 – 2020 Pulitanò 2016 – 2016a
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– 2013
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Lauretta Maganzani Vegetti 2018a Velaza Frías 2017
Vernière 1993 Viarengo 2012 Villey 1953 Vimercati 2007 Vincenti 2009 Vitelli 2016 Vlassopoulos 2011 Voci 1952 – 1963 – 19672 – 19964 Volterra 1991 [1927] – 1991 [1929] – 1991 [1932] – 1991 [1963]
von Armin 1903 von Harnack 1893
M. Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica, Pistoia 2018. J. Velaza Frías, ¿El enigma imposible? Veinte años de estudios sobre la Historia Augusta - The Impossible Enigma? Twenty Years of Studies on the Historia Augusta, in Conuentus Classicorum, Temas y formas del Mundo Clásico. Temes i formes del Món Clàssic, I , Madrid 2017, 701–730. Y. Vernière, Notice. Présentation du livre I, in F. Chamoux, P. Bertrac, Y. Vernière (éd.), Diodore de Sicile, Bibliothèque historique, I, Paris 1993, 3-17. G. Viarengo, Studi su Erennio Modestino. Metodologie e opere per l’insegnamento del diritto, Torino 2009. M. Villey, Deux conceptions du droit naturel dans l’antiquité, in «RHD» S. IV 30 (1953) 475-497. E. Vimercati, Tre studi recenti sull’oikeiosis e sul fondamento della morale stoica, in «RFN» 4 (2007) 573-608. U. Vincenti, Diritti e dignità umana, Bari 2009. M. Vitelli, Seneca sulla schiavitù. Tra slancio umanitario e difesa dell’esistente, in «Mosaico» 3 (2016) 1-18 (on line). K. Vlassopoulos, Greek slavery: from domination to property and back again, in «JHS» 131 (2011) 115-130. P. Voci, Modi di acquisto della proprietà (Corso di diritto romano), Milano 1952. P. Voci, Diritto ereditario romano, II. Parte Speciale, Milano 1963. P. Voci, Diritto ereditario romano, I2, Milano 1967. P. Voci, Istituzioni di diritto romano4, Milano 1996. E. Volterra, Studio sull’«arrha sponsalicia», in «RISG» N.S. II (1927) 581-670 = Scritti giuridici, con una nota di Mario Talamanca, I, Famiglia e successioni, Napoli 1991, 3-92. E. Volterra, Sul consenso della filiafamilias agli sponsali, Roma 1929 = Scritti giuridici, con una nota di Mario Talamanca, I, Famiglia e successioni, Napoli 1991, 291-303. E. Volterra, Ricerche intorno agli sponsali in diritto romano, in «BIDR» 40 (1932) 87-168 = Scritti giuridici, con una nota di Mario Talamanca, I, Famiglia e successioni, Napoli 1991, 339-420. E. Volterra, Osservazioni intorno agli antichi sponsali romani, in Scritti C.A. Jemolo V, Milano 1963, 639-657 = Scritti giuridici, con una nota di Mario Talamanca, II, Famiglia e successioni, Napoli 1991, 491-507. H. von Harmin (Hrsg.), Stoicorum Veterum Fragmenta (SVF), III, Chrisippi Fragmenta Moralia. Fragmenta Successorum Chrysippi, Lipsiae 1903. A. von Harnack, Geschichte der altchristlichen Litteratur bis Eusebius, I, Leipzig 1893. 238
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Bibliografia von Hesberg, 1992 Wacke 1977 – 1991 – 2002
Waldstein 2002 Watson 1961 – 2002 Wehus 2019 Wibier 2019
Wieacker 1944 – 1949 – 1960 Wieacker, Wolff 2006 Wieling 1970 Wimmer 2004 Winkel 1988 – 2015 – 2018 Wlassak 1921
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Lauretta Maganzani Wolff 1976 Wolodkiewicz 1978 Zaccaria 2005
Zamorani 1969 Zarro 2016 – 2017 – 2017a Zavadil 2003
Zecchini 1998
Zépos 19312 = 1962 Zhang 2007 Zimmermann 1996 Zuccotti 2000 – 2001 Zwalve 2004 Zwalve, De Vries 2017
H. Wolff, Die Constitutio Antoniniana und Papyrus Gissensis 40.I, 2 voll., Köln 1976. W. Wolodkiewicz, Les origines romaines de la systématique du droit civil contemporain, Wroclaw 1978. C. Zaccaria, Recinti funerari aquileiesi: il contributo dell’epigrafia, in G. Cresci Marrone, M. Tirelli (a cura di), “Terminavit sepulcrum”. I recinti funerari nelle necropoli di Altino, Atti del Convegno, Venezia 3-4 dicembre 2003, Roma 2005, 195-223. P. Zamorani, Precario habere, Milano 1969. G. Zarro, Tra solidarietà e mutua fideiussione, in «Index» 44 (2016) 217-251. G. Zarro, ‘Sepulchrum’, ‘Monumentum’, ed aree ‘adiectae’: elementi comuni e discipline differenziali, in «RIDA» 3 Sér. 64 (2017) 383-406. G. Zarro, I.4.14.1 ‘Exceptiones autem, quibus debitor defenditur, accomodari solent etiam fideiussoribus eius’: vicende di un principio, «TSDP» 10 (2017), 1-36 on line. M. Zavadil, Monumentum generaliter res est memoriae causa … Gedanken zu den Begriffen Monument und monumental, in B. Asamer, W. Wohlmayr (Hrsg.), Akten des 9. Österreichischen Archäologentages am Institut für klassische Archäologie der Paris Lodron Universität Salzburg, Wien 2003, 253-257. G. Zecchini, La Constitutio Antoniniana e l’universalismo politico di Roma, in L. Aigner Foresti, A. Barzanò, C. Bearzot, L. Prandi, G. Zecchini (a cura di), L’ecumenismo politico nella coscienza dell’Occidente, Atti del Convegno di Studi, Bergamo 1821 settembre 1995, II, Alle radici della casa comune europeo, Roma 1998, 349-358. J. et P. Zépos (edd.), Micaelis Attaliotae opus de iure, in Ius Graeco-Romanum2, VII, Athenis 1931 = Aalen 1962, 409-497. L. Zhang, Contratti