Needham-Wittgenstein. Il problema antropologico del credere
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scaffale aperto

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Virginia Masciangelo

Needham-Wittgenstein Il problema antropologico del credere

Armando editore

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MASCIANGELO, Virginia Needham-Wittgenstein. Il problema antropologico del credere ; Roma : Armando, © 2015 144 p. ; 20 cm. (Scaffale Aperto) ISBN: 978-88-6677-942-1 1. Credere e credenza nell’antropologia occidentale 2. Confronto tra Needham e Wittgenstein 3. Credenze, linguaggio e realtà CDD 100

© 2015 Armando Armando s.r.l. Piazza della Radio, 14 - 00146 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 21-00-099 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

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Sommario

Introduzione 1. Il problema antropologico del credere 1.1. Cenni sulla letteratura antropologica 1.2. Credenze e rappresentazioni collettive 1.3. Credenze e senso comune 1.4. La spiegazione delle credenze 1.5. La credenza come costruzione sociale 2. Il credere e la credenza nella tradizione antropologica occidentale 2.1. Definizioni enciclopediche 2.2. Gli intellettualisti e le credenze 2.3. Gli emozionalisti e le credenze 2.4. I sociologi francesi e le credenze 2.5. I funzionalisti e le credenze 2.6. Gli antropologi marxisti e le credenze 2.7. Dan Sperber e l’epidemiologia delle credenze 2.8. Credere secondo natura: continuità tra il biologico e il culturale 3. Wittgenstein e il credere come disposizione 3.1. Wittgenstein-Needham: un primo contatto 3.2. Wittgenstein e la definizione del problema del credere 3.3. Quaderni 1914-16

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3.4. Note al Tractatus: le espressioni di credenza (5.54-5.5421) 3.5. Wittgenstein e la psicologia 3.6. Wittgenstein e i verbi psicologici 3.7. Libro blu e Libro marrone 3.8. Ricerche filosofiche e Zettel 3.9. Della certezza 3.10. Osservazioni sulla filosofia della psicologia

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4. Belief Language Experience 4.1. Introduzione all’autore 4.2. Analisi dell’opera

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5. Oltre Needham 5.1. Credenze, linguaggio e realtà 5.2. Peter Winch e le credenze estranee alla tradizione occidentale 5.3. Winch e Wittgenstein 5.4. Belief, un concetto da abolire?

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Bibliografia

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Introduzione

Il concetto di credere e quello di credenza hanno da sempre rappresentato un nodo problematico all’interno della letteratura antropologica e non solo. Gettiamo semplicemente uno sguardo alla storia della filosofia: potremmo citare Platone, Aristotele, Agostino, ma, più avanti col tempo, anche Hume, Kant addirittura, filosofi che si sono interrogati per secoli sulla questione relativa alla semplice entificazione e definizione dello stato mentale del credere. Pensiamo anche a James a Peirce e ai loro studi sul pragmatismo della credenza. La credenza ha da sempre giocato un ruolo cruciale in tutte le scienze sociali, coinvolgendo anche la psicologia, la sociologia e l’economia. Ora il credere e la credenza (userò il termine credenza per indicare, a fini esplicativi, non tanto lo stato mentale, espresso più che correttamente dal credere, quanto il contenuto semantico di tale atto) sono stati materia di indagine nel testo da me preso in esame Belief Language Experience del famoso antropologo sociale Rodney Needham, proveniente dalla scuola di Oxford e allievo del padre dell’antropologia sociale britannica, sir EvansPritchard. Chiunque sia addentro agli studi demo-etnoantropologici, ma anche il semplice appassionato di antropologia, non può non riconoscere in Needham lo studioso che ha contribuito in maniera determinante all’indagine sul pensiero e sul problema religioso. 7

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Ma non solo nel campo dell’antropologia sociale e religiosa l’antropologo inglese si è fatto strada. Nel capitolo IV della mia tesi, dedicato alla concezione del credere in Needham, avrò modo di presentare l’autore e di passare in rassegna i contributi da lui apportati all’antropologia britannica e al pensiero antropologico in generale. Per il momento mi sembra opportuno il riferimento diretto al testo preso in esame. L’opera Belief Language Experience è, come sostiene lo stesso autore nell’introduzione, una lunga nota in margine alla proposizione di Wittgenstein: “L’espressione di una credenza è soltanto una frase; e la frase ha un suo significato soltanto quando fa parte di un sistema linguistico” (Wittgenstein 1958, p. 42). Del resto tutto lo scritto di Needham altro non è che il tentativo di rispondere alla domanda di Wittgenstein: “Credere è un’esperienza?” (Wittgenstein 1961, p. 89). Tale scritto non è riconducibile a un ambito disciplinare ben definito. Infatti Needham non ha la presunzione di definire la sua un’opera di filosofia. È un’opera a metà strada tra antropologia e filosofia; è un’opera metateorica dove è sottoposto a critica il punto di vista degli antropologi. Il primo tentativo di Needham è infatti quello di stabilire il significato effettivo del termine belief. Tentativo assai arduo se pensiamo che è molto più semplice confrontarsi con altri etnografi, rilevatori di campo, parlando di usi e costumi che non di contenuti psicologici e di stati psichici. Questo perché l’antropologia si è occupata, sin dal passato, più dell’ambiente che non delle facoltà dell’uomo. Needham dichiara che l’espressa volontà del libro è quella di fondare un’antropologia critica, definire le condizioni di comprensibilità del mondo umano, chiarire le funzioni dei costrutti intellettuali (i concetti), discutere il problemapossibilità della traduzione, illuminare i rapporti tra linguaggio, 8

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concettualizzazione, operazioni mentali, esperienze e strutture socioculturali sia nell’ambito di una stessa cultura che in culture diverse. Le suddette problematiche si affiancano all’analisi linguistica, filosofica e antropologica del belief. L’antropologo propone innanzitutto un’analisi filosofica del linguaggio con uso della comparazione, da buon comparativista qual è, ponendosi contro la ristrettezza concettuale e linguistica della filosofia analitica. Ma, tornando a noi, cosa significa credere? Qual è l’utilità della credenza? Per analizzare il contenuto delle credenze di un popolo possiamo prescindere dallo studio della cultura di appartenenza e dal linguaggio parlato da quel popolo? In quale rapporto l’umanità si pone con la realtà e soprattutto come si costituisce il nostro bagaglio concettuale? I termini da noi adoperati hanno un contenuto semantico unico e unicamente determinato? Questi sono i tanti interrogativi che l’autore si è posto durante la sua ricerca e ai quali ha cercato di dare una risposta esaminando la stretta relazione tra credenza, linguaggio ed esperienza. Investigando, nel periodo compreso fra il ’51-’52, sui Penan, popolazione del Borneo centrale, l’antropologo Needham, da empirista scettico e seguace del padre di tutti gli scettici, David Hume, giunse alla conclusione che i Penan o i Nuer, così come potrebbe dirsi di altre popolazioni di interesse etnologico, non hanno un termine concettuale simile a “io credo” per il fatto che essi non dispongono del concetto di credere poiché l’esperienza del credere non è parte della loro forma di vita. Detto con le sue stesse parole: “L’argomento specifico della ricerca che ho intrapreso in questa sede consiste nel negare che la nozione di credenza si accordi con una concezione empirica della mente umana, o con una dettagliata descrizione delle motivazioni e della condotta dell’uomo. L’atto del credere non è un’esperien9

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za di tipo perfettamente isolabile, non costituisce un’affinità naturale fra gli uomini, e non rientra in un comune comportamento dell’umanità” (Needham 1976a, p. 185). Needham si pone così in maniera polemica nei confronti dell’antropologia acritica evidenziando che non tutti i popoli hanno un bagaglio concettuale identico, esprimibile nel linguaggio cui corrisponde una stessa esperienza. Dunque, prima di chiedere a cosa una popolazione creda, compito dell’antropologo è quello di capire se essa abbia o meno esperienza del credere. Il lettore cui Needham si indirizza non è il solo studioso o appassionato di antropologia, ma è anche il filosofo, il linguista, lo studioso di scienze umane e sociali, il teologo. L’argomento specifico della mia tesi sarà dunque la peculiare analisi needhiana del concetto di credere e la mia attenzione sarà principalmente rivolta all’enorme debito intellettuale di Needham nei confronti di Wittgenstein, in risposta alla cui proposizione l’opera Belief Language Experience ha visto i suoi natali. Nel capitolo primo esaminerò il credere come problema antropologico, passando in rassegna alcune opere tratte dalla vasta letteratura antropologica di cui siamo eredi. Sono consapevole della ricca tradizione filosofica del concetto di credenza, ma lo scopo della mia tesi non è l’ontologia della credenza o la realtà psicologica delle credenze in quanto stati mentali. Lascio alla filosofia e alla psicologia, più specificamente alla teoria rappresentazionale della mente, dove queste due questioni hanno trovato un trattamento unitario, il compito di investigare su ciò che è di loro competenza. La mia sarà un’analisi antropologica della credenza, sebbene poi sia impossibile operare in un campo ben definito, essendo molti gli sconfinamenti nelle altre discipline. Nel secondo capitolo affronterò il concetto di credere e di credenza all’interno della tradizione antropologica occidentale. 10

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Il terzo capitolo sarà invece dedicato alle considerazioni di Wittgenstein in merito al credere. Il quarto capitolo sarà una breve presentazione del pensiero e dell’opera needhiana. Nel quinto e ultimo capitolo accennerò al relativismo antropologico, prendendo come spunto le considerazioni di Peter Winch sulle credenze estranee alla nostra tradizione culturale. Esporrò poi per sommi capi la critica needhiana al modello tradizionale di conoscenza, causa di etnocentrismo, che sostiene che il rapporto dell’uomo con la realtà (esperienza) è fondamentalmente identico in tutti i popoli e trova espressione in linguaggi diversi ma sostanzialmente omogenei. Il nuovo modello proposto da Needham e da me condiviso prevede che l’esperienza non sia più considerata, per un verso, uniforme ed invariante per tutte le culture, per l’altro verso indipendente dalla sua espressione linguistica. Esperienza, concettualizzazione e linguaggio stanno tra loro in un rapporto di fondazione reciproca, nell’ambito di ciascuna cultura, sebbene non sia possibile una corrispondenza biunivoca tra elementi del linguaggio, concetti ed elementi dell’esperienza, così come questa è stata configurata da Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus. Nella conclusione discuterò, assumendo una posizione costruttivista, il nichilismo concettuale sfiorato da Needham quando alla fine nega la realtà e un qualsiasi tipo di rapporto con l’esperienza al belief definendolo inutilizzabile come strumento concettuale, quasi ridotto ad un mero flatus vocis.

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1. Il problema antropologico del credere

1.1. Cenni sulla letteratura antropologica Sembrerà strano ma, nonostante la letteratura etnografica sia stracolma di allusioni al problema del credere, non esiste alcuna definizione convenzionale del concetto di credenza che sia caldeggiata o raccomandata dagli antropologi. In molti studiosi c’è la tacita assunzione che questa normale categoria psicologica della lingua inglese denota una comune facoltà umana che possa essere estesa a tutti gli uomini e che abbia quindi carattere universale. Il concetto di credenza è implicito in molti scritti antropologici, quasi fosse un termine descrittivo standard. Pensiamo a Cassirer, il quale nel Saggio sull’uomo afferma che: “nell’immaginazione mitica è sempre implicato un atto di credere”, cioè che senza la credenza nella realtà del proprio oggetto il mito perderebbe ogni fondamento e che tale credenza è “una condizione intrinseca e necessaria della modalità di percezione propria del mito” (Cassirer 1944, p. 75). Notes and Queries, la guida alle ricerche sul campo, pubblicata dal Royal Anthropological Institute, dedica un sostanzioso capitolo, il settimo, al rituale e alla credenza. Balza immediatamente all’occhio che la comprensione di quest’ultima è data per scontata. “Non è stata ancora trovata alcuna popolazione, tra quelle finora studiate, che non creda in una qualche sorta di po13

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tere sovrannaturale” – così comincia Notes and Queries (Royal Anthropological Institute 1951, cap. 7). Per tutto il corso della trattazione di questo argomento capitale, la facoltà di credere è costantemente nominata, ma la definizione di tale concetto non è mai messa in dubbio. Dando uno sguardo ai manuali di antropologia – si pensi a Beattie e a Uomini diversi da noi: lineamenti di antropologia sociale (1972) – è mancante una definizione antropologica di credere. Scorrendo ancora le pagine della letteratura antropologica, Leach in Virgin Birth scrive a questo proposito che “quando un etnografo riporta che i membri della tribù X credono che… egli descrive in realtà un’ortodossia, un dogma, qualcosa che è vero di una cultura nel suo insieme” (Leach 1966, p. 40). Per Needham bisognerebbe assumere che le differenze psicologiche dell’atto del credere siano inerenti alle ortodossie condivise da ogni singola popolazione altrimenti questo tratto distintivo dovrebbe essere eliminato nell’uso etnografico che si riferisce alle credenze. È però anche vero che gli uomini non credono necessariamente a ciò che la propria cultura li spinge a dichiarare e, se eliminiamo la dimensione psicologica, non vi è più la distinzione tra cosa creduta e la supposta capacità di credere che attribuisce valore alla descrizione. “Una larga parte della letteratura antropologica sulla religione – continua Leach – si impegna quasi interamente nella discussione sul contenuto del credere e sulla presenza o meno di razionalità in tale contenuto. La maggior parte di queste argomentazioni mi sembrano sciocchezze accademiche […] Porre domande sul contenuto delle credenze che non siano implicite nel contenuto dei riti è un puro nonsenso […] L’azione rituale e la fede sono simili nella misura in cui sono intese come forme di affermazione simbolica circa l’ordine sociale” (Leach 1954, pp. 13-14). Per Needham, come dicevo, il problema continua a sussistere perché non c’è alcun vantaggio nel parlare di rappresentazioni 14

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collettive o di dogmi in termini di credenze se gli individui che compongono le società primitive non credono effettivamente ad esse. Bisognerebbe rettificare il vocabolario dell’etnografo, ma forse il vero problema consiste nel giustificare una simile implicazione. Continuando con questa breve rassegna vorrei sottolineare che in antropologia culturale le definizioni di religione includono convenzionalmente la credenza come indispensabile componente di essa; per esempio Durkheim, padre della scuola sociologica francese, ne Le forme elementari della vita religiosa, sostiene che “alla base di tutti i sistemi di fede e di tutti i culti deve esserci necessariamente un certo numero di rappresentazioni fondamentali e di atteggiamenti rituali che risentono ovunque dello stesso significato oggettivo e adempiono dunque alle stesse funzioni. La religione diviene così un sistema di rappresentazioni e di riti (un sistema unificato di credenze e pratiche) attraverso il quale gli individui partecipano misticamente e collettivamente di questa entità provvista di una forza soprannaturale che è la società” (Durkheim 1912). Più avanti avrò modo di chiarire lo stretto rapporto tra la rappresentazione collettiva e la credenza nelle società etnologiche. Ancora, Marcel Mauss, nipote nonché allievo di Durkheim, rimarcando il carattere sociale delle rappresentazioni collettive, ribadiva che a proposito della credenza una spiegazione sociologica si ottiene quando si è visto che cosa è che la gente crede e quali sono le persone che lo credono e lo pensano (Dumont 1964). Radcliffe-Brown ritiene che la definizione più soddisfacente della religione sia nel dire che essa è “la credenza in una grande forza o potere morale” (Radcliffe-Brown 1922); e Geertz sostiene addirittura che i comportamenti religiosi sono “non soltanto modelli di ciò che essi, i fedeli, credono, ma anche modelli per crederlo” (Geertz 1966). 15

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Dal canto mio potrei continuare nella citazione di molti altri resoconti etnografici sulle religioni primitive in cui si legge che certi popoli credono che Dio abbia creato il mondo in un certo modo, che le offese contro gli antenati apportino calamità, che il rispetto delle norme del rituale procuri la pioggia, etc.: non troveremo tuttavia una seppur minima definizione di credenza. Il manuale di antropologia religiosa di Alessandra Ciattini affronta nel capitolo quinto il tema della credenza, con l’aperto richiamo a Needham, dimostrando di aver ben in mente il problema del credere nella letteratura antropologica. “… la parola credenza fa problema e quindi deve essere utilizzata con una certa cautela” (Ciattini 1997, p. 149). La Ciattini prosegue: “Qui la impiegheremo non per indicare un particolare stato mentale ed affettivo, quanto piuttosto per segnalare una certa struttura organizzativa di tipo cognitivo, ma dotata anche di immediate implicazioni pratiche e morali, individuabile negli insiemi di enunciati espressi dagli attori a proposito del loro comportamento e del loro modo di concepire il reale, o ricavati indirettamente dai ricercatori dall’osservazione e dai complicati tentativi di dotare di coerenza e di significato i gesti, le espressioni, gli atteggiamenti dei primi” (ibidem). Ma per Needham l’etnografo dovrebbe rettificare il suo vocabolario e parlare di credenze solo laddove ci siano, senza attribuire a culture altre concetti o costrutti che risultano essere dell’etnografo che li elabora per spiegare relazioni tra eventi che in altro modo sembrerebbero privi di senso. Si pensi all’intricata questione antropologica che affronta, relativa all’interpretazione della caccia alle teste praticata in alcune zone del sud-est asiatico. La nozione di forza mistica, forza di tipo animistico contenuta nel cranio del nemico, non sarebbe altro che un costrutto dell’etnografo, elaborato con lo scopo di spiegare la relazione tra la caccia alle teste e la fertilità. Ma neanche di questa relazione causale tra cranio e fertilità sembra esserci traccia nelle rappre16

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sentazioni collettive di questi popoli che, a differenza nostra, non hanno elaborato a quanto pare concetti come causa o forza da noi ereditati dalla fisica del diciannovesimo secolo.

1.2. Credenze e rappresentazioni collettive Il rebus dell’antropologo inglese resta quello di indovinare come un semplice etnografo possa comprendere e spiegare le credenze dei membri di remote civiltà. Un primo passo per la risoluzione di questo enigma è il richiamo all’esistenza di comuni caratteristiche mentali definite “fattori primari dell’esperienza”. Needham si riferisce chiaramente alla nozione junghiana di archetipo (Reconaissances 1980), ritenendo che ci sia una certa uniformità nelle rappresentazioni collettive, elaborate dalle varie società, nonostante le differenze tra le forme di organizzazione sociale e quelle della tradizione conoscitiva. Qui si pone un altro nodo problematico dell’antropologia, ovvero la questione relativa alle rappresentazioni collettive che intendo affrontare perché le credenze delle società etnologiche non sono altro che il prodotto di queste rappresentazioni. Lo storico Marc Bloch, infatti, in La guerra e le false notizie storiche, ci tiene a precisare l’anteriorità della rappresentazione collettiva rispetto alle credenze popolari o alle false notizie storiche quando dice: “Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita” (Bloch 1995). Il termine di rappresentazione collettiva fu introdotto da Durkheim e poi ripreso da Needham. Innanzitutto per rappresentazioni collettive si intendono quelle idee aprioristiche di “verità”, condivise da tutti i membri di una società, che sono inerenti alle relazioni tra il singolo e la comunità e ai valori fondamentali del gruppo sociale (sul concetto di verità rimando ad Ayer, autore di Linguaggio Verità e Logica (1961)). 17

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Le idee e credenze sulla morte, sulla stregoneria, sulla malattia sono rappresentazioni collettive condivise universalmente pena l’estraneità del soggetto dalla comunità. Esse non trovano infatti una giustificazione nei fatti contingenti ma rimandano al campo delle rappresentazioni dominato da un orizzonte magicoreligioso. Ne Le forme elementari della vita religiosa Durkheim, sostenendo che l’esistenza e il divenire della religione pongono un problema che non è solubile nello schema delle teorie individualistiche e psicologiche, parte da una doppia distinzione: in primo luogo distingue tra sacro e profano (ma non è questa la sede per discuterne) e in secondo luogo tra credenze e rituale. Influenzato infatti profondamente dal pensiero di Robertson Smith, uno dei padri fondatori dell’antropologia meridionalista, che aveva privilegiato nettamente la dimensione dell’azione su quella della rappresentazione ideale, Durkheim aveva posto l’accento sulla dimensione collettiva e pubblica del fenomeno religioso e sul dominio che tale dimensione sociale esercitava sul comportamento e sul pensiero individuale. È interessante riprendere per sommi capi il pensiero durkheimiano che ripropone il dibattito tra intellettualisti e ritualisti. Ricordo brevemente che gli intellettualisti (Tylor, Frazer e più tardi Horton) attribuivano anteriorità genetica alla credenza rispetto al rituale, mentre invece i ritualisti (Robertson Smith, Durkheim in un certo senso) vedevano il rito collettivo come fons et origo delle credenze di una società. La società per Durkheim, infatti, sorge attraverso l’interazione, l’azione comune, la cooperazione attiva. Gli individui, interagendo, creano una realtà sui generis che si impone con quei caratteri religiosi della trascendenza, della superiorità e dell’imperatività costitutivi, secondo l’autore in questione, della stessa società. Un esempio molto calzante è dato dal fatto che tutte le istituzioni sociali, prima di acquisire indipen18

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denza le une dalle altre, sono collegate alla religione e agli aspetti fondanti di essa (Durkheim 1912). Appare chiaro che per Durkheim la società crea le stesse coscienze, che senza di essa non potrebbero emergere come tali. Il sociologo francese sostiene a proposito delle categorie conoscitive, e cioè degli strumenti mentali attraverso cui gli uomini conoscono, che nella disputa filosofica tra gli aprioristi, i quali sostengono che le categorie sono date all’uomo come possibilità prima dell’esperienza empirica, e quella degli empiristi, i quali sostengono invece che le categorie derivano dall’esperienza sensibile, non è possibile una scelta scientificamente fondata. Il motivo è che è vero che le categorie sono a priori e vincolanti per gli uomini, ma hanno origine sociale, tanto che variano da società a società. Esse sono le rappresentazioni collettive e, come tali, sono il prodotto di un’immensa cooperazione che si estende nello spazio, ma anche nel tempo; nella loro costruzione molteplici individui diversi hanno associato, mescolato, combinato le loro idee e i loro sentimenti. Anche Needham sembra concordare con il carattere della trasmissione culturale delle rappresentazioni collettive pur se l’ipotesi della predisposizione naturale caldeggiata da molti studiosi continua ad offrire possibilità di indagini comparative. Infatti un altro nodo problematico affrontato dall’antropologo di Oxford resta quello della contestualità. Needham non può perdere il senso del contesto e delle tradizioni storiche e culturali, investigando su una cultura altra, motivo per cui insiste sulle differenze tra sistemi di convinzioni che possiedono un apparato critico per la speculazione epistemologica e sistemi che invece, come le religioni e le culture dei popoli illetterati, ne sono privi. Le religioni dei popoli senza scrittura non sono state costruite per Needham per affrontare i problemi relativi alla domanda “Cosa posso conoscere?”. Alla loro base c’è un atteggiamento acritico, che non implica 19

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mancanza di intelligenza o perspicacia, ma “l’assenza dell’abitudine a prendere in considerazione, dal punto di vista critico, le proprie opinioni e dottrine religiose per valutarne i contenuti conoscitivi”. Come Needham dice: “le opinioni debbono essere mantenute, non messe in discussione” (Needham 1981, pp. 74-75). Egli così traccia una netta linea di demarcazione tra i differenti sistemi di credenze che è nello stesso tempo un confine tra le diverse forme di organizzazione sociale, tra atteggiamenti differenti nei confronti della realtà e dei prodotti del pensiero. Needham considera i sistemi che sono forniti di un apparato critico epistemologico e speculativo, cioè la riflessione filosoficoscientifica, e i sistemi che non prevedono la necessità di tale apparato, annoverando tra questi ultimi i sistemi di credenze delle società primitive e tutti quei modi di pensare legati al senso comune, alla ideologia spontanea appartenenti anche alle società complesse. È noto che le religioni universali, a differenza delle religioni primitive, distinguono tra ortodossia ed eterodossia e considerano le loro credenze assolutamente vere e le altrui assolutamente false. Ciò è spiegabile in base al fatto che nelle culture etnologiche la religione permea la vita dell’individuo e assume funzioni diverse trasformandosi in una pretesa conoscenza della realtà.

