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Italian Pages 244 Year 2011
Università degli Studi di Siena Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea Specialistica in Filosofia Tesi in Storia della filosofia contemporanea
Un’indagine su Wittgenstein. Il tema del nonsenso dal Tractatus alle Ricerche
Relatore: Prof. Giuseppe Varnier Controrelatore: Prof. Sandro Nannini
Candidato: Marco Ambra Matricola: 013831
Anno Accademico 2010-2011
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Indice
Introduzione
Capitolo 1. Il nonsenso da Wittgenstein a Frege 1.1 La vita segreta delle cose: il tema del nonsenso, la semantica e l’ontologia del Tractatus 1.1.1 La proposizione come immagine: comprendere e raffigurare 1.1.2 Immagine e pensiero: l’analogia della proiezione 1.1.3 Gli oggetti e i limiti del senso 1.2 Il nonsenso del Tractatus 1.2.1 Il nonsenso muto e il nonsenso che illumina: la proposizione 6.54 tra letture risolute e letture tradizionali 1.2.2 Wittgenstein, Frege e la nozione di insensatezza dal Tractatus alle Ricerche
Capitolo 2. Le «ruote che girano a vuoto» e la cultura austriaca 2.1 Nonsenso ed esilio 2.2 Hofmannsthal, Wittgenstein e il silenzio 2.2.1 La Lettera di Lord Chandos: la crisi del segno e la crisi del soggetto 2.2.2 Silenzio e azione intenzionale in L’uomo difficile 2.3 Critica del linguaggio e nonsenso: Mauthner e Wittgenstein 2.3.1 Sprachkritik e filosofia 2.3.2 Metafora e nonsenso
Capitolo 3. Nonsenso ed etica 3.1 Le interpretazioni del nonsenso etico del Tractatus 3.2 La geografia kantiana del (non)senso etico, l’interpretazione di Schopenhauer e l’etica del Tractatus 3.2.1 I confini della ragion pratica e i limiti del discorso morale 3.2.2 La critica di Schopenhauer alla fondazione della morale kantiana e la volontà nel Tractatus 3.3 La Conferenza sull’etica: dal nonsenso etico al senso secondario 3
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Introduzione
Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pàthos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo. (NIETZSCHE F., Su verità e menzogna in senso extramorale).
Qual è il tuo scopo in filosofia? – Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola. (WITTGENSTEIN L., Ricerche filosofiche, § 309).
La proteiforme opera filosofica di Wittgenstein, dagli scritti preparatori al Tractatus alle osservazioni pubblicate nelle Ricerche filosofiche, colpisce il lettore per due caratteristiche apparentemente contraddittorie tra loro. Da un lato tra la sua opera principale e le annotazioni pubblicate dai suoi esecutori testamentari emergono fratture e discontinuità forti, sia dal punto di vista della varietà dei temi trattati che da quello del modo di affrontare lo stesso tema. Dall’altro, esprimono ricorrenze di concetti e modi di esplorare le relazioni tra questi concetti che sfiorano l’ossessione. Del resto sono note le considerazioni del filosofo sul proprio modo di lavorare e sulla natura del suo talento filosofico, contrassegnate dalla categoria della riproduttività, dalla considerazione del medesimo aspetto di un problema da posizioni differenti o addirittura alternative1. Il tema del nonsenso e quello complementare dei limiti della sensatezza esibiscono la seconda caratteristica menzionata, rappresentano infatti un esempio evidente di motivo
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Sul carattere esclusivamente riproduttivo del proprio contributo alla filosofia, si vedano le osservazioni di Wittgenstein sulla differenza tra genio e talento, e sul collegamento tra questa capacità riproduttiva e l’ebraismo: « Il “genio” ebreo è solo un santo. Il più grande pensatore ebreo non è che un talento. (Io, per esempio). Vi è del vero, credo, se ritengo che nel mio pensiero io sia propriamente solo riproduttivo. Io credo di non aver mai inventato un corso di pensiero; al contrario , mi è sempre stato dato da qualcun altro […]». (in WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, tr. it. a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, p. 47). Wittgenstein era convinto, almeno negli anni Trenta, che il suo contributo alla filosofia consistesse esclusivamente nella considerazione da nuove prospettive dei problemi concentrati nelle sezioni del Tractatus: « Peraltro, quando ero in Norvegia, nel 1913-14, avevo pensieri miei propri, così almeno mi sembra adesso. Voglio dire che ho la sensazione di aver fatto allora nascere in me nuovi corsi di pensiero (ma forse mi sbaglio). Adesso, invece, sembro servirmi solo di quelli vecchi ». (in Pensieri diversi, op.cit., p.49).
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ricorrente nell’evoluzione del pensiero di Wittgenstein2. L’obiettivo principale di questo lavoro è dunque quello di identificare il ruolo che la nozione di nonsenso gioca nel Tractatus per poi individuare le variazioni sul tema avanzate dal “secondo” Wittgenstein negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Per raggiungerlo è però necessario investire della dovuta attenzione la “fase di transizione” del suo pensiero, quel groviglio di annotazioni, osservazioni e trascrizioni di lezioni tenute a Cambridge negli anni Trenta e pubblicate con diversi titoli: The Big Typescript, Libro Blu e Libro Marrone, le Lezioni del 1930-33, le Conversazioni con il Circolo di Vienna. Una prima conseguenza di questo approccio dovrebbe essere quella di restituire un’immagine di trasformazione progressiva del tema del nonsenso dal “primo” al “secondo” Wittgenstein. Che la nozione di nonsenso, pur nella continuità, si trasformi parallelamente al cambiamento delle idee di Wittgenstein sul linguaggio appare evidente. Nel Tractatus la nozione di nonsenso intreccia due concetti fondamentali della filosofia del “primo” Wittgenstein: il primo è che la logica abbia a che fare con l’identificazione di quali serie di segni siano proposizioni in grado di raffigurare la realtà; il secondo è l’immagine kantiana della filosofia come attività critica volta a tracciare i confini tra il discorso legittimo della scienza e la speculazione illegittima della metafisica. L’intreccio di queste due prospettive è evidente sin dalla Prefazione, l’obiettivo del Tractatus è infatti:
[…] tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all’espressione dei pensieri: Ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo dunque poter pensare quel che non si può). Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso.
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Lo scopo della filosofia è individuare i limiti del pensiero, perché è nel pensiero che rappresentiamo la realtà. Ma i pensieri, per il “primo” Wittgenstein antipsicologista, non sono entità astratte o mentali. Sono piuttosto il senso dispiegato delle proposizioni; segni proposizionali in una relazione raffigurativa con il mondo. I limiti del pensiero, i confini tra discorso sensato e insensatezza, devono essere tracciati nel linguaggio. In 2
Il tema del nonsenso e dei limiti del senso potrebbe essere definito, sulla scorta delle considerazioni di Stanley Cavell, una “vena” nel pensiero di Wittgenstein. Cfr. CAVELL S., La riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico, ed. it. a cura di D. Sparti, Carocci, Roma 2001, p.28: in questo passo Cavell definisce “vena” del pensiero di Wittgenstein la nozione di “criterio”. 3 WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, ed. it. a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1998, p. 23. D’ora in avanti il Tractatus verrà citato con la sigla TLP seguita dal numero della sezione e dalla pagina relativa all’edizione italiana menzionata.
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questo passo cruciale per la definizione della nozione di nonsenso si incontrano la chiave di accesso alla filosofia del Tractatus, (ovvero la teoria raffigurativa del linguaggio) con il tema kantiano dei limiti della conoscenza, (declinato qui nella forma dei limiti del discorso sensato). Vedremo nel corso della trattazione come la nozione di nonsenso perda nella “fase di transizione” il suo legame rigido con la teoria raffigurativa del linguaggio, parallelamente allo sviluppo da parte di Wittgenstein della nozione di significato come uso e di quella di gioco linguistico. Ciò che Wittgenstein viene gradualmente criticando è la sua concezione del Tractatus per cui il senso di una proposizione sia una caratteristica determinata esclusivamente dalla forma o dai costituenti semplici di quel tipo di proposizione. Nella “fase di transizione” matura infatti l’idea che a determinare o meno il senso di una proposizione sia l’uso delle parole in una particolare occasione. I limiti del senso, per il “secondo” Wittgenstein non sono inesorabilmente dati una volta per tutte ma sono sempre relativi alle circostanze in cui si trovano immersi i parlanti, ai contesti d’uso delle parole. La sua strategia di definizione dei limiti del senso, e di identificazione di casi di nonsenso perde allora l’afflato prescrittivo del Tractatus per assumere una dimensione descrittiva. I casi di nonsenso illuminano i limiti sfumati della sensatezza e aiutano a determinarne i contesti d’uso: « Che questa o quest’altra proposizione non abbia senso, è significativo in filosofia; ma significativo è anche che suoni comica »4 . La caratteristica più importante di questa nuova strategia “deflazionista”5 riguarda l’apparenza di nonsenso che si produce nell’uso di giochi linguistici per esprimere esperienze nuove (e questo vale tanto per il discorso scientifico quanto per quello artistico-letterario). È possibile individuare, relativamente a questo aspetto della questione, due conseguenze importanti per la riflessione dell’ultimo Wittgenstein sul ruolo della filosofia e sull’etica. In primo luogo i giochi linguistici che utilizzano parole o espressioni insensate in relazione ai contesti d’uso familiari esibiscono questa apparente insensatezza solo perché impiegate in modo nuovo; come reazione linguistica al presentarsi di una nuova esperienza. È ovvio a questo punto chiedersi rispetto a cosa l’uso di una parola possa 4
WITTGENSTEIN L., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, ed. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 328, p.73. 5 Anche in questo caso, come in molti altri delle Ricerche Filosofiche (significato come uso, ruolo semantico e ontologico della grammatica di un’espressione) Wittgenstein assume un atteggiamento deflazionista: il problema non è stabilire se esistano o meno delle condizioni di soddisfazione precise per l’uso della nozione di “nonsenso”, quanto mostrare che dal punto di vista grammaticale e filosofico se si afferma questo non si è ancora detto niente di rilevante sul significato del nonsenso, sul suo “potere semantico” nei nostri giochi linguistici; cfr. VOLTOLINI A., Guida alla lettura delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 1998, p.32.
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essere definito “nuovo”. Ebbene, il “secondo” Wittgenstein introduce la grammatica del nonsenso a partire da un’altra nozione chiave sviluppata nella “fase di transizione”: la nozione di regola. L’insensatezza di un’espressione (come nel caso del nuovo impiego di una parola in un contesto scientifico o letterario) nasce da un allontanamento dalle regole grammaticali che innervano la quotidianità linguistica. Sotto questo aspetto del tema del nonsenso ricadono le dottrine metafisiche della tradizione filosofica occidentale, interpretate da Wittgenstein come contesti vuoti e “parassitari” rispetto ai giochi linguistici quotidiani6. In secondo luogo, la caratterizzazione della nozione di nonsenso che prende corpo nella “fase di transizione”, permette di spiegare il nesso che per il “secondo” Wittgenstein lega l’uso di espressioni linguistiche nel discorso etico con l’uso delle medesime espressioni nei giochi linguistici relativi alla descrizione di fatti. Mi riferisco qui alla nozione di “impiego secondario” come chiave di volta per quei contesti nei quali vige un’apparente insensatezza rispetto all’ambito scientifico (il discorso etico, il discorso religioso, la narrazione letteraria) 7. Entrambi questi aspetti della trattazione del
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Sulla sovrapposizione di una dottrina filosofica arbitrariamente unificatrice alla molteplicità effettiva degli usi linguistici cfr. WITTGENSTEIN L., Ricerche Filosofiche, tr. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967, §§ 92, 108 e 114-116, pp. 61, 65 e 67; d’ora in avanti le Ricerche verranno citate con la sigla RF seguita dal numero del paragrafo citato e dalla pagina dell’edizione italiana menzionata. Una riflessione più intensa, se non altro più ricca di riferimenti alla tradizione filosofica occidentale, è presente nella sezione di The Big Typescript intitolata “Filosofia”; si noti che in queste annotazioni dettate all’inizio del 1932 Wittgenstein distingue la sua filosofia da quella della tradizione non sulla base dell’appartenenza al campo del dicibile quanto per un diverso approccio ai problemi fondamentali di questa tradizione: « Detto di passaggio, nella/secondo la/vecchia concezione, per esempio quella dei grandi filosofi occidentali, esistono due generi di problemi in senso scientifico: problemi essenziali, grandi, universali, e problemi inessenziali, quasi accidentali. E, all’opposto, secondo la nostra concezione non esistono grandi problemi, essenziali, nel senso della scienza. » (in WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, ed. it. a cura di A. De Palma, Einaudi, Torino 2002, pp. 405-431). Sul carattere vuoto dei contesti filosofici, sul loro rapporto parassitario rispetto alla forma di vita: « Il dubbio ha certe manifestazioni caratteristiche, ma queste sono le sue caratteristiche soltanto in certe circostanze. Se un tizio dicesse che dubita dell’esistenza delle sue mani, e continuasse sempre a guardarle da tutte le parti, e cercasse di convincersi che non c’è alcun trucco fatto con gli specchi, o altre cose del genere, noi non saremmo sicuri di poter dire che tutto questo è un dubitare. Potremmo descrivere il suo modo di agire come uno dei comportamenti simili al dubitare, ma il suo giuoco non sarebbe il nostro. »; « Siedo in giardino con un filosofo. Quello dice ripetute volte: «Io so che questo è un albero», e così dicendo indica un albero nelle nostre vicinanze. Poi qualcuno arriva e sente queste parole, e io gli dico: «Quest’uomo non è pazzo: stiamo solo facendo filosofia.» » (in WITTGENSTEIN L., Della Certezza. L’analisi filosofica del senso comune, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, § 255 e 467, p. 41 e p. 75). 7 Quanto al modo in cui Wittgenstein maturi la nozione di “impiego secondario” mi pare esemplare il § 282 delle Ricerche: « […] Anche delle cose inanimate diciamo che provano dolore: per esempio, nei giuochi con le bambole. Ma questo è un impiego secondario del concetto di dolore. Immaginiamo invece il caso in cui soltanto delle cose inanimate la gente dica che provano dolore; commiseri soltanto le bambole! (Quando i bambini fanno il giuoco del treno, il giuoco dipende dalla loro conoscenza dei treni veri. Ma bambini appartenenti a una tribù che non conosce le ferrovie potrebbero aver appreso questo giuoco da altri, e potrebbero giocarlo senza sapere che, così facendo, imitano qualcosa. Si potrebbe dire che per quei bambini il giuoco non ha lo stesso senso che per noi.) » ( in RF, § 282, p.129). Un’analisi dettagliata della nozione di “impiego secondario” soprattutto in relazione al discorso etico è stata
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nonsenso nella filosofia del “secondo” Wittgenstein verranno approfonditi in maniera trasversale ai tre capitoli.
Nel primo capitolo il tema del nonsenso viene analizzato a partire dal modo in cui emerge nel Tractatus, dal suo legame con la teoria raffigurativa del linguaggio. Per chiarezza d’esposizione è bene premettere che la ricostruzione di questo legame seguirà l’interpretazione dell’ontologia degli oggetti semplici (TLP 2.011-2.0271) e dell’ineffabilità delle proprietà semantiche da essi veicolate (TLP 3. 1432) avanzata da Jakko e Merrill Hintikka e ripresa recentemente con alcune modifiche importanti da Pasquale Frascolla8. Come vedremo in seguito, entrambe individuano nella teoria raffigurativa del linguaggio un intreccio fondamentale con il tema di derivazione kantiana dei limiti del linguaggio: «La dottrina kantiana dei limiti della nostra conoscenza e dell’inconoscibilità delle cose in sé stesse, cioè delle cose considerate indipendentemente dalle nostre attività conoscitive e dai mezzi che esse impiegano, dovrebbe di per sé corrispondere ad una dottrina dei limiti del linguaggio intesa nel senso di una dottrina dell’inesprimibilità delle cose indipendentemente da qualche particolare linguaggio»9. La consapevolezza della reciproca dipendenza tra le cose considerate in astrazione nel linguaggio e l’ineffabilità dei legami semantici che raffigurano le relazioni tra le cose nella realtà assumerebbe nella filosofia postkantiana una connotazione paradossale. Nel Tractatus la consapevolezza dell’ineffabilità della semantica sarebbe espressa nel paradosso della sezione 6.54, nella dichiarazione di insensatezza riferita alle stesse sezioni che compongono l’opera. La sezione 6.54 è uno scoglio contro cui si infrangono tutte le interpretazioni del nonsenso nel Tractatus. Nel primo capitolo prenderemo in considerazione la più recente, quella che ha dato vita ad un atteggiamento complessivo nei confronti dell’intero pensiero wittgensteiniano, nota come “lettura risoluta”10. L’espressione, introdotta negli anni Novanta, fa riferimento al modo in cui secondo Cora Diamond e sviluppata da Cora Diamond: cfr. DIAMOND C., The realistic spirit: Wittgenstein, philosophy and the mind, MIT press, Cambridge 1991, pp. 233-240. 8 Cfr. HINTIKKA J.-HINTIKKA M., Indagine su Wittgenstein, tr. it. a cura di M. Alai, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 77-132 e FRASCOLLA P., Understanding Wittgenstein’s Tractatus, Routledge, Londra 2007, cap. 3, pp. 71-84. 9 HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op. cit., p.23. 10 Sebbene l’espressione sia stata introdotta da Thomas Ricketts, il modo “risoluto” di leggere la 6.54 viene enunciato per la prima volta alla fine degli anni Ottanta, nel saggio di Diamond dal titolo Throwing Away the Ladder: How to Read the Tractatus (in DIAMOND C., op. cit., pp.179-204) e in un articolo di Conant (CONANT J., Throwing away the top of the ladder, «The Yale Review», Vol. 79, No. 3 (1990), pp. 328-364). Per una storia della lettura “risoluta” cfr. CONANT J., DIAMOND C., Rileggere Wittgenstein, a cura di P. Donatelli, Carocci, Roma 2010, pp. 269-287.
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James Conant si dovrebbe leggere la sezione 6.54. La “lettura risoluta” assume una fisionomia ben definita principalmente in contrasto con ciò che i suoi sostenitori definiscono modi “irresoluti” di interpretare questa osservazione. Quest’ultimi sarebbero accomunati dalla concezione delle proposizioni del Tractatus che per quanto “in senso stretto” siano insensate abbiano comunque il potere di comunicare delle verità metafisiche sulla natura della realtà, del pensiero e del linguaggio. I modi “irresoluti” di leggere 6.54 dichiarano dunque che le proposizioni del Tractatus vanno lette come nonsensi ma poi, sul più bello, si tirano indietro dal trarre tutte le conseguenze di questa affermazione e individuano in quei nonsensi un insieme di verità metafisiche velate dall’insensatezza delle proposizioni che le enunciano. Al contrario, secondo Conant e Diamond, leggere la 6.54 in modo “risoluto” significa comprendere che le proposizioni del Tractatus non siano finalizzate alla comunicazione di un contenuto speciale, ma vadano piuttosto riconosciute come semplicemente insensate (plain nonsense); ovvero come sequenze di parole che non dicono niente. Il ruolo dei nonsensi semplici dei quali è costituito il Tractatus, e dunque quello dell’attività filosofica sarebbe secondo la lettura “risoluta” di delucidare (erläutern), di perseguire il rischiaramento logico dei pensieri. Uno degli obiettivi principali del primo capitolo è quello di mettere in discussione come e in che misura la nozione di delucidazione (Erläuterung) sia ereditata da Wittgenstein a partire dall’uso che ne fa Frege nei suoi saggi filosofici. Conant e Diamond vedono una continuità tra Frege e Wittgenstein che coinvolge una concezione austera del nonsenso (esattamente il “nonsenso semplice” delle proposizioni del Tractatus) e una concezione della nozione di verità come “dispiegamento”. Sarebbero questi i due presupposti forti della lettura “risoluta” a sostegno della strategia di riduzione del ruolo della nozione di nonsenso delle proposizioni del Tractatus. Per il momento basti accennare al fatto che questa prospettiva sul “grande debito”11 di Wittgenstein nei confronti di Frege privilegia gli aspetti di contorno della teoria semantica del logico di Jena, mettendone in secondo piano l’interesse per l’epistemologia e la teoria della conoscenza12. Vi è poi un terzo presupposto non interamente analizzato su cui si reggono le letture “risolute”, ovvero la legittimità di leggere in sequenza le sezioni 6.53-7. 11
È con questa espressione che E. H. Reck si riferisce al sodalizio intellettuale tra Frege e Wittgenstein, cfr. RECK E. H., Wittgenstein’s “great debt” to Frege. Biographical Traces and Philosophical Themes, in From Frege to Wittgenstein: perspectives on early analytic philosophy, ed. by RECK E.H., Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 3-37. 12 Una rivalutazione della centralità di temi epistemologici nella logica di Frege, sulle sue “radici continentali”, è presente in CARL W., Frege’s theory of Sense and Reference. Its origins and its scope, Cambridge University Press, Cambridge 1994.
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Nell’interpretazione di Conant, infatti, il silenzio della sezione 7 rappresenterebbe l’esito necessario dell’identificazione nelle proposizioni del Tractatus di “semplici nonsensi”13. Ammesso dunque che la lettura “risoluta” eserciti una sua efficacia ermeneutica rispetto al paradosso della 6.54 resta da verificare se il suo modo di leggere il Tractatus sia in armonia con le indicazioni sul metodo di lettura suggerite dal suo autore. Anche in questo caso basti qui accennare a ciò che verrà esposto nel primo capitolo: l’esistenza di letture della struttura del Tractatus in aperta contraddizione con il terzo presupposto della lettura “risoluta”14. Una volta vagliata in relazione al tema del nonsenso la consistenza di queste letture “risolute”, alla fine del primo capitolo emergerà come l’influenza di Frege vada ben al di là della nozione di delucidazione e del Tractatus. Alcuni luoghi della “fase di transizione” rappresentano un buon sostegno a favore della tesi per cui la strategia “deflazionista” applicata alla nozione di nonsenso che Wittgenstein venne progressivamente perseguendo sia connotata da due elementi di continuità rispetto a Frege. Innanzitutto una visione comune dell’ordine delle spiegazioni filosofiche fondamentali, di ciò che in esse viene prima e ciò che viene dopo. Anche in questo caso emergerà come il “secondo” Wittgenstein compia un rovesciamento dell’ordine della spiegazione metafisica della tradizione occidentale. Il secondo elemento di continuità riguarda la riproposizione nelle Ricerche del “principio del contesto” fregeano per determinare il significato di un’espressione all’interno di un gioco linguistico15. Tanto il primo quanto il secondo elemento di continuità mettono in rilievo lo sfondo filosofico sul quale Wittgenstein elabora le sue idee sul nonsenso; uno sfondo marcato dalla continuità con alcune idee di Frege.
Esiste tuttavia almeno un altro filone che insieme a Frege contribuisce a determinare lo sfondo della riflessione wittgensteiniana sul nonsenso. Si tratta del contesto culturale viennese e della sua sensibilità alla critica del linguaggio. Nel secondo capitolo la “pista viennese” viene esplorata limitatamente ad alcuni autori che ne costituiscono il vasto panorama. Come ha osservato Aldo G. Gargani: « A livello di un linguaggio 13
Cfr. CONANT J., DIAMOND C., op. cit., pp. 66-69. In questa interpretazione il silenzio sarebbe l’esito necessario del riconoscimento che al di là dei limiti del linguaggio non ci sia alcuna verità ineffabile ma “semplice nonsenso” (einfach Unsinn). 14 Mi riferisco alla struttura ad albero del Tractatus e alle conseguenze che essa dispiega sull’interpretazione delle sue sezioni; cfr. BAZZOCCHI L., L’albero del Tractatus. Genesi, forma e raffigurazione dell’opera mirabile di Wittgenstein, Mimesis, Milano-Udine 2010. 15 Cfr. RECK E., Frege’s influence on Wittgenstein: reversing metaphysics via the context principle, in Early analytic philosophy. Frege, Russell, Wittgenstein ed. by TAIT W. W., Open court, Chicago 1997, pp. 123-185.
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generalizzato (senza per questo costituire una teoria) l’opera di Wittgenstein risente della problematica di questo sfondo socioculturale. Ne è la prova l’enfasi posta da Wittgenstein sul rifiuto dei concetti generali che egli riduce a “somiglianze di famiglia”, sui concetti universali che come tali gli appaiono “sospetti”, sull’impossibilità di decifrare il linguaggio sulla base di un assetto di principi generali; infine sulla consapevolezza che una cultura unitaria è venuta meno »16. Questa stessa incapacità, questo stesso senso di impotenza nei confronti delle parole, alberga nella prosa di Hugo von Hofmannsthal. A livello superficiale il “primo” Wittgenstein e Hofmannsthal sono accomunati dall’esito cui l’angoscia che scaturisce dal confronto con i limiti del linguaggio li conduce: il silenzio. Per il Tractatus, una volta appurati i limiti del linguaggio, una volta che il lettore ha preso coscienza della teoria della raffigurativa del linguaggio, non si deve cedere alla tentazione di impiegare il linguaggio al di là di questi limiti. La pena da pagare in casi del genere è la caduta del proprio discorso nel girone infernale del nonsenso. Dalla prospettiva del Tractatus ogni tentativo di esprimere il senso del mondo e della vita infrange questi limiti, ed esprime dunque un’incapacità del discorso sensato. Vedremo meglio nel secondo capitolo la relazione che lega la nozione di nonsenso alla settima sezione del Tractatus, ovvero un’incapacità del linguaggio dettata dai suoi limiti, riflettersi nella vicenda che Hofmmansthal rappresenta nella Lettera di Lord Chandos. Come il silenzio del Tractatus rappresenta la stazione di arrivo del dispiegamento di un punto di vista filosofico generale sul rapporto tra linguaggio e mondo (una Weltanschauung), così la vicenda di Lord Chandos non vuole tanto alludere all’ineffabilità dell’esperienza individuale quanto indicare la necessità di una letteratura che non sia confinata nella sfera della sensibilità soggettiva. Nel fallimento di questo progetto e nella conseguente rinuncia di Lord Chandos alla letteratura si attua la dissoluzione del soggetto quale principio ordinatore della realtà in maniera del tutto analoga al modo in cui nel Tractatus viene svolto il tema del solipsismo semantico e della collocazione del soggetto metafisico ai limiti del mondo. Ma se per Wittgenstein la prospettiva generale sul linguaggio e sul mondo del Tractatus si trasforma nella visione sempre parziale della pluralità di intrecci tra giochi linguistici e pratiche umane, allora anche la crisi che Hofmannsthal rappresenta nella vicenda di Lord Chandos può trovare una (dis)soluzione nell’abbandono del linguaggio alla propria autonoma dinamica. È in questa chiave che è possibile leggere la “commedia mondana” L’uomo difficile: il suo protagonista, 16
GARGANI A. G., Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, p. 28.
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l’aristocratico viennese Hans Karl Bühl, non cede mai alla seduzione del linguaggio, alla possibilità di concretizzare la propria volontà nelle parole. Al contrario, lasciando autonomia al libero gioco delle volontà dei personaggi che lo circondano e rifugiandosi in un contegnoso silenzio, ottiene alla fine della commedia più di quanto avrebbe potuto volere. È in questo margine aperto dal suo silenzio che il protagonista della commedia di Hofmannsthal trova lo spazio per l’azione etica. Nell’ambiente socioculturale viennese dell’inizio del XX secolo il problema dei limiti del linguaggio è stato al centro del dibattito filosofico sia sul versante relativo all’epistemologia (i limiti del linguaggio come limiti della conoscenza umana) sia sul versante pratico (i limiti del linguaggio come limiti che presiedono al funzionamento di qualsivoglia volontà umana tesa non a perseguire questo o quell’obiettivo particolare ma a conformarsi alla sua struttura generale). Nella costituzione di un punto di vista generale sui rapporti tra linguaggio e mondo, Wittgenstein fu indirettamente influenzato dagli echi di questo dibattito filosofico e dalla sua connotazione kantiana, tanto nel lessico quanto nell’intreccio di logica ed etica in una teoria del linguaggio come mezzo universale17. Il cuore del secondo capitolo metterà in rilievo une delle voci filosofiche più influenti nella Vienna di Wittgenstein: quella di Fritz Mauthner. Il suo lavoro di critica del linguaggio ebbe come esito una radicale critica della prospettiva metafisica sulle questioni relative alla natura della conoscenza e dell’etica. Tale radicalismo critico non risparmiò lo stessa filosofia kantiana, identificata con la pretesa di individuare i princìpi generali che presiedono alla possibilità di una razionalità teoretica e pratica negli uomini. Giungendo ad esiti scettici e relativizzando nei linguaggi naturali quelle stesse condizioni di possibilità, Mauthner presenta importanti analogie con il “secondo” Wittgenstein e con la sua sfiducia nei confronti di teorie e leggi unificanti sul linguaggio: « Gli intellettuali austriaci nell’epoca della finis Austriae prendono atto della dissoluzione di una ragione universale univoca e pertanto ritessono i rapporti con gli altri uomini e con le circostanze della loro vita, ossia ritessono una cultura, una società attraverso la scoperta dell’uomo in quanto individuo, ma anche un individuo che si riconosce nella forma che lo distingue mediante, e non già contro, le connessioni molteplici degli scenari della vita che egli condivide con tutti gli altri membri della società »18. In Wittgenstein il tema del riconoscimento da parte dell’individuo della molteplicità di “scenari vitali” innestati nei giochi linguistici è la controparte dei limiti ravvisati nella concezione “agostiniana” del linguaggio, incarnata dal gioco linguistico 17 18
Cfr. HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., pp.21-25. GARGANI A. G., Wittgenstein, op. cit., pp.37-38.
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dei muratori19. Questi limiti intrinseci per Wittgenstein alla prassi linguistica della cultura contemporanea20 costituiscono un ostacolo nei confronti della libertà del parlante di estendere le possibilità di dire se stesso. Allo stesso modo il nonsenso che Wittgenstein individua nelle teorie onnicomprensive sulla natura del linguaggio è la conseguenza del loro “girare a vuoto”, del loro staccarsi dal terreno saldo dei giochi linguistici intrecciati a pratiche umane significative21. Nella perdita di questo contatto, Wittgenstein, in sintonia con alcuni aspetti della critica della cultura viennese, riconosce un impoverimento delle possibilità espressive dell’umanità occidentale.
Il terzo capitolo rimette infine al centro della trattazione il tema del nonsenso cercando di trarre alcune conclusioni sul modo in cui Wittgenstein riflette su di esso in una prospettiva kantiana, soprattutto nel Tractatus, per poi criticare e in parte ritrattare questa prospettiva nella sua “seconda” filosofia. Una distinzione fondamentale alla quale non si è ancora accennato in relazione alla definizione dei limiti del senso nel Tractatus è quella tra “dire” e “mostrare”. La distinzione tra ciò che può esser detto mediante proposizioni dotate di senso (Sinnvoll) e ciò che invece può essere solo mostrato pervade tutto il testo, dalla Prefazione all’ammonizione finale della sezione 7. Se da un lato essa viene sviluppata dal “primo” Wittgenstein a partire dal “paradosso dei concetti” di Frege22, dall’altro il solco tra il dicibile e ciò che può essere solo mostrato ha a che fare con il legame intrinseco tra logica ed etica mostrato dal Tractatus. In una lettera ad uno dei potenziali editori del libro, Ludwig von Ficker, Wittgenstein sottolinea l’importanza di questo nesso per la comprensione della sua opera: « In effetti io volevo scrivere che il mio lavoro consiste 19
Cfr. RF, § 2 e §§ 8-10, p. 10 e pp. 13-15. Questo Wittgenstein sentenzia in una prima versione della prefazione alle Philosophische Bemrkungen: « […] Lo spirito di questa cultura, che si esprime nell’industria, nella musica, nell’architettura, nel fascismo e nel socialismo del nostro tempo, è estraneo e non congeniale all’autore. […] E per quanto mi sia ben chiaro che la scomparsa di una civiltà non significa la scomparsa del valore umano, bensì soltanto di certi modi di esprimerlo, rimane però il fatto che io considero senza simpatia la corrente della cultura europea, né ho comprensione verso i suoi fini, ammesso che ne abbia.» (in WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., pp. 26-27). 21 L’espressione «ruote che girano a vuoto» ripresa dall’Introduzione ai Prinzipien der Mechanik di Hertz, viene utilizzata da Wittgenstein per indicare un elemento concettuale che non ha valore rispetto all’esperienza attuale, ma solo rispetto all’esperienza possibile (cfr. Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, colloqui annotati da F. Waismann, tr. it. a cura di S. de Waal, La Nuova Italia, Firenze 1975, p.36) . Proposizioni che contengono questi elementi sono quelle la cui negazione è un nonsenso, come le tautologie e le contraddizioni del Tractatus. In tal senso le «ruote che girano a vuoto» sono, rispetto ad una concezione del linguaggio con una funzione eminentemente raffigurativa, elementi linguistici ridondanti. Sull’argomento cfr. MARCONI D., L’eredità di Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 4561. 22 Cfr. Concetto e oggetto in FREGE G., Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 58-73. 20
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di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto è da delimitare rigorosamente solo in questo modo »23. Il vero significato della distinzione tra dire e mostrare sta nell’essere la chiave di volta per comprendere la bipartizione del Tractatus: essa permette di bandire dai limiti della sensatezza tanto le proposizioni sull’essenza della raffigurazione (le proposizioni della logica) quanto gli enunciati sul regno dei valori (le proposizioni di etica, estetica e religione). Ora, il tema della distinzione tra il mostrarsi e il (poter) dire nell’ambito della definizione dei limiti della sensatezza ( e dunque del nonsenso) è un tema kantiano che Wittgenstein esplora attraverso il filtro di Schopenhauer. In un certo senso, che concerne soprattutto la delimitazione dell’etica “dall’interno” (von innen) del Tractatus, Wittgenstein ritorna a Kant attraverso Schopenhauer. Sebbene, seguendo il secondo, sia convinto che moltissimo di quello che Kant avesse detto sull’uso dei postulati della ragion pratica fosse insensato. Questo aspetto dell’influenza di Schopenhauer sul Tractatus, più indiretto e meno noto, dispiega le sue conseguenze più evidenti sui luoghi schopenhaueriani dell’opera più famosi e commentati. Mi riferisco al fatto che nelle sezioni sul Mistico (TLP 6.44-6.45), l’etica descriva il modo in cui il mondo (considerato come un tutto) si presenta al soggetto considerato come portatore della volontà. Tale connotazione dell’ambito del discorso etico, elaborata da Wittgenstein già nel corso del 191524, si presenta nel Tractatus sotto questa forma: una volta stabiliti i limiti del discorso sensato nelle sezioni che espongono la teoria raffigurativa del linguaggio, ovvero una volta stabilito il nesso tra la sensatezza della proposizione e la sua capacità di raffigurare almeno un fatto del mondo, non riamane che prendere atto di come tutti i problemi che nella loro formulazione infrangono questo nesso non possano avere una soluzione scientifica. Allo stesso tempo però, Wittgenstein sostiene che la soluzione a problemi di questo tipo si mostra al soggetto metafisico (TLP 6.521-6.522). Ebbene, vedremo nel terzo capitolo come l’insoddisfazione per le risposte del discorso scientifico ai problemi esistenziali e il riferimento alla volontà esente da una caratterizzazione psicologica siano aspetti dirompenti dell’influenza dell’idealismo schopenhaueriano sul “primo” Wittgenstein.
L’insensatezza alla quale si è confinati
quando si cerca di dire il senso del mondo e della vita, parallelamente all’insignificanza 23
WITTGENSTEIN L., Lettere a Ludwig von Ficker, ed. it. a cura di D. Antiseri, Armando Editore, Roma 1974, lettera del 10/11.19, p. 72. 24 WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op.cit., pp. 224-225.
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esistenziale di ciò che ricade nel campo del dicibile, determinano la posizione al “limite del mondo” che Wittgenstein attribuisce al soggetto metafisico nel Tractatus. Questa posizione di confine del soggetto metafisico si esprime allora nella tesi schopenhaueriana che il mondo (la totalità dei fatti) acquista significato solo in relazione alla volontà: « Il fondamento del pessimismo di Wittgenstein, come di quello schopenhaueriano, è la consapevolezza che la realtà empirica di per sé non ha alcun valore e che pertanto la comprensione del significato dell’esistenza non può derivare da una modificazione dei fatti, ma dalla trasformazione radicale del nostro modo di essere e di atteggiarci verso il mondo »25. La convinzione che la risposta alle domande dell’etica risieda in questa capacità di trasformare radicalmente il proprio rapporto con il mondo è l’elemento di continuità che permette di individuare la nuova prospettiva del “secondo” Wittgenstein. Una radicale trasformazione di se e della propria volontà attraverso l’uso di determinati giochi linguistici in determinati contesti è il metodo che Wittgenstein contrappone alla costruzione di teorie su quei contesti. Il richiamo a questa “trasformazione della volontà” permette peraltro di ritrovare le linee guida di quello che sopra ho definito un trattamento “deflazionista” della nozione di nonsenso. Alla distinzione tra dire e mostrare, e alla possibilità di individuare nei nonsensi caratteristiche ineffabili della realtà, si sostituisce adesso il bisogno di individuare le sfumature tra sensato e insensato attraverso la descrizione di somiglianze di famiglia tra giochi linguistici, l’individuazione di nessi intermedi e la possibilità di ricondurli a fenomeni originari. Ovvero, tutti gli aspetti principali del metodo morfologico del “secondo” Wittgenstein, sono legati ad un lavoro sulle proprie pulsioni volontaristiche: « Come ho detto sovente, la filosofia non mi porta a nessuna rinuncia, perché non mi vieto di dire qualcosa, bensì abbandono una certa combinazione di parole prive di senso. Ma in un altro senso la filosofia esige una rinuncia, però una rinuncia del sentimento, non dell’intelletto. Ed è forse questo il motivo che la rende così difficile a molti. Può essere difficile non usare un’espressione, com’è difficile trattenere le lacrime o uno sfogo dell’ira/della rabbia/»26. Ancora una volta il tema del nonsenso si rivela un banco di prova interessante per vagliare i punti di rottura e le linee di continuità tra il “primo” e il “secondo” Wittgenstein. Nell’ultima parte del terzo capitolo verrà preso in considerazione proprio il ruolo che l’atteggiamento filosofico nei confronti del nonsenso assume nella “fase di transizione”. La recidiva con cui il discorso filosofico cade per Wittgenstein al di là dei 25 26
MICHELETTI M., Lo schopenhauerismo di Ludwig Wittgenstein, La Garangola, Padova 1973, p. 12. WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 407.
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limiti della sensatezza (sia che questi limiti emergano dalle stesse proprietà formali del simbolismo del linguaggio come nel Tractatus, sia che questi limiti siano piuttosto contorni sfumati legati ai contesti d’uso dei giochi linguistici come nelle Ricerche) è raffigurata nell’immagine pregante dell’avventarsi come in una lotta contro i limiti del linguaggio: « Noi lottiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il linguaggio »27. L’impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio è per Wittgenstein la causa del discorso su ciò che il Tractatus pone al di là di questi limiti: etica, estetica e religione. Il tema del nonsenso è allora il terreno sul quale Wittgenstein innesta la sua riflessione sull’etica, in un contesto, quello degli anni Trenta, in cui il filosofo inizia ad esplorare le nozioni di gioco e di uso. Documenti interessanti di questa fase di passaggio sono la Lezione sull’etica del 1929 e il frammento dal titolo A proposito di Heidegger riportato nella conversazioni con il circolo di Vienna. In entrambi i casi vedremo come Wittgenstein, già in una fase “dialogica” con le sue idee del Tractatus, si stupisca di come nel discorso etico si sperimenti un consapevole avventurarsi al di là dei limiti della sensatezza. Nella Lezione questo stupore lo porta ad interrogarsi su quale sia la relazione del nonsenso etico con il senso delle proposizioni del linguaggio quotidiano. Emergeranno allora alcuni tratti peculiari della “liberalizzazione” della teoria del significato attuata nelle Ricerche, come ad esempio la nozione di “senso secondario”. Nel caso del frammento su Heidegger, invece, Wittgenstein si augura la fine della “chiacchiera” (Geschwätz) sull’etica, ovvero di quell’insieme di atteggiamenti filosofici volti alla definizione dell’essenza del problema etico. È interessante notare come Wittgenstein sia qui interessato alla funzione ontologica “rivelativa” dell’angoscia (Angst): più di qualsiasi teoria filosofica rappresenta precipuamente la tendenza metafisica dell’uomo ad esprimere ciò che il Tractatus esclude dall’ambito del dicibile. È questa appunto la portata filosofica del tema del nonsenso, perché mostrando la tendenza ad avventarsi contro i limiti del linguaggio il discorso sull’etica assume una dimensione antropologica “rivelativa”: è uno squarcio nel cielo di cartapesta della concezione gerarchica del linguaggio espressa nel Tractatus.
27
WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., p. 35.
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Capitolo 1
IL TEMA DEL NONSENSO: DA WITTGENSTEIN A FREGE
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1.1 La vita segreta delle cose: il tema del nonsenso, la semantica e l’ontologia del Tractatus
Ero ancora molto piccolo, quando una volta mi trovai a giocare verso quell’ora nel bosco. La bambinaia si era allontanata; io non me ne ero accorto e credevo di sentirla ancora vicina a me. D’un tratto qualcosa mi costrinse ad alzare lo sguardo. Sentii di essere solo. Improvvisamente
si
fece
un
gran
silenzio.
E
guardandomi intorno, ebbi l’impressione che gli alberi silenziosi fossero disposti in cerchio e mi guardassero. Piansi; mi sentivo così abbandonato dai grandi, preda delle creature inanimate… Che cos’è? Spesso provo ancora questa sensazione. Che cos’è questo silenzio improvviso che è come un linguaggio che non udiamo? (MUSIL R., I turbamenti dell’allievo Törless, tr. it. a cura di F.Cambi, Marsilio, Padova 2006, p. 91).
Nel Tractatus il problema della determinazione del senso della proposizione, uno dei problemi al centro della riflessione giovanile di Wittgenstein, emerge parallelamente all’esigenza di determinare i limiti di ciò che può sensatamente dirsi. Come recita il passo della Prefazione citato sopra28 lo scopo dell’opera è di fissare i limiti del pensabile. La strategia wittgensteiniana consiste nel fissare il limite dell’espressione linguistica del pensiero, ovvero le condizioni che determinano la sensatezza delle proposizioni. E poiché non ci sono pensieri ineffabili29, il limite di ciò che può essere pensato coinciderà con quello di ciò che può esser sensatamente detto. Altrimenti Wittgenstein rischierebbe di incorrere nel paradosso kantiano di delimitare il pensabile pensando questo limite: una strategia di questo tipo implicherebbe la pensabilità di ciò che si trova oltre il limite. Verremmo in questo modo a trovarci nella situazione contraddittoria di dover fissare il limite del pensabile (e del dicibile), pensando ( e
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Cfr. Supra, p. 6. Negare la legittimità dell’espressione pensieri ineffabili non significa per Wittgenstein negare una sfera dell’ineffabile; tuttavia, l’esclusione del pensiero da questa sfera implica l’impossibilità di parlarne legittimamente. Nel Tractatus la sfera dell’ineffabile viene designata dall’uso del sintagma di ascendenza russelliana «il Mistico» (das Mystische); cfr. TLP 6.44-6.45, p. 108. 29
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dicendo) ciò che si trova da una parte e dall’altra di questo limite. Come annota Wittgenstein nel 1931:
Il limite del linguaggio si mostra nell’impossibilità di descrivere il fatto che corrisponde a una proposizione (che è la sua traduzione) senza appunto ripetere la proposizione. (Abbiamo qui a che fare con la soluzione kantiana del problema della filosofia). 30
Dunque, non possiamo osservare il nostro linguaggio dall’esterno e descriverlo come fosse un oggetto della realtà. La ragione di questa impossibilità risiede nel fatto che il linguaggio è in grado di parlare di qualcosa solo a patto che esistano già una serie di relazioni di significato che lo coinvolgano con il mondo. Ogni tentativo di determinare esattamente quali siano le relazioni di significato tra linguaggio e mondo si infrange contro il loro essere condizioni di possibilità di ogni dire, contro la necessità per il linguaggio di doverle presupporre31 . Per fissare il limite dell’espressione linguistica del pensiero senza cadere nel paradosso che innerva «la soluzione kantiana del problema della filosofia», Wittgenstein si muove lungo due binari paralleli. La strategia del Tractatus consiste infatti nel mostrare (zeigen) da un lato il modo in cui il linguaggio realizza nel segno proposizionale la capacità di rappresentare la realtà e dall’altro, i limiti di questa stessa capacità. Rispondere alla questione di quali elementi determinino il senso della proposizione, del modo in cui lo fanno e delle relazioni che tra essi intercorrono significa rispondere anche alla questione del loro contributo al potere simbolico della proposizione. Per utilizzare una metafora cara anche a Wittgenstein32, chiarire la struttura e il funzionamento dei meccanismi semantici che muovono la “macchina” proposizione significa vagliare, allo stesso tempo, la capacità di produrre lavoro di quella macchina e con essa i suoi limiti produttivi. Da un certo punto di vista, questi due problemi sono aspetti, uno interno e l’altro esterno, di quell’insieme di tematiche che il filosofo viennese riassumeva sotto l’etichetta “proposizione” (der Satz)33. Il loro punto di
30
WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., pp. 32-33. Gli Hintikka denominano questa visione d’insieme dei fenomeni linguistici «linguaggio come mezzo universale» e da essa deducono l’impossibilità di esprimere sensatamente le relazioni tra linguaggio e mondo, definita invece «tesi dell’ineffabilità della semantica»; cfr. HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., pp. 17-56. 32 La metafora della macchina viene impiegata da Wittgenstein in due paragrafi cruciali delle Ricerche «come simbolo di un modo di funzionare» del linguaggio presente anche nel Tractatus; cfr. RF, §§ 193194, pp. 103-106. 33 Il termine tedesco Satz, nel modo in cui lo utilizza Wittgenstein designa qualcosa di simile ad un “enunciato interpretato”; cfr. TLP 3.12, p. 33: «Il segno, mediante il quale esprimiamo il pensiero, io lo 31
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intersezione è il tema della capacità raffigurativa del linguaggio (e del pensiero), sintetizzato nella nozione di “proposizione”. Perché, infatti, sia possibile comprendere il modo in cui questi due temi si intrecciano fino a sovrapporsi, occorre premettere in che termini nel Tractatus il pensiero e il linguaggio abbiano una natura raffigurativa. Mi limiterò ad introdurre, per sommi capi, la teoria della proposizione come immagine (TLP 4.01-4.0641) facendo qualche riferimento alla teoria generale dell’immagine (TLP 2.1-2.225) e all’ontologia degli oggetti semplici (TLP 2.011-2.0271).
1.1.1 La proposizione come immagine: comprendere e raffigurare
Per introdurre adeguatamente i capisaldi della teoria della proposizione come immagine, o teoria raffigurativa, bisogna tener presenti almeno due presupposti. Il primo riguarda l’accezione di “immagine” (Bild) che Wittgenstein utilizza nel Tractatus: la nozione wittgensteiniana, infatti, esclude una qualsiasi relazione di somiglianza materiale tra rappresentazione e oggetto della rappresentazione. In questo senso Wittgenstein riprende la nozione di “immagine” dal modo in cui era stata inserita nel quadro dei principi della meccanica prima da Hertz e poi da Boltzmann. Entrambi i fisici assumono che le teorie scientifiche non rispecchiano le cose come sono in se stesse, ma costituiscono modelli attraverso i quali setacciare la realtà del mondo fisico. Questi modelli rappresentano un sistema di relazioni concettuali in accordo con le leggi del pensiero entro le quali viene interpretato il flusso dell’esperienza; è così che parametri della meccanica classica come “velocità” o “forza” non designano essenze ma raffigurano scenari di relazioni tra fenomeni34. In tal senso la ricerca scientifica è affetta da un problema che riguarda i suoi metodi e i suo scopi: essa accumula per via sperimentale un numero di relazioni tra fenomeni superiore al numero di relazioni che possono essere tra loro conciliate in uno scenario coerente. È da questa discrepanza che chiamo il segno proposizionale [das Satzzeichen]. E la proposizione [der Satz] è il segno proposizionale nella sua relazione di proiezione con il mondo». 34 Cfr. HERTZ H., The Principles of Mechanics presented in a new form, English translation by D.E. Jones and J.T. Walley, Macmillan, London-New York 1899, p. 2: «The images which we may form of things are not determined without ambiguity by the requirement that the consequents of the images must be the images of the consequents. Various images of the same objects are possible, and these images may differ in various respects. […] But two permissible and correct images of the same external object may yet differ in respect of appropriateness. […] Of two images of equal distinctness the more appropriate is the one which contains, in addition to the essential characteristics, the smaller number of superfluous or empty relations, - the simpler of the two. Empty relations cannot be avoided: they enter into the images because they are simply images,-images produced by our mind and necessarily affected by the characteristics of its mode of portrayal».
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sorgono i dubbi e i problemi sulla natura dei parametri fisici, è da questo squilibrio che emergono i problemi della scienza. Per eliminarli allora non sarà necessario andare alla ricerca di nuove relazioni tra fenomeni, piuttosto il metodo adeguato consisterà nella riflessione sullo scenario presente, nel mettere ordine tra le relazioni a disposizione; il risultato potrebbe anche essere l’eventualità che di più teorie descrivano lo stesso insieme di relazioni tra fenomeni senza entrare in contraddizione tra loro:
Ne consegue che non può essere nostro compito trovare una teoria assolutamente corretta, mentre lo è quello di trovare un’immagine il più possibile semplice che rappresenti i fenomeni nel modo migliore possibile. È perfino concepibile la possibilità di due teorie completamente differenti che siano entrambe semplici e concordino ugualmente bene con i fenomeni, e che dunque, sebbene completamente diverse, siano entrambe ugualmente giuste. L’affermazione per cui una teoria sarebbe l’unica giusta può essere solo l’espressione della nostra convinzione soggettiva, secondo cui non può esistere nessun’altra immagine ugualmente semplice e altrettanto adeguata.35
Il compito della fisica teorica, per Hertz e Boltzmann consiste nel “metter ordine” tra le immagini che l’esperienza fornisce di un insieme di relazioni tra fenomeni, al fine di scegliere le più adeguate per l’interpretazione di queste relazioni in un quadro coerente. Mutatis mutandis per Wittgenstein il compito della filosofia è paragonabile all’attività di riordinare una stanza: non importa quanto grande sia la confusione e quante volte maneggiamo gli oggetti36. In questo senso, «Hertz e Boltzmann gli avevano dato l’idea di un quadro o di un corrispettivo mentale della realtà in cui di essenziale c’era solo la struttura logica, nel loro caso la struttura logica della teoria scientifica in questione»37. Il secondo presupposto riguarda invece le relazioni che il pensiero e il linguaggio intessono con la nozione di immagine: lo status di immagini, che Wittgenstein attribuisce tanto al pensiero quanto alla proposizione, è predicabile direttamente del primo ma solo indirettamente della seconda. Nel Tractatus la proposizione possiede una
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BOLTZMANN L., Modelli matematici, fisica e filosofia. Scritti divulgativi, ed. it. a cura di C.Cercignani, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p.117. 36 Cfr. WITTGENSTEIN L., Lezioni 1930-1932. Dagli appunti di John King e Desmond Lee, ed. it. a cura di A.G.Gargani, Adelphi, Milano 1995, p. 62: «Le risposte che la filosofia dà alle nostre domande devono essere fondamentali per la vita di ogni giorno e per la scienza. Esse devono essere indipendenti dalle scoperte sperimentali della scienza. La scienza costruisce una casa con mattoni che, una volta posati, non vengono più toccati. La filosofia mette in ordine una stanza e perciò deve maneggiare più volte le cose. L’essenza della sua procedura è che essa comincia dal disordine; non ci importa di essere confusi, nella misura in cui la confusione gradualmente si dissolve». 37 MCGUINNESS B., Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), Il Saggiatore, Milano 1990, pp.131132.
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natura raffigurativa di riflesso, in quanto proiezione in parole di una situazione pensata. Il pensiero si realizza effettivamente, si concretizza, nella proposizione detta o scritta; in questo senso la proposizione si può definire “immagine” solo in maniera indiretta. Inoltre, da questo secondo presupposto si può facilmente intuire su quale sfondo teorico Wittgenstein utilizzi la nozione di pensiero: si tratta di un’accezione sicuramente non psicologica e molto vicina a quella che Frege propose in un saggio del 1918 dedicato al tema. Anche Frege, prima di Wittgenstein, concepisce la natura del pensiero in senso astratto, distinguendolo dai meccanismi mentali attraverso i quali l’individuo viene a contatto con essi: «Il pensiero, in sé non sensibile, si riveste dell’abito sensibile dell’enunciato e diviene così afferrabile da parte nostra. Diciamo che l’enunciato esprime un pensiero»38. Il pensiero è per Frege qualcosa di radicalmente diverso dalle rappresentazioni soggettive, è logicamente indipendente dal mondo interno del soggetto cartesiano; esso è piuttosto connesso agli aspetti semantici intersoggettivi espressi dalle nozioni di senso e di significato: «Dal significato e dal senso dei segni va distinta la rappresentazione [Vorstellung] ad essi connessa. Quando il significato di un segno è un oggetto percepibile dai sensi, la rappresentazione che ne ritengo è un’immagine [Bild] interna, che è il risultato di atti, sia interiori che esteriori, da me compiuti»39. Si potrebbe dedurre che il pensiero sia allora unì’entità esterna all’ambito del mentale, configurata come un’entità del mondo fisico, tuttavia Frege compie un’ulteriore mossa teorica: i pensieri sarebbero entità distinte tanto dalle rappresentazioni psicologiche quanto dagli oggetti del mondo fisico. Ciò che più interessa il logico di Jena è infatti fornire un’analisi semantica degli enunciati che assicuri l’autonomia del pensiero e spieghi la natura complessa del giudizio o dell’asserzione. Per questo motivo Frege concepisce i pensieri come entità appartenenti a un “terzo regno” e designa l’attività del pensare con il verbo “afferrare”40. Il “terzo regno” è inteso non nel senso di un livello ontologico intermedio tra mente e mondo, ma come una metafora utilizzata per descrivere una modalità di accesso ai fatti del mondo distinta tanto da quella che si realizza attraverso le rappresentazioni (Vorstellungen) quanto da quella della percezione sensibile delle cose (Dinge) 41. 38
FREGE G., Il pensiero. Una ricerca logica in Ricerche logiche, ed. it. a cura di M. Di Francesco, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 47. 39 FREGE G., Senso e significato in Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici, ed. it. a cura di C Penco ed E. Picardi, Laterza, Roma-Bari 2001, p.35. 40 Cfr. FREGE G., Il pensiero, op. cit., p.60 e p.68. 41 Secondo Carl questa interpretazione del saggio fregeano sarebbe suffragata dalla collocazione della famosa distinzione fra i “tre regni” nel corpo del testo; cfr. CARL W., op. cit., pp. 186-211 . Questa infatti si troverebbe dopo che Frege si è posto la domanda: “Il pensiero è una rappresentazione?” (cfr. FREGE G.,
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Si noti che il tema del segno proposizionale come correlato sensibile di un pensiero, tema comune a Frege e Wittgenstein, venga declinato all’interno di una prospettiva filosofica che tratta il pensiero come nozione puramente logica. È proprio la nozione di pensiero come immagine logica dei fatti (TLP 3) che permette a Wittgenstein di applicare alle relazioni tra linguaggio e mondo la teoria generale dell’immagine sviluppata nelle sezioni che fanno da “commento” alla sezione 242. Prima di individuare le conseguenze più interessanti per la definizione del tema del nonsenso di questa connotazione del pensiero, vediamo però lo sviluppo della teoria generale dell’immagine, la sua applicazione alla nozione di pensiero e le conseguenze che essa comporta per il linguaggio. Risulterà allora chiaro come la teoria della proposizioneimmagine (o teoria raffigurativa) non venga dedotta direttamente da una teoria generale dell’immagine, ma sia una conseguenza della concezione antipsicologista di “pensiero” del Tractatus.
Le sezioni 4.01-4.0641, che fanno da commenti “centesimali” alla sezione “cardinale” 4 («Il pensiero è la proposizione munita di senso»), sviluppano la teoria raffigurativa da certe caratteristiche della capacità di comprendere le proposizioni della nostra lingua. Alcuni aspetti della competenza semantica dei parlanti vengono in questo modo collegati alla teoria generale dell’immagine: l’ipotesi che la proposizione sia un’immagine (Bild) della realtà (TLP 4.01) spiegherebbe il fenomeno extralinguistico della comprensione, da parte dei parlanti di una lingua naturale, del senso di una proposizione senza che quest’ultimo sia stato prima illustrato (TLP 4.02). Si tratta di una competenza semantica importantissima: la natura raffigurativa della proposizione è alla base del fenomeno per cui i parlanti di una certa lingua sono in grado di comprendere un numero indefinito di proposizioni mai udite prima43. In secondo luogo la comprensione
op. cit., pp.56-60). Per questo motivo Carl rileva il contesto esplicitamente epistemologico, e non ontologico, all’interno del quale Frege sviluppa la sua risposta: « Given Frege’s answer, this distinction cannot be regarded as a mutually exclusive distinction between different sets of entities, because whatever is an object of knowledge belongs at least to the third realm. The real task of Frege’s reasoning is to enquire into the conditions of having access to different “worlds” or realms of knowledge.» (Ibid., p.197). 42 La distinzione tra proposizioni “cardinali” (es. 1, 2,3, ecc..), “decimali” (es. 1.3; 2.1; 6.5), “centesimali” (es. 2.01; 3.031) e “millesimali”(es. 3.001) è funzionale alla lettura della struttura ad albero del Tractatus; cfr. BAZZOCCHI L., op. cit., pp. 30-31. 43 Si tratta di quello che Chomsky definisce l’ “aspetto creativo” del nostro uso del linguaggio: la nostra capacità, dopo esser stati esposti all’uso di una piccola parte del linguaggio, di riconoscere e utilizzare un numero indefinito di segni per formare enunciati sensati mai uditi prima; ovvero l’uso aperto e indefinito della lingua sarebbe espressione di un numero limitato di “meccanismi fissi” (le regole generative) con i quali è possibile produrre un numero illimitato di enunciati (cfr. CHOMSKY N., Cartesian linguistics : a chapter in the history of rationalist thought, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2009). Questa posizione viene ricondotta da Chomsky alla riflessione di Humboldt sulla diversità delle lingue in
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di una proposizione viene identificata con la capacità di “leggere” la situazione che essa rappresenta (TLP 4.021). Commentando la sezione 4.02 e la competenza semantica che essa illustra, Wittgenstein muove un ulteriore passo verso il cuore della relazione tra linguaggio e mondo. Alla sezione 4.024 leggiamo:
Comprendere una proposizione è sapere che cosa accade se essa è vera. (Dunque una proposizione la si può comprendere senza sapere se essa sia vera.) Una proposizione la si comprende se si comprendono le sue parti costitutive.44
In questa sezione, composta da tre osservazioni accomunate dal tema della comprensione di una proposizione, Wittgenstein identifica il comprendere una proposizione con la conoscenza di quel che accadrebbe nella porzione pertinente di mondo nel caso in cui la proposizione fosse vera. Con l’espressione “porzione pertinente di mondo” si intende qui far emergere come la comprensione della proposizione sia possibile per il Tractatus solamente in virtù del suo essere immagine di una determinata situazione. Inoltre, come viene ben messo in evidenza dal commento tra parentesi, la comprensione della proposizione non richiede che la situazione raffigurata debba essere necessariamente vera. La proposizione rappresenta situazioni la verità delle quali può essere stabilita solo attraverso opportuni metodi di verifica, ma per comprendere ciò che essa raffigura il parlante può affidarsi semplicemente alle sue competenze semantiche e prescindere da questi metodi di verifica. Potremmo commentare che per il Tractatus la competenza semantica incarnata dalla comprensione di una proposizione si possa ridurre alla capacità di afferrare il senso di un periodo ipotetico: per comprendere una proposizione mi basta riconoscere la possibilità o l’impossibilità logica del verificarsi relazione all’essenza del linguaggio, che ha il suo nodo cruciale nella nozione di “forma interna della lingua”: «Questa parte, del tutto interna e puramente intellettuale, costituisce in verità la lingua; essa è l’uso per la quale la produzione linguistica si serve della forma fonica e su di esso si fonda la capacità della lingua di conferire espressione a tutto, […]. Questa sua prerogativa dipende dalla concordanza e dalla cooperazione delle leggi che in essa si manifestano, sia nella loro reciproca relazione, sia nella relazione con le leggi dell’intuire, del pensare e del sentire. La facoltà spirituale esiste, però, unicamente nella sua attività; essa è il progressivo divampare della forza nella sua totalità complessiva, individuata tuttavia in un’unica direzione. Quelle leggi, dunque, null’altro sono se non gli itinerari all’interno dei quali si muove l’attività spirituale nella produzione del linguaggio, o, con un’altra similitudine, le forme in cui tale attività articola i suoni. […] Per quel che attiene alla forma fonica, è possibile concepire un’infinita, incalcolabile varietà, giacché ciò che è individuale sotto il profilo sensibile e corporale trae origine da cause talmente diverse che è impossibile immaginarne le graduazioni. Ciò che invece, come la parte intellettuale della lingua, si basa unicamente su un’attività spontanea dello spirito, sembra debba essere identica in tutti gli uomini, data anche l’identità del fine e dei mezzi, e invero questa parte conserva una maggiore uniformità. Ma anche in essa scaturisce, da numerose cause, una significativa diversità.» (in HUMBOLDT W.VON, La diversità delle lingue, ed. it. a cura di D. Di Cesare, Laterza, Roma-Bari 2004, pp.69-70). 44 TLP, 4.024, p.45.
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della situazione che raffigura. Infine, nell’ultima osservazione di questa sezione fondamentale, Wittgenstein spiega il come della comprensione: la competenza semantica relativa alla comprensione della proposizione come un tutto è distinta e allo stesso tempo connessa a quella relativa alle sue parti costitutive. La comprensione della proposizione come un tutto discende infatti da quella relativa alle sue parti costitutive45: se infatti siamo a conoscenza del significato delle parti costitutive della proposizione allora la comprensione di una proposizione qualsiasi, già udita o mai udita prima, non ha bisogno di spiegazioni ulteriori46. Esaurite le motivazioni preliminari all’esposizione della teoria delle immagini, individuate nel tema della comprensione e della competenza semantica degli individui, l’espressione più pregante di come si realizzi la relazione di raffigurazione tra linguaggio e mondo, si trova già nelle sezioni di commento a 4.01. Queste pagine interne del Tractatus, libere dal rumore di fondo del contesto di provenienza, hanno il loro centro espositivo nella “fantasmagoria di metafore”47 della sezione 4.014:
Il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore, stanno tutti l’uno con l’altro in quell’interna relazione di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo. Ad essi tutti è comune la struttura logica. (Come, nella fiaba, i due adolescenti, i loro due cavalli e i loro gigli. In un certo senso, essi sono tutt’uno). 48
45
Con questo non voglio dire che per il Tractatus esistano due processi del comprendere distinti e paralleli, ma che Wittgenstein stia declinando all’interno dell’esposizione della teoria raffigurativa il “principio di composizionalità” di Frege per cui il significato di un’espressione complessa è funzione dei significati delle espressioni che la compongono; cfr. TLP 3.318, p. 38. 46 Nei commenti “millesimali” 4.001-4.0031, Wittgenstein fa alcune osservazioni generali sul linguaggio e sembra ricondurre la competenza semantica illustrata nei commenti “centesimali” della sezione 4 a una facoltà più o meno implicita nel parlante; cfr. TLP 4.002, p. 42: «[…] Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano e non meno complicato di questo. È umanamente impossibile desumerne immediatamente la logica del linguaggio». La coappartenenza di linguaggio e organismo umano può essere letta come un abbozzo della soluzione di Chomsky al problema dell’apprendimento del linguaggio da parte dei bambini: tutto dipende dal cervello della specie umana, dal suo aver acquisito nel corso dell’evoluzione della specie certe specifiche capacità che sono parte della dotazione biologica di ciascun individuo. Tali capacità costituiscono nel loro complesso la “facoltà del linguaggio”: «The human faculty of language seems to be a true “species property”, varying little among humans and without significant analogue elsewhere. […] Furthermore, the faculty of language enters crucially into every aspect of human life, thought, and interaction. It is largely responsible for the fact that alone in the biological world, humans have a history, cultural evolution and diversity of any complexity and richness, even biological success in the technical sense that their numbers are huge. […] The faculty of language can reasonably be regarded as a “language organ” in the sense in which scientists speak of the visual system, or immune system, or circulatory system, as organs of the body.» (in CHOMSKY N., New Horizons in the Study of Language and Mind, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp.3-4). 47 Cfr. BAZZOCCHI L., op. cit., pp. 37-39. 48 TLP 4.014, p. 44.
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Gli esempi scelti da Wittgenstein per simboleggiare la natura della relazione di raffigurazione servono a eliminare il dubbio scettico sulla possibilità che la proposizione possa non essere un’immagine (TLP 4.011): neanche la notazione musicale, i solchi sul disco, la partitura della melodia sembrano essere immagini della musica che ascoltiamo. Eppure, questi sistemi di segni dimostrano di essere delle immagini di ciò che rappresentano (la musica). Lo fanno manifestando una caratteristica comune che Wittgenstein definisce «figuratività» (Bildhaftigkeit), ovvero la possibilità della corrispondenza tra diversi sistemi di entità e relazioni, della “regola di traduzione” dell’uno nell’altro (TLP 4.0141) analizzata a prescindere da tutti i suoi aspetti empirici49. Nella struttura metaforica di 4.014 la «figuratività» si presenta dunque nella possibilità di ricavare la melodia dalla partitura, i solchi da incidere sul disco dalla melodia e viceversa. La regola generale di traduzione che Wittgenstein definisce «legge di proiezione» (TLP 4.0141) può essere ricavata dalla comune struttura logica dei sistemi segnici coinvolti nella relazione di raffigurazione. Infine, si noti come tra parentesi Wittgenstein esponga nuovamente l’immagine che ha in mente richiamando il rapporto metaforico che nella fiaba dei fratelli Grimm I bambini d’oro (Die Goldkinder)50 si instaura tra i protagonisti, due cavalli e due gigli. Questa osservazione secondaria nasconde in realtà una profonda riflessione su un determinato tipo di narrazione51, quella fiabesca, in cui la relazione di raffigurazione collassa («In un certo
49
L’aggettivo “empirico” viene qui utilizzato in senso lato: la logica della raffigurazione deve prescindere da qualsiasi aspetto fisico, fisiologico, psicologico o storico coinvolto nella corrispondenza tra linguaggi segnici. È in questo senso che Wittgenstein parla di una “logica” della raffigurazione. 50 Wittgenstein conosceva molto bene le la raccolta di fiabe dei fratelli Grimm, nell’edizione in tre tomi curata dal poeta e scrittore tedesco Paul Ernst (1866-1933) nel 1910. A tal proposito Bastianelli ha sottolineato il debito di Wittgenstein nei confronti della postfazione che Ernst scrisse per questa edizione delle fiabe, in quanto fonte indiretta dell’espressione «fraintendimento della logica del nostro linguaggio» presente nella Prefazione del Tractatus; cfr. BASTIANELLI M., Linguaggio e mito in Paul Ernst. Indagine su una fonte di Wittgenstein, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 113: «Ora, sebbene Wittgenstein ricordi la postfazione di Ernst come fonte dell’espressione “fraintendimento della logica del nostro linguaggio”, tuttavia in quel testo tale espressione non ricorre. Ciò che egli intende è quasi certamente il risultato della combinazione di due formule che Ernst utilizza per chiarire l’origine dei miti, quando sostiene che tale origine è rintracciabile, tra l’altro, in una “fraintesa tendenza del linguaggio” o nel fatto che “un’epoca successiva non comprendeva più la logica del linguaggio delle epoche passate”». 51 Sebbene la Morfologia della fiaba fosse stata pubblicata successivamente al Tractatus, nel 1928, il commento posto tra parentesi da Wittgenstein richiama l’approccio all’analisi della fiaba teorizzato da Vladimir J. Propp. Le assonanze su questo tema sono probabilmente dovute alla comune lettura di Goethe e alla familiarità con il “metodo morfologico”: «Il fine più alto di ogni scienza consiste nella scoperta di leggi. Là dove il semplice empirico non vede che fatti slegati l’empirico filosofico riconosce il riflesso di una legge. Io ho individuato la legge in un campo assai modesto, per uno dei tipi di favola popolare, ma già allora mi era sembrato che la scoperta di questa legge potesse avere anche un’importanza più generale» (in PROPP V.JA., Morfologia della fiaba, ed. it. a cura di G.L.Bravo, Einaudi, Torino 1966, p.205). Le riflessioni stimolate da metafore, personaggi ed elementi delle fiabe, anche in relazione alla concezione della filosofia sono frequenti in Wittgenstein; cfr. WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., p. 35: «Confrontare la soluzione dei problemi filosofici con il dono nella fiaba, dono che nel castello
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senso, essi sono tutt’uno») e ha come principale conseguenza la subordinazione di un uso descrittivo ad uno simbolico del linguaggio. In breve, «la logica della raffigurazione» (TLP 4.015) alla base della competenza semantica dei parlanti (cfr. TLP 4.02-4.024), esaurisce in sé tutte le possibilità di corrispondenza tra i diversi sistemi di entità e relazioni di cui è composto il linguaggio (inteso come la totalità di tutti i sistemi possibili, «la totalità delle proposizioni» dice TLP 4.001) in un senso esclusivamente logico, ovvero tenendo in disparte le loro caratteristiche empiriche. La densità dei temi trattati da Wittgenstein in queste sezioni e la centralità della loro posizione nel corpo del Tractatus hanno fatto osservare a McGuinness, con una bella metafora «[…] che l’opera sia una sorta di sistole e diastole attorno alla proposizione 4, dove vanno cercate le proposizioni più importanti del suo argomento»52. E in effetti, leggendo queste sezioni lontano dal rumore di fondo dei commenti interni alle sezioni sulla natura del mondo, dei fatti e sulla loro sostanza si ha come l’impressione che Wittgenstein prenda un profondo respiro, prima di volgere lo sguardo nella direzione della forma generale della proposizione, del ruolo della logica e del valore delle proposizioni dell’etica. È ora possibile toccare i pilastri sui quali poggia la logica della raffigurazione, trattati da Wittgenstein nel contesto dell’esposizione della teoria generale dell’immagine (TLP 2.1-2.225).
Una
prima
considerazione
fondamentale
riguarda
la
posizione
dell’immagine nell’ontologia del Tractatus: dal momento che ci facciamo immagini di stati di cose effettivamente sussistenti, di fatti (TLP 2.1), allora tali immagini, rappresentando i costituenti semplici dei fatti e le loro relazioni reciproche, devono essere esse stesse dei fatti. Le immagini e i fatti che raffigurano condividono l’avere una struttura articolata53: entrambi sono dei complessi perché analizzabili nei termini dei loro elementi costitutivi (non sono dunque dei semplici), entrambi non sono collezioni di entità ma presentano una configurazione definita degli elementi che le/li costituiscono. Questa connessione determinata degli elementi dell’immagine è quella che Wittgenstein chiama la «struttura dell’immagine» (TLP 2.15): essa è il modo in cui gli elementi dell’immagine sono legati tra loro. Quindi, ciò che è più importante del primo caposaldo della nozione di raffigurazione è l’appartenenza comune di immagine e
incantato appare magico, ma quando da lì si esce, di giorno, e lo si osserva, non è nient’altro che un qualsiasi pezzo di ferro (o qualcosa del genere) ». 52 MCGUINNESS B., Wittgenstein, op. cit., p.452. 53 La complessità di immagine e fatto è ben messa in evidenza dalla scelta lessicale che Wittgenstein compie in relazione ai verbi utilizzati per designare la struttura della proposizione: essa è “composta” (zusammengesetzt; TLP 3.1431, 4.032, 5.5261), “articolata” (artikuliert; TLP 3.141, 3.251).
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situazione sussistente raffigurata al livello ontologico dei fatti (Tatsache). Come vedremo più avanti è una delle condizioni che garantisce l’efficacia della relazione di raffigurazione. Wittgenstein individua un’immediata conseguenza di questa comunanza nel secondo elemento fondamentale della teoria dell’immagine del Tractatus: la «relazione di raffigurazione» (TLP 2.1514). Definita come la relazione di coordinazione tra gli elementi dell’immagine e quelli del raffigurato, questa nozione ci permette di vedere come per Wittgenstein il meccanismo di raffigurazione non si traduca in una sovrapposizione rigida tra immagine e fatto, ma nel loro reciproco sfiorarsi (TLP 2.1515). La coordinazione tra le parti costitutive dell’immagine e le parti costitutive della situazione raffigurata rappresenta il modo in cui l’immagine giunge alla realtà (TLP 2.1511-2.1513): toccando con le sue antenne lo stato di cose oggetto della raffigurazione. L’efficace metafora delle “antenne” permette al lettore di percepire il movimento della struttura del pensiero nell’atto del comprendere; quanto più le coordinazioni di elementi dell’immagine si avvicinano alla realtà raffigurata tanto più l’immagine dispiega la sua efficacia raffigurativa. Viceversa ad una “generalizzazione” dell’immagine corrisponderà un ritrarsi delle antenne, e quindi un diradarsi delle coordinazioni dei suoi elementi costitutivi alla realtà:
Qui ho considerato le relazioni degli elementi della proposizione ai loro significati quasi come antenne, mediante le quali la proposizione è in contatto con il mondo esterno; e il generalizzare una proposizione somiglia allora al ritirar le antenne; sicché infine la proposizione affatto generale è affatto isolata. 54
La nozione di relazione di raffigurazione svela anche un’ulteriore caratteristica della natura dell’immagine: poiché essa assicura che tra le cose costituenti un fatto vigano le stesse relazioni che tra gli elementi dell’immagine allora il numero dei costituenti semplici dell’immagine e del fatto raffigurato deve essere lo stesso. Questa caratteristica generale delle immagini, trasferita alla proposizione nelle sezioni dedicate alla teoria raffigurativa si traduce nella relazione di “identità della molteplicità logica”: nella proposizione l’attività di analisi deve distinguere tanti elementi semplici quanti ne possiamo individuare nella situazione che raffigura (TLP 4.04). Si noti come anche in questo caso una caratteristica generale dell’immagine (Bild), la relazione di identità
54
WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op.cit., p.143.
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della molteplicità logica con la situazione raffigurata, sia un debito nei confronti dei modelli dinamici di Hertz55. L’effetto quasi ossimorico che l’espressione “identità della molteplicità” sortisce sul lettore è il segnale di un’altra importante distinzione che Wittgenstein introduce con la nozione di «relazione di raffigurazione». Si tratta della distinzione netta tra la relazione raffigurativa che lega ciascun elemento dell’immagine al costituente corrispondente della situazione raffigurata e quella che lega l’immagine nel suo complesso alla stessa situazione (TLP 2.13-2.14). Questa distinzione è espressa da Wittgenstein anche a livello lessicale: nel testo tedesco la prima è designata dal verbo vertreten e dal sostantivo Vertretung, la seconda invece dalla famiglia di termini che il vocabolario filosofico tradizionale utilizza per designare il concetto di “rappresentazione”, ovvero i verbi darstellen e vorstellen, i sostantivi Darstellung e Vorstellung. Così, «Gli elementi dell’immagine sono rappresentanti [vertreten] degli oggetti nell’immagine» (TLP 2.131) in un senso differente dal quale «L’immagine rappresenta [stellt…dar] il suo oggetto dal di fuori […]» (TLP 2.173). Quello che questa distinzione lessicale illustra è che la funzione raffigurativa svolta dall’immagine non sia riducibile al ruolo svolto dai suoi elementi costitutivi, è che viceversa il compito degli elementi costitutivi nella relazione di raffigurazione non sia assimilabile a quello svolto dall’immagine nella sua interezza:
Gli oggetti io li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Io posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è.56
Si tratta di una distinzione delle funzioni simboliche delle immagini e dei suoi elementi costitutivi che a livello dell’esposizione della teoria raffigurativa si esprime nell’identificazione delle prime con le proposizioni e dei secondi con i nomi. La proposizione rappresenta una situazione nel senso che descrive completamente la porzione di realtà con la quale intrattiene la relazione raffigurativa, i nomi invece fanno le veci (vertreten) degli elementi semplici di un fatto, di cose che esistono. Dal punto di
55
Cfr. HERTZ H., The Principles of Mechanics presented in a new form, op. cit., § 428, p.177: « The relation of a dynamical model to the system of which it is regarded as the model, is precisely the same as the relation of the images which our mind forms of things to the things themselves. For if we regard the condition of the model as the representation of the condition of the system, then the consequents of this representation must appear, are also the representation of the consequents which must proceed from the original object according to the laws of this original object. The agreement between mind and nature may therefore be linked to the agreement between two systems which are models of one another, and we can even account for this agreement by assuming that the mind is capable of making actual dynamical models of things, and of working with them». 56 TLP 3.221, p. 35.
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vista semantico la distinzione tra questi due livelli interni alla relazione di raffigurazione aggiunge un nuovo tassello al mosaico dell’interpretazione wittgensteiniana degli “aspetti creativi” del linguaggio: la possibilità per la proposizione di comunicarci un senso nuovo, così come la possibilità di traduzione da un linguaggio in un altro riposano rispettivamente sulla comprensione della spiegazione e sulla traduzione dei suoi elementi costitutivi (TLP 4.025-4.027). Possiamo osservare come in questo caso Wittgenstein
stia
declinando,
all’interno
dell’esposizione
della
relazione
di
raffigurazione tra proposizione e fatto, il “principio di composizionalità” di Frege. Poiché il senso della proposizione è funzione del significato degli elementi semplici che la compongono, la nostra capacità di comprendere una proposizione mai udita prima dipende dall’aver già afferrato il significato dei segni semplici dei quali essa è funzione. Dal punto di vista dell’analisi dovrebbe invece risultar chiaro come, a fare da sfondo a questa distinzione, ci sia la discussione su complesso e fatto. Anche se nel Tractatus non è chiaro il senso ed il modo in cui i fatti siano complessi di stati di cose (TLP 2.01 e 2.0272), Wittgenstein sembrerebbe assimilare la proposizione in quanto fatto (perché dotata di una struttura) ai complessi. La proposizione raffigura, infatti, lo stare di certi elementi in una struttura articolata; quest’ultima esibita dal suo senso. Rimane però una confusione legata alla possibilità di individuare gli stessi elementi costitutivi tanto per un complesso quanto per un fatto. Tale difficoltà è sollevata dallo stesso Frege in una lettera del 28 giugno 1919: se l’essenziale per una cosa è il poter stare in uno stato di cose e se una cosa può essere un costituente di un fatto allora anch’essa dovrebbe essere parte del mondo dal momento che il mondo è la totalità dei fatti. Ma in TLP 1.1 questa possibilità viene negata dallo stesso Wittgenstein che ha già in mente le due differenti funzioni di rappresentazione/raffigurazione da riservare a nomi/proposizioni. La mancanza di chiarezza sulla differenza tra stato di cose e fatto darebbe secondo Frege adito a paradossi di questo tipo:
Ogni combinazione di oggetti è uno stato di cose? Non dipende anche da ciò con cui si insatura questa combinazione? Che cosa è il combinante? Può forse essere la gravitazione come per il sistema planetario? E questo è uno stato di cose? Lei scrive: “è essenziale alla cosa poter essere il costituente di uno stato di cose”. Ora, può una cosa essere anche costituente di un fatto? La parte della parte è parte del tutto. Se una cosa è costituente di un fatto e ogni fatto è parte del mondo, anche la cosa fa parte del mondo […]. Potrei avere per esempio che il Vesuvio è un costituente di uno stato di cose. E allora, a quanto pare, anche i costituenti del Vesuvio
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dovrebbero essere costituenti di questo fatto; il fatto sarà dunque costituito dalla lava solidificata. Tutto ciò non mi pare giusto.57
Queste critiche58 e il venir meno della fiducia di Wittgenstein nella capacità della teoria raffigurativa di esaurire le possibilità espressive del linguaggio, saranno alla base del ripensamento sulla relazione tra complesso e fatto nella “fase di transizione”. Nei primi anni Trenta sarà ormai chiaro all’autore del Tractatus che alla base delle incertezze relative alla sua identificazione tra proposizione e immagine ci fosse stata l’oscurità dell’uso di parole come “oggetto”, “complesso”, “parte”:
Il complesso non è come un fatto. Poiché di un complesso dico, per esempio, che si sposta da un luogo all’altro, mentre non lo dico di un fatto. Che però questo complesso adesso si trovi qui, è un fatto.
Un complesso è costituito dalle sue parti, dalle cose della stessa specie che lo formano. (Naturalmente si tratta di una proposizione grammaticale circa le parole “complesso”, “parte” e “costituire”).