innominati nel diritto romano. Impostazioni di Labeone e di Aristone, Milano 2007. R. Zimmerman, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tradition, Oxford 1996. F. Zuccotti, «Fruges fructusque» (studio esegetico su D.50.16.77). Per una ricerca sulle origini della nozione di «frutto», Padova 2000. F. Zuccotti, «Partus ancillae in fructu non est», in «Antecessori oblata». Cinque studi dedicati ad Aldo Dell’Oro (con, in appendice, un inedito di Arnaldo Biscardi), Padova 2001, 185-326. W.J. Zwalve, A labyrinth of creditors: a short history of security interests in goods, in E.M. Kieninger (ed.), Security Rights in Movable Property in European Privat Law, Cambridge 2004, 38-53. W.J. Zwalve, Th. De Vries, The New Temple. On the origin, nature and composition of the partes Digestorum, in «RHD» 85 (2017) 492-521. 240
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ABBREVIAZIONI
«AAAd» «AARC» «AG» «AHDE» «ANRW» «AUFG» «AUPA» «BIDR» «BStudLat» «CAG» «Class. et Christ.» «CRAI» «dA» «DK» «DS» «ED» «eTopoi» «FIRA» «IAH» «JHS» «JJP» «LR» «MediterrAnt» «MEFRA» «MEP» «MSCG» «NNDI» «PL» «Polis» «RDR» «RE» «REA» «REDUR»
Antichità Altoadriatiche Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana Archivio Giuridico ‘Filippo Serafini’ Anuario de Historia del Derecho Español Aufstieg und Niedergang der römischen Welt Annali dell’Università di Ferrara. Nuova serie. Sezione V, Scienze giuridiche Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano ‘Vittorio Scaloja’ Bollettino di studi latini Commentaria in Aristotelem Graeca Classica et Christiana Comptes Rendus / Académie des Inscriptions et Belles-lettres Derecho animal (Forum of Animal Law Studies) Die Fragmente der Vorsokraticher, H. Diels, W. Kranz edd. Diritto@Storia Enciclopedia del Diritto eTopoi. Journal for Ancient Studies Fontes Iuris Romani Anteiustiniani Iuris Antiqui Historia Journal of Hellenic Studies The Journal of Juristic Papyrology Legal Roots Mediterraneo Antico. Economie Società Culture Mélanges de l’École Française de Rome – Antiquité Minima Epigraphica et Papyrologica Materiali per una storia della cultura giuridica Novissimo Digesto Italiano Patrologia Latina Polis. The Journal for Ancient Greek and Roman Political Thought Rivista di diritto romano Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft Revue d’Études Anciennes Revista Electrónica de Derecho de la Universidad de la Rioja 241
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Lauretta Maganzani «REHJ» «REJIE» «RFN» «RGDR» «RHD» «RIDA» «RIDROM» «RIL» «RIPh» «RISG» «RSF» «RVAP» «SCDR» «SDHI» «StudUrb (Ser. A)» «SVF» «TLL» «TSDP» «Tul.Eur.& Civ.L.F.» «ZAC» «ZSS»
Revista de Estudios Historico-Juridicos, Sección Derecho Romano Revista jurìdica de Investigacìon e Innovaciòn Educativa Rivista di filosofia neo-scolastica Iustel. Revista General de Derecho Romano Revue Historique de Droit français et étranger Revue Internationale des Droits de l’Antiquité Revista International de Derecho Romano Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere Revue Internationale de Philosophie Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche Rivista di Storia della Filosofia Revista Vasca de Administración pública Seminarios Complutenses de Derecho Romano Studia et Documenta Historiae et Iuris Studi Urbinati, A. Scienze giuridiche, politiche ed economiche Stoicorum Veterum Fragmenta Thesaurus Linguae Latinae Teoria e Storia del Diritto Privato The Tulane European and Civil Law Forum Zeitschrift für Antikes Christentum / Journal of Ancient Christianity Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte – Romanistische Abteilung
242
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GIURISTI CITATI*
Africano, Sesto Cecilio 4
Labeone, Marco Antistio 6; 38; 39; 140; 147; 152.213; 153.216; 158; 160; 168.265; 169; 186
Alfeno Varo 4 Aquilio Gallo 6; 38; 39; 158; 159; 160; 163; 164; 165
Marcello, Ulpio 9; 10; 11; 12 Marciano, Elio 17; 17.66; 21; 22; 23; 35; 35.2; 65; 67; 74; 118; 119; 137
Aristone, Tizio 136 Meciano, Lucio Volusio 4; 194.371 Bruto, Marco Giunio 37; 121 Callistrato 17.66; 35; 35.2; 123; 124
Modestino, Erennio 4; 68; 72.127; 118; 134, 181
Cascellio, Aulo 6
Nerazio Prisco 113
Cassio Longino, Gaio 149; 153
Paolo, Giulio 3; 4; 6; 10; 12; 14; 15; 15.51; 17.66; 26; 28; 35; 35.2; 66; 68; 70; 74; 118; 135; 144.165; 168.265; 169; 170; 180; 188; 190; 190.353
Celso, Publio Giuvenzio 4; 27; 137; 177; 189 Cervidio Scevola, Quinto 3; 8; 9; 10; 13; 39; 193
Papiniano, Emilo 4; 72.127; 144.165; 194
Gaio 3; 7; 9; 17; 18; 19; 23; 43; 60; 68; 110; 119; 129; 147; 152.214; 154; 163; 193
Pedio, Sesto 6; 38; 39; 66; 157; 158; 159; 170
Giavoleno Prisco, Lucio 153.216
Pomponio, Sesto 4; 6; 19; 25; 38; 125; 147; 186; 187; 190
Giuliano, Salvio 28; 115; 135; 144; 149; 150; 153; 185; 186; 187; 190
Proculo 4; 123; 124; 175
* I nomi dei giuristi sono stati ordinati talvolta secondo il nomen, in altri casi secondo il cognomen, seguendo l’uso più consueto.