1.3. Credenze e senso comune Avendo affrontato il discorso relativo alla relazione tra le credenze e la rappresentazione collettiva, ritengo che ora la credenza abbia assunto un significato un po’ meno vago. Ne ho infatti evidenziato la funzione conoscitiva, in quanto parte costitutiva di un sistema religioso. La religione, infatti, definita in termini generici, è un modo di riflettere, organizzare in senso conoscitivo, etico, politico, estetico il mondo delle cose. 20

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Per Needham le credenze e le pratiche che costituiscono un sistema religioso sono connesse ed assimilabili alle ben note ideologie spontanee. Queste scaturiscono dalla necessità di dare risposte immediate alle questioni pratiche, morali, esistenziali, filosofiche, suscitate dalle diverse forme di vita associata e sono caratterizzate dalla mancanza di strumenti specifici per riflettere criticamente sui loro schemi e contenuti. Contro una concezione riduttiva del pensiero magico-religioso la Ciattini non esita a proporre un parallelo tra le concezioni magico-religiose e le ideologie spontanee che in questa sede ci interessano e che sono riscontrabili in tutte le forme di vita sociale, le quali sono un insieme, non un vero e proprio sistema di pratiche e credenze. Esse costituiscono quello che Geertz definisce senso comune (Geertz 1988) che, a differenza di quanto credono quelli che ne sono portatori, è condizionato socialmente e culturalmente. (Ricordo che per Durkheim le rappresentazioni collettive altro non erano che teorie del senso comune). È probabile, inoltre, che l’uomo moderno trovi confortante ispirarsi ad un insieme di pratiche e credenze più vissute che pensate per trovare soluzioni a quelle che Needham chiama perplessità esistenziali. Queste sono le perplessità che danno corpo alle proposizioni metafisiche, che il positivista logico, dice Needham, posti certi rigorosi criteri formali, non fatica a dimostrare prive di senso. Tuttavia, pur se dimostrate inconsistenti da un punto di vista logico, queste perplessità nei fatti permangono. Per Geertz la caratteristica del senso comune è la naturalezza che consiste nel descrivere come aspetti intrinseci della realtà dimensioni del reale che sono invece culturalmente determinate. “Il senso comune resta, pertanto, impigliato nell’aspetto immediatamente visibile delle cose, nella dimensione superficiale per cui le cose sono esattamente come appaiono, ma ad un punto di vista che è, in realtà, socialmente e culturalmente determinato. 21

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Per chi assume questa prospettiva non ci sono naturalmente altre dimensioni nascoste e più profonde” (Geertz 1988, p. 112). “A volte questo rimanere invischiati nella dimensione visibile e percepibile pur all’interno di prospettive culturalmente e socialmente determinate, si trasforma in pretesa conoscenza di essenze – continua la Ciattini in L’animismo di Edward Burnett Tylor –. Quanto appare ovvio e naturale viene concepito, infatti, come la dimensione effettivamente costitutiva della realtà” (Ciattini 1995, p. 14). Essendo le ideologie spontanee presenti nelle forme di vita sociale e ad esse indispensabili (possiamo infatti definire più specificamente il senso comune come quell’insieme indeterminato di opinioni e cognizioni condivise quasi universalmente, che si impongono o per la loro evidenza o per il loro valore pratico o anche per l’autorità della tradizione) non possono essere ridotte alla categoria di errori e di allucinazioni, in quanto rappresentano l’esperienza effettiva in un contesto dato e contribuiscono a rendere vere le esperienze di quel contesto e a fissarle in istituzioni obiettive. Le ideologie spontanee possono trasformarsi in errori solo qualora vengano destoricizzate e decontestualizzate. In molti casi esse operano come fondamento dell’esistente, rifiutando la dimensione del possibile e vincolando l’uomo nella dimensione dell’esperienza immediata e concreta dell’intuizione la quale è socialmente e culturalmente condizionata. Da quanto finora detto mi sembra lecito ammettere l’utilità delle credenze in quanto fondamento d’azione per l’uomo inserito in una cultura e indispensabili alla condotta della sua vita. Sempre secondo la Ciattini le credenze, e le pratiche ad esse connesse, scaturiscono da una serie di quesiti essenziali, relativi all’immenso problema del senso della nostra vita. A tali questioni è necessario dare una risposta, sia pure parziale o momentanea, non soltanto per ragionare sulle varie forme di vita sociale e cul22

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turale ma anche per vivere nella quotidianità. Ecco perché spesso ci si trova ad accettare verità credibili ma funzionali ad una certa situazione, piuttosto che verità valide ma scomode. A questo punto viene a presentarsi un problema più filosofico che antropologico, cioè quello della verità. Secondo Ayer, autore già citato di Linguaggio Verità e Logica, definito un libro bellissimo e un successo editoriale da Bernard Russell, non può avere senso chiederci di analizzare il concetto di verità. La preoccupazione dei filosofi nei confronti del problema della verità risulta essere infondata. Il problema si risolve nel campo della logica, poiché nel dire vera la proposizione la si afferma e nel dirla falsa se ne afferma la sua contraddittoria. Nella domanda “Che cos’è la verità?” non c’è niente di più di una richiesta d’analisi dell’enunciato “p è vera”. Ma tornando a noi, il senso comune come insieme di credenze e pratiche più vissute che pensate è il tema affrontato da Wittgenstein in Della certezza, uno dei testi più compatti e significativi dell’ultimo Wittgenstein. (Per certezza in filosofia intendiamo lo stato in cui si trova la mente allorché non ha più motivo di dubitare, ovvero una convinzione basata sulla consapevolezza del soggetto: essa è una gradazione della credenza). Il filosofo scoprì nelle proposizioni del senso comune anziché un repertorio di certezze cognitive, il sistema delle convenzioni, delle regole e dei codici linguistico-concettuali secondo i quali gli uomini ordinano la loro esperienza e trattano con le situazioni che li circondano. Tavolo, sedia sono oggetti del senso comune, sono strumenti grammaticali, disciplinati nella proposizione. Il senso comune è per Wittgenstein un codice per i comportamenti umani che non ha presupposti razionali ma che esprime il modo di operare infondato che appartiene all’elemento della nostra vita. Così facendo Wittgenstein “sottrae il senso comune alle controversie intellettualistiche riproponendole come lo sfondo ereditario di una comunità sociale, tenuta insieme dal linguaggio 23

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e dall’istruzione, nella quale il senso comune non è oggetto di dubbi o di certezze, ma il luogo in cui si pongono dubbi e in cui si distingue tra il vero e il falso” (Wittgenstein 1999). Della certezza offre a Wittgenstein l’occasione di riprendere e affrontare il problema della verità delle proposizioni che era sembrato definito nel Tractatus. Dopo aver infatti rigettato la teoria del linguaggio come raffigurazione, il problema della verità non è più il confronto tra il linguaggio e la realtà come fondamento di una possibile verifica, ma diviene il problema della certezza, cioè della convinzione circa la verità di una proposizione. Quando sottoponiamo a controllo una proposizione confrontandola con i fatti, dobbiamo assumere come certe alcune condizioni, come ad esempio l’esistenza e l’attendibilità dello stesso apparato di controllo, senza le quali si avrebbe un regresso all’infinito. Queste certezze non hanno un fondamento, non possono essere dimostrate o verificate. Sono dei presupposti accettati come ovvi non perché siano evidenti, ma semplicemente perché li abbiamo appresi come tali e, a partire da essi, abbiamo conosciuto il resto. Individuare l’origine della certezza nel processo di apprendimento vuole dire ricondurla a una comunità, a una cultura, a ciò che nelle Ricerche Wittgenstein chiama forma di vita, che è il dato oltre il quale la spiegazione non può andare.

1.4. La spiegazione delle credenze Intendo dedicare questo paragrafo all’analisi dell’intervista La spiegazione delle credenze, tenutasi a Parigi nell’Istituto italiano di cultura il 14 maggio 1994, che ha come protagonista Raymond Boudon, sociologo francese e professore ordinario alla Sorbona. Quella di Boudon è un’interessante disamina delle spiegazioni date delle credenze, che ci dà modo di ripercorrere il pensiero 24

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durkheimiano e weberiano (Boudon è infatti un profondo estimatore di Max Weber) sulle credenze delle società primitive. Il sociologo esordisce sostenendo che la spiegazione delle credenze, specie di quelle dubbie o “false”, è un tema fondamentale, oltre alla grande rilevanza teorica, per capire la propria e le altrui società, anche in alcuni aspetti pratici. Boudon ci presenta due grandi correnti di pensiero o due grandi direzioni di ricerca per spiegare le false credenze, l’irrazionalismo e il razionalismo. Le spiegazioni irrazionaliste cercano le cause delle credenze fallaci. Si pensi a Lévy-Bruhl che fa scaturire le false credenze dal fatto che nelle società primitive vale una logica diversa dalla nostra (prelogismo) all’interno della quale esse trovano una loro validità e coerenza. Le regole della logica sono sottoposte a variazioni storiche e ciò spiegherebbe per quali motivi talune società abbiano delle credenze giudicate da noi, secondo una logica tutta occidentale, “false” e “bizzarre”. Le credenze magiche sono infatti relazioni di causalità che appaiono a noi erronee. Pensiamo alle danze rituali praticate per ottenere la pioggia. Non è l’agitarsi in un determinato modo il fatto che avrà un effetto sulle condizioni atmosferiche. Il metodo razionalista cerca invece le ragioni, spesso oscure, che i credenti possono avere per credere. Tali spiegazioni partono dal principio secondo cui le persone hanno ragione di credere a quello che credono, anche se tali ragioni non ci appaiono subito evidenti. Si pensi ad esempio alle credenze astrologiche o negli extra-terrestri nella nostra moderna società. Classificando un campione di persone in funzione del loro livello di istruzione ci si è accorti che tali credenze sono tanto più frequenti quanto più alto è il livello di istruzione degli intervistati. Secondo Boudon tale fenomeno è dovuto principalmente a una 25

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tensione tutta umana tra un bisogno e un sapere dove quest’ultimo è insufficiente per rispondere al bisogno. Pensiamo anche al continuo ricorrere a medicine alternative e orientali, in un secolo dove il sapere scientifico non sembra più dare quelle certezze di cui il paziente abbisogna. Sembra quasi che l’essere umano faccia propria la scommessa pascaliana: perché non tentare una strada nuova dato che il sapere ufficiale mi ha abbandonato? Boudon propende per il metodo razionalista, come del resto avevano fatto anche Durkheim e Max Weber, per mostrare il senso delle credenze magiche nelle culture tradizionali. Dovremmo pensare a tali credenze, invece, come a “ricette tecniche per bisogni fondamentali” estratte dal sapere dominante in tali società, cioè dal sistema religioso. Questi slittamenti nell’inferenza dipendono dal normale funzionamento del pensiero, dalla pratica normale di fare congetture, congetture che sono a volte vere a volte false. Secondo Durkheim, sebbene le credenze magico-religiose ci appaiano talvolta assurde, esse sono frutto di una società che ha delle ragioni ben precise per credere nell’efficacia dei rituali magici. Weber concorda pienamente con Durkheim quando, elaborando una teoria della magia, dice: “a proposito del facitore di fuoco, noi stessi facciamo una grande differenza tra il facitore di fuoco e il facitore di pioggia. Consideriamo che il facitore di fuoco è un uomo che si basa su relazioni di causalità vera. Il facitore di pioggia, al contrario, è qualcuno che si basa su relazioni di causalità completamente assurde per noi”. Ma c’è una vera differenza? Weber risponde: “no, non c’è nessuna differenza tra loro”. Noi possiamo operare una differenza tra il facitore di pioggia e il facitore di fuoco perché conosciamo le leggi della trasformazione dell’energia, sappiamo che l’energia cinetica si trasforma in energia termica, che c’è una relazione causale dietro l’atto del facitore di fuoco. Noi ci basiamo sui 26

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principi della fisica in quanto c’è una istituzionalizzazione della scienza nella nostra società. Non avendo conoscenza alcuna di fisica, le società primitive non distinguono affatto tra un facitore di fuoco e un facitore di pioggia. Durkheim fa un’analisi più complessa di Weber ma perviene alle stesse conclusioni. Egli dice: “supponete gli individui di una società arcaica la cui attività principale sia l’agricoltura. Ovviamente queste persone hanno un bisogno esistenziale che le piante vengano fuori, la siccità può voler dire carestia, e di conseguenza sono disposte a fare di tutto per modificare il corso della natura e facilitare la crescita delle piante”. Il ricorso all’esperienza è il primo passo dei primitivi ma è anche vero che, mancando una conoscenza dei processi biologici, essi sono costretti a ricorrere a una certa rappresentazione dei processi biologici che presiedono alla crescita delle piante, a una biologia d’emergenza, per così dire, che a noi apparrà ridicola. Tale teoria biologica sarà estratta dal sapere dominante, e questo sapere dominante sono le dottrine religiose. Nel capitolo successivo, interessandomi al credere e alla credenza nella tradizione antropologica occidentale, avrò modo di presentare le considerazioni di Frazer, rivisitato a sua volta da Wittgenstein in Note sul ramo d’oro di Frazer, e le argomentazioni di Malinowski su tale questione. Boudon conclude con una rassegna sulla psicologia cognitiva che ha dato attualmente numerosi contributi e ha ottenuto dei risultati ottimi nello studio dei fenomeni cognitivi, in particolar modo sugli slittamenti dell’inferenza e quindi sulle credenze “false”. Per il sociologo francese bisogna andare oltre Lévy-Bruhel (oltre la spiegazione irrazionalista) e capire che nel momento in cui devono far fronte a un problema complesso, le persone cercano di fare delle congetture, delle ipotesi, cercano di stabilire 27

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degli a priori per risolvere tale problema. A volte si ha successo a volte no. Boudon così conclude: “Allora credo che tutta quella psicologia cognitiva sia estremamente feconda per noi, perché è una specie di laboratorio dove si vede che l’individuo cerca di padroneggiare la complessità di un problema mobilitando le congetture che gli appaiono più naturali”. L’uomo ordinario, al pari dello scienziato, emette delle congetture; ora nella maggior parte dei casi verrà portato verso credenze giuste, ma queste congetture lo porteranno anche, inevitabilmente, all’errore.

1.5. La credenza come costruzione sociale Ho intenzione di richiamarmi, in questo paragrafo conclusivo del primo capitolo della mia tesi, alla duplice problematizzazione della nozione di credenza che Mondher Kilani suggerisce – nel capitolo decimo de L’invenzione dell’Altro (1994) – condividendone molti aspetti. Nel capitolo, intitolato Gli abitanti dell’oasi credono alle loro genealogie? Sulle nozioni di credenza e di sapere in antropologia, Kilani, oltre ad esplicitare il procedimento euristico da lui seguito sul campo, nelle oasi di Gafsa, riflette sulla dialettica mito-storia, mito-razionalità e relativizza la dicotomia sapere/credenza (davvero ciò che si definisce come credenza ha a che fare solo con l’irrazionale, o non è piuttosto, al pari del sapere scientifico, una costruzione sociale che persegue scopi razionali?). Da quanto è emerso, anche nella presente tesi, nella teoria antropologica la credenza è stata intesa come un modo di pensiero relativo a un certo stato mentale e caratterizzante il modo di funzionamento di ciò che si è convenuto di chiamare società tradizionali. Ora, la duplice problematizzazione di cui si parlava riguarda sia questa nozione tradizionale di credenza sia il sapere scientifico 28

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che si oppone esplicitamente alla credenza, qualificandola spesso come sapere negativo o incompiuto. Dice Kilani: “Il modello scientifico standard, infatti, generalmente rappresenta il ricercatore come colui che è nella posizione di chi cerca di sapere, mai di chi crede. Ci viene insegnato che, da un lato, esiste il sapere puro, nell’ambito del quale si collocherebbe l’antropologo, dall’altro, le credenze e i rapporti di forza, dei quali evidentemente partecipa l’attore sociale” (Kilani 1977, p. 235). Kilani sostiene inoltre che l’oggetto antropologico viene costruito sulla base del presupposto dell’universalità della credenza che diviene la quintessenza della tradizione, identificata con ciò che gli antropologi chiamano cultura. Sempre Kilani a p. 236: “Secondo intere generazioni di antropologi, nelle culture le credenze assumerebbero la forma del dogma, del preconcetto, della serena cecità. Per gli antropologi, le credenze o le rappresentazioni collettive esprimerebbero l’ortodossia di una cultura, disegnandone la forma canonica”. Il problema consiste nel domandarsi se la credenza degli antropologi circa le credenze delle società tradizionali sia fondata o meno, “si tratta di sapere se il fatto di postulare che gli altri coltivino tali credenze non abbia a che fare con la prospettiva adottata dall’osservatore, piuttosto che con la prospettiva assunta dall’osservato”. L’errore di Needham per Kilani consiste nel fatto che intendendo Needham la credenza come un contenuto legato ad un certo modo di coscienza, finisce per ridurla al proprio oggetto (la credenza è ciò in cui si crede). Kilani, partendo dalla sua esperienza di campo nelle oasi, indaga questa nozione non solo dal punto di vista dell’osservato, ma anche da quello dell’osservatore che sta producendo conoscenza. Se l’antropologo crede alle credenze degli altri, come giustamente ci fa notare anche Pouillon in Note sul verbo credere, 1979 (in Izard, Smith 1988), è lecito interrogarsi sul tipo di credenza che fonda la costruzione da parte dello studioso delle credenze altrui. 29

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“Postulando codesta equivalenza fra l’osservatore e l’osservato, intendo mostrare che la credenza non è ciò in cui si crede (la credenza non è quella cosa che ci si impone in virtù della sua forza, non è necessariamente l’utopia della fede o la credulità dell’ingenuo credente), ma è probabilmente una costruzione sociale (consapevole), i cui esiti non sono meno razionali di quelli di altri modi di comunicazione e di sapere” (Kilani 1997, p. 238). Qui Kilani si richiama al fenomeno della stregoneria che, se decontestualizzata e ridotta a contenuto, viene ascritta alla sfera dell’ignoranza e della superstizione. Quasi mai si presentava la stregoneria nella dimensione della sua carica simbolica. In materia di credenza non v’è certezza, ma il fatto che molti ci credono fa supporre che ci sia una qualche garanzia in ciò che si teme o si spera: “La credenza della stregoneria da parte di un individuo si sostiene grazie alla credenza di tutti gli altri” (ibidem). Sempre a p. 238 Kilani dice: “La credenza non funziona a partire dal credente ma a partire da un plurale indefinito, gli altri, che si suppone sia il contraente e il garante della relazione di credenza. Il credente ha sempre a che fare con costruzioni della credenza, costruzioni che sono sociali”. La ricerca sul campo ha dato modo a Kilani non solo di comprendere la natura della credenza in quanto costruzione sociale (una costruzione consapevole), ma anche l’implicazione dell’antropologo in questo tipo di costruzione. Kilani introduce una simmetria tra sapere indigeno e sapere scientifico, non per proporre un ingenuo relativismo, per il quale tutti i regimi di verità sarebbero equivalenti, ma per confrontare le varie procedure uscite dall’uno e dagli altri per costruire i rispettivi oggetti. Dopo aver messo in evidenza i due livelli di costruzione dell’oggetto, i due tipi di esperienza, quella dell’indigeno e quella dell’antropologo – l’abitante dell’oasi costruisce la propria 30

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identità ricorrendo a procedure quali l’apprendimento dei segni e delle funzioni di tale identità, la messa in atto di strategie retoriche per definirla, negoziarla e farla accettare, l’antropologo costruisce d’altro canto sia un modo per accedere alla conoscenza dell’identità del lignaggio degli abitanti delle oasi, sia una rappresentazione coerente di tale identità – Kilani può concludere che la differenza fra il sapere locale, quello dell’indigeno, definito anche come presente dell’azione, e il sapere globale, quello dell’antropologo, definito il presente della scienza, è una differenza di lunghezza della rete, non già di natura. “Costruendo la propria conoscenza finalizzata all’azione (che corrisponde a ciò che l’antropologo in genere designa col termine di credenza) l’abitante dell’oasi, e più in generale l’indigeno o l’attore sociale, fa intervenire procedure intellettuali dello stesso tipo di quelle dell’antropologo (procedure di scoperta e di controllo, di decifrazione e di interpretazione di segni). Tutto ciò non è un sotterfugio per far passare il contenuto di una credenza, ma una costruzione sociale che fa interagire gli attori sociali e ricerca un effetto di persuasione: in realtà è una intera società che si mette alla prova” (ivi, p. 263). Come osserva a buon diritto Lenclud in Vues de l’esprit, art de l’autre: “Credere attiene all’attività sociale, in quanto presuppone un accordo tra certe persone […]. La credenza è ciò che è in gioco tra individui che credono, è un prodotto della società e nel contempo la produzione di un legame sociale” (Lenclud 1990, p. 15). Nel credere c’è sempre una promessa d’azione che riguarda un partner o una realtà esterna. Insomma, la credenza è anzitutto una modalità d’azione, prima di essere un contenuto. E, seguendo Kilani: “La conoscenza antropologica sorge non da un’intuizione teorica, ma dalla ‘perizia della regola’”, per usare l’espressione di Wittgenstein (Wittgenstein 1971). Infatti la comprensione di una regola, per esempio il sistema genealogico 31

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degli oasiani, è possibile solo se si segue quella regola. In conclusione Kilani però afferma: “L’antropologo non può muovere all’impresa conoscitiva indigena la critica di avere come unico garante il consenso della comunità (di coloro che credono), poiché egli stesso non deve dimenticare che, al di là dei criteri di verità intrinseci alla scoperta scientifica, lo studioso ha bisogno dell’assenso di una comunità, quella scientifica, perché un fatto sia accettato come fatto”. E, richiamandosi nuovamente a Wittgenstein: “– Una proposizione viene ammessa solo nella misura in cui presenta un’aria di famiglia con l’insieme delle proposizioni già accettate come vere dalla comunità scientifica. È proprio questo il senso che conviene dare alla nozione di paradigma scientifico, la quale serve proprio a designare questo quadro che fa ‘riferimento’” (Kilani 1997, p. 264).

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2. Il credere e la credenza nella tradizione antropologica occidentale

2.1. Definizioni enciclopediche Avendo affrontato la questione relativa al problema del credere e della credenza presso le popolazioni di interesse etnologico mi sembra necessario un richiamo alle definizioni di questi termini date dai dizionari enciclopedici di antropologia e psicologia britannici e non. Un’analisi molto accurata del belief è stata condotta da Ugo Fabietti e da Francesco Remotti che hanno curato il dizionario di antropologia della Zanichelli. Il termine, definito ambiguo, è largamente usato in antropologia per designare sia lo stato mentale di assenso a proposizioni, sia gli oggetti o le nozioni di quell’assenso e viene altresì impiegato per indicare l’atto di fede in qualcuno o qualcosa. Il concetto del belief è contrapposto platonicamente a quello di conoscenza e spesso implica un giudizio sulla falsità o sull’incerta affidabilità di ciò che viene creduto. Gli autori esordiscono: “La tradizione antropologica ha considerato le credenze come il prodotto di una razionalità incerta e difettosa, manifestazione di un tipo specifico di attività mentale (Tylor, Frazer, Lévy-Bruhel) oppure, nelle concezioni relativistiche (relativismo) e simboliche (antropologia simbolica), come tentativi razionali, ma incompiuti, di spiegazioni dell’ordine co33

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smico o del mondo sociale”. Una volta data una definizione tale di credenza Remotti e Fabietti continuano: “In questo modo l’antropologia si è trovata nel mezzo di un paradosso che ha portato Needham (1972) a concludere che, non rappresentando uno stato mentale identificabile oggettivamente, il concetto di credenza rappresenta una semplice reificazione occidentale non estendibile ad altri contesti. L’antropologo non crede a ciò che ritiene i credenti credano, non riconoscendovi alcuna verità e attribuisce loro la credenza sulla base della sua non credenza” (Favret Saad 1977 e Pouillon 1979). I due autori, nel corso della breve trattazione, fanno poi riferimento all’antropologia influenzata dai sociologi francesi dell’Année sociologique chiamando in causa Durkheim, Mauss, Hubert e sottolineando il fatto che questi antropologi si sono preoccupati di porre in luce il carattere contingente (relativo a circostanze sociali e storiche particolari) di credenze che appaiono autoevidenti a coloro che le sostengono. Dal canto loro, invece, i funzionalisti (Malinowsky, Firth, Marvick, la Douglas) hanno considerato le credenze come semplici modalità di espressione e interpretazione delle tensioni sociali o come mezzi per rinforzare e sostenere regole di condotta, non distinguendo tra credenza e rappresentazione collettiva oppure trattando solamente la dimensione sociologica della credenza e la sua utilità sociale. Remotti e Fabietti passano poi in rassegna la posizione relativista di Winch che riprenderò nel quinto e ultimo capitolo data la sua rilevanza negli studi sulle credenze in società altre. Per il momento ricorderò che Winch, opponendosi alla dicotomia tra razionalità e irrazionalità, sostiene che le culture differiscono nelle loro visioni della realtà e nei criteri di evidenza, prova e verità, radicati linguisticamente e culturalmente. Sempre secondo il relativista concettuale anche le culture tradizionali utilizzano il ragionamento fondato sull’asserzione e sull’inferenza. Le culture moderne si fondano anch’esse su as34

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sunti ontologici che sono creduti ma non perché evidenti o dimostrati (prendiamo ad esempio il dogma che Gesù è il Figlio di Dio o che l’universo ha avuto origine dal big bang). Nel 1966 è stato fatto da Leach uno studio molto interessante la cui conclusione è che le credenze non sono il prodotto dell’ignoranza di popolazioni etnologiche ma, al contrario, possono essere modalità molto sofisticate per trasmettere un messaggio religioso, l’idea di un potere sovrannaturale, mistico, al di là o contro l’esperienza ordinaria. In Virgin Birth, infatti, Leach, che aveva relato le credenze di alcune popolazioni di interesse etnologico, come ad es. i Trobriandesi e gli Aborigeni australiani, alla credenza cristiana della nascita virginea di Gesù, si accorse che tali gruppi negavano all’inseminazione di una donna da parte dell’uomo qualunque potere fecondante. Fabietti e Remotti citano anche Augè, che nel 1975 si occupò delle credenze nell’ambito dei suoi studi sulla stregoneria, definendo la credenza come “una sorta di metafora utilizzata per costruire il significato dell’esperienza ordinaria”. Augè ha considerato la credenza nella stregoneria come “forma fondamentale di pensiero e come logica delle rappresentazioni (idéo-logique) coerente sebbene non sistematica ed epistemologicamente fondata”. L’antropologia marxista si è invece opposta agli indirizzi relativisti e allo strutturalfunzionalismo britannico, secondo cui le credenze collettive sarebbero dei sistemi uniformi, e si è interessata ai meccanismi politici e sociali che per gli autori influenzano l’organizzazione e la distribuzione differenziata delle credenze tra diversi gruppi e classi sociali, facendo notare come la conoscenza, il prestigio e l’accesso al potere e all’autorità siano spesso associati alla segretezza (Godelier 1979, Wilson 1970, Gellner 1974, Smith 1979). Nell’Encicyclopedia of social and cultural antropology, sotto la voce credere, Bernard e Spencer sostengono che dichiarazioni 35

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come “Gli X credono che” o “Gli Y credono che” abbondano in etnografia. Gli etnografi infatti considerano la credenza come una parte integrante della cultura dal momento che tutte le persone mostrano una uniformità di pensiero che consiste nelle loro posizioni di credenza. Una tale considerazione del credere era una caratteristica dei durkheimiani e degli scrittori funzionalisti. Bernard e Spencer sostengono che lo studio della credenza comporta un numero di problemi interessanti, se non di contraddizioni logiche. Come facciamo – dicono – a sapere cosa le persone realmente credono? È rilevante ciò che credono o è la dichiarazione della credenza che realmente interessa a un antropologo? Se la credenza è uno stato interno non relato al linguaggio allora è inaccessibile all’etnografo e anche forse alla cosciente riflessione esterna del nativo. Se la credenza può essere descritta, allora è dipendente dal linguaggio e il linguaggio descrittivo può essere più formulaico che riflessivo dello stato interno che è supposto generare la credenza. I due autori evidenziando come il testo di Needham Belief Language Experience alluda alle medesime contraddizioni presenti nel concetto di credere. Needham viene ricordato come l’antropologo che in piena notte si sveglia con la realizzazione di non sapere come esprimere “credo in Dio” in penan, la lingua del suo campo di ricerca alcuni anni prima. Evans-Pritchard, suo maestro, aveva investigato su alcune di queste questioni ancor prima e aveva una volta rimarcato: “I Nuer non credono in Dio”. Needham esplora l’assunto di Evans-Pritchard. La domanda è se la credenza è uno stato interno, come EvansPritchard ritiene sia, e può essere accessibile agli etnografi. I due autori continuano: “la credenza è stata in passato accoppiata spesso al rituale, in quanto uno dei due capisaldi della religione”. 36

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Tuttavia dal tardo 1970 l’enfasi teoretica sulla pratica ha dato grande preminenza al rituale e la credenza è stata trattenuta nel background. Il lavoro di Sperber, fra gli altri, getta dubbi sulla nozione che i simboli abbiano significati specifici anche nel contesto delle serie strutturate. Per Sperber (sebbene forse in sensi differenti), come per Evans-Pritchard e per Needham, il concetto del credere è dipendente dalla conoscenza del mondo che la descrive. Solo quelli che hanno una concezione del credere hanno menti che esibiscono le proprietà della credenza. Tatal Asad (1983) criticò i concetti antropologici della credenza da un punto di vista più strettamente storico: l’enfasi sulla credenza come stato interiore è tratto specifico di una religione moderna, privata e cristiana venendo a dominare molte delle teorie antropologiche negli ultimi anni. L’implicito relativismo culturale di coloro che in passato enfatizzarono lo studio della credenza è stato così superato dalle interpretazioni del behaviorismo, materialismo, e razionalismo nel caso di Sperber. Nel manuale Social and Cultural Anthropology di Nigel Rapport e Joanna Overing le credenze sono riportate sotto la voce cognition. E non è un caso se anche nel Dizionario enciclopedico di psicologia di Laterza le credenze sono assimilate alla conoscenza. Per cognizione si intende la conoscenza che le persone impiegano in maniera tale da dare senso al mondo e i modi in cui quella conoscenza è acquisita, appresa, organizzata, accumulata coprendo le maggiori espressioni della esperienza umana: come le persone pensano, sentono e percepiscono. Chiaramente ci sono sovrapposizioni tra la cognizione così ampiamente concepita e il concetto di cultura. In questo senso non c’è mai stato un tempo in cui la cognizione non sia stata uno dei principali giochi 37

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antropologici. Si potrebbe qui richiamare l’iniziale dibattito tra Lévy-Bruhel e Malinowsky riguardante il tema: “come pensano i nativi”. Per Lévy-Bruhel (1922) i primitivi erano caratterizzabili in termini di pre-logica appercezione mitopoetica del mondo: una mentalità governata dalle emozioni, dal contatto magico, dalla incoerenza, secondo la nostra moderna logica occidentale, e dalla credenza in connessioni mistiche. Per Malinowsky (1925), dall’altro lato, tutte le persone erano ugualmente razionali e potevano riconoscere gli stessi principi logici che applicavano implicitamente nelle loro relazioni quotidiane. In una versione tardiva di questo dibattito Lévy-Strauss (1966) confermò che il pensiero selvaggio era caratterizzato dalla scienza del concreto mentre il pensiero moderno era più astratto. I primitivi producevano significati e risolvevano problemi nel modo in cui impiegavano gli oggetti concreti esistenti istituendo delle analogie tra di loro, in maniera tale che le differenze tra le persone potevano derivare ed essere concepite derivate da quelle fra le specie differenti di animali (totemismo), mentre i sogni erano spiegati in termini di doppi spiriti in altri mondi uguali. I moderni erano meno immaginativi nei loro processi di pensiero, meno selvaggi, contenti di risolvere i problemi sulla base della ragione e di modelli intellettuali. La questione della cosiddetta “unità psichica” dell’umanità fu approfondita da Wilson nel 1970 nel Dibattito sulla razionalità, il cui scopo era di individuare se la logica del ragionamento assumeva una forma universale o se, secondo le prospettive di Wittgenstein e Winch, le persone nelle diverse culture potevano trovare significato all’interno dei contesti delle diverse forme di vita. Come dicevo poc’anzi, secondo la moderna psicologia conoscenza e credenza sono in stretta relazione tra loro. Nel Dizionario enciclopedico di psicologia, precedentemente 38

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citato, alla voce credenza ci rimandano infatti a conoscenza. Questa è definita come lo stato in cui ci si trova o che si è raggiunto come meta intellettuale in relazione a proposizioni, fatti, materie o interi campi di studio, lingue, abilità ed altri oggetti descritti come conosciuti nel linguaggio comune. E ancora capacità intellettuale, in ragione del fatto che implica un adattamento intelligente alla “verità” o ai “fatti”. Ora i gradi della conoscenza vengono descritti mediante l’aggettivo certo. “Qualcosa è definito certo nella misura in cui è fondato in maniera tanto stabile da fornire una base affidabile per trarre inferenze o altre conclusioni”. Invece l’uso più comune del termine credere nella filosofia della mente è di denotare i casi di assenso ad una proposizione quale soggetto primario degli attributi vero o falso. La credenza così concepita può essere definita, secondo Griffiths, come “atteggiamento favorevole nei riguardi di una proposizione relativamente alla sua verità o falsità”. Sempre nella definizione del dizionario: “… dato che l’atteggiamento favorevole espresso si riferisce alla verità è assurdo dire: ‘credo che p ma p non è vero’, così come è assurdo dire: ‘approvo x ma x è sbagliato’. I gradi di credenza sono definiti mediante l’aggettivo sicuro piuttosto che certo, la presunzione di certezza è quella di aver raggiunto lo scopo obiettivo, mentre un’attribuzione di sicurezza è piuttosto l’indicazione di uno stato psicologico” (Griffiths 1975). Sebbene fin qui abbia insistito sulla complanarità tra conoscenza e credenza, diversamente vi è una tendenza, che risale fino agli scritti di Platone e di Aristotele, ad usare il termine credenza per denotare uno stato inferiore ed incompatibile con la conoscenza, avente oggetti anch’essi inferiori. Anche l’uso della parola credenza, per suggerire l’assenza di conoscenza, ha rafforzato la convinzione secondo cui conoscenza e credenza sono incompatibili. Tale convinzione ha tratto ul39

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teriore rafforzamento dallo scetticismo dell’uomo moderno, che considera ogni assenso come provvisorio o puramente probabile e basato su buone ragioni per credere, mentre la conoscenza è intuitiva e certa. Tutte queste differenze tra conoscenza e credenza sono comunque discutibili.