Dire che un cerchio rosso è costituito da rossezza e circolarità, o che è un complesso di questi costituenti, è abusare di queste parole ed è fuorviante (Frege lo sapeva). Altrettanto fuorviante è dire che il fatto che questo cerchio è rosso (o che io sono stanco) è un complesso formato dai costituenti cerchio e rossezza (io e la stanchezza).59
Da queste osservazioni, soprattutto dall’ultima, dovrebbe emergere come per Wittgenstein la distinzione tra complesso e fatto facesse da sfondo alla concezione della proposizione come funzione delle sue parti semplici. L’aver individuato nella proposizione “Il cerchio è rosso” un complesso formato da rossezza e circolarità era una confusione generata dall’uso di parole come “complesso” e “oggetto”. Per evitare un
57
Briefe an Ludwig Wittgenstein, in Wittgenstein in Focus – im Brennpukt: Wittgenstein, a cura di B.McGuinness e R.Haller, Rodopi, Amsterdam 1989, p.20. 58 Cfr. SLUGA H., Frege and the Indefinability of Truth, in From Frege to Wittgenstein: perspectives on early analytic philosophy, ed. by RECK E.H., Oxford University Press, Oxford 2002, pp.91-92: « Since Wittgenstein characterizes states of affairs as combinations of objects, Frege asks whether that means that facts, too, are combinations of things. This is important to him because it implies that facts have extensional identity criteria. He refers in this connection to the principle that the part of a part is a part of the whole, and so, if facts are composed of objects, they must also be composed of the parts of these objects. […] The identity criteria for states of affairs and facts must therefore be intensional. But this gets us back to the conclusion that facts are simply true thoughts, and that truth cannot therefore be defined as a relation between thoughts (or the sentences that express thoughts) and facts.» 59 WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., pp. 729-730.
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regresso all’infinito nell’analisi, Wittgenstein aveva accennato nel Tractatus alla possibilità che l’immagine non potesse esser formata da altre immagini e che dunque bisognasse riconoscere la natura non raffigurativa dei suoi elementi costitutivi. Sul piano dell’analisi questo aveva significato riconoscere ai nomi l’irrilevanza simbolica della loro organizzazione interna; una semplicità irriducibile posta al termine dell’analisi dei complessi nei quali sono in relazione: le proposizioni. Individueremo più avanti le conseguenze di questa tesi sul piano dell’ontologia del Tractatus. Il terzo caposaldo della teoria dell’immagine è la difficile nozione di «forma di raffigurazione» (TLP 2.15-2.151): essa è introdotta come la condizione della possibilità di “leggere” nell’immagine la situazione in essa raffigurata. In altri termini, l’immagine e la situazione che essa raffigura devono avere in comune la circostanza che le relazioni tra gli elementi dell’immagine e le relazioni tra i costituenti della situazione possano almeno corrispondere. La possibilità della condizione di corrispondenza tra queste due possibili configurazioni è definita da Wittgenstein “forma di raffigurazione” (die Form der Abbildung). In un certo senso rappresenta il modo in cui l’immagine si pone rispetto alla situazione raffigurata, il suo punto di vista rispetto all’oggetto della raffigurazione: la possibilità per gli elementi dell’immagine di stare in determinate relazioni mostra qualcosa del modo in cui le cose del mondo possono stare (TLP 2.1511-2.15121). Al fine di delineare un quadro generale della funzione raffigurativa esercitata dalle immagini la nozione di forma della raffigurazione presenta un limite: non spiega la funzione raffigurativa di ogni tipo di immagine (TLP 2.17). Infatti, la posizione dell’immagine rispetto alla situazione raffigurata è esibita nell’immagine stessa da una possibilità interna rispetto alla prima ed esterna rispetto alla seconda60; o meglio è limitata dalle possibilità di relazione dispiegate dagli elementi costitutivi dell’immagine: «L’immagine può raffigurare ogni realtà della quale ha la forma. L’immagine spaziale, tutto lo spaziale; la cromatica, tutto il cromatico; etc.»61. L’avere per un’immagine una forma determinata di raffigurazione dipende dal suo essere un fatto, dall’avere una struttura articolata: «Una raffigurazione, come fatto, ha molte forme; la sua forma di 60
La funzione raffigurativa dell’immagine è attribuita alla possibilità per l’organizzazione interna dell’immagine di esibire una relazione tra i suoi elementi costitutivi, nella quale le entità del mondo loro coordinate possono stare. Questo permette a Wittgenstein di considerarla indipendentemente dalla circostanza dell’effettiva sussistenza o meno della situazione rappresentata: «L’immagine raffigura la realtà rappresentando una possibilità del sussistere e non sussistere di stati di cose» (TLP 2.201, p.32). Questo atteggiamento, se fosse effettivamente presente in queste sezioni del Tractatus, denoterebbe un certo “disimpegno” nei confronti della comprensione di un’immagine a partire dalla sua “sovrapposizione” alla realtà; cfr. MCGUINNESS B., Il cosiddetto realismo del Tractatus di Wittgenstein in Capire Wittgenstein, a cura di M.Andronico, D.Marconi, C.Penco, Marietti, Genova 1988, pp.101-113. 61 TLP 2.171, p.31.
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raffigurazione è quella che comprende tutto e soltanto (o, in ogni caso, soltanto) quello che la raffigurazione ha in comune con il fatto che rappresenta»62. Il tentativo di superare il limite imposto dal soltanto permette di chiarire il modo in cui Wittgenstein pervenga ad una delle nozioni più discusse e interpretate del Tractatus: la nozione di «forma logica di raffigurazione» (TLP 2.18). Se la forma di raffigurazione è il modo proprio di ciascun tipo di immagine (cromatica, spaziale, proposizionale, ecc..) di raffigurare la realtà, la forma logica è il modo di tutti i tipi di immagine di raffigurare la connessione tra due o più cose del mondo. Essa infatti esibisce la corrispondenza tra la possibilità logica di connessione tra due o più cose per mezzo di una determinata relazione, e la struttura logica dell’immagine che raffigura questa relazione (lo stare i suoi elementi costitutivi nella medesima relazione delle cose di cui fanno le veci), indipendentemente dalle specifiche caratteristiche empiriche che quelle cose e quella determinata relazione possiedono. Leggendo in sequenza 2.17 e 2.18 ci accorgiamo immediatamente del “gioco formale” messo in atto da Wittgenstein in queste due sezioni: partendo da un’idea centrale, quella per cui la forma di un’immagine è ciò in cui l’immagine deve concordare con la realtà, egli la applica al caso singolo di un’immagine (TLP 2.17) per poi estenderla ad ogni immagine (TLP 2.18): «Ci accorgiamo subito del senso esatto del pensiero sotteso: la 2.17 ci parla della singola immagine, la 2.18 di tutte le immagini. L’immagine in quanto tale ha in comune col raffigurato la forma, e le differenze riguardano il punto cruciale della generalizzazione, del passaggio, cioè dall’immagine singola a tutte le immagini»63. E qui si pone per il lettore un rompicapo non indifferente: questa generalizzazione della nozione di forma di raffigurazione sembra nascondere un colpo letale alla forza che Wittgenstein presume di aver attribuito agli argomenti a sostegno della teoria dell’immagine. Come rileva lucidamente Frascolla: «Gran parte della sua teoria poggia sul presupposto che l’immagine presenti le entità coordinate ai propri elementi come connesse dalle stesse relazioni in cui stanno tali elementi: solo quest’identità permette alla nozione di forma di raffigurazione dell’immagine di diventare la chiave di volta di tutta la costruzione teorica»64. È immediatamente evidente come un’identità di questo 62
MCGUINNESS B., Raffigurazione e forma nel Tractatus di Wittgenstein, tr. it. di A. Gianquinto, Cadmo, Fiseole 2001, p. 49. 63 BAZZOCCHI L., op. cit., p. 24; Bazzocchi individua nella simmetria mostrata dalla struttura di entrambe le sezioni una vera e propria “sciarada” che dice molto del modo in cui Wittgenstein operò nello sviluppo delle idee centrali del Tractatus, cfr. Ibid., pp.77-79. 64 FRASCOLLA P., Il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2000, p. 60. Il problema sollevato dal requisito dell’identità (TLP 2.15) è stato notato anche da Marconi: «A rigore, Wittgenstein dice che le relazioni tra gli elementi dell’immagine sono identiche a
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tipo non funzioni per ogni tipo di immagine: per tornare alle metafore della sezione 4.014 la relazione di distanza tra un solco e l’altro nel disco è una relazione completamente differente da quella intrattenuta tra i segni della notazione musicale (note e pause) nello spartito, eppure il disco e lo spartito raffigurano la medesima melodia. L’unica strada che ci permette di aggirare l’ostacolo creato dal requisito dell’identità è quella di leggere la relazione di raffigurazione in questi termini: una combinazione di elementi di un’immagine raffigura una possibile combinazione delle entità della situazione ad essi coordinate, a condizione che la relazione che lega i primi presenti almeno una somiglianza formale con la relazione che lega le seconde. Il rapporto tra un’immagine e la situazione da essa raffigurata esposto nelle sezioni 2.152.151 non sarebbe dunque un caso di identità strutturale ma di isomorfismo tra strutture65. Ad avvallare la possibilità di leggere in questo senso la relazione di raffigurazione tra immagine e fatto è un suo chiarimento che lo stesso Wittgenstein fornisce nel Libro Blu . Qui, nel contesto di una esposizione dell’idea attribuita al Tractatus che il senso di una proposizione sia un’ “ombra” proiettata sul fatto raffigurato, egli nega la possibilità che tra proposizione e fatto possa esserci un qualche tipo di identità strutturale:
Una fonte dell’idea dell’ombra è certo il fatto che, in alcuni casi, il dire, l’udire o il leggere un enunciato ci porta immagini davanti agli occhi della mente, immagini che corrispondono più o meno strettamente all’enunciato e ne sono quindi (in un certo senso) traduzioni in un linguaggio pittorico.- Ma è assolutamente essenziale (per l’immagine pittorica che immaginiamo) che l’ombra sia quel che io chiamerò: un’«immagine per somiglianza». Con ciò intendo non che essa sia un’immagine simile a ciò che con essa si ha l’intenzione di rappresentare, ma che essa sia un’immagine la quale è corretta solo quando è simile a ciò che rappresenta. […] Se teniamo presente la possibilità di un’immagine che, pur essendo corretta, non abbia somiglianza con il proprio oggetto, l’interpolazione di un’ombra tra un enunciato e la realtà non ha più ragion d’essere. Infatti, ora, l’enunciato stesso può fungere da ombra. L’enunciato è appunto una tale immagine, priva di qualsiasi somiglianza con ciò che rappresenta. 66 quelle tra gli elementi della realtà raffigurata […]. Ma, se così fosse, non sarebbe possibile ad esempio raffigurare eventi sonori con l’usuale notazione musicale. Le relazioni tra gli elementi dell’immagine devono essere realizzazioni della stessa struttura astratta, ma non necessariamente la stessa realizzazione» (in MARCONI D., Il «Tractatus» in Guida a Wittgenstein, a cura di D.Marconi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 22, nota 16). 65 Ibid., pp. 61-66. Per la prima versione di questa interpretazione cfr. STENIUS E., Wittgenstein’s Tractatus. A Critical Exposistion of Its Main Lines of Thought, Blackwell, Oxford 1960. 66 WITTGENSTEIN L., Libro blu e Libro Marrone, ed. it. a cura di A.G.Conte, Einaudi, Torino 2000, pp.52-53. Gli Hintikka hanno interpretato questo passo a sostegno della loro idea che la teoria raffigurativa non sia una “teoria” nel senso proprio del termine e che la “raffigurazione” sia in realtà
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Non facciamoci ingannare dall’uso che Wittgenstein fa in questo passo della parola “somiglianza”. L’immagine per somiglianza è come la copia di un documento o di un ritratto: essa è efficace solo quando è fedele nella raffigurazione della struttura di ciò che deve riprodurre. Al contrario la proposizione è un’immagine che riesce nella sua funzione raffigurativa anche quando non ha somiglianza con ciò che deve raffigurare. L’identità strutturale tra l’immagine e fatto raffigurato non è dunque una condizione necessaria per la figuratività di quel caso particolare di immagine che è la proposizione. Ed
è
proprio
in
questo
spazio
dovuto
alle
caratteristiche
logiche
della
proposizione/immagine che si inserisce la nozione di forma logica della raffigurazione. Essa si presenta come la possibilità della struttura dell’immagine logica (TLP 2.181), ovvero l’immagine che raffigura correttamente la realtà (lo stare determinate cose in determinate relazioni). Per concludere questa sintesi dei capisaldi della teoria dell’immagine possiamo osservare, in primo luogo, come Wittgenstein introduca e sviluppi la nozione di forma (della’immagine e del fatto) a partire da quella di struttura. Come ha osservato McGuinness: «Tanto per i fatti che per le raffigurazioni, la nozione di forma è introdotta tramite la nozione di struttura. […] Prima di tutto è necessario vedere che due fatti, o due raffigurazioni, sono di struttura differente se i loro oggetti (o elementi) sono ordinati nello stesso modo, ma sono diversi; in tal caso, tuttavia, avranno la stessa forma. Così un fatto e la sua raffigurazione possono avere (o meglio, debbono avere) la stessa forma, ma non possono avere la stessa struttura»67. Una prima osservazione riguarda
quindi
la
possibilità
di
ricondurre
l’efficacia
raffigurativa
della
proposizione/immagine a questo contrasto tra struttura e forma, tra l’effettiva disposizione di elementi costitutivi nell’immagine (coordinata alla configurazione delle cose nel fatto) e la possibilità logica di questa stessa disposizione. Solo in questo senso la proposizione/immagine può raffigurare il fatto senza per questo doverne condividere la struttura, la sua effettiva disposizione nella porzione di realtà nella quale accade. Una seconda osservazione, invece, coinvolge il modo in cui Wittgenstein afferma che la forma logica e la struttura di un’immagine si mostrano nell’immagine ma non possono subordinata alla capacità dei costituenti semplici dell’immagine di fare le veci (vertreten) degli oggetti del mondo: «L’idea fondamentale della concezione di Wittgenstein è precisamente ciò che i matematici intendono per rappresentazione o mappa isomorfica. Lo spiega Wittgenstein stesso alle pagine 52-53 del Libro blu, ove parla di immagini che non sono “immagini per somiglianza”, e chiarisce come per lui la proposizione non sia un’immagine nel senso di immagine per somiglianza. Ne segue che la “teoria” di Wittgenstein si applica in maniera più ovvia e perspicua ad un simbolismo logico non pittorico che a delle vere e proprie figure od agli enunciati del linguaggio naturale» (in HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., pp. 142-143). 67 MCGUINNESS B., Raffigurazione e forma nel Tractatus di Wittgenstein, op. cit., pp. 40-41.
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essere a loro volta raffigurate (TLP 2.172; 4.12-4.1211; 6.124). Che gli aspetti formali dell’immagine e del fatto non possano esser detti in un linguaggio sensato è uno dei presupposti della distinzione più generale tra dire e mostrare; distinzione direttamente connessa allo scopo di individuare i limiti della sensatezza e dunque all’oggetto di questa trattazione: ne vedremo nel seguito gli aspetti principali.
1.1.2 Immagine e pensiero: l’analogia della proiezione
Tornando al filo conduttore dell’esposizione della teoria dell’immagine, l’aver connotato la nozione di forma logica permette a Wittgenstein di introdurre una distinzione nell’ambito delle immagini, tra immagini e immagini logiche (TLP 2.1812.19). L’immagine logica è quella che ha come forma di raffigurazione la forma logica, che assume quindi come posizione rispetto alla porzione di realtà che rappresenta quella più astratta, in modo da poter esibire una configurazione qualunque di elementi qualunque. Essa mostra una configurazione di elementi indipendentemente dalle proprietà particolari da essi possedute e dalle relazioni coinvolte nella raffigurazione. In questi termini Wittgenstein giunge a identificare l’immagine logica con la sua nozione antipsicologista di pensiero: quando l’immagine logica raffigura uno stato di cose sussistente, quando la sua struttura esibisce una configurazione qualunque tra elementi astratti coordinata ad una determinata connessione tra le cose, allora essa è il pensiero (TLP 3). La possibilità di comunicare con gli altri riposa tuttavia sulla capacità propria del linguaggio di mediare tra la forma astratta dei pensieri e la raffigurazione della concretezza dei fatti particolari. Perciò, per potersi manifestare in modo percepibile, il pensiero deve “vestire” l’abito della proposizione68 e trasformare, attraverso i sensi, la configurazione generale di oggetti in generale dell’immagine logica in una configurazione specifica di oggetti specifici (TLP 3.1). Attraverso un’analogia con la proiezione geometrica (TLP 3.11-3.13) Wittgenstein illustra il modo in cui il pensiero si rende comunicabile nel segno proposizionale69: l’immagine logica in astratto viene proiettata su una sequenza di segni fisici percepibili (le parole pronunciate o scritte), che in virtù di questa proiezione acquista lo status di immagine. Innanzitutto, l’analogia 68
Cfr. TLP 4.002, p.42: «Il linguaggio traveste il pensiero. Lo traveste in modo tale che dalla forma esteriore dell’abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata a ben altri fini che al fine di far riconoscere la forma del corpo.» 69 Nel Tractatus Wittgenstein distingue tra segno proposizionale e proposizione: il primo è una configurazione fisica di segni (scritti o pronunciati) mentre la seconda è il segno proposizionale pensato come immagine di un fatto, dunque in un rapporto di raffigurazione con il mondo (TLP 3.12); vedi sopra nota 33.
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della proiezione geometrica (TLP 3.11-3.13) ribadisce la diversità strutturale tra segno proposizionale e fatto raffigurato: alla proiezione (il segno proposizionale) appartiene tutto ciò che concerne la realizzazione della proiezione ma non il suo oggetto (il pensiero). Dunque il segno proposizionale e il pensiero condividono esclusivamente la «possibilità del proiettato» (TLP 3.13); si tratterebbe della declinazione, nel contesto dell’analogia della nozione di forma logica. La relazione di proiezione dell’analogia ci permette di cogliere un altro importante aspetto della raffigurazione legato alle riflessioni sui concetti semantici di Frege; senza la relazione di proiezione i segni fisici percepibili che vengono pronunciati o scritti rimarrebbero grafemi morti, privi del potere di comunicare alcunché. È quanto lo stesso Wittgenstein precisa discutendo della critica di Frege alla concezione formalista della matematica:
L’idea di Frege potrebbe esprimersi così: le proposizioni della matematica, se non fossero che meri complessi di linee, sarebbero morte e irrilevanti, mentre invece è evidente che una specie di vita la hanno. E lo stesso, naturalmente, potrebbe dirsi di qualsiasi proposizione: senza un senso, o senza il pensiero, una proposizione sarebbe una cosa affatto morta e banale. E inoltre sembra chiaro che nessuna aggiunta di segni inorganici possa dare vita alla proposizione. Da tutto ciò discende la seguente conclusione: ciò, che si deve aggiungere ai segni morti per dare vita a una proposizione, è qualcosa di immateriale, differente, per le sue proprietà, da tutti i meri segni. 70
In questo passo risulta chiaro come per Wittgenstein, nella prospettiva del Tractatus, fosse il pensiero a “dare vita” ai segni fisici percepibili che costituiscono il lato empirico della proposizione. Inoltre, dal riferimento iniziale, si può evincere come la nozione di pensiero impiegata da Wittgenstein sia influenzata dall’«idea di Frege»: che se le proposizioni della matematica fossero solo dei segni e dunque la matematica consistesse esclusivamente nell’applicazione di questi segni, allora essi sarebbero “morti”, incapaci di per sé di esprimere alcunché. Ma l’idea di Frege cui si fa riferimento nel passo non comprende solo la critica al formalismo matematico, include anche la nozione di pensiero (der Gedanke) del logico jenese. Con l’espediente retorico del “dar vita” Wittgenstein esprime con una metafora religiosa la relazione tra forma assertoria e forza
70
WITTGENSTEIN L., Libro blu e Libro Marrone, op. cit., p.10.
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assertoria di un enunciato proposta da Frege in Il pensiero 71: individuando nel pensiero ciò per cui è lecito porsi la domanda della verità o falsità, egli attribuisce agli enunciati assertori la capacità di esprimerlo e sostenerne l’una o l’altra. Ora, è chiaro come la verità di un pensiero espresso da un enunciato assertorio non abbia bisogno di alcun elemento aggiuntivo per essere affermata; la forma dell’enunciato assertorio, in quanto contiene un’asserzione, non ha bisogno che si ribadisca il valore di verità del suo contenuto (del pensiero). La forza assertoria dell’enunciato è come un’ombra, come un soffio vitale che conferisce alla forma dell’enunciato un legame con una Bedeutung, un rapporto con la realtà. Si può obiettare a questa tesi con l’esempio di contesti nei quali enunciati dotati di forma assertoria non esprimono alcun valore di verità, non presentano alcuna relazione con la realtà: «Ciò accade quando non parliamo con la dovuta serietà. Così come un tuono sulla scena è soltanto un tuono apparente, ed è apparente un combattimento sulla scena, anche un’asserzione sulla scena è un’asserzione apparente. […] Nella poesia abbiamo il caso di pensieri che vengono espressi senza venir effettivamente posti come veri, nonostante la forma dell’enunciato assertorio; sebbene possa venir suggerito a chi ascolta di formare egli stesso un giudizio di assenso. Occorre pertanto sempre chiedersi se contenga un’asserzione ciò che si presenta con la forma di un enunciato assertorio»72. Frege sta osservando come i contesti nei quali gli enunciati con forma assertoria mancano della forza per connettersi alla realtà, non siano vuoti formalismi privi di potere simbolico. Quello della poesia e della prosa sono casi nei quali la forma assertoria esprime un contenuto che va al di là del pensiero perché non ha come obiettivo l’affermazione della verità o falsità di una situazione reale: «Come mai non ci basta il pensiero? Per il fatto che, e nella misura in cui, siamo interessati al suo valore di verità. Non è sempre così. Ad esempio, quando ascoltiamo un poema epico siamo conquistati oltre che dalla bellezza del suono della lingua anche dal senso delle frasi e dalle rappresentazioni e dai sentimenti che suscitano in noi»73. Questi aspetti legati all’immaginazione e al sentimento di chi ascolta (alla sfera della rappresentazione soggettiva) sono ciò che i poeti e gli scrittori definiscono il “tono”. Parlando del rapporto tra parole e rappresentazioni (Vorstellungen) Frege individua in queste forme d’arte la finalità di raffigurare il modo comune di produrre rappresentazioni soggettive 71
Cfr. FREGE G., Il pensiero, op. cit. p.50. Tra la forza assertoria dell’enunciato in Frege e la “vitalità” che il pensiero conferisce al segno proposizionale nel Tractatus c’è solo un rapporto analogico. Questo vuol dire che non esiste alcuna relazione tra i segni fisici percepibili e l’enunciato assertorio privo di forza assertoria. Al contrario, quest’ultimo non è una stringa di “segni morti” ma si fa carico di una “eccedenza” rispetto al pensiero che contiene. 72 Ivi. 73 FREGE G., Senso e significato in op. cit., p. 39.
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degli esseri umani: « La differenza tra il testo originale e la traduzione, ad esempio, non dovrebbe oltrepassare questo primo livello [il livello della relazione tra parole e rappresentazioni]. Alle possibili differenze si aggiungono qui anche quelle nella tonalità di luce e colore che la poesia e l’eloquenza cercano di conferire al discorso. Queste tonalità di luce e colore non sono obiettive, ma sta al lettore e all’ascoltatore supplirle, assecondando i cenni del poeta e dell’oratore. Se non vi fossero affinità nel modo di rappresentare degli uomini l’arte forse sarebbe impossibile»74. Un attore su un palcoscenico, o l’autore di un poema epico, non stanno asserendo niente che riguardi la verità del pensiero espresso nell’enunciato; stanno piuttosto producendo “immagini”75, proiezioni del segno proposizionale in una direzione diversa dalla realtà. Si capisce allora in cosa consista per Frege la differenza tra gli enunciati appartenenti al campo delle scienze e quelli invece utilizzati nella poesia, nella prosa, nel teatro. Si tratta della declinazione del “principio di composizionalità” nel contesto della distinzione semantica tra senso e significato. Gli enunciati scientifici sono composti in modo tale che tutti i loro costituenti semplici (le espressioni che vi compaiono) abbiano un significato (una Bedeutung) ed in questo modo esprimano un senso che vada nella direzione della realtà. Al contrario gli enunciati della poesia e del teatro possono esprimere un senso e tuttavia esser composti da elementi che non designano alcuna Bedeutung. Quello che interessa l’autore di una poesia non è, per dirla nel lessico di Frege, il passaggio dal senso al significato (l’asserzione della verità nel pensiero), ma piuttosto l’espressione (Ausdruck) di qualcosa attraverso un pensiero. Questa indipendenza concettuale tra verità e pensiero viene ripresa da Wittgenstein nelle sezioni del Tractatus sul rapporto tra linguaggio e pensiero. Il pensiero proiettato sul segno proposizionale è ciò che può esser detto vero o falso, proprio perché è l’immagine logica dei fatti. Quindi la verità o falsità del pensiero riposa sul suo rapporto raffigurativo con i fatti: il confronto di verifica con la realtà è necessario se il pensiero raffigura effettivamente qualcosa (TLP 3.04-3.05). Ma cosa succede quando l’immagine non è un’immagine logica? Abbiamo anche visto come per Frege il confronto tra pensiero e realtà sia inopportuno nel caso di enunciati che si limitano ad “esprimere” un pensiero senza asserire niente sulla realtà. Ebbene, qual è la posizione di questi
74
Ibid., p.37. È Frege stesso, in un senso completamente differente da quello del Tractatus, ad utilizzare il termine “immagine” (anche se tra virgolette) per descrivere le “variazioni di luce e di colore” cui mira l’attore sul palcoscenico o l’autore di una poesia; cfr. Ibid., p.40, nota 6. 75
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enunciati per il Tractatus? Il rapporto di raffigurazione tra pensiero e fatto permette forse una prima definizione della distinzione tra senso e nonsenso? Per il momento è interessante notare come l’analogia della proiezione geometrica fosse utilizzata da Wittgenstein anche nella sua “fase di transizione” per ribadire la relazione di similarità tra proposizioni empiriche (descrizioni di stati di cose sussistenti) e immagini, e per affrontare da una nuova prospettiva le conseguenze che questa relazione di similarità riversa sul problema della sensatezza di tali proposizioni. Nelle sue annotazioni delle lezioni di Wittgenstein a Cambridge negli anni 1930-1933, G.E. Moore trascrive:
Una volta disse [Wittgenstein] che un suonatore è “guidato” dallo spartito “significa” che fa riferimento allo spartito per giustificare ciò che suona. E concluse la sua discussione di questo argomento affermando che, se il suonatore suona correttamente, c’è una “similarità” fra ciò che suona e lo spartito, “benché noi di solito limitiamo l’uso del termine “similarità” ai casi di proiezione che seguono certe regole”; […]. Più tardi ebbe a dire che per un qualsiasi segno ci potrebbe essere un modo di proiezione tale da renderlo significante, ma che, quando affermava una qualsiasi espressione particolare: “Questa espressione non significa nulla” ovvero “è un nonsenso”, ciò voleva dire era: “Questa espressione, secondo il modo corrente di proiezione, non significa nulla”; […]. Wittgenstein insisté parecchie volte sul fatto che siamo facilmente inclini a pensare che stiamo usando un nuovo sistema di proiezione che dà un senso preciso alle nostre parole, quando in realtà non usiamo affatto un nuovo sistema, bensì usiamo male il sistema ordinario: “Qualunque espressione” –diceva- “può avere un suo significato; ma può darsi che voi pensiate di usarla significativamente, quando di fatto non lo fate”. 76
Questo passo annotato da Moore è interessante per due motivi. In primo luogo perché Wittgenstein interpreta la relazione di raffigurazione come una relazione di similarità e non di identità strutturale. Tra lo spartito e la musica c’è una similarità diversa da quella che può esserci tra un documento e una sua copia, anche se possiamo continuare a definirli simili perché presentano una certa simmetria nelle relazioni raffigurate tra i rispettivi elementi costitutivi. Il criterio dell’identità strutturale non è necessario perché lo sparito e la musica raffigurino la possibilità del medesimo fatto: l’esecuzione corretta da parte del suonatore della sinfonia. In secondo luogo, Wittgenstein riferisce all’analogia della proiezione la distinzione tra sensato (Sinnvoll) e insensato (Unsinnig). Così espressioni che “non vogliono dire nulla”, come potrebbero essere quelle 76
WITTGENSTEIN L., Lezioni di filosofia 1930-1933. Annotate e commentate da George E. Moore, a cura di L.Perissinotto, Mimesis, Milano-Udine 2009, pp.71-72.
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pronunciate su un palcoscenico da un attore che recita una pièce di Beckett, potrebbero assumere un significato in un linguaggio che utilizza un diverso “metodo di proiezione”. Il nonsenso di un’espressione è sempre relativo al metodo di proiezione utilizzato. Questo illumina un altro aspetto di quel particolare tipo di nonsenso che è il nonsenso metafisico: il metodo di proiezione che utilizziamo in casi del genere non è il risultato della scoperta di un nuovo sistema con nuovi metodi, ma è piuttosto la conseguenza dell’applicazione distorta del sistema di proiezione comune. Il nonsenso metafisico cerca invano di raffigurare attraverso il metodo di proiezione ordinario, quello che regola le descrizioni delle proposizioni empiriche, laddove invece la raffigurazione non è efficace. I limiti del senso, nel Tractatus, sono invece sempre relativi ai limiti della figuratività dell’immagine logica, del pensiero. È necessario a questo proposito notare un secondo punto di contatto e allo stesso tempo di divergenza tra Frege e Wittgenstein. Si tratta del ruolo attribuito al senso (Sinn) di un enunciato. In un saggio del 1892 Frege aveva distinto tra ciò che un segno designa (la sua Bedeutung) e ciò in cui si esprime il modo di darsi dell’oggetto nel segno (nome proprio, enunciato, lettera), il suo senso. Uno degli obiettivi principali di Frege è quello di distinguere il senso dell’enunciato, la sua direzione rispetto al significato dell’enunciato, dalla rappresentazione soggettiva ovvero quell’immagine interna scaturita da atti interiori ed esteriori compiuti dal soggetto. La semantica dei segni è distribuita quindi su tre livelli: il livello della relazione tra segno e significato, quello della relazione tra segno e senso, e infine quello della relazione tra segno e rappresentazione soggettiva. Abbiamo già visto che il discorso scientifico ha come obiettivo la verità, collocandosi in questo modo nel passaggio dal secondo al primo livello semantico, dal senso al significato. Ma ciò che è suscettibile di un valore di verità, nella prospettiva antipsicologista di Frege, è il pensiero: «Quando si afferma di un’immagine che essa è vera non si vuole veramente ascriverle una proprietà che le spetterebbe in completo isolamento da altre cose, ma si ha in mente qualcosa di totalmente diverso: si vuole dire che quell’immagine corrisponde in qualche modo a questa cosa. […] Quella che, in modo del tutto indebito, viene chiamata la verità di immagini e rappresentazioni viene quindi ricondotta alla verità di enunciati. Cos’è che viene denominato un enunciato? Una successione di suoni; ma a condizione che abbia un senso, […]. E quando si dice vero un enunciato si pensa in effetti al suo senso»77. Per Frege quindi senso e pensiero coincidono in quanto per entrambi si pone la questione 77
FREGE G., Il pensiero, op. cit., pp.46-47.
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della verità. Questo inoltre, permette di distinguerli tanto dal mondo oggettivo delle cose (che a livello semantico si esprime nella nozione di Bedeutung) quanto dal mondo soggettivo delle rappresentazioni78. Da quanto detto sopra invece, si evince che per Wittgenstein il senso dell’enunciato interpretato (della proposizione) non possa essere identificato completamente con il pensiero. Quest’ultimo, in quanto immagine logica dei fatti, raffigura una situazione astratta proiettata sul segno proposizionale; a costituire il senso della proposizione sarà dunque la situazione raffigurata in astratto nel pensiero. La teoria raffigurativa elimina la necessità di principi che regolino la costruzione sintattica del senso della proposizione, a partire dai suoi elementi costituitivi. Il senso della proposizione, per Wittgenstein, non è il risultato dell’applicazione del “principio di composizionalità” al senso delle sue parti costitutive perché esso è esibito interamente dalla situazione raffigurata in astratto dall’immagine logica (TLP 4.022). È questa mossa teorica che permette a Wittgenstein di identificare la proposizione con il pensiero (TLP 3.5-4). Quello che nei termini di Frege era il modo di presentarsi dell’oggetto nell’enunciato, il suo senso, non scaturisce dalla composizione dei sensi dei suoi elementi costitutivi perché il suo compito viene interamente assorbito dalla figuratività dell’immagine logica. Si può concludere che nel Tractatus la relazione di raffigurazione riprende e ingloba le distinzioni semantiche tra senso, significato e rappresentazione avanzate da Frege79. In sintesi, per il Tractatus, il pensiero raffigura uno stato di cose secondo un meccanismo duplice: da un lato mostrando la forma logica della situazione raffigurata nella proposizione, dall’altro attraverso la coordinazione delle parti costitutive della 78
Sull’uso di “oggettivo” e “soggettivo” in Il pensiero, Carl osserva come la distinzione sia il risultato dell’indipendenza che Frege postula tra la sfera del logico e quella dello psicologico: « As we have seen from his analysis of the notion of representation, Frege explains what is subjective in terms of a casual dependence on something mental and the epistemological privacy of our representations. By calling something objective, he wants to exclude that it is subjective in this particular sense, and he takes this as being equivalent with intersubjective accessibility» (in CARL W., op. cit., p.82). 79 In questa direzione va l’interpretazione della teoria raffigurativa di Michael Dummett, anche se egli vi ha visto una soluzione alle difficoltà di Frege scaturite dall’assimilazione degli enunciati ai nomi propri. Se il senso di un enunciato è conoscerne il valore di verità e se questo valore di verità può essere identificato con la Bedeutung dell’enunciato, allora gli enunciati sono nomi complessi di un tipo particolare di oggetti, e questo comporta una serie di problemi. La teoria raffigurativa, individuando nell’enunciato un fatto (il fatto che un certo nome ha una certa proprietà o due nomi stanno in una certa relazione) rappresentava una soluzione brillante al problema di Frege. Tuttavia, osserva Dummett, questa mossa teorica collima con la determinatezza del senso dell’enunciato: « Un enunciato non può essere un fatto, perché asserisce (states) una cosa sola, e chi ascolta, se comprende il linguaggio, deve sapere che cos’è ciò che asserisce. Un diagramma non è un fatto, ma un oggetto, e ci sono molti fatti che lo riguardano. […] Ma per l’enunciato non è così: benché possa implicare molte cose, un enunciato dice una cosa sola e se lo si comprende si deve sapere ciò che dice; […]» (in DUMMETT M., Frege e Wittgenstein in Capire Wittgenstein, op. cit., p.235).
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situazione agli elementi costitutivi del pensiero (l’immagine logica dei fatti). Il primo meccanismo è al centro di una delle distinzioni fondamentali del Tractatus : quella tra dire e mostrare. Il secondo meccanismo riposa invece sull’ontologia dell’atomismo logico e sulla nozione di oggetto80. Prima di affrontare il tema del nonsenso nel Tractatus è dunque necessario accennare ai problemi interpretativi sollevati dagli oggetti.
1.1.3 Gli oggetti e i limiti del senso
I costituenti semplici della situazione possibile raffigurata dalla proposizione elementare sono chiamati da Wittgenstein “oggetti” (Gegenstände). Prima di parlare delle loro caratteristiche e dell’ontologia atomistica del Tractatus è ragionevole domandarsi il perché egli senta l’esigenza di trattare, prima della teoria dell’immagine e della teoria raffigurativa, degli elementi ultimi (o primi) della realtà. Ebbene come ha osservato A.G. Gargani: «Wittgenstein è ricorso al motivo del “semplice”, dell’ “indecomponibile” mosso da un’esigenza non già metafisica di determinare regioni ontiche del reale, ma da quella logico-linguistica della determinatezza del senso; […]»81. Il ragionamento che lo porta a concludere la necessità di costituenti ultimi della realtà è quello che muove dall’esigenza della determinatezza del senso della proposizione: affinché una proposizione abbia un senso determinato, è una condizione necessaria che la situazione possibile da essa raffigurata sia determinata82. Che la 80
Secondo gli Hintikka il fatto che le possibilità combinatorie dei nomi corrispondano alla totalità delle potenziali combinazioni degli oggetti dei quali fanno le veci pone dei vincoli rilevanti per il simbolismo corretto che la filosofia del Tractatus cerca di introdurre. Distinguendo tra “raffigurazione” (utilizzata per designare il modo in cui le proposizioni sono repliche isomorfiche di stati di cose) e “rispecchiamento” (la corrispondenza tra la forma logica di un enunciato e la forma interna della realtà) gli Hintikka attribuiscono alla funzione simbolica dei nomi il secondo tipo di relazione con il mondo: «Secondo Wittgenstein un nome non è in alcun senso un’immagine del suo oggetto. Cionondimeno, può rispecchiare il suo oggetto nel senso che le possibilità del nome di combinarsi con altri nomi corrispondono a quelle dell’oggetto di combinarsi coi relativi oggetti» (in HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., p.180). 81 GARGANI A. G., Linguaggio ed esperienza in Ludwig Wittgenstein, Le Monnier, Firenze 1966, p.77. 82 Glock individua almeno tre motivi che portano Wittgenstein dal problema della determinatezza del senso alla conclusione della necessità di un’ontologia atomistica: 1) se non ci fossero oggetti semplici il senso di una proposizione molecolare (una proposizione analizzabile in almeno due proposizioni elementari) sarebbe indeterminato; 2) senza elementi semplici della realtà una proposizione elementare non può essere verificata secondo due alternative: vero o falso (verrebbe dunque meno la bipolarità delle proposizioni elementari assunta da TLP 4.023); 3) una proposizione su un complesso può avere più sensi, perché i suoi elementi potrebbero assumere più di una configurazione. A questo punto però il loro senso rimarrebbe indeterminato se i segni semplici delle proposizioni elementari in cui è analizzabile non fossero coordinati agli oggetti; cfr. GLOCK H.-J., A Wittgenstein’s Dictionary, Blackwell, Oxford 1996, pp. 271-272.
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prospettiva sia quella logico-linguistica della determinatezza del senso è del resto confermato dal contro-argomento presentato come commento ad una sezione (TLP 4.221) sulla finitezza dell’analisi:
Anche nell’ipotesi che il mondo sia infinitamente complesso, così che ogni fatto consti di infiniti stati di cose ed ogni stato di cose sia composto d’infiniti oggetti, anche allora dovrebbero esservi oggetti e stati di cose.83
Anche nel caso in cui accettassimo l’ipotesi ontologica dell’infinita complessità del mondo, e con essa l’impossibilità di individuare i componenti ultimi della realtà, anche in quel caso il fatto che la proposizione consti di segni semplici primitivi, i nomi (TLP 4.22), e raffiguri le loro relazioni, imporrebbe all’analisi di pervenire a proposizioni elementari (TLP 4.221). Perché la situazione raffigurata dalla proposizione sia determinata, occorre che sia determinato di che cosa la proposizione parla, di quale stato di cose asserisce la sussistenza. Se la proposizione parla di oggetti e delle loro relazioni allora è necessario che sia interamente determinata l’esistenza di quegli oggetti e la loro disposizione in uno stato di cose: fintantoché la proposizione non è stata analizzata fino a individuare i suoi costituenti ultimi, fino a quel punto, sarà impossibile determinare di cosa essa parli. Va inoltre osservato come il principio della determinatezza del senso alla base dell’ontologia del Tractatus guidi la relazione semantica tra il nome e l’oggetto, oltre che la possibilità di individuare il significato di un nome solo all’interno del contesto della proposizione (TLP 3.3) 84. Il nome significa un oggetto, è in «nesso immediato» con la realtà, soltanto all’interno della proposizione; perché il nome designa direttamente un oggetto ma nei limiti delle condizioni di senso comunicate dalla proposizione: « Un nome sta per una cosa, un altro nome sta per un’altra cosa ed essi sono connessi tra loro: Così il tutto presenta – come un quadro plastico – lo stato di cose»85. Possiamo notare come Wittgenstein dia per scontata la possibilità di applicare i segni semplici primitivi agli oggetti per costituire proposizioni dotate di senso; la spiegazione che il Tractatus fornisce alla determinatezza del senso si dispiega allora
83
TLP 4.2211, p.56. Si tratta della riproposizione del “principio del contesto” di Frege; cfr. FREGE G., I fondamenti dell’aritmetica in Logica e aritmetica, a cura di C.Mangione, Boringhieri, Torino 1965, p.219 e pp. 296298. 85 TLP 4.0311, p.46. 84
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nella teoria raffigurativa delle proposizione e nell’ontologia che la sostiene: l’ontologia dell’atomismo logico86. Nel Tractatus il nucleo argomentativo dell’ontologia atomistica è nelle sezioni 2.02112.0212. Dopo aver definito gli oggetti come semplici (TLP 2.02) e averne affermato l’identità con la sostanza del mondo (TLP 2.021), Wittgenstein commenta:
Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere un’altra proposizione vera. Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine (vera o falsa) del mondo. 87
L’obiettivo polemico di queste sezioni è chi per i più svariati motivi sostiene una posizione contraria all’ontologia atomistica. Ammettiamo per ipotesi che il mondo non abbia sostanzialità, non sia cioè analizzabile in elementi semplici (gli atomi). L’analisi della proposizione vorrebbe comunque che il suo senso venisse determinato dalla configurazione che i suoi elementi costitutivi dispongono al suo interno. Se l’analisi non giungesse mai a questi elementi costitutivi semplici, coordinati agli elementi costitutivi semplici della situazione raffigurata, allora la possibilità di determinare il senso della proposizione verrebbe meno perché a questo punto dipenderebbe dalla verità di un’altra proposizione. In questo caso, infatti, l’analisi non si arresterebbe mai perché il senso della proposizione dipenderebbe dalla composizione delle sue parti costitutive; ma dal momento che l’esistenza di elementi semplici è scartata per ipotesi, allora tali parti costitutive saranno a loro volta dei complessi. Trattandosi di complessi questi elementi costitutivi non potrebbero che essere proposizioni, la validità delle quali (al fine di determinare il senso della prima proposizione) riposerebbe sul loro valore di verità. Ma il valore di verità di una proposizione può essere verificato solo dall’esterno, dovremmo cioè poter asserire l’esistenza dei suoi costituenti semplici indipendentemente dalle condizioni di sensatezza della proposizione nella quale queste proposizioni/costituenti occorrono. Dire che un complesso esiste, infatti, significa asserire che di fatto (in una
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L’ espressione “atomismo logico” proviene dalla raccolta di testi delle conferenze tenute da Russell tra il gennaio e il marzo del 1918 e pubblicate con il titolo The Philosophy of Logical Atomism (RUSSELL B., La filosofia dell’atomismo logico, ed. it. a cura di M. Di Francesco, Einaudi, Torino 2003). In esse Russell presenta una dottrina metafisica pluralistica e atomistica circa la natura della realtà, per cui il mondo è composto da una pluralità di entità semplici (i particolari) connesse tra loro attraverso relazioni oggettive, ovvero indipendenti dalla mente. Tale dottrina rientra nel contesto della reazione dei giovani di Cambridge all’egemonia accademica della metafisica monistica e idealistica dei neohegeliani britannici; per una ricostruzione storica e per l’influenza di questo dibattito su Wittgenstein cfr. GARGANI A.G., Wittgenstein tra Austria e Inghilterra, Stampatori, Torino 1979, pp. 67-120. 87 TLP 2.0211-2, p.27.
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porzione di realtà) certi costituenti sono assemblati in un determinato modo. In conclusione, sapere se una proposizione è vera significa verificare la sussistenza di uno stato di cose, e la sussistenza di questo stato di cose dipenderebbe dal sussisterne di un altro e così via in un regresso all’infinito. In questo modo collasserebbe anche la distinzione tra vero e falso, perché la verità di una proposizione dipenderebbe da quella di un’altra: se gli oggetti non fossero la sostanza del mondo sarebbe impossibile costruire un’immagine vera o falsa della totalità dei fatti88. Come ha notato David Pears89 questo argomento, inserito al termine delle osservazioni sulla sostanzialità degli oggetti, presenta sotto la forma di una reductio ad absurdum della posizione contrapposta all’atomismo logico, una spiegazione della possibilità di costruire proposizioni dotate di senso. Anche nel cuore di quella che dovrebbe essere la tesi più impegnata sulla prospettiva ontologica del Tractatus possiamo riscontrare la prevalenza di ragioni logico-linguistiche al fine della giustificazione di quel che viene asserito sul mondo. Così a proposito della sezione 2.0121, nella quale Wittgenstein parla di “sussistere” degli oggetti negli stati di cose e dei “fatti” dei quali tratta la logica come totalità delle possibilità, McGuinness commenta: «Voglio dire che qui abbiamo un uso traslato e in sé illegittimo della parola “fatto”, e che l’intera ontologia è analogamente un uso traslato e illegittimo di parole come bestehen. È un tipo di mito ontologico che vuole proporci per mostrare la natura del linguaggio. Come sappiamo, uno dei principali risultati della visione del linguaggio così raggiunta è il rifiuto di ogni mito di questo tipo»90. L’immagine di una “semantica realista” nel Tractatus sarebbe messa fortemente in dubbio dalla considerazione del contesto e delle giustificazioni che Wittgenstein attribuisce all’ontologia dell’atomismo logico. Un’interpretazione di questo tipo della sostanzialità degli oggetti è peraltro corroborata dalla posizione che l’argomento di 2.0211-2.0212 occupa nella struttura ad albero del testo. Poiché è esposto in due commenti alla sezione 2.021, quella che identifica gli oggetti con la sostanza del mondo e afferma il postulato atomistico della loro semplicità, l’argomento in questione si trova sullo stesso ramo delle sezioni 2.026-2.027, quelle che 88
Cfr. WHITE R.M., Can whether make sense depend on the truth of another? (Tractatus 2.0211-2), in Understanding Wittgenstein, ed. by G.Vesey, Cornell University Press, New York 1976, pp.14-29. White individua nell’attribuzione alle proposizioni elementari dei valori vero/falso, nell’argomento della sostanzialità degli oggetti, un elemento di continuità relativo alla prospettiva sul linguaggio del “secondo” Wittgenstein: « So we may return by saying in reply to the Tractatus that a proposition and its negation exhaust the possibilities allowed for by the language, not the possibilities taken in some abstract sense, and this possibilities are conditioned by the form of life of the speakers of that language and by the features of the world within which they live that life» (in Ibid., p.28). 89 PEARS D., Un confronto tra due argomenti, in Dialogo su Wittgenstein, a cura di A.G.Gargani, Cadmo, Fiesole 2006, pp.66-89. 90 MCGUINNESS B., Il cosiddetto realismo del Tractatus di Wittgenstein, in op. cit., p.104.
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affermano la fissità e la sussistenza degli oggetti. Da ciò possiamo ricavare almeno due osservazioni. In primo luogo qualsiasi interpretazione degli oggetti del Tractatus che ne deduce la sostanzialità (nel senso “mitico” di McGuinness) dall’essere la forma fissa del mondo, sarebbe fuorviata da una connotazione in senso metafisico delle affermazioni ontologiche di Wittgenstein, a scapito delle loro conseguenze logico-linguistiche. In secondo luogo tanto l’argomento della sostanzialità degli oggetti quanto l’asserzione della fissità e della loro necessaria sussistenza sono espressi in commenti “centesimali” alla proposizione 2. Sarebbe allora strano, se Wittgenstein avesse veramente voluto sostenere un’ontologia realista nel Tractatus, che gli argomenti centrali di questa tesi si trovino esposti in commenti collocati ad un livello di profondità superiore rispetto alle proposizioni cardinali. Fatta questa premessa è allora possibile approfondire alcune delle caratteristiche che Wittgenstein attribuisce agli oggetti. Innanzitutto la sostanzialità degli oggetti ci permette di concluderne la loro invariabilità rispetto alla variazione logica, ovvero rispetto a tutte le possibilità. Sarebbe questo il senso in cui il Tractatus afferma che gli oggetti sono “incolori” (TLP 2.0232): gli oggetti sono la sostanza del mondo, ciò che rende possibile il passaggio da un configurazione del mondo sensatamente descrivibile ad un'altra, pertanto non possiedono proprietà materiali (come la “cromaticità”) e si differenziano solo sulla base della forma, ovvero sulla possibilità generica di ricorrere in stati di cose (TLP 2.0141). La totalità delle possibili situazioni in cui l’oggetto occorre è lo spazio logico (TLP 2.013), l’identità dell’oggetto è costituita da quest’insieme di possibili situazioni che formano lo spazio logico (TLP 2.0121-2.0123). Ma la caratteristica di maggiore importanza che segue dalla sostanzialità degli oggetti è la nozione di proprietà interna (o formale): è la proprietà di un oggetto di poter ricorrere in una data situazione. In questo senso la conoscenza dello spazio logico di un oggetto può essere identificata con la conoscenza della totalità delle sue proprietà interne o formali. Alla luce di questo percorso tra le caratteristiche degli oggetti del Tractatus, è possibile comprendere cosa Wittgenstein intenda quando si riferisce alla totalità degli oggetti definendoli forma e contenuto del mondo (TLP 2.025): se si considerano le forme di tutti gli oggetti si ottiene la totalità delle situazioni possibili; ora questo dominio di possibilità costituisce la forma comune di tutte le combinazioni del sussistere e del non sussistere di tutte le situazioni, ovvero ciò che è invariante al passaggio del mondo dalla sua configurazione attuale ad un’altra qualsiasi (il contenuto, la sostanza del mondo). Si noti come il livello di astrazione in cui Wittgenstein colloca gli approfondimenti 50
ontologici del Tractatus sia diametralmente contrapposto alla semplicità, all’assenza di complessità degli oggetti. Proprio la semplicità, in ultima analisi, costituisce non solo la caratteristica che identifica più delle altre la nozione di oggetto, ma anche il punto di partenza dal quale Wittgenstein ha cominciato ad orientare l’ontologia del Tractatus verso l’atomismo logico:
Sembra che l’idea di SEMPLICE sia già contenuta in quella del complesso e nell’idea dell’analisi, e in modo tale che noi (prescindendo completamente da qualsiasi esempio d’oggetti semplici o da proposizioni ove si parli di tali oggetti) perveniamo a questa idea ed intuiamo l’esistenza degli oggetti semplici come una necessità logica – a priori. 91
Non è un caso allora che gli interpreti si dividano sulla lettura della semplicità degli oggetti. Nel seguito del capitolo prenderemo in considerazione tre “tipi” differenti di lettura della semplicità degli oggetti per poi trarre delle conclusioni sul rapporto tra l’ontologia del Tractatus e la distinzione tra dire e mostrare. Queste conclusioni dovrebbero infine permetterci di approfondire il tema del nonsenso nel Tractatus e delle proposizioni del Tractatus. Un’analisi adeguata delle posizioni in campo ci permetterà di capire meglio il fine per il quale Wittgenstein concepiva questa semplicità. Marconi riconduce le interpretazioni della semplicità degli oggetti a tre varianti92: 1) alcuni hanno interpretato gli oggetti come enti fisici minimi (punti materiali o punti dello spazio-tempo)93 pensando che Wittgenstein fosse intenzionato ad introdurre nel Tractatus una ragionevole ontologia scientifica. A partire dalle considerazioni di Wittgenstein sul campo visivo P.M.S. Hacker individua negli oggetti dei minima sensibilia : «His main (though, of course, not sole) examples of simple objects and of complexes are points or minima sensibilia in the visual field, and parts or areas of the visual field. These provide paradigms of items to which the name-sign can occurrently be attached»94. 2) Altri hanno individuato negli oggetti unità fenomenologiche minime (unità percettive minime, sense-data) partendo anch’essi dalle osservazioni di Wittgenstein sui 91
WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op.cit., pp. 201-202. Cfr. MARCONI D., L’eredità di Wittgenstein, op. cit., p. 22 e IDEM, Il «Tractatus» in Guida a Wittgenstein, op. cit., pp. 31-32. 93 I più noti esponenti di questa interpretazione neopositivista degli oggetti sono: GRIFFIN J., Wittgenstein’s Logical Atomism, Oxford University Press, Londra 1964 e HACKER P.M.S., Insight and Illusion, Clarendon Press, Oxford 1972. 94 HACKER P.M.S., op. cit., p.46.
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punti del campo visivo. Questa interpretazione è quella sostenuta dagli Hintikka, i quali identificano gli oggetti con punti fenomenologici legati all’esperienza diretta. A sostegno di questa identificazione è possibile richiamare alcune osservazioni dei Quaderni 1914-1916:
Come esempi del semplice penso sempre a punti dell’immagine visuale. (Analogamente, come tipici «oggetti composti» mi si presentano sempre alla mente parti dell’immagine visuale.) [6.5.1915]
Anche se non conosciamo de visu gli oggetti semplici, gli oggetti complessi li conosciamo de visu, sappiamo de visu che sono complessi. –E che essi debbono ultimamente constare di cose semplici? Prendiamo ad esempio una parte del nostro campo visivo; noi vediamo che essa è ancora complessa, che una sua parte è ancora complessa ma già più semplice, e così via. [24.5.1915] 95
L’originalità della lettura degli Hintikka consiste tuttavia nel fatto che Wittgenstein sosterrebbe l’identificazione degli oggetti con unità fenomenologiche minime come spiegazione efficace dell’ineffabilità della loro esistenza. Infatti, la proposizione che asserisce l’esistenza di un oggetto particolare, del tipo “A esiste”, è secondo il Tractatus una pseudoproposizione (TLP 3.325): per Wittgenstein i giudizi esistenziali particolari sono necessari perché mostrano aspetti formali del mondo. Per comprendere quanto appena detto occorre allora indagare la natura particolare degli oggetti. Essa presenta un’apparente contraddizione: la sostanzialità degli oggetti, connessa alla loro semplicità sembra andare nella direzione opposta rispetto alla possibilità di far parte di stati di cose, alla nozione di forma dell’oggetto (TLP 2.0141). In che modo allora è possibile conciliare la semplicità con la possibilità di occorrere in una configurazione possibile, con la forma? Gli Hintikka risolvono l’apparente contraddizione riconducendo gli oggetti del Tractatus agli individuals
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della teoria della conoscenza di Russell del
1913: « […] basti dire che la teoria di Russell del 1913 era un’estensione della sua concezione della conoscenza diretta come base sia della conoscenza che del significato. In precedenza, Russell aveva usato l’idea di conoscenza diretta (acquaintance) per 95
WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op.cit., pp. 184 e 190. Secondo gli Hintikka il passaggio capitale su cui fondare l’identificazione tra oggetti del Tractatus e oggetti della conoscenza diretta di Russell sarebbe il §46 delle Ricerche Filosofiche, nel quale gli “elementi primi” del Teeteto vengono associati agli individuals di Russell e agli oggetti del Tractatus. Per l’identificazione dei sense-data con i particulars o gli individuals cfr. RUSSELL B., I problemi della filosofia, tr. it. di E. Spagnoli , P. Costa, Feltrinelli, Milano 2007, p.110: « Parliamo di tutto ciò che è dato nella sensazione, o ha la stessa natura delle cose date nella sensazione, come di un particolare […]». 96
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spiegare la provenienza dei componenti più semplici delle nostre proposizioni. In Theory of Knowledge Russell tenta di rifarsi alla stessa idea per spiegare la logica e la forma logica, specialmente la forma logica delle proposizioni complesse»97. Secondo gli Hintikka, Wittgenstein riprenderebbe questa teoria eliminando però la forma logica delle proposizioni complesse dal novero degli oggetti conoscibili per acquaintance. Questo renderebbe superflua la teoria dei Tipi di Russell a vantaggio di un simbolismo in cui tutte le qualità e le relazioni possono essere interpretate come copule:
What I am most certain of is not however the correctness of my present way of analysis, but of the fact that all theory of types must be done away with by a theory of symbolism showing that what seem to be different kinds of things are symbolised by different kinds of symbols which cannot possibly be substituted in one another’s places.98
Il percorso che porta Wittgenstein all’ontologia del Tractatus sarebbe dunque quello della riduzione della possibilità di tutte le forma logiche alle forme degli oggetti, condizione realizzabile, dicono gli Hintikka, a patto che degli oggetti si abbia una qualche forma di conoscenza diretta. Sarebbe questo il significato di “esperienza” cui Wittgenstein fa riferimento in TLP 5.552. Questa conclusione avrebbe l’effetto di duplicare i livelli di ineffabilità presenti nel Tractatus: da un lato l’ineffabilità della relazione semantica tra nome e cosa espressa dalla tesi che i nomi sono segni primitivi semplici, dall’altro l’ineffabilità della forma logica della proposizione fondata invece sulla riduzione di tutte le forme logiche alle forme degli oggetti. Le proprietà formali delle proposizioni elementari possono essere esibite mostrando questi oggetti semplici della conoscenza diretta (TLP 4.12-4.1212). Da ciò, infine, gli Hintikka deducono che il tema del mostrare vada riferito al secondo livello di ineffabilità piuttosto che al primo: «L’ineffabilità dei concetti formali segue secondo Wittgenstein dalla generale ineffabilità della semantica, ma la loro mostrabilità segue solo dalla natura degli oggetti di conoscenza diretta semplici di Wittgenstein. Infatti nel Tractatus Wittgenstein non usa “mostrare” come termine generico, applicabile a qualunque cosa possa esser 97
HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., p. 87. Per esser più precisi, la concezione della semplicità degli oggetti del Tractatus deve la sua connotazione anche al principio di composizionalità di Frege: « Un problema storico di grande interesse che sorge a questo punto è la possibilità che Wittgenstein fosse influenzato da Frege in questo suo avventurarsi oltre Russell. Infatti la posizione a cui Wittgenstein giunse è solidamente radicata nel famoso (o famigerato) principio di composizionalità […]. È questo il corrispondente linguistico dell’idea che le forme degli oggetti (semplici) determinano le forme di tutte le proposizioni, un’idea che abbiamo vista fatta propria da Wittgenstein» (in Ibid., p.92). 98 WITTGENSTEIN L., Cambridge Letters, ed. by B.McGuinness and G.H.vonWrigth, Blackwell, Oxford 1995, lettera a Russell del gennaio 1913, p.25.
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comunicata ma non detta nel linguaggio»99. La critica più solida che può essere avanzata all’identificazione tra oggetti semplici e sense-data russelliani, al di là dell’evidenza testuale che gli Hintikka chiamano a sostegno, riguarda la prospettiva all’interno della quale Wittgenstein considera l’atomismo logico. Più che da un’epistemologia empiricista egli potrebbe essere stato ispirato dalla concezione di una teoria del simbolismo influenzata dal kantismo100, nel progetto di esplorare e individuare le condizioni necessarie della raffigurazione:
Come può conciliarsi con l’officio della filosofia il fatto che la logica debba curarsi di se stessa? Se, ad esempio, domandiamo: Questo certo fatto è della forma soggetto-predicato?, dobbiamo pur sapere che cosa intendiamo per «forma soggetto-predicato». Dobbiamo sapere, se mai vi sia una tale forma. […] Dunque possiamo domandarci: V’è la forma soggetto-predicato? V’è la forma relazionale? V’è qualcuna delle forme, delle quali Russell ed io abbiamo sempre parlato? (Russell direbbe: «Si! È pur evidente.» Eh già!). Dunque se tutto ciò che ha bisogno d’essere mostrato è mostrato dall’esistenza di PROPOSIZIONI a soggetto-predicato etc., allora l’officio della filosofia è altro che quel che io supponevo in origine. Ma se non è così, ciò che manca dovrebbe esser mostrato da una specie d’esperienza, il che ritengo escluso.101
È alla luce di questo punto debole dell’interpretazione della semplicità degli oggetti proposta dagli Hintikka che vorrei considerare la lettura di Frascolla. Le sue considerazioni prendono il via dal modo in cui nel Tractatus si presenti il marchio distintivo dell’atomismo: l’esistenza di entità assolutamente semplici. Questo tema si presenta parallelo e in un certo senso contrapposto al ruolo che la possibilità logica gioca nella nozione di stato di cose, nella configurazione all’interno della quale gli oggetti intrattengono relazioni. In un’ontologia del linguaggio logico significante, infatti, non ci sarà posto per le situazioni possibili non sussistenti (gli stati di cose all’interno dei quali gli oggetti potrebbero intrattenere una determinata relazione), ma solo per le situazioni possibili sussistenti. Il sussistere di un insieme di stati di cose costituisce il fatto positivo (TLP 2-2.06). Ora la caratteristica fondamentale di stati di cose e fatti è che si contrappongono agli oggetti come ciò che è contingente contro ciò 99
HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., p.106. Da questo punto di vista il problema degli elementi ultimi della raffigurazione si sviluppa nel solco delle riflessioni di Frege sullo scopo della Begriffsschrift e sull’influenza che su tali riflessioni ebbero i logici del neokantismo tedesco; cfr. SLUGA H., Frege on meaning in The Rise of analytic philosophy, ed. by GLOCK H.-J., Blackwell, Oxford 1997, pp. 17-34 e GABRIEL G., Frege, Lotze, and the Continental Roots of Early Analitic philososphy, in From Frege to Wittgenstein: perspectives on early analytic philosophy, ed. by RECK E.H., Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 39-51. 101 WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op.cit., 3.9.1914, p.130. 100
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che è necessario (TLP 2.2071). Dal momento che le entità assolutamente semplici, la totalità delle quali costituisce lo sfondo logicamente invariabile dell’accadere o meno dei fatti, sono il corrispettivo ontologico delle entità semantiche semplici, le quali a loro volta costituiscono il punto di arrivo dell’analisi della proposizione, Frascolla conclude che queste entità possano essere interpretate come “qualità fenomeniche ripetibili”: «My claim is that the notion of existence does not fit objects at all: objects, as repeatable phenomenal qualities, are abstract entities, whereas existence, within the theorethical framework of the Tractatus, is strictly confined to minimal concrete complexes, or state of affairs»102. Il problema dell’analisi della proposizione e della determinatezza del senso imporrebbero nel Tractatus di trattare le questioni ontologiche da una prospettiva fenomenista. In essa il dato (l’insieme dei fenomeni) è costituito da complessi fenomenici esistenti (fatti fenomenici) che possono essere analizzati (scomposti) in elementi qualitativi ripetibili (i qualia)103. Questa mossa ermeneutica permette inoltre di sganciare la sostanzialità e semplicità degli oggetti dal problema dell’ineffabilità della loro esistenza, che per Wittgenstein rimane comunque necessaria. Che la nozione di esistenza necessaria sia secondaria rispetto alla possibilità di un oggetto di occorrere in uno stato di cose e che funga da garanzia della finitezza dell’analisi, Frascolla lo conclude dalla scelta dei qualia come oggetti semplici. Una scelta di questo tipo sarebbe del resto indicata dalle osservazioni dello stesso Wittgenstein su colori e spazio visivo del biennio 1929-30, presenti nelle Osservazioni filosofiche:
Ora posso dire ad esempio: «la metà superiore del mio campo visivo»? E che significa questo? Posso dire che un oggetto ( la metà superiore) ha la proprietà “rosso”? Occorre ricordarsi che ogni parte dello spazio visivo deve avere un colore e che ogni colore deve occupare una parte dello spazio visivo. Le forme colore e spazio visivo si compenetrano a vicenda. È chiaro che non si dà nessuna relazione di “trovarsi” che sussista fra un colore e il luogo nel quale si trova. Non esiste nessun anello intermedio fra colore e spazio. Colore e spazio si saturano a vicenda. E il modo in cui si compenetrano a vicenda forma il campo visivo.104
Il passo citato evidenzia come per Wittgenstein tale scelta rispondesse a motivazioni puramente logiche: l’identificazione di quale sorta di entità fenomeniche qualitative debbano costituire l’ultimo gradino dell’analisi semantica della proposizione è un tipico 102
FRASCOLLA P., Understanding Wittgenstein’s Tractatus, op. cit., p.78. Ivi, Frascolla identifica gli oggetti con la nozione di quale nello stesso senso in cui la utilizza Nelson Goodaman; cfr. GOODMAN N., La struttura dell’apparenza, tr. it. di A.Emiliani, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 196-208. 104 WITTGENSTEIN L., Osservazioni filosofiche, tr. it. di M.Rosso, Einaudi, Torino 1976, § 207, p. 215. 103
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problema della logica, che non ha nulla a vedere con l’individuazione della porzione spazio-temporale occupata dall’oggetto. In secondo luogo una conclusione di questo tipo è suggerita dall’uso tecnico della parola “mondo” nel Tractatus come il mondo del soggetto del solipsismo (TLP 5.62-5.621; 5.63; 6.431). Le osservazioni ontologiche del Tractatus non sono sviluppate in un contesto epistemologico o scientifico ma sono l’esito necessario dell’indagine logica sull’analisi della proposizione. In conclusione, Frascolla riprende l’interpretazione della semplicità degli oggetti nel senso di unità fenomenologiche minime. Come per gli Hintikka la questione di quale tipo di entità si nasconda dietro la categoria di oggetto del Tractatus è una questione che riguarda la logica e non l’indagine empirica (come vorrebbe invece l’interpretazione neopositivista). Ma a differenza degli Hintikka non vede nella insensatezza dell’asserzione dell’esistenza di un oggetto particolare una forma di ineffabilità. Questa caratteristica degli oggetti è piuttosto una conseguenza della loro semplicità, del loro essere le parti non ulteriormente scomponibili di un complesso fenomenico percepibile. In questo modo l’apparente contraddittorietà tra la sostanzialità degli oggetti e il loro avere una forma, il loro intrattenere relazioni in una configurazione possibile, si dissolve senza dover chiamare in causa la conoscenza diretta di Russell:
Non c’è bisogno di una teoria per riconciliare ciò che sappiamo dei dati di senso e ciò che crediamo intorno agli oggetti fisici, perché parte di ciò che intendiamo dicendo che un penny è rotondo è che in determinate condizioni lo vediamo come un’ellisse. 105
Dunque gli oggetti del Tractatus possono essere conosciuti per acquaintance ma ciò non implica che debbano essere identificati con i sense-data di Russell. Seguendo Frascolla li possiamo piuttosto identificare con i costituenti non ulteriormente analizzabili dei sense-data, come i punti dello spazio visivo, o le qualità minime percepibili (ad esempio il contorno e la forma di una macchia di colore, o le variazioni di tono da una macchia di colore ad un’altra): Complessità spaziale è anche complessità logica? Già, pare proprio di sì! Ma di che consta ad esempio una parte uniformemente colorata della mia immagine visuale? Di minima sensibilia? E come determinare il luogo di uno di essi?106
105 106
WITTGENSTEIN L., Lezioni 1930-1932. Dagli appunti di John King e Desmond Lee, op. cit., p.93. WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op.cit., 7.5.1915, p.184.
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3) Rimane ancora un gruppo di interpretazioni della semplicità degli oggetti da prendere in considerazione. Gli interpreti che ne fanno parte hanno riconosciuto in essa una semplicità esclusivamente linguistica: sono i correlati ontici di quelli che una qualche analisi linguistica individua come elementi costitutivi semplici di una proposizione. A partire da questa posizione alcuni hanno poi sviluppato l’idea che gli oggetti non dovessero essere individuati aprioristicamente in alcuna tipologia ontica, ma che la loro identificazione dipendesse dal livello di descrizione del mondo implicito nel linguaggio; per cui dal punto di vista del linguaggio comune una sedia o un tavolo, nel senso del Tractatus, possono essere oggetti. In questo modo le interpretazioni della semplicità degli oggetti sembrerebbero polarizzate attorno a due posizioni: una tendente ad identificare gli oggetti con un tipo determinato di enti in senso assoluto, un’altra (quella nata dalla posizione 3) “funzionalistica” o relativistica107, che invece esclude la possibilità di questa identificazione prescindendo dalle condizioni di senso della proposizione in cui i nomi degli oggetti compaiono. Laddove le interpretazioni 1 e 2 indagavano la semplicità dell’oggetto in sé, l’interpretazione relativistica individua questa semplicità solo in relazione alla determinazione del senso della proposizione. Secondo Gargani, ad esempio, l’assenza di esempi di oggetti semplici nel Tractatus è il correlato del loro essere funzionali alla determinatezza del senso della proposizione e scaturisce dal travestimento che la forma grammaticale impone alla forma logica dei pensieri. In tal senso, il carattere relativamente semplice degli oggetti rifletterebbe la relazione tra linguaggio ordinario e linguaggio logicamente perfetto: «Il linguaggio ideale o linguaggio del pensiero non pone una questione di diversi livelli di senso, di oggetti e nomi relativamente semplici, di proposizioni relativamente elementari. Esso, in quanto costruzione metodologica delle condizioni di significanza in generale di qualsiasi uso simbolico, non pone la questione della determinatezza di senso di un’espressione ad un livello relativo ma assume tale questione al livello limite, al livello assoluto delle condizioni di significanza di un linguaggio qualsiasi. È facile allora vedere come la nozione di
oggetto, di
nome assolutamente semplice siano nozioni di estrazione
puramente metodologica che detengono un carattere regolativo nei confronti di qualsiasi linguaggio significante in generale, ma che non richiedono di essere reperite mediante
107
Il principale sostenitore dell’interpretazione funzionalistica è stato GARGANI A. G., Linguaggio ed esperienza in Ludwig Wittgenstein, op. cit., pp. 77-87, seguito poi da MARCONI D., L’eredità di Wittgenstein, op. cit., pp. 19-38.
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une tecnica di accertamento empirico delle strutture del linguaggio comune»108. L’interpretazione relativistica degli oggetti sarebbe peraltro sostenuta da alcuni passi nella “fase di transizione” nei quali Wittgenstein propende per interpretare la sua posizione degli elementi semplici in termini funzionalistici. Soprattutto durante le conversazioni con i membri del Circolo di Vienna e nelle lezioni dei primi anni Trenta, Wittgenstein tende a parlare degli oggetti in relazione ai colori primari, e da qui conclude che la loro semplicità è funzionale alla sensatezza della rappresentazione (Vorstellung):
Ogni asserzione sui colori può essere rappresentata mediante questi simboli. Se diciamo che sono sufficienti quattro colori primari, allora chiamo questi simboli paritetici elementi della rappresentazione. Gli «oggetti» sono questi elementi. Non ha senso domandare se gli oggetti siano alcunché di simile ad una cosa, un’entità che sta al posto del soggetto, oppure alcunché di simile ad una proprietà, o se siano relazioni ecc. Parliamo semplicemente di oggetti laddove abbiamo elementi paritetici della rappresentazione.109
Questo passo evidenzia come al centro dell’interesse di Wittgenstein non stia la possibilità di definire in assoluto il significato di concetti come “semplice” o “complesso”; si tratta piuttosto dell’interesse a smarcare gli oggetti dall’identificazione con entità che non possono essere considerate complesse da alcun punto di vista. Relativamente alla determinazione del senso di una proposizione del linguaggio ordinario gli elementi semantici primi possono essere i nomi di oggetti fisici complessi, come un tavolo, una sedia o un penny. Nell’assenza di impegno ontologico sulla definizione della natura degli oggetti è possibile dunque intercettare una di quelle istanze di cambiamento che porteranno Wittgenstein a sviluppare i “concetti aperti” del suo secondo periodo110. Non a caso, il § 47 delle Ricerche sottolinea, in apparente polemica con la dottrina del Tractatus, la relatività del concetto di “composto”:
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GARGANI A. G., Linguaggio ed esperienza in Ludwig Wittgenstein, op. cit., p.85. Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, op. cit., pp. 31-32. 110 Come osserva la De Monticelli, in relazione al tema della crisi dei fondamenti, il “secondo” Wittgenstein critica le sua precedenti affermazioni di impegno ontologico ed epistemologico da una prospettiva radicalmente nuova, segnata dalla nozione di gioco linguistico: «L’operazione di Wittgenstein quindi non è affatto semplicemente distruttiva: tagliando via l’eccedenza garantistica, delimita lo spazio effettivo dei problemi epistemologici, dislocandoli esplicitamente nell’ambito di quella riflessione “interpretativa” che fa parte dei giochi linguistici stessi. La “desublimazione delle forme” non comporta la perdita della ragione» (in DE MONTICELLI R., Frege, Husserl, Wittgenstein. Note sul problema della fondazione, «Nuova Corrente», 72-73 (1977), p. 42).
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La parola «composto» ( e dunque anche la parola «semplice») è da noi impiegata in una quantità innumerevole di modi differenti, imparentati tra loro in differenti maniere. (Il colore di una casella degli scacchi è semplice, o consiste di bianco puro e giallo puro? E il bianco è semplice oppure consiste dei colori dell’iride? – Questo tratto di 2 cm è semplice o è costituito da due segmenti di 1 cm ciascuno? E perché non di un segmento di 3 cm e di uno, calcolato in senso negativo, di 1 cm?) 111.
“Semplice” e “composto” sono concetti dai contorni sfumati, il loro significato è relativo ai segni semplici cui sono riferiti e al contesto all’interno del quale la proposizione elementare di cui sono parte compare. Non esiste quindi una connotazione assoluta di “composto” così come non ne esiste una di “semplice”:
Se uno dicesse «Il rosso è composto», non potremmo indovinare a che cosa alluda dicendo così, cosa voglia fare con queste parole. Ma se dice: «Questa sedia è composta», non potremmo sapere, così a prima vista, di quale composizione parli, ma potremmo subito pensare che il suo enunciato abbia più di un senso. 112
Una lettura del tema della semplicità degli oggetti in prospettiva, attraverso cioè i luoghi della “fase di transizione” nei quali Wittgenstein torna sull’argomento, sembrerebbe avallare la lettura relativistica. Tuttavia, la lettura dei Quaderni dimostra come l’autore del Tractatus oscillò a lungo tra l’interpretazione assolutistica e quella relativistica113. D’altro canto, la validità di una lettura assolutistica improntata ad un’interpretazione degli oggetti come enti fisici minimi pare compromessa dalla famosa risposta che Wittgenstein diede alla richiesta di esempi di oggetti semplici: « […] egli rispose che allora riteneva di essere un logico; e che non spettava a lui, come logico, di stabilire se questa o quest’altra cosa fosse stata un oggetto semplice o un oggetto complesso, trattandosi di una questione puramente empirica!»114. È chiaro che escludesse dai compiti della logica una disputa scientifica sui costituenti ultimi della realtà; in questo senso l’interpretazione fenomenologica degli oggetti possiede il pregio 111
RF § 47, p.35. WITTGENSTEIN L., Zettel, op. cit., § 338, p.75. 113 Cfr. WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op.cit.. Per la semplicità in senso assoluto: 6.5.1915, pp.183-84; 24.5.1915, p.190. Per la semplicità in senso relativo: 13.5.1915, p. 186; 14.6.1915, p.201; 16/17/18.6.1915, pp. 202-207. 114 MALCOM N., Ludwig Wittgenstein, ed. it., Bompiani, Milano 1964, p.118. In questa testimonianza riportata da Malcom, Wittgenstein conferma il suo totale disinteresse per un’indagine sull’essenza degli oggetti semplici: « Does a Gendanke consist of words? No! But of psychical constituents that have the same sort of relation to reality as words. What those constituents are I don’t know» (in WITTGENSTEIN L., Cambridge Letters, op. cit., lettera a Russell del 19.8.1919, p.125). 112
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di rispettare l’idea wittgensteiniana che la logica (nel Tractatus) e la grammatica (nel suo secondo periodo) fossero legate all’indagine sulla totalità delle possibilità di una qualsiasi espressione. In questi termini la possibilità di individuare esempi di oggetti e quindi di asserire sensatamente l’esistenza di uno di essi non aggiunge nessun contenuto ulteriore all’indagine della logica. Come sottolinea McGuinness il centro di gravità dell’ontologia atomistica del Tractatus rimane la questione della determinatezza del senso della proposizione: «Nel Tractatus un oggetto che è il referente di un nome, o di un segno semplice, può essere semplicemente considerato il potenziale di valore di verità di una certa espressione. Il ruolo semantico del nome o segno semplice, di cui si suppone che sia possibile, è quello di combinarsi con altri nomi o segni semplici per produrre una proposizione che ha un valore di verità»115. Se potessimo allora sospendere il giudizio sulla disputa circa l’identificazione ontica degli oggetti, noteremmo come l’interpretazione di McGuinness, tendente a negare l’impegno di Wittgenstein nella costruzione di una semantica realista, non sia poi così distante dalla scelta di Frascolla di identificare gli oggetti con le qualità fenomeniche ripetibili. In entrambi casi emerge l’esigenza wittgensteiniana di trattare il tema della semplicità degli elementi primi sempre all’interno di una prospettiva logico-linguistica, senza uscire dal linguaggio. Ritornando su questo argomento nel 1929, durante una conversazione in casa di Schlick, Wittgenstein dirà: « Ho creduto in passato che ci fosse il linguaggio quotidiano in cui noi tutti siamo soliti paralare e un linguaggio primario che esprime ciò che sappiamo veramente, vale a dire i fenomeni»116. Il problema, nei termini del Tractatus, non è allora ciò che il linguaggio primario simbolizza, ma come simbolizza. Inoltre, assumere una prospettiva sul problema della semplicità degli oggetti che privilegi il tema della determinatezza del senso della proposizione ci permette di affrontare la questione del modo in cui può esser dato il significato di un segno semplice primitivo. Gli oggetti semplici sono infatti i coordinati reali degli elementi semplici della proposizione, i segni semplici primitivi. Per Wittgenstein l’individuazione del significato di un segno semplice primitivo può avvenire solo nel contesto della proposizione elementare, perché solo al suo interno i nomi entrano in una configurazione e acquistano significato (TLP 3.3). Ma una proposizione elementare può spiegare i significati dei segni primitivi semplici che occorrono in essa solo contenendoli. Questo comporta una conoscenza preventiva dei significati di questi nomi.
115 116
MCGUINNESS B., Il cosiddetto realismo del Tractatus di Wittgenstein, in op. cit., p. 106. Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, op. cit., p.34.
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La natura paradossale delle proposizioni volte all’individuazione dei significati dei segni semplici primitivi è espressa da Wittgenstein in questi termini:
I significati di segni primitivi si possono spiegare mediante chiarificazioni (Erläuterungen). Le chiarificazioni sono proposizioni che contengono i segni primitivi. Esse dunque possono essere comprese solo se già siano noti i significati di questi segni117 .