243
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Lauretta Maganzani Quinto Mucio Scevola 27; 151.208; 189
Tuberone, Quinto Elio 27; 189; 190
Sabino, Masurio 190
Ulpiano, Domizio 3; 4; 6; 9; 10; 11; 12; 17; 17.65; 19; 21; 21.91; 22; 23; 24; 25; 26; 27; 28; 35; 35.2; 36.8; 39; 39.13; 40; 43; 65; 66; 67; 67.106; 68; 69.119; 70; 72.127; 74; 111; 113; 117; 118; 137; 143; 151.208; 152.213; 153; 157; 160; 161; 170; 172; 174; 178; 181; 188; 189; 190; 190.353
Servio Sulpicio Rufo 6; 27; 38; 113; 116; 147; 148; 158; 159; 160; 189 Tertulliano 15 Trebazio Testa 6; 37; 38; 40; 82-83
Venuleio Saturnino, Quinto 4; 149.199; 153 Trifonino, Claudio 17; 21; 22; 23; 24; 26; 28; 65; 67; 190; 193
Viviano 152.213
244
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FONTI ANTICHE
TRADIZIONE MANOSCRITTA
Agennius Urbicus De controversiis agrorum 42.18 ss. (Thulin) = 50.8 ss. (Lachmann)
124
Alcimadas Messeniacus (Avezzù) 1
54
Ambrosiaster Commentarius in epistulam beati Pauli ad Colossenses 4.1 (PL 17.439)
173
Anonymus In Aristotelis Artem Rhetoricam Commentarium (Rabe CAG XXI.2) p. 74 b 18 54.52
Apuleius Apologia 22
72.126
De Platone et eius dogmate 2.8
68.108 245
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Lauretta Maganzani Florida 7.2.6
72.126
Metamorphoses 4.32
114
Aristoteles Etica Nicomachea 1160 b 29-30 1161 a 32 – b 8
55 55.63
Historia Animalium 490 a 16-18
55.63
Politica 1252 a 24 ss. 1253 b 3 ss. 1254 a 26-27 1253 b 33 – 1254 a 1 1254 b 27 ss. 1255 a 3 ss. 1255 a 6-7 1255 b 4 ss. 1256 b
53; 173 55 55.63 57 56; 56.67 56-57; 57.68 53.44 57; 57.69 120
Rhetorica 1373 b 6-9 1373 b 5–20
53 54
Arnobius Siccensis Adversus nationes 4.20.2
115.30
Augustinus De civitate Dei 19.15 19.21.2
173 59-60; 60.82
246
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Fonti antiche Contra Iulianum haeresis Pelagianae defensorem 4.12.61
60.86
Basilicorum libri LV (Scheltema, van der Wal) 28.1.1 50.1.15
112.11 123
Boethius Contra Eutychen et Nestorium cap. 3 (PL 64, 1343)
18.74; 61.87
Chrysippus (SVF von Armin) III.352
58-59; 59.81
Cicero I. Orationes Actio secunda in Verrem 4.70
167
Pro Balbo 19 28 29 44
126 131 126 126
Pro Milone 9 10 11 9-11 14
45.7; 46; 110.2 20.83; 110; 110.6 110.6 45 110.6
Pro Sestio 90-92
46.12; 110.3
247
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Lauretta Maganzani II. Epistulae ad familiares 8.7.2 12.3.1
114 46.12; 110.3
ad Quintum fratrem 2.6[5].1
114
III. Opera rhetorica De inventione 1.15 2.61 2.65 2.66 2.124 2.161
46 6; 159; 159.243 45-46; 110.3 46 46 110.3
De oratore 1.182 1.185 ss.