2.2. Gli intellettualisti e le credenze Tylor Edward Burnett Tylor, il maggior rappresentante dell’evoluzionismo antropologico vittoriano, definito dalla tradizione dominante dell’antropologia americana il fondatore della scienza della cultura, non fu soltanto il primo a dare una definizione antropologica di cultura – che oggi costituisce il celebre esordio del libro Primitive Culture del 1871: “La cultura, o civiltà intesa nel senso etnografico più vasto, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l’uomo acquisisce come membro di una società”. Tylor infatti ritenne necessario anche andare alla fonte essenziale della religione, dandone una definizione minima e per questo sufficientemente generale. Egli, dichiarando che la religione primordiale si era sviluppata dalla nozione di anima, definì l’animismo, espressione primaria della religione, come “credenza in esseri spirituali”. Non mi dilungherò nella trattazione dell’analisi tyloriana del concetto di cultura e degli studi sulla religione primitiva. Quello che mi interessa è infatti evidenziare come Tylor, aderendo ad una prospettiva che l’antropologia religiosa definisce intellettualistica, ha concepito il credere e le credenze espresse dai nativi 40

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per arrivare alla conclusione che esse sono il frutto della razionalità incerta e difettosa del primitivo. L’intellettualismo è inteso in filosofia come un atteggiamento che attribuisce all’intelletto un ruolo dominante rispetto all’intuizione, alla volontà, alle emozioni, nella conoscenza e nella condotta dell’uomo ed è pertanto contrapposto all’emozionalismo o irrazionalismo inteso come atteggiamento di pensiero che esalta le facoltà irrazionali, ad esempio l’istinto, il sentimento e l’intuizione come strumenti privilegiati per la conoscenza della realtà, a scapito della ragione ritenuta insufficiente a spiegare adeguatamente la totalità dell’esperienza. Ora Tylor, ed insieme a lui Frazer e successivamente Horton, sostenitori dell’impostazione intellettualistica, vedono fra la religione e il pensiero scientifico una differenza di grado e non di natura. Per loro la religione è una forma di pensiero erronea, consistente nell’associazione mentale di quei fatti che nella realtà non sono né contigui né correlati causalmente. Proprio l’associazione erronea tra una realtà corporea inerte ed entità eteree, portatrici di animazione e di vita, è ciò che dà vita all’animismo tyloriano. Esso è dunque la definizione minima di religione in due sensi: a) la forma primordiale di religione; b) la forma di credenza tipica di ogni religione. Da qui è facile intuire il carattere di universalità che sia la religione sia le credenze hanno per Tylor. Egli infatti, nelle pagine iniziali del secondo volume di Primitive Culture, quando analizza gli scritti di autori che hanno contribuito a costituire le basi del nostro patrimonio etnografico, si preoccupa di confutare la tesi secondo la quale le “razze inferiori” sarebbero prive di religione e atee. Riassumendo direi che l’animismo tyloriano consiste essenzialmente nella produzione di entità antropomorfiche, quindi nell’errore di attribuire caratteristiche umane alle cose inanimate, che sono appunto pensate in analogia alle categorie mentali 41

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dell’uomo. Nonostante per alcuni aspetti il suo contributo sia del tutto originale, Tylor fu profondamente influenzato dalle speculazioni filosofiche di Hume e Locke nella sua concezione sulle credenze animistiche. Come ho avuto modo di dire, dunque, le credenze animistiche sono per Tylor il frutto di una forma di conoscenza erronea “che a sua volta si fonda, da un lato, su una serie di esperienze percettive reali, dall’altro, sulla conclusione logicamente scorretta che tali esperienze debbano avere radici in un sostrato (l’anima appunto), che tramite esse si mostra e che pertanto è percepita solo indirettamente” (Ciattini 1997). Locke, nella critica al concetto scolastico di sostanza, aveva individuato ed analizzato questo tipo di errore in cui la nostra mente incappa. Analizzerò per sommi capi il pensiero del filosofo inglese per farne emergere i punti di contatto con la nozione di animismo in Tylor causata dalle credenze erronee. Per Locke la conoscenza che noi abbiamo delle cose si fonda sulle idee prodotte dalla mente. La conoscenza non è di tipo diretto come la tradizione aristotelico-scolastica ci induceva a credere, ma è di tipo rappresentazionale. Fra la mente e la realtà si frappone un elemento di mediazione: la rappresentazione, ovvero un segno o un simbolo, che sta al posto delle cose stesse, denotandole e connotandole, che può però essere anche fonte di fraintendimento e di errore. Locke poi distingue tra due tipi di idee: le idee semplici e le idee complesse. Le prime sono quelle idee non decomponibili nelle idee più elementari che costituiscono il substrato di tutta la nostra conoscenza. Tali idee sono ricevute passivamente dall’esperienza interna ed esterna. Tant’è che neppure l’intelletto più potente può inventarne una nuova oppure distruggere qualcuna di quelle che già ci sono. Le idee complesse sono quelle prodotte attivamente dal nostro intelletto mediante la riunione di 42

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varie idee semplici. Per quanto infinite di numero sono raggruppabili in tre categorie fondamentali: modi, sostanze e relazioni. Ora, poiché l’uomo è libero, anche se non completamente, di combinare in modi diversi le idee semplici, in molti casi accade che egli elabori idee complesse che sono solo “combinazioni immaginarie”. Come sostiene Locke nel Saggio sull’intelligenza umana (1690), le idee semplici sono sempre adeguate alla realtà mentre le idee complesse di sostanza sono sempre inadeguate, perché contengono una rappresentazione parziale ed incompleta delle cose e pretendono, invece, di cogliere l’effettiva essenza di queste. Il filosofo così argomenta: “Noi percepiamo soltanto idee semplici. Ma non sapendo immaginare in quale maniera queste idee semplici possano sussistere da sole, ci abituiamo a supporre che ci sia un qualche substratum, in cui sussistono e dal quale risultano, che chiamiamo perciò sostanza” (Saggio II, XXIII, 1). Di tale substratum noi non possediamo nessuna nozione chiara e verificabile, perciò l’idea a cui noi diamo il nome generale di sostanza non è altro che “il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti” (Saggio II, XXIII, 2). Appare evidente che Tylor rimane sostanzialmente legato alle tematiche filosofiche lockiane, ma anche Hume sembra attrarre l’interesse dell’antropologo vittoriano quando investiga sulla dimensione psicologica di questo errore. “Gli spiriti sono semplicemente cause personificate” afferma Hume che, a proposito di queste pratiche, aveva ipotizzato uno “stadio antropomorfizzante del pensiero”. “Vi è una tendenza universale dell’umanità a concepire tutti gli esseri sotto forma umana e a trasferire ad ogni oggetto quelle qualità che le sono familiari, e di cui è intimamente consapevole”. Tale meccanismo protettivo scatta perché l’uomo primitivo cerca di spiegarsi le cause sconosciute facendo riferimento a processi che gli sono noti, ed ecco allora che finisce con l’attribuire 43

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ai fenomeni naturali pensiero, ragione, passione e persino tratti umani. Anche il mito per Tylor è una manifestazione animistica in quanto descrive la realtà popolata ed animata da entità più o meno eteree e spirituali. Il mito viene attribuito ad uno stadio dello sviluppo mentale in cui la mente umana è ancora rozza e infantile, ma capace di cogliere le cose nella loro immediatezza e concretezza. Oltre che prodotti dalla fantasia e dall’immaginazione, questi processi mentali si verificano anche sotto la spinta delle passioni e sono condizionati dall’interpretazione letterale delle metafore linguistiche. Frazer Anche Frazer come Tylor aderì alla prospettiva intellettualistica. L’antropologo vittoriano è ricordato soprattutto per la sua monumentale opera Il Ramo d’oro, che raggiunse ben dodici volumi e fu scritta in un arco di tempo che va dal 1907 al 1915. L’opera è un’ampia rassegna delle credenze magiche e religiose di tutti i tempi. Il passaggio – da Frazer teorizzato – dell’umanità da un pensiero magico ad uno religioso e da questo a quello scientifico sarebbe il risultato della lenta maturazione delle facoltà mentali dell’uomo. La pratica della magia era infatti un tentativo dell’uomo di esercitare un controllo sulla natura e corrispondeva ad una fase di sviluppo dell’intelletto umano caratterizzata da confusione ed ignoranza dei rapporti causali che dominano nel mondo dell’esperienza oggettiva. Quando poi gli uomini credettero di potersi accattivare il favore delle potenze della natura nacque la religione e con essa la figura del sacerdote che sostituiva il mago nel ruolo di mediatore tra l’uomo e le forze oscure della natura. Il mediatore tra l’uomo e la divinità divenne quindi il sacerdote. Quando ci si 44

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rese conto dell’impossibilità da parte degli dei di risolvere i problemi umani ebbe inizio l’ultima e più recente epoca della storia: la fase scientifica caratterizzata dall’osservazione dei fenomeni naturali e dalla ricerca delle leggi che ne regolavano i rapporti. Ciò che più mi preme analizzare in questa sede è la riflessione di Wittgenstein sul Ramo d’oro che si risolve in poche ma densissime pagine di un’opera conosciuta sotto il nome di Note sul Ramo d’oro di Frazer, una delle più singolari sorprese che ci ha offerto e continuerà ad offrirci la pubblicazione degli inediti di Wittgenstein. In questa breve opera, sviluppata come una serie di postille alla grande opera di Frazer, sono contenute molte osservazioni originali che si traducono in un corretto metodo di indagine delle scienze demo-etnoantropologiche. L’aspetto dell’opera che mi interessa maggiormente analizzare è il severo giudizio su Frazer, il quale traduce l’epistemologia positivistica in una lettura in chiave evolutiva della religione, riducendo pertanto credenze e rituali religiosi dei primitivi a errori e allucinazioni della mente umana, in quanto espressioni di una fase di sviluppo dell’intelletto dell’uomo contrassegnata dalla confusione e dall’ignoranza dei rapporti causali che ne regolamentano l’esperienza. Wittgenstein infatti critica la trattazione dei fatti religiosi primitivi, ridotti da Frazer a una banale “razionalizzazione vittoriana”, che egli invece considera espressione delle esperienze più complesse e inafferrabili dell’umanità. Sin dall’inizio dell’opera il giudizio su Frazer non è dei migliori: l’etnologo britannico viene descritto come “molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi” i quali non potranno essere così distanti dalla comprensione di un fatto spirituale quanto lo è un inglese del ventesimo secolo. “Le spiegazioni – di Frazer – delle usanze primitive sono molto più rozze del senso di quelle usanze stesse”. Le Note rifiutano 45

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come completamente insoddisfacente, già a livello di metodo, la presentazione negativa frazeriana che presenta le concezioni magiche e religiose come un grande repertorio di errori e di fatti tenebrosi ai quali bisogna guardare con indulgenza, come falli inevitabili nella ricerca della verità appartenenti alla sfera del mondo primitivo assimilato all’infanzia dell’umanità. “Quale ristrettezza di spirito in Frazer!… quale impossibilità di comprendere una vita diversa da quella inglese del suo tempo!”. Ma la critica fondamentale di Wittgenstein a Frazer si appunta contro la ricerca continua dell’antropologo inglese di una spiegazione atta a dar conto dei fenomeni naturali spogliati di ogni aspetto misterioso ed incomprensibile. Wittgenstein definisce tale spiegazione “l’ottusa superstizione della nostra epoca”. Nemmeno in ambito scientifico le spiegazioni riescono a diminuire il carattere misterioso ed incomprensibile dei fenomeni naturali, poiché le leggi della natura non riescono a dare alcun senso a ciò che accade e tutto ciò che accade può essere previsto e calcolato fino a un certo punto. Come dicevo, Frazer definisce le concezioni magiche come errori e ne spiega la lunga sopravvivenza individuando la causa nel fatto che la fallacia era tutt’altro che facile da scoprire. Ma per Wittgenstein chi commette l’errore è Frazer che suppone di dover spiegare usanze e pratiche che ritiene sconcertanti ed incomprensibili. Il filosofo rivela come esse siano in realtà poco sorprendenti e come si rivelino comprensibili se considerate nella loro forma di vita. Nel caso della magia l’errore nasce quando la si cerchi di spiegare in termini scientifici. Il grave errore di Frazer è quello di voler dare una spiegazione a tutto anche laddove non sia possibile fare altro che “constatare ed osservare”. “La filosofia non spiega, descrive” afferma Wittgenstein. “Non pensare – intima Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche 46

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– ma osserva!… Qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana”. E, continuando con la lettura delle Note: “Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori”… “mi sembra già sbagliata l’idea di voler spiegare un’usanza, per esempio l’uccisione del re-sacerdote”…“È davvero strano che tutte queste usanze finiscano per essere presentate, per così dire, come sciocchezze”. E poi, ancora, quello che ci interessa maggiormente: “Piuttosto la caratteristica dell’atto rituale non è una concezione, un’opinione, vera o falsa che sia, benché un’opinione – una credenza – possa essere rituale, appartenere al rito”. Si apre qui un’analisi molto suggestiva di Wittgenstein della relazione tra il mito e il rito che in Frazer altro non sono che espressioni esplicative del reale, mezzi attraverso i quali i primitivi cercano di darsi spiegazioni sulla realtà che li circonda. Al contrario, per Wittgenstein i miti e i riti rappresentano i continui tentativi degli uomini di parlare del mondo: in essi si manifesta la ricerca della totalità, la tensione verso quell’unità perduta di cui si sente la nostalgia. Ancora Wittgenstein: “Credo che l’uomo primitivo si contraddistingua perché non agisce in base a opinioni” e cita l’esempio di un re della pioggia in Africa cui la gente si rivolge con suppliche all’avvicinarsi del periodo delle piogge. Ora, osserva il filosofo austriaco, se i primitivi effettivamente credessero che lo stregone sia in grado di far piovere, si rivolgerebbero a lui nei periodi secchi dell’anno quando la terra è un deserto arido e bruciato. E ancora, i riti che gli uomini celebrano, quando sta per sorgere il sole, vengono messi in atto all’alba e non di notte quando si accendono semplicemente le lampade. “Il medesimo selvaggio che trafigge l’immagine del nemico, apparentemente per uccider47

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lo, costruisce realmente la propria capanna di legno e fabbrica frecce letali, non in effigie”. Ciò giustificherebbe che non tutto deve per forza essere riconducibile a una spiegazione: essa non è che uno dei tanti giochi linguistici con cui possiamo giocare nella nostra lingua. La verità è che gli uomini fanno tutto ciò che fanno per un gran numero di ragioni diverse e che fanno un gran numero di cose senza alcuna ragione particolare. Sarebbe impossibile dare una risposta a una frase del genere: “Perché giocano i bambini?”. Nelle Note sul Ramo d’oro Wittgenstein non si accontenta di dichiarare che le operazioni magiche non si fondano necessariamente su false credenze; fa altresì osservare che esse non si fondano necessariamente neppure su una qualche credenza. Lo scopo delle azioni umane non è sempre l’utilità pratica. Esse non hanno necessariamente uno scopo, ma questo non deve indurci a credere che siano puramente gratuite e arbitrarie. “Si potrebbe dire che l’uomo è un animale cerimoniale” egli osserva, non intendendo però gli atti rituali o cerimoniali come espletamento di credenze, opinioni, convinzioni o teorie particolari. Quando una pratica di tipo rituale e un corrispondente modo di vedere coesistono, l’unica cosa che si può constatare è che sono presenti entrambi, e non che la prima derivi in qualche modo dal secondo. Comprendere una pratica istituzionalizzata equivale per Wittgenstein a osservare con attenzione ciò che i nativi fanno e dicono. Comprendere un rito equivale a comprendere tutto un sistema rituale e comprendere un sistema rituale significa comprendere tutta una forma di vita. La critica di Wittgenstein alla spiegazione del comportamento cerimoniale mediante idee o credenze sarà tuttavia ripresa in Lezioni sulla credenza religiosa, di cui avrò modo di discutere nel capitolo successivo dove esporrò le considerazioni di Wit48

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tgenstein in merito al credere e alla credenza che hanno così tanto influenzato il pensiero needhiano.

2.3. Gli emozionalisti e le credenze Lévy-Bruhel Pur essendo un filosofo di professione (insegnò infatti tra il 1899 e il 1927 alla Sorbona), Lévy-Bruhel si avvicinò all’antropologia influenzato profondamente dal pensiero di Comte e di Durkheim. Gli scritti di Lévy-Bruhel hanno avuto una enorme rilevanza per l’antropologia religiosa. Alla base della sua riflessione sta infatti la nozione di rappresentazione collettiva, così strettamente connessa al concetto di credenza, come ho avuto modo di spiegare nel capitolo precedente. Tale nozione di rappresentazione è presente anche in Durkheim e in alcuni studiosi, come Le Bon, che in quel periodo descrivevano gli stati mentali caratteristici dell’uomo nella folla. Non riprenderò il discorso relativo alle rappresentazioni collettive già trattate; sarebbe interessante tuttavia partire dall’analisi di Le Bon sulla psicologia delle folle che ebbe una sicura influenza su Lévy-Bruhel, il quale descrive quegli stati dell’umanità caratterizzati da una scarsa attività intellettuale e dal preponderante intervento delle emozioni, oggetto di indagine anche presso il contemporaneo Freud fino agli ultimi studi che vedono protagonisti Adorno e Horkheimer. A tali stati per Lévy-Bruhel sono analoghe le rappresentazioni collettive degli uomini primitivi che sono comuni ai membri di un dato gruppo sociale; si trasmettono di generazione in generazione; si impongono agli individui e suscitano in loro, secondo i casi, sentimenti di rispetto, di timore, di adorazione per i loro oggetti (Lévy-Bruhel 1910). 49

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A differenza degli intellettualisti, che consideravano le rappresentazioni in senso meramente intellettuale o cognitivo, gli emozionalisti considerano le rappresentazioni collettive un fenomeno più complesso in cui ciò che per noi è veramente rappresentazione si trova ancora confuso con altri elementi di carattere emozionale o motorio. Non mi soffermerò sulla questione relativa alla genesi delle rappresentazioni collettive e al carattere meramente emozionale dell’esperienza sociale che genera tali rappresentazioni, ma porrò in evidenza l’esperienza di tipo mistico che il gruppo sociale primitivo vive e che realizza nelle pratiche del culto e nell’esecuzione del rito. Lévy-Bruhel definisce mistico, nel senso etimologico del termine, un procedimento mentale caratterizzato da credenza a forze, a influenze, ad azioni impercettibili ai sensi e tuttavia reali. Tale atteggiamento era alla base di quella che Bruhl definisce mentalità prelogica contrapponendola a quella logica, tipica del pensiero scientifico, basata sulla logica aristotelica e sul principio di non contraddizione. Non esistendo una dicotomia netta tra mentalità prelogica e mentalità logica (assistiamo a forme di prelogismo anche nella società positiva e scientifica, si pensi ai continui revival di magismo), lo iato tra queste due forme di pensiero non sembra incolmabile e le accuse di etnocentrismo rivolte a Lévy-Bruhel sembrano oggi superate.

2.4. I sociologi francesi e le credenze Durkheim, Mauss, Hubert Non mi soffermerò in questo paragrafo su Durkheim, il cui pensiero è stato introdotto nel capitolo precedente a proposito 50

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delle rappresentazioni collettive, ma prenderò in considerazione alcune opere scritte da Mauss e Huber, continuatori del pensiero durkheimiano ed esponenti della concezione ritualistica. Ricordo brevemente che i ritualisti prendevano le mosse dal pensiero di Robertson Smith il quale aveva parlato di anteriorità genetica del rito sul mito: a seguito dell’associarsi degli uomini in rituali collettivi sarebbero nate le credenze e la mitologia. Gli intellettualisti si opponevano in maniera ferrea a tale concezione ribadendo invece l’anteriorità delle credenze rispetto al rituale, che sarebbe una conseguenza dei loro credo. Mauss, oltre al famoso Saggio sul dono del 1923, scrisse, in collaborazione con Durkheim, Alcune forme primitive di classificazione (1902-1903), dove è sostenuta l’origine sociale delle categorie conoscitive. Secondo i due studiosi “le prime categorie logiche sono state le categorie sociali, le prime classi di cose sono state classi di uomini in cui sono state integrate queste cose” e le modificazioni del sociale spingono gli individui a modificare l’ordine concettuale delle cose. Ciò ci fa capire per quale motivo i sociologi francesi si sono preoccupati di mettere in luce il carattere contingente delle credenze, e cioè il loro essere relative alle circostanze sociali e storiche particolari, e ne hanno negato l’apparenza autoevidente.

2.5. I funzionalisti e le credenze Malinowsky, Firth, Douglas L’antropologia funzionalista ha considerato le credenze come semplici modalità di espressione e interpretazione delle tensioni sociali o come modi per rinforzare e sostenere regole di condotta, non distinguendo tra rappresentazione collettiva e credenza o 51

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trattando soltanto la dimensione sociologica della credenza e la sua utilità sociale. Gli intellettualisti, ma anche i sociologi francesi, invece, si erano occupati del problema relativo alla genesi e all’ontologia delle credenze pur pervenendo a conclusioni differenti. Bronislaw Malinowsky, seguace dell’impostazione emozionalistica, riteneva che le nozioni religiose altro non sono che cristallizzazioni di stati emotivi come la paura, l’ansia, la speranza che ci spingono ad aggrapparci a una certa idea e a rimanere a essa disperatamente attaccati. Come Frazer e Tylor, Malinowsky distinse da un punto di vista concettuale magia, scienza e religione senza però collocare questi sistemi di pratiche e credenze in fasi storiche distinte. Egli sostenne, in un celebre testo, Magia scienza e religione (mi occuperò solo di quest’opera in questa sede), che la magia e la religione hanno una stessa origine e funzione che è quella catartica. I rituali magico-religiosi sopperirebbero all’incapacità dell’uomo di controllare gli elementi della propria esperienza operativa. Malinowsky respinge le teorie evoluzioniste, secondo cui la magia sarebbe un goffo tentativo di manipolare le forze della natura, e parla di “ritualizzazione dell’ottimismo dell’uomo” nel senso che la pratica rituale servirebbe a conferire al primitivo quella fiducia di cui necessita per trovare il suo equilibrio. La scienza è invece caratterizzata dallo sviluppo del senso comune e del comportamento empirico; dunque un atteggiamento scientifico è posseduto anche dal primitivo anche se i critici hanno accusato il funzionalista Malinowsky di aver scambiato la tecnologia per scienza. Appare evidente da questa breve analisi che Malinowsky insiste sulla funzione sociale del rituale e delle credenze che sono finalizzate al mantenimento dell’equilibrio interno alla società e al funzionamento di essa. 52

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Similmente Firth si è occupato della ridefinizione e della funzione sociale che il mana (inteso originariamente da Codrington come forza sovrannaturale impersonale) ha per i Polinesiani di Tikopia. A differenza degli antropologi, che sono interessati alle questioni logiche e metafisiche legate al concetto di mana, per i primitivi tale potere non sembra essere dissociato dagli oggetti in cui si manifesta; esso è sempre legato a uno specifico contesto pragmatico. Per concludere, accenno all’opera di Mary Douglas Credere e pensare, alla cui base sta l’assunto tipico dell’antropologia simbolica, secondo cui le credenze magico-religiose (sia che si manifestino nel mito, sia che si manifestino nel rituale) costituiscono un insieme coerente di significati, in base ai quali i fedeli comprendono e spiegano l’ordine del mondo e il proprio rapporto con esso. Lo scopo della religione è pertanto quello di rendere comprensibile e vivibile il mondo all’interno di un certo ordinamento culturale. Proprio il credere e la credenza, nella loro dimensione tutta umana, hanno sollecitato l’interesse dell’antropologa simbolista la quale scrive che l’uomo è innanzitutto un ente che crede: è cioè un ente che vive e agisce anche secondo pre-giudizi non necessariamente veri, e pur tuttavia in grado di dare orientamenti indispensabili al proprio esistere. Un essere senza credenze ci apparirebbe ancora più fragile e precario di quanto non ci sentiamo di essere. Il credere costituisce uno dei connettivi che permettono la prima scoperta ed elaborazione della socialità. Si crede insieme, condividendo certi interessi e valori. Privo di determinate credenze, l’essere umano rischierebbe l’isolamento.