Il carattere enigmatico delle “chiarificazioni”118 appare un po’ meno oscuro se la sezione 3.263 viene letta nella posizione di terzo commento alla sezione 3.26, quella in cui viene affermata l’inanalizzabilità dei nomi, riconosciuti quali segni primitivi semplici. Ora, dal punto di vista dell’analisi i segni si differenziano in quelli che possono essere definiti impiegando segni primitivi semplici, e quelli che non possono essere oggetto di definizione: i nomi (TLP 3.261). Di questi, dice Wittgenstein, è possibile solo mostrarne l’applicazione (TLP 3.262): senza dover uscire dal linguaggio, l’applicazione del nome mi indicherà la strada per il suo significato. Ma se volessimo fornire una spiegazione del modo in cui l’applicazione di un nome mostra ciò che esso non esprime (considerando che un segno semplice non può esser definito), a cosa dovremmo ricorrere? La soluzione di Wittgenstein è appunto la nozione di “chiarificazione” (Erlauterung). Come l’indecomponibilità degli oggetti è una conseguenza della loro semplicità, così la resistenza all’analisi dei segni primitivi semplici è il correlato della loro indefinibilità. Le “chiarificazioni” mostrano allo stesso tempo i limiti cui perviene l’analisi e le fondamenta della determinatezza del senso della proposizione: i nomi, il significato dei quali è rischiarato dalle “chiarificazioni”. Stando alle
sezioni
del
Tractatus
sembrerebbe
quindi
che
per
comprendere
una
“chiarificazione” non occorra uscire dal linguaggio. Non è questa però la linea interpretativa scelta da G.E.M. Anscombe119. Nel suo commento al Tractatus la filosofa individua nelle “chiarificazioni” enunciati contenenti il segno semplice, proferiti quando colui a cui la spiegazione è indirizzata abbia un’apprensione diretta dell’oggetto che il segno semplice denota, ovvero del suo
117
TLP 3.263, p.36. Il traduttore italiano del Tractatus, A.G.Conte, ha tradotto la famiglia di termini erläutern/Erläuterung con il verbo “illuminare” (TLP 6.54) e con il sostantivo “chiarificazione” (TLP 3.263). I traduttori anglosassoni utilizzano invece i termini delucidation oppure elucidation. Nel corso dell’argomentazione rimarrò fedele alla traduzione di Conte, utilizzando “chiarificazione” anziché “delucidazione” o “elucidazione”. 119 Cfr. ANSCOMBE G.E.M., Introduzione al Tractatus di Wittgenstein, tr. it. di E. Mistretta, Ubaldini, Roma 1966, pp. 20-24. 118
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significato: «Possiamo, quindi, spiegare i nomi mediante elucidazioni (elucidations), mediante degli enunciati che li contengono, detti a qualcuno che abbia conoscenza diretta (to be acquainted to) degli oggetti al cui posto essi stanno»120. Nella nozione di chiarificazione verrebbe in questo modo coinvolta un’interpretazione degli oggetti come dati di senso della conoscenza diretta (acquaintance) e quindi per comprendere una chiarificazione occorrerebbe uscire dalla semplice considerazione delle condizioni che determinano la sensatezza delle proposizioni. Le chiarificazioni sembrerebbero simili a cenni, a gesti, che indicano nella direzione della realtà. Su questa stessa linea si colloca anche P.M.S. Hacker121, egli ricostruisce l’origine della nozione di “chiarificazione” in Frege e ne individua
i cambiamenti che subisce nel Tractatus. Per Frege le
chiarificazioni avevano il compito di aggirare l’ostacolo dell’indefinibilità delle nozioni logicamente primitive: nozioni super-categoriali come “concetto” e “oggetto” ma anche le costanti logiche “e”, “non”, ecc. Questa operazione è possibile solo mostrando attraverso chiarificazioni l’uso del termine logicamente primitivo:
Si può ancora assumere un terzo tipo di enunciati, gli enunciati esplicativi, che io preferirei non annettere alla matematica vera e propria, relegandoli in anticamera, in una matematica propedeutica. Essi sono simili alle definizioni, in quanto anche con essi si tratta di stabilire il significato di una parola (segno). Anch’essi quindi contengono qualcosa il cui significato non può venir supposto noto, almeno in modo completo e indubbio, perché questo qualcosa viene se mai usato nella lingua di tutti i giorni in modo oscillante e ambiguo. Se, in simili casi, il significato da attribuirsi è logicamente semplice, non si può dare una definizione vera e propria, ma ci si deve limitare a richiamare l’attenzione sui significati, ricorrenti nell’uso linguistico, ai quali si vuol rinunciare e su quello invece che si intende mantenere; procedimento questo, in cui si deve certamente fare sempre assegnamento su una comprensione conciliante e intelligente. Tali enunciati esplicativi non possono venir impiegati nelle dimostrazioni allo stesso modo delle definizioni, poiché a essi difetta la necessaria precisione; questa è la ragione per cui, come ho già detto, preferisco relegarli in anticamera.122
Ciò che Frege definisce in questa lettera «enunciati esplicativi» svolgerebbero un ruolo pre-teorico rispetto a qualunque scienza sistematica, perché servirebbero ad
120
Ibid., p. 22. Cfr. HACKER P.M.S., Frege and Wittgenstein on Elucidations, «Mind», New series, Vol.84, No.336, pp.601-609. 122 FREGE G., Alle origini della nuova logica: carteggio scientifico con Hilbert, Husserl, Peano, Russell, Vailati e altri, tr. it. di A.M.Obwexer, Bollati Boringhieri, Torino 1983, Lettera a Hilbert del 27.12.1899, pp.47-48. 121
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aggirare l’ostacolo dell’indefinibilità di quelle espressioni fondamentali alla base di qualsiasi linguaggio scientifico123. In conclusione, Frege introduce la nozione di “chiarificazione” solo per garantire la comunicabilità nel contesto del discorso scientifico; essa non ha niente a che vedere con la possibilità di definire i termini primitivi del linguaggio in generale, sono piuttosto segnali attraverso i quali guidare l’interlocutore nella direzione della comprensione dei termini elementari di una scienza sistematica:
Una volta che si sia trovato qualcosa che è semplice o che comunque va trattato come semplice fino a ulteriore avviso, occorre coniare per esso un nome apposito, poiché la lingua non disporrà all’origine di una espressione esattamente corrispondente. Non è possibile introdurre mediante definizione un nome per qualcosa che è logicamente semplice. Non resta quindi altro che guidare per cenni il lettore o l’ascoltatore alla comprensione di quel che si intende con la parola.124
Al contrario, nel Tractatus, le chiarificazioni hanno l’obiettivo di individuare il significato dei termini primitivi del linguaggio in generale. In questo senso, secondo Hacker, rappresentano un tentativo di uscire dal linguaggio e stabilire una connessione con la realtà. Riprendendo l’interpretazione della Anscombe e la sua connotazione realista della nozione di “chiarificazione”, Hacker vede in essa una tacita e confusa dottrina delle definizioni ostensive: «Certainly, if a Tractarian Erläuterung is askin to ostensive definition, and if names have only Bedeutung and no Sinn, and if the Bedeutung of a name is a sempiternal object, then Erläuterungen wuold inter alia, establish a “connection between language and reality”»125. Il punto è che le chiarificazioni permettono di individuare lo stato di cose all’interno del quale l’oggetto semplice designa qualcosa, ma tutto ciò avviene secondo Wittgenstein solo per mezzo
123
Cfr. WEINER J., Frege in perspective, Cornell University Press, Ithaca-London 1990, cap. 6, pp. 227279. Weiner sottolinea come le chiarificazioni avessero per Frege un ruolo fondamentale nella definizione dei termini primitivi alla base di qualsiasi scienza sistematica, ma da questo arriva a concludere che potessero gettar luce sul significato dei termini primitivi del linguaggio in generale. Questo perché la loro funzione fondamentale consiste nell’indicare attraverso cenni e gesti (to hint) il significato dei termini primitivi, richiamando nella mente dei lettori rappresentazioni già conosciute in quanto fondamentali per la comunicazione: « There are indications in Frege’s writings that the success of elucidation is a result of the fact that elucidation is used to coin terms for elements that underlie all communication» (in ibid., p. 232). 124 FREGE G., Concetto e oggetto, in Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici, op. cit., p.59. 125 HACKER P.M.S., Frege and Wittgenstein on Elucidations, op. cit., p.608. Il cortocircuito tra chiarificazioni e definizioni ostensive ravvisato da Hacker è invece rifiutato dagli Hintikka. Le definizioni ostensive sarebbero piuttosto collegate al tema del mostrare, cfr. HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., pp.230-233.
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dell’uso del segno semplice coordinato all’oggetto nel contesto della proposizione. La connessione tra linguaggio e realtà si realizza nel e per mezzo del linguaggio; la definizione ostensiva è al contrario un modo di uscire dal linguaggio. Il problema del significato dei segni semplici, espresso nel tema delle “chiarificazioni”, si sovrappone in queste interpretazioni a quello delle definizioni ostensive perché, a mio parere, il Tractatus non presenta un’articolazione abbastanza chiara dei livelli di ineffabilità cui il tentativo di stabilire i limiti del discorso sensato perviene. L’ineffabilità della semantica della espressa dalle relazioni tra nomi e oggetti è per Wittgenstein su un livello differente rispetto all’ineffabilità cui è soggetta la categorizzazione logico-sintattica dei segni (per cui i concetti formali sono pseudoconcetti), ma soprattutto rispetto all’ineffabilità cui è soggetta la struttura del pensiero e del mondo126. Tale articolazione non è immediatamente evidente se non si tiene conto della struttura ad albero del Tractatus: se l’ineffabilità della relazione tra nome e segno è espressa nei commenti alla sezione cardinale 2, Wittgenstein perviene all’ineffabilità categoriale solo nei commenti alla sezione 5 e infine conclude l’ineffabilità della struttura del pensiero e del mondo solo nei commenti alla sezione 6 (dove perviene alla forma generale della proposizione). La delimitazione del discorso sensato, il filo conduttore dei limiti del senso e del pensiero, si estende lungo il ramo principale, quello delle proposizioni cardinali. La sua importanza è espressa da Wittgenstein nella disposizione delle sette sezioni principali che compongono il Tractatus e può essere sintetizzata nell’intenzione da parte del suo autore di distinguere tra ciò che può esser detto attraverso proposizioni dotate di senso e ciò che può solo esser mostrato. La distinzione tra “dire” e “mostrare” sarebbe dunque il fulcro dell’attività chiarificatrice della filosofia:
The main point is the theory of what can be expressed (gesagt) by prop[osition]s – i.e. by language – (and, which comes to the same, what can be thought) and what can not be expressed
126
Cfr. HACKER P.M.S., Was he trying to whistle it?, in The New Wittgenstein, eds. by CRARY A., READ R., Routledge, London and New York 2000, pp. 353-355; Hacker individua il nodo teorico del Tractatus nel fatto che in qualsiasi sistema di rappresentazione (linguaggio compreso) ci siano cose che non possono essere rappresentate o descritte ma solo mostrate. Partendo da questa premessa Hacker individua ben dieci gruppi di verità che, stando al Tractatus, possono solo essere esibite: 1) l’armonia tra pensiero, linguaggio e realtà nella comunanza di forma tra una proposizione qualsiasi (vera o falsa che sia) e la realtà che essa rappresenta; 2) la semantica, ovvero il significato dei nomi e il senso delle proposizioni; 3) la relazione logica tra le proposizioni (le regole d’inferenza); 4) le proprietà e le relazioni interne di cose e situazioni; 5) le categorie logiche delle cose; 6) i limiti del pensiero; 7) I limiti della realtà e la struttura logica del mondo; 8) I principi metafisici delle scienze naturali; 9) la metafisica dell’esperienza; 10) etica, estetica e religione. Quindi ad essere coinvolti nella mia esposizione sarebbero i punti 2, 5, 6 e 7.
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by prop[osition]s, but only shown (gezeigt); which, I believe, is the cardinal problem of philosophy.127
La sensibilità di Wittgenstein per questo tema ha origine, per un certo verso, nella argomentazione di Frege nota come il “paradosso dei concetti”128. Frege distingueva in maniera abbastanza netta tra oggetti o argomenti, che sono entità sature, e concetti o funzioni che al contrario sono entità insature. Le prime sussistono di per sé, le seconde invece necessitano di essere completate da un argomento. Questa distinzione porta però ad affermare enunciati paradossali come “Il concetto cavallo non è un concetto”129. Infatti, per attribuire una proprietà a un concetto dovremmo utilizzare un nome (“il concetto cavallo”) per riferirci ad un’entità insatura; sebbene per Frege i nomi possono riferirsi esclusivamente ad entità sature. Il paradosso nasce quindi dal fatto che le parole utilizzate per designare un concetto sono spesso nomi propri (come cavallo) i quali, a loro volta, non sono in grado di esprimere in modo pieno la natura insatura di ciò che provano a significare. Una confusione di questo tipo è legata ad un’ambiguità intrinseca al meccanismo di designazione dei concetti del linguaggio ordinario; e poiché anche quando facciamo logica non possiamo prescindere del tutto dalle parole che utilizziamo nel linguaggio comune, Frege chiede al lettore uno sforzo di comprensione:
Alla comprensione da parte del lettore si frappone probabilmente un ostacolo di natura singolare , che dipende dal fatto che il mio modo di esprimermi, se preso alla lettera, a volte per una sorta di ineluttabilità linguistica, travisa il pensiero, poiché viene nominato un oggetto laddove propriamente viene inteso un concetto. Mi rendo perfettamente conto che in questi casi si deve fare affidamento sulla benevolenza del lettore, che non lesina un pizzico di sale. 130
I nomi che designano i concetti non riescono ad esprimere il carattere insaturo della funzione logica che svolgono all’interno dell’enunciato (quella del predicato/funzione), 127
WITTGENSTEIN L., Cambridge Letters, op. cit. , lettera a Russell del 19.8.19, p.124. Cfr. FREGE G., Concetto e oggetto, op. cit., pp. 58-73. Per un’interpretazione del “paradosso dei concetti” come tema intrinseco all’ineffabilità della semantica e fondato sull’identità fregeana tra predicati e funzioni si veda HUGLY P., Ineffability in Frege’s Logic, «Philosophical Studies: An International Journal for Philosophy in the Analytic Tradition», vol. 24, n. 4 (Luglio 1973), pp. 227-244. 129 Secondo Terence Parsons l’assunzione fregeana per cui le frasi introdotte dall’articolo determinativo denotano oggetti e non concetti, non porta necessariamente alla conclusione paradossale per cui “il concetto cavallo non è un concetto”. Anzi, una conclusione di questo tipo sarebbe contraddittoria non solo rispetto all’uso dei predicati nel linguaggio ordinario ma anche rispetto alle premesse ontologiche della visione generale del linguaggio dello stesso Frege; cfr. PARSONS T., Why Frege should not have said “The concept horse is not a concept”, «History of Philosophy Quarterly», vol. 3, n. 4 (Ottobre 1986), pp. 449-465. 130 FREGE G., Concetto e oggetto, op. cit., , p.72. 128
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tuttavia ne esibiscono la natura insatura. Il punto dirimente della questione è che Frege limita il paradosso alle entità insature, mentre invece il Tractatus estende l’essere entità insature ad ogni nome (inclusi gli oggetti/argomenti). L’«ineluttabilità linguistica» della quale parla Frege, è intrinseca secondo Wittgenstein a qualunque tentativo di dire il significato di un segno semplice o il senso della proposizione. In sostanza, Frege parte dalla sua distinzione tra saturo e insaturo per concludere l’ineffabilità della categorizzazione logico sintattica dei segni , per cui la natura insatura di un concetto non è mai del tutto esaurita dal ruolo semantico del predicato all’interno di un enunciato; Wittgenstein invece va oltre estendendo tale ineffabilità a tutti i concetti formali (TLP 4.126-4.1274). Come ha notato Hintikka, Wittgenstein assume su questo tema una posizione molto più radicale di Frege: «What Frege is doing in his comment on the concept of horse is not a concept how or on how he could only elucidate his basic concepts but not define them is a rearguard action, not a frontal assault on the problem he bequeathed to Wittgenstein» 131. Per concludere, nello sviluppo di questo paragrafo ho cercato di far emergere come nel Tractatus il problema dei limiti del senso sia indissolubilmente legato ai limiti della raffigurazione, e come questi siano a loro volta determinati dall’ineffabilità delle proprietà formali degli elementi primi della raffigurazione: gli oggetti. L’ontologia degli oggetti semplici tracciata nelle sezioni 2.011-2.0271 non comunica alcuna prospettiva metafisica sulla realtà, non perché tale prospettiva sia l’Eden proibito alla facoltà del linguaggio ma perché sfugge al meccanismo raffigurativo della proposizione sensata. Come ha osservato T. Ricketts è la logica della raffigurazione a permettere di tracciare dall’interno del linguaggio i limiti del senso: « Wittgenstein’s view of sentences as logically interconnected pictures, a sentence – a sentential sign in its projective relation to the world – shows how things stand if it is true, and says that they do so stand (4.022). In thus determining a location in logical space, with each sentence the whole of logical space must be given (3.42). Logical space is given by what any sentence has in common with any other, by the general form of sentences. […] The sense any sentence expresses can be expressed by a truth-function of independent elementary sentences; this truth-function will stand in the same projective relation to the world. […] The iterated application of truth operations to the totality of
131
logically independent
HINTIKKA J., What does Wittgenstein Inexpressible Express?, «The Harvard Review of Philosophy», XI (2003), p. 12.
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elementary sentences thus fixes the limits of the sense (4.51) »132. Tuttavia il tema dei limiti del senso non può essere compreso senza individuare nella distinzione tra “dire” e “mostrare” (TLP
4.12-4.121) il fulcro della teoria raffigurativa e dell’ontologia
atomistica. Infatti, nella sezione 2.01231 Wittgenstein oppone ciò che è essenziale agli oggetti, le loro possibilità di combinazione, con ciò che è loro accidentale, il loro assumere configurazioni in fatti atomici. Chiama le prime proprietà interne degli oggetti (forma) e le seconde proprietà esterne (fatti). Questa contrapposizione può essere interpretata solo alla luce della distinzione tra “dire” e “mostrare” tracciata a partire dalle sezioni 4.12-4.121: in esse vediamo come la distinzione tra proprietà interne e proprietà esterne degli oggetti corrisponda a quella tra ciò che è riflesso nel linguaggio e ciò che le proposizioni del linguaggio rappresentano. Rimane allora da affrontare la principale conseguenza che la delimitazione del senso da una prospettiva interna al linguaggio comporta: l’esclusione da questi limiti delle stesse sezioni del Tractatus e, secondo molti interpreti, l’ammonizione al silenzio come inevitabile conclusione dell’attività di delimitazione del sensato. Il nodo da sciogliere, se mai ve ne fosse uno, è allora quello dell’insensatezza del Tractatus espressa nella sezione 6.54. Spetterà al prossimo paragrafo di affrontare le interpretazioni in campo al fine di chiarire, in seconda battuta, il ruolo complessivo che la nozione di nonsenso svolge nel Tractatus e il modo in cui Wittgenstein la rielabora nella “fase di transizione”.
1.2 Il nonsenso del Tractatus Il lettore che ha percorso l’albero del Tractatus fino alla profondità dei suoi commenti più marginali ed è poi risalito lungo i rami principali si troverà, alla sezione 6.54, di fronte a quella che è stata definita «una dottrina sconcertante, presentata in un modo sconcertante»133:
Le mie proposizioni illuminano [erläutern] così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate [unsinnig], se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar 132
RICKETTS T., Pictures, logic, and the limits of sense in Wittgenstein’s Tractatus, in The Cambridge companion to Wittgenstein ed. by SLUGA H., STERN D.G., Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 87-88. 133 PEARS D., The False Prison: A Study of the Development of Wittgenstein’s Philosophy, vol. 1, Oxford, Clarendon Press, 1987, p.143.
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via la scala dopo essere asceso su essa.) Egli deve trascendere [überwinden] queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo.134
Si tratta di una delle sezioni più importanti e commentate dell’intera opera filosofica di Wittgenstein, perché da essa dipende il ruolo che dobbiamo attribuire alle sue affermazioni precedenti. L’importanza della sezione 6.54 risiede soprattutto nella sorpresa riservata ai lettori: chi ha effettivamente compreso le proposizioni del Tractatus ne riconosce la natura insensata. Ma la loro insensatezza, aggiunge, non è fine a se stessa: si tratta piuttosto di un graduale riconoscimento che ciò su cui le proposizioni del Tractatus gettano luce alla fine del percorso, quando il mondo ha cessato di avere un aspetto oscuro e confuso, si rivela essere del tutto privo di utilità. Le proposizioni che formano la struttura del Tractatus sarebbero dunque una chiave d’accesso ad un nuovo quadro, quello in cui “vediamo rettamente [sehen richtig] il mondo” (la totalità dei fatti e il modo in cui vengono rappresentati e si riflettono nelle proposizioni del linguaggio). Una volta aperto il portone che introduce al nuovo quadro, consapevoli che non ne incontreremo di nuovi sulla nostra strada, la chiave cessa di esser utile e può esser gettata definitivamente via. Una domanda, tuttavia, non riceve nella 6.54 alcuna risposta: in che modo dobbiamo interpretare questa insensatezza? Al livello dei commenti alla proposizione cardinale 6, quella in cui viene enunciata la forma generale della proposizione, Wittgenstein ha già distinto all’interno del linguaggio tre orientamenti che le proposizioni possono assumere rispetto alla questione dei limiti del senso: le proposizioni del linguaggio possono essere sinnvoll, sinnlos o unsinnig. Le prime sono le proposizioni funzioni di verità di quelle il senso delle quali è completamente determinato; quelle delle scienze naturali ed empiriche. Esse descrivono completamente ed esaustivamente il fatto o l’insieme di fatti che si verificano nella porzione di realtà raffigurata (TLP 4.021-4.022). Rispetto alla pienezza simbolica delle proposizioni dotate di senso, le proposizioni della logica non descrivono alcunché. Le tautologie e contraddizioni esprimono ciò che Wittgenstein definisce le «proprietà formali del mondo» (TLP 6.12) in virtù del fatto che esprimono una caratteristica comune (o meno) a tutte le possibili combinazioni del sussistere e del non sussistere degli stati di cose. Quindi, tautologie e contraddizioni, la totalità delle quali costituisce la logica, non raffigurano il verificarsi o meno di un insieme di stati di cose in una porzione di realtà. Sono piuttosto il tentativo di esibire un aspetto formale della realtà,
134
TLP 6.54, p.109.
68
un aspetto comune a più mondi possibili; a tal proposito è bene notare che le proposizioni della logica pur essendo ineffabili non sono inattingibili: esibiscono in maniera perspicua le proprietà formali del mondo. Il luogo semantico che in una proposizione descrittiva è occupato dal suo senso in questo caso sarà vuoto, Wittgenstein designa questa assenza di potere raffigurativo con la parola sinnlos. Dal momento che descrivono l’«armatura del mondo» (TLP 6.124), la posizione di queste proposizioni rispetto alla totalità di tutto ciò che accade nella realtà sarà quella che segna il limite del dicibile rispetto a due direzioni: da una parte le proposizioni dotate di senso, dall’altra ciò che invece è completamente insensato (unsinnig). Il campo del nonsenso comprenderà allora tutte quelle proposizioni che violano questo limite, perché il loro scopo non solo non è raffigurativo ma non è neanche quello di comunicare attraverso l’esibizione di una violazione dei limiti del senso un aspetto formale della realtà. I nonsensi del Tractatus sono tutte quelle espressioni che violano la sintassi logica del linguaggio (TLP 3.323-3.328) in un senso che non ha niente a che fare con la comunicazione di un qualche aspetto formale del mondo. Nel Tractatus, Wittgenstein individua una violazione della sintassi logica che va in questa direzione nelle proposizioni della filosofia tradizionale (TLP 4.003): le domande e le risposte della metafisica occidentale sono spesso fondate su una implicita incomprensione della logica sottesa al linguaggio. La loro problematicità è soltanto un’illusione; un’illusione di significato laddove invece l’autore del Tractatus vede solo una fondamentale incomprensione. Tracciare la distinzione tra proposizioni sensate, prive di senso e insensate significa allora individuare un metodo che ci permetta di fare filosofia in un modo nuovo, che nulla abbia a che fare con la problematicità del discorso filosofico tradizionale:
Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque proposizioni della scienza naturale- dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare – ,e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia -, eppure esso sarebbe l’unico metodo rigoroso.135
Il nonsenso delle proposizioni metafisiche nascerebbe dunque dal fatto che certi segni di queste proposizioni non simboleggiano alcunché. Il senso delle proposizioni 135
TLP 6.53, p. 109.
69
metafisiche è compromesso dal loro esser composte da segni privi di significato. Se l’analisi logica di una proposizione metafisica giungesse a ricavare il senso della proposizione dalla composizione dei significati dei suoi elementi semplici, fallirebbe perché alcuni tra loro non possiedono alcun significato. Inoltre, il metodo qui tracciato è talmente rigoroso da non risparmiare neanche le stesse proposizioni del Tractatus. Dal momento che l’opera è composta da proposizioni che cercano di dire qualcosa sulle condizioni di possibilità di senso delle proposizioni del linguaggio, e sulla condivisione di queste condizioni di possibilità con la struttura della realtà, tutti aspetti che possono solo esser mostrati da un sistema di rappresentazioni, essa ricade per intero nel campo del «qualcosa di metafisico». Ma come interpretare questo nonsenso? Il nonsenso delle proposizioni del Tractatus è forse sullo stesso piano di una stringa di segni insensati, di una sequenza di parole pronunciate a caso? Oppure comunica qualcosa che può esser mostrato nella proposizione, ma che non può esser detto? In che senso le proposizioni del Tractatus illuminano (erläutern)? Perché il lettore, una volta che le ha comprese, deve trascenderle (überwinden) ? Si tratta, cioè, di comprendere il modo in cui Wittgenstein tratta il tema del nonsenso nel Tractatus e il modo in cui lo declina rispetto alle sue stesse affermazioni. Per provare almeno a rispondere a questi interrogativi è bene individuare e vagliare le posizioni ermeneutiche in campo.
1.2.1
Il nonsenso muto e il nonsenso che illumina: la proposizione 6.54 tra letture
risolute e letture tradizionali
Ho già accennato nell’introduzione a cosa si intenda per “lettura risoluta” della proposizione 6.54. Mi fermerò adesso sui due autori più rappresentativi di questa linea interpretativa per darne un quadro più dettagliato. Cora Diamond legge l’intero Tractatus come lo sviluppo di un argomento incastrato nella cornice delle affermazioni sui limiti del pensiero della Prefazione e della proposizione 6.54136. Se nella Prefazione Wittgenstein afferma che il suo obiettivo è «tracciare al pensiero un limite» e se tutto ciò che ricade al di là di questo limite «non sarà che nonsenso», come interpretare la dichiarazione di insensatezza del Tractatus della 6.54? Diamond risponde che questa domanda è collegata al modo più o meno serio con cui prendiamo le intenzioni di Wittgenstein: se individuassimo il pensiero 136
Cfr.. DIAMOND C., The realistic spirit: Wittgenstein, philosophy and the mind, op. cit., pp.179-204.
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portante del libro nell’intenzione di stabilire i limiti del discorso sensato dall’interno del linguaggio allora capiremmo che oltre questo limite non esiste niente a cui le nostre proposizioni possono alludere, niente che possa essere accennato o disvelato dalle proposizioni filosofiche. Sul piano dell’interpretazione del testo, prendere sul serio questa intenzione filosofica sottesa al Tractatus comporta almeno due conseguenze. Innanzitutto, se le proposizioni dell’opera sono dei nonsensi, allora il metodo descritto dalla 6.53 non è quello seguito dal Tractatus: «To see how Wittgenstein conceives his own method , you have to see 6.53 with 6.54, and with the explicit description there of what Wittgenstein demands of you the reader of the Tractatus, the reader of a book of nonsensical propositions. You are to understand not the propositions but the author. Take that directive to you as a reader, take it with you to 6.53, the reference to the method of the Tractatus»137. Il metodo corretto indicato dalla proposizione 6.53 mette fuorigioco le proposizioni del Tractatus e le condanna all’insensatezza espressa dalla 6.54 perché consiste nel discernere il parlare sensato da ciò che non può esser detto e basta. Il fine di questo metodo è un certo tipo di chiarezza filosofica che mostra i limiti del senso attraverso l’esclusione di ciò che non è sensato. Questo può suggerire due modi di leggere l’inesprimibile nel Tractatus: si può ritenere che qualcosa sia inesprimibile perché sta al di là di ciò che può essere espresso, oppure si può pensare che qualcosa sia inesprimibile perché non può esser detto. Diamond opta per questa seconda lettura del tema del limite del senso e dell’inesprimibile, rimarcando come «[…] il parlare sensatamente possa essere un metodo della filosofia, se si ritiene che questa attività sia finalizzata a mostrare a qualcuno che nessun discorso sensato potrebbe costituire la soluzione del problema che egli si pone»138 . Inoltre, riconoscere l’insensatezza del Tractatus significa ammettere che l’indagine sui limiti del pensiero e del linguaggio possa individuare un solo tipo di nonsenso: il nonsenso semplice (einfach Unsinn). Questo equivale a dire che le proposizioni del Tractatus si trovano sullo stesso piano, non solo delle proposizioni della filosofia tradizionale, ma anche di espressioni sintatticamente ben formate ma letteralmente incomprensibili come “lasagne diligenti in do minore”. Una conclusione del genere esclude due possibili interpretazioni della nozione di proposizione insensata (unisinnig) nel e del Tracatus: 1) che esista una distinzione tra nonsensi dietro ai quali si
137 138
DIAMOND C., Ethics, imagination and the Tractatus, in The New Wittgenstein, op. cit., pp. 155-156. CONANT J., DIAMOND C., op. cit., p. 83.
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nascondono verità ineffabili e nonsensi che invece non comunicano nulla139; 2) che sia possibile dividere le proposizioni insensate in buone, utili alla comunicazione di verità ineffabili, e cattive, ovvero incapaci di comunicare alcunché. Secondo Diamond la differenza che, per la lettura tradizionale della 6.54, il lettore dovrebbe percepire tra le proposizioni insensate del Tractatus e i nonsensi semplici sarebbe piuttosto la conseguenza di un certo uso distorto dell’immaginazione filosofica. Il lettore infatti immagina che le proposizioni del Tractatus, dal momento che possiedono una certa forma sintattica, significhino effettivamente qualcosa quando in realtà è vittima di un’illusione di significato: «That, then, is one of the ideas in the Tractatus about the role of imagination in the producing of metaphysical nonsense. We are attracted by certain sentences, certain forms of words, and imagine that we mean something by them. We are satisfied that we mean something by them because they have the mental accompaniments of meaningful sentences»140 Per questo motivo, interpretare le proposizioni del Tractatus come nonsensi in grado di comunicare una prospettiva metafisica, attraverso una violazione volontaria della sintassi logica, significa tradire le intenzioni del suo autore. Il “tradimento” è raffigurato dalla Diamond attraverso l’enfasi interpretativa posta sulla metafora della scala e sull’immagine del gettarla via. Se leggessimo il nonsenso delle proposizioni del Tractatus come espressioni quasi-significanti in grado di comunicare verità metafisiche ineffabili, allora
accetteremmo l’invito di Wittgenstein a gettare via la scala
rimanendovi allo stesso tempo sopra e ben saldi. Un atteggiamento di questo tipo, che caratterizzerebbe gran parte delle interpretazioni della proposizione 6.54, è definito da Diamond chickening out. Ad esso, l’interprete statunitense contrappone una lettura delle intenzioni di Wittgenstein nella 6.54 come not chickening out: «What counts as not chickening out is then this, roughly: to throw the ladder away is, among other things, to throw away in the end the attempt to take seriously the language of “features
139
Questa ad esempio è la posizione di ANSCOMBE G.E.M., op .cit., p. 149: « È presumibile che sia per questa ragione che Wittgenstein consideri utili gli enunciati del Tractatus, pur se essi sono insensati, a rigore, proprio secondo la dottrina che essi propongono; chi li abbia usati come gradini per salire “attraverso di essi al di là di essi”, sarà da essi aiutato ad avere la “giusta visione del mondo”. Cioè a dire, egli vedrebbe quello che “si mostra”, invece di star immerso in un pantano cercando confusamente di proporre ad asserire talvolta casi di quel che “si mostra”, e talvolta delle loro presunte contraddizioni». 140 DIAMOND C., Ethics, imagination and the Tractatus, in op. cit., p.159. Diamond lega la possibilità di far implodere una certa intenzione linguistica legata all’illusione di senso delle proposizioni della metafisica ad un esercizio dell’immaginazione che vada nella direzione opposta, quella che Wittgenstein indica con il termine “chiarificazione” (Erläuterung). Tale metodo sarebbe nella sostanza quello esposto nella 6.53. L’idea che la filosofia sia per Wittgenstein un’attività legata all’esercizio dell’immaginazione proiettiva (“Che cosa si dovrebbe fare se…?”) è ripresa da CAVELL S., La riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico, op. cit., p. 201 e sgg.
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of reality”. To read Wittgenstein himself as not chickening out is to say that it is not, not really, his view that there are features of reality that cannot be put into words but shows themselves. What is his view is that that way of talking may be useful or even for a time essential, but it is in the end to be let go of and honestly taken to be real nonsense, plain nonsense, which we are not in the end to think of as corresponding to an ineffable truth»141. Dunque da un lato, quelle che Diamond chiama le interpretazioni “irresolute”sostengono che una volta gettata via la scala, una volta comprese e superate le proposizioni del Tractatus, il lettore rimane con la consapevolezza di aver scorto dietro i nonsensi di cui è composto il libro alcune verità ineffabili sulla realtà; dall’altro la lettura “risoluta” sostiene che la nozione di verità ineffabile deve essere utilizzata solo con la coscienza che essa stessa dipende da ciò che deve esser gettato via una volta letto il Tractatus. Questa posizione implica almeno tre conseguenze. In primo luogo che tutte le proposizioni del libro siano nonsensi, con l’esclusione della Prefazione e della proposizione 6.54. Se anche la “cornice” dell’opera fosse l’enunciazione di una serie di nonsensi, allora la stessa intenzionalità filosofica che permea di sé il Tractatus, la volontà del suo autore di delimitare dall’interno del linguaggio il discorso sensato, apparterebbe al campo dell’indicibile e quindi dell’illogico. In secondo luogo, alcuni nonsensi semplici dell’opera svolgono una funzione di transizione verso il riconoscimento del nonsenso complessivo del Tractatus. La struttura dell’opera presenterebbe in questo senso una “dialettica” in cui le proposizioni insensate svolgerebbero il ruolo provvisorio di “figure di transizione”142. La “dialettica” interna al 141
Ibid., p.181. Cfr. GERRARD S., One Wittgenstein?, in From Frege to Wittgenstein: perspectives on early analytic philosophy, op. cit., p. 56 e sgg. Secondo Gerrard la “dialettica” del Tractatus rientrerebbe nel contesto più ampio della filosofia di Wittgenstein, caratterizzata dal filo conduttore dalla contraddizione tra l’esigenza di porre tesi ontologiche e metafisiche da un lato e l’interpretazione della metafisica come discorso fatto di “nonsensi semplici” dall’altro: « What was written full voice in the Notebooks, by the time of the completion of the Tractatus, becomes steps in a reductio ad absurdum. The Tractatus, on this view, becomes a dialectical work, with the metaphysical pronouncements being spoken with the voice of the Later Wittgenstein’s interlocutor» (in Ibid., p.57). Che l’intera opera filosofica di Wittgenstein, soprattutto del “secondo”, sia caratterizzata dalla presenza di due voci, la prima delle quali spesso esprime posizioni che Wittgenstein aveva sostenuto nella sua “prima” fase è stato notato da BARBERA M.L., L’idea di trasformazione tra violenza e nonviolenza, «Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», Vol. XVI, 1995, pp. 135-154; a parlare di una modalità di argomentazione a “due voci” è lo stesso Wittgenstein in The Big Typescript, op. cit., p.423: «Il conflitto in cui ci ritroviamo sempre e daccapo nelle riflessioni logiche è come il conflitto di due persone che hanno terminato di scrivere insieme un saggio, le cui formulazioni sono enunciate con parole facilmente equivocabili, mentre i commenti a queste formulazioni spiegano tutto quanto in maniera inequivocabile. Ebbene, una delle due parti ha la memoria corta, dimentica sempre i commenti, fraintende le conclusioni del saggio e cade/perciò incorre/ continuamente in difficoltà. L’altro deve sempre ricordargli di bel nuovo i commenti del saggio, rimuovendo le difficoltà». Quanto, invece, alla possibilità di individuare una vera e propria “dialettica” che faccia da leitmotiv della filosofia del “primo” e del “secondo” Wittgenstein, personalmente ritengo che la presenza delle due voci (peraltro oscurata dai toni solenni del Tractatus) sia più l’espressione di un impianto dialogico di stampo socratico-platonico, attento tanto al momento 142
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Tractatus non si risolverebbe in una hegeliana “riconciliazione” ad un livello più alto di consapevolezza, culminerebbe piuttosto in un rigetto totale dei suoi gradini. Se mai vi fosse una “dialettica” nel Tractatus essa interesserebbe il rapporto tra il lettore e ciascuna proposizione insensata: il rifiuto dell’opera come insensata nella sua totalità risulterebbe dal riconoscimento da parte del lettore dell’insensatezza delle sue proposizioni caso per caso. Come terza conseguenza, la distinzione tra ciò che può esser detto e ciò che può esser solo mostrato ma non detto è essa stessa parte integrante del nonsenso da cui il lettore “risoluto” deve prendere le distanze. Pertanto, anche l’applicazione della distinzione tra dire e mostrare alle proposizioni del Tractatus operata dalla lettura tradizionale per erodere il paradosso della 6.54 è in realtà un’operazione illegittima, dal momento che anche questa distinzione può esser solo mostrata dall’uso proposizionale. Queste tre tesi conseguenti alla linea interpretativa di Diamond vengono sviluppate partendo dalla considerazione di una proposizione metafisica come “A è un oggetto”. In apparenza, una proposizione di questo tipo sembra voler comunicare una sorta di impossibilità legata ai limiti del linguaggio: poiché tenta di dire una proprietà formale del mondo, la proposizione “A è un oggetto” dovrebbe contenere degli elementi semplici come “oggetto” in contrasto con ciò che si può dire ma che tuttavia mostrano qualcosa143. Ora, secondo Diamond Wittgenstein mostrerebbe che questa impossibilità sia in realtà un’illusione fondata sulla considerazione di “A è un oggetto” quale appartenente ad una classe particolare di nonsensi in grado di comunicare qualcosa che non può esser detto. Il nodo cruciale nella liberazione da questa illusione è la sezione 5.4733, in cui Wittgenstein afferma che ogni proposizione è legittimamente formata e che il nonsenso nasce dal fatto che alcune delle sue parti costitutive non hanno un significato: la proposizione “A è un oggetto” è insensata perché non abbiamo dato un significato alla parola “oggetto”. Ovviamente l’insensatezza di questa proposizione è un’insensatezza semplice, differente sotto nessun aspetto dall’insensatezza di una stringa di parole incomprensibili. Quindi, poiché il Tractatus è costituito da proposizioni che cercano di dare una spiegazione filosofica di termini e categorie come ironico quanto a quello maieutico; cfr. HADOT P., Wittgenstein e i limiti del linguaggio, tr. it. di B.Chitussi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.67-68: «Quale sarà la “retta visione del mondo” di cui parla Wittgenstein? Risultato del superamento delle proposizioni filosofiche , essa non è che una contemplazione ingenua della realtà. Tale ingenuità dello sguardo può essere ottenuta soltanto attraverso una liberazione da tutti i pregiudizi, da tutti gli pseudo-concetti, da tutti gli pseudo-problemi. […] E, “analizzata” , la filosofia non è più filosofia, non è più “in cerca di saggezza”, è “saggia”. La sua saggezza è un puro vissuto incomunicabile, uno sguardo portato sulle cose, ma inesprimibile. La critica del linguaggio elimina il vuoto dei concetti a favore della pienezza dell’esistenza». 143 Cfr. DIAMOND C., The realistic spirit: Wittgenstein, philosophy and the mind, op. cit., pp. 195-196.
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“oggetto”, “concetto”, “mondo”, “fatto”, “forma logica”, ecc.. allora il suo contenuto deve essere esso stesso insensato. Al contrario, continuare a ritenere che proposizioni filosofiche come “A è un oggetto” comunichino qualcosa che non possono dire significa continuare a essere vittime dell’illusione che l’intenzione filosofica di Wittgenstein, all’opera nel Tractatus, sta cercando di esorcizzare: «That the sentence means nothing at all and is not illegitimate for any other reason, we do not see. We are so convinced that we understand what we are trying to say that we see only two possibilities: it is sayable, it is not sayable. But Wittgenstein’s aim is to allow us to see that there is no “it”. […] Really to grasp that what you were trying to say shows itself in language is to cease to think of it is an inexpressible content: that which you were trying to say»144. A guardar più da vicino, allora, la lettura della 6.54 di Cora Diamond presuppone una completa trasparenza delle intenzioni di Wittgenstein nel Tractatus. Questa completa trasparenza si situa nella dichiarazione di intenti della Prefazione e nella lettera a von Ficker sul senso dell’opera: entrambe hanno per oggetto la delimitazione dei limiti del discorso sensato dall’interno. La chiarificazione di questi limiti avrebbe inoltre la sua propria ragion d’essere in una determinata intenzione di vivere il proprio rapporto con il mondo e con le parole, in un’intenzionalità etica che ci porta a individuare i limiti del senso non laddove riscontriamo che c’è qualcosa che non può esser detto ma laddove c’è qualcosa che non vogliamo dire. Quello che Wittgenstein cerca di dissolvere con l’idea di una filosofia come attività di chiarificazione è il desiderio filosofico con il quale vediamo un problema nella mancanza di significato della parola “oggetto”, un problema accompagnato da un alone di ansie e confusioni che ci conducono ad affermare l’illegittimità semantica della proposizione “A è un oggetto”. Dissolvere la nebbia delle ansie filosofiche significa operare sulla nostra volontà di guardare alle proposizioni filosofiche da un versante “problematico”. Se questo sforzo della volontà venisse compiuto anche sullo “sconcerto” generato dalla proposizione 6.54 allora, sostiene Cora Diamond, pure l’insensatezza del Tractatus cesserebbe di avere un aspetto “problematico”. Quello che il Tractatus chiede è quindi un duplice sforzo dell’immaginazione e della volontà per comprendere l’intenzione etica del suo autore e vedere rettamente il mondo: « Recall the important Tractatus point that when I ascribe a thought or belief to someone, I must use an intelligibile sentence of a language I understand. And if I understand a person who utters nonsense, I enter imaginatively 144
Ibid., p.198.
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into the seeing of it as a sense, […]. I treat that person’s nonsense in imagination as if I took it to be an intelligible sentence of a language I understand, something I find myself the possibility of meaning»145. L’altro autore rappresentativo della “lettura risoluta” è James Conant. Sulla scorta dell’interpretazione della 6.54 avanzata da Diamond, Conant individua nel Tractatus un vero e proprio esercizio di ironia kierkegaardiana che si esprime nella ritrattazione finale della sensatezza delle proposizioni del libro146. Dietro l’invito a gettar via la scala della 6.54 non si nasconde quindi un’indicazione a leggere le proposizioni del Tractatus come nonsensi che comunicano una serie di verità metafisiche sul mondo e sul linguaggio. I nonsensi del Tractatus sono nonsenso semplice (einfach Unisinn), dietro cui non esiste niente di afferrabile o illuminante; l’invito a gettar via la scala della 6.54, se preso sul serio conduce a riconoscere che oltre i limiti del senso non esiste nulla di pensabile o dicibile: «The contrapositive of the final sentence is perhaps more selfevidently equally tautologous: Whereof we can speak, thereof we can speak. Or: What we can say is what we can say. This does not debar us from anything unsayable. But it does not deprive us of anything sayable either»147 . L’interpretazione di Conant si concentra su due nozioni presenti nella 6.54: quella di nonsenso (Unisnn) e quella di chiarificazione (Erläuterung)148. Entrambe si presentano legate allo scopo del Tractatus e alla concezione wittgensteiniana della filosofia: se la filosofia è infatti un’attività, una pratica contrapposta alla mera esposizione dottrinale (TLP 4.112), allora essa deve consistere di chiarificazioni. Nella 6.54 Wittgenstein afferma appunto che le sue proposizioni svolgono il ruolo di chiarificazioni solo se se ne comprende l’intrinseca insensatezza. Una tale conclusione emerge, secondo Conant, dal modo in cui Wittgenstein declina nel Tractatus la nozione di insensatezza. Anche nella sua interpretazione la sezione rivelatrice è la 5.4733: in essa non solo si afferma che, a differenza di quanto pensasse Frege, non esiste qualcosa come l’illegittimità logica per le proposizioni insensate ma anche che tale insensatezza è una conseguenza del non aver significato di alcuni degli elementi costitutivi della proposizione. Quindi la 5.4733 indica che, per comprendere le nozioni di “nonsenso” e “chiarificazione”, bisogna
145
Diamond C., Ethics, imagination and the Tractatus, in op. cit., p.165. CONANT J., Kierekegaard, Wittgenstein and Nonsense, in Pursuits of Reasons, eds. by T.Cohen, P.Guyer and H.Putnam, Lubbock, Texas Teach University Press 1992, pp. 195-224. 146
147
CONANT J., Throwing away the top of the ladder, «The Yale Review», Vol. 79, No. 3 (1990), p. 337. Cfr. CONANT J., Elucidation and nonsense in Frege and early Wittgenstein, in New Wittgenstein, op. cit., pp. 174-198. 148
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guardare al modo in cui si presentano nella filosofia del linguaggio di Frege. Secondo Conant, Wittgenstein avrebbe visto negli scritti del logico di Jena una tensione tra due concezioni del nonsenso. Da un lato quella che egli definisce la concezione sostanziale, dall’altro invece la concezione austera. Nella prima possiamo distinguere tra nonsenso semplice, il nonsenso che non esprime alcun pensiero, e il nonsenso sostanziale. Quest’ultimo si presenta nella forma di proposizioni costituite da elementi significanti ma combinati in un modo logicamente illegittimo; il risultato sarebbe l’espressione di un pensiero logicamente incoerente. Il nonsenso sostanziale sarebbe ciò che gli interpreti tradizionali del Tractatus individuano nella violazione della sintassi logica. Al contrario la concezione austera individua l’unico tipo di nonsenso possibile dal punto di vista logico nel nonsenso semplice, ovvero nelle proposizioni incapaci di comunicare qualsiasi pensiero. A queste due concezioni del nonsenso corrispondono due modi diversi di interpretare il ruolo delle chiarificazioni: per la concezione sostanziale il ruolo delle chiarificazioni consiste nel mostrare qualcosa che non può esser detto, per la concezione austera le chiarificazioni invece servirebbero a renderci consapevoli di come, quando pronunciamo un nonsenso, siamo soggetti ad un’illusione di significato laddove non ve n’è che l’apparenza. Ora, Wittgenstein avrebbe risolto nel Tractatus la tensione tra queste due concezioni del nonsenso formulate da Frege a favore della concezione austera149; per cui il paradosso della 6.54 cessa di esser tale se il nonsenso delle proposizioni del libro viene letto da una prospettiva austera. L’attribuzione alle proposizioni del Tractatus della concezione austera del nonsenso permette a Conant di distinguere all’interno del campo del suo obiettivo polemico, o meglio all’interno di quell’insieme di interpretazioni della filosofia di Wittgenstein che i sostenitori della
149
Si tratta di uno dei pochi punti di frizione tra le interpretazioni di Diamond e di Conant. Diamond infatti attribuisce a Frege la concezione austera del nonsenso, anticipando in questo modo la soluzione della sezione 6.54 che invece Conant riserva al Tractatus; cfr. DIAMOND C., The Realistic Spirit, op. cit., pp. 73-93, in queste pagine Diamond attribuisce tanto a Frege quanto a Wittgenstein il rifiuto di quel particolare nonsenso determinato dal semplice rispetto dei propri ruoli sintattici da parte delle espressioni che costituiscono un enunciato, come nel caso di “Esiste una regina Elisabetta”. Questo nonsenso definito da Diamond clashes of category è caratterizzato dall’impossibilità logica di esprimere alcunché: « The expression occurs, for example, as a proper name if it occurs in a place where the content of the whole sentence depends on what object the expression there stands for. It cannot thus be identified as a proper name, or be said, strictly speaking, to have such a sense, if the content of the whole sentence does not depend on what object it stands for- in other words, if it occurs anywhere but in a suitable place. Nonsense of the category-clash type would then not be a possibility, even in ordinary language» (in Ibid., p.78). Entrambe queste letture del tema del nonsenso tra Frege e Wittgenstein muovono dalle critiche alle considerazioni sull’eredità fregeana della nozione di mostrare presenti in GEACH P., Saying and Showing in Frege and Wittgenstein, in Essays in Honour of G.H. von Wright, ed. by J.Hinitkka, «Acta Philosophica Fennica», vol. 28, 1976, pp. 54-70.
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“lettura risoluta” chiamano standard interpretations150. Dal modo in cui gli interpreti “standard” declinano la concezione sostanziale del nonsenso del Tractatus è possibile distinguere due diversi approcci al rapporto di Wittgenstein con la metafisica. La lettura neopositivista del nonsenso vede Wittgenstein impegnato nel tentativo di fornire un metodo per distinguere il discorso sensato da quello insensato, con l’obiettivo secondario di rivelare l’insensatezza delle proposizioni della metafisica tradizionale. Per la variante neopositivista il nonsenso del Tractatus è sostanziale perché qualsiasi violazione della sintassi logica può solo trasparire nel pensiero, mentre elude necessariamente la possibilità di esser detta, di essere espressa nel linguaggio. Il secondo approccio che parte da una concezione sostanziale del nonsenso è quella che Conant chiama la variante ineffabilista: per questi autori il nonsenso è una violazione della sintassi logica del linguaggio ma rimane comunque un fenomeno linguistico. Esso pertanto può esibire qualcosa, può indicare attraverso cenni un qualche pensiero inesprimibile attraverso il potere simbolico del linguaggio. In questo senso gli ineffabilisti, che concordano con i neopositivisti nell’attribuire a Wittgenstein l’intenzione di voler tracciare un metodo per distinguere tra discorso sensato e nonsenso, se ne discostano quando aggiungono che le proposizioni del Tractatus pur essendo insensate siano illuminanti proposizioni metafisiche accessibili al pensiero151. Ciò che comunque entrambe le varianti della concezione sostanziale di nonsenso condividono è secondo Conant una cattiva interpretazione della distinzione tra dire e mostrare. La distinzione tra ciò che le proposizioni possono dire e ciò che invece possono soltanto mostrare avrebbe un senso duplice, espresso dalle sfumature lessicali che Wittgenstein sceglie per l’impiego di “mostrare” nel Tractatus. La prima distinzione tra dire e mostrare si applica secondo Conant esclusivamente al corpo delle 150
Si tratta di un insieme variegato di interpreti spesso lontani non solo nell’orientamento filosofico ma anche nel tempo, i quali condividerebbero secondo Conant una comune elaborazione della distinzione tra dire e mostrare per interpretare la 6.54; cfr. CONANT J., DIAMOND C., op. cit, p. 48 : «[…] il libro viene letto come il tentativo di suggerire indirettamente ciò che esso non può dire – vale a dire, che esiste un regno di quasi-verità, simili a fatti ma ineffabili, come ad esempio la quasi-fattuale quasi-verità che linguaggio e mondo condividono una comune forma logica. Secondo questa prospettiva, le proposizioni del Tractatus, sebbene “in senso stretto” insensate, assolvono l’utile funzione di dirigere la nostra attenzione verso quelle caratteristiche ineffabili del linguaggio e della realtà che rendono possibile qualsiasi discorso dotato di senso». Una prospettiva di questo tipo sul Tractatus ha la sua origine nel modo in cui Russell, Ramsey e il neopositivista Neurath interpretarono il silenzio della settima proposizione. Esempi più recenti di “lettura standard” sono: ANSCOMBE G.E.M., op .cit., pp. 148-159; GEACH P., Saying and Showing in Frege and Wittgenstein, in op. cit., pp. 54-70; HACKER P.M.S., Insight and Illusion, op. cit., pp. 17-32. 151 La variante ineffabilista è mirabilmente sintetizzata da GLOCK H.-J., A Wittgenstein’s Dictionary, op. cit., p.259: « The pronouncements of the Tractatus are not based on a misunderstanding of logical synatx, but rather express insights into its workings. In doing so, however, they try to say what can only be shown. They are “pseudo-propositions” which can be seen as illuminating nonsense».
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proposizioni sensate e riguarda la forma logica di raffigurazione che la proposizione sensata condivide con la situazione raffigurata; tale accezione di “mostrare” è resa nel testo originale dal verbo zeigen. La seconda distinzione concerne invece differenti modi di impiego del linguaggio e si esprime nell’uso di quasi-proposizioni che hanno come obiettivo mostrare un contenuto filosofico indicibile; questa seconda accezione di “mostrare” è invece resa nel testo originale dal verbo erläutern. Neopositivisti e ineffabilisti sovrappongono le due accezioni, finendo così per estendere la capacità di “mostrare” la propria forma logica delle proposizioni sensate ai nonsensi dai quali è composto il Tractatus; ma seguendo questa strada «[…] lo esponiamo a un’obiezione devastante: il libro nel suo insieme, nella misura in cui concede di parlare di come la forma logica venga “mostrata”, presuppone esattamente la possibilità di quel tipo di linguaggio che, secondo quanto esso cerca di mostrare, dovrebbe essere impossibile»152. L’unica via d’uscita da quest’impasse cui le “letture standard” conducono è quella di riprendere la seconda accezione di “mostrare” al fine di individuare nelle proposizioni del Tractatus un uso chiarificatorio (elucidatory use) del linguaggio attraverso i nonsensi153. Questa possibilità, insieme alla tensione tra una concezione sostanziale e una austera del nonsenso, farebbe parte del “grande debito” di Wittgenstein nei confronti delle opere di Frege. Riprendendo alcuni passi di Concetto e oggetto che abbiamo già messo in evidenza, Conant mostra come Frege sviluppi la nozione di Erläuterung per rispondere all’esigenza di indagare sul significato di termini logicamente primi, qual è “concetto”: « He thinks that an understanding of these terms is required if one is to master the notation of the symbolism and properly understand its significante. Yet he also insists that what he thus wishes to draw our attention to – when he employs, for example, the world “concept” in its strictly logical sense – is not something which can be properly definied. It can only be exhibited trough (what Frege calls) an elucidation»154. Quindi Frege starebbe pensando che nella definizione di nozioni logicamente prime come “concetto” e “oggetto” un ruolo indispensabile verrebbe giocato dall’impiego ad hoc di termini propriamente indefinibili, di nonsensi. 152
CONANT J., DIAMOND C., op. cit, pp.47-48. Su questo punto Conant si distanzia ancora una volta da Diamond. Per la seconda, infatti, l’uso che Wittgenstein fa di erläutern nella sezione 6.54 e quello che ne fa nel resto del libro (TLP 3.263, 4.112) riguarda non tanto le proprietà interne delle “chiarificazioni” quanto il loro contesto d’uso; di conseguenza «[…] when a sentence of the Tractatus is taken to express some view of its author’s the sentence is not serving as an elucidation but exmplifies the confusion from which the book was meant to liberate us» (in DIAMOND C., Ethics, imagination and the Tractatus, in op. cit., nota 9, p.172). Al contrario Conant sembre riservare erläutern proprio a quelle proposizioni che esprimono esclusivamente l’intenzione chiarificatrice dell’autore. 154 CONANT J., Elucidation and nonsense in Frege and early Wittgenstein, in op. cit., p.181. 153
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In altri termini, la costruzione di un linguaggio logico perfetto come la Begriffsschrift fregeana richiede l’impiego di nonsensi per delucidare i termini che dal punto di vista logico rappresentano le fondamenta di questa costruzione155. Nell’interpretazione di Conant, Wittgenstein avrebbe ripreso questa funzione chiarificatrice del nonsenso a partire dall’apporto teorico dei tre principi de I fondamenti dell’aritmetica al Tractatus. La separazione tra il logico e lo psicologico, il “principio del contesto” e la distinzione tra entità sature e insature si presenterebbero sotto la veste della distinzione trattariana tra segno (Zeichen) e simbolo (Symbol). Nelle sezioni 3.31-3.311, sezioni di commento alla riformulazione del principio del contesto di 3.3, Wittgenstein fa emergere la nozione di “simbolo” in contrapposizione con quella di “segno”: se la prima indica l’unità logica della proposizione, ogni elemento della proposizione che ne determina il senso, la seconda invece indica l’unità ortografica, ciascun aspetto percettibile della proposizione (un’icona, un’iscrizione, un grafema). Le confusioni che caratterizzano le proposizioni filosofiche, delle quali è pieno anche il linguaggio ordinario, nascono da un cortocircuito tra segni e simbolo all’interno della proposizione. Infatti, ad un simbolo può corrispondere più di una unità ortografica (TLP 3.321), dal momento che il segno è arbitrario e non ha niente a che vedere con la designazione del carattere comune di due oggetti (TLP 3.322). Un esempio calzante del cortocircuito tra segno e simbolo viene perfettamente incarnato dalla parola “è”; al medesimo segno, in questo caso, possono corrispondere più simboli come il segno d’uguaglianza, la copula o l’espressione dell’esistenza (TLP 3.323). Ora il punto focale dell’argomentazione di Conant è che Wittgenstein risolverebbe la tensione tra nonsenso sostanziale e nonsenso austero a favore della seconda nozione attraverso questa connotazione della distinzione tra segno e simbolo. Per la concezione 155
Si tratterebbe della consapevolezza da parte di Frege della situazione paradossale in cui si trova l’opera di fondazione di ogni scienza che si esprime nell’assumere una posizione pre-teorica e presistematica rimanendo all’interno del linguaggio con cui poi costruiamo e vagliamo le nostre teorie; tale consapevolezza è espressa a proposito dell’uso della parola “vero” in FREGE G., Le mie idee logiche fondamentali, in Scritti Postumi, ed. it. a cura di E. Picardi, Bibliopolis, Napoli 1986, pp. 394-395: «Come si spiega dunque che la parola “vero”, per quanto sembri essere vuota di contenuto, è tuttavia indispensabile? Non la si potrebbe almeno evitare del tutto nella fondazione della logica, se ingenera soltanto confusione? Il fatto che non sia possibile farlo è dovuto all’imperfezione della lingua. Se avessimo una lingua logicamente perfetta forse non avremmo bisogno della logica o potremmo leggerla dalla lingua. Ma da ciò siamo ben lontani. Il lavoro logico è proprio in gran parte una lotta contro i difetti logici della lingua, che però , a sua volta, è uno strumento indispensabile per noi». Anche il lavoro filosofico di Frege, dunque, è imbevuto di questo paradosso, su questo cfr. WEINER J., op. cit., p. 228: « If what is expressed in the sentences of Frege’s philosophical writings cannot be expressed in the words of a systematic science, his sentences may express something that can be communicated, but they cannot express objective truths or falsehoods». È da questo punto di vista che Conant vede Frege propendere per una concezione sostanziale ed ineffabilista del nonsenso, sebbene non escluda la possibilità della concezione austera.
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sostanziale del nonsenso, un nonsenso filosofico è composto da segni la configurazione dei quali viola la sintassi logica perché le categorie logiche all’interno delle quali ricadano i suoi simboli collassano l’una sull’altra. Per la concezione austera del nonsenso, un nonsenso filosofico è invece composto da una stringa di segni cui non corrisponde alcuna funzione simboleggiatrice, per cui la proposizione non ha alcuna sintassi logica afferrabile. Wittgenstein opta per quest’ultima concezione del nonsenso. Se infatti le proposizioni dotate di senso sono quelle proposizioni nelle quali è evidente il nesso tra i segni che la compongono e i simboli che questi segni rappresentano sensibilmente, nelle proposizioni insensate è impossibile riconoscere il simbolo, l’unità logica minima, nel segno, l’unità ortografica minima. Quindi, per il Tractatus, riconoscere l’insensatezza di una proposizione significa riconoscere che essa fallisce nel dire qualsiasi cosa perché, pur essendo costituita da segni riconoscibili, manca di potere simbolico. Questa conclusione ha delle conseguenze importanti per la lettura dei nonsensi dai quali è composta l’opera156. Tali nonsensi, infatti non rappresentano tanto la possibilità di mostrare alcuni aspetti ineffabili della struttura logica del linguaggio, quanto veri e propri momenti di un ragionamento, apparenti conclusioni inferite da apparenti premesse, al termine del quale il lettore può riconoscere l’illusorietà del sostenere qualsiasi teoria filosofica sul linguaggio e sul mondo157. I nonsensi dell’opera operano secondo Conant questo tipo di lavoro “chiarificatorio”: «The assumption underlying Tractatrian elucidation is that the only way to free oneself from such illusions is to fully enter into them and explore them from the inside»158. Per concludere questa esposizione dell’interpretazione di Conant possiamo dire che essa può riassumersi nell’immagine per cui Wittgenstein utilizza una connotazione austera del nonsenso per spronare il lettore a compiere uno sforzo dell’immaginazione, per 156
Bisogna precisare che così come per Diamond la “cornice” del libro, ovvero la Prefazione e la 6.54, è estranea al riconoscimento dell’intera opera anche per Conant non tutto il Tractatus è composto da nonsensi; cfr. CONANT J., Elucidation and nonsense in Frege and early Wittgenstein, in op. cit, nota 102, p.100: « Not every sentence of the work is (to be recognized as ) nonsense. For not every sentence serves as an elucidation. Some sentences subserve the elucidatory aim of the work by providing the framework within the activity of elucidation takes place. Some of them do this by saying things about the work as a whole (and offering instructions for how the work is to be read); others by saying things with the aim of helping us to see what is going on in some part of the work (i.e., within a particular stretch of elucidation)». 157 Secondo Conant il Tractatus utilizza gli strumenti del ragionamento filosofico tradizionale per dare al lettore l’illusione di partecipare all’attività di stabilire una verità mediante la procedura dell’argomentazione, tuttavia perviene al suo scopo solo se il lettore arriva a comprendere ciò che l’opera dice di sé e della filosofia. Si tratta infatti non tanto di individuare una dottrina sul linguaggio e sul mondo costituita da Philosophische Sätze (proposizioni filosofiche), quanto di ottenere un effetto terapeutico sul lettore attraverso das Klarwerden von Sätzen (il chiarificarsi di proposizioni); cfr. TLP 4.112, pp.49-50. 158 CONANT J., Elucidation and nonsense in Frege and early Wittgenstein, in op. cit, , p. 197.
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trasformare la propria abitudine a pensare che al di là dei limiti del dicibile e del pensabile ci sia qualcosa: « In § 6.54, Wittgenstein does not task his reader here to “grasp” the “thoughts” which is nonsensical propositions seek to convey. He does not call upon the reader to understand his sentences, but rather to understand him, namely the author and the kind of activity in which he is engaged – one of elucidation. He tells us in § 6.54 how these sentences serve as elucidations: by enabling us to recognize them as nonsense»159. In sintesi, le letture di Diamond e Conant partono da una comune interpretazione dell’intenzione filosofica di Wittgenstein nel Tractatus, per concludere attraverso un excursus sul ruolo del nonsenso nella filosofia di Frege e sulla nozione di chiarificazione, l’incompatibilità con l’intenzione dell’autore delle interpretazioni volte ad affidare al nonsenso filosofico una capacità comunicativa. Credo comunque che il tratto comune più marcato sia la possibilità per entrambi di individuare, mediante il tema del nonsenso semplice, una sottovalutazione da parte degli interpreti precedenti della continuità della filosofia wittgensteiniana dal Tractatus alle Ricerche. Infatti, i §§ 464 e 500 delle Ricerche160 rileverebbero una continuità forte rispetto a quanto Wittgenstein afferma sul nonsenso delle proposizioni del Tractatus nella 6.54: « […] sia il primo che il secondo Wittgenstein cercano di far vedere al proprio lettore o interlocutore che fino a quando egli si risolve a intendere le proprie parole in uno dei vari modi determinati che gli sono disponibili non sarà riuscito ad esprimere nulla per mezzo di quelle parole. Così, sia il primo che il secondo Wittgenstein lasciano al lettore il compito di scoprire da sé che il problema con le sue parole non risiede nelle parole stesse, né in una qualche intrinseca incompatibilità fra le sue parole e il loro contesto d’uso, ma nella relazione confusa che egli ha con quelle parole»161. Per dimostrare l’evidenza della continuità nell’opera wittgensteiniana di una certa idea di filosofia e di un certo metodo, Conant e Diamond fondano la loro interpretazione di un passaggio cruciale in questa supposta continuità, la sezione 6.54 del Tractatus, su due tesi. In primis l’opportunità di leggere le sezioni 6.53, 6.54 e 7 in 159
Ibid., p.198. Al centro di questi due paragrafi troviamo l’idea che la filosofia si eserciti nel passaggio da un nonsenso occulto a un nonsenso palese, e la connotazione dei nonsensi del linguaggio ordinario come di combinazioni di parole escluse dalla comune “circolazione” linguistica. In entrambi Conant vede una riproposizione del tema del nonsenso semplice nella prospettiva del linguaggio come uso e dei giochi linguistici; cfr. CONANT J., DIAMOND C., op. cit., p. 70: « Secondo un lettore risoluto, questo passo segna un’importante continuità del pensiero di Wittgenstein: quando Wittgenstein osserva, negli scritti maturi, che una parola insensata non ha un “senso senza senso” (RF § 500), egli sta riformulando l’idea del Tractatus che non possiamo dare a un segno “il senso errato”». 161 CONANT J., DIAMOND C., op. cit, pp. 74-75. 160
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senso sequenziale, mettendo da parte la struttura ad albero del Tractatus. In secondo luogo un’interpretazione specifica di due nozioni sviluppate dalla e nella filosofia del linguaggio di Frege: la nozione di “chiarificazione” (Erläuterung) connessa al nonsenso attraverso una concezione della verità come “dispiegamento”. Occorre allora un’analisi più approfondita di queste due tesi fondamentali per vagliarne la legittimità dal punto di vista dell’interpretazione del Tractatus e l’efficacia in relazione all’ “esorcismo” tentato nei confronti del carattere paradossale della sezione 6.54. Quanto alla prima tesi, Conant e Diamond162 ritengono che il silenzio con cui si chiude il Tractatus sia l’esito necessario dell’aver gettato via la scala, dell’aver riconosciuto nelle proposizioni che compongono l’opera una serie di nonsensi semplici. Pertanto la sezione 7 è conseguente al metodo della filosofia tracciato nella 6.53 e all’insensatezza delle proposizioni che illustrano questo metodo della 6.54. Il silenzio per ciò che sta oltre i limiti del linguaggio è la conseguenza del riconoscimento del fatto che, partendo da una prospettiva interna al linguaggio, non c’è qualcosa oltre questi limiti. Certo, se la sezione 7 fosse consecutiva alla 6.54 o se fosse ad essa legata da una relazione di stretta successione, allora il silenzio sarebbe effettivamente il risultato dell’aver riconosciuto nelle proposizioni del Tractatus dei nonsensi con funzione chiarificatrice. Tuttavia la considerazione della struttura ad albero dell’opera e la stessa indicazione del metodo di lettura in questo senso da parte di Wittgenstein163, sembrano escludere una stretta successione o una consequenzialità tra 6.54 e 7. In questa prospettiva il silenzio finale appartiene alla linea portante delle sezioni cardinali del Tractatus, e va dunque inteso come il complemento chiarificatorio della proposizione 6: «Propriamente la proposizione 7 appartiene alla linea portante di tutto il libro, la successione 1-7 delle proposizioni cardinali è da intendere come complementare alla proposizione 6. La 6 stabilisce la forma generale di ogni proposizione, cioè di tutto ciò che si può dire, e la 7 conclude con un principio di logica modale: ciò che non si può dire, si deve non dire»164. L’ultima proposizione del Tractatus non compare solo dopo che abbiamo gettato la scala; in quanto fa parte della struttura portante dell’opera essa è costantemente presente sin dall’inizio, come richiamo costante al tema della 162
Cfr. DIAMOND C., Ethics, imagination and the Tractatus, in op. cit., p. 150. Cfr. BAZZOCCHI L., op. cit., p. 9 e pp. 18-20. L’evidenza testuale a favore della lettura del Tractatus secondo la numerazione utilizzata dal suo autore, numerazione che raffigura una struttura ad albero, è nell’unica nota all’inizio dell’opera ( cfr. TLP, p.25). Vi è poi un’evidenza extratestuale in una lettera a Ficker del 5.12.1919; cfr. WITTGENSTEIN L., Lettere a Ludwig von Ficker, op. cit., p. 76: «Di passaggio faccio notare che i numeri decimali delle mie proposizioni dovrebbero venir incondizionatamente stampati, poiché essi solo danno al libro perspicuità e chiarezza [Übersichtlichkeit und Klarheit], e senza di questa numerazione il libro sarebbe un incomprensibile pasticcio». 164 BAZZOCCHI L., op. cit., p. 67. 163
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delimitazione del senso. Quindi, il suo legame con la sezione 6.54 presupposto dai lettori “risoluti” non è tanto più evidente e necessario di quello intrattenuto con altre sezioni. Se seguissimo invece il percorso di lettura indicatoci da Wittgenstein, la sezione 6.54 si troverebbe ad occupare la posizione di quarto commento alla sezione 6.5, che a sua volta è il quinto commento della sezione 6. Pertanto, dopo aver enunciato la forma generale della proposizione (TLP 6), Wittgenstein sostiene che tutti i dubbi e le domande che possiamo formulare, ovvero tutti i problemi che possono essere formulati senza infrangere i limiti del discorso sensato rappresentati dalla forma generale della proposizione, possono anche avere una risposta (TLP 6.5). Tutto ciò che invece presenta un alone di problematicità più esteso dell’area circoscritta dalla forma generale della proposizione è insensato. Per cui lo scetticismo, avanzando dubbi su proposizioni che non hanno una funzione raffigurativa e che dunque non dicono niente sul mondo, è insensato (TLP 6.51). E neanche la risposta a tutti i possibili quesiti scientifici, a tutte le domande formulate su proposizioni che raffigurano una porzione di realtà, getterebbe luce sulla possibilità di individuare qualcosa al di là del dicibile (TLP 6.52). Allora il metodo della filosofia non può consistere nella ricerca di una risposta a tutte le domande della scienza, ma nella distinzione tra ciò che può dirsi sensatamente in quanto può essere formulato nei limiti della forma generale della proposizione, e ciò che invece non ha significato (TLP 6.53). Individuare in questa capacità di distinguere il sensato dall’insensato l’unico metodo rigorosamente corretto, comporta però anche la necessità di riconsiderare il valore che attribuiamo alla filosofia. La filosofia non è in grado di rispondere ad alcuna domanda sensata, ma non è neanche in grado di comunicare per gesti, cenni o lampi rischiaratori ciò che non può assumere la veste simbolica della forma generale della proposizione. Si tratta piuttosto di un’attività provvisoria, volta alla chiarificazione di problemi che a questo punto dell’opera non dovrebbero apparirci più tali (TLP 6.54). Proprio perché hanno perso la loro problematicità, e con essa l’illusione di poter esser espressi in domande rispettose della gamma di possibilità logiche rappresentata dalla forma generale della proposizione, i “problemi” affrontati dalle sezioni 1-6 del Tractatus sono semplici nonsensi. Quello che qui voglio suggerire è la totale mancanza di una prospettiva tragica, incarnata dalla forma iperbolica del paradosso, dalla sezione 6.54. Tutte le sezioni che ho preso in considerazione e che possono esser lette in maniera consecutiva a 6.54, presentano segnali di distensione165, di dissoluzione di quella ineliminabile tensione tra linguaggio 165
Elementi di questa dissoluzione antitragica del Tractatus sono «L’enigma non v’è» della sezione 6.5,
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e realtà presente nella tesi dell’ineffabilità delle relazioni nome-oggetto e proposizionesenso. Come ha intuito Bazzocchi, l’unico climax ascendente in queste sezioni non è quello che culmina nel silenzio della sezione 7, ma piuttosto quello che porta Wittgenstein alla formulazione del metodo rigorosamente corretto, per mezzo del quale perveniamo ad una visione retta del mondo: « […] vi è un gradiente di “correttezza” e di “insensatezza”, e le proposizioni del Tractatus sono “insensate” solo
rispetto
all’estrema istanza di senso dell’ “unico modo rigorosamente corretto”»166. Inoltre, da questo punto di vista, la metafora della scala cessa di rappresentare l’ascesa di ogni singola proposizione del Tractatus, per incarnare il tema del “livello corretto” rispetto al quale è possibile vedere di volta in volta gli stati di cose, i fatti, le proposizioni, la logica e infine il mondo: «Dunque, dietro il vedere del Tractatus ritroviamo ancora una volta il tema del livello: si vede correttamente se ci si pone al livello corretto. I vari punti di vista collassano cioè nell’unico livello fondante, il livello dei fatti e degli stati di cose: non altrimenti a come la gerarchia delle proposizioni della logica si può ridurre al suo livello base […]»167. È allora chiaro come il tema del silenzio assuma qui un significato completamente differente rispetto a quello attribuitogli da Diamond e Conant. Per questi, infatti, vedere rettamente il mondo significa vederne il senso profondo attraverso i nonsensi chiarificatori del Tractatus, senza sentire più l’esigenza metafisica di doverlo esprimere nel discorso filosofico. Al contrario, nella prospettiva che ho delineato, se le proposizioni sono tutte di pari valore (TLP 6.4) allora una visione retta del mondo consisterà nell’osservare i fatti da esse raffigurati al loro stesso livello. È questo mondo privo di gerarchie metafisiche, di livelli ontologici, quello al quale la scala del Tractatus ci permette di accedere. Rispetto alla prima tesi su cui poggia la lettura “risoluta”, ovvero la possibilità di leggere consecutivamente 6.53-7, possiamo concludere che uno sguardo più attento ne rivela l’inconsistenza testuale se non addirittura l’illegittimità. Ciò che invece la lettura “risoluta” coglie con la nozione di nonsenso semplice, ma che non va oltre l’essere un’intuizione felice, è l’assenza di una prospettiva tragica nella sezione 6.54. Il problema della lettura “risoluta” è il percorso testuale attraverso il quale arriva a questa conclusione, un percorso in cui il nonsenso delle proposizioni del Tractatus viene presentato come un colpo di scena
l’assenza di pàthos nella contrapposizione tra dubbi scettici/domande della scienza da un lato, e impossibilità di rispondere/risposte sensate ma lontane dalla soluzione dei problemi vitali dall’altro nelle sezioni 6.51-6.52. 166 BAZZOCCHI L., op. cit., p. 110. 167 Ibid., p. 111. Bazzocchi sostiene questa posizione sulla base delle evidenze testuali presenti nei manoscritti preparatori al Tractatus, in particolare il MS 104.
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teatrale168. Più che a costruire paradossi, e a scorgere enigmi nella relazione semantica tra linguaggio e mondo, Wittgenstein nel Tractatus è impegnato a sgonfiarne l’alone misterioso169. Il silenzio finale mira a riportare la filosofia al livello della superficie, risollevandola dalla profondità dei problemi metafisici. Veniamo adesso alla seconda tesi che fa da presupposto alle due “letture risolute” prese in considerazione, la lettura del concetto di nonsenso chiarificatorio in Frege attraverso l’idea di un dispiegamento della verità. Secondo Diamond170, infatti, ne Il pensiero Frege criticherebbe il tentativo di concepire la parola “vero” come un termine relazionale. Constatato che la logica è fondamentalmente connessa con la “verità”, così come l’etica lo è con il “bene” e l’estetica con il “bello”, Frege passa poi al tentativo di definire la verità come corrispondenza tra un’immagine, un pensiero, una parola e ciò che viene rappresentato. Il nodo da sciogliere è la questione di come la rappresentazione e la cosa rappresentata corrispondano: «Se non so che una certa immagine deve rappresentare il Duomo di Colonia non so con che cosa dovrei confrontare l’immagine per decidere della sua verità. E inoltre la corrispondenza può essere completa solo allorché le cose corrispondenti coincidano, e non siano pertanto in alcun modo cose distinte. […] Far combaciare una rappresentazione con una cosa sarebbe possibile solo se la prima corrispondesse completamente con la seconda. Ma non è questo che si intende quando si definisce la verità come corrispondenza di una 168
È questa la critica che Jakko Hintikka muove alle letture “risolute” partendo dall’attribuzione a Wittgenstein di una concezione del linguaggio come mezzo universale e della tesi dell’ineffabilità della semantica; cfr. HINTIKKA J., What does Wittgenstein Inexpressible Express?, in op. cit., pp. 10-11: «Hence what Wittgenstein is saying in 6.54 is nothing more and nothing less than a simple corollary to the main doctrines of the bulk of the Tractatus. For a truly perceptive reader, proposition 6.54 does not come as a surprise, for it follows in the most literal sense from what he had said earlier in the book. Wittgenstein is expressing something different from the logico-semantical theory that he seems to be expounding. What Wittgenstein is assuming is that semantics is- literally – inexpressible, and that for this reason his attempt to express it is stricto sensu nonsensical». 169 La centralità che per la lettura “risoluta” assume nel Tractatus la chiarificazione della mente del lettore permette di leggere l’opera di Wittgenstein alla luce del suo intendo fondamentale di fare della filosofia una terapia linguistica. Su questo punto è possibile individuare numerose analogie con il metodo psicanalitico di Freud, come ha osservato GARGANI A.G., Wittgenstein e Freud: filosofia e terapia linguistica, in Wittgenstein e Freud, a cura di M.Mancia, Bollati Boringhieri, Torino 2005, pp. 38-39: «[…] sia Wittgenstein che Freud portano a compimento un’operazione intellettuale decisiva, originale e innovativa, consistente nella dissoluzione della coerenza analitica, intesa come principio guida del discorso, delle espressioni linguistiche. Entrambi, cisascuno a modo suo, attaccano l’idea del significato, del potenziale semantico dei nostri linguaggi nei termini di un flusso coerente e lineare di coerenza, per cui ogni sviluppo o sequenza espressiva sarebbe lo sviluppo di qualcosa di precostituito, di un simbolismo predeterminato, ossia di una condizione iniziale in cui l’intero svolgimento simbolico successivo sarebbe predeterminato a volo». La coscienza che il “secondo” Wittgenstein matura della filosofia come terapia linguistica avrebbe lo scopo di dissolvere l’illusione di una completezza assoluta dell’analisi, così come per Freud l’analisi ha termine anche se non tutti i conflitti pulsionali sono stati assoggettati al controllo dell’Io; cfr. FREUD S., Sulla psicoanalisi. Cinque conferenze, in Opere 18861921, ed. it. a cura di D.Agozzino, C. Balducci et alia, Newton Compton Editori, Roma 2009, pp.154243. 170 Cfr. CONANT J., DIAMOND C., op. cit, pp. 227-267.
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rappresentazione con qualche cosa di reale. È infatti essenziale proprio che ciò che è reale sia distinto dalla rappresentazione»171. Dall’impossibilità di definire la verità come una relazione di corrispondenza tra un’immagine e una cosa, Frege generalizza sino ad attaccare tutti i tentativi di definire la nozione di verità: «Cosa dovremmo mai fare per decidere se qualcosa sia vero? Dovremmo ad esempio indagare se sia vero che una rappresentazione e un che di reale concordano nell’aspetto stabilito. Ma con questo ci troveremmo nuovamente di fronte a una questione dello stesso tipo, e il gioco potrebbe ricominciare da capo. […] È pertanto probabile che il contenuto della parola “vero” sia di una specie del tutto singolare e indefinibile»172. Secondo Diamond, nella trattazione della nozione di “verità”, Frege starebbe distinguendo tra il tentativo di darne una definizione o una teoria e l’idea che invece sia qualcosa che possa essere presentato, o meglio “dispiegato”, indicando le leggi della logica. La scelta del logico jenese ricadrebbe su questa seconda opzione, per cui la questione della “verità” ha senso solo se posta in relazione ad un enunciato e alle relazioni logiche tra i suoi elementi costitutivi al fine di far emergere i fattori che intervengono nel giudizio sulla verità/falsità di quell’enunciato173. L’approccio fregeano alla questione dell’esser vero di un enunciato, se da un lato ci permette di individuare le componenti del giudizio (versante epistemologico) dall’altro permette di afferrare senza cadere nell’insensatezza il modo in cui nell’enunciato si “dispiegano” le leggi della logica (versante logico)174. Il punto qui è che la nozione di verità come dispiegamento, consistente nel fornire una spiegazione dei vincoli normativi sul giudicare (sul ritenere vero un contenuto che può 171
FREGE G., Il pensiero, op. cit., pp. 45-46. Ivi; questa interpretazione di come Frege indugi su qualsiasi possibilità definitoria della parola “vero” è ripresa da SLUGA H., Frege and the Indefinability of Truth, in op.cit., p. 90: « Frege argues that the truth of a proposition cannot consist in its pictorial correspondence to reality, since such correspondence “can only be perfect if the corresponding things coincide”. But this is neither expected nor desired in the case of propositions. If we say, on the other hand, that the proposition is true when it corresponds to a fact in a certain respect, we will be forced to ask whether it is true that it corresponds in the laid-down respect, and then we presuppose the notion of truth we are seeking to seeking to define. These are, indeed, issues that Wittgenstein is forced to address in the Tractatus». 173 Questa tesi sul ruolo del giudizio per Frege è intimamente connessa all’idea che il linguaggio sia uno strumento per l’espressione del pensiero di un individuo, e che i termini del linguaggio significano o rappresentano solo in virtù delle intenzioni referenziali dietro l’uso; cfr. YOURGEAU P., The path back to Frege, «Proceedings of the Aristotelian Society», New Series, Vol. 87 (1986-1987), pp. 191-195. 174 A mio parere Diamond coglie attraverso l’attribuzione a Frege di una nozione di verità come “dispiegamento”, un aspetto importante di tutta la sua opera filosofica. Frege, infatti, riflette sulla natura del giudizio da un versante non esclusivamente logico-semantico ma anche e soprattutto epistemologico. È nel giudizio, infatti, che possiamo tracciare i lineamenti dell’oggetto della conoscenza e fornire una spiegazione di ciò di cui si occupa la logica; cfr. CARL W., op. cit., p.24: « Frege was concerned with language not as a means of expressing thoughts but as a means of expressing knowledge claims, and with regard to thoughts expressed by sentences he was mainly interested in what is relevant to the truth claim of the judgement to be justified. […] It is not only a mistake from a historical point of view to separate it from the epistemological tradition of modern philosophy; it also gives us the wrong idea about what the real issue of this “Logic” is». 172
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esser giudicato vero o falso) sarebbe presente anche nel Tractatus, ma con una differenza rilevante rispetto a Frege. Wittgenstein, infatti, rifiuterebbe l’idea che il dispiegamento della verità sia possibile indicando le leggi della logica perché tali leggi non sono necessarie né alla pratica inferenziale, né a quell’insieme di pratiche per mezzo delle quali giustifichiamo l’asserzione di una proposizione. Diamond nota come Wittgenstein ponga i vincoli normativi sui nostri giudizi all’interno delle proposizioni che giudichiamo o che utilizziamo come premesse nelle nostre inferenze (TLP 5.132). Se quindi la filosofia è un’attività di chiarificazione, e se le chiarificazioni presentano già “dispiegati” nella loro forma e nel loro contenuto i vincoli normativi del giudizio, allora l’attività di chiarificazione coincide con quello che per Frege sarebbe il “dispiegamento” della verità: «Così, la chiarificazione delle proposizioni (che viene praticata dalla filosofia) contiene già una chiarificazione dei vincoli normativi sul giudicare. Se dunque la chiarificazione dei vincoli normativi sul giudicare dispiega la verità, sarà l’attività filosofica di chiarificazione delle proposizioni a dispiegare la verità»175. Attribuire a Wittgenstein una versione di questo tipo, potremmo dire “austera”, della nozione fregeana della verità come dispiegamento è funzionale al fulcro interpretativo della lettura “risoluta”: le chiarificazioni del Tractatus sono semplici nonsensi lo scopo dei quali è la liberazione del lettore dall’illusione che le verità metafisiche sulla relazione tra linguaggio e mondo giacciano in uno spazio ineffabile ma accessibile. La “verità” come dispiegamento delle relazioni logiche all’interno della proposizione ci permette di comprendere in che senso le chiarificazioni del Tractatus possano esser dei semplici nonsensi. In conclusione, anche nel caso della seconda tesi presupposta dalla lettura “risoluta” nella definizione del nonsenso del Tractatus, i punti oscuri sono parecchi. In primo luogo essa è fondata su una particolare scelta ermeneutica che porta Diamond ad escludere la possibilità di attribuire tanto a Frege quanto
a
Wittgenstein
una
concezione
della
verità
ridondantistica
oppure
corrispondentista. Non voglio qui entrare nel merito dell’opportunità di attribuire ai due filosofi una nozione di verità piuttosto che un’altra176. Basti tuttavia notare che la scelta di Diamond è fondata sulla lettura de Il pensiero e che nel saggio, il passo dal rifiuto della concezione corrispondentista della verità alla verità come “dispiegamento” delle 175
CONANT J., DIAMOND C., op. cit, pp. 229-230. Cfr. HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., pp. 144-145: « In breve, per quanto concerne le proposizioni atomiche, la cosiddetta teoria raffigurativa è equivalente alla clausola per gli enunciati atomici di una definizione di verità di tipo tarskiano. La famosa relazione di raffigurazione non è altro che quella stessa relazione di isomorfismo che nella semantica logica definisce la verità degli enunciati atomici. Quella che viene erroneamente detta “teoria raffigurativa del linguaggio” non è altro che l’anticipazione da parte di Wittgenstein della prima clausola di una definizione di verità di tipo traskiano». 176
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relazioni logiche, non è così evidente come l’autrice paventa177. L’indefinibilità della parola “vero”, più che determinata da caratteristiche peculiari della nozione verità, pare essere il precipitato del vuoto semantico che si nasconde dietro di essa: «Infatti la parola “bello” indica davvero l’essenza dell’estetica, così come “buono” indica quella dell’etica; “vero”, invece fa solo un tentativo fallito di indirizzarci alla logica, poiché quel che conta davvero non sta nella parola “vero”, ma nella forza assertoria con cui un enunciato viene proferito»178. L’indefinibilità della parola “vero” allude al ruolo che essa svolge quando viene riferita ad un enunciato assertorio: essa esplicita la forza assertoria dell’enunciato. Mi sembra che invece Diamond sovrapponga l’indefinibilità della parola “vero”, e il senso che questa indefinibilità ha per Frege, all’indefinibilità della verità come concetto fondamentale della logica. Inoltre è possibile isolare nel discorso di Diamond un punto debole ben più evidente: se le proposizioni di cui è composta l’opera
sono chiarificazioni che “dispiegano” la verità e, stando
all’interpretazione risoluta di 6.54, sono nonsensi semplici non si capisce come questa posizione non collassi su una lettura tradizionale del nonsenso delle proposizioni filosofiche, volta a individuare nelle violazioni di senso delle tesi del Tractatus l’intenzione di comunicare qualcosa di ineffabile. L’aver rinvenuto nel Tractatus una versione radicale della nozione fregeana della verità come “dispiegamento” e l’aver attribuito questa nozione all’attività di chiarificazione in cui consisterebbe la filosofia porta Diamond a non vedere le conseguenze che questa posizione ha per la connotazione del nonsenso nella lettura “risoluta”. Tuttavia, anche se ad un’analisi più attenta le argomentazioni a favore del circolo chiarificazione (Erläuterung) - nonsenso semplice - verità come “dispiegamento” rivelano la loro fragilità, esse rimangono l’espressione di un’altra intuizione felice della lettura “risoluta”. Abbiamo visto come Diamond attribuisca a Frege l’aver per primo intuito che il “dispiegamento” della verità non possa prescindere dal dispiegamento delle relazioni logiche nell’enunciato. Ebbene questo tema rivelerebbe come Frege avesse una concezione della logica legata al suo ruolo costitutivo in tutto ciò che può esser riconosciuto come pensiero. Una caratterizzazione in tal senso della logica, ereditata da Frege, sarebbe presente anche nel 177
Il rifiuto di una nozione di verità come corrispondenza tra immagine e realtà sembra argomentato da Frege come conseguenza della distinzione tra gli ambiti della logica, della psicologia e delle scienze naturali. Per cui la verità di un enunciato descrittivo non può essere la relazione di corrispondenza tra ciò che l’enunciato descrive e l’oggetto della descrizione perché il senso dell’enunciato coincide con il pensiero in esso espresso, ed il pensiero è immateriale; cfr. FREGE G., Il pensiero, op. cit., p. 47: «Il pensiero è qualcosa che non può esser percepito con i sensi, e tutte le cose sensibilmente percepibili sono escluse dall’ambito di ciò per cui possa in generale porsi la questione della verità. La verità non è una proprietà che corrisponda a un genere particolare di impressioni sensibili». 178 FREGE G., Le mie idee logiche fondamentali, in op.cit., p.394.