131 68.108
Partitiones oratoriae 131
46
Topica 19 40 84 90
116.34 6; 159 46.12; 110.3 46.12; 110.3
IV. Opera philosophica De finibus bonorum et malorum 3.62-63 3.67 5.65 5.37
48; 48.25 119-120 49; 49.29 46.12; 110.3
De legibus 2.57
136
De natura deorum 3.74
6; 159 248
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Fonti antiche De officiis 1.20 1.21 1.33-34 1.107 1.115 1.124 2.18 3.22 3.60 3.61 3.100
45; 119 119 45 18.74; 60 18.74; 60 150.201 45 119 6; 159 159 130; 130.85
De republica (Castiglioni CSLP) 3.11 3.12
60.86 60.83
Paradoxa Stoicorum 34
59; 173.279
Codex Iustinianus Vd. Corpus iuris civilis III Codex Theodosianus (Mommsen) 1.4.3 1.6.7
118 15
Collatio legum mosaicarum et romanarum (FIRA2 II. Auctores, pp. 541-589) 1.3.2 12.7.10
66 123.57
Corpus iuris civilis I. Institutiones (Krüger) c. Omnem 1 1.2.2.2 1.2.12 1.3.1 1.3.1-3 1.12.5
117 151.203 35-36 64.96 20.86; 172 128 249
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 250
Lauretta Maganzani 2.1.12 ss. 2.1.12-16 2.1.15-16 2.1.17 2.1.18 2.1.19 2.10.13 2.11.1 2.16.6 2.19.4 2.20.1 2.21pr. 3.16pr. 3.16.2 3.17 3.17pr. 3.17pr.-1 3.17.1 3.23.5 3.29.2
25 123.57 24; 25 25 5; 119 5; 122 175 5; 179; 179.305 5; 177 5; 176; 176.289 181.315 184.331 143 5; 143 146; 151.206; 155 5 42; 155 5; 146 136; 136.110 5; 39; 40; 164; 168
II. Digesta (Mommsen) Index auctorum 19 22 1.1.1 1.1.1pr. 1.1.1pr.-1 1.1.1.1 1.1.1.3 1.1.1.4 1.1.2 1.1.3
[F. 1]
1.1.4 1.2.2.45 1.5.2 1.5.4
[F. 25]
1.5.4.2 1.5.4.3 1.5.17 1.5.26 1.8.1pr.
9 15 44 68.108 67 174 25 19.81; 21.89; 109 19.81; 109 7; 8; 17.64; 19-20; 19.81; 21.88; 42; 43; 44; 75; 76-77; 109-111; 117.37; 134.100; 158.240; 174 21-22; 23; 44-52; 45.9; 52; 64-65; 6; 38; 125 36 5; 8; 18.74; 19; 20; 26; 36; 37; 39; 42; 43; 44; 52-64; 74; 75; 92-93; 129-130; 134.100; 172-174 6; 172 6.23; 64; 64.96; 126; 172 73.131 133.95 137; 152
[F. 25] [F. 25]
250
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Fonti antiche 1.8.3 1.8.6.4 1.8.6.5 2.14 2.14.2 2.14.4.3 2.14.7.8 2.14.7.9 2.14.17.3 2.14.17.4 2.14.25.1 2.14.57 2.15.4 2.15.5 3.4 3.4.1pr.-1 3.5.3pr. 3.5.3.6 4.2.12pr. 4.3.1.2 4.3.9.3 4.6.15.1 5.3.13.6 5.3.20.3 5.3.50pr. 6.1.23.1 6.1.43 7.1.42 7.1.68pr. 7.1.68.1 7.1.70.2 7.3.1.2 8.1.14.2 8.2.30pr. 9.2.4pr. 9.2.13.2 10.1.11 10.2.5 11.7.2pr. 11.7.2.5 11.7.2.6 11.7.4 11.7.5 11.7.6.1 11.7.14.4
5; 37; 80-81; 118-120; 122 136 137 169 168.265 168.265 169; 170 6; 39; 159 169 169 169 41; 42; 90-91; 160; 168-170 167 163.251; 165 154.230 154 151 121.52; 151; 151.203; 151.204; 152 121.52 6; 38; 39; 159; 160 134 133.95 194 151.203; 151.204 151.203 137 136 100-101; 187-188 37.10; 121.52 121.52 141.146 151.207 137 184 20.83; 45; 110; 110.6 149; 152 138 135 136 137 137 137.118 136 137 156.234
[F. 5]
[F. 22]
[F. 37]
251
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Lauretta Maganzani 11.7.36 11.7.42 11.7.44 12.1.9pr. 12.1.9.9 12.1.27 12.2.11.1 12.2.20 12.2.21 12.4.7.1 12.6.64 13.5.1.6 13.5.11pr. 13.7 13.7.30 13.7.35pr. 13.7.35.1 13.7.37 14.6.18 15.1.3pr. 15.1.4pr. 15.1.5.3 15.1.5.4 15.1.7pr. 15.1.7.1 15.1.8 15.1.9.2-3 15.1.19.1 15.1.32pr. 15.1.39 15.1.47.6 15.1.49pr. 15.1.52pr. 15.1.57 15.1.57.1 15.1.57.2 15.2.3 16.3.1.44 16.3.5.1 16.3.6 16.3.7pr. 16.3.15 16.3.17 16.3.17.1 16.3.33