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2.6. Gli antropologi marxisti e le credenze Prima di affrontare il pensiero di Sperber in merito agli studi recenti da lui condotti sulle credenze, un brevissimo cenno alla concezione delle credenze secondo l’antropologia marxista. Questa, opponendosi alle teorie secondo cui le credenze in senso collettivo sarebbero dei sistemi uniformi (vedi le concezioni relativistiche o strutturalfunzionaliste), si è interessata ai meccanismi politici e sociali che influenzano l’organizzazione e la distribuzione delle credenze tra i diversi gruppi e classi sociali, facendo notare come la conoscenza, il prestigio e l’accesso al potere e all’autorità siano spesso associati alla segretezza. Rimando allo scritto di Godelier: Fatti religiosi e antropologia marxista contenuto in «Rassegna di Teologia», n° 5, che illustra chiaramente quanto appena accennato.

2.7. Dan Sperber e l’epidemiologia delle credenze Sia l’approccio interpretativo (Geertz) sia l’approccio strutturalista (Lévy-Strauss) in antropologia, pur se presentano innumerevoli differenze, si fondano sull’assunto che la cultura è un fatto pubblico, esterno alla mente degli individui. Benché nessun antropologo neghi l’universalità delle strutture psicologiche degli esseri umani, esse non sembrano sufficienti a spiegare i fatti culturali. Da qui deriverebbe la postulazione di fatti, eventi, strutture e significati già dati nel mondo che è compito dell’antropologo reperire e classificare. Proprio il lavoro di Sperber è stato in questi anni incentrato sulla critica a questi due tipi di approccio. Lo studio della cultura non può per Sperber fare a meno dello studio della psicologia individuale, anche se non è esaurito da questa. Egli si oppone all’antipsicologismo delle scienze sociali, che vede la mente 54

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umana come un semplice ricettacolo in cui entrano ed escono rappresentazioni culturali, e che si è rivelato sterile, incapace di considerare la portata empirica dell’articolazione tra mentale e culturale. Compito di Sperber è riconsiderare il ruolo dei processi psicologici nella cultura, unica direzione che può portare a una fondazione naturalistica dell’antropologia. Ma come si può pretendere di fondare una disciplina in maniera naturalistica – si domanda Gloria Origgi – su una problematica quale quella di rappresentazione? Sperber si riferisce a un concetto cognitivo di rappresentazione, così come era stato sviluppato dalla psicologia del pensiero degli ultimi trent’anni, avvicinandosi in tal modo a un ambito di ricerca molto recente: le scienze cognitive, che, fra i tanti frutti, offrono la caratterizzazione funzionale e materialistica della nozione di rappresentazione. La mente nelle scienze cognitive è un sistema che elabora informazioni e che, come qualsiasi altro sistema, a ogni istante di tempo si trova in un certo stato. Le rappresentazioni mentali non sono altro che gli stati del sistema mente, da cui dipende un certo output che può essere un comportamento o una transizione a un altro stato. Alcune delle nostre rappresentazioni mentali diventano però pubbliche grazie ai sistemi di comunicazione di cui disponiamo. Il compito delle scienze sociali è spiegare i meccanismi attraverso i quali una rappresentazione mentale si trasforma in una rappresentazione pubblica e i motivi per cui certe rappresentazioni pubbliche diventano stabili e diffuse in una popolazione, cioè diventano cultura. Ecco il motivo di uno studio epidemiologico della natura e delle regole di diffusione delle rappresentazioni o credenze che siano, che spieghi perché certe rappresentazioni sono più contagiose di altre e che integri la spiegazione psicologica con ri55

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flessioni ecologiche sugli effetti che le rappresentazioni hanno sull’ambiente. Si pensi al Contagio delle idee, il saggio uscito in Francia, in cui Sperber nota come la stessa cosa avvenga nell’epidemiologia medica, che nasce da una integrazione tra lo studio dei fenomeni patologici e quello dei fattori ambientali che contribuiscono alla diffusione di certi virus o batteri. Ora, contrariamente all’apparenza riduzionista e “scientista” degli studi cognitivi, essi hanno il pregio di considerare i fenomeni umani nella loro assoluta peculiarità, senza tentare di ridurli a manifestazioni di strutture che sussistono al di fuori delle nostre menti. Gli uomini non sono dunque macchine e nemmeno macchine cavalcate da spettri (come diceva Ryle). Essi sono uomini: una tautologia che talvolta vale la pena di ricordare.

2.8. Credere secondo natura: continuità tra il biologico e il culturale A conclusione di questo capitolo mi preme sottolineare l’importanza delle recenti critiche alla tesi della natura esclusivamente culturalista (e dunque storico-sociale) delle credenze e dei pensieri. In Credere secondo natura Francesco Ferretti e Felice Cimatti criticano la concezione delle credenze come fenomeni di natura prettamente culturale partendo dall’assunto che esistono processi mentali, come la percezione e l’immaginazione, indipendenti e autonomi dal linguaggio (il veicolo di base della formazione e trasmissione delle credenze nella versione culturalista), sostenendo ulteriormente la dipendenza del linguaggio dai processi bassi della cognizione. Corbellino, nel saggio La natura della cultura e i modelli naturalistici della trasmissione di idee, critica l’approccio culturalista 56

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e utilizza l’argomento della continuità stretta tra il biologico e il culturale e la conseguente riducibilità del secondo al primo. Tale continuità – per l’autore – è dimostrata dall’esistenza di processi (come quello selettivo) che ritroviamo a vari livelli di analisi: dall’organizzazione neuroanatomica del cervello alla formazione dei concetti, sino ad arrivare alla fissazione delle credenze. Una posizione molto originale è stata assunta da Gozzano che, nell’articolo Le credenze degli animali, vuole dimostrare che esseri con comportamenti non complessi sono invece dotati di credenze e desideri, con buona pace dei filosofi convinti del contrario. Infatti in molti sono convinti che l’equazione pensare = parlare sia indiscutibile e che pertanto gli esseri senza linguaggio non pensino. Ma se – dice Gozzano – alcuni esseri non pensano allora non hanno neanche credenze e desideri. Ma si può vivere senza credenze e desideri?

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3. Wittgenstein e il credere come disposizione

3.1. Wittgenstein-Needham: un primo contatto Come ho avuto modo di accennare nell’introduzione, il testo Belief Language Experience di Needham, dedicato alla memoria di Lucien Lévy-Bruhl e di Ludwig Wittgenstein, è il debito intellettuale dell’autore nei confronti di Wittgenstein, a cui, in una nota del testo citato (nell’edizione italiana del 1976, curata da Diego Marconi a p. 203) Needham si richiama con queste parole: “A volte si è tentati di pensare che quell’uomo straordinario abbia visto ogni cosa”. Belief nasce proprio con l’intenzione precisa di rispondere all’interrogativo di Wittgenstein espresso in una proposizione, tratta dai Notebooks, comunemente noti come Quaderni 191416: “Credere è un’esperienza?”. Ma già nell’introduzione Needham accenna alla sua opera come a una lunga nota in margine a un’altra proposizione wittgensteiniana, tratta stavolta dai Preliminary Studies for The Philosophical Investigations, noti come Quaderni blu e marrone, del 1958: “l’espressione di una credenza è soltanto una frase; e la frase ha un suo significato soltanto quando fa parte di un sistema linguistico”. Needham si definisce un non addetto ai lavori essendo la sua una lettura vergine di Wittgenstein. Quando, infatti, non era ancora laureato, ma aveva già letto il Tractatus Logico-Philosophicus, senza averne compreso – come 59

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egli stesso dichiara – nulla della sua reale portata, E. Diaz, una sua amica, studiosa di filosofia a Oxford, gli prestò una copia del Blue Book che a quel tempo circolava gelosamente in forma privata. Continua Needham: “Non posso dire di aver compreso molto neppure di questo libro; ma esso fece sì che, quando apparve l’edizione a stampa delle Philosophical Investigations, io ne comprassi subito una copia… Da allora ogni volta che mi sono trovato ad affrontare un problema di natura concettuale, il mio primo impulso è stato quello di ricorrere a quest’opera, per vedere se Wittgenstein aveva qualcosa da dire al riguardo”. “Quando affrontai la questione del credere mi resi conto che le sue osservazioni su questo soggetto erano di importanza decisiva, e la parte conclusiva della seguente monografia (Belief) mostrerà chiaramente l’influenza che esse hanno impresso alle mie speculazioni” (Needham 1976a, p. 14). Needham scrisse la sua monografia sui Penan nel periodo compreso fra il 1951-52, prima della pubblicazione delle Ricerche filosofiche del 1953, mostrando di non comprendere ancora che vi era un problema legato alle descrizioni etnografiche delle varie credenze. Lì fu poco wittgensteiniano come poco wittgensteiniano lo è nel testo Credere, e precisamente nella parte dedicata all’analisi filosofica del concetto di credenza, la parte più carente del testo, dato l’andamento rapsodico del discorso e la trattazione forse un po’ troppo sbrigativa sul contributo dato da filosofi quali Kant o Hume al concetto di credenza. Continua Needham nell’introduzione di Belief: “Non mi pento di apparire troppo scrupoloso nel tracciare il resoconto di questo debito intellettuale, perché, sebbene il mio debito verso Wittgenstein sia incalcolabile, non posso certo pretendere che tutto quanto ho scritto qui vada inteso come un’esatta esegesi delle sue opinioni sulla facoltà del credere” (p. 14). 60

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Vedremo infatti nel capitolo successivo, dedicato al testo Credere, come l’autore, Needham, si discosti, nelle conclusioni tratte dalla sua analisi del belief, dalle posizioni del filosofo austriaco che non ha mai negato il valore epistemico alla credenza.

3.2. Wittgenstein e la definizione del problema del credere L’interesse di Wittgenstein per la nozione di credenza si manifesta assai presto nella sua opera. Pensiamo alle note dettate a G.E. Moore in Norvegia nell’aprile del 1914 (Wittgenstein 1968). L’ultima nota accenna a una espressione di credenza in merito al discorso relativo alla forma proposizionale. Ma Needham considera come data effettiva il 1916, data a cui risale la domanda che apre la presente ricerca: “Credere è un’esperienza?”. La traduzione inglese “Is belief a kind of experience?” sembra offuscare la chiarezza e l’efficacia della versione originale tedesca: “Ist der Glaube eine Erfahrung?”. A questo proposito, il professore del Trinity College, Michael Nedo, grande estimatore di Wittgenstein – Nedo ha infatti una profonda conoscenza dei manoscritti del filosofo di cui, nel corso degli anni, è andato raccogliendo una ricca documentazione che costituisce oggi un archivio di valore inestimabile –, mi diceva recentemente, in occasione della mia visita al Wittgenstein Archive di Cambridge, che l’unico modo per capire Wittgenstein è innanzitutto conoscere il tedesco. Nessuna traduzione potrà mai rendere per intero le sfumature del pensiero del filosofo austriaco. Ma torniamo a noi. Il problema del credere, sul quale ritornò costantemente, stimolò Wittgenstein fino agli ultimi giorni della sua vita. Pensiamo a Della certezza (1969), uno degli ultimi scritti – introdotto nel capitolo primo della presente ricerca – in cui il fi61

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losofo viennese affronta il discorso sul senso comune in stretta connessione col tema della credenza, su cui è impostata tutta una serie di problemi che colpiscono per taluni aspetti più profondamente che non le argomentazioni ordinate dei suoi predecessori. Infatti Needham ammette: “Non è facile stabilire se le sue conclusioni offrono, in definitiva, uno stimolo decisamente più risolutivo per superare le difficoltà che abbiamo incontrato; ma non c’è dubbio che egli riuscì ad imprimere una svolta del tutto nuova all’intera problematica” (Needham 1976, p. 59). Prima di analizzare singolarmente le opere dove Wittgenstein ha affrontato il problema del credere, vorrei accennare al punto cruciale del problema, costituito dalla divaricazione insuperabile tra la fede (credenza) e il sapere (conoscenza), non intendendo però riferirmi alla fede religiosa e al misticismo wittgensteiniano in questa sede. Marco Vannini a questo proposito tiene a sottolineare come la fede, in quanto credenza, scompare poiché la credenza in un fatto, qualsiasi esso sia, anche posto fuori dal mondo, non è fede, ma solo il surrogato di una conoscenza scientifica. La fede, il credere in Dio, significa per Wittgenstein comprendere la questione del senso della vita, vedere che la vita ha un senso, ovvero capire che i fatti del mondo non sono poi tutto. Il ragionamento di Wittgenstein, continua Vannini, poggia sul fatto che c’è una divaricazione tra fede (credenza infondata) e filosofia (sapere fondato sulla dimostrazione scientifica) (Vannini 1999). Chiudo questa breve parentesi per tornare alla dichiarazione di Wittgenstein, esplicativa tra l’altro del concetto esposto poc’anzi: “io credo di sapere ciò che tutti sanno, ma non lo credo perché lo so, ma lo credo e basta. Non devo giustificare il mio sapere”. Sempre in merito alla questione, nel paragrafo 356 di Della certezza Wittgenstein afferma: “Il mio stato d’animo, il sapere, non è per me una garanzia di ciò che è accaduto. Ma consiste in questo: che non riuscirei a capire dove potrebbe prender piede un dubbio, 62

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dove sarebbe possibile una supervisione”. Il discorso continua nei paragrafi 357, 358, e 359 della stessa opera: “Si potrebbe dire: Io so esprime la sicurezza tranquilla, non quella che ancora lotta”… “Ora io vorrei considerare questa sicurezza, non come qualcosa di affine all’avventatezza o alla superficialità, ma come (una) forma di vita”… “Questo però vuol dire che io voglio concepirla come qualcosa che giace al di là del giustificato e dell’ingiustificato; dunque, per così dire come un che di animale”. Per Wittgenstein il fondamento del nostro sapere non è qualcosa che si sa, ma qualcosa in cui si crede, e la credenza non necessita di dimostrazioni o spiegazioni: si giunge così alla consapevolezza che il sapere riposa sul credere, il dubbio presuppone la certezza. Nella nota 701 della seconda parte delle Osservazioni sulla filosofia della psicologia Wittgenstein dice infatti: “saperlo proprio non si può. Lo possiamo credere con tutta l’anima, ma non sapere: allora la differenza non sta nella certezza di chi è convinto. Deve stare altrove; nella logica della questione”. Le certezze del senso comune, classificate come sapere, sono dal filosofo viennese attribuite al credere (Glauben, to believe). Ma quando Wittgenstein ammette la necessità di partire da qualcosa che sia previo al sapere, il credere, egli rifiuta anche lo statuto epistemico. Il senso comune è per lui solo Glaube o belief; il fondamento del sapere non è qualcosa che si sa, ma qualcosa a cui si crede e la credenza non ha bisogno di prove o giustificazioni.

3.3. Quaderni 1914-16 L’interesse di Wittgenstein per il tema della credenza si manifesta assai presto, come ho precedentemente accennato, nei Quaderni 1914-16. 63

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Tali Quaderni, quasi tutti distrutti per disposizione di Wittgenstein nel 1950, tranne i tre rimasti a Gmunden presso la sorella minore, Margarethe, constano di note di uno o più paragrafi, non sempre corrispondenti ai contemporanei passi del Tractatus, e denotano un pensiero non ancora in piena fase di maturazione. Sfogliandoli (Quaderni 1914-16 inseriti, nella versione italiana dell’edizione Einaudi 1968, subito dopo il Tractatus), a pagina 192 compare la proposizione, datata 9.11.16: “Credere è un’esperienza?”. Wittgenstein si domanda se il credere sia frutto di una qualche forma esperienziale e dunque ascrivibile sotto forma proposizionale. È di un periodo successivo, di un Wittgenstein ormai maturo, vicino alle Ricerche, l’altra proposizione: “L’espressione di una credenza è soltanto una frase; e la frase ha un suo significato soltanto quando fa parte di un sistema linguistico” (in Preliminary Studies for the Philosophical Investigations, pubblicato postumo a Oxford nel 1958).

3.4. Note al Tractatus: le espressioni di credenza (5.54-5.5421) Nel Tractatus Wittgenstein riprende, nelle proposizioni che vanno dalla 5.54 alla 5.5421, il tema legato al credere. Si tratta di espressioni o enunciati di credenza. Siamo ancora lontani dal Wittgenstein delle Ricerche in quanto le posizioni del Tractatus evidenziano la vicinanza del filosofo alle istanze del positivismo logico. La proposizione 5.54 afferma: “Nella forma proposizionale generale la proposizione occorre nella proposizione solo quale base delle operazioni di verità”. Ciò sta a significare che per il principio di estensionalità una proposizione può comparire in un’altra solo come base per 64

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un’operazione di verità, cioè come argomento di verità: “Le proposizioni elementari sono gli argomenti di verità della proposizione” (5.01). Questo è l’unico modo in cui una proposizione può essere contenuta in un’altra. Dire ad esempio “Il gatto è sul tappeto dice che il gatto è sul tappeto” equivale a produrre solo un nonsenso perché il gatto è sul tappeto non figura come una funzione di verità. Il principio di estensionalità vieta al linguaggio di parlare di se stesso. Vedi le proposizioni 3.32 e 3.33. La proposizione 5.541 afferma: “A prima vista pare che una proposizione possa occorrere in un’altra anche altrimenti. Particolarmente in certe forme proposizionali della psicologia, come ‘A crede che p’ o ‘A pensa p’ etc. Qui infatti superficialmente sembra che la proposizione p stia in una specie di relazione ad un oggetto A. (Ed è così che, nella gnoseologia moderna (Russell, Moore, etc.), sono state concepite quelle proposizioni)”. In enunciati che esprimono credenza, giudizio, etc., sembra che una proposizione possa comparire in un’altra altrimenti che come argomento di verità. L’enunciato “A crede che p” non è una funzione di verità di p, in quanto la sua verità non dipende dal valore di verità di p. Può sembrare che l’enunciato in questione asserisca che la proposizione p stia in una qualche relazione con A, ma Wittgenstein non la pensa in questo modo. Bisogna analizzare l’enunciato “A crede che p” senza violare il principio di estensionalità, cosa che Wittgenstein compie nella proposizione 5.542 dove risulta che non si tratta affatto di una relazione tra la proposizione p ed il soggetto A che la asserisce, come superficialmente potrebbe apparire: a questo proposito Wittgenstein cita con riferimento polemico Moore e Russell e le loro teorie gnoseologiche. La proposizione 5.542: “Ma è chiaro che ‘A crede che p’, ‘A pensa p’, ‘A dice p’ sono della forma ‘

dice p’: e quindi si tratta non d’una coordinazione d’un fatto e d’un oggetto, ma della coordinazione di fatti per coordinazione dei loro oggetti”. 65

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Se analizziamo correttamente enunciati come “A crede che p” dobbiamo eliminare ogni riferimento al soggetto A. Infatti la forma corretta di questo enunciato è: “p dice che p”. Per esempio se “p” significa: “L’erba è verde”, credere (pensare, giudicare) che l’erba sia verde significa per Kenny che “l’evento mentale che corrisponde a quel particolare pensiero deve essere altrettanto articolato della proposizione che esprime quel pensiero”. In virtù dell’identità pensiero-proposizione, credere o pensare o giudicare una situazione equivale a farsene un’immagine articolata, che consiste nell’espressione di quel fatto per mezzo di un enunciato che sia della stessa complessità del fatto raffigurato. “A crede che l’erba è verde” va letto come “l’erba è verde dice che l’erba è verde”. Questo risolve il problema posto nella proposizione 5.541: l’enunciato “A crede che p” sembrava implicare che una proposizione poteva comparire in un’altra proposizione non come argomento di verità, altrimenti si violerebbe il principio di estensionalità, ma nel senso di una relazione (non verofunzionale) di p ad A. Ma se analizziamo “A crede che p”, in essa non è asserita la relazione di p con A, ma la nota coordinazione tra gli elementi della proposizione e gli elementi del fatto. Ora “p dice che p” deve essere una pseudoproposizione poiché, come ricaviamo dalla 4.022, “La proposizione mostra il suo senso. La proposizione mostra come stanno le cose, se essa è vera. E dice che le cose stanno così”. Dunque una proposizione mostra il suo senso e non può dire di possederlo. Ne ricaviamo che anche le proposizioni che esprimono credenze devono essere pseudoproposizioni. La proposizione 5.5421 conclude così l’analisi: “Questo mostra anche che l’anima – il soggetto – come è concepita nella superficiale psicologia odierna, è un assurdo”. Come dall’analisi della 5.542 la proposizione “A crede che p” significa “p dice che p”, il soggetto della prima proposizione 66

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scompare e viene sostituito dalla proposizione p. Ora se intendiamo A, il soggetto, come l’anima, ne viene che essa dovrebbe essere un’entità complessa al pari dell’enunciato p. Ma per Wittgenstein un’anima composta è un’assurdità. Il solo e unico risultato d’analisi è la scomparsa del soggetto A (vedi le proposizioni 5.631 e 5.362 sulla negazione del soggetto). Dunque l’analisi delle espressioni di credenza, mostrando che il riferimento al soggetto caratterizza solo la forma apparente della proposizione, introduce per la prima volta il tema dell’eclissarsi del soggetto dall’orizzonte della filosofia.

3.5. Wittgenstein e la psicologia Prima di andare avanti con l’analisi delle opere wittgensteiniane che hanno affrontato il tema del credere e della credenza, dedico due paragrafi all’interesse di Wittgenstein per la psicologia, maturato in lui nel periodo successivo alla stesura del Tractatus. Vedremo infatti come per il filosofo austriaco il credere è un verbo psicologico che rientra nella categoria delle convinzioni. Wittgenstein asserisce che le sue ricerche sulla psicologia sono parallele a quelle sulla matematica; le une e le altre sono ricerche sopra i fondamenti. Sia la matematica sia la psicologia sono infatti vittime di oscurità mentali che devono essere dipanate dopo un attento esame dei concetti usati nella psicologia di tutti i giorni e nella pratica matematica. Formalismo e platonismo sono il frutto di confusione concettuale in matematica, mentre in psicologia tale confusione risiede nell’adesione al mentalismo che consiste nel ritenere come oggetto di studio della psicologia entità mentali la cui natura e modo di accesso sono peculiari e differenti dalla natura e dal modo di accesso degli oggetti fisici pubblici. Nel corso della trattazione avrò modo di affrontare per sommi capi l’antimentalismo di Wittgenstein e la critica al linguaggio 67

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privato, anche se l’analisi di concetti psicologici dovrebbe permettere di dimostrare che i fenomeni mentali non richiedono per essere spiegati che si postulino delle entità provviste di una natura peculiare ed elusiva. Secondo Kenny, Wittgenstein, già quando scriveva il Tractatus, era convinto che lo studio di concetti come comprensione, desiderio, intenzione, aspettativa non riguardasse in maniera particolare la filosofia (T 4.1121). E proprio nei primi anni Trenta, il periodo più fecondo della vita di Wittgenstein, furono portati a termine, senza peraltro essere pubblicati, i due libri: Le Osservazioni filosofiche e la Philosophische Grammatik, dove il filosofo non solo rivisitò parecchie delle teorie fondamentali del Tractatus, ma affrontò studi particolareggiati sui concetti mentali e sul linguaggio utilizzato per esprimere e riferire gli stati mentali. Il contributo di Wittgenstein alla filosofia della psicologia è stato grande. Pensiamo in particolare ai paragrafi 243-349 della prima parte delle Ricerche filosofiche e alle quattordici sezioni della seconda parte, che seguono una ripartizione tematica (verbi di percezione, pensiero, le sensazioni cinestetiche). Io mi soffermerò sul paragrafo decimo, relativo alla credenza e al paradosso di Moore. Come dicevo, nella seconda parte delle Ricerche l’argomento è volto a criticare sia la nozione di linguaggio privato che tutta una serie di descrizioni di fatti psicologici (atti a difendere la tesi metafisica negativa e la tesi semantica negativa) che ci danno l’idea del programma di chiarificazione concettuale intrapreso da Wittgenstein. Un successivo importante contributo alla filosofia della psicologia è dato dalle lezioni tenute nel 1936 su Dati sensoriali ed esperienze private. Nel 1942 Wittgenstein discute con Rhees di Freud (Lezioni e conversazioni sull’etica l’estetica e la credenza religiosa); i pa68

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ragrafi 189-421 (sul seguire una regola e sul linguaggio privato) delle Ricerche vengono scritti nel 1944; nel 1947 Wittgenstein tiene le lezioni sulla filosofia della psicologia, rifuse nel 1948 nel I volume del testo Osservazioni sulla filosofia della psicologia, studia la percezione degli aspetti e lavora al II volume delle Osservazioni sulla filosofia della psicologia. Non possiamo mancare di menzionare l’opera Della certezza dove Wittgenstein si confronta nuovamente con le idee di Moore ed in particolare con il suo paradosso. L’obiettivo polemico del filosofo è in parte la psicologia (con le sue spiegazioni causali e non descrittive) e in parte la filosofia della mente, cioè le interpretazioni filosofiche dei fatti psicologici. Wittgenstein non fornisce mai definizioni né pensa sia appropriato farlo poiché ritiene ci siano concetti dall’ambito non rigidamente determinato – si pensi al concetto di gioco (Ricerche filosofiche § 66) che si applica a cose a volte affini tra loro ma spesso anche a cose del tutto eterogenee. Il concetto di gioco, così come tutti i concetti, materiali, fisici o psicologici, non è definito per mezzo di condizioni sufficienti e necessarie alla sua applicazione. Nel paragrafo 69 delle Ricerche Wittgenstein si chiede: “Come faremo allora a spiegare a qualcuno cosa è un gioco? Io credo che gli descriveremo alcuni giochi, e noi potremo aggiungere: questa e simili cose si chiamano giochi. E noi stessi ne sappiamo di più? Forse soltanto all’altro non siamo in grado di dire cos’è un gioco?”. Ma questa non è ignoranza, continua Wittgenstein e introduce un tema molto importante ossia quello di concetti aperti, o meglio dai contorni sfumati, non rigidamente chiusi in griglie interpretative. E riprende, sempre nel § 66: “Non conosciamo i confini perché non sono tracciati. Come s’è detto, possiamo – per uno scopo particolare – tracciare un confine. Ma con ciò solo rendiamo il concetto utilizzabile? Niente affatto! Tranne che per questo scopo particolare”. 69

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Anche per i concetti psicologici Wittgenstein si richiama al ruolo semantico ed ontologico di una espressione. Per grammatica egli intende l’insieme delle regole d’uso di una parola che ne caratterizzano il significato svolgendo anche una determinazione ontologica. Che tipo di oggetto una cosa sia: questo dice la grammatica (Ricerche § 373). “L’essenza è espressa nella grammatica” (Ricerche § 371). Non mi soffermerò sull’argomento del linguaggio privato che rappresenta il punto focale sia della parte negativa della filosofia della psicologia, sia il punto focale della filosofia del linguaggio di Wittgenstein. Mi limito soltanto a dire che tale argomento intende mostrare che le entità mentali – idee o rappresentazioni interne – non possono fungere da fondamento per il significato delle parole proprio perché non esiste un metodo per controllarne la stabilità (mancanza di criterio pubblico o regola pubblica d’uso). La tesi filosoficamente più importante e più popolare della filosofia della psicologia wittgensteiniana concerne il rifiuto del mentalismo come teoria della natura dei processi mentali. “Vedere rosso”, “Provare dolore” non sono nomi di processi mentali. “Paralleli fuorvianti – dice Wittgenstein nel paragrafo 571 delle Ricerche – la psicologia tratta dei processi che hanno luogo nella sfera psichica, così come la fisica tratta di quelli che avvengono nella sfera fisica. Vedere, udire, pensare, sentire, volere, non sono gli oggetti della psicologia nello stesso modo in cui sono oggetti della fisica i movimenti dei corpi, i fenomeni elettrici, e così via. E questo lo vedi dal fatto che il fisico vede questi fenomeni, li ode, ci riflette su, ce li comunica, mentre lo psicologo osserva le manifestazioni esterne (il comportamento) del soggetto”. Non deve però fuorviarci il fatto che il provare dolore non trae il suo significato dal suo riferirsi a un processo interno, ma che si riferisce comunque a un processo interno. Wittgenstein non nega infatti l’esistenza di processi interni o stati mentali, ma nega che 70

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l’immagine di tale processo interno ci dia l’idea giusta dell’impiego di quel termine, aggiungendo pertanto che le immagini sono sempre sottodeterminate rispetto ai contenuti proposizionali: l’immagine di un uomo che sale per un sentiero potrebbe anche essere l’immagine di un uomo che scivola all’indietro lungo il sentiero. Appare chiaro ora che il filosofo austriaco non vuole definire l’essenza della mente ma mostrare che fenomeni mentali come la rappresentazione e la comprensione non richiedono per essere spiegati che si postulino entità provviste di una natura peculiare ed esclusiva. Per Wittgenstein l’uso appropriato di una parola non si basa sulla conoscenza delle condizioni necessarie e sufficienti al suo impiego, condizioni che dovrebbero essere note a chi ne fa uso, ma sul suo impiego pragmatico.