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Tractatus e metterebbe in mostra un aspetto di continuità forte con l’intuizione kantiana del rapporto tra pensiero e realtà179. Un ruolo costitutivo della logica rispetto ad un senso non psicologico di pensiero, è per Wittgenstein un elemento di continuità o almeno di riflessione e critica, anche nella sua filosofia matura:
Le proposizioni della logica sono “leggi del pensiero”, “perché esprimono l’essenza del pensare umano” – ma, più correttamente: perché esprimono, o mostrano, l’essenza, la tecnica del pensare. Esse mostrano che cos’è pensare, e anche modi di pensare.180
Possiamo allora trarre un bilancio del modo in cui i due autori presi in considerazione, Diamond e Conant, leggono la sezione 6.54 e il ruolo che essa attribuisce al nonsenso nel e del Tractatus. Il metodo di lettura dell’opera, centrato sulla consecutività di tutte le proposizioni raffigurata dalla metafora della scala, può essere certamente messo in discussione se non addirittura invalidato dalle osservazioni di Wittgenstein su come leggere il Tractatus. Dunque, l’interpretazione “risoluta” del silenzio, e il legame particolare postulato tra la sezione 7 e la 6.54, non ha una consistenza teorica radicata nell’esegesi più attenta dell’opera di Wittgenstein. Ma questo non inficia minimamente l’importanza della nozione di nonsenso semplice quale espressione dell’esigenza di una visione chiara, antitragica e antiparadossale della relazione tra linguaggio, pensiero e realtà181. Analogamente, anche la lettura di Frege (dei concetti di “chiarificazione” e di “verità”) proposta dai lettori “risoluti” come chiave di volta della concezione della filosofia nel Tractatus, può essere oggetto di discussione per quanto riguarda 179
Cfr. CONANT J., The Search for Logically Alien Thought: Descartes, Kant, Frege, and the Tractatus, «Philosophical Topics», Vol. 20, No. 1, pp. 115-180. 180 WITTGENSTEIN L., Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, tr. it. di M.Trinchero, Einaudi, Torino 1971, § 133, p.56. 181 Cfr. MCGUINNESS B., Raffigurazione e forma nel Tractatus di Wittgenstein, op. cit., pp.74-76. McGuinness sottolinea come il monito al superamento delle proposizioni del Tractatus in quanto prive di senso sia rivolto soprattutto a quelle che presentano la logica come un’immagine speculare del mondo (TLP 6.13) o l’esistenza del mondo come un mistero (TLP 6.44). Le proposizioni del Tractatus che hanno per oggetto la logica e i suoi rapporti con la realtà non conducono direttamente ad una visione chiara del mondo, possono ciò solo se vengono comprese e superate (überwindet). Si tratta della necessità di comprendere l’autore del Tractatus per ottenere una certa visione del mondo: la dimensione antitragica del nonsenso consiste allora in una riposizionamento del soggetto nei confronti del mondo. Secondo Bastianelli il nonsenso del Tractatus si farebbe portatore di un atteggiamento ostile tanto alla cultura scientista quanto al sentimentalismo etico e religioso, che Wittgenstein avrebbe mutuato dalla lettura di Paul Ernst; cfr. BASTIANELLI M., Linguaggio e mito in Paul Ernst, op. cit., pp. 120-121: «Vi è dunque una dimensione in cui il linguaggio e il mondo sono uniti in maniera profonda e non riducibile alla raffigurazione dei fatti: è quella in cui avviene l’esperienza personale dello scontro tra volontà e necessità, la quale richiede una “presa di posizione” del soggetto nei confronti del mondo. È in questa chiave che può esser letto il debito che, negli anni Trenta, Wittgenstein riconosce a Ernst relativamente all’espressione “fraintendimento della logica del linguaggio”».
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l’attendibilità esegetica, ma è anch’essa feconda di un’intuizione importante. Si tratta della funzione costitutiva della logica rispetto al pensiero che ha nella filosofia kantiana la sua origine e nella filosofia del Tractatus la sua declinazione in termini linguistici.
1.2.2 Wittgenstein, Frege e la nozione di insensatezza dal Tractatus alle Ricerche
Quello che finora ho cercato di mettere in luce attraverso la contrapposizione tra le diverse interpretazioni della nozione di nonsenso nella sezione 6.54 è la priorità , per una sua definizione, della tematica logico-semantica della determinatezza del senso. Nel Tractatus, infatti, una proposizione è unsinnig quando pur essendo dotata di una forma proposizionale viola i principi della raffigurazione perché alcuni suoi elementi costitutivi sono privi di significato (TLP 6.53). Abbiamo visto che il senso di una proposizione riposa su una caratteristica bifronte del simbolismo: da una parte la capacità simbolica dei propri elementi costitutivi di raffigurare una porzione di realtà assumendo una configurazione determinata, dall’altra la possibilità per l’analisi di individuare un nesso semantico tra questi elementi costitutivi e gli elementi costitutivi della situazione raffigurata. Se il primo aspetto si esaurisce nel tema della forma logica della raffigurazione, il secondo aspetto ha invece nella trattazione degli oggetti e nella relativa ontologia dell’atomismo logico il suo contraltare. Ora, è chiaro che il primo aspetto del simbolismo abbia bisogno del secondo per funzionare correttamente. Se infatti i segni primitivi della proposizione non designassero alcunché, non fossero riconducibili ad alcun oggetto, allora anche qualora tali segni assumessero all’interno della proposizione una configurazione a noi familiare il senso della proposizione rimarrebbe indeterminato. Assumere una prospettiva logico-semantica sulla definizione del nonsenso nel Tractatus significa quindi dissolvere il problema relativo a quale tipo di nonsenso Wittgenstein faccia riferimento nella sezione 6.54. Infatti, sia le espressioni letteralmente incomprensibili che quelle dotate di una forma proposizionale ma i costituenti delle quali non hanno significato sono insensate perché falliscono laddove il linguaggio chiede uno sforzo simbolico: quello di mostrare il legame semantico tra i segni primitivi semplici nei quali la proposizione è analizzabile e gli oggetti cui questi segni si riferiscono. In entrambi i casi il nonsenso di una proposizione è l’effetto visibile dell’assenza di un nesso semantico tra i nomi e le cose, per cui da una prospettiva logico-semantica tra i nonsensi di un linguaggio incomprensibile e i 91
nonsensi della metafisica o del Tractatus non esiste alcuna differenza: sono semplici nonsensi (einfache Unsinnen). Inoltre, il modo in cui Wittgenstein riconduce l’insensatezza all’assenza di nesso semantico tra nomi e cose, tra elementi costitutivi della proposizione ed elementi della situazione raffigurata, è certamente vicino alla prospettiva semantica di Frege in Senso e significato: « Il fatto che ci preoccupiamo del significato di una componente dell’enunciato è indice del fatto che generalmente riconosciamo ed esigiamo che anche l’enunciato abbia un significato. Il pensiero perde valore per noi non appena ci accorgiamo che una delle sue parti è priva di significato»182. La preoccupazione che muove al passaggio dal senso al significato di un enunciato, che per Frege è costitutiva del discorso scientifico, è presente nel Tractatus nella delimitazione della sensatezza alle proposizioni che svolgono una funzione raffigurativa e a quelle proposizioni che sono funzioni di verità delle prime. Liberarsi della preoccupazione del passaggio dal senso al significato di un enunciato, per metterla in termini fregeani, significa uscire dai limiti del discorso sensato. Alla luce di questa caratterizzazione del nonsenso nel Tractatus possiamo adesso chiederci in che termini e in che modo Wittgenstein venne trasformando questa nozione, e in che termini e in che modo rimase fedele alla connessione tra determinatezza del senso e “preoccupazione di significato” ereditata da Frege. Per rispondere a questi interrogativi occorre guardare alla prospettiva rispetto alla quale la nozione di insensatezza viene affrontata nella cosiddetta “fase di transizione”. Innanzitutto, come ha giustamente notato Marconi, nei suoi incontri con il Circolo di Vienna Wittgenstein si distacca dalla “preoccupazione di significato” fregeana, da una prospettiva logico-semantica sul problema della determinatezza del senso della proposizione, per assumerne una “verificazionista”183: l’insensatezza di una proposizione non è tanto nell’assenza di significato delle sue parti costitutive ma nella mancanza di un nesso epistemico con un fatto del mondo. Il problema della determinatezza del senso della proposizione assume adesso, per Wittgenstein, una prospettiva extralinguistica, o meglio viene esaurito dal suo metodo di verifica:
Se dico p. es. « Là in cima al cassettone c’è un libro», come faccio a verificarlo? È sufficiente che lo guardi o lo osservi da più lati o che lo prenda in mano, lo palpi, lo apra, lo sfogli, ecc.? Ci sono due concezioni a riguardo. L’una dice: qualunque cosa io faccia, non potrò mai verificare completamente la proposizione […]. L’altra concezione, che vorrei far mia, dice: 182 183
FREGE G., Senso e significato in op. cit., p. 39. MARCONI D., L’eredità di Wittgenstein, op. cit., pp. 57-58.
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No, se non sono in grado di verificare compiutamente il senso di una proposizione, non potevo neppure intendere qualcosa con la proposizione. Essa allora non vuol dire nulla.184
La prima concezione della verifica del senso della proposizione presa in esame pone la questione dell’esistenza del libro sopra il cassettone in un senso metafisico, la seconda invece in un senso empirico. Optando per quest’ultima, Wittgenstein vuol far emergere l’insensatezza dei problemi filosofici tradizionali, lo stallo scettico al quale essi conducono. La questione dell’esistenza del libro sopra il cassettone ha senso solo se viene posta in termini empirici, diventa invece un nonsenso se viene trattata in termini metafisici, come domanda sulla possibilità di accertare le condizioni generali che rendono possibili l’esistenza del libro. Per tratteggiare la vacuità di questo esercizio Wittgenstein utilizza l’immagine delle «ruote che girano a vuoto»185. Il suo ritorno all’insegnamento nei primi anni Trenta è segnato dall’esplorazione di strade differenti. Ad esempio, Wittgenstein riprende l’analogia della proiezione (TLP 3.11-3.13) ma in una direzione alternativa e complementare rispetto a quella del Tractatus. Se infatti nel contesto del libro egli se n’era servito per illustrare come la relazione di raffigurazione tra proposizione elementare e stato di cose (tra linguaggio e realtà) è efficace al fine dell’espressione del pensiero (nel senso antipsicologista di Frege), adesso se ne serve per spiegare le situazioni in cui questa relazione non è immediatamente evidente o non funziona come dovrebbe. Come riferisce Moore:
In rapporto con questa questione della similarità fra “proposizioni” empiriche e immagini, Wittgenstein usava frequentemente le parole “progetto” e “proiezione”. Avendo rilevato che è paradossale affermare che l’espressione “Esci dalla stanza” costituisca una “immagine” dell’azione del ragazzo che eventualmente obbedisce a quest’ordine, e avendo riconosciuto che tale espressione in effetti non è una “immagine” dell’azione del ragazzo “in nessun senso ordinario della parola”, tuttavia continuava a sostenere che “Esci dalla stanza” è un’immagine dell’azione del ragazzo, “nella stessa misura in cui” “2 + 3” è un’immagine di “5”, e che, d’altronde, “2 + 3” è realmente un’immagine di “5” “con riferimento a un particolare sistema di proiezione”, e che questo non è “in nessun modo inferiore” al sistema in cui “ii + iii” si proietta in “iiiii”, solo che “il modo di proiezione è piuttosto oscuro”. 186
184
Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, op. cit., p.35. Ibid., p.36. 186 WITTGENSTEIN L., Lezioni di filosofia 1930-1933. Annotate e commentate da George E. Moore, op. cit., p.70. 185
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Le proposizioni “2 + 3” e “ii + iii” sono immagini di “5” e di “iiiii”, ma lo sono secondo metodi di proiezione differenti, il primo dei quali non è immediatamente visibile a causa dell’utilizzo di un tipo particolare di segni (le cifre arabe). L’addizione raffigurata dalla proposizione “2 + 3” assume un senso determinato solo in relazione al sistema di proiezione in cui il suo risultato è “5”, in virtù del significato dei segni “2”, “3” e “+”. Così, le proposizioni che chiamiamo insensate sono tali solo in relazione al sistema di proiezione corrente anche se siamo inclini a pensare, ogni volta che individuiamo un nonsenso, di utilizzare un nuovo sistema di proiezione (come quello di “ii + iii” rispetto a “2 + 3”). In realtà, dice Wittgenstein, noi pensiamo di utilizzare , un nuovo sistema di proiezione quando invece stiamo semplicemente utilizzando in modo errato il sistema di proiezione corrente187. Pertanto, pur trovandosi nella prospettiva “verificazionista” segnalata nell’esempio citato dal riferimento esclusivo alle “proposizioni empiriche” quali immagini, la rivisitazione dell’analogia della proiezione ci permette di individuare un nuovo modo rispetto al quale Wittgenstein guarda al tema del nonsenso. Non si tratta più di individuare le condizioni in cui le proposizioni elementari dotate di senso raffigurano, per poi espellere dai limiti del discorso sensato tutte quelle proposizioni che non rispettano quelle condizioni. Adesso, Wittgenstein sembra rifiutare l’idea che esista un “metodo corretto” per individuare il nonsenso, e dunque che esista un “sistema corretto di proiezione” coincidente con quello corrente o con un linguaggio logico perfetto. Una proposizione insensata è tale sempre rispetto ad un contesto in cui esistono condizioni di sensatezza fissate:
[…] Wittgenstein disse molte cose – disse, fra l’altro, di essersi lasciato, lui stesso, “fuorviare” in passato dall’espressione “senso”; e che ora la sua opinione era che “senso” fosse correlativo a “proposizione” (mostrando qui di intendere col termine “proposizione” ciò che prima aveva chiamato “proposizione nel senso più ristretto”, cioè “proposizione empirica”, escludendo, così, per esempio, le “proposizioni” matematiche), e che perciò, se l’ambito della “proposizione” non era “nettamente delimitato”, neppure l’ambito del “senso” era “nettamente delimitato”. […] Poi suggerì che quando diciamo: “Questo non ha senso”, in realtà intendiamo sempre “Questo non ha senso in questo particolare gioco”. E in risposta alla domanda: “Perché chiamiamo un enunciato un nonsenso? Che cosa significa chiamare un enunciato un nonsenso?”, disse che quando chiamiamo un enunciato “un nonsenso”, questo avviene “a causa di una certa similarità dell’enunciato in questione con altri enunciati che hanno senso” e che “il
187
Cfr., Ibid, pp. 71-72..
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nonsenso è sempre originato dalla formazione di simboli che sono analoghi a certi usi mentre non hanno alcun uso”.188
In questo passo possiamo individuare il fulcro del cambiamento di prospettiva sul tema del nonsenso nel chiasmo tra “proposizione” e “senso” da una parte e “gioco” e “uso” dall’altra. Se nel Tractatus Wittgenstein pensava di aver “nettamente delimitato” l’ambito dei concetti di “proposizione” e di “senso”, adesso si fa strada l’idea che una proposizione assuma un senso determinato solo in un contesto più ampio e indefinito che Wittgenstein chiama gioco. In virtù di questo allargamento della prospettiva il nonsenso nasce laddove l’uso di un simbolo in un gioco presenta delle analogie con certi usi all’interno dello stesso gioco, ma non svolge alcun ruolo effettivo. I concetti di “gioco” e di “uso”, nella “fase di transizione”, permettono dunque a Wittgenstein di riconsiderare la nozione di nonsenso e di smussare l’interdizione all’analisi filosofica determinata, all’epoca del Tractatus,
dalla sua caratterizzazione come semplice
(einfach). Così possiamo adesso individuare una delle cause dell’insensatezza delle proposizioni nel linguaggio ordinario a prescindere dalla loro capacità raffigurativa, cioè a prescindere dal loro non essere immagini di stati di cose possibili. A determinare l’insensatezza di un’espressione è il nostro essere guidati nell’atto del suo utilizzo in un contesto particolare da un’analogia fuorviante con l’impiego, in un altro contesto o nello stesso contesto, di un’altra espressione. Le nostre proposizioni insensate proprio perché formate in analogia con proposizioni sensate, ci portano a credere di possedere una grammatica logicamente indipendente dalle proposizioni sensate189. Infatti, quando pronunciamo un nonsenso siamo come incantati dal ritmo del canto di una sirena:
Che cosa è una proposizione? – Intanto nel nostro linguaggio esiste un suono di proposizione. (Donde le poesie insensate come quelle di Lewis Carroll.) E quello che noi chiamiamo sovente nonsenso, non è una cosa arbitraria. Ponendo la domanda circa la forma proposizionale generale teniamo conto che il linguaggio comune ha certamente un determinato ritmo proposizionale, ma non tutto ciò che ha questo ritmo è una proposizione.
188
Ibid., p.80. Cfr. WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 82: «Se l’espressione “la radice dell’equazione F(x) = 0” fosse una descrizione in senso russelliano, la proposizione “Ho n mele e n + 2= 6” avrebbe un senso diverso da quello di “Ho 4 mele”. Con la prima proposizione abbiamo un esempio estremamente istruttivo di come una notazione possa sembrare a prima vista ineccepibile, cioè a noi comprensibile; ma anche del fatto che in realtà noi abbiamo formato una proposizione insensata in analogia con una proposizione sensata e che ora crediamo semplicemente di avere un’idea delle regole della prima».
189
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Cioè suona come una proposizione, ma non lo è. – Donde l’idea di proposizione dotata di senso o insensata. 190
L’utilizzo nel linguaggio ordinario di proposizioni insensate ha a che fare con la constatazione banale per cui tutte le proposizioni sensate hanno un ritmo, un suono e che tale ritmo proposizionale si presenta anche nelle prime. In sintesi, Wittgenstein sembra muoversi dalla nozione di “nonsenso semplice” del Tractatus, fondata su di una concezione unitaria del ruolo della logica e della natura del linguaggio, a una caratterizzazione “analogica” del nonsenso, quale uso improprio del binario espressivo abituale. Questo movimento nel pensiero del filosofo si realizza parallelamente alla riflessione critica sulla tradizione filosofica e sul suo metodo. Benché Wittgenstein fosse consapevole di affrontare problemi ricorrenti nella tradizione filosofica che da Platone, passando per Berkeley, va a Kant era tuttavia cosciente della novità del suo “metodo”, fondato sull’identificazione delle analogie fuorvianti alla base di quei problemi. Come riporta Moore:
Illustrò il medesimo punto discutendo della “costruzione” del pentagono regolare; diceva che chi fosse stato impegnato nella ricerca di una costruzione con riga e compasso di un pentagono regolare, dopo che gli fosse dimostrata l’inesistenza di una tale costruzione, direbbe ancora: “Quella era la costruzione che cercavo di fare”, perché “la sua nuova idea della costruzione del pentagono regolare si infilerebbe naturalmente sul solito inveterato binario espressivo”.191
Il compito della filosofia nelle riflessioni di Wittgenstein dei primi anni Trenta è quello di individuare tra i problemi della tradizione filosofica e il «solito inveterato binario espressivo» delle analogie che tuttavia la tradizione filosofica non ha riconosciuto come tali. Wittgenstein non sembra più interessato a spiegare l’insensatezza delle proposizioni della metafisica sulla base dell’assenza di un nesso semantico tra le sue parti costitutive e la realtà, pare piuttosto intenzionato a descriverla nei termini dell’illusione determinata da una falsa analogia con il modo ordinario di esprimersi. La concezione della filosofia che si afferma dopo il Tractatus è quindi legata al lavoro di dissolvimento dell’alone di inquietudine creato dalle analogie fuorvianti delle proposizioni metafisiche, attraverso l’analisi di queste false analogie. Nel Tractatus queste inquietudini venivano spazzate dalla sicurezza cristallina con cui Wittgenstein si 190
Ibid., p.81. WITTGENSTEIN L., Lezioni di filosofia 1930-1933. Annotate e commentate da George E. Moore, op. cit., p. 114.
191
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impegnava nella
delimitazione dei limiti del senso delle proposizioni elementari,
espressa nelle sezioni 6.53-6.54. Adesso la ricerca di un metodo corretto appare più legato al respingere argomentazioni erronee, al combattere le analogie fuorvianti. Ma l’obiettivo non cambia, è sempre il raggiungimento di uno stato di quiete, di un sentirsi a casa nel linguaggio che il Tractatus esprimeva con l’immagine potente del silenzio:
Il filosofo si sforza di trovare la parola liberatrice [das erlösende Wort], quella parola che alla fine ci permette di cogliere ciò che fino allora, inafferrabile ha oppresso la nostra coscienza. […]. Il filosofo ci consegna la parola con la quale può /io posso/ esprimere la cosa e renderla inoffensiva. […] Uno dei compiti più importanti consiste nell’esprimere tutti i ragionamenti erronei in una maniera così particolare, che il lettore possa dire: “Ecco, l’ho inteso esattamente così.” In maniera da ricalcare la fisionomia di ciascun errore.192
L’ultimo periodo è una vera e propria riproposizione del contenuto della metafora della scala della sezione 6.54. Chi segue Wittgenstein fino in fondo quando affronta un problema della tradizione filosofica deve fare un lavoro di riconoscimento del cattivo uso delle parole, per ridare alle cose la loro giusta fisionomia. Deve ricalcare la fisionomia di ogni parola presente in una proposizione metafisica, riconoscerne nell’illusione di significato un’analogia fuorviante con il linguaggio quotidiano e infine gettar via i ragionamenti erronei conclusi da quel cattivo uso delle parole. Solo che questa volta la riappropriazione della «fisionomia delle parole» non si conclude con l’immagine catartica del silenzio, ma con l’individuazione di una «parola liberatrice»193. Rimane allora da chiedersi cosa resta della concezione trattariana del nonsenso nelle Ricerche, in che termini Wittgenstein si distacchi da una spiegazione di tale nozione nei termini dell’assenza di un nesso semantico tra proposizione e fatto, tra nomi e cose, e in che termini prenda le distanze anche dal modo in cui Frege aveva affrontato tale questione. In un’osservazione degli anni Quaranta, guardando indietro al modo in cui 192
WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 410. L’espressione, insieme a “pensiero liberatore” (der erlösende Gedanke), compare nei diari di guerra almeno due volte; cfr. WITTGENSTEIN L., Diari segreti, ed. it. a cura di F.Funtò, Laterza, Roma-Bari 1987, 22.11.1914 e 17.10.1914, p. 83 e p.67. Come ha osservato Gargani dietro l’suo di questa immagine è possibile individuare quel connubio di logica ed etica che fu l’indagine filosofica di Wittgenstein prima del Tractatus: «Un’esperienza etica radicale costituiva l’alternativa pratica fondamentale alla quale Wittgenstein aveva deciso di affidarsi; ma in essa si legge in trasparenza un imponente significato filosofico, quello per cui d’ora innanzi non si potrà prestabilire con la tecnica e l’abilità intellettuale dell’argomentazione il linguaggio significante e vero, ma bisognerà invece attenderlo, questo linguaggio autentico, come un evento imprevedibile e non calcolabile che si compie al termine di ricerca etica radicale e spietata» (in GARGANI A.G., Il coraggio di essere, in Ibid., p.8). 193
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aveva trattato la questione della comprensione di un enunciato nel Tractatus, Wittgenstein rappresenta il nonsenso come il mancato funzionamento di un meccanismo di convergenza tra i nomi all’interno della proposizione:
“Il concetto di Schweizer non è ein Schweizer.” È privo di senso dirlo? Bé, io non so che cosa voglia dire uno che lo dice: cioè come intenda impiegare questo enunciato. Posso immaginarmi qualche suo impiego ovvio. – “Ma non puoi appunto usarlo, o anche solo pensarlo, in modo tale che con le parole “il concetto di Schweizer” e con il secondo “Schweizer” si intenda la stessa cosa che si intende normalmente con queste parole”. Qui si annida l’errore. Qui uno ragiona come se avesse vagamente in testa questo paragone: nell’enunciato le parole quadrano l’una con l’altra, cioè è possibile scrivere quella sequenza verbale priva di senso; ma il significato di ogni parola è un corpo invisibile, e questi corpi di significato non si possono far quadrare. [( «l’intendere da all’enunciato una dimensione ulteriore» )].194
In questo passo Wittgenstein individua nella definizione del nonsenso a partire dall’assenza di un nesso semantico di designazione tra i nomi e le cose, una manifestazione di quella “concezione agostiniana del significato” esposta nel primo paragrafo delle Ricerche per cui i significati delle parole sono gli oggetti che denominano, e le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni. Secondo la prospettiva “agostiniana”, quando un enunciato esprime un nonsenso lo fa perché le denominazioni di oggetti rappresentate dalle parole non si connettono all’interno della proposizione in virtù di una sorta di incongruenza. E questo Wittgenstein lo attribuisce all’illusione che il significato di una parola sia come un corpo invisibile proiettato dietro la parola, o per usare le immagini delle Ricerche «il concetto generale di significato della parola circonda il significato di una caligine, che rende impossibile una visione chiara»195. Dissipare questa nebbia, eliminare l’ombra che il “corpo” del significato proietta sulla parola vuol dire ridarle la sua fisionomia. Cosa significa questo nei termini delle Ricerche? Prima ho messo in evidenza come già nella “fase di transizione” Wittgenstein avesse introdotto le nozioni di “gioco” e di “uso” in relazione all’identificazione delle proposizioni insensate rispetto a quelle dotate di senso. Ebbene, nelle Ricerche, facendo leva su queste due nozioni, Wittgenstein declina il tema del nonsenso nei termini dell’estraneità di un’espressione linguistica alle regole grammaticali del discorso cui appartiene, o meglio sembra appartenere a causa 194
WITTGENSTEIN L., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, ed. it. a cura di R. De Monticelli, Adelphi, Milano 1990, § 42, p.21. 195 RF § 5, p.11.
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dell’illusione generata da un’analogia fuorviante con altre espressioni linguistiche utilizzate ordinariamente in quel discorso. Se un gioco linguistico è definito dalle regole grammaticali196 allora una qualsiasi mossa effettiva all’interno del gioco deve essere conforme a queste regole; un nonsenso è una mossa illegittima all’interno del gioco. L’essere un’espressione linguistica insensata non esprimerà l’appartenenza della proposizione a un discorso con una grammatica nuova, con delle regole estranee alla grammatica ordinaria; rappresenta piuttosto un uso fuorviato rispetto al discorso sensato ordinario: «Quando si dice che una proposizione è priva di senso non è come se il suo nonsenso sia, per così dire, senza senso. Ma una combinazione di parole viene esclusa dal linguaggio, ritirata dalla circolazione»197. Il punto allora è che non esistono espressioni in sé insensate perché «una ruota, che si possa muovere senza che tutto il resto si muova insieme con essa, non fa parte della macchina»198; piuttosto ci sono espressioni insensate sempre e solo rispetto a un gioco linguistico, al quale sembrano appartenere mentre in realtà non appartengono. Si tratta di un punto di continuità forte rispetto al Tractatus (TLP 5.4733) ma anche di distacco da Frege e dall’idea che i nonsensi esprimano una grammatica propria e alternativa, sebbene illegittima, rispetto alle proposizioni dotate di senso. In questi termini, un’espressione linguistica insensata non appartiene al gioco linguistico cui sembrerebbe appartenere principalmente per tre ragioni: perché è una “mossa” in un altro gioco linguistico, perché è una regola di quel gioco o infine perché viola una regola di quel gioco. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un equivoco determinato dalle somiglianze di famiglia tra giochi linguistici all’interno della medesima forma di vita; è la situazione che si crea secondo Wittgenstein quando facendo filosofia poniamo domande essenzialiste come se si trattassero di domande fatte in un contesto ordinario e per uno scopo preciso:
Quando interroghiamo la filosofia, per esempio domandando “Che cosa è la sostanza?”, chiediamo una regola, una regola generale che valga per la parola “sostanza”, cioè: attenendoci alla quale ci siamo decisi a giocare. – Voglio dire la domanda “Che cosa è… ?” non si riferisce a un caso particolare, a un caso pratico, ma la poniamo stando a tavolino.199
196
Cfr. Ibid., §§ 567-568. Ibid., § 500, p.182. 198 Ibid., § 271, p.126. 199 WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p.415. 197
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Una domanda metafisica come “Che cosa è una sostanza?” è un nonsenso in quanto utilizzata fuori da un contesto ordinario e da un caso particolare. La domanda “Che cos’è… ?” è una “mossa” di un gioco ordinario giocato in una situazione particolare, quando filosofiamo non facciamo altro che estenderne ad un livello generalissimo il raggio d’azione, guidati da un’analogia con l’uso ordinario. L’illusione della sensatezza di domande metafisiche come “Che cosa è l’essenza?” nasce allora dalla somiglianza ingannatrice tra il gioco linguistico del “Che cos’è… ?”, che giochiamo quotidianamente per identificare un oggetto, e il gioco del “Che cos’è…?” che i filosofi giocano per trovare una regola generale, al fine di identificare nella maniera più astratta e generale possibile una categoria di oggetti. La seconda tipologia di nonsenso che Wittgenstein individua è quella relativa alla confusione tra una “mossa” all’interno del gioco e la possibilità di esprimere la regola che rende possibile quella mossa. Presentare una regola grammaticale come “mossa” all’interno del gioco che determina è un nonsenso, perché la regola è una condizione di possibilità delle “mosse” di quel gioco e in virtù di questa sua caratteristica non può essere definita in modo assolutamente rigoroso: «Noi non possiamo circoscrivere chiaramente i concetti che usiamo; e questo non perché sia a noi ignota la loro definizione reale, ma perché una loro “definizione” reale non esiste. Supporre che una definizione reale debba esservi, sarebbe come supporre che i bambini, ogni volta che giocano a palla, giochino un gioco secondo regole rigorose»200. Dell’illusione della definizione sarebbe vittima anche Frege, il quale paragonando la natura dei concetti a quella delle aree, conclude che se un’area chiaramente delimitata non può dirsi tale neanche un concetto sfumato può esser definito un concetto201. Questa obiezione a Frege, Wittgenstein la muove già nel 1930. Discutendo in casa di Schlick la sua posizione sul formalismo matematico e dichiarandosi in accordo con la critica del logico jenese202, Wittgenstein aggiunge:
La critica di Frege era corretta. Solo che non ha visto l’altro aspetto, quello legittimo del formalismo, vale a dire che i simboli della matematica, se pure non sono i segni, non hanno tuttavia alcun significato. Per Frege l’alternativa era: o abbiamo a che fare con tratti d’inchiostro sulla carta oppure questi tratti sono segni di qualcosa e ciò che essi rappresentano è il loro significato. È proprio il gioco degli scacchi a mostrare che tale alternativa non è corretta:
200
WITTGENSTEIN L., Libro blu e Libro Marrone, op. cit., p. 37. Cfr. RF, § 71, p.49. 202 Cfr. WITTGENSTEIN L., Libro blu e Libro Marrone, op. cit., p. 10. 201
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in esso non ci occupiamo delle figure di legno, eppure le pedine non rappresentano nulla, non hanno – in senso freghiano – nessun significato. Il fatto è che esiste un terzo: si possono usare i segni come nel gioco.203
Partendo dalla sua critica al formalismo, ovvero dalla considerazione che i segni matematici non sono grafemi morti ma simboli di qualcosa, Frege aveva concluso che il significato di questi simboli doveva essere qualcosa di intersoggettivamente comunicabile. Andando in questa direzione non aveva tuttavia preso in considerazione che il significato dei segni matematici potesse essere una condizione della possibilità delle operazioni, dei giochi che possono essere giocati con essi. I segni possono essere usati così come si usano i pezzi degli scacchi quando disponendoli sulla scacchiera se ne riconosce il ruolo, come mosse preliminari, come regole in conformità alle quali si gioca la partita. Ora, la possibilità di identificare e formulare una regola come fosse una “mossa” di un gioco linguistico è secondo Wittgenstein un’illusione tipica della tradizione filosofica; le proposizioni della metafisica sono nonsensi determinati da questa confusione inconsapevole: «Ricerche filosofiche: ricerche concettuali. L’essenziale della metafisica: cancella la distinzione tra ricerche fattuali e ricerche concettuali»204. Il metodo di Wittgenstein consiste invece nel riaffermare questa distinzione, facendo emergere dai problemi della metafisica l’insensatezza determinata dalla confusione tra questioni fattuali e questioni concettuali: «Ciò che mio propongo di insegnare è: passare da un non-senso occulto a un non-senso palese»205. La terza tipologia di nonsenso che Wittgenstein analizza nella sua “seconda fase” è quella determinata dalla violazione da parte dell’espressione linguistica insensata delle regole costitutive del gioco linguistico in cui essa compare. Il caso della violazione delle regole grammaticali chiarisce l’immagine wittgensteiniana delle espressioni insensate come “mosse” illegittime all’interno di un gioco. Soprattutto esso ci permette di individuare, proprio a partire dal tema del nonsenso, un punto di continuità forte con Frege. Prima facie, quello che traspare da questi tre modi di presentare l’estraneità di un’espressione linguistica insensata ad un qualsiasi gioco linguistico è l’intenzione di Wittgenstein di seguire una strategia differente rispetto al Tractatus. La diversità delle situazioni in cui un’espressione insensata di questo tipo può essere un nonsenso nei tre
203
Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, op. cit., p. 94. WITTGENSTEIN L., Zettel, op. cit., § 458, p. 99. 205 RF, § 464, p. 176. 204
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modi appena specificati, segnala una svolta “deflazionista” anche per quanto riguarda il tema del nonsenso. Da questo punto di vista egli abbandona completamente la prospettiva fregeana sul nonsenso individuata nell’assenza di nesso semantico tra nome e cosa, riconducendola all’obiettivo polemico delle Ricerche: il platonismo linguistico. Tuttavia il metodo della “seconda fase”, l’attenzione alla possibilità di individuare il significato di un’espressione solo all’interno della pratica linguistica, solo negli intrecci tra giochi linguistici, convoglia uno dei capisaldi della semantica di Frege, il cosiddetto “principio del contesto”206. Nell’introduzione a I fondamenti dell’aritmetica Frege ritiene la ricerca dei significati delle parole «considerandole non isolatamente ma nei loro nessi reciprochi»207, uno dei tre canoni fondamentali della sua indagine, insieme alla separazione degli oggetti d’indagine di logica e psicologia, e alla distinzione tra concetto e oggetto. L’importanza del “principio del contesto” viene esposta al § 60 in relazione alla separazione radicale tra rappresentazioni mentali e pensieri, tra soggettivo (psicologia) e oggettivo (logica). Infatti, l’idea che il significato delle parole possa essere individuato considerando le parole in isolamento nasce dalla riduzione della nozione di significato a quella di rappresentazione soggettiva. La prospettiva psicologista
vuole che il significato di una parola sia identificato con la
rappresentazione soggettiva che il parlante ha in mente quando la pensa o la pronuncia. Per inficiare questa tesi è tuttavia sufficiente pensare al contro esempio di tutti gli oggetti concreti che non sono rappresentabili in senso soggettivo ma dei quali siamo in gradi di parlare sensatamente: «Anche per un oggetto concreto come la Terra, non ci riesce di rappresentarcelo come abbiamo appreso che essa effettivamente è; ci accontentiamo infatti di prendere come sua immagine una sfera di modesta grandezza, sapendo però che la Terra è ben diversa da essa. Né questa diversità ci è di ostacolo nei nostri giudizi; tutt’al contrario, noi siamo in grado di giudicare con notevole sicurezza intorno a oggetti come la Terra, persino per quel che riguarda le loro stesse dimensioni»208. Al contrario Frege sostiene che le parole possono assumere un significato rigoroso, scientificamente controllabile, solo se inserite in certi nessi ben 206
Cfr. RECK E., Frege’s influence on Wittgenstein: reversing metaphysics via the context principle, in Early analytic philosophy. Frege, Russell, Wittgenstein ed. by TAIT W. W., Open court, Chicago 1997, pp. 123-185. Reck individua nell’attacco di Wittgenstein alla concezione “agostiniana” del linguaggio una radicalizzazione dell’attacco di Frege allo psicologismo matematico. In entrambi i casi il risultato sarebbe il rovesciamento dell’ordine nella spiegazione metafisica tradizionale dell’esistenza di una classe di oggetti , come gli oggetti matematici. Il principio del contesto permetterebbe tanto a Frege quanto a Wittgenstein di estromettere da quella spiegazione l’esistenza di un regno di oggetti astratti come gli enti matematici. 207 FREGE G., I fondamenti dell’aritmetica, in op. cit., p.219. 208 Ibid., pp. 296-297.
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determinati: «In realtà noi dobbiamo, invece, prendere in esame le proposizioni complete. Soltanto in esse, a rigore, le parole hanno un significato. Le immagini interne, che balenano innanzi a noi allorché pensiamo a quelle proposizioni, non hanno bisogno di corrispondere alle componenti logiche del giudizio. È sufficiente che la proposizione, nella sua totalità, abbia un senso; da esso si ricava poi il contenuto delle singole parti»209. In sintesi, Frege utilizza il “principio del contesto” per spiegare il significato delle parole e il loro contributo al senso della proposizione, in chiave antipsicologista. Il suo obiettivo polemico è la riduzione del significato delle parole a rappresentazioni soggettive, causata a suo parere dall’idea che la ricerca dei significati vada compiuta considerando le parole in isolamento. L’oggettività del pensiero e la comunicabilità del giudizio, e più in generale la sensatezza del discorso scientifico, richiedono che la ricerca del significato delle parola non sia una questione esclusivamente psicologica ma eminentemente logica210. Anche Wittgenstein è impegnato, a partire dalla metà degli anni Trenta, nella lotta con una certa rappresentazione del significato delle parole. Tale bersaglio polemico viene infine sintetizzato nella spiegazione “agostiniana” dell’apprendimento del linguaggio esposta nei primi paragrafi delle Ricerche. Affrontando ciò che distingue una parola da una proposizione e quindi il denominare dal descrivere, Wittgenstein chiama a sostegno della possibilità di individuare questa distinzione, senza dover assumere la posizione “agostiniana”, proprio il principio fregeano:
Denominare e descrivere non stanno certo su uno stesso piano; Il denominare è una preparazione al descrivere. Il denominare non è ancora una mossa nel giuoco linguistico, - così come il mettere un pezzo sulla scacchiera non è ancora una mossa nel giuoco degli scacchi. Si può dire: Col denominare una cosa non si è ancora fatto nulla. Essa non ha nemmeno un nome, tranne che nel giuoco. Questo, tra l’altro, Frege intendeva dicendo: soltanto nel contesto della proposizione una parola ha significato.211
Un nome non è tale, una denominazione non ottiene il suo scopo, se non all’interno di un gioco in cui il nome e la denominazione abbiano un senso. Per questo le
209
Ivi. Cfr. RECK E., Frege’s influence on Wittgenstein: reversing metaphysics via the context principle, in op. cit., p. 143: « What is really problematic, according to Frege, is the general approach exemplified by this kind of psychologism: to look at single, individual words; to come up with some entities, conceived in themselves; and to connect the two directly. And the context principle is invoked to guide us away from this general approach, not just from its psychologistic application». 211 RF, § 49, p.37.
210
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denominazioni e le descrizioni non si trovano sullo stesso piano: pace Russell, i nomi non sono riducibili a descrizioni definite. Altrimenti si incapperebbe nella strategia “agostiniana” di considerare il significato di una parola in isolamento, strategia della quale Frege aveva già considerato i limiti in relazione alla solidità dei fondamenti dell’aritmetica. Ma Wittgenstein va più in là di Frege perché assume in maniera più radicale tutte le conseguenze che il “principio del contesto” impone alla nozione di significato. Se il denominare una cosa è solo una “mossa” preliminare all’interno di un gioco più ampio, con “mosse” più complesse come la descrizione, allora il significato di un nome potrà esser mostrato esclusivamente dalla sua applicazione all’interno del gioco212. Prescindere dal “principio del contesto” nella determinazione del significato di un nome vuol dire rinunciare alla possibilità di una spiegazione della regolarità nell’uso delle parole, e non vedere allo stesso tempo che l’uso di nome assume un significato solo nel contesto più ampio di un gioco e di una forma di vita. L’impossibilità per il platonismo semantico di spiegare la regolarità nei significati delle parole è ampiamente discussa nelle Ricerche e viene spesso associata a quella che ho chiamato la metafora della macchina (RF §§ 193-194, 271, 414). La declinazione del “principio del contesto” nei termini delle nozioni di “gioco linguistico” e “forma di vita” è invece un aspetto dell’influenza di Frege su Wittgenstein che va al di là delle Ricerche e coinvolge tutta la sua “seconda fase”213. Relativamente al terzo tipo di nonsenso, quello legato alla violazione delle regole costitutive del gioco linguistico in cui appare l’espressione insensata , si può concludere che la riproposizione del “principio del contesto” abbia un ruolo fondamentale. L’insensatezza di un’espressione linguistica, per il “secondo” Wittgenstein, è sempre determinata in qualche misura dall’estraneità dell’espressione al contesto in cui compare. In conclusione, penso di aver messo in luce l’importanza che lo stile filosofico di Frege ha avuto per lo sviluppo del tema del nonsenso anche nel “secondo” Wittgenstein. La concezione antipsicologista del pensiero, la nozione di senso di un enunciato e infine l’importanza del “principio del contesto”, sono tutti aspetti secondari 212
Nel suo commento al § 201 delle RF, in cui Wittgenstein produce un argomento contro l’incapacità del platonismo semantico di spiegare l’uso regolare delle parole, Pears ha sostenuto che questa strategia wittgensteiniana sia una riproposizione del tema del mostrare; cfr. PEARS D., Un confronto tra due argomenti, in op. cit., p. 79: « […] se qualcuno vuole conoscere l’applicazione di una parola, non si può soddisfare completamente la sua curiosità dicendogli che cosa essa sia, e così si deve effettivamente mostrare l’applicazione o della parola stessa o delle parole nelle quali è stata analizzata». 213 Reck individua la permanenza di questo tema del “secondo” Wittgenstein nelle variazioni lessicali sulla parola “contesto” che culminano nell’utilizzo in Della Certezza della nozione di “forma di vita”; cfr. RECK E., Wittgenstein’s “great debt” to Frege. Biographical Traces and Philosophical Themes, in op. cit., p. 25.
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di un modo di guardare al rapporto tra linguaggio e realtà libero da pregiudizi metafisici: «Esiste un modo di trattare le macchine e gli apparecchi elettrici (dinamo, stazioni radio, ecc.) che considera, per così dire senza averli preliminarmente compresi, questi oggetti come una distribuzione nello spazio di rame, ferro, gomma, ecc. e questo modo di considerare le cose potrebbe condurre a qualche risultato interessante. […] Naturalmente, si tratta di una concezione assolutamente rigorosa e corretta; e la caratteristica e la difficoltà di questa concezione consiste in questo: che considera l’oggetto senza nessuna idea preconcetta (per così dire, dal punto di vista di un marziano) o forse, per meglio dire distrugge (cancella) l’idea preconcetta normale»214. Un punto di vista marziano, è questo il portato più rilevante dell’influenza di Frege sullo stile filosofico di Wittgenstein: «Lo stile delle mie proposizioni è stato fortissimamente influenzato da Frege. E se volessi, potrei ben stabilire quest’influenza, là dove, a prima vista, nessuno riuscirebbe a vederla»215.
214 215
WITTGENSTEIN L., Zettel, op. cit., § 711, p. 147. Ibid., § 712, p. 148.
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Capitolo 2
LE «RUOTE CHE GIRANO A VUOTO» E LA CULTURA AUSTRIACA
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2.1 Nonsenso ed esilio
Voi grandi città su pietra innalzate nella pianura! così senza parole segue il senza patria dalla scura fronte il vento, gli alberi nudi sulla collina. Voi, dalla luce incerta all’orizzonte, fiumi! Poderoso soverchia Tetro, vesperale rosso nelle nubi di tempesta. Voi moribonde nazioni! Pallida onda che s’infrange sulla riva della notte, cadenti stelle. (TRAKL G., Occidente, in Liriche scelte, Salerno editrice, Roma 1991, pp. 73-75).
Negli ultimi versi di Abendland, Trakl rappresenta il vagare silenzioso dell’uomo straniero in ogni nazione in uno scenario catastrofico, tra rovine di «grandi città su pietra innalzate». Heidegger vede nel compimento della peregrinazione del «senza patria» (Heimatlose) non tanto la catastrofe delle città in rovina e delle «moribonde nazioni»,
quanto
il
superamento
definitivo
della
prigionia
rappresentata
dall’immediatezza e dall’attualità del «mondo tecnico-economico»216. A testimoniare che l’allegoria del «senza patria» silenzioso sia l’annuncio della ricerca di uno spazio verticale rispetto al corso orizzontale della storia, del progresso tecnico-industriale, Heidegger chiama in causa il senso complessivo della poesia in Trakl: «La sua poesia canta il destino destinante (Geschick) del segno che segnando di sé la stirpe umana, la porta alla verità, sempre ancora in serbo, del suo essere, e così la salva. La poesia di Trakl canta il canto dell’anima che “straniera sulla terra”, peregrinando, conquista la
216
Cfr. HEIDEGGER M., Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, in In cammino verso il linguaggio, ed. it. a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1990, pp. 45-81.
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terra come patria più quieta della stirpe che ad essa fa ritorno»217. In questi versi è possibile isolare due temi importanti per il proseguimento della trattazione: da un lato lo scenario apocalittico delle grandi città rappresenta il destino della civiltà dell’accumulo e del consumo, dall’altro la peregrinazione dell’uomo silenzioso senza patria esprime la possibilità di un superamento di quello scenario, attraverso un ritorno alla terra che è innanzitutto riconciliazione con il linguaggio. La grande poesia di Trakl rappresenta in forma allegorica due temi presenti anche nella riflessione filosofica del Wittgenstein maturo. Il primo emerge dalla distinzione tra lo sfondo della propria ricerca filosofica e lo spirito «della grande corrente della cultura [Zivilisation] europea e americana». Nell’abbozzo di prefazione alle Osservazioni filosofiche del 1930 Wittgenstein individua nella tensione verso la complessità la natura del progresso tecnico-industriale e ad essa contrappone il proprio metodo, fondato sul perseguimento della chiarezza non come mezzo per un fine più complesso, ma come fine in sé:
La nostra cultura è caratterizzata dalla parola «progresso». Il progresso è la sua forma, non una delle sue proprietà, quella di progredire. Essa è tipicamente costruttiva. La sua attività consiste nell’erigere qualcosa di sempre più complesso. E anche la chiarezza serve a sua volta solo a questo scopo, non è fine a se stessa. Per me, al contrario, la chiarezza, la trasparenza sono fine a se stesse. A me non interessa innalzare un edificio, ma piuttosto vedere in trasparenza dinanzi a me le fondamenta degli edifici possibili.218
L’uomo di scienza moderno, dice Wittgenstein, è interessato alla soluzione dei problemi e per questo persegue la chiarezza come uno strumento per avanzare nella direzione della complessità. Il risultato è in molti casi la riduzione della molteplicità di un fenomeno o di una serie di relazioni tra fenomeni all’unità artefatta della spiegazione teorica, della Erklärung. Si tratta di un metodo che muove dalla varietà e molteplicità dei fenomeni per il fine determinato della spiegazione, in vista di un ulteriore 217
Ibid., pp. 78-79. Per l’importanza dell’Erörterung heideggeriana, soprattutto nell’aver liberato la poesia di Trakl dall’alone romantico-pessimistico delle interpretazioni tradizionali, cfr. CACCIARI M., La Vienna di Wittgenstein, «Nuova Corrente», 72-73 (1977), pp. 93-95. 218 WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., pp. 27-28. L’opposizione di Wittgenstein a questo modo di vedere la modernità non è ipso facto espressione di una visione del mondo conservatrice in senso utopisticamente regressivo, si tratta piuttosto di una critica del Moderno inteso come chiusura delle possibilità espressive, come impoverimento del linguaggio, cfr. DONATELLI P., Wittgenstein. La filosofia come critica, in Rileggere Wittgenstein, op. cit., p. 37: «Il suo apparente conservatorismo esprime la reazione verso ciò che gli appare come un falso spirito di progresso, che egli vede come un impoverimento delle possibilità di movimento […]. Contro quella che gli appare come una chiusura delle possibilità di movimento, egli si propone di restituire la dimensione linguistica come uno spazio che ci appartiene e come uno spazio inventivo.»; su questo cfr. anche CACCIARI M., Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Adelphi, Milano 1980, pp. 48-56.
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avanzamento nella conoscenza. Ma si tratta anche di un metodo che porta a sublimare, a idealizzare, nell’unità della teoria, aspetti e problemi che non hanno alcun radicamento nell’uso comune del linguaggio. È nella tensione verso l’accumulo delle conoscenze, e nell’uso strumentale della chiarezza, che Wittgenstein individua la causa principale del nonsenso filosofico. Abbagliati dalla pulsione a spiegare, a dominare la molteplicità linguistica, i filosofi hanno interpretato come enunciati di portata ontologica ed esistenziale quelle che sono procedure dell’uso del linguaggio:
Immagina che gli uomini fossero soliti indicare sempre oggetti in questo modo: descrivendo per aria, col dito, qualcosa che sembra un cerchio intorno all’oggetto. Allora si potrebbe immaginare un filosofo che dicesse: « Tutte le cose sono rotonde; infatti il tavolo ha quest’aspetto, la stufa quest’altro, la lampada quest’altro», ecc., e che, così dicendo, tracciasse ogni volta un cerchio intorno alla cosa.219
Secondo Wittgenstein, la tensione verso la soluzione di un problema ha portato la tradizione filosofica occidentale e con essa l’uomo di scienza moderno, all’applicazione di concetti dell’uso quotidiano oltre i limiti appropriati. Dal fatto che gli uomini dell’esempio indicano gli oggetti tracciando dei circoli intorno alla loro figura, i filosofi hanno prodotto la spiegazione per cui la circolarità degli oggetti è causa di questo modo di indicare. Ma nel farlo non si sono resi conto di aver esteso il concetto di circolarità oltre la sua applicazione ordinaria: quella dell’attività, radicata in una forma di vita, di indicare gli oggetti con un circolo. Infine, la spiegazione filosofica tradizionale ignora di non aver minimamente sfiorato la questione della natura degli oggetti, della loro essenza. Staccandosi dal radicamento nella forma di vita le asserzioni di carattere ontologico o esistenziale dei filosofi sono «ruote che girano a vuoto», prive di attrito con gli usi e le pratiche da cui hanno origine: « Le confusioni di cui ci occupiamo sorgono, per così dire, quando il linguaggio gira a vuoto, non quando è all’opera»220. Ad ogni modo si noti che il tema dei due Geister contrapposti, quello della cultura contemporanea e quello che fa da sfondo alla filosofia wittgensteiniana, si estrinseca nella contrapposizione tra un metodo di ricerca che utilizza la molteplicità dei fenomeni analizzati per costruire strutture complesse e un metodo che al contrario cerca di cogliere il mondo nel suo centro, nella sua essenza221. Nella differenza radicale che caratterizza l’approccio wittgensteiniano alle questioni filosofiche rispetto all’approccio 219
WITTGENSTEIN L., Zettel, op. cit., § 443, p.96. RF § 132, p.71. 221 WITTGENSTEIN L., Osservazioni filosofiche, op. cit., p. LXXVII. 220
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dell’uomo di scienza moderno riecheggia il secondo tema della poesia di Trakl, quello del «senza patria». La ricerca di un centro da cui guardare all’essenza degli usi linguistici non è intesa da Wittgenstein come la possibilità di penetrare nella realtà non concettualizzata. È piuttosto la tensione verso la chiarezza dei nostri giochi linguistici attraverso l’acquisizione di uno sguardo complessivo (Überblick) volto a raccogliere tutte le manifestazioni disperse e frammentarie di un uso linguistico in una rappresentazione perspicua (übersichtliche Darstellung). La nozione di gioco linguistico al centro della riflessione del “secondo” Wittgenstein enfatizza un aspetto della concezione della filosofia del Tractatus sintetizzato nel ruolo attribuito alle “chiarificazioni” (Erläuterungen): quello della filosofia come attività, in quanto a sua volta critica di quell’insieme di pratiche e consuetudini che è linguaggio. Infatti, parlare del linguaggio come di un insieme eterogeneo di giochi linguistici significa sottolinearne il carattere prassiologico, individuarne la realtà effettiva nell’uso che ne viene fatto in contesti di attività e contenuti che poggiano su uno sfondo eminentemente sociale222. L’uso del linguaggio, almeno nelle Ricerche filosofiche e in Della Certezza, è determinato eminentemente da questi contesti di attività in due sensi. Nel senso che i giochi linguistici sono innanzitutto articolazioni di reazioni prelinguistiche223, di aspetti della nostra forma di vita che in quanto tali ci sono o non ci sono, devono essere accettati oppure non esistono affatto. La nozione di gioco linguistico permette in questo modo di individuare il passo falso verso il nonsenso commesso dalla spiegazione filosofica tradizionale: quello della ricerca di una risposta alla domanda esplicativa attraverso ipotesi e teorie, laddove invece va preso atto dell’esistenza di una pratica, di un gioco, che funge da “fenomeno originario” (Urphänomene)224. Da questo punto di 222
Cfr. RF § 23, pp. 21-22. Questo punto emerge chiaramente nelle Ricerche dalla trattazione dei giochi linguistici legati all’espressione del dolore o delle intenzioni del parlante; cfr. RF § 244, pp. 118-119 per l’espressione linguistica del dolore quale articolazione del grido e il § 647, p. 217 per l’intenzione come articolazione di una «espressione naturale». 224 Cfr. RF §§ 654-655, p.219. La nozione di “fenomeno originario” è al centro della Farbenlehre di Goethe e designa quei modelli intuitivi (regole e leggi superiori) ricavati dall’esperienza e tuttavia irriducibili al singolo caso empirico, al singolo fenomeno cromatico; cfr. GOETHE J. W., La teoria dei colori, ed. it. a cura di R.Troncon, il Saggiatore, Milano, 1999, § 175, p. 61: «I casi che si trovano nell’esperienza sono soltanto casi che, con una certa attenzione, possono per lo più essere disposti nell’ambito di rubriche empiriche generali. Queste, a loro volta, si subordinano a rubriche scientifiche che rinviano a dei punti nei quali certi presupposti essenziali di ciò che si manifesta possono venir individuati con maggior esattezza. Da qui in poi tutto mano a mano si inserisce in regole e leggi più complesse, che tuttavia si rivelano sia all’intelletto attraverso parole e ipotesi, sia all’intuire attraverso fenomeni. Designiamo questi ultimi come fenomeni originari, perché nella manifestazione non vi è nulla che li oltrepassi e permettono anzi, dopo essere saliti sino a essi, di scendere fino al caso più comune dell’esperienza quotidiana». Nel caso della riflessione goethiana sulla natura delle piante, la nozione di “fenomeno originario” viene declinata in quella di Urpflanze, di pianta originaria archetipica. In sintesi essa è espressione di una teoria della conoscenza per la quale all’interno dell’idea stessa di immagine di 223
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vista la nozione di gioco linguistico apre uno squarcio sul carattere infondato, se non addirittura irragionevole delle pratiche linguistiche all’interno di una forma di vita: «Non devi dimenticare che il gioco linguistico è, per così dire, qualcosa di imprevedibile. Voglio dire: non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì – come la nostra vita»225. In secondo luogo, ed è questo il secondo senso per cui il linguaggio è eminentemente determinato dai contesti di attività e di contenuto dei suoi usi, dal momento che il modo in cui i giochi linguistici funzionano è quello di essere configurazioni di simboli soggetti a regole, essi dipenderanno dall’attività che di volta in volta fissa l’applicazione di queste regole. Si noti che i due sensi secondo i quali la nozione di gioco linguistico esprime l’enfasi wittgensteiniana sulla natura prassiologica del linguaggio sono reciprocamente connessi. Se le reazioni prelinguistiche di cui i giochi sono articolazioni più complesse mutassero226 allora cambierebbe anche l’intero sistema di regole che permette l’applicazione di quei giochi linguistici; la grammatica non sarebbe più la stessa perché a mutare sarebbe stata la forma di vita227. Lo scopo che Wittgenstein assegna alla filosofia nelle Ricerche sarà allora quello di far emergere dal livello superficiale della grammatica l’aspetto prassiologico e quello simbolico del
un fenomeno (l’Urphänomene è un’immagine, una Darstellung) sono riconoscibili la rappresentazione della struttura oggettuale e la sua progressiva metamorfosi. Da questo punto di vista l’epistemologia goethiana presenta una critica forte all’approccio teoretico della scienza naturale della sua epoca, fondato sulla spiegazione tramite ipotesi, cfr. GRIECO A., L’apparire del bello e il manifestarsi del vero. Considerazioni scettiche, in Goethe scienziato, a cura di G. Giorello e A. Grieco, Einaudi, Torino 1998, p. 150: «All’origine della contrapposizione tra il piano dell’idea e quello dell’esperienza, tra il piano della speculazione e quello della creazione artistica, si trova infatti quella che in termini generali potremmo chiamare la critica goethiana allo sguardo teoretico- e al linguaggio che ad esso corrispondevisto come un sostanziale impoverimento delle possibilità conoscitive e creative e come una forma di conoscenza che può facilmente trasformarsi in dogmatismo». Quello morfologico è per Goethe uno sguardo creativo sui fenomeni naturali che può esser praticato solo dal genio poetico, da colui che nell’osservazione diventa parte del divenire del fenomeno. L’idea che la comprensione del funzionamento del linguaggio possa essere mediata da una presentazione chiara e perspicua dei fatti relativi all’suo del linguaggio, che faccia emergere gli anelli di connessione tra usi linguistici e giochi differenti, è un’idea che Wittgenstein sviluppò probabilmente dalla lettura delle opere scientifiche di Goethe; cfr. WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., p. 34: « “È difficile sapere ciò che sa l’uomo di genio”. Il disprezzo di Goethe per l’esperimento condotto in laboratorio e la sua esortazione a imparare dal vivo della natura hanno a che fare con l’idea che l’ipotesi (erroneamente concepita) sia già una falsificazione della verità? E con l’inizio che io ora vado pensando per il mio libro, inizio che potrebbe consistere in una descrizione della natura?». In tal senso Wittgenstein vedeva nella riflessione di Goethe un’anticipazione del suo rifiuto della spiegazione (Erklärung) a favore della rappresentazione perspicua (Übersichtliche Darstellung); per una rassegna delle analogie che caratterizzano il metodo morfologico in Wittgenstein rispetto a Goethe cfr. SCHULTE J., Coro e legge. Il «metodo morfologico» in Goethe e Wittgenstein, «Intersezioni», n.1, (1982), pp. 99-124. 225 WITTGENSTEIN L., Della Certezza, op. cit., § 559, p.91. 226 Quella della metamorfosi delle condizioni che fanno da sfondo alle proposizioni grammaticali, e dunque della reciprocità forte tra regole grammaticali e forma di vita, è una possibilità che Wittgenstein prende in considerazione in Della Certezza; cfr. Ibid., §§ 95-97, p.19. 227 Sui due sensi secondo i quali la nozione di gioco linguistico delle Ricerche esprime l’idea che parlare un linguaggio faccia parte di un quadro di attività più ampio cfr. VOLTOLINI A., Guida alla lettura delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein, op. cit., pp. 38-44.
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linguaggio attraverso la descrizione della specificità, delle differenze particolari, nell’uso dei termini. È questo, dunque, il modo in cui funziona la nozione di rappresentazione perspicua: un’immagine delle nostre pratiche attraverso cui guardare chiaramente la rete di affinità, similarità e differenze esistente tra le regole d’uso dei termini, tra i loro significati228. Per ottenere questo scopo è tuttavia necessario individuare la rete di relazioni e di somiglianze di famiglia dei nostri giochi linguistici con l’abilità di un pittore che traccia schizzi paesaggistici229, o rappresentazioni dello stesso soggetto secondo condizioni diverse di luce e tempo. Una visione chiara delle affinità e differenze grammaticali tra i giochi linguistici richiede il reperimento, se non addirittura la costruzione metodologica, di «membri intermedi» (Zwischenglieder), di giochi linguistici che facciano risaltare questa rete di affinità e differenze230. Al posto della spiegazione deve subentrare la semplice descrizione, lo sguardo complessivo deve lasciare tutto com’è senza sovrapporre all’esistente la maglia rigida dell’intenzionalità teorica231. In questo modo la filosofia diventa una sorta di attività di composizione di pratiche e usi, un’attività simile alla poesia232. Il luogo della rappresentazione perspicua non sarà dunque un centro statico, un punto di ancoraggio ad un’essenza reale non ancora concettualizzata, sarà piuttosto il tentativo di guadagnare una posizione nella forma di vita che ci permetta di guardare ai significati come usi, di restituire il simbolismo alle regole della grammatica senza cadere nella tentazione di individuare contesti di giustificazione assoluti. La rappresentazione perspicua è qualcosa di radicalmente diverso da una teoria che si limita a rispecchiare fedelmente il mondo, senza distorcerlo nella riflessione. Nel contesto più ampio dell’idea di linguaggio come insieme eterogeneo di pratiche e usi, e 228
Cfr. RF §122, p. 69. È Wittgenstein stesso a definire la natura delle Ricerche «una raccolta di schizzi paesistici», cfr. RF, Prefazione dell’autore, p. 3. Nella metafora degli schizzi paesistici è possibile individuare un’importante elemento di continuità con lo spirito della metafora della scala (TLP 6.54), nella rinuncia implicita ad entrambe a fondare ipotesi, teorie o spiegazioni della natura del linguaggio ex novo; cfr. VARNIER G., «Esilio» fondazionalistico e nomadismo da Wittgenstein e Neurath a Quine, in La memoria del male. Percorsi tra gli stermini del Novecento e il loro ricordo, a cura di P.Bernardini, D. Lucci, G. Luzzatto Voghera, Cleup, Padova 2006, p. 97 230 Cfr. WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 417: « La rappresentazione perspicua rende possibile il capire/ la comprensione/, che consiste appunto nel fatto che “vediamo connessioni”. Donde l’importanza dei membri intermedi./del trovare membri intermedi». 231 Cfr. RF §§ 124, 126 e 128, pp. 69-70. 232 Cfr. WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., p. 56: «Credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come una composizione poetica. Da questo, mi sembra, dovrebbe risultare in quale misura il mio pensiero appartenga al presente, al passato o al futuro. Infatti, con questo, io ho anche confessato di essere uno che non riesce interamente a fare ciò che vorrebbe». 229
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della filosofia come attività di critica della veste superficiale di questo insieme, la nozione di rappresentazione perspicua esprime piuttosto la coscienza da parte di Wittgenstein dell’esistenza di modi differenti di vedere le cose e le loro relazioni. Non esiste una rappresentazione corretta del mondo, ciò che l’attività del filosofo deve far emergere è la possibilità logica di modi differenti attraverso i quali guardare al mondo: «Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un significato fondamentale. Designa la nostra forma di rappresentazione, il modo in cui vediamo le cose. (Una sorta di “visione del mondo” che a quanto pare è tipica del nostro tempo. (Spengler)»233. La ricerca filosofica di Wittgenstein è la peregrinazione solitaria del «senza patria» di Trakl, è l’esilio dall’illusione grammaticale dell’esistenza di contesti di giustificazione assoluti per il significato delle parole234. Il centro da cui Wittgenstein vuole guardare al mondo è la tensione etica e l’intenzionalità filosofica verso la chiarezza e la perspicuità di giochi linguistici radicati all’interno di forme di vita immanenti. Non esiste un gioco linguistico di tutti i giochi linguistici, nessuna teoria che ricomprenda tutte le teorie, perché non esiste alcuna “autentica” e originaria visione del mondo.
233
WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 416. Se Goethe e il suo metodo morfologico nello studio dei fenomeni influenzò la nozione wittgensteiniana di rappresentazione perspicua, non bisogna sottovalutare neanche l’importanza che Wittgenstein attribuiva al metodo di analisi del divenire storico proposto da Spengler, che in parte ricalcava il metodo morfologico goethiano; cfr. SCHULTE J., op. cit., p. 117: «L’interpretazione spengleriana di Goethe sarebbe forse nel complesso di importanza secondaria per la filosofia di Wittgenstein, se non fosse per un tratto caratteristico del pensiero di Spengler risalente alle concezioni goethiane, che ha operato anche su Wittgenstein, e cioè l’idea che le varie rappresentazioni dello stesso fenomeno (almeno di quello che appare come lo stesso fenomeno) possono essere così radicalmente diverse fra loro che perfino i concetti fondamentali dell’una non svolgono alcun ruolo nell’altra». Nel passo citato Wittgenstein pare richiamare proprio il concetto di “forma”, di “visione del mondo” di Spengler come, letteralmente, il modo in cui una civiltà (Kultur) vede le cose, distinguendosi sotto questo aspetto da un «semplice sapere e conoscenza»; cfr. SPENGLER O., Il tramonto dell’Occidente, ed. it. a cura di R. Calabrese Conte, M. Cottone, F. Jesi, Longanesi, Milano 2008, cap. 1, § 1, p.93 e § 6, p.118. Spengler riteneva inoltre che «la profondità e la sottigliezza delle teorie matematiche e fisiche» fosse costitutiva della visione del mondo del nostro tempo, cfr. Ibid., Introduzione, § 15, p.77. Al di là di questi brevi riferimenti, Wittgenstein riscontra un limite profondo nel modo in cui Spengler declina la teoria della conoscenza di Goethe, ritenendolo colpevole di aver scambiato il metodo d’indagine (quello morfologico che utilizza il paradigma delle forme di vita per guardare al divenire storico) per il suo oggetto. Le forme di vita perdono in tal senso il loro carattere di “principi formali” della riflessione sul divenire storico; cfr. WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., p. 39: « Spengler si potrebbe capire meglio se dicesse: io stabilisco un confronto fra diverse epoche della civiltà e la vita di gruppi familiari; all’interno di una famiglia c’è un’aria di famiglia, ma anche tra membri di famiglie diverse c’è una somiglianza; l’aria di famiglia si distingue dall’altro tipo di somiglianza in questo e quest’altro, ecc. Intendo dire che il termine di paragone, l’esempio da cui si è tratto questo procedimento di indagine dev’esserci indicato esplicitamente perché nella discussione non si infiltrino di continuo elementi indebiti. Altrimenti, ecco che tutto ciò che vale per il modello assunto nell’indagine lo si afferma nolens volens anche riguardo all’oggetto indagato; con asserzioni del tipo “vale sempre e necessariamente che…”». 234 Sulla possibilità di leggere la posizione di Wittgenstein rispetto al tema della crisi dei fondamenti, tanto nel Tractatus quanto nelle Ricerche, come un tipo di relativismo anti-fondazionalistico vicino alla tradizione scettica e più in generale sulla portata epistemologica della metafora dell’esilio nella filosofia analitica del XX secolo, cfr. VARNIER G., op. cit., pp. 39-122.
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Una posizione di “esilio” rispetto alla patria del fondazionalismo, rispetto alla certezza di un fondamento filosofico per il linguaggio e per le sue relazioni con il mondo, è presente a dispetto delle apparenze anche nel Tractatus. Il modo di praticare la filosofia presente nell’opera si esprime nella necessità di auto-comprendersi, di esporre una visione del linguaggio e del mondo attraverso il suo superamento. Il Tractatus nutre un’ambizione metafisica profonda: è un tentativo sistematico di mostrare le condizioni di rispecchiamento del mondo da parte del linguaggio (è questa la natura “speciale” delle proposizioni della logica, che sono sinnlos e non unsinnig), di definire perché la scienza (il discorso sensato) non dica nulla dell’etica e dell’estetica235. Tuttavia il Tractatus non cede alla possibilità di asserire in una teoria del linguaggio e del mondo queste condizioni, si limita a mostrare il loro essere nonsensi: «Che sia asseribile che certe cose sono impossibili (parlare dell’etica, andare oltre la scienza), che sia vero e non un processo, è, in un certo senso, l’ultima tentazione, l’ultimo nonsenso»236. Nella nozione di nonsenso, nell’enfasi posta sulla prassi della chiarificazione (Erläuterung) incarnata dalle stesse proposizioni del Tractatus, è allora possibile individuare il legame saldo con le Ricerche filosofiche, con la nozione di “sguardo complessivo” (Überblick), con l’enfasi posta sulla filosofia come attività. Questa concezione della filosofia nel “secondo” Wittgenstein si esprime ancora una volta nella dichiarata insensatezza delle interpretazioni logicizzanti e metafisiche del linguaggio mediante un esercizio di immaginazione consistente nel mostrare le possibilità alternative aperte dai differenti usi dei termini in diversi giochi linguistici. La stessa individuazione o costituzione di nessi intermedi per far risaltare le somiglianze di famiglia, e con esse la rete di analogie e differenze tra giochi linguistici, circoscrive la pratica filosofica (nella concezione di “filosofia” di Wittgenstein) di questo esercizio dell’immaginazione237. Wittgenstein non riserva alla propria filosofia il compito di determinare nuovi schemi concettuali allo scopo di descrivere il mondo 235
Questo per Wittgenstein non implica che il discorso etico o religioso sia essenzialmente una confusione concettuale o una collezione di confusioni. Le confusioni sorgono laddove il discorso etico e quello religioso cercano di costruire una teoria anziché un modo di vivere; per questo tratto tipicamente ebraico della concezione wittgensteiniana della religione cfr. PUTNAM H., Filosofia ebraica, una guida di vita. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein, tr. it. di M. Dell’Utri, Carocci, Roma 2011, pp. 19-44. 236 VARNIER G., op. cit., p. 108. 237 Cfr. GARGANI A.G., Il coraggio di essere. Saggio sulla cultura mitteleuropea, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 109: « Anziché nei termini di un’analisi sociologica propriamente detta degli abiti linguistici e cognitivi, sarebbe forse più appropriato assumere l’analisi di Wittgenstein come un’antropologia di tipo teoretico, che non descrive culture esistenti e comunque storicamente definite, bensì che traccia, per dir così, giuochi antropologici, ossia modi logicamente possibili e tra loro diversi, alternativi, secondo i quali potrebbero essere organizzate le forme della vita umana in cui, allora, variano gli usi del linguaggio, i criteri, le convenzioni su ciò che gli uomini assumono come vero e falso, su ciò che è matematica e su ciò che non lo è».
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perché pone la sua attenzione sulle possibilità alternative che si danno negli usi linguistici, sulla pura possibilità e pensabilità di determinati giochi linguistici dispiegata e limitata dalla matrice naturale dei nostri comportamenti238, delle nostre pratiche. Il nonsenso filosofico si rivela in tal modo essere una perversione di questo esercizio sulle possibilità dell’espressione linguistica perché si sgancia completamente dallo sfondo naturale e prassiologico del linguaggio per diventare autoreferenziale, oppure, per riprendere la pregnante metafora wittgensteiniana, per girare a vuoto. Di contro, la filosofia di Wittgenstein si pone il compito di coltivare questo senso della realtà possibile239, senza dimenticare il contatto con quell’intreccio di pratiche ritualizzate, di apparati categoriali e di concetti che costituisce una forma di vita. L’obiettivo di questo capitolo è quindi indagare come la rinuncia da parte di Wittgenstein al fascino del nonsenso filosofico, la rinuncia a teorie onnicomprensive degli usi linguistici, presenti delle analogie importanti con le riflessioni di due autori appartenuti alla stessa Stimmung socio-culturale: Hugo von Hofmannsthal e Fritz Mauthner. Per questi, infatti, l’esigenza etica della chiarezza e della perspicuità emerge dal tema della perdita del linguaggio nella comprensione del senso, nelle figure filosofiche e letterarie dell’inesprimibilità e dell’esilio. Come ha notato Aldo G. Gargani la risposta della cultura viennese a questa crisi del senso, riflessa nel tema più ampio della crisi dei fondamenti, è stata l’elaborazione di nuovi linguaggi, di nuove 238
Cfr. WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., p. 137: « Non dobbiamo dimenticare che anche i nostri dubbi più filosofici, più sottili, hanno un fondamento istintuale. Ad esempio, il “Non si può mai sapere…”. Il restare accessibili a ulteriori argomenti. Coloro cui non fosse possibile insegnare queste cose, ci sembrerebbero intellettualmente inferiori. Ancora incapaci di formulare un certo concetto». L’idea di una limitazione naturale alle nostre possibilità linguistiche è formulata da Wittgenstein chiaramente almeno a partire dalle osservazioni dei primi anni Trenta sul Ramo d’oro di Frazer; cfr. WITTGENSTEIN L., Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, ed. it. a cura di S. de Waal, Adelphi, Milano 1975, p. 25: «Che l’ombra dell’uomo, che ha l’aspetto di un uomo, o la sua immagine speculare, che la pioggia, il temporale, le fasi lunari, l’avvicendarsi delle stagioni, la somiglianza e la diversità degli animali fra loro e rispetto all’uomo, i fenomeni della morte, della nascita e della vita sessuale, in breve tutto ciò che l’uomo anno per anno osserva intorno a sé, intrecciato nei modi più diversi, svolga un ruolo nel suo pensiero (nella sua filosofia) e nelle sue usanze, è ovvio o, possiamo dire, è proprio ciò che sappiamo realmente e che è interessante». 239 Il tema del possibile, del puramente pensabile, è al centro de L’uomo senza qualità di Musil. Profondamente influenzato dalla teoria della conoscenza di Mach e dal prospettivismo nietzscheano, Musil rappresenta nel protagonista del romanzo Ulrich,una risposta alla crisi dei fondamenti attraverso un ironico atteggiamento di normalità. Ulrich, che non crede nell’unità sostanziale del proprio Io e nel potere semantico delle parole di designare le cose, vive coltivando il senso del possibile che orienta la riflessione del “secondo” Wittgenstein; cfr. MUSIL R., L’uomo senza qualità, ed. it. a cura di A. Frisé, Einaudi, Torino 1996, p. 13: «Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: bé, probabilmente potrebbe anche esser diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è».
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grammatiche filosofiche, scientifiche e artistiche in stretta connessione con l’approfondimento di istanze etiche240. Hofmannsthal e Mauthner hanno riflesso nella loro attività letteraria, filosofica e scientifica tanto la portata di questa crisi quanto il profilarsi di soluzioni nuove e radicali, nell’intuizione del tramonto della nozione tradizionale della soggettività umana in un io forte e coeso. È solo con Wittgenstein, tuttavia, che il profilarsi di queste soluzioni assume una dimensione filosofica consistente, che l’assenza di senso nel discorso scientifico-filosofico sui fondamenti non è più un limite ma un punto di partenza. Infatti la coscienza di questa crisi si esprime, soprattutto nelle Ricerche, nell’idea che l’unità di pensiero e azione, di conoscenza ed etica sia possibile sempre e solo relativamente ad un contesto, all’interno di un gioco linguistico radicato in una forma di vita: il ritorno dall’ “esilio” non è mai completo e assoluto241.