130.84 6.20; 7; 37; 84-85; 135-139 136 165 141.148 154.229 121.52 147; 147.182 147; 147.183 115 21.89; 22-23; 65 165 150 162; 170 141.146 9-14; 41; 88-91; 160-163; 170 10; 41; 92-93; 160; 162; 163; 170-172 172.273 149.199 152 27; 27.109; 190 28; 190 27; 27.107; 189 27; 27.107; 189 26-27 27 27; 27.111; 189 28; 190 28; 190 6; 26-28; 26.102; 102-103; 188-190 28; 190 27; 28.112; 189 28 28; 190 190 121.52; 190 121.52 134; 134.101 135 135 134 171 6; 7; 38; 6; 82-85; 134
[F. 12]
[F. 20] [F. 24]
[F. 38]
[F. 11] [F. 11]
252
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Fonti antiche 17.1.12.12 17.2.52.2 18.1.4 18.1.6pr. 18.1.22 18.1.43 18.1.43.2 18.1.51 18.1.72.1 19.1.6.8 19.1.13.6 19.2.36 19.2.40 19.2.41 19.2.60 (59) 19.2.62 19.5.18 21.1.1.1 21.1.19pr. 21.1.19.2 21.1.23.3 21.1.35 21.1.44pr. 21.2.43 22.1.28pr. 22.1.28.1 22.3.10 22.4.5 23.1.1 23.1.2 23.1.3 23.1.4pr. 23.1.4.1 23.1.5 23.1.7.1 23.1.11 23.1.12pr. 23.1.18 23.3.21 23.3.56.1 23.4 23.4.2 23.4.12pr. 23.4.12.1 23.4.14
156.234 156.235 137 137 137 41; 88-89; 155-160 6; 7; 25; 38 137 137 156.235 175.285 6.22; 84-85; 139-142 141.147; 142 141.147; 142 141.146 141.146 135 156-157 156.234; 157 156.235 66 66 66 121.52 121.52 18.74 138 175.285 6.22; 40; 78-79; 111-115 40; 111; 113 37; 40; 78-79; 111-115 114 114 114 114; 115 115 115 114; 115 115 116 116 116.34 116.34 116 116
[F. 19] [F. 19]
[F. 13]
[F. 2] [F. 2]
253
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 254
Lauretta Maganzani 23.4.16 23.4.17 23.4.23 23.4.24 23.4.25 23.4.26pr. 24.1.66pr. 24.3.1 27.1.6.7 27.1.6.12 28.1.24 28.2.17 28.3.6.2 28.5.27.2 28.5.31.1 28.5.32.1 28.5.(49) 50 28.5.60.4 28.5.65 28.6.37 28.7.17 28.7.20.1 29.1.1pr. 29.1.24 29.2.25.10 29.2.37 29.2.54 30.6 30.18 30.34.3 30.34.11 30.34.11-12 30.63 30.69.3 30.71.4 30.116 30.116pr. 30.116.1 30.116.2 30.116.3 30.116.4 31.34.1 31.36 31.47 31.55.1
116 116 116.34 7; 78-79; 117.39 117.39 116.34 175.285 116 72.127 68 37; 94-95; 175 94-95; 176 133.95 6; 26; 178 151.209 129.83 37; 94-95; 176-177 177 152 5; 7; 94-95; 177-178 6; 26; 96-97; 178 153.216 178 5; 37; 96-97; 178-180 98; 180; 181 151.203 6; 41; 42; 88-89; 146; 148-154 186 182 188.345 182 183.330 121.52 184 65 15-17; 98-99; 181-184 6.21; 37; 98-99; 151 98-99; 182-183; 185 98-99; 183 98-99; 153; 183 98-99; 183-184 182 181-182 175 151.206; 152
[F. 3]
[F. 26] [F. 27]
[F. 28]
[F. 29] [F. 30]
[F. 31]
[F. 18]
[F. 34] [F. 34] [F. 34] [F. 34] [F. 34] [F. 34]
254
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 255
Fonti antiche 32.11.2 32.65.3 32.85 33.2.18 33.4.1.1 33.4.17.1 33.7.3pr. 33.8.8.8 33.10.1 33.10.2 34.2.29 34.4.10pr. 34.4.14 34.9.10pr. 34.9.18.2 35.1.27 35.1.34 35.1.65 (63).5 35.1.109 35.2.30.7 35.2.73pr. 35.2.76pr. 35.2.90 35.2.91 35.2.93 36.1.60 (58).3 36.1.65.5 36.4.5.8 37.1.3pr. 37.1.3-4 38.2.28 38.9.1pr. 38.17.1.3 39.3.11.6 39.3.17.3 39.5.14 39.6.31pr. 40.7.4pr. 40.7.6pr.-2 40.11.2 40.12.13.1 41.1.1pr.-1 41.1.2 41.1.3.2 41.1.4
156.234 65 186 156.235 116.34 175.285 121.52 121.52 190 102-103; 190-191 8; 102-103; 191-192 185.333 42; 100-101; 174.283; 184-185 156.235 182 38 26.102; 100-101; 185-187 194.376 193 194 121.52 193 104-105; 192-195 194 194 194 193-194 121.52 151.203 154.230 6; 14-15; 26; 96-97; 180 152 133.95 191 137 191 193 175.285 133.95 21.89; 22; 23 141.147 120 37; 80-81; 120-123 123 6.21; 7; 24-26; 40; 82-83; 120-123; 130
[F. 39] [F. 40] [F. 35]
[F. 36]
[F. 41]
[F. 32]
[F. 6] [F. 8] 255