3.6. Wittgenstein e i verbi psicologici Cosa hanno in comune i seguenti verbi: credere, aspettarsi, sperare, intendere, conoscere, ricordare, capire, sperare, preoccuparsi? I cartesiani avrebbero risposto che tali verbi rappresentano l’attività mentale che è un tratto distintivo dell’essere mentale, non esteso nello spazio come l’altra sostanza del dualismo cartesiano: la materia. Brentano non sarebbe soddisfatto da questa risposta. Il non essere esteso, rimarca, non è sufficiente per distinguere il mentale dal non mentale. Consideriamo ad esempio i sensi. I colori sono percepiti come estesi nello spazio, ma non i suoni e gli odori. Significa che non sono cose fisiche? No di certo. Avrò modo di ritornare sulla distinzione rimarcata da Brenta71

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no, che individua una ulteriore caratteristica dei verbi psicologici nell’intenzionalità. Ogni fenomeno mentale è caratterizzato – scrive Brentano – da ciò che gli Scolastici del Medioevo chiamavano l’intenzionale immanenza di un oggetto, e che noi potremmo chiamare non senza ambiguità il riferirsi a un contenuto, l’indirizzarsi a un oggetto o oggettività immanente. Ogni fenomeno mentale include qualcosa come oggetto, anche se non tutti gli oggetti allo stesso modo. Nella presentazione qualcosa è presentato, nei giudizi qualcosa è affermato o negato, nell’amore qualcosa è amato, nell’odio qualcosa è odiato, nel desiderio qualcosa è desiderato e così via. Questa immanenza intenzionale è una caratteristica esclusiva degli stati mentali. Brentano tuttavia si accorge che le espressioni: riferirsi a un contenuto, indirizzarsi a un oggetto e così via hanno bisogno di ulteriori delucidazioni data la loro ambiguità. Altri filosofi, ma soprattutto Husserl, suo allievo, si occuparono della questione. Cito Husserl perché fu proprio tramite Husserl che Wittgenstein scoprì il suo interesse per il tema dell’intenzionalità. Ma torniamo a Brentano il quale ritiene che i fenomeni mentali sono le uniche cose che percepiamo nel senso stretto del termine percepire. Poiché i fenomeni mentali sono oggetti di percezione interna, è ovvio che nessun fenomeno mentale è percepito da più di un individuo. Due persone differenti non possono avere una percezione interna della stessa cosa. Le menti sono entità private. Ma se sono private come posso essere sicuro che altre persone abbiano credenze, attese, speranze? Come posso non dubitare delle credenze altrui? Per un empirista convinto l’unica alternativa a questa impasse è il comportamentismo: credere, aspettarsi, sperare non sono stati interni, ma comportamenti esterni. 72

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Vedremo come Wittgenstein risolverà la questione, nonostante le accuse di comportamentismo, rigettando sia le asserzioni di Brentano sia quelle di Locke che, come il primo, aveva considerato gli stati mentali come ciò che percepiamo internamente a noi. Per Wittgenstein i verbi psicologici sono caratterizzati dal fatto che la terza persona del presente deve essere verificata dall’osservazione, la prima persona no. In altri termini c’è un’asimmetria tra la terza persona singolare, per esempio: “egli crede”, e la prima persona singolare: io credo. Che qualcun altro creda qualcosa è qualcosa che posso scoprire dall’osservazione. (Cfr. Zettel § 472: Piano per il trattamento dei concetti psicologici. Verbi psicologici caratterizzati dal fatto che la terza persona del presente si può verificare con l’osservazione, la prima persona no…). Che io creda qualcosa, mi aspetti qualcosa, non è qualcosa che possa scoprire con l’osservazione. Ma di qui, dire, come fa Wittgenstein, che la cosa detta in prima persona non è verificata dall’osservazione è equivalente a dire che non ha valore di verità. Le persone dicono le cose, usano la prima persona singolare dei verbi psicologici. Queste cose sono a volte vere a volte false. Allora Wittgenstein è in errore? No, se consideriamo che per il filosofo non stiamo analizzando un fenomeno – il pensiero ad esempio – ma un concetto, il pensare, e dunque l’uso di una parola. Un concetto consta dei suoi elementi all’interno di un gioco linguistico. Il messaggio di Wittgenstein è: “Se vuoi capire il conoscere, il ricordare, lo sperare, il credere e così via, non guardare ai fenomeni (Cfr. Zettel § 471: I verbi psicologici: vedere, credere, pensare, desiderare, non designano fenomeni. Ma la psicologia osserva i fenomeni del vedere, del credere, del pensare, del desiderare), guarda invece al linguaggio, alla grammatica dell’espressione: ‘io so’, ‘io credo’, guarda cosa è fatto con queste espressioni”. 73

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L’importanza attribuita all’uso del nostro linguaggio più che al fenomeno mentale nello studio di espressioni come “credere”, “sperare”, “pensare” va contro la nostra tradizione filosofica che ci ha sempre insegnato che il linguaggio non è la prima cosa cui dobbiamo rifarci se analizziamo un fenomeno; piuttosto la domanda che dobbiamo porci è: “che tipo di processo avviene nella nostra mente quando conosciamo, ricordiamo, speriamo?”. Questo è ciò che Wittgenstein definisce “il mito dei processi mentali”. Così facendo egli evita sia il mentalismo che il comportamentismo e dice che il significato dei verbi psicologici non è dato dal loro essere fenomeni interni o esterni, ma dal loro uso. Ora però non dobbiamo pensare che la grande famiglia dei verbi e dei concetti psicologici sia priva di struttura e Wittgenstein cerca di creare una “tassonomia” nonostante la presenza di elementi di variazione, che però permettono di selezionare i verbi e i concetti psicologici in base alla presenza o mancanza di tale proprietà. Diamo uno sguardo allo schema proposto, tratto dal testo Wittgenstein (Marconi 1997, p. 222). L’asterisco indica la presenza della proprietà indicata nel verbo psicologico credere. 1)* I verbi e i concetti psicologici sono particolarmente sensibili alla distinzione tra la prima e la terza persona del presente. 2)* I verbi e i concetti psicologici sono sensibili a distinzioni di localizzazione temporale e di aspetto temporale. 3) La possibilità di essere localizzati distingue certi eventi e proprietà psicologiche da altri. 4) La possibilità di avere dei gradi è pure una caratteristica distintiva delle sensazioni. 5)* Esiste per certi fatti psicologici la possibilità di una manifestazione espressiva. 74

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6)* I concetti psicologici interagiscono con il concetto di possibilità. Alcuni concetti psicologici sono disposizionali, ovvero descrivono una proprietà della persona facendo riferimento alla possibilità che la persona manifesti un’altra proprietà caratteristica. 7) Permeabilità alla volontà. 8)* Alcuni concetti psicologici descrivono dei fenomeni come la percezione che dipendono in modo essenziale dal mondo esterno. 9)* Per finire, un punto (controverso) concerne la relazione di certi concetti psicologici con la causalità. Traccio qui una carta (rielaborazione degli Schemi di Schulte in Erlebnis und Ausdruck. Wittgensteins Philosophie der Psychologie, 1987, Munchen-Wien) tratta sempre dal Wittgenstein (p. 226). Il + indica la presenza, il – l’assenza della proprietà indicata.

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3.7. Libro blu e Libro marrone Nel Libro marrone (edizione italiana Einaudi a cura di Amedeo Conte, 1983), al paragrafo 6, Wittgenstein introduce il tema del credere: “È una diffusa malattia del pensiero cercare (e trovare) dietro tutti i nostri atti uno stato mentale che ne sia l’origine, una sorta di serbatoio. Così si dice: La moda cambia perché cambia il gusto della gente. Il gusto è il serbatoio mentale”. Wittgenstein sta criticando la spiegazione che vorrebbe far risalire le nostre azioni, come il parlare e il disegnare, a semplici stati mentali: “… e il dire una parola non è intenderla, – e il dire che io credo non è credere… Un caso analogo consiste nel pensare che ovunque noi facciamo un asserto predicativo, noi affermiamo che il soggetto abbia un certo ingrediente (come nel caso di: ‘La birra è alcolica’)”. Nel paragrafo 7 leggiamo: “Consideriamo ora la proposizione: Credere qualcosa non può consistere meramente nel dire che tu lo credi: tu devi dirlo con un’espressione del volto, con gesti e con un tono della voce particolari”. In effetti noi consideriamo certe espressioni del volto, certi gesti come tratti caratteristici della credenza. Ma, allora, potrebbe sembrare che ci sia qualcos’altro, qualcosa dietro questi gesti: la credenza reale contrapposta alla mera espressione di credenza. Wittgenstein obietta: “Per nulla; molti criteri differenti distinguono, in circostanze differenti, i casi in cui si crede ciò che si dice dai casi in cui non si crede ciò che si dice”. Talvolta ciò che distingue queste due situazioni non è qualcosa che accade mentre si parla, bensì una varietà di azioni ed esperienze di diversa natura che procedono o seguono. Così conclude il paragrafo: “Se per credere noi intendiamo un’attività, un processo, che ha luogo mentre diciamo ciò che crediamo, possiamo dire che credere sia qualcosa di simile o d’identico all’esprimere una credenza”. Tuttavia: “Se io dico – cosa che 76

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non credo – che esistono esseri sovrumani di forma umana che possiamo chiamare dei, e se dico: io temo l’ira degli dei, questo dimostra che, facendo così, io posso voler significare qualcosa, o esprimere un sentimento, che non è necessariamente connesso con alcuna credenza” (Wittgenstein 1967b, pp. 233-53). Ecco che allora non possiamo dire che l’atto di credere sia una specifica esperienza che accompagna qualunque espressione di credenza. Il significato dell’espressione di una credenza dipende dal contesto in cui viene enunciata, e non è certo necessario postulare una specifica esperienza del credere per interpretare il relativo contesto. “Noi usiamo le espressioni intendere, credere, avere l’intenzione in modo tale che esse si riferiscano a certi atti, a certi stati mentali, date certe circostanze” (paragrafo 8). Qui Wittgenstein continua a smentire che il credere sia riconducibile esclusivamente a uno stato mentale: “Conoscere ciò che io credo non significa sentire ciò che io sento mentre lo dico; così come conoscere quale sia la mia intenzione nel fare questa mossa nella nostra partita a scacchi non significa conoscere il mio stato mentale mentre muovo”. Il filosofo pone questo esempio: se io devo fare intendere a un francese la mia espressione: “credo che pioverà” e tu glielo traduci, questo non gli dirà cosa io credo, né tanto meno gli renderà manifesto il mio atto mentale del credere, neanche se accompagnate alle mie parole ci siano le più svariate esperienze legate al mio stato. Noi diremmo d’avere detto al francese ciò che io ho creduto se gli traducessimo in francese le mie parole. E potrebbe darsi che con ciò non gli avremmo detto nulla (neppure indirettamente) su ciò che è accaduto in me quando ho espresso la mia credenza. Piuttosto noi gli abbiamo indicato un enunciato che, in francese, occupa una posizione simile a quella che il mio enunciato occupa in italiano.

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3.8. Ricerche filosofiche e Zettel Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein dedica al credere e alla credenza un paragrafo intero, il decimo della seconda parte. Prima però di analizzare questo paragrafo devo ricordare che Wittgenstein accenna più volte al verbo psicologico credere non solo nella seconda parte delle Ricerche (vedi anche il primo paragrafo relativo agli stati mentali in generale), ma anche nella prima parte, sia in riferimento al problema del significato, sia in relazione al tema del seguire una regola e al discorso dell’impossibilità di un linguaggio privato. La riduzione del linguaggio all’uso, e il riconoscimento che questo può essere compreso soltanto facendo riferimento alle forme di vita, ai nostri atteggiamenti, alle nostre reazioni, implica la considerazione delle regole di quest’uso e del nostro atteggiamento di fronte a esse. Cosa significa “comprendere un ordine”, “seguire una regola”, “saper fare qualcosa”? Comprendere, sapere, credere sono stati interni i quali acquistano significato nell’uso. Per Wittgenstein è doverosa l’analisi linguistica di credere sapere comprendere: “comprendere una proposizione significa comprendere un linguaggio”(Ricerche paragrafo 199). Gli stati interni non godono di una posizione privilegiata. Sperare, credere, intendere non sarebbero possibili come stati senza l’istituzione dell’impiego di un linguaggio. Può sperare solo colui che è padrone di un linguaggio. Un cane non può sperare, non può simulare, non può aspettarsi nulla. Tutta la seconda parte delle Ricerche – per Mario Trinchero – si propone di cacciare lo spettro dalla macchina (secondo l’espressione di Ryle), di ridurre la descrizione degli stati interni alla descrizione dell’uso delle parole che li rappresentano e di ricercare un qualche criterio che renda possibile un discorso oggettivo su tali stati. 78

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Ma entriamo nello specifico. Nel paragrafo 202 Wittgenstein dichiara: “Per questo seguire una regola è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola privatim: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola”. O ancora, a proposito del provare dolore, al paragrafo 310: “Dico a qualcuno che ho dolori. Il suo atteggiamento nei miei riguardi sarà quello di chi crede, di chi non crede, di chi diffida; e così via…”; al paragrafo 303: “Che un’altra persona abbia dolori posso soltanto crederlo; io invece so di provarli”. Già, uno può risolversi a dire: “Credo che provi dolore, invece di Prova dolore. Ma questo è tutto”. Questi esempi mi sono serviti per evidenziare il metodo di indagine di Wittgenstein attraverso la ripresa continua di temi già affrontati all’interno della stessa opera procedendo da un soggetto all’altro non secondo una successione naturale e continua. Del resto lo conferma lo stesso autore nella prefazione delle Ricerche: “non appena cercavo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano”. Ciò per Wittgenstein dipende dalla stessa natura della ricerca, “che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni”. Ora posso finalmente concentrarmi sul paragrafo 10 della seconda parte delle Ricerche interamente dedicato al credere. (Ricordo che gran parte della seconda parte delle Ricerche filosofiche è confluita negli scritti raccolti sotto il titolo di Osservazioni sulla filosofia della psicologia, la ricerca più ampia che Wittgenstein ci abbia dato sulla varietà dei concetti e dei fenomeni psicologici). Il paragrafo 10 inquadra le riflessioni di Wittgenstein sulla grammatica del verbo credere, l’origine del suo uso, la differenza tra la credenza propria e quella altrui, il credere falsamente, il rapporto tra credenza, conoscenza, certezza e senso comune. Qui 79

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viene altresì sottolineata la differenza tra l’uso del verbo credere nella prima persona singolare presente e quello in tutte le altre persone e in tutti gli altri tempi grammaticali, uso che è alla base del paradosso di Moore. (Ciò che la seconda parte delle Ricerche filosofiche, le Osservazioni sulla filosofia della psicologia e della certezza hanno in comune è proprio il confronto di Wittgenstein con le idee di Moore). Dapprima Wittgenstein nega che possiamo inferire le nostre credenze dal nostro comportamento o dalle nostre parole, come facciamo con le credenze altrui, ma poi arriva ad affermare che è possibile immaginare casi in cui si traggono conclusioni dall’ascolto delle proprie parole: “Il mio atteggiamento verso le mie proprie parole è completamente differente da quello degli altri” e poi, proseguendo: “giudicando da quello che io dico, io credo questa cosa. Ebbene è possibile immaginare circostanze in cui queste parole avrebbero senso. E allora uno potrebbe anche dire: – Piove e io credo che non piova, oppure – mi sembra che il mio ego creda questa cosa ma non è così”. Ma torniamo all’inizio del paragrafo 10: “Come si è arrivati a usare un’espressione come io credo? Forse un bel giorno la nostra attenzione si è soffermata su un certo fenomeno (il fenomeno del credere)? Abbiamo osservato noi stessi e gli altri, e così abbiamo scoperto il credere?”. Per Wittgenstein il problema non è tanto quello del significato dei concetti in questione, quanto quello dell’uso che ne facciamo abitualmente nel nostro quotidiano “commercio linguistico”. Vedremo infatti che è proprio l’assenza della dimensione grammaticale dei problemi e la teoria del significato, ferma al suo carattere raffigurativo della realtà, ciò che impedisce a Moore di cogliere la dinamicità di concetti come credere, sapere, dubitare. Dopo questa introduzione Wittgenstein cita il paradosso di Moore (nella nota 1 leggiamo: egli si riferisce probabilmente a una questione riguardante le proposizioni che esprimono cre80

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denze dibattuta da Moore stesso nella XIV Lezione di un corso tenuto al Morley College di Londra nell’inverno del 1910-11). Sembra che questi non abbia mai parlato di paradosso anche se in realtà di paradosso si tratta dal momento che si afferma una proposizione e contemporaneamente si afferma di non crederci. Dire: “Martedì scorso sono andato al cinema, ma non credo di esserci andato”, oppure “C’è un gatto nella stanza ma non lo credo” è paradossale. Ora è paradossale il fatto che affermiamo una contraddizione o che una frase è senza senso in quanto logicamente impossibile? Si possono tollerare credenze contraddittorie? Nelle Ricerche Wittgenstein ammette, come si è visto poc’anzi, la possibilità di casi in cui il paradosso di Moore si presenti sensatamente. E nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia, nota 290, II parte, affronta la questione di pugno: “Di nuovo, non devi dimenticare che una contraddizione non ha senso non significa: il senso di una contraddizione è un non senso. La contraddizione noi la escludiamo dal linguaggio; per essa non abbiamo a disposizione nessun impiego chiaro e quindi non la usiamo. E, se: piove ma io non lo credo è un enunciato privo di senso, lo è, di nuovo, perché un prolungamento di certe linee conduce a questa tecnica. Ma in circostanze diverse da quelle normali, a quella frase potrebbe essere dato un senso chiaro”. La nota 418 delle Osservazioni dichiara: “La proposizione Io lo credo e non è vero può anche essere la verità. E questo quando lo credo davvero e la credenza risulta falsa”. “In fondo con le parole io credo – dice Wittgenstein – descrivo il mio stato d’animo”: ma qui questa descrizione è, indirettamente, un’asserzione dello stesso fatto creduto. Tornerò sulla questione in Della Certezza. Torniamo alle Ricerche e pensiamo al paragrafo 574: “Una proposizione, e quindi, in altro senso, un pensiero, può essere l’espressione del credere, dello sperare, dell’aspettare”. E ancora, 81

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con le parole: “Supponiamo che io creda…” tu presupponi già tutta quanta la grammatica della parola credere, l’uso ordinario che ben conosci… Se l’impiego di credere non ti fosse già familiare non sapresti affatto che cosa assumi qui – cioè, per esempio, che cosa segua da un’assunzione del genere (paragrafo X delle Ricerche). Possiamo dunque padroneggiare pienamente, come di fatto accade, la grammatica pratica delle attestazioni riguardanti le nostre credenze e rimanere perplessi riguardo al fatto che tali attestazioni poggino su fondamenti obiettivi nell’esperienza psichica. Pare evidente che per Wittgenstein avere una credenza non significa avere qualcosa che predisponga favorevolmente verso qualcos’altro – la cosa creduta – ma piuttosto significa essere favorevolmente disposti verso qualcos’altro: verso l’asserzione o l’accettazione della cosa creduta. Da qui il concetto di credere come disposizione che il filosofo esprime in un passo del paragrafo X in forma insolitamente distesa (tale concezione del credere sarà poi convalidata e approfondita dalle molte osservazioni cariche di allusioni che si ritrovano sparse nella sua opera): “Io la penso così: il credere è uno stato dell’anima. Ha una durata e tale durata è indipendente, per esempio, dalla durata della sua espressione in una proposizione. Dunque è un tipo di disposizione di colui che crede. Me la rivelano, nell’altro, il suo comportamento, le sue parole. E precisamente, sia l’espressione ‘Io credo…’ sia la sua semplice asserzione. – E per quanto riguarda me? In che modo, io, per parte mia, riconosco la mia propria disposizione? Qui dovrei poter prestare attenzione a me stesso, come fanno gli altri: stare a sentire le mie parole, essere in grado di trarre conclusioni da esse!”. Hampshire in Thought and Action (1959) dice che la parola disposizione è stata impiegata in accezioni troppo diverse. A guardare il dizionario, per disposizione si intende una condizione della mente, lo stato o la qualità dell’essere disposto, un’inclina82

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zione. Wittgenstein è considerato il tipico rappresentante di una concezione del credere legata all’idea della disposizione. Riprenderò questo argomento nell’analisi di Zettel. Per ora ricordo solo un passo tratto dalle Osservazioni sulla filosofia della psicologia dove, a p. 333, nella nota 45 della seconda parte, si legge: “Quello che voglio dire è che credere, capire, sapere, avere intenzione di… non sono stati di coscienza. Se per il momento chiamo tutto ciò ‘disposizioni’, allora una differenza importante fra disposizioni e stati di coscienza è il fatto che una disposizione non viene interrotta da una discontinuità di coscienza o da uno spostamento dell’attenzione”. Le attestazioni di credenza non sono primariamente o direttamente affermazioni circa il valore di verità di una proposizione (si pensi a Mayo che in Knowledge and Belief del 1967 a p. 47 scriveva: “La verità è indipendente dal credere, poiché tutto ciò che si crede può essere falso… Ma il credere non è indipendente dalla verità, e ciò per due buoni motivi: (1) ciò che è creduto deve essere vero o falso… e (2) ciò che è creduto, ma anche quando si rivela falso, è creduto come vero”). Ora per Wittgenstein, come dicevo, le attestazioni di credenza sono invece affermazioni concernenti la persona che enuncia tali proposizioni. “Il gioco linguistico del comunicare può essere rigirato in modo che la comunicazione sia destinata non già a dare informazioni sul suo oggetto a colui che la riceve, ma a darne su colui che la fa” (Ricerche p. 251). Wittgenstein è convinto che sia logicamente necessario che una credenza sia sostenuta con un certo grado di convinzione, che è una componente della nostra facoltà del credere, ma si guarda bene dal dire che tale convinzione sia un tratto caratteristico del credere, un criterio operativo per definirlo. Si pensi al seguente interrogativo: “Che cosa vuol dire credere all’ipotesi di Goldbach? (Ricerche p. 200) – Goldbach è un matematico russo, che formulò una ipotesi secondo cui ogni nume83

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ro pari può essere rappresentato come somma di numeri primi. Continua Wittgenstein: “In che cosa consiste questa credenza? In un sentimento di sicurezza che proviamo quando enunciamo, udiamo, o pensiamo la proposizione? – questo non ci interessa – E quali sono i contrassegni di questo sentimento? Non so neppure fino a qual punto questo sentimento possa venir suscitato dalla proposizione stessa”. Da quanto detto si evince che la convinzione è un tratto troppo incerto perché ci si possa affidare a essa in una indagine obiettiva sull’atto di credere. Tornando al paragrafo 574: “… i concetti del credere, dell’aspettare, dello sperare sono tra loro meno eterogenei di quanto non lo siano paragonati con il concetto del pensare”. Wittgenstein sembra attribuire una connotazione per così dire sentimentale non soltanto alle credenze religiose. Anche l’affermazione che qualcuno crede, nell’uso comune, è inseparabile dal sottinteso che egli provi un qualche sentimento, se non altro un dichiarato sentimento di certezza riguardo a ciò cui crede. Già nel 1888 Hume, nel Trattato sulla natura umana, diceva: “Credere è più propriamente un atto della parte sensitiva della nostra natura piuttosto che di quella cognitiva” (p. 183). “Devo dire che la credenza è una gradazione del colore del pensiero? Da dove viene quest’idea? Ebbene c’è una tonalità del credere come del dubitare…” (Ricerche paragrafo 578). Potremmo allora essere inclini a pensare che esiste un corrispondente sentimento del credere. Needham è convinto del contrario. Infatti in definitiva non importa quale sia la sensazione che accompagna un’attestazione di credenza – è ovvio che un certo carattere emotivo è concepibile come componente della nozione di credenza – ma un sentimento così vago non può avere per Needham valore di criterio mediante il quale discriminare il credere da altri stati interiori. Se approfondiamo la ricerca sulle manifestazioni della dispo84

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sizione a credere, troviamo che essa possiede alcune caratteristiche piuttosto interessanti. Possiede una durata, e ciò indipendentemente dalla durata della sua espressione in una frase. In Zettel, 1967, opera di Wittgenstein che prende nome dai foglietti che raccolgono osservazioni in gran parte ritagliate da altri scritti, secondo un procedimento abituale dell’autore, a proposito delle disposizioni, nel paragrafo 72, a p. 19, leggiamo: “La comune differenza di tutti gli stati di coscienza dalle disposizioni mi sembra questa: che non ci si può convincere per mezzo di assaggi, se durano ancora. Per comprenderle come proposizioni, certe proposizioni si devono leggere più e più volte” (Zettel §73). “Posso prestar attenzione al decorso dei miei dolori – afferma Wittgenstein – ma non altrettanto a quello della mia credenza, della mia traduzione o del mio sapere” (Zettel § 75). Tutto questo poiché “la durata di un fenomeno si può stabilire per mezzo di un’osservazione ininterrotta, o per tentativi. L’osservazione della durata può essere ininterrotta o interrotta” (Zettel § 76). “In realtà, non si dice praticamente mai di aver creduto una certa cosa ininterrottamente da ieri, o di averla capita, o di averla intesa ininterrottamente. Un’interruzione di una credenza sarebbe un periodo di non credenza, non già, per esempio, il ritirarsi dell’attenzione dalla cosa creduta: per esempio, il sonno” (Zettel § 76). Si pensi a questo proposito alla nota 45 della seconda parte delle Osservazioni sulla filosofia della psicologia che esprime il medesimo concetto: “… se per il momento chiamo tutto ciò disposizioni, allora una differenza importante tra disposizioni e stati di coscienza è il fatto che una disposizione non viene interrotta da una discontinuità di coscienza o da uno spostamento dell’attenzione… È davvero difficile che qualcuno dica di aver creduto a una cosa, o di averla capita ininterrottamente da ieri. Un’interruzione della credenza sarebbe quindi un periodo di incredulità, e non, ad esempio, un semplice distogliere l’attenzione dalla cosa 85