2.2 Hofmannsthal, Wittgenstein e il silenzio
Il percorso artistico e letterario di Hugo von Hofmannsthal riflette come uno specchio il disfacimento della cultura austriaca alla fine del XIX secolo in tutte le sue laceranti contraddizioni. Come ha notato Claudio Magris «l’ultima fase della civiltà absburgica appare infatti compresa tra due poli opposti, tra una malinconica consapevolezza del declino, sopportato con tacita dignità, e una leggerezza spensierata e operettistica»242. La crisi politica dell’Impero asburgico, sostenuta dalle spinte centrifughe dei nazionalismi contrapposti nei territori della Monarchia e dall’attrazione politica che tra i popoli di lingua tedesca godeva il Reich, avrebbe condotto buona parte dell’Europa alla catastrofe della Grande Guerra. L’impero asburgico è l’ex sacro-romano-impero di nazione tedesca, che è stato bloccato da Napoleone e dalla Prussia nella sua vocazione originaria di realizzare in chiave egemonica l’unità tedesca243. In questo modo, tra XVIII e XIX secolo, l’Austria si è trovata priva di centro e di funzione politica,
240
Cfr. GARGANI A.G., Il coraggio di essere, op. cit., pp. 3-10. Cfr. VARNIER G., op. cit., p.112. Sul senso della filosofia del “secondo” Wittgenstein come un lavoro di chiarificazione delle espressioni linguistiche utilizzate dalla filosofia tradizionale al fine di ritrovarne la “patria” (Heimat) nei contesti d’uso quotidiani (RF §116, p. 67) cfr. CAVELL S., Il tramonto al tramonto. Wittgenstein filosofo della cultura, in Wittgenstein politico, a cura di D. Sparti, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 64-93. 242 MAGRIS C., Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino 2009, p. 185. 243 Cfr. BROCH H., Hofmannsthal e il suo tempo, tr. it. di A.Vigliani, Adelphi, Milano 2010, pp. 82-83. 241
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costretta a ricercare fuori di sé le ragioni storiche della propria esistenza244. Alla fine del XIX secolo la percezione di questa crisi si riversò nei più svariati ambiti della cultura mitteleuropea245, dalla scienza alla letteratura, dalla filosofia alla psicologia e alla sociologia, e venne espressa nel tema del vuoto, dell’assenza di un centro del senso per i simboli della cultura (Kultur) austroungarica e con essa per le forme simboliche dell’intero genere umano. Nella Vienna tra il 1870 e il 1890 si consumò quello svuotamento di senso dell’arte e della politica, espresso dal decorativismo estetico e dall’edonismo morale, che Hermann Broch ha letto come declinazione austriaca della tendenza europea all’arte per l’arte246. Solo che la particolare sovrastruttura politica dell’impero, contraddistinta dall’assenza di una ragione politica forte alla base dell’unione tra le diverse nazionalità che lo abitavano, conferì al decadentismo artistico l’aura della consapevolezza del suo tramonto. Questa particolare atmosfera sociopolitica si manifestò in quella mescolanza di amabile leggerezza e saggezza intima, dei valzer e delle operette, che Broch ha definito la «gaia apocalisse» di Vienna247. L’opera
letteraria
di
Hofmannsthal
è
una
continua
manifestazione
della
consapevolezza, per i suoi personaggi e per l’autore, di vivere in una costellazione socio-politica di frammenti, di elementi individuali, rispetto ai quali il centro di attrazione magnetica, il ruolo simbolico svolto dalla monarchia asburgica nei secoli precedenti, è venuto meno248. L’uomo austriaco del tardo XIX secolo ha perso il proprio centro sociale, politico e psicologico; si aggira a tutti i livelli della società privo
244
Cfr. Ibid., pp. 104-105: «[…] e fin dai tempi antichi vi sono state estetizzanti culture della decadenza, stadi degenerativi cui si era ridotta la maggior parte dei grandi imperi che, in mancanza di un proprio centro etico, dovettero lasciarsi imporre il consolidamento della loro esistenza da un’autorità morale “esterna” o comunque “superiore”. L’Austria – che indubbiamente era una di esse – dovette cercare i valori su cui orientarsi là dove soltanto si trovava la sua sostanza, e cioè in quella funzione totalizzante della monarchia, che (in modo affatto peculiare) competeva alla Corona austriaca e racchiudeva in sé tanto l’autorità politica quanto quella etica, sorretta quest’ultima dalla solitudine dell’imperatore e dal suo cattolicesimo». 245 Sulla cultura mitteleuropea della fine del XIX secolo esistono numerosi studi, alcuni dei quali centrati sulla filosofia di Wittgenstein. Per quanto riguarda un approccio più generale mi limito a menzionare SCHORSKOE C.E., Fin-de-siècle Vienna. Politcs and culture, Vintage Books, New York 1981, e JANIK A., TOULMIN S., La grande Vienna, tr. it. di U.Giacomini ,Garzanti, Bologna 1975. In ambito italiano non si possono non menzionare i lavori di Gargani (GARGANI A.G., Il coraggio di essere, op. cit. e IDEM, Wittgenstein dalla verità al senso della verità, Plus, Pisa 2003) e di Cacciari (CACCIARI M., Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento,op. cit., e IDEM, La Vienna di Wittgenstein, «Nuova Corrente», 72-73 (1977), pp. 93-95). 246 Cfr. BROCH H., op. cit., pp. 13-49. 247 Ibid., p. 109. 248 Questo vuoto del centro etico-politico dell’impero è non intenzionalmente simboleggiato dal palco vuoto che in ogni teatro austroungarico veniva riservato all’imperatore; cfr. Ibid., p.73: «A uno sguardo capace di penetrare la realtà delle cose quel palco costantemente inutilizzato, costantemente immerso nel buio, si presentava piuttosto come un pezzo da museo, o per meglio dire, proprio in virtù di questo suo carattere museale, come un simbolo dello schema, ormai vuoto, che sottendeva alla posa barocca del sovrano».
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di consistenza, incapace di prendere una decisione effettiva perché immobilizzato di fronte alla varietà irrelata della realtà quotidiana. Come dice il conte Altenwyl, personaggio della commedia mondana L’uomo difficile, a proposito dei suoi ospiti: «Tutti quelli che lei incontra qui, in realtà non esistono più. Non sono più che ombre. Nessuno di coloro che si muovono in queste sale fa parte del mondo reale, là dove si decidono le crisi spirituali del secolo»249. Tutti i grandi temi della cultura viennese confluiscono nelle sue prime poesie e nei suoi lavori per il teatro: dalla leggerezza incosciente dei valzer, all’ossessione dei protagonisti dei suoi drammi per la morte dettata dal presagio della fine di qualcosa, alla maschera dell’intelligenza e al tema dell’esitazione, del differimento della scelta. Solo che in Hofmannsthal la recezione della crisi assume una dimensione aristocratica: la poesia e il teatro hanno il compito di raccogliere i frammenti per ricostituirli in una riconquistata sintesi di civiltà, nella ricerca di un’armonia superiore. La poesia, e il linguaggio poetico, sono in grado di andare oltre le parole
attraverso i simboli, di toccare direttamente l’oggetto e il
soggetto del discorso, facendoli partecipare ad un percorso di trasformazione reciproca250. La crisi che ha determinato lo sfacelo del polo di attrazione magnetica dell’universo asburgico trova, nella poetica di Hofmannsthal, un tentativo di superamento: nel linguaggio poetico egli vede la possibilità della conciliazione estetica di tutte le relazioni tacite che legano eventi, tratti, fisionomie di persone e che prima erano tenute insieme dall’artificiose unità individuale dell’io epistemologico, cui fa da contraltare l’altrettanto artificiosa unità politica dell’Impero. Questo sforzo si traduce nelle sue opere nel tema della fedeltà. Fedeltà tra amanti, fedeltà nel matrimonio251, fedeltà a se stessi: tale tema tradisce l’ansia di Hofmannsthal e dei suoi personaggi per 249
HOFMANNSTHAL H.V., L’uomo difficile, tr. it. a cura di G. Bemporad, Adelphi, Milano 1976, p.75. Si noti che la commedia è del 1921, e dunque in questa battuta è possibile scorgere tutta la drammaticità con cui la cultura austriaca visse il primo dopoguerra come la fine di un mondo. Al di là dell’atmosfera politico-sociale decadente le ombre delle quali parla il conte Altenwyl veicolano il tema filosofico nietzscheano dell’ “uomo postumo”, l’uomo che ha troppe ragioni per accettare una sola verità e che per questo indossa infinite maschere, rinuncia ad una identità e alla possibilità di essere compreso dai suoi contemporanei; cfr. NIETZSCHE F., Crepuscolo degli idoli, in Opere 1882/1895, introduzione di F. Desideri, Newton Compton Editori, Roma 2008, § 15, p. 707: «Uomini postumi- io, per esempiovengono compresi peggio di quelli contemporanei, ma uditi meglio. Più esattamente: non veniamo mai compresi – di qui la nostra autorità». Sull’importanza di questo tema per la Vienna di Wittgenstein cfr. CACCIARI M., Dallo Steinhof, op. cit., pp. 20-22. 250 Cfr. HOFMANNSTHAL H.V., Il dialogo su poesie, in L’ignoto che appare. Scritti 1891-1914, ed. it. a cura di G. Bemporad, L. Traverso, G. Zampa, Adelphi, Milano 1991, pp. 176-191. 251 HOFMANNSTHAL H.V., L’uomo difficile, op. cit., pp. 86-87: «[…] esiste un caso che apparentemente fa di noi tutto ciò che vuole… ma nel turbine che ci scaraventa di qua e di là, in mezzo alla nebbia e all’angoscia, sentiamo e sappiamo che esiste anche una necessità, che ci sceglie di attimo in attimo, che passa in silenzio rasente al cuore leggera come un soffio eppure tagliente come una spada. […] E la stessa necessità c’è anche tra uomini e donne… e quando c’è, li obbliga a cercarsi, a perdonare, a riconciliarsi e a restare insieme».
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il tentativo di affermare la propria essenza sull’incessante divenire. Ma il tema della fedeltà, tratto tipico delle sue prime liriche, si rivela incapace di arginare la crisi: «Hofmannsthal tenta infatti una conciliazione tra l’attaccamento al passato e la legge creativa e innovatrice dello spirito, una delle sue tipiche sintesi superiori, astratte ed illusorie, ma questo tentativo fallisce, nonostante l’intuizione che il poeta aveva del mutare delle forme umane. Così fedeltà diviene assurdo sforzo di vivificare ciò ch’è morto, rifiuto di trascendere ciò che va superato nella dialettica dello spirito. L’umanità di Hofmannsthal, nonostante il suo sforzo di creare un edificio, una piramide comprensiva dei singoli aspetti della vita, resta irrimediabilmente legata al particolare, al frammento»252. Il senso della letteratura per Hofmannsthal è uscire dal particolarismo e stabilire un terreno saldo per le relazioni tra le cose e gli uomini, tra la realtà delle cose e il mondo psicologico delle rappresentazioni: «La poesia non pone mai una cosa per un’altra, poiché è proprio la poesia che tende febbrilmente a porre la cosa stessa, con tutt’altra energia che l’ottuso linguaggio quotidiano, con tutt’altra magia che la povera terminologia della scienza»253. Il linguaggio quotidiano e il linguaggio esatto della scienza non sono in grado di esaurire attraverso le «parole concettuali» la fitta rete di sensazioni che l’io psicologico riceve dal mondo esterno; solo la poesia riesce a porre le cose stesse perché attraverso l’uso del simbolo «esprime parole per amore delle parole», e in questo modo esercita quel potere magico di unire l’io con le cose percepite: le parole che funzionano come simboli toccano il nostro corpo e ci trasformano ininterrottamente254. Il simbolo, il potere che esso manifesta nella poesia attraverso la metafora, esercita sulla sfera soggettiva, sulla vita psicologica degli individui, un «inquietante dominio» perché ci permette di animare con le parole le cose, altrimenti morte, altrimenti confinate alla sfera del soggettivo. Nella parola della poesia, «creatura vivente», si apre come in un’illuminazione quello che Hofmannsthal definisce il «grande contesto del mondo», la pluralità delle relazioni tra le cose irriducibile all’unità del concetto255. Ed il linguaggio, che di queste relazioni è il veicolo principale, diventa il campo di battaglia tra i protagonisti delle opere hofmannsthaliane e lo smarrimento impressionista in cui vivono, determinato dalla scoperta del flusso della vita, dell’assenza di un centro reale di tutte le esperienze, interne ed esterne, soggettive ed
252
MAGRIS C., Il mito absburgico, op. cit., p. 241. HOFMANNSTHAL H.V., Il dialogo su poesie, in op. cit., p. 180. 254 Ibid., p. 184. 255 HOFMANNSTHAL H.V., Filosofia del metaforico, in L’ignoto che appare, op. cit., pp. 101-105. 253
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oggettive. La ricongiunzione estetica delle esperienze slegate dell’io è anche l’opera di sintesi di un modo di fare letteratura che guarda ad un modello di civiltà, ad una concezione dell’uomo e delle sue relazioni con il mondo256. In questi termini la poetica di Hofmannsthal presenta numerose analogie con la concezione della filosofia di Wittgenstein257. Non voglio qui dimostrare la fondatezza di influenze più o meno dirette, tanto di Hofmannsthal su Wittgenstein quanto viceversa; tra i due esiste anche una differenza generazionale e biografica che impedisce di inserire completamente il filosofo nel fregio della «gaia apocalisse»258. Mi limiterò a rilevare come tra la concezione del ruolo del teatro di Hofmannsthal e il ruolo che Wittgenstein attribuisce alla filosofia esistano analogie importanti. L’enfasi che Wittgenstein pone sulle nozioni di gioco linguistico e forma di vita, l’analisi dell’io e dell’azione intenzionale, riflettono in qualche modo lo sforzo nel tracciare uno stile filosofico libero dall’ossessione di un ordine concettuale superiore entro cui ricomprendere la relazione tra linguaggio e mondo. La decifrazione “estetica” del particolare in una serie di relazioni tacite e già esistenti tra cose e persone, che nel linguaggio poetico di Hofmannsthal era un limite imposto dallo scenario della crisi, è nella filosofia di Wittgenstein un punto di forza. Questa differenza scaturisce a mio parere da due modi differenti di guardare alla questione dell’assenza di fondamenti, al vuoto di senso su cui poggia ciò che si deve accettare, il dato, la forma di vita259. Ho già messo in luce nel primo capitolo il modo in cui Wittgenstein guarda ai nonsensi filosofici, al modo in cui tratta i giudizi filosofici di portata ontologica ed esistenziale. Ora, per l’autore del Tractatus, il linguaggio gira a vuoto soprattutto quando si avventura nel tentativo di descrivere le cose più alte, ovvero il senso dell’etica, l’esperienza estetica, l’apparire del senso del mondo che costituisce l’esperienza religiosa260 (TLP 6.4-6.423). Il bene, il bello, la meraviglia e la sicurezza
256
Cfr. SCHORSKOE C.E., op. cit., pp. 15-22. Cfr. GARGANI A.G., Wittgenstein, op. cit., pp. 28-31; JANIK A., TOULMIN S., La grande Vienna, op. cit., pp. 112-118. 258 Hofmannsthal era nato nel 1874, quindici anni prima di Wittgenstein, ed era morto nel 1929, quando quest’ultimo stava per ritornare all’insegnamento. Si consideri poi il fatto che Hofmannsthal a parte la parentesi della Grande Guerra visse tra Vienna e Monaco, mentre Wittgenstein spese gli anni della sua maturità filosofica in Inghilterra; cfr. GARGANI A.G., Wittgenstein tra Austria e Inghilterra, Stampatori, Torino 1979. 259 Sull’interpretazione della filosofia del “secondo” Wittgenstein come dissoluzione del problema dei fondamenti, e per un confronto sullo stesso tema con Frege e Husserl cfr. DE MONTICELLI R., Frege, Husserl, Wittgenstein. Note sul problema della fondazione, «Nuova Corrente», 72-73 (1977), pp. 16-45. 260 In questi termini Wittgenstein parla della possibilità di insegnare il contenuto dell’etica e dell’essenza della religione in una conversazione sull’etica di Schlick nel 1930, cfr. WITTGENSTEIN L., Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, ed. it. a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1967, pp. 24-25: «L’etico non si può insegnare. Se io potessi spiegare a un altro per il solo tramite di una teoria l’essenza dell’etico, allora l’etico non avrebbe proprio alcun valore. […] 257
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che si provano di fronte all’ovvietà dell’esistenza del mondo, sono fuori dal mondo, si trovano al di là dei fatti; i discorsi su questi temi sono al di là dei limiti del senso individuati nel corso delle prime sei sezioni del Tractatus. Il punto è che la sfiducia nutrita da Wittgenstein verso i mezzi che il linguaggio possiede per affrontare il discorso etico-estetico si riflette nel vuoto su cui poggia il polo di attrazione magnetico attorno al quale ruotano per Hofmannsthal i valori, i simboli, i generatori di senso dei riti e delle pratiche della società asburgica. Per entrambi la conseguenza di questa scoperta è il tema del silenzio. Ma se per il filosofo il silenzio del Tractatus è la metafora di un atteggiamento di disconoscimento dell’importanza del discorso filosofico in senso tradizionale, a favore dell’interesse per il modo in cui nel linguaggio sorgono le condizioni del discorso sensato e quindi anche la possibilità del superamento degli equivoci, per Hofmannsthal è il segno di una profonda sfiducia nei mezzi di cui il linguaggio dispone per conoscere la realtà. L’obiettivo di questo paragrafo sarà allora quello di mettere in luce questa differenza di atteggiamento tra Wittgenstein e Hofmannsthal rispetto ai problemi e alle dinamiche culturali che, nella filosofia del primo e nel teatro del secondo, hanno contribuito a delineare il tema del silenzio. Inoltre, il confronto con Hofmannsthal permette di chiarire
ulteriormente
l’origine
della
nozione
di
nonsenso
nella
filosofia
wittgensteiniana, attraverso l’analisi del tema del silenzio nella Lettera di Lord Chandos e nella commedia L’uomo difficile. Queste due opere vengono prese in considerazione come punti estremi, di avvio e di conclusione, della riflessione del poeta sul problema della natura e dei limiti del linguaggio, dell’espressione e della comunicazione.
2.2.1 La Lettera di Lord Chandos: la crisi del segno e la crisi del soggetto
Il tema del silenzio assume nell’opera di Hofmannsthal un’importanza notevole solo con la pubblicazione nel 1902 della Lettera di Lord Chandos
261
, sintomo della crisi
personale del poeta ventiseienne, della percezione che nessuna sintesi superiore, sia
L’essenza della religione evidentemente può non aver a che fare con il fatto che si parli, o piuttosto: se si parla, è questo stesso una componente dell’atto religioso e non una teoria». 261 Da questo momento in poi farò riferimento a HOFMANNSTHAL H.V., Lettera di Lord Chandos, tr. it. di M. Vidusso Feriani, Rizzoli, Milano 2007 con l’abbreviazione Lettera seguita dal numero di pagina dell’edizione indicata.
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quella estetica della bella forma o quella etica del pensiero, possa sanare le contraddizioni della vita e della storia. La storia che fa da sfondo al Chandosbrief è quella del nobile inglese del XVII secolo Lord Chandos, allegoria barocca della condizione dello scrittore moderno, maschera utilizzata da Hofmannsthal per parlare della propria incapacità a dominare il pensiero e il linguaggio. Nella lettera, indirizzata al filosofo e scienziato Francesco Bacone, Lord Chandos riversa tutta la sua frustrazione per il fallimento della ricerca di una linguaggio in grado di arrivare alle cose stesse (ins Innere der Dinge), di penetrare il particolare sensibile ed evitare in questo modo l’universale generico del concetto. Il progetto letterario del Lord era prima della profonda crisi, la compilazione di una raccolta di detti famosi e straordinari, di esperienze di viaggio, di descrizioni di luoghi ed edifici che avrebbe dovuto avere come titolo significativo il motto di Delfi, Nosce te ipsum: «allora, in una sorta di costante ebbrezza [in einer Art von andauerneder Trunkenheit], tutto quanto esiste mi appariva come una grande unità: il mondo spirituale e quello fisico non mi sembravano giustapporsi, né l’essere cortese e quello animale, né l’arte e la non arte, la solitudine e la compagnia; in tutto io sentivo la natura, […] e in tutta quanta la natura io sentivo me stesso»262. Prima della crisi che lo travolgerà Lord Chandos vive una condizione di rispecchiamento totale tra linguaggio, pensiero e mondo, in cui tutto è identità e un’esperienza vale l’altra263. Il linguaggio poetico, attraverso il potere del simbolo, attraverso la mobilità semantica della metafora, gli permetteva di sentire la propria appartenenza al mondo del divenire senza tuttavia che il suo io si sciogliesse definitivamente in esso. Tuttavia la lettera prosegue con la narrazione in prima persona del naufragio della fiducia di Lord Chandos per l’oggettività del linguaggio e della conseguente totale rinuncia all’attività letteraria. È importante chiarire che non si tratta di un sfiducia nella possibilità che il linguaggio non possa esprimere niente del tutto, l’esistenza stessa della
262
Lettera, p. 39. Per certi versi una sorta di “armonia prestabilita” tra pensiero, linguaggio e mondo è quanto la logica della raffigurazione indagata nel Tractatus richiede per essere efficace, Cfr. WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 195: «Concordanza di pensiero e realtà. Come tutto ciò che è metafisico, l’armonia (prestabilita) tra il pensiero e la realtà va rintracciata nella grammatica del linguaggio. Ogni immagine dovrebbe avere qualcosa in comune con il mondo del raffigurato, per poter raffigurare qualcosa di questo mondo. Ma questo vuol dire semplicemente: l’immagine ha, per così dire, il metodo di proiezione in comune con il raffigurato». Se nella Lettera la condizione di rispecchiamento tra pensiero, linguaggio e mondo si esprime nell’identità di tutto, per Wittgenstein la comunanza del metodo di proiezione tra le proposizioni sensate implica la loro uguaglianza dal punto di vista del valore o meglio la loro indifferenza rispetto al problema etico del senso del mondo; cfr. TLP 6.4, p. 106. 263
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Lettera sementisce una tesi scettica così radicale264. Si tratta piuttosto della consapevolezza che il linguaggio, per lo meno il linguaggio poetico, la metafora, la potenza del simbolo, non possano dir nulla sui fondamenti ontologici del contenuto delle nostre sensazioni, sulla realtà delle cose esterne e con essa, come in un effetto domino, sull’essenza delle cose più importanti: i valori, l’agire morale, il senso della vita e della morte. Ciò che il linguaggio non riesce più a fare, secondo Lord Chandos, è l’espressione nella parola di ciò che conferisce senso al discorso, di ciò che determina il senso della proposizione, o meglio «la individuazione della forma [die Erkenntnis der Form], di quella profonda, vera, intima forma, che si può intuire solo al di là dal gioco degli artifizi retorici, quella di cui nulla più si può dire, se non che ordina la materia che essa penetra, la eleva e genera a un tempo poesia e verità, un contrappunto di forze eterne, una cosa meravigliosa come la musica e l’algebra»265. Proprio come nel Tractatus una proposizione sensata può solo esibire la sua forma logica, così per Hofmannsthal la coscienza che la Forma, ciò che conferisce senso al discorso, precede e permette gli «artifizi retorici» implica che di essa non si possa più dire nulla. La scissione tra discorso sensato e condizioni che ne determinano la sensatezza, che nel Tractatus si consuma nella distinzione tra dire e mostrare, assume nel Chandosbrief l’intensità drammatica della scissione tra retorica e poesia, tra forma e vita: «Come per Wittgenstein o per Fritz Mauthner, anche per Lord Chandos c’è un’ultima verità irriducibile all’espressione ed egli deve rassegnarsi a parlare non della vita bensì soltanto della sua incapacità di dirla»266. La crisi della parola è dovuta all’incapacità dei segni di esprimere l’epifania vitale dei fenomeni, se non attraverso immagini e rappresentazioni collegate nella sintesi astratta 264
Cfr. JANIK A., TOULMIN S., La grande Vienna, op. cit., p. 115. L’autoconfutazione cui la tesi scettica dell’impotenza totale del linguaggio conduce è quella della tradizione filosofica platonico-aristotelica contro il relativismo epistemologico e/o metafisico dei sofisti e in particolare di Protagora; cfr. PLATONE, Teeteto, a cura M. Valmigli e A.M.Ioppolo, Laterza, Roma-Bari 1999, 171 a 6 - b3, p. 83: «SOCRATE: E per Protagora che cosa risulta? Se nemmeno Protagora avesse mai pensato che l’uomo è misura, né l’avesse pensato – come difatti non lo pensa – la maggioranza degli uomini, necessariamente questa verità che Protagora ha così definita e predicata non esisterebbe per nessuno; […].». Aristotele attribuisce a Protagora (nella sua strategia più ampia di difesa del principio di non contraddizione) una posizione di fenomenismo soggettivista, molto simile a quella di Mach, legata alla tesi metafisica dell’indeterminatezza dell’essenza delle cose, cfr. ARISTOTELE, La Metafisica, a cura di C.A. Viano, Utet, Torino 1974, IV 1006 b 5-10, p. 276: «Ma, se si dicesse che la parola indica un numero di cose non finito, ma infinito, allora è evidente che non ci sarebbe neppure un discorso, perché il non indicare una cosa sola è non indicare nulla, e se si elimina il significato dei nomi, si elimina il discorso degli uni con gli altri, ma, in verità anche quello con se stessi: infatti non può pensare nulla chi non pensa una cosa sola, e se può pensare, allora può anche porre un unico nome alla cosa che pensa». Sulla storia dell’autoconfutazione del relativismo protagoreo cfr. ZILIOLI U., Protagoras and the challenge of relativism. Plato’s subtelest enemy, Ashgate, Aldershot 2007. 265 Lettera, p. 37. 266 MAGRIS C., L’anello di Clarisse, Einaudi, Torino 1999, p. 41.
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del concetto: «le parole astratte, di cui la lingua, secondo natura, si deve pur valere per recare a giorno un qualsiasi giudizio, mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti [wie modrige Pilze]»267. Lord Chandos descrive come nella sua vita quotidiana la consapevolezza dell’impotenza della parola lo immobilizzi quando si trova costretto ad esprimere un pensiero in concetti astratti. Così non riesce più a rimproverare la figlia più piccola per aver detto una bugia perché non riesce più ad aver fiducia nel concetto di verità, non riesce più a giudicare gli uomini e le loro azioni. Non si tratta semplicemente della tesi dell’insensatezza dei giudizi che vertono sui valori, dell’inesprimibilità dell’etico. A differenza del Tractatus, per Lord Chandos ad essere un limite in senso negativo è già il modo in cui la totalità dei fatti fa da sfondo alla sensatezza delle immagini che ci facciamo di quei fatti, e che i parlanti esprimono nelle proposizioni del linguaggio. Nella Lettera si esprime in maniera drammatica la convinzione che il discorso sensato riduca la varietà e molteplicità dell’esperienza alle condizioni di raffigurazione, e con ciò tagli fuori dalla Forma le contraddizioni e le possibilità che l’esperienza implica, tagli fuori la vita. Per Wittgenstein, invece, la trattazione del problema della proposizione da un punto di vista logico risolveva di per sé l’irriducibilità della vita alla forma, della cosa in sé al fenomeno. Nel Tractatus, infatti, è la stessa ontologia degli oggetti semplici a porre e superare il problema dei limiti dell’individuazione rispetto alla molteplicità e varietà del flusso dell’esperienza, della vita, nella nozione di spazio logico: ogni oggetto è collocato in una sorta di spazio costituito dall’insieme delle situazioni possibili nelle quali può occorrere (TLP 2.013). La prospettiva logica che Wittgenstein assume nel Tractatus rispetto al problema della determinatezza del senso della proposizione, lo porta ad avere rispetto al fatto che esistano proposizioni delle quali non ha senso porsi la domanda della verità (le proposizioni unisinnig), un approccio che non va nella direzione di definire il senso della proposizione relativamente ai suoi contesti d’uso, ma in quello della delimitazione del senso della proposizione. In questo modo, il potere raffigurativo di una proposizione, la sua capacità di rispecchiare la realtà effettiva perché i suoi elementi costitutivi sono gli elementi di tutte le realtà possibili, può essere delimitato rimanendo all’interno del linguaggio. Nella nozione di nonsenso (unsinnig) del Tractatus viene allora espressa
267
Lettera, p. 43.
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quella irriducibilità della vita alla forma, dell’esperienza al linguaggio, che Hofmannsthal descrive nella crisi di Lord Chandos268. Inoltre, il senso di straniamento che Lord Chandos prova di fronte alla sintesi dell’esperienza contenuta in ogni parola è ancor più grande nel caso dei concetti (si tenga presente che per il Tractatus quelli fondamentali della logica, della matematica e della semantica sono sinnolos), che mostrano le proprietà formali del mondo, senza dirne alcunché: «Quell’armonia di concetti definiti e ordinati, speravo potesse guarirmi. Ma non riuscii ad accostarmi ad essi. I concetti, li capivo bene: vedevo levarsi dinanzi a me il loro meraviglioso gioco di rapporti, quasi splendide fontane che scherzano con globi dorati. Potevo aggirarli, e vedere l’intreccio del gioco; ma era un fatto di loro esclusiva reciprocità, e la parte più profonda, personale del mio pensiero rimaneva esclusa dalla loro danza»269. Il punto qui è che la sfiducia di Lord Chandos nel potere del discorso sensato di essere veicolo di conoscenza della realtà anticipa, sia pura con un’importante differenza, le critiche che Wittgenstein rivolgerà all’ “autore del Tractatus”. E l’importante differenza consiste in ciò, nel fatto che la maschera di Hofmannsthal vede nei limiti del linguaggio una soglia invalicabile nel percorso che il soggetto epistemologico compie verso il fenomeno, una condizione di impotenza che si estrinseca nel tema kantiano dell’inconoscibilità della cosa in sé. Lord Chandos riesce ad uscire dalla sua condizione indefinibile solo nei momenti in cui si svuota dello straniamento causatogli da un uso filosofico del linguaggio per immergersi nel vortice delle esperienze quotidiane: «Un innaffiatoio, un erpice abbandonato su un campo, un cane al sole, un povero cimitero, uno storpio, una piccola casa di contadini, in tutto ciò mi si può palesare la rivelazione»270; e tuttavia la rivelazione della vita nei particolari 268
Ho già messo in evidenza nel primo capitolo come quello della delimitazione del campo d’indagine della logica alle leggi del “vero” fosse un tema molto presente anche in Frege e avesse una conseguenza rilevante nella irriducibilità del linguaggio poetico-letterario agli scopi denotativi della scienza; cfr. FREGE G., Il pensiero, in op. cit., p.50. Questo punto di continuità nel tema dei limiti del linguaggio da Frege a Wittgenstein è ben isolato da CACCIARI M., Dallo Steinhof, op. cit., pp. 24-25: «Vi è nella creatura una finitezza radicale, che in Frege ha come simbolo l’insuperabilità della Dichtung: le pseudoproposizioni della Poesia non possono essere idealisticamente superate. Per definizione, la creatura è ancora dotata di fantasia. La logica rinuncia alla sua grande utopia dell’annichilimento di questa facoltà, rinuncia a inseguire la creatura nel suo “sperdersi” nel mondo della Fantasia, e “si limita” alla definizione rigorosa-restrittiva del senso forte del conoscere le leggi dell’esser vero, in quanto realtà indipendente dal nostro riconoscerla, che modifica il soggetto allorché è riconosciuta, ma che non è il soggetto, in nessun modo,a pro-durre». 269 Ibid., p. 47. 270 Lettera, pp. 48-50; in questo passo Hofmannsthal esprime tutta la consapevolezza dell’assenza di coerenza e unità nel mondo vissuto in prima persona e allo stesso tempo la necessità di individuare nell’esperienza quotidiana un significato comunicabile, cfr. GARGANI A. G., Wittgenstein, op. cit., p.28: «La totalità del mondo si specchia e traspare soltanto in elementi ed eventi particolari, in occasionali
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quotidiani rimane muta. Immerso nella banalità del quotidiano, alla vista di un topo, di un cane, di un melo intristito, o di una stradina che si snoda sulla collina il Lord sente di poter vincere la forza dell’indicibile ma poi aggiunge: «quando questo strano incatenamento mi abbandona, non sono capace di parlarne, e non saprei spiegare con parole sensate in cosa sia consistita questa armonia che compenetra me e il mondo intero e in qual modo mi si sia palesata, esattamente come non potrei precisare i moti delle mie viscere e i sussulti del mio sangue»271. La sfiducia di Lord Chandos investe non solo il linguaggio della poesia, non solo il gioco di simboli e metafore con cui da giovane si era illuso di penetrare nelle cose stesse, ma anche ogni piccolo frammento di linguaggio quotidiano che cerca di catturare l’esperienza più banale: «perché la lingua, in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto»272. Nella ricerca di una lingua attraverso cui si esprimono le «cose mute» è possibile individuare lo spazio che Hofmannsthal riserva all’interno del contenuto più generale della lettera, quello del linguaggio e dei suoi limiti raffigurativi rispetto alla realtà, al tema del silenzio. Il silenzio di Lord Chandos è rinuncia, è consapevolezza dell’impossibilità interna agli strumenti linguistici di poter dire il particolare vivente. La conseguenza di questa riflessione è un ridimensionamento della natura e del ruolo della poesia, incapace da sola di penetrare nell’essenza delle cose. Perché per Hofmannsthal ad essere unsinnig è qualunque proposizione che pretende di aver esaurito attraverso il potere descrittivo-rappresentativo dei suoi simboli una porzione di realtà. Al contrario, Wittgenstein individua i limiti del linguaggio nel linguaggio: nel Tractatus le condizioni di sensatezza della proposizione emergono dall’interno della trattazione della natura del linguaggio, della natura della raffigurazione, cosicché il linguaggio
intermittenze (un erpice, un innaffiatoio abbandonati sull’erba di un prato) di un mondo privato della sua coerenza e armonia. Sono soltanto eventi e oggetti della più ordinaria esperienza che trasposti in un’esperienza vissuta, empatica, riescono a mantenere un significato superstite». Come ha osservato Magris in questo passo, in cui Lord Chandos riconosce ogni oggetto globalmente, senza ricondurlo ad alcuna classe, Hofmannsthal esprime il suo rifiuto di includere la semantica nella linguistica e con ciò di ridurre il concetto di significato a quello di significato linguistico; cfr. MAGRIS C., L’anello di Clarisse, op. cit., pp. 50-51. 271 Ibid., pp. 53-55. Per certi versi il sentimento indicibile di appartenenza al mondo come totalità che si mostra a Lord Chandos negli oggetti della vita quotidiana è analogo al tema del Mistico nel Tractatus incarnato dal sentimento fuori dal tempo di meraviglia estetica (das kunstlerische Wunder) che il soggetto filosofico prova di fronte al mondo come totalità limitata dei fatti; cfr. MCGUINNESS B., Approaches to Wittgenstein, Routledge, London and New York 2002, pp. 140-159. 272 Lettera, pp. 59-60.
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resta chiuso in sé, è autonomo273. Il problema della relazione tra il soggetto e il mondo è un “problema” che nel linguaggio si dissolve, perché la stessa possibilità di avanzare dubbi scettici sull’esistenza del mondo esterno e sull’esistenza di altre menti, non ha niente a che vedere con l’esistenza effettiva del mondo e delle menti, in quanto tali dubbi sorgono e si sviluppano dall’interno del linguaggio. Ad essere unsinnig, per Wittgenstein, è allora l’esercizio del discorso filosofico in termini dubitativi nei confronti di proposizioni sensate, di proposizioni che hanno un senso determinato solo in quanto rappresentano le relazioni tra elementi semplici, tra oggetti, in una determinata porzione di realtà. Perché si possa porre un dubbio scettico, è necessario che esista un linguaggio che non funzioni a vuoto, che fornisca quelle condizioni di sensatezza sulle quali è possibile avanzare i dubbi: «Lo scetticismo è non inconfutabile, ma apertamente insensato, se vuol mettere in dubbio ove non si può domandare. Ché dubbio può sussistere solo ove sussista una domanda; domanda, solo ove sussista una risposta; risposta, solo ove qualcosa possa essere detto»274. E tuttavia la stessa dichiarazione di insensatezza riferita da 6.54 alle proposizioni che costituiscono lo snodo fondamentale della sua visione del linguaggio, della logica e del mondo, inserisce il Tractatus nel solco della tradizione scettica. Se per Hofmannsthal il linguaggio della poesia può solo riconoscere l’impotenza dei propri mezzi nell’impresa di penetrare nell’essenza delle cose, per Wittgenstein l’impiego filosofico che viene fatto del nonsenso nel Tractatus è un esercizio di scetticismo: ha a che fare con la comunicazione-conversione del lettore pur in assenza di un contenuto proposizionale275. Lord Chandos si chiude in un silenzio che significa rinuncia alla fiducia nel potere comunicativo delle parole, nell’aderenza dei segni alla realtà. Il silenzio di Wittgenstein è invece l’espressione del raggiungimento di una posizione di soddisfazione e assenza
273
Cfr. WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 196: «Quando, seguendo le regole, faccio la descrizione di una cosa possibile, la traduco nello stesso modo in cui traduco da una lingua ad un’altra. E naturalmente posso farlo con la grammatica e il dizionario, e così posso dare una giustificazione. – Ma allora si tratta di una traduzione dell’articolato nell’articolato. E se la giustifico appellandomi alla grammatica e al dizionario, non faccio altro che stabilire una relazione tra la realtà e la descrizione (una relazione proiettiva), ma dell’intenzione della mia descrizione non è il caso di parlare. (Ossia: posso soltanto controllare la somiglianza del ritratto, ma nulla di più)». 274 TLP 6.51, p.108. Secondo McManus il modo in cui Wittgenstein legge il senso dello scetticismo nel Tractatus è molto più sottile di quello che riguarda il tradizionale scetticismo cartesiano sull’esistenza del mondo esterno perché nel dubbio scettico il filosofo vede la questione più profonda della stessa possibilità di comprendere le cose; cfr. MCMANUS D., Solipsism and scepticism in the Tractatus, in Wittgenstein and Scepticism, ed. D. McManus, Routledge, London-New York 2004, pp. 137-161. 275 Cfr. VARNIER G., op. cit., p. 105.
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d’inquietudine sulla natura del linguaggio, è la consapevolezza di potersi liberare di una visione del mondo per guardare al mondo276. Finora mi sono limitato a considerare come nella Lettera Hofmannsthal esponga il tema della crisi della parola, della «ruggine» dei segni, senza affrontare la conseguenza principale di questa crisi: la frantumazione dell’io, la deflagrazione dell’unità psicologica individuale in un fascio di sensazioni ed esperienze private inesprimibili. La perdita di fiducia nelle parole pone Lord Chandos in una situazione psicologica patologica, in una «malattia dello spirito» che ribalta la condizione di dionisiaca ebbrezza iniziale (la Trunkenheit sperimentata nella coscienza di far parte del mondo come un tutto durante gli anni giovanili) in una anedonia totale, un’ «inerzia spirituale» (die geistige Starrnis)277. La crisi del potere simbolico-denotatitivo del linguaggio si riversa sul principio di organizzazione di quei simboli, sul soggetto poetico, travolgendolo: «Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto. Una per una, le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinano senza sosta, e oltre i quali si approda nel vuoto»278. Come ha notato Magris «la crisi del segno è soprattutto crisi del soggetto, che non sa più porsi quale centro gerarchico della frase, quale punto prospettico da cui inquadrare e organizzare il mondo»279. Lord Chandos è travolto dai vortici che si nascondono dietro ogni parola perché il venir meno della soggettività organizzatrice impone un confronto con la realtà da una “distanza zero”; tutto quello che cerca di dire si colloca in un primo piano rispetto al quale il soggetto poetico perde la propria capacità di individuare e distinguere (nominandoli) gli oggetti: «Il mio spirito mi induceva a vedere ogni cosa che comparisse in siffatti discorsi, vicina in modo inquietante: come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo, e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le azioni»280. Si
276
Si tratta di un elemento di continuità tra il “primo” e il “secondo” Wittgenstein. Nelle Ricerche la sfiducia di Wittgenstein non si rivolge tanto alla possibilità che il linguaggio possa descrivere la realtà, ma alla possibilità che la delimitazione del discorso sensato possa esaurire la natura del linguaggio e lo scopo per cui lo impieghiamo nei contesti quotidiani. 277 Lettera, p. 33. 278 Ibid., p. 45. 279 MAGRIS C., L’anello di Clarisse, op. cit., p. 46. 280 Lettera, p. 45.
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tratta di uno «smarrimento impressionista»281, di un naufragio del sé nelle cose, che distrugge l’unità della persona. Nella rinuncia di Lord Chandos alla letteratura emerge allora un tema molto presente nella cultura austriaca della fine del XIX secolo, quello della dissoluzione del soggetto, sia esso psicologico, epistemologico, sociologico o filosofico quale principio ordinatore della realtà. Sulla relazione tra la scomponibilità delle sensazioni in elementi sconnessi e il carattere precario dell’io che Hofmannsthal traccia in queste pagine, incombe l’ombra delle teorie di Mach. Nella sua concezione fenomenista ed economicista della ricerca scientifica Mach perviene alla conclusione, supportata da un ampio lavoro di ricerca storico-critica, che le ipotesi, le teorie, le dottrine della scienza si attengono esclusivamente alla funzione di descrivere completamente una serie di fenomeni mediante l’impiego di procedure matematiche. L’attendibilità teorica di queste descrizioni poggia in ogni caso sul modo in cui gli esseri umani, nel corso dell’evoluzione della specie e della storia delle culture, sono arrivati a concepire la realtà. Ebbene, secondo Mach tutta la realtà è organizzata dagli uomini a partire dalle sensazioni: «Data la grande frequenza di eventi analoghi, ci si abitua infine a considerare tutte le proprietà dei corpi come “effetti” che derivano dai nuclei persistenti, insegnati all’io attraverso la mediazione del corpo; tali effetti denominiamo sensazioni»282. Tra le sensazioni Mach distingue quelle funzioni pratiche o relazioni oggettive che in quanto più durevoli283 emergono come complessi coordinati nello spazio e nel tempo di colori, suoni, pressioni, gusti, ecc., denominati corpi (Körper). La percezione dei corpi, e delle relazioni che essi stabiliscono, si realizza negli esseri umani attraverso il filtro delle relazioni psichiche di qualità, dell’ “io”, che viene considerato da Mach come un complesso di ricordi, disposizioni, sentimenti, legato a un determinato corpo vivente (Leib). Ora, lo snodo teorico che qui ci interessa, è la considerazione tanto delle funzioni pratiche, dei corpi, quanto delle relazioni psichiche di qualità, dell’io, come elementi di un flusso vitale continuo, come unità minime d’analisi del flusso vitale continuo: «Le percezioni come le rappresentazioni, la volontà, i sentimenti, in breve l’intero mondo interno ed esterno, si compone di un piccolo 281
MAGRIS C., Il mito absburgico, op. cit., p. 242. MACH E., L’analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico, tr. it. a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1975, p. 45. 283 Cfr. Ibid., p. 38: «La maggiore familiarità, la prevalenza di ciò che persiste, che è per me importante, rispetto a ciò che muta, ci costringe all’economia della rappresentazione mentale e della designazione linguistica, un’economia in parte istintiva e in parte volontaria e consapevole, che si esprime nei modi abituali di pensare e di parlare. Ciò che ha avuto una volta una rappresentazione mentale, ottiene una designazione, un nome». 282
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numero di elementi omogenei, connessi fra loro ora in modo più labile ora in modo più persistente. Questi elementi vengono chiamati di solito sensazioni. Ma poiché già in questo nome si cela una teoria unilaterale, preferiamo parlare brevemente di elementi […]»284. Rispetto alle sensazioni relative ai corpi l’io non occupa alcuna posizione privilegiata o strutturalmente diversa: così come i corpi sono unità “funzionali” affinché il nostro organismo si adatti a ciò che nel flusso vitale è più stabile, l’io è un’unità meramente “economica” ai fini delle operazioni del pensiero, ed è scomponibile negli elementi semplici che lo costituiscono. Questo implica almeno due conseguenze. In primo luogo
tutti i contrasti che la tradizione filosofica, da Platone a Kant, ha
individuato nella relazione tra io e mondo, compreso quello tra sensazione o fenomeno e cosa in sé, non hanno più senso. Mach spiega la relazione tra io e mondo nei termini dell’interazione reciproca fra tre sistemi di elementi: quello delle relazioni oggettive che costituisce il mondo fisico, quello delle relazioni soggettive appartenenti ad un corpo vivente (Leib), che costituisce un sottoinsieme del primo ed è affiancato da altri sistemi simili ( i corpi degli altri esseri umani e degli animali), quello delle volizioni, dei ricordi, delle disposizioni di un corpo in particolare che costituiscono l’io. In secondo luogo la teoria di Mach comporta che termini quali “corpo”, “oggetto fisico”, “mente”, “io” non rappresentino più sostanze autonome e indipendenti, ma simboli mentali derivati dall’abitudine con cui gli uomini trattano l’esperienza e designano nessi di apparente e relativa stabilità. Il risultato dell’analisi di Mach, e anche quello che ebbe maggiore impatto sul mondo filosofico-letterario dell’epoca, è proprio la dissoluzione della nozione di sostanzialità dell’io:
È impossibile salvare l’io. In parte questa convinzione, in parte il timore che essa suscita conducono alle più singolari assurdità religiose, estetiche e filosofiche, pessimistiche e ottimistiche. […] Non si attribuirà dunque più grande valore all’io, che muta già variamente nel corso della vita dell’individuo e può mancare in parte o del tutto nel sonno o quando ci si
immerga dimentichi di sé in un’intuizione, in un pensiero, addirittura negli attimi più felici.285
Nella prospettiva di Mach sia l’io che la cosa in sé sono insalvabili (unrettbar), tutto è scomponibile in una serie di elementi organizzati o meno secondo relazioni funzionali e di “economia” dei comportamenti o del pensiero. Il naufragio dell’io descritto dalla 284 285
Ibid., p. 52. Ibid., p. 54.
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Lettera riprende e fa emergere tutte le conseguenze che le teorie di Mach hanno per la soggettività poetica: il crollo dell’io è anche crollo dell’ordine della frase286. Wittgenstein condivide con Hofmannsthal la percezione e le conseguenze del crollo della nozione di “io” senza tuttavia approdare alle stesse conclusioni. La dottrina dell’io di Wittgenstein è molto più articolata di quella di Mach, anche se è profondamente influenzata dalla tesi dell’insalvabilità. Nel Tractatus la nozione di Io è strettamente connessa al problema di cosa sia il mondo, e può essere interpretata solo sullo sfondo della dicotomia tra dire e mostrare, tra ciò che pensiamo e dunque possiamo anche dire e ciò che non possiamo dire e quindi neanche pensare. Ciò che possiamo dire e pensare lo raffiguriamo nelle proposizioni dotate di senso, ciò che non possiamo dire e quindi neanche pensare è designato nel Tractatus dal sintagma “ il mistico”. L’indicibile, da questo punto di vista, possiede delle proprietà che lo distinguono da ciò che è immediatamente comprensibile, proprietà che non hanno niente a che fare con la questione della determinatezza del senso e sembrano essere extralinguistiche, e pertanto unsinnig: «L’inesprimibile (ciò che mi pare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato»287. Questa dicotomia, che sorge dal problema della determinazione del senso della proposizione, giustifica il contenuto delle sezioni 5.62-5.63, in cui Wittgenstein afferma che la tesi del solipsismo “Io sono il mio mondo”, per ciò che intende dire, è corretta. Perché in essa è espressa l’idea per cui tutto ciò che posso dire costituisce i limiti del mio linguaggio, e quindi anche del mio mondo. Al di là della questione di come si mostri l’identità tra i limiti del mondo e i limiti del linguaggio, è opportuno considerare che la dicotomia tra dire e mostrare produce nel Tractatus uno sdoppiamento della nozione di io. Da un lato abbiamo un io psicologico, un io dotato di proprietà psichiche che sono fatti del mondo e quindi descrivibili nel discorso scientifico; dall’altro lato troviamo invece un io filosofico, definito prevalentemente per via negativa come ciò che si distingue dal corpo o dall’anima dell’uomo perché non è un fatto osservabile e descrivibile nei termini di una scienza 286
Nella recezione del tema dell’insalvabilità dell’io di Mach, Hofmannsthal sembra muovere una critica alle conseguenze radicali del sensismo; cfr. JANIK A., TOULMIN S., op. cit., p.116: «In un certo senso l’esperienza di Lord Chandos implica una critica al sensismo di Mach; in nuce Hofmannsthal afferma che questa teoria della conoscenza – che pone nelle immagini sensibili la fondazione della conoscenza – è radicalmente insufficiente perché nei termini di mere impressioni dei sensi le più urgenti domande sulla vita e la società non solo non trovano una risposta, ma non possono nemmeno venir poste». 287 WITTGENSTEIN L., Pensieri diversi, op. cit., p. 43. Per un’analisi dell’origine dell’idea di indicibile nel Tractatus cfr. MCGUINNESS B., Approaches to Wittgenstein, Routledge, op. cit., pp. 160-174.
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come la psicologia, ma costituisce il limite del mondo e del discorso sensato288. L’io filosofico occupa per Wittgenstein una posizione di confine rispetto al discorso sensato, come se contrassegnasse la sfera di ciò che può solo essere mostrato. Esso è come l’occhio rispetto al campo visivo: nessun elemento del campo visivo ci permette di concludere che sia visto da un occhio289. La nozione di io del Tractatus rientra pertanto nel quadro più ampio della questione della proposizione, sviluppata nei termini di una teoria onnicomprensiva dei rapporti tra linguaggio e mondo volta a porre una demarcazione assoluta tra discorso sensato e insensato. Se la sostanzialità dell’ io è, come vuole Mach, insalvabile290, allora l’unica soggettività della quale ha senso parlare è la soggettività filosofica, una soggettività che costituisca il punto di partenza di ogni possibile esperienza:
288
Cfr. TLP 5.641, p. 90. Secondo B.Williams questa sezione costituisce un vero rompicapo, dal momento che Wittgenstein affermerebbe la possibilità di un senso in cui la filosofia può parlare non psicologicamente dell’io dopo aver attaccato e negato la possibilità di sensatezza per il discorso sull’io conoscente (TLP 5.631). L’unico modo in cui la filosofia può parlare dell’io filosofico è dunque quello in cui parla di qualsiasi cosa, in modo insensato (TLP 6.54); cfr. WILLIAMS B., Sorte morale, ed. it. a cura di S.Veca, Il Saggiatore, Milano 1987, pp. 187-191. C.Diamond ha ripreso questa intuizione e ha interpretato il solipsismo ineffabile del Tractatus come una strategia di implosione delle sue stesse tesi; cfr. Rileggere Wittgenstein, op. cit., pp. 112-121. Inoltre, come ha osservato R. Haller la dicotomia tra io psicologico e io filosofico del Tractatus riprende la dicotomia kantiana tra soggetto empirico e soggetto trascendentale, nei termini in cui era stata trattata da Schopenhauer; cfr. HALLER R., L’egologia di Wittgenstein, in Wittgenstein e il Novecento, a cura di R.Egidi, p. 100: «Il dualismo kantiano di soggetto empirico e trascendentale e l’interpretazione data da Schopenhauer e Weininger della soggettività trascendentale come identità di io e mondo vengono incorporati nel dualismo wittgensteiniano di dire e mostrare e ricevono pertanto una nuova interpretazione». In particolare Weininger ha individuato, in un modo che avrebbe potuto influenzare direttamente Wittgenstein, il problema del solipsismo filosofico e il suo superamento nell’esperienza estetica; cfr. WEININGER O., Delle ultime cose, tr. it. di F.Cicoira, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1985, p.89: «L’idealismo di ogni filosofia: “il mondo è la mia rappresentazione”, mostra nel modo più evidente il riassorbimento delle cose da parte dell’io del filosofo. Per l’artista, invece, l’uomo è una parte del mondo, egli si avvicina alle cose ed elimina “in tal modo” la differenza di livello tra uomo e natura». Quanto invece alla nozione di “Io filosofico” Wittgenstein costruisce nel Tractatus l’immagine di un io che resta al di fuori dal dominio degli oggetti e non è quindi una parte del mondo, cfr. HACKER P.M.S., Insight and Illusion, op. cit., p. 59: « Wittgenstein’s first point is that there is no such thing as the thinking, representing subject (dekende, vorstellende, Subject). The argument supporting this contention is the standard Humean argument of the non-encounterability of the self in experience». 289 Cfr. TLP 5.633-5.6331, p. 89. La metafora del campo visivo viene riproposta anche negli scritti della “fase di transizione”, quando Wittgenstein inizia a riflettere sulla soggettività trascendentale del Tractatus, cfr. WITTGENSTEIN L., Osservazioni filosofiche, op. cit., § 72, p. 57: «Ammettendo che si potessero rimuovere tutte le parti del mio corpo, tranne uno dei globuli oculari, e questo fosse fermamente fissato da qualche parte e conservasse la capacità di vedere, come mi apparirebbe il mondo? Non potrei percepire nessuna parte di me e, ammesso che il mio globo oculare fosse per me trasparente, non potrei vedermi neppure allo specchio. Un problema è questo: potrei localizzare me stesso in base al mio quadro visivo? “Localizzare me stesso” qui vuol dire soltanto, naturalmente, cogliere nello spazio visivo una determinata struttura». Si tratta di una suggestione che con ogni probabilità viene dalla lettura di Schopenhauer, cfr. SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di A.Vigliani, Mondadori, Milano 1989, § 7, p. 69: «Il mondo come rappresentazione, l’unico argomento che per ora ci occupi, non comincia, è vero, se non con il giorno in cui si apre il primo occhio; senza questo medium della conoscenza, non potrebbe esserci e quindi prima non esisteva». 290 Cfr. WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op.cit., 4/5. 8. 1916, p. 225, in cui il soggetto del pensiero viene definito «mera superstizione» e «vana illusione».
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Il soggetto che pensa, che immagina, non v’è. Se io scrivessi un libro Il mondo, come io l’ho trovato, vi si dovrebbe riferire anche del mio corpo e dire quali membra sottostiano alla mia volontà, e quali no, etc.; questo è un metodo d’isolare il soggetto, o piuttosto di mostrare che, in un senso importante, un soggetto non v’è: Di esso solo, infatti, non si potrebbe parlare in questo libro.291
Il naufragio della nozione tradizionale di io descritto da Hofmannsthal nel Chandosbrief è svolto da Wittgenstein fino alle più radicali conclusioni: il soggetto è mera superstizione, è vana illusione, di esso solo, senza presupporre l’esistenza del mondo e la possibilità di parlare dei fatti che lo costituiscono, non si potrebbe parlare. Vale a dire Wittgenstein nega al soggetto, alla nozione di io, quell’autonomia ontologica ed epistemologica che la tradizione filosofica da Cartesio in poi gli ha conferito in maniera netta e incontrovertibile. Ma questa attività di chiarificazione della nozione di io gli permette di trovare per la soggettività uno spazio che è salvo dalla crisi di segno e soggettività tradizionale: lo spazio della logica, quello di punto di partenza di ogni possibile esperienza. Questa posizione sembra esser ribadita nei primi anni Trenta, quando Wittgenstein comincia a ripensare la posizione “monistica” sulla natura del linguaggio fenomenologico292 del Tractatus e contemporaneamente si avvicina al verificazionismo del Circolo di Vienna. In questo periodo il filosofo austriaco tende a identificare
il
mondo
con
il
mondo
della
rappresentazione,
assumendo
fenomenisticamente che esso sia costituito da oggetti di coscienza, da dati sensoriali293: l’analisi della grammatica dei dati sensoriali dimostra che non ha senso parlare di un loro possessore, come si parlerebbe del possessore di un oggetto fisico qualsiasi. Questa assunzione è conclusa dalla constatazione che l’esperienza primaria, l’esperienza
291
TLP 5.631, p. 89. Da questa prospettiva il solipsismo del Tractatus costituisce un’ulteriore confutazione dei dubbi dello scettico sulle condizioni che rendono possibile la conoscenza del mondo esterno; cfr. MCMANUS D., Solipsism and scepticism in the Tractatus, in op. cit., p. 147: «If “I am my world”, then the sceptic, in contemplating that that world might not exist, is contemplating a situation in which the Subject would be denied not merely knowledge but the very medium of its existence too: the sceptic is asking for a proof of the existence of something without which his doubts could not so much as possible». 292 Individuando nel legame semantico tra linguaggio e realtà il fulcro del passaggio dalla “prima” alla “seconda” fase della filosofia di Wittgenstein, gli Hintikka identificano il linguaggio fenomenologico con il linguaggio d’esperienza immediata del Tractatus, e vedono nella fase di transizione una trasformazione di questo linguaggio primario in senso fisicalista, cfr. HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., pp. 203-205 e pp. 242-246. A supporto di questa interpretazione cfr. WITTGENSTEIN L., Osservazioni filosofiche, op. cit., § 1, p.3: « Il linguaggio fenomenologico o “primario”, secondo la mia vecchia denominazione, oggi non mi si presenta più come un obiettivo; oggi non lo ritengo più indispensabile. Tutto ciò che si può e si deve fare è separare ciò che nel nostro linguaggio è essenziale da ciò che non lo è». 293 Cfr. Ibid., § 47, pp. 34-35.
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immediata delle sensazioni di prima persona, ha un carattere particolare, che non può essere definita temporalmente né tantomeno può essere spazialmente localizzata:
Dicendo che solo l’esperienza presente è reale, la parola “presente” non può che essere già superflua, come in altri contesti la parola “io”. Poiché non può voler dire «presente» in contrapposizione a «passato» e «futuro». - Quella parola deve alludere a qualcosa di diverso, a qualcosa che non è in uno spazio, ma è esso stesso uno spazio. Vale a dire, non confinante con qualcos’altro ( e di conseguenza delimitabile da questo). Qualcosa insomma che il linguaggio non può legittimamente evidenziare.294
In questo paragrafo delle Osservazioni Wittgenstein riprende il solipsismo ineffabile del Tractatus, l’idea che il soggetto filosofico non entri nei limiti del discorso sensato in quanto cornice del mondo, per affermare la caratteristica principale dello spazio “primario”: quella di essere priva di proprietario (subjektlos)295 e di conseguenza condizione costitutiva del modo in cui chi comprende il linguaggio elabora l’esperienza immediata sensoriale. Sviluppando questo argomento all’interno della questione verificazionista di come il discorso sensato sia costituito a partire dal confronto con l’esperienza immediata, Wittgenstein giunge a ribadire la posizione espressa nel Tractatus sulla verità della tesi del solipsismo. Come ha osservato Voltolini, commentando questi passi delle Osservazioni, « lo spazio sensoriale (visivo, acustico, ecc.) subjektlos, infatti, è sì quel dato oggettivo primario, uno svelarsi impersonale di un intero mondo; ma è anche ciò in cui si rivela che il solipsismo è una verità non in quanto dice ma in quanto mostra; come la caratteristica dell’assoluta presenzialità, quello spazio manifesta tacitamente la proprietà dell’assoluta egoità. Esso è, potremmo dire, quell’immediato “di fronte” oggettivo di un soggetto metafisico che non entra mai nella descrizione dell’esperienza, non è una componente fattuale di essa ma ne rappresenta l’indicibile, l’insopprimibile, presupposto-limite»296. Ora, il punto qui è che l’insalvabilità dell’io diventa a partire degli anni Trenta uno dei fulcri sui quali Wittgenstein fonda la sua inversione di prospettiva, espressa dalla considerazione che proposizioni sensate del tipo “Io ho mal di denti” non sono
294
Ibid., § 54, pp. 40-41. Cfr. Ibid., § 71, pp. 56-57. 296 VOLTOLINI A., Dal solipsismo come verità ineffabile ai truismi come certezza inespressa. Fenomenologia e grammatica nel «secondo» Wittgenstein, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 15, (1985), pp. 1044-1045. Su questo punto Hacker sostiene che il solipsismo ineffabile e trascendentale del Tractatus verrebbe sostituito a partire da questi paragrafi delle Osservazioni con una forma di solipsismo metodologico, cfr. HACKER P.M.S., Insight and Illusion, op. cit., pp. 188-197.
295
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paragonabili a proposizioni, altrettanto sensate, che esprimono il possesso da parte di qualcuno di un oggetto fisico, del tipo “Io ho un portamonete”297. A differenza che nel Tractatus il mondo non è più concepito come la totalità dei fatti raffigurabili, ma soprattutto il problema dell’oggettivazione dell’io nei giochi linguistici di prima persona, viene affrontato sempre in situazioni nelle quali è scartata la possibilità che ognuno possa conoscere soltanto i propri pensieri. Wittgenstein si rivolge adesso al campo di indagine delle esperienze che chiamiamo “vissuti immediati” (unmittelbare Erlebnisse), ovvero quelle esperienze vissute in prima persona che però non sono riconducibili a disposizioni proposizionali (credere, sperare, supporre, ammettere)298 e delle quali espressione paradigmatica è l’esperienza dell’ “avere dolori”299. La considerazione dei vissuti immediati serve a far emergere come nell’uso linguistico concreto la parola “io” non possa essere sostituita con l’espressione “la persona che adesso sta parlando”. E questo perché tra l’uso della parola “io” in prima persona e l’uso della parola “io” da parte di un’altra persona esiste una differenza grammaticale non indifferente. Infatti, quando qualcuno dice “Io ho mal denti” la parola “io” è priva di significato fin quando non vediamo qualcuno che presenta tutti i comportamenti tipici dell’esperienza “mal di denti”, mentre invece quando diciamo in prima persona “Io ho mal di denti”, la parola “io” non designa nessuno; perché l’intera proposizione è una articolazione linguistica di una reazione immediata all’esperienza del mal di denti:
Quando io uso “Io ho dolori”, la proposizione è un segno di genere completamente diverso da quello che è per me sulla bocca di un altro; e precisamente perché, sulla bocca di un altro, per me il segno è privo di senso finché non so quale bocca l’ha pronunciato. In questo caso il segno proposizionale non consiste nel solo suono, ma anche nel fatto che questa bocca lo emette. Mentre nel caso in cui lo dica o lo pensi io, il segno è solo il suono.300
Tra l’io pronunciato in prima persona e l’io pronunciato in terza persona relativamente all’espressione di un vissuto immediato come l’avere dolori c’è un’asimmetria irriducibile, dalla quale Wittgenstein conclude che esistono usi diversi della parola “io” non tutti riconducibili al ruolo dell’io filosofico del Tractatus: 297
Cfr. WITTGENSTEIN L., Osservazioni filosofiche, op. cit., § 61, pp. 46-47. Nel Tractatus Wittgenstein tratta le disposizioni proposizionali del tipo “A crede che p” non tanto come ascrizioni di esperienze ad un soggetto psicologico che le considera proprie quanto, coerentemente con la sua prospettiva sulla nozione di Io, come proposizioni della forma “ “p” crede che p”; cfr. TLP 5.542, p.85. 299 Cfr. WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., sez. XIV, § 104, pp. 490-500. 300 Ivi, p. 491. 298
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Voglio descrivere una situazione in cui non sarei tentato di dire che ho supposto o creduto che l’altro abbia ciò che io ho; o, in altre parole, una situazione in cui non [parleremmo] della mia coscienza e della sua coscienza. E in cui non ci verrebbe l’idea che possiamo essere consapevoli solo della nostra coscienza. L’idea, da abolire, di un ego che abita il corpo. Qual[unque] coscienza [vi sia], se essa è diffusa in tutti i corpi umani, allora non vi sarà alcuna tentazione di usare la parola “ego”. 301
Il filo conduttore tra le sezioni del Tractatus e le annotazioni per le lezioni dei primi anni Trenta è quindi la liquidazione della sostanzialità dell’io, perseguita questa volta dalla prospettiva del significato come uso, come prassi fondamentalmente sociale. L’impossibilità di identificare l’io con il corpo o con la persona che sta parlando, e tantomeno con qualcosa che si trova nel corpo o nella persona, è una conseguenza non tanto della delimitazione del discorso sensato quanto della funzione sociale che la parola veicola rispetto all’articolazione linguistica di esperienze vissute immediate come il dolore: «La parola “io” non designa una persona. Ricorda che qualsiasi cosa significhi per te la parola “io”, all’altro esso mostra /attira l’attenzione su/ un corpo umano, altrimenti non ha alcuna importanza»302. Wittgenstein pensa, a partire dagli anni Trenta, che esistano una varietà di giochi linguistici nei quali cerchiamo di esprimere la prospettiva in cui il soggetto detiene una posizione centrale attraverso l’uso della parola “io”. Questa prospettiva determina l’illusione che “io” abbia un ruolo grammaticale di primo piano, “speciale”, rispetto a tutte le altre parole: «Il solipsismo potrebbe essere confutato dal fatto che la parola “io” non ha una collocazione centrale nella grammatica, ma è una parola come ogni altra. Se nel mondo ci fossero essenzialmente un soggetto e un oggetto, la parola “io” dovrebbe contrapporsi alle altre parole in una maniera unica nel suo genere»303. Il fatto che il solipsista conferisca alla parola “io” il ruolo di baricentro grammaticale gli appare legato alla “mera superstizione” dell’esistenza di un portatore, sia esso fisico o “spirituale”, delle esperienze immediate come il provare un dolore; come generalizzazione illegittima del fatto che un enunciato del tipo “io ho un dolore” è verificato solo quando ho dolore: 301
WITTGENSTEIN L., Esperienza privata e dati di senso, ed. it. a cura di L. Perissinotto, Einaudi, Torino 2007, p. 25. 302 Ibid., p. 28. L’idea che l’io sia una sorta di segnalatore, di richiamo verbale, sull’esistenza di un corpo umano, è sviluppata da Wittgenstein almeno a partire dal 1933-1934; cfr. WITTGENSTEIN L., Libro blu e Libro Marrone, op. cit., pp. 83-84. 303 WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit, p. 494.
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“Non posso sentire dolore nel Suo dente”. “Non posso sentire il Suo mal di denti”. La prima proposizione ha senso. Esprime una conoscenza empirica. Se mi domandassero: Dove fa male? Indicherei il Suo dente. Se si tocca il Suo dente, sussulto. In breve, è il mio dolore e sarebbe pur sempre il mio dolore se anche Lei manifestasse i sintomi del dolore nello stesso punto, se sussultasse come me quando si preme il dente. La seconda proposizione è un puro non-senso. Una proposizione di questo genere è vietata dalla sintassi. La parola “io” appartiene a quelle parole che si possono eliminare dal linguaggio.304
La centralità della parola “io” nella grammatica del solipsista non fa allora che farci rilevare la sua credenza metafisica in uno spazio sensoriale primario305, dell’esperienza vissuta immediata, che possa essere sensatamente raffigurato nelle espressioni linguistiche sul dolore. La posizione del solipsista in cui l’Io gioca il ruolo di baricentro/portatore delle sensazioni è un’immagine fuorviante del discorso filosofico, una «rappresentazione figurata della nostra grammatica»306 dalla quale Wittgenstein ci mette in guardia. Ciò che il filosofo austriaco concepisce chiaramente, in continuità con Mach è la possibilità di eliminare la parola “io” dai nostri giochi linguistici; essa non fa altro che raffigurare un tratto comune a tutti i giochi linguistici in cui la soggettività gioca un ruolo centrale. Per questo motivo la parola “io” non ha un ruolo decisivo, non designa alcunché: « L’esperienza della sensazione di dolore ai denti non è quella per cui una persona, Io, ha qualcosa»307. Allo stesso modo, «l’inerzia spirituale» di Lord Chandos non rimanda alla crisi di un portatore di questa patologia che sta dietro la funzione organizzatrice delle sensazioni e dell’ordine del discorso, esprime piuttosto il venir meno di un prospettiva sul mondo, sulla totalità dei fatti, in cui la soggettività del Lord occupa una posizione centrale. L’oggettivazione della parola io in un soggetto di qualche tipo, sia esso psicologico o metafisico, è un caso di nonsenso filosofico che 304
Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, op. cit., p. 37. Nelle osservazioni che costituiranno le Ricerche Wittgenstein viene gradualmente abbandonando l’idea ereditata dal Tractatus della possibilità di descrivere uno spazio sensoriale primario, anche assumendo la posizione del solipsismo ineffabile, per trasferirne il ruolo e l’importanza sulla prospettiva antropologica delle forme di vita; cfr. VOLTOLINI A., Dal solipsismo come verità ineffabile ai truismi come certezza inespressa, op. cit., pp. 1061 e sgg., in particolare Wittgenstein si farebbe persuaso che l’idea di uno spazio sensoriale subjektlos come base della conoscenza giustifica, invece di ridurre a mero nonsenso, il dubbio scettico sulla conoscibilità e comprensibilità degli stati mentali altrui. Questo mutamento di prospettiva è riscontrabile a mio parere nel modo in cui a distanza di anni ricorre rispetto a questo tema una metafora, la metafora del despota/re che si concepisce come centro del linguaggio della propria nazione/tribù; cfr. WITTGENSTEIN L., Osservazioni filosofiche, op. cit., § 58, p. 44 con WITTGENSTEIN L., Della certezza, op. cit., § 92, p. 18: nel secondo caso la metafora sposta l’accento sulla presenza di differenti tessuti simbolici, di differenti Lebensformen, nell’esistenza degli uomini. 306 RF § 295, p. 134. 307 WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 492.
305
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secondo Wittgenstein degenera nell’asserzione delle tesi del solipsismo. L’impossibilità di salvare l’io rende manifesta l’assunzione erronea nella soluzione tradizionale a questo problema: se non esiste un substrato materiale del pronome “io”, allora deve esserci un substrato non-materiale, un portatore delle proprietà dell’Io designato dal pronome personale. Pertanto, come osserva Haller: «L’impossibilità di salvare l’Io di cui parlava Mach non consiste, secondo Wittgenstein, nel fatto che vi sarebbero soltanto elementi e complessi di elementi che possono essere intesi, da un lato, come sensazioni, pensieri, sentimenti, ecc. e, dall’altro, come corpi. Tale impossibilità consiste piuttosto per Wittgenstein nel fatto che l’impiego del pronome personale “io”, in primo luogo, non può essere considerato dimostrativo, indicativo e non può neanche valere come un sostituto della posizione centrale detenuta dalla nostra propria prospettiva»308. Quello che a Wittgenstein preme di dimostrare è che nell’uso della parola “io” si nasconde spesso un’intenzione filosofica di assumere implicitamente la centralità della nostra prospettiva, quando invece nel linguaggio quotidiano il pronome “io” funziona come una sorta di segnalatore della possibilità di una prospettiva di prima persona che non sia necessariamente la sola, e che non occupi necessariamente, rispetto alla verifica della proposizione, una posizione privilegiata. Vedremo nel prossimo paragrafo come lo stesso Hofmannsthal, uscito dalla crisi del Chandosbrief, abbia considerato questa prospettiva “decentrata” sull’io quale possibile soluzione al problema della sua insalvabilità.
2.2.2 Silenzio e azione intenzionale in L’uomo difficile
È solo dopo l’esperienza traumatica della guerra, di quella guerra che Wittgenstein aveva combattuto in prima linea e da cui era uscito con il manoscritto del Tractatus, che Hofmannsthal ritorna direttamente sul tema del silenzio e sulla crisi del soggetto tradizionale. L’occasione è la commedia L’uomo difficile del 1921. L’apparenza superficiale dell’ambientazione mondana, l’intimità velata degli interni viennesi in cui si svolgono le vicende309, tradiscono una riflessione molto più complessa sui limiti del linguaggio e sulla voragine tra parole e azioni registrata già dalla crisi della Lettera di
308
HALLER R., L’egologia di Wittgenstein, in op. cit., p. 112. Cfr. MAGRIS C., L’anello di Clarisse, op. cit., p. 56: «La commedia si svolge su questo duplice piano di un’interiorità fragile e profonda, ma pudicamente contenuta, e di un’amabile superficie di intrecci sorridenti, equivoci lievi e giochi teneri e maliziosi» 309
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Lord Chandos. L’aristocratico viennese Hans Karl Bühl, ritornato dal fronte, vive in un decoro silenzioso, cercando di evitare gli incontri mondani e le innumerevoli possibilità di equivoco che si celano nelle conversazioni. La commedia ruota attorno a questo decoroso silenzio e al modo in cui il protagonista, senza mai agire e senza esprimere le proprie intenzioni, riesca a sposare la donna amata da sempre, Helene Altenwyl. Accanto alla figura di Hans Karl «l’uomo che non sa agire, che comprende molte cose ma è perennemente impedito da una troppo profonda consapevolezza delle contraddizioni della vita e da una naturale ripugnanza all’azione»310, si trovano una serie di personaggi prigionieri delle proprie parole e vittime degli equivoci che nascono dal silenzio del protagonista. In primo luogo la sorella di Hans Karl, Crescence, assolutamente convinta della passione di Hans Karl per la moglie di un amico, ma anche il nipote Stani il quale si sforza in ogni modo di imitare i comportamenti dello zio311, e tutte le persone con cui Hans Karl intrattiene silenziose relazioni. Qualunque cosa egli dica o alla quale semplicemente accenni viene equivocata dai suoi interlocutori: dal fatto che senza alcun segnale preciso la sorella gli attribuisca l’intenzione di voler combinare un matrimonio tra Stani ed Helene, all’interpretazione della benevolenza e sincerità nei confronti di Antoinette Heichingen come una forma di seduzione, fino all’equivoco sul significato dei suoi atteggiamenti più banali e quotidiani. Per questo partecipa riluttante, nell’atto conclusivo, alla festa in casa Altenwyl, per sciogliere, consapevole del fascino che la sua intelligenza silenziosa esercita sugli altri, alcuni nodi sentimentali che bloccano i suoi amici e i suoi familiari: vuole convincere la sua vecchia amante Antoinette a tornare tra le braccia del marito, un suo ex commilitone semplice e bonario, vuole combinare il matrimonio tra Stani e Helene la donna che egli stesso ama senza confessarselo. Il risultato del suo ingresso in scena non corrisponde tuttavia alle realizzazione delle intenzioni di partenza: Antoinette rifiuta il marito perché convinta di essere stata definitivamente respinta dal suo ex amante, e nel tentativo di comunicare ad Helene le intenzioni matrimoniali di Stani, Hans Karl finisce per raccontarle di una visone avuta durante l’incubo della trincea, in cui lei era la sua sposa312. Senza essersi mai reciprocamente confessati i propri sentimenti Hans Karl ed Helene, alla fine della commedia, si scambiano una promessa
310
MAGRIS C., Il mito absburgico, op. cit., p. 250. Cfr. HOFMANNSTHAL H.V., L’uomo difficile, op. cit., pp. 35-36: « È questo che ammiro in te: tu parli poco, sei così distratto e fai tanto effetto. Perciò trovo del tutto naturale ciò che fa tanto chiacchierare la gente: che tu occupi da un anno e mezzo il tuo seggio alla Camera Alta ma non prendi mai la parola. […] Tu non miri mai a qualcosa e non cerchi mai di persuadere, proprio in questo sta la tua eleganza». 312 Ibid., pp. 102-103. 311
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di matrimonio, annullando con la forza delle azioni la catena di equivoci che l’addensarsi della conversazione mondana attorno al silenzio del protagonista aveva creato negli atti precedenti313. Causa e allo stesso tempo effetto di questi equivoci è il silenzio di Hans Karl, silenzio frutto della convinzione che ogni parola sia indecente e si basi su un’altrettanto «indecente sopravvalutazione di se stessi»314, e che culmina nella sua reticenza a tenere un discorso alla Camera Alta, della quale è membro per diritto ereditario. Nelle parole di Hans Karl, Hofmannsthal riprende il tema della sfiducia nel linguaggio della Lettera di Lord Chandos per affrontarlo da una prospettiva in cui la crisi del soggetto poetico è stata metabolizzata e superata nella rappresentazione di un Io limitaneo rispetto al senso delle parole, l’io di Hans Karl315. La scoperta dell’assenza di potere denotativo delle parole, conclusione drammatica della Lettera, si riversa qui nella consapevolezza da parte del protagonista di essere condannato all’incomprensione, all’equivoco. Come ha osservato Cacciari tale equivoco ha un fondamento «ancor più essenziale» che esprime la «condizione originaria tragica del parlare». Hans Karl si apre alla dilacerante contraddizione per cui la parola non è un atto di sintesi e dominio delle cose, ma rinuncia alla possibilità di individuarne l’essenza, il Wesen: «Qui sta la radice metafisica dell’Equivoco: è impossibile senza “farsi immagini” del Wesen, senza “dare l’impressione” di nominarlo – eppure l’atto stesso del parlare dimostra la falsità di quella immagine, l’impossibilità di questo nome»316.
Quello che voglio dire è che
nell’uomo difficile Hans Karl, Hofmannsthal rappresenta la soggettività filosofica del Tractatus immersa suo malgrado nella conversazione, nel discorso insensato su «tutto ciò che importa» e che sta al di là delle parole. Hans Karl è la rappresentazione coerente della prigionia nelle immagini vuote della conversazione mondana317, diametralmente contrapposta alla figura di Stani, nella quale Hofmannsthal fa la parodia del tentativo di parlare in modo “definitivo”, di individuare denotazioni univoche nelle parole. Dunque, la titubanza all’azione e il deferimento della scelta sono aspetti del suo carattere legati alla sfiducia nel potere denotativo delle parole e parimenti alla posizione 313
Cfr. MITTNER L., Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino, 1971, p. 1011: « Ora la grande trovata o piuttosto l’essenza più profonda della commedia consiste in ciò, che mentre nelle altre commedie gli equivoci nascono da quel loro elemento fondamentale che è la conversazione, qui nascono dal silenzio». 314 HOFMANNSTHAL H.V., L’uomo difficile, op. cit., p. 96: «Certo è un po’ ridicolo immaginarsi di esercitare Dio sa quale effetto con parole ben tornite in una vita dove alla fine tutto ciò che importa sta al di là di ogni parola. Il discorrere si fonda su un’indecente sopravvalutazione di sé». 315 Cfr. CACCIARI M., Dallo Steinhof, op. cit., p. 99. 316 Ivi. 317 HOFMANNSTHAL H.V., L’uomo difficile, op. cit., p. 21: «Alla lunga, nelle conversazioni, tutto ciò che si usa chiamare intelligente mi appare sciocco e piuttosto lo sciocco intelligente…».
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di limite irrappresentabile che l’io di Hans Karl occupa rispetto al discorso: «L’aristocratico rappresenta sé, s’impone a tutti col suo tatto, col suo auto dominio, con la sua leggerezza di tono, che in Hans Karl è reale indifferenza rispetto alla vita, rispetto agli scopi da raggiungere nella vita; ma questi scopi egli poi li raggiunge proprio perché evita ogni Direktheit, ogni parola o azione volta direttamente al conseguimento di uno scopo qualsiasi»318. La cosa interessante da notare, in una prospettiva wittgensteiniana, è che nella rappresentazione delle azioni di Hans Karl, Hofmannsthal è consapevole che il suo personaggio non possa essere definito né libero, né soggetto ad una qualche ragione metafisica superiore: «Tutto ciò che avviene, avviene per caso. Non ci s’immagina quanto accidentali noi tutti siamo, e come il caso ci avvicini e ci allontani, e come ciascuno potrebbe vivere con ciascuno se il caso lo volesse»319. Nel Tractatus Wittgenstein aveva contestato una caratteristica tipica della mentalità scientifica moderna, quella della tendenza a pensare le leggi naturali come strutture necessarie per la spiegazione dei fenomeni (TLP 6.371). Così come gli antichi vedevano nel fato un limite dell’autodeterminazione, la scienza moderna ha individuato nella necessità delle leggi naturali il limite all’operare e al comprendere umano all’interno della natura, con l’importante differenza però che i primi si arrestavano di fronte a questo limite mentre una prerogativa fondamentale della scienza moderna è la spiegazione della totalità dei fenomeni naturali (TLP 6.372)320. Le proposizioni che cercano di dire questa astratta necessità deterministica alla base delle leggi naturali, poiché raffigurerebbero una caratteristica strutturale della realtà così com’è descritta dal discorso scientifico, sarebbero puri nonsensi. Le proposizioni sui principi della scienza moderna come il principio d’induzione o la legge di causalità mostrano il loro senso nell’asserzione tautologica che “esistono leggi naturali”, ma non possono dispiegarlo nella combinazione di segni linguistici con cui cerchiamo di enunciarle (TLP 6.36). I principi della fisica mostrano in definitiva un tratto comune a tutte le descrizioni scientifiche del mondo: quello della conformità dei fenomeni naturali a delle leggi321. L’uomo difficile, 318
MITTNER L., op. cit., p. 1011. HOFMANNSTHAL H.V., L’uomo difficile, op. cit., p. 85. 320 Cfr. WITTGENSTEIN L., Zettel, op. cit., § 680, p. 142: «Il fato si contrappone alla legge di natura. Della legge di natura si vuole cercare il fondamento; la legge di natura si vuole impiegare. Il fato no». 321 Anticipando alcuni esiti nell’ambito della filosofia della scienza analitica e postanalitica, Wittgenstein sostiene che una descrizione scientifica del mondo può essere corretta o meno a seconda che catturi o meno in un sistema coerente di raffigurazione certe regolarità; cfr. WITTGENSTEIN L., Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, ed. it. a cura di A.Voltolini, Einaudi, Torino 2006, pp. 61-62: «Sapete che tutta la scienza ricominciò da capo al tempo di Galileo, con la legge di gravitazione e l’osservazione dei pianeti – con la scoperta delle più ovvie regolarità. Tutta la scienza fu incoraggiata 319
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Hans Karl, durante l’esperienza traumatica vissuta in trincea, diventa consapevole di questo limite, ed esprime nella “scelta” del silenzio la comprensione del fatto che il mondo, la totalità dei fatti, sia indipendente dalla sua volontà (TLP 6.373). Anticipando una soluzione che richiama da vicino l’enfasi del “secondo” Wittgenstein per gli aspetti prassiologici e antropologici del linguaggio, il protagonista della commedia di Hofmannsthal vede nell’analisi dell’uso della parola “io” e nella sua dismissione dal dominio degli enti soggetti alla necessità fisica la possibilità di ricavare uno spazio intersoggettivo d’azione, libero dall’illusione che il soggetto della conoscenza possa comprendere e spiegare tutto. Per Hans Karl ogni decisione, ogni scelta definitiva, si nutre dell’illusione dell’esistenza di un io che prende queste decisioni, che opera con la sua volontà nel mondo. Al contrario, ciò che gli interessa è il percorso attraverso cui matura una scelta, è l’insieme di ragioni psicologiche e convenzionali attraverso cui giustifichiamo le nostre azioni: «A me niente interessa di più di come si arriva da una cosa ad un’altra»322. Sembra quasi che nella scena finale della commedia, quella in cui Crescence comunica ad Altenwyl con un abbraccio il fidanzamento ufficiale tra Hans Karl ed Helene323, Hofmannsthal volesse rappresentare lo scioglimento del tema dell’indecenza delle parole, della loro incapacità a denotare, nel rito, nel significato simbolico di un gesto in un preciso contesto324. Quello che vorrei emergesse dal confronto con la trattazione wittgensteiniana del problema della libera volontà è che Hans Karl «giunge parimenti al vertice della rinunciataria rassegnazione, pronto a tirarsi in disparte, a restare estraneo al gioco delle passioni umane che s’intrecciano intorno a lui», non solo e perché nella sua figura confluisce «tutta la tradizionale statica spirituale del personaggio austriaco»325. Nel silenzio di Hans Karl si cela la consapevolezza che parlare di un’azione come intenzionale o volontaria , piuttosto che come non-intenzionale, abbia a che fare dall’osservazione di regolarità quando queste erano ovvie. Per esempio, prendete il caso dello sparare: là vedete una regolarità reale. Questo è ciò con cui davvero Galileo cominciò, con la balistica. Non avremmo mai detto “se solo conoscessimo le leggi, allora…” se non avessimo avuto la scienza; e la scienza poteva cominciare solo con regolarità ovvie, per continuare poi con regolarità meno ovvie». 322 HOFMANNSTHAL H.V., L’uomo difficile, op. cit., p. 38. 323 Ibid., p.139: «E per questa [la storia della famiglia] ci sono da mille anni certe forme appropriate e accettate. Ciò a cui abbiamo assistito stasera è stato bene o male, se si vuol proprio dargli un nome, un fidanzamento. […] Mamu, tu sei la parente più stretta di zio Kari, là c’è Poldo Altenwyl, il padre della sposa. Avvicinati a lui sans mot dire e abbraccialo, e tutta la faccenda acquisterà il suo aspetto giusto, ufficiale». 324 Secondo Cacciari questo scioglimento si realizza già nell’intesa prelinguistica, e dunque scevra di equivoci, che Hans Karl ed Helene raggiungono nel dialogo finale, cfr. CACCIARI M., Dallo Steinhof, op. cit., p. 100: «La scena conclusiva tra Hans Karl ed Helene segna, in Hofmannsthal, il confine estremo di un’utopia radicalmente contraddittoria: trovare dimora terrena, all’interno della KonventionKonversation, riuscire a comunicarsi – trovare nella parole comune l’essenzialità del rapporto». 325 MAGRIS C., Il mito absburgico, op. cit., pp. 250-251.