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Lauretta Maganzani 41.1.5pr. 41.1.5.5 41.1.5.6 41.1.5.7 41.1.6 41.1.10pr.-1 41.1.12pr. 41.1.16 41.1.32 41.1.33pr. 41.1.33.2 41.1.53 41.1.56 41.1.61pr. 41.1.65.4 41.2.3.15-16 41.2.39 41.3.15pr. 41.3.44.3 43.12.1pr. 43.12.1.6-7 43.16.1.27 43.18.2 43.24.11.2 43.24.13.5 43.24.22.4 43.26.4.3 43.26.6.4 44.3.4 44.7.28 45.1.1.5 45.1.45pr. 45.1.65 45.1.73.1 45.1.83.5 45.1.97pr. 45.1.116 45.1.134pr. 45.1.136pr. 45.2.5 45.2.7 45.3.1pr. 45.3.15 45.3.25
121 121-122; 123.57 122; 123.57 18 5; 37; 80-81; 120-123 146 123-124; 124.62 3; 6; 8; 25; 37; 40; 82-83; 123-128; 130 146; 151.206 151.206 151.206; 153.223 146 123-124; 124.63 151.206; 151.207 124 123.57 134; 135 150.201 151.206 127 127 20.83; 45; 110 18 136 148.188; 149; 152; 152.213 136 171 172; 172.273 151.210 167.257 143; 143.159 146 6.23; 37; 41; 42; 86-87; 142-143 151.206; 153.222 137 143; 143.160 144.165 115 143; 143.161 144 5; 6; 38; 41; 42; 86-87; 143-145 146 5; 6.21; 41; 42; 86-87; 145-146; 155 151.206; 151.210; 153.222
[F. 7]
[F. 9]
[F. 14]
[F. 15] [F. 16]
256
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Fonti antiche 45.3.35 46.1.11 46.1.22 46.1.64 46.1.68.1 46.2.1 46.2.2 46.2.10 46.2.16 46.2.20pr. 46.2.24 46.2.25 46.2.31.1 46.2.34pr. 46.3 46.3.1 46.3.2 46.3.5.2 46.3.5.3 46.3.19 46.3.89.2 46.4.7 46.4.11.2 46.4.18
151.206 149 5; 6; 41; 42; 88-89; 148-154; 151.212 175.285 12 167 167 146.177 41; 42; 86-87; 145-148 146.176 152.213 146, 146.178 144.165 147; 147.181 161 42; 161 10; 41; 42; 88-91; 160-163; 170 10-11 11-12 147; 147.179 13 166 151.211 5; 39; 40; 41; 90-91; 144.165; 160; 163-168 141.147 141.146 141.147 154.230 121.52 151.208; 152 66 137 149; 153.219 66 175.285 175.285 14-15; 26; 180 128.76 129.83; 133.94 25; 130-131; 132 128.74 129.83 131-132 128.76
[F. 18]
[F. 17]
[F. 20]
[F. 21]
47.2.12pr. 47.2.14.4 47.2.14.16 47.2.31.1 47.4.1.11 47.4.1.15 47.10.15.35 47.12.3.2 47.19.6 48.8.1.2 48.10.1.4 48.19.9.5 48.20.7.1 49.15.4 49.15.5.1 49.15.5.3 49.15.7pr. 49.15.12pr. 49.15.12.9 49.15.19pr. 257
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 258
Lauretta Maganzani 49.15.19.3 49.15.21.1 49.15.24 49.15.26 49.15.28 50.5.8.4 50.13.1.1 50.13.1.2 50.13.1.3 50.13.1.4 50.13.1.5 50.13.4 50.16 50.16.5.1 50.16.24 50.16.27pr. 50.16.60 50.16.110 50.16.115 50.16.118 50.16.119 50.16.178.1 50.16.182 50.16.198 50.16.208 50.16.209 50.16.211 50.16.239.1 50.17.32 50.17.45pr. 50.17.62 50.17.193
133.94 128.74 128.74; 132.91 6; 7; 24-26; 26.102; 40; 82-83; 118; 128-133 128.78 72.127 72.127 72.127 72.127 72.127 67.106 68 170; 171 140 151.203 171 90; 170; 171 134 171 128.74 151.203 151.203; 151.204 28.113; 190.353 171 151.203 7; 98-99; 180-181 10; 37; 41; 42; 90-91; 160; 170-172 6; 26; 64; 173 21.89; 22; 23; 74.1 171 151.203 153.217
[F. 10]
[F. 33] [F. 23]
III. Codex Iustinianus (Krüger) 1.28.3 2.4.15 2.27.1 3.28.8 3.39.2 4.34.5 5.14 5.14.3 6.30.2 7.41.1
15 168 8 8 138 135 116 116.34 8 123-124, 124.64 258
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 259
Fonti antiche 8.40.28 8.42.1
144.165 13-14
IV. Novellae (Schöll, Kroll) 99
145
Digesta Vd. Corpus iuris civilis II
Dio Cassius Historiae Romanae 52.19.6 78.9.4-5
73 72-73
Dio Chrisostomus Orationes De servitute et libertate 14 15
59; 62-63; 63.95; 172 59
Diodorus Siculus Bibliotheca historica 1.1.3
17; 49
Diogenes Laertius Vitae philosophorum 6.16 7.1.85-86
53.46 48.24
Donatus Ad Terentium Phormio 464
115.30
259
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 260
Lauretta Maganzani Epictetus Diatribae 1.29.60 4.1 ss. 4.8.5 4.8.16
59 59 71.126 71.126
Euripides Hecuba 354 ss.
54
Helena 728 ss.