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creduta o, ad esempio, il sonno. Ma è anche più sicuro che io non posso prestare attenzione allo stato del credere in se stesso, come qualcosa di separato da ciò che si crede”. A differenza degli scienziati cognitivisti che parlano spesso come se ci fosse un’essenza del credere, come se credere qualcosa consistesse nel fatto che il cervello mette un enunciato nella sua scatola delle credenze, per Wittgenstein il fenomeno del credere consiste nell’abitudine di fare affermazioni sul fatto del credere. Non si analizza un fenomeno, ma un concetto: l’applicazione di una parola. È alla grammatica di credere che dobbiamo ricorrere. Torniamo ora al paragrafo 373 delle Ricerche: “Che tipo di oggetto una cosa sia: questo dice la grammatica”. “Con le parole ‘Supponiamo che io creda’… tu presupponi già tutta quanta la grammatica della parola credere, l’uso ordinario che tu ben conosci… Se l’impiego di credere non ti fosse già familiare non sapresti affatto che cosa assumi qui (cioè, per esempio, che cosa segua da una assunzione del genere” (Ricerche p. 253). Dunque credere, conoscere, sapere, eseguire, obbedire acquistano valenza significante non in quanto manifestazioni di stati di coscienza, ma in quanto espressioni di comportamenti convenzionali comuni, dovuti a pratiche, applicazione di regole reiterate, abitudinarie che appartengono a sistemi di istituzioni consolidate. “L’impiego e la credenza stanno sul medesimo piano” (Zettel 679). In questa seconda parte delle Ricerche Wittgenstein abbandona definitivamente l’illusione della possibilità meccanica di una riduzione degli stati interni all’analisi descrittiva delle parole d’uso che li rappresentano; nella stessa, abbiamo intravisto il tentativo di individuare un criterio che ha permesso di parlare degli stati interni in forma in qualche modo oggettiva, per consentire alla filosofia, in quanto discorso, di esprimersi su forme di vita complesse. 86

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3.9. Della certezza Nel capitolo primo avevo già avuto modo di presentare l’opera Della certezza in merito al discorso relativo al senso comune. Wittgenstein infatti raccoglie in questo volume le argomentazioni relative al tema della certezza, sempre più convinto che il problema della verità delle proposizioni non può porsi come tale, ma diviene il problema della certezza, cioè della convinzione circa la verità di una proposizione. Già Edward Moore, nella Defence of Common Sense (1925) e in Proof of an External World (1939), aveva risolto la questione riferendosi al senso comune, per cui non si può negare l’esistenza di oggetti materiali così come non si può negare il tempo dal momento che sicuramente la terra esisteva “prima che io nascessi”. Al riparo da ogni relativismo o solipsismo, Moore si richiama all’evidenza che decide; oltre non si può andare poiché non tutto ciò che è certo necessita di essere dimostrato. Per Moore l’unica prova di cui disponiamo di fronte alle certezze del senso comune è di tipo empirico, evidente. Egli così finisce per riconoscere come vere cose di cui non è in grado di fornire alcuna dimostrazione o prova. Ora, laddove Moore resta sostanzialmente appagato, l’evidenza è per Wittgenstein il punto da cui partire. Cos’è che rende sicura e indubitabile la nostra credenza nell’esistenza del mondo fisico? Per Wittgenstein la risposta è da trovarsi in quella parte del sistema o cornice di riferimento al cui interno si valutano la verità o la falsità della nostra fede nelle realtà di fatto. Il sistema è passibile di cambiamento, ma le sue proposizioni sono sottratte al dubbio. Wittgenstein, contrariamente a Moore, non analizza il senso comune in quanto tale, ma descrive, insieme con la certezza e altri concetti legati a essa, un altro modo di guardare all’intera questione. Mentre per Moore le credenze del senso comune sono 87

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le premesse dalle quali il resto della nostra conoscenza deriva, per Wittgenstein sono uno sfondo, una cornice implicita entro la quale il nostro linguaggio e i nostri schemi di giudizio sono costruiti. Se tali proposizioni del senso comune non costituiscono un corpus di conoscenze ma descrivono piuttosto il modo in cui noi comprendiamo il mondo, non ha senso pretendere che siano vere, come invece vorrebbe Moore. Quello che Wittgenstein fa in Della certezza è il sottoporre ad analisi questi enunciati e il ricondurre l’evidenza che esibiscono non al fatto che siano veri, ma al loro rappresentare lo sfondo di certezze accettate, che costituiscono la nostra immagine del mondo a partire dalla quale giudichiamo gli altri eventi. Se la nostra immagine del mondo è formata da proposizioni che costituiscono lo “sfondo” comune della nostra conoscenza, nel credere qualcosa noi non crediamo a una singola e isolata proposizione, ma a tutto un sistema non assiomatico, bensì vitale e significativo, che dà senso alle nostre affermazioni. Ma vediamo nel concreto: “Ora si può enumerare quello che si sa (così come fa Moore in Proof of an External World quando ci propone una serie di proposizioni che iniziano tutte così: ‘Io so che’)… Così, su due piedi credo di no. Altrimenti le parole io so sarebbero usate malamente. E attraverso questo cattivo uso della parola, sembra che si mostri uno stato mentale strano ed estremamente importante (Della certezza §6). Per Wittgenstein non si può enucleare, come fa Moore, quello che si sa e, per corroborare questa sua tesi, ci invita a un’analisi linguistica che ci faccia capire quando usiamo la forma “io so che” e quando ci avvaliamo invece di altre forme come sono sicuro, credo proprio, etc. L’espressione “io so” si può utilizzare per qualcosa che abbiamo appreso (“So chi ha vinto la battaglia di Hastings”), per tranquillizzare qualcuno (“Guarda che la strada la so”), per tagliar corto in una discussione (“So bene quello che dico”). 88

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A volte utilizziamo l’espressione “io so” per dire: non posso sbagliarmi e a volte il pretendere di sapere è riconducibile al nostro avere buone ragioni per sostenere qualcosa. Ma ciò che in questa sede ci interessa è chiarire che cosa effettivamente distingua il credere dal sapere, termini che sono entrambi legati a dei vissuti. Ma ricondurre il significato dei verbi credere e sapere a dei vissuti o a stati d’animo è del tutto insensato per Wittgenstein. Gli stati d’animo hanno generalmente una durata; per esempio il dolore è uno stato che si estende nel tempo. Ma il credere? Il sapere? Posso accettare che qualcuno mi dica che non ha fatto altro che credere in tutto il pomeriggio che Socrate ha bevuto la cicuta? Il dolore può placarsi, cessare per esempio con il sonno, ma dire che una persona che si è addormentata ora non crede che Socrate abbia bevuto la cicuta è semplicemente assurdo. Il credere, il sapere, il dubitare non sono stati d’animo e non possono essere intesi facendo riferimento ai vissuti che accompagnano il nostro credere, il nostro sapere, il nostro dubitare. Per esempio chi dice di sapere che A dice una cosa ben diversa da chi dice di credere che A, anche se entrambi gli assertori sono animati dallo stesso stato d’animo: la convinzione. Wittgenstein nel paragrafo 42 dice: “Si può dire: Lui lo crede, però non è così, ma non: Lui lo sa, però non è così. Questo proviene forse dalla differenza tra lo stato d’animo del credere e quello del sapere? No! Stato d’animo si può chiamare, poniamo, ciò che si esprime nel tono del discorso, nei gesti etc. Sarebbe dunque possibile parlare di uno stato d’animo della convinzione; e questo stato d’animo può essere lo stesso, sia che si sappia, sia che si creda falsamente. Il pensare che alle parole credere e sapere debbano corrispondere stati d’animo differenti sarebbe come se si credesse che alla parola io e al nome Ludwig debbano corrispondere uomini differenti, per il fatto che sono differenti i concetti”. 89

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Dalla citazione si evince che il dire che qualcuno sa qualcosa significa dire che quel qualcuno saprebbe rispondere correttamente a determinate domande. Se uno dice che sa come si dimostra il teorema di Pitagora significa che si impegna a sostenere che saprebbe dimostrare quel teorema se glielo chiedessero. Ma mi aspetto che la persona mi dimostri praticamente questo suo presunto sapere: “La grammatica della parola sapere è, come si vede facilmente, strettamente imparentata alla grammatica della parola potere ed essere in grado. Ma è anche strettamente imparentata a quella della parola comprendere – padroneggiare una tecnica (Ricerche filosofiche §150). Moore distingue il sapere dal credere, dal pensare e dal ritenere, termini che invece sono legati fra di loro. Il sapere infatti non si riferisce a un certo contenuto proposizionale, come il credere, ma allo stato di cose che gli corrisponde. Da A crede che p non segue affatto p. Se infatti qualcuno afferma di essere convinto che Napoleone non sia esistito, io posso credergli perché la falsità di p non è un argomento per rifiutare anche la proposizione A crede che p. Diversamente accade con il sapere. Se io dico che A sa che Napoleone è morto a Sant’Elena mi impegno a sostenere che ciò che A sa è vero. Da A sa che p è lecito dedurre p, poiché il sapere si riferisce allo stato di cose espresso e non a p. “Propriamente il punto di vista di Moore mette a capo questo: il concetto sapere è analogo ai concetti credere, congetturare, dubitare, essere convinti, in questo: che l’enunciato Io so… non può essere un errore. E se è così allora da un atto espressivo si può concludere alla verità di un’asserzione. E qui si trascura la forma io credevo di sapere. Ma se non si deve ammettere questa forma, allora si deve riconoscere che anche nell’asserzione deve essere logicamente impossibile l’errore. E di questo non può non rendersi conto chi conosce il gioco linguistico: l’assicurazione 90

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di qualcuno degno di fede che lui lo sa non può aiutarlo” (Della certezza §21). Il riconoscere da parte di qualcuno di sapere qualcosa non è un buon motivo per dire che quel qualcosa è vero. Talvolta ci si può convincere a torto di qualcosa. Si può credere di sapere e ci serviamo di questa espressione quando ci accorgiamo che le cose sono diversamente da ciò che credevamo. Wittgenstein, contrariamente a Moore, nega che da un atto espressivo (sapere) si conclude alla verità di un’asserzione. Sapere che p non è un buon motivo per dire che p sia vera. “Il falso uso che Moore fa della proposizione io so consiste in questo: che la considera una manifestazione che non si può mettere in dubbio più di quanto non si possa mettere in dubbio, per esempio, Io provo dolori. E siccome da Io so che è così segue è così, così anche di quest’ultima proposizione non si può dubitare (Della certezza §178). Sarebbe corretto il dire: Io credo… ha una verità soggettiva, mentre Io so non ce l’ha (ivi §179). Io credo è una dichiarazione, ma non lo è Io so…” (ivi §180). Ora per Moore vi sono proposizioni che sappiamo anche se non abbiamo ragioni per sostenere la loro verità. (Per Wittgenstein Moore è stato ingannato dalla grammatica del nostro linguaggio, avendo creduto che per essere realisti, per difendere il senso comune bastava ripetere le parole “Lo so”). Moore ha ritenuto giusto inglobare le verità del senso comune nel sapere per poi definirle certe e oggettive. Per Wittgenstein, invece, il gioco linguistico con il verbo sapere, proprio perché tollera le forme credevo di sapere e credi soltanto di sapere si rimanda a una serie di buone ragioni. Ma è importante la conclusione wittgensteiniana: “che cosa sia una ragione valida non lo decido io” (Ricerche § 271) oppure “una ragione si può dare solo all’interno di un gioco linguistico” (Philosophische Grammatik § 97). Dunque cosa sia una buona ragione per convincersi della veri91

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dicità di una proposizione non lo decido io poiché la regola d’uso del gioco linguistico presuppone che gli altri possano decidere se davvero sappiamo. Esistono delle proposizioni che hanno una funzione simile a quella di una regola, alle quali non possiamo rinunciare e delle quali non possiamo dubitare, pena il nostro non giocare il nostro gioco. Se all’origine dei nostri giochi linguistici ci sono determinate certezze, Wittgenstein non esita a sottolineare la dimensione tutta naturale di queste credenze attribuendo loro una dimensione per così dire animale (cfr. i paragrafi 359, 475 e 478). Ma per Wittgenstein è vero che la certezza è appresa: “Da bambini impariamo certi fatti, per esempio che ogni uomo ha un cervello, e li accettiamo fiduciosamente. Io credo che esiste un’isola, l’Australia, che ha questa determinata configurazione così e così, e via dicendo; io credo di aver avuto dei bisnonni, e che le persone che si facevano passare per i miei genitori fossero davvero i miei genitori, etc. Può darsi che questa credenza non sia mai stata espressa, e addirittura il pensiero che le cose stanno davvero così non sia neppure mai stato pensato (§159)… Il bambino impara perché crede agli adulti. Il dubbio vien dopo la credenza” (§160), ma è anche vero che tali certezze non hanno un fondamento, non possono essere dimostrate o verificate. Sono dei presupposti che abbiamo appreso come tali. Molte osservazioni di Wittgenstein sono dedicate alla descrizione di come i bambini imparano a interagire con l’ambiente e a credere a ciò che viene loro tramandato. Col tempo si formerà un sistema al cui interno alcune credenze risulteranno salde, altre meno. L’origine delle certezze viene fatto risalire a una comunità, a una cultura, a una forma di vita – come la chiama Wittgenstein – dato oltre il quale non si può andare. Crediamo che ognuno creda ciò che crediamo noi. “Le cause per cui crediamo una proposizione sono completamente irrilevanti ai fini della questione 92

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che cos’è ciò a cui crediamo; ma non lo sono le ragioni che sono imparentate grammaticalmente con la proposizione e ci dicono di che proposizione si tratti” (Zettel § 437, p. 94). Da quanto finora detto sembra evidente che in un accordo bisogna indicare ciò che in un determinato sistema di credenze è razionale credere, e l’uomo ragionevole non dubita di certe cose e agisce in modo determinato. Ogni gioco linguistico per essere giocato implica l’accettazione di determinate certezze: dubitarne implica il rifiutarsi di giocare.

3.10. Osservazioni sulla filosofia della psicologia Wittgenstein concluse la prima parte delle Ricerche filosofiche nel 1945 e, a partire dall’anno successivo, si dedicò ai temi della filosofia della psicologia andando ad accumulare le osservazioni che compongono il volume apparso nel 1980. Queste osservazioni andrebbero lette parallelamente alla seconda parte delle Ricerche dove alcune di queste note confluirono, anche se d’altro canto costituiscono un indizio di nuove vie cercate da Wittgenstein al di là delle Ricerche. Scorrendo le pagine che compongono il testo Osservazioni sulla filosofia della psicologia ci si rende conto che le note riservate alla credenza e al credere costituiscono una parte cospicua dell’indagine. Si faccia solo l’esempio delle note 62, 63 e 64 delle Osservazioni che ricalcano interamente le considerazioni espresse nella seconda parte delle Ricerche all’inizio del paragrafo X. La nota 79 è esplicativa della credenza che giace su una forma di vita: “Se io non credo ad uno stato interiore del vedere e un altro dice: Io vedo… allora credo che costui non sappia l’italiano oppure che menta”. A proposito del legame tra il credere e il provare dolore potrei citare la nota 142: “Il bambino che impara a parlare impara ad 93

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usare le parole avere dolori e impara anche che i dolori si possono fingere. Questo fa parte del gioco linguistico che impara. O anche il bambino non impara solo l’uso di egli ha dolore, ma anche quello di credo che lui abbia dolore (ma, naturalmente, non quello di credo di avere dolore)”. E ancora la nota 200: “… Non bisogna ritenere che si possa indicare il dolore a se stessi in privato. Ma allora come si farà a esibire ciò che significa rappresentarsi, ricordare, avere un’intenzione, credere?”. Dalla nota 470 fino alla 504 Wittgenstein affronta nuovamente la questione del credere connessa al paradosso di Moore: “io credo… è una descrizione del mio stato d’animo?…” (nota 470). E la 471: “sarebbe fatale prendere il paradosso di Moore per qualcosa che può presentarsi soltanto nella sfera di ciò che è psichico”. È la nota successiva, la 472, che introduce i problemi esposti nel paragrafo X delle Ricerche. Dice infatti Wittgenstein: “Voglio dire innanzitutto che con l’asserzione: Pioverà si esprime la credenza ad essa connessa, esattamente come con le parole: Del vino, qui! si esprime il desiderio di ottenere il vino. Si potrebbe anche dirla così: Io credo che p ha circa lo stesso significato di p; e il fatto che nel primo enunciato siano presenti il verbo credo e il pronome io non dovrebbe trarci in inganno”. Nella nota 477 Wittgenstein si interroga sul significato del fatto che credo che p dice all’incirca lo stesso di p… “Se qualcuno dice sia la prima frase sia la seconda, la reazione che abbiamo noi è più o meno la stessa; se dicessi la prima frase e uno non capisse le parole Io credo, allora la ripeterei nella seconda forma, e così via. Così come spiegherei anche Desidererei che tu andassi là, dicendo: Vai là”. Per il filosofo è impossibile capire la supposizione che io creda qualcosa senza prima capire l’espressione di quella mia credenza. Se poi (nota 480) dovesse trovare una raffigurazione per io credo… mediante un dipinto, egli si servirebbe di una immagine 94

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che rappresenti tale credenza, facendo ricorso ad esempio al fatto che piove. Tralascio il tema del vedere le immagini in Wittgenstein e ricordo solo che ciò che qui gli interessa è l’esternazione di tale stato, il renderlo pubblico, intelligibile. Nella nota 488 il filosofo dichiara che “nessun enunciato ha senso al di fuori del gioco linguistico”, cosa che gli permette di dire: io credo… ecco com’è, indicando (per così dire internamente) ciò che conferisce all’enunciato il suo significato. Forse è con la nota 490 che si capisce effettivamente il paradosso di Moore. Wittgenstein dice: “Il paradosso è questo: la supposizione può esprimersi così: posto che questo succeda in me e questo fuori di me – l’asserzione, tuttavia, che questo succeda in me, afferma: succede questo fuori di me. Nella supposizione i due enunciati sull’interno e sull’esterno sono del tutto indipendenti, ma nell’asserzione no”. Come ho già detto, nelle Ricerche Wittgenstein riesce a presentare casi in cui il paradosso di Moore sembra superato, dissolto, come ad esempio in frasi del tipo “egli verrà. Io personalmente non lo credo, ma non farti ingannare da questo. Viene, contaci pure. Io non lo credo, ma non farti ingannare da questo. Questo ci dà l’idea che ci siano due persone a parlare per bocca mia;… e come se uno dicesse: So che questo modo di agire è sbagliato, ma so che agirò così. Viene, ma non lo credo può anche presentarsi in un gioco linguistico. O meglio: si potrebbe escogitare un gioco linguistico in cui queste parole non suonassero assurde” (495). La nota per così dire illuminante sembra la 504 che chiarisce definitivamente il concetto che l’espressione di una credenza corrisponda alla credenza stessa, come ribadito dallo stesso Needham. “Che lui creda questo e quest’altro a noi risulta dall’aver osservato la sua persona, ma lui non asserisce credo che… in base all’auto-osservazione. Ed è per questo che Io credo che p può essere equivalente all’asserire p. E per la stessa ragione an95

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che la domanda È così? equivale all’enunciato Vorrei sapere se è così. L’auto-osservazione mi insegna che io credo questo, ma l’osservazione del mondo esterno mi insegna che non è così” (Osservazioni 354). A proposito dell’asimmetria tra prima e terza persona che coinvolge tutti i verbi psicologici, Wittgenstein esclama nella nota 704: “Com’è che dalla mia asserzione Pioverà io non posso arguire che lo credo? Allora non posso trarre alcuna conclusione interessante sul fatto che ho detto così? Se lo dice un altro, posso forse concludere che egli prenderà con sé un ombrello. Perché nel mio caso invece non posso farlo? Naturalmente la tentazione sarebbe quella di dire: nel mio caso non ho bisogno di trarre questa conclusione dalle mie parole, perché la posso trarre dal mio stato d’animo, dalla mia stessa credenza”. E nelle note 819 e 820 leggiamo: “Se guardo fuori, vedo che piove; se guardo in me stesso, vedo che ci credo. E uno che cosa deve farsene di questa informazione? Supponiamo che piova e io non lo creda – se affermo il contenuto di questa supposizione – per così dire si scinde. Allora la mia personalità si scinde vuol dire: allora non gioco il gioco linguistico abituale, ma un altro”. Wittgenstein nella nota 823 si pone il quesito: “Come faccio a sapere che sto credendo…? Guardo in me stesso? E mi serve a qualcosa osservarmi?…”. Il filosofo parla di credenza, di desiderio, di timore e di speranza come stati d’animo di una persona, e spesso noi possiamo inferire dallo stato di quella persona le sue reazioni. Per esempio se qualcuno dice: per tutto questo tempo ho creduto… ma non nel caso: credo che stia venendo, cioè sta agendo in conformità a quello stato, non riferisce lo stato in cui si trova. Ma “credere non equivale ad occuparsi di ciò in cui si crede. Mentre la paura, il desiderio, la speranza si occupano del loro oggetto” (nota 155, II parte Osservazioni). E poi ancora la 751: “Ma perché l’impiego del verbo credere, 96

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la sua grammatica è costruita in modo così strano. Strana lo diventa soltanto se la si confronta con quella della parola mangiare” (nota 751, I parte Osservazioni). Posso, cioè, osservare qualcuno che mangia ma non posso guardare dentro la testa di chi sta per esprimere una credenza, che diventa tale soltanto dopo che è stata esternata. I verbi di vissuto hanno come tratto caratteristico il fatto che in terza persona li si enuncia sulla base di osservazioni ma in prima no! Una sottoclasse dei concetti di vissuto sono le esperienze, che hanno una durata, un decorso che può essere uniforme o non uniforme, hanno intensità. Un’altra sottoclasse dei vissuti sono per Wittgenstein le forme della convinzione (credenza, certezza, dubbio). La loro espressione è un’espressione di pensieri, come nello schema sopra proposto. Il fatto poi che il credere abbia, come tutti gli altri verbi, un tempo passato, uno presente, uno futuro è un fatto caratteristico di come siamo abituati a considerare il linguaggio, il fatto che alla fin fine debba esserci una simmetria, una uniformità. Se per esempio dico, come nella nota 279: “Bisogna tener presente che la prima persona io credo potrebbe benissimo esistere senza una terza. Perché non si dovrebbe costruire nella lingua un verbo che abbia soltanto la prima persona presente?” è un assurdo, ciò implicherebbe quel linguaggio privato che per Wittgenstein non costituisce comunicazione. Come ad esempio piove e non lo credo è una supposizione e non una comunicazione. Nella nota 281 (II parte) Wittgenstein si domanda: “Si potrebbe anche dire: supporre che io creda la tal cosa è supporre che io abbia questa disposizione. Mentre della comunicazione Io credo che… non sarei incline a dire che riporti una mia disposizione. È piuttosto un dichiarare questa disposizione”. Infatti è plausibile dire: credo che lui creda, credo di aver creduto, ma non credo di credere. Dire infatti: “credo che sia così” è equivalente a dire “è 97

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così”. Ma dire: supponiamo che io creda sia così non è lo stesso che dire supponiamo sia così. Le note restanti delle Osservazioni sul tema del credere, come ho già detto, trovano un preciso riscontro nelle Ricerche, pertanto mi accingo ora, nel capitolo successivo, ad analizzare l’opera Credere, che costituisce il punto di partenza e di arrivo della presente ricerca.

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4. Belief Language Experience

4.1. Introduzione all’autore Dopo aver introdotto il problema rappresentato dal credere in antropologia e il pensiero di Wittgenstein, che ha così fortemente influenzato Needham, mi sembra opportuno analizzare finalmente l’opera Belief Language Experience che è stata il mio punto di riferimento continuo. Prima però vorrei spendere qualche parola sull’autore, Rodney Needham, l’antropologo britannico che ha dato un enorme contributo non solo all’antropologia sociale ma anche all’indagine sul pensiero religioso. Profondo estimatore di Lévy-Bruhel e di Eliade, era convinto infatti che l’esperienza religiosa non potesse separarsi dalle altre forme archetipiche dell’esperienza umana e che la presenza di atteggiamenti religiosi in altri settori della vita sociale rendesse impossibile il discorso su una “specificità” della religione. Era sostanzialmente in accordo con coloro i quali avrebbero voluto allargare il campo dell’antropologia religiosa, comprendendo anche lo studio dei fenomeni non religiosi, ma pur emergenti dallo stesso tipo di esperienza (Needham 1981). Ma, come dicevo anche nell’introduzione, non solo nel campo dell’antropologia sociale e religiosa l’antropologo inglese si è fatto strada. Proprio Needham, infatti, si è fatto promotore di una svolta nel metodo antropologico resa possibile dall’introduzione delle 99

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categorie politetiche, forse meglio conosciute come wittgensteiniane, che, a partire dagli anni ’70, si sono imposte negli studi in cui venivano adoperate esclusivamente categorie classiche o aristoteliche. (Si veda Polithetic classification: convergence and consequences, 1975). Per una esatta definizione, gli studiosi di scienze cognitive ci insegnano che esistono almeno due strutture categoriali, quelle monotetiche e quelle politetiche (ricordo che tutto il settore è in continua effervescenza ed è possibile che in un immediato futuro ci saranno delle nuove reimpostazioni). Ora le prime sono definibili attraverso un insieme di tratti che siano sufficienti e necessari, le seconde sono quelle che mancano di tali tratti. Un esempio potrebbe essere la categoria “scapolo” che è definibile dai seguenti tratti: “essere umano”, “maschio adulto”, “non sposato”. Tutti questi tratti sono necessari ed insieme sufficienti per designare l’appartenenza alla classe “scapolo”. Un esempio di categoria politetica è invece quella famosa di “gioco” usata da Wittgenstein. È impossibile trovare un insieme di tratti sufficienti e necessari che definiscano la categoria “gioco”. Wittgenstein per esempio si chiede: cosa possono avere in comune il gioco del tennis, il gioco del calcio, il gioco dell’oca? In questo caso non esiste un denominatore comune perché non esiste una caratteristica condivisa da tutti i giochi citati. Wittgenstein qui parlava di “somiglianze di famiglia” che, nel §67 delle Ricerche filosofiche, così definisce: “non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione ‘somiglianze di famiglia’; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e si incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc. – E dirò: i giochi formano una famiglia”. Ciò che quindi caratterizza gli oggetti della classe “gioco” è una complessa rete di affinità non transitive. I quattro giochi 100

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condividono solo parzialmente dei tratti e formano una concatenazione in cui il primo e l’ultimo anello possono non avere un solo tratto in comune, ma ciò che li tiene uniti sotto la categoria gioco è il fatto di condividere dei tratti con gli anelli intermedi. Needham dichiara tuttavia di non proporre un nuovo metodo, ma anzi sottolinea la potenziale riconducibilità di tale classificazione a quella standard. Per Alessandro Simonicca “il rinnovamento che Needham opera sull’impianto di comparazione-generalizzazione risponde ad una netta vocazione antisistematica ed antideduttivistica, tesa a fornire adeguatezza conoscitiva all’etnografia” (in Fabietti 1993). Needham è stato sempre legato a una prospettiva empiristico-scettica. Richiamandosi infatti a Sesto Empirico e a Thomas Browne (Needham 1983) egli mette in discussione tutte le nozioni assiomatiche comunemente accettate con un tacito assenso, analizzandone la costituzione e le capacità esplicative, ma sottolineando anche che queste sono poste a fondamento delle dimostrazioni proprio perché non si può dimostrare tutto. Contrariamente a Wittgenstein, Needham sottolinea come una ricerca teorica non possa mai dirsi conclusa e dunque dichiara non concluse le analisi da lui condotte. Ma passiamo ora ad analizzare il testo.