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soltanto con la scelta di direzioni grammaticali differenti per la descrizione di un evento. Anche Wittgenstein, alla fine degli anni Trenta, sembra tentato di trattare il problema della libertà del volere umano come il risultato dell’adozione di un sistema di descrizione dei fatti che sia alternativo e non necessariamente contraddittorio rispetto a quello utilizzato dal discorso scientifico:
Io mi trovo in questa stanza, libero di andare dove mi aggrada. Supponete che nella stanza sotto vi sia un uomo, abbia della gente con lui, e dica: «Guardate, io posso fare andare Wittgenstein esattamente dove voglio». Ha un meccanismo che regola con una manovella, e voi vedete (con uno specchio) che io cammino esattamente come vuole quell’uomo. Allora qualcuno viene da me e dice: «Eri trascinato qua e là? Eri libero?» Io dico: «Certo che ero libero».326
Probabilmente, Wittgenstein pensa che il sistema di descrizione dei fatti in cui riteniamo le nostre azioni libere, il modello intenzionalista, sia l’effetto nella nostra forma di vita della nostra ignoranza rispetto a tutte le leggi fisiche. Il modello di descrizione dell’azione intenzionale è fondato su una sorta di inconsapevole cecità al mondo deterministico dei fenomeni fisici: «Quando parliamo di scegliere e qualcuno dice che questo non è compatibile con il calcolo della nostra scelta, potremmo dire: “Allora la nostra scelta dipende dalla nostra ignoranza. Se non fossimo ignoranti come siamo non avremmo alcuna scelta”. Potreste dire: “La nostra apprensione del libero arbitrio è dovuta solo alla nostra ignoranza delle leggi di natura”. Sembra che, se conoscessimo queste leggi, dovremmo dire che non abbiamo libero arbitrio»327. Una soluzione grammaticale alla questione del volere pare essere adombrata da Wittgenstein anche nelle Ricerche, dove parlare di un’azione volontaria o intenzionale si configura come l’espressione di una particolare forma di descrizione di quell’evento, una forma di descrizione attraverso cui esprimiamo una previsione sulla base dell’osservazione di certe regolarità. Che il problema della volontà non sia un problema esclusivamente empirico, legato allo scarso sviluppo dell’indagine psicologica è espresso da Wittgenstein in questi termini:
La connessione tra il nostro problema principale [il significato delle espressioni di dolore NdA] e il problema epistemologico della volontà mi è già venuta in mente una volta, qualche
326 327
WITTGENSTEIN L., Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, op. cit., p. 66. Ibid., p. 77, cfr. TLP 5.1362.
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tempo fa. Se in psicologia compare un problema così ostinato, non si tratta mai d’una questione sull’esperienza di fatto (una questione così è sempre molto più arrendevole) ma d’un problema logico, e dunque d’un problema grammaticale in senso proprio.328
Il punto qui è che per il filosofo austriaco il problema della natura della volontà, il problema del significato delle proposizioni che descrivono un’azione volontaria, si situa in uno spazio di ricerca che ha a che fare con le condizioni di possibilità di queste descrizioni. Da una prospettiva logica e non psicologica, il significato della parola “volere” all’interno di una proposizione con cui designiamo un’azione non può esser identificato né con l’azione stessa né con una presunta causa dell’azione329. La grammatica della parola “volere”, rileva Wittgenstein, è molto più ambigua e sfumata della grammatica di una parola che designa una causa in un meccanismo causale; il “volere” non è un mezzo con cui provochiamo un’azione:
Un tizio si provoca uno sternuto o un accesso di tosse, ma non un movimento volontario. E la volontà non provoca lo sternuto, e neppure il camminare. Il mio modo d’esprimermi è venuto di qui: che pensavo al volere come a un produrre – non però come a una causa, ma – vorrei dire – come a un produrre diretto, non-causale. E a fondamento di quest’idea sta la rappresentazione del nesso causale come della connessione di due parti di una macchina per mezzo d’un meccanismo, per esempio per mezzo di una serie d’ingranaggi.330
Il “volere” sarà allora il desiderio, per così dire istantaneo, per mezzo del quale realizziamo un’azione? Secondo Wittgenstein neanche questa è la pista giusta perché in tal caso il desiderio “motore” dell’azione finirebbe per essere indistinguibile dall’azione stessa. Se infatti il “volere” fosse l’azione descritta dalla proposizione in cui compare, allora l’uso di questa parola designerebbe allo stesso tempo l’azione e il desiderio di realizzarla; non saremmo in grado di distinguere dove si arresta questo desiderio, se prima che l’azione si realizzi o se continui anche durante: « Se è l’azione, lo è nel senso ordinario della parola; dunque: parlare, scrivere, camminare, sollevar qualcosa, immaginare qualcosa. Ma anche: tentare, provare, sforzarsi, - di parlare, di scrivere, di sollevar qualcosa, di immaginar qualcosa, e così via»331. Una volta scartata
328
WITTGENSTEIN L., Zettel, op. cit., § 590, p. 124. RF §§ 611-615, pp. 209-210. 330 WITTGENSTEIN L., Zettel, op. cit., §§ 579-580, p.122. 331 Ivi, § 615. 329
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l’ipotesi che il “volere” sia una causa (un mezzo) del tipo del desiderio, Wittgenstein vaglia l’ipotesi riduzionista dell’identificazione del “volere” con la sensazione localizzata nella parte del corpo per mezzo della quale realizzo l’azione332. Ma anche in questo caso la spiegazione della grammatica di “volere” si rivela insufficiente, perché l’osservazione della sensazione con cui identifichiamo il “volere”, ad esempio l’osservazione di un braccio che si solleva per prendere qualcosa, richiede a sua volta un’intenzione di guardare a questo evento che non è presente quando compiamo l’azione in un contesto ordinario. Quando non filosofiamo e agiamo spontaneamente non pensiamo mai, prima di agire, a localizzare con il pensiero una sensazione nel corpo che serva da mezzo per realizzare l’azione333. Cos’è allora l’azione volontaria? Wittgenstein non fornisce una risposta diretta a questa domanda, si limita ad osservare che il problema della volontà sorge in relazione a quei giochi linguistici nei quali facciamo, a partire dall’osservazione di certe regolarità nei comportamenti degli esseri umani, previsioni sulle azioni future di un individuo: «Spesso possiamo predire l’azione di un uomo basandoci sulla manifestazione della sua decisione. Un gioco linguistico importante»334. Il punto qui è che per il filosofo austriaco il modello spontaneista o intenzionale di descrizione esprime nei giochi linguistici con la parola “volere” la manifestazione regolare di determinate decisioni (desideri, opinioni, credenze) all’interno di pratiche codificate e regolate di una forma di vita. Questa componente antropologica della grammatica di “volere” ha il suo limite nella storia naturale degli uomini, nel modo in cui il linguaggio si sviluppa quale reazione ai bisogni naturali degli uomini. Ciò non toglie che il “fenomeno originario” da cui si articola questa prassi linguistica sia l’espressione “naturale” di un’intenzione335.
332
Ibid., §§ 625-626, pp. 212-213. Ibid., § 627, p. 213. 334 Ibid., § 632, p. 214; cfr. WITTGENSTEIN L., Zettel, op. cit., § 600, p. 126: «Ma come faccio a sapere che questo movimento era volontario? – Non lo so, lo manifesto». 335 RF § 647, p. 217. La Anscombe ha rilevato come parlando di “espressione naturale” di un’intenzione Wittgenstein fosse incorso in una contraddizione, perché questa definizione suggerirebbe da un lato che l’intenzione sia prelingusitca (dunque qualcosa che anche gli animali possono avere), dall’altro che essa si manifesta e possa essere compresa solo attraverso un’espressione convenzionale come quella linguistica; cfr. G.E.M. ANSCOMBE, Intenzionalità, tr. it. di C.Sagliani, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2004, p. 41: « L’intenzione sembra essere qualcosa che noi possiamo esprimere, ma che gli animali bruti (che per esempio non danno ordini) possono avere, se pure senza alcuna distinta espressione di intenzione. Infatti i movimenti di un gatto nell’inseguire furtivamente un uccello possono difficilmente essere definiti come espressione di un’intenzione. Si dovrebbe ugualmente definire lo spegnersi del motore di una macchina l’espressione del suo stare per fermarsi. L’intenzione non è, da questo punto di vista, come l’emozione, la cui espressione è puramente convenzionale; potremmo dire “linguistica”, se consideriamo compresi entro la sfera del linguaggio alcuni movimenti del corpo che hanno un significato convenzionale». 333
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In sintesi, la dissoluzione del problema della volontà e del libero arbitrio ricalca il modo in cui il filosofo scioglie i rapporti tra fatti e adozione di una grammatica di descrizione del mondo, tra mondo (nel senso del Tractatus) e linguaggio: la grammatica è arbitraria nella misura in cui non è condizionata dai fatti di natura e tuttavia, se l’insieme di questi fatti, o almeno quei fatti di natura che fanno da sfondo normativo al resto della grammatica, mutassero allora sarebbe concepibile l’adozione di una grammatica diversa336. La nostra immagine del mondo è lo “sfondo”, il “dato”, che si è sedimentato nella storia naturale della forma di vita umana e sul quale giudichiamo la verità o la falsità delle proposizioni empiriche del nostro linguaggio, comprese le proposizioni con cui descriviamo un’azione volontaria. I nostri concetti, dunque, anche quelli che utilizziamo nello schema di descrizione del mondo volontaristico, dipendono in ultima istanza dal modo in cui la nostra forma di vita si è adattata a certi «fatti generalissimi della natura»337, come l’alternanza di giorno e notte o il fatto che la vita degli individui abbia un termine. È questa matrice naturalistica e allo stesso tempo antropologica a fare in modo che l’azione volontaria in un determinato contesto sia una reazione prevista, o meglio “calcolata” all’interno del contesto: «Quando la gente parla della possibilità di prevedere il futuro dimentica sempre il fatto della predizione dei movimenti volontari»338. Il protagonista della commedia di Hofmannsthal, Hans Karl, è la perfetta incarnazione di questo atteggiamento nei confronti della volontà e degli atteggiamenti intenzionali. Il suo rifiuto nei confronti dell’azione, la sua ritrosia a prendere scelte definitive, sono conseguenze del modo in cui egli considera l’azione volontaria, l’intenzione, quale espressione di una sopravvalutazione di sé che passa per le parole. Egli proietta il proprio atteggiamento nei confronti degli altri e delle loro azioni nella maschera del pagliaccio Furlani, nella sua involontaria comicità: «Tutti gli altri sono guidati da una intenzione e non guardano né a destra né a sinistra, anzi trattengono il fiato fino a che non hanno raggiunto il loro scopo: in questo consiste appunto la loro destrezza. Ma lui sembra non faccia mai nulla con intenzione… anzi si presta sempre alle intenzioni degli altri»339. Anche Hans Karl, consapevole dell’illusione grammaticale alla base della descrizione di qualsiasi azione volontaria, si presta alle intenzioni degli altri quasi per cortesia, e senza mai cedere al proprio orgoglio torna in casa Altenwyl per rivedere
336
Cfr. WITTGENSTEIN L., Della certezza, op. cit. §§ 94-97, p. 19. Cfr. RF II, XII, p. 299. 338 Ibid., § 629, p. 213. 339 HOFMANNSTHAL H.V., L’uomo difficile, op. cit., pp. 67-68.
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Helene: «Quando sono uscito dal circolo, ero assolutamente deciso, pere certe ragioni a partire domattina. Questo è stato all’angolo della Freyung con la Herrengasse. Lì c’è un caffè, ci sono entrato e ho telefonato a casa; poi, quando sono uscito dal caffè, invece di attraversare la Freyung e svoltare, com’era mia intenzione… ho rifatto la Herrengasse e sono rientrato qui…»340. Il tema dell’azione volontaria, del modello di descrizione del mondo intenzionale, è la chiave di volta per comprendere il modo in cui Hofmannsthal rappresenta l’Io di Hans Karl in una contrapposizione silenziosa e passiva rispetto agli altri personaggi. Questi (se si escludono Helene e il vecchio cameriere Lukas) sono destinati ad essere traditi dalle parole, perché la loro comprensione delle parole altrui, del discorso intersoggettivo, è completamente in funzione del proprio io. E così Antoinette Hechingen interpreta i silenzi di Hans Karl come segnali di rottura della loro relazione amorosa perché pensa al ruolo che ricopre nella vita di questi come ad un ruolo centrale; il barone Neuhoff vuole conquistare la mano di Helene esclusivamente per affermare attraverso il matrimonio con una donna bella e intelligente il proprio carisma sociale; Stani vuole apparire come suo zio per riscuoterne lo stesso successo in società; il cameriere Vinzenz vuole conoscere vizi e virtù del proprio padrone per assumere il controllo della casa in cui serve. Come ha osservato Glenn Guidry: «All of these figures are transparently egocentric, and their self-centred understanding of others result in “self-peroration” and in hasty judgements of the intentions of others»341. Ad ogni modo non mi sembra che la relazione tra Hans Karl ed Helene rappresenti un superamento della crisi della parola e della sfiducia nel linguaggio, determinata da questo atteggiamento egocentrico dei personaggi della commedia di Hofmannsthal. Al contrario, secondo Guidry la causa prima delle incomprensioni non è il linguaggio in sé, la sua natura, ma l’uso che se ne fa nell’interazione sociale. Fare del tema dell’incomunicabilità una questione ontologica, per cui l’incomprensione tra i personaggi nascerebbe dal fatto che le parole non possono rispecchiare la realtà (come nella Lettera), vuol dire mettere in questione nella sua interezza la possibilità della comunicazione e ricadere in questo modo nell’autocontraddittorietà dello scettico radicale. Questa considerazione porta Guidry a concludere che la sfiducia di Hans Karl non si concentri, a differenza di quella di Lord Chandos, sulla natura del linguaggio ma
340
Ibid., p. 135. GUIDRY G.J., Hofmannsthal’s “Der Schwierige”: Language vs. Speech Act, «German Studies Review», vol. 5, n. 3 (1982), p. 308. 341
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sui singoli speech acts con i quali i personaggi della commedia esprimono i loro atteggiamenti egotici342. Come ho rilevato sopra, questa lettura è in parte smentita dal modo in cui Hofmannsthal chiude la commedia, affidando ad un gesto (l’abbraccio tra Crescence e Altenwyl), e non ad un discorso, il compito di suggellare l’unica vera scelta che Hans Karl compie: quella di sposare Helene. Ci sarebbero poi considerazioni di carattere più generale, che riguardano il posto che L’uomo difficile occupa nell’opera di Hofmannsthal, nel senso della crisi di linguaggio e soggetto che lo tormentarono a partire dalla Lettera di Lord Chandos. La mia opinione è che lo scrittore viennese vada nella direzione di una profonda e totale sfiducia nelle parole di poter salvare gli aspetti intersoggettivi e comunicabili della sua forma di vita, la cultura mitteleuropea della fine del XIX secolo. Tale sfiducia permea di sé il dramma allegorico La Torre rifacimento in due versioni (1925 e 1927) del dramma barocco di Calderón de la Barca La vita è un sogno, nonché ultima opera di Hofmannsthal. Com’è noto il dramma affronta il problema del rapporto tra apparenza e realtà, tra sogno e veglia; e lo fa attraverso la storia del principe Sigismund, erede al trono del regno di Rómania, imprigionato dal padre Basilius in una torre a causa di una profezia per la quale sarebbe dovuto ascendere al trono uccidendo il genitore. Spinto dal rimorso e dai consigli di Julian, il governatore della torre, il re fa rientrare a corte il figlio avendogli però fatto prima somministrare una droga, per far credere al principe che la sua vita in cattività fosse stata solo un sogno. Ma la profezia è destinata ad avverarsi e Sigismund, con l’aiuto di oscure forze rivoluzionarie guidate dal machiavellico soldato Olivier, riesce ad impadronirsi del potere. Nel finale del dramma, mentre i rivoluzionari hanno preso in mano la situazione, Sigismund viene avvelenato e muore. Il punto è che nel suo ultimo lavoro per il teatro Hofmannsthal non si limita a riprendere il tema dell’insalvabilità dell’io343, e a ribadire la crisi del potere denotativo delle parole. Questa volta sfruttando il tema barocco del sogno, della impossibilità di distinguere tra realtà e apparenza, Hofmannsthal esprime la tesi scettica dell’impenetrabilità delle cose alla conoscenza, dell’inconoscibilità della loro essenza: «Di nessuna cosa sappiamo com’è, e non c’è nulla di cui potremmo dire che è di natura 342
Ciò farebbe in modo che la chiave di lettura del tema dell’equivoco in L’uomo difficile, possa essere meglio individuata anziché nel Tractatus nella filosofia del “secondo” Wittgenstein e nella sua originale rielaborazione da parte di J. Searle; cfr. Ibid., pp. 309-310 343 Cfr. HOFMANNSTHAL H.V., La Torre, tr. it. di S.Bortoli Cappelletto, Adelphi, Milano 1978, p. 46: «Eppure c’è una parola terribile, che controbilancia tutte le altre! […] Sigismund! (Si passa le dita sulle guance e sul corpo) Chi è: io? Dove ha fine? Chi per primo mi ha chiamato così? Padre, madre? Mostratemeli!».
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diversa dai nostri sogni. Ma non fraintendermi. Ciò che io temo è l’errore, come se, per questo, io fossi diverso da te, o da quello o da uno di quelli là. Io sono come voi siete. Ma io so e voi non sapete»344. Ad Oliver, che minaccia di imprigionarlo e piegarlo ai suoi scopi con il potere che gli viene dalla violenza, dall’aver stabilito con la forza delle armi un ordine nuovo nel regno, Sigismund contrappone l’impossibilità di definire se stesso, e con esso qualsiasi cosa, nel divenire del momento presente: «Ti capsico bene. Lo so, il qui e ora mette molti in catene. Ma non me, perché io sono qui e non qui. Dunque non hai nulla da offrirmi. […] Tu non mi hai. Io appartengo a me solo. Non mi vedi neppure: non puoi vedere, perché i tuoi occhi sono murati da ciò che non è»345. Come ha osservato Cacciari, nel rapporto tra Oliver e Sigismund
Hofmannsthal
346
affronta tutti i problemi relativi alla relazione tra parola e silenzio : se Oliver si esprime attraverso comandi, parole singole , imperativi categorici e si fa araldo di una relazione immediata con la realtà, l’espressività di Sigismund (come quella di Hans Karl) è affidata più a silenzi e gesti che a parole. Hofmannsthal rappresenta nel dramma questa sua condizione ripetutamente: Sigismund tace in maniera insistente quando incontra il padre, è restio a parlare di fronte ai nobili che lo hanno appoggiato nel suo colpo di stato e infine si ostina a non rispondere a Oliver, nell’atto finale del dramma. Come Lord Chandos anche Sigismund ha perso ogni fiducia nelle parole, e per questo motivo si condanna al silenzio: «Mio maestro, perché parli con loro? Per quello che varrebbe la pena dire, la lingua è troppo spessa»347. Come il Lord vive in una condizione pre-linguistica348, nella quale è in grado di sentire “direttamente” ogni cosa inanimata e il dramma delle creature che lo circondano349, senza tuttavia poter esprimere queste sensazioni. 344
Ibid., p. 119. Ibid., pp. 98-99. 346 CACCIARI M., Intransitabili utopie, in HOFMANNSTHAL H.V., La Torre, op. cit., p. 210. 347 HOFMANNSTHAL H.V., La Torre, op. cit., p. 93. 348 È questa la chiave di lettura del dramma nell’interpretazione di Walter Benjamin, il quale attribuisce all’ultimo lavoro di Hofmannsthal l’intuizione che il conflitto tragico tra parola e azione sia irrisolvibile rimanendo all’interno del linguaggio; cfr. BENJAMIN W., Scritti 1923-1927, a cura di R.Tiedemann e H.Schweppenhäuser, Einaudi, Torino 2008, p.384: «Il dramma è nato dal rituale, il tipo originario della tensione drammatica è la tensione fra parola e azione. Non è drammatico ciò che si chiama tale con il linguaggio poco accurato: non la tensione nel campo delle stesse parole (quella di una discussione), e neanche la contesa della tensione senza parole (della pura lotta). Drammatica è soltanto la tensione del rituale, che scaturisce dal rapporto polare tra il fare e il parlare». 349 Lettera, p. 49: «Ora, non molto tempo fa, avevo disposto di spargere abbondante veleno per i topi nelle lattiere di uno dei miei possedimenti. […] C’era tutto dentro di me: l’aria fresca e stagnante carica dell’odore decaduto del veleno, e lo strepito degli stridi di morte che si rompevano contro i muri ammuffiti; i convulsi spasmi dello sfinimento, di disperazione che si incalzano confusamente; la folle ricerca di uno scampo; il freddo sguardo di furore di due che si incontrano ad una fessura bloccata.»; cfr. con HOFMANNSTHAL H.V., La Torre, op. cit., pp. 101-102: «Il contadino aveva ammazzato il maiale, era appeso vicino alla porta della mia camera e il sole del mattino gli cadeva dentro, dov’era scuro; perché 345
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In sintesi, penso che nel suo ultimo dramma Hofmannsthal, condizionato dalla situazione di disfacimento politico e culturale dell’Austria postbellica, sia giunto alla conclusione che la crisi di parola e soggetto fosse irreversibile350 e abbia espresso questa conclusione nella tesi scettica radicale dell’impossibilità di qualsiasi conoscenza certa del mondo esterno. Il silenzio di Sigismund, la sua morte violenta in uno scenario politico apocalittico, significano proprio questa profonda sfiducia metafisica. La soluzione
alla scissione tra parola e azione incarnata da Oliver, quella della
decostruzione dell’ordine del discorso in nome della «nuda realtà» si infrange sul silenzio scettico di Sigismund: «Non fate tanti gesti. La lingua dei preti e dei commedianti è abolita. Un giorno più freddo e sobrio è spuntato sul mondo»351. Quello che ho cercato di mettere in evidenza è che il silenzio del Tractatus va esattamente nella direzione opposta; esso è una risposta allo scetticismo nella misura in cui dai dubbi dello scetticismo emerge la loro intrinseca insensatezza. Anche il silenzio di Wittgenstein prelude ad «un giorno più freddo e più sobrio», ma si tratta di un mattino in cui i dubbi scettici che coinvolgono l’esistenza del mondo, la posizione dell’io rispetto a questo e la libertà dell’azione volontaria, si dissolvono nell’alba di una concezione aperta del linguaggio: «Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano»352.
2.3 Critica del linguaggio e nonsenso: Mauthner e Wittgenstein La crisi di parola e soggetto, così come è stata esplorata da Hofmannsthal, ha trovato nell’atmosfera culturale della mitteleuropa tra XIX e XX secolo soluzioni interessanti anche nell’opera di Fritz Mauthner. Di origini ebraiche, questo pensatore visse in prima persona quel crocevia di lingue e dialetti che fu l’impero austroungarico. Mauthner era nato nel 1849, in un villaggio boemo dove aveva appreso il ceco, il tedesco, i dialetti nati dagli incontri tra queste due lingue, e il Mauscheldeutsch, il dialetto formatosi l’anima era stata richiamata ed era volata da qualche altra parte. Sono tutti segni lieti, ma in che senso, questo non posso spiegarvelo» . 350 Cfr. MITTNER L., op. cit., p. 1015: «Il mito della redenzione del mondo è collocato accanto alla fine del mondo. Non vi è più per Hofmannsthal nessuna possibilità di addolcire tale situazione finale con la sua poesia preesistenziale che rende magica, quasi trascendente l’immanenza o viceversa. Tutta la conclusione è di un desolante pessimismo: il poeta e l’uomo, che nelle opere precedenti avevano cercato e trovato tante sia pur nascoste e labili conciliazioni, appaiono irrimediabilmente scissi nel clima disperato del dopoguerra». 351 HOFMANNSTHAL H.V., La Torre, op. cit., p. 100. 352 RF § 116, p. 67.
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dall’incrocio tra elementi yiddish e ebraici. Dopo gli studi in giurisprudenza a Praga e una breve parentesi in cui si dedicò alla poesia, si trasferì nel 1876 a Berlino. Qui l’attività di giornalista, romanziere e critico teatrale lo portarono gradualmente ad interessarsi alla natura linguaggio fino a concepirne, negli anni Novanta dell’Ottocento, una critica radicale. Nel decennio che va dal 1891 al 1901 Mauthner si ritira dal mondo della critica letteraria berlinese per approfondire gli studi di filosofia e cultura scientifica. Il risultato di questo periodo di isolamento fu la stesura dell’opera che lo rese noto per le sue idee sull’origine e la natura del linguaggio, i Beiträge zu einer Kritk der Sprache. A quest’opera seguì un periodo di studi presso le facoltà scientifiche dell’Università di Freiburg al termine del quale Mauthner redasse un compendio della sua indagine sul lessico della filosofia e della scienza, il Wörterbuch der Philosophie (1910)353. In quest’opera si saldano quelli che sono i tre filoni di ricerca del pensatore boemo: la filosofia, la teoria della conoscenza e la critica del linguaggio. La filosofia è infatti l’indagine dei modi e della natura della conoscenza, ma qualsiasi teoria della conoscenza portata alle sue estreme conseguenze si rivela essere una critica del linguaggio, ovvero una consapevole rassegnazione scettica di fronte all’impossibilità di conoscere il mondo, che è anche il nostro miglior sapere. Tra le parole e le cose non esiste infatti alcuna relazione dimostrabile, si pensa che ad ogni parola corrisponda una cosa «[…] come se una linea scarabocchiata per caso da un pazzo debba essere un rebus con una soluzione»354. Memoria, pensiero e linguaggio sono per Mauthner sinonimi della medesima esperienza del mondo, le parole sono soltanto segni utilizzati al fine di ricordare nomi per esperienze senza nome. Da questo punto di vista non esistono fondamenti teorici assoluti, condizioni di possibilità pure dell’espressione linguistica che la scienza del linguaggio o la filosofia possano indagare a partire dalle loro manifestazioni empiriche nelle lingue. I nostri concetti e il nostro linguaggio sono strutture a priori in un senso semplicemente relativo (relativ apriorisch); sono strutture ereditate secondo la parte che hanno svolto nella storia e nella cultura degli uomini. Per Mauthner questo implica una “secolarizzazione” delle strutture cognitive che la 353
I passi delle due opere principali di Mauthner citate nel seguito della trattazione sono tratti da un’antologia tradotta in italiano che raccoglie alcuni stralci dei Beiträge e alcune voci del Wörterbuch : MAUTHNER F., La maledizione della parola. Testi di critica del linguaggio, a cura di L.Bertolini, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2008. 354 Ibid., p. 94. Utilizzando un’altra versione di questa metafora Wittgenstein parla della pulsione filosofica a porre problemi, cfr. WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 427: «I filosofi sono sovente come bimbi, che prima scarabocchiano con la matita linee arbitrarie sulla carta e poi domandano agli adulti: “Che cos’è?” – È andata così: prima l’adulto aveva disegnato più volte qualcosa, dicendo “Questo è un uomo”, “Questa è una casa” e così via; poi anche il bambino aveva tirato delle linee domandando: “E che cos’è questo?”».
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filosofia ha tradizionalmente connesso al linguaggio e che ha ipostatizzato nel termine tecnico “ragione”: «Come che sia, nessun uomo avrebbe raccolto esperienze sufficienti a partire dalle quali costruire l’enorme impalcatura della sua lingua materna (nelle classificazioni latenti della quale è insita apriori tutta la sua conoscenza del mondo e tutto il suo concludere, dunque tutto il suo pensare); la parte di gran lunga maggiore della sua lingua, quella che egli ritiene memoria acquisita, egli l’ha ereditata; [...]. Le attività mentali in parole, classificate come attività superiori dell’intelletto umano, le chiamiamo ragione. Ma già a un primo approccio abbiamo imparato che in questa ragione è insita una massa di attività mentali ereditate, non acquisite individualmente, non vagliate, quindi istintive»355. Questa caratteristica necessitante del pensiero e del linguaggio è tuttavia controbilanciata dal modo in cui ogni individuo pensa, parla e conosce. Ogni aspetto del modo in cui la mente umana conosce ed interpreta la realtà è immerso nelle circostanze accidentali della nostra esperienza, anche la ragione è casuale e contingente (Zufallsvernunft). La parola “verità” (Wahreit), dice Mauthner, allude al concetto relativo con cui cerchiamo di designare il rapporto di ciascun soggetto con sé stesso e con il mondo esterno: «Non sappiamo proprio niente altro che le relazioni, perché il nostro sapere è esso stesso solo una relazione, un rapporto dell’io con l’altro»356. Nei sottoparagrafi successivi approfondirò meglio questi tratti della teoria della conoscenza di Mauthner. Per il momento basti notare come anche per Wittgenstein il linguaggio manifesta questa contingenza e casualità della nostra forma di vita, nel fatto che le condizioni di sensatezza di un giudizio non riposino sull’esperienza individuale quanto piuttosto sulle nostre conoscenze di sfondo, sulle proposizioni grammaticali che nel discorso ordinario non vengono mai messe in dubbio:
Ma non è forse l’esperienza a insegnarci a giudicare così, cioè a insegnarci che è giusto giudicare così? Ma in che modo ce l’insegna l’esperienza? Noi possiamo forse desumerlo dall’esperienza, ma l’esperienza non ci aiuta a desumere qualcosa da se stessa. Se l’esperienza è la ragione (e non semplicemente la causa) per cui giudichiamo così, allora non abbiamo più una ragione per considerare ciò come ragione. 357
Il giudizio non ha una giustificazione di tipo epistemologico nell’esperienza, è piuttosto una reazione immanente inerente ad una prassi linguistica. La difficoltà a 355
MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., pp. 98-99. Ibid., p. 149. 357 WITTGENSTEIN L., Della certezza, op. cit., § 130, p.24. 356
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prendere atto dell’infondatezza delle nostre credenze riposa in ultima istanza su una difficoltà più grande, quella relativa a prendere atto dell’infondatezza del linguaggio. Questa difficoltà, sottolineata da Wittgenstein con rilievo antropologico, si traduce nel bisogno da parte della filosofia di trovare una qualche forma di certezza trascendente il linguaggio. Nelle osservazioni che costituiscono Della Certezza, il filosofo sottolinea come le nostre assunzioni ordinarie sull’esistenza degli oggetti esterni, delle relazioni spazio-temporali, delle altre menti, in altri termini il sistema delle credenze del senso comune, non siano il risultato ultimo di operazioni cognitive. Sono lo sfondo ereditato e tramandato, in forma inconscia e involontaria, dall’organizzazione sociale. Ad esempio, quando riflettiamo sull’essenza del calcolo, su cosa sia il “calcolare” per una persona che compie una banale operazione aritmetica, siamo spinti da un bisogno di certezza, conforme alle nostre credenze (Glauben), a trattare alcuni tipi di calcolo come incondizionatamente degni di fede: «Così si calcola. E il calcolare è questa cosa. Quello che noi, per esempio, impariamo a scuola. Dimentica questa sicurezza trascendente, che è connessa con il tuo concetto dello spirito»358. In questo caso, il fondamento epistemologico della certezza che riponiamo nelle operazioni aritmetiche ordinarie, è sostituito secondo Wittgenstein dal gioco linguistico del calcolare: «Se pretendi una regola da cui risulti che qui non si può aver commesso un errore di calcolo, la risposta è che questo l’abbiamo imparato non da una regola, ma perché abbiamo imparato a calcolare»359. Tra Mauthner e Wittgenstein esiste allora un comune sentire sul metodo e sul ruolo della filosofia, nella rinuncia alla ricerca su ragioni e criteri di carattere ontologico ed epistemologico alla base del linguaggio360. Al di là del tema della crisi dei fondamenti, che ho già messo in luce nei paragrafi precedenti di questo capitolo, dove individuare analogie più profonde con la filosofia di Wittgenstein? Esiste un’influenza diretta? E se è così tale influenza manifesta la sua forza sul versante del Tractatus o su quello delle Ricerche? Infine, come collocare Mauthner rispetto al tema del nonsenso, alla questione dei limiti del linguaggio e al ruolo che la filosofia (come attività) svolge rispetto ad essa? 358
Ibid., § 47, p. 11. Ibid,, § 44, pp. 10-11. 360 Questo punto è stato particolarmente approfondito da Gargani, che colloca queste analogie sullo sfondo della temperie culturale anti-fondazionalista della Vienna fin-de-siécle; cfr. GARGANI A.G., Il coraggio di essere, op. cit., pp. 112-119. Per un approfondimento di più ampio respiro sulle analogie tra il pensiero di Mauthner e il “secondo” Wittgenstein”, soprattutto per quanto riguarda la nozione di grammatica, e l’immanenza di grammatica e logica nel linguaggio, cfr. LEINFELLNER E, Zur nominalistischen Begründung von Linguistik und Sprachphilosophie: Fritz Mauthner und Ludwig Wittgenstein, «Studium Generale», n. 22, (1969), pp. 209-51 e WEILER G., Mauthner’s Critique of Language, Cambridge University Press, Cambridge, 1970. 359
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In questo paragrafo, attraverso l’analisi di alcune metafore sulla natura del linguaggio utilizzate da entrambi i pensatori cercherò di dare una risposta a questi interrogativi. Quello che vorrei emergesse dalla trattazione successiva è come la novità del metodo filosofico di Wittgenstein segni la differenza con un approccio filosofico più tradizionale ma votato allo stesso obiettivo, la Sprachkritik di Mauthner, proprio sul terreno della questione dei limiti del linguaggio e del nonsenso.
2.3.1 Sprachkritik e filosofia
Individuare le prove di un’influenza diretta delle idee sul linguaggio di Mauthner sul giovane Wittgenstein non è un’impresa particolarmente difficile. Alla sezione 4.0031 l’autore del Tractatus dice:
Tutta la filosofia è «critica del linguaggio». (Ma non nel senso della Sprachkritik di Mauthner.) Merito di Russell è aver mostrato che la forma logica apparente della proposizione non necessariamente è la forma reale di essa. 361
Due considerazioni si fanno avanti immediatamente: innanzitutto Wittgenstein differenzia la sua concezione di filosofia come critica del linguaggio da quella di Mauthner; in secondo luogo Russell sembra essere stato il pensatore che gli ha indicato la strada da percorrere affinché la critica del linguaggio sia efficace e non degeneri in uno pseudoproblema filosofico. Per chiarire queste due considerazioni occorre leggere la proposizione 4.0031 nella sua posizione all’interno della struttura del Tractatus: è il primo e unico commento alla sezione 4.003, la quale a sua volta chiude una serie di commenti “millesimali” alla sezione 4, quella in cui Wittgenstein identifica il pensiero con la proposizione sensata362. L’excursus di TLP 4.001-4.0031 è dedicato alla natura del linguaggio e alla posizione che nel linguaggio occupano le domande e i dubbi filosofici: il linguaggio è l’insieme di tutte le proposizioni, di tutti i pensieri muniti di senso (TLP 4.001); la capacità di costruire linguaggi in cui esprimere ogni senso, ogni pensiero, è una facoltà che gli esseri umani utilizzano quasi inconsciamente, come le altre parti dell’organismo. La principale conseguenza del fatto che il linguaggio non sia
361
TLP 4.0031, p. 43. Il doppio zero indica proprio questo carattere di “appendice” lessicale o esemplificativa alla sezione “cardinale” 4, cfr. BAZZOCCHI L., op. cit., pp. 30-31. 362
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una facoltà esclusivamente “mentale”, ma che sia invece incarnata in un particolare organismo vivente è questa: la sua logica, il modo in cui la proposizione esprime nel senso un pensiero, viene oscurata dai fini per i quali viene impiegato (TLP 4.002). Ora, gran parte dei problemi filosofici, così come sono formulati nel linguaggio, appartengono proprio a quel genere di proposizioni in cui la logica del linguaggio è mascherata, se non del tutto rimpiazzata, dal fine comunicativo: essi pertanto non sono false ma insensate (TLP 4.003). A questo punto, Wittgenstein commenta che la filosofia, nel modo in cui viene concepita dal Tractatus, deve essere una critica del linguaggio, deve cioè far emergere dalla proposizione la sua forma logica spogliandola della forma reale con cui ordinariamente comunichiamo. In sintesi, per Wittgenstein il linguaggio possiede in sé, nel mezzo espressivo della proposizione sensata, tutte le possibilità di espressione del pensiero: la filosofia come critica del linguaggio deve indagare il modo in cui le proposizioni esprimono queste possibilità tenendo ben presente che la forma logica è travestita dalla forma reale, dalle condizioni empiriche e dalle «tacite intese» attraverso cui avviene la comunicazione. Questo è un aspetto che la Sprachkritik di Mauthner avrebbe trascurato e che Russell, nella sua indagine sul problema dell’unità della proposizione, avrebbe invece meritatamente messo in luce363. Con quale aspetto della filosofia del linguaggio di Mauthner Wittgenstein sta polemizzando? Perché Russell avrebbe capito meglio del pensatore boemo la relazione tra pensiero e linguaggio? 363
Il tema della forma logica effettiva della proposizione che soggiace alla sua forma grammaticale apparente è sviluppato da Russell in On denoting (1905), in relazione al problema semantico delle descrizioni definite, ovvero di quelle espressioni cui perviene l’analisi dei sintagmi nominali e che, sintatticamente, hanno la stessa distribuzione dei nomi propri (es. “Socrate”). Com’è noto, secondo Russell, i sintagmi denotativi del tipo “l’attuale re di Francia” non esprimono la conoscenza diretta di ciò che viene denotato (nel caso dell’esempio un individuo che possiede tutte le proprietà relative all’essere re di Francia), ma al contrario esprimono la conoscenza diretta delle parti del sintagma denotativo nel contesto della proposizione (le proprietà che permettono all’individuo di essere l’attuale re di Francia nella proposizione “l’attuale re di Francia è calvo”); cfr. RUSSELL B., Sulla denotazione, tr. it. A.Bonomi, in La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano 1973, p. 194: «Un interessante risultato della nostra teoria della denotazione è il seguente: quando abbiamo a che fare con una qualsiasi cosa di cui non abbiamo conoscenza diretta ma solo una definizione per mezzo di sintagmi denotativi, allora le proposizioni in cui questa cosa è introdotta per mezzo di un sintagma denotativo non contengono in realtà questa cosa come un costituente, ma contengono invece i costituenti espressi dalle varie parole del sintagma denotativo. […] Ora, cose come la materia (nel senso in cui ne parla la fisica) e le menti altrui ci sono note solo in virtù di sintagmi denotativi: altrimenti detto, noi non ne abbiamo conoscenza diretta, ma le conosciamo come ciò che possiede queste e quelle proprietà». L’idea che i sintagmi denotativi nascondano una struttura logica complessa, irriducibile ad un solo termine dell’analisi, porterebbe Russell nella direzione della nozione di forma logica, dell’analisi del linguaggio indipendentemente dal tipo di proposizione preso in considerazione; cfr. DONATELLI P., Wittgenstein e l’etica, Laterza, RomaBari 1998, pp. 3-9. Questo approccio rientra nel contesto più ampio del rifiuto da parte di Russell della teoria del giudizio di stampo idealista e del conseguente problema dell’unità della proposizione, ovvero di come i “termini” che costituiscono la proposizione entrino in relazione; su questo cfr. LINSKY L., The Unity of the Proposition, «The Journal of the History of Philosophy», vol. 30, n.2, (Aprile 1992), pp. 243-273.
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Per rispondere a questi interrogativi è necessario prendere in considerazione quanto Mauthner osserva sulla natura del linguaggio e sulla relazione tra linguaggio e pensiero nelle sue due opere principali: i Beiträge e il Wörterbuch. In esse Mauthner mette in atto la sua concezione di «critica del linguaggio» come impresa preliminare ad ogni ricerca scientifica e filosofica, attraverso due tesi fondamentali sulla sua natura. In primo luogo, la tesi scettica secondo cui l’esperienza, la realtà presente ed attuale, non è mai direttamente nominabile, e quindi il linguaggio, tradizionalmente ritenuto il medium della conoscenza del mondo esterno ne sia in realtà il principale ostacolo. Chi vuole imbarcarsi in un’impresa scientifica, deve prima liberarsi della «superstizione della parola»364, dell’idea che si possa realizzare una conoscenza del mondo e delle altre menti attraverso l’uso linguistico. Mauthner rileva come le lingue mutino, nel corso del tempo, incessantemente: «Possiamo quindi dire che le lingue individuali, di cui suole occuparsi la scienza del linguaggio come fossero cose reali, assomigliano a correnti nelle quali in ogni singolo punto la goccia d’acqua viene continuamente sciolta da altre gocce d’acqua e stando nello spazio in mezzo ad altre gocce d’acqua vi scorre dentro»365. Riprendendo la metafora eraclitea del fiume, e applicandola alle espressioni di una lingua, Mauthner vuole far emergere la natura proteiforme dei fenomeni linguistici senza per questo svalutare la sua stessa opera di indagine e critica del linguaggio: «Però sarebbe anche possibile, con attenzione molto precisa e completa conoscenza di tutte le circostanze concomitanti, descrivere fin nei dettagli ogni singolo letto di fiume come effetto della propria massa d’acqua»366. Analizzando il concetto di “significato” (Bedeutung), Mauthner osserva come la filosofia abbia impiegato questa nozione per separare un mitologico contenuto delle parole, relegato nella sfera del pensiero, dal loro uso effettivo. Questa separazione infondata avrebbe contribuito a determinare l’abitudine filosofica di ipostatizzare per ogni parola un significato che ne fosse il significato, impermeabile ai mutamenti e per questo definitivo. Al contrario la scienza, la filosofia, e con esse la stessa attività di critica del linguaggio promossa da Mauthner, non possono servirsi dei concetti367, e più in generale di qualsiasi espressione linguistica, come di basi e puntelli su cui erigere l’edificio della conoscenza: «Quello che si può notare a proposito del significato attuale della parola lo si può definire solo à peu près, tracciando una linea risultante dalle direzioni presenti, in lotta tra loro, e 364
MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p. 78. Ibid., p. 82. 366 Ibid., p. 84. 367 Per Mauthner il concetto non è una proprietà di una parola ma è la parola stessa nel momento in cui si eseguono con essa operazioni logiche, cfr. Ibid., p. 118. 365
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decidendo di attenersi a questa risultante per la concezione del mondo del presente o perfino per la concezione del mondo definitiva; anche il significato attuale delle parole è divenuto storicamente»368 . La constatazione che le parole sono in continuo divenire implica che di esse possiamo servirci solo come di momentanee panacee, di espedienti provvisori. È in questo senso che Mauthner riprende dalla tradizione scettica la metafora della scala: «Si deve salire per gradini e ogni gradino è un nuovo inganno, perché esso non si libra liberamente. Anche se ogni gradino fosse così basso e chi salisse vi si arrestasse solo di sfuggita, lo toccasse solo con le punte dei piedi: nell’attimo del contatto anch’egli non si librerebbe liberamente, resterebbe incatenato al linguaggio di questo attimo, di questo gradino. Anche se si fosse costruito da sé gradino e linguaggio per questo attimo»369. Ho già messo in luce come la metafora venga ripresa da Wittgenstein in TLP 6.54, quello che adesso vorrei sottolineare qui è che con ogni probabilità la fonte della metafora sia proprio Mauthner e quindi, in senso lato, la tradizione scettica370. Tuttavia è altrettanto importante rilevare che l’oggetto stesso cui la metafora si applica cambi, e ci renda conto di un’importante differenza tra Mauthner e Wittgenstein che getta luce anche sulla criptica citazione del primo in TLP 4.0031. Infatti, se per Mauthner i gradini della scala sono le singole parole, e ciò che si deve gettar via è l’illusione che esse denotino la realtà, per Wittgenstein i gradini della scala, ciò che si deve gettar via, sono i passi che il lettore del Tractatus compie verso la chiarificazione dei limiti del linguaggio. In questo senso Wittgenstein reinterpreta la metafora, e la applica a quanto di filosofico sostiene nel Tractatus, in un modo che la rende immune dall’autoconfutazione cui la stessa affermazione di una tesi scettica va incontro: i passi attraverso cui il filosofo austriaco conduce il lettore verso la sua visone del mondo e del linguaggio sono solo appigli provvisori; una volta compreso il percorso 368
Ivi. Ibid., p.79. La metafora della scala ha una lunga tradizione nella storia dello scetticismo antico, in particolare di quello pirroniano, tanto che Mauthner potrebbe averla ripresa direttamente da SESTO EMPIRICO, Contro i logici, tr. it. a cura di A.Russo, Laterza, Roma-Bari 1975, II 480-81, pp. 279-280: «E, infine, come non è impossibile che un uomo, dopo essere asceso lungo una scalinata sopra un luogo elevato, una volta raggiunta la cima ripercorra la scalinata ritornando sui propri passi, così non è inverosimile che lo Scettico, dopo essersi arrampicato su una scaletta – quella, cioè, di un’argomentazione che prova la non esistenza di una dimostrazione -, una volta raggiunto il suo scopo, proprio allora distrugga anche quella argomentazione medesima». Per una lettura di luoghi affini alla tradizione scettica pirroniana nel “secondo” Wittgenstein cfr. WATSON R.A., Sextus and Wittgenstein, «Southern Journal of Philososphy», (1969), pp. 229-237; nella ricostruzione di Watson, gli argomenti di Wittgenstein contro la possibilità di un linguaggio fenomenologico primario sarebbero uno sviluppo radicale degli stessi argometni scettici di Sesto contro il rappresentazionalismo, quale fonte di conoscenza certa del mondo esterno. 370 Cfr. VARNIER G., op. cit., pp. 102-103. Secondo Conant, invece, le radici scettico-meditative del pensiero wittgensteiniano e della metafora della scala vanno ricercate, più che nella tradizione scettica, nell’opera di Kierkegaard; cfr. CONANT J., Throwing away the top of the ladder, «The Yale Review», Vol. 79, No. 3 (1990), pp. 331-332.
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che Wittgenstein traccia per il lettore bisogna riconoscerne l’insensatezza. Da qui il motivo per cui Mauthner viene contrapposto in TLP 4.0031 al merito di Russell: fermandosi all’apparenza della forma grammaticale, in cui le parole possono apparire effettivamente prive di contenuto denotativo, Mauthner avrebbe condannato la sua stessa critica del linguaggio a rimanere incatenata a questo livello dell’analisi. È in virtù di ciò che l’autore del Tractatus avrebbe scorto nella Sprachkritik
un approccio
tradizionale alla relazione tra linguaggio e mondo, soggetto ai limiti e alle aporie dello scetticismo371. La questione del modo in cui Wittgenstein riprende la metafora della scala e allo stesso tempo critica il contesto in cui ne fa uso Mauthner, ovvero la questione di come interpretare le due sezioni del Tractatus (4.0031 e 6.54) in cui i riferimenti al pensatore boemo sono più evidenti, è in realtà molto più complessa della presunta opzione wittgensteiniana per il realismo. Per approfondirla bisogna ripartire dalle critiche che Mauthner muove a chi, realista o idealista, riponga fiducia nel potere epistemologico del linguaggio sulla base di una teoria della conoscenza marcatamente sensista e nominalista. L’illusione di poter conoscere il mondo attraverso il linguaggio è determinata da un’immagine fuorviante alla base della tradizione filosofica occidentale, quella della contrapposizione tra mondo e uomo, in quanto essere senziente dotato di organi adeguati alla percezione di tutti i fenomeni: «In questa rappresentazione la cultura filosofica non cambia granché. Che il contadino riconosca che il guanto si adatta alla mano, oppure che Kant riconosca che la mano (il mondo dei fenomeni) si adatta al guanto (l’intelletto), dal nostro punto di vista è indifferente»372. La rappresentazione filosofica della conoscenza come di un conformarsi del mondo all’intelletto umano e alle sue forme pure a priori (spazio e tempo), la “rivoluzione copernicana” di Kant, è viziata dall’uso linguistico metafisico di parole come “mondo”, “soggetto” e “oggetto”. Tale uso distrae l’attenzione da quanto variegato sia il mondo, da quanta parte di realtà sfugga alle regolarità fenomeniche, e da quanto limitate siano le facoltà percettive umane rispetto ad esso. Secondo Mauthner, infatti, i nostri sensi sono proprio il risultato casuale dell’adattamento umano alla molteplicità e varietà infinita del mondo 371
Secondo Bastianelli lo scostamento di Wittgenstein dalla Sprachkritik di Mauthner è legato proprio al fatto che il secondo rimanga al livello superficiale del linguaggio, quello della forma reale e dello scopo comunicativo, senza vederne la forma logica, il potere raffigurativo; cfr. BASTIANELLI M., Oltre i limiti del linguaggio. Il kantismo nel Tractatus di Wittgenstein, Mimesis, Milano-Udine 2008, p. 68: «Wittgenstein, così, si oppone a Mauthner, pur riprendendone moltissime intuizioni, proprio perché non ne condivide il nominalismo e lo scetticismo di fondo; ad essi, egli oppone un realismo (unito ad un idealismo trascendentale) e una fiducia nella fondazione logica del sapere, che condivide con Frege e Russell». 372 MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p.100.
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fisico, sono sensi accidentali (Zufallsinne)373. I nostri organi di senso funzionerebbero quindi come filtri fatti per far passare all’interno solo una minima parte della realtà esterna. Questo vuol dire che pur essendo inadeguati per la conoscenza dell’infinita complessità del reale si rivelano invece utili allo scopo della sopravvivenza e della comunicazione. Anche l’origine della facoltà del linguaggio è da ricercarsi nell’adattamento degli individui della specie all’ambiente; lo sviluppo del linguaggio è andato di pari passo con lo sviluppo degli organi linguistici: «Se consideriamo ora lo strumento reale del linguaggio (con strumento linguistico intendo oltre all’apparato acustico, anche tutti i muscoli o i nervi che ne sono al servizio o al comando) come espressione fattuale di una facoltà linguistica immaginaria, è certo possibile che lo sviluppo del linguaggio umano sia andato di pari passo con lo sviluppo degli organi linguistici dell’uomo»374. La nostra capacità di sopravvivere, adattarci all’ambiente e comunicare esclude, in questo senso, una conoscenza adeguata del mondo esterno. Per 373
Cfr. Ibid., p. 101: «A mio parere le dispute metafisiche vecchie di millenni su come sia da spiegare l’accordo tra mondo esterno e vita interiore, a mio parere gli enormi errori metafisici, da quando esistono il teismo, l’occasionalismo e il darwinismo, dipendono dal fatto che nessuno vuole accorgersi della natura dei sensi accidentali, dal fatto che nessuno finora si è mai accorto di quanto poco il mondo e i nostri poveri cinque sensi siano adatti l’uno agli altri, di come piuttosto gli organismi abbiano sviluppato questi disperati cinque sensi nei loro bisogni vitali, per adattare sé, cioè la loro vita e quella della loro prole, alla vita che li circonda». Con ogni probabilità Mauthner, per la teoria dei “sensi accidentali”, riprende gli argomenti di Locke sulla nozione di sostanza e sui limiti della conoscenza umana, privandoli però delle giustificazioni di ordine teologico. Secondo il filosofo inglese, infatti, i limiti della conoscenza umana dei corpi esterni vanno rintracciati nella natura delle nostre facoltà conoscitive. In tal senso le cosiddette “qualità secondarie” di un corpo che il soggetto percepisce scomparirebbero se i nostri sensi fossero abbastanza potenti da individuare e conoscere tutte le “qualità primarie” e le loro relazioni, ma ciò non accade perché i nostri organi di senso funzionano in modo da garantirci la conoscenza minima indispensabile al nostro “benessere” sulla terra; cfr. LOCKE J., Saggio sull’intelletto umano, a cura di V.Cicero e M.G.D’Amico , Bompiani, Milano 2004, Libro II, cap. XXIII, pp. 539-541: «Se avessimo dei sensi abbastanza penetranti da discernere le particelle minute dei corpi, e la reale costituzione da cui dipendono le loro qualità sensibili, non dubito che essi produrrebbero in noi idee del tutto diverse, così che, per esempio, quel che è ora il colore giallo dell’oro scomparirebbe e al suo posto vedremmo una mirabile connessione di parti di una certa dimensione e conformazione. […] Ma non sembra che Dio abbia avuto nelle sue intenzioni di dotarci di una conoscenza perfetta, chiara e adeguata di queste cose: forse una tale conoscenza non è prerogativa di alcun essere finito. Noi siamo provvisti di facoltà (per deboli o opache che siano) per scoprire nelle creature ciò ch’è sufficiente per condurci alla conoscenza del Creatore alla conoscenza del nostro dovere; siamo forniti a sufficienza di capacità per provvedere alle esigenze del nostro vivere: questi sono i compiti che dobbiamo assolvere in questo mondo». 374 MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p. 87. L’idea che parlare sia un’attività naturale espressione dell’adattamento della specie umana all’ambiente, al fine della sopravvivenza, non comporta per Mauthner l’adesione al darwinismo, ritenuta una teoria sull’origine del linguaggio, e in quanto tale infondata; cfr. Ibid., p.101. Su questo punto, Mauthner avrebbe molto probabilmente riscontrato l’approvazione di Wittgenstein e della sua avversione per la sublimazione in teorie onnicomprensive delle spiegazioni causali sull’origine di un fenomeno ; cfr. WITTGENSTEIN L., Lezioni e conversazioni, op. cit., pp. 91-92: « Confronta lo scompiglio creato da Darwin. Una cerchia di ammiratori che dice “certo”, e un’altra cerchia di nemici che dice “certamente no”. Perché mai un uomo dovrebbe dire “certo?” (Si trattava dell’idea di organismo monocellulari che si fanno sempre più complicati, finché diventano mammiferi, uomini, ecc.). Qualcuno ha visto svolgersi questo processo? No. L’ha visto qualcuno accadere adesso? No. La prova dell’ereditarietà è solo una goccia nel vaso. C’erano, però, migliaia di libri in cui si diceva che questa era la soluzione ovvia. La gente era sicura su basi estremamente scarse. Non avrebbe forse potuto esserci un atteggiamento espresso nella frase “Io non so. È un’ipotesi interessante che potrebbe forse ricevere una sicura conferma”?».
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Mauthner quelle che il linguaggio filosofico definisce “cose” (Dinge) sono solo astrazioni linguistiche riconducibili ad una o a più sensazioni connesse tra loro375. I sostenitori della possibilità di una conoscenza assoluta devono riconoscere che la distinzione tra parole e concetti, tra esperienza e conoscenza si nutre in realtà di un presupposto metafisico infondato, di quella che Wittgenstein avrebbe definito un’«illusione grammaticale»: che linguaggio e pensiero siano manifestazioni di facoltà umane separate. Questa identità, secondo Mauthner, sarebbe stata intuita da Schopenhauer il quale avrebbe visto nell’uso filosofico della parola “ragione” e nella sua identificazione con la facoltà cognitiva più importante, l’espressione in termini tecnici del primato del linguaggio (ratio) su qualsiasi presunta conoscenza non verbale del mondo esterno376. Laddove però il filosofo tedesco distingueva la ragione come facoltà eminentemente linguistica dall’intelletto come facoltà del percepire, dell’organizzazione del mondo esterno secondo il principio di causalità377, Mauthner vede invece una semplice confusione etimologica tra “sentire” e “percepire”: «Per un certo tempo ho pensato di risolvere il problema accostando i termini: il linguaggio sarebbe identico alla ragione, ma non all’intelletto. Con questo avevo in mente la distinzione usuale nella forma più completa e decisa datagli da Schopenhauer. La spiegazione dà l’impressione che la ragione (Vernunft) sia un pensiero in concetti o in parole: tanto più se la ragione viene derivata dal sentire (vernehmen) e sentire=udire pare chiaramente indicare il comprendere attraverso la comunicazione linguistica. Ma sentire (vernehmen) nella lingua più antica non significava niente altro che il percepire (Wahrnehmen), cosicché la bella etimologia ci lascia in asso»378. Secondo Mauthner il
375
Cfr. MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p. 121. In questa voce del Wörterbuch Mauthner si richiama alla nozione machiana di materia e definisce la “cosa” come «un determinato complesso, conforme a leggi, di sensazioni connesse tra loro». 376 Cfr. SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., I § 8, pp. 77-78: «L’animale sente e percepisce; l’uomo, per di più, pensa e conosce; tutti e due vogliono. L’animale comunica le sue sensazioni e il suo umore per mezzo di gesti e di grida; l’uomo comunica, o nasconde, il suo pensiero col linguaggio. Il linguaggio è la prima creazione e lo strumento necessario della ragione; così in greco e in italiano, linguaggio e ragione sono due concetti espressi da un’unica parola: oJ lovgo~, il discorso. La parola tedesca Vernunft (ragione) deriva da vernehmen (afferrare, comprendere) che non è sinonimo di hören (udire), ma significa “acquistar coscienza dei pensieri comunicativi per via di parole”». 377 Ibid., I §§ 3-7, pp. 35-75. 378 MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., pp. 97-98. La derivazione schopenhaueriana dell’identità tra linguaggio e pensiero in Mauthner è stata particolarmente sottolineata da JANIK A.TOULMIN S., op. cit., p. 125: «Questo risultato sembrò molto importante a Mauthner, che si occupava del problema filosofico del linguaggio, e lo indusse ad affermare che la Quadruplice radice, opponendosi ad Aristotele e alla Scolastica, cerca di costruire l’ordine della natura a priori, identificandolo con il vero linguaggio, il Logos. Tuttavia, questa posizione, benché profonda, viene criticata da Mauthner, il quale ritiene che lo stesso Schopenhauer sia caduto vittima della stessa tentazione di reificare le parole astratte […]. Schopenhauer rimane collegato a quella che Mauthner chiama una superstizione della parola
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linguaggio umano è la prima e unica facoltà coinvolta nella percezione e rappresentazione del mondo esterno; esso individua mediante l’ «appercezione»379 (che contribuisce anche a costituire) tre categorie: l’aggettivo, il verbo e il sostantivo. Queste tre categorie danno vita a tre livelli di organizzazione dell’appercezione che si manifestano nel linguaggio mediante la loro distribuzione sintattica. Il livello del mondo aggettivo sarà allora quello dell’esperienza immediata dei sensi, disgregato e frantumato in singole impressioni. Il sapere che abbiamo del mondo aggettivo, è un sapere che verte sulle relazioni tra le cose, e tra queste e noi, che non può essere ancora organizzato in pensieri e parole astratte: «Le masse delle appercezioni o il pensare non sono in questione prima che il pensare sia giunto alla parola. Abbiamo parole per il mondo aggettivo (blu, rumoroso, dolce, duro, giusto, bello), ma tutte queste parole infilzano l’impressione con la punta dell’ago del momento e non ci lasciano scorgere o addirittura descrivere la cosiddetta totalità. Il mondo aggettivo è il mondo animale»380. Il tentativo di congiungere queste sensazioni in unità linguistiche, attraverso l’attività di “registrazione” della memoria, costituisce invece il mondo verbale. Organizzato nelle forme dello spazio e del tempo esso è il mondo del divenire, quello in cui fluiscono come gocce d’acqua nel letto di un fiume, le sensazioni del mondo aggettivo381. Dal punto di vista linguistico, che per Mauthner è tutt’uno col punto di vista logico e psicologico, i verbi non hanno ancora la forza sintattica dei concetti: «Nel senso della logica di implicazione i verbi non sono poi per nulla concetti, essi non designano concettualmente […], essi piuttosto riuniscono insieme una somma di modificazioni
(Wortaberglauben) proprio quando parla di volontà e afferma che ci sono oggetti che corrispondono alle parole». 379 Il termine tecnico “appercezione” viene utilizzato da Mauthner nel senso trascendentale che gli era stato dato da Kant, cfr. KANT I., Critica della ragion pura, tr. it. di G.Gentile e G.Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1981, Analitica trascendentale, Lib. I, Cap. II, Sez. II, § 16, pp. 132-135. Forse, ma non ci sono abbastanza elementi per sostenerlo, Mauthner fa riferimento con l’uso della nozione di “appercezione” al modo in cui Wilhelm Wundt ne parla nei Grundzüge der physiologischen Psychologie, 2 vols. 4th edition, Engelmann, Leipzig 1893, pp. 277 e sgg. 380 MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p. 153. 381 Il mondo verbale è per Mauthner il mondo delle cose, ovvero quello che il soggetto ritiene essere il mondo delle cause delle sensazioni. Questa distinzione di stampo kantiano allude al fatto che le “cose” (Dinge) sono soltanto astrazioni che il soggetto compie a partire dalle sensazioni, che sono collegate a una causa ineffabile collocata nel mondo esterno; la relazione di causalità è invece rappresentata dall’uso linguistico verbale. Ora, l’inconoscibilità delle cause delle “cose”, secondo Mauthner ha prodotto nella filosofia postkantiana la superstizione della “cosa in sé”; cfr. Ibid., p. 122: « Kant, e ancor più chiaramente i neokantiani, hanno indagato il rapporto tra le sensazioni e le loro cause, il rapporto tra il mondo aggettivo e il mondo causale o verbale; i neokantiani hanno conservato la terminologia di Kant e, in maniera completamente sbagliata, chiamano cose in sé le cause della sensazione aggettiva; recentemente credono di aver riconosciuto le vere cose in sé nelle energie. Le energie però non sono affatto cose, anche se sono oggetti del pensiero. Le cose appartengono al mondo sostantivo, anche se sono tutte solo astrazioni».
163
progressive sotto un concetto di fine»382. Infatti, il passaggio decisivo verso la riflessione,
verso la formazione dei concetti, si realizza nel tentativo di spiegare
attraverso parole come il mondo aggettivo si sostanzializza nel mondo verbale, come le sensazioni irrelate vengano organizzate nelle forme dello spazio e del tempo secondo il principio di causalità. Sorge in questo modo il mondo sostantivo, la vera e propria dimensione linguistica; un mondo “mitologico” popolato da nomi concreti e astratti: «Non solo gli dei e gli spiriti sono mitologici, ma anche le forze apparentemente ben conosciute della fisica e della biologia sono cause mitologiche; anche le cose stesse, le cose singole della nostra esperienza aggettiva sono solo simboli nei quali riassumiamo le cause mitologiche dei loro effetti aggettivi»383. Il bisogno “mitologico” espresso dalle parole, siano esse nomi di cose o concetti astratti, pervade ogni aspetto della forma di vita umana che implichi l’uso del linguaggio. Pertanto tutte le scienze, e non ultima la “scienza del linguaggio”, sono fondate sulla mitologia arbitraria della relazione tra soggetto e oggetto: « E mi sembra proprio una forma di mitologia […] che il linguaggio sia uno strumento del nostro pensiero (uno strumento mirabile per giunta). Secondo questa idea, ancor oggi unanimemente condivisa, nel letto del fiume del linguaggio siede una divinità – una figura maschile o femminile – il cosiddetto pensiero, che regna sul linguaggio umano con i suggerimenti di una divinità affine, la logica, e con l’aiuto di una terza divinità, la grammatica»384. In sintesi, attraverso l’uso della nozione di appercezione, Mauthner cerca di spiegare il modo in cui l’uomo, partendo dall’esperienza e dalla sensazione, giunga a cadere vittima dell’illusione grammaticale rappresentata dal significato delle parole. Dal mondo aggettivo delle sensazioni a quello sostantivo delle parole concrete e dei concetti astratti, il soggetto compie non un solo passo nella direzione della conoscenza del mondo esterno. L’esperienza immediata del mondo aggettivo è unica e irripetibile: nel momento in cui viene registrata dalla memoria, per poter essere comunicata attraverso una parola, essa perde la propria unicità. La conclusione di Mauthner è che l’esperienza sia sempre un passo avanti rispetto al linguaggio, e che la logica di quest’ultimo sia tautologica: «Il linguaggio è un valore solo apparente, come una regola del gioco che diventa tanto più cogente quanti più giocatori vi si sottomettono, una regola però che non vuole né cambiare, né comprendere il mondo della realtà»385.
382
Ibid., p. 157. Ibid., p. 154. 384 Ibid., p. 84. 385 Ibid., p. 91. 383
164
Si tratta di un punto molto importante per un’analisi dell’influenza che le idee di Mauthner ebbero sull’autore del Tractatus, perché appunto l’idea che la filosofia fallisca laddove cerchi di parlare sensatamente della logica del nostro linguaggio (Tractatus) o degli aspetti normativi dell’uso linguistico (Ricerche), o più in generale l’idea che non si possa dire niente che non sia insensato (a limite privo di senso) sull’essenza del linguaggio, è un elemento di continuità nell’opera di Wittgenstein. Se nel Tractatus le proposizioni della logica delimitavano il campo del dicibile, in quanto casi-limite della logica della raffigurazione386 e mostravano questa loro caratteristica nell’assenza di senso (sinnlos), nelle Ricerche le regole costitutive dei giochi linguistici mostrano la loro applicazione nella correttezza del modo in cui il gioco viene giocato, invalidando in questo modo qualsiasi tentativo di parlarne sensatamente se non attraverso «descrizioni mitologiche»387. Per esser più precisi il carattere “mitologico” delle descrizioni di regole, al pari dell’assenza di senso delle proposizioni della logica, è un’ulteriore declinazione della distinzione tra dire e mostrare. Questo aspetto è particolarmente evidente in un passaggio dell’inizio degli anni Trenta, in cui Wittgenstein attacca la validità di una metafora molto cara a Mauthner, la metafora del fiume, come descrizione “mitologica” legittima dell’essenza del linguaggio: Ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere. Perciò non può dire che tutto scorre. Il linguaggio può dire soltanto ciò che noi potremmo immaginare altrimenti. Che tutto scorra deve trovarsi nell’essenza del contatto del linguaggio con la realtà. O meglio che tutto scorra deve trovarsi nell’essenza del linguaggio. E ricordiamoci: nella vita quotidiana non ci viene in mente questo fatto – non più di quanto ci venga in mente che i contorni del nostro campo visivo sono sfumati (“perché ci siamo abituati”, diranno molti).388
Per Wittgenstein la tesi eraclitea del “tutto scorre” non è falsa, ma insensata. Qualora il linguaggio volesse esprimere qualcosa del genere sull’essenza del mondo e sulla sua relazione con esso, cadrebbe nell’insensatezza. Il motivo sarebbe legato al fatto che la metafora del fiume cerca di esprimere la sensazione dell’impossibilità di «tener fermo l’effettuale»389, ma nel momento in cui la fissa nelle parole la sensazione cessa di esser tale. In questo passo, Wittgenstein riprende la metafora del fiume per far emergere 386
Cfr. TLP 4.46-4.4661, pp. 61-63. Cfr. RF §§ 219-221, p.114. 388 WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 425. 389 Ivi. 387
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l’insensatezza di qualsiasi dottrina filosofica sulla natura del linguaggio e del mondo, anche di una teoria che cerchi di dire questa ineffabilità come quella di Mauthner. È interessante notare come la metafora del fiume abbia una sua storia all’interno dei movimenti del pensiero di Wittgenstein e un “epilogo” nelle ultime osservazioni del filosofo su certezza e senso comune. Qui, la metafora viene piegata all’esigenza di esprimere la relazione tra le proposizioni che formano lo sfondo di ogni giudizio, l’intelaiatura della nostra immagine del mondo, e le proposizioni che invece possono cambiare nel corso del tempo. Per designare le prime, Wittgenstein riprende la nozione di “mitologia”:
La mitologia può di nuovo tramutarsi in corrente, l’alveo del fiume dei pensieri può spostarsi. Ma io faccio una distinzione tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume, e lo spostamento di quest’ultimo; anche se, tra le due cose, una distinzione netta non c’è 390.
In questo “epilogo” della storia della metafora del fiume, Wittgenstein pare aver accantonato le critiche all’insensatezza della metafora stessa per proporre un metodo di descrizione dei fenomeni linguistici relativi alla certezza e al senso comune anch’esso “metaforico”. Di fronte a quello che sembra essere un ripensamento nell’impiego di descrizioni simboliche, di analogie e metafore, per affrontare il problema della natura di aspetti del linguaggio, quale portata assume il senso del rigetto della Sprachkritik in TLP 4.0031? Il punto è che Mauthner, attraverso metafore come quella della scala e quella del fiume, si sforza di esprimere e di render nota al lettore la propria consapevolezza del carattere “mitologico” del linguaggio, come di uno strumento del pensiero atto alla conoscenza del mondo esterno. In altre parole, esibisce nello stile letterario, attento alle metafore e alle etimologie, l’idea che il linguaggio (e con esso il pensiero) dia una rappresentazione riduttiva e fuorviante della realtà. Per Wittgenstein, invece, la natura generale di pensiero e realtà (ciò che in TLP 4.0031 è l’intuizione mirabile di Russell, la forma logica) è identica alle possibilità offerteci dal linguaggio391.
La critica di
Mauthner rimane allora ad un livello di superficie, non riesce a cogliere come sia nelle stesse possibilità del linguaggio di mostrare la sensazione di impotenza nel «tener 390
WITTGENSTEIN L., Della certezza, op. cit., § 97, p. 19. Secondo Janik e Toulmin la chiave di volta della critica di Wittgenstein a Mauthner starebbe nella nozione di “raffigurazione pittorica” (bildliche Darstellung) del mondo; cfr. JANIK A.- TOULMIN S., op. cit., p. 133: «Per Wittgenstein però questa frase avrà un significato radicalmente diverso dalla “descrizione metaforica” di Mauthner e si riferirà ad una “rappresentazione” del mondo sotto forma di “modello matematico” nel senso di Heinrich Hertz e delle sue analisi dei modelli della fisica». 391
166
fermo l’effettuale»: «Alla base del nostro senso di impotenza ci deve essere una falsa immagine. Infatti ciò che possiamo voler descrivere, possiamo descriverlo»392.
2.3.2 Metafora e nonsenso
Fin qui pare che l’influenza della Sparchkritik di Mauthner su Wittgenstein sia esclusivamente negativa, vada cioè ricondotta ad un modello di analisi ancora marchiato da quella incomprensione della logica del linguaggio che l’autore del Tractatus ravvisa nelle domande della tradizione filosofica (TLP 4.003). Ma questa lettura
della
relazione
tra
Mauthner
e
Wittgenstein
subisce
un
drastico
ridimensionamento se si guarda alla seconda tesi fondamentale del pensatore boemo sulla natura del linguaggio. Si tratta dell’impossibilità di definirne l’essenza a partire dalle lingue, dai dialetti e da quelle che Mauthner chiama le «lingue individuali»393, parlate ciascuno di noi nelle diverse fasi della vita. Da ciò segue che il linguaggio è indefinibile perché coincide con il suo uso, e in virtù di ciò possiede una natura eminentemente sociale. Il linguaggio non è uno strumento del pensiero, un oggetto d’uso come una sedia o un abito, il linguaggio è esso stesso il suo uso: «Se il linguaggio fosse uno strumento, verrebbe anch’esso logorato o consumato. Soltanto però le parole vengono consumate, logorate, messe da parte, svalutate. Ma in questo modo acquistano valore per le masse. Il linguaggio non è però un oggetto dell’uso, nemmeno uno strumento, non è affatto un oggetto, non è nient’altro che il suo uso»394. L’affermazione che il linguaggio coincida con il suo uso sembrerebbe essere in palese contraddizione con l’idea che le impressioni sensoriali del mondo aggettivo siano simpliciter le fondamenta del significato delle parole. Se, infatti, le sensazioni fossero effettivamente le cause dei significati delle parole come potrebbero due persone diverse comprendersi, ovvero sapere di aver dato il “giusto” nome alle cose? Mauthner scavalca questa possibile contraddizione guardando alla funzione che il linguaggio ha svolto e svolge
392
WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 425. Cfr. MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p. 81: «In realtà anche il concetto di lingua singola è soltanto un’astrazione per la gran quantità di somiglianze, anzi di somiglianze molto grandi presenti nelle lingue individuali di un gruppo umano, il cosiddetto popolo». Quella di “lingua individuale” è una nozione molto simile a quella di “linguaggio privato” contro la quale Wittgenstein muove il suo famoso argomento nelle Ricerche; cfr. RF §§ 243 e sgg. 394 MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p. 90. 393
167
nella storia della specie umana395. Il linguaggio viene considerato come una condizione necessaria alla sopravvivenza della specie umana, come un’attività espressione dell’adattamento della specie umana all’ambiente: «La somiglianza tra il camminare, o altre azioni, e il parlare diverrebbe più evidente se fin d’ora, con una prospettiva più precisa, potessimo sempre sostituire l’astratto “linguaggio” con il termine “parlare”, che designa un’attività. [...] Così ogni movimento della lingua si riconduce alla fine a un impulso alla comunicazione che andrebbe ottimamente aggiunto all’impulso a respirare, all’impulso ad alimentarsi (del quale l’impulso a respirare sarebbe solo una sottospecie), all’impulso sessuale (di cui l’impulso al nutrimento sarebbe solo un servitore), all’impulso al gioco e all’impulso alla percezione»396. Ora, che il parlare un linguaggio faccia parte di un’attività, e che tale attività svolga una funzione in una forma di vita, come il resto delle nostre azioni “naturali”, è una tesi fondamentale delle Ricerche: «Talvolta si dice: gli animali non parlano perché mancano loro le facoltà spirituali. E questo vuol dire: “non pensano, e pertanto non parlano”. Ma appunto: non parlano. O meglio: non impiegano il linguaggio – se si eccettuano le forme linguistiche più primitive. - Il comandare, l’interrogare, il raccontare, il chiacchierare, fanno parte della nostra storia naturale come il camminare, il mangiare, il bere, il giocare»397. In altri termini, la ricognizione mauthneriana del rapporto tra linguaggio, pensiero e realtà va nella direzione che Wittgenstein stesso ha inaugurato a partire dal Blue Book. Innanzitutto, l’identificazione del linguaggio con il suo uso permette, tanto a Mauthner quanto a Wittgenstein, di dissolvere la questione dell’origine mostrandone il carattere intrinsecamente sociale398. Il linguaggio non è l’opera di un uomo solo, non è l’invenzione di un poeta, ma è una struttura arbitraria e complessa, sorta nel corso della storia naturale: «Il linguaggio è cresciuto come una grande città. Camera su camera, finestra su finestra, abitazione su abitazione, casa su casa, strada su strada, quartiere su 395
Questa interpretazione è stata avanzata anche da JANIK A.- TOULMIN S., op. cit., p. 128: «Se l’intento iniziale delle parole era quello di assicurare la sopravvivenza di un gruppo di uomini in situazioni nelle quali il singolo individuo non era in grado di sopravvivere, importa poco che la stessa immagine sensibile sia apparsa o no nella mente di vari uomini che usavano una parola, mentre importa sapere come essi reagivano e che cosa si aspettavano dall’uso di quella parola. Ciò che conta davvero, ciò che ha realmente significato non è l’immagine che una parola o una cosa evocano, ma l’azione che essa suggerisce o comanda, da cui mette in guardia o che proibisce». 396 Ibid., pp. 88-89. 397 RF § 25, p. 23. 398 Inoltre, la nozione di linguaggio come uso permette di vedere un’ulteriore analogia tra Mauthner Wittgenstein nell’importanza che il contesto proposizionale assume per il significato delle parole; cfr. WEILER G., On Fritz Mauthner’s Critique of Language, «Mind», New Series, vol. 67, n. 265 (1958), p. 83: «It is here that his insistence on the context comes in. With Frege and Wittgenstein, he maintains that the basic unit of meaning is the sentence and that the word gains its meaning from it. it is very unlikely that Mauthner got this idea from Frege; it seems more plausible that its origin was in Wundt’s Grundzüge der physiologischen Psychologie: “The proposition is more basic than the word”».
168
quartiere, è tutto inscatolato in qualcos’altro, legato all’altro, spalmato sull’altro, attraverso tubi e fossi, e se gli si pone davanti uno zulù e gli si dice che quella è un’opera d’arte, allora quell’asino ci crede, eppure a casa ha la sua capanna, rotonda e libera»399. Il riferimento venato da un certo razzismo allo zulù “ingenuo” (che certamente avrebbe infastidito la sensibilità per le diversità culturali di Wittgenstein), il quale paragonando la complessità della città alla semplicità della sua capanna crede di trovarsi di fronte ad un’opera d’arte, richiama direttamente le osservazioni caustiche del filosofo sulla tendenza dell’antropologo Frazer alla spiegazione dei riti religiosi “primitivi”. Le spiegazioni di Frazer sono l’espressione di un metodo filosofico rozzo, che tende a ridurre la molteplicità di un fenomeno, quale il complesso di riti e usanze di una religione antica, alla visione del mondo dell’antropologo400. Così anche per Mauthner le spiegazioni filosofiche dell’origine e della natura del linguaggio, sono astrazioni prive di senso fondate sull’illusione di poter avere una conoscenza completa e adeguata della realtà. Le spiegazioni filosofiche dell’origine del linguaggio non vedono come la nostra intera conoscenza della realtà si sia formata da una sorta di induzione incompleta: « […] l’arte della parola unifica i dati dei sensi accidentali in un’immagine che, mediante il suo accordo con sé stessa, cioè mediante la possibilità della sua ripetizione non contraddittoria, sembra qualcosa più che un caso»401. Le parole sono immagini di immagini proprio perché unificano, nel concetto o nel nome, le immagini relative alle sensazioni dei sensi accidentali. Gli unici passi in avanti che la scienza del linguaggio può compiere si realizzano quando indagando la storia di una parola si ne può ricostruire la rete di relazioni e derivazioni che la connette alle altre parole, «allora giungo all’idea che il linguaggio è cresciuto e ancor oggi cresce a partire dalla memoria umana (e la memoria umana è a sua volta solo linguaggio) soltanto mediante la trasposizione (metafevrein) di una parola definita (fertig) su un’impressione indefinita, mediante il confronto dunque, mediante questo atto eterno
399
MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p. 92. La metafora della città è ripresa in maniera analoga nelle Ricerche; cfr. RF §18, p. 17: «Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi». 400 Cfr. WITTGENSTEIN L., Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, op. cit., p. 18: «Mi sembra già sbagliata l’idea di voler spiegare un’usanza, per esempio l’uccisione del re-sacerdote. Frazer non fa altro che renderla plausibile a uomini che non la pensano come lui. È davvero strano che tutte queste usanze finiscano per esser presentate, per così dire, come sciocchezze.», con Ibid., p. 28: «Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi, perché questi non potranno essere così distanti dalla comprensione di un fatto spirituale quanto lo è un inglese del ventesimo secolo. Le sue spiegazioni delle usanze primitive sono molto più rozze del senso di quelle usanze stesse». 401 MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., p. 104.