54
Ion 854-856
54
Eusebius Caesariensis Historia ecclesiastica 2.2.4
15; 68
Festus grammaticus De verborum significatu cum Pauli epitome (Lindsay) s.v. conciliatrix 54.26-27 s.v. conventae condicio 54.28-29 s.v. manceps 115.19 s.v. manceps 137.12 s.v. municipium 155 s.v. spondere 440.1 s.v. religiosus 348 s. s.v. sepulchrum 456
Fragmenta Sinaitica vd. Scholia Sinaitica
260
115.30 115.30 6.23; 26; 173 173.281 126 112.19; 114.27 136 136; 139.123
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Fonti antiche Frontinus De controversiis 8.12 ss. (Thulin) = 20.7 ss. (Lachmann)
124
Fronto Ad Marcum Antoninum de eloquentia liber 4.5
71.126
Epistularium De bello parthico 3
64.99
Gaius Institutiones (FIRA2, II. Auctores, pp. 3-192) 1.8 1.52 1.52-53 1.55 1.155-156 2.14 2.65 2.68 2.73 2.86-87 2.166 2.221 3.113 3.126 3.163 3.169 3.169-170 3.176 3.179 3.213
35.3 18-19; 21.90; 146 65 17; 19 18 151.203 18 24; 123.57 18 146 181 183 145 145 146 166 163 147 148 66
261
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Lauretta Maganzani Galenus Protrepticos (ΠΡΟΤΡΕΠΤΙΚΟΣ ΛΟΓΟΣ ΕΠΙ ΤΑΣ ΤΕΧΝΑΣ)– Exortatio ad artes addiscendas (Kühn) 1.4 69 14.6 68.108 Quod optimus medicus sit quoque philosophus (Kühn) 3.10
69
Gellius Noctes Atticae 4.3.2 4.4.1-3 9.2.1 ss. 13.10.1 13.13.1 16.13.8 17.19.1 20.11.5
116 113 71.126 68.108 5; 68 126 71.126 134
Gorgias Fragmenta (Diels, Kranz = D.K.) 82B5b
55.60
Gregorius Nyssenus In Ecclesiastem homiliae 4.334-335
24.98
[Gregorius Thaumaturgus] Oratio panegyrica in Origenem (Crouzel) 7 60 61 60-62 64-65 65 68
5; 70 5 70 70 5; 70 70 5 262
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Fonti antiche 77 192
5; 70 5; 70
Heraclitus (Diels, Kranz = D.K.) 22B53
53.44
Hieronimus Stridonensis De viris illustribus 53 (Tertullianus)
15
Hippias (Diels, Kranz = D.K.) 86C1
47.19
Historia Augusta Vita M. Antonini philosophi 13.4 Vita Alexandri Severi 68.1
137.116 4
[T. 1]
Institutionum Graeca paraphrasis Theophilo Antecessori vulgo tributa (Ferrini) 1.3.1 64.96 Isidorus Hispalensis Etymologiae sive Origines 9.7.3-4
113.22
Isocrates Panegyricus 43 132
47 55.60
263
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Lauretta Maganzani Iuvenalis Saturae 6.25-26
115.30
Lactantius Divinae Institutiones 5.8.10
50.30
Lex de sepulchris 271 (Lachmann) = 510-513 (Del Lungo)
138.120
Lex duodecim tabularum (FIRA2, I. Leges, pp. 21-75) 8.12-14
45.7; 110.2
Libanius Orationes 4.18
69.118
Livius Ab urbe condita 1.26.2 29.23.3
114 112; 112.13
Lucianus De morte peregrini 1 ss.
72.126
Fugitivi 56.14
71.126
264
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Fonti antiche Lucretius De rerum natura 1.455-458
58.72
Marcus Aurelius 2.1 4.4 7.13 7.55 8.34 9.1 10.6 11.8
51; 51.36 51.35 51.35 51.35 51.35 52; 52.40 51.35 51.35
Maximus Tyrius Dissertationes 26.2.37 ss.
72.126
Micael Attaliota ( J., P. Zepos) Opus de iure 7.453
123.61
Nepos (Cornelius) De viris illustribus 25.12.2 (Atticus. Ex libro de latinis historicis)
115.30
Nonius Marcellus De compendiosa doctrina Lit. F fr. 1 s.v. Famulantur = Lindsay 155 5.69 = Lindsay 706
59-60; 60.83 115.30
265
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Lauretta Maganzani Pauli sententiae (FIRA2, II. Auctores, pp. 317-417) 2.17.7 5.8
121.52 146.176
Persius Saturae 5.73 ss. 5.82 5.83 ss.
59 58.73 172
Petronius Satyricon 15 71
134 71.126
Philemon (Kock) II.1 fr. 95, p. 508
55
Philo Alexandrinus De specialibus legibus II.16.69
58
Quod omnis probus liber sit (Petit) 1 17-25 32-37 41 48-55 62 152-159
58.75 58.75 58.75 58.75 58.75 58.75 58.75
Philostratus De vita sophistarum 2.1
72.126
266
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Fonti antiche Vita Apollonii Tyanei 2.14 7.42.2
26 68
Plato Alcibiades I 134 e – 135 a
62; 62.93
Gorgias 468 468 d-e
172 58; 58.74
Leges 776 b ss. 777 b-d 870 d-e 874 b-c 881 b
55 56; 56.66 110.2 110.2 110.2
Politicus 309 a
55
Protagoras 337 ss. 337 c-d
47 54
Respublica 469 b-c 469 b – 471 b 470 b 578 d
55 55.60 47 55
Plautus Aulularia 204-205 255-257 685
112; 112.14 114.23 112; 112.15
Curculio 672-675
114.23
267
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 268
Lauretta Maganzani Miles gloriosus 1410
115.30
Poenulus 1156
114.23
Trinummus 386 442-444 499-502 569-575 1156-1163
115.30 115.30 114.23 114.23 114.23
Plinius minor Epistulae 2.4.2
166
Panegyricus Traiani 37.3
126
Plutarchus Moralia Quomodo quis suos in virtute sentiat profectus 81 B
72.126
Vitae parallelae Gaius Marius 14
46
Porphirius De abstinentia ab esu animalium (Nauck) 3.25.16 ss.
48.21
Quintilianus Institutio oratoria 1.10 1.18
69 69 268
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Fonti antiche 3.11.14 12.3.1 ss. 12.3.12
46 69 71.126
[Quintilianus] Declamationes maiores 9.15 13.8
51-52 61; 61.89; 119
Declamationes minores 268.5 283.5
71.126 71.126
Rhetorica ad Herennium 2.18.1
167
Sallustius De coniuratione Catilinae 23.3
156.235
Scholia Sinaitica ad Ulpiani libri ad Sabinum (FIRA2, II. Auctores, pp. 635-652) 13.35 [T. 2, F. 4]
4; 78-79; 117-118
Seneca maior Controversiae 7.6.18
61; 61.88
Seneca philosophus De beneficiis 2.17.2 3.19.2 3.20.1 3.21.2 3.28.1-2
71.126 59; 173.279 59; 173.279 59; 173.279 50; 50.31
269
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 270
Lauretta Maganzani De brevitate vitae 10.1
71.126
Epistulae morales ad Lucilium 5.1 44.1 47.2-5 47.10 47.10-13 95.52-53 108.36 111.1-4
71.126 50; 50.32 59; 173.279 50; 50.33 59; 173.279 50; 50-51.34 71.126 71.126
Servius grammaticus Ad Aeneidem 3.22.14-15 10.79 10.723 11.133
136 113.22 115.30 134
Stobaeus Anthologium 2.116.19-152.5 4.39.28
49.29 49.29
Tacitus Annales 3.75
68.108
Terentius Andria 99 ss.
114.23
Phormio 68
156.235
270
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 271
Fonti antiche Tertullianus Adversus Valentinianos 6.2
16; 182.323
De carnis resurrectione 7.2
16; 182.323
De patientia 8.1
16; 182.323
In Marcionem 1.22.7
16; 182.323
Theophrastus De pietate (Pötscher) 20
47; 47.20
Theognis 535-538
53.46
Tipucitus (Hoermann, Seidl) 50.1.15
123
Tituli ex corpore Ulpiani (FIRA2, II. Auctores, pp. 259-301) 2.12 6.4 6.10 19.18 24.1 24.22 24.29
184 116 116 146 181-182 182 184
Valerius Maximus 6.1.12
46
271
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 272
Lauretta Maganzani Varro De lingua latina 6.70-72 6.85
114.24 173
Vaticana fragmenta (FIRA2, I. Auctores, pp. 461-540) 87 108 120
182 116 116; 116.34
Vergilius Aeneis 1.1 3.303-305
6.23; 86; 142 137
Vitrivius De architectura 1.7
69
Xenophon Agesilaus 7.6
55.60; 64.99
Cyropaedia 7.73
53.44; 64.99
Memorabilia 4.2.14-15.
53.44
272
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Fonti antiche EPIGRAFI
Année Épigraphique (AÉ) 1964, 86
139
Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) 6.29773
139
Lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis (FIRA2 I. Leges, nr. 21; Crawford, Roman Statutes I, nr. 25) c. CXXV l. 28 c. CXXVI l. 46 c. CXXVIII l. 30 c. CXXIX l. 38 c. CXXXI l. 13 c. CXXXII ll. 32-33
167 167 167 167 167 167
Lex municipii Malacitani (FIRA2 I. Leges, nr. 24) c. LVIII l. 5 c. LXII ll. 71-72 c. LXVII ll. 48-49
167 167 167
Lex municipii Salpensani (FIRA2 I. Leges, nr. 23) c. XXIII ll. 18-19 c. XXVI l. 11
126 167
Monumentum Ephesenum/Lex portus Asiae (Cottier et alii) 1 ss. 155
Tabulae Pompeianae Sulpiciorum (Camodeca, TPSulp.) 40 (= TP 28 + 105)
134
273
SIR_XIV_06_Apparati.qxp_Layout 1 04/05/22 11:12 Pagina 274
Lauretta Maganzani PAPIRI
P. Giessen 40.I (FIRA2. I. Leges, nr. 88 = Purpura, Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani. Studi preparatori, Torino 2012, pp. 695-732) c. I (ll. 1-26) 73; 73.130; 73.131 P. Oxyrhynchus (P. Oxy.) 1364 fr. 2
53
274
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Scriptores ivris Romani
direzione di Aldo Schiavone
Volumi pubblicati: 13. Iulius Paulus. Ad edictum libri IV-XVI Giovanni Luchetti, Martina Beggiato, Sabrina Di Maria, Fabiana Mattioli, Elena Pezzato, Ivano Pontoriero (2022) 14 Florentinus. Institutionum libri XII Lauretta Maganzani (2022)
Svbsidia 1. Giuseppe Falcone, Studi sui commentarii ‘istituzionali’ di Gaio. I. Formazione e natura dell’opera (2022)
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Finito di stampare nel mese di maggio 2022 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Tipografia CSC Grafica s.r.l. via A. Meucci, 28 00012 - Guidonia - Roma