4.2. Analisi dell’opera È nel 1968 che Needham, il quale già da anni meditava attorno alla questione, si avvicina al tema del credere, influenzato e stimolato, come lui stesso sostiene nell’introduzione del libro Belief Language Experience, da Ludwig Wittgenstein, definito peraltro da Needham uomo straordinario il cui genio è oggi riconosciuto in tutto il mondo. Si pensi soltanto che nel 1998 un sondaggio di 101

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filosofi professionali europei elesse il filosofo austriaco come il quinto più importante pensatore del mondo del suo campo, preceduto soltanto da Aristotele – che peraltro Wittgenstein non lesse mai – Platone, Kant e Nietzsche. Questo ci dà un’idea dell’enorme influenza esercitata da un filosofo che ha pubblicato un unico testo durante tutta la sua vita. Che Needham sia un profondo estimatore di Wittgenstein lo si vede anche a p. 203 del libro Credere quando dice apertamente: “… a volte si è tentati di pensare che quell’uomo straordinario abbia visto ogni cosa”, e poi ancora a p. 14: “un genio, dal temperamento assai diverso da Hume”. Il testo Credere, nella traduzione italiana curata da Diego Marconi, è, come sostiene lo stesso autore nell’introduzione, e come ho già accennato nei capitoli precedenti, una lunga nota in margine a una frase di Wittgenstein: “L’espressione di una credenza… è soltanto una frase; e la frase ha un suo significato soltanto quando fa parte di un sistema linguistico”. Il libro non è altro che il tentativo di rispondere alla domanda di Wittgenstein: “Credere è un’esperienza?”. Ma torniamo al ’68, precisamente nel periodo di passaggio dalla primavera all’estate, quando Needham comincia la stesura del testo che concepisce come un omaggio al suo maestro Evans-Pritchard. Il lavoro ultimato, comunque con carattere di frammentarietà, viene presentato sotto forma di conferenze a Oxford nel 1970. Nell’introduzione compare quella modestia così evidente anche in Wittgenstein – pensiamo alla prefazione delle Ricerche filosofiche: “Avrei preferito produrre un buon libro. Non è andata così; ma è ormai passato il tempo in cui avrei potuto renderlo migliore”. In Needham leggiamo chiaramente: “Per parte mia posso soltanto dire di essere perfettamente conscio che credenza, linguaggio ed esperienza non sono soggetti adatti ad una trattazione occasionale. In questa situazione io confido di non essere frainteso e 102

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di non essere erroneamente sospettato di voler dar vanto alla mia non eccelsa ricerca con un paragone immodesto, se riecheggio le parole di un’altra prefazione (Wittgenstein 1953), caratterizzate da penetrante acutezza” (Needham 1976a, p. 5, nota 3). Verso la fine del ’69, ricorda Needham, durante il periodo in cui fu scritto il libro Credere, usciva Belief, un lungo trattato del professor H.H. Price. Nonostante le prime apprensioni, tale scritto non intimorì affatto l’antropologo di Oxford, che lo definì un testo lontano dal proprio e per concetti e per metodi. Price infatti sembrava non accennare mai a Wittgenstein e la sua non fu altro che un’apologia della fede cristiana. Il discorso di Needham è invece ben diverso. Needham è infatti un antropologo facente parte di quella categoria di empiristi scettici, come ho già detto in precedenza, ferrei oppositori di un etnocentrismo acritico in cui l’antropologia rischia spesso di rimanere imbrigliata. L’antropologo si avvicina con quest’opera agli interessi empirici dell’antropologia culturale e, a ben guardare, Credere non è riconducibile a un ambito disciplinare ben preciso. Non è un libro di antropologia culturale, infatti non registra i risultati di una ricerca sul campo. Ma Needham non ha neanche la presunzione di definire la sua un’opera di filosofia, ritenuta piuttosto a metà strada tra filosofia ed antropologia. È un’opera metateorica, in cui l’autore sottopone a critica il punto di vista degli antropologi. Per esempio, il primo tentativo di Needham è proprio quello di stabilire il significato effettivo del termine belief investigando dapprima sui resoconti etnografici di vari antropologi, pur consapevole che, nella maggioranza dei casi, questi attribuiscono ai termini indigeni significati veicolanti una logica tutta occidentale. Il suo è un tentativo assai arduo se pensiamo che è molto più semplice confrontarsi con gli altri etnografi, rilevatori di campo, parlando di usi e di costumi che non di contenuti psicologici, di 103

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stati psichici. Questo perché l’antropologia si è occupata in passato più dell’ambiente che non delle facoltà dell’uomo. Pensiamo alle rappresentazioni collettive: dobbiamo a Lévy-Bruhl i primi studi in merito alla questione. Needham esprime la volontà di fondare un’antropologia critica, definire le condizioni di comprensibilità umana, chiarire le funzioni dei costrutti intellettuali, discutere il problema-possibilità di traduzione, illuminare i rapporti tra linguaggio, concettualizzazione, operazioni mentali, esperienze e strutture socioculturali sia nell’ambito di una stessa cultura che in culture diverse. Le suddette problematiche si affiancano all’analisi linguistica, filosofica e antropologica del belief. L’antropologo propone innanzitutto un’analisi del linguaggio con uso della comparazione, da buon comparativista qual è, ponendosi contro la ristrettezza concettuale e linguistica della filosofia analitica. Ricordo che il senso di “ristrettezza” era la preoccupazione costante di Wittgenstein: ristrettezza del sé, del mondo filosofico. Probabilmente questo senso di ristrettezza fu uno dei motivi che lo indussero a passare da un tipo di prospettiva logicista, propria del Tractatus, a una prospettiva etnologica che gli permetteva di evadere, di placare quel disagio di sentirsi stretto che lo attanagliava. Ma cosa significa propriamente credere? Per analizzare il contenuto delle credenze di un popolo possiamo prescindere dallo studio della cultura di appartenenza e dal linguaggio parlato da quel popolo? In quale rapporto si pone l’umanità con la realtà e, soprattutto, come si costituisce il nostro bagaglio concettuale? I termini da noi adoperati hanno un contenuto semantico unico e unicamente determinato? Questi sono i tanti interrogativi che l’autore si è posto durante la sua ricerca e ai quali ha cercato di dare risposta esaminando la stretta relazione tra credenza, linguaggio ed esperienza. C’è un evidente richiamo all’equazione wittgensteiniana, di origine platonica: pensiero-linguaggio-realtà. 104

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Tutto ciò che è pensabile ed esprimibile sotto forma di linguaggio è realtà. Di qui il presupposto empiristico della filosofia del filosofo austriaco: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, il chiaro richiamo a non uscir fuori dal “sentiero”, a rimanere nel linguaggio per risolverne i problemi, evitando i nonsensi che gli sconfinamenti creano inevitabilmente. Tuttavia Needham dichiara che è impossibile accettare in toto tale immagine del rapporto tra linguaggio ed esperienza configurata da Wittgenstein nel Tractatus proprio perché l’area semantica di molti termini è delimitata in maniera imprecisa ed estremamente articolata. Impossibile dunque parlare di relazioni di tipo biunivoco. Riprenderò la questione nel capitolo successivo, per ora vorrei tornare nuovamente all’introduzione del testo Credere (p. 7), dove Needham si richiama alla topica dell’antropologo durante il rilevamento sul campo, il sogno: “Come credo la maggior parte degli etnologi, una notte stavo sognando di conversare con una popolazione che avevo un tempo studiato, vale a dire i Penan della parte interna del Borneo. Come spesso accade in questi immaginari ritrovamenti mi imbattei in una difficoltà grammaticale e mi svegliai per l’angoscia di questo imprevisto, deluso dalla mia incapacità di comporre frasi corrette ed intelligibili in lingua penan. La frase che concretamente mi trasse fuori dal mio tormentato sonno era: ‘Io credo in Dio’”. Nonostante i Penan avessero una divinità spirituale detta “Peselong”, dagli studi di Needham, messi a confronto con i risultati ottenuti da altri etnografi e missionari linguisti che si erano occupati della stessa popolazione, emergeva che tale popolo non aveva mezzi per esprimerne la credenza. In realtà l’antropologo non poteva dire che i Penan credessero in questa divinità mancandone la concettualizzazione. Per poter infatti dire se i Penan del Borneo centrale credono in Dio un etnologo ha bisogno di sapere se nella loro lingua esi105

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ste un termine traducibile con “io credo”. Il richiamo al maestro Evans-Pritchard è d’obbligo se citiamo una popolazione nilotica, i Nuer per l’appunto, i quali anch’essi non hanno un termine concettuale simile a “io credo”. Questo non significa di certo che la loro lingua o la loro cultura sia povera e poco sviluppata (si pensi soltanto a quanto sia sofisticato e complesso il pensiero religioso dei Nuer o all’ampio repertorio lessicale di cui gli stessi dispongono per la classificazione del bestiame e per i termini psicologici). La lingua Nuer è assai sottile, possiede un gran numero di parole per esprimere una gamma di credenze: ma siamo davvero sicuri che non sia il risultato dell’opera dei missionari, linguisti, e antropologi che per secoli hanno agito su queste culture? Non può a questo punto non venirci in mente lo studio di Needham su un’altra intricata questione antropologica, vale a dire l’interpretazione della caccia alle teste praticata un tempo in alcune zone del sud-est asiatico (Needham 1976b). La nozione di forza mistica, contenuta nel cranio come ricettacolo, risulta essere nient’altro che un costrutto degli etnografi, come del resto la nozione di causa e forza cui fanno riferimento gli etnologi per dar conto delle cosiddette concezioni mistiche attribuite alle culture esotiche, retaggio della fisica e della meccanica ottocentesca. Ora è nella lingua che dobbiamo risolvere il problema di identificare questa condizione interiore e sarà proficuo il paragone con la tradizione di altre lingue. Del resto questo è lo stesso ammonimento di Wittgenstein e cioè che l’incommensurabilità di una forma di vita in un’altra non implica la non comprensibilità, grazie alla comparazione e alla comunicabilità tra le forme di vita. Needham da empirista scettico e seguace del padre di tutti gli scettici, David Hume, perviene alla conclusione che i Penan e i Nuer, così come potrebbe dirsi di altre popolazioni etnologiche, non hanno un termine concettuale simile a “io credo” per il fatto 106

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che non dispongono del concetto di credere, perché tale esperienza non è parte della loro forma di vita. Per Needham l’atto del credere non costituisce una modalità di esperienza perfettamente individuabile e non rappresenta affinità naturale fra gli uomini. Egli si pone così in maniera critica nei confronti dell’antropologia evidenziando che non tutti i popoli hanno un bagaglio concettuale identico, esprimibile nel linguaggio a cui corrisponde una stessa esperienza. Dunque prima di chiedere a cosa una popolazione creda, compito dell’antropologo è quello di capire se essa abbia o meno esperienza del credere. Needham, contrariamente a Wittgenstein, finisce per negare la realtà del credere. “Ogni volta ci si è resi conto che, non appena fissiamo la nostra attenzione su questa parola (credenza) e ci domandiamo ‘che cos’è una credenza?’, il concetto si disintegra” (Needham 1976a, p. 126). Tuttavia, così facendo, Needham si immette in un circolo vizioso; infatti, nel ribadire che il belief non è il nome di qualcosa, ne nega il suo essere una facoltà naturale degli uomini, quindi da tutti condivisibile, e lo riduce a mero flatus vocis, privo di rapporti con l’esperienza e inutilizzabile come strumento concettuale. Gli antropologi, dice Needham, vanno alla ricerca di qualcosa, il belief, che non è il nome di qualcosa, non è un oggetto. Qui l’autore sembra sfiorare il nichilismo concettuale e non convince, dice giustamente Marconi, che cura la traduzione italiana del testo Credere. Sempre per Marconi, il lettore cui Needham si riferisce non è il solo studioso o appassionato di antropologia, ma è anche il filosofo, il linguista, il teologo. Needham infatti riesce a trascendere i confini delle discipline accademiche, definendo la sua ricerca refrattaria a qualsiasi tipo di definizione. Il testo non sarà pienamente soddisfacente, a detta dell’autore stesso, mancando peraltro cenni sull’ipotesi Sapir-Whorf, sulla psicologia delle emozioni: “Certo sarei ben lieto se venisse scritta un’intera monografia 107

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su ciascuno dei tanti problemi ed argomenti contenuti nella mia trattazione” (ivi, p. 17). Sempre Needham, a p. 4: “La ricerca prese inizio, nel gennaio 1968, come omaggio al prof. E.E. Evans-Pritchard e lo scritto che ne risultò doveva essere un contributo a una miscellanea in suo onore. Ma non appena mi imbarcai in letture più approfondite, e cominciai a discernere la quantità di problemi che vi inerivano, apparve ovvio che il compito era di gran lunga troppo ampio e complicato per tale proposito. Pertanto, allungai considerevolmente la primitiva versione e predisposi il lavoro nella dimensione adeguata”. Dedicata alla memoria di Lévy-Bruhel e di Ludwig Wittgenstein, quest’opera non tratta dell’antropologia, ma dell’uomo, non della scienza, ma della vita umana. Strutturalmente il testo consta di dieci capitoli preceduti da una introduzione all’edizione italiana, curata da Diego Marconi, e da una prefazione. Dopo il primo capitolo che fa anche da introduzione, il secondo capitolo è dedicato al problema rappresentato dal concetto di credere in antropologia e alla difficoltà di darne una traduzione. Il terzo capitolo ci offre esempi di popolazioni di interesse etnologico, il cui confronto linguistico in merito al credere aiuta a collocare il problema in una prospettiva più illuminante. Il quarto capitolo è invece dedicato all’esame della nozione di credenza nella lingua inglese. A p. 44 l’autore dichiara: “… l’estrema proliferazione di sensi riferibili alle parole inglesi belief e believe… non è il riflesso di qualche sviluppo arbitrario o di una confusione concettuale, ma è il risultato di una lunga tradizione linguistica. I molti significati di believe sono il prodotto di una continua elaborazione, a partire da una base comune e più semplice nella cultura indoeuropea”. Ma ciò che più ci interessa sono le parole finali: “Il concetto di credenza è un prodotto storico, e per comprenderne la portata 108

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attuale dobbiamo cominciare con la storia della parola, cioè con la sua etimologia”. Da quanto detto emerge che la nozione di belief possiede una storia lessicale entro l’ambito delle lingue indoeuropee ed è ripercorribile attraverso la forma fonetica della parola inglese. Tuttavia Needham in questo capitolo ci dimostra anche che il belief possiede una storia nella formazione dei concetti. Il concetto di credenza è infatti stato formato dalla tradizione cristiana e l’accettazione religiosa di questa parola si riconnette in primo luogo alla fede cristiana. Ora, dice Needham, poiché questa religione possiede una propria storia, se vogliamo afferrare qualcosa sull’origine e lo sviluppo del concetto di credenza, dobbiamo riportarci alla situazione ideologica dell’Antico Testamento. Il quinto capitolo introduce il lettore alla varietà delle teorie che i filosofi hanno avanzato nei loro ripetuti tentativi, condotti nell’arco degli ultimi due secoli e più, di giungere a una sistemazione soddisfacente del problema del credere. Si citano Hume, Kant, Wittgenstein, Griffiths, Mayo. Marconi definisce questa la sezione più debole del testo, rinvenendo carenze nell’analisi specificamente filosofica di Needham. Non attribuisce la colpa a una ristrettezza dell’orizzonte teorico dell’antropologo, ma al metodo con cui questa analisi è condotta e a parecchie conclusioni da lui tratte. Nel sesto capitolo Needham esamina i criteri che i filosofi tentano di stabilire per dar conto dell’atto del credere. A p. 110 l’antropologo dice: “Credo che sia corretto affermare che essi (i filosofi) sono totalmente assorbiti dal compito descrittivo di stabilire i criteri dell’atto del credere. Questo viene trattato senza esitazioni come una modalità della coscienza perfettamente individuabile; ma quando poi si tratta di descriverlo, esso appare indeterminato e non analizzabile”. Poi, continuando: “Da questo punto di vista, e senza pronunciarci sulla realtà ultima di questo stato interiore, o cosa diavolo sia, dovremmo dunque arrivare alla 109

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conclusione che non esistono criteri validi per individuare l’atto di credere”. Needham, in una nota a pie’ di pagina (nota 22, p. 110), dichiara di non aver esaminato ogni possibile criterio ma soltanto quelli che secondo lui si segnalavano particolarmente all’attenzione. Egli infatti non nega l’ipotetica validità di altri criteri e anzi: “… tendo a pensare che la descrizione di un’attività naturale tanto marcata come la facoltà di credere non dovrebbe richiedere, dopo tutto, quella ipersofisticazione analitica che essi sembrano implicare”. Se in fin dei conti non esistono dei criteri validi, almeno per Needham, atti a individuare l’atto di credere, allora da dove ci viene la nozione di credenza? Il richiamo wittgensteiniano si fa sentire chiaramente in questa risposta dell’antropologo: “Dal verbo credere e dalle sue forme flesse, secondo l’uso linguistico comune. Le affermazioni connesse ad una certa credenza sono l’unica prova di questo fenomeno; ma il fenomeno stesso sembra non essere altro che l’abitudine di fare simili affermazioni” (p. 110). Il capitolo settimo parte dal concetto di classificazione in Wittgenstein e si richiama alla questione dei giochi linguistici e delle somiglianze di famiglia. Il suggerimento di Wittgenstein di studiare il concetto di rappresentazione per capire come essa venga impiegata è una prova circa la fattibilità di una selezione empirica entro le svariate classificazioni psicologiche costruite dall’umanità. La parola classificazione è per Needham suscettibile dello stesso metodo di analisi che egli ha applicato alla parola credere e ai suoi usi. L’ottavo capitolo analizza la possibilità di affinità naturali tra gli uomini. Needham sostiene che esistono effettivamente talune condizioni che possono essere considerate normali e caratteristiche per tutti gli uomini, ma non l’atto del credere. 110

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La nozione di una facoltà di credere emerge come un concetto peculiare: non è la designazione di un fenomeno fisico; non discrimina una specifica modalità della coscienza; non vanta alcun diritto di inclusione in un vocabolario psicologico universale; e non è neanche un’istituzione necessaria per la regolazione della vita sociale. In conclusione, l’atto del credere non costituisce una facoltà naturale tra gli uomini. Nel nono capitolo Needham si pone il problema di capire se esiste una logica altrettanto universale quanto lo sono quelle facoltà, che per altri versi costituiscono affinità naturali tra gli uomini. Egli affronta, seppur brevemente, la questione controversa in merito alle rappresentazioni collettive e alla logica naturale, ripercorrendo il pensiero di Durkheim, Lévy-Bruhel, Evans-Pritchard, etc… Traendo man forte dalle conclusioni di Lévy-Bruhel sul fatto che la rappresentazione dell’esperienza, nei confronti della quale noi individuiamo per contrasto l’atto di credere, non sia affatto più generale, Needham dichiara: “Nei limiti in cui il concetto di credenza dipende da quello di esperienza, le decisive critiche di Lévy-Bruhel all’esperienza come termine di portata universale, nell’analisi comparata dei concetti appartenenti ad altre culture, sono una prova ulteriore che l’atto di credere non può essere considerato alla stregua di una naturale affinità fra gli uomini, e non deve essere necessariamente presente nelle loro rappresentazioni collettive” (Needham 1976a, p. 173). Il decimo e ultimo capitolo, dal titolo Relativismo, affronta questioni che tratterò nel capitolo successivo come argomento conclusivo del mio lavoro, data la loro estrema importanza in ambito antropologico.

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5. Oltre Needham

5.1. Credenze, linguaggio e realtà Nel presente capitolo riprenderò alcuni temi di fondamentale importanza per il discorso antropologico che Needham sviluppa nel capitolo conclusivo di Belief e cercherò di spiegare qual è il motivo che mi porta a dissentire dall’autore quando finisce col negare al credere validità concettuale (epistemologica). Needham non si limita a riconoscere all’interno delle società di interesse etnologico solo forme diverse di organizzazione sociale e di cultura materiale e simbolica, ma ammette anche forme diverse di concettualizzazione. Egli si propone di combattere il modello tradizionale in ambito antropologico che vede il rapporto dell’uomo con la realtà (l’esperienza) fondamentalmente identico in tutti i casi e che trova espressione in linguaggi diversi ma omogenei che possono essere messi in corrispondenza punto per punto. Ciò che varia sono le relazioni tra i diversi elementi semplici dell’esperienza, il modo in cui queste relazioni vengono concepite. Per intenderci, i nomi degli oggetti sono gli stessi e traducibili di conseguenza l’uno nell’altro, ma le proposizioni, cioè il modo in cui questi nomi sono combinati, variano. Il modello tradizionale è per Needham l’anticamera dell’etnocentrismo perché è difficile non considerare “vere”, “giuste”, 113

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“razionali” le proposizioni espresse dai popoli civili e “false”, “sbagliate”, “irrazionali” quelle espresse dai popoli primitivi. Questo modello è stato messo in crisi a causa dell’intraducibilità di alcune espressioni in certe lingue – pensiamo al belief nel nostro caso. E ciò ha condotto Needham a proporre un nuovo modello in cui l’esperienza non è più invariante e uniforme per tutte le culture né indipendente dalla sua espressione linguistica. Dice Marconi nell’introduzione di Belief, a p. 15, a proposito del nuovo modello proposto da Needham: “Esperienza, concettualizzazione e linguaggio stanno tra loro in un rapporto di fondazione reciproca, nell’ambito di ciascuna cultura; d’altra parte, non esiste corrispondenza biunivoca tra elementi del linguaggio, concetti ed elementi dell’esperienza. In particolare la complessità semantica di molti elementi del linguaggio, che ci è rivelata dall’analisi degli usi linguistici, ci vieta di accettare un’immagine del rapporto tra linguaggio ed esperienza del tipo di quella configurata da Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus; l’area semantica di molti termini (nella maggior parte, se non di tutti) è delimitata in maniera imprecisa ed estremamente articolata”. Dunque, se sussiste questa relazione precaria tra linguaggio ed esperienza concettualizzata, è altrettanto precaria la relazione tra lingue diverse. La traduzione da una lingua a un’altra non sarà mai perfetta in quanto le lingue sono espressione di forme di vita differenti. Ritornerò sul concetto wittgensteiniano di forma di vita tra breve. Ora in merito al rapporto tra esperienza, linguaggio e concettualizzazione vorrei richiamare le conclusioni cui pervengono due studiosi americani, rispettivamente Gorge Lakoff, professore di linguistica alla University of California, e Mark Johnson, professore di filosofia alla Southern Illinois University, autori di un testo di recente pubblicazione: Metafora e vita quotidiana. Tema centrale del testo è la metafora, considerata tradizional114

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mente come una semplice figura retorica, una sorta di ornamento non necessario del discorso. Per i due autori la metafora rappresenta invece il meccanismo fondamentale non solo del nostro linguaggio quotidiano, ma anche del nostro stesso funzionamento cognitivo. Ma quello che ci interessa del libro è la critica ai due modelli con cui ci rapportiamo alla realtà, l’oggettivismo e il soggettivismo, definiti entrambi come miti, che coesistono, ma in ambiti separati, e la proposta di un’alternativa “esperienziale”. L’oggettivismo prende come suoi alleati la verità scientifica, la razionalità, la precisione, la correttezza e l’imparzialità. Il soggettivismo al contrario prende come suoi alleati le emozioni, le intuizioni, l’immaginazione, i sentimenti, l’arte. Ognuno di noi ha un ambito della propria vita in cui è appropriato essere oggettivi e uno in cui è appropriato essere soggettivi. Ciò che però entrambi i miti dell’oggettivismo e del soggettivismo non colgono, relativamente a quello che a me interessa evidenziare, è il modo in cui comprendiamo il mondo attraverso le nostre interazioni con esso. L’oggettivismo ad esempio non considera che la comprensione, e quindi la verità, è necessariamente relativa ai nostri sistemi concettuali e culturali e che non può essere inquadrata in nessun sistema concettuale assoluto o neutrale. Al soggettivismo invece sfugge che la nostra comprensione è data in termini di un sistema concettuale che è basato sul nostro modo di operare con successo nei nostri ambienti fisici e culturali. Il mito esperienzialista, l’alternativa proposta da Lakoff e Johnson assume la prospettiva dell’uomo come parte del suo ambiente, non separato da esso. C’è una costante interazione tra l’uomo e l’ambiente fisico e da questa interazione segue una trasformazione reciproca. Per gli autori: “… la natura dei nostri corpi e del nostro ambiente fisico e culturale impone una struttura 115

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alla nostra esperienza… esperienze ricorrenti ci portano alla formazione di categorie, che sono Gestalt empiriche… Tali Gestalt definiscono la coerenza della nostra esperienza. Noi comprendiamo la nostra esperienza direttamente quando la vediamo come coerentemente strutturata in termini di Gestalt che sono emerse direttamente dall’interazione con e nell’ambiente” (Lakoff, Johnson 1998, p. 282). Per comprendere poi come un linguaggio significhi, bisogna andare alle radici delle nostre esperienze e del nostro modo di categorizzarle, investigando i nessi tra linguaggio e strutture cognitive da un lato e gli usi culturalmente determinati dall’altro, poiché le nostre strutture cognitive dipendono in parte dalla nostra cultura. Il nesso tra cognizione e linguaggio acquista pertanto specificazioni diverse all’interno di linguaggi e, quindi, di culture differenti. Si apre così la strada al relativismo cognitivo e linguistico e al problema della incommensurabilità concettuale.