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del à-peu-près, mediante questo infinito circoscrivere e parlare figurato che costituisce la forza artistica e la debolezza logica del linguaggio»402. Per Mauthner il linguaggio si è formato e si è accresciuto mediante l’invenzione della metafora, come processo continuo di trasposizione e comparazione dal mondo psicologico delle impressioni sensoriali a quello sociale dei significati. La metafora non è un semplice artificio retorico, un accessorio stilistico che si aggiunge ad una presunta funzione di denotazione dei pensieri propria delle parole; la sua origine è una manifestazione di arguzia (Witz), della capacità da parte dei parlanti di una lingua di scorgere somiglianze lontane tra parole diverse e tra le diverse sensazioni che le hanno causate. In questo senso la metafora è un processo di continuo accrescimento del linguaggio, in altri termini è il motore del mutamento semantico, perché i significati delle parole e dei concetti variano in funzione della loro estensione metaforica verso le somiglianze più lontane403. La prova che il processo di mutazione semantica di una parola passi per l’estensione metaforica dell’etimologia originaria, starebbe proprio nel carattere aperto del concetto di significato: «I due o cento “significati” di una parola o di un concetto sono altrettante metafore o immagini e, dato che oggi non conosciamo assolutamente il significato originario di nessuna parola, dato che la prima etimologia si colloca infiniti anni addietro rispetto alla nostra conoscenza di questo significato, allora nessuna parola ha mai altro significato che quello metaforico»404. In secondo luogo, al lettore accorto non sfuggirà come la concezione metaforica dei significati delle parole richiami direttamente la dissoluzione grammaticale del problema della forma logica, condotta da Wittgenstein a partire dalla metà degli anni Trenta. Infatti, se per Mauthner la possibilità stessa che le parole siano immagini dirette delle impressioni sensoriali causate dalle “cose” del mondo fisico viene dissolta nella nozione di metafora, per Wittgenstein:
402
Ibid., p. 105. Cfr. Ibid., p. 111. Mauthner attribuisce ad Aristotele il merito di aver chiarito l’importanza dell’uso della metafora, il limite di questo approccio starebbe nel tentativo «[…] di risolvere ogni metafora in una proporzione matematica completa o incompleta» (in Ibid., p. 109). L’allusione di Mauthner è alla trattazione aristotelica della metafora nel XXI capitolo della Poetica; cfr. ARISTOTELE, Poetica, tr. it. di M. Valgimigli, in Aristotele, Mondadori, Milano 2008, vol. 2, pp. 1038-1042. Qui lo stagirita definisce la metafora come il trasferimento ad un oggetto del nome che è proprio di un altro e ne individua quattro generi: trasferimento dal genere alla specie, dalla specie al genere, da specie a specie e infine trasferimento per analogia. La riduzione della metafora a proporzione matematica additata da Mauthner andrebbe identificata con la metafora per analogia, quella che si esprime nella proporzione di quattro termini (es. “La vecchiaia è la sera della vita”, cioè vita:vecchiaia=giorno:sera). Per l’efficacia retorica della metafora per analogia quale espressione «spiritosa e di successo» si veda invece ARISTOTELE, Retorica, tr. it. di A. Plebe, in op. cit., vol. 2, III capp. 10-11, pp. 956-966. 404 Ibid., p. 105. 403
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L’indagine sulle regole d’uso del nostro linguaggio, la conoscenza di queste regole e la loro rappresentazione perspicua, si propongono ciò che sovente si vuol fare/ottenere/ con la costruzione di un linguaggio fenomenologico, ossia fanno la stessa cosa. Ogniqualvolta riconosciamo che un determinato modo di raffigurazione può anche essere sostituito da un altro, compiamo un passo verso questa meta. 405
Quello che vorrei emergesse da questo confronto è che l’influenza di Mauthner sull’opera di Wittgenstein diventa più evidente laddove il filosofo austriaco abbandona l’idea che il linguaggio abbia una natura essenzialmente raffigurativa, per introdurre le nozioni di “grammatica”, di “rappresentazione perspicua” e di “nessi intermedi”. Alla metà degli anni Trenta, infatti, Wittgenstein comincia a vedere i suoi tentativi di ricondurre proposizioni che vertono sulla descrizione di sensazioni ad un “linguaggio fenomenologico primario” come il frutto dell’inquietudine creata da un approccio metafisico. È così, ad esempio, che il problema della verifica di proposizioni descrittive come “Vedo due cerchi rossi su sfondo blu”, viene dissolto dal filosofo austriaco non tanto attraverso la ricerca delle condizioni fenomenologiche grazie alle quali il soggetto conosce la porzione di realtà descritta dalla proposizione, quanto nella direzione della chiarificazione degli aspetti normativi del linguaggio. Non solo esistono molti metodi di raffigurazione, legati a contesti o meglio a giochi linguistici con funzioni e obiettivi differenti, ma un passo decisivo verso la chiarificazione della funzione del linguaggio all’interno della forma di vita, può venire solo dalla loro comparazione e trasposizione. Nel caso dell’asserzione “Vedo due cerchi rossi su sfondo blu” l’analisi filosofica ha lo scopo terapeutico di eliminare l’inquietudine generata dalla mancanza di chiarezza nella grammatica di questa proposizione, per confrontarla con proposizioni sintatticamente simili come “Sul tavolo blu ci sono due palle rosse” o “Su questa figura vedo due colori”. Dal confronto, è possibile ricavare descrizioni simboliche della prima proposizione, dalle quali emergono con maggior chiarezza le regole d’uso delle espressioni in essa utilizzate:
Naturalmente, invece della prima proposizione [“Vedo due cerchi rossi su sfondo blu”], posso dire: “Vedo due macchie con le proprietà rosso e circolare e nella relazione spaziale l’unaaccanto-all’altra”; ma posso anche dire “Vedo il colore rosso in due località circolari l’una accanto all’altra”, se stipulo che queste espressioni hanno lo stesso significato della proposizione di cui sopra. La grammatica delle parole “macchia”, “località”, “colore” ecc. 405
WITTGENSTEIN L., The Big Typescript, op. cit., p. 435.
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dovrà poi uniformarsi semplicemente con quella delle parole della prima proposizione. In questo caso la confusione trae origine dal fatto che crediamo di dover decidere sulla presenza o sull’assenza di un oggetto (di una cosa): la macchia; come quando decido se quel che vedo (in senso fisico) sia una tinta rossa o un riflesso. 406
In questo passo risulta particolarmente evidente come il linguaggio fenomenologico che l’analisi filosofica della forma logica avrebbe dovuto far emergere dai “travestimenti” grammaticali delle nostre proposizioni empiriche (il “merito di Russell” in TLP 4.0031), non è altro che una trasposizione metaforica, in un senso molto vicino a quello che la metafora ha per Mauthner, di una proposizione utilizzata in un contesto quotidiano. Wittgenstein individua nella tendenza filosofica alla spiegazione, la stessa che lo aveva portato alla ricerca di un linguaggio primario fenomenologico (quello in cui alla parola “macchia” designa un oggetto del mondo fisico causa di una sensazione), un uso metaforico fuorviante delle espressioni del linguaggio quotidiano: «Quando correggo un errore filosofico, dicendo che si è pensato sempre in questo modo, ma che così non va, faccio sempre notare un’analogia alla quale ci si è attenuti, e faccio notare che non è adatta./… devo sempre far notare un’analogia secondo la quale si è sempre pensato, ma che non è stata riconosciuta come analogia»407. Il metodo filosofico di Wittgenstein consiste nell’uso di appropriati esempi grammaticali al fine di rendere palesi le «analogie fuorvianti» tra le parole con cui formuliamo i nostri problemi essenziali e le stesse parole utilizzate in contesti quotidiani. La difficoltà per chi fa filosofia consiste proprio nel riconoscere l’insensatezza dei presunti problemi essenziali, del loro essere la conseguenza della reiterazione oltre ogni limite della trasposizione metaforica: «Ricordati di come riesca difficile ai bambini credere (o ammettere) che una parola abbia/possa avere/ davvero due significati completamente diversi. Lo scopo della filosofia è innalzare un muro laddove il linguaggio finisce ugualmente. I risultati della filosofia sono la scoperta di qualche schietto nonsenso e dei bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti/la fine/ del linguaggio. Essi, i bernoccoli, ci fanno comprendere/ riconoscere/ il valore di quella scoperta»408. Le analogie tra Mauthner e il tema wittgensteiniano della grammatica si fermano però a questo punto. Wittgenstein introduce l’idea che incorriamo nel nonsenso solo laddove cerchiamo di spiegare la regolarità di un uso linguistico con espressioni linguistiche
406
Ibid., pp. 435-436. Ibid., p. 408. 408 Ibid., pp. 423-424. 407
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prive di una reale funzione nella forma di vita, come le proposizioni della metafisica. L’uso di una parola in un contesto appropriato, in un gioco linguistico del quale soddisfa le regole, rientra invece nei limiti del discorso sensato e pertanto l’indagine sul significato se condotta al di fuori del suo uso, diventa un’altrettanto capziosa sublimazione filosofica, priva di senso. In sostanza, per Wittgenstein l’Unsinnigkeit sorge laddove l’indagine filosofica perde l’attrito con il terreno saldo dell’uso linguistico ordinario. L’esilio della parola dal senso si consuma nella direzione di un suo impiego metaforico fuorviante. Al contrario del filosofo austriaco, Mauthner ritiene che la sua intuizione
sul ruolo della metafora nell’origine e nell’evoluzione del
linguaggio sia una tesi fondamentale per comprendere anche l’uso linguistico ordinario. Secondo Mauthner, infatti, le parole utilizzate in contesti quotidiani sono il risultato della cristallizzazione di metafore e analogie create dall’arguzia dei parlanti di una lingua. La letteratura, e in particolare la poesia, svolgerebbero la funzione di estendere i confini della memoria collettiva (depositaria degli usi linguistici) attraverso metafore e giochi di parole409. Davanti al poeta, così come davanti ai primi parlanti di una lingua, si dispiegano le innumerevoli possibilità di estendere attraverso la trasposizione metaforica l’estensione di un concetto, fornendogli una nuova fisionomia. Ma se da un lato l’uso linguistico di questa nuova fisionomia le conferirà lo status di parola, dall’altro la cristallizzazione della metafora in un significato avrà come conseguenza la recisione di ogni legame con il mondo delle sensazioni da cui la metafora ha origine: «Dietro di noi rovine, davanti a noi costruzioni nuove, con noi la casa in cui dimoriamo; dietro di noi una lingua morta, davanti a noi il sentore di nuovi concetti, con noi un ondeggiare e un intrecciarsi (ein Wogen und Weben) di metafore, che stanno per diventare parole senza senso (unisnnig) e quindi utilizzabili»410. Mauthner illustra la relazione tra conservazione e innovazione semantica come esilio e ritorno, come un perenne abbandono della “casa” degli usi linguistici ordinari per una rete di trasposizioni metaforiche. L’abbandono della casa si traduce nella sua rovina, la parola ordinaria perde il senso che le veniva conferito dell’essere un’invenzione arguta. Questo perché una parola, per essere spendibile nella comunicazione, deve creare l’illusione della denotazione, deve cioè aver cessato quella relazione di continua comparazione e trasposizione che la metafora intrattiene con i dati dei sensi accidentali,
409
Mauthner individua nel nonsenso arguto e volontario del motto di spirito (Wippchen) uno degli elemento fondamentali della trasformazione semantica di una lingua; cfr. MAUTHNER F., La maledizione della parola, op. cit., pp. 114-116. 410 Ibid., p. 113.
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con le impressioni sensoriali: per Mauthner ogni uso linguistico manifesta in quanto tale la sua insensatezza. Il punto è che le parole non convogliano attraverso i loro significati un’immagine falsa del mondo, ma piuttosto non raffigurano alcuna immagine sensata. Per concludere, l’estensione dei limiti del nonsenso a tutti i significati linguistici gioca per il pensatore boemo una funzione cruciale tanto nel mutamento semantico, dunque nella storia di una lingua, quanto nel tema più generale dell’individuazione dei limiti della conoscenza. Spero che la mia analisi di importanti metafore dell’opera mauthneriana (la metafora del fiume, quella della scala e quella della città) abbia soddisfatto questo obiettivo. Infatti, qualsiasi atto di critica evasivo rispetto ad una trattazione che rimanga metaforica, qualsiasi tentativo di definire sensatamente tali limiti, è destinato all’insensatezza:
Das wäre freilich die erlösende Tat, wenn Kritik geübt werden könnte mit dem ruhig verzweifelnden Feritode des Denkens oder Sprechens, wenn Kritik nicht geübt werden müßte mit scheinlebendingen Worten.
411
Il silenzio di Wittgenstein alla fine del Tractatus si trova invece in una posizione diametralmente opposta. Le proposizioni che costituiscono il libro e che bisogna «gettar via» una volta lette, si muovono verso il nonsenso e ne assumono consapevolmente le caratteristiche. Questo movimento non è allora il tentativo di “fissare” in fondamenti teoretici una visione del mondo e del linguaggio; Wittgenstein non cade nella tentazione denunciata da Mauthner di individuare una teoria del limite del discorso sensato. Pertanto, il silenzio della settima proposizione è il rovesciamento del silenzio scettico di Mauthner di fronte all’indicibilità della sua stessa critica del linguaggio. Il lettore del Tractatus, come il «senza patria» della poesia di Trakl, attraversa le rovine delle città e continua il suo pellegrinaggio verso il linguaggio.
411
MAUTHNER F., Die Sprache, Literarische Anstalt Rütten & Loening, Frankfurt 1906, p.114; (tr. it. in JANIK A., TOULMIN S., op. cit., p. 132: «L’atto di redenzione esisterebbe se si potesse portare avanti la Critica col suicidio silenzioso del pensiero e del linguaggio, se la Critica non dovesse essere portata avanti con parole che posseggono un sembiante di vita».
174
Capitolo 3
NONSENSO ED ETICA
175
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3.1 Le interpretazioni del nonsenso etico del Tractatus Eraclito dice che per coloro che sono svegli
esiste
un
mondo
unico
e
comune, e che invece ciascuno di coloro che dormono torna nel proprio mondo. (I Presocratici, Raccolta e traduzione di frammenti di H.Diels e W.Kranz, ed. it. Bompiani, Milano 2006, Fr. B, 88, p.363)
Dopo aver trattato da un punto di vista generale la nozione di nonsenso del Tractatus, e i suoi ulteriori sviluppi nella “fase intermedia”; dopo averne indagato l’origine e le analogie in autori come Frege, Hofmannsthal e Mauthner, è arrivato il momento di considerarne l’aspetto principale: la sua applicazione da parte di Wittgenstein al campo dell’etica. Questo capitolo tratta del modo in cui l’autore del Tractatus intendeva l’insensatezza dell’etica, e del modo in cui quest’idea, pur nella continuità di numerosi temi, venne gradualmente modificandosi. Per far questo sarà indispensabile prendere in considerazione le principali linee di lettura dell’insensatezza dell’etica nel Tractatus. Lo scopo è far emergere come su questo terreno Wittgenstein cercasse di risolvere alcune importanti aporie relative allo sfondo filosofico contro il quale le sue idee in questo ambito erano maturate: quello della filosofia morale kantiana e della lettura di Schopenhauer412. Da ciò dovrebbe risultar chiaro come la discussione sull’insensatezza 412
I contatti di Wittgenstein con quell’insieme di problemi che costituiscono il quadro concettuale della filosofia trascendentale kantiana e delle critiche che gli vennero mosse da Schopenhauer, sono accertati e documentati. Per quanto riguarda Kant, sappiamo che Wittgenstein si impegnò nella lettura della prima Critica nel periodo della sua prigionia in Italia (1919), cfr. MONK R., Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, tr. it. di P. Arlorio, Bompiani, Milano 1991, p. 162. Quanto al periodo precedente al 1919 sappiamo che aveva una padronanza del pensiero kantiano come ogni uomo tedesco di cultura media e pare non ne accettasse l’idea dell’esistenza di proposizioni sintetiche a priori, cfr. MCGUINNESS B.F., Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), op. cit., pp. 371-372. La questione della lettura di Schopenhauer è un po’ più complessa; come testimonia von Wright la filosofia adolescenziale di Wittgenstein era stata fortemente influenzata dalla letture del Mondo, accantonata solamente per il fascino esercitato sul giovane Ludwig dal realismo matematico di Frege cfr. WRIGHT VON G.H., Wittgenstein, tr. it. di A. Emiliani, Il Mulino, Bologna 1983, p. 44. Questa ricostruzione lineare dell’evoluzione del pensiero wittgensteiniano si scontra però con il riemergere di tematiche schopenhaueriane nelle annotazioni del 1916 e nelle sezioni del Tractatus sull’etica. Per meglio comprendere i modi e l’importanza della lettura di Schopenhauer, deve esser presa in considerazione la questione della recezione delle idee del filosofo tedesco in Austria da parte della generazione di intellettuali che nacquero negli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento come sintomo della rottura con la tradizione scientifico-filosofica legata al liberalismo, cfr. LUFT D.S., Schopenhauer, Austria and the Generation of
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dell’etica nel Tractatus e nella fase in cui Wittgenstein tornò alla filosofia (1929-30) sia un’importante cartina tornasole del cambiamento occorso nella concezione del linguaggio. La nuova direzione si manifesta nelle Ricerche filosofiche e più in generale nella “seconda fase”, attraverso la nozione di uso secondario di un’espressione, che sembra prendere il posto, nello spazio speculativo wittgensteiniano, del nonsenso etico.
L’insensatezza delle proposizioni dell’etica è conclusa da Wittgenstein nel contesto di quelle sezioni del Tractatus che fanno da commento alla sezione “cardinale” sulla forma generale della proposizione (TLP 6). Così, se volessimo circoscrivere l’ambito dell’etico all’interno del Tractatus, esso si ridurrebbe a poco più di due sezioni di commento alla forma generale della proposizione (TLP 6.4-6.5) e ai relativi commenti “decimali” e “centesimali”. Infatti, una volta definita la forma generale della proposizione e aver così fissato i limiti del discorso sensato dall’interno, dalla prospettiva delle condizioni che permettono al linguaggio di raffigurare la realtà, Wittgenstein si pronuncia sulla posizione che le proposizioni della logica e della matematica occupano rispetto a questo limite (TLP 6.1-6.3). Rimane a questo punto il problema di stabilire la posizione di tutte quelle proposizioni che non rientrano nell’ambito della descrizione dei fatti, e che tuttavia non assolvono il compito di mostrare gli aspetti formali che permettono alle proposizioni sensate questa funzione raffigurativa. Si tratta delle proposizioni di etica ed estetica, quelle attraverso cui cerchiamo di esprimere il «senso del mondo» (TLP 6.41). Innanzitutto, Wittgenstein sostiene che dal punto di vista del valore, non quindi del contenuto raffigurativo che esprimono, tutte le proposizioni si trovano sul medesimo piano (TLP 6.4). Esiste allora una dicotomia fondamentale, quella tra fatti nel mondo e valori fuori dal mondo, tra proposizioni su fatti accidentali e proposizioni che cercano di esprimere valori nonaccidentali (TLP 6.41). Ma dal momento che per Wittgenstein le proposizioni hanno una natura raffigurativa (espressa dalla forma generale della proposizione), e che tutto ciò che può esser raffigurato è un fatto nel mondo, le proposizioni sui valori (le proposizioni di etica ed estetica) poiché cercano di esprimere qualcosa che non è nel mondo non raffigurano niente. Le proposizioni «non possono esprimere nulla di ciò che è più alto» (TLP 6.42), quindi le proposizioni di etica ed estetica, in quanto proposizioni 1905, «Central European History», vol. 16, n. 1, (1973), p. 68: «The intense interest of this younger generation in Schopenhauer reflects a shared set of intellectual preoccupations, but it is also indicative of Austria’s integration by the turn of the century into the wider sphere of German culture. […] This is so much the case that it is appropriate to regard the generation of 1905 in Austria as the continuation of a North German tradition that flows from Kant to Schopenhauer to Nietzsche to Vienna 1900».
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del linguaggio, falliscono nel tentativo di raffigurare ciò che non può essere raffigurato: sono dei nonsensi. L’insensatezza delle proposizioni dell’etica può essere compresa solo all’interno dell’intenzione filosofica che pervade il Tractatus, quella di stabilire i limiti del discorso sensato413. Proprio su questo terreno, sul problema dei limiti del discorso sensato, hanno trovato la loro dimora le prime interpretazioni dell’insensatezza che Wittgenstein ascrive alle proposizioni dell’etica. Se il Tractatus si propone di fornire una dottrina che individui un criterio per stabilire la sensatezza delle proposizioni, ciò che non aderisce a questo criterio è insensato. Le proposizioni dell’etica, pur essendo insensate, pur mancando di contenuto cognitivo o descrittivo, possiedono la capacità di esprimere emozioni o sentimenti. Una lettura “emotivista” dell’insensatezza dell’etica riecheggia più o meno in questi termini nelle opere del primo Carnap, ed è avanzata proprio in relazione al Tractatus da Ayer414. Secondo questi autori il discorso morale costituisce una sfera del linguaggio i criteri di significato della quale sono non empirici ma espressivi, sono cioè riconducibili ad una funzione pratica, ovvero l’espressione di sentimenti di approvazione o disapprovazione verso un’azione morale o una scelta. L’interpretazione “emotivista” che ho qui esemplificato in due autori come Carnap e Ayer, certamente molto vicini alla lettura neopositivista del problema del senso della proposizione nel Tractatus, si rifà ad una distinzione molto netta e marcata tra discorso sensato e discorso morale insensato. Il risultato è la riduzione del problema dell’insensatezza del secondo al problema di come una stringa insensata di segni possa comunicare, in assenza di un contenuto proposizionale descrittivo o cognitivo, un sentimento o un’emozione. Questo approccio ha peraltro il difetto di trascurare la prospettiva fondamentale che nel Tractatus Wittgenstein assume sull’etica, quella del valore come 413
Questa interpretazione è corroborata dalla lettera a von Ficker citata nell’introduzione, cfr. WITTGENSTEIN L., Lettere a Ludwig von Ficker, op. cit., lettera del 10/11.19, p. 72: «Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto è da delimitare rigorosamente solo in questo modo». 414 Una lettura “emotivista” della costituzione dei valori etici è abbracciata da Carnap già all’epoca della Aufbau, cfr. CARNAP R., La costruzione logica del mondo. Pseudoproblemi nella filosofia, ed. it. a cura di E. Severino, Utet, Torino 1997, pp. 357-58: «La costituzione dei valori con certi dati vissuti, le “esperienze vissute di valore”, presenta per più aspetti un’analogia con la costituzione delle cose fisiche mediante le “esperienze vissute di percezione” (più esattamente: mediante le qualità sensibili). […] Così per la costituzione dei valori etici, si debbono prendere in considerazione (tra le altre) l’esperienza della coscienza morale, l’esperienza del dovere o della responsabilità, e simili; per i valori estetici, l’esperienza del piacere (estetico) o di altri atteggiamenti che si realizzano nella contemplazione artistica e nell’esperienza della creazione artistica, ecc.». Per quanto riguarda la lettura emotivista di Ayer relativa al Tractatus si veda AYER A.J., Wittgenstein, tr. it. di L.Sosio, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 47-48: «È vero che sono ancora attratto verso la teoria “emotiva” dell’etica che esposi in Language, Truth and Logic, in un periodo in cui ero soggetto all’influenza del Tractatus e ancor più del Circolo di Vienna, e che la teoria emotiva non esclude asserzioni puramente etiche dal campo delle asserzioni di fatto. Nello stesso tempo essa tenta di dare una spiegazione del loro significato».
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chiave di volta del «problema della vita», come prospettiva atemporale sulla totalità dei fatti (TLP 6.45). L’etica possiede per Wittgenstein una dimensione trascendentale (TLP 6.421), relativa cioè alla cornice di condizioni che permettono di comprendere la realtà e agire in essa, che non può esser ridotta alla mera comunicazione di un sentimento o di un’emozione. La connotazione trascendentale delle proposizioni dell’etica ha aperto la strada ad una seconda generazione di interpreti, che sulla scorta delle considerazioni di Stenius, ha individuato nel nonsenso etico una forma speciale di relazione conoscitiva con il mondo, con un suo contenuto ineffabile415. L’immagine del limite del discorso sensato assume un duplice aspetto: da un lato costituisce e individua l’armatura logica del mondo e del linguaggio, dall’altro circoscrive la regione di ciò che non è possibile asserire. Le proposizioni dell’etica si trovano proprio nella regione del nonsenso, esse sfuggono all’asseribilità e tuttavia veicolano qualcosa di afferrabile non in termini di conoscenza proposizionale. Quella che la critica più recente ha definito le letture “ineffabiliste” dell’etica sono accomunate quindi dall’idea che vi sia un contenuto indicibile del mondo che la direzione insensata delle proposizioni etiche cerca di esprimere, ma che può essere solo visto416. In taluni casi questa visione etica sarebbe identificata con un’intuizione morale, un atto di percezione non riconducibile alla percezione sensibile ordinaria perché rivolta a contenuti non empirici. Ad esempio, gli Hintikka caratterizzano il qualcosa mostrato dall’intuizione morale negli stessi termini in cui Moore aveva definito gli oggetti immediati dell’esperienza etica ed estetica come “oggetti emozionali”: «Questi oggetti immediati delle esperienze di valore di Moore sono i cugini emozionali dei dati sensoriali di Russell e Moore. Se anch’essi sono tra gli oggetti di Wittgenstein nel Tractatus, diventa letteralmente vero che il mondo (la totalità degli oggetti) di una persona che ha esperienze di valore è diverso da quello di una persona che non ne ha»417. Questa lettura intuizionista ha tuttavia il limite di contraddire l’intenzione di partenza, quella di offrire una spiegazione adeguata del nonsenso delle proposizioni etiche. Se, infatti, le proposizioni dell’etica hanno come costituenti ultimi gli oggetti di un’esperienza immediata (l’esperienza relativa al godimento estetico e all’agire morale), perché allora dovrebbero essere insensate?
415
Per un rassegna delle interpretazioni kantiane del Tractatus, a partire dal “lingualismo trascendetale” di Stenius cfr. BASTIANELLI M., Oltre i limiti del linguaggio, op. cit., cap. 3, pp. 71-98. 416 Le letture “ineffabiliste” prendono alla lettera l’uso del verbo “vedere” in TLP 6.45, 6.522 e 6.54. 417 HINTIKKA J.-HINTIKKA M., op .cit., pp. 110-111.
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Perché gli “oggetti emozionali” non possono costituire i criteri per la determinazione del senso di una proposizione sull’etica? La critica più recente si contrappone direttamente alla lettura intuizionista del nonsenso delle proposizioni etiche, puntando sulla distinzione tra l’uso etico di una proposizione e le sue caratteristiche interne. Secondo Cora Diamond i criteri per comprendere i nonsensi etici di cui parla il Tractatus, e in ultima istanza i nonsensi di cui è composta l’intera opera, non riposano sulle caratteristiche semantiche delle proposizioni ma nell’uso che ne facciamo418. Dunque, un nonsenso etico sarebbe tale non tanto per le caratteristiche semantiche che lo contraddistinguono (segni privi di significato, assenza di figuratività) quanto per il modo in cui i parlanti utilizzano il nonsenso indipendentemente dalle sue caratteristiche interne. L’uso di un nonsenso etico sarebbe un modo del tutto esterno alla logica della raffigurazione di connettere un’espressione al proprio io, un modo che chiama in causa l’associazione di immagini mentali alle parole419. La conclusione di questa interpretazione è che tanto il discorso etico quanto lo stesso Tractatus sono esempi di “usi immaginativi” del linguaggio, di usi in cui l’attenzione semantica per il significato coinvolta nel discorso sensato cede il testimone all’associazione tra parole e immagini mentali. Laddove la lettura intuizionista cercava di spiegare il nonsenso etico come l’espressione di un’intuizione morale legata a sua volta ad un contenuto ineffabile, i lettori risoluti ritengono contrarie alle intenzioni di Wittgenstein le spiegazioni del contenuto proposizionale di un nonsenso420, e si concentrano sul meccanismo essenzialmente immaginativo determinato dal nonsenso etico nel discorso morale. Ad ogni modo, mi sembra che questa suggestiva lettura del nonsenso etico nel Tractatus incontri delle difficoltà laddove Wittgenstein realizza quel cortocircuito tra soggetto metafisico della conoscenza e soggetto etico della volontà, alla base della “visione corretta del mondo” (sehen richtig) della 6.54. Per l’Io metafisico in cui si esprime la verità del solipsismo (TLP 5.6-5.641) il problema della determinatezza del senso della proposizione e quello della vita sono relativi alle condizioni a priori della 418
Si tratta di una prospettiva ermeneutica in cui tanto il Tractatus quanto le Ricerche trattano la filosofia e le proposizioni filosofiche come nonsensi in grado di orientare l’immaginazione del lettore attraverso l’uso di analogie, metafore e immagini; cfr. DIAMOND C., The realistic spirit: Wittgenstein, philosophy and the mind, op. cit., p. 35. 419 Cfr. DIAMOND C., Ethics, imagination and the Tractatus, in op. cit., pp.161-162. 420 Cfr. DONATELLI P., Wittgenstein e l’etica, op. cit., p.123: «Per comprendere l’intenzione filosofica di Wittgenstein, bisogna quindi evitare di commettere l’errore di assumere come data una nozione prefilosofica (cioè esterna al percorso delucidativo del Tractatus) di linguaggio e morale e quindi di applicare ad essa l’affermazione circa l’impossibilità che vi siano proposizioni etiche, mentre si deve prendere come caratteristica (Merkmal) dell’etica proprio la non esistenza di proposizioni dell’etica».
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conoscenza e dell’etica. Per Wittgenstein, infatti, “vita” e “mondo” sono solo due modalità in cui l’Io metafisico si relaziona alla totalità delle possibili combinazioni di oggetti e di stati di cose in stati di cose e fatti: «Il mondo e la vita sono tutt’uno. La vita fisiologica naturalmente non è “la vita”. E nemmeno quella psicologica. La vita è il mondo. L’etica non tratta del mondo. L’etica deve essere una condizione del mondo, come la logica. Etica ed estetica sono tutt’uno»421. Una lettura delle proposizioni etiche come usi immaginativi del nonsenso, se staccata dalla lettura risoluta della 6.54 (i nonsensi del Tractatus sono semplici nonsensi, non alludono o falliscono nell’esprimere alcunché di ineffabile) diviene problematica laddove Wittgenstein sviluppa il tema del solipsismo e poi identifica il soggetto metafisico con il soggetto della volontà, con il soggetto dell’etica. Per i lettori risoluti il Tractatus pronuncia sul ruolo dell’etica dei semplici nonsensi, che nella prospettiva di 6.54 devono essere compresi come tali e superati. Così, quanto Wittgenstein afferma sulla verità del solipsismo, è una semplice strategia di implosione applicata a questa posizione e priva di connessione con la visione dell’etica del Tractatus. Che il mondo sia il mio mondo per i lettori risoluti non ha alcuna connessione con il soggetto della volontà quale portatore dell’etico, è solamente uno dei gradini della scala che dobbiamo gettar via. Secondo Diamond se svolgiamo rigorosamente l’implosione suggerita dal tentativo di Wittgenstein di dar voce al solipsismo otteniamo la semplice conclusione per cui la filosofia parla del sé in modo non psicologico: «Il sé o il soggetto non dovrebbero essere concepiti come una cosa speciale, non-empirica, attiva, o come una cosa impersonale che ha la facoltà di rappresentare. […] Il fatto che affermazioni come “il mondo è il mio mondo” e “il soggetto è il limite del mondo” siano attraversate e superate è ciò che fa sì che il nostro desiderio di esprimere il solipsismo sia soddisfatto dall’implosione del solipsismo, inteso come una concezione a sé stante»422. Mi sembra allora che la «trasformazione del desiderio filosofico»423, considerata da Diamond come il filo conduttore del tema del nonsenso nel Tractatus, sia un aspetto del metodo
421
WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op. cit., 24/7/1916, p. 222. Questa interpretazione del passo citato è suggerita da Pears, il quale pone l’accento sulla derivazione schopenhaueriana dell’uso di “mondo”, cfr. PEARS D., The False Prison: A Study of the Development of Wittgenstein’s Philosophy, vol. 1, , op. cit., p. 174: «The point was made earlier that in this part of the Tractatus “the world” does not mean “all the facts”, but “all the possibilities”. Some of these possibilities are realized as facts and others are not, but I can always explore them in imagination. So “the world” is “the world as I find it” and as I construct it in imagination. It is the world of phenomena or, in Schopenhauer’s terminology, the world as idea». 422 CONANT J.- DIAMOND C., op. cit, p. 119. 423 Ibid., p.120.
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wittgensteiniano insufficiente a spiegare il modo in cui solipsismo, nonsenso ed etica si leghino alla “visione corretta del mondo” espressa nel libro. Forse un modo per barcamenarsi tra la Scilla dell’interpretazione intuizionista (il nonsenso etico come intuizione morale di “oggetti emozionali”) e la Cariddi dell’interpretazione risoluta (il nonsenso etico come esercizio dell’immaginazione), pur rimanendo fedeli alla connotazione “trascendentale” dell’etica, è quello di ricondurre la prospettiva etica del Tractatus all’idealismo trascendentale kantiano, nella sua variante schopenhaueriana. Logica ed etica, nel loro avventarsi contro e oltre i limiti del dicibile, possiedono l’analoga capacità di mostrare un contenuto sottostante a tutte le proposizioni sensate, la struttura trascendentale del mondo. I numerosi autori che sostengono questa lettura dell’ineffabile non mancano di far notare come nelle sezioni del Tractatus dedicate all’etica abbondano i riferimenti a Schopenhauer, nel lessico e nelle idee424. L’intero percorso del Tractatus può esser letto come un’indagine sulle condizioni a priori della conoscenza (ambito di indagine della logica) e della volontà (ambito d’indagine dell’etica), in analogia con la dimensione che l’indagine sul rapporto tra soggetto e mondo aveva assunto in Schopenhauer. Com’è noto, per il filosofo tedesco, l’articolazione della rappresentazione (Vorstellung), ovvero della costituzione dell’esperienza del soggetto della conoscenza (almeno al livello dell’intuizione intellettiva) nelle forme pure dello spazio, del tempo e della causalità, è fondata sulla oggettivazione della volontà nel mondo. La volontà, è per Schopenhauer la soluzione all’enigma della cosa in sé kantiana, è una forza metafisica cieca che si individua e oggettiva a diversi livelli, raggiungendo l’apice negli esseri senzienti e coscienti. Ma è solo nell’uomo, nel corpo del soggetto della conoscenza, che il mondo come rappresentazione e il mondo come volontà si incontrano e si riconoscono425.
424
Il “via” alle interpretazioni schopenhaueriane della relazione tra logica ed etica nel Tractatus è stato dato dalla Anscombe, cfr. ANSCOMBE G.E.M., op .cit., pp. 154-156. Questi spunti sono stati approfonditi da Gardiner nella sua monografia sul filosofo di Danzica, cfr. GARDINER P., Schopenhauer, Penguin, Harmondsworth 1963, pp. 275-282 e sono stati ripresi, soprattutto per quanto riguarda il “secondo” Wittgenstein da MORRIS ENGEL S., Schopenhauer’s Impact on Wittgenstein, «Journal of the Histroy of Philosophy», vol. 7, n.3, (1969), pp. 285-302. In tempi più recenti sono da segnalare la monografia di WEINER D.A., Genius and Talent: Schopenhauer’s influence on Wittgenstein’s early philosophy, Fairleigh Dickinson University Press, London 1992 e il saggio di GLOCK H.-J., Schopenhauer and Wittgnestein. Language as Representation and Will, in The Cambridge Companion to Schopnehauer, a cura di C. Janaway, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 422-458. 425 Cfr. SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., II, § 18, p.162: «Al soggetto conoscente che deve la sua individuazione all’identità con il proprio corpo, tale corpo è dato in due maniere affatto diverse: da una lato come rappresentazione intuitiva dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, sottostante alle loro leggi; ma contemporaneamente è dato anche come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viene designato col nome di volontà».
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L’etica si aggira in questo territorio, accertando i limiti e le condizioni entro cui la volontà si oggettiva nei corpi e si dispiega nelle azioni dei soggetti morali. Rimando al prossimo paragrafo un’indagine più scrupolosa di queste possibili analogie, per il momento basti
notare che anche nel Tractatus l’indagine etica
sembrerebbe circoscrivere le condizioni del dispiegarsi della volontà nel mondo (TLP 6.43); ora se le condizioni della conoscenza rappresentano l’«armatura del mondo» (TLP 6.124), quelle della volontà esprimono una tensione verso qualcosa che si trova al di là del limite del dicibile. Secondo Janik e Toulmin, ad esempio, la filosofia del Tractatus veicolerebbe una visone del mondo in cui tutto ciò che non è fattuale non è comunicabile nel linguaggio426. Questa idea andrebbe ricondotta al contesto culturale viennese e alla tradizione filosofica post-kantiana, che avrebbe in autori come Schopenhauer, Mauthner e Weininger (autori tutti letti da Wittgenstein) i suoi principali sostenitori. Lasciando da parte il fatto che la ricostruzione di Janik e Toulmin traccia un quadro a partire da indizi storico-culturali e biografici (sia dunque povera di evidenze fondate sul corpo del testo del Tractatus), essa ha il merito di sottolineare come tanto nelle proposizioni sensate quanto in quelle insensate dell’etica sia all’opera una certa descrizione della relazione tra soggetto e mondo espressa dalla nozione di volontà. È evidente che l’insensatezza dell’etica nel Tractatus richiami, almeno nel lessico427, la filosofia morale kantiana e schopenhaueriana (TLP 6.422-6.423); le letture “idealiste” del nonsenso etico indicano proprio questa strada di ricerca. Per comprendere meglio il modo in cui l’insensatezza delle proposizioni dell’etica rientri in un ordine di tematiche tradizionalmente kantiane, occorre guardare alla centralità di alcuni motivi wittgensteiniani, come la distinzione tra dire e mostrare o il tema del limite. È noto come tanto per Kant quanto per Schopenhauer la filosofia critica avesse il compito di tracciare una distinzione tra la speculazione metafisica illegittima, denominata in polemica con la tradizione leibniziano-wolffiana “metafisica
426
Cfr. JANIK A.- TOULMIN S., op. cit., p. 197: «L’idea base più importante richiesta per capire il Tractatus sta nella distinzione tra la filosofia in esso contenuta (le teorie del modello, la critica di Frege e Russell, e così via) e la visione del mondo che Wittgenstein espone in esso. La sua filosofia vuole risolvere il problema della natura della descrizione e dei suoi limiti, mentre la sua visione del mondo esprime la credenza che la sfera di ciò che può essere mostrato da quelli che invece vogliono dirla. […] In questa visione del mondo la poesia è una sfera in cui si esprime il senso della vita e che dunque non può essere descritta in termini fattuali». 427 Non sono dello stesso avviso i sostenitori della lettura risoluta, per i quali l’approccio all’ etica del Tractatus è esaurito dal problema fregeano-russelliano della determinatezza del senso della proposizione, mentre l’influenza di Schopenhauer si rivelerebbe nel lessico delle sezioni 6.4-6.522 o tuttalpiù nel tono ironico con cui il pensatore tedesco attacca le fondazioni intellettualistiche del discorso morale, cfr. DONATELLI P., Wittgenstein e l’etica, op. cit., pp. 110-111 e CONANT J.- DIAMOND C., op. cit, pp. 136137.
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dogmatica”, e la “metafisica trascendentale”, intesa come un’attività critica volta a frenare gli eccessi di questa disciplina (incarnati per Kant dallo scetticismo)428 e a illuminare lo statuto epistemico delle conoscenze pre-filosofiche429. La questione fondamentale della filosofia kantiana è infatti la possibilità della metafisica, ovvero di una conoscenza delle condizioni dell’esperienza. Tali condizioni sono per Kant a priori, non sono ricavabili né dall’esperienza esterna oggetto della fisica, né dall’esperienza interna oggetto della psicologia empirica, ma esclusivamente dall’intelletto e della ragion pura. Ad ogni modo, pur essendo a priori le condizioni dell’esperienza ampliano il campo della conoscenza data, ci permettono di penetrare in quell’area di confine tra la conoscenza estensiva del mondo fisico e la conoscenza puramente esplicativa delle leggi della logica430. Pertanto, la classe di proposizioni di cui si occupa l’indagine sulla possibilità della metafisica è la classe delle proposizioni sintetiche e, poiché il loro senso verte sulle condizioni di possibilità di qualunque esperienza, a priori. Inoltre, la possibilità della metafisica come scienza preliminare ad ogni indagine scientifica, distinta tanto dalle confusioni della “metafisica dogmatica” quanto dall’eccesso problematico dello scetticismo, si gioca nel quadro della “rivoluzione copernicana”431, ovvero di quel rovesciamento del quadro teorico promosso da Kant finalizzato non a stabilire verità metafisiche quanto a 428
Cfr. KANT I., Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, tr. it. di P. Carabellese, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 26: «Disgustati dunque dal dogmatismo che niente ci insegna, e nel tempo stesso dallo scetticismo che non ci fa sperare proprio affatto nulla, neppure di riposare in una lecita ignoranza, incitati dalla importanza della conoscenza di cui noi abbiam bisogno, e diffidenti, per lunga esperienza di tutta quella di cui ci crediamo in possesso o soltanto una quistione critica, secondo la cui soluzione noi possiamo regolare la nostra futura condotta: È, in generale, possibile la metafisica?». 429 Cfr. GLOCK H.-J., Schopenhauer and Wittgnestein. Language as Representation and Will, in op.cit., p. 428: «Indeed, Kant anticipated many of the subversive methodological ideas that have put Wittgenstein in the bad books of contemporary analytic philosophers, including his contention that there are no discoveries in philosophy, only the dissolution of conceptual confusions». 430 Secondo Conant il carattere tautologico delle leggi della logica, il loro essere rappresentazioni delle condizioni del giudizio, è un aspetto della vicenda filosofica circa la relazione tra leggi della logica e limiti della ricerca scientifica emerso in maniera netta con Kant, e approfondito da Frege e Wittgenstein, cfr. CONANT J., The Search for Logically Alien Thought: Descartes, Kant, Frege and the Tractatus, op. cit., pp. 115-180, in particolare Conant ascrive a Kant, Frege e Wittgenstein il merito di aver individuato la pseudo problematicità della trattazione tardo scolastica e cartesiana dell’illogico come area di espressione della volontà divina. Un’ interpretazione della logica formale kantiana come scienza delle leggi del pensiero, totalmente a priori e prive di contenuto psicologico-descrittivo, può essere avanzata sulla base di alcune affermazioni presenti in KANT I., Logica. Un manuale per le lezioni, ed. it. a cura di M. Capozzi, Bibliopolis, Napoli 1990, p. 20: «In logica non vogliamo sapere come l’intelletto è e pensa e come ha proceduto finora nel pensare, ma come dovrebbe procedere nel pensare. La logica deve insegnarci il retto uso dell’intelletto, cioè l’uso dell’intelletto in accordo con se stesso». 431 Cfr. KANT I., Critica della ragion pura, op. cit., I, Prefazione alla seconda edizione, p. 20: «Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo di concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tale presupposto, non riuscirono a nulla. Si facci, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza: ciò che si accorda meglio colla desiderata possibilità d’una conoscenza a priori, che stabilisca qualcosa relativamente agli oggetti, prima che essi ci siano dati».
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concettualizzare il mondo e le nostre relazioni conoscitive con esso in modo coerente432. Il punto di continuità tra l’impostazione kantiana e il Tractatus che vorrei sottolineare è una comune concezione della filosofia come critica, come impresa non cognitiva volta a dimostrare la non incoerenza, la possibilità logica, del discorso sensato433. L’ immagine utilizzata da Kant per rappresentare la filosofia critica impegnata esclusivamente nella ricognizione dell’ambito del possibile logico è quella celebre della distinzione tra limiti (Grenzen) e confini (Schranken) della ragione:
I limiti (Grenzen) (in un essere esteso) presuppongono sempre uno spazio, che si trova fuori di un certo determinato luogo e lo racchiude; i confini (Schranken) non han bisogno di ciò, ma son semplici negazioni che affettano una grandezza, in quanto non ha completezza assoluta. La nostra ragione vede, per così dire, intorno a sé uno spazio per la conoscenza delle cose in sé, sebbene non possa mai averne concetti determinati e sia confinata soltanto entro i fenomeni. 434
La “rivoluzione copernicana” ha finalmente messo in chiaro che la ragione è confinata nella realtà fenomenica, il compito della filosofia critica è quello di estendere l’indagine razionale fino a vedere i limiti delle sue possibilità. Il progetto kantiano di una “metafisica trascendentale” si inscrive allora nell’ambito della ricognizione dei limiti della ragione, pur nella consapevolezza che essa non possa averne una totale 432
Faccio qui riferimento all’interpretazione della “rivoluzione copernicana”, come rovesciamento del quadro teorico del XVII secolo dal “realismo trascendentale” all’ “idealismo trascendentale”, che è stata data da BENCIVENGA E., La rivoluzione copernicana di Kant, tr. it. di A. Jori, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 47-77. Nell’ambito delle letture analitiche della prima Critica la posizione di Bencivenga si presenta come alternativa a quella ormai classica di Strawson, per il quale la critica kantiana alla pretesa della “metafisica trascendente” (la conoscenza non-empirica di oggetti che non appartengono all’esperienza sensibile possibile) oppone un punto di vista descrittivo, sulla base di un “principio di significanza”: un uso significante di concetti in proposizioni che pretendono di esprimere una conoscenza per Kant è possibile solo a condizione che esistano dei criteri empirici di applicazione di quei concetti; cfr. STRAWSON P. F., Saggio sulla «Critica della ragion pura», tr. it. di M.Palumbo, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 229. 433 L’impossibilità per la filosofia trascendentale di derivare dai suoi principi delle conoscenze relative all’esperienza esterna o interna è stata sostenuta sulla base del significato della “rivoluzione copernicana” da BENCIVENGA E., L’etica di Kant. La razionalità del bene, tr. it. di G.Varnier e G.Gallo, Mondadori, Milano 2010, p. 13: « […] per lui [Kant] una conoscenza (Erkenntnis) comporta l’interazione di concetti (o rappresentazioni generali, cioè rappresentazioni che in via di principio potrebbero applicarsi a più cose, sebbene alcune di fatto si applichino solo a una cosa o a nessuna) e intuizioni (ossia rappresentazioni singole, costituzionalmente dirette a una singola cosa); ma le intuizioni non rientrano in quella ricognizione dello spazio logico in cui consiste la filosofia trascendentale – benché naturalmente vi rientri il concetto di un’intuizione. La filosofia (trascendentale) può stabilire solo la possibilità logica; può dimostrare che la descrizione di qualcosa, per quel che ne sappiamo, non è incoerente». Il principale problema cui va incontro l’attività di ricognizione dei limiti della ragione in cui consiste la filosofia trascendentale è quella del linguaggio attraverso il quale operare la rivoluzione concettuale proposta da Kant. Sulla base di questa difficoltà, che interessa anche l’opera di delimitazione del senso del Tractatus, Bencivenga ha scorto un’analogia con il contenuto paradossale di TLP 6.54, cfr. BENCIVENGA E., La rivoluzione copernicana di Kant, op. cit., pp. 111-112. 434 KANT I., Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, op. cit., p.120.
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padronanza, come di un oggetto. Bisogna peraltro notare che discutendo dei confini entro un contesto puramente speculativo, Kant li tratta come qualcosa di più di linee prive di spessore, di barriere prive di struttura prima delle quali la ragione può solo fermarsi a guardare. I confini possiedono piuttosto una loro dimensione abitabile, all’interno della quale è possibile acquisire una conoscenza positiva: «Se connettiamo, col divieto che impone di evitare tutti i giudizi trascendenti della ragion pura, il precetto, che apparentemente contraddice tale divieto, di elevarci fino ai concetti posti fuori dal campo dell’uso immanente (empirico), ci accorgiamo che possono stare entrambi insieme, ma proprio soltanto sul limite di ogni uso lecito della ragione: giacché questo limite appartiene sia al campo dell’esperienza, sia a quello dell’essere di pensiero; […]»435. Per Kant, la ragione può spingersi sino ai limiti dell’esperienza e vederne entrambi i versanti, senza per questo estendere il proprio dominio al di là di essi: «Ma tuttavia, siccome un limite è anch’esso qualcosa di positivo che appartiene a ciò che sta dentro di esso, come allo spazio che sta fuori di un dato insieme, si ha una reale conoscenza positiva, di cui la ragione diviene partecipe soltanto con l’estendersi fino a questo limite; ma pur così che essa non cerca di uscir fuori di questo limite, perché essa ivi stesso trova dinanzi a sé uno spazio vuoto, nel quale essa può ben pensare delle forme per le cose, ma non le cose stesse»436. Quella di spingersi sino ai limiti dell’esperienza possibile sarebbe infatti un’esigenza naturale della ragione, imposta dalla necessità di uscire dai limiti della semplice considerazione della natura per fondare i princìpi pratici, per giustificare il significato etico dell’agire morale. Dal punto di vista del discorso morale Kant ritiene allora che la metafisica sia una «disposizione naturale […] indirizzata a liberare il nostro concetto dai vincoli dell’esperienza e dai confini della pura considerazione della natura, tanto che esso veda almeno aperto dinanzi a sé un campo che contiene soltanto oggetti per l’intelletto puro, i quali la sensitività non può raggiungere; e ciò non allo scopo che ce ne occupassimo speculativamente (ché non troviamo fondo sul quale possiamo prender piede), ma perché possano essere ammessi i princìpi pratici; […]»437. Da questi passi traspare in maniera abbastanza evidente l’idea kantiana che un uso teoretico della ragione nell’ambito della fondazione dei princìpi morali sia la conseguenza di un uso fuorviante di questa facoltà.
435
Ibid., p.125. Ibid., p.130. 437 Ibid., p.132. 436
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Questa posizione sul ruolo della filosofia e sulla sua attività critica ricorre nel Tractatus nell’immagine di Wittgenstein impegnato a tracciare il confine tra discorso scientifico sensato (TLP 4.113) e speculazione metafisica incontrollata. Ma a differenza di Kant, e soprattutto di Schopenhauer, Wittgenstein sposta il tiro dell’indagine dai limiti della conoscenza umana ai limiti del pensiero, riconducendo questi ultimi nella Prefazione del Tractatus ai limiti del discorso sensato. La principale conseguenza di questo slittamento è che al di là di tali limiti non è presente alcuna cosa in sé o volontà metafisica, ma combinazioni insensate di segni. La differenza rispetto alla tradizione kantiana non sarebbe tanto nel modo in cui la filosofia (per lui identificabile nel Tractatus con la logica) sia la ricerca delle condizioni a priori del pensiero, quanto in una differenza dell’oggetto dell’indagine438. Dal momento che i limiti del pensiero sono i limiti del linguaggio e non delle facoltà conoscitive umane, le proposizioni della logica sono a priori non in quanto descrivono una realtà non-empirica, ma in quanto mostrano le caratteristiche formali e strutturali della realtà empirica439. Ciò che ricade al di fuori di queste caratteristiche formali è logicamente impossibile e dunque anche impensabile (TLP 3.03 e 5.4731). Questo implica che la differenza tra scienza e filosofia non sia una differenza legata alla descrizione di un diverso tipo di oggetti, ma una differenza qualitativa, espressa dalla forma assunta dalle proposizioni filosofiche. Ho messo in evidenza nel primo capitolo che il modo in cui Wittgenstein tematizza nel lessico questa importante differenza è quello della distinzione tra dire e mostrare. Ora, l’insensatezza delle proposizioni dell’etica è una conseguenza di questa delimitazione del dicibile (e del pensabile) a partire dall’indagine condotta nell’ambito delle sue condizioni a priori. Nel prossimo paragrafo cercherò di illustrare come l’opera kantiana di restrizione del senso in ambito metafisico, e nello specifico in ambito etico, si 438
Va infatti detto che nel Tractatus Wittgenstein nega la possibilità di conoscere a priori tutte le forme delle proposizioni elementari (TLP 5.551-5.557). Secondo Bazzocchi in queste sezioni Wittgenstein opterebbe per un costruttivismo kantiano debole, cfr. BAZZOCCHI L., L’albero del Tractatus, op. cit., p. 57: «Wittgenstein accoglie l’idea che la logica sia il sistema secondo il quale si possono formare simboli; ma non vi sono forme a priori, simbolismi di per sé necessari. Quando giunge ad affermare che “la logica è trascendentale” (6.13), non la intende come un insieme di forme e di formule, ma come “ciò che mi rende possibile inventarle”». Ciònonostante, Glock individua nello slittamento dall’indagine sui limiti della conoscenza umana, all’indagine sui limiti del dicibile una radicalizzazione delle tesi kantiane; cfr. GLOCK H.-J., Schopenhauer and Wittgnestein, in op.cit., p. 431: «Wittgenstein rejects Schopenhauer’s specific doctrine that we know the thing in itself trough awareness of our own willing. More important, he tries to reformulate critical philosophy in a way which prevents it from violating its own restrictions, namely, by switching it from Kant’s attempt to draw the limits of human knowledge to a more radical attempt to draw the limits of meaningful discourse». 439 Si tratta di un aspetto dell’indagine filosofica presente anche nella caratterizzazione del concetto di grammatica del “secondo” Wittgenstein, cfr. RF § 90, p. 60: «È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma, si potrebbe dire, alle “possibilità” dei fenomeni».
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presenti nel Tractatus come risposta alla soluzione che Schopenhauer propone rispetto ad una tensione interna al pensiero di Kant: quella tra fenomeno e cosa in sé. Ma se per Kant la cosa in sé, in quanto causa delle sensazioni, costituisce nel soggetto della conoscenza gli aspetti materiali del mondo fenomenico, per Schopenhauer un rapporto di causazione non è possibile: il mondo come rappresentazione e il mondo come volontà si iscrivono su due registri epistemologici differenti440. Tuttavia, sebbene Schopenhauer affermi l’irriducibilità di questa dicotomia, asserisce contro Kant la conoscibilità della cosa in sé. Il modo più coerente di dare una spiegazione dei dati empirici, del mondo come rappresentazione, è vederli come oggettivazione della cosa in sé, la volontà. Per comprendere allora il modo in cui Wittgenstein iscrive l’etica nel campo del nonsenso è necessario guardare al modo in cui Kant definisce la regione del nonsenso in relazione alle proposizioni concernenti azioni e scelte morali, e al modo in cui Schopenhauer riafferma in maniera più rigorosa questa insensatezza a vantaggio della propria metafisica della volontà. Solo a quel punto sarà possibile dare un’interpretazione serena del rapporto tra nonsenso etico e filosofia trascendentale nel Tractatus.
3.2 La geografia kantiana del (non)senso etico, l’interpretazione di Schopenhauer e l’etica del Tractatus Innanzitutto, dovrebbe esser chiaro che al centro di questa paragrafo non si trova una lettura in particolare della filosofia morale kantiana. Ciò che qui interessa è in primo luogo circoscrivere nell’ambito del pensiero di Kant sull’etica il tema del nonsenso, al fine di individuare in seconda battuta possibili analogie e discordanze con quanto Wittgenstein sembra dire di “kantiano” a proposito del nonsenso etico nel Tractatus. 440
Cfr. SCHOPENHAUER A., Il Mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., Appendice. Critica della filosofia kantiana, pp. 605-606: «Kant fonda la supposizione della cosa in sé, per quanto mascherandola sotto varie circolocuzioni, su una inferenza secondo la legge di causalità, che cioè l’intuizione empirica, più giustamente la sensazione, nei nostri organi di senso da cui procede, deve avere una causa esterna. Ora però, secondo la sua giusta scoperta, la legge di causalità ci è nota a priori, e di conseguenza è una funzione del nostro intelletto, dunque di origine soggettiva: inoltre la stessa sensazione alla quale applichiamo la legge di causalità, è innegabilmente soggettiva; e infine anche lo spazio, in cui per mezzo di questa applicazione trasponiamo la causa della sensazione come oggetto, è dato a priori, ed è perciò una forma soggettiva del nostro intelletto. Perciò l’intera intuizione empirica riposa completamente su un fondamento soggettivo, come processo in noi, e non si può introdurre nulla che sia da essa del tutto diverso, da essa indipendente, come una cosa in sé, né provare che essa sia una presupposizione necessaria».
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Per soddisfare la prima richiesta occorre partire della svolta che il pensiero kantiano intende imprimere alla riflessione nel mondo dell’agire. Si tratta di una trasformazione che ha come obiettivo una fondazione dell’eticità in linea con la rivendicazione di validità universale e oggettività della scienza cui viene data voce nella prima Critica. Tale fondazione può avvenire solo all’interno della prospettiva aperta dalla “rivoluzione copernicana”: nell’ambito pratico l’oggettività diviene possibile per opera del soggetto stesso. Pertanto, l’origine della morale non è da ricercare in una fonte eteronoma di giudizio (come lo Stato o la religione) ma nell’autonomia, nell’autolegislazione della volontà. In altri termini Kant cerca di dare un fondamento filosofico al concetto chiave dell’età moderna, la libertà. Inoltre, proprio per questo motivo, il processo argomentativo kantiano è costituito come un’autoriflessione critica della prassi, come un tentativo di svelare dall’interno del soggetto morale ciò che è sempre già contenuto, anche se in maniera indistinta, nella coscienza di chi agisce moralmente441. Questo processo di autoriflessione critica si svolge nell’ambito di un uso pratico della ragione, ovvero della facoltà che ci permette di trascendere i confini dell’esperienza, della natura, nell’agire morale. Il secondo corno della questione è il modo in cui la prospettiva kantiana sulla fondazione dell’etica è stata interpretata e criticata da Schopenhauer, a partire dal primato dell’azione morale su qualsiasi ragione di ordine intellettualistico. Questo aspetto della critica di Schopenhauer ha come fulcro l’analisi del modo in cui Kant ammette a livello speculativo la non contraddittorietà della libertà con la natura e si riversa nella nozione di volontà. Entrambi questi aspetti influenzarono la concezione del nonsenso etico del Tractatus, e più in generale il rifiuto da parte del suo autore di attribuire al discorso morale una finalità scientifico-descrittiva del comportamento umano in determinati contesti.
3.2.1 I confini della ragion pratica e i limiti del discorso morale
Fatta questa premessa il secondo ordine di interrogativi che qui bisogna affrontare riguarda il tipo di forma logica che Kant attribuisce alle proposizioni dell’etica, ovvero se i princìpi e le leggi della morale possono essere espressi in giudizi dotati di senso. Com’è noto, nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant prende le mosse 441
Cfr. ALLISON H.E., Kant’s Theory of Freedom, Cambridge University Press, Cambridge 1990.
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dall’enunciato meta-etico per cui buona senza limitazioni è soltanto la volontà buona442, il concetto di etico viene definito per mezzo di questo enunciato e messo in risalto di fronte a tutti gli altri concetti di bene. Tutto ciò che è buono senza limitazioni lo è assolutamente, non può cioè caratterizzare l’idoneità funzionale di azioni, oggetti, circostanze, capacità per scopi già fissati. Il buono senza limitazioni è tale in base al proprio concetto, senza alcuna condizione limitativa: è l’idea di un bene illimitato e necessario in quanto costituisce il presupposto affinché ciò che è limitatamente buono possa esser buono in generale. Ebbene l’assunto meta-etico della Fondazione assume come illimitatamente buono soltanto la volontà buona. Il fatto che Kant, nella fondazione dell’etica, parta da un fenomeno neutrale dal punto di vista morale come la volontà mostra ancora una volta il rovesciamento del quadro concettuale determinato dalla “rivoluzione copernicana”: la volontà è infatti la facoltà di agire in base a leggi che ci rappresentiamo, è la ragione in rapporto all’agire443. Il carattere razionale della volontà comporta per Kant una rigida distinzione metodologica nell’ambito pratico tra una volontà dipendente da ragioni determinanti sensibili e una da esse indipendente. La prima, la ragione empiricamente condizionata, riceve in parte la propria determinazione da impulsi, bisogni, abitudini e passioni; la seconda, la ragion pura pratica è invece orientata completamente su se stessa. È questa seconda accezione di volontà ad essere coinvolta nell’assunto meta-etico kantiano: ciò che è illimitatamente buono non consiste in un oggetto sommo della volontà ma è la volontà buona stessa. Il punto qui è che l’essere umano è finito, la sua volontà non è pura; l’antropologia kantiana si consuma allora attorno ad un conflitto tra i desideri e le pulsioni determinati nell’individuo dalle inclinazioni naturali e l’azione libera della volontà pura. Questo conflitto renderà necessario esprimere l’azione della volontà buona nella forma imperativa del dovere, dell’eticità nella forma dell’imperativo, del comando, dell’esortazione444. Secondo Kant esistono tre possibilità per adempiere al dovere morale: 1) si può essere ligi al dovere ed agire per interesse personale: «Per esempio è 442
Cfr. KANT I., Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 15: «Nulla è possibile pensare nel mondo, anzi, in generale, anche fuori di esso, che possa essere ritenuto buono senza limitazione, se non una volontà buona». 443 Cfr. Ibid., p. 87: «La volontà viene pensata come una facoltà di determinare se stessa nell’agire in conformità alla rappresentazione di certe leggi. E una tale facoltà può trovarsi solo in esseri razionali». Il fatto che la ragione possa guidare la volontà è spiegato da Kant con un ragionamento di tipo teleologico, per cui se in un essere organizzato per vivere tutte le disposizioni naturali tendono alla migliore realizzazione del fine che perseguono, allora la ragion pratica (il suo fine è la felicità dell’uomo) deve produrre una volontà che non sia un mezzo per un altro scopo, ma buona in sé stessa; cfr. Ibid., p. 21. 444 Cfr. Ibid., p. 57: «La rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto sia costrittivo per una volontà, si chiama comando (della ragione), e la formula del comando si chiama imperativo».
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senz’altro conforme al dovere che il bottegaio non raggiri il cliente inesperto, e quando c’è grande smercio, il commerciante abile di certo non lo fa, anzi, mantiene un prezzo fisso generale per tutti […]. Si è dunque serviti onestamente, ma questo è di gran lunga insufficiente a credere che perciò il commerciante si sia comportato in tal modo per dovere e per principi d’onestà; il suo vantaggio lo richiedeva […]»445; 2) si può agire conformemente al dovere e contemporaneamente spinti da un’inclinazione immediata verso il dovere: «Essere benefici, quando si può, è dovere, e in più vi sono alcune anime così propense alla partecipazione che, anche senza un ulteriore motivo derivante dalla vanità o dall’interesse, provano un’intima soddisfazione nel diffondere gioia intorno a sé, e sanno godere dell’altrui contentezza, se questa è opera loro. Ma affermo che in tal caso una simile azione, per quanto conforme al dovere, per quanto amabile possa essere, non ha alcun vero valore morale […]»446; 3) infine si può riconoscere il dovere puramente per il dovere. Ora il criterio meta-etico kantiano, l’esser buono illimitato, si realizza solo laddove il dovere è voluto e adempiuto in quanto tale: «La seconda proposizione è la seguente: un’azione compiuta per dovere possiede il suo valore morale non nello scopo che deve attuarsi per suo mezzo, ma nella massima in base alla quale viene decisa; tale valore non dipende dunque dalla realtà dell’oggetto dell’azione, ma esclusivamente dal principio del volere in base al quale è stata compiuta, senza considerazione di alcun oggetto della facoltà di desiderare»447. In altre parole, il giusto etico non si realizza per Kant nella mera conformità al dovere (pflichtmäßig), perché altrimenti la correttezza etica di un’azione dipenderebbe dai motivi determinanti come pulsioni, desideri e in generale inclinazioni naturali. Un’azione conforme al dovere ma determinata da un’inclinazione naturale sarebbe buona in un senso del tutto limitato e condizionato da questa inclinazione448. Da ciò consegue che la moralità non può essere collocata sul terreno del comportamento osservabile o su quello della conformità alle sue stesse regole, essa può essere accertata solo sulla base della ragione determinante l’agire morale: il volere. La dinamica dell’azione morale non ha come ragione determinante il semplice adempimento del dovere: piuttosto, nell’agire morale viene in primo luogo compiuto ciò che è eticamente giusto (il dovere morale), ed in secondo luogo l’adempimento del dovere diventa 445
Ibid., p. 23. Ibid., p. 25. 447 Ibid., p. 29. 448 Ibid., p. 89: «Tutti gli oggetti delle inclinazioni hanno solo un valore condizionato: infatti se non ci fossero le inclinazioni e i bisogni fondati su di esse, il loro oggetto sarebbe senza valore. Le inclinazioni stesse, però, come fonte dei bisogni, hanno tanto poco un valore assoluto, tale da farle chiedere per se stesse, che anzi venirne interamente liberati deve costituire l’universale augurio di ogni essere razionale». 446
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ragione determinante. In questo modo la rigorosa oggettività dell’eticamente giusto, ritrovata da Kant nell’autonomia della volontà, diviene essa stessa il criterio per fondare la correttezza dell’agire morale. La formulazione di questo criterio di giudizio sommo dell’agire morale e dell’intera eticità è ciò che Kant chiama “imperativo categorico”449: un dovere (Sollen) che in quanto tale ci ordina di agire in modo determinato, l’unico che sia valido senza alcuna limitazione. Si tratta di un criterio di giudizio estremamente generale che mostra in modo imparziale in cosa consistano gli obblighi morali, per lasciare poi all’agente la possibilità di decidere se vuole riconoscere o meno tali obblighi. Per questo motivo, nella sua formulazione grammaticale più concisa potrebbe risuonare come: “agisci eticamente!” Non mi soffermerò qui sulla distinzione kantiana tra l’imperativo categorico e gli imperativi ipotetici (quelli tecnici dell’abilità e quelli pragmatici della prudenza)450, né sulla determinazione dell’imperativo categorico attraverso il concetto di massima, e quindi sui tre modi in cui Kant rappresenta il criterio oggettivo dell’azione etica. Quello che qui mi interessa sottolineare è che l’imperativo categorico non è nient’altro che l’espressione del concetto di eticità sotto le condizioni degli esseri razionali finiti, dell’antropologia kantiana. Le determinazioni dell’imperativo categorico nelle massime non corrispondono dunque alla formulazione di una coercizione interna o esterna rispetto all’agente morale, sono piuttosto risposte razionali (vale a dire fondate su motivi della ragione) alla domanda pratica fondamentale dell’uomo: “che cosa devo fare?” La loro validità riposa pertanto sull’applicazione della tesi fondamentale metaetica kantiana (il buono incondizionato è la volontà buona) alla natura libera e razionale dell’essere umano. Questo implica che quando la massima attraverso cui giustifico l’azione è immorale, è cioè lesiva di un dovere, mi accorgo di non poter neppure pensare che divenga una legge universale dell’agire morale: si tratta di un’esclusione dal discorso morale sensato di una fondazione legittima dell’agire immorale451. Al 449
Ibid., p. 65: « Infine, c’è un imperativo che senza fondarsi sulla condizione di un qualsiasi altro scopo da raggiungersi con un certo comportamento, comanda immediatamente questo comportamento. Questo imperativo è categorico. Esso non riguarda la materia dell’azione e ciò che da questa debba conseguire, ma la forma e il principio da cui l’azione stessa consegue, e il Bene, per essenza di essa consiste nell’intenzione, qualsiasi ne sia il risultato». 450 Cfr. Ibid., pp. 59-65. 451 Questo aspetto della morale kantiana emerge con chiarezza dalla discussione nella nota al Teorema III del primo capitolo della seconda Critica sulla generalizzabilità della massima soggettiva cui ispiro la mia azione, ovvero sulla sua possibile coincidenza col principio oggettivo di rispettare la legge morale. Kant propone l’esempio dell’appropriazione di un deposito, il proprietario del quale è morto senza lasciare disposizioni testamentarie , per asserire che un’inclinazione soggettiva come l’avarizia impedisce alla mia volontà di conformarsi alla legge pratica universale, cfr. KANT I., Critica della ragion pratica, tr. it. di V.Mathieu, Bompiani, Milano 2000, Parte I, Libro I, Capitolo I, § 4, p. 81: «Una legge pratica, che io riconosco come tale, deve qualificarsi come adatta per una legislazione universale: è, questa, una
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rovescio, per rispondere alla domanda sui limiti della sensatezza del discorso morale occorre domandarsi cosa significhi per Kant agire liberamente e autonomamente, quale margine di sensatezza abbia una spiegazione dell’agire umano in base a presunte leggi (le leggi della ragion pratica) indipendenti dalla spiegazione naturalistica. La geografia della regione del (non)senso etico si gioca per Kant sulla possibilità di queste presunte spiegazioni. Il punto qui è che la possibilità per l’uomo di essere libero sembra essere in stridente contrasto con la natura452, ovvero con la sua inclusione in un contesto spaziotemporale naturalmente necessitato, che per il filosofo è assai più percorribile e accessibile alla ragione di quello in cui diciamo che le nostre azioni sono “libere”. In altre parole, la possibilità per le nostre azioni di essere libere non può escludere la loro appartenenza al determinismo causale universale: «La ragione deve dunque ben presupporre che tra libertà e necessità naturale delle medesime azioni umane non si trovi alcuna vera contraddizione, poiché essa non può rinunciare né al concetto della natura né a quello della libertà»453. La (dis)soluzione kantiana di questo dilemma, e della conclusione paradossale per cui l’ammissione delle nostre azioni nei contesti in cui le riteniamo libere
ci
escluderebbe
automaticamente
dalla
storia
del
mondo,
consiste
nell’applicazione ad entrambi i casi della nozione di causalità come regolarità454. Per Kant, infatti, la critica allo schema causale tradizionale (due eventi si causano l’un l’altro nella misura in cui si costringono l’un l’altro a esistere, secondo una determinazione unica) apre un varco alla possibilità di immaginare l’inserimento di un proposizione identica, e quindi chiara. Se ora io dico: la mia volontà è sottoposta a una legge pratica, non posso addurre la mia inclinazione (per esempio, nel caso presente, la mia avarizia) come motivo determinante adatto ad una legge pratica universale: perché essa, ben lungi dall’adattarsi a una legislazione universale, posta nella forma di una legge universale è, anzi, costretta a cancellare se stessa». 452 KANT I., Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., p. 149: «È però impossibile sfuggire a questa contraddizione se il soggetto che si presume libero pensa se stesso, quando si dice libero, nello stesso senso o nello stesso rapporto secondo il quale, riguardo alla medesima azione, si assume come sottoposto alla legge naturale». 453 Ibid., p. 147. 454 La “regolarità” cui Kant fa riferimento nella discussione della categoria di causalità non è una regolarità empirica ma è una condizione a priori alla base di ogni possibile conoscenza empirica. Riprendendo la critica di Hume alla caratterizzazione del concetto di causa come risultato di una deduzione dalla regolarità con cui due fenomeni si presentano connessi, Kant sostiene che l’osservazione di tale regolarità nell’esperienza non sia una condizione sufficiente a fondare la “rigorosa universalità della regola”; cfr. KANT I., Critica della ragion pura, op. cit., Anal. trasc., Lib. I, Cap. II, Sez. I, §13, p. 126: «Giacché questo concetto richiede addirittura che qualche cosa (A) sia di tal guisa che un’altra (B) ne segua necessariamente e secondo una regola assolutamente universale. I fenomeni ci danno, sì, casi, da cui è possibile trarre una regola secondo la quale qualche cosa suole accadere, ma non possono mai assicurarci che il conseguente sia necessario; quindi alla sintesi di causa e di effetto conviene una dignità, che non si può asserire empiricamente, cioè che l’effetto non solo segua alla causa, ma sia posto da essa e ne derivi. La rigorosa universalità della regola non è punto una proprietà delle regole empiriche, le quali per induzione non possono raggiungere mai niente più che una universalità relativa, cioè una diffusa applicazione».
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evento in più di uno schema causale regolare, fornendone con ciò spiegazioni causali diverse ed ugualmente legittime455. Se ammettessimo la possibilità che un evento possa esser spiegato attraverso schemi causali alternativi, perché su due piani distinti (quello fenomenico e quello noumenico), ed egualmente legittimi allora una spiegazione completa ed adeguata del comportamento umano secondo cause fisiche non escluderebbe come contraddittoria una sua spiegazione come esercizio del libero arbitrio:
Perciò è un compito irrinunciabile della filosofia speculativa mostrare almeno che il proprio inganno, causato dalla contraddizione, riposi sul fatto che noi pensiamo l’uomo in un altro senso e in un altro rapporto quando lo diciamo libero, rispetto a quando lo consideriamo, come elemento della natura, sottoposto alle sue leggi, e che le due cose non solo possono benissimo stare l’una accanto all’altra, ma devono anche essere pensate come necessariamente riunite nello stesso soggetto, perché altrimenti non potrebbe esser dato alcun fondamento del perché dovremmo gravare la ragione con un’idea che, sebbene si lasci unificare senza contraddizione con un’altra che è dimostrata a sufficienza, ci invischia in una faccenda per la quale la ragione nel suo uso teoretico viene condotta assai alle strette.456
Anzi, dalla non contraddizione tra spiegazione causale deterministica e spiegazione secondo il libero arbitrio del comportamento umano, Kant conclude a sostegno della distinzione tra esercizio della volontà come dispiegamento pratico della ragione ed esercizio della volontà come mezzo per l’appagamento di inclinazioni naturali. In sintesi, la prospettiva kantiana sul presunto conflitto tra necessità naturale e volontà libera è questa: la spiegazione di un’azione morale come libera non è in contraddizione con lo schema causale deterministico della natura, ma poiché l’azione veramente morale è una determinazione della mia volontà in quanto ha come oggetto esclusivamente se stessa, e poiché la mia volontà è l’espressione della razionalità in ambito pratico, allora la determinazione autonoma (la libertà) è razionale. Per gli esseri razionali descrivere le proprie azioni come libere non significa contraddire la regolarità spaziotemporale della natura bensì aggiungervi qualcosa, significa dare al mondo un’altra forma. Ora, la forma del mondo soprasensibile non è una dimensione entro cui 455
Bencivenga ha osservato come questo tipo di sovradeterminazione tra le possibili spiegazioni causali naturali di un evento e la spiegazione di un’azione morale come “libera” sia una forma di compatibilismo per cui per quanto successo possa avere una spiegazione causale fisica e psicologica del comportamento umano niente esclude che lo si possa spiegare come esercizio del libero arbitrio; cfr. BENCIVENGA E., L’etica di Kant. La razionalità del bene, op. cit., pp. 33-34. 456 KANT I., Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., p. 149.
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la ragione è confinata come nel caso della realtà fenomenica, ma è solo un punto di vista (ein Standpunkt) che la ragione è costretta a darsi per pensarsi come pratica. È un limite, una condizione formale del mondo, che la ragione può “abitare” ma che non può travalicare se non vuole incappare in spiegazioni insensate:
Questo pensiero [quello di mondo intelligibile] implica, certamente, l’idea di un altro ordine e di un’altra legislazione rispetto a quelli del meccanicismo naturale che riguarda il mondo sensibile, e rende necessario il concetto di un mondo intelligibile (ossia la totalità degli esseri razionali come cose in sé), ma senza la minima pretesa di pensare secondo qualcosa che vada oltre la sua semplice condizione formale, ossia in modo conforme all’universalità della massima della volontà come legge, quindi all’autonomia di questa, autonomia che, sola, può sussistere con la sua libertà; mentre invece tutte le leggi che sono determinate in base ad un oggetto danno eteronomia, che può incontrarsi solo nelle leggi naturali e può anche riguardare soltanto il mondo sensibile.457
Esistono allora almeno due livelli di spiegazione del comportamento umano, che non si escludono a vicenda, su cui la ragione si attesta: quello del comportamento naturalmente necessitato, appartenente al mondo sensibile e quello del comportamento libero, razionale, appartenente al mondo intelligibile458. Del secondo di questi livelli, che per Kant è la dimensione dell’etica, noi non consociamo nulla al di fuori della legge pratica nella forma dell’imperativo categorico, ovvero al di fuori di ciò che costituisce la condizione della possibilità di considerare gli agenti morali come responsabili delle proprie azioni: «Infatti noi non possiamo spiegare nulla, se non ciò che possiamo ricondurre a leggi il cui oggetto possa essere dato in una qualche esperienza possibile. Ma la libertà è una semplice idea, la cui realtà oggettiva non può essere in alcun modo dimostrata secondo leggi di natura, quindi neppure in alcuna esperienza possibile; un’idea che perciò, dato che non può esserle mai neppure sottoposto un esempio secondo una qualche analogia, non può essere mai concepita o anche solo compresa»459. La legge pratica non è la descrizione di una regolarità causale nel mondo intelligibile, ma piuttosto la forma di qualsiasi descrizione possibile dell’azione morale come libera e razionale. La ragione può andare oltre i confini della sua natura non 457
Ibid., p. 153. Cfr. BENCIVENGA E., L’etica di Kant. La razionalità del bene, op. cit., pp. 99-109. Queste pagine, cui rimando per un ulteriore approfondimento della problematica kantiana, individuano un terzo livello esplicativo nel comportamento libero e irrazionale, del quale non abbiamo nessun concetto del modo in cui dovrebbe essere la legge di causalità. 459 KANT I., Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., p. 155.
458
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attraverso la conoscenza delle relazioni tra le cose in sé, che costituisce il dominio dell’etica, ma attraverso un atto volontario di guardare al mondo come se il suo fosse un agire senza alcun condizionamento finito. È per questo motivo che le idee della ragion pura, che nella Dialettica trascendentale dimostravano l’illusorietà e la vacuità della metafisica quando vuole farsi scienza del mondo soprasensibile, rientrano in scena nella seconda Critica come “postulati della ragion pratica”. Queste proposizioni hanno infatti una costituzione conoscitiva (ovvero non sono regole pratiche, non riguardano il dover essere) pur essendo determinate da un interesse “pratico” e non teoretico-speculativo460. Per realizzare il bene più completo, dice Kant, la semplice obbedienza all’imperativo categorico è una condizione necessaria ma non sufficiente. Il “bene più completo” può essere raggiunto solo attraverso una condizione prima, la virtù, e una conseguenza necessaria, la felicità. Occorrerà allora postulare per l’azione morale diretta al “bene più completo” l’esistenza di un’anima immortale che garantisca un perseguimento senza limiti nel tempo di virtù e felicità, l’esistenza di un Essere supremo che garantisca una giusta proporzione tra la virtù raggiunta e la felicità da assegnare, e infine la possibilità dell’assoluta libertà ovvero che l’azione di chi voglia raggiungere la santità si dispieghi postulando l’assenza di limiti naturali461. Quello che qui mi interessa sottolineare della nozione kantiana di “postulati della ragion pratica” è il loro essere espressione di una relazione tra teoria e prassi in cui quest’ultima diviene elemento di fondazione e controllo della prima. Per meglio dire, la distinzione tra ragion pura e ragion pratica, e il primato che Kant assegna alla seconda sulla prima, apre la strada ad un modo alternativo in cui un contenuto proposizionale può essere collegato al mondo, in cui ad avere importanza non è la descrizione di un aspetto di esso ma l’espressione di un modo diverso in cui lo si vuole guardare. Il contenuto proposizionale di un “postulato della ragion pratica”, pur avendo la forma logica di un’asserzione teoretica, di una
460
Il prevalere di questo “interesse” pratico su quello speculativo dimostrerebbe il “primato” della ragion pratica su quella speculativa; cfr. KANT I., Critica della ragion pratica, op. cit., p. 247: «Solo se la ragion pura può essere per se stessa pratica – e lo è realmente, come mostra la coscienza della legge morale -, sarà sempre, tuttavia, un’unica e medesima ragione, quella che giudica secondo princìpi teorici, sia in funzione pratica, sia in funzione teoretica: allora è chiaro che, se la sua facoltà, in campo teoretico, non giunge a fondare certe affermazioni che, pure, non le contraddicono, mentre queste stesse proposizioni sono indissolubilmente legate con l’interesse pratico della ragion pura; la ragione speculativa deve accoglierle come un’offerta estranea, non cresciuta bensì sul suo terreno, tuttavia sufficientemente accreditata; e deve cercare di compararle e di connetterle con tutto ciò che, come ragione speculativa, ha in proprio potere, pur riconoscendovi non vedute sue proprie, ma un ampliamento del suo uso in un altro rispetto, pratico, che non contrasta punto al suo interesse, consistente nel limitare la temerità speculativa». 461 Cfr. Ibid., pp. 249-265.
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descrizione all’indicativo di stati di cose, è collegato al mondo in un modo che trascende il semplice raffigurarlo 462. Riassumendo, la trattazione kantiana del senso di una proposizione dell’etica, del tema del carattere universalmente valido e oggettivo della legge morale, comporta almeno tre conclusioni di cui potremmo riscontrare un’eco nel Tractatus: 1) le proposizioni dell’etica (gli imperativi categorici) sono fondate su un modello di descrizione della realtà in cui la volontà dell’agente morale è libera e autonoma; 2) questo modello di spiegazione delle azioni morali è sovradeterminato rispetto alla spiegazione causale del comportamento umano come evento naturale, e pertanto è ad essa irriducibile; 3) i “postulati della ragion pratica” esprimono questa irriducibilità non nel loro contenuto proposizionale ma nel loro essere modi alternativi alla descrizione naturalista del mondo.
Veniamo adesso al Tractatus e al modo in cui questa lettura della morale kantiana vi può essere ritrovata. Innanzitutto la questione dell’agire morale come espressione dell’autonomia e libertà della ragione. Il punto di partenza della posizione wittgensteiniana è la proposizione 6.4, per la quale tutte le proposizioni sono di pari valore. Come abbiamo già visto, l’equivalenza delle proposizioni rispetto alla questione del valore implica l’insensatezza delle proposizioni dell’etica (TLP 6.41-6.42) e, fatto ancor più importante, il loro essere condizioni inesprimibili nel linguaggio della possibilità dell’agire morale. In altre parole, l’etica è trascendentale (TLP 6.421). Questa considerazione ci conduce alla proposizione del Tractatus più “compromessa” con la filosofia morale kantiana:
Il primo pensiero, nell’atto che posta una legge etica della forma «Tu devi…», è: E se non lo faccio? Ma è chiaro che nulla l’etica ha a che fare con pena e premio, nel senso ordinario di questi termini. Dunque, questo problema delle conseguenze di un’azione non può non essere irrilevante. – O almeno, queste conseguenze non devono essere degli eventi. Infatti, in quella domanda qualcosa deve pur essere corretto. Dev’esservi sí una specie di premio etico e di pena etica, ma questi non possono non essere nell’azione stessa. (Ed è anche chiaro che il premio dev’essere qualcosa di grato).463
462
Su questa lettura dei “postulati della ragion pratica” cfr. BENCIVENGA E., L’etica di Kant. La razionalità del bene, op. cit., pp. 132-143. 463 TLP 6.422, pp. 106-107.
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Qui pare che Wittgenstein stia rileggendo il concetto kantiano di “imperativo categorico”: la forma imperativa della legge morale non ha niente a che vedere con le conseguenze dell’azione etica, con il premio o la pena che nel suo adempimento o non adempimento otteniamo. La legge etica nella forma logica dell’imperativo non ha un contenuto proposizionale raffigurativo, non descrive la possibilità del sussistere o meno di uno stato di cose di cui l’agente morale è responsabile. Una legge etica nella forma imperativa del «Tu devi…» esprime il valore dell’azione morale non nella descrizione delle sue possibili conseguenze (positive o negative) ma mostrando che tutte queste possibili conseguenze si trovano già nell’azione stessa. Questo vuol dire che anche per Wittgenstein una volontà buona è una volontà che non agisce in vista di un premio o di punizione ma che ha come fine delle sue azioni solo se stessa; solo questa indicibile volontà può essere identificata con il «portatore dell’etico» (TLP 6.423).Vorrei qui sottolineare come per l’autore del Tractatus, in modo analogo a Kant, una volontà buona è autonoma e libera in quanto si autodetermina: per essa non sorge il «problema delle conseguenze» di un’azione perché le conseguenze che essa dovrebbe determinare non si collocano sul piano causale degli eventi464; il valore, ciò che costituisce il contenuto e l’oggetto dell’etica, non si iscrive nella totalità dei fatti, nel mondo. E questo ci permette di arrivare al secondo elemento di continuità con la filosofia morale kantiana rispetto al problema della delimitazione dell’etico. Infatti, Wittgenstein espelle l’etico dal discorso sensato nella misura in cui i valori non sono nel mondo, e non possono pertanto essere descritti o asseriti attraverso la logica della raffigurazione. Ma questo vuol dire che la legge morale non descrive l’oggetto dell’etica, non raffigura il valore nelle “conseguenze” di un’azione morale, servendosi del nesso causale. Una tale descrizione, in riferimento al valore, non avrebbe senso anche perché noi non saremmo in grado di scoprire sistematicamente tutte le regolarità del mondo mediante il nesso causale e in virtù di ciò prevedere le conseguenze di un’azione: è su questa ignoranza che si fonda la credenza nel “libero arbitrio” (TLP 5.1362). Del resto la posizione del “primo” Wittgenstein sulla causalità nel mondo fisico, decisamente anti-fattualista (TLP 5.1361), richiama sul medesimo argomento la posizione di Kant. Infatti, nel Tractatus sebbene il mondo non contenga fatti causali, la
464
Al contrario, secondo Micheletti, TLP 6.422 è da intendersi come una critica ai limiti rispetto all’azione morale della forma imperativa assunta della legge morale kantiana, cfr. MICHELETTI M, Lo schopenhauerismo di Ludwig Wittgenstein, op. cit., p.159: «La legge etica della forma “Tu devi…” non è sufficiente ad escludere la rilevanza delle conseguenze per il valore morale dell’azione». Micheletti aggiunge inoltre che questa critica presenterebbe delle affinità con la critica schopenhaueriana alla nozione di dovere assoluto o incondizionato.
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struttura logica che costituisce ogni mondo logicamente possibile o pensabile, ovvero la sua forma logica, è organizzata secondo la “legge di causalità”. È in questo senso che la credenza (der Glaube) nel nesso causale, nell’esistenza di fatti causali,
è una
superstizione (Aberglaube): il nesso causale non è dedotto dalla descrizione di fatti nel mondo fisico, non è una legge, ma la «forma di una legge» (TLP 6.32). Quella che impropriamente chiamiamo “legge di causalità” è un’intuizione a priori sulla possibile formulazione di proposizioni della scienza (TLP 6.34), o meglio è la forma per costituire un sistema di descrizione del mondo articolato in una serie di leggi naturali, nelle proposizioni della fisica (TLP 6.341). Cosa implica il carattere formale della legge di causalità, cosa significa che la sua conoscenza è la conoscenza a priori di una forma logica (TLP 6.33) ? La principale implicazione è che sebbene ciascuna specifica descrizione legiforme del mondo può esser falsa, può cioè darsi un altro mondo possibile in cui le cose non si comportano secondo la descrizione generale espressa da una legge naturale del mondo reale, non possiamo tuttavia pensare alcun mondo possibile in cui le cose non si comportino secondo una qualche legge (TLP 6.36-6.37). In sintesi, la posizione del Tractatus sulla causalità rimanda alla tesi fondamentale del suo autore, l’esistenza di una forma logica comune sottesa tanto al mondo quanto al linguaggio che lo descrive. Il punto qui, soprattutto in riferimento al problema di circoscrivere la natura del nonsenso etico, è l’idea che sebbene non ci siano fatti causali, tuttavia non possiamo fare a meno di concepire il mondo come strutturato causalmente. Infatti, sul piano pratico, questo comporterebbe che il discorso sull’etica consideri premi e colpe come conseguenze dell’agire morale. Invece, per Wittgenstein il senso dell’azione morale non appartiene allo stesso livello epistemico e linguistico della descrizione di un nesso causale tra fatti ma al livello della “legge di causalità”, delle forme per costituire sistemi di descrizioni dei fatti. Il «Tu devi…» espressione della legge morale mostra per Wittgenstein il suo essere forma di ogni possibile agire morale nel mondo. È in questa prospettiva, decisamente molto kantiana, che l’etica è definita “trascendentale”. C’è però un aspetto della questione su cui il Tractatus pare andare oltre la prospettiva kantiana: così come non è possibile parlare sensatamente della forma logica della proposizione non sarà altrettanto possibile esprimere nel discorso sensato la forma della descrizione dei fatti mostrata dalle proposizioni causali. Ora, se la legge morale (le proposizioni dell’etica) è interamente determinata dalla sua forma logica, allora, dal momento che la forma logica si mostra (è indicibile), la legge morale (le proposizioni dell’etica) non è esprimibile nel discorso sensato. 200
Del resto, l’idea che non possiamo concepire il mondo non strutturato causalmente, indipendentemente dalla questione dell’esistenza di fatti causali, è un punto persistente negli sviluppi del pensiero di Wittgenstein anche nella seconda metà degli anni Trenta, quando ormai è venuta meno la tesi della comunanza di forma logica tra mondo e pensiero/linguaggio. Solo che adesso, il fatto di non poter non concepire il mondo secondo un’impalcatura causale, è un aspetto del linguaggio che si mostra nel nostro modo di agire alla base dei giochi linguistici causali465. Tale modo di agire si presenta nella forma di un atteggiamento comune a tutti i parlanti impegnati in un gioco linguistico che coinvolge le nozioni di causa ed effetto: trattare due eventi come causalmente connessi si mostra nel fatto che il parlante non sottoponga a critiche o a dubbi scettici l’essere il primo dei due eventi causa del secondo466. Si noti che il modo in cui le proposizioni causali vengono sottratte, nelle considerazioni su causa ed effetto della fine degli anni Trenta, all’area di legittima espressione del dubbio corrisponde per Wittgenstein ad un comportamento pratico. Noi agiamo e ci comportiamo seguendo la grammatica della parola “causa”, come se il primo evento fosse causa del secondo, indipendentemente dal fatto che lo sia veramente: il nostro interrogarci se qualcosa abbia o meno una causa prende senso dal nostro dare per scontato che ci siano, nei contesti ordinari, relazioni causali. Ho già sottolineato nel secondo capitolo quali siano le conseguenze di questa dissoluzione grammaticale della causalità: la questione della libertà del volere umano, del mio essere responsabile o meno di un’azione, si risolve nella possibilità di adottare un sistema di descrizione dei fatti alternativo rispetto a quello naturalistico delle leggi fisiche. Ciò che non ho ancora detto è che Wittgenstein dà alla questione della libertà del volere umano un accento kantiano quando dice che noi adottiamo il sistema di descrizione della “libertà del volere” quasi sempre in contesti in cui vogliamo far emergere il carattere morale delle azioni di qualcuno. Quando parliamo di un’azione come “libera” vogliamo enfatizzare il suo essere soggetta ad un sistema di premi e punizioni che contempla la responsabilità di un agente. Per delucidare questa posizione Wittgenstein fa un esempio molto semplice: consideriamo il volante di un’automobile, in essa il movimento delle ruote anteriori è determinato dal movimento del volante, ma quest’ultimo si muove senza essere 465
Rimane aperto il problema di come il nostro modo di agire funzioni da criterio per identificare quale tipo di nesso causale sia coinvolto nel gioco linguistico. Ciò avrebbe come conseguenza il fatto che le nozioni causali entrano in giochi linguistici differenti senza che esistano (in contesti ordinari) pratiche o criteri dominanti per identificare in dipendenza dal contesto la nozione di causa intesa, cfr. PIZZI C., Una nota sull’analisi wittgensteiniana del linguaggio casuale, in Wittgenstein e il Novecento, op. cit., pp. 217-227. 466 Cfr. WITTGENSTEIN L., Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, op. cit., pp. 13-17.
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determinato da alcunché467. Cosa significa dire che il volante si muove liberamente? Vuol dire non trovare alcuna causa o alcuna regolarità legiforme in grado di spiegare i suoi movimenti, e quindi impegnarsi nella loro ricerca. Oppure significa rinunciare a qualsiasi spiegazione di ciò che determina i movimenti del volante. Queste due possibili reazioni, nelle quali Wittgenstein semplifica da un lato l’atteggiamento dello scienziato dall’altro quello banalmente quotidiano, gli fanno osservare:
Sembra come se, se siete fortemente colpiti dalla responsabilità che un essere umano ha per le sue azioni, tendiate a dire che queste azioni e scelte non possono seguire leggi naturali. E all’opposto, se tendete molto fortemente a dire che esse seguono leggi naturali, allora tendete a dire: «non posso essere ritenuto responsabile per la mia scelta». Che abbiate questa tendenza, dovrei dire, è un fatto di psicologia. […]468
L’accento più spiccatamente kantiano dell’intera questione sta nel fatto che per Wittgenstein nulla vieta che i due sistemi di descrizione del mondo, quello deterministico delle cause e quello spontaneista delle azioni libere, possano essere adottati contemporaneamente senza escludersi a vicenda:
Si veda l’esempio della pubblicità del rognone. «Ci sono quindici miglia di rognoni da pulire» paragona il pulire un rognone al fare qualcosa di estremamente difficile – il che può affatto non essere. Volevo dire che se davvero qualcuno potesse eseguire questo calcolo (di ciò che quell’uomo sta per fare), non vedo perché non dovremmo tuttora ritenerlo responsabile. «Comprendere tutto è scusare tutto». «Se tu capissi il funzionamento della sua mente e capissi tutte le circostanze così bene come capisci un meccanismo non lo riterresti responsabile delle sue azioni». Direi: «Come fai a saperlo ?» Ciò non segue più di quanto segua che i rognoni sono difficili da pulire. Non mi è chiaro se chiamare il caso della pietra che cade analogo a quello del ladro.469
Si noti inoltre che per Wittgenstein un caso in cui si scoprisse che le azioni di un soggetto, descritte fino a quel momento come libere, accadono in realtà conformemente alle modificazioni di un meccanismo sottostante, non eliminerebbe il modello di descrizione spontaneista utilizzato nel discorso morale. Richiamando la strategia
467
Cfr. Ibid., p. 64. Ibid., p. 65. 469 Ibid., p. 69. Cfr. anche p. 76. 468
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paolina di giustificazione della coesistenza di Grazia e libero arbitrio, Wittgenstein sostiene che si può essere determinati a fare ciò che si è fatto e tuttavia essere responsabili per esso: «San Paolo dice che Dio ha fatto di te un vaso d’ira o un vaso di grazia, e tuttavia che sei responsabile»470. Il punto di vista morale si esprime allora in contesti della nostra forma di vita nei quali tendiamo ad adottare, o a far coesistere, il modello grammaticale spontaneista su o con quello determinista. Questo ci porta a quello che a mio avviso è il terzo e ultimo punto di continuità tra la concezione dell’azione morale kantiana e quella wittgensteiniana: l’irriducibilità del discorso etico al discorso sensato (nel Tractatus), del modello di descrizione dei fatti spontaneista a quello determinista (nelle lezioni sulla libertà del volere della fine degli anni Trenta). Così come per Kant la spiegazione di un evento causale nel mondo fisico dei fenomeni non contraddice o esclude la spiegazione di un evento casuale nel mondo soprasensibile delle cose in sé, per Wittgenstein la soluzione di tutti i problemi scientifici non tocca minimante la soluzione dei nostri problemi vitali, dei problemi al senso del mondo e della vita (TLP 6.52). Si potrebbe addirittura concludere che sia proprio questo spirito antiriduzionista che porta Wittgenstein, almeno nel Tractatus, a sottrarre il discorso morale all’ambito della sensatezza, per dissolverlo in quello dell’agire etico (TLP 6.521). Comunque, anche se la prevalenza della prassi etica sulla sfera discorsiva pare essere un punto di continuità con la fondazione della morale kantiana, il suo impiego nel Tractatus è condotto da un punto di vista critico nei confronti di qualsiasi fondazione del discorso morale, nel solco tracciato da Schopenhauer.
3.2.2 La critica di Schopenhauer alla fondazione della morale kantiana e la volontà nel Tractatus Pur attribuendogli il merito di aver riconosciuto il modo in cui «la condotta umana ha un significato che oltrepassa ogni possibilità di esperienza»471, Schopenhauer muove alla filosofia morale di Kant alcune critiche decisive. Va premesso, innanzitutto, che le critiche si iscrivono in un quadro di forte continuità: il riconoscimento della trascendenza dell’agire morale rispetto al piano fenomenico, la 470
Ibid., p. 70. Per il riferimento alla dottrina paolina cfr. Rm 9.21-23. SCHOPENHAUER A., I due problemi fondamentali dell’etica, tr. it. di S.Giametta, Mondadori, Milano 2008, p. 170. 471
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contrapposizione tra carattere empirico e carattere intelligibile della natura umana, sono aspetti della visione del mondo kantiana che per Schopenhauer hanno permesso di fondare adeguatamente una teoria della coesistenza della libertà con la necessità. Se da un lato è possibile dimostrare la rigorosa necessità delle volizioni, il loro inserimento nello schema causale secondo cui è strutturato il mondo fenomenico, dall’altro le nostre azioni « […] sono accompagnate dalla coscienza della loro autonomia e originalità, per cui le riconosciamo come opera nostra e ciascuno si sente, con certezza infallibile, il vero autore dei propri atti, nonché moralmente responsabile per i medesimi»472. La soluzione alla contraddizione tra la necessità delle volizioni e la coscienza della libertà, nelle responsabilità delle proprie azioni, sarebbe secondo Schopenhauer la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. L’individuo, considerato come determinato in tutte le sue manifestazioni dalla legge di causalità è un fenomeno del mondo fisico. Ma ciò che determina questo suo carattere empirico è qualcosa al di fuori della successione spaziotemporale degli atti, una cosa in sé (per Schopenhauer la volontà metafisica) la natura della quale (il carattere intelligibile) è «ugualmente presente in tutti gli atti dell’individuo e impresso in essi tutti come un sigillo in mille impronte […]»473. La possibilità della coesistenza di necessità naturale e coscienza della libertà è adeguatamente spiegata dalla possibilità di guardare senza contraddizione al carattere empirico e a quello intelligibile della natura umana: In questo l’uomo non fa eccezione rispetto al resto della natura: anch’egli ha il suo modo di essere determinato, il suo carattere immutabile, che è tuttavia del tutto individuale e per ognuno diverso. Questo è appunto empirico per il nostro modo di percepirlo, ma proprio perciò anche è soltanto fenomeno; per quello che invece può essere in base alla sua essenza in sé, si chiama carattere intelligibile. 474
Si noti come la distinzione empirico/intelligibile sia utilizzata da Schopenhauer per sottrarre la giustificazione del principio meta-etico, della libertà, alle critiche che 472
Ibid., pp. 237-238. Ivi. 474 Ibid., pp. 239-240. Schopenhauer riconduce questa soluzione al principio scolastico dell’operari sequitur esse, ovvero dell’agire come effetto dell’essere, per cui ogni ente opera nel mondo secondo il suo modo di essere. L’importante passo avanti compiuto da Kant consisterebbe nel riconoscimento della libertà come espressione non del carattere empirico (dell’operari), ma del carattere intelligibile (dell’esse); cfr. SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., Supplementi al secondo libro, cap. 25, p. 1156: «La necessità più rigorosa, stabilita onestamente, con rigida consequenzialità, e la libertà più completa, spinta fino all’onnipotenza, devono presentarsi insieme nella filosofia: ma, se non si vuole offendere la verità, questo è realizzabile solo a condizione di collocare tutta la necessità nell’agire e nel fare (operari) e, invece, tutta la libertà nell’essere e nell’essenza (esse)». 473
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riceverebbe dalla descrizione naturalista dell’agire umano. Nella coscienza della libertà che proviene dalla responsabilità per le proprie azioni c’è qualcosa di irriducibile alla pur valida descrizione meccanicistico-materialista del mondo. Tuttavia, i meriti della distinzione kantiana si fermano al riconoscimento della libertà come espressione del carattere intelligibile dell’uomo. A parte ciò Schopenhauer sostiene che abbiamo conoscenza di noi stessi e degli altri solo empiricamente: non è possibile alcuna conoscenza a priori del carattere intelligibile di qualcuno. Questa considerazione sui limiti della fondazione del principio meta-etico della libertà ci porta al primo ordine di critiche che Schopenhauer rivolge alla fondazione dell’etica kantiana, quello centrato sulla possibilità di una conoscenza a priori della legge morale. Schopenhauer lo sviluppa attaccando quelli che lui ritiene due aspetti fondamentali dell’etica kantiana. In primo luogo, nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant applica all’etica la distinzione epistemica tra a priori e a posteriori, dividendola in questo modo in una parte empirica (oggetto di antropologia e psicologia) e in una parte a priori oggetto della fondazione. La legge morale non è qualcosa di empiricamente dimostrabile, non è un fatto dell’esperienza (interna o esterna), perché è fondata su puri concetti a priori. L’idea dell’apriorità del fondamento morale sarebbe collegata, in secondo luogo, all’idea che muovendo esclusivamente dalla ragion pura pratica il fondamento della morale sia valido per tutti gli esseri ragionevoli possibili, e quindi anche per tutti gli uomini. Quanto al primo aspetto, Schopenhauer ironizza sull’astrattismo formale di Kant, sul rigore che lo porterebbe ad assumere la possibilità di contenere le pulsioni egoistiche e le passioni grazie alla necessità assoluta della legge morale: « […] tanto la coscienza umana quanto l’intero mondo esterno, insieme con tutta l’esperienza e i fatti contenutivi, ci vengono tolti da sotto i piedi. Non abbiamo più niente su cui poggiare. A che cosa ci aggrapperemo allora? A un paio di concetti del tutto astratti, ancora del tutto privi di materia, che parimenti rimangono del tutto sospesi in aria. Da questi, anzi propriamente dalla mera forma del loro riunirsi in giudizi, scaturirebbe una legge, che si applicherebbe con pretesa necessità assoluta e avrebbe la forza di mettere briglie e morso all’impeto delle brame, alla tempesta delle passioni e alla grandezza gigantesca dell’egoismo»475. Quanto invece al secondo aspetto, Schopenhauer vede nell’istituzione della legge morale per gli uomini in quanto esseri ragionevoli un’illegittima estensione del genere “ragionevole”. La ragione è infatti soltanto una proprietà della specie umana, 475
SCHOPENHAUER A., I due problemi fondamentali dell’etica, op. cit., p. 184.
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pertanto non può esser pensata astraendo da essa; anche in questo caso il filosofo di Danzica non risparmia l’ironia: «Non si può evitare il sospetto che in questo caso Kant abbia pensato un po’ ai cari angioletti, o abbia comunque contato sul loro aiuto per convincere il lettore»476. Il punto, aggiunge, è che la ragione non è niente di fondamentale, ma è una facoltà conoscitiva che in quanto tale appartiene all’individuo in quanto fenomeno, al suo carattere empirico, ed è pertanto condizionata dall’organismo. Ebbene, attraverso la critica di questi aspetti della fondazione dell’etica kantiana Schopenhauer cerca di mettere in luce come il fondamento dell’etica non possa avere origine, non possa avere come movente, la forma a priori della legge morale. Ad essere movente di qualsiasi azione morale deve esserci un qualche impulso morale dotato di un’efficacia positiva, reale:
Giacché nessun cambiamento in ciò può infirmare le verità fondamentali che dal niente non sorge niente e che per ogni effetto ci vuole una causa. L’impulso morale, come ogni motivo che muove la volontà, dev’essere assolutamente un impulso che si annuncia da sé, che perciò agisce positivamente e quindi è reale; e siccome per l’uomo solo empirico, o almeno ciò che si presuppone possa esistere solo empiricamente, ha realtà, l’impulso morale deve essere in effetti empirico e come tale annunciarsi da sé senza essere chiamato, venire a noi senza aspettare che noi lo cerchiamo, penetrare in noi da sé, e con tale veemenza da poter almeno teoricamente vincere i formidabili motivi egoistici che si levano contro.477
Da questo passo appare evidente come Schopenhauer imprima alla fondazione dell’etica kantiana un rovesciamento di prospettiva. Kant aveva considerato un punto di forza per il suo progetto di fondazione la deduzione della legge morale da concetti puri a priori, con l’obiettivo di dimostrarne la validità per tutti gli esseri ragionevoli, ma in questo modo, secondo Schopenhauer, aveva sottratto ai concetti a fondamento dell’etica la loro base empirica. Di fronte a questa assenza di contenuto reale, egli rivendica la natura concreta della ragione, il suo essere facoltà conoscitiva in un organismo umano posto nel mondo fenomenico. La ragione è la facoltà delle rappresentazioni generali, astratte, non intuitive (i concetti), per mezzo delle quali condiziona il linguaggio e tramite esso il modo di pensare dell’intera specie umana. Se per gli animali esistono solo rappresentazioni intuitive, ergo tutte le loro azioni sono strettamente determinate da motivazioni intuitive, le volizioni alla base dell’agire umano sono invece 476 477
Ibid., p. 186. Ibid., p. 199.
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determinate da rappresentazioni astratte, cioè da pensieri, i quali a loro volta sono il risultato di intuizioni precedenti: esperienze del passato o pensieri acquisti per apprendimento. Ciò secondo Schopenhauer ha due conseguenze importantissime per l’analisi filosofica che mira a individuare i principi dell’agire umano: primo, gli esseri umani pur essendo determinati dalle volizioni con la stessa rigida necessità degli animali godono in confronto a questi di una relativa libertà, perché tra le intuizioni derivate dall’esperienza e la loro organizzazione in rappresentazioni generali esiste un gap in cui l’individuo passa dall’esser determinato dal mondo intuitivo circostante all’esser determinato dai propri pensieri; secondo, i motivi che spingono l’uomo all’azione non sono evidenti allo spettatore dell’azione, perché localizzati dove si svolge l’attività di riflessione e ragionamento sulle intuizioni, il cervello. La complessità di queste due condizioni sfuggirebbe alla fondazione dell’etica kantiana, in quanto identificando completamente l’operare giusto, virtuoso, con l’operare ragionevole finirebbe per confondere il piano delle motivazioni intuitive (dell’intelletto) con il piano delle rappresentazioni generali (della ragione). È interessante notare come Schopenhauer
corrobori
questa
critica
utilizzando
un
argomento
a
partire
dall’osservazione dell’uso linguistico:
Nella perfezione con cui coglie immediatamente il rapporto di causalità consiste tutta la superiorità dell’intelletto, tutta l’accortezza, la sagacia, la penetrazione, l’acume: giacché ciò che è alla base di ogni conoscenza della connessione delle cose, nel senso più largo della parola. La sua acutezza e giustezza rendono l’uno più intelligente, più avveduto, più furbo dell’altro. In tutti i tempi è stato detto invece ragionevole quell’uomo che si lascia guidare non dalle impressioni intuitive, bensì da pensieri e concetti, e quindi agisce sempre con riflessione, coerenza e ponderazione. Un tale agire è detto dappertutto un agire ragionevole. […] Solo dopo Kant, dato che la virtù dovrebbe scaturire dalla ragion pura, virtuoso e ragionevole diventano una cosa sola, a dispetto dell’uso linguistico di tutti i popoli, che non è casuale, ma è opera dell’universale e quindi concorde conoscenza umana.478
Gli errori di Kant nascerebbero allora da questa inversione della relazione tra intelletto e ragione, contraria a quanto accertato dall’uso linguistico di tutti i tempi: la definizione 478
Ibid., p. 207. Un’obiezione simile alla concezione kantiana della ragion pratica viene sollevata anche nel Mondo, cfr. SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., Appendice. Critica della filosofia kantiana, pp. 715-716: «La ragion pratica è già presente, senza avviso, nella Critica della ragion pura, e nella critica ad essa propriamente dedicata se ne sta poi come cosa ormai stabilita fuor di dubbio, senza che se ne sia dato ulteriormente conto, e senza che l’uso linguistico di tutti i tempi e i popoli, qui assolutamente non rispettato, o le definizioni del concetto dei più grandi filosofi precedenti, possano far sentire la loro voce».
207
dell’agire di un individuo come virtuoso non è mai equivalente alla definizione dello stesso agire come ragionevole. Tale inversione esprime un rovesciamento di priorità logica tra le motivazioni dell’agire morale e l’etica come giustificazione razionale di queste. Kant avrebbe cercato di mostrare la derivazione delle prime dalle seconde, incappando in una clamorosa petitio principii. Questa considerazione ci porta infatti al secondo ordine di critiche che Schopenhauer muove alla fondazione dell’etica, strutturato sulla forma imperativa dei principi morali. L’etica intesa come l’area di giustificazione di ciò che deve accadere, anche se non accadrà mai, postula ciò che cerca di dimostrare: la forma imperativa della legge morale. Il circolo vizioso consiste nel fatto che per Kant esistono leggi morali pure prima di qualsiasi indagine; in questo modo la legge morale kantiana postulando nella sua forma tutto ciò che deve accadere annulla ciò che esiste ed accade effettivamente: «Io dico, al contrario di Kant, che il filosofo dell’etica, come il filosofo in genere, si deve accontentare di spiegare e interpretare ciò che è dato, ossia ciò che esiste ed accade effettivamente, per arrivare a comprenderlo, e che a tal fine egli ha tantissimo da fare, molto più di quanto sia stato fatto finora, dopo migliaia di anni»479. Secondo Schopenhauer il concetto di legge, nella sua applicazione alla natura, connota solo in minima parte delle conoscenze a priori: quelle conoscenze che nella Critica della ragion pura Kant ha dimostrato essere le condizioni di ogni possibile esperienza. Quando invece ci riferiamo alla volontà umana l’unica legge rigorosamente dimostrabile è la legge di motivazione: «Essa sta a dire che ogni azione può avvenire solo in conseguenza di un motivo sufficiente. Come la legge della causalità in genere, è una legge naturale. Invece non si può ammettere senza prova che vi siano leggi morali, indipendenti da statuti umani, istituzioni statali e dottrine religiose»480. Esclusa la legge di motivazione, tutte le leggi della volontà umana che l’etica come disciplina filosofica cerca di provare devono essere dedotte dalla loro esistenza, dalla loro realtà effettuale. Pertanto, conclude Schopenhauer, l’unica spiegazione ammissibile nella fondazione dell’etica kantiana per i concetti di legge e di dovere è quella che li riconduce ad una fonte esterna a qualsiasi deduzione a priori, come ad esempio il Decalogo veterotestamentario. Il dovere e la legge sono concetti che esprimono condizionamento per definizione, ogni dovere è intrinsecamente legato ad una condizione:
479 480
SCHOPENHAUER A., I due problemi fondamentali dell’etica, op. cit., p. 173. Ibid., p. 174.
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Ogni dovere è quindi necessariamente condizionato dal castigo o dalla ricompensa e pertanto, per parlare nel linguaggio di Kant, è essenzialmente e inevitabilmente ipotetico e mai, come egli sostiene, categorico. Se invece si suppone che quelle condizioni siano soppresse, il concetto di dovere diviene privo di senso; perciò un dovere assoluto e comunque una contradictio in adiecto.481
Un dovere assoluto nel senso kantiano, privo quindi di un contenuto reale che lo leghi ad un premio o ad una ricompensa per l’azione prescritta o vietata, è per Schopenhauer un nonsenso. Si noti inoltre come questo passo getti luce ulteriore sull’interpretazione di TLP 6.422: Wittgenstein sembra riprendere proprio questa critica ma in un modo e con un’intenzione che cerca di salvare la posizione kantiana. Il filosofo austriaco sostiene con Schopenhauer che «Dev’esservi sì una specie di premio etico e di pena etica» ma poi con spirito kantiano aggiunge che questi devono essere nell’azione stessa. Il nonsenso di una proposizione che esprime attraverso la forma imperativa un dovere assoluto, non è una ragione sufficiente per legittimare la ricerca del fondamento dell’etica nel mondo dei fatti, nelle conseguenze delle azioni. Il nonsenso delle proposizioni etiche indica nell’ostinazione con cui tali espressioni si avventano contro i limiti del linguaggio che il valore, l’oggetto dell’etica, risiede non nelle parole ma nelle azioni. L’influenza di Schopenhauer sulla caratterizzazione del nonsenso etico del Tractatus può esser individuata, in primo luogo, nella priorità delle azioni morali (che per Schopenhauer sono determinate da intuizioni morali, per Wittgenstein no) su qualunque fondazione teorica dell’etica: «La virtù sorge dalla conoscenza, ma non da una conoscenza astratta, comunicabile in parole. Se così fosse, la virtù potrebbe essere insegnata; noi, con l’esprimere in formule astratte la sua essenza e la sua conoscenza che le serve di base, potremmo rendere anche moralmente migliore chiunque comprendesse le nostre parole. Ma le cose non stanno assolutamente così. Anzi, non esiste predica morale che possa rendere virtuoso un uomo»482. Inoltre, il nonsenso delle proposizioni dell’etica indica per entrambi che il discorso teoretico è incapace di dire i limiti dell’azione etica, ovvero entrambi ritengono tanto la spiegazione scientifica quanto la riflessione filosofica aree del discorso incapaci di spiegare il senso dell’agire morale. Così come per Schopenhauer la questione della coscienza della libertà delle nostre azioni non trova risposta nell’ipotesi che la scienza riesca ad individuare tutte le cause che determinano le motivazioni all’agire negli esseri umani, per Wittgenstein 481 482
Ibid., p. 176. SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., IV, § 66, p. 517.
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anche se tutte le possibili domande scientifiche ricevessero risposta i nostri problemi vitali rimarrebbero insoluti (TLP 6.52). Un elemento importante per delineare le linee di influenza schopenhaueriane sull’insensatezza dell’etica nel Tractatus sta nella caratterizzazione dell’atteggiamento etico come azione/visione nel/del mondo quale totalità limitata. Per articolare meglio questa tesi bisogna fare un passo indietro e cercare di capire in che modo Wittgenstein identifichi il soggetto dell’azione etica con il soggetto della volontà, in che misura si tratti di una tesi schopenhaueriana e quali conseguenze comporta per il discorso sul mondo, per la totalità dei fatti oggetto del discorso sensato della scienza. La volontà di cui parla Wittgenstein in riferimento all’ambito etico (TLP 6.423) non è la volontà come fenomeno empirico, oggetto d’indagine della psicologia, ma una volontà trascendentale, una posizione ai limiti del mondo da cui guardare ai fatti. Il volere del soggetto morale non imprime al corso degli eventi alcuna modificazione, è piuttosto un’attitudine a “vedere il mondo correttamente” (TLP 6.43). Wittgenstein distingue nei Quaderni ’14-’16 tra il desiderare, come fenomeno esclusivamente mentale e il volere come agire nel mondo, e da ciò conclude che non esiste alcun rapporto di causazione tra la cosa in sé di Schopenhauer, la “volontà metafisica”, e ciò che invece è l’atto volontario:
È dunque che io accompagno le mie azioni con la mia volontà? Ma allora come posso predire – cosa che, in un certo senso, m’è indubbiamente possibile – che tra 5 minuti io alzerò il mio braccio? Che io vorrò questo? È chiaro: È impossibile volere senza già eseguire la volizione. La volizione non è la causa dell’azione, ma l’azione stessa. Non si può volere senza fare. […] Non avviene il movimento voluto del corpo proprio, così come ogni movimento non voluto nel mondo, con la sola differenza che quello è accompagnato dalla volontà? Ma è accompagnato non solo dal desiderio! Ma dalla volontà. Noi ci sentiamo, per così dire, responsabili del movimento.483
È evidente in questo aspetto del rapporto tra volontà e atto volontario che Wittgenstein riprende l’idea schopenhaueriana che la volontà non sia un antecedente causale nascosto del comportamento osservabile, ma sia oggettivata nella coscienza dei miei 483
WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, 4/11/1916, pp. 234-235.
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movimenti volontari484. Tuttavia, nel Tractatus, pace Schopenhauer la possibilità di distinguere tra volontà e atto volontario non è fondata sulla distinzione metafisica tra noumenico e fenomenico, ma nel fatto che il soggetto della volontà si senta responsabile dell’atto volontario485. A tal proposito, Wittgenstein riprende la distinzione kantiana tra volontà buona e volontà cattiva per identificare due condizioni che il soggetto della volontà può vivere rispetto al mondo: una di felicità e una d’infelicità. La volontà buona, che identifica la condizione del felice, non altera i fatti del mondo ma ne allarga i limiti fino a vederlo come una totalità delimitata. Questo sentimento del mondo come totalità, come tutto chiuso entro i limiti del soggetto della volontà, è il sentimento mistico (TLP 6.44-6.45)486. La volontà cattiva, ovvero la condizione d’infelicità, è un restringimento sino al minimo possibile dei limiti del mondo, l’esclusione dalla sfera del volere di un gran numero di fatti. Perché Wittgenstein riprende la nozione kantiana di “volontà buona”? Il sentimento mistico del Tractatus riprende la condizione del saggio schopenhaueriano, di colui che «vive in un mondo di fenomeni amici» o è una trasformazione di questo tema? Quanto alla prima questione, anche per Schopenhauer la vita buona non impone nulla al corso degli eventi nel mondo fenomenico perché è un atteggiamento attraverso il quale si guarda ad esso da un punto di vista non egoistico e universale:
La natura stessa si contraddice, a seconda che essa parli dal punto di vista del particolare o da quello dell’universale, dell’interno o dell’esterno, del centro o della periferia. Il suo centro è in ogni individuo poiché ogni individuo è l’intera volontà di vivere […]. Così parla la natura dal
484
Cfr., SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., II, § 18, p. 162: «L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due stati differenti, conosciuti in modo obiettivo, e collegati secondo il principio di causalità; non stanno tra loro nella relazione di causa ed effetto: sono, al contrario, una sola e medesima cosa che ci è data in due maniere essenzialmente diverse: da un lato immediatamente, dall’altro come intuizione per l’intelletto. L’azione del corpo non è che l’atto della volontà oggettivato, cioè divenuto visibile all’intuizione». È importante notare come Schopenhauer maturi questa posizione in aperta polemica con Kant, sulla possibilità che possano esistere relazioni causali tra mondo noumenico e mondo fenomenico, cfr. Ibid., Appendice. Critica della filosofia kantiana, pp. 605 e sgg. 485 Il problema della distinzione tra volontà e atto volontario è un tema schopenhaueriano che estende la sua influenza ben al di là del Tractatus come dimostrano i §§ 611-621 delle Ricerche, in cui Wittgenstein cerca di “salvare” l’azione volontaria da una sua riduzione tanto ad un processo mentale che la determinerebbe, quanto al suo svolgimento come comportamento osservabile dell’agente; cfr. GLOCK H.-J., Schopenhauer and Wittgenstein, in op.cit., pp. 451-455. Secondo Glock, Wittgenstein impiega nelle Ricerche temi e lessico schopenhaueriani per dare una spiegazione dell’intenzionalità antitetica rispetto alle conclusioni sui fondamenti metafisici dell’azione volontaria di Schopenhauer. 486 Secondo McGuinness la caratterizzazione del sentimento mistico del Tractatus riprende quella di Misticismo e logica di Russell ed è fondata su quattro elementi: 1) la presenza di un’intuizione in opposizione al pensiero e alla ragione; 2) l’appello a un’unità di fondo del mondo; 3) la negazione della realtà del tempo; 4) la negazione della realtà dell’opposizione tra bene e male; cfr. MCGUINNESS B.F., Mysticism, in Approaches to Wittgenstein, op. cit., pp. 140-159.
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punto di vista particolare, ossia dal punto di vista dell’autocoscienza, e di qui deriva l’egoismo di ogni essere vivente. Invece dal punto di vista universale, che è quello della coscienza delle altre cose, ossia del conoscere oggettivo, che fa momentaneamente astrazione dall’individuo, nel quale la conoscenza si manifesta, e quindi dall’esterno, dalla periferia, la natura parla così: «L’individuo non è nulla ed è meno che nulla. Ogni giorno distruggo milioni di individui per gioco e per passatempo, metto la loro sorte nelle mani del più lunatico e capriccioso dei miei figli, in quelle del caso, il quale dà loro la caccia a suo piacimento. […]». Solo chi sa realmente conciliare ed appianare questa manifesta contraddizione della natura, possiede una vera risposta alla questione circa la transitorietà o l’eternità del suo proprio io.487
Si noti in primo luogo come questa conclusione riecheggi nella sezione 6.431 e nei suoi commenti 6.4311-6.4312 in cui Wittgenstein parla della morte: se la morte è la scomparsa dell’io, dell’individuo come soggetto del volere, allora essa è la scomparsa di un limite, di qualcosa che non può alterare il mondo. La morte non altera il mondo, ma dal momento che essa comporta il venir meno della prospettiva del soggetto della volontà, con essa scompare anche l’oggetto della volontà : il mondo. Più che subire una modificazione interna il mondo si dissolve con la medesima prospettiva che la raffigurava in proposizioni dotate di senso e la investiva del proprio volere nell’agire morale. La felicità, la soluzione del problema della vita, consiste per Wittgenstein nella comprensione che il punto di vista etico è esterno al mondo, fuori dallo spazio e dal tempo. Un punto di vista sub specie aeterni che non è minimamente lambito dalla soluzione dei problemi della scienza naturale (problemi che sorgono nel mondo), e che tuttavia non può prescindere dalla totalità dei fatti come oggetto, come punto di riferimento visivo. All’opposto, Schopenhauer ritiene che il punto di vista del saggio sia irriducibilmente inconciliabile con la felicità: «L’egoista si sente circondato da fenomeni estranei e nemici, e la sua speranza si restringe al proprio benessere. Il buono vive in un mondo di fenomeni amici: il bene di ciascuno è anche il bene suo. Certo: la sua conoscenza del destino umano in generale non è fatta per rallegrarlo; ma la sua ferma convinzione, con cui sente di trovare il proprio essere in tutte le creature viventi, conferisce all’animo suo un certo equilibrio e anche una nota di serenità»488. In questo rifiuto dell’identificazione tra vita virtuosa e vita felice Schopenhauer esprime la consapevolezza di una possibile
487
SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., Supplementi al IV libro, cap. 47, pp. 1522-1523. 488 Ibid., p. 525. Sull’inconciliabilità tra virtù e felicità cfr. Ibid., Supplementi al IV libro, cap. 49, pp. 1567-1574.
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contraddizione interna alla propria visione dell’etica, quella tra l’idea fondamentale per cui tutta la realtà fenomenica (compreso l’agire etico) sia l’oggettivazione della volontà e l’ideale etico dell’annullamento della volontà. L’approccio ascetico alla vita, espressione di questo ideale etico, non può infatti essere per Schopenhauer un cambiamento volontario degli aspetti fenomenici della propria esistenza489. Per ovviare a questa possibile contraddizione insita nell’identificazione tra soggetto dell’etica e soggetto della volontà Wittgenstein riprende allora, come ho detto a proposito di TLP 6.43, la nozione kantiana di volontà buona490. Quanto alla seconda questione, ovvero all’influenza dell’ideale etico di Schopenhauer sul tema del sentimento mistico, bisogna considerare in che termini il soggetto della volontà del Tractatus sia uno sviluppo coerente con quanto Wittgenstein dice a proposito del soggetto del solipsismo (TLP 5.6-5.641). Il problema del solipsismo, non estraneo alla tradizione kantiana e ai problemi sollevati dalla soggettività empirica (il soggetto della rappresentazione) nel Mondo491, subisce qui una svolta linguistica: la relazione tra Io e mondo è sostituita dalla relazione tra proposizione e realtà492. Se per Schopenhauer la posizione solipsistica rimaneva «come un piccolo forte di frontiera; 489
La contraddizione tra agire morale e annullamento della volontà è rilevata anche da GARDINER P., Schopenhauer, op. cit., p.287. Schopenhauer la aggirerebbe sostenendo che la vita virtuosa conduce alla rassegnazione, cfr. SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., Supplementi al IV libro, p. 1530: «Le virtù morali, ossia la giustizia e l’amore per il prossimo, quando sono sincere derivano, come ho dimostrato, dal fatto che la volontà di vivere ha visto al di là del principium individuationis e si è riconosciuta in tutti i suoi fenomeni: per questa loro origine esse sono dunque, innanzi tutto, un indizio, un sintomo della circostanza secondo la quale la volontà manifestantesi non è più completamente irretita nell’errore, ma sta già arrivando la disillusione; perciò si potrebbe dire, con una metafora, che essa batte già le ali per volarsene via. […] Inoltre, quelle virtù morali sono un mezzo per promuovere la rinuncia di sé e quindi la negazione della volontà di vivere. E ciò perché la vera equità, la giustizia perfetta, questa prima e importantissima virtù cardinale, è un compito così gravoso, che chi la professa incondizionatamente e dal profondo del cuore deve fare dei sacrifici tali che essi strappano subito alla vita la dolcezza del suo godimento: così distolgono la volontà dalla vita e conducono quindi alla rassegnazione». 490 Cfr. GLOCK H.-J., Schopenhauer and Wittgnestein, in op.cit., pp. 442-443. 491 Il problema del solipsismo avrebbe la sua origine nella trattazione kantiana dell’Io penso. Come ha giustamente notato Sandro Nannini la nozione di appercezione trascendentale è per Kant la condizione prima della validità oggettiva delle nostre conoscenze, e in tal senso, piuttosto che alimentare il dubbio scettico sull’esistenza delle altre menti, ha contribuito allo sviluppo della concezione funzionalistica della mente, cfr. NANNINI S., L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 42-49. Cfr. anche SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., I, § 19, p. 168: «[…] il vero senso della questione circa la realtà del mondo esteriore si riduce proprio a questo: se gli oggetti, che dall’individuo sono conosciuti soltanto come semplici rappresentazioni al pari del proprio corpo, siano anche fenomeni di una volontà. Negarlo è dare la risposta dell’egoismo teorico, il quale considera tutti i fenomeni, salvo il proprio individuo, come fantasmi, esattamente come dal punto di vista dell’azione, l’egoismo pratico considera e tratta come realtà solo la propria persona, e tutte le altre come fantasmi. L’egoismo teorico non si potrà mai confutare con argomenti: del resto si sa benissimo che non è mai stato impiegato in filosofia se non come sofisma scettico, cioè senza convinzione». 492 La svolta linguistica che Wittgenstein imprime al tema del solipsismo rispetto all’idealismo trascendentale è messa in risalto da PHILLIPS GRIFFITHS A., Wittgenstein, Schopenhauer and ethics in Understanding Wittgenstein, op. cit., pp. 98-103.
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inespugnabile ma la cui guarnigione non può far mai una sortita, sicché si può passare oltre lasciandocelo alle spalle senza pericolo»493, nel Tractatus il solipsismo esprime qualcosa di vero sulla relazione tra proposizione e mondo ma può solo mostrarlo (TLP 5.62). Per Wittgenstein, le cose acquistano significato solo grazie all’intenzionalità di un soggetto metafisico il quale collega i termini che stanno per gli elementi della situazione raffigurata dalla proposizione alla realtà (TLP 2.1511). La verità del solipsismo si manifesta allora nelle condizioni che permettono la logica della raffigurazione, nella forma logica delle proposizioni dotate di senso. Queste condizioni, come è emerso dal primo capitolo, si mostrano nella proposizione ma non possono esser dette sensatamente. È da questa prospettiva che si realizza l’identità di idealismo trascendentale e realismo empirico494. Ebbene, il soggetto della volontà che guarda al mondo come ad un limite coincide con il soggetto metafisico, con quel limite che per Wittgenstein rappresenta la verità della posizione solipsistica495. Il sentimento mistico del Tractatus è allora qualcosa di più rispetto a ciò che Schopenhauer intende per contemplazione del mondo come oggetto estetico, come totalità sottratta alla necessità spaziotemporale496, qualcosa che convoglia in maniera rigorosa il problema del limite del discorso sensato attraverso la stessa struttura dell’opera. Il Mistico è il modo in cui Wittgenstein fa spazio nell’economia complessiva del Tractatus ad una forma austera di eticizzazione del linguaggio: quando non si guarda al solo dominio dei fatti, quando ci si interroga sul senso complessivo del mondo, tutto quello che si può dire non sono nonsensi il contenuto dei quali allude a verità ineffabili, ma nonsensi e basta497. Il sentimento mistico sorge nel Tractatus da un 493
SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., I, § 19, p. 168. Cfr. WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, 15/10/16, p. 232: «La strada che ho percorso allora è questa: L’idealismo separa dal mondo, come unici, gli uomini, il solipsismo separa me solo, ed alla fine io vedo che anch’io appartengo al resto del mondo; da una parte resta dunque nulla; dall’altra, unico, il mondo. Così l’idealismo, pensato con rigore sino in fondo, porta al realismo». 495 Non è un caso che in TLP 6.4311, per parlare dell’eternità come sguardo d’insieme al mondo nel presente, Wittgenstein riprenda la metafora dell’occhio e del campo visivo. 496 Cfr. SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., III, § 34, p. 267: «Colui che in tal modo si sprofonda e si perde nella contemplazione della natura, così da non esistere più se non a titolo di puro soggetto conoscente, sentirà immediatamente di essere, in quanto tale, la condizione, il sostegno del mondo e di ogni esistenza oggettiva; poiché questa esistenza oggettiva si presenterà da questo momento in poi come dipendente dalla sua.» 497 Mi sembra invece che il sentimento mistico del Tractatus venga troppo spesso interpretato come espressione di una consapevolezza ineffabile, quella dell’identità tra Io e mondo. Emblema di questo tipo di interpretazione di Wittgenstein è VANNINI M., Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Simone Weil, Mondadori, Milano 1999, pp. 332-333: «Un fatto, forse anche l’immortalità dell’anima, non tocca mai il valore, il bene e il male che appartengono invece alla volontà, la vera “portatrice dell’etico” così come dell’estetico. La volontà buona è quella che ha fatto il vuoto assoluto di sé medesima, che è diventata cioè ormai assolutamente indifferente ai fatti del mondo e a tutte le descrizioni dei medesimi: essa vede il mondo come buono e bello e trova perfetta gioia nel presente». 494
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uso indicativo del linguaggio, dalla considerazione che «il mondo è tutto ciò che accade» ma che il suo senso non può essere compreso a partire da questo “interno” contingente. Il punto di partenza di Wittgenstein era la possibilità di pensare solo ciò che ha una forma logica, che possiede un senso possibile, ma questo lo aveva portato a scontrarsi con l’impossibilità di pensare la forma logica stessa senza uscire dal linguaggio e dal mondo. Come ha intuito Pierre Hadot: «È in seno alla stessa opposizione a ogni forma di trascendenza e di ineffabile che sorge la possibilità di affermare: c’è un ineffabile; posso tendere a qualcosa che trascende i limiti del mondo. […] Lungi dal bandire la nozione di ineffabile, il linguaggio me la dischiude; poiché ho voluto parlare esattamente e logicamente, devo per forza accettare di usare un linguaggio logicamente inesatto, che non rappresenta nulla ma evoca. Ritrovo il valore incantatorio del linguaggio; intravedo che la forma fondamentale del linguaggio potrebbe essere la poesia, che fa nascere dinnanzi a me il mondo»498. Questo non vuol dire che l’uso “evocativo” del linguaggio rappresentato dalle stesse proposizioni del Tractatus ci conduca ad una dimensione in cui solo la poesia e la letteratura possono alludere a ciò che è più importante. Sebbene Wittgenstein individui l’apertura “evocativa” del sentimento mistico proprio attraverso la definizione dei limiti del linguaggio indicativo e in questo modo condanni al nonsenso lo stesso Tractatus, la sue conclusioni smontano questa atmosfera di attesa della “rivelazione” dell’ineffabile: «L’enigma non v’è.» (TLP 6.5). Tema della volontà, solipsismo e sentimento mistico costituiscono allora tre aspetti dello stesso problema, l’insensatezza delle proposizioni dell’etica, che rivelano una nuova tematizzazione di questioni già affrontate da Schopenhauer. Per concludere, ho cercato di dimostrare che la concezione dell’etica di Schopenhauer e l’insensatezza dell’etica nel Tractatus sono fondate su due tratti comuni: 1) l’irriducibilità dell’ambito di espressione dell’etica alla descrizione scientifica del mondo, tema questo che si consuma attorno alla priorità logica che entrambi i pensatori attribuiscono all’agire morale sulla fondazione dei principi dell’etica, e che non implica un rifiuto dell’importanza del discorso scientifico; 2) la concezione dell’agire etico come saggezza, quale posizione sul mondo concepito come una totalità delimitata. Dove questi tratti comuni prendono strade differenti è proprio nell’estensione da parte di Wittgenstein del nonsenso a tutte le proposizioni dell’etica: se per Schopenhauer la speculazione teoretica è inutile dal punto di vista della trattazione dei problemi etici 498
HADOT P., Wittgenstein e i limiti del linguaggio, op. cit., p. 49.
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perché la loro soluzione riposa sul sentimento dell’intuizione morale, per il filosofo austriaco il sentimento mistico non è in alcun modo oggetto di comunicazione, può solo mostrarsi in
un “retto modo di vedere il mondo”. Wittgenstein, almeno nel
Tractatus, ha una visione molto più restrittiva dei limiti del (non)senso.
3.3 La Conferenza sull’etica: dal nonsenso etico al senso secondario A questo punto, per completare il quadro della relazione tra la nozione wittgensteiniana di nonsenso e la trattazione dell’etica, è opportuno volgere l’attenzione allo spazio e al ruolo che Wittgenstein riserva alle proposizioni dell’etica, nel passaggio da una concezione gerarchica (Tractatus) ad una concezione reticolare (Ricerche) del linguaggio. I luoghi in cui Wittgenstein parla di etica, dopo il periodo di silenzio seguito alla pubblicazione del Tractatus e precedente alla stesura delle prime annotazioni che avrebbero composto le Ricerche, sono ben circoscritti: la Conferenza sull’etica, pronunciata a Cambridge probabilmente tra il 1929 e il 1930, e i riferimenti all’etica nelle conversazioni con i membri del Circolo di Vienna annotate da Waismann. Quello che colpisce della Conferenza è la presenza di un “movimento” del pensiero di Wittgenstein espresso da un metodo di analisi filosofica che tende a scomporre e superare il quadro divisionista (senso/nonsenso) del Tractatus. La Conferenza presenta immediatamente
un’evidente
continuità
con
quest’opera
nell’affermazione
dell’intrinseca insensatezza del discorso sull’etica, e tuttavia si avvale di un metodo filosofico, caratterizzato dall’uso di esempi, per mezzo del quale Wittgenstein apre alla possibilità di un uso etico del linguaggio.
Innanzitutto, troviamo una riaffermazione della prospettiva sull’etica del Tractatus: Wittgenstein apre il discorso ribadendo l’irriducibilità dell’esperienza etica alla spiegazione scientifica del mondo, individuando in questa tendenza “scientificopopolare” «[…] uno dei più bassi desideri dell’uomo moderno, ossia la curiosità superficiale per le ultime scoperte della scienza»499. In secondo luogo afferma che il termine “etica” verrà impiegato in un senso più ampio di quello di «ricerca generale su
499
WITTGENSTEIN L., Lezioni e conversazioni, op. cit., p.6.
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ciò che è bene», in un senso che include l’estetica500. Dopo aver distinto tra giudizi di valore relativo e giudizi di valore assoluto, sostiene che questi ultimi non sono descrizioni di fatti e che dunque il loro oggetto non è esprimibile nel discorso sensato. L’etico in senso assoluto trascende i limiti delle nostre parole: «L’etica, se è qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti; così come una tazza contiene solo la quantità d’acqua che la riempie fino all’orlo, e io ne facessi versare un ettolitro»501. Questa dimensione “eccessiva” dell’etica rispetto al livello della raffigurazione dei fatti è sintetizzata da Wittgenstein in tre esperienze etiche assolute, descritte da una prospettiva di prima persona502: l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo, l’esperienza di sentirsi assolutamente al sicuro e l’esperienza di sentirsi colpevoli per qualcosa, espressa dalla credenza religiosa che Dio disapprovi la nostra condotta503. Come ha notato McGuinness tutte e tre queste esperienze sono riconducibili a come il Tractatus imposta la relazione tra il soggetto della volontà buona e il mondo504. L’esperienze di meravigliarsi per il senso del mondo e sentirsi assolutamente al sicuro articolano il sentimento mistico di colui che guarda al mondo come ad una totalità delimitata e vive tra «fenomeni amici»505. Ovviamente, l’espressione verbale di queste tre esperienze non ha senso perché sono il risultato di un cattivo uso della lingua:
Dire «Mi meraviglio di questo e di quest’altro», ha senso solo se posso immaginarmi che le cose non stiano così. In questo senso, ci si può meravigliare, diciamo, per l’esistenza di una casa, vedendola, non avendola visitata da molto tempo e avendo immaginato che l’avessero demolita nel frattempo. Ma non ha senso dire che mi meraviglio per l’esistenza del mondo poiché non posso immaginarmelo non esistente. […] Ora, capita lo stesso per l’altra esperienza 500
Ibid., p. 7. Cfr. TLP 6.421. La tesi dell’identità di oggetto tra etica ed estetica nella visione del mondo del “genio” è una tesi schopenhaueriana che Wittgenstein ha probabilmente ripreso dalla lettura di Weininger, cfr. WEININGER O., Delle cose ultime, op. cit., p. 253: «Il grande filosofo e il grande artista hanno “in sé il mondo intero”, essi sono il microcosmo cosciente; nell’uomo comune, e anche nel puro scienziato, è ugualmente presente il microcosmo, ma inconsapevole, virtuale». 501 Ibid., p. 11. 502 L’impiego di una prospettiva di prima persona rafforza la continuità con il fatto che nel Tractatus il soggetto della volontà buona è il portatore del sentimento mistico, cfr. ibid., Appunti di conversazioni con Wittgenstein. Di F.Waismann, p. 24: «Alla fine della mia conferenza sull’etica, ho parlato in prima persona. Credo che sia abbastanza essenziale. Là non c’è più nulla da constatare, posso solo intervenire come individualità e parlare in prima persona». 503 Ibid., pp. 12-15. 504 cfr. MCGUINNESS B.F., Mysticism, in Approaches to Wittgenstein, op. cit., pp. 157-159. 505 Si veda il modo in cui nei Quaderni Wittgenstein arriva a tracciare la connessione dell’etica con il mondo, cfr. WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, 8/10/1916, p. 230: «Se ho contemplato la stufa e mi si viene a dire: ma adesso non conosci che la stufa, certo il mio risultato pare esiguo. Così infatti la si mette giù come se avessi studiato la stufa tra le molte, molte cose del mondo. Ma, se ho contemplato la stufa, essa era il mio mondo, e di contro tutto il resto smoriva. (Qualcosa di buono, in complesso, ma cattivo nei particolari) ».
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da me menzionata, l’esperienza cioè di sentirsi assolutamente al sicuro. […] Essere al sicuro significa , essenzialmente, l’impossibilità fisica che mi possano capitare certe cose, e quindi non ha senso dire che io sono al sicuro, qualsiasi cosa capiti. Di nuovo, è un uso errato della parola «sicuro», come, nell’altro esempio, per le parole «esistenza» e «meraviglia». Vorrei ora imprimere nella vostra mente che un certo caratteristico uso errato della nostra lingua percorre tutte le espressioni etiche e religiose.506
Il punto qui è che per Wittgenstein l’uso errato della lingua nell’articolazione delle tre esperienze etiche descritte sopra non è fine a se stesso, ma esprime una diversa prospettiva da cui guardare al mondo. Si tratta della prospettiva etica, alternativa alla ricerca scientifica della verità, sintetizzata dall’uso che facciamo delle categorie di “miracolo” e “miracoloso”. Meravigliarsi per l’esistenza del mondo, per Wittgenstein significa vedere il mondo come un “miracolo”, da un punto di vista diverso rispetto a quello della descrizione scientifica e tuttavia non privo di importanza. La visone del mondo come “miracolo” non ha niente a che fare con la descrizione di esperienze mistiche, illumina piuttosto un aspetto del modo in cui utilizziamo il linguaggio per parlare del mondo, un aspetto del linguaggio stesso:
E ora descriverò l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo, dicendo: è l’esperienza di vedere il mondo come un miracolo. Sono ora tentato di dire che l’espressione giusta nella lingua per il miracolo dell’esistenza del mondo, benché non sia alcuna proposizione nella lingua, è l’esistenza del linguaggio stesso.507
Quando utilizziamo un nonsenso etico per esprimere il nostro stupore di fronte al mondo, la nostra meraviglia per la sua esistenza, benché le nostre espressioni cerchino di trascendere senza successo i limiti del linguaggio, testimoniamo con le nostre parole «una tendenza nell’animo umano», quella ad avventarsi contro i limiti del linguaggio:
Cioè voglio dire: vedo ora come queste espressioni prive di senso erano tali non perché non avessi ancora trovato l’espressione corretta, ma perché la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare. Perché, infatti, con esse io mi proponevo proprio di andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante. La mia tendenza, e io ritengo, la tendenza di
506 507
WITTGENSTEIN L., Lezioni e conversazioni, op. cit., pp. 13-14. Ibid., p. 17.
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tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere o di parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio.508
La mancanza di senso essenziale delle proposizioni dell’etica possiede per Wittgenstein una dimensione antropologica rivelativa: quando il bisogno di parlare di etica sgorga dal desiderio autentico di parlare del “bene assoluto”, del “significato ultimo della vita”, pur esprimendosi in proposizioni prive di senso rivela una tendenza a scontrarsi con i limiti del linguaggio che è tipica degli esseri umani impegnati in discussioni autentiche su etica e religione. È da questa posizione sul ruolo chiave giocato dal nonsenso etico nella delucidazione di un aspetto del linguaggio in contraddizione con la logica della raffigurazione, che Wittgenstein dice di immaginare chiaramente cosa Heidegger intenda con le nozioni di “Essere” (Sein) e “Angoscia” (Angst): «Posso ben immaginarmi che cosa intenda Heidegger per Essere e Angoscia. L’uomo ha l’impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. Pensate per esempio alla meraviglia che qualcosa esista. La meraviglia non può essere espressa nella forma di una domanda, e non vi è neppure alcuna risposta. Tutto ciò che vorremmo dire può a priori, essere solo nonsenso. Tuttavia, noi ci avventiamo contro i limiti del linguaggio»509. Si noti come le due categorie heideggeriane siano interpretate in connessione con un problema che abbiamo visto essere centrale nel Tractatus, ovvero il desiderio etico-estetico che alimenta la tendenza “metafisica” ad esprimere l’indicibile. Wittgenstein è con ogni probabilità interessato a ciò che per Heidegger è il ruolo dell’Angoscia (Angst)510, alla sua dimensione ontologica rivelativa, che più di qualunque teoria filosofica ci apre all’esperienza del Niente (das Nichts), al radicale annullamento dell’ente, lasciandoci “spaesati” e senza parole511. L’Angoscia è uno stato d’animo fondamentale in cui l’esserci (Dasein) smarrisce il senso quotidiano dell’ente e si trova posto di fronte al Niente, spingendolo in questo modo a interrogarsi sulla questione filosofica fondamentale “Perché è in generale l’ente e non piuttosto il Niente?”. Da questo punto di vista l’Angoscia motiva nell’esserci dell’uomo la conversione ad un atteggiamento filosofico, una conversione simile a quella che la
508
Ibid., p. 18. Ibid., p. 21. 510 Cfr. HEIDEGGER M., Essere e tempo, tr. it. di P.Chiodi, Longanesi, Milano 1970, § 40, pp. 231-239. 511 Cfr. HEIDEGGER M., Che cos’è metafisica?, tr. it. di F.Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 51: «L’angoscia ci mozza la parola. Poiché l’ente nella sua totalità si dilegua e così proprio il niente ci assale, tace al suo cospetto ogni tentativo di dire “è”. Che nello spaesamento dell’angoscia non si cerchi spesso di infrangere il vuoto silenzio proprio con parole dette a caso, non è che la prova della presenza del Niente». 509
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dichiarazione di insensatezza delle stesse proposizioni del Tractatus richiede al lettore per comprendere l’intenzionalità filosofica del suo autore. Tuttavia, nella sua opera principale, Wittgenstein imprime alla questione fondamentale della filosofia una svolta linguistica, come se invitasse il lettore ad assumersi la responsabilità di una risposta alla domanda “Perché è in generale il senso e non piuttosto il nonsenso?”, e alla fine riconoscesse che fin quando rimaniamo nel linguaggio non possiamo non ammettere l’insensatezza di questa stessa domanda. Ebbene, così come per Heidegger l’Angoscia apre l’uomo alla possibilità di fare esperienza dell’essere512, per Wittgenstein l’avventarsi contro i limiti del linguaggio permette quel meravigliarsi e quel sentirsi assolutamente al sicuro nel mondo, che nella Conferenza descrivono la cifra dell’etico513. Ad ogni modo, sebbene la Conferenza presenti un’innegabile continuità con la concezione etica del Tractatus, il metodo filosofico utilizzato da Wittgenstein segna una forte discontinuità. Fin dall’inizio del discorso il filosofo dice di voler procedere all’esposizione paragonando ed accostando espressioni equivalenti che hanno come oggetto l’etica:
E per farvi vedere il più chiaramente possibile che cosa assumo come oggetto proprio dell’etica, vi presenterò come alcune espressioni più o meno sinonime, ciascuna delle quali può essere sostituita alla definizione precedente; enumerandole, voglio produrre lo stesso tipo di effetto prodotto da Galton quando disponeva sulla stessa lastra fotografica un certo numero di fotografie di facce diverse per avere il quadro delle caratteristiche tipiche comuni a tutte. E come, mostrandovi una tale fotografia collettiva, potrei farvi vedere quale sia, ad esempio, la tipica faccia cinese, così, passando lo sguardo sulla serie di sinonimi che vi porrò di fronte, sarete in grado, spero, di vedere le caratteristiche tipiche comuni a tutti, e che sono le caratteristiche tipiche dell’etica.514
Il nuovo metodo consiste nella proposizione di esempi, costituiti da espressioni linguistiche simili, al fine di isolarne quelle che nelle Ricerche saranno le “somiglianze di famiglia”, ma che qui Wittgenstein chiama le «caratteristiche tipiche comuni a tutti». Non c’è un metodo per definire l’oggetto dell’etica, ci sono piuttosto esempi di 512
Anche Heidegger descrive l’esperienza dell’essere nei termini del “miracoloso” e del “meraviglioso”, cfr. Ibid., Poscritto del 1943, p. 78: «Unico fra tutti gli enti, l’uomo, chiamato dalla voce dell’essere, esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è». 513 Cfr. MURRAY M., A Note on Wittgenstein and Heidegger, «The Philosophical Review», vo. 83, n.4, (1974), pp. 501-503. 514 WITTGENSTEIN L., Lezioni e conversazioni, op. cit., p. 7.
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espressioni che consideriamo essere formulati sull’etica515. Attraverso questa serie di esempi Wittgenstein mira a mettere in luce l’esistenza di due modi principali di impiegare proposizioni in cui sono presenti gli aggettivi buono/buona o il sostantivo bene, proposizioni nelle quali esprimiamo giudizi di valore: un modo relativo o corrente e un modo assoluto o etico. Un giudizio di valore relativo come “Io sono un buon giocatore di calcio” o “Questa mela è buona” è un’asserzione di fatti e pertanto può essere espresso nella forma di un giudizio equivalente, anche se questo non è un giudizio di valore. Nel caso dei nostri esempi avrei potuto dire che “Io gioco un calcio migliore di quello di mio cugino ma peggiore di quello di mio fratello” e “Questa mela ha un gusto che la rende più desiderabile rispetto ad altre mele”, perché tutti i fatti descritti dai giudizi di valore relativo si trovano sullo stesso livello (TLP 6.4). Al contrario, i giudizi di valore assoluto sono quelli con cui esprimiamo quell’avventarsi contro i limiti del linguaggio alla base delle tre esperienze etiche fondamentali. Come le espressioni dell’etica nel Tractatus, la loro insensatezza li rende irriducibili a qualsiasi altra forma di espressione linguistica:
Così sembra che nel linguaggio etico e religioso noi usiamo sempre similitudini. Ma una similitudine deve essere una similitudine per qualcosa, e se posso descrivere un fatto usando una similitudine, devo anche essere in grado di toglier via questa e di descriverlo senza di essa. Ora, nel nostro caso, se cerchiamo di eliminare la similitudine e di asserire semplicemente i fatti che vi stanno dietro, troviamo che questi fatti non ci sono. Così, quanto sembrava dapprima una similitudine appare come un puro nonsenso.516
Come ha notato R. Rhees la distinzione tra giudizi di valore relativo e giudizi di valore assoluti, determinata dal metodo fondato sugli esempi impiegato da Wittgenstein, rende il testo della Conferenza instabile517. Da un lato si profila ancora la concezione divisionista tra senso e nonsenso del Tractatus; dall’altro, invece, l’utilizzo di esempi anche per i giudizi etici assoluti come «Quanto è straordinario che il mondo esista» sembra abolire l’assolutezza della distinzione tra senso e nonsenso, e aprire alla possibilità di un uso etico del linguaggio. Nella Conferenza iniziano ad emergere alcune delle linee guida entro cui si svilupperà il pensiero del “secondo” Wittgenstein, in
515
È innegabile che questo passo anticipi il metodo fondato su esempi di RF § 133, p. 71. WITTGENSTEIN L., Lezioni e conversazioni, op. cit., p. 15. 517 Cfr. RHEES R., La Conferenza di Wittgenstein sull’etica, in WITTGENSTEIN L., Lezioni e conversazioni, op. cit., pp. 29-43. Per una rassegna delle interpretazioni di questa “instabilità” cfr. DONATELLI P., Wittgenstein e l’etica, op. cit., pp. 142-147. 516
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particolare l’idea che siano gli impieghi diversi di una parola a costituirne il significato ma soprattutto l’idea che posso usare la medesima parola o la medesima serie di espressioni per esprimere visioni diverse, se non addirittura alternative, del mondo. Se la prima contribuirà al passaggio da una concezione del riferimento come significato ad una come uso, la seconda porrà le basi per quelle osservazioni sulla filosofia della psicologia che hanno come baricentro i temi dell’esperienza del significato, del vedere l’aspetto o vedere-come e soprattutto dell’uso secondario di un’espressione518. Quello che qui ci interessa per chiarire la tensione tra nonsenso e metodo fondato su esempi della Conferenza è un approfondimento della nozione di uso o senso secondario di un’espressione o di una serie di espressioni. Nella prima parte delle Ricerche Wittgenstein individua due tipologie di comprensione del significato di un’espressione:
Noi parliamo del comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere sostituita da nessun’altra (Non più di quanto un tema musicale possa venir sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della proposizione è qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qualcosa che soltanto queste parole, in queste posizioni, possono esprimere. (Comprendere una poesia.)519
Il primo tipo di comprensione, quello che si realizza nella normale comprensione di un’espressione, rende quest’ultima inessenziale perché può essere sostituita da un’espressione equivalente. Il secondo tipo di comprensione, individua invece nell’espressione oggetto della comprensione un elemento insostituibile al fine di esprimere un significato determinato: un tema musicale o una poesia esprimono il 518
Cfr. VOLTOLINI A., Guida alla lettura delle Ricerche Filosofiche, op. cit., pp. 140-154. È opportuno chiarire che quando si interroga sulla possibilità di un’esperienza del significato (RF II, p. 232) Wittgenstein ha già escluso l’ipotesi “agostiniana” che la comprensione del significato di un’espressione possa esser fondata su di un’Erlebnis come un’immagine mentale. Capire se c’è qualcosa come un senso peculiare e irriducibile al modello dell’immagine mentale, della nozione di esperienza del significato comporta per Wittgenstein analizzare la nozione di vedere l’aspetto o vedere-come; cfr. RF, II, pp. 268282. Da questa prospettiva la nozione di vedere l’aspetto o vedere-come servirebbe a gettar luce su quella di esperienza del significato, per questo motivo occuperebbe una posizione privilegiata nella seconda parte delle Ricerche, cfr. MULHALL S., On Being in the World. Wittgenstein and Heidegger on Seeing Aspects, Routledge, London 1990, pp. 35- 45. Infine, vorrei sottolineare come il tema del vedere l’aspetto, del significato come fisionomia, sia per Wittgenstein un ambito di ricerca connesso al modo in cui trasformiamo i segni, i rumori e i suoni che ci circondano nella forme riconoscibili del linguaggio nel quale siamo nati e siamo stati addestrati: da questo punto di vista l’aspettualità è un fenomeno irriducibile alla competenza lessicale standard sia essa referenziale o inferenziale; cfr. GARGANI A.G., Wittgenstein, op. cit., pp. 85-94 e FORTUNA S., Il giallo di Wittgenstein. Etica e linguaggio tra filosofia e detective story, Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 217-218. 519 RF § 531, p. 189.
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proprio senso nella struttura sonora o in quella metrica e retorica, il loro valore espressivo non può essere spiegato completamente con l’uso di un altro tema musicale o di un altro brano poetico. In altri termini, per Wittgenstein, esistono casi in cui la comprensione di un’espressione si può realizzare solo all’interno di quell’espressione perché il suo significato non è svincolabile dall’espressione medesima. Ora, questa distinzione tra tipologie di comprensione del significato di un’espressione è già presente nella distinzione tra l’uso transitivo e l’uso intransitivo di una parola, presentata in questi termini a partire dal Brown Book520. Non sarebbe allora una mossa azzardata individuarne l’epicentro speculativo, il nucleo di riflessioni da cui si è sviluppata, nella trattazione distinta di giudizi di valore relativo e giudizi di valore assoluti nella Conferenza. I giudizi di valore relativo sono descrizioni di fatti del mondo sostituibili con giudizi equivalenti che possono non avere la forma assiologia: sono un uso transitivo del linguaggio. Al contrario, i giudizi di valore assoluto, quelli che Wittgenstein considera giudizi etici in senso stretto, non possono essere sostituiti da espressioni equivalenti perché trasgrediscono i limiti del discorso sensato. In questa loro imprescindibilità ai fini della comprensione del proprio valore espressivo, i giudizi di valore assoluto sono usi intransitivi del linguaggio. Nella Conferenza l’etica si configura quindi come una dimensione intransitiva del linguaggio: i giudizi di valore assoluti enfatizzano la propria insostituibilità presentandosi come nonsensi, sottolineando in questo modo come gli usi etici del linguaggio vanno tutti nella stessa direzione e non c’è bisogno di guardare. Nella seconda parte delle Ricerche Wittgenstein sembra indicare che questo tipo di profondità etica espressa dal nonsenso sia già una risorsa interna al linguaggio: la comprensione intransitiva di un significato, o più in generale del senso di un’espressione, è fissata nella distinzione tra uso derivato o secondario dell’espressione e uso primario. L’esempio, ormai celebre, è quello di espressioni come “mercoledì grasso”o “martedì magro”:
520
Cfr. WITTGENSTEIN L., Libro blu e Libro Marrone, op. cit., p. 204. Qui Wittgenstein prende in considerazione la proposizione “A ha un modo particolare di star seduto” per far emergere come con la parola “particolare” il parlante voglia quasi porre l’accento sul fatto descritto, sul modo in cui A è seduto. In questo caso la parola “particolare” è usata “riflessivamente”, «ossia noi consideriamo l’uso di essa un caso speciale dell’uso transitivo». La conclusione di questo ragionamento è la distinzione tra usi transitivi e intransitivi di una parola, cfr. Ibid., p. 205: «Ora, questa è una situazione caratteristica in cui noi ci troviamo quando pensiamo a problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono dal fatto che una parola ha un uso transitivo e un uso intransitivo, e che noi consideriamo il secondo uso un caso particolare del primo, spiegando la parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva».
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Dati i due concetti “grasso” e “magro”, saresti disposto a dire che mercoledì è grasso e martedì è magro, o saresti meglio disposto a dire il contrario? (Io sono propenso a scegliere la prima alternativa.) Ebbene, qui «grasso» e «magro» hanno un significato diverso dal loro significato ordinario? Hanno un impiego diverso. – Dunque per parlar propriamente, avrei dovuto usare altre parole? Certamente no. – Qui io voglio usare queste parole (con i significati che mi sono familiari). – Non dico nulla sulle cause del fenomeno. Potrebbero essere associazioni che hanno la loro origine nella mia infanzia. Ma questa è un’ipotesi. Qualunque sia la spiegazione, - quell’inclinazione sussiste. Se qualcuno mi chiedesse: «Che cosa intendi, propriamente, con “grasso” e “magro”»? potrei spiegargli i significati di queste parole soltanto nel modo assolutamente ordinario. Non potrei riferirli agli esempi di martedì e mercoledì. Qui si potrebbe parlare di significato “primario” e significato “secondario” di una parola. Solo colui per il quale la parola ha significato primario, la impiega nel suo significato secondario.521
Il carattere derivato del significato secondario nell’espressione “martedì grasso” consiste nella sua dipendenza concettuale dal significato primario di “grasso”, in tal senso solo chi già usa “grasso” in espressioni ordinarie come “Quell’uomo è grasso” può attribuirle un significato secondario522. Allo stesso modo l’uso di “meravigliarsi” nel giudizio di valore assoluto “Mi meraviglio per l’esistenza del mondo” sarebbe incomprensibile se non dipendesse, almeno dal punto di vista concettuale, dal suo uso in espressioni relative a fatti come “Mi meraviglio per questa vittoria inaspettata dell’Inter”523. Commentando questo passo delle Ricerche, Stephen Mulhall individua tre caratteristiche fondamentali della distinzione tra uso primario e secondario di un’espressione524. In primo luogo, come ho già notato, l’uso secondario di una parola non spiega ma presuppone ( e allo stesso tempo va oltre) il suo uso primario: quando 521
RF, II, pp. 283-284. Nell’analisi di questo passo delle Ricerche Sara Fortuna individua nella nozione di significato secondario una forma di trasposizione metaforica irriducibile a quella ordinaria (in ciò consisterebbe la sua intransitività) in quanto diretta espressione di una modalità di significato appresa dal bambino nel rapporto simbiotico con la madre nei primi mesi di vita e in ciò legata alla corporeità; cfr. FORTUNA S., Il giallo di Wittgenstein, op. cit., pp. 215-233. È in questi termini che si rende possibile una lettura freudiana della nozione di significato secondario come modalità di significato rimossa, fisiognomica e ritmo-musicale; cfr. Ibid., p. 228: «Essenziale della scoperta freudiana è per Wittgenstein proprio la dimensione simbolica, estetica, con cui sono costituiti determinati fenomeni, ad esempio quello onirico, in cui la simbolizzazione agisce mettendo in atto le tre tecniche summenzionate [condensazione, spostamento e trasposizione]. In questo senso è possibile forse ricondurre la scelta wittgensteiniana del termine significato secondario, proprio ai processi primari di Freud, che fanno riferimento proprio alle prime forme di significazione a carattere analogico-associativo prodotte attraverso le pulsioni nel bambino». 523 La tesi della somiglianza logica tra le espressioni etiche assolute della Conferenza e l’uso secondario di una parola o di un’espressione è sostenuta in DIAMOND C., The realistic spirit, op. cit., cap. 8, pp. 225-241. 524 Cfr. MULHALL S., On Being in the World, op. cit., pp. 45-52. 522
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dico che “martedì è grasso” non posso spiegare il significato di “grasso” facendo riferimento all’uso che se ne fa in questa espressione ma ritornando a definizioni o esempi paradigmatici del suo uso primario. In secondo luogo, nessun’altra parola, al di là di quella che sto impiegando nel senso secondario, può esprimere le mie intenzioni linguistiche meglio di questa in questo contesto: nell’esempio è solo ed esclusivamente la parola “grasso” che mi permette di esprimere nel miglior modo possibile la mia intenzione linguistica su “martedì”. Infine, Wittgenstein rimarca il fatto che la possibilità di dare una spiegazione causale della mia intenzione linguistica a utilizzare una parola in senso secondario è irrilevante al fine di chiarire il problema filosofico di cosa sia l’ “uso secondario” di un’espressione. Se, ad esempio, spiego l’espressione “martedì grasso” con il fatto che ad insegnarmi l’uso della parola “martedì” sia stato un insegnate molto grasso non chiarisco l’origine e l’obiettivo della mia intenzione linguistica ma la genesi di un piccolo gioco linguistico, che solo io posso immediatamente comprendere. Ebbene, da queste tre considerazioni Mulhall conclude che per Wittgenstein i giochi linguistici in cui impieghiamo parole o espressioni nell’uso secondario sono gli unici modi possibili di dare espressione (Ausserung) a sentimenti, inclinazioni ed esperienze individuali525. Ciò comporterebbe che dall’osservazione di qualcuno che non fosse in grado di comprendere un uso secondario potremmo concludere la sua incapacità di provare quelle emozioni, quei sentimenti, quelle esperienze cui questa pratica linguistica da espressione, anche perché la capacità di padroneggiare l’suo secondario da parte di chi parla è l’unico criterio per accertarne l’esistenza. In altri termini, per Wittgenstein, la tendenza ad assimilare le parole del linguaggio in cui nasciamo è paragonabile all’acquisizione di una seconda natura: le reazioni pre-linguistiche che costituiscono la natura umana formano le condizioni per l’acquisizione del linguaggio; ma l’assunzione di comportamenti e pratiche linguistiche determinate modella a sua volta questa natura fino a che non emerge un regno di reazioni linguistiche spontanee, possibile solo perché padroneggiamo l’uso del linguaggio. Le conclusioni che possiamo trarre dall’osservazione di un individuo che padroneggia l’uso secondario di una parola sono condizionate dal modo in cui quest’individuo è stato addestrato all’uso di determinate parole in determinati contesti:
Dal comportamento degli uomini, ovviamente, non fa parte soltanto ciò che essi fanno senza aver appreso alcun modo di comportarsi, ma anche ciò che fanno (dunque, ad esempio, ciò che
525
Cfr. Ibid., p. 49.
225
dicono) dopo essere stati addestrati in una determinata maniera. E questo comportamento ha il suo peso proprio in rapporto all’addestramento specifico. – Se, ad esempio, uno ha imparato a usare le parole «mi rallegro» come un altro le parole «ho paura», noi trarremo in questo caso conclusioni diverse da comportamenti uguali.526
Lo spazio espressivo dell’etica si situa allora in questa “seconda natura” in cui i comportamenti linguistici effetto delle condizioni e dei modi rispetto ai quali siamo stati addestrati all’uso del lingua, determinano per Wittgenstein le reazioni e i comportamenti umani; il discorso sull’etica e la tesi della sua peculiare insensatezza incarnano questo orizzonte antropologico rivelativo. In sintesi, la trattazione dei giudizi etici assoluti nella Conferenza dimostra come Wittgenstein sia stia muovendo verso una nuova concezione del linguaggio, in cui la netta distinzione tra senso e nonsenso si dissolve nell’indagine sull’esperienza del significato, sull’aspetto che determinate espressioni manifestano in determinati contesti. È in questo “movimento” del pensiero di Wittgenstein messo in luce dalla nozione di nonsenso che l’etica si apre, nel passaggio da una concezione gerarchica ad una reticolare del linguaggio, alla possibilità di giochi linguistici etici costituiti da espressioni utilizzate in senso secondario; eppure in questa trasformazione non cessa di essere una dimensione intransitiva del linguaggio, una dimensione che attinge esclusivamente alle sue risorse interne. Questo perché, come ha ben visto Cora Diamond527, l’obiettivo di Wittgenstein è quello di mettere fine alla «chiacchiera sull’etica»528, ovvero all’incapacità, causata da pulsioni filosofiche alla spiegazione e alla generalizzazione, a non vedere che le espressioni utilizzate nel discorso etico non si
526
WITTGENSTEIN L., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, op. cit., I, § 131, p. 48. DIAMOND C., The realistic spirit, op. cit., cap. 8, p. 235. 528 Un esempio di “chiacchiera” sull’etica potrebbe essere la tesi tipica dell’utilitarismo per cui la correttezza o la scorrettezza di un’azione morale è interamente determinata dalla somma di conseguenze felici o di sofferenze provocate. Nella prospettiva di Wittgenstein la posizione utilitarista utilizza parole come “felicità” nel loro uso primario, ignorando il fatto che quando parliamo della felicità come conseguenza di un’azione eticamente corretta stiamo facendo un uso secondario e intransitivo del linguaggio. È in questi termini, ad esempio, che nella trattazione del problema dell’espressione del dolore il filosofo sembra alludere all’irriducibilità del dolore di un singolo individuo a quello dell’intera umanità. Tale posizione lo avvicina ad uno dei più importanti scrittori, divulgatori scientifici e in senso lato “moralisti” della Vienna fin-de-siécle, Josef Popper-Lynkeus (1838-1921). Questo eclettico e dimenticato pensatore austriaco affermava la superiorità della vita di ciascun essere umano rispetto a qualsiasi impresa o successo scientifico, artistico, politico, così come di fronte a qualsiasi ideale (religione, patria, famiglia, razza, socialismo) che ne minacci l’integrità; cfr. POPPER-LYNKEUS J., The Individual and the Value of Human Life, tr. by A.K.Kelley and J.G.Harber, Rowman e Littlefield Publishers, London 1995. 527
226
presentano mai nel loro senso primario: «Nell’etica si compie sempre il tentativo di dire qualcosa che non riguarda e non potrà mai riguardare l’essenza della cosa»529.
529
WITTGENSTEIN L., Lezioni e conversazioni, op. cit., p. 22.
227
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