5.2. Peter Winch e le credenze estranee alla tradizione occidentale Già nei primi anni del ’900, in ambito antropologico, autori diversi avevano ingaggiato una battaglia contro il pregiudizio etnocentrico ottocentesco, in base al quale i sistemi di pratiche e credenze magico-religiose di culture non occidentali dovevano essere irrazionali poiché in contrasto con le più semplici asserzioni e valori del mondo occidentale. Ora, studiando le relazioni tra il singolo, la società e le categorie cognitive, veniva sottolineata l’importanza che rivestivano cultura e linguaggio nella determinazione dei fatti. Un esempio di tale atteggiamento è rappresentato dall’opera di Peter Winch Comprendere una società primitiva (1964), saggio in cui l’auto116

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re intende sviluppare alcuni problemi sollevati nel suo libro The Idea of a Social Science (1958). Ricordo che Winch ha mantenuto la distanza da certe forme estreme di relativismo sia cognitivo che etico che gli sono invece state attribuite erroneamente, privilegiando una prospettiva comparativista. Analizzerò il saggio di Winch che, confrontando attività e credenze estranee alla nostra tradizione culturale, attacca la nozione classica di razionalità, ritenendo che non sia ammissibile alcuna riducibilità logica né epistemologica di universi di discorso differenti. L’analisi di Winch mi permette anche di richiamarmi al problema dell’incommensurabilità tra paradigmi o forme di vita differenti e allo scottante interrogativo se l’antropologia debba dunque accettare una prospettiva relativistica, riconoscendo la presenza di molte e incommensurabili razionalità locali, oppure possa tentare il recupero di una nozione più critica ed elastica, ma comunque universale, di razionalità. Peter Winch è un filosofo britannico di orientamento wittgensteiniano il quale si è a lungo occupato di epistemologia delle scienze sociali, per poi dedicarsi esclusivamente alla filosofia morale. Comprendere una società primitiva (1964) è appunto il saggio che lo ha reso famoso. Qui l’autore ha elaborato una critica filosofica di un’opera classica dell’antropologia, l’opera di Evans-Pritchard sulla stregoneria e la divinazione presso la popolazione africana degli Azande. Nell’opera Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (1937) Evans-Pritchard sottolinea come le credenze e le pratiche della stregoneria siano presso gli Azande salde a tal punto da permeare la loro vita quotidiana e la loro organizzazione sociale. Tali credenze costituiscono un sistema chiuso e coerente che secondo la logica interna alla popolazione stessa funziona perfettamente: “Gli Azande credono che taluni individui siano stregoni e possa117

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no arrecare del male in forza di una qualità intrinseca. Uno stregone non compie alcun rito, non pronuncia formule magiche, non possiede medicine. Un atto di stregoneria è un atto psichico. Essi credono anche che i fattucchieri possano loro nuocere compiendo riti magici per mezzo di medicine malefiche. Gli Azande distinguono nettamente tra stregoni e fattucchieri. Contro gli uni e gli altri ricorrono a divinatori, oracoli e medicine. Le relazioni che intercorrono tra queste credenze e questi riti costituiscono l’oggetto del nostro libro” (Evans-Pritchard 2002, p. 1). Non si trova nell’opera una definizione generale della magia e della religione zande, ma piuttosto una descrizione dell’effettiva vita domestica degli Azande, dei rapporti e delle pratiche che valgono in questa società. La stregoneria riguarda un comportamento legato ai rapporti fra i membri del gruppo. L’invidia e l’inimicizia di uno stregone può arrecare un danno alla vita quotidiana di uno Zande che può e deve ricorrere all’intervento di una contromalia che neutralizzi l’influenza nefasta. Nessuno pensa che spiriti o esseri sovrannaturali siano coinvolti nel maleficio e nella cura di esso. Dall’esame delle credenze espresse e praticate si può ricavare il sistema di pensiero degli Azande. Le loro idee sono “imprigionate” nell’azione e non possono essere citate per spiegare e giustificare l’atto stesso, ma soltanto essere mostrate. Da quanto detto si può facilmente dedurre che la stregoneria è la premessa dalla quale deriva l’intera logica che regola la vita sociale zande. Non c’è alcuna prova o dimostrazione logica che possa confutare il loro sistema generale di credenze anche perché nei sistemi conoscitivi altri sussistono dei meccanismi di “elaborazione secondaria” volti a neutralizzare le anomalie. Le giustificazioni di un rito inefficace si cercano in una contromalia, nella scorretta formulazione delle parole magiche e così via. Nulla potrà scardinare il sistema di credenze e di pratiche di questa popolazione se non un “cambiamento paradigmatico”. 118

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Kuhn ci mostra meccanismi analoghi anche nella storia della scienza. Tuttavia esiste uno spazio logico dalla verifica dell’attendibilità degli antistregoni che risponde a una esigenza razionale, analoga alla nostra ricerca delle prove: gli Azande assimilano la divinatoria degli antistregoni a quella dell’oracolo della tavoletta, il cosiddetto “oracolo del veleno” al quale spetta ogni decisione, eliminando ogni dubbio rimanente. Anche gli Azande pertanto predispongono un sistema di verifica. Ora Evans-Pritchard spiega questo comportamento con il fatto che gli Azande danno maggiore importanza a casi specifici e concreti di stregoneria piuttosto che a casi astratti e a principi generali. L’antropologo conclude che le differenze nel loro modo di pensare e di agire rispetto alla nostra cultura dipendono da uno scarto categoriale. Sistemi di credenze diversi sono compresi attraverso il confronto tra epistemologie diverse. Quello di Evans-Pritchard è, da un lato, un approccio funzionalista di tipo classico, che considera magia, oracoli e divinazione alla stregua di forze di coesione sociale, ma dall’altro è anche un’analisi dell’ideologia magico-divinatoria che mostra come le differenze tra il nostro modo di pensare e quello esaminato siano determinate da diverse concezioni del mondo e da diversi presupposti teorici. Stregoneria, oracoli e magia costituiscono un complesso sistema di credenze e riti che acquistano senso solo se visti come elementi interdipendenti di un unico complesso. In fondo, come ha osservato Clifford Geertz, siamo tutti indigeni proprio come quei bambini che imparano per la prima volta un linguaggio e il significato di una parola non attraverso una spiegazione logica, ma confrontandola con altre e altri modi di dire. L’indagine etnografica diventa pertanto una comprensione etnografica del pensiero per Geertz, diversamente da LévyStrauss che credeva nell’impossibilità di penetrare fino in fondo 119

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il significato delle vite dei nativi se non attraverso un’analisi universalizzante. Tuttavia, alla fine, Evans-Pritchard non esita a classificare come mistiche, in contrapposizione a quelle empiriche, le credenze e le pratiche zande, in quanto non corrispondenti alla realtà, e vede un limite (di razionalità) nella contraddizione implicita nella premessa che gli Zande accettano, ossia che le doti di stregoneria sono ereditarie, da cui deriva la conseguenza che invece loro non accettano, ossia che tutti gli Zande sono stregoni. Ed è a questo proposito che Winch interviene in maniera più incisiva, sottolineando che non ha alcun senso applicare a quel sistema culturale la nostra distinzione tra mistico ed empirico e la nostra concezione di inferenza logica. Nella traduzione italiana di Comprendere una società primitiva, curata da Dei e Simonicca in Ragione e forme di Vita (1990), leggiamo: “Ciò che Evans-Pritchard vuol giungere a dire è che i criteri implicati nella sperimentazione scientifica costituiscono un vero legame tra le nostre idee e una realtà indipendente: laddove i criteri caratteristici di altri sistemi di pensiero – in particolare, i metodi del pensiero magico – non lo sono. È evidente che le espressioni ‘vero legame’ e ‘realtà indipendente’, nel precedente enunciato, non possono essere spiegate a loro volta in riferimento all’universo di discorso scientifico, altrimenti il problema sarebbe risolto circolarmente. Dobbiamo dunque chiederci in che modo, in riferimento a quale universo di discorso stabilito, l’uso di quelle espressioni deve essere spiegato; ed è chiaro che E. Pritchard non ha risposto a questa domanda” (Winch 1990 p. 129). Ma non sarebbe possibile, aggiunge Winch, dare una risposta a questo interrogativo dal momento che non esiste per definizione un discorso stabilito e condiviso come ponte tra una cultura magica e una cultura scientifica. E, sempre a questo proposito, Winch afferma: “Il contesto dal quale la contraddizione è tratta, il contesto della nostra cultura 120

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scientifica, non è sullo stesso livello del contesto nel quale le credenze nella stregoneria operano. Le nozioni zande di stregoneria non costituiscono un sistema teorico nei cui termini gli Azande cercano di ottenere una comprensione quasi-scientifica del mondo. Il che suggerisce a sua volta che è l’europeo, ossessionato dall’idea di spingere il pensiero zande dove esso non andrebbe naturalmente – verso una contraddizione – che pecca di incomprensione, non lo zande. L’europeo sta di fatto compiendo un errore categoriale” (ivi, p. 140). Secondo Winch concludere pertanto che il pensiero occidentale è superiore a quello zande, perché quest’ultimo lascia trapelare quelle che a noi sembrano contraddizioni ovvie, significa non tener conto che quelle contraddizioni appaiono tali solo nel contesto del nostro pensiero. La premessa dell’unicità della logica deve allora essere confutata. Winch approda a questa idea partendo da alcune citazioni tratte dalle Osservazioni di Wittgenstein che analizzerò tra breve. Mi preme ora rimarcare le accuse rivolte a Winch da coloro che lo hanno additato come relativista estremo, come colui che ha negato la possibilità di confronto interculturale, enunciando una teoria relativista delle culture, o che ha relativizzato scetticamente il concetto di verità. Scopo dell’autore, come ho detto in precedenza, era soltanto quello di chiarire alcune confusioni concettuali in cui si può incappare in un confronto interculturale. L’articolo del ’64 è stato visto come una vera e propria provocazione relativista e ha avuto come merito non solo la sensibilizzazione per questo tipo di problemi, ma anche la promozione di una feconda interazione tra antropologia e filosofia. Needham si pone infatti come protagonista (membro) del dibattito fra razionalisti ed empiristi che coinvolge filosofia e antropologia. I relativisti ritengono che i prodotti del pensiero e dell’agire umano non sono riconducibili ad alcun principio universale 121

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di razionalità ma sono da attribuirsi alle singole culture nei loro elementi locali e particolari. I razionalisti, invece, pena il pericolo di assumere una posizione etnocentrica, ritengono necessario recuperare una seppur minima nozione universale di razionalità, debole o elastica che sia, che funga da base per la conoscenza antropologica. Winch, e insieme a lui B. Barnes e D. Bloor, due sostenitori del programma forte di sociologia della conoscenza, sono i protagonisti di uno degli attacchi più radicali alla nozione classica di razionalità. Convinti sostenitori della posizione etnocentrica che si assume nell’imporre categorie scientifico-occidentali alle culture altre, sia Winch che Barnes e Bloor sono stati ampiamente influenzati dal pensiero di Wittgenstein e dai temi antifondazionisti della seconda fase del suo pensiero. Nell’interpretare le credenze azande legate alla stregoneria, non ha alcun senso per Winch affermare, ad esempio, la proposizione “Le streghe non esistono” poiché tale enunciato non è un’asserzione che potrebbe risultare vera o falsa a seconda dell’esperienza. “Le streghe non esistono” è soltanto un commento su un linguaggio e su una cultura che ci sono estranee. Ancora, asserire che le streghe non esistono non è un dato per la comprensione della cultura zande, piuttosto è l’anticamera del fraintendimento di quella cultura. Secondo F. Dei in Altre culture, altre menti (Adami, Marcucci, Ricci 1996): “Il punto in cui Winch vuole arrivare, sviluppando con lucidità il pensiero wittgensteiniano, è che concentrarsi sull’affermazione di esistenza delle streghe, criticandola come se fosse un asserto empirico di base su cui gli Azande costruiscono una teoria quasi-scientifica, è ben poco interessante dal punto di vista antropologico. Se ci divertiamo a fare questa critica, sembra voler dire Winch, facciamola pure: ma essa non porta certo lontano nella comprensione interculturale. Molto più interessante 122

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è cercare di capire il significato che il lessico della stregoneria possiede nel linguaggio e nella vita di quel popolo” (p. 114). Ed è stata proprio l’accusa di idealismo linguistico, una delle tante, che sono state rivolte dal versante filosofico a Winch, che viene accusato di far dipendere la realtà dal linguaggio con cui gli uomini parlano. A tale accusa si può rispondere, come fanno Dei e Simonicca, che essa è del tutto ingiustificata dal momento che per Winch, come per Wittgenstein, al quale egli si richiama apertamente, per dar conto del rapporto tra linguaggio e realtà viene eliminato qualsiasi riferimento a entità metafisiche e mentali. Il rapporto tra linguaggio e realtà non si può dire o teorizzare ma lo si può solo mostrare nell’uso effettivo del linguaggio. Altra accusa mossa a Winch è quella di conservatorismo culturale, che consisterebbe nell’aver negato la possibilità di un cambiamento o per fattori endogeni o per fattori esogeni del sistema di credenze e pratiche all’interno di una cultura tradizionale. Se si accetta questa premessa, gli Azande non potranno mai liberarsi del linguaggio che sembra rinchiudere loro come in una prigione. A tale critica si risponde che Winch non nega affatto la possibilità di una critica razionale interna a una cultura, ma fa osservare che, in una situazione di grande distanza tra noi e una società primitiva, questa critica è più complessa di quanto sembri e considerare le credenze e le pratiche di una società primitiva, partendo da critiche di non corrispondenza alla realtà, non ci aiuta nel processo di comprensione. Avevo già accennato, prima della trattazione dell’opera winchiana, alla distanza di Winch da certe forme semplicistiche di relativismo cognitivo ed etico che gli sono state attribuite. In particolare Winch non ha sostenuto quello che C. Taylor chiama “wittgensteinismo volgare”, vale a dire la strategia del richiamo a una umanità divisa in isole culturali chiuse e non co123

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municanti, dotate ognuna di una propria razionalità, non criticabili dall’esterno. E proprio in un articolo del 1976 Winch si è difeso pubblicamente dall’accusa di sostenere un relativismo rozzo sofisticheggiante che consisterebbe nel risolvere il problema della verità di una credenza nel fatto che qualcuno la sostenga. Il problema non è rappresentato più dal rapporto tra credenze legate a due tradizioni culturali diverse soltanto, ma dal rapporto tra due grammatiche di linguaggio differenti. E, a chi lo accusa inoltre di ignorare che la realtà esiste indipendentemente dalle credenze della gente, egli potrebbe rispondere che un simile principio fa parte della grammatica del termine realtà: “Se proprio vogliamo parlare di una relazione tra linguaggio e realtà, questa non è una relazione tra un insieme di descrizioni e ciò che viene descritto”. E ancora: “la grammatica di un linguaggio non è una teoria intorno alla natura della realtà” (Winch 1976). Per Dei e Simonicca la distinzione qui operata tra la grammatica di un linguaggio e le credenze espresse per mezzo di essa ricorda da vicino quella wittgensteiniana tra il letto del fiume e l’acqua che vi scorre. Se la grammatica è tutto ciò che non può essere messo in discussione all’interno di una realtà socio-culturale, questo non implica aderire al solipsismo culturale del wittgenianismo volgare, ma, al contrario, sia il relativismo che l’assolutismo sono generati proprio da questa mancata distinzione tra grammatica e credenza, linguaggio e teoria.

5.3. Winch e Wittgenstein Come ho avuto modo di accennare, la dipendenza di Winch da Wittgenstein è esplicita e diretta. Già nel suo primo e più celebre lavoro: Il concetto di scienza sociale (1958), trattando di fenomeni sociali, afferma che il problema è risolvibile attraverso 124

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un’analisi del significato simile a quella delineata da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, incentrato sulle nozioni di gioco linguistico e di regole. In poche parole: il comportamento socialmente significativo è il comportamento governato da regole: mossa che, per Dei e Simonicca, in Ragione e forme di vita, consente di riconoscerne il senso non come “una inaccessibile esperienza privata o un oscuro contenuto della coscienza individuale, ma appunto come sistema di regole condivise da una comunità e radicate in forme pratiche di interazione e comunicazione tra gli uomini” (p. 31). Il senso del comportamento sociale può dunque essere compreso solo sulla base di sistemi di regole che lo governano. Questi sistemi non sono aperti a una conoscenza di carattere generalizzante, ma radicati in contesti locali e pragmatici per Wittgenstein, come lo sono (locali e pragmatici) anche i giochi linguistici che costituiscono il significato. E i giochi linguistici sono radicati in forme di vita. In Wittgenstein and the Vienna Circe, a p. 150 dell’edizione italiana curata da Sabina de Waal, viene introdotta per la prima volta la nozione di forma di vita (Lebensform) descritta come “un sistema comprensivo che incorpora una totalità di regole costituito da azioni abituali nelle quali è sussulto il significato di una parola, che la parola da sola non riesce ad esprimere”. “Ciò che si deve accettare, il dato, sono – potremmo dire – forme di vita” (Wittgenstein 1999b, p. 295). Si tratta di un concetto che rappresenta un limite invalicabile oltre il quale non è possibile risalire con nessuna spiegazione. Sia la forma di vita sia il gioco linguistico non sono fondati, non sono ragionevoli o irragionevoli. Essi sono là, come la nostra vita. Ora questa considerazione di Wittgenstein in merito alla forma di vita è apparsa a molti una forte restrizione; alcuni vi hanno visto una nota di conservatorismo per il fatto che le forme di vita sono il dato che si deve accettare. Per il filosofo sono cose il 125

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fatto che abbiamo dieci dita o che reagiamo al dolore in un certo modo o che consideriamo accettabili certi procedimenti di misura e non altri. Le Lebensform tuttavia possono cambiare in modo decisivo. A questo riguardo egli considera alcune proposizioni che occupano un ruolo fondamentale nella nostra rappresentazione del mondo. Non essendo mai messe in dubbio, e costituendo il punto immobile intorno al quale si crea tutto il nostro sistema, esse ricoprono un ruolo simile a quello delle regole del gioco, ed è anche possibile imparare il gioco in maniera pratica, senza una esplicita formulazione delle regole. Silvana Borutti afferma a questo proposito: “È evidente che: in primo luogo non è necessario che le evidenze su cui noi appoggiamo dubbi e credenze debbano essere apprese e riconosciute come tali in quanto non le apprendiamo una volta per tutte ma possiamo trovarle in seguito come l’asse che ruota attorno ad un corpo; in secondo luogo la distinzione tra gli elementi fissi e quelli mobili nella nostra descrizione del mondo non è stabilita una volta per tutte ma è possibile che sposti il letto del fiume in cui scorrono i pensieri” (Borutti 1993). Ma torniamo a Winch che insiste sul fatto che non è possibile pertanto, a proposito di incommensurabilità tra forme di vita differenti, operare alcuna riduzione né sul piano epistemologico né sul piano logico relativamente a credenze estranee alla nostra tradizione culturale. Dire che la magia è illogica o empiricamente inadeguata non è né vero né falso di per sé, ma è tautologico e inutile poiché tale espressione si limita solo a segnalare un contrasto tra due forme di vita differenti senza risolvere minimamente il problema di questo contrasto. I principi della logica e dell’epistemologia dipendono dalla forma di vita scientifica e non possono essere usati per valutare forme di vita differenti. Quindi: “cercare di comprendere la magia riferendola agli scopi dell’attività scientifica… significa 126

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necessariamente comprenderla in modo erroneo” (Winch 1958, p. 124). Quello che mi preme rimarcare ora è chiarire la posizione winchiana rispetto alla tesi di incommensurabilità che richiama sempre più da vicino Wittgenstein. Innanzitutto Winch, diversamente da Kuhn e Feyerabend, che si sono occupati delle relazioni tra teorie scientifiche, ossia i prodotti di un’attività cognitiva atta a spiegare e controllare il mondo naturale, è interessato a una più vasta gamma di pratiche sociali. Egli è convinto che la scienza occidentale non incorpori e non esaurisca i criteri di razionalità e di intelligibilità applicabili a tutto il pensiero e l’agire umani. Lo stesso concetto di mondo da comprendere non è indipendente da forme pratiche di vita sociale (Winch 1972, pp. 2-3). Come sottolineano Dei e Simonicca in Ragione e forme di vita: “In un certo senso, Winch è dunque interessato a differenze più radicali di quelle espresse dalla nozione kuhniana di paradigma. I nuclei incommensurabili di culture diverse, nella sua prospettiva, non sono griglie concettuali e presupposti teorici assunti convenzionalmente: si tratta piuttosto di nuclei etici, dai quali scaturiscono modi diversi ed irriducibili (il che equivale a incomprensibili!) di dare un senso al mondo e alla vita”. Le pagine conclusive del saggio Comprendere una società primitiva evidenziano come tentare di capire una cultura aliena vuol dire confrontarsi con concezioni diverse del bene e del male e da ciò consegue che il sapere antropologico finisce per essere strettamente connesso alla nozione di saggezza. “Ciò che possiamo imparare studiando altre culture non sono semplicemente le possibilità di altri modi di fare le cose, altre tecniche: cosa ancora più importante, possiamo imparare differenti possibilità di dare un senso alla vita umana, differenti idee sulla possibile importanza che il condurre certe attività può assumere per un uomo, che cerca di contemplare il senso della propria vita come un tutto” (Winch 1964, in Dei-Simonicca 1990, p. 154). 127

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Consideriamo ora un altro nodo problematico del discorso di Winch: il problema del significato. Winch afferma a questo proposito: “La realtà non è ciò che dà senso al linguaggio. Ciò che è reale e ciò che è irreale si mostra nel senso che il linguaggio ha” (Winch 1964, p. 128). A questo punto Dei, nel già citato: Altre culture, altre menti, si pone i seguenti e leciti interrogativi: “Ma se anche il significato dipende dalla cultura, in che modo è possibile la comprensione reciproca tra linguaggi parlati in culture diverse? Non è, in definitiva, solo una qualche realtà indipendente che può mediare tra i linguaggi e consentire la traduzione? E, inoltre, la capacità stessa di parlare un linguaggio (indipendentemente da quale linguaggio) non presuppone forse il possesso di alcuni basilari principi logici, uguali per tutti, per così dire, senza i quali non si darebbe neppure la possibilità dell’articolazione sintattica del discorso?”. Dopo aver affrontato il discorso della cosiddetta tesi della testa di ponte interculturale, proposta da Horton e seguita da altri pensatori esponenti di una posizione “debole” di razionalismo, Dei rimarca come il trovare un terreno d’intesa tra relativismo e razionalismo sia un tentativo forzato. Winch e Horton sono due pensatori antitetici, dalla sensibilità e linguaggio radicalmente diversi, forse autenticamente incommensurabili. Secondo Winch, che introduce il concetto di Lebensform di Wittgenstein e i suoi continui fraintendimenti, non è corretto dire che Wittgenstein autonomizza il linguaggio dalla realtà. Nelle Ricerche e nel Tractatus, al contrario, Wittgenstein presuppone un legame inestricabile (non mediato e non dicibile) tra linguaggio e realtà, ma da un certo punto in poi abbandona l’idea che questo legame sia strutturato secondo un’unica logica. “Il linguaggio dipende dalla realtà in modi molteplici; e non si può decidere in anticipo dove, all’interno di ciascuna pratica d’uso, si debba tracciare la linea di demarcazione tra Logica e Mondo, 128

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tra gli aspetti grammaticali e quelli empirici di ciò che diciamo, una linea di demarcazione che per Wittgenstein resta comunque il problema centrale dell’analisi filosofica” (Dei, Simonicca 1990). Il fatto che all’origine dei nostri fondamenti ci sia un modo d’agire infondato implica che tali modi d’agire non hanno né la forza coercitiva di leggi naturali né il carattere arbitrario di scelte non obbligate. Continua Dei: “Identificare le forme di vita come conchiuse entità fattuali (equivalenti ad esempio a “culture”, “universi di discorso” ecc.), sulle quali si possa costruire una teoria, vuol dire fraintenderle completamente. Così come è sbagliato intendere la loro molteplicità in senso particolare-locale: esse non sono modelli culturali che variano da una comunità umana all’altra, ma nuclei di pratiche comuni a tutto il genere umano (anche se esibiti e trattati in modo diverso in diverse culture)”. Al di là della diatriba tra relativisti e razionalisti, la comprensione tra culture è sempre possibile – pena la non esistenza della stessa antropologia – anche se non è mai garantita. Essa è il progressivo avvicinamento di linguaggi, di modi di vedere il mondo e la vita, che non sono mai del tutto uguali né del tutto diversi, e che possono (e lo fanno continuamente nel corso della storia) fondersi, contaminarsi, ibridarsi e dar luogo a nuove configurazioni.

5.4. Belief, un concetto da abolire? In quest’ultimo paragrafo mi propongo, dissentendo dalle conclusioni tratte da Needham in Credere, di argomentare il motivo di tale mio dissenso sulla base di quanto ho avuto modo di apprendere durante la stesura della presente tesi. Ricordo che Needham aveva nullificato il concetto di belief che non aveva riscontrato come termine concettuale, in quanto frutto di esperienza, in popolazioni come i Penan del Borneo e i 129

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Nuer del Sudan; il belief, secondo Needham, non era ascrivibile a una categoria universale, come invece appariva. I motivi che mi hanno indotta a dissentire dalla tesi needhiana sono: – I termini concettuali di cui si compone il nostro linguaggio, come lo stesso Wittgenstein fa notare, hanno svariate sfaccettature semantiche che, solo se trovano la loro applicazione in un determinato contesto linguistico, possono essere rese. Pensiamo ai nostri progenitori, i Greci, i quali avevano diversi modi verbali per esprimere uno stesso concetto. Prendiamo il caso del verbo amare che poteva manifestarsi nelle forme verbali più diverse. Ảγαπάω indicava un amore legato all’idea di protezione, cura, benevolenza che si contrapponeva a ὲράω, che esprimeva un amore passionale, φĭλέω invece intendeva il voler bene, l’avere caro e infine στέργω indicava l’amore tra genitori e figli. Needham nel capitolo quarto di Credere, riallacciandosi alla tradizione, sostiene che il concetto di credenza è un prodotto storico che possiede una storia lessicale nell’ambito delle lingue indoeuropee, ripercorribile attraverso la forma fonetica della lingua inglese, e una storia concettuale legata alla religione che fonde concezioni ebraiche, greche e cristiane. Non metto in dubbio ciò, ma, nell’analisi etimologica del termine, Needham aveva constatato i molti significati di believe a partire da una base comune e più semplice nella cultura indoeuropea. Questo è uno dei motivi che mi ha indotto a rifiutare la liquidazione del termine belief. Probabilmente esiste in lingua penan un termine che ingloba il verbo credere la cui applicazione è sfuggita a Needham. – È evidente che Needham, sebbene nel corso del testo faccia riferimento a diverse opere di Wittgenstein, che hanno trattato la nozione di credere e di credenza (Ricerche, Osservazioni, Della certezza), si propone di rispondere a un preciso interrogativo di 130

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Wittgenstein: (“Credere è un’esperienza?”) e dichiara che il suo testo può essere considerato come una lunga nota in margine alla proposizione di Wittgenstein: “L’espressione di una credenza è soltanto una frase e la frase ha significato soltanto quando fa parte di un sistema linguistico”. Ricordo che i testi da cui Needham trae le due proposizioni sono da ricondurre al pensiero non ancora maturo di Wittgenstein che è ancora legato al Tractatus. Si pensi al concetto di sistema linguistico, che compare nella seconda proposizione citata. Il termine significato, sempre nella seconda proposizione, è in chiaro riferimento al concetto di sistema. Non ancora è presente del tutto in Wittgenstein l’idea di significato come uso. Ora, se riprendiamo il saggio di Kilani che ho presentato nel paragrafo conclusivo del primo capitolo, saggio dal titolo: Gli abitanti dell’oasi credono alle loro genealogie? Sulle nozioni di sapere e di credenza in antropologia, dove Kilani sottoponeva a una duplice problematizzazione il concetto di credenza, si evince un concetto di credenza intesa non come un contenuto linguistico, piuttosto come una costruzione sociale, che richiama proprio il carattere prassiologico della filosofia del Wittgenstein maturo. Sapere una cosa è in primo luogo saperla fare: anzi, sapere è in realtà una parte del saper fare. Come si impara una forma di vita? Certo non se ne possono prima imparare le regole (in base a quale regola posso imparare la regola?). Si impara una forma di vita vivendola. Dice a questo proposito Sobrero: “Con ciò non si nega l’importanza del conoscere intellettuale – non è di poco conto mettere in moto meccanismi di controllo e di retroazione, applicarli, elaborarli e trasmetterli – né si nega l’importanza della regola, per ordinare, generalizzare, guidare l’azione, con ciò si nega solo la metafisica dell’operare intellettuale, si nega il dogma che Gilbert Ryle chiamerà dello Spettro nella macchina” (Sobrero 1999, p. 67). 131

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Sotto questo punto di vista le credenze sono costruzioni della propria conoscenza finalizzata all’azione. Nel credere c’è sempre una promessa di azione che riguarda un partner o una realtà esterna. Insomma la credenza è innanzitutto una modalità di azione prima di essere un contenuto. In principio era l’azione, verrebbe da dire. – In Della certezza di Wittgenstein è costante il richiamo alla nozione di senso comune. Anziché un repertorio di certezze cognitive, Wittgenstein ha scoperto nelle proposizioni del senso comune il sistema delle convenzioni, delle regole e dei codici linguistico-concettuali secondo i quali gli uomini ordinano la loro esperienza e trattano con le situazioni che li circondano. Ora, se le credenze del senso comune costituiscono lo sfondo ereditato da una comunità sociale, tenuta insieme dal linguaggio e dall’istruzione, nella quale il senso comune non è oggetto di dubbi o di certezze, ma definisce il luogo in cui si pongono dubbi e in cui si distingue tra il vero e il falso, non oso immaginare una società umana che non operi per conferire senso alla propria esistenza.